Capitolo 1

Trumpeldor e altri eroi


Qiryat Shemona, una cittadina ai piedi delle alture del Golan, non lontano dal confine con il Libano. In quel Giorno della Memoria del 1964 la bandiera israeliana era issata a mezz’asta. Noi scolari stavamo tutti in fila, in lunghe file diritte, e i nostri occhi erano puntati sul vessillo dello Stato ebraico. Oggi non ricordo più i tanti, solenni discorsi che ci venivano rivolti dal Direttore e dagli alunni delle classi superiori nelle feste di commemorazione. Parlavano in modo austero e commovente delle terribili atrocità commesse dai criminali nazisti contro gli ebrei in un lontano paese chiamato Germania.
    Quand’è che di preciso è scoppiata la seconda guerra mondiale? Dieci anni fa? Duemila anni fa? Chi lo sapeva! In fin dei conti, nella storia del popolo ebraico ci sono infiniti racconti di simili delitti. Ogni festa nazionale e religiosa rinnova il ricordo di nemici che in ogni generazione si sono avventati contro di noi per annientarci. Ma il Dio Santo, che sia lodato, ci ha sempre liberati dalle loro mani. Nella coscienza di un dodicenne tutte queste storie si mescolavano insieme in un groviglio di persecuzioni, inimicizie, malvagi decreti, odio verso gli ebrei. Alla Chanukkà avevamo i Greci, al Purim i Persiani, alla Pésach gli Egiziani, al Lag Ba-Omer i Romani e al Giorno dell’Indipendenza gli arabi. Come faceva un bambino a distinguere fra tutti i nemici che c’erano stati nelle varie generazioni, nei secoli e nei millenni della nostra storia?
    Ma una frase che veniva detta in quelle occasioni mi è rimasta impressa fino ad oggi: «Non dimenticheremo mai e non perdoneremo mai!» Ricordo anche le pesanti atmosfere di lutto e l’urlo delle sirene, che a me sembrava come il grido di dolore di una madre sul suo bambino morto. Con il canto dell’inno nazionale Hatikvà terminava la commemorazione.
    Tentavo seriamente di immaginare quello che effettivamente era successo nella Germania nazista e speravo di riuscire a cogliere almeno una piccola goccia dal mare di morte dei campi di sterminio e delle camere a gas. Ma non ci riuscivo. Non riuscivo a far vivere nella memoria quello che era morto e sepolto in terra straniera. Restavo lì, immobile, in fila con gli altri scolari nell’enorme cortile della scuola. I miei occhi osservavano la bandiera israeliana che sventolava a mezz’asta nella brezza mattutina della Galilea. La familiare melodia dell’inno nazionale mi riempiva il cuore della fierezza di essere un cittadino d'Israele. L’amore per la patria e la prontezza ad impegnarmi in ogni momento per la sua difesa m’inondavano il cuore. [...]


