«Ecco, i giorni vengono», dice l'Eterno, «nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da re, prospererà, ed eserciterà il giudizio e la giustizia nel paese. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele dimorerà al sicuro. Questo sarà il nome con cui sarà chiamato: "L'Eterno nostra giustizia"».
Geremia 23:5-6

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sNetanyahu: "Non ci sono amici migliori degli amici cristiani"

Un forte legame tra Israele e i sostenitori cristiani sta a cuore al primo ministro Netanyahu. Lo ha chiarito al "Christian Media Summit". L'ambasciatore statunitense Friedman ha spiegato che il mondo al di fuori della scena pubblica rispetta la decisione americana su Gerusalemme.

GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu dà molta importanza alle relazioni del suo paese con i sostenitori cristiani. Questo è stato sottolineato dal politico del Likud domenica ,al "Christian Media Summit" di quest'anno a Gerusalemme. Il congresso continua fino a mercoledì prossimo e l'ufficio del primo ministro organizza l'incontro di quattro giorni.
Il primo ministro ha anche accennato alla nomina di uno speciale commissario del governo israeliano per il mondo cristiano, riferisce il quotidiano online Times of Israel. "È un'ottima idea. Penso che lo farò", ha detto a un giornalista che aveva fatto la proposta.

 Rafforzare la relazione con l'Indonesia
  Il politico ha parlato anche dell'impegno di Israele per la libertà religiosa: "Israele è l'unico paese che protegge i diritti umani di tutte le persone. Proteggiamo i diritti religiosi di tutti". Inoltre ha detto: "Non stiamo proteggendo soltanto i luoghi cristiani, ma proteggiamo i cristiani. I cristiani dovrebbero godere di ogni libertà di pregare quando vogliono in Medio Oriente e altrove. E l'unico posto in Medio Oriente dove possono farlo è Israele. Non abbiamo amici migliori al mondo dei nostri amici cristiani."

 Netanyahu ha trattato anche altri argomenti
  Israele vuole avere "eccellenti relazioni" con l'Indonesia, ha detto su richiesta. Il paese è "molto importante" per lo stato ebraico. "È uno degli ultimi paesi al mondo che non ha una connessione aperta e stabile con Israele". L'Indonesia è musulmana, ma ha anche milioni di cristiani. "Ci piacerebbe vederli qui", ha detto il premier. Ha detto anche che avrebbe affrontato la questione della libertà di visto per i credenti indonesiani e verificato che fosse loro permesso di recarsi in Terra Santa.

 Ambasciatore degli Stati Uniti: il mondo rispetta la decisione di Gerusalemme
  Il premier sostiene inoltre la decisione di non permettere alla studentessa statunitense Lara Alkasem, bloccata all'aeroporto internazionale israeliano, di entrare nel paese. La ventiduenne con radici palestinesi è accusata di sostenere il movimento anti-israeliano per il boicottaggio di protesta BDS. Ha spiegato che ogni paese ha i suoi regolamenti, ad alcuni è permesso entrare e ad altri no: "Se sei arrabbiato contro l'America e provi ad entrare negli Stati Uniti, c'è un'alta probabilità che non ti lascino entrare, se lo si sa prima."
David Friedmanin quell’occasione ha anche detto che il mondo al di fuori della scena politica rispetta il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale di Israele, nonostante le voci internazionali e le proteste in senso contrario. "Ogni nazione, fuori dall'arena pubblica, avverte solo rispetto per quello che il presidente ha fatto. Perché il presidente ha detto la verità. E come sappiamo dal Vangelo di Giovanni, "la verità vi farà liberi".

(israel heute, 16 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



Cuoricino ebreo salva bimbo arabo. Il trapianto della pace tra neonati

In un ospedale di Tel Aviv. I familiari: «Avviciniamo i due popoli»

L'incidente di Yuval
Yuval Nizri, 11 enne israeliana morta in un incidente stradale a Rishon Lezion ha salvato cinque persone con la donazione dei suoi organi. Tra loro una bimba palestinese, Miran.
I tre riceventi
Un bimbo palestinese morto in un incidente ha salvato tre israeliani: il fegato a un piccolo di 5 anni, un polmone a una bimba di 7 anni e l'altro polmone trapiantato a un uomo di 55 anni.
Ucciso nell'Intifada
I genitori di un giovane palestinese ucciso hanno donato gli organi del figlio a cinque pazienti di un ospedale israeliano durante l'Intifada. Mazen Juliani aveva 34 anni, era il 2001.

di Aldo Baquis

Lo staff del Centro medico Tel ha-Shomer di Tel Aviv ha vissuto all'inizio del mese giornate di grande tensione quando vi è stato ricoverato un bebè palestinese afflitto da una grave malformazione al cuore. Mussa Assaqra, di sei mesi, era in punto di morte perché tutti gli interventi medici si erano rivelati vani. Quando per lui ogni speranza ormai stava svanendo i medici hanno appreso che in un altro ospedale era appena morto, in seguito a una malattia, un bambino israeliano di 18 mesi e che i suoi genitori acconsentivano al trapianto del cuore. «Non è israeliano, è palestinese» hanno fatto notare i medici. «La cosa - hanno risposto i genitori - per noi non ha la minima importanza». E così lo staff medico ha immediatamente iniziato il trapianto: un'operazione - secondo l'ospedale - molto complessa, date le dimensioni del piccolo Mussa, e anche molto significativa. Si tratta infatti, secondo Tel ha-Shomer, del primo trapianto di cuore da un bambino israeliano in un bebè palestinese.
  Mussa era stato in pericolo di morte fin dalla nascita, quando in un ospedale di Ramallah ( Cisgiordania) era stato rilevato che attorno al cuore aveva tumori. I medici palestinesi si erano consultati con quelli israeliani e già due volte il piccolo era stato ricoverato a Tel Aviv. Tre settimane fa le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate e Mussa è stato allora collegato a un macchinario che simula il funzionamento del cuore e dei polmoni. Accanto a lui aveva la nonna. Il direttore del dipartimento chirurgico del Tel haShomer, David Mishaly, era molto preoccupato: in Cisgiordania i trapianti sono pressoché inesistenti, mentre in Israele Mussa avrebbe potuto ricevere un cuore solo se non ci fosse stato nessun altro bambino israeliano in lista di attesa prima di lui. Contro tutte le probabilità, così è avvenuto. E anche la famiglia del donatore - rimasta anonima - ha contribuito a lanciare un proprio raggio di speranza. Al Tel ha-Shomer, come anche negli altri ospedali israeliani, le equipes mediche (dottori e infermiere) sono miste, composte da ebrei e arabi.
  «Da noi - ha detto il dottor Mishaly - non c'è politica. Qua siamo un'isola, un'oasi di pace. Siamo impegnati a curare chiunque, in modo egualitario, dignitoso, con rispetto». A posteriori, hanno detto i medici, che Mussa sia sopravvissuto all'operazione «è già un miracolo» date le sue precarie condizioni mediche. Ancora oggi non si può dire che sia fuori pericolo. Resta intanto la commozione della nonna, Tamam, che ha voluto ringraziare la famiglia dei donatori. «Il loro - ha detto - è stato un gesto molto nobile. Non era affatto scontato. Speriamo che episodi del genere riescano ad avvicinare i due popoli».

(Nazione-Carlino-Giorno, 16 ottobre 2018)



Corone al Tempio ebraico in memoria del rastrellamento 1943

di Giorgia Calò

 
Da sinistra: Sabrina Alfonsi, Gian Paolo Manzella, Virginia Raggi, Ruth Dureghello, Alberto Funaro
16 Ottobre 2018: sono passati 75 anni dal giorni in cui 1259 ebrei romani sono stati strappati dalle loro case e dalle loro famiglie per essere deportati nei campi di sterminio. La Comunità Ebraica di Roma ha ricordato questo tragico evento, deponendo una corona di fiori di fronte alla Sinagoga; insieme al Presidente Ruth Dureghello e al rav Alberto Funaro è intervenuta anche la sindaca Raggi, l'assessore allo sviluppo economico della Regione Lazio Manzella e la presidente del I Municipio Sabrina Alfonsi. "Oggi siamo qui per celebrare, come ogni anno, la deportazione degli ebrei dal ghetto, il 16 ottobre del 1943 e' una ferita che rimane incisa nella nostra citta' e che deve essere ricordata. Ho scritto una lettera aperta invitando tutti i cittadini a partecipare alla marcia silenziosa che quest'anno si terra' il 21 di ottobre. Ritengo importante ricordare gli eventi che hanno tracciato un segno cosi' profondo nella nostra citta', perche' ricordare il passato deve aiutarci a guidare i nostri passi nel futuro", ha detto la Raggi. "La commemorazione di oggi - ha spiegato Dureghello - ha un significato particolare. Quello che e' successo qui fa parte delle nostre coscienze ed e' un monito per il futuro. E' bene che si abbia ben chiaro cio' che e' stato e cosa e' successo qui a Roma. Non e' sufficiente deporre una corona, ma bisogna ricordare i nostri morti farlo con la consapevolezza che ci sono ebrei vivi che vivono a Roma e vivono in Italia e in Europa e vogliono continuare a farlo in liberta'e democrazia". E la partigiana Tina Costa ha concluso: "Dobbiamo ricordare perche' non avvenga mai piu' e bisogna che le nostre radici non siano cancellate. Dobbiamo ricordarlo per noi e per le nuove generazioni perche' se no ritornano e non e' possibile".
   Poco dopo, presso il quartiere Garbatella, a Piazza Ricoldo da Montecroce, è stata inaugurata una targa commemorativa dedicata ad Enrica Zarfati, arrestata il 9 maggio 1944 e deportata ad Auschwitz. È morta il 5 settembre 2016, ed è stata l'ultima ebrea romana sopravvissuta alla Shoà. Presenti il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, Claudio Marotta Assessore alla Cultura, il Vice Presidente del Municipio Leslie Capone, il Presidente del Municipio Amedeo Ciaccheri, Mirella Pungolo, amica di Enrica e sostenitrice dell'iniziativa e gli studenti del Liceo Socrate e della scuola media Moscati, che hanno letto la famosa poesia di Primo Levi "Se questo è un uomo" e una riflessione di Giacomo De Benedetti sulla mattina di quel 16 ottobre 1943.
   Il viaggio verso Auschwitz-Birkenau, cominciò dal binario 1 della stazione Tiburtina. Per questo, Il Municipio II, in collaborazione con il Dopolavoro Ferroviario e con ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) e ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia), ha deciso come ogni anno di ricordare questi tragici avvenimenti con una cerimonia per mantenere viva la memoria e far sì che essa resti per il futuro.

(Shalom, ottobre 2018)



Ottant'anni fa l'ultima partita in Italia di Weisz. Il maestro ebreo di calcio cacciato dai fascisti

Il 16 ottobre 1938 l'ungherese che aveva vinto 2 scudetti col Bologna era in panchina al Littoriale contro la Lazio. Espulso dalle leggi razziali morì nei lager.

di Andrea Schianchi

Arpad Weisz
Era il 16 ottobre 1938, proprio ottant'anni fa. Una domenica d'autunno. Lo Stadio Littoriale di Bologna non era strapieno, soltanto 9000 spettatori: la gente cominciava a tirare la cinghia, i soldi erano pochi e mettere in tavola un piatto di minestra per moglie e figli era più importante che correre a vedere Bologna-Lazio, sfida valida per la quinta giornata del campionato di Serie A. Gli emiliani si schierarono con questa formazione: Ferrari; Pagotto, Ricci; Montesanto, Andreolo, Marchese; Biavati, Sansone, Puricelli, Fedullo, Reguzzoni. La Lazio rispose con: Blason; Monza, Allemandi; Zacconi, Ramella, Milano; Busani, Riecardi, Piola, Vettraino, Costa. L'arbitro era il signor Barlassina di Novara. Il 2-0 per i rossoblù fu deciso dai gol di Puricelli e Andreolo. Ma quella partita passerà alla storia perché fu l'ultima dell'allenatore ebreo Arpad Weisz, un illuminato ungherese che, guidando l'Inter, ebbe il merito di scoprire il talento di Giuseppe Meazza quand'era ancora un ragazzino.

 Dolore
  Weisz era arrivato a Bologna nel 1935 e aveva condotto i rossoblù a conquistare due scudetti (1936, 1937) e a battere addirittura i maestri inglesi del Chelsea nella finale del Trofeo dell'Esposizione a Parigi (una Champions League ante litteram). Aveva metodi innovativi: disegnava schemi sulla lavagna e li faceva applicare ai suoi giocatori durante gli allenamenti, in un'epoca in cui i tecnici non si mettevano nemmeno in tuta e dirigevano le operazioni a bordo campo in giacca e cravatta. Grazie a lui l'Italia conobbe il calcio danubiano, con tutti i suoi segreti e le sue bellezze. Ma non c'era più posto per lui, nell'Italia fascista. Il regime di Benito Mussolini aveva promulgato le leggi razziali. Weisz si dimise dalla carica di allenatore del Bologna il 22 ottobre, nel gennaio del 1939 scappò con tutta la famiglia a Parigi, e di lì in Olanda dove trovò un ingaggio come tecnico del Dordrecht. I nazisti lo scovarono il 2 agosto 1942: la Gestapo lo arrestò assieme a moglie e figli. Deportati in campo di concentramento. La moglie Elena e i piccoli Roberto e Clara finirono subito nelle camere a gas di Birkenau. Arpad Weisz, dopo essere stato inviato ai lavori forzati in Alta Slesia, stremato e denutrito, scomparve il 31 gennaio 1944. Una targa allo stadio di Bologna lo ricorda. Mai dimenticare l'orrore.

(La Gazzetta dello Sport, 16 ottobre 2018)


*


Alla giornata europea della cultura ebraica, Arpad Weisz rivive in una graphic novel

di Nathan Greppi

 
"Ci tenevo a presentare quest'ultimo appuntamento di questa giornata che è stata lunga, ricca, molto interessante e piacevole": queste le parole di Alberto Jona, tra gli organizzatori della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Ha aggiunto che anche in altre città italiane è stata un successo, in particolare a Bologna e a Genova. Al termine degli eventi a Milano, ha introdotto la presentazione della graphic novel Arpad Weisz e il Littoriale (Minerva Editore) di Matteo Matteucci, sulla vita dell'allenatore dell'Inter e del Bologna Arpad Weisz, che perdette il lavoro a seguito delle leggi razziali, avvenuta al Museo Nazionale della Scienza e della tecnologia.
  "Guardo l'editore (Roberto) Mugavero, della Minerva Editore, che mi ha spinto e stimolato, facendo di tutto perché organizzassimo questa giornata," ha spiegato Jona, "e vi dico la verità, non l'ha fatto per il libro, l'ha fatto perché crede nel progetto." Ha aggiunto che per la prossima primavera sta organizzando una mostra a Milano sul tema della graphic novel in collaborazione con Minerva Editore e il Museo Ebraico di Bologna.
  Introducendo il libro, ha detto che "non volevamo parlare di memoria, c'è già un altro giorno, il Giorno della Memoria. Noi volevamo trovare nuove modalità di comunicazione e andare a cercare un nuovo target, un modo per confrontarsi col mondo non ebraico su certe tematiche." Ha aggiunto che questa graphic novel è stata candidata al Premio Bancarella per lo Sport. "C'è il fatto di usare stili nuovi, metodi nuovi, e l'idea di usare una graphic novel che ha la capacità di usare poco testo e far afferrare i contenuti attraverso le immagini, per mirare a un target di ragazzi. Il secondo merito di questa operazione è di rivolgersi a chi di solito segue lo sport."
  Dopo la sua presentazione, è salito sul palco l'ex-presidente dell'Inter Massimo Moratti, il quale ha dichiarato che Weisz "è stato un orgoglio per la storia dell'Inter, un eroe come sono stati eroi tutti quelli che hanno subito quell'infamia." È stato proiettato di un breve video animato che sintetizza la trama del fumetto.

 Dialogo tra l'autore e il giornalista Alessandrini
  Dopo il filmato ha preso la parola Guido Alessandrini, giornalista di Tuttosport esperto di atletica leggera, il quale ha iniziato con una battuta: "Spesso a Torino, quando dico che scrivo di sport, mi chiedono 'ti occupi di Juve o di Toro?' E io un po' per scherzo e un po' per provocare dicevo 'no, non mi occupo di calcio, mi occupo di sport.' Il punto è che, avendo lavorato anche nel calcio, mi rendo conto che la situazione sia ancora più difficile, andare a scoprire le persone oltre i personaggi, nel calcio è molto difficile, mentre in altri sport i personaggi erano facilmente avvicinabili."
  Parlando dell'opera, ha detto che "la storia di Weisz capita in un momento molto delicato e importante: in questi giorni sono esattamente 80 anni dalle leggi razziali, quando Mussolini le annunciò a settembre e il Re le firmò a novembre. Da quei due momenti ne deriva la parte più tragica della storia di Weisz, che Matteo Matteucci ha splendidamente raccontato avvalendosi di immagini. Oltre ad averle illustrate con grande maestria, e attraverso i toni dell'acquerello ho immaginato che avesse voluto usare certi toni di azzurro per trasmettere i sentimenti che suscita questa terribile storia." A questo punto, ha chiesto a Matteucci come gli è venuta l'idea di raccontare questa storia.
  "Il lavoro nasce da una suggestione personale," ha risposto questi, "ho iniziato a disegnare questa storia mi è venuta leggendo un libro che è stato scritto da Matteo Marani (vicedirettore di Sky Sport, ndr). Questo libro è un'indagine approfondita sul caso di Arpad Weisz, e si intitola Dallo scudetto ad Auschwitz. L'ho letto nel 2010, e in poco tempo sono rimasto molto impressionato da questa storia, e quindi ho iniziato a disegnare questo racconto. E la scelta dei colori deriva da una citazione di Marani, che descrive l'estate del 1938 come un'estate cupa, gelida, per dire ciò che storicamente è avvenuto. Piuttosto che usare i colori caldi che ricordino le fotografie d'epoca, ho preferito virare verso una gamma forse un pochino più dura, ma che richiamasse quell'atmosfera, e quindi la scelta definitiva è stata quella."
  In seguito Alessandrini ha dato la parola a Gianfelice Facchetti, attore teatrale e ospite fisso al programma della RAI La Domenica Sportiva (anche perché suo padre, Giacinto Facchetti, era un difensore dell'Inter, ndr), il quale ha raccontato che "abbiamo dedicato una sera un racconto in quella trasmissione che è La Domenica Sportiva, proprio in occasione dell'anniversario della pubblicazione del suo libro Il manuale del gioco del calcio, scritto nel 1930. Weisz ha ancora oggi un primato, è stato l'allenatore più giovane a vincere uno scudetto in Italia, lo Scudetto dell'Inter Ambrosiana. Quando poi arrivano le leggi razziali è costretto ad andare in Francia con la famiglia, e poi in Olanda. La sua storia si ferma, e con essa la storia dei suoi cari, e dopo c'è l'oblio."

 Il commento di Luciano Fontana del Corsera
  Prima della presentazione, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ha voluto portare i suoi saluti: "È un onore essere qui, e volevo esserci perché i rapporti tra il giornale e la Comunità sono intensi, e poi è particolarmente importante il tema di quest'anno: 'Le storie siamo noi', è un po' anche il racconto di quello che un giornale dovrebbe essere, raccontare le storie in maniera oggettiva, fattuale e indipendente." Ha aggiunto che, in un periodo in cui sui social c'è un confronto fazioso e violento, "io credo che iniziative che sappiano capire come fare cultura, perché la cultura ebraica è la nostra cultura, e farlo nel rispetto del pluralismo, è qualcosa che fa bene e allontana da un onda che non ci piace." Ha concluso affermando che "il Corriere della Sera è il giornale dell'Italia, di Milano, ed è il vostro giornale."

(Bet Magazine Mosaico, 15 ottobre 2018)


Di chi è la colpa dei morti di Gaza

I calcoli cinici di Hamas e dell'Autorità palestinese

di Ugo Volli

A Gaza i disordini continuano e stanno diventando più frequenti e più violenti. Ormai i terroristi inquadrati da Hamas non si limitano a bruciare copertoni, mandare in giro arnesi incendiari volanti, cercare di tagliare la rete di confine con strumenti manuali. Usano le bombe e assaltano in massa con le armi i difensori dell'esercito israeliano, provano a sfondare anche per mare e minacciano di usare i tunnel d'attacco che restano loro ancora (quindici sono stati distrutti dall'aviazione negli scorsi mesi) per uccidere e rapire gli abitanti dei villaggi subito al di là della frontiera. I soldati israeliani sono schierati a difesa e stroncano questi attacchi con gravi perdite per gli assalitori, che non fingono neanche più di essere pacifici manifestanti: sono orde d'assalto che riproducono con meno ordine le scene delle trincee della prima guerra mondiale.
   Sui giornali, quasi tutti ipocriti e mentitori, leggiamo di "scontri fra Israele e palestinesi", ma non è vero. Gli "scontri" avvengono solo dove e quando Hamas manda all'assalto i suoi gruppi di terroristi, Israele non va mai oltre al confine e non inizia mai, si limita a difendersi dagli attacchi dei terroristi e uccide solo quelli che minacciano di sfondare la linea di confine. I morti sono quasi tutti da una parte sola, perché la tattica di Hamas, che non ha forze corazzate, è quella del 1916: manda i suoi all'assalto allo scoperto armati di bombe e armi leggere. Contro una difesa ben organizzata possono solo sperare in un caso fortunato (per loro) di confusione. Ma l'esercito israeliano è ben coordinato e sa come contrastarli.
   Si parla dunque di scontri, e non ci si chiede perché ci sono. Non si dice neanche che Hamas li organizza e dichiara pubblicamente di volerli continuare fino a che avrà raggiunto i suoi obiettivi politici immediati, cioè la fine del blocco congiunto israeliano ed egiziano che controlla le importazioni nella striscia, impedendo che arrivino armi o materiali per la loro fabbricazione. Vale a dire che per Hamas una cessazione della violenza è possibile solo a condizione di porre le premesse per una guerra futura, in cui sarebbe meglio armato e più dannoso per Israele (e naturalmente di riflesso anche per gli abitanti di Gaza).
   O si risponde genericamente che a Gaza sono disperati. Ma perché sono disperati? Israele ha fatto qualcosa di grave negli ultimi mesi? No, non è cambiato nulla. Anche nei momenti degli scontri più gravi, Israele ha fatto passare rifornimenti, acqua, cibo, merci varie, perfino carburante. Di recente c'è stata una spedizione di benzina organizzata dal Qatar, che Israele ha fatto passare nonostante il parere contrario dell'Autorità Palestinese.
   Questo parere contrario è parte di un punto essenziale su Gaza, che nessuno racconta. Da un anno circa la dirigenza dell'Autorità Palestinese ha deciso di strangolare economicamente Gaza. Ha messo in atto sanzioni economiche, ha smesso di pagare gli stipendi ai suoi stessi dipendenti che vi abitano, ha rifiutato di concedere i permessi sanitari per le persone che devono andare in ospedali israeliani e quelli di studio per gli studenti che cercano di frequentare una scuola fuori dalla striscia, ha cercato in tutti i modi di sabotare le trattative mediate dall'Egitto e dal Qatar per diminuire la tensione al confine, ha perfino dichiarato persona non grata l'inviato dell'Onu perché si era permesso di stimolare queste trattative. Tutto questo è possibile perché negli accordi di Oslo, mal concepiti e dannosi anche sotto questo profilo, l'Autorità Palestinese è riconosciuta come "unica rappresentante del popolo palestinese" e dunque ad essa sono affidati i posti di confine, è essa che emette passaporti e certifica condizioni economiche e di salute, insomma per Israele è l'interlocutore giuridicamente obbligatorio.
   Ovviamente Abbas, il dittatore dell'Autorità Palestinese, incapace o non disposto a condurre negoziati di pace, vuole piegare Hamas al suo comando per essere più forte, questo è forse l'ultimo obiettivo rilevante della sua vita politica declinante come la sua salute; ma sul piano militare e del consenso interno Hamas è assai più forte e rifiuta di sottomettersi. Per questa ragione le trattative di "riconciliazione nazionale" condotte dall'Egitto sono sempre fallite. Questa è la ragione per cui l'Autorità Palestinese e non Israele ha stretto un vero e proprio assedio economico a Gaza, sperando in una rivolta contro Hamas, che non avviene, o almeno in disordini che coinvolgano Israele, come invece sta accadendo, con il risultato se non di fare danni militari allo stato ebraico, almeno di danneggiarlo nell'immagine e di avere argomenti propagandistici da sfruttare ("i bambini di Gaza", "la crudeltà dell'esercito israeliano" ecc. ecc.).
   Insomma chi cinicamente sta affamando gli abitanti di Gaza, con il progetto di danneggiare Hamas o Israele o tutti e due è l'Autorità Palestinese. E' una responsabilità pesante, condivisa con Hamas, che ha scelto di reagire a questa situazione mandando non solo i suoi terroristi, ma il più possibile della popolazione comune, donne e bambini compresi, a farsi ammazzare nell'impossibile tentativo di sfondare un confine internazionale difeso da un esercito bene armato. Se per caso riuscissero a fare qualche danno, a rapire o uccidere qualche civile o soldato rimasto isolato, sarebbe per loro un grandissimo successo. Se non ci riescono sono carne da cannone da far pesare nella propaganda. Anche questo è un cinismo insopportabile, veramente inaudito, non denunciato da nessuno dei "pacifisti", degli "amici dei palestinesi", dei "progressisti" che trovano comodo attingere al grande serbatoio dell'antisemitismo e prendersela con gli ebrei.

