L’inutilità dell’Unifil
di David Elber
Per prima cosa va puntualizzato che Israele, da diversi giorni, ha chiesto l’allontanamento dell’inutile contingente ONU per evitare che i suoi membri potessero rimanere coinvolti negli scontri a fuoco. Inoltre, prima dell’azione militare ha chiesto ai militari vicini alle postazioni di osservazione di mettersi in sicurezza visto che si rifiutavano per mere ragioni politiche di allontanarsi dagli obiettivi dell’azione militare. È evidente che queste precauzioni hanno salvaguardato l’incolumità dei soldati dell’UNIFIL che non erano in nessun modo l’obiettivo dell’azione medesima.
Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.
(L'informale, 12 ottobre 2024)
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L’ayatollah d’Occidente
Non è un pazzo irrazionale. Khamenei ci legge, studia e sa parlare la lingua che seduce le democrazie. Ha dichiarato una “guerra cognitiva” per reclutare adepti nel nuovo anti imperialismo degli imbecilli.
di Giulio Meotti
Lo scorso weekend, Ali Khamenei ha tenuto un sermone di quaranta minuti fuori da una moschea a Teheran giustificando il pogrom del 7 ottobre. Per quaranta lunghissimi minuti, Khamenei si è visto trasmettere in diretta dalla Bbc, la tv pubblica inglese, mentre aveva con sé un fucile. “Si potrebbe, a fatica, capire la Bbc che intervista Khamenei”, ha scritto Bernard-Henri Lévy. “Ma trasmettere un discorso di 45 minuti che elogia il 7 ottobre e sostiene la distruzione di Israele non è niente di meno che glorificare il terrorismo. Avreste, nel 1939, trasmesso servilmente le parole di Hitler?”. Khamenei non è Hitler, ma il più o meno inconfessabile beniamino di un pezzo d’occidente che vede in Iran, Cina, Russia, Hezbollah, Hamas e Venezuela un nuovo asse del bene contro quello del male, composto da occidente, America e Israele. “La questione non è solo politica, ma metafisica” scrive su Le Point Franz-Olivier Giesbert, a lungo direttore della redazione dell’Obs, del Figaro e di altri giornali francesi. “Per quale aberrazione mentale il loro odio di sé o la loro pulsione di morte li porta a proclamare un’intifada in pieno centro a Parigi o a travestirsi da fedayn, coperti di kefiah, di veli, per sostenere la ‘resistenza’ guidata dal ‘grande leader iraniano’, come dice seriamente Dominique de Villepin? Da qui la demonizzazione quasi paranoica di Israele per riportare alla luce, sulle sue macerie, una grande Palestina, ‘dal mare al Giordano’. Questo è l’obiettivo dichiarato dei mullah e dei loro mercenari. Sulla stessa linea, i cavalieri dell’Apocalisse della nostra ‘quinta colonna’ non muovono mai la minima critica contro l’Iran, il loro migliore alleato”. I sondaggi mostrano un consenso in occidente per il progetto di Khamenei più ampio che in Iran. “I giovani britannici sono sempre più a favore di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre”, secondo un nuovo sondaggio di YouGov uscito questa settimana. Il 16 per cento ritiene che il massacro sia “giustificato”, come ha detto Khamenei sulla Bbc. Oltre un quarto, il 28 per cento, dei britannici “molto di sinistra”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni ha affermato di sostenere “l’abolizione di Israele e la sua consegna ad Hamas”. Khamenei è l’ayatollah d’occidente a capo dell’“anti imperialismo degli imbecilli”. Quando la moschea sciita di Roma tiene una serata di preghiera per Hassan Nasrallah, l’ordine arriva da Khamenei. Quando la Svezia è inondata da centinaia di migliaia di messaggi sui social contro l’“islamofobia” e il rogo del Corano, l’ordine arriva sempre da Khamenei. Quando la McGill University, in Canada, è travolta da un’ondata di manifestanti pro Gaza e sui social è un putiferio di proteste, l’ordine arriva da Khamenei. Intanto a Roma sventolano le bandiere di Hezbollah e dell’Iran e i ragazzi romani portano cartelli dove si legge: “7 ottobre non è terrorismo, ma resistenza”. E i gruppi filopalestinesi della Columbia University ora esprimono solidarietà con l’attacco missilistico dell’Iran allo stato ebraico, definendolo una “mossa coraggiosa”. La prima pagina del numero del 2 maggio 2024 del settimanale Khat-e-Hizbullah, portavoce di Khamenei, presentava una foto delle proteste nei campus americani con il titolo: “Una fiamma nel cuore dell’oscurità: rivolta degli studenti americani contro il genocidio del popolo di Gaza”. Khamenei afferma che la guerra è ora una guerra cognitiva: “L’influenza della stampa è più potente di un missile, un drone, un aereo da guerra e le armi in generale. I media influenzano la mente e i cuori, e chi controlla i media riesce a raggiungere i suoi obiettivi”. Khamenei continua intanto a usare i social per dire al mondo che “i sionisti sono come i nazisti”, un refrain ormai entrato di petto nella cultura occidentale. Khamenei manipola anche il termine “razzismo”, il passepartout della coscienza occidentale. Come ha detto lui stesso, “il regime sionista è un esempio di razzismo”. Quando Teheran minacciò di distruggere Israele “tumore canceroso”, il Premio Nobel per la letteratura, il tedesco Günter Grass, prese carta e penna per difendere gli ayatollah iraniani, dicendo che era Gerusalemme che minacciava Teheran, non il contrario. Poi, distribuita su X (Twitter), arriva la lettera di Khamenei agli studenti americani, in cui il leader compiace la sinistra usando il gergo woke e la da’wa, la sensibilizzazione islamica. Khamenei ha condannato l’“islamofobia” nella sua prima lettera ai giovani occidentali dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi. “L’élite sionista globale… possiede la maggior parte delle corporazioni mediatiche statunitensi ed europee o le influenza attraverso finanziamenti e corruzione”, scrive Khamenei. Musica per le orecchie degli antisemiti. “Il leader iraniano sta facendo ciò che faceva l’Unione sovietica”, scrive Michael Totten sul World Affairs Journal. “Entrambi hanno usato il linguaggio occidentale dei diritti umani come armi contro l’occidente. Ehi, forse il leader iraniano è uno di noi! Forse tutto ciò che dice il nostro governo è una bugia!”. Khamenei ha attaccato la “brutalità della polizia americana”, dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020. Ha twittato: “Se hai la pelle scura e cammini negli Stati Uniti, non puoi essere sicuro di restare vivo nei prossimi minuti”. Non male per un regime che sfregia con il rasoio le ragazze che rifiutano il velo. In un tweet sempre rivolto alla sinistra americana, Khamenei ha processato il passato degli Stati Uniti. La schiavitù, ha detto Khamenei, “è uno degli eventi tragici della storia. Un tempo salpavano le navi nell’Oceano Atlantico e gettavano l’ancora sulle coste dell’Africa occidentale, in Gambia e altri paesi del continente”. Intanto la sua autobiografia, “Cella numero 14”, riferimento alla prigione in cui la Guida suprema ha trascorso tre anni al tempo dello Shah, è stata tradotta in inglese, spagnolo, portoghese, cinese, urdu e altre lingue, nonché è presentata nelle capitali della “resistenza antioccidentale”, a cominciare da Caracas, dove il chavismo è diventato la Mecca degli antagonisti occidentali (va da sé che Chávez era un habitué a Teheran). Khamenei, oltre al Papa vicario di Cristo, è l’unica figura mondiale che reclama un legame con Dio (ayatollah significa “segno di Allah”). Nato a Mashhad nel 1939, il padre studioso religioso, Khamenei studiò a Qom dal 1958 al 1964 e, mentre era lì, si unì al movimento di Khomeini, di cui è diventato erede nel 1989. L’anno in cui i popoli dietro la cortina di ferro insorgevano contro il dominio sovietico e il Muro di Berlino cadeva, dall’Iran l’ayatollah decideva di mettersi alla testa della grande resistenza contro l’occidente. Oggi il filosofo iraniano Daryush Shayegan dice che la caduta della Repubblica islamica assesterà un colpo fatale all’islam politico, rimasto bloccato al 1989. Non importa che l’Iran di Khamenei detenga il record mondiale di condanne a morte, che impicchi in piazza i dissidenti e gli omosessuali, che faccia strame delle donne libere, che censuri la cultura, che spenda un miliardo di dollari all’anno per finanziare gruppi terroristici e che svetti in altri record poco liberal. Khamenei attacca la democrazia liberale, il capitalismo e l’occidente coinvolti “in un inevitabile declino a lungo termine”. Vede l’occidente come “islamofobo”. E’ un fanatico, ma non è irrazionale. Nessun altro marja (ayatollah anziano) o faqih (giurista islamico) ha un passato così cosmopolita. Khamenei conosce le corde che deve pizzicare per suonare lo spartito occidentale. Come quando attacca il “soft power” coniato da Joseph Nye. Il sedici per cento e la metà dei giovani inglesi e americani ritiene che il massacro del 7 ottobre sia “giustificato” L’ayatollah iraniano ha scritto: “La stampa ha un’influenza più potente di un missile, i media influenzano menti e cuori” Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, secondo lui “obsoleta” La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei, che risale agli anni Sessanta, sta facendo breccia in tanti occidentali. Khamenei parla spesso dei romanzi occidentali. Ha elogiato il russo Mikhail Sholokhov e gli piacciono Honoré de Balzac e Victor Hugo. Come disse ad alcuni funzionari della rete televisiva statale iraniana nel 2004, “secondo me, ‘I miserabili’ di Victor Hugo è il miglior romanzo mai stato scritto nella storia. Ho letto ‘La Divina Commedia’. Ma Hugo è un miracolo nel mondo della scrittura… Un libro di sociologia, un libro di storia, un libro di critica, un libro divino, un libro di amore e sentimento”. Khamenei ha detto che i romanzi gli hanno dato una visione delle realtà più profonda della vita in occidente. “Leggete i romanzi di alcuni autori di sinistra, come Howard Fast”, ha consigliato a un pubblico di scrittori e artisti nel 1996. Fast è lo scrittore americano comunista vincitore del Premio Stalin. “Leggete il famoso libro ‘Furore’, scritto da John Steinbeck… e vedete cosa dice sulla situazione della sinistra”, continua Khamenei. E’ anche un fan della “Capanna dello zio Tom”, che raccomandò nel marzo 2002 ad alti dirigenti statali: “Non è questo il governo che ha massacrato gli abitanti nativi originari della terra d’America? Non è stato questo sistema e i suoi agenti che hanno sequestrato milioni di africani dalle loro case e li hanno portati via come schiavi e hanno rapito i loro giovani figli e figlie per farli diventare schiavi e hanno inflitto loro per lunghi anni le tragedie più gravi? Oggi, una delle opere d’arte più tragiche è ‘La capanna dello zio Tom’. Questo libro è ancora vivo dopo quasi duecento anni”. L’ayatollah sa usare il registro woke quando serve. Conosce l’occidente, anche se vi ha messo piede soltanto una volta nel 1987, quando Khamenei fece il suo unico viaggio fino a oggi negli Stati Uniti, per partecipare come presidente dell’Iran a una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel suo discorso disse agli americani: “Siete colpevoli di sostegno alla dittatura Pahlavi, con tutti i crimini che ha commesso contro il nostro popolo”. Khamenei ha diversi famigliari in Gran Bretagna e Francia, tra cui suo nipote, Mahmoud Moradkhani, mentre una sorella di Khamenei, Badri, lo ha accusato di aver costruito un “califfato dispotico”. L’ayatollah ha descritto la cultura occidentale come “una combinazione di cose belle e brutte”, dicendo ai giovani iraniani: “Nessuno può dire che la cultura occidentale sia completamente brutta”. Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, Fanon e altri intellettuali della sinistra europea. Se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, diventata “obsoleta”. Come Khomeini nell’esilio parigino, Khamenei ha coltivato rapporti con intellettuali occidentali rinnegati, come il comunista prima cattolico e poi islamico Roger Garaudy, negazionista, oltre a ospitare sul sito khamenei.ir interviste a leader della sinistra radicale come George Galloway. Basta leggere “Dossier Iran” (Neri Pozza), che raccoglie gli scritti da Teheran di Michel Foucault, per capire la fascinazione di tanti intellettuali europei per le Guide supreme iraniane. E dell’appeasement occidentale, Khamenei si fa beffe. Un anno fa il presidente svizzero Alain Berset, in occasione della festa nazionale iraniana, che si celebra l’11 febbraio e commemora la cacciata dello Shah e l’instaurazione della Repubblica islamica, ha inviato “un telegramma di congratulazioni.” “Il presidente federale augura all’Iran e ai suoi cittadini un futuro felice e di successo”, recita il testo di Berset. La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei fa breccia in tanti occidentali. Le radici del suo antisemitismo si trovano nella biografia della sua città natale, Mashhad. Nei salotti islamici che Khamenei frequentava al tempo, le correnti marxiste ritraevano Israele come strumento dell’imperialismo occidentale; contemporaneamente, Khomeini attaccava l’“influenza ebraica” nella corte reale Pahlevi. Nel maggio del 1963 il giovane Khamenei ricevette una lettera di Khomeini, da consegnare alle autorità religiose a Mashhad. Il messaggio diceva: “Preparatevi per la lotta contro il sionismo”. Khamenei attacca “l’opposizione degli ebrei al Profeta”, “l’avidità degli ebrei” e “la magia nera dei rabbini”. Il 5 agosto 1980, Khamenei tiene uno dei suoi più famosi sermoni. “La nazione iraniana è l’avanguardia della lotta per la liberazione della Palestina… La rivoluzione iraniana ha raggiunto la vittoria entro i confini, ma fino a quando una piaga contagiosa, un tumore sporco chiamato stato di Israele, usurpa le terre islamiche, non possiamo sentire la vittoria”. Khamenei aggiunge che “se ogni membro della grande comunità islamica di un miliardo di fedeli getta un secchio d’acqua contro Israele, Israele sarà annegato dal diluvio e sarà sepolto”. E così l’ayatollah che pensa di essere il rappresentante di Allah sulla terra ha finito per essere venerato non solo a Teheran, ma anche a Sciences Po, alla Columbia e nelle scuole di giornalismo. Spinto dall’odio per l’entità sionista, il capitalismo liberale e l’occidente, Khamenei lancia missili progressisti e “decolonialisti”, più simbolici che altro e che hanno ucciso relativamente poche persone, mentre Benjamin Netanyahu è un ebreo pericoloso con un ego sproporzionato, “mascolinità tossica” al suo peggio. Il genio diplomatico di Khamenei gli ha permesso di costituire un “asse del bene” capace di resistere all’“asse del male” guidato dagli americani. L’ayatollah ovviamente ha il suo lato oscuro (nessuno è perfetto), come sulla questione del gender. Tuttavia, guardiamo avanti. Anche se Khamenei cadrà, il figlio Mojtaba ne prenderà il posto e la luce dell’islam non si spegnerà. Inshallah!
