Notizie su Israele 111 - 14 luglio 2002
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Perciò, così parla DIO, il Signore: Io l'ho giurato! Le nazioni che vi circondano porteranno anch'esse la propria vergogna; ma voi, o monti d'Israele, metterete i vostri rami e porterete i vostri frutti al mio popolo Israele, perché egli sta per arrivare. (Ezechiele 36:7-8) Questo foglio di notizie contiene un solo articolo, che è di particolare interesse. Si consiglia di leggerlo con pazienza e attenzione. M.C. LE RESPONSABILITA' DEGLI EUROPEI NEL TERRORISMO CONTRO ISRAELE Arafat lancia bombe, l'Europa paga Il problema non è soltanto Arafat, ma tutta la struttura dell'Autorita Palestinese, dice qualcuno. Ma non è solo questo: il problema è anche la volontà dei politici europei di credere ostinatamente a tutto quello che dice il capo dell'OLP, anche davanti alle prove contrarie più evidenti. Nel numero 24 del 5 giugno di quest'anno la rivista tedesca "Die Zeit" ha pubblicato un importante e documentato articolo di Thomas Kleine-Brockhoff e Bruno Schirra, dal titolo "Arafat bombt, Europa zahlt", sull'uso fatto dal capo dell'OLP delle sovvenzioni dell'Unione Europea. Riportiamo ampi stralci della traduzione fatta per queste pagine da Anna Sanna, che qui pubblicamente ringraziamo. I rilievi in grassetto sono nostri. Nella moschea Sheikh-'Ijlin di Gaza City, si sono radunati 500 ragazzi e uomini per la preghiera del venerdì. Ascoltano l'imam della moschea, lo sceicco Ibrahim Madh. È il 12 aprile 2002 e l'imam parla della situazione della nazione palestinese:
Ma la libertà di stampa non proibisce che chi concede delle sovvenzioni stia bene attento a chi sta sovvenzionando. Controllare che cosa succede al denaro europeo è facile. Basta accendere un apparecchio televisivo in Terra Santa. Ciononostante, alle istituzioni europee la notizia della propaganda trasmessa è arrivata solamente il 23 novembre 2000. Infatti, in questa data, il deputato europeo del Belgio Olivier Dupoi chiede per iscritto se la Commissione Europea «ritenga accettabile che le sovvenzioni finanziarie dell'UE vengano impiegate per fomentare sentimenti di odio nei confronti del popolo israeliano.» Il parlamentare vorrebbe anche sapere «quali meccanismi la Commissione abbia intenzione di introdurre» per prevenire un tale abuso in futuro. [...] Il 6 maggio di quest'anno, il primo ministro d'Israele, Ariel Sharon, ha inviato all'UE degli «Atti Arafat» lunghi 100 pagine (www.idf.il). Essi dimostrerebbero che Arafat ha ingannato il mondo e che lui non vuole ottenere il suo Stato con le trattative, ma con il terrorismo, che lui personalmente comanda. Come prova, Sharon allega dei documenti che le sue truppe hanno sequestrato durante l'occupazione della centrale amministrativa di Arafat e altrove in Cisgiordania. Nel plico si trova una grave accusa: «Arafat e i suoi uomini hanno utilizzato le sovvenzioni di altri paesi, fra i quali l'UE, per finanziare il terrorismo.» L'UE ha subito ribattuto. Già il giorno dopo, 7 maggio, il commissario Chris Patten ha scritto una lettera ai ministri degli esteri dell'Unione: «Fino ad oggi la commissione dell'UE non è in possesso di alcuna prova sicura che dimostri che si sia abusato delle sovvenzioni dell'UE per il finanziamento del terrorismo o per qualche altro scopo.» È quanto Patten afferma fino ad oggi. I nuovi manuali scolastici palestinesi esaltano i 'martiri' Chi ha ragione? DIE ZEIT ha compiuto delle ricerche a Berlino, Bruxelles e Washington, in Israele e nei territori palestinesi; da tutte le parti ha esaminato indizi e documenti da cui risulta che con le sovvenzioni dell'UE si sarebbe finanziato prima, in nome della pace, una propaganda di guerra e poi, in nome della costruzione di strutture democratiche, una rete terroristica. I risultati delle ricerche sono allarmanti. [...] Senza