(Progetto Dreyfus, 15 ottobre 2018)



Gli "amici" di Israele che scelgono il silenzio

di Emanuel Segre Amar

Mercoledì scorso durate una conferenza di un istituto di studi iraniani tenutosi alla Camera dei Deputati, sono state pronunciate queste parole:
    "Israele ha un ruolo distruttivo nella nostra regione, il regime israeliano osteggia il patto nucleare, Israele è un paese che ha occupato la Palestina e con la guerra vuole mantenere la sua esistenza. L'Occidente invece di ascoltare Israele può ascoltare l'Iran. Israele è una falsificazione, Israele è una cosa costruita, non è una cosa vera, originale. E' un'ingiustizia contro l'umanità e ha praticato violenza anche contro di noi (????). Nella nostra zona ci sono state molti errori ma il primo errore è stata la creazione di Israele. Speriamo che farete caso a questo."
Solo un deputato, Andrea Orsini, di FI, ha scelto di non ascoltarle. E solo un deputato, che non sto a nominare, ha obiettato qualche parola in difesa degli omosessuali perseguitati in Iran. Laura Boldrini ha ascoltato in religioso silenzio. E Piero Fassino, anche lui presente? Il silenzio è stato pari. Vorrei spendere qualche parola su questo parlamentare di lungo corso considerato uno dei più vicini a Israele tra i parlamentari ex PCI, ex DS, oggi PD. Uno dei più "vicini" a Israele, e tuttavia…
   Nel 2014 quando mi invitò a partecipare ad un viaggio in Israele, egli accettò che dal Medio Oriente giungesse l'intimazione che a me e solo a me, in quanto rappresentante della Comunità Ebraica non fosse concesso, di andare agli appuntamenti organizzati oltre la linea verde col presidente dell'ANP e coi suoi "ministri", nonché con mons. Twal. Me ne dolsi.
   Quando si riferiva ad Abu Mazen come: "il mio amico Abu Mazen", gli feci notare che era un negazionista. Non lo sapeva e, quando gliene fornii le prove, non reagì che con un: "Non è molto carino". Mi stupii. Quando, in consiglio comunale a Torino venne votata una mozione di condanna di Israele votata all'unanimità tranne che dal consigliere della Lega Fabrizio Ricca, scelse di uscire dall'aula piuttosto che esprimersi a proposito delle menzogne contenute nella mozione voluta da un vicesindaco vicino al BDS. Non mi stupii più, e nemmeno potei più dolermene.
   Ma adesso che ascolta alcuni iraniani che vilipendono Israele in una sede istituzionale senza profferire parola, la mia reazione è di indignazione profonda e devo purtroppo dire, riprendendo volutamente la parole usata in un ignobile articolo di Barbara Spinelli del 2001 apparso su La Stampa, in cui chiedeva all'ebraismo italiano di discolparsi per le "colpe" di Israele, Fassino, discolpati. Ma potrà farlo?
   Se questi sono i politici di sinistra "vicini" a Israele non può che venire in mente il detto, "Con amici come questi, chi ha bisogno di nemici"?

(L'informale, 15 ottobre 2018)


«Torna l'antisemitismo. Ogni ebreo che va via una ferita per l'Europa»

Tajani alla Giornata della cultura ebraica. L'allarme del rabbino: «La storia si ripete»

di Alberto Giannoni

 
Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano
«L'antisemitismo ritorna». La Giornata europea della Cultura ebraica è dedicata alle narrazioni («storytelling») e il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib non ama le narrazioni di comodo. Nella sinagoga di via della Guastalla, dunque, dice la verità senza infingimenti di circostanza: «Stiamo assistendo al ritorno dell'antisemitismo in Europa. Venti anni fa non ci avremmo ceduto, credevamo di essere vaccinati». Ad ascoltarlo in prima fila Antonio Tajani, ospite d'onore delle celebrazioni della giornata milanese che prevede incontri, mostre e presentazioni di libri. Il presidente dell'Europarlamento è appena intervenuto: «Le nostre radici sono giudaiche e cristiane - ha detto - Ci siamo battuti per impedire che possa succedere che qualche ebreo possa abbandonare l'Europa per paura dell'antisemitismo». «Ogni ebreo che lascia Europa è una perdita - ha detto - è una tessera che si stacca dal mosaico della nostra identità. Più la difendiamo, più possiamo aprirci». Tajani ha ricordato i motivi più rilevanti di questa identità giudaico-cristiana, e il contributo degli ebrei italiani alla causa della patria, a partire dal Risorgimento che li ha visti in prima linea: «Se l'Italia è unita lo si deve anche agli ebrei italiani e sono oltre 700 quelli decorati per aver servito la patria con dedizione». Da presidente dell'Europarlamento, Tajani ha indicato le iniziative assunte dalle istituzioni europee contro l' antisemitismo, ha difeso il diritto all'esistenza e alla sicurezza dello Stato ebraico e ha confermato il suo sì alla storica proposta che vuole Israele nell'Unione europea. Infine ha ammonito: «Non esiste Europa senza identità e questa identità è giudaica e cristiana».
  Nel tempio milanese, per la diciannovesima edizione della Giornata, è presente una nutritissima delegazione di Forza Italia, con la capogruppo alla Camera Mariastella Gelmini ci sono i deputati Lara Comi e Andrea Orsini, storico amico di Israele. La Regione ha dato un sostegno importante all'evento e il governatore Attilio Fontana è mancato solo per la concomitanza con la visita milanese del premier Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio regionale Alessandro Fermi ha inviato un messaggio e il sindaco Beppe Sala si è fatto rappresentare dal suo capo di gabinetto e dall'assessore Marco Granelli. Presente anche il capogruppo regionale del Pd Fabio Pizzul, ma non solo politici. Ci sono il viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Pierfrancesco Fumagalli, e Yahya Pallavicini insieme ai rappresentanti della Coreis, la comunità religiosa islamica.
  É il giornalista Paolo Del Debbio a condurre e rivela la storia della sua particolare amicizia con gli ebrei, che risale alla prigionìa del padre, recluso per due anni di carcere militare vicino a Buchenwald. Il critico Philippe Daverio incanta con una ricostruzione storica che riconduce l'ascesa del «sovranìsmo» alla ricorrente tensione fra la vocazione inclusiva degli «imperi» e quella esclusiva delle «monarchie» nazionali.
Il co-presidente Raffaele Besso ricostruisce la storia della Comunità milanese, la cui storica peculiarità sta nell'aver accolto gli ebrei cacciati o in fuga dai paesi arabi. Ad Arbib tocca ricordare che nella storia dell'Europa c'è anche l'antisemitismo. E in quella dell'Italia le leggi razziali. E così come ci sono stati i giusti, e gesti straordinari di solidarietà, non vanno sottaciuti l'indifferenza, o peggio ancora le delazioni e le complicità attive con le discriminazioni. E prima ancora i ghetti, o i falsi come il Protocollo dei savi di Sion, patacca antisemita e antisionista insieme, molto prima di Israele, oggi pretesto del nuovo odio. «L'antisemitismo non è stato inventato negli anni Trenta - ricorda - in Europa ha una lunga e dolorosa storia. Se non capiamo le radici di tutto questo e non ci facciamo i conti - avverte - è inutile dire che una storia non deve ripetersi. Se le radici restano quelle, la storia si ripete».

(il Giornale - Milano, 15 ottobre 2018)



Khashoggi scomparso è un caso diplomatico: l'Occidente contro Riad

Francia, Germania e Regno Unito: «Indagine vera» Pressioni su Trump. Mal' Arabia minaccia ritorsioni

1 - L'arrivo al consolato
Il 2 ottobre all'ora di pranzo Jamal Khashoggi si reca al consolato per ritirare dei documenti necessari al suo matrimonio con Hatice Cengiz. Alla sua promessa sposa dice di aspettarlo fuori: se non esco dai l'allarme. Dopo qualche ora Hatice chiama un consigliere del presidente turco
2 - I veicoli sospetti lasciano il palazzo
Alle sedici del 2 ottobre due veicoli, compreso un furgone, lasciano la sede diplomatica e si fermano alla residenza del console, poco distante. In mattinata da Riad era arrivato un volo privato con a bordo nove persone che poi hanno raggiunto la rappresentanza saudita. Erano forse gli .esecutori del delitto?
3 - Le microspie e le urla
Fonti ufficiose turche hanno confermato al Washington Post di avere la prova dell'omicidio grazie a delle microspie: audio e forse immagini che hanno registrato l'uccisione dell'esule. L'oppositore sarebbe stato aggredito in una stanza da almeno due persone, si sentirebbero voci concitate e grida
4 - Le reazioni di Usa e Europa
La presunta uccisione del giornalista saudita ha causato una crisi internazionale. Gli Usa hanno ventilato una «punizione severa» per Riad. Ieri Gran Bretagna, Francia e Germania, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto «un'indagine credibile per stabilire l'identità dei responsabili».

di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON - Tutti contro l'Arabia Saudita. La crisi innescata dalla scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi ha ormai una scala internazionale. In un'intervista alla rete Cbs, Donald Trump ha alzato i toni: «Andremo fino in fondo e ci sarà una grave punizione» se verrà provato l'assassinio di Khashoggi, sparito dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul, lo scorso 2 ottobre. Intanto il re saudita Saiman ha «garantito» al presidente Erdogan che le relazioni bilaterali restano «solide».
   Si muovono anche Gran Bretagna, Francia e Germania, con un comunicato congiunto firmato dai tre ministri degli Esteri, Jeremy Hunt, Jean-Yves Le Drian e Heiko Maas: «È necessaria un'indagine credibile per stabilire la verità e per identificare i responsabili della scomparsa di Khashoggi e assicurarsi che siano giudicati per questo. Appoggiamo gli sforzi condotti da turchi e sauditi e ci aspettiamo che il governo saudita fornisca una risposta completa e dettagliata». Poi un particolare importante sul piano politico-diplomatico: «Abbiamo trasmesso questo messaggio direttamente alle autorità saudite». Come dire: questo è un passo ufficiale, che può incidere sulle nostre relazioni.
   La risposta di Riad è rabbiosa, anche se affidata alla voce anonima di «un alto funzionario» riportata dalla Saudi Press, l'agenzia di stampa ufficiale: «Il Regno (dell'Arabia Saudita, ndr) afferma che se subirà una qualsiasi azione, risponderà con un'azione ancora più grande» e sottolinea «che l'economia del Regno ha un'influenza e svolge un ruolo vitale nell'economia globale». L'allusione al petrolio è chiarissima. A scanso di equivoci, Turki Aldakhil, proprietario del canale tv saudita Al Arabiya, precisa: «L'imposizione di sanzioni potrebbe indurre l'Arabia Saudita a venire meno alla produzione di 7,5 milioni di barili (al giorno, ndr). Il prezzo del petrolio a 80 dollari ha già suscitato la rabbia di Trump, ma nessuno dovrebbe escludere che la quotazione possa balzare a 100 dollari a 200 o persino a 400 dollari».
   La politica americana si sta confrontando con questo rischio. I senatori, anche repubblicani, chiedono misure punitive pesanti. Qualcuno, come Jeff Flake dell'Arizona, sollecita il taglio delle forniture militari. Intanto il Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin potrebbe annullare la partecipazione alla «Davos del deserto», il meeting di finanza e affari in programma questa settimana a Riad.
   Ma i consiglieri dello Studio Ovale sperano ancora di poter circoscrivere il caso. La soluzione potrebbe essere quella di adottare il «Global Magnitsky Human Rights Accountability Act», la legge del 2016 che consente di sanzionare gli esponenti di governi stranieri accusati di gravi violazioni.
L'amministrazione Trump l'ha già usata per colpire gli oligarchi di Mosca e gli agenti del Gru, il servizio segreto militare russo. Potrebbe farlo anche con i sauditi implicati nella scomparsa di Khashoggi. Ma c'è un problema: che fare se risulterà un coinvolgimento diretto del principe ereditario, Mohammed bin Salman? Il genero-consigliere Jared Kushner continua a difendere Bin Salman. Il presidente oscilla, in attesa di prove più certe.

(Corriere della Sera, 15 ottobre 2018)


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Questo assassinio cambierà il destino del Medio Oriente

di Fiamma Nirenstein

 
Jamal Khashoggi
L'assassinio di Jamal Khashoggi in Turchia il 2 di ottobre, come in una tragedia Shakespeariana, ha i colori del destino: ha protagonisti fiammeggianti e avversi l'uno all'altro fino alla morte, errori, vantaggi, immense conseguenze psicologiche e politiche. In una parola, può cambiare il destino del Medio Oriente, e paradossalmente nella direzione che il povero assassinato, vittima di tanta crudeltà, avrebbe desiderato. Difficile capire come i sauditi, in particolare il riformista principe della corona Mohammed bin Salman, abbiano potuto fare un errore stratosferico come eliminare il nemico sul territorio a loro più ostile, quello di una Turchia che di fatto è alla pari dell'Iran è contro il reame sunnita. L'Iran, perché è sciita, e la Turchia ( che di fatto in un empito improbabile di passione per i diritti umani, è alla testa delle accuse ali' Arabia Saudita), leader del mondo legato alla Fratellanza Musulmana, sono stati avvantaggiati dall'eliminazione del nemico di bin Salman. Erdogan ieri ha ricevuto un primo segnale di mutamento di rotta americano nelle calde, anzi vibranti, parole di ringraziamento per aver liberato, dopo due anni di crudele reclusione, il pastore americano Andrew Burnson. Nel passato l'Arabia Saudita, che non è una organizzazione benefica, e anzi è un leader nella violazione dei diritti umani, era già stata mostrata a dito per sparizioni, rapimenti, incursioni all'estero, e i sauditi sono in larga compagnia per supposti delitti e sparizioni: ma gente che scompare durante viaggi in plaghe lontane, aerei che si perdono, personaggi che vengono drogati e rapiti, non è la stessa cosa di un giornalista del Washington Post, anche se era stato, si legge, amico della famiglia di Bin Laden, anche se la sua simpatia per la Fratellanza Musulmana era estrema nonostante la sua intima commistione col suo regime, anche se in parallelo era visto come un confidente degli americani. Un personaggio complicato, ma certo non meritevole di quella orrida fine. E niente spiega come i sauditi abbiano potuto infilarsi in un guaio che fa deviare l'America da un' amicizia speciale, colonna di un disegno strategico. Essa era andata a diretto detrimento del rapporto con i due nemici dei sauditi, gli iraniani e i turchi, e adesso in Israele ci si chiede cosa può succedere se l'asse delle alleanze si sposta: per esempio se ne avvantaggia il Qatar, fin' ora messo al bando dai sauditi, amico di Hamas e anzi suo fornitore di beni, benzina, danaro insieme all'Iran.
   I sauditi, insieme agli egiziani e ai giordani, hanno costituito una sorta di barriera contro l'espansione in Medio Oriente del fronte iraniano e di quello turco, tanto che non hanno mai aderito alla guerra contro i curdi che è una specie di lasciapassare presso Erdogan. Adesso le cose sono destinate a spostarsi, e anche il piano di Jarret Kushner per una pace fra Israele e i Palestinesi fortemente voluta da partner regionali si indebolisce alquanto. Israele certo non gioisce dell'eventuale spostamento strategico, la Turchia gli è opposta, l'Iran lo vuole distruggere. Questo, mentre Hamas cerca in questi giorni di sfondare il confine con esplosivo, migliaia di guerriglieri armati, l'esercito israeliano schierato in sofferenza, immobile sul bordo, con l'ordine di sparare solo in casi estremi dato che Hamas manda ragazzi e donne in prima fila. Così Netanyahu, che ha mostrato di volere evitare la guerra, adesso sembra raccogliere un senso di esasperazione fra le volute nere dei campi incendiati. E ha lanciato ieri una specie di ultimo appello: vi abbiamo rifornito di benzina e beni di consumo, ora basta, ha detto, smettete di aggredire, o vi faremo smettere in modo che farà male, molto male.

(il Giornale, 15 ottobre 2018)


Il giallo di Capri, si muove Israele per lo skipper sparito m mare

Decine di mezzi per le ricerche, finora senza esito. E sull'isola arriva anche il viceambasciatore.

di Conchita Sannino

Doron Nahshony
Israeliano, 62 anni, lo skipper si è allontanato da Marina Piccola la sera del 10 ottobre a bordo di un gommone. Faceva parte di una comitiva arrivata da Procida su quattro barche a vela.
NAPOLI - Un piccolo tender grigio che si allontana da Marina Piccola. A bordo c'è un uomo solo, appena sceso dalla barca a vela che divideva con i colleghi. Lui si infila la camicia bordeaux, aziona il motore e parte. Senza dire dove vada, senza portare con sé né un cellulare, né una mappa, né un documento. Ed è l'ultima immagine che resta, per ora, della sua traversata in Italia. La scomparsa nelle acque di Capri dello skipper israeliano Doron Nahshony, 62 anni, è un rompicapo che dura da cinque giorni.Un mistero che sguinzaglia decine di mezzi navali, elicotteri e sommozzatori tra Guardia costiera, carabinieri, polizia, Finanza. «Ogni giorno, almeno quattro tra battelli e motovedette. Oltre ai voli e ai controlli via terra», confermano alla Guardia costiera guidata dall'ammiraglio Arturo Faraone. Un mistero che spinge, ieri, il viceambasciatore in Italia a lasciare Roma per raggiungere l'isola, incontrare alcuni esperti e partecipare alle ricerche. La denuncia approda alla procura di Napoli, e il sindaco di Capri Gianni De Martino chiede massima collaborazione ai suoi cittadini: «Confidiamo che qualcuno avvisti quel gommone, siamo dispiaciuti e vogliamo sperare». Il team con il quale viaggiava Nahshony - che lavora presso la società Galil Engineering nella città di Ramat - è formato da quattro barche a vela. Complessivamente, circa 30 persone. Le imbarcazioni vengono noleggiate a Procida, con tutto l'equipaggio, all'inizio della scorsa settimana, presso la Sail Italia srl, e quel mercoledì pomeriggio sono ormeggiate a Marina Piccola, a Capri. Sono le 19.45 quando lo skipper scende in acqua col piccolo gommone, 4 cavalli appena: è un tender «grigio chiaro con motore, lungo meno di 4 metri», registreranno gli atti. Quel giorno, le condizioni meteo sono ideali: mare e venti calmi. L'unico problema è la visibilità: l'uomo naviga al crepuscolo. E ora, tra le altre, si fa strada la tesi che l'uomo abbia voluto far perdere le proprie tracce: ma gli amici non ci credono. Era sorridente, sereno, ribattono. Anche se qualcuno ipotizza che Nahshony avesse qualche problema di salute, «ma nulla di serio». Un altro dei colleghi del velista aveva pensato che Doron volesse raggiungere un'altra delle imbarcazioni del gruppo. Ma occorrevano pochi minuti per quel tratto. Invece passano due ore. E alle 22, parte la telefonata alla capitaneria di Capri. «Non ha detto dove sia andato», si allarma il capo-gruppo di velisti. La prima strada sarebbe la geolocalizzazione: ma l'uomo non ha con sé lo smartphone, Quindi: cercare in ogni direzione, non escludere nulla. Si cerca caletta dopo caletta, ma si punta anche al largo. Da Napoli scattano segnalazioni anche in Sicilia e Sardegna. Intanto sul profilo Facebook dell'ambasciata israeliana campeggia l'appello. Le ricerche riprendono all'alba, anche oggi. Per capire cosa è stato dell'esperto velista inghiottito dal dolce autunno caprese.

(la Repubblica, 15 ottobre 2018)


Ala, in tre anni raddoppiato il fatturato. L'aerospazio campano punta su Israele

L'azienda ha aperto una sede a Tel Aviv. L'amministratore delegato Di Capua: «Step strategico per il nostro asset»

di Luciano Buglione

 
I numeri sono davvero significativi: 2500 fornitori in tutto il mondo e ben 130 milioni di dollari di fatturato, il doppio rispetto a soli 3 anni fa, di cui oltre il 40% sviluppato al di fuori dell'Italia. Come le sedi, tutte prestigiose. Oltre a quelle nazionali, Torino, Novara (all'interno dello stabilimento Leonardo di Cameri), Pozzuoli e Brindisi, più una sede di rappresentanza a Roma, ci sono postazioni direttamente nel mercato nordamericano, a New York e Seattle, e in Europa, nel Regno Unito (Londra) e Francia, a Tolosa e Mont de Marsan.
   Tra il 2016 e il 2017 ha altresì attivato dei Sales Desk (ovvero i banchi vendita) regionali e partnership commerciali a Dallas, Los Angeles, Shanghai e Bangalore. Ha infine uffici commerciali a Roma, Varese, Parigi, Seattle, Shanghai. Stiamo parlando di Ala, Logistica Avanzata per l'Aerospazio, una azienda nata a Napoli nel 2009 dalla fusione di Avio Import e Aip Italia, sorte rispettivamente 23 e 14 anni prima. Dal capoluogo partenopeo è partita, con il quartiere generale presso il Teatro Mediterraneo all'interno del parco monumentale ed espositivo della Mostra d'Oltremare, alla conquista del mondo. La presenza nella Mostra è valsa il restauro di uno degli edifici del corpo centrale del teatro, con un investimento di 2 milioni, su una superficie di 1500 metri quadri. Oggi occupa il quarto posto assoluto a livello internazionale nel suo settore, ma non intende fermarsi, al punto che l'anno scorso ha creato nuove partnership commerciali in Cina e India, ed ora punta in modo deciso sul mercato israeliano, con una nuova sede a Tel Aviv, in Israele, e una joìnt-venture con il gruppo locale Yail Noa.
   Questo accordo combina i punti di forza di Ala e Yail Noa, facendo leva sull'expertise e sulla specializzazione geografica di entrambi. Ala Israel integra la profonda conoscenza del mercato israeliano della distribuzione di Yail Noa con l'esperienza e la competenza di Ala come service provider di parti aeronautiche per i maggiori costruttori e player del settore. «Nel 2010 - commenta il ceo di Ala Gennaro Di Capua - gli azionisti, il presidente Fulvio Scannapieco e il vice Vittorio Genoa, hanno intrapreso un percorso di crescita internazionale attraverso acquisizioni, joint-venture, crescita organica e alleanze commerciali».
   Poi aggiunge: «Ala Israel è uno step fondamentale per la nostra strategia. Con questa nuova sede vogliamo essere sempre più prossimi ai nostri clienti attuali e potenziali in Israele e nell'area».
   Il progetto è particolarmente ambizioso. L'obiettivo è fornire una gamma sempre più ampia e variegata di servizi rafforzando la società come punto di riferimento nel mercato per attori fondamentali quali Iai, Elbit, Rafael, altri colossi simili. Ala Israel si candida in tal senso a dimostrare la capacità di mettere sul campo i più alti livelli di servizio e la costruzione di soluzioni disegnate sulle esigenze del mercato nel settore. Ala è leader nella distribuzione di fissaggi e materiali aerospaziali, e nella fornitura di servizi di logistica integrata e gestione della catena di approvvigionamento; serve i più importanti programmi aeronautici, con particolare focus su F-35, Atr A220 (ex C-Series ), C130, M346, GEnx e V2500 direttamente e diversi altri programmi Boeing e Airbus come B787 e A350 indirettamente. L'azienda rappresenta un esempio di work in progress virtuoso, con una trasformazione da una originaria intuizione imprenditoriale ad una gestione manageriale per competere con determinazione e successo nei mercati internazionali. Un processo che però ha mantenuto salde le radici italiane, e soprattutto le origini napoletane, di cui l'attuale gruppo dirigente, come i predecessori, vanno molto fieri.
   Insomma, un «fiore all'occhiello» per la tanto vituperata industria meridionale. E la conferma che quando i progetti hanno salde intuizioni decollano a prescindere dalle pur importanti (e da noi sfavorevoli) condizioni e convenienze.

(L’Economia, 15 ottobre 2018)


Tutto cambia, quando sei tu nel mirino

Talvolta in Europa sembra di sentir dire: "Svegliamoci, perché qui non sono più solo gli ebrei in pericolo, ma anche tutti noi".

Alcuni la chiamano ipocrisia. Altri, meno sentenziosi, la definiscono una carenza di empatia successivamente corretta dall'esperienza. Io la chiamo più semplicemente la sindrome di "chi è nel mirino". Un certo evento, una politica, un'ideologia vengono visti in modo assai diverso a seconda del grado di coinvolgimento degli interessi personali dello spettatore.
Sorprendentemente semplice e ovvio, il criterio "chi è nel mirino" è un utile filtro attraverso cui guardare la politica mondiale. Basta scorrere le notizie per trovare sempre nuovi esempi di come cambia il senso dei fatti e di come vengono riconsiderate le priorità a seconda di chi si trova nel mirino....