Il Foglio, 12 ottobre 2024)
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Adesso Israele deve infuriarsi davvero con l’Iran
Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne in cui l'asse del male che semina distruzione, terrore e devastazione viene visto come giusto, e Israele come il problema.
di Ben-Dror Yemini
È passato un anno dal feroce massacro. È passato un anno dallo stupro del nostro popolo. Un anno di razzi. Un anno di missili. Un anno di sofferenze. Un anno di sfollati nel nostro paese. Un anno di cortei anti-israeliani. Un anno di retorica antisemita. Un anno in cui la vera guerra è in realtà contro l’Iran. Un anno in cui la maggior parte del mondo libero dimostra, giorno dopo giorno, di non essere libero. L’asse del male iraniano ha attaccato Israele da Gaza, dal Libano, dallo Yemen, dall’Iraq, dall’Iran e dalla Siria, e una parte significativa del mondo si è allineata con le forze oscurantiste e assassine. Un anno in cui persino leader di paesi che dovrebbero guidare il mondo libero, che dovrebbero opporsi all’asse del male, stanno imponendo embarghi sulle armi per Israele. Il mondo libero è impazzito. È intrappolato da un’industria di menzogne in cui l’asse del male, che impone distruzione, terrore e devastazione, viene visto come giusto, e Israele come il problema. Non più. Stiamo raggiungendo il momento della decisione, perché nessun contrattacco su Hamas o Hezbollah potrà servire senza colpire l’Iran, la testa del serpente. Ora tocca a Israele infuriarsi. Deve infuriarsi non solo per il proprio bene, ma per il bene del mondo libero. Perché se l’asse del male uscirà indenne da questo terribile scontro, Israele non sarà l’unico a pagarne il prezzo. Decine di milioni di persone in Medio Oriente continueranno a soffrire. E i paesi del mondo libero pagheranno un prezzo altissimo. Sta già accadendo. Le strade di Londra, Parigi, New York e Madrid traboccano di manifestanti che sostengono l’asse del male. Innumerevoli docenti, la maggior parte dei docenti, stanno dalla parte dell’asse del male. Giustificano il massacro. Accusano Israele di colonialismo. Accusano Israele di genocidio. Mentono senza sosta. Sanno, certamente dovrebbero sapere, che i capi di Hamas e Hezbollah dichiarano apertamente che il loro obiettivo è l’annientamento degli ebrei e la conquista di tutto il mondo libero per instituire un califfato islamico. Ma si rifiutano di ascoltare. Per anni hanno fatto il lavaggio del cervello ai loro studenti. Ora quegli studenti si identificano con l’ideologia di Bin Laden e Nasrallah, l’ideologia assassina di Yahya Sinwar e Ali Khamenei. Hanno trasformato i campus in avamposti dell’asse del male. Questa follia deve finire. Perché decine di milioni, tra cui sei milioni di ebrei, hanno già pagato a caro prezzo la follia del male assoluto. Non più. Questa volta, la situazione è persino peggiore. La follia non viene solo dall’asse del male. La follia è favorita dal mondo che dovrebbe essere libero. Questa follia non avrà fine se Israele continuerà a giocare secondo le regole che gli sono imposte, né se soccomberà alle pressioni del mondo libero che è più preoccupato per il prezzo del petrolio che per le minacce alla sopravvivenza dello stato ebraico. Perché secondo le regole del gioco, il presidente del regime iraniano può recarsi all’Onu ed essere ricevuto con tutti gli onori, mentre incombe un mandato di arresto sul primo ministro e sul ministro della difesa di Israele. Questa assurdità non può continuare. Israele deve infuriarsi. Si può discutere se l’accordo nucleare del 2015 con l’Iran fosse la mossa giusta e se sia stato un errore la sua cancellazione nel 2017 da parte di Trump. Solo una cosa è chiara. Con o senza un accordo, l’Iran non ha cambiato nemmeno di un millimetro la sua ideologia assassina. Ha finanziato il terrorismo di Hezbollah, Hamas e Houthi prima dell’accordo, ha continuato a farlo dopo l’accordo e non ha smesso di farlo dopo la cancellazione dell’accordo. Israele si è trattenuto mentre Hezbollah e Hamas ricevevano sempre più razzi e missili. Israele si è trattenuto per un anno mentre Hezbollah, senza alcuna provocazione da parte israeliana, lanciava ogni mese un migliaio di razzi, missili e droni. Ci sono stati morti e feriti. Migliaia di case sono state distrutte. Migliaia di ettari di terreni agricoli, foreste e riserve naturali sono stati bruciati. Decine di migliaia di israeliani sono diventati profughi. Nessun paese al mondo si sarebbe trattenuto. Ma Israele si è trattenuto. Non può continuare. Israele deve infuriarsi. I cortei a sostegno dell’asse del male hanno esibito costantemente lo slogan “con ogni mezzo necessario” per giustificare il massacro di Hamas. E allora, che diventi lo slogan anche di Israele. Israele deve distruggere le strutture militari e nucleari dell’Iran. Con ogni mezzo necessario, con o senza gli Stati Uniti. Perché abbiamo a che fare con un regime folle. Un regime del genere non deve mai possedere armi di distruzione di massa. Perché se questo regime non viene eliminato, se acquisisce quelle armi, se ottiene le armi nucleari, distruggerà Israele. Commetterà un genocidio su milioni di persone. I prezzi del petrolio saliranno? Che salgano. Le nostre vite sono più importanti. Il Medio Oriente ha bisogno di pace e riabilitazione. Ma non arriveranno finché gli ayatollah comanderanno in Iran. Decine di milioni di iraniani, libanesi, iracheni, yemeniti e palestinesi sono le prime vittime del regime iraniano, che porta ovunque distruzione, fame, devastazione e spargimenti di sangue. Non è chiaro se gli Stati Uniti possono permettersi di abbandonarli al loro destino. È chiaro che Israele non può abbandonare se stesso. Un’azione di Israele, da solo, potrebbe comportare un prezzo elevato. Ma qualsiasi prezzo, oggi, sarà inferiore al prezzo che Israele pagherebbe in futuro. Anche se è solo, Israele deve agire. Con ogni mezzo necessario.
(Da: YnetNews, 8.10.24)
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"Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne". Questa è la realtà. E' vano sperare che l'odio antiebraico in forma di ferocia possa essere contrastato dall'odio antiebraico forma di menzogna. Le due forme di odio tenderanno a trasformarsi in un unico odio diabolico contro Dio, che ha scelto Israele. E la menzogna, a lungo termine, è più efficace della ferocia. M.C.
(israele.net, 11 ottobre 2024)
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Riconciliazione dopo il 7 ottobre
Yom Kippur: dopo la tragedia del 7 ottobre, il Giorno dell'Espiazione è segnato dalla responsabilità, dall'esame di coscienza e dalla ricerca di unità nazionale.
di Aviel Schneider
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Persone che pregano per il perdono (Selichot) al Muro Occidentale, la mattina presto del 10 ottobre 2024, prima del Giorno dell'Espiazione
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GERUSALEMME - Il biblico Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur, assumerà quest'anno un significato ulteriore dopo la tragedia del 7 ottobre. Oltre alle consuete preghiere di questo giorno, dobbiamo porci altre domande. Dove abbiamo fallito? Chi abbiamo deluso? Quanto siamo stati arroganti? Chi abbiamo abbandonato e dimenticato? Abbiamo gridato abbastanza, dove ci siamo interrogati troppo poco? Cosa e chi abbiamo trascurato? Perché non siamo rimasti uniti? L'anno passato è stato il peggiore nei 76 anni di storia dello Stato di Israele. Il mio desiderio per quest'anno è una riconciliazione come quella tra Esaù e Giacobbe. “Esaù gli corse incontro, abbracciò Giacobbe, gli cadde sul collo e lo baciò, e piansero”.Solo uniti in questo modo possiamo sconfiggere i nostri nemici in battaglia con l'aiuto e la grazia di Dio. L'assunzione di responsabilità per le nostre cattive intenzioni o per la nostra indifferenza è uno degli elementi più importanti del Giorno dell'Espiazione biblico. "Perché in questo giorno si farà per voi l'espiazione per purificarvi; da tutti i vostri peccati sarete purificati davanti al Signore ” (Deuteronomio 16:30). È un giorno in cui non dobbiamo puntare il dito verso l'esterno. È un giorno in cui riconoscere che ognuno di noi ha partecipato alla catastrofe di un anno fa, compresi i nostri leader tra il popolo. Ognuno deve accettare con umiltà e coraggio la propria responsabilità per consentire la guarigione e la riconciliazione tra il popolo. Dal 1973, lo Yom Kippur si è radicato nella coscienza israeliana non solo come giorno di introspezione personale, come è stato per secoli, ma anche come giorno di responsabilità nazionale. Nel corso della storia, è stato un giorno in cui il popolo di Israele ha digiunato, pregato e si è chiesto: “Come abbiamo peccato, imbrogliato, rubato, parlato male e dato consigli sbagliati?”. Tutti noi ci poniamo questa domanda ogni anno. Cosa vogliamo migliorare l'anno prossimo? La guerra dello Yom Kippur ha aggiunto un ulteriore livello a questa riflessione.
E ora, nello Yom Kippur dopo il 7 ottobre, portiamo una nuova, dolorosa confessione di responsabilità per una catastrofe che è stata peggiore della guerra di Yom Kippur. Quest'anno dobbiamo porci ulteriori domande:
- Dove e perché abbiamo fallito come società?