l'Europa non funziona niente nel campo della pubblica istruzione. Edifici, stipendi, persino la commissione per i testi scolastici, vengono sovvenzionati da Bruxelles (a partire dal trattato di Oslo del 1993 con oltre 330 milioni di euro). Oltre a ciò, sei Stati dell'UE, coordinati dagli Italiani, finanziano la stampa dei libri. I Palestinesi assicurano al sestetto il permesso di vedere i libri prima della stampa. Arrivato il momento, i palestinesi non vogliono sentirne parlare. Felici che i primi libri, ormai vecchissimi e impregnati di evidente antisemitismo, vengano sostituiti, gli Italiani lasciano magnanimamente correre sul mancato rispetto dell'accordo. Non appena usciti i nuovi libri, piovono critiche dagli esperti occidentali nonostante alcuni progressi nel tono più moderato, che tutti riconoscono. Chi legge i libri di testo si accorge che l'idea della pace non vi è contenuta. Il processo di pace e i trattati di Oslo non vengono menzionati, c'è l'esortazione alla tolleranza, ma solo fra musulmani e cristiani. Gli ebrei non compaiono e, se compaiono, solo come figure storiche. Il loro legame con la Terra Santa è limitato all'antichità. Il reinsediamento ebraico è definito «infiltrazione». Non si trova un'esortazione diretta al ricorso al terrorismo, tuttavia vengono celebrati «i martiri di Palestina», per esempio «l'ingegner Ayyash», che negli anni novanta fu il mandante di diversi attentati suicidi e fece uccidere dozzine di Israeliani. Lo Stato di Israele non esiste, il suo nome non compare in alcuna carta geografica, invece si trovano espressioni come «linea verde», «l'interno del paese» o «il paese del 1948». Città fondate dagli Israeliani, come Tel Aviv, non vengono menzionate, mentre il nome dello Stato di Palestina, insieme allo stemma dell'Autorità di Arafat, si vede dappertutto, per esempio sulla copertina dei libri. Questo Stato si estende dal Giordano fino al Mar Mediterraneo. In una dichiarazione al Los Angeles Time, Abu Humus, il vice ministro dell'istruzione, giustifica così l'eliminazione di Israele dai libri di testo: «I confini di Israele non sono stati ancora decisi. Quando lo saranno, ci orienteremo secondo quanto il governo deciderà. Lasciamo semplicemente fare ai politici.» Secondo Abu Humus, ci si sarebbe limitati ad utilizzare le cartine correnti nel mondo arabo. E un capitolo sulla pace con Israele ci sarà non appena sarà stato firmato un trattato definitivo. In altre parole: nell'anno 2000 viene introdotto un curriculum di guerra. Ci vogliono un paio di settimane, perché la contesa dei libri scolastici arrivi nel continente europeo. [...] Per vedere che cosa sia migliorato, il deputato europeo Armin Laschet (CDU) parte nel luglio 2001 per la Palestina. Ma è costretto a constatare che niente è accaduto, nessuno ha cambiato i testi scolastici. Anzi, peggio: i vecchi libri antisemiti vengono ristampati, con l'aiuto degli Stati europei. Sulla rilegatura c'è il paese sponsorizzatore. Armin Laschet incalza addirittura Yasser Arafat, il quale, però, gli dice di non vedere il motivo per cambiare i nuovi libri di testo e di non avere i soldi per sostituire i vecchi più velocemente. Arafat dimentica di menzionare che il governo americano si è offerto ormai da molto tempo di pagare la sostituzione immediata e in blocco dei vecchi manuali scolastici. L'offerta è stata rifiutata da Arafat, che ha preferito far ristampare i vecchi libri di battaglia, con qualche ammorbidimento, grazie all'aiuto dei più malleabili europei. Laschet lascia indignato la Palestina e chiede al Parlamento Europeo di interrompere le sovvenzioni per il sistema scolastico «finché i libri di testo non verranno cambiati». Alla fine, nell'assemblea plenaria gli mancano due voti. I socialisti non vogliono votare a favore e neppure deputati di diverse frazioni