(israele.net, 15 ottobre 2018)


"Gli ebrei nello spazio ligure e provenzale", convegno a Sanremo a 80 anni dalle leggi razziali

Studiosi provenienti da atenei italiani e stranieri parleranno di antisemitismo e del rapporto che si è sviluppato nel corso dei secoli tra la Liguria e le comunità ebraiche

di Veronica Senatore

 
Villa Ormond a Sanremo
SANREMO - "Gli ebrei nello spazio ligure-provenzale". É il titolo del convegno che si terrà sabato 20 ottobre a Villa Ormond e promosso da Comune, Università di Genova (Dipartimento di Antichità, Filosofia, Storia - Dafist), Istituto Internazionale di Studi Liguri e il Centro studi "Anna Maria Nada Patrone" (CeSA).
  A 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali il primo provvedimento approvato dal fascismo e che aprì anche l'Italia all'orrore della Shoah, vedrà salire in cattedra 18 studiosi, tra docenti e ricercatori provenienti da atenei italiani e straniere che approfondiranno il tema dell'antisemitismo (e non solo) nel contesto ligure.
  Con un comitato scientifico composto dai professori dell'Università di Genova Paolo Calcagno, Alessandro Carassale e Andrea Zappia ; dalla professoressa dell'Università di Torino Irma Naso e da Claudio Littardi del Centro studi e ricerche per le Palme - Sanremo, il convegno sarà suddiviso in due sessioni. La prima si aprirà alle 9.30 e con moderatore Calcagno verterà sul lungo rapporto che si è sviluppato nei secoli medievali e moderni tra le comunità ebraiche italiane e nord-europee con lo spazio geografico della Liguria, del Ponente, e della Provenza da un punto di vista economico, finanziario e commerciale.
  Gli studiosi metteranno inoltre in evidenza la presenza di piccoli nuclei ebraici a Genova, Nizza e in altri centri della costa, nonché la loro funzione e il loro ruolo nelle società locali. Non mancheranno due interventi sull'antico ed esclusivo commercio dei cedri e palme coltivati a Sanremo e Bordighera e spediti fino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale agli ebrei di nazionalità nordeuropea in occasione delle loro feste rituali. Una tradizione plurisecolare di cui cui si sono perse le tracce ma che offre molti spunti di approfondimento e riflessione, soprattutto in relazione al possibile riconoscimento e recupero della pianta di agrumi.
  Nell'ampia sessione pomeridiana, che sarà moderata dal professor Graziano Mamone dell'Università di Genova, gli interventi verteranno sulla presenza ebraica nella Provenza e nell'Italia contemporanea con ampi riferimenti alla realtà ligure. Chiuderà la giornata un approfondimento sul tema delle leggi razziali del 1938 e delle conseguenti persecuzioni, nel nizzardo e nel ponente, dove la frontiera di Ventimiglia rappresentava per molti una via verso la salvezza.
  Aggiunge l'assessore Barbara Biale che ha presentato la giornata di studi insieme all'assessore Eugenio Nocita e al professor Alessandro Carassale : "Nell'ambito del convegno, in concomitanza alla Giornata internazionale del patrimonio ambientale, riceveremo l'attesto di partecipazione all'edizione 2018 del Concorso FICLU "La Fabbrica nel Paesaggio". Il Museo del Fiore è stato selezionato dal Club Unesco e ha ricevuto una menzione speciale. La consegna avverrà alle 17. Ne siamo molto orgogliosi".
  Come annunciato, il convegno sarà suddiviso in due parti. La prima vedrà prendere la parola: Anna Esposito (Università di Roma La Sapienza) che discuterà di "Gli ebrei in Italia tra '400 e '500: una presenza "tollerata""; Antonio Musarra (Università di Firenze) che parlerà di "Gli ebrei a Genova nel Medioevo: problemi e prospettive di ricerca"; Marco Cassioli (UMR TELEMMe, Aix-Marseille Université - CNRS), che approfondirà il tema "Ebrei nelle Alpi Marittime. Presenze stanziali, migrazioni, transiti alla fine del medioevo"; Angelo Nicolini (Società Savonese di Storia Patria) il cui incontro si intitola "Presenze ebraiche a Savona fra Quattro e Cinquecento." Si passerà quindi al primo Coffee break con: Andrea Zappia (Università di Genova) "Di padre in figlio: affari e parentele all'interno della comunità ebraica di Genova tra Sei e Settecento"; Andrea Zanini (Universita di Genova) "Fonti fiscali e stime patrimoniali. Gli ebrei di Genova nella prima metà del Settecento;" Alessandro Carassale (Università di Genova) "Cedri e palme all'hebrea". Produzione e commercio nell'estremo Ponente ligure in età moderna"; Simonetta Tombaccini (Storica - archivista) "Gli ebrei di Nizza marittima nell'economia ligure-provenzale (XVII e XIX secolo").
  Il lavori proseguiranno così alle 15. La sessione pomeridiana del convegno avrà come relatori: Guri Schwarz (Università di Genova) "Gli ebrei nell'Italia contemporanea e il contesto ligure: stato degli studi e prospettive di ricerca"; Luciano Maffi (Università di Genova) "Banchieri privati nell'Italia del XIX secolo. Reti miste nel sistema creditizio e finanziario: i Parodi di Genova;" Alberto Guglielmi Manzoni (Storico) "Considerazioni sugli ebrei del barnabita Giovanni Semeria in odore di modernismo agli inizi del Novecento"; Claudio Littardi (Centro Studi e Ricerche per le Palme - Sanremo) "Cedri e palme del Ponente ligure nella tradizione ebraica". Il secondo Coffee break avrà invece come protagonisti gli studi di Alberto Cavaglion (Università di Firenze) che dialogherà su "Interdizioni vecchie e nuove: gli ebrei in Italia dall'emancipazione alle leggi razziali (1848-1938)"; Jean Louis Panicacci (professore onorario, Universite Nice Sophia Antipolis) "La persecuzione degli ebrei nel Nizzardo dal regime di Vichy all'occupazione tedesca (luglio 1 940-agosto 1944)"; Paolo Veziano (Istituto Storico della Resistenza - Imperia) ""Ci sentiamo abbandonati". Ebrei stranieri alla frontiera di Ventimiglia (1938-1940)"; Gian Paolo Lanteri (Storico) "I salvati di Creppo e di Bregalla. 1943-1945".

(Riviera24, 15 ottobre 2018)


Lieberman, obbligati a colpire Hamas

Vane le altre opzioni. La violenza al confine è arma strategica

''Siamo giunti al punto in cui dovremo assestare a Hamas il colpo più duro possibile. Nei mesi scorsi non abbiamo lesinato sforzi per verificare tutte le altre opzioni. Ora sarà il Consiglio di difesa del nostro governo a decidere'': questo l'avvertimento odierno del ministro della difesa Avigdor Lieberman, dopo che venerdì 16 mila palestinesi si sono nuovamente lanciati da Gaza contro le linee di confine con Israele. In quegli scontri (che hanno visto anche l'apertura di una breccia sul confine e l'attacco ad una postazione militare in territorio israeliano) sono rimasti uccisi 7 palestinesi. ''Due di loro - ha precisato Lieberman, in un'intervista al sito Ynet - erano membri del braccio armato di Hamas''.
Lieberman ha spiegato che venerdì Israele sperava in un ritorno alla calma avendo autorizzato l'ingresso a Gaza di forniture di combustibile per la centrale elettrica. ''Ma ormai Hamas ha trasformato la violenza al confine in un'arma strategica per logorarci'', ha aggiunto.

(ANSAmed, 14 ottobre 2018)


La donna che ha salvato 2.500 bambini ebrei dall'eccidio nazista

La bellissima figura di Irena Sendler. Sopravvissuta alla Gestapo, è morta nel 2008 a 98 anni. Con i pargoli sempre nel suo cuore

Irena Sendler
Ci sono storie che non possono non essere raccontate.
Soprattutto se si tratta di donne che stampato nel loro Dna hanno coraggio, responsabilità, umanità. In modo particolare se, poi, hanno aiutato a cambiare il mondo, a evitare, nel suo piccolo, una tragedia ancora più immane.
Le parole chiave sono Seconda guerra mondiale, Tedeschi, ebrei, Polonia, Ghetto di Varsavia, 1942. E lei, al secolo Irena Krzyzanowska, ma meglio conosciuta come Irena Sendler.
Ebbene, questa signora ha fatto qualcosa che soltanto a dirlo mette i brividi: socialista, libera ed emancipata, ha salvato circa 2.500 bambini ebrei durante l'occupazione tedesca della Polonia. Ha portato via i piccoli dal ghetto della capitale polacca, Varsavia, li ha collocati in famiglie e conventi, li ha forniti di documenti falsi, con nomi e cognomi diversi da quelli veri.
E, come se non bastasse, ha anche tenuto un registro di questi bambini, in modo che, una volta finita la guerra, potessero tornare alle loro prime e vere identità.
La grandezza di tutto, però, sta nel fatto che lei, questa donna che aveva l'aspetto mite, vestita all'antica e modestamente, calzava grosse e comode scarpe nere, parlava poco, sorrideva molto, e non si alzava dalla poltrona (presto capiremo perché), non si è mai considerata una eroina, perché convinta che potesse fare molto di più.
Ma chi è stata veramente questa Irena, le cui gesta per decenni sono praticamente sconosciute e improvvisamente fiorite negli ultimi anni grazie anche due bellissimi libri a lei dedicati?
Nasce nel 1910 nella capitale polacca, e fin dai primissimi anni entra in contatto con gli ebrei lì presenti. Sia perché, dopo la morte del padre (Irena ha sette anni), alcuni responsabili della comunità ebraica si offrono nel pagare gli studi di Irena come segno di gratitudine. Sia perché, durante il periodo universitario, si oppone alla ghettizzazione degli studenti ebrei e, come conseguenza, è sospesa dall'Università di Varsavia per tre anni.
Allo scoppio del conflitto, e alla devastante invasione tedesca nel settembre 1939, lavora nei Servizi sociali, iniziando da subito a proteggere gli amici ebrei a Varsavia e, aiutata da altri collaboratori, riesce a procurare loro circa 3mila falsi passaporti.
La svolta si ha quando ottiene un permesso speciale per entrare nel Ghetto alla ricerca di eventuali sintomi di tifo. È il suo successo: la libertà di entrare e uscire dal Ghetto le permette di convincere i genitori ad affidarle i bambini. E così, insieme ad altri membri della Resistenza, organizza la loro fuga: i neonati li nasconde nelle casse del suo furgone, i bambini più grandi in sacchi di juta.
Non tutti sono prelevati da quell'inferno, molti sono anche negli orfanotrofi, e Irena fornisce loro una nuova identità con nomi cristiani e li affida a famiglie e preti cattolici.
L'anno successivo è catturata dalla Gestapo: torturata, frattura di gambe e braccia (ecco perché non si alzava dalla poltrona), ma lei non rivela il segreto.
É persino condannata a morte, ma la resistenza polacca riesce a salvarla.
Permettendole di completare il suo capolavoro. Al termine del conflitto.
I nomi dei bambini sono consegnati a un Comitato ebraico, ma solo un piccolo numero si è ricongiunto alla famiglia, perché la maggior parte, comunque, ha trovato morte nei lager.
Ben presto, però, si aggiunge un altro problema, seppur meno grave.
Anche lei, la donnina eroina, è dimenticata, addirittura minacciata dallo stesso partito comunista nella quale era iscritta, fatta eccezione per il riconoscimento nel 1965 di essere una "Giusta tra le Nazioni".
Soltanto a fine anni '90 e inizio del nuovo Millennio, quando ormai Irena è molto anziana, accade quello che doveva accadere.
Nel 1999 un gruppo di studenti del Kansas scopre la sua storia e la rende nota con uno spettacolo "Life in a Jar" (La vita in un barattolo), un libro e un dvd.
Nel 2007, un anno prima di morire, è proclamata eroe nazionale dal Senato polacco, ed è addirittura candidata per vincere il premio Nobel della pace, senza però vincerlo.
La motivazione? Le sue gesta erano troppo antecedenti.

(da Bitonto, 14 ottobre 2018)



Il cantico di Maria

E Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore,
e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore,
perché Egli ha riguardato alla bassezza della sua serva.
D'ora in poi tutte le età mi chiameranno beata,
perché grandi cose m'ha fatto il Potente.
Santo è il suo nome;
e la sua misericordia è d'età in età
su quelli che lo temono.
Egli ha operato potentemente col suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha detronizzato i potenti,
e ha innalzato gli umili;
ha colmato di beni gli affamati,
e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Ha soccorso Israele, suo servitore,
ricordandosi della sua misericordia,
di cui aveva parlato ai nostri padri,
verso Abraamo e verso la sua progenie per sempre».

Dal Vangelo di Luca, cap. 1 

 


Accordo tra ONU, Siria e Israele per la riapertura del valico di frontiera

Nikki Haley, la rappresentante permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, ha dichiarato che l'ONU, Israele e la Siria hanno raggiunto un accordo sull'apertura del valico di frontiera "Quneitra" sul confine siriano-israeliano lunedì 15 ottobre, segnala la missione permanente americana.
"Le Nazioni Unite, Israele e la Siria hanno accettato di riaprire il valico di frontiera di Quneitra tra Israele e Siria sulle alture del Golan a partire dal 15 ottobre", si afferma nel comunicato.
La Haley ha sottolineato che gli Stati Uniti apprezzano l'apertura del valico di frontiera ed auspica che "sia Israele che la Siria assicureranno alle forze di pace delle Nazioni Unite il necessario accesso e le garanzie di sicurezza".
All'inizio di ottobre il generale Sergey Kuralenko, vice comandante del contingente russo in Siria, aveva dichiarato che il valico di confine di Quneitra tra la Siria ed Israele era pronto per essere aperto dalla parte siriana. In precedenza il ministro della Difesa dello Stato ebraico Avigdor Lieberman aveva dichiarato che Israele era disposta all'apertura di questo valico, l'unico punto di attraversamento ufficiale del confine con la Siria, osservando che "la palla è dalla parte della Siria".
Le condizioni per la ripresa del valico di frontiera sono emerse con il ripristino del controllo delle truppe governative sulle regioni meridionali della Siria e con il ritorno delle forze di pace delle Nazioni Unite sulla linea di demarcazione con Israele.

(Sputnik Italia, 13 ottobre 2018)


La donna che si sta prendendo la destra israeliana

Si chiama Ayelet Shaked, ha 42 anni, non è religiosa ma è molto nazionalista: si parla di una sua candidatura alle prossime elezioni.

Da diverso tempo la destra israeliana è in subbuglio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, leader del partito conservatore Likud, è coinvolto in una serie di scandali di corruzione che hanno spinto sempre di più alcuni suoi sostenitori a farsi una domanda che sembrava inconcepibile fino a poco tempo fa: Netanyahu è ancora la persona giusta per guidare il Likud alle prossime elezioni politiche, che si terranno nel novembre 2019? Per il momento la posizione prevalente sembra appoggiare l'attuale primo ministro, ma le cose - scrivono alcuni osservatori - potrebbero cambiare nel corso del prossimo anno; e c'è una donna che sta emergendo con grande efficacia nel frammentato panorama della destra israeliana. Si chiama Ayelet Shaked, ha 42 anni ed è l'attuale ministra della Giustizia del governo Netanyahu.
   Shaked è una figura politica davvero inusuale per Israele: è una degli esponenti più in vista del partito La Casa Ebraica - sionista nazionalista e molto di destra - nonostante non sia religiosa; è contraria a qualsiasi evacuazione delle contestatissime colonie israeliane in Cisgiordania, nonostante non viva in un insediamento e sia nata e cresciuta a Tel Aviv, la città più liberale di Israele. Shaked ha posizioni molto di destra praticamente su tutto: considera sia il progetto di creazione di uno stato palestinese sia gli Accordi di Oslo, quelli firmati tra governo israeliano e Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) nel 1993, una catastrofe nazionale per Israele. Ritiene che tribunali, media e mondo accademico israeliano siano tutti di sinistra e negli ultimi anni da ministra della Giustizia ha cercato di cambiare le cose.
   Il giornalista Yonit Levi ha scritto sull'Atlantic che le opinioni su Shaked sono molto contrastanti: alcuni la ammirano profondamente per la sua abilità politica, altri la considerano un pericolo per la democrazia di Israele. Quasi tutti sembrano però concordare che Shaked sia oggi il personaggio che più sta emergendo nel panorama politico israeliano.
   La cosa per certi versi più sorprendente di Shaked è l'ampio appoggio che è riuscita a ottenere dai diversi gruppi nazionalisti e religiosi israeliani, che sono spesso in competizione tra loro. Shaked ha raccontato all'Atlantic di avere avuto idee di destra fin da giovane e di essersi avvicinata al sionismo religioso durante gli anni della leva obbligatoria. Secondo Shiloh Adler, un importante leader degli insediamenti israeliani, il fatto che non venga da un particolare gruppo nazionalista-religioso ha aiutato Shaked a mantenersi lontana dalle divisioni e a farsi accettare e rispettare praticamente da tutti.
   Allo stesso tempo Shaked non è completamente estranea alla destra israeliana rappresentata dal Likud, una destra meno radicale e meno religiosa di La Casa Ebraica. Nel 2006, infatti, lavorò come manager dell'ufficio di Netanyahu, quando il Likud era un partito dell'opposizione con soli 12 seggi al Parlamento israeliano: se ne andò pochi anni più tardi quando lei e Naftali Bennett, leader di La Casa Ebraica e attuale ministro dell'Economia, si inimicarono la potente e influente moglie di Netanyahu, Sara, per motivi rimasti poco chiari.
   Alle ultime elezioni, quelle del marzo 2015, La Casa Ebraica prese solo il 7 per cento dei voti, ma l'estrema frammentazione della politica israeliana permise a Bennett e a Shaked di fare un accordo con il Likud di Netanyahu ed entrare nel governo.
   Negli ultimi tre anni la centralità di Shaked all'interno della destra israeliana è aumentata parecchio, soprattutto per alcune decisioni molto controverse che però hanno ricevuto grande appoggio dagli ambienti più conservatori d'Israele: tra le altre, le nomine sui nuovi giudici della Corte Suprema israeliana - molto conservatori e militanti - e il suo deciso appoggio alla legge sullo "Stato della nazione ebraica", una controversa norma approvata lo scorso luglio che ribadisce il carattere ebraico di Israele a discapito di quello democratico. Allo stesso tempo anche gli avversari di Shaked hanno cominciato a vederla con occhi diversi: non più solo una giovane donna senza alcuna esperienza di governo e nota per le sue «idee nazionaliste unidimensionali», ma una politica ambiziosa, pericolosa e sempre più popolare tra gli ebrei ortodossi.
   Oggi uno dei progetti politici più importanti di Shaked è l'annessione formale a Israele dell'Area C, cioè quella parte della Cisgiordania (circa il 60 per cento) che è sotto il controllo israeliano. Shaked ha detto che il piano prevederebbe l'estensione della cittadinanza israeliana a circa 100mila palestinesi che abitano i territori che sarebbero oggetto dell'annessione e che passerebbero sotto la sovranità completa di Israele: «Processi di questo tipo richiedono tempo per maturare. Oggi il piano di annessione sembra fantascienza, ma penso che lentamente e gradualmente le persone vedranno cosa sta succedendo in Medio Oriente e si renderanno conto che una cosa del genere potrebbe succedere per davvero», ha detto Shaked.
   In un articolo pubblicato su Haaretz lo scorso anno, la giornalista Allison Kaplan Sommer scriveva che Shaked sarebbe in grado di diventare la donna israeliana di maggior successo dopo Golda Meir, storica prima ministra d'Israele dell'inizio degli anni Settanta, e a diventare la seconda donna a ricoprire il ruolo di capo del governo d'Israele. Per ora Shaked ha sempre sostenuto che dovrebbe essere Bennett a prendere il posto di Netanyahu, quando l'attuale primo ministro lascerà l'incarico, ma molti credono che la popolarità raggiunta da Shaked negli ultimi anni tra gli elettori della destra israeliana potrebbe anche cambiare le cose.

(il Post, 13 ottobre 2018)


Calcio - Palestina-Israele, una sfida anche sul rettangolo da gioco

 
Nel mondo vi è una questione irrisolta che si protrae da tantissimo tempo purtroppo. Stiamo parlando della terra contesa fra israeliani e palestinesi, teatro e luogo di tensioni e violenze fra arabi ed ebrei fin dai tempi del mandato britannico, che nel 1917 pose fine a 400 anni di dominio ottomano. Con la dichiarazione di Balfour il governo inglese di Londra dichiarò di appoggiare una"patria nazionale ebraica in Palestina", sostenendo gli ideali sionisti di Theodor Herzl. La dichiarazione diede una ulteriore spinta ad un movimento di immigrazione in Palestina già in atto fra gli ebrei della diaspora, causato dalla dispersione del popolo ebraico durante i regni di Babilonia e sotto l'impero romano. Al termine della Seconda Guerra Mondiale e in seguito al tragico stermino di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti tedeschi, l'Assemblea generale dell'Onu approvò un piano di partizione della Palestina, con la costituzione di uno stato ebraico e di un altro arabo. Da qui nacque il celebre conflitto israelo-palestinese che ha delle ripercussioni violentissime tuttora nella Striscia di Gaza, territorio palestinese che confina con l'Israele e l'Egitto, nei pressi della città di Gaza. Nel 1987 inizia la prima Intifada, una ondata di violente proteste palestinesi nei territori amministrati da Israele. Da allora il conflitto ha avuto periodi altalenanti fatti di tentativi di pace che in realtà non si sono mai tramutati in realtà con la pace diventata sempre più un miraggio.
  La rivalità tra Israele e Palestina si è spostata anche sul piano sportivo e nello specifico in quello calcistico. A Novembre del 2017 vi è stato lo storico sorpasso, per la prima volta, della Palestina su Israele. Nel ranking FIFA a livello mondiale di nazionali, la Palestina è arrivata all'ottantaduesimo posto mentre Israele, a causa della mancata partecipazione ai Mondiali del 2018 in Russia, è scesa al novantottesimo posto della graduatoria. La formazione palestinese è salita in maniera esponenziale nel ranking grazie alle ottime prestazioni fornite e alle numerose vittorie ottenute in vista della Coppa d'Asia. Jibril Rajoub, il presidente della federazione palestinese ha dichiarato in proposito "Andiamo oltre le misure dell'occupante israeliano e le molestie quotidiane da parte sua". Inoltre Rajoub ha esultato per un "successo storico". La federazione israeliana ha replicato in maniera diplomatica affermando "Auguriamo a loto ogni soddisfazione", dicendosi pronti a giocare una partita amichevole con la Palestina.
  La speranza e l'auspicio per quanto concerne il futuro sono che attraverso il processo sportivo si possa cercare di agevolare almeno parzialmente un conflitto ricco di violenza, di morti e di atrocità, che dura da troppi anni ormai. Purtroppo gli ultimi avvenimenti non vanno in tale direzione. Il 9 Giugno del 2018 è stata annullata l'amichevole che si sarebbe dovuta disputare il 9 Giugno a Gerusalemme tra Israele e l'Argentina di Lionel Messi. Vi sono state tante polemiche e mobilitazioni per la gara e la nazionale argentina, minacciata anche in caso di eventuale disputa della gara, ha deciso di rinunciarvi. Il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato "Le star sudamericane hanno ceduto a chi ci odia". La federazione calcistica della Palestina ha denunciato l'uso politico e strumentale della scelta da parte della federazione israeliana di giocare a Gerusalemme invece che ad Haifa.
  Attualmente purtroppo il conflitto procede ancora con scontri e morti e per il momento anche il mondo sportivo, a differenza di altri episodi accaduti nel mondo, non riesce ad agevolare il processo di pace tra le due fazioni.

(vivoperlei.calciomercato.com, 13 ottobre 2018)


Probabili formazioni Israele-Albania: le scelte di Herzog e Panucci

Domenica 14 ottobre, al Turner Stadium, andrà in scena la sfida tra Israele e Albania, match valido per la Nations League. Ecco le probabili formazioni.

 Probabili formazioni Israele-Albania
 
Il Turner Stadium a Be'er Sheva
  Domenica 14 ottobre, al Turner Stadium, con fischio d'inizio alle 20.45, Israele sfiderà l'Albania in un match valido per la Nations League.
  La nuova competizione introdotta dalla UEFA, dunque, torna a disputarsi, con molte sfide davvero interessanti. Si tratta di partite ufficiali e non più delle solite amichevoli che generavano scarso interesse. Oggi, invece, con la nascita della Nations League, c'è il tentativo di restituire seguito alle partite della Nazionali che non riguardino esclusivamente i grandi eventi come Europei o Mondiali.

 Israele-Albania, le ultime news
  Israele si presenta alla sfida contro l'Albania con 3 punti in classifica nel Girone 1 della Lega C, frutto di una vittoria ed una sconfitta. La squadra di Herzog ha debuttato in Nations League sul campo dell'Albania, perdendo 1-0, con il gol dei padroni di casa che è stato realizzato da Xhaka. Nel secondo impegno, invece, Israele ha battuto 2-1 la Scozia tra le mura amiche, grazie al gol messo a segno da Peretz e all'autogol di Tierney.
  Anche l'Albania si presenta alla sfida contro Israele con 3 punti in classifica, frutto di una vittoria ed una sconfitta. La squadra di Panucci ha debuttato con una vittoria in Nations League, battendo 1-0 Israele grazie al gol messo a segno da Xhaka. Nel secondo match, l'Albania ha perso 2-0 sul campo della Scozia: il primo gol del match è stato un autogol messo a segno da Djimsiti, mentre la rete del definitivo 2-0 è stata realizzata da Naismith. Nel girone 1 della Lega C, dunque, c'è una situazione di grande equilibrio, con Scozia, Israele e Albania che hanno 3 punti e 2 partite disputate.

(Sportnotizie24, 13 ottobre 2018)


Odio contro gli ebrei, la storia si ripete

Lettera al direttore di Varese News

Caro Direttore,
Per l'Europa si aggira ancora una volta uno spettro che si credeva e si voleva eradicato : l'antisemitismo. Gli atti di violenza contro ebrei e contro luoghi ebraici (sinagoghe in particolare) aumentano e si verificano in quasi tutti i paesi europei. Queste infamie stanno costringendo parecchi nuclei ebraici a fuggire dall'Europa e rifugiarsi in Israele o in USA.
   L'ebreo viene di nuovo indicato da fascisti e comunisti come il nemico da combattere a causa della sua avidità e del suo potere economico mondiale. A queste infami accuse si aggiunge l'odio per Israele indicato come corpo estraneo e stato razzista in un Medio Oriente che non lo vuole e del quale non farebbe parte in alcun modo. Gli ebrei in quanto amici di Israele sono quindi da combattere in tutti i modi. Si tratta di una nuova forma di Shoah. . Viene pubblicato ancora un falso documento dal titolo "Protocolli dei Savi di Sion o degli Anziani di Sion.
   Si tratta di un falso documento creato dall'Okhrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo. Fu realizzato nei primi anni del XX secolo nella Russia imperiale, in forma di documento segreto attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe impadronirsi del mondo. In Italia si ricordano le infami leggi razziali volute fortemente da Mussolini e firmate da un re fellone, leggi emanate 80 anni or sono. Gli italiani le subirono, le accettarono, le respinsero? Come al solito vi fu chi le respinse e continuò a considerare gli ebrei come amici e compatrioti, ma vi furono tanti, troppi, che le accettarono e le applicarono respingendo chi fino al giorno prima era stato amico, compagno di scuola, socio in affari o in studi professionali.
   Durante l'occupazione nazista molti nascosero ebrei, li aiutarono a fuggire, rischiando la vita. Ma altrettanti vilmente li denunciarono condannandoli ad una morte atroce nei lager nazisti, per odio, viltà, denaro. Piero Suber ha prodotto un documentario "1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani". Suber ha intervistato vittime, ma anche delatori.
   Sarebbe, a mio parere, necessario e utile proiettarlo in tutte le scuole di ogni ordine e grado, e in tale occasione, proporre una chiara e sincera discussione sul dramma di chi a causa di queste leggi vergognose si trovò da un giorno all'altro senza amici, senza lavoro, senza identità. Erano italiani ebrei, poi furono solo ebrei e come tali furono trattati dal fascismo e successivamente dai nazisti.
   Cordiali Saluti, da un amico di sempre del popolo ebraico
Dr CM Passarotti, Gallarate

(Varese News, 13 ottobre 2018)


Israele: cacciatorpediniere USA attracca ad Ashdod

Netanyahu visita il cacciatorpediniere
USS Ross nel porto di Ashdod
Il cacciatorpediniere USS Ross, una nave da guerra della Marina statunitense, ha attraccato nel porto di Ashdod, città israeliana mediterranea situata nel Distretto Meridionale del Paese, a circa 70 chilometri da Gerusalemme, lunedì 8 ottobre. Tale evento, il primo del genere in quasi 20 anni, è stato salutato dai funzionari statunitensi e israeliani come un segno della profonda e rafforzata alleanza tra i due Paesi di fronte ad avversari comuni, ma risponde altresì a interessi securitari per Israele e strategici per gli Stati Uniti.
   La visita dello USS Ross nel porto di Ashdod è un evento raro, dal momento che le navi delle Marine straniere che devono attraccare in Israele generalmente preferiscono il porto di Haifa, importante centro industriale e portuale, situato nel nord del Paese. Pertanto, la scelta di Ashdod come porto di attracco da parte della Marina statunitense ha un significato importante, tanto sul versante israeliano, quanto su quello americano.
   Sul versante israeliano, il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha espresso soddisfazione in merito all'arrivo della nave americana ad Ashdod. "Questa visita ha un significato. Simboleggia la profonda alleanza tra Israele e gli Stati Uniti", ha dichiarato Netanyahu, parlando dal ponte della nave insieme alla moglie e all'ambasciatore americano in Israele.
   Il Paese mediorientale vede la presenza delle navi da guerra americane come una garanzia contro le minacce derivanti dall'Iran, da Hezbollah e dalla Palestina. Al rischio per la sicurezza di Israele derivante dalla presenza di truppe iraniane in Siria Netanyahu ha fatto espresso riferimento. "Siamo determinati a difenderci dal trinceramento militare iraniano in Siria. Il presidente Trump ha dato pieno sostegno a questa nostra politica e il fatto che questo cacciatorpediniere sia giunto qui oggi è un'espressione di tale sostegno", ha spiegato il leader israeliano.
   Tuttavia, il Paese e, in particolare, Haifa per ragioni di vicinanza geografica, temono altresì i razzi di Hezbollah, l'organizzazione paramilitare sciita libanese che alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, considerano un gruppo terroristico. Del resto, il Partito di Dio, traduzione della parola araba Hezbollah, è nato nel 1982 proprio come movimento di resistenza contro l'occupazione israeliana del Libano meridionale. Nel tempo, si è evoluto in un partito politico locale ma i rapporti con Israele sono rimasti cattivi. L'ultimo conflitto armato tra le due parti risale al secondo conflitto israelo-libanese, scoppiato il 12 luglio 2006 e terminato il 14 agosto dello stesso anno. In anni più recenti, tuttavia, i contingenti militari israeliani hanno ripreso a bersagliare depositi di armamenti dell'organizzazione in Siria, dove il gruppo combatte dal 2013 in supporto del regime di Bashar al-Assad, al fianco di Russia e Iran, il cui sostegno ha consentito una crescita significativa della sua ala paramilitare.
   Infine, Israele e, in particolare, Ashdod, di nuovo per ragioni di vicinanza geografica, temono i razzi palestinesi dalla Striscia di Gaza, il territorio gestito dall'organizzazione politica e paramilitare palestinese di Hamas, considerata da alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, un gruppo terroristico. Hamas, del resto, è nata nel 1987 come braccio operativo del movimento egiziano dei Fratelli Musulmani per combattere con atti terroristici lo Stato Ebraico nell'ambito della Prima Intifada, la prima sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano.
   Sul versante americano, invece, il portavoce del comandante della Sesta Flotta statunitense, Kyle Raines, non ha menzionato alcuna minaccia specifica ma ha dichiarato che la visita in porto dello USS Ross "rafforza la solida e duratura collaborazione tra le nostre due Nazioni". Un comunicato diffuso dalla Sesta Flotta sottolinea che visite navali come quella dello USS Ross ad Ashdod "illustrano la stretta cooperazione tra gli Stati Uniti e Israele", dimostrano il loro "obiettivo condiviso di garantire la stabilità in Medio Oriente" e "contribuiscono alla sicurezza regionale nell'area operativa del Mediterraneo orientale". La Sesta Flotta statunitense è un ramo della Marina americana stanziato principalmente nel Mar Mediterraneo, ma operativo anche nell'Atlantico occidentale, nei mari circostanti il continente africano e nei mari del nord Europa. L'arrivo del cacciatorpediniere USS Ross ad Ashdod, pertanto, potrebbe segnalare l'interesse di Washington per l'ampliamento delle opzioni di attracco per la Sesta Flotta.