- Perché ci siamo meritati questo come società?
- Come è potuto accadere che il 7 ottobre siamo stati così terribilmente sorpresi?
- Arroganza?
- Fallimento totale?
- Tradimento o cosa?
- La responsabilità è solo del governo e dell'apparato di sicurezza o dell'intera società del Paese?
- Cosa ci siamo persi quella mattina di Shabbat?
Non conosco nessuno nel Paese che possa dare una risposta chiara. Assumersi la responsabilità delle nostre cattive intenzioni o della nostra indifferenza è una delle regole fondamentali della riconciliazione reciproca, ma anche con Dio. L'autoesame, sia a livello individuale che sociale, porta con sé accuse, ma indica anche la via dell'espiazione e di un nuovo inizio. Yom Kippur non è il giorno in cui la colpa deve essere scaricata sugli altri. È il giorno in cui tutti riconosciamo che ognuno di noi ha un ruolo nella catastrofe. Siamo tutti delusi dai nostri leader, chi più chi meno. Alcuni incolpano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu da solo per il fallimento, altri incolpano l'intero apparato di sicurezza, che per decenni si è impantanato in concetti sbagliati. Ma la leadership israeliana è un riflesso della società.
E un'altra cosa: è importante non solo battersi il petto, ma anche darsi una pacca sulla spalla e ricordare quanto di buono abbiamo fatto quest'anno, quanto abbiamo amato, quanto abbiamo scelto la vita, quanto siamo stati pronti a qualsiasi compito, quanto abbiamo pianto, quanto ci siamo impegnati. Abbiamo pensato a tutti, abbiamo abbracciato i nostri cari, abbiamo purificato i nostri cuori, abbiamo distinto tra il bene e il male, abbiamo sofferto, ci siamo assunti le nostre responsabilità, abbiamo compiuto i nostri doveri, siamo stati disperati e ci siamo rialzati, abbiamo perdonato con coraggio, abbiamo liberato alcuni ostaggi, abbiamo gridato per coloro che sono ancora nel bisogno e in prigionia, abbiamo mantenuto la speranza nonostante tutto, abbiamo considerato i nostri simili, abbiamo continuato a servire e non ci siamo arresi. Soffriamo e combattiamo perché amiamo e viviamo la vita. Ma dobbiamo farlo insieme, nell'amore, come scrive il salmista (133): “Ecco, quanto è bello e quanto è piacevole quando i fratelli sono insieme nell'unità!”. Perché lì il Signore ha promesso la benedizione, la vita per sempre”.
(Israel Heute, 11 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Proprio in questi giorni mi è venuto fatto di pensare a Esaù e Giacobbe in riferimento alla situazione interna di Israele. Più precisamente, ho visto Esaù come immagine degli ebrei laici e Giacobbe degli ebrei ortodossi. Esaù era un uomo di mondo, pragmatico, buona forchetta, intraprendente cacciatore che si procurava il cibo con le proprie mani, capace di dimenticare il contrasto col pio fratello perché in fondo si trattava “soltanto” di questioni religiose. Umanamente Esaù è una persona simpatica, agli occhi di coloro che si disinteressano di Dio. Alle stesse persone può invece risultare meno simpatica la figura di Giacobbe, che nell’analogia rappresenta gli ebrei ortodossi, così poco simpatici nei loro strani e fastidiosi riferimenti a Dio. Nel caso dei due fratelli però l’Eterno si è espresso in modo molto netto: “Esaù non era forse fratello di Giacobbe?” dice l'Eterno; “eppure io ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù” (Malachia 1:1-2). Punto. Attenzione dunque, nel caso attuale, a non ricercare una umana riconciliazione fatta “alle spalle di Dio”. M.C.
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Crisi sanitaria, l’iniziativa per portare medici israeliani a Borgosesia
di David Fiorentini
“Abbiamo bisogno di curarci. Ci sono 60 mila persone, in questo territorio, che ne hanno il sacrosanto diritto”. Così ha esordito Fabrizio Bonaccio, sindaco del piccolo comune piemontese di Borgosesia, lanciando un appello a nome di tutta la valle, per sottolineare l’urgenza di garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai suoi cittadini.
Dopo numerosi concorsi andati deserti, l’ospedale locale di Santi Pietro e Paolo si trova oggi a fronteggiare una grave carenza di personale sanitario. La risposta a questa crisi potrebbe arrivare da una direzione inaspettata: Israele.
Tramite l’associazione “Baita” (ente del terzo settore, senza scopo di lucro), l’amministrazione ha proposto di portare in Italia 65 medici e infermieri israeliani, disposti a cambiare il proprio stile di vita e abbracciare la campagna piemontese.
Il progetto, che sembrava inizialmente solo un’idea, ha già riscosso parole di sostegno da parte della direttrice generale dell’ASL di Vercelli Eva Colombo: “Si tratta di una soluzione perseguibile e apprezzata. Ho chiesto all’associazione di formare il personale sulla lingua italiana, che è imprescindibile. Credo che ci sia uno spiraglio per attuare questa proposta nel 2025”. La lingua, infatti, rappresenta uno degli ostacoli principali, ma non insormontabili, per l’integrazione dei nuovi medici e infermieri.
Nel frattempo, 39 professionisti sanitari sono già stati segnalati e l’iter per la loro assunzione è in fase avanzata. Come spiega il presidente dell’associazione Baita Ugo Luzzati, esiste un bando regionale che permette di assumere medici stranieri per un anno, durante cui potranno lavorare e avviare il processo di riconoscimento delle loro qualifiche e specializzazioni.
“Stiamo raccogliendo i documenti che consegneremo all’ambasciata italiana in Israele. Saranno necessarie lettere da parte delle istituzioni per confermare il progetto e snellire le pratiche”, ha affermato fiducioso Luzzati.
Nel frattempo, in attesa di un riscontro formale dell’ASL, la collaborazione tra Borgosesia e l’associazione Baita oltre a risolvere l’emergenza sanitaria locale, potrebbe anche rappresentare un modello di integrazione innovativa in ambito sanitario. Di fronte alla carenza diffusa di personale medico in tutta Italia, questa iniziativa potrebbe aprire la strada a nuove forme di cooperazione internazionale per garantire cure di qualità ai cittadini.
(Shalom, 11 ottobre 2024)
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Il giorno dell'espiazione
LEVITICO 23
- L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
- «Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione. Ci sarà per voi una santa convocazione; umilierete le anime vostre e offrirete all'Eterno un sacrificio fatto col fuoco.
- In questo giorno non farete alcun lavoro, perché è il giorno dell'espiazione, per fare espiazione per voi davanti all'Eterno, il vostro Dio.
- Poiché ogni persona che in questo giorno non si umilia, sarà sterminata di mezzo al suo popolo.
- E ogni persona che in questo giorno farà un qualsiasi lavoro, io, questa persona, la distruggerò di mezzo al suo popolo.
- Non farete alcun lavoro. È una legge perpetua per tutte le vostre generazioni, in tutti i luoghi dove abiterete.
- Sarà per voi un sabato di riposo, in cui umilierete le anime vostre; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato».
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Kippur – Rav Roberto Della Rocca: Un popolo, un digiuno, un destino
di Rav Roberto Della Rocca
È noto che il giorno di Kippùr, assieme al Seder di Pesach, resta la tradizione più sentita presso il popolo ebraico. Il paradosso è che anche quella grande percentuale di ebrei che si dichiarano “laici” vive un particolare rapporto con il Kippùr, che costituisce, invece, la festa più “religiosa” e meno storicizzabile del calendario ebraico. C’è chi legge in questo fenomeno una sorta di scorciatoia che gli ebrei intravedono nel digiuno di Kippùr dove in un unico giorno si vorrebbe assolvere ai propri doveri ebraici; quell’una tantum, del tutto fuori dall’ordinario, con cui i cosiddetti Kippùr Juden, “gli ebrei del Kippùr”, cercherebbero di compensare un impegno che dovrebbe essere continuo e quotidiano. C’è comunque chi privilegia l’aspetto materiale, direi folkloristico del Kippùr. Si digiuna pensando al cibo che ci attende la sera, ma pur sempre si digiuna. C’è poi chi vive nell’osservanza del Kippùr una dimensione familiare, sociale, comunitaria, anche nel profondo: giorno di confessione collettiva, di presa di coscienza, di riconciliazione.
Credo però che nell’essenza di questo giorno straordinario ci sia invece una paradossale verità e cioè che gli ebrei siano nella loro essenza molto più intrisi di Torà di quanto vogliano ammettere. C’è una frase dello Zohar, il testo base della Qabalà, che è sconvolgente per chi l’accetta nel suo pieno significato esistenziale: «Israel, kudshà berich hu, vehorayità, had hu», «il popolo di Israele, il Santo Benedetto Egli Sia e la Torà sono un’unica e identica cosa». Nel giorno di Kippùr gli ebrei si riuniscono nei batè hakeneset per rinnovare questo patto affinché ogni singolo ebreo accetti su di se la missione che il destino ci ha affidato.
In questo Kippùr 5785, caratterizzato dall’angoscia e dalla trepidazione per le sorti dello Stato d’Israele e del popolo ebraico tutto, siamo chiamati ancora di più di altre volte alle nostre responsabilità. Una guerra per la sopravvivenza, per Israele, non è mai una guerra che riguarda solo i soldati, perché da sempre si tratta di difendere l’incolumità fisica e spirituale del nostro popolo, consapevoli di essere testimoni di una storia unica e di un destino unico. E questa difesa è uno dei precetti della Torà che riguarda, con le debite differenze, i soldati come ogni singolo ebreo.