dell'Olanda, dell'Irlanda e della Scandinavia. Questa alleanza non vuole fare pressioni sulla grande speranza dell'Europa in Medio Oriente. La speranza non impallidisce neppure quando si moltiplicano gli indizi che Arafat non voglia più quella pace che è presupposto per ogni sovvenzione. Nessuno prende in considerazione di imporre delle conseguenze, quando le stesse Brigate Martiri di Al-Aqsa, le brigate di Arafat, continuano a far saltare in aria degli Israeliani. La buona fede, l'ingenuità, la longanimità degli Europei sembrano infinite. Evidentemente non è cambiato niente dai giorni di Oslo, nell'autunno 1993, quando il mondo poté sperare che ci sarebbe stata pace in Terra Santa, dopo cento anni di guerra. Allora, alla prima conferenza dei paesi donatori, gli Europei e gli Arabi concordarono di aiutare lo Stato in fieri. Gli Europei presero seriamente il loro compito, come prendono sul serio soltanto le sovvenzioni agrarie. Da allora, è confluita in Palestina l'enorme somma di 4,1 miliardi di euro, senza contare gli aiuti di singoli paesi dell'UE. Poiché gli inventori dell'incentivazione alla pace temevano che il denaro risvegliasse l'avidità di chi lo avrebbe ricevuto, escogitarono i «progetti-aiuto». Con essi, l'utilizzo delle sovvenzioni è molto più facile da controllare rispetto ai versamenti ordinari nel bilancio. Quasi l'intera nuova infrastruttura scuole, ospedali, aeroporto è stata realizzata da Bruxelles. L'UE paga inoltre alla cassa di Arafat, anche se con destinazione vincolata. Il denaro è destinato agli stipendi degli impiegati pubblici, come poliziotti o insegnanti. Quando nell'autunno 2000 scoppia la seconda intifada, Israele blocca tutti i trasferimenti valutari ai Palestinesi. Per anni, gli Israeliani avevano ceduto all'Autorità di Arafat una parte delle loro entrate provenienti dai dazi doganali d'importazione. Ora, il nuovo governo di Ariel Sharon è convinto che Arafat non faccia niente per bloccare l'intifada, ma anzi la stimoli; che egli tolleri o incentivi la nuova serie di attentati suicidi contro Israele. Gli Europei valutano la situazione diversamente: Sharon ha scatenato da solo l'intifada con la provocazione della sua visita alla collina del Tempio; responsabili del terrorismo sono gli estremisti della Jihad Islamica e di Hamas; Arafat sta cercando di calmare le acque e di proteggere il processo di pace dai radicali. Perciò, l'Unione Europea prende una decisione, alla luce della situazione attuale, gravida di conseguenze: sostituisce gli Israeliani e, a partire dal giugno 2001, versa una quota mensile di 10 milioni di euro, direttamente e non come sovvenzione per un progetto. Secondo il commissario Chris Patten, si tratta di un «importante contributo» per evitare «un'ulteriore caduta nell'anarchia, nel caos e nella povertà.» La somma serve a contribuire a coprire «esigenze pubbliche fondamentali», vale a dire «istruzione, sanità, polizia, stipendi di impiegati del sistema pubblico.» Yasser Arafat ha utilizzato il denaro come previsto? 2200 chili di esplosivo, abbastanza per centinaia di bombe suicide All'inizio dell'estate 2001, quando gli Europei decidono di sostentare Arafat direttamente, Arafat decide qualcos'altro, dietro le spalle degli Europei. Il mondo viene a sapere di questa decisione solo un paio di mesi dopo, il 3 gennaio 2002. Quel giorno, il capo di stato maggiore israeliano Shaul Mofaz si trova su un aereo militare sopra il Mar Rosso e osserva il mare con un cannocchiale speciale. In basso, vede un mercantile blu arrugginito. Per tre mesi, il servizio segreto israeliano ha osservato la nave, ma ora Mofaz è nervoso. Guarda di persona con il cannocchiale, finché non riesce a decifrare le lettere sulla murata: Karina-A. In quel momento dà l'ordine di operazione. Nell'arco di alcuni minuti, le truppe del commando della marina hanno