(Sicurezza Internazionale, 13 ottobre 2018)


Dal ghetto di Roma ad Auschwitz

A Ulisse il tragico percorso di morte di migliaia di ebrei. Focus sul rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto il 16 ottobre di oltre settant'anni fa.

di Rossella Pastore

 
Alberto Angela racconta il rastrellamento e lo sterminio nazista
Un viaggio senza ritorno, quello di donne, bambini e uomini ebrei costretti a lasciare Roma a seguito dei rastrellamenti. Il tragico anniversario cade il 16 ottobre prossimo: sono trascorsi 75 anni dalla cattura nel ghetto della Capitale, cui seguì la partenza del convoglio verso Auschwitz e altri campi di sterminio. Questa sera, Alberto Angela ripercorre a Ulisse il percorso di morte di migliaia di persone. L'appuntamento è alle 21.25 su Rai 1: ospiti della puntata, Sami Modiano e la neosenatrice a vita Liliana Segre. Allora erano bambini: entrambi scamparono alla razzia per pura fatalità o grazie all'aiuto di qualche sodale non ebreo. Con loro c'erano zingari, omosessuali, oppositori del regime che subirono la stessa sorte. Pochi scamparono alla cattura, e ancora meno sopravvissero all'orrore di Auschwitz. Liliana Segre salì a bordo di un treno merci al binario 21 della stazione di Milano. Similmente, Sami Modiano partì su un battello salpato a Rodi e usato fino a quel momento per il trasporto del bestiame.

 Olocausto, la macchina della morte
  La loro storia converge in più punti: furono ben sei milioni gli ebrei europei sterminati dai nazisti. Il luogo-simbolo della Shoah è il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. È da lì che Alberto Angela racconta l'olocausto, in un triste reportage tra Germania e Polonia. I reduci dal viaggio vivevano in condizioni disumane. La situazione era critica per tutti, tanto più per i più deboli, che all'arrivo nel campo erano destinati alle camere a gas. "Lo dicono cieco, ma l'odio ha la vista acuta di un cecchino", scriveva la poetessa polacca Wislawa Szymborska. L'assunto vale in particolar modo per gli ebrei: i nazisti, spietati e calcolatori, studiavano nei minimi dettagli le strategie di morte della loro macchina (im)perfetta.

 Da Auschwitz a Berlino
  Per concludere, le telecamere di Ulisse faranno tappa a Berlino. La capitale tedesca fu centro sistemico dell'assurdo progetto di Hitler. La genesi della "soluzione finale" è da ricercarsi proprio nella dimora del Führer, in quella città dal passato difficile che più di tutte ne ha sofferto. Ancora oggi, Berlino fa da sfondo a monumenti e musei ispirati allo sterminio, come il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa e il Museo ebraico. Nel centro informativo visitato da Ulisse, spicca un aforisma di Primo Levi: "È accaduto, quindi può accadere di nuovo", si legge. Un promemoria quanto mai appropriato per tutta l'umanità.

(ilsussidiario.net, 13 ottobre 2018)


Striscia di Gaza: di cosa ha paura Israele?

In Israele crescono le critiche al Governo per la "cattiva" gestione delle violenze lungo il confine con la Striscia di Gaza e sempre più persone chiedono un intervento armato definitivo contro Hamas.

ISRAELE - Striscia di Gaza (Rights Reporter). Ieri è stato l'ennesimo venerdì di follia a causa di quella che i palestinesi chiamano "marcia del ritorno", in realtà una vera e propria strategia di sfinimento che vorrebbe spingere Israele verso un conflitto vero e proprio con Hamas.
Il fatto più grave è avvenuto quando circa 20 terroristi palestinesi hanno prima piazzato un ordigno lungo la barriera di confine e poi, una volta fatto esplodere e aperto un varco, si sono introdotti in Israele con l'intenzione di rapire un soldato israeliano. A quel punto l'IDF ha reagito uccidendo tre terroristi che erano quasi arrivati ad una postazione del IDF e messo in fuga gli altri...

(Rights Reporters, 13 ottobre 2018)


Ben Gurion sbaglia la profezia nella tipografia dei pionieri sionisti

La Grande Guerra vista da un ufficetto di Gerusalemme, in un viavai di ideologi, utopisti, strateghi. Nella Palestina, che è parte dell'Impero Ottomano, gli ebrei russi sono diventati "nemici".

di Elena Loewenthal

E' straordinaria, la galleria di personaggi che il lettore incontra e pian piano conosce come un parente prossimo, come un amico fidato, nel primo romanzo della trilogia su Gerusalemme pubblicata da Aharon Reuveni nel 1919, della quale esce ora in traduzione italiana la prima parte, con il titolo In principio, confusione e paura (nella traduzione dall'ebraico di Luca Colombo). Volti e storie si avvicendano in queste pagine, creando un affresco che non ha nulla di statico: tutto è sempre in movimento, tutto sta cambiando.
   Quando in Europa scoppia la Prima Guerra Mondiale, infatti, il progetto sionista sta prendendo forma, è carico di ideali e slancio attivo. Ma è chiaro sin dall'inizio che quanto sta succedendo al di là del Mediterraneo cambierà ben presto e radicalmente le cose in Palestina, che a quell'epoca è ancora una pigra e marginale provincia del grande Impero Ottomano: ha i giorni contati. Le cose sono come sempre ancor più complicate per gli ebrei, i sionisti che, provenendo in gran parte dalla Russia, sono automaticamente diventati cittadini di un paese nemico.
   Che fare, dunque? Non bastavano i problemi interni al movimento di risorgimento nazionale ebraico, a rendere la vita una faccenda complicata? Come spesso è capitato negli ultimi duemila anni, i figli d'Israele si trovano di fronte alla necessità di prendere decisioni difficili. Alcuni di loro lasciano il paese. La maggioranza decide di restare, di stare a vedere che succede. Nel frattempo, si lavora, si discute. Il protagonista del romanzo di Reuveni, ad esempio, si chiama Aharon Tziprovitch, lavora in una tipografia ebraica che pubblica a Gerusalemme un giornale sionista-socialista. Lui sarebbe anche «intellettualmente dotato», ma si tiene sempre in disparte, durante !e discussioni dei veri sionisti. E una creatura che ha fatto della marginalità la propria cifra esistenziale. Assiste al crescere dell'incertezza per tutti: la guerra in Europa imperversa, presto tutto cambierà anche a Gerusalemme e nel mondo ebraico di Palestina. Ma, come tanti altri eroi della letteratura ebraica e contemporanea, anche Aharon preferisce, o meglio si trova costretto, a stare in disparte dalla grande storia, e provare a tirare avanti. Già è difficile così, con tutte le avversità che lo incalzano, e poi ci si mette pure una fidanzata che si chiama Menia, è infermiera di mestiere ed è fin troppo determinata. Lei sì che sa quello che vuole.
   Ma In principio, confusione e paura è tutt'altro che un romanzo esistenziale. Reuveni ha un talento straordinario nel narrare sempre un mondo e mai soltanto dei personaggi. E così, proprio come Aharon dal suo loculo-ufficio, anche noi finiamo per trovarci in quella posizione appartata che se per il nostro eroe (si fa per dire) è la macchia di un'emarginazione sociale e culturale, per il lettore diventa uno sguardo privilegiato su quel mondo fatto di ideologi e utopisti, strateghi e rivoluzionari. Molti dei personaggi che compaiono in tipografia, che vanno e vengono per Gerusalemme, sono ispirati quando non calcati su figure storiche: Ghivoni, ad esempio, è Ben Gurion, che propugna la necessità di una «Turchia forte perché solo all'interno di un grande Impero ottomano, che comprende al suo interno molti popoli, tribù, ed etnie, c'è posto anche per noi e per il nostro futuro». Di lì a poco la storia gli darà torto, ma qualcuno dei suoi colleghi lo attacca già qui nel romanzo, dove tutto è sapientemente giocato fra l'atmosfera fumosa e angusta della tipografia e gli spazi aperti di Gerusalemme.
   Reuveni sarà davvero una scoperta per il lettore italiano, anche per quello più in confidenza con la grande letteratura ebraica contemporanea, da Agnon ad Amos Oz e Etgar Keret. Nato in Ucraina nel 1886, Reuveni ebbe una vita alquanto movimentata, se non altro in senso geografico: deportato in Siberia dalle autorità zariste, riesce a un certo punto a fuggire in Giappone. Viaggia a lungo per l'Estremo Oriente, per qualche mese fa il traduttore alle Hawaii. Approda in Palestina nel 1910. Inizia a scrivere durante la Grande Guerra, è da subito attivo nel movimento sionista, ma quasi sempre entra in conflitto con il pensiero dominante. Tuttavia non si può non definirlo uno dei padri della patria, tanto in senso letterario quanto in quello politico. Suo fratello Ben Tzvi diventerà il secondo presidente dello stato d'Israele.
   In Principio, confusione e paura è in sostanza una lettura imprescindibile per chi vuol capire quella storia, politica e intellettuale. E' prima ancora, un romanzo avvincente e malinconico, pieno di vita.

(La Stampa, 13 ottobre 2018)


Consiglio di Stato: non possono essere le leggi razziali a decidere oggi se una persona è ebrea

di Antonello Cherchi

I benefici riconosciuti dallo Stato agli ebrei perseguitati dal fascismo non possono essere accordati rifacendosi alle leggi razziali, come invece riteneva di fare la Presidenza del consiglio e il ministero dell'Economia. Lo ha affermato con una sentenza sintetica ma assai chiara il Consiglio di Stato.

 Il caso
  Tutto nasce dal ricorso di una signora che, bambina di quattro anni all'epoca dei fatti, aveva dovuto dividersi dal padre perché quest'ultimo, medico ebreo all'Ospedale Le Molinette di Torino, era stato costretto a lasciare il lavoro e fuggire. L'allora bambina aveva vissuto con la madre italiana, della quale aveva adottato il cognome, abbandonando quello paterno. In anni a noi più vicini, la signora aveva chiesto allo Stato di poter ricevere i benefici riservati ai perseguitati dal fascismo. La Presidenza del consiglio glieli aveva, però, negati sostenendo che non risultava che all'epoca delle leggi razziali l'interessata fosse stata considerata dall'apparato statale come appartenente alla razza ebraica e che, dunque, fosse stata oggetto di persecuzione.

 I ricorsi
  La signora non si è data per vinta e ha presentato ricorso al Tar Lazio, che le ha dato ragione. Palazzo Chigi e il ministero dell'Economia, però, sono convinti delle loro ragioni e si appellano al Consiglio di Stato. Per i giudici della quarta sezione di Palazzo Spada (decisione 5896/2018, presidente Filippo Patroni Griffi, relatore Daniela Di Carlo) non ci sono dubbi: la disposizione che ha riconosciuto i benefici ai perseguitati dal regime «scolpisce in maniera netta il significato da dare al concetto di "ebraicità" del soggetto richiedente, che è legato all'origine dello stesso richiedente e non al possesso di ulteriori (e non previsti dalla legge) requisiti».

 Le leggi razziali
  Dunque, la pretesa della Presidenza del consiglio e dell'Economia di legare l'"ebraicità" di una persona a quanto stabilito dalle leggi razziali (il regio decreto legislativo 1728 del 1938, che considerava di razza ebraica chi, tra l'altro, «appartenga alla religione ebraica o sia, comunque, iscritto a una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo») è «un'operazione logico-giuridica scorretta».

 Non si può guardare al passato
  E questo per due motivi: perché la legge 17 del 1978, che ha esteso i benefici anche ai perseguitati ebrei, è «perfettamente auto-applicativa» e non ha bisogno di altri puntelli normativi, tanto più se vecchi di 80 anni e ormai cancellati dal sistema legislativo. Inoltre, perché «è irragionevole e sproporzionata la pretesa dell'amministrazione di far dipendere (in senso sfavorevole al richiedente) i l possesso di un requisito per l'accesso a un beneficio di legge, dall'applicazione di una norma razziale lesiva dei diritti fondamentali della persona e, soprattutto, rispetto alla quale le leggi post-razziali (...) hanno inteso porre rimedio . Viene tradito, nella sostanza, lo spirito stesso della nuova disciplina».

 Per l'origine ebraica non conta la religione
  Insomma, la signora era indiscutibilmente di origine ebraica e lo ha ampiamente provato. E questo a prescindere dal fatto che avesse o meno abbracciato la religione ebraica o fosse formalmente iscritta alla comunità ebraica. Elementi, questi ultimi, che è «ben strano» richiamare oggi, tanto più se si considera - conclude il Consiglio di Stato - che all'epoca delle leggi razziali erano considerati «indice di disvalore giuridico solo laddove sussistenti e non, invece, mancanti».

(Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2018)



Leader di Hamas: stiamo cercando un'intesa con Israele

GERUSALEMME - Il movimento palestinese Hamas sta cercando di raggiungere un'intesa con Israele. Lo ha detto oggi il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nel corso di una conferenza sull'islam a Istanbul. "Stiamo lavorando con un numero di parti, compreso l'Egitto, il Qatar e le Nazioni Unite, nel tentativo di raggiungere un intendimento che romperà l'assedio", ha affermato Haniyeh. Per il numero uno di Hamas, "l'intesa potrebbe portare alla calma in cambio della rimozione del blocco", imposto da Israele sulla Striscia di Gaza dal 2007, proprio quando il movimento ha assunto il potere nell'enclave. Infine, Haniyeh ha precisato che "la calma non deve essere raggiunta a scapito della riconciliazione palestinese". Il riferimento è alla mediazione di alcuni attori regionali per la riconciliazione tra i due principali partiti palestinesi: Hamas e Fatah. Quest'ultimo, anima dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), ha criticato la possibile intesa tra Hamas e Israele, affermando che il movimento che amministra Gaza non ha l'autorità per raggiungere accordi con altri Stati.

(Agenzia Nova, 12 ottobre 2018)


Un attentato diverso dagli altri in Israele

La settimana scorsa un uomo palestinese ha ucciso misteriosamente due civili israeliani nell'insediamento di Barkan, e da allora sembra scomparso senza lasciare tracce.

Domenica scorsa un uomo palestinese ha ucciso due civili israeliani sparando loro con una mitragliatrice all'interno dell'insediamento di Barkan, in Cisgiordania. Lo sparatore è stato identificato come il 23enne elettricista Ashraf Na'alowa. Per molti versi sembra un attentato terroristico come molti altri, da quelle parti, ma il caso ha una particolarità che lo rende notevole: Na'alowa è scappato senza lasciare tracce. I palestinesi che compiono un attacco terroristico vengono spesso uccisi sul posto - a volte anche dopo che sono stati neutralizzati - oppure catturati in breve tempo grazie alla conoscenza capillare del territorio e dei gruppi armati palestinesi da parte delle forze israeliane. Stavolta non è successo, e da sei giorni le forze di sicurezza israeliane stanno conducendo una imponente "caccia all'uomo", come raramente si vede in territorio israeliano.
   La ricerca di Ashraf Na'alowa è complicata per diversi motivi. Non apparteneva ad alcuna fazione politica o militare, non ha diffuso alcuna rivendicazione e durante l'attentato non ha urlato frasi che facciano pensare a motivazioni religiose. Come molti altri palestinesi, Na'alowa lavorava all'interno del complesso industriale dell'insediamento, ma non è chiaro se l'attacco sia legato al suo lavoro o alle condizioni dei suoi colleghi. Fra l'altro, gli investigatori israeliani non hanno ancora capito come abbia fatto a portare una mitragliatrice all'interno del complesso industriale dell'insediamento.
   Poco dopo l'attacco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato che Na'alowa sarebbe stato presto arrestato, ma da allora sono passati diversi giorni e di lui non si sa ancora niente. Giovedì mattina l'esercito israeliano aveva arrestato una delle sue sorelle, ma non è ancora chiaro se abbiano degli elementi che la leghino all'attacco.
   Secondo una fonte di Al Monitor, alle ricerche stanno collaborando anche le forze di sicurezza palestinesi, controllate dal partito moderato Fatah, altra cosa non scontata. I palestinesi hanno buone ragioni per collaborare: nel complesso industriale di Barkan lavorano più di tremila palestinesi, che potrebbero essere danneggiati da eventuali restrizioni imposte dagli israeliani. Il complesso industriale è citato da alcuni come un esempio di pacifica convivenza fra lavoratori israeliani e palestinesi, mentre per altri dimostra soltanto il bisogno di numerosa manodopera a basso costo da parte da parte dell'industria tecnologica israeliana. Prima dell'attentato della scorsa settimana, comunque, a Barkan non c'erano mai stati attacchi o episodi di violenza paragonabili a questo.
L'attentato è stato fonte di imbarazzo anche per le forze di sicurezza israeliane, e un brutto colpo per un approccio che finora si era rivelato efficace. Scrive Al Monitor:
La linea era stata tracciata dal capo di gabinetto dell'esercito, dall'ex coordinatore delle attività nei territori palestinesi e dall'intelligence interna israeliana, e si basava su una sola premessa: non era praticamente mai successo che un palestinese dotato di un permesso di lavoro facesse un attentato. Questa premessa ha permesso ai servizi di sicurezza israeliani di convincere i politici - soprattutto quelli di estrema destra che siedono al governo - a non scombinare più di tanto la vita dei palestinesi [che lavorano negli insediamenti israeliani], la loro libertà di movimento e il rilascio di nuovi permessi.
Non è ancora chiaro se il governo stia pensando a restrizioni o maggiori controlli per i palestinesi che lavorano negli insediamenti. Nel frattempo, le ricerche di Na'alowa stanno continuando: parlando col Times of Israel, alcuni funzionari israeliani hanno detto che potrebbe aver lasciato un messaggio suicida e che l'esercito si sta preparando a un'eventuale sparatoria nel caso dovesse trovarlo.

(il Post, 12 ottobre 2018)


Crisi dei rapporti russo - israeliani?

di Riccardo Lancioni

L'abbattimento del Il-20 da ricognizione lo scorso 17 settembre è stato un evento grave. Dopo la perdita di un aereo e soprattutto di 15 militari la postura russa nel teatro siriano non poteva non cambiare. Putin ha smorzato i toni dopo la prima furente dichiarazione del ministro Shoigu ma nonostante le migliori intenzioni del presidente si è verificata una rottura tra Russia e Israele. Su Rossija 1, tv di stato moscovita, si reputano insincere e non convincenti le giustificazioni israeliane. L'area già travagliata dalla guerra civile rischia ora di divenire lo scenario di un confronto russo-israeliano che si era cercato per anni di evitare.

 La risposta del Generale
  La realtà nel teatro siriano è molto complessa. Israeliani, statunitensi, francesi e inglesi hanno dato prova di poter colpire ovunque con armi stand-off senza timore di ritorsioni. Il Generale Sergei Kuzhugetovich Shoigu, ministro della difesa della Federazione Russa, ha deciso di modificare gli equilibri di teatro giustificandosi con la recente perdita. Non vi sono dubbi riguardo l'appoggio presidenziale alle iniziative dei militari ma Putin ha scelto di non farsi carico personalmente, almeno a livello d'immagine, di tali responsabilità. La prima e più immediata mossa, è stata procedere al jamming dei radar, dei sistemi di navigazione e di comunicazione satellitare di qualsiasi velivolo, che si trovi nello spazio aereo siriano o nel Mediterraneo nord orientale diretto ad effettuare strike in Siria. Non bisogna sottovalutare l'importanza di questa misura di guerra elettronica infatti le forze russe possono limitare molto l'efficacia delle aviazioni alleate grazie a questo strumento. Di gran lunga più importante a livello strategico è però la concessione ad Assad del sistema S-300. Il complesso missilistico è tecnologicamente allo stato dell'arte e garantisce la difesa anti-aerea e anti-missile a lungo raggio. Secondo il ministro della difesa di Mosca i siriani sono equipaggiati con il sistema di controllo fuoco e identificazione friend/foe attualmente in uso nelle unità russe e mai esportato prima. Tale gesto è una rarità nella condotta di affari all'estero da parte di Mosca che ha spesso venduto armamenti ad uno standard tecnologico inferiore, e a volte di molto, a quello delle proprie forze armate. Già i complessi anti-aerei Pantsir S1 per la difesa a corto raggio avevano aumentato le capacità difensive di Damasco ma ora con un sistema tanto potente e avanzato gli si permette non solo di contrastare sciami di missili cruise ma anche di colpire aerei nemici a grande distanza. Shoigu ha concluso il suo breve secondo comunicato dicendosi fiducioso che le misure prese contribuiranno a tenere più al sicuro il personale militare russo calmando le "teste calde", non lasciando dubbi sul destinatario.

 Uno scacco a Israele?
  Quali sono le reali prestazioni degli S-300? Capaci di colpire aerei e missili nemici a più di 240 km una batteria schierata nei pressi di Damasco potrebbe ingaggiare bersagli ben oltre Nazareth, il lago di Tiberiade in quasi tutto il nord di Israele. Per la IAF il cielo siriano non sarebbe più un'area di semi-libero sorvolo e strike ma piuttosto proprio gli aerei con la stella di Davide verrebbero individuati e potenzialmente abbattuti ben al di qua dei propri confini nazionali. Limitazioni operative totalmente inaccettabili per lo stato ebraico. Il 10 febbraio scorso si verificò l'abbattimento di un F-16 israeliano da parte della contraerea siriana, in tale occasione il ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman, aveva dichiarato: "Se qualcuno spara ai nostri aerei noi li annienteremo". Parole che vennero seguite da una notte di raid israeliani in tutta la Siria, particolarmente importanti furono le missioni di Suppression of Enemy Air Defences (SEAD). Eventi che visti in prospettiva fanno prevedere un'automatica e soverchiante risposta nel caso aerei israeliani vengano nuovamente ingaggiati dai siriani. Gli F-35 potrebbero essere la migliore risorsa di Israele contro gli S-300 in virtù della loro quasi nulla tracciabilità radar ma le missioni di SEAD sono sempre molto rischiose e con l'elettronica disturbata dai russi tali costosissimi aerei verrebbero a trovarsi in seria difficoltà.

 Cosa può succedere
  John Bolton, National Security Advisor di Trump, ha definito la consegna ai siriani del sistema russo una "significant escalation". Uno scontro è possibile, se non probabile, e Mosca sa di non poterselo permettere, per quanto concerne la scarsa capacità russa di alimentare un grande sforzo all'estero. Consegnare armi tanto potenti ad un attore come Assad sembra dunque una mossa folle. Un precedente storico potrebbe però fornire una chiave di lettura degli eventi così da non lasciarsi ingannare dalle apparenze. Durante la guerra d'attrito, 1967-1970, erano i "consiglieri" sovietici ad azionare i radar e i missili dell'esercito egiziano. Uno stratagemma che potrebbe rivelarsi altrettanto efficace al giorno d'oggi. Il Cremlino dunque controllerebbe direttamente gli S-300, decidendo quando e se ingaggiare gli aerei alleati ma assicurandosi allo stesso tempo la possibilità di negare il proprio coinvolgimento nell'azione e scaricando ogni responsabilità sui male addestrati siriani già colpevoli per l'abbattimento dell'Il-20. Non vi sono dubbi sulla pericolosità di un tale approccio da parte di Mosca infatti per quanto i missili si trovino già in Siria passerà ancora del tempo prima che diventino operativi.
  I leader dei due paesi sanno che per i rispettivi interessi strategici è vitale non ostacolarsi vicendevolmente e in ultima analisi risulta più probabile che la mossa russa sia volta a ristabilire la propria autorevolezza e non a sgretolare i buoni rapporti con Israele. È infatti vitale per il Presidente Putin mantenere alta la credibilità delle proprie forze armate soprattutto nel teatro siriano dove da esse dipende il mantenimento al potere di Bashar al-Assad. Per Netanyahu è invece necessario lo spazio aereo di Damasco per colpire gli iraniani e le loro basi nel paese, da qui la volontà reciproca di arrivare a "colloqui in tempi brevi" come annunciato negli ultimi giorni.