Capitolo 2

In sinagoga


Mi piaceva accompagnare mio padre in sinagoga nei giorni di Shabbat. L’edificio si trovava a mezza strada tra la nostra abitazione e la scuola. Insieme ai ragazzi del vicinato mi divertivo a correre dentro e intorno alla sinagoga. Le strette, alte finestre adornate con la stella di Davide m’impressionavano ogni volta. A quel tempo la sinagoga mi sembrava molto più grande e più alta di tutti gli altri edifici di Qiryat Shemona. E in effetti era vero, perché le altre case erano molto piccole e la sinagoga era grande come un edificio a due piani! Soltanto molti anni dopo, quando tornai a visitare Qiryat Shemona, mi accorsi di quanto in realtà fosse piccola.
     Di fronte alla porta d’ingresso della sinagoga si trovava l’Aron ha-Kodes, ricoperto da una tenda color porpora su cui erano ricamati dei leoni d’oro. All'interno l'aria era satura del pungente odore del tabacco che il venditore di polli offriva festosamente a tutti da una tabacchiera d’argento che con gli anni era diventata scura. Qualche volta ne prendevo anch’io una presa, starnutivo fragorosamente e ne godevo. Dal matroneo ci arrivava il dolce profumo dell’acqua di rose e del mirto che si mischiava con l’odore delle candele accese. Era l’inebriante odore dello Shabbat , il sacro Shabbat.
     Durante le cerimonie di Bar Mitzvà e nei matrimoni pioveva su tutti una colorita pioggia di caramelle, per la gioia dei bambini e delle donne. I bambini raccoglievano avidamente i dolcini e se li strappavano a vicenda dalle mani, contribuendo così a rendere festosa l’atmosfera.
     Gli uomini cantavano con reverenza le preghiere che conoscevano a memoria, mentre le donne agitavano i loro variopinti e profumati fazzoletti. La festa raggiungeva il suo punto culminante quando il festeggiato, lo sposo o il ragazzo di cui si celebrava il Bar Mitzvà, veniva invitato a leggere la Torah. Era letteralmente inondato di caramelle!
     Le persone che frequentavano regolarmente la sinagoga erano circa cento e provenivano tutte dall’Irak o dalla Persia. I nostri genitori parlavano con difficoltà l’ebraico, e confrontandoci con loro noi bambini ci sentivamo molto “istruiti”. Consideravamo nostro sacro compito correggere la loro lingua e insegnare loro “un buon ebraico israeliano”. Ma nelle preghiere eravamo sorpresi nel vedere con quanta velocità gli adulti sapessero leggere, nonostante il loro stentato ebraico. Conoscevano il loro libro di preghiere così bene che a noi sembrava che andassero in sinagoga solo per partecipare a una gara di velocità. Mentre io mi inginocchiavo prima della preghiera Amida e recitavo il Magen Avraham, loro erano già da tempo tre passi indietro e avevano finito l’Oseh Shalom. Da grande scopersi che noi Sefarditi non siamo gli unici a correre nelle preghiere. Mi resi conto che quanto a velocità nelle preghiere, gli Ashkenaziti sono molto più rapidi di noi. [...]