arrembato la nave, senza colpo ferire. L'esperto del Medio Oriente, Robert Satloff, del Washington Institute for Near East Policy, ha ricostruito dettagliatamente il decorso del traffico d'armi e lo ha pubblicato sulla rivista The National Interest (su questa ricostruzione è basata essenzialmente la nostra descrizione dei fatti). Fra casse contenenti capi di abbigliamento da poco prezzo e occhiali da sole, i soldati trovano armi ed esplosivi, imballati in container impermeabili, sufficienti a rifornire un piccolo esercito: razzi con gittata fino a 20 chilometri, granate, armi perforanti, mitragliatrici, mine. Inoltre, esplosivo C4 per 300 bombe suicide: 2200 chilogrammi, vale a dire cinque volte tanto il peso di tutte le bombe suicide esplose in Israele a partire dalla sua fondazione. Ma non è la quantità di armi a sconvolgere il Medio Oriente, bensì la loro provenienza e il loro obiettivo. La Karina-A proveniva dall'Iran, e le armi sarebbero dovute arrivare nella striscia di Gaza. È quanto confessa il capitano agli arresti. Ben volentieri gli Israeliani gli fanno ripetere la confessione davanti ai giornalisti del New York Times e di Fox-TV. Nell'intervista, l'uomo, Omar Akawi, cita anche il mandante: l'Autorità per l'Autonomia Palestinese. «Mi hanno detto che erano armi per la Palestina», racconta Akawi, «in qualità di ufficiale palestinese, faccio quello che mi viene detto.» Nel frattempo, anche funzionari governativi americani ed europei hanno controllato gli indizi e confermato la versione israeliana. L'ordine di acquisto di queste armi contrassegna la svolta strategica di Yasser Arafat: dalla soluzione pacifica del conflitto alla soluzione sanguinosa. Questa svolta si compie proprio nella fase in cui l'Europa ripone la più grande fiducia nel premio Nobel per la pace Arafat, promettendogli versamenti diretti. Uno dei segreti di questo affare è come Arafat abbia pagato il prezzo di favore di dieci milioni di dollari per la Karina-A. Fino ad oggi non c'è alcun indizio che l'Europa abbia pagato le armi contro Israele. Chi lo trova tranquillizzante, dovrebbe provare a fare un piccolo calcolo delle probabilità: al momento del traffico di armi, l'Europa pagava almeno il 10 per cento del bilancio corrente di Arafat e il 50 per cento di tutte le sovvenzioni. Oltre agli Europei, Arafat aveva soltanto due altre fonti di entrata: considerevoli sovvenzioni da parte degli Stati arabi e irrilevanti entrate fiscali. Quant'è grande dunque la probabilità che Arafat non abbia sporcato la reputazione europea? [...] A credere all'Unione Europea, c'è un controllo efficace per i finanziamenti in favore della Palestina: il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il commissario Chris Patten scrive che l'FMI esamina i pagamenti con la massima precisione e spedisce ogni |
mese un nullaosta. Per l'FMI è Karim Nashashibi a farsi carico di questo compito. Nashashibi vive a Gerusalemme. Quest'uomo, che, secondo Patten, dovrebbe controllare i Palestinesi, è egli stesso un palestinese. Proviene dallo stesso clan del ministro delle finanze di Arafat, in carica da anni e porta il suo stesso cognome. Per lui era prevista addirittura una carriera politica sotto Arafat: fino a lunedì di questa settimana, l'esaminatore dell'FMI sarebbe dovuto diventare il nuovo ministro delle finanze di Arafat. Poi il vento è cambiato, e il predecessore di Nashashibi all'FMI è diventato il candidato alla carica. Il consigliere finanziario di Arafat, Fuad Shoubaki, l'uomo che ha comprato la Karina-A, è orgoglioso di poter definire «un amico» il rappresentante dell'FMI Nashashibi. Tuttavia, quell'amico che dovrebbe essere anche un controllore, afferma: «Noi non possiamo sapere come viene speso ogni singolo euro», perché «non siamo dei revisori dei conti». L'FMI controlla unicamente che le somme confluiscano