(Geopolitica, 11 ottobre 2018)



Inviato Onu per la pace in Medio Oriente persona non gradita ad Abu Mazen

“Mladenov ha ecceduto nel suo ruolo sull’intesa Hamas-Israele”

Nikolai Mladenov
L'inviato dell'Onu per la pace in Medio Oriente Nikolai Mladenov "non è più persona gradita" per i palestinesi. Lo ha detto il membro dell'esecuto dell'Olp Ahmad Majdalani confermando così ufficialmente le notizie sulla crescente opposizione palestinese al rappresentante Onu a causa della sua attività a favore di un "accordo tra Hamas e Israele".
Il rappresentante dell'Olp - citato dai media palestinesi - ha spiegato che della vicenda è stato informato lo stesso Segretario generale dell'Onu Antonio Guterres.
Mladenov, secondo Majdalani, lavorando per un'intesa tra Hamas e Israele, con mediazione egiziana, ha "ecceduto nel suo ruolo" mettendo a rischio "la sicurezza nazionale palestinese e l'unità del popolo palestinese". Il presidente Abu Mazen ha più volte detto di essere contrario a trattative indirette che non coinvolgano il governo dell'Autorità nazionale palestinese, l'unico ad essere riconosciuto internazionalmente. Al momento non si hanno reazioni da parte dello stesso Mladenov o dell'Onu.

(ANSAmed, 12 ottobre 2018)


«Negazionisti alla Camera». Lo Stato ebraico solleva il caso

La comunità ebraica di Roma insorge e l'ambasciatore israeliano Ofer Sachs consegna a una nota durissima il suo disappunto dopo l'audizione, in Commissione Esteri della Camera, di membri di un Istituto di studi iraniano accusato di ispirarsi alle tesi che negano la Shoah. «Un episodio inaccettabile», lo ha definito Sachs, secondo il quale «il Parlamento italiano simbolo della democrazia del Paese non può ospitare chi promuove idee negazioniste, antisemite e antisioniste». Un «fatto di una gravità inaudita» per la Comunità ebraica.
   La presidente della Commissione Esteri Marta Grande (M5S) difende la scelta, precisando che le audizioni hanno «finalità esclusivamente conoscitive» e «in nessun modo equivalgono a prese di posizione passive a favore delle tesi di chi è audito». Non è affatto dello stesso parere la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, che parla di «una grave sottovalutazione»: «Penso che la commissione Esteri non avrebbe dovuto dare spazio alcuno agli esponenti di una organizzazione iraniana che in passato ha già avuto accenti negazionisti e antisemiti». Anche il vicepremier Matteo Salvini invita ad una maggiore prudenza: «Da noi vige la separazione dei poteri ed il Parlamento ha le sue prerogative che naturalmente rispetto. Detto questo non si scherza sulla Shoah». Nei giorni scorsi alla Camera erano state approvate cinque mozioni contro l'antisemitismo.

(Corriere della Sera, 12 ottobre 2018)


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Israele si indigna per gli iraniani alla Camera

Carfagna: «Chiederò al presidente Fico come sia potuta accadere una cosa simile»

di Gabriele Carrer

Ha fatto rumore il caso, raccontato mercoledì (e prima di tutti) dalla Verità online, della delegazione iraniana invitata quel giorno a parlare in commissione Esteri della Camera.
   Mentre si celebrava la giornata mondiale contro la pena di morte, in Parlamento veniva data la parola a rappresentanti dello Stato che nel 2017 ha eseguito più della metà delle condanne a morte nel mondo. A preoccupare la comunità ebraica e l'ambasciata israeliana a Roma è stata la presenza di Morteza Damanpak Jami e Ali Reza Bikdeli, rispettivamente vicepresidente e membro vicepresidente dell'Institute for political and international studies, il centro studi di Teheran che nel 2006 organizzò nella capitale iraniana una conferenza sul negazionismo dell'Olocausto con ospite David Duke del Ku Klux Klan.
   L'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, ha condannato l'episodio definendolo «inaccettabile» e sottolineando che, «se sul tema dell'accordo nucleare è possibile non condividere una comune visione, ciò su cui non ci si può invece dividere è sulle invettive della Repubblica islamica contro Israele e il suo diritto a esistere pronunciate durante l'audizione». Infatti, come riportato dal nostro giornale, la delegazione iraniana ha attaccato duramente lo Stato ebraico davanti ai membri della commissione. Bikdeli ha avvertito i membri della commissione che «ci sono stati molti errori dopo il primo errore, che è stato la creazione di Israele». Di quest'audizione informale trasmessa sulla web tv della Camera però, stranamente, non c'è il resoconto stenografico della commissione. Come se si preferisse non lasciar traccia negli archivi.
   La scorsa settimana la Camera aveva votato una serie di mozioni per contrastare le vecchie e nuove forme di antisemitismo. Proprio per questo la Comunità ebraica di Roma ha parlato di «un fatto di una gravità inaudita», aggiungendo che il Parlamento, simbolo della democrazia in Italia, «dovrebbe servire per promuovere i valori di libertà e rispetto e non fornire accoglienza a chi nega la storia».
   Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, si rivolgerà alla presidente della commissione Marta Grande e al presidente della Camera Roberto Fico «per capire come sia potuta accadere una simile grave sottovalutazione» della presenza della delegazione iraniana alla Camera. Altri due forzisti sono intervenuti: Alessandro Cattaneo ha parlato di «fatto grave» mentre, Andrea Orsini, che è anche membro della commissione, ha spiegato di non aver ritenuto opportuno partecipare all'incontro, «in contraddizione con l'impegno tante volte ribadito dalla Camera contro l'antisemitismo». Lucio Malan, forzista e presidente dell'associazione interparlamentare di amicizia Italia-Israele, ha condannato il fatto che la Camera sia stata sfruttata dagli iraniani per «lanciare prevedibili minacce contro gli Usa, Israele e i Paesi occidentali, minacce che hanno incluso anche il possibile proseguimento dello sviluppo di armi nucleari».

(La Verità, 12 ottobre 2018)


L'attore ebreo e la reporter araba: il matrimonio che turba Israele

Sposi in segreto, minacce dagli estremisti. Lui star della serie tv, lei celebre giornalista: da quattro anni si amano in segreto.

di Davide Frattini

 
Tzachi Halevy e Lucy Aharish
GERUSALEMME - Ha imparato l'arabo in famiglia - padre di origine marocchina, madre yemenita - e ha dovuto perfezionare la parlata palestinese quando è stato arruolato nel Duvdevan, l'unità speciale che opera sotto copertura in Cisgiordania. Gli stessi raid che ha interpretato davanti alle telecamere nella serie tv Fauda.
   L'attore Tzachi Halevy ha voluto mantenere clandestina anche l'ultima missione: sposare la giornalista televisiva Lucy Aharish. Lui ebreo, lei musulmana. La cerimonia di mercoledì sera è rimasta segreta fino a dopo il sì, perché la coppia immaginava quel che è successo all'annuncio pubblico: proteste della destra al governo in Israele, rischio di minacce tra gli estremisti arabi. Tzachi e Lucy sono stati fidanzati per quattro anni, lo sapevano solo pochi amici e i parenti, adesso rappresentano le prime celebrità israeliane a formare una famiglia, l'unione - non hanno alternativa - è civile. La notizia è stata divulgata dal presentatore Guy Pines nel suo programma serale, uno dei primi condotti da Lucy. Anche la rivelazione è stata gestita attraverso persone fidate.
   A Halevy i deputati o ministri conservatori non sembrano perdonare di aver prima incarnato per gli spettatori locali e in tutto il mondo (su Netflix) un massiccio a volte brutale ufficiale del Duvdevan - che in ebraico significa ciliegia - e poi di aver sputato il nocciolo nazionalista sposando un'araba-israeliana. Che è stata accusata via Twitter dal deputato Oren Hazan di «aver sedotto un ebreo»: «Sono sicuro che il suo obiettivo non sia danneggiare la nostra nazione e prevenire la progenie ebrea dal prolungare la dinastia. Quindi è benvenuta: la invito a convertirsi». A Halevy dice di volersi «islamizzare» e avverte tutti e due: «Basta con l'assimilazione».
   Anche Aryeh Deri, ministro dell'Interno e leader del partito religioso Shas, incita la giornalista alla conversione: «Non dobbiamo incoraggiare queste unioni nonostante l'amore. I loro figli avranno problemi in Israele. L'assimilazione ci mette in pericolo, sta consumando il nostro popolo: nello Stato di New York ormai vivono meno ebrei che subito dopo l'Olocausto». Hazan può essere solo un parlamentare in cerca di notorietà o che prova a far dimenticare agli elettori perché ricordano il suo nome: ha gestito casinò in Bulgaria ed è sospettato - lui smentisce - di aver fatto girare prostitute e cocaina assieme alla roulette. Ma le sue frasi sono condannate anche da colleghi nella coalizione al potere («Disgustoso, in questo giorno la coppia si ricordi solo delle benedizioni e degli auguri», dice Meirav Ben Ari di Kulanu) e sono viste come il segno di un razzismo radicato: «Rivelano il lato oscuro del Likud al governo», commenta Yoel Hasson, mentre Shelly Yachimovich condanna i fanatici del «sangue puro».
   Lucy Aharish è stata la prima araba israeliana a condurre un telegiornale all'ora di punta. I genitori sono originari di Nazareth, lei è cresciuta nel Negev, dove il partito del premier Netanyahu ha sempre raccolto consensi. Si è ritrovata a essere «una musulmana di destra - ha raccontato -, tifavo perfino il Beitar Gerusalemme», i cui tifosi ultranazionalisti e razzisti non vogliono permettere a calciatori arabi di giocare. Da allora dice di essersi spostata a sinistra.
   Come Lior Raz, l'ideatore e protagonista di Fauda, Tzachi Halevy è stato arruolato nelle forze speciali proprio perché parlava già l'arabo come lingua madre. E in arabo canta con il suo gruppo musicale.

(Corriere della Sera, 12 ottobre 2018)


"Se vince Corbyn me ne vado". Sebag Montefiore suona l'allarme antisemitismo

"Mi ricorda la demonizzazione degli ebrei sotto Stalin"

ROMA - Simon Sebag Montefiore, oltre che essere uno dei più grandi storici della Russia, è una superpotenza intellettuale. Lui e la moglie scrittrice, Santa, sono amici del principe del Galles e di David Cameron, sono stati invitati al matrimonio del duca e della duchessa di Cambridge e le sue biografie internazionali (Stalin, i Romanov) sono state consigliate al grande pubblico da Bill Clinton, Tony Blair, George W. Bush e Vladimir Putin. Adesso però Simon Sebag Montefiore vede a rischio il suo futuro in Inghilterra, a causa dell'antisemitismo.
   "Non vorrei rimanere in Inghilterra e vedere i miei figli vivere in un ambiente ostile agli ebrei", ha detto mercoledì al Times. La comunità ebraica inglese è in un vero e proprio stato di angoscia e di assedio, tanto che a settembre è uscito un sondaggio secondo cui il 40 per cento di loro "sta seriamente pensando di emigrare" in caso di vittoria di Corbyn alle prossime elezioni. Pochi giorni prima, l'ex rabbino capo britannico, Sir Jonathan Sacks, in un'intervista alla Bbc ha detto che con l'ascesa di Corbyn gli ebrei stanno affrontando una "minaccia esistenziale" in Gran Bretagna e che molti stanno pensando di lasciare la nazione. "Non conosco altre occasioni in questi 362 anni in cui gli ebrei - la maggior parte della nostra comunità - si sono chiesti 'questo paese è sicuro per allevare i nostri figli?"', ha detto Sacks.
   Sebag Montefiore ha appena curato un'antologia di grandi lettere, fra cui la celebre epistola di Émile Zola al presidente francese Félix Faure sul caso Dreyfus. "La storia è stata insegnata al fine di evitare questo vomito di veleno antisemita. La mia famiglia ne ha discusso: i miei figli mi hanno fatto domande al riguardo". I Montefiore sono inglesi dal 1790, arrivati dall'Italia, dal Portogallo e dalla Spagna, e i Sebag sono venuti dal Marocco negli anni Venti dell'Ottocento.
   "La famiglia di mia madre sfuggì ai pogrom russi nel 1904, quindi non sottovalutate come ci si sente", dice lo storico al Times. "È un'agonia per noi: amiamo la Gran Bretagna, siamo britannici e siamo ebrei, una piccola comunità, e non vogliamo andare da nessuna parte. Ma la storia dimostra che devi sempre avere pronte delle valigie psicologiche. Gli ebrei quando sono insieme ne discutono (del nuovo antisemitismo, ndr). Non aspettiamo che accada". Dove andrebbe? "In Europa, a N ew York o in California". Lo storico nell'antisemitismo corbyniano vede tracce di quello stalinista. "Sento che considerano gli ebrei una classe ostile, sfruttatrice, coloniale-capitalista". In una lettera al Times, Sebag e altri due eminenti scrittori ebrei un anno fa hanno accusato il Partito laburista di Corbyn di "diffuso" antisemitismo camuffato da critica a Israele. Il pluripremiato romanziere Howard Jacobson, Simon Sebag Montefiore e Simon Schama hanno scritto di una "demonizzazione del sionismo: il diritto del popolo ebraico a una patria e l'esistenza stessa di uno stato ebraico. Le critiche costruttive dei governi israeliani si sono trasformate in qualcosa di più vicino all'antisemitismo sotto il mantello del cosiddetto antisionismo. Noi crediamo che l'antisionismo, con le sue caratteristiche di antisemitismo, non abbia spazio nella società civile". Perché, a forza di sdoganare antisemitismo a sinistra, tanti ebrei inglesi anche blasonati ora mettono in discussione il proprio di spazio in Inghilterra.

(Il Foglio, 12 ottobre 2018)


"Lord, è ora di affrontare il veleno antisemita"

Rav Jonathan Sacks
"Mi addolora dover parlare di antisemitismo, l'odio più antico del mondo. Ma non posso tacere. Gli ebrei, come religione, come razza o come Stato di Israele, sono diventati il capro espiatorio di problemi di cui tutte le parti sono responsabili. Questa è la strada che porta alla tragedia". È Il chiaro monito pronunciato ai suoi colleghi Lord da rav Jonathan Sacks, protagonista di un'audizione alla camera alta britannica sul pericolo attuale dell'antisemitismo. una minaccia che in Gran Bretagna tocca oggi in particolare la leadership laburista, con il capo del partito Jeremy Corbyn accusato di recente di fomentare l'antisemitismo e l'odio contro Israele. "L'antisemitismo, o qualsiasi odio, diventa pericoloso quando accadono tre cose - ha spiegato rav Sacks, già rabbino capo di Gran Bretagna -.
   Primo: quando si sposta dai margini della politica a un partito tradizionale e alla sua leadership.
   Secondo: quando questo partito non vede la sua popolarità presso il grande pubblico danneggiata.
   Terzo: quando coloro che si alzano e protestano sono diffamati e maltrattati per averlo fatto. Tutti e tre i fattori esistono ora in Gran Bretagna.
   Non avrei mai pensato di vederlo nella mia vita. Ecco perché non posso rimanere in silenzio. Perché non sono a rischio solo gli ebrei. Lo è anche la nostra umanità". Un allarme che ha trovato indirettamente conferma nell'atteggiamento di Corbyn poche settimane dopo l'intervento di rav Sacks alla Camera dei Lord. Nonostante l'approvazione della definizione dell'IHRA di antisemitismo da parte del Labour, l'atteggiamento del leader della sinistra britannica non è sembrato quello di chi vuole fare i conti con le proprio responsabilità.
Il problema del mondo ebraico con Corbvn, ha scritto sul Guardian Jonathan Freedland, non è legato alla difesa del diritti palestinesi. "Si oppongono a lui - scrive Freedland - per fare un esempio, per Il suo attacco del 2013 a un gruppo di 'sionisti' «termine usato da Corbyn in senso spregiativo» che aveva affrontato non sulla base delle loro argomentazioni, ma per motivi etnici, osservando che, nonostante 'abbiano vissuto in questo Paese per molto tempo, non capiscono l'ironia inglese'. L'implicazione di questa osservazione è chiara e non ha nulla a che fare con la difesa dei palestinesi. È che Corbyn vede gli ebrei come fondamentalmente alieni, stranieri che possono anche vivere qui da molto tempo, possono anche essere nati qui, ma sono ancora essenzialmente altri. Persone che non saranno mai veramente inglesi".

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Chelsea, viaggio ad Auschwitz per chi fa cori antisemiti

I Blues pagheranno dei corsi di formazione che prevedono anche la visita al campo di concentramento in Polonia

ROMA - La punizione non basta, bisogna rieducare. Si può sintetizzare così l'operazione che il Chelsea ha deciso di varare come provvedimento contro i tifosi che si sono resi protagonisti di cori antisemiti. La società londinese ha stabilito che i colpevoli dovranno sottoporsi a dei corsi di formazione che prevedono un viaggio al campo di concentramento di Auschwitz. Chi non accetta, rimane fuori da Stamford Bridge. Un anno fa l'episodio che ha portato i Blues al giro di vite. "Morata viene dal Real Madrid e odia gli ebrei" furono le parole di un coro dei tifosi per Alvaro durante la gara con il Tottenham, squadra del quartiere omonimo con un elevato numero di ebrei. «Smettete di cantarlo, il linguaggio non è per niente accettabile» scrisse in un comunicato il Chelsea che però ha scelto di non fermarsi a una dura condanna di facciata.

 Le parole di Buck
  «Se ti limiti a impedire loro l'accesso allo stadio, non cambierai mai il loro comportamento - ha annunciato al "The Sun" il presidente del Chelsea Bruce Buck -. Questa iniziativa invece permette di far capire loro quello che hanno fatto, così da portarli a comportarsi meglio. In passato li avremmo cacciati dagli stadi per tre anni, ora invece il messaggio è: "Hai sbagliato, ma puoi scegliere: o non entri allo stadio o puoi passare del tempo con persone del club che si occupano della gestione delle diversità, in modo da capire cosa hai fatto di sbagliato e perché". E' difficile fare qualcosa quando hai a che fare con un gruppo di 50 o 100 persone che cantano ed è praticamente impossibile bloccarli o cercare di trascinarli fuori dallo stadio. Ma se riusciamo a identificarli individualmente, allora possiamo fare qualcosa».

(Tuttosport, 11 ottobre 2018)


"Tunnel del terrore di Hamas, Israele li smantellerà tutti

 
L'interno di un tunnel di attacco di Hamas penetrato nel territorio israeliano e distrutto dall'esercito israeliano l'11 ottobre 2018
L'esercito israeliano ha scoperto e distrutto un tunnel costruito dal movimento terroristico di Hamas che si infiltrava in Israele per 200 metri. L'imbocco del cunicolo sotterraneo si trovava nell'area di Khan Younis, nella zona meridionale della Striscia di Gaza. Si tratta del quindicesimo tunnel distrutto dall'esercito dall'ottobre del 2017: una minaccia quindi ancora presente nonostante l'imponente operazione fatta nel 2014 proprio per distruggere questa rete sotterranea, costruita da Hamas per infiltrarsi al di là del confine e colpire soldati e civili israeliani. Quest'ultimo cunicolo era stato scoperto già mesi fa. "La decisione sulla tempistica dei lavori per neutralizzare il tunnel ha a che fare con considerazioni operative, così come con il fatto che il tunnel si collega a una rete di gallerie di combattimento interno alla Striscia", ha dichiarato il portavoce dell'esercito Ronen Manelis. "Abbiamo studiato i tunnel per migliorare le nostre capacità di risposta di fronte alla minaccia della rete sotterranea costruita da Hamas all'interno della Striscia. Lo sforzo contro questo pericolo continua ininterrottamente ed è guidato dalla divisione di Gaza con particolari competenze tecnologiche e ingegneristiche. Aver trovato questo ultimo tunnel mostra uno sviluppo delle nostre capacità di localizzazione", ha aggiunto Manelis, che ha spiegato che l'esercito è riuscito a prendere il controllo di alcuni tunnel che Hamas stava progettando di utilizzare per un attacco terroristico all'interno dei confini israeliani.
L'esercito ha detto di aver stimato che il tunnel è costato "3 milioni di dollari di cemento, materiale elettrico e ore di lavoro". Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha promesso che Israele continuerà a combattere questa minaccia. "Il tunnel del terrore che abbiamo distrutto questa mattina è un altro tunnel che Hamas non avrà nella prossima guerra. Ogni giorno ci avviciniamo alla distruzione dell'arma dei tunnel", ha detto Lieberman.

(moked, 11 ottobre 2018)


Da Trionfo a Luzzati, la storia in cammino degli ebrei genovesi

Domenica la Giornata della cultura ebraica con il capoluogo ligure in prima fila: visite guidate, cibo di strada, laboratori per bambini, concerti e spettacoli.

di Ariela Piattelli

ROMA - "Noi ebrei non siamo dei pittori. Non siamo capaci di dipingere le cose staticamente. Le vediamo in continua transizione, in movimento, come mutamenti. Noi siamo narratori". Così scriveva Franz Kafka, per spiegare come l'arte del raccontare appartenga al Dna del popolo ebraico. Perché la Torah, la Bibbia, è il primo vero racconto che ogni ebreo ascolta e impara a conoscere, seppur mai abbastanza, e perché la narrazione è l'unico modo per poter tramandare, tener viva un'identità e soprattutto per elaborare la storia e trasformarla in memoria. "Storytelling. Le storie siamo noi" è il tema della Giornata europea della cultura ebraica che in Italia si tiene domenica 14 ottobre in ben 87 città distribuite in 15 regioni, con Genova capofila. Centinaia di attività, tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti e mostre d'arte, spettacoli teatrali e incontri di approfondimento, eventi per bambini e percorsi enogastronomici kosher. «Per noi ebrei il racconto equivale alla nostra identità - dice la presidente delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni - Perché l'identità si costruisce attraverso la narrazione di noi stessi. Questa caratteristica che ci appartiene vogliamo condividerla con tutti. Per noi raccontare è un dovere, una responsabilità».

 Un messaggio di speranza
  Genova è stata designata capofila prima della tragedia del crollo del Ponte Morandi, ed è stata confermata per lanciare un messaggio positivo, di ripartenza: «Dopo la tragedia che ha colpito la nostra città ci siamo confrontati con il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti e con il sindaco Marco Bucci - spiega il presidente della Comunità ebraica genovese Ariel Dello Strologo -. Assieme a loro abbiamo deciso di non rinunciare, anche come segno che la città reagisce alla tragedia. Ci sembrava giusto e doveroso però dedicare una parte della giornata al ricordo delle vittime, come forma di partecipazione al lutto». E così nel segno del ricordo domenica si inizia nella sinagoga di Via Bertora con una preghiera e un momento di raccoglimento. Continuano poi le visite della Genova ebraica «che abbiamo inaugurato domenica scorsa. È stato un grande successo, e presto diventeranno un appuntamento fisso - spiega Dello Strologo, che a proposito dello Storytelling sottolinea che «se proprio c'è una storia difficile da raccontare è quella degli ebrei di Genova. Non è stato permesso, lungo i secoli, un insediamento ebraico stabile, principalmente per motivi di concorrenza economica, spesso accompagnata da motivi religiosi. Solo in alcuni casi i governanti hanno ammesso una presenza ebraica stabile. Come per esempio con la peste del 1630, quella raccontata da Alessandro Manzoni, che aveva decimato la popolazione e reso necessario la chiamata di famiglie di ebrei da Livorno per aiutare a ricostituire il tessuto economico e commerciale della città. Siamo in possesso di una lettera accorata in cui questi ebrei lamentano alle autorità cittadine di allora di essere discriminati, insultati e respinti, e per questo hanno deciso di andarsene altrove». Poi però l'ebraismo genovese rinasce. «Direi che nasce piuttosto. Quando la città diventa importante grazie al suo porto, molti ebrei decidono di trasferirsi, costituendo così una componente socio culturale forte e ben integrata. Da 200 cittadini diventano 3.000».