(moked, 11 ottobre 2024)
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Kol nidrè: il mistero di “voti e giuramenti” annullati a Kippur
Un viaggio nel testo più intrigante della liturgia ebraica
di Massimo Giuliani
La solenne proclamazione di scioglimento e annullamento di voti e giuramenti, nota come Kol nidrè [“Tutti i voti”], che apre i riti serotini del giorno austero e solenne di Yom Kippur – quando digiuno e preghiere concludono i dieci yamìm noraìm, “i giorni terribili”, iniziati a capodanno – è forse il testo più misterioso di tutta la liturgia ebraica. Cantato con struggente melodia in aramaico da ashkenaziti e sefarditi e in ebraico dagli ebrei italiani [Kol nedarim], questo testo, per ragioni all’apparenza soltanto legal-halakhiche (ma c’è ben altro, come spiegherò), intende dichiarare sciolto e annullato per tutta l’assemblea di Israele ogni tipo di giuramento o di voto autoimposti. Esso è introdotto con parole estremamente solenni e impegnative: “Con il consenso del Cielo e con il consenso di quest’assemblea, davanti al tribunale di lassù e davanti al tribunale di quaggiù, ci è dato il permesso di pregare insieme ai trasgressori…”. Si noti dunque che l’assemblea non è composta solo da santi e giusti, ma anche da peccatori: Israele è uno e uno solo dinanzi al Cielo. Poi, per tre volte consecutive e affiancato da uno o più rotoli della Torà estratti dall’aron, il chazan canta/proclama via via con voce sempre più forte il Kol nidrè: “Tutti i voti, le proibizioni, i giuramenti, le consacrazioni, le restrizioni, le interdizioni e ogni equivalente espressione di voto – da questo Kippur al prossimo Kippur – siano sciolti, assolti, rimossi, cancellati, annullati, resi vuoti e non effettivi né validi…” e per tre volte la formula si chiude cantando i due versetti del perdono, richiesto e ottenuto, presi dalla Torà: Bemidbar/Nm 14,19-20. Solo dopo può cominciare la preghiera vera e propria del giorno dell’espiazione. Da dove viene questo testo e tale prassi, diffusisi in tutto il mondo ebraico? Cosa significano e che storia hanno queste solenni parole che inaugurano il giorno più intenso della religiosità ebraica (nell’unico rito in cui è prescritta una keri‘à totale ossia una prostrazione al suolo)? Anzitutto, esso è attestato già in epoca tardo-talmudica, ossia nei responsa dei gheomim babilonesi, e con tutta probabilità l’origine storico-geografica è quella. In età moderna venne riletto come fosse una formula segreta usata dai marrani iberici per confermare la loro lealtà ebraica… ma in quel caso i voti e i giuramenti non erano certamente auto-imposti ma forzati, estorti con una minaccia di morte e/o di esilio. La formula, in realtà, è assai più antica e il suo significato ben più esteso. Vi è anzitutto il senso spirituale custodito dalla formulazione halakhica: il Kol nidrè ripulisce mente, cuore e mano da vincoli auto-imposti – dunque non da contratti o impegni sanciti verso terzi – magari per ripicche o puntigli d’orgoglio personale, permettendo così un processo completo di teshuvà. Aiuta, in altre parole, il cammino di catarsi ed elevazione spirituale che è lo scopo della mortificazione (digiuno e astinenza sessuale) del giorno di Kippur. Del resto, Torà e halakhà rabbinica sono sempre stati contrari alla prassi di fare voti: si pensi alle norme sul nazireato (cfr. Bemidbar/Nm 6). Chi fa voti non solo li deve mantenere ma, impegnando il Cielo, deve pure espiare per averli fatti (quando v’era il Tempio, doveva recarvisi per offrire un sacrificio e donare la sua chioma). Nel Novecento vi è stato un filosofo-teologo ebreo che ha avanzato un daver acher, un’altra spiegazione molto suggestiva. Si tratta di Jacob Taubes (Vienna 1923-Berlino 1987), secondo il quale il Kol nidrè allude a, e intende includere (nel kol), fatti e parole narrati in Shemot/Es 32-34 e Bemidbar/Nm 14-15, dove leggiamo che HaQadosh Barukh Hu fece voto di distruggere il suo popolo e propose a Mosè di cercarsi un nuovo Israele. Come è noto dalla Torà, Mosè rifiutò; anzi, chiedendo perdono, come abbiamo ricordato sopra, fu causa dell’annullamento del voto divino teso ad annientare Israele. L’annullamento di quel voto fu la causa della salvezza del popolo ebraico che pure aveva trasgredito la fiducia divina compiendo un grave atto di idolatria (il vitello d’oro). Proprio ciò che si celebra a Kippur: la teshuvà e il perdono divino, il ritrarsi della Sua ira e il prevalere della Sua misericordia, l’essere – ancora – iscritti nel libro della vita come popolo di Israele. Dunque il primo voto da sciogliere, secondo Taubes, è quello divino contro Israele, perché Israele continui a vivere. Il pathos, la serietà e la solennità di Kippur (rimarcato dall’uso ashkenazita di indossare nel giorno di Kippur una tunica bianca, il qittel, sotto il tallit, il manto della preghiera) sono del tutto giustificati. Cosa dicono gli storici a riguardo del Kol nidrè? Verso la metà del XIX secolo fu fatta, nelle aree urbane dell’antico regno babilonese, una curiosa scoperta archeologica: nei pavimenti delle case fu rinvenuto del vasellame capovolto verso il basso e sul quale vi erano delle iscrizioni, anche in più alfabeti (tra cui l’aramaico), di formule di scongiuri ed esorcismi, con valore apotropaico, con la funzione cioè di tener lontani gli spiriti maligni e le forze del male dalla casa. Si riteneva infatti che tali forze e spiriti salissero dal basso e le iscrizioni sulle terracotte rovesciate e interrate dovevano magicamente bloccarli. Ora, gli ebrei di Babilonia condividevano, almeno in parte, queste credenze e il Kol nidrè potrebbe appartenere a questo genere di formulari giuridico-religiosi tesi a preservarsi dalle forze maligne. Così la pensava il famoso orientalista e semitista americano Cyrus Herzl Gordon (Philadelphia 1908-2001): “Il nucleo del Kol Nidrè è radicato nel Talmud babilonese e il suo scopo è dare alla comunità un nuovo inizio, annullando le forze del male attirate da parole [voti e giuramenti] di natura distruttiva (anche se pronunciate senza premeditazione). Non v’è ragione di imbarazzo se questa è l’origine storica, né servono interpretazioni artificiali…”. Forse anche l’interpretazione di Jacob Taubes suonerà artificiale, ma resta il fatto che da secoli la liturgia ebraica di Kippur invoca il perdono divino e lo ottiene nella consapevolezza che nessuno può vincolare o forzare la volontà divina, ma solo impetrarla (Yehi ratzon milfanekha, lo abbiamo ripetuto più volte a Rosh hashanà) e intercedere, come fece Mosè dopo gli eventi tragici del vitello d’oro. Il Kol nidrè ricorda, alla fin fine, che le trasgressioni individuali contaminano la comunità/la società, sempre un misto di giusti e ingiusti, così come, di contro, i meriti individuali la elevano. Non è solo una verità religiosa; è anche una verità laica, etica e politica, la cui cogenza non abbisogna di dimostrazioni. La proclamazione, all’inizio di Kippur, dell’annullamento di parole fuori controllo, di improvvidi giuramenti (a se stessi) e di impegni (autoimposti) che impediscono la fiducia, significa davvero lasciarsi alle spalle il passato “con le sue maledizioni” e aprirsi al futuro “con le sue benedizioni”. Chatimà tovà a chi legge.
(JoiMag, 15 settembre 2021)
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Israele sul caso UNIFIL: “Avevamo chiesto loro di spostarsi, sono vicini a basi Hezbollah”
di Luca Spizzichino
Israele ha avviato un’indagine sull’incidente che ha coinvolto il contingente UNIFIL nel sud del Libano, confermando il proprio impegno a fare tutto il possibile per evitare di colpire le forze ONU e i civili non coinvolti nel conflitto. Lo ha affermato con un comunicato l’Ambasciata d’Israele in Italia, che ha espresso apprezzamento per il contributo delle forze di pace UNIFIL, in particolare per il contingente italiano, riconoscendo il loro impegno nel prevenire un’escalation nella regione.
L’Ambasciata ha inoltre sottolineato che Hezbollah sta cercando di nascondersi vicino alle basi UNIFIL, e che Israele ha già scoperto tunnel e depositi di armi nelle vicinanze di queste aree. La nota afferma che le forze israeliane, nel corso delle operazioni, hanno ripetutamente chiesto all’UNIFIL di spostarsi più a nord per evitare di essere coinvolte nei combattimenti, ma queste richieste non sono state accolte.
L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, durante una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha ribadito l’impegno di Israele nel “distruggere l’infrastruttura di Hezbollah” nei pressi della Linea Blu. Ha inoltre esortato nuovamente l’UNIFIL a ritirarsi di almeno 5 chilometri a nord per evitare ulteriori rischi. “La nostra raccomandazione è che l’UNIFIL si sposti per evitare di essere coinvolta nei combattimenti, in una situazione resa estremamente volatile dalle continue aggressioni di Hezbollah”, ha dichiarato Danon.
Ieri un carro armato Merkava delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha colpito una torre di osservazione presso il quartier generale UNIFIL a Naqura, ferendo lievemente due peacekeeper indonesiani. Sono state inoltre colpite le basi 1-31 e 1-32A, dove sono presenti truppe italiane, costrette a rifugiarsi in bunker. Tuttavia, fonti israeliane hanno chiarito che non si trattava di un attacco diretto alle forze UNIFIL, ma di un’azione mirata contro una torretta di osservazione equipaggiata con telecamere, situata vicino a un’area sotto il controllo di Hezbollah.
Secondo il portavoce dell’IDF, l’area è una “zona di guerra aperta”, dove Hezbollah ha costruito bunker sotterranei e altre infrastrutture militari. L’esercito israeliano ha ribadito di aver chiesto più volte il ritiro del contingente UNIFIL da determinate zone strategiche, per facilitare le operazioni contro Hezbollah. Tuttavia, l’UNIFIL ha scelto di rimanere nelle proprie postazioni. Andrea Tenenti, portavoce dell’UNIFIL, ha infatti dichiarato: “Siamo qui perché ce lo ha chiesto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e continueremo a fare il nostro lavoro finché le condizioni lo permetteranno”.
(Shalom, 11 ottobre 2024)
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Il «chiarimento» dell'ldf: «Avevamo avvertito di rimanere in spazi protetti»
di Stefano Piazza
«Non esiste la giustificazione di dire che le forze armate israeliane avevano avvisato l'Unifil che alcune delle basi dovevano essere lasciate. Ho detto all'ambasciatore di riferire al governo israeliano che le Nazioni Unite e l'Italia non possono prendere ordini dal governo israeliano».
Le durissime frasi del ministro della Difesa Guido Crosetto, ritenute «spropositate» dalle gerarchie militari israeliane, sono una delle possibili chiavi delle ragioni dell'episodio di ieri.
L' ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco su diverse posizioni Onu ferendo due caschi blu, ha ribadito la richiesta già esplicitata lo scorso 5 ottobre:
«Israele è concentrato sulla lotta contro Hezbollah e raccomanda che la forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite (Unifil) nel Libano meridionale si sposti verso Nord. La nostra raccomandazione è che l'Unifil si sposti di 5 km a Nord per evitare pericoli mentre i combattimenti si intensifìcano e mentre la situazione lungo la Linea Blu rimane instabile a causa dell'aggressione di Hezbollah. Israele non ha alcun desiderio di stare in Libano, ma farà ciò che è necessario per costringere Hezbollah ad allontanarsi dal suo confine settentrionale in modo che 70.000 residenti possano tornare alle loro case nel nord di Israele». A questo, secondo quanto risulta alla Verità, fa riferimento il ministro della Difesa italiano quando parla di «ordini» irricevibili.
In serata, l'Idf ha spiegato sui social: «Stamattina (ieri, ndr), le truppe dell'Idf hanno operato nell'area di Naqura, accanto a una base Unifil. Di conseguenza, l'Idf ha ordinato alle forze Onu nell'area di rimanere in spazi protetti, dopodiché ha aperto il fuoco nell'area». Le forze israeliane aggiungono che «Hezbollah opera all'interno e in prossimità di aree civili nel Libano meridionale, comprese le aree vicine alle postazioni Unifil»,
Quanto avvenuto al quartier generale dell'Unifil in Libano arriva nelle ore che potrebbero precedere l'attacco israeliano all'Iran. Mentre scriviamo, il Gabinetto di guerra sta per riunirsi e dovrebbe autorizzare il premier israeliano e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, a prendere una decisione sulla risposta
di Israele all'attacco missilistico di Teheran della settimana scorsa. In sostanza, Netanyahu e il ministro avranno l'autorità di decidere dove, come e, soprattutto, quando ci sarà l'attacco.
Il capo delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, Jean Pierre Lacroix, citato da Ap, ha affermato che le forze di peacekeeping resteranno nelle loro posizioni, nonostante la già citata richiesta di Israele: «La forza Onu è l'unico canale di comunicazione tra le parti e sta anche lavorando con i partner per fare il possibile per proteggere la popolazione».
Che i rapporti tra Israele e tutto ciò che inizi con «Un» (Nazioni Unite) siano disastrosi lo abbiamo visto in questo ultimo anno, ma da mesi tra le Idf e l'Unifil regna la sfiducia, eccezion fatta per i soldati italiani, ritenuti «seri e affidabili», al contrario di altri, ad esempio quelli irlandesi, con i quali non sono mancate tensioni. Ci conferma il nostro interlocutore: «Il loro lavoro era di smilitarizzare Hezbollah e impedire che fosse presente nel Libano del Sud, come da risoluzioni Onu. Invece hanno permesso a Hezbollah di bombardare Israele per un anno, costruire tunnel e basi di lancio. Inutili come tutto ciò che è marchiato "Un"».
Nelle scorse settimane, le Idf avevano rilevato che alcuni militanti di Hezbollah, per sfuggire ai combattimenti, si sarebbero addirittura nascosti nei pressi della base Unifil, il che non ha fatto che aumentare la tensione. La zona dove si trova la base dell'Unifil è stata scenario di violenti scontri tra l'Idf e Hezbollah: secondo quanto riportato dall'Irish Times, alcuni di questi conflitti si sono verificati a meno di 2 chilometri dall'avamposto irlandese, e forse tutto ciò accaduto potrebbe non essere stato del tutto casuale.