nei vari settori in modo corrispondente al bilancio. Non diversamente la vede l'FMI a Washington. «Non abbiamo l'incarico di revisione dei conti», dicono, «aiutiamo soltanto a redigere il piano del budget dell'Autorità per l'Autonomia Palestinese.» Se ciò è vero, fino ad ora i Palestinesi si sono controllati da soli, cioè non si sono controllati affatto. Ciò che ai politici dell'Europa deve sembrare ora una grossa sorpresa, si è prospettato da tempo. La svolta di Yasser Arafat nel frattempo si può raccontare come un capitolo di un epos guerresco. Infatti, i testimoni palestinesi iniziano lentamente a rompere il loro silenzio. Essi parlano delle sedute per la definizione delle strategie dell'Autorità per l'Autonomia (ma chiedono di rimanere anonimi). Gli incontri iniziano già prima dello scoppio dell'intifada nell'autunno 2000 e terminano evidentemente con la raccomandazione a puntare sul terrorismo. Uno di questi incontri è datato febbraio 2001, poco prima delle elezioni in Israele. Si svolge nella Orient House di Gerusalemme. Vengono discussi due possibili scenari per il futuro. Opzione numero uno: la gente di Arafat punta su una rivolta controllata. In questo periodo, l'intifada procede già da cinque mesi con pietre, spari e morti. Già all'inizio Arafat aveva liberato degli attentatori agli arresti, dimostrando in tal modo di tollerare il terrorismo dei radicali, di voler giocare con esso. Una strategia di omicidio e contemporaneamente di accerchiamento, che impiega i propri membri di partito solo nei territori occupati. Alla fine, il primo ministro israeliano, snervato, sarebbe costretto a scendere a compromessi. «Se Sharon compisse un massacro con i fiocchi» «Non se viene eletto Sharon!» È l'obiezione dei sostenitori dell'opzione numero due. Essi offrono un'altra analisi della situazione, ritenuta più moderna. Dal momento che un presidente del consiglio come Sharon non offrirà mai più di quanto avesse fatto il suo predecessore Ehud Barak nelle trattative di Camp David dell'anno precedente, bisogna puntare sulla guerra. Non è forse chiaro da un paio di mesi che è possibile sconfiggere Israele? Questa è l'interpretazione che il gruppo dà del ritiro di Israele dal Libano. Gli Israeliani non hanno resistenza e non reggerebbero a delle perdite continue. L'attentatore suicida invisibile è l'arma che può colpire al cuore questa società rammollita. Per i sostenitori di tale teoria un primo ministro dalla linea dura è addirittura la soluzione migliore. Basta provocare abbastanza Sharon ed egli risponderà con la violenza. Le truppe personali di Arafat, le Brigate di Al-Aqsa, sarebbero pronte. Un cinico, insediato molto in alto nella gerarchia palestinese, ha detto in quel periodo: «Ci augureremmo che Sharon compisse un massacro con i fiocchi.» In questo caso, infatti, si metterebbe in moto il meccanismo del 'modello Kosovo'. Il mondo, indignato con Israele, accorrerebbe in aiuto. Alla fine, in Terra Santa ci sarebbero delle truppe internazionali che proteggerebbero il nuovo Stato palestinese. È evidente che questo tragico sogno delirante ha dato alla testa anche a palestinesi che prima venivano considerati dei moderati. Ora, per mezzo di alcuni documenti, gli Israeliani vogliono dimostrare che Yasser Arafat si è posto, nella primavera del 2001, alla testa del movimento e ha trasformato il fantasma in una strategia. I documenti sono stati scoperti quando i carri armati israeliani, in seguito a sempre nuovi attentati omicidi, si sono aperti una pista attraverso i territori occupati, lasciandosi alle spalle macerie e cadaveri, occupando stazioni di polizia, edifici amministrativi e la sede centrale di Yasser Arafat. Oggi, la documentazione, stipata in casse da trasloco, si trova in alcuni magazzini. Grossi gruppi di lavoro analizzano diversi milioni di fogli e molti gigabyte