 I narratori liguri
  Tra i contributi culturali che l'ebraismo ha donato a Genova c'è proprio quello dei narratori, come Aldo Trionfo, Alessandro Fersen ed Emanuele Luzzati, che, con una fortissima identità ebraica, hanno costruito assieme a molti altri il teatro italiano moderno. «Con gli eventi in programma declineremo il tema del racconto in molti ambiti - continua Dello Strologo -. Non potevamo però dimenticare l'anniversario degli 80 anni dalle leggi razziali. Ospitiamo infatti la mostra prodotta dalla Fondazione Museo della Shoah e a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger titolata "La razza nemica. La propaganda antisemita e fascista", che affronta la forma più odiosa di narrazione. Con un pomeriggio letterario cercheremo poi di capire quali sono i tratti comuni tra gli scrittori per definire una letteratura ebraica. Abbiamo invitato anche la regista teatrale Andrée Ruth Shammah e l'attrice Miriam Camerini che parleranno dello Storytelling nel mondo dello spettacolo, dal teatro al cinema». Infine due spettacoli, "Il Bignami di Mosè", ovvero la storia delle tradizioni orali e musicali del popolo ebraico, di e con Eyal Lerner, accompagnato alla fisarmonica da Julyo Fortunato e dal coro genovese Shlomot, e un grande classico, "Il violinista sul tetto" diretto da Paolo Pignero, lo storico musical composto da Jerry Bock su libretto di Sheldon Hamick, ambientato in un villaggio ebraico in Russia, tratto dai racconti di Sholem Aleichem. -
Programma delle manifestazioni

(Il Secolo XIX, 11 ottobre 2018)


Conflitto israelo-palestinese: torna la soluzione a due Stati

Ely Karmon. Ricercatore senior all'Istituto internazionale per il controterrorismo di Herzliya, Israele

Testo raccolto da Chiara Clausi

 
Ely Karmon
Il presidente Usa Donald Trump ha cambiato strategia sul conflitto israelo-palestinese: ora vuole appoggiare una soluzione a due Stati. E ha promesso di presentare il suo tanto atteso piano di pace entro quattro mesi. Una svolta, rispetto alla sua precedente posizione. «È un mio sogno riuscire a farlo prima della fine del mio primo mandato» ha dichiarato. L'accordo non dipenderà tanto dall'amministrazione Trump, ma dai tre attori principali sulla scena: Fatah (che controlla la Cisgiordania), Hamas (al potere nella Striscia dal 2007) e Israele. Ogni player ha una strategia. Senza dimenticare i Paesi arabi, che giocano un ruolo chiave, elargendo fondi ai palestinesi. Egitto, Arabia Saudita e Qatar fanno pressione su Hamas e Fatah affinché si arrivi a una soluzione, che resta però molto difficile da ottenere. E poi ci sono Qatar e Turchia, che finanziano Hamas per la ricostruzione.
   Il problema è che Fatah e Hamas continuano a odiarsi e a competere per garantirsi il controllo dei Territori. Per aumentare la pressione su Hamas, Abu Mazen ha preso una serie di misure nella Striscia, tagliando i salari di migliaia di ex dipendenti governativi e i sussidi per il carburante, per pagare l'elettricità. Purtroppo una reale intesa con Israele non sarà possibile finché Hamas controllerà Gaza. Se questa inizierà una escalation, a Israele non rimarrà altro che entrare nella Striscia e distruggerla militarmente. Hamas ha due nemici: Israele da una parte e l'Autorità palestinese dall'altra.
   Ma è anche vero che il governo israeliano vuole piena libertà nel costruire gli insediamenti nella West Bank. E ciò non è compatibile con i piani di Fatah e Hamas. Dal canto suo, Abu Mazen crede che non ci possano essere progressi significativi a Gaza senza un accordo di riconciliazione che lo riporti al potere. I suoi colloqui con Hamas sono ripetutamente falliti sul rifiuto di quest'ultima di disarmarsi. Ora Abu Mazen gli ha inviato un ultimatum, che scadrà a fine ottobre, e prevede l'accettazione del pieno controllo dell'Anp su Gaza.
   In realtà finché l'Autorità Palestinese non controllerà Gaza, Hamas non sarà disarmato e Israele e i palestinesi non scenderanno a compromessi sulle loro richieste massimaliste. non sarà possibile trovare una soluzione. E non mi riferisco all'accordo finale, ma a una soluzione più modesta a breve termine.

(Panorama, 11 ottobre 2018)


Presentato il docu-film «La razzia. Roma 16 ottobre 1943»

di Paola Parlset

ROMA - Chi era quel bambino impaurito, riparatosi in un deposito dei tram, nella mattina del 16 ottobre 1943 a Roma? Era, ma adesso è, Emanuele Di Porto, che racconta 75 anni dopo, come - diffusosi in un lampo il terrore dei tedeschi, che stavano arrivando innumerevoli nel Ghetto, la madre gli gridò di fuggire a Testaccio. Lui invece, a piazza Mastai - da loro chiamata «delle tartarughe» (lì scolpite sulla cinquecentesca fontana, dal Bernini) - vide che la madre veniva caricata su un camion: ella gli urlò di scappare, ma un tedesco lo tirò su. Emanuele riuscì a buttarsi dal camion, riparando nel deposito dei tram: li rimase due giorni, lo nutrirono gli autisti e si salvò. Ma delle circa 1200 persone rastrellate, ne tornarono 16.
   La più violenta manifestazione dell'applicazione delle Leggi Razziali in Roma, quest'anno sarà ricordata dal film del regista Ruggero Gabbai «La razzia. Roma 16 ottobre 1943», su testi dello storico Marcella Pezzetti e Liliana Picciotto. Esso raccoglie rari documenti del periodo e testimonianze ancora inedite di testimoni oculari, allora bambini, sulla cui retina le immagini dei terribili fatti restarono incollate per sempre.
   Ieri, nella Casina dei Vallati al Portico d'Ottavia, è stato presentato uno specimen del film, che verrà proiettato il 16 ottobre alla Camera dei Deputati, per volontà della vice presidente Mara Carfagna - «Ho voluto ciò, perché il Parlamento rappresenta la sovranità popolare», ha detto - con il volere della Fondazione Museo della Shoah presieduta da Mario Venezia: il film è già incluso nella prossima Festa del Cinema di Roma. Vedremo gli occhi, sentiremo la voce (oggi rotta dalla commozione) del dodicenne Nando Tagliacozzo, vedremo la monaca oggi novantasettenne, che apri le porte del convento ai bambini terrorizzati: e la musica di Mauro Piacentini si unirà alla dolcezza delle preghiere ebraiche.

(Il Tempo, 11 ottobre 2018)



I complici del terrorismo "a bassa intensità"

di Ugo Volli

I palestinisti chiamano "resistenza popolare" gli attacchi terroristi di piccola dimensione e già il nome è un programma, perché implica l'appoggio e l'approvazione sociale che l'Autorità Palestinese fornisce a questi crimini, oltre all'istigazione sui suoi media convenzionali e social e gli stipendi forniti ai terroristi e ai loro famigliari. Altri parlano di "lupi solitari", "mini-terrorismo", "terrorismo fai da te" o "a bassa intensità" , ma la sostanza è quella: sono atti criminali che non mettono a rischio la sicurezza strategica di Israele, ma uccidono persone innocenti, devastano famiglie, esprimono l'odio ma anche lo moltiplicano.
   Chi dovrebbe preoccuparsene non sono dunque tanto i militari, che per mestiere devono badare innanzitutto ai grandi rischi, che in questo momento si chiamano Iran e Hezbollah, con la preoccupante complicità russa; ma invece coloro che proclamano di essere nel "campo della pace", di voler "costruire ponti e non muri", di essere contrari al bellicismo e alle misure militari, insomma la sinistra, i cattolici, i media che non amano essere chiamati "buonisti" ma lo sono. Eppure sono proprio loro che stanno zitti, che evitano di condannare, o parlano genericamente di "violenza", come ha fatto ieri l'ambasciatore europeo in Israele suscitando scandalo. Se i paesi europei, che si preoccupano così tanto dello smantellamento di un insediamento beduino illegale e inquinante e dello spostamento dei suoi abitanti in un villaggio decente qualche chilometro più in là, alzassero la voce contro i palloni esplosivi lanciati da Hamas (la cui ultima versione comprende anche dei giocattoli riempiti di esplosivo, nella cinica speranza che qualche bambino li prenda in mano e ne sia ucciso o mutilato), se avessero protestato contro l'accoltellamento o gli investimenti automobilistici di civili ammazzati a caso solo perché hanno l'aria di essere ebrei, oggi sarebbero certamente più credibili. Se fossero poi riusciti a convincere i loro amici palestinisti che assassinare delle persone qualunque non è un mezzo accettabile di lotta politica, forse l'idea della pace sembrerebbe meno assurda agli israeliani comuni di quanto appaia oggi dai sondaggi. E invece no, di fronte ai crimini contro passanti inermi il papa e Mogherini e Bonino, il Pd e Macron, gli intellettuali le femministe e i moralisti che difendono il sindaco di Riace non trovano parole, o proprio non gli interessa. In fondo si tratta di ebrei, non di immigrati clandestini.
   Prendete l'ultimo caso di Barkan, una zona industriale dove israeliani e arabi dell'Autorità palestinese convivono da molti come lavoratori - esattamente con gli stessi diritti e lo stesso stipendio. Il dipendente arabo di un'impresa, che da qualche tempo era assente, è tornato in fabbrica, è entrato senza difficoltà, ha ammanettato una sua giovane collega (fra l'altro madre di un bambino di un anno e mezzo, e le ha sparato a sangue freddo. Poi ha ucciso un altro collega accorso al rumore, ha ferito una donna ed è scappato. Sembra ancor più un esecuzione in stile nazista che un attentato normale. C'è qualcosa di eroico, di "resistente" nell'ammazzare a sangue freddo una donna dopo averla sorpresa e immobilizzata? Ci sono dei valori nell'azione dell'assassino? Merita di essere indicato a esempio (l'Autorità Palestinese lo sta già facendo)? Merita di ricevere uno stipendio vita natural durante (l'Autorità Palestinese glielo pagherà)? Certamente no, il suo è un atto barbaro, selvaggio, contrario a ogni principio di umanità. Lui ne è responsabile, ma ne sono corresponsabili tutti coloro che hanno esaltato atti analoghi in precedenza, che li hanno stipendiati, che li festeggiano con dolcetti per strada e slogan sui social. Il primo responsabile è il presidente a vita, cioè il dittatore dell'Autorità Palestinese, che ancora di recente all'Onu ha vantato l'eroismo degli assassini e che continua a finanziarli nonostante le pressioni internazionali. Diciamolo chiaro, è un complice degli assassini.
   E sono politicamente complici anche coloro che hanno taciuto o hanno a loro volta esaltato gli istigatori. Chi ha chiamato l'istigatore degli assassini Abbas, "angelo della pace" (di mestiere fa il papa); chi l'ha baciato nella sede dell'Unione Europe (di mestiere fa l'"Alto Rappresentante" della stessa UE per gli affari internazionali); chi ne ripete gli slogan, chi usa l'arte i giornali la politica contro Israele, sentendosi virtuoso come dovevano sentirsi tali le SS quando "ripulivano" i ghetti polacchi dai "relitti umani" che vi avevano rinchiuso. E naturalmente è complice la stampa che ha taciuto, cioè praticamente tutti i giornali italiani salvo "La Stampa", che poi moraleggiano a tutto spiano sulla perfidia dei "sovranisti" che non sono accoglienti, ma dell'esecuzione mafiosa palestinista non parlano. Tutti costoro hanno una responsabilità politica precisa. Se avessero agito secondo i loro principi pacifisti, se avessero fatto capire con energia ai palestinisti che non si ammazzano i civili disarmati, se non avessero ricevuto con cordialità Abbas e quelli come lui, Kim Levengrond-Yehezkel e Ziv Hajbi, le due vittime di Barkan, sarebbero probabilmente ancora vive.

(Progetto Dreyfus, 10 ottobre 2018)



Angola, il paradiso dei finanzieri di Hezbollah

Chi poteva mai pensare che in Angola si potessero rifugiare i terroristi ricercati di Hezbollah e che il Paese africano diventasse il centro più importante per i finanzieri del terrorismo islamico da dove, attraverso ditte di comodo, accumulano miliardi di dollari con traffici illegali di ogni tipo che vanno dal traffico internazionale di droga a quello dei diamanti insanguinati.
Eppure è così. I servizi segreti occidentali monitorano da diverso tempo le attività di Hezbollah in Angola e quello che ha scoperto non solo è alquanto inaspettato ma dimostra come il terrorismo del gruppo libanese legato all'Iran sia un terrorismo di carattere internazionale, cosa che per altro noi di RR avevamo denunciato più volte svelando come i terroristi libanesi usassero il Sud America per i loro loschi traffici.
Ma quello che sta accadendo in Angola supera addirittura quello che gli Hezbollah e l'Iran stanno facendo in Sud America perché qui non hanno nemmeno bisogno di nascondersi, qui le loro attività sono alla luce del sole e vengono ben viste dal Governo locale...

(Rights Reporters, 10 ottobre 2018)


Germania - Nasce un Centro federale contro l'antisemitismo

In Germania gli incidenti antisemiti vengono registrati dalla statistica criminale della polizia, che però si rivela distorta a causa di varie imprecisioni, tanto che, una serie di ong come il Centro di ricerca e informazione sull'antisemitismo di Berlino, Rias, sono dovute intervenire.
   Come riportato da Die Welt, è stato per ovviare al problema di un sistema nazionale che coordina diverse hotline in Germania. Il progetto è ancora privo di nome ed è previsto per l'inizio di novembre. Il ministero degli Affari Familiari finanzierà alcuni progetti.
   Le cifre ufficiali non coincidono con le esperienze di molti ebrei tedeschi. Secondo le statistiche sulla criminalità della polizia, il 90% di tutti i crimini antisemiti sono commessi da estremisti di destra. Per il commissario antisemitismo del governo federale, Felix Klein: «L'antisemitismo musulmano è più forte di quanto non sia manifestato nelle statistiche». Ci sono diverse ragioni per cui le statistiche sulla criminalità sono soggette a errori. Se, ad esempio, nessun colpevole concreto viene trovato in un reato di propaganda, finisce nella statistica nella categoria dell'estremismo di destra. Il fatto che una scritta "Juden raus" possa avere i più diversi autori non viene fuori nella raccolta dei dati e quindi non è mostrato.
   Secondo il Comitato Ebraico Americano, anche il saluto hitleriano, cioè il saluto romano, fatto dai sostenitori della milizia libanese Hezbollah è stato classificato come estremista di destra alla manifestazione di Al-Quds a Berlino.
   A tutto ciò, poi, si aggiunge la riluttanza degli interessati a presentare una denuncia. Secondo gli esperti, molti evitano di recarsi alla polizia per paura di ritorsioni o diffidenza nei confronti delle autorità preposte all'applicazione della legge. Inoltre, ci sono molti reati che si trovano al di sotto del limite di punibilità. Se qualcuno viene chiamato "Tu Ebreo" in modo minaccioso, questo non è ancora un fatto punibile e di conseguenza non appare nelle statistiche della polizia criminale.

(AGC Communication, 10 ottobre 2018)


La Russia contesta la sovranità di Israele sulle alture del Golan

Il cambiamento dello status delle alture del Golan da parte di Israele "senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe una violazione degli accordi esistenti", ha affermato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.

di Jack Gold

Il Presidente Vladimir Putin e il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha respinto le richieste di sovranità di Israele sulle alture del Golan quando ha dichiarato mercoledì che "cambiare lo status delle alture del Golan senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU sarebbe una violazione degli accordi esistenti", hanno riportato le notizie di Ynet.
Lavrov ha risposto lunedì alle dichiarazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui la presenza di Israele sulle alture del Golan è "una garanzia di stabilità nell'area circostante".
"Le alture del Golan rimarranno sempre sotto la sovranità israeliana perché altrimenti avremmo l'Iran e Hezbollah sulle rive del Kinneret [lago di Galilea]", ha affermato Netanyahu.
La presenza di Israele "è una solida realtà basata su antichi diritti" e "un fatto che la comunità internazionale deve riconoscere", ha affermato.
Mentre "Iran e Hezbollah stanno cercando costantemente di stabilire una forza opposta a noi che opererebbe contro le alture del Golan e la Galilea", Israele sta "contrastando questo fatto e per quanto dipende da me continuerà a farlo", ha sottolineato il primo ministro.
"Continueremo ad agire con determinazione contro i tentativi dell'Iran di aprire un fronte addizionale contro di noi sulle alture del Golan, e in Siria agiremo contro tutti i tentativi di trasferire armi letali a Hezbollah in Libano", ha aggiunto.

 "Putin capisce l'importanza che Israele attribuisce al Golan"
  Netanyahu ha in programma di incontrare il presidente russo Vladimir Putin in un prossimo futuro per discutere gli ultimi sviluppi nella regione, in particolare dopo l'abbattimento, il 17 settembre, di un aereo da ricognizione russo da parte delle forze siriane che stavano rispondendo a un attacco aereo israeliano - un incidente di fuoco amico che ha alimentato le tensioni regionali.
"Ho deciso con il presidente Putin sull'importante coordinamento della sicurezza tra l'esercito israeliano e l'esercito russo, e ovviamente insieme abbiamo sviluppato buone relazioni tra Russia e Israele", ha dichiarato Netanyahu lunedì.
"So che il presidente Putin comprende il mio impegno per la sicurezza di Israele e so che capisce anche l'importanza che attribuisco alle alture del Golan, che noi tutti attribuiamo alle alture del Golan e all'eredità di Israele", ha sottolineato il premier israeliano.
Parlando all'inizio della riunione settimanale di governo di domenica, Netanyahu ha detto di aver parlato con Putin.
"Abbiamo deciso di incontrarci presto per continuare l'importante coordinamento della sicurezza inter-militare. Israele agirà sempre per impedire all'Iran di stabilire una presenza militare in Siria e per impedire il trasferimento di armi letali a Hezbollah in Libano ", ha dichiarato.
Israele ha ripetutamente rivendicato il suo diritto alla sovranità sulle alture del Golan, citando i legami antichi e storici e le necessità di sicurezza come ragione per la sua presenza lì.
Parlando ad aprile 2016 durante la prima riunione di gabinetto israeliana sulle alture del Golan, tenutasi in onore del primo anno del 34o governo in carica, Netanyahu ha dichiarato che Israele non si ritirerà mai dalle alture del Golan.
"Le alture del Golan sono state parte integrante della Terra di Israele sin dai tempi antichi; le dozzine di antiche sinagoghe nella zona intorno a noi lo attestano", ha affermato Netanyahu. Le radici storiche di Israele sul Golan risalgono a oltre tre millenni.
Netanyahu ha detto di aver scelto di tenere questo incontro festivo del Gabinetto sulle alture del Golan "per portare un messaggio chiaro: le alture del Golan rimarranno per sempre nelle mani di Israele. Israele non scenderà mai dalle alture del Golan".
Le alture del Golan sono cruciali per la sicurezza di Israele al confine settentrionale e quindi "è giunto il momento per la comunità internazionale di riconoscere la realtà", ha affermato.

(World Israel News, 10 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


"Ebrei liberali di tutto il mondo", unitevi! Sinistra israeliana e liberalismo americano

Accorato appello di un giornalista ebreo liberal per far uscire l’ebraismo di sinistra, israeliano e americano, dalle angosce e le ambasce in cui oggi si trova. NsI

di Chemi Shalev

 
Chemi Shalev
Gli ebrei americani liberali e gli israeliani del centro-sinistra, nel tempo di Donald Trump e Benjamin Netanyahu, dovrebbero confluire insieme, nonostante le reciproche differenze. Entrambi i gruppi si sentono minacciati dalla svolta anti-democratica e di destra dei loro paesi ed entrambi sono mortificati a causa della direzione altrettanto minacciosa presa dall'altra nazione che amano.
   Gli ebrei americani sono ancora sotto shock per l'elezione di Trump e per i suoi turbolenti primi due anni in carica. Il loro disagio si fa più profondo di giorno in giorno, incluso quel sabato quando il Senato degli Stati Uniti ha confermato la nomina della Corte Suprema di Brett Kavanaugh, le cui opinioni sulla Costituzione degli Stati Uniti sono un anatema per i loro valori fondamentali. Non solo: questi vecchi ebrei statunitensi sono disillusi anche da Israele.
   Allo stesso tempo, gli ebrei americani non solo contestano, come molti israeliani, le politiche globali di Netanyahu su questioni come l'occupazione, la democrazia e lo stato di diritto, ma si sentono anche specificamente presi di mira e personalmente respinti dal monopolio israeliano ortodosso. Sono ancora furiosi per la decisione di Netanyahu del giugno 2017 di revocare l'accordo firmato sulle preghiere al Muro occidentale.
   Gli israeliani che si oppongono a Netanyahu, d'altra parte, non hanno motivo di sentirsi respinti da Trump. Al contrario, anche se Trump riceve il suo più forte sostegno dalla destra israeliana, l'apprezzamento per le sue politiche su Israele e Medio Oriente include parti significative del centro e del centro-sinistra. Secondo un recente sondaggio pubblicato dall'Università di Tel Aviv, meno del 30% degli ebrei israeliani ritiene che i negoziati con i palestinesi possano portare a un accordo di pace. Il campo di pace israeliano potrebbe non gradire il duro atteggiamento di Trump nei confronti dei palestinesi, ma non lo biasima per lo stallo stagnante nei rapporti tra Israeliani e Palestinesi.
   Allo stesso tempo, tuttavia, è chiaro a tutti gli israeliani che Trump è il principale promotore sia della coalizione iper-nazionalista ed etnocentrica di Netanyahu che eleva gli ebrei israeliani sopra tutti gli altri, come evidenzia la recente legge dello stato-nazione, sia dei suoi sforzi per soffocare il dissenso demonizzando la sinistra.
   L'indifferenza generale di Trump per le violazioni dei diritti umani e civili e l'ammirazione per i "leader forti" sono distruttivi di per sé, ma sono doppiamente criticabili quando si parla di Israele e di Netanyahu. Persino gli israeliani che non erano entusiasti delle politiche di Barack Obama nei confronti di Israele, ora possono apprezzare la sua vigilanza nel frenare gli impulsi oscuri di Netanyahu.
   Mentre il liberalismo di una maggioranza di ebrei americani non è in alcun modo sinonimo della sinistra israeliana - questi ultimi sono meno impegnati, ad esempio, per i diritti degli immigrati e delle minoranze - entrambi i gruppi sentono che le loro democrazie così come le loro convinzioni fondamentali sono sotto assedio. Entrambi temono che i loro paesi stiano attraversando le linee rosse definite dalla Costituzione. Entrambi temono che, prima o poi, essi stessi saranno presi di mira dai loro governi e, ancor più, dalle folle il cui odio i loro leader "ispirano e incitano regolarmente.
   Entrambi i gruppi sono diventati sempre più sospettosi e perfino ostili nei confronti delle proprie comunità. Gli ebrei americani guardano con sgomento la loro piccola, ma vocale e impegnata sezione di destra che si schiera con Trump e sussurra nel suo orecchio, come dimostra la stretta relazione tra il presidente e Sheldon Adelson. La sinistra israeliana, d'altra parte, è sempre più consapevole che una minoranza fanatica di destra religiosa non solo dirige le politiche di Netanyahu, ma sta attivamente cercando di sopprimere la sinistra israeliana e di metterla a tacere.
   Tuttavia, nonostante il loro programma comune e le paure condivise, i due gruppi rimangono distanti l'uno dall'altro. La sinistra israeliana segue la sua lunga tradizione, originata dai fondatori socialisti dell'Europa dell'Est e dai primi leader del paese, per cui ignora gli ebrei americani e ne sminuisce il contributo per la propria sicurezza. Gli ebrei americani, d'altra parte, si sono distanziati dalla sinistra israeliana, scoraggiati dalla tesi secondo la quale la destra è riuscita a legarsi al patriottismo del campo di pace. Così, pur criticando le politiche israeliane, i cui valori spesso disprezzano, non puntano a formare una coalizione con i loro avversari, di cui condividono la visione del mondo, almeno in parte.
   Gli israeliani di sinistra, naturalmente, potrebbero non essere di grande aiuto agli ebrei americani nel resistere a Trump, ma possono servire come un'ancora di salvezza vitale nel mantenere i loro legami con Israele per coloro che sperano in tempi migliori. Gli ebrei americani, da parte loro, non garantiranno il cambio di regime in Israele, ma potrebbero fornire un assistenza cruciale, sia materiale che mentale, che potrebbe sollevare la sinistra israeliana dalla sua attuale stasi e rafforzare la sua capacità a resistere a Netanyahu e alla sua politica.
   La richiesta di una nuova alleanza liberale non è nuova. Io, insieme a molti altri, l'ho fatta in passato, ma ora è più urgente e vitale che mai. Stabilire una nuova partnership tra le fazioni liberali delle due più grandi comunità ebraiche del mondo non può più essere relegato agli sforzi casuali di singoli individui ben intenzionati o di gruppi marginali. Un quadro formale che possa rappresentare entrambi i gruppi, favorire i legami tra di loro e formulare politiche comuni da perseguire, potrebbe essere l'unico modo per affrontare le preoccupazioni e le aspirazioni condivise.
   Tale gruppo non dovrebbe includere rappresentanti del governo israeliano, la cui unica missione sarebbe quella di difendere Netanyahu e le sue politiche e di sabotare gli sforzi per contrastarlo. Allo stesso modo non dovrebbe includere rappresentanti dell'establishment ebraico americano, specialmente di gruppi come la Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche, il cui scopo principale è di incartare le differenze tra Israele e gli Stati Uniti e servire da apologeti per entrambi.
   Una nuova Coalizione di liberali americani e israeliani non solo potrebbe dedicarsi a coltivare i legami tra i due gruppi assediati, ma anche tracciare i valori liberali condivisi, compreso il sostegno per la democrazia, l'uguaglianza, la libertà di parola e lo stato di diritto e adottare programmi congiunti. Un simile partenariato potrebbe sollevare i ribelli israeliani dal loro crescente senso di abbattimento e isolamento e fornire agli ebrei americani, che devono ancora voltare le spalle a Israele, una nuova ancora per il loro continuo attaccamento allo stato ebraico.
   I liberali ebrei del mondo devono unirsi, perché l'unica cosa che devono perdere è la loro frustrazione e il loro dolore. Una nuova partnership tra israeliani dalla mentalità simile e tra ebrei americani potrebbe aiutare entrambi i gruppi a sopravvivere ai loro travagli attuali.
   Il primo compito di questa nuova struttura ebraica completamente liberale consisterebbe nel formulare una dichiarazione di indipendenza condivisa, sposando i propri valori, denunciando quelli che vogliono indebolirli impegnandosi a lavorare insieme per mantenerli. Entrambe le parti farebbero bene ad ascoltare la famosa ammonizione di Benjamin Franklin alla vigilia della firma della Dichiarazione di Indipendenza americana nel 1776: "Dobbiamo, infatti, stare tutti insieme o sicuramente saremo tutti appesi separatamente."