Capitolo 3

A casa


Di ritorno dalla sinagoga passavamo davanti alla fontana dove la mamma lavava i panni nei giorni di lavoro. Questa fontana, che riceveva l’acqua dai piedi dei monti Neftali, era la scuola privata della mamma, la sua personale sinagoga. E’ qui che imparava ad affrontare i problemi di tutti i giorni. E furono lezioni dure. A piedi nudi pigiava i panni bagnati come chi pigia l’uva dentro un tino. E silenziosamente pregava, con la preoccupazione negli occhi, ma con l’abbandono a Dio nel cuore. Sembrava quasi di sentire il dolce sospiro della sua anima nel dolce mormorio dell’acqua della fontana. Doveva prendersi cura di otto bambini; e io non ho mai capito dove la mamma prendesse la forza per portare da sola tutto quel peso e nello stesso tempo dare a noi tanto amore e tanto calore. La mattina presto l’aiutavo a portare i panni sporchi alla fontana e al crepuscolo li riportavamo puliti a casa. Alla luce del tramonto le gocce di sudore sul suo volto rilucevano come diamanti. Non ha mai brontolato, non si è mai lamentata. Lavorava instancabilmente senza mai preoccuparsi dei suoi bisogni o dei suoi desideri.
    Gli occhi della mamma mi hanno aiutato ad accettare di buon animo tutto quello che la vita mi avrebbe portato. La sua “privata sinagoga” presso l’acqua della fontana era molto diversa da quella grande e bella di mio padre, ma non era meno sacra!
    Ricordo quei Yamim Nora’im , quando andavamo alla fonte e compivamo il tradizionale rito del Tashlich gettando in acqua dei sassi che simbolicamente rappresentavano i nostri peccati. Mi sembrava che la mamma compisse questo sacro rito tutti i giorni dell’anno.
    La famiglia che mio padre portò dalla Persia in Israele comprendeva cinque figli e una moglie incinta. Quando per la mamma arrivò il momento di partorire il suo sesto figlio, fu portata in fretta all’ospedale scozzese di Tiberiade, il posto più vicino dotato di un reparto maternità. E così venne al mondo, in un torrido giorno di luglio, il primo sabra della nostra famiglia, e fu chiamato “Yakov” (Giacobbe). In seguito nacquero altre due femmine. In tutto eravamo otto figli.
    Mio padre era sarto e materassaio, mestieri che aveva imparato in Iran. Di natura era piuttosto chiuso e tendeva a distaccarsi dai figli e dalla vita di famiglia. Qualche volta gli portavo da mangiare: lui prendeva tutto senza dire una parola, come se fosse qualcosa di scontato. Non era molto loquace, e ben raramente parlava con noi bambini. Ma faceva del suo meglio per provvedere alla famiglia. Aveva lavorato molti anni nell’edilizia, ma il suo grande desiderio era di diventare un giorno indipendente e aprire un esercizio per conto suo. Dapprima aprì un negozio di frutta e verdura al mercato di Qiryat Shemona. Non fu un successo, esattamente come il ristorante che aprì in seguito nella stazione centrale degli autobus di Tel Aviv. Mio padre non era un uomo d’affari. Tutti i soldi che riusciva a risparmiare per realizzare il suo sogno servirono soltanto a far partire un’impresa, ma non produssero mai altre entrate. Di conseguenza, nonostante tutti i suoi sinceri sforzi per provvedere a noi, il peso del mantenimento della famiglia gravava quasi tutto sulle deboli spalle di mia madre. Lavorava giorno e notte come donna delle pulizie in casa di altre famiglie. Non ero imbarazzato per questo e non vi vedevo niente di indecoroso. La mamma lavorava dalla mattina presto alla sera tardi. Noi bambini facevamo del nostro meglio per esserle di aiuto, ma quando ripenso a quel tempo, vorrei aver fatto di più.
    I miei genitori vivevano con noi, otto figli, in un appartamento di una stanza e mezza nella via più a nord di Qiryat Shemona. Ogni sera stendevamo i nostri materassi sul pavimento, li aggiustavamo un po’, ci accucciavamo l’uno accanto all’altro e ci addormentavamo felici tutti insieme. Nessuno di noi si lamentò mai perché aveva poco spazio. Mi chiedo spesso come mai le famiglie di oggi vogliono avere una stanza per ogni figlio, e tuttavia non sono contente!
    Nelle lunghe e fredde notti invernali di Qiryat Shemona ci riunivamo tutti sotto un’enorme coperta di lana intorno a una stufa a kerosene accesa in mezzo alla stanza. La mamma stava nel mezzo, come una chioccia che raccoglie sotto le ali i suoi pulcini. E ci raccontava delle storie. Una delle sue preferite era quella dell’immigrazione dei nostri genitori dalla Persia:
    «Quando scendemmo dall’aereo all’aeroporto Ben Gurion, gli uomini dell’Agenzia Ebraica ci fecero salire insieme ad altri nuovi immigrati su un grande camion e ci portarono alla nostra nuova residenza. Eravamo quasi a metà strada quando il papà si accorse che qualcosa non andava: il viaggio gli sembrava troppo lungo. Anche se non conosceva la geografia di Israele, aveva abbastanza buon senso da capire che un viaggio così lungo ci avrebbe portati troppo lontano dal centro del paese. Cominciò a lamentarsi ad alta voce, a battere sulle pareti e sul pavimento del camion e a chiedere dove ci stavano portando. Alla fine il conducente riuscì a calmarlo. Il viaggio continuò e ci portarono tutti nella zona più a nord del paese, ad Halsa, l’attuale Qiryat Shemona.»
    Ogni famiglia di nuovi immigrati riceveva una piccola baracca di lamiera come abitazione e un bruciatore a kerosene per cuocere. In seguito questo fornello fu sostituito dal più moderno, rumoroso e molto più pericoloso fornello a kerosene “primus”. Ricevemmo inoltre diverse lampade a kerosene, alcune coperte di lana e, secondo il numero delle persone, dei buoni di razionamento per procurarci gli indispensabili generi alimentari presso i locali negozi. In quel tempo il governo attingeva alle sue magre riserve per garantire ad ogni nuovo immigrato una razione minima di alimenti. Ci davano ogni settimana due uova fresche a persona, un po’ di olio, farina, zucchero, latte in polvere, uova in polvere, coccosina, e ogni mese circa duecento grammi di carne di manzo a persona. In seguito furono distribuiti anche filetti di pesce provenienti dalla Scandinavia, e per molto tempo questa fu per noi l’unica fonte di proteine. La stanchezza dovuta alle lunghe file che si dovevano fare per ritirare la propria razione settimanale di alimenti fece perfino abortire alcune donne incinte.
     Sembrava di vivere ai confini del mondo. Al nord si vedevano in lontananza soltanto le luci dei pochi villaggi arabi al di là del confine libanese. Al sud si estendeva il terreno paludoso della valle di Hula, con le sue strade strette e piene di curve che collegavano la Galilea settentrionale con Tiberiade, una città che si trova al nord di Israele, ma che noi consideravamo profondo sud. [...]