(La Verità, 11 ottobre 2024)
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Crosetto: «Non ci facciamo dare ordini da Israele». Ma da Hezbollah sì
Ci sembra di capire che l'Italia e UNIFIL non prendano ordini da Israele ma solo da Teheran
di Franco Londei
Premetto che qualsiasi sia stato il motivo della provocazione dell’IDF verso UNIFIL (provocazione, non attacco che è altra cosa), a mio modesto parere è stata una decisione sbagliata a livello diplomatico anche se a livello militare avrà avuto le sue ragioni. Ciò premesso, ieri abbiamo sentito tutti tuonare il Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, contro la provocazione israeliana nei confronti di UNIFIL. Il “gigante”, nel ricostruire tutta la storia in cui si inserisce la richiesta israeliana rivolta a UNIFIL di spostarsi di qualche Km a nord per la loro sicurezza, ha detto che «l’Italia non si fa dare ordini da Israele». Bene, mi sembra giusto, come mi sembra giusto che il Ministro della difesa italiano si faccia valere a livello internazionale. Ma mi sorge un dubbio. Come mai questo atteggiamento così “marziale” non è mai stato tenuto nei confronti di Hezbollah? Eppure UNIFIL sono decenni che si sottomette agli ordini del gruppo terrorista libanese legato all’Iran. Il compiti di UNIFIL dettati dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ben esposto sul sito del Ministero della Difesa Italiano erano (e sarebbero), tra le altre cose:
- accompagnare e sostenere le Lebanese Armed Forces (LAF) nel loro rischieramento nel Sud del paese, comprendendo la Blue Line (fallito)
- assistere le LAF nel progredire verso la stabilizzazione delle aree (fallito):
- pieno rispetto della Blue Line (fallito);
- prevenire la ripresa delle ostilità, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani una area cuscinetto libera da personale armato, assetti ed armamenti che non siano quelli del Governo libanese e di UNIFIL (fallito);
- mettere in atto i rilevanti provvedimenti degli accordi di TAIF, e della Risoluzione 1559 (2004) e 1680 (2006), che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano;
- nessuna arma o autorità che non sia dello Stato libanese (fallito);
- nessuna forza straniera in Libano senza il consenso del Governo (fallito);
- nessun commercio o rifornimento di armi e connessi materiali al Libano tranne quelli autorizzati dal Governo (fallito);
Bene, tutte queste cose UNIFIL non le ha mai fatte, non perché non le volesse fare, ma perché Hezbollah gli ha impedito di farle ordinando a UNIFIL di stare alla larga dagli affari di Hezbollah e di Teheran. Quindi UNIFIL e di conseguenza l’Italia, prende ordini da Hezbollah e da Teheran quando si tratta di trasformare il sud del Libano in una santabarbara puntata su Israele, ma non prende ordini da Israele quando si tratta di salvaguardare la sicurezza dei militari UNIFIL? È questo che ci sta dicendo il Ministro Crosetto? Concludo con alcuni dati usciti proprio ieri. Dana Polk, ricercatrice presso l’Alma Center, ha calcolato che da quando Hezbollah ha iniziato a combattere contro Israele al confine settentrionale l’8 ottobre 2023 fino al primo ottobre 2024, inizio della manovra di terra in Libano, sono stati effettuati 3.235 attacchi contro Israele. Dov’era UNIFIL? Eppure avrebbe dovuto impedire che tutto questo avvenisse. Su oltre tremila attacchi non è successo nemmeno una volta perché Teheran e i suoi scagnozzi avevano ordinato a UNIFIL di stare alla larga. Quindi, Ministro Crosetto, le chiedo: non crede che se l’Italia non debba prendere ordini da Israele altrettanto non lo debba fare da Teheran? Perché Hezbollah è Teheran.
(Rights Reporter, 11 ottobre 2024)
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Le 4 telecamere e la torretta: perché Israele ha sparato sull’Unifil
di Michael Sfaradi
Siddhartha Gautama, Buddha, disse: “Tre cose non possono essere nascoste a lungo: il sole, la luna e la verità”. Purtroppo però, e questo lo aggiungo io, quest’ultima, soprattutto quando riguarda Israele e gli ebrei in generale, non viene quasi mai ascoltata.
Questo però non significa che non vada detta, anzi, al contrario, deve essere ben specificata in modo che rimanga qualche documento per memoria storica. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono alla vulgata, alla propaganda e alle mezze verità, che sono mezze bugie, di diventare sacre e inviolabili. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono lavaggi del cervello dalla politica e dall’informazione malata, di esempi ce ne sono così tanti che elencarli tutti è oggettivamente impossibile.
La speranza, in fondo si vive di speranza, è che chi siede in posti importanti, mi riferisco soprattutto ai politici, conosca le regole basilari della diplomazia, ragioni con il cervello e non con la pancia e anteponga la verità all’ideologia. Perché, comunque la si pensi, la verità è sacra, mentre l’ideologia ha sempre molti punti d’ombra, troppi. La notizia rimbalzata su tutti i giornali e telegiornali è stata che un carro armato israeliano ha sparato contro le truppe dell’UNIFIL in Libano e che due caschi blu sono rimasti leggermente feriti. Calma, mettiamo ordine, altrimenti all’interno di questo tam-tam non ci si capisce nulla, il che è proprio quello che in molti vogliono. Sono tanti i particolari da mettere in luce per cui è meglio essere quanto più sintetici possibile.
L’UNIFIL è formata da militari provenienti da vari paesi che rispondono alle Nazioni Unite, per farla più semplice, sono militari che alcuni eserciti prestano all’ONU al fine di far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in zone difficili del mondo. Pertanto l’UNIFIL risponde alle direttive ONU ed è sotto la responsabilità del palazzo di vetro a prescindere dalla nazionalità dei militari impegnati. Inoltre, è necessario sottolinearlo, attualmente il comando è della Spagna e i due militari leggermente feriti sono indonesiani. Pertanto, almeno per quello che si sa al momento, non ci sono italiani feriti.
Non appena sono state battute queste poche parole è subito sembrato, Massimo Decimo Meridio docet, che si fosse scatenato l’inferno con il ministro Guido Crosetto che, come l’Orlando Furioso, convocava l’ambasciatore israeliano per consultazioni, rispondeva ai giornalisti e in televisione lanciava accuse di crimini contro l’umanità. Il ministro della Difesa Crosetto dovrebbe sapere che esistono delle regole in diplomazia che vanno rispettate anche nei momenti più difficili, soprattutto nei momenti più difficili, e queste regole prevedono che per cortesia diplomatica un ambasciatore viene convocato dal ministro degli Esteri, solo in casi davvero eccezionali dalla Presidenza del Consiglio. Questo secondo caso è estremamente raro.
Secondo errore è che attualmente la carica di ambasciatore dello Stato di Israele in Italia è vacante, il vecchio ambasciatore non è più accreditato e quello nuovo deve ancora presentare le credenziali al Presidente della Repubblica. Pertanto la convocazione sarebbe dovuta arrivare al Console Generale attualmente facente funzioni. Se Crosetto fosse stato il ministro degli Esteri sarebbe stato al corrente di questo particolare non di poco conto.
Veniamo al fatto e come si è svolto. A essere colpita non è stata direttamente una base UNIFIL presidiata da soldati italiani, ma una torretta, un punto di avvistamento sulla quale erano state montate quattro telecamere basculanti. È necessario sottolineare che fino a quando il comando era in mano agli italiani i contatti fra l’IDF e l’UNIFIL erano continui, ma da quando c’è stato il passaggio di consegne a favore degli spagnoli tutto questo si è ridotto al minimo sindacale, anzi, sotto il minimo sindacale. In quella che è una zona di guerra aperta, il comando dell’esercito israeliano aveva contattato nelle ultime dodici ore, e per quattro volte, le linee di comando UNIFIL chiedendo la rimozione di quelle telecamere perché la zona a ridosso interno dell’area è presidiata dai terroristi di Hezbollah e non sussistevano garanzie sufficienti a escludere possibili connessioni alle immagini riprese dalla torretta.
Hackerare delle telecamere è relativamente semplice e quelle montate sulla torretta dell’UNIFIL avrebbero potuto dare, e sicuramente l’hanno dato altrimenti non ci sarebbe stata la reazione israeliana, informazioni ai terroristi di Hezbollah sui movimenti delle truppe IDF che avanzano in Libano alla ricerca di armi e dei lanciatori di missili che da più di un anno tormentano le città del nord Israele. Per quattro volte la richiesta è caduta nel vuoto. Un portavoce dell’UNIFIL ha dichiarato alla stampa che la forza multinazionale ha respinto la richiesta israeliana di evacuare le postazioni lungo il confine tra Israele e Libano.
“Siamo lì perché il Consiglio di sicurezza ci ha chiesto di esserci. Quindi resteremo finché la situazione non diventerà impossibile per noi operare”, ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL Andrea Tenenti. Bisogna ricordare che l‘UNIFIL è stata creata per supervisionare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale dopo la fine del conflitto del 1978 e che L’ONU ha ampliato questa missione con la risoluzione 1701 che è seguita alla guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah. Questo ha consentito ai peacekeeper di dispiegarsi lungo il confine israeliano per aiutare l’esercito libanese a estendere la sua autorità nel sud del paese per la prima volta in decenni. La risoluzione 1701 chiede che il Libano meridionale sia libero da gruppi armati diversi dalle Forze armate libanesi.
Pertanto ciò che ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL è vero solo in linea di principio, perché di fatto l’UNIFIL, cioè l’ONU, non ha fatto nulla in venti anni per impedire la presenza armata di terroristi, di conseguenza non ha rispettato il suo mandato e le migliaia di missili di fabbricazione iraniana lanciati da Hetzbollah verso Israele sono la prova palese dell’inutilità della loro presenza in loco, inutilità che in più casi ha rasentato il danneggiamento lo sputtanamento internazionale. Negli ultimi 20 anni l’UNIFIL non ha visto i terroristi girare armati in zone dove non dovevano essere e non ha fatto nulla per allontanarli, l’UNIFIL non ha visto l’arrivo dall’Iran di migliaia di missili finiti nelle mani di Hezbollah e si è finta sorpresa quando quegli stessi missili hanno incominciato a volare verso il nord di Israele.
Ora, francamente, UNIFIL non ha mai fatto il suo lavoro, non ha mai fatto rispettare il mandato, per 20 anni è stata le tre scimmie in una, non ha visto, non ha sentito e, soprattutto non ha mai parlato delle situazioni che si svolgevano davanti agli occhi chiusi degli osservatori internazionali e poi, magicamente, ritrova la vista e proprio mentre c’è una guerra in corso monta delle telecamere per vedere bene, allora gli occhi li hanno, sul lato israeliano. Si rifiuta di toglierle e quando vengono levate con la forza, dopo quattro avvertimenti in dodici ore, ritrova anche la parola per protestare contro Israele quando per Hezbollah in venti anni ha regnato il silenzio assoluto.
Insomma, Israele è riuscita a far ritrovare la vista e la parola ai ciechi e ai muti, è proprio vero che viviamo nella terra dei miracoli.
(nicolaporro, 11 ottobre 2024)
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Sinwar avrebbe comunicato di nuovo e chiesto l'immunità
Il leader di Hamas ha chiesto ai mediatori in Qatar l'immunità come parte di un accordo per liberare gli ostaggi rimasti.