(Israele-Palestina: testimonianze in attesa, 9 ottobre 2018)


Le donne la vogliono subito alla Difesa. E in futuro candidata alla Casa Bianca

L'ambasciatrice apprezzata per le sue posizioni contro il conformismo e a favore di Israele. Per Trump sarà decisiva per il voto di Midterm

di Fiamma Nirenstein

Nikki Haley
Magari è vero quello che si mormora, ovvero che sia già suo il posto di segretario della Difesa, dove oggi siede Jim Mattis, e che Trump vorrebbe occupasse prima del voto di novembre per riparare l' opinione pubblica femminile dopo il caso Kavanaugh. Oppure che nel 2020 invece di Pence sarà lei il vice presidente. C'è anche chi dice che fosse stufa perché Baiton e Pompeo, due grossi calibri in politica estera, le facevano troppa ombra. O che nessun ambasciatore americano all'Onu dura più di due anni, o che fosse malata, e che suo marito Michael la volesse un po' per sé. Non si sa, ma, soprattutto, non importa: dispiace comunque. Perché Nikki ha rovesciato l'Onu come un calzino vecchio, ha messo a nudo il perbenismo che consente, nella nebbia di una burocrazia malata, allo schieramento non allineato islamico e anche europeo di dominare le assemblee e la vita del dinosauro newyorchese. Ha sferzato il menefreghismo di chi usando i soldi americani poi odia gli Usa, di chi ha trasformato l'Onu in una palestra antisraeliana. Ha tolto la maschera che ha travestito da diritti umani l'odio antiamericano e antisemita.
   È l'urbano volto umano dell'America di nuovo forte e in primo piano, avvocato della democrazia nel mondo che si impone con la rosa e la spada. Quanto la gestualità e lo stile di Trump è escoriante, altrettanto il suo è ragionevole. Placa e convince questa 48enne indiana la cui famiglia proviene dal Punjab, che segue sia il rito metodista sia quello sikh, una bella signora decisa e modesta, originariamente Nimrata Nikki Randhawa. Nella conferenza stampa di congedo, ha dichiarato che alle prossime elezioni non intende fare nient'altro che sostenere Trump, mentre già si pensava da tempo che sarebbe stata un ottimo candidato repubblicano. Ma magari nel 2024.
   Nikkì, che è stata un bravo governatore del Sud Carolina, nel 2016 teneva pubblicamente per Marco Rubio e si era dichiarata, al momento della nomina di Trump: «A suo favore, ma non una fan». Aveva dichiarato fin dall'inizio di accettare l'Onu a condizione di essere membro del National security council, e di poter dissentire, alzare il telefono, parlare direttamente col presidente. A volte ha dissentito pubblicamente, come quando Trump minacciava il bando religioso sull'immigrazione: là Nikki ha sostenuto che tutte le religioni sono uguali e ha detto che non avrebbe sostenuto il presidente. Ma in genere ha fatto da battistrada in battaglie fondamentali, le sanzioni alla Russia per l'Ucraina, il bando alle armi chimiche di Assad, la sfida all'Iran e agli hezbollah, il sostegno per Israele e per la scelta di Trump di portare l'ambasciata a Gerusalemme. «Prenderemo i nomi» degli Stati che hanno votato contro. Non ha esitato a ritirare gli Stati Uniti dall'Unesco e dal Consiglio per i Diritti Umani una volta verificato che il loro lavoro è basato solo sul pregiudizio indotto dal lavorio dei Paesi islamici contro Israele. L'Onu ha tremato per il suo lavoro, adesso che lascia non è facile immaginare un ambasciatore determinato come lei.

(il Giornale, 10 ottobre 2018)


Vittorio Putti e l'eroico gesto «Mise in salvo medici ebrei»

di Federico Del Prete

A ottant’anni dall'emanazione delle leggi razziali in Italia, c'è una storia dimenticata che lega due luminari della medicina bolognese nella prima metà del secolo scorso. Il primo è Maurizio Pincherle, direttore della cattedra di Pediatria del Sant'Orsola dal 1924 al 1938, quando, appunto a seguito delle norme contro gli ebrei, fu costretto a lasciare quel prestigioso ruolo. Il secondo, invece, è Vittorio Putti, alla guida dell'Istituto Rizzoli dal 1915 al 1940, quando morì. Fu proprio Putti uno dei pochissimi colleghi (se non l'unico) a dare solidarietà pubblica a Pincherle, costretto a fuggire dalla città e a nascondersi nelle Marche fino all'arrivo degli anglo-americani nel 1944. In una drammatica riunione, dove venne formalizzata la cacciata dei professori di origine ebraica, Putti si alzò in piedi e protestò coraggiosamente contro quella decisione.
A raccontare quanto avvenuto fu proprio Pincherle, che mise in versi quella solitaria ribellione:
  «Nell'aula della Scienza quella sera
  emblemi impallidivano di sdegno
  contemplando gli scanni che deserti
  rese una folle ondata di barbarie.
  Ma Vittorio non volgesti il pollice
  sotto l'antica pendola instancabile
  che scandiva i minuti di un secolo».
Un episodio tanto significativo, quanto dimenticato, anche perché di prove certe non ne sono arrivate: «Per forza, è ovvio che a verbale non venne scritto nulla. Sicuramente di fronte a un personaggio della grandezza di Putti nel mondo scientifico e accademico, le autorità fasciste preferirono far finta di non aver sentito», spiega Angelo Rambaldi, memoria storica del Rizzoli, che recentemente ha voluto nuovamente ricordare Putti. Quello verso Pincherle non fu l'unico atto di coraggio del professore: «Avendo tra i suoi allievi un eccellente medico ebreo, Putti si adoperò per farlo emigrare in un Paese del Sud America dove alla fine fondò la scuola ortopedica», rivela ancora Rambaldi, ricordando che «Putti cercò di differenziarsi non appena vide che il fascismo aveva imboccato la strada dell'antisemitismo, una storia che meriterebbe maggiore conoscenza».

(il Resto del Carlino, 10 ottobre 2018)


«Era de maggio»? Preghiera sefardita

Raiz pubblica un nuovo album con i Radicanto: «Neshama» è dedicato alla produzione paraliturgica della tradizione degli ebrei di origine spagnola: ancora musica «spuria», come quella degli Almamegretta.

di Federico Vacalebre

Può la voce italiana meticcia per eccellenza affrontare un disco dedicato a canti sacri? Può, se si tratta di musica e testi paraliturgici della tradizione sefardita, quella tracciata dagli ebrei che, approdati nella penisola iberica dopo la distruzione di Gerusalemme da parte romana nel 70 dc, furono espulsi dopo 1400 anni di permanenza, da Isabella la Cattolica disperdendosi in Nord Africa, Italia, Grecia e Turchia, ma mantenendo un legame fortissimo, sia linguistico che culturale, con la «seconda madrepatria».
   E «Neshama», l'album che, dopo «Casa», vede di nuovo Raiz con i Radicanto su etichetta Arealive con il contributo di Puglia Sounds, è insieme un lavoro identitario e cosmopolita e multikulturale, visto che tiene insieme lingue (l'ebraico, l'arabo, lo spagnolo) e melodie che uniscono il Mediterraneo dall'Andalusia alla Grecia passando per il Sud Italia fino al Levante, dimenticando divisioni e conflitti che proprio in Israele trovano il loro cuore dolente. Il singolo di lancio «Jerusalern», impreziosito dalla presenza del violino di Mauro Pagani, è una cover di Alpha Blondy, reggaeman ivoriano, ma ora guarda a un Mediterraneo senza frontiere facendo mostra di sé in un disco che è sintesi acustica di un pensiero antirazzista che si fa suono. O forse viceversa.
 
   Intanto noi, orgogliosamente profani e laici («and no religion too» ci avrebbe raccomandato John Lennon, che ieri avrebbe compiuto 78 anni) scopriamo le storie di Moshe ben Maimon (Maimonide), per gli arabi Musa ibn Mimun, di Shelomo ibn Gabirol, di lbn Ezra, autori di «piyutim», poemi paraliturgici rimusicati nei secoli dai fedeli, riadattati anche nei versi, ormai riecheggianti solo nelle sinagoghe. E capiamo come possa sefardizzarsi un capolavoro verace come «Era de maggio», già adattato in ebraico da Noa, ma qui sdraiato sotto le preghiere di «El adon», liturgia del sabato mattina, delle feste. Accanto ci sono canti funebri che si adagiano su successi canori di Zohar Ardog, detto «il re» («Ydal/Marlen»): ragazze che si fanno belle per il moroso («Mi pudra», in ladino, come «Una matika de ruda»): richieste di perdono per il giorno di Yom Kuppur; «Astrigneme» che era nella colonna sonora di «Luna rossa» di Antonio Capuano e ora diventa «Hir hashirim 7/7», testo dal «Cantico dei cantici», Rita Marcotulli al pianoforte; inni nuziali («Yshmah hatani») e per l'osservanza dello shabbat («Ki eshmera shabbat», proposto sulla melodia di una famosa canzone araba).
   Il canto appassionato di Raiz, ugola dei due mondi, trova complicità rispettosa nel gruppo guidato da Giuseppe De Trizio, che suona chitarra e mandolino, ma soprattutto firma tutti gli arrangiamenti. Con lui Adolfo La Volpe (oud, cumbus, saz), Giorgia Santoro (flauto contralto e traverso, ottavino, bansuri, xiao), Giovanni Chiapparino (fisarmonica) e Francesco De Palma (tar, cajon, zarb, darbuka, doumbek, daf, riq, udu).

(Il Mattino, 10 ottobre 2018)


Iran: "Israele non è in grado di colpire l'S-300 in Siria"

Il capo del parlamento iraniano, Ali Larijani, ha dichiarato a RT che Israele non è in grado di colpire i sistemi S-300 schierati in Siria.

In precedenza i media israeliani hanno comunicato che il Ministro della cooperazione regionale Tzachi Hanegbi ha dichiarato che la fornitura di sistemi missilistici antiaerei S-300 alla Siria non pregiudicherà l'efficacia dei caccia americani F-35 dell'aviazione israeliana.
"Non credo che gli israeliani siano in grado di condurre una qualche azione seria e credo che la Russia abbia il diritto di schierare i sistemi di difesa aerea S-300 in Siria e proteggere i suoi interessi, specialmente dopo l'attacco di Israele ad un aereo russo, è un diritto legittimo della Russia", ha detto Larijani. commentando la dichiarazione sull'intenzione di Israele di colpire gli S-300, che Mosca ha fornito alla Siria dopo l'abbattimento dell'Il-20.
Il 24 settembre, il Ministro della Difesa russo Sergei Shoygu ha annunciato misure per migliorare la sicurezza dell'esercito russo in Siria in risposta all'abbattimento dell'Il-20, per il quale la Russia ritiene responsabile Israele. Il Ministro ha osservato che nel 2013, su richiesta di Israele, la Russia aveva sospeso le consegne degli S-300 in Siria, ma che ora la situazione è cambiata, e non per colpa della Russia. Più tardi, Shoygu ha riferito della fornitura alla Siria degli S-300 e di altre attrezzature. Secondo lui, sono stati forniti quattro lanciatori in tutto e si prevede di addestrare l'esercito siriano in tre mesi.

(Sputnik Italia, 9 ottobre 2018)


Gerusalemme: city destination che piace agli italiani

L'Italia si riconferma uno dei mercati chiave in termini turistici per Gerusalemme. Da gennaio a luglio sono state 11.393 le presenze italiane nella città, pari ad un incremento del +53%

L'Italia si riconferma uno dei mercati chiave in termini turistici per Gerusalemme. Da gennaio a luglio sono state 11.393 le presenze italiane nella città, pari ad un incremento del +53% rispetto allo stesso periodo nel 2017 (7.442 in termini assoluti). "E' un dato che riflette il grande appeal della città che attrae per gli inediti contrasti che la caratterizzano: storia millenaria e design contemporaneo; musei d'arte e bistrot all'aria aperta; ristoranti stellati e street food di tendenza." ha dichiarato Elisa Eterno, rappresentante Jda in Italia.
Gerusalemme si sta affermando sempre più come una "city destination" in continua evoluzione. Da poco il Jerusalem Development Authority in collaborazione con la società Otipass, Zuzu e altri partner, ha realizzato il City Pass; la nuova card che consente di vivere la vacanza a Gerusalemme in modo ancora più accessibile, semplice e conveniente. La card è acquistabile anche prima dell'arrivo in Israele attraverso il portale dell'Ente del Turismo a partire da poco più di 30 euro. A questo si aggiunge il nuovo treno ad alta velocità che collega Gerusalemme al resto dello Stato. Un importante tassello che rende più semplici e comodi gli spostamenti all'interno del Paese; con una velocità massima di 160 km/h il treno è infatti in grado di raggiungere l'aeroporto di Ben Gurion in soli 20 minuti.

(Guida Viaggi, 9 ottobre 2018)


Su una pietra di duemila anni fa la parola "Gerusalemme", scritta come si scrive oggi

È la prima incisione nota della parola "Yerushalaim", che è il modo in cui il nome della città viene pronunciato oggi in ebraico

Una rara scritta in caratteri ebraici del nome esteso di Gerusalemme (Yerushalaim), nello stesso modo in cui è scritto oggi, incisa su una pietra cilindrica e datata duemila anni fa. La scoperta risale all'anno scorso ma solo oggi è stata presentata ufficialmente alla stampa.
Alta quasi un metro e lavorata in apparenza all'epoca del re Erode, la pietra era stata asportata dall'edificio originale e riutilizzata poi per la costruzione di un edificio romano. Il testo contiene la dicitura: ''Hanania figlio di Dodlos di Gerusalemme''. Secondo gli archeologi è presumibile che Hanania fosse un artigiano del posto e che 'Dodlos' fosse un riferimento di ossequio alla figura di Dedalo.
La scoperta è ancora più stupefacente se si pensa che la scritta di duemila anni fa "è chiaramente decifrabile oggi da qualsiasi bambino israeliano'', come ha spiegato il direttore del Museo Israele, prof. Ido Bruno, e che è estremamente raro trovare in reperti di quell'epoca la scrittura completa del nome di Gerusalemme. La maggior parte delle scritte di quel periodo utilizza infatti la versione abbreviata Yerushalem o Shalem. Nella stessa Bibbia in cui la città è menzionata 660 volte, solo in cinque casi si legge la forma estesa.

(RaiNews, 9 ottobre 2018)


Una storia d'amore e di vita, di lotta e d'intelletto: nel Pardes di Rabbi Akivà

di Ugo Volli

Delle molte centinaia di saggi del Talmud (solo il trattato Berakhot ne nomina quasi quattrocento), alcuni sono più autorevoli e noti degli altri: Hillel e Shammai, Jochanan ben Zokai e Jehuda haNassì, Rav e Ravà, per fare solo qualche nome. Ma il grande protagonista del Talmud, il maestro in assoluto più citato e ammirato è Rabbi Akivà. In quella grande arena di discussione intellettuale che è il Talmud ciò che conta sono soprattutto la conoscenza, la lucidità intellettuale e la capacità di ragionamento: queste sono le ragioni profonde della predominanza di Rabbi Akivà che ne fa con Rashi, il Maimonide e pochi altri il maestro del pensiero ebraico, da studiare innanzitutto per il suo contributo creativo alla halachà, la norma di vita che regola l'esistenza ebraica. Ma oltre alle sue decisioni e ai suoi ragionamenti, la tradizione riporta anche alcuni episodi della sua vita - sia perché anche questi sono fuori dall'ordinario, sia perché la sua grandezza dà loro carattere esemplare.
   Si racconta per esempio che a differenza della gran parte dei maestri Rabbi Akivà non iniziò a studiare da piccolo, ma solo a quarant'anni, colpito d'improvviso dalla necessità di conoscere le leggi della Torà. Si tramanda anche la sua grande storia d'amore con la moglie, che per lui, povero, abbandonò una famiglia prospera e fu diseredata, ma lo mantenne agli studi sfidando anch'essa la miseria fino a quando non fu riconosciuto come un grande rabbino ed ebbe numerosi allievi. Si dice che migliaia di questi allievi morissero misteriosamente tutti assieme, ed è forse un modo per far capire che perirono nella resistenza all'occupazione romana, dato che Akivà sostenne attivamente la rivolta di Bar Kochbah. Allo stesso contesto va attribuito il ricordo della sua morte, causato da un'esecuzione romana particolarmente atroce, ma coronato da un esemplare pubblico atto di fede. Nel Talmud vi è anche una rara testimonianza di una tensione mistica, con la storia misteriosa o metaforica dell'ascesa al "giardino del Pardes" di quattro grandi saggi, da cui solo Akivà poté uscire senza danno.
   Mentre la vita di Rabbi Akivà appartiene alla seconda generazione dei saggi della Mishnà, essendo egli nato venti o trent'anni prima della distruzione del Tempio, cioè verso l'anno 50 e morto probabilmente a Cesarea (ma la sua tomba è a Tiberiade) nel 135, la maggior parte di quel che sappiamo di lui è riportato nel Talmud, che si chiude mezzo millennio dopo. Non abbiamo documenti diretti o coevi della sua vita. Questo rende difficile distinguere i fatti dalla cornice agiografica e leggendaria che inevitabilmente il tempo accumula intorno a una figura così importante.
   Per questo è un'impresa problematica scriverne una biografia (sua, come di tanti altri personaggi della tradizione ebraica antica) che risponda ai criteri storici del nostro tempo. Ci ha provato Barry Holz, in un libro appena edito da Bollati Boringhieri (Rabbi Akivà, l'uomo saggio del Talmud). Non ci sono fatti nuovi, naturalmente, ma c'è una rassegna approfondita delle fonti, delle differenze e delle assonanze fra le loro testimonianze e c'è uno sforzo importante di capire sia l'uomo Akivà, immerso nel suo tempo, sia la grande testimonianza esemplare che la sua vita è venuta assumendo nella storia dell'ebraismo. È una lettura affascinante, un libro di pensiero che è anche la storia di una ricerca storica e il riconoscimento di una dimensione identitaria centrale. Ed è anche un invito ad andare a ritrovare nel testo del Talmud le tracce del suo insegnamento.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2018)


Israele, studentessa americana bloccata da sette giorni in aeroporto a Tel Aviv

«Vuole boicottarci, non entrerà»

Una studentessa statunitense iscritta all'Università ebraica di Gerusalemme è bloccata da 7 giorni all'aeroporto di Tel Aviv. A riportarlo sono diversi media israeliani. Le autorità israeliane le impediscono l'ingresso nel Paese perché ritenuta un'attivista del movimento per il boicottaggio dello stato ebraico (Bds). La 22enne — Lara Alqasem, di origini palestinesi — ha per questo denunciato le autorità e si trova in attesa di una decisione della magistratura israeliana.

 La vicenda
  Secondo quanto riportato dall'agenzia Ap, Alqasem — che è l'ex presidente del gruppo Studenti per la giustizia in Palestina dell'Università della Florida, ma che non farebbe più parte del gruppo — è atterrata lo scorso martedì all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con un visto regolare. Dopo essere stata fermata, un tribunale israeliano ha ordinato che, nell'attesa dell'appello, venga tenuta in custodia. La detenzione, giunta al settimo giorno, è la più lunga mai registrata per un caso legato al boicottaggio di Israele, secondo la Ap. L'università di Gerusalemme ha espresso il suo supporto all'appello della ragazza.

 «Se rinuncia al boicottaggio, potrà entrare»
  Il ministro degli Affari Strategici e della Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan, ha detto che la ragazza è libera di lasciare il paese in qualsiasi momento: e, secondo il Times of Israel, ha aggiunto che se la studentessa dovesse rinunciare alle sue attività passate e dichiarare pubblicamente che gli sforzi di boicottaggio non sono legittimi, il ministero potrebbe riconsiderare il suo caso. La ragazza è in possesso di un visto di studio concesso dal consolato israeliano a Miami per un master presso l'Università ebraica di Gerusalemme. Da martedì scorso risulta trattenuta in un centro di detenzione aeroportuale.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2018)


Più di tre milioni di turisti in Israele

Circa 3,1 milioni di turisti hanno visitato Israele nei primi nove mesi di quest'anno. Il 15 percento in più rispetto allo stesso periodo del 2017. Circa 1,6 milioni di persone provenivano dall'Europa. Più di 700.000 turisti sono venuti dal Nord America e circa 300.000 dall'Asia. Questo potrebbe stabilire un nuovo record nel 2018: nel 2017, il Ministero del turismo ha registrato un totale di 3,8 milioni di visitatori, nel 2016 erano quasi 3,1 milioni.

(israelnetz, 9 ottobre 2018)


Cade la maschera: la Russia si rivela essere un nemico di Israele

di Di Marc

 
Putin, amico di Israele?
Un anno fa, la maschera della Russia di non ostilità nei confronti di Israele era ancora in vigore, sotto forma di coordinamento strategico con Israele per i suoi attacchi in Siria. Questo le ha permesso di nascondere che si era schierata con i nemici di Israele: Siria e Iran. Anche se la Russia si è astenuta dal tentare di impedire a Israele di bombardare obiettivi iraniani in Siria - come se potesse impedirlo - ha consentito e sostenuto allo stesso tempo l'espansione dell'Iran in Siria.
  Un articolo che ho scritto un anno fa ha presentato fatti impeccabili sul sostegno della Russia all'espansione dell'Iran in Siria a scapito della sicurezza nazionale israeliana. In esso si diceva che la presenza delle forze iraniane in Siria rappresenta una minaccia esistenziale per Israele. Si spiegava anche, a beneficio di coloro che non potevano concepire Putin come un anti-israeliano - che dopotutto aveva fatto del primo ministro israeliano Netanyahu un ospite d'onore alla parata del Victory Day a Mosca, nella Piazza Rossa a maggio - niente di personale contro Israele, ma, come si dice nella mafia, solo un caso collegato alla rivalità tra Russia e Stati Uniti. In verità, il coordinamento strategico russo dei bombardamenti israeliani in Siria ha servito gli interessi russi: Israele ha dichiarato che avrebbe continuato a bombardare e che un'escalation militare israelo-russa non poteva che attirare gli Stati Uniti nella mischia ed esporre la Russia ad essere una semplice potenza regionale senza confronti con gli Stati Uniti.
  Dopo il 18 settembre, quando i missili siriani abbatterono un aereo Ilyushin-20, la maschera della Russia è caduta e il vero volto anti-israeliano della sua politica è stato completamente svelato. In effetti, Putin ha cercato dapprima di nascondere la cosa astenendosi dall'accusare interamente Israele della tragedia, ma presto si è unito ai suoi subordinati nell'incolpare Israele e ha annunciato che la Russia avrebbe equipaggiato la Siria con i sistemi missilistici S-300, destinati, tra le altre cose, a proteggere le forze iraniane in Siria dagli attacchi israeliani.
  La situazione è ora perfettamente chiara: i russi, che inizialmente hanno permesso e sponsorizzato l'espansione dell'Iran in Siria come misura anti-americana, proteggeranno anche gli iraniani in Siria dagli attacchi israeliani. Questo è un atto di guerra non dichiarata contro Israele da parte di un nemico, la Russia, perché non saranno i siriani ad usare gli S-300 contro gli aerei israeliani, dal momento che devono ancora allenarsi a lungo per poterlo fare; e per un periodo indefinito dovranno farlo degli ufficiali russi che saranno ai comandi.
  Ma con l'equipaggiamento della Siria nel S-300 e con la loro inevitabile manipolazione da parte degli ufficiali russi contro gli aerei israeliani, i russi rischiano una grave debacle militare e tecnologica. Impareranno, se non sono ancora usciti dalla tragedia Ilyushin, che la tecnologia USA-Israele è di gran lunga superiore a quella della Russia - e questo è vero non solo per gli S-300 attualmente spediti ai siriani, ma anche per l'S-400 che la Russia ha già creato in Siria per la propria difesa. Solo un'indagine militare interna russa può forse mostrare che cosa stavano facendo questi sistemi quando l'Ilyushin fu abbattuto.
  Il ministro della Difesa russo Sergei Shoygu rifiuta la versione israeliana degli eventi, secondo cui gli aerei israeliani erano già tornati su Haifa quando Ilyushin fu abbattuto. I russi sostengono che l'immagine radar mostrava un aereo israeliano che usava Ilyushin come scudo. Una possibile spiegazione di questo, rivelata dal quotidiano israeliano Haaretz, è che l'immagine radar disponibile per i russi non era reale, ma era solo un prodotto della guerra elettronica israeliana. Poiché questo tipo di tecnica continuerà a far parte di qualsiasi futuro bombardamento israeliano, i sistemi avanzati di difesa missilistica russa non saranno più commercializzabili. È forse per questa ragione che i russi, annunciando l'intenzione di consegnare gli S-300 in Siria, hanno annunciato contemporaneamente la loro disponibilità a negoziare con gli Stati Uniti in merito a tale consegna al fine di evitare ogni possibile conflitto con Israele e le sue conseguenze.
  Il vero volto della Russia si rivela non solo nell'area strategica militare - fornendo S-300 alla Siria - ma anche con il ritorno al vecchio russo-sovietico antisemitismo che anche le "relazioni speciali" del presidente russo Putin con Chabad non può camuffare. L'ex ambasciatore israeliano in Russia, Zvi Magen, ha dichiarato: "I media hanno accusato Israele nel giorno della crisi, in maniera ben orchestrata e tempestiva, piena di elementi antisemiti. Non è stata una coincidenza." Vista l'attuale politica della Russia nei confronti di Israele, questo non dovrebbe sorprenderci.

(JForum.fr, il portale ebreo francofono, 9 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La Città eterna degli ebrei

Ventidue secoli di aperture e feroci conflitti raccontati da Riccardo Calimani

di Gian Antonio Stella
    «Lunedì i soliti 8 ebrei corsero ignudi il palio loro favoriti da pioggia, vento et freddo degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle gride. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domani».
Rileggiamo: «queste bestie bipede». Bastano queste righe pubblicate negli «Avvisi di Roma» del 16 febbraio 1583 per capire quanto fossero radicate le ostilità anti-ebraiche nella Città eterna che ottant'anni fa si adeguò silente, per non dire di peggio, alle leggi razziali del 1938 che avrebbero aperto la strada, cinque anni dopo, alla retata nazista.
   Per oltre due millenni, infatti, come documenta lo storico Riccardo Calimani nella Storia degli ebrei di Roma. Dall'antichità al XX secolo appena edita da Mondadori, i rapporti tra i romani e «li giudii» erano stati segnati da periodi di conflitti e aperture, aperture e conflitti. Dalla lettera del 325 di Costantino a tutte le Chiese dell'impero («Vi esorto pertanto a non serbare nulla in comune con l'odiosissima turba giudaica») all'ordine agli ebrei di portare una «rotella gialla» sul petto, dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che istituì il Ghetto di Roma alle «prediche coatte», dalle feste per la Breccia di Porta Pia (vista da qualche ebreo come «il Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà») fino alle virtuose solidarietà e alle odiose complicità negli anni della «Difesa della Razza».
   Nulla però spiega cosa rimestasse per secoli nella pancia del popolino quanto le infami bravate del carnevale romano, cancellato per i troppi eccessi solo da Clemente IX nel 1667- Bravate dedicate in larga parte, come ricordano quelle del marchese del Grillo, agli ebrei. «Giudate», le chiama Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell'Accademia dell'Arcadia, nell'Istoria della volgar poesia:
    «Giudate perciocché in esse non si tratta d'altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone per la gola, ora strangolandone e facendone ogn'altro più miserabil giuoco».
 