di dati. L'esercito israeliano ha messo a disposizione su Internet una selezione dei documenti, altri vengono consegnati ai giornalisti, per convincere il mondo. Il 21 marzo è uno di quei giorni terribili a cui nessuno si abituerà mai. La bomba esplode nel centro di Gerusalemme Ovest, sulla King George Avenue. Il colpevole è un giovane, un arabo, che poco prima era parso sospetto a dei passanti. Questi ultimi avvisano la polizia, l'uomo si afferra la pancia: troppo tardi! L'assassino rimane steso a terra morto, insieme a tre vittime, 70 persone restano ferite. Subito inizia il rituale politico. Le Brigate Al-Aqsa di Arafat rivendicano l'attentato. I poliziotti israeliani e palestinesi si incontrano per consultarsi. Il ministro degli esteri americano, Colin Powell, telefona ad Arafat e gli chiede di procedere con decisione contro i terroristi. Il capo palestinese dichiara che terrà le fila con maggiore fermezza. Secondo i documenti, trovati in seguito nel quartier generale di Arafat, e negli uffici del servizio di informazione a Tulkarem e Nablus, in quel momento il capo palestinese avrebbe dovuto arrestare se stesso. «Per favore, dia ordine di versare 2000 dollari ad ognuno dei fratelli di lotta» La storia dell'attentato è registrata in un intero fascio di carte, in grado di rivoluzionare l'immagine corrente del tipico attentatore suicida. Qui non si tratta assolutamente di un giovane arrabbiato che, umiliato dall'oppressione, dall'occupazione e dalla povertà, ad un bel momento reagisce con un colpo di testa. Piuttosto, si disegna l'impresa pianificata con precisione e preparata per mesi di una cellula terroristica, che agisce a comando. Sullo sfondo, l'azione dei satrapi di Arafat, che burocratizzano l'intero processo e si disputano il diritto di indicare al martire la via verso il cielo. L'uomo prescelto si chiama Mohammad Hashaikh, proviene da un sobborgo di Nablus, ha 21 anni ed è poliziotto dell'Autorità per l'Autonomia. La pianificazione viene assunta da due cosiddetti operatori, Naser Ash-Shawish e Mohammed Ka'abina, entrambi poco meno che trentenni, entrambi di Nablus, uno impiegato presso uno dei servizi segreti di Arafat, l'altro membro della Jihad Islamica. Le istruzioni provengono da uno dei 13 servizi segreti del capo palestinese, che evidentemente non si sente disturbato dal fatto che un membro della cellula sia della concorrenza islamica. La cellula, nei mesi di preparazione, viene scoperta da un altro servizio segreto del regno di Arafat. Il suo agente scrive un rapporto il 2 dicembre 2001, e poi fa arrestare i tre membri della cellula per interrogarli. Egli riceve istruzioni di rilasciarli e di continuare a tenerli sotto osservazione, evidentemente con l'obiettivo di utilizzare in seguito i servizi dei terroristi in prima persona. Così, accompagna a casa il futuro martire, lì beve un tè e dà un'occhiata alla cintura imbottita di esplosivo. L'8 febbraio 2002 sembra essere giunta l'ora del martirio. Gli viene detto di recarsi a Tulkarem. Là, con la cintura esplosiva intorno alla pancia, l'uomo attende l'ordine di azione. Ma non succede niente. Probabilmente, i servizi segreti non riescono a mettersi d'accordo su chi debba avere il privilegio di guidare l'operazione. Anziché dare il segnale all'attentatore, uno dei servizi segreti lo fa nuovamente arrestare e portare a Ramallah. Nel frattempo, è intervenuto Yasser Arafat in persona. In una telefonata con gli Israeliani, egli si vanta della sua lotta contro il terrorismo e menziona il fatto che i suoi funzionari hanno arrestato un terrorista. Secondo un appunto degli atti, poco dopo, il coordinatore del servizio segreto di Arafat è già nella cella, restituisce la cintura dinamitarda e comunica al prigioniero il luogo e la data dell'operazione: Gerusalemme, 21 marzo 2002. Gli Israeliani hanno trovato