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Yahya Sinwar incontra il Maggiore Generale Abbas Kamel, capo dell'intelligence egiziana (secondo da sin.) a Gaza City, maggio 2021
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Il leader di Hamas Yahya Sinwar avrebbe rinnovato questa settimana i contatti con i mediatori del Qatar per esplorare le possibilità di ottenere l'immunità come parte di un accordo di cessate il fuoco in cambio della liberazione degli ostaggi, ha riferito martedì il canale d'informazione israeliano Channel 12. La risposta dei mediatori qatarioti è stata di non ottenere l'immunità. La risposta dei mediatori del Qatar a Sinwar è stata di non concentrarsi su se stesso ma sugli ostaggi, che sono la questione più urgente. Israele non ha ancora risposto alla richiesta di Sinwar, ha riferito il sito di notizie. Analogamente, Ynet ha riferito in agosto che Sinwar voleva essere protetto da un possibile attentato israeliano. “Sinwar insiste per avere garanzie sulla sua sicurezza e sulla sua vita”, ha dichiarato un alto funzionario egiziano. Secondo Channel 12, due minacce del Qatar hanno indotto Sinwar a porre fine al suo lungo silenzio. In primo luogo, lo Stato del Golfo ricco di petrolio ha avvertito che non avrebbe finanziato la ricostruzione della Striscia di Gaza dopo la guerra. In secondo luogo, ha minacciato di sequestrare o congelare i conti bancari dei principali membri di Hamas in Qatar. Venerdì, il New York Times ha riferito che Sinwar sta cercando una guerra regionale più ampia e non è interessato a un cessate il fuoco con Gerusalemme. La mente del massacro del 7 ottobre, che si ritiene si nasconda nei tunnel della Striscia di Gaza, non crede di sopravvivere alla guerra e nelle ultime settimane ha indurito la sua posizione. “Nelle ultime settimane Hamas non ha mostrato alcun interesse per i colloqui, riferiscono i funzionari statunitensi. Sospettano che Sinwar stia diventando sempre più rassegnato mentre le forze israeliane lo inseguono e dicono che si stanno avvicinando”, ha riportato il Times. Israele aveva messo in dubbio che Sinwar fosse ancora vivo e i funzionari statunitensi e israeliani avevano riconosciuto che non c'era traccia di lui da mesi. Nel corso della guerra, iniziata il 7 ottobre 2023, ci sono stati altri periodi in cui Sinwar non è stato raggiungibile. Hamas detiene ancora 101 ostaggi, tra cui 97 dei 251 sequestrati durante l'assalto al Negev nord-occidentale di poco più di un anno fa, che ha ucciso 1.200 persone e ne ha ferite migliaia. I rappresentanti del Qatar coinvolti nei negoziati tra Israele e Hamas hanno riferito ai parenti degli ostaggi che Sinwar si sta circondando di prigionieri. Il generale di brigata dell'IDF (in pensione) Gal Hirsch, commissario del governo israeliano per i cittadini scomparsi e rapiti, ha dichiarato lunedì che Gerusalemme “non lascerà nulla di intentato” per liberare gli ostaggi rimasti. “Gli sforzi di negoziazione e i passi relativi ai negoziati sono costantemente in corso”, ha dichiarato in occasione del World Counterterrorism Summit presso l'Università Reichman di Herzliya. “Il problema è il tempo che ci vuole. In ogni valutazione della situazione e in ogni discussione nel gabinetto, sottolineiamo la situazione degli ostaggi e il ticchettio del tempo”, ha continuato Hirsch.(JNS)
(Israel Heute, 10 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Roma - Il ricordo del 9 ottobre. Fadlun: Filo rosso con il presente
All’esterno del Tempio Maggiore di Roma una lapide ricorda che il 9 ottobre del 1982, al termine della preghiera, proprio qui «mani assassine per odio antisemita» uccisero il piccolo Stefano Gaj Taché, di due anni appena, e ferirono altre 40 persone (alcune di loro per giorni in bilico tra la vita e la morte). «Mani assassine» di terroristi palestinesi, in un filo rosso che unisce il 9 ottobre di 42 anni fa al 7 di ottobre dello scorso anno. In entrambi i casi era Shemini Atzeret: festa gioiosa e solenne, profanata dalla medesima volontà annientatrice.
L’ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun, soffermandosi con i giornalisti al termine della breve commemorazione che si è tenuta come ogni anno davanti alla lapide nel giorno dell’anniversario. Due le corone deposte: una a nome della Comunità insieme all’Ucei, l’altra del Comune. Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha letto un salmo. E poi la cerimonia si è sciolta, senza interventi, in un commosso silenzio. In raccoglimento hanno sostato tra gli altri la presidente Ucei Noemi Di Segni; l’assessore comunale alla Cultura, Miguel Gotor; Daniela Gaj e Joseph Taché, i genitori di Stefano; Gadiel, il fratello, tra i feriti più gravi, già intervenuto domenica sera in una partecipata veglia in sinagoga.
«Il 9 ottobre del 1982», ha detto Fadlun ai giornalisti, «fu compiuto un attacco inaspettato, la cui violenza e il cui orrore hanno segnato la nostra comunità». Al dolore per la ferita ancora aperta, anche perché «giustizia non è stata fatta», si è aggiunto il trauma del 7 ottobre. C’è un legame, ha affermato, «ed è il profondo e vergognoso antisemitismo: si sono colpite delle persone perché ebree; questa non è politica, ma barbarie».
L’anniversario è stato commentato anche dalla presidente Ucei Noemi Di Segni in una nota. «Il clima di profonda tensione, minacce e distorsione mediatica diffusa» c’era allora e c’è oggi, denuncia Di Segni. «Pensare di poterli tenere a bada e che siano marginali è solo un’illusione».
(moked, 10 ottobre 2024)
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Il filo rosso dell’antisemitismo
Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.
(L'informale, 9 ottobre 2024)
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Come osi, Greta Thunberg. Bollata come 'incline alla violenza' per le marce su Gaza
Non più attivista climatica bensì odiatrice di Israele, Greta Thunberg ha cambiato pelle passando nel giro di pochissimo da adolescente portata in palmo di mano dai potenti della Terra a propagatrice della narrativa di Hamas in giro per l'Europa: in Germania la polizia l'ha definita "antisemita" e "incline alla violenza".
di Giulio Meotti
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Greta Thunberg con la kefia al collo
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A sedici anni, Greta Thunberg è diventata l’adolescente più famosa del mondo, ha incontrato capi di stato e di governo ed è stata nominata “Persona dell’anno” dalla rivista Time. Politici e celebrità la vedevano come l’autorità morale di “How dare you?”. La polizia tedesca ora ha classificato Thunberg come “incline alla violenza” in seguito al suo coinvolgimento in diverse manifestazioni pro Palestina. Lo ha deciso la polizia di Dortmund. Alexander Throm, portavoce della Cdu, sulla Bild si spinge a dire che sarebbe “non solo appropriato, ma persino necessario che il ministro dell’Interno emetta un divieto di ingresso per questa antisemita in futuro”. Oggi non c’è più il clima nella sua agenda: Greta si agita quasi esclusivamente contro Israele e sfila persino con gli islamisti a Neukölln, il quartiere berlinese dove una pasticceria ha distribuito dolci arabi per festeggiare il 7 ottobre e alla Rathaus, il municipio in Karl Marx Strasse, per tre settimane hanno issato la bandiera di Israele, ma di sera la toglievano per evitare che la dessero alle fiamme.
Una foto scattata a Berlino mostra quanto Greta si sia radicalizzata. Nell’anniversario del massacro del 7 ottobre, Greta ha posato per i selfie con gli odiatori degli ebrei. Si era recata a Berlino per prendere parte a una delle più grandi manifestazioni anti israeliane in Europa. I partecipanti alla marcia hanno attaccato gli agenti di polizia e gridato slogan vietati. Ora circola una foto in particolare in cui Greta posa con “Abdallahxbln”, come si fa chiamare su Instagram, e ripreso con il dito alzato degli islamisti. L’appello alla marcia dell’odio a cui ha partecipato Greta glorifica il terrorismo palestinese come “resistenza” e chiede la liberazione “totale”, ovvero la fine di Israele. La foto di Greta è stata condivisa dall’attivista anti israeliano Salah Said, che nel tempo libero si mobilita contro lo stato ebraico online e per le strade. E diffonde canali che flirtano con Hamas.
Sono finiti i giorni in cui Greta aveva il mondo ai suoi piedi. Politici e artisti, giornalisti e rappresentanti della chiesa pendevano dalle labbra della figlia minorenne di una buona famiglia di Stoccolma. E la sua trasformazione in predicatrice itinerante contro Israele dovrebbe far riflettere la sua vecchia claque. Jean-Claude Juncker la accolse a Bruxelles con un baciamano. Ovviamente, Thunberg ha ancora schiere di fan. Ma la cerchia dei sostenitori è cambiata. Ora incita al boicottaggio, si mostra sui social con il simbolo antisemita della piovra (l’ha poi cancellato), a Rotterdam condivide il palco con una odiatrice di Israele, manifesta insieme agli odiatori di Israele a Lipsia e a Malmö si mescola alla folla che urla “Sinwar (capo di Hamas) non ti lasceremo morire”.
In Olanda, Greta ha invitato a parlare una ragazza filo Hamas. Un uomo allora è saltato sul palco e, afferrando il microfono, ha detto con una certa rettitudine: “Sono venuto per una manifestazione sul clima, non per una visione politica”. Thunberg ha ripreso il microfono e iniziato a cantare: “Nessuna giustizia climatica nei territori occupati”. Non ci voleva uno scienziato per capire che questi slogan non hanno assolutamente senso.
Eppure, Franz Jung, vescovo cattolico di Würzburg, l’ha paragonata a David, eroe e re d’Israele, mentre a Heiner Koch, vescovo cattolico di Berlino, Thunberg ha ricordato “l’ingresso di Gesù a Gerusalemme”. Oggi Fridays for Future disconosce Greta.
Un declino autoimposto, quello di Thunberg. Qualche settimana fa, Greta era davanti all’Università di Copenaghen per chiedere la fine dei rapporti accademici con Israele e di un laboratorio danese-israeliano che si occupa di tecnologie green per l’ambiente. Non soltanto è Israele che fa arrivare l’acqua a Gaza. Non soltanto Israele è leader mondiale dell’utilizzo delle acque reflue. Non soltanto entro il 2030 un terzo di tutta l’energia israeliana arriverà da fonti rinnovabili. Israele è l’unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa. Ma tutto questo non sembra importare molto ai verdi “dal fiume al mare”.
(Il Foglio, 10 ottobre 2024)
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"Voglio andare in paradiso, all’inferno ci sono già stata"
Addio a Lily Ebert, superstite della Shoah diventata influencer a cento anni
di David Zebuloni
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Lily Ebert con il pronipote Dov Forman
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Lily Ebert, una delle figure di maggior spicco dell’ebraismo britannico, è venuta a mancare la mattina del 9 di ottobre all’età di 100 anni, circondata dalla sua numerosa famiglia: tre figli, dieci nipoti e trentotto pronipoti. Lily è nata in Ungheria nel dicembre del 1923 e nel mese di luglio del 1944, quando aveva 20 anni, è stata deportata con la sua famiglia nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Sua madre Nina, suo fratello minore Bela e sua sorella minore Berta sono stati immediatamente mandati nelle camere a gas, mentre lei e le sue sorelle Rena e Piri sono state scelte per il lavoro forzato. Così, sopravvissero all’inferno. Dopo la liberazione dai campi, Ebert si è trasferita in Svizzera per ricostruire la sua vita. All’inizio degli anni Cinquanta ha deciso di lasciare tutto e partire di nuovo, questa volta per migrare nel neo Stato ebraico. In Israele Lily ha trovato l’amore, si è sposata e ha dato alla luce tre figli. Nel 1967 lei e la sua famiglia si sono trasferiti definitivamente a Londra, dove abitano ancora oggi. In questa terza fase della sua vita, dopo essere diventata mamma e nonna, Lily ha iniziato la sua missione di sopravvissuta. È stata membro fondatore del Centro per i sopravvissuti alla Shoah in Gran Bretagna e ha portato la sua testimonianza in decine e decine di scuole in tutto il paese. Ebert ha deciso di condividere la sua storia soprattutto con i più giovani, convinta che solo loro potessero garantirle un futuro di pace. Lily è dunque diventata una figura conosciuta e molto amata all’interno dalla Comunità ebraica locale, ma solo nel 2021, nel pieno del Covid, alla veneranda età di 97 anni, il suo nome è diventato noto a tutti i giovani del mondo. È accaduto quando il suo giovane e intraprendente pronipote Dov Forman ha deciso di condividere la sua storia in rete. Nel pieno del lockdown, i due hanno cominciato a caricare dei filmati commoventi nei quali la bisnonna, seduta sulla sua soffice poltrona in salotto, raccontava la sua storia di sopravvissuta. Così è successo. Contro ogni previsione. Senza alcun preavviso. È successo e basta. Lily Ebert è diventata un vero e proprio fenomeno social. C’è chi direbbe: un’influencer. Con milioni di follower sparsi in tutto il mondo, Lily è diventata una vera celebrità. Ma non solo. Per molti è diventata una fonte di ispirazione. Un modello da cui attingere forza, coraggio, speranza. Fede. “Questo digiuno mi è familiare, perché ho digiunato durante tutto il periodo della mia prigionia nei campi”, ha spiegato la sopravvissuta in un filmato che ha condiviso lo scorso Yom Kippur. “Ricordo di aver detto a Dio che anche nel luogo più buio del mondo, non avrei mai rinunciato alla sua luce”. E non è tutto: il successo su Instagram e Tiktok ha presto varcato lo schermo del cellulare ed è diventato un libro biografico scritto proprio dal giovane Forman. Mi chiamo Lily Ebert e sono sopravvissuta ad Auschwitz (edito in Italia da Newton Compton Editori), è presto stato tradotto in molte lingue ed è diventato un bestseller in tutto il mondo. Il libro è stato anche promosso da Re Carlo, che ne ha scritto la prefazione. Lo stesso Re Carlo che un anno fa ha assegnato a Lily l’importante decorazione civile dell’Ordine dell’Impero Britannico, in una toccante cerimonia tenutasi al Castello di Windsor. “Ho il cuore infranto”, ha scritto Dov Forman quando ha annunciato la scomparsa della sua amata bisnonna. “La storia di Lily ha toccato milioni di persone in tutto mondo, insegnandoci cosa sia la resilienza e la fede. Lily non si è mai chiesta ‘Perché è proprio a me?’. Al contrario, ha investito tutte le sue forze per ricostruire la sua vita, sempre con il sorriso. Nonna Lily era la regina della nostra famiglia, ed era il mio eroe”. Dal 2021 a oggi, la sopravvissuta ad Auschwitz ha condiviso sul web centinaia di filmati indimenticabili. Filmati commoventi ed esilaranti nei quali parlava, pregava, cantava e ballava. Uno in particolare mi ha sempre toccato. “Quando compirò 120 anni e lascerò questo mondo, incontrerò Dio, gli mostrerò il numero che i nazisti mi hanno tatuato e gli chiederò di lasciarmi entrare in paradiso, perché all’inferno ci sono già stata”, ha detto Lily mostrando il marchio sbiadito sul braccio. Parole che oggi assumono un significato profondo, terribile, dolce e struggente. Possa il ricordo di Lily Ebert esserci di benedizione. E possa la sua anima in paradiso continuare a illuminare questo mondo sempre più incline al buio.