Ed ecco «l'ebreo dentro la botte rotolato dalla plebaglia» raffigurato nella celebre incisione di Bartolomeo Pinelli. Il rito umiliante del calcio nelle natiche al Gran Rabbino prostrato davanti al «Senatore». La sommossa che scoppia, raccontata nel Meo Patacca, alla notizia (falsa) degli ebrei alleati dei turchi nell'assedio a Vienna:
    «Sul mezzo dì, pe' la città si sparze
    sta nova appena, e la sentì la plebbe
    ch'arrabbiata de collera tutt'arze
    e li Giudii già lapidà vorrebbe ... ».
«Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto», dice il «Manifesto degli scienziati razzisti» pubblicato il 5 agosto 1938 nel primo numero de «La Difesa della Razza»: «Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani».
   In realtà, spiega Calimani, «gli ebrei vivevano a Roma probabilmente ben prima della seconda metà del II secolo a.e. quando, in particolare tra il 161 e il 165, Roma e Gerusalemme cominciarono ad avere i primi contatti politici ufficiali». Molti altri si aggiunsero dopo le campagne di Pompeo con «l'arrivo di numerosi ebrei ridotti in schiavitù, sia a causa delle annessioni romane di territori dell'Asia minore, della Siria e dell'Egitto, dove esistevano comunità ebraiche molto numerose, sia a causa dell'occupazione della stessa Giudea». In città, «molti dei nuovi arrivati andarono a vivere in quartieri assai popolosi: gli ebrei erano numerosi nell'isola Tiberina, tant'è che al ponte Cesti o fu dato il nome di pons Iudaeorum ... ».
   E non c'era solo il Ponte dei Giudei. Via via, infatti, come ricorda lo storico capitolino Claudio Rendina, si aggiunsero Piazza Giudia, l'Ortaccio degli Ebrei («detto anche de' Giudei, sprezzante definizione del cimitero israelita alle falde dell'Aventino»), un altro Campo Giudeo a Trastevere, la Piazza delle Scòle, dove avevano sede ben cinque scuole ebraiche ...
   Già ai tempi del consolato di Marco Tullio Cicerone, scrive Calimani, «secondo alcune fonti gli ebrei che vivevano in città erano circa 50-60.000, su una popolazione di quasi un milione di abitanti». E insomma tutta la storia degli ebrei, quando il fascismo scelse di cavalcare il razzismo, era intrecciata da oltre ventidue secoli con la storia della città Caput Mundi.
   Di famiglia ebraica era Tito Flavio Giuseppe, nato col nome di Yosef ben Matityahu, lo storico che dopo esser finito a Roma come prigioniero entrò nelle grazie di Vespasiano, di cui prese il nome gentilizio, per vivere fino alla morte alla corte imperiale. E così Pietro Pierleoni, eletto Papa (ma considerato antipapa) nel 1130 col nome di Anacleto II contro Innocenzo II imposto dai Frangipane. E Sidney Sonnino, romano d'adozione, più volte ministro nonché presidente del Consiglio del Regno. E il grande sindaco capitolino Ernesto Nathan che a settant'anni fu il più vecchio dei volontari decisi a combattere nella Grande guerra. Alla quale parteciparono non solo patrioti di famiglia ebraica ma addirittura dei «rabbini militari» mandati al fronte per tener su il morale ai soldatini fedeli al Talmud ...
   Ne avevano passate tante, gli ebrei romani, già prima del 1938. Ma in quell'annus horribilis tirava un'aria davvero fetida. Scrive Calimani: «Sui giornali, per esempio sul "Popolo" di Torino, si potevano leggere articoli in cui comparivano affermazioni come: "Diecimila volontari ebrei nelle file dei rossi spagnoli". Oppure sulla "Sera" di Milano si poteva trovare un titolo di questo tipo: "I figli dei matrimoni misti con gli ebrei sono predisposti alla tubercolosi". Il 12 gennaio, sul "Regime Fascista", Roberto Farinacci aveva scritto: "Chiediamo che i 43 milioni di italiani cattolici abbiano in tutti i centri più delicati dello Stato e della vita della Nazione i propri legittimi rappresentanti; essendo gli ebrei quasi la millesima parte della popolazione, bisognerebbe concludere che su mille posti uno spetterebbe agli ebrei, novecentonovantanove ai cattolici"». Va da sé che nella piccola comunità israelita montasse di giorno in giorno la paura.
   Pio XI, certo, non era d'accordo con questi sedicenti «cattolici» fascisti. Basti rileggere la parole nette che usò il 28 luglio 1938 davanti agli alunni del Pontificio collegio urbano De Propaganda Fide, che erano più di duecento e arrivavano da trentasette Paesi: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c'è posto per delle razze speciali. .. La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana.
   Questo è il pensiero della Chiesa». Non bastasse, fece pubblicare sull' «Osservatore Romano» una chiusa: «Ci si può chiedere quindi come mai, disgraziatamente, l'Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Il Duce, arrogante, rispose nel discorso a Trieste del 18 settembre: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni (di Hitler), sono dei poveri deficienti...». Cinque anni dopo dalla Tiburtina partivano i vagoni per Auschwitz.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2018)


Beverly Barkat. Sabbia, sassi e conchiglie delle 12 tribù di Israele

di Francesca Nunberg

Beverly Barkat
ROMA - Beverly Barkat è partita da lontano: ha girato per Israele raccogliendo terra, sabbie, sassi e conchiglie nei luoghi in cui abitavano le 12 tribù bibliche, le ha tritate e mescolate con pietre preziose, acrilici e pastelli e con questi pigmenti ha dipinto 12 grandi dischi in pvc. È nata così After the Tribes, installazione site-specific per il Salone delle Vedute del Museo Boncompagni Ludovisi che sarà aperta da giovedì fino alla fine dell'anno, voluta dall'Ambasciata di Israele in Italia per i 70 anni dello Stato. Come racconta la Genesi, Asher figlio di Zilpah viveva nelle terre tra il monte Carmelo e il fiume Leonte, la sua era una tribù di olivicoltori, la loro gemma l'acquamarina; Gad, figlio di Zilpah, viveva con i suoi a est del fiume Giordano, erano allevatori e la pietra l'ametista ... «Ho riprodotto in maniera astratta sui miei dischi le loro storie, riportate sul pettorale indossato dai sommi sacerdoti - spiega Beverly Barkat, 52 anni, moglie del sindaco di Gerusalemme che l'ha accompagnata in questa trasferta romana - Ho ricreato il paesaggio israeliano facendolo dialogare concettualmente con gli splendidi affreschi di Villa Ludovisia. Ho lavorato sulla stratificazione in un viaggio che affonda le radici nella storia millenaria del popolo ebraico per chiedersi quale sarà il futuro». «Nei suoi 12 dodici dipinti l'artista fa un lavoro alchemico, concentrandosi sul colore e sulla materia», aggiunge la curatrice Giorgia Calò». L'anno scorso l'artista firmò Evocative Surfaces a Palazzo Grimani durante la Biennale di Venezia.
Museo Boncompagni Ludovisi,
Roma, via Boncompagni 18.
Dall'11 ottobre

(Il Messaggero, 9 ottobre 2018)


Giornalista ucciso. Cresce la tensione tra Turchia e Arabia Saudita

di Giordano Stabile

I funzionari sauditi devono dimostrare che Jamal Khashoggi è davvero uscito vivo e libero dal consolato a Istanbul altrimenti «non si salveranno». A dare l'ultimatum è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in persona, che segue sin dall'inizio il caso e che ritiene «una responsabilità politica e umanitaria» arrivare alla verità. Erdogan ha parlato da Budapest, dove ha incontrato il premier ungherese Viktor Orban, e si è rivolto al personale della legazione: «Perché non mostrate i filmati delle telecamere? Le informazioni che trapelano ci danno molto da pensare». I nuovi dettagli riguardano i movimenti nel giorno della scomparsa, il 2 ottobre, di «quindici individui arrivati dall'Arabia Saudita che sono entrati e usciti dall'aeroporto di Istanbul». Il sospetto è che Khashoggi sia stato ucciso e poi portato via all'interno di un'auto diplomatica. L'attenzione degli inquirenti è concentrata su due vetture, uscite ore dopo che l'editorialista del Washington Post era entrato nell'edificio. Le autorità turche sono convinte che il commando sia arrivato con il compito di eliminare il giornalista, uno dei più acuti critici del principe Mohammed bin Salman, e hanno chiesto di poter perquisire il consolato.
   A una settimana dalla scomparsa, senza che ci sia alcun segno di vita, ogni altra ipotesi è da scartare. Resta da capire perché Bin Salman abbia autorizzato un'operazione così plateale, uno schiaffo alla Turchia, ma anche all'alleato americano, in quanto Khashoggi era stimato negli ambienti di Washington. Con Ankara i rapporti sono pessimi da oltre un anno, quando Erdogan ha deciso di appoggiare il Qatar contro il blocco economico e commerciale imposto dagli ex alleati del Golfo. Il caso Khashoggi si inserisce così nella lotta fra potenze sunnite che sostengono i Fratelli musulmani, Qatar e Turchia in testa, e altre che li considerano il peggior nemico, in primo luogo Arabia Saudita ed Emirati arabi.
   Khashoggi era su posizioni vicine alla Fratellanza. Ma soprattutto era vicino al precedente principe ereditario, Mohammed bin Nayef, caduto in disgrazia l'anno scorso. L'eliminazione del giornalista, che con i suoi commenti offuscava l'immagine positiva di Bin Salman in Occidente, potrebbe essere anche un aspetto della repressione dell'opposizione religiosa, che ha visto l'arresto il 23 agosto del più noto predicatore della Grande moschea della Mecca, Sheikh Saleh al-Talib, e il processo a uno dei più importanti ulema, Salman al-Awda, che rischia la decapitazione per «intelligenza con il nemico», cioè il Qatar.

(La Stampa, 9 ottobre 2018)


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Giornalista dissidente scomparso nel consolato saudita, Trump: "Sono preoccupato"

La Casa Bianca interviene sul caso Khashoggi. Pompeo: "L'Arabia Saudita apra un'inchiesta vera"

di Giordano Stabile

Anche il presidente americano Donald Trump, questa notte, è intervenuto sul caso di Jamal Khashoggi, l'editorialista del Washington Post, critico nei confronti della Casa reale saudita, scomparso al consolato di Istanbul una settimana fa. Trump si è detto «preoccupato» per il giornalista, che le autorità turche ritengono sia stato ucciso dai servizi di Riad all'interno della legazione e poi fatto sparire: «Non mi piace quello che sento a proposito di questa vicenda», ha detto il presidente Usa ai reporter che chiedevano un commento. È intervenuto anche il segretario di Stato Mike Pompeo che ha chiesto all'Arabia Saudita di appoggiare «un'inchiesta a tutto campo» e di «essere trasparenti».
   Ieri era intervenuto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che da Budapest, dove ha incontrato il premier ungherese Viktor Orban, si è rivolto al personale della legazione: «Dire semplicemente che Khashoggi è uscito dal consolato non vi salverà». E ha continuato: «Perché non mostrate i filmati delle telecamere? Le informazioni che trapelano ci danno molto da pensare».
   I nuovi dettagli riguardano i movimenti nel giorno della scomparsa, il 2 ottobre, di «quindici individui arrivati dall'Arabia Saudita che sono entrati e usciti dall'aeroporto di Istanbul». Il sospetto è che Khashoggi sia stato ucciso e poi portato via all'interno di un'auto diplomatica. L'attenzione degli inquirenti è concentrata su due vetture, uscite ore dopo che il giornalista dissidente era entrato nell'edificio. Le autorità turche sono convinte che il commando sia arrivato con il compito di eliminarlo e hanno chiesto di poter perquisire il consolato.

(La Stampa, 9 ottobre 2018)


Gerusalemme, la scelta del sindaco

di Daniel Reichel

 
Zeev Elkin - Nella scritta: "Anch'io con Elkin! Per Gerusalemme più forte"
 
Moshe Leon
 
Ramadan Dabash
Il 30 ottobre i cittadini di Gerusalemme saranno chiamati a eleggere il proprio sindaco. Tante le candidature - nove quelle iniziali, ma a fine settembre erano già quattro i ritirati - con due frontrunner Zeev Elkin, ministro per gli Affari di Gerusalemme e dell'Ambiente dell'attuale governo Netanyahu, e Moshe Leon, collaboratore sia del ministro della Difesa Avigdor Liberman, leader del partito Yìsrael Beitenu, sia del ministro dell'interno Aryeh Deri, leader del partito religioso Shas. Dietro di loro nella corsa il vice sindaco di Gerusalemme, il candidato haredi Yossi Deutsch, 50 anni, e Ofer Berkovich, 35 anni, candidato laico e membro del consiglio comunale. L'unica donna in corsa era la candidata di Kulanu Rachel Azaria, la cui presenza aveva attirato molta attenzione ma le cui possibilità di successo erano quasi pari allo zero, essendo osteggiata dal mondo haredi. "Sono orgogliosa dell'opportunità di essere stata una donna candidata a sindaco e di aver rotto quel soffitto di vetro. Ritiro la mia candidatura per un senso di responsabilità nei confronti di Gerusalemme'', ha detto Azaria. Non aveva in ogni caso possibilità perché senza il voto dei haredim a Gerusalemme non si diventa sindaci: l'ex primo ministro e sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert ha vinto grazie a loro nel 2003; dopo di lui è stato un sindaco haredi, il primo e unico fino ad ora, Uri Lupolianski a guidare la città; l'attuale sindaco Nir Barkat, esponente laico, ha vinto nel 2008 e 2013 con l'aiuto di un accordo con i haredi. Senza di loro non si vince.
   Secondo le statistiche, Gerusalemme è la città più grande d'Israele per popolazione e conta 882.700 abitanti. Di questi, il 62% sono ebrei (536.600), circa il 36% sono musulmani (322.600) e circa il 2% sono cristiani. La popolazione haredi rappresenta il 34% degli ebrei della città con circa 182.000 residenti, e, a differenza del mondo arabo, da tempo fanno sentire il proprio peso alle elezioni. Anche se non sono un blocco omogeneo, chi riesce a stabilire un accordo con la loro leadership si trova decisamente in vantaggio: per questo Elkin ha accolto con preoccupazione la notizia del patto siglato dal suo avversario Leon con Shas e Degel Hatorah mentre Agudas Yisrael - altro partito religioso - sostiene sin dall'inizio il citato Yossi Deutsch. Il fatto che Leon sia appoggiato da una parte di haredim ha un impatto sulla politica nazionale: sembra infatti il segnale che lo strappo tra questo mondo e Lieberman - di cui Leon è il candidato - si stia ricucendo. Il ministro della Difesa è arrivato più volte allo scontro con gli ultra-ortodossi, ma ora il patto per il sindaco di Gerusalemme potrebbe facilitare un riavvicinamento. "La domanda ora è - spiega la giornalista israeliana Mazal Mualem, - Netanyahu getterà tutto il suo peso e il suo prestigio in favore di Elkin, dato che i legami un tempo caldi tra loro si sono raffreddati nell'ultimo anno? Non è sicuro". Non lo è, sottolinea Mualem, perché lo stesso Netanyahu ha e probabilmente avrà ancora bisogno del sostegno del mondo haredi a livello nazionale per cui potrebbe non esporsi a favore di Elkin, che rappresenta la destra nazional religiosa vicina al partito di Naftali Bennett HaBayt Ha Yehudi.
   A rimanere fuori dall'arena politica di Gerusalemme, è il mondo arabo. "Mentre i haredim sanno usare il loro potere per agire come attori centrali nella politica locale di Gerusalemme, il che ha un impatto anche sulla politica nazionale, - scrive sull'Al Monitor Mualem - gli arabi di Gerusalemme Est siedono volutamente fuori da questa arena. Dalla guerra dei Sei giorni del 1967 e dall'unificazione della città, gli arabi di Gerusalemme Est hanno boicottato le elezioni comunali, sostenendo che se partecipassero alle elezioni accetterebbero de facto l'occupazione, Nelle elezioni del 2013, meno del 2% ha partecipato alle elezioni". Per legge, i residenti di Gerusalemme Est (la maggior parte dei quali non sono cittadini israeliani) hanno il diritto di voto alle elezioni comunali, ma non alle elezioni della Knesset. Mentre un residente a Gerusalemme Est non può essere eletto sindaco ma può essere eletto nel consiglio comunale. Gli aventi diritto arabi a Gerusalemme sono poco più di 180.000. Un numero importante ma nessuno è mai riuscito a portarli alle urne. Avrebbe voluto farlo Aziz Abu Sarah, con il suo partito Al-Quds Lana (Gerusalemme è nostra): con permesso di residenza a Gerusalemme Est e senza cittadinanza israeliana, aveva dichiarato che avrebbe chiesto all'Alta Corte di cambiare la legge per consentirgli di candidarsi a sindaco. Abu Sarah aveva proclamato il suo sostegno ai palestinesi, ma la risposta araba è stata tutt'altro che di sostegno: alcuni palestinesi hanno interrotto, con il lancio di uova, la conferenza stampa in cui annunciava di voler correre per diventare primo cittadino. La pressione affinché si ritirasse era alta, e così Abu Sarah - che si occupa di turismo e vive tra Gerusalemme e gli Stati Uniti - ha deciso di fare un passo indietro. La notizia che le autorità israeliane stanno valutando di ritirare il suo permesso di residenza perché considerano che il centro della sua vita non sia Gerusalemme ha facilitato la decisione. "Sono frustrato - ha dichiarato alla stampa israeliana - Ma penso che siamo riusciti a creare un dialogo. Abbiamo fatto pensare, rimesso Gerusalemme sul tavolo e fatto parlare di quello che sta succedendo qui. Molti israeliani mi hanno scritto che non sapevano che il 40% dei residenti della città sono palestinesi senza diritti. Le cose a Gerusalemme devono cambiare. Le persone che cercano di mantenere lo status quo non vinceranno. Questa potrebbe non essere la fine, ma la fine dell'inizio".
   Chi invece ha scelto di rimanere in corsa è un altro palestinese, Ramadan Dabash, che punta a un posto nel consiglio comunale. "Dabash non è un uomo di sinistra - racconta il giornalista del New York Times Matti Friedman che ha dedicato un articolo al candidato palestinese -. Ha citato il Corano durante tutta la nostra conversazione e ha parlato calorosamente dei suoi 12 fìgli e delle sue quattro mogli. Non sembrava uno che si sarebbe trovato a suo agio in una conferenza sulla coesistenza finanziata dalle ong europee, ma piuttosto come un uomo che vorresti gestisse il tuo sindacato - un brusco maneggione che sa creare difficoltà a un negoziatore avversario. Al New York Times Dabash spiega che se verrà eletto non avrà problemi a collaborare con un sindaco come Elkin, un uomo molto di destra. ''A maggio, il governo ha stanziato 560 milioni di dollari per progetti a Gerusalemme Est. Se tutto quel denaro andrà dove previsto, sarà il più grande investimento singolo nella Gerusalemme palestinese da quando Israele ne ha preso il controllo mezzo secolo fa", spiega Friedman e Dabash vuole essere della partita. Il 30 ottobre si saprà se potrà partecipare e chi sarà a guidare la squadra vincente.

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Ai ferri corti fra loro, Hamas e Autorità Palestinese giocano col fuoco sulla pelle di Gaza

Ma i territori palestinesi non sono che uno dei fronti da cui Israele deve guardarsi

Furibondo per il proposito del Qatar di inviare aiuti alla striscia di Gaza, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha fatto sapere sabato che intende tagliare completamente il flusso di fondi verso l'enclave controllata da Hamas. Alte fonti della difesa israeliana hanno riferito a Hadashot che Abu Mazen è infuriato in particolare con il coordinatore speciale dell'Onu, Nikolay Mladenov, che avrebbe favorito il trasferimento di fondi dal Qatar nonostante la dura opposizione dell'Autorità Palestinese.
Secondo le fonti della difesa israeliana, il blocco dei circa 96 milioni di dollari che l'Autorità Palestinese invia ogni mese alla striscia di Gaza potrebbe mettere talmente in difficoltà Hamas da spingerla a scatenare un nuovo conflitto con Israele per uscire dall'angolo, e le violenze potrebbero facilmente allargarsi alla Cisgiordania...

(israele.net, 9 ottobre 2018)


"Oasi di pace" sotto attacco. Caccia al killer di due israeliani

di Giordano Stabile

Due impiegati di una fabbrica, di 29 e 35 anni, uccisi, una donna ferita e un palestinese ancora in fuga, braccato da centinaia di militari in Cisgiordania. Quello di ieri mattina è stato uno dei più gravi attacchi terroristici da mesi e preoccupa ancor più le autorità israeliane perché per la prima volta è stata colpita una «oasi di pace», un grande parco industriale che dà lavoro a migliaia di persone, ebrei e palestinesi, e finora era stato risparmiato dal conflitto. In più, dai primi elementi, sembra che il terrorista volesse rapire almeno una delle vittime, la ventinovenne poi assassinata. Segno di una azione più complessa rispetto agli attacchi improvvisati che hanno caratterizzato la cosiddetta «Intifada dei coltelli», cominciata giusto un anno fa.

 La fuga del killer
Il killer in fuga ripreso dalle fotocamere
Il killer, Ashraf Walid Saliman Neloah, sui vent'anni, era un ex operaio della fabbrica di Barkan, un complesso industriale sorto accanto all'insediamento di Ariel. È arrivato alle sette del mattino, dopo una assenza di un paio di settimane. È salito prima nell'ufficio dove lavoravano le vittime. Poi è sceso in officina a prendere fascette di plastica che si usano per legare i pacchi. È risalito nell'ufficio e ha aggredito la prima vittima, Kim Yehezkel, 29 anni, l'ha immobilizzata e legata con le fascette. Un collega, Ziv Hajbi, 35 anni, è però entrato nell'ufficio e li ha visti. Il terrorista gli ha sparato alla stomaco, un colpo mortale. Lo sparo ha attirato l'attenzione di un'altra impiegata, 54enne, che ha cercato di fuggire ed è stata ferita.
Il killer si è dato a questo punto alla fuga. Una guardia dell'officina, armata, ha cercato di fermarlo ma ha mancato il bersaglio. Il palestinese ha risposto al fuoco, la sua pistola si è inceppata ma è riuscito comunque a lasciare la fabbrica e a dileguarsi. È cominciata una gigantesca caccia all'uomo. L'esercito israeliano ha classificato i fatti come «attacco terroristico grave» e dispiegato centinaia di uomini. Sembra escluso il movente della vendetta. I militari, nella tarda serata di ieri, hanno circondato il villaggio di Beit Lib, vicino a Tulkarm, e hanno cominciato a setacciarlo.
Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha condannato l'attacco «non solo contro persone innocenti ma anche alla possibilità della coesistenza pacifica fra israeliani e palestinesi». Un concetto ribadito anche dall'ambasciatore americano David Friedman: «La zona industriale di Barkan è un modello di convivenza fin dal 1982, ora scossa da un brutale assassinio».

(La Stampa, 8 ottobre 2018)


Germania - Ora nasce l'Afd «ebraica». Nuova bufera sul partito

L 'estrema destra a caccia di nuovi consensi

di Daniel Mosseri

«Da noi non otterrete il timbro kasher». Con questo slogan circa 250 sostenitori della Jsud, l'unione degli universitari ebrei in Germania, ha protestato ieri a Francoforte contro la fondazione nella vicina Wiesbaden di JAfD, una sezione ebraica di Alternative für Deutschland. Fortissima all'est ma in crescita anche all'ovest, AfD è la formazione xenofoba accusata di connivenza con l'estremismo di destra nazionalista e antisemita. Nelle scorse settimane AfD ha manifestato a Chemnitz contro gli stranieri al fianco di hooligan e neonazisti.
   Mesi fa il suo leader Alexander Gauland ha liquidato l'esperienza del Terzo Reich paragonandola a «una cacca di uccello nella storia millenaria della Germania». Il numero uno di AfD in Turingia, Björn Höcke ha chiesto un'inversione nella politica di commemorazione dello sterminio degli ebrei, definendo «vergognoso» il memoriale alla Shoah eretto a Berlino.
   Con la nascita della sezione JAfD - 20 membri in tutto, alcuni dei quali si professano ebrei - si cambia, assicura il partito, facendo voto di lotta all'antisemitismo. II suo primo risultato è avere messo d'accordo 17 organizzazioni ebraiche tedesche secondo cui «AfD è un partito antidemocratico e largamente di destra radicale in cui l'antisemitismo e la negazione della Shoah sono di casa».
   Novità in politica sono giunte anche dal fronte moderato con il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, che alla Bild am Sonntag ha infranto un tabù: «La democrazia è sufficientemente stabile per far fronte a un possibile ritiro del Spd dalla grande coalizione». Le elezioni il 14 ottobre in Baviera e il 21 in Assia si annunciano disastrose per i partiti al governo e Schäuble prepara un piano B per la traballante Merkel.

(il Giornale, 8 ottobre 2018)


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Gli ebrei in Germania si oppongono a AfD

Il sito ebraico tedesco haGalil si fa portavoce dell'opposizione degli ebrei in Germania a AfD

In una dichiarazione congiunta, le organizzazioni ebraiche in Germania prendono posizione contro l'AfD. L'AfD non è affatto un partito per ebrei né per i democratici, secondo il documento firmato da oltre 40 organizzazioni e associazioni. Le organizzazioni si oppongono al fatto che gli ebrei siano strumentalizzati dall'AfD per i suoi scopi.
"L'AfD è un partito in cui trova posto l'odio per gli ebrei e la relativizzazione fino alla negazione della Shoah", si legge nel testo comune. Con la sua politica, l'AfD rappresenta una minaccia per la vita ebraica in Germania.
Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, dr. Josef Schuster, ha dichiarato: "L'AfD è antisemita. Incita le minoranze e cerca di dividere la società. Questo è incompatibile con i valori ebraici. Per noi, l'AfD non è un'alternativa".
Nella dichiarazione firmata da haGalil si dice inoltre:
"Le organizzazioni e associazioni ebraiche sottoscritte invitano tutte le forze democratiche dentro e fuori la comunità ebraica a unirsi apertamente e visibilmente contro ogni forma di pensiero antidemocratico, antisemita, razzista e nazionalistico!"
Il testo della dichiarazione

(haGalil.com, 4 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Netanyahu ai ministri: «Prepararsi per offensiva su Gaza»

C'è preoccupazione nel Governo israeliano per il taglio dei fondi per Gaza deciso dalla Autorità Palestinese. Si teme un ulteriore peggioramento delle condizioni umanitarie che potrebbero sfociare in violente proteste veicolate da Hamas e dalla Jihad Islamica.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, durante la domenicale riunione del gabinetto dei ministri ha avvertito che Israele si sta preparando ad una campagna militare su Gaza nel caso le condizioni umanitarie peggiorino ulteriormente scatenando così ulteriori incontrollabili violenze.
La preoccupazione del Governo israeliano riguarda la decisione della Autorità Palestinese (AP) di tagliare completamente i fondi ad Hamas dopo che il leader della AP, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si è sentito "scavalcato" dalla recente decisione del Qatar, in accordo con Israele, Egitto e Nazioni Unite, di inviare denaro per il pagamento del carburante necessario al funzionamento della centrale elettrica di Gaza....

(Rights Reporters, 8 ottobre 2018)


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