ricevute di pagamento secondo le quali le ricompense per gli autori dei crimini, dopo una cascata di versamenti, sono state prelevate da quei conti sui quali l'Unione Europea effettua i suoi versamenti. Un indizio che porta in una direzione terribile. Ma non ancora abbastanza per provare che sia proprio il denaro per gli indennizzi a provenire dal pentolone delle sovvenzioni di Bruxelles. Per questo motivo, è importante sapere quanto siano affidabili le ricerche degli Israeliani su Yasser Arafat e sul suo sistema. In fondo, all'analisi del materiale hanno pur sempre collaborato dei servizi segreti israeliani. E l'interesse politico del premier Sharon, che non brilla certamente per essere un uomo di pace, è evidente: Arafat deve andarsene! Si tratta allora di informazione o di propaganda di guerra? Dal momento del ritrovamento degli atti, la domanda si pone praticamente ad ogni governo occidentale, anche a quello tedesco. Per questo motivo, esso ha chiesto l'esame dei documenti ai propri esperti del Servizio Federale di Informazioni (BND, BundesNachrichtenDienst). A metà aprile, il BND consegna la sua prima perizia, la quale ritiene autentici i documenti e concorda con le conclusioni degli Israeliani. Tuttavia, ci sono solo degli indizi di un coinvolgimento di Arafat, ma non prove rilevanti da un punto di vista penale. Il 2 maggio, il BND presenta una nuova perizia (numero di protocollo 39C-04/2/02). L'autore giunge a risultati simili ai precedenti. Per quanto i primi documenti non contenessero «una prova diretta» di un abuso delle sovvenzioni della UE per il finanziamento del terrorismo, «è tuttavia riconoscibile che Arafat evidentemente non opera una separazione fra la struttura del regime dell'Autonomia e il suo movimento Al Fatah.» Per tale motivo, «non è da escludere» un uso degli incentivi finanziari per uno scopo diverso da quello previsto. L'autore della perizia parla di «manifesta disamministrazione» e «corruzione ampiamente diffusa», e arriva alla conclusione seguente: «Realisticamente, in nessun momento si può partire dal presupposto che la distribuzione delle sovvenzioni UE ( ) avvenga al cento per cento secondo gli scopi previsti.» E produce subito degli esempi. È evidente che Arafat ha riempito le sue casse nere grazie ad un trucco valutario: per gli stipendi degli insegnanti, dei medici e dei poliziotti palestinesi, l'UE pagava in dollari; Arafat trasmetteva il denaro in shekel, tuttavia previa trattenuta di una provvisione del 25 per cento. I funzionari, poi, dovevano passare un ulteriore 3,7 per cento ad un esattore delle tasse, senza che la somma fosse registrata nel bilancio come imposta straordinaria. Si pone la domanda di come mai il BND sappia tutto ciò con tanta precisione. I servizi segreti in Palestina sono collegati tanto strettamente? Risposta concisa: sì. La risposta più esauriente riconduce all'opera europea di promozione di Arafat, alla quale partecipa da anni anche il BND, senza che l'opinione pubblica tedesca ne abbia mai saputo niente fino ad oggi. Secondo le informazioni di DIE ZEIT, il BND ha equipaggiato e addestrato i servizi segreti di Arafat nella striscia di Gaza a partire dai trattati di Oslo del 1993. I nuovi servizi di sicurezza avevano bisogno di aiuto soprattutto in una materia: lotta al terrorismo. Ora il governo federale deve porsi l'angosciante interrogativo se i protetti del BND, da qualche tempo a questa parte, abbiano ridefinito i loro obiettivi, vale a dire se un gruppo antiterrorismo si sia trasformato in un'organizzazione terroristica. Il BND, viene detto, ha interrotto segretamente la sua collaborazione con i Palestinesi alla fine dell'anno 2000, come segretamente l'aveva iniziata. Gli agenti del servizio segreto devono aver afferrato la svolta dei loro allievi. Che cosa, di tutto ciò, ha comunicato il BND al suo