(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)
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Cinquant’anni senza Oskar Schindler. Daniel Vogelmann: Sono nato grazie a lui
di Adam Smulevich
Quando il 9 ottobre del 1974 si concluse la sua vita, il nome di Oskar Schindler non era ancora noto alla masse. Sarebbero trascorsi poco meno di vent’anni perché ciò accadesse, grazie al film-capolavoro di Steven Spielberg (Schindler’s List) che rese omaggio alla traiettoria del cinico imprenditore filo-nazista trasformatosi in salvatore di ebrei a Shoah in corso. Tra gli oltre mille prigionieri delle SS che beneficiarono della sua “lista” e soprattutto del suo coraggio c’era anche il tipografo Schulim Vogelmann, nato in Galizia nel 1903, residente a Firenze dal 1922, anche lui morto nel 1974.
«L’unico italiano tra gli ebrei di Schindler», sottolinea il figlio Daniel, poeta e fondatore della casa editrice Giuntina, nato a Firenze nel 1948. A cinquant’anni esatti dalla morte di Schindler «si accavallano oggi sensazioni profonde», racconta Vogelmann. «Se sono nato è stato grazie a lui e in tanti altri nel mondo si trovano nella mia condizione. Ce ne fossero state di più di persone come lui, a quel tempo, forse la Shoah non avrebbe avuto l’impatto che conosciamo».
Proclamato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, Schindler è sepolto in un cimitero cattolico di Gerusalemme, sul Monte Sion, appena fuori dalle mura della Città Vecchia. «Non credo ci siano altri ex nazisti nella sua condizione», afferma Vogelmann. Inevitabile un pensiero alla scena conclusiva di Schindler’s List, quando alcuni ebrei salvati dall’industriale, affiancati dagli attori, depositano un sasso sulla sua tomba come è uso nella tradizione ebraica. Oltre a quello, sono tanti altri i momenti della pellicola di Spielberg impressi nella memoria (e nel cuore) del figlio del tipografo italo-galiziano, «salvatosi anche per la padronanza di tante lingue, che come noto era decisiva in campo di sterminio». In particolare il discorso che l’industriale rivolge ai “suoi” ebrei, nel momento in cui prende congedo da loro con i liberatori alle porte. «È una scena potente e mi fa impressione pensare che mio padre fosse lì, quel giorno, ad ascoltarlo», dice Vogelmann. «Con quali sensazioni posso solo immaginarlo». Non c’era solo la gioia della liberazione. Al loro arrivo al campo di sterminio, i nazisti avevano trucidato la moglie Annetta Disegni e la loro figlioletta Sissel, di otto anni. Vogelmann si sarebbe poi sposato in seconde nozze con Albana Mondolfi e dalla loro unione, sarebbe nato Daniel.
Ad illuminare la vita dell’imprenditore “Giusto” è arrivato da poco anche un libro: Oskar Schindler. Vita del nazista che salvò gli ebrei di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pubblicato da Edizioni Terra Santa. Il libro ha tra gli altri un pregio, osserva Vogelmann: «Far risaltare il ruolo di Emilie Schindler, la moglie di Oskar, che fu accanto al marito nell’opera di salvataggio».
(moked, 9 ottobre 2024)
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Netanyahu minaccia il Libano di devastazioni come nella Striscia di Gaza
L’8 ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato la popolazione libanese di devastazioni paragonabili a quelle della Striscia di Gaza se non si libererà di Hezbollah, mentre Israele ha intensificato la sua offensiva di terra nel sud del Libano.
Il giorno precedente, nel primo anniversario dell’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre 2023, Netanyahu aveva promesso di continuare a combattere fino alla completa distruzione di Hamas e Hezbollah, gruppi sostenuti dall’Iran.
“Liberate il vostro paese da Hezbollah”, ha dichiarato l’8 ottobre in un videomessaggio rivolto alla popolazione libanese, minacciando in caso contrario “distruzione e sofferenza come a Gaza”, dove l’esercito israeliano sta portando avanti da un anno un’offensiva militare.
(ANSA, 9 ottobre 2024)
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A un anno dal conflitto cresce il dissenso tra i palestinesi di Gaza
«Abbiamo perso tutto, per cosa»? È il grido pieno di rabbia tra i residenti di Gaza, sempre più frustrati nei confronti di Hamas mentre il conflitto sembra non avere tregua. Dopo mesi di devastazione e isolamento, molti palestinesi iniziano a sentirsi abbandonati dai propri leader. Per troppi mesi la paura ha impedito a molti di loro di esprimere apertamente le proprie opinioni, ma ora, la consapevolezza della dura realtà sta emergendo. Le scelte fatte da Hamas e Fatah, senza il coinvolgimento della popolazione, hanno avuto conseguenze sconvolgenti, aggravando la situazione e peggiorando la vita quotidiana rispetto al passato, lasciando Gaza in una situazione sempre più critica. In un articolo di Reuters, si narra la storia di Samira, una madre di due figli che sospira ricordando con nostalgia la vita che aveva come insegnante di arabo, con una casa confortevole e una routine quotidiana. Ora, dopo l’attacco di Hamas a Israele avvenuto un anno fa, Gaza è caduta in un incubo di sofferenza e caos. «Nonostante tutte le difficoltà la nostra vita andava bene. Avevamo un lavoro, una casa e una comunità», confida Samira, che ha preferito non rivelare il suo cognome per paura di ritorsioni. La voce della donna si unisce così a un numero crescente di residenti che si chiedono se il prezzo pagato per l’assalto di Hamas del 7 ottobre sia stato eccessivo e molti si chiedono il senso di quanto accaduto rimpiangendo il passato. L’offensiva dell’IDF che ha fatto seguito all’attentato ha raso al suolo Gaza, uccidendo decine di migliaia di persone e costringendo più di un milione di palestinesi a fuggire dalle proprie abitazioni lasciando averi. Samira descrive Israele come «il nostro principale nemico, la fonte di tutti i nostri mali», ma non risparmia critiche al leader di Hamas, Yahya Sinwar, accusato di aver fatto un grave errore di calcolo. Sinwar, alla guida del movimento dal 2017, è ora il bersaglio di una caccia all’uomo. Fonti vicine a lui lo descrivono come un leader determinato, ma cauto, capace di comprendere le difficoltà quotidiane della popolazione. Tuttavia, un articolo pubblicato da Israele.net suggerisce che Sinwar potrebbe essere più interessato a rafforzare la potenza militare di Hamas che a preoccuparsi del benessere degli abitanti di Gaza. Un documento, visionato dal quotidiano tedesco Bild, trovato nel suo computer, indica tattiche per manipolare l’opinione pubblica mondiale, incolpare Israele e utilizzare la tortura psicologica sulle famiglie degli ostaggi. «Cosa stava pensando? Non si aspettava che Israele avrebbe distrutto Gaza?», si chiede ancora Samira. In conversazioni con numerosi residenti di Gaza, emerge una situazione complessa: alcuni considerano Hamas un eroe per l’attacco del 7 ottobre, quando i militanti palestinesi hanno organizzato un raid senza precedenti in Israele, ma altri avvertono che le conseguenze delle azioni del gruppo hanno portato a una devastazione inaccettabile. Sinwar, 62 anni, non è stato visto in pubblico dal raid, in cui sono morte circa 1.200 persone e altre 251 sono state rapite. Vive per lo più nell’ombra, nascosto nella rete di tunnel sotto Gaza, persuaso che la lotta armata e la violenza sia l’unico modo per ottenere uno Stato palestinese. Hamas sostiene che l’attacco del 7 ottobre, il più mortale nella storia di Israele, rappresenti una svolta nella lotta per la nazionalità palestinese, che negli ultimi anni è stata trascurata. Tuttavia, i dati sono devastanti. Un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) a Ramallah e finanziato da donatori occidentali, ha mostrato per la prima volta che la maggioranza degli abitanti di Gaza si era opposta alla decisione di Hamas di attaccare. Il 57% delle persone intervistate ha dichiarato che l’offensiva era errata, in netto calo rispetto al 39% di coloro che la consideravano giusta lo scorso giugno. Nonostante le repressioni di dissenso che Hamas ha spesso attuato, si sono verificate alcune rare manifestazioni pubbliche di malcontento. Ahmed Youssef Saleh, ex funzionario di Hamas, ha sollevato interrogativi su Facebook, chiedendo se qualcuno avesse considerato le conseguenze prima di lanciare un attacco che avrebbe portato a un’invasione israeliana. Dall’agosto scorso, i segnali di dissenso sono di fatto aumentati. Ameen Abed, un attivista che ha criticato l’attacco del 7 ottobre, è stato picchiato da uomini mascherati e ha dovuto essere ricoverato. Suo padre ha usato un megafono per accusare Hamas dell’attacco nel campo profughi di Jabalia. In risposta, Sami Abu Zuhri, un alto funzionario di Hamas, ha minimizzato tali critiche, definendole «osservazioni limitate» che derivano dal dolore della popolazione. «Non avevamo altra scelta che lanciare questa grande battaglia, a prescindere dal costo, perché la causa palestinese stava per finire a causa della crescente aggressione e dei crimini israeliani contro il nostro popolo e i nostri luoghi sacri», ha affermato. Il dissenso emerge come un elemento cruciale per Hamas, che cerca di mantenere la sua influenza a Gaza anche dopo la guerra, nonostante le affermazioni di Israele e degli Stati Uniti che il gruppo non potrà avere alcun ruolo nel governo della Striscia. Ashraf Abouelhoul, caporedattore del quotidiano egiziano Al-Ahram, osserva che la situazione interna di Gaza cambierà se la popolazione si renderà conto che la vita è diventata insostenibile. Tuttavia, l’Iran potrebbe voler mantenere un ruolo per Hamas nel contesto di un conflitto regionale più ampio. I palestinesi attribuiscono a Israele la loro miseria economica e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, vedendo l’attacco del 7 ottobre come una risposta all’occupazione di lunga data, piuttosto che a specifiche azioni israeliane. Mahmoud, un giovane sfollato di Gaza City, critica le Nazioni Unite e le potenze occidentali per non aver sostenuto le aspirazioni palestinesi a uno Stato. Le prospettive per una soluzione a due Stati appaiono sempre più distanti. Un recente sondaggio ha mostrato comunque un calo nel supporto per Hamas, con più abitanti di Gaza che preferiscono l’Autorità Nazionale Palestinese al governo di Hamas dopo la guerra. Khalil Shikaki, direttore del PSR, afferma che «per la prima volta, più abitanti di Gaza desiderano che l’Autorità Nazionale Palestinese, e non Hamas, governi la Striscia dopo la guerra». Anche in Cisgiordania, il consenso per l’attacco è diminuito, nonostante quasi due terzi degli intervistati credano ancora nella sua giustezza. Tuttavia, la vera misura del supporto per Hamas a Gaza non potrà essere valutata fino alla fine del conflitto.