governo? E quali conseguenze ne ha tratto il governo federale? [...] Joschka Fischer vuole ora un controllo più severo delle sovvenzioni europee e una riforma democratica dell'Autorità per l'Autonomia. La sua richiesta ricorda le illusioni che per prime hanno reso possibile tutto questo affare. Infatti, per quale ragione dovrebbe realizzarsi proprio ora, in una condizione di guerra, quella democrazia araba che neppure i trattati di Oslo sono riusciti a partorire nel corso di anni? E a che cosa serve il più severo dei controlli sull'impiego del denaro, se Arafat alla fine, finanzia il terrorismo con i propri mezzi? No, la politica tedesca, e più che mai quella europea, si ribellano all'idea che i presupposti per l'opera di sostentamento di Arafat siano venuti a cadere. Questa politica voleva la pace e non una guerriglia di assassini con le bombe. Soltanto da quando è cessata l'occupazione della sede centrale di Arafat, le sue Brigate Martiri Al-Aqsa hanno rivendicato tre dei nove successivi attentati mortali nei confronti di cittadini israeliani. Chi voglia in futuro impedire una catastrofe umanitaria in Palestina, non può permettersi di sostentare il capo del governo, il suo bilancio e i suoi funzionari. I Palestinesi chiedono all'Europa il pagamento degli indennizzi Finora, i politici d'Europa hanno costantemente ignorato qualsiasi indizio di abuso delle sovvenzioni. Inizialmente, nel 1994, si trovavano ancora in buona compagnia, perché gli Americani e gli Israeliani facevano lo stesso. Essi ignoravano i bilanci fantasma di Arafat nella speranza che, alla fine, avrebbero potuto essere ricompensati con la pace. Perciò, gli Israeliani non reagivano neppure quando Arafat, rompendo i patti, armava la sua polizia. Soltanto quando i suoi seguaci si rivolgono al terrorismo, danno l'allarme: ma l'Europa non ascolta. L'Unione Europea è fiera della propria politica di equidistanza fra Israeliani e Palestinesi. Tuttavia, mentre accusa il premier Ariel Sharon per la sua politica di occupazione, la costruzione di colonie e la poca disposizione alla pace, ignora invece la svolta di Yasser Arafat. Nessuno vuole farsi distruggere l'immagine del guerriero della libertà con la kefja, e tantomeno di farsela distruggere dalla realtà. Per gli uni, non può infrangersi una figura-simbolo della sinistra, per gli altri non può andare perduto l'ultimo partner per le trattative. Come risultato di questa politica c'è il rifiuto di fornire ad Israele pezzi di carri armati e, contemporaneamente, il rifiuto, per mesi, di riesaminare le sovvenzioni per il budget di Arafat. Solo martedì mattina di questa settimana la commissione UE per il bilancio ha deciso di interrompere i pagamenti. Tuttavia, finché il Parlamento Europeo non confermerà la decisione, il denaro continuerà a scorrere. [...] Il 22 aprile 2002, alla Conferenza del Mediterraneo nella città spagnola di Valencia, il ministro palestinese Nabil Shaath presenta ai membri della Commissione Europea richieste di sovvenzioni per una somma di circa 1,9 miliardi di dollari. Secondo i racconti concordi di diversi testimoni, la lista di Shaath contiene una voce di 20,6 milioni di dollari per le armi e 40,6 milioni di dollari per il sostegno a carcerati e «famiglie di martiri». In tutta serietà, i Palestinesi si aspettano dagli Europei di imitare Saddam Hussein e pagare degli indennizzi. I diplomatici europei riuniti non danno l'allarme sentendo la richiesta. Non sono inorriditi, ma incresciosamente commossi. E fanno sparire la lista in una cassaforte. Non ne vogliono sapere niente: preferiscono continuare ad essere ingannati con stile. Chi desidera ricevere la traduzione integrale dell'articolo può richiederla. Chi vuole riportare questo testo su altri notiziari è pregato di citare la fonte. INDIRIZZI INTERNET The History of the Jewish People | ||