(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)
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Genocidio palestinese e altri miti fantastici
A quelli che manifestano e gridano al «genocidio palestinese» basterebbero poche ore di studio per vedere quanta falsità e ipocrisia, quanta ignoranza e quanto vero antisemitismo si nascondono dietro a quella frase
di Franco Londei
Oggi parliamo di genocidio palestinese perché ho sentito alcuni manifestanti pro-pal che hanno partecipato alle varie manifestazioni di questi giorni parlare di «genocidio palestinese da parte di Israele che dura da 70 anni» e mi sono allarmato come si allarmerebbe qualsiasi buon cittadino. Così mi sono informato. Partendo dal presupposto che per «palestinese» ho preso in considerazione la popolazione araba per lo più di origine giordana ed egiziana migrata nella regione geografica situata tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, che comprende anche il Mar Morto e parti del deserto del Negev, mi sono andato a guardare l’evoluzione numerica dei palestinesi dalla nascita di Israele ad oggi in questa area geografica. Allora, alla nascita di Israele i palestinesi presenti in quel territorio erano 1,2 milioni. Oggi nel territorio che comprende la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Israele e Gerusalemme est i palestinesi sono attorno ai 5,5 milioni. A questi vanno aggiunti 438.000 palestinesi che abitano in Siria, 422.000 che abitano in Libano e circa 13.000 che abitano in Iraq. Circa due milioni sono i palestinesi in Giordania, tornati alle origini e quindi in parte naturalizzati. Facendo due conti ad oggi la popolazione palestinese è di 8.373.000 contro il 1,2 milioni che erano nel 1948. Anche togliendo i due milioni che sono tornati in Giordania, si parla sempre di 6.373.000 palestinesi. Giusto per essere chiari, secondo il vocabolario Treccani per genocidio si intende la «sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa». È la prima volta nella storia che c’è un genocidio alla rovescia, cioè che una popolazione invece di essere distrutta cresce e si moltiplica. Dato che c’ero mi sono andato a vedere anche un po’ di storia di quei palestinesi che vivono ai margini del territorio che ho preso in considerazione. Così scopro che in Siria prima della guerra civile ne vivevano 560.000 e che quindi ne mancano all’appello 122.000. Approfondisco e scopro che buona parte di questi sono stati eliminati dai russi in complicità con Hezbollah in quanto ritenevano i palestinesi complici di Al Nusra. Però non mi pare di aver sentito niente dai pro-pal, tanto meno ho sentito parlare di «genocidio palestinese» in Siria. E che dire dei palestinesi che vivono in Libano? Ho scoperto che sono sottoposti a diverse restrizioni. Per esempio sono esclusi da molte professioni regolamentate, come medicina, ingegneria e legge. Possono lavorare solo in settori specifici e spesso in condizioni precarie. Non hanno accesso ai servizi sociali. Non hanno gli stessi diritti civili dei cittadini libanesi e sono spesso soggetti a discriminazioni. Eppure non ho mai sentito parlare di apartheid in Libano ai danni dei palestinesi. Nondimeno mi appare evidente. Persino nella patria d’origine, la Giordania, quelli non naturalizzati vivono ai margini della società e non godono di molti servizi civili, non possono andare a scuola o lavorare ovunque. Se poi provengono dalla Striscia di Gaza gli è impossibile ottenere la cittadinanza giordana. E anche qui non ho mai sentito parlare di apartheid giordana nei confronti dei palestinesi. Dunque, mi è bastata qualche ora di tempo per raccogliere queste informazioni, facilmente fruibili sul web. Non capisco quindi come mai questi cosiddetti «pro-pal» urlano al genocidio palestinese da parte di Israele. Non capisco come fanno a urlare «Palestina libera dal fiume al mare». Mi viene il dubbio che non sappiano né quale sia il fiume, né quale sia il mare. Ma soprattutto mi viene il dubbio che non sappiano proprio niente dei palestinesi. Infatti non ho visto manifestazioni per i palestinesi massacrati in Siria (e in Iraq), per i diritti di quelli in Libano o in Giordania. Non ho visto nemmeno manifestazioni contro Assad o Hezbollah che pure ne hanno massacrati oltre 100.000. E allora, non è che il problema è Israele? Non è che tutte queste manifestazioni contro il cosiddetto «genocidio palestinese» altro non sono che manifestazioni finalizzate a prendere di mira Israele e gli ebrei? Che mirano a istigare odio? I numeri sono questi. Implacabili.
(Rights Reporter, 9 ottobre 2024)
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Gli Stati Uniti bloccano i beni di Mohammad Hannoun, accusato di essere il principale finanziatore di Hamas in Europa
di Luca Spizzichino
Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha recentemente inserito Mohammad Hannoun nella lista delle Specially Designated Nationals (SDN), bloccando i suoi beni e impedendogli di effettuare transazioni finanziarie con individui o entità americane. Hannoun, considerato uno dei principali leader in Europa della rete di finanziamento occulto di Hamas, si è spesso presentato come un attivista umanitario impegnato nella raccolta di fondi per Gaza. Tuttavia, le indagini rivelano che dietro queste attività si celano operazioni volte a sostenere il braccio militare del gruppo terroristico palestinese.
Non è la prima volta che l’architetto palestinese si trova al centro di inchieste per sospetto finanziamento al terrorismo. Nel luglio 2023, le autorità italiane si sono mosse dopo segnalazioni ricevute dai servizi di intelligence israeliani dello Shin Bet, in merito a circa un milione di euro distribuiti tra Italia, Germania e Stati Uniti.
Secondo quanto denunciato dal giornalista Massimiliano Coccia su Linkiesta lo scorso dicembre, Hannoun utilizza associazioni di copertura come l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (Abspp), attraverso le quali vengono raccolti fondi destinati al finanziamento di operazioni terroristiche. Con l’arresto nei Paesi Bassi di Abu Rashid per finanziamento illecito al terrorismo, Hannoun ha guadagnato ulteriore rilievo nel network di associazioni europee che forniscono risorse a Hamas.
L’inserimento di Hannoun nella lista SDN segue la chiusura di conti bancari a lui collegati da parte di istituti come Unicredit e Poste Italiane, sospettati di essere utilizzati per transazioni legate al finanziamento del terrorismo. Al momento, l’unico conto ancora aperto a nome dell’associazione è quello presso Crédit Agricole, ma, secondo Coccia, è solo questione di giorni prima che la banca francese prenda provvedimenti in linea con gli altri istituti di credito.
“La decisione di sanzionare e congelare i beni di Mohammad Hannoun e delle associazioni pro-Hamas legate alla sua rete è una notizia significativa per chi, come me, ha scritto e raccontato fin dal 2020 la rete associativa criminale di finanziamento di Hamas in Europa e in Italia”, ha dichiarato Coccia a Shalom. Il giornalista de Linkiesta ha però sottolineato che ora spetta alla magistratura italiana verificare le attività criminali di queste organizzazioni. “Il problema di avere strutture para-terroristiche sul nostro territorio, mascherate da associazioni benefiche, non riguarda solo Israele e gli ebrei in Italia e nel mondo, ma rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale e la tenuta democratica dello Stato”, ha aggiunto.
Hannoun, oltre a essere un nodo centrale della rete di finanziamento, resta anche una figura organizzativa di rilievo nei cortei pro-palestinesi a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni, sollevando ulteriori preoccupazioni sull’ordine pubblico e la sicurezza nel Paese.
(Shalom, 9 ottobre 2024)
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Cacciato dall'Italia l'imam filo-Hamas
di Pietro Senaldi
L'imam Zulfiqar Khan, pakistano, predicava a Bologna l'odio islamico contro Israele. Espulso dall'Italia dopo le segnalazioni di due deputati di FdI: Sara Kelany e Marco Lisei. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo il 7 Ottobre. «Coloro che si schierano con Israele e gli Stati Uniti faranno una brutta fine». E poi: «Perpetrate la jihad contro gli ebrei, questi bugiardi e assassini». E ancora: «Il re di Giordania è un infedele perché ha difeso gli impuri sionisti di Israele». E di più: «Stiamo aspettando il castigo per gli infedeli, viene da parte di Allah con le mani di Hamas e Hezbollah, perché Hamas non è un’organizzazione terrorista ma difende il proprio territorio». Infine la confessione: «Se qualcuno mi dice che sono un estremista islamico io rispondo di sì, perché estremismo significa seguire i fondamenti della religione. È tempo di risvegliare le menti delle genti». Queste erano le parole dei sermoni dell’imam Zulfiqar Khan, pakistano istigatore di odio in servizio delirante presso il centro islamico Iqraa, in quel di Bologna.
• RETE DI ESPULSIONI Odio, guerra, distruzione, antisemitismo: ecco l’insegnamento del sacerdote del terrore, espulso ieri dopo le segnalazioni degli onorevoli Sara Kelany e Marco Lisei, entrambi di Fratelli d’Italia, che con un’interrogazione parlamentare hanno svelato questo profeta di sventura e spacciatore di lutti. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo la mattanza da parte di Hamas del 7 ottobre 2023 di quasi mille e duecento cittadini israeliani, prelevati nelle loro case o al rave party Supernova, immensa festa musicale di ragazzi nel deserto. Tanto che il Viminale, riferendosi a lui, parla di «crescente fanatismo ideologico» ed «esaltazione del martirio».
L’iman, che era solito esortare i propri fedeli a «non pagare le tasse perché le risorse devono restare nella comunità islamica», ne aveva per tutti, anche per gli omosessuali, definiti «persone che Allah castigherà con una punizione molto forte».
Si tratta della novantaquattresima espulsione per terrorismo dal 7 ottobre 2023 a oggi.
«Dopo lo scoppio della guerra, l’allerta è stata alzata di molto - rivelano fonti del ministero dell’Interno, - ma l’Italia è in una situazione di relativa sicurezza». In particolare, quella di Zulfikar Khan segue di appena due giorni la segnalazione al nostro Paese da parte dei servizi segreti americani di Mohammed Hannoun e della sua associazione nella lista di quanti organizzano qui da noi attività umanitarie, che altro non sono se non una copertura per raccogliere fondi da inviare ad Hamas a Gaza.
Dal 22 ottobre 2022, data di insediamento del governo, sono invece 164 i soggetti espulsi dallo Stato per ragioni di sicurezza, tutti segnalati per terrorismo, radicalizzazione, rischio di attentati. Il problema principale, in termini di minaccia islamica, è dato dalle moschee abusive, dove si predica in arabo per nascondere gli inviti alla guerra santa e il sentimento anti-semita e anti-occidentale.
• RISCHIO MODERATO Gli esperti però rivelano che la presenza in Italia di fanatici islamici pronti a tutto è molto calata negli ultimi dieci anni.
Merito anche delle intese firmate dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, con le comunità musulmane per avere prediche in italiano e per delle scuole di formazione degli imam, altrimenti improvvisati. La svolta dell’accordo fu riuscire a convincere anche l’Ucoii, la siglia meno moderata della comunità islamica.
Ma l’abbassamento dei livelli di rischio rispetto a una decina d’anni fa è legata anche al fatto che il marchio Hamas, fuori dalla Palestina, emoziona più l’estrema (e anche quella un po’ moderata) sinistra nostrana che non i musulmani.
La sigla infatti, a differenza dell’Isis, che era stato capace di rappresentare un simbolo per tutto l’islam in armi contro l’Occidente, viene per lo più interpretata come legata a una problematica politica locale, non a una questione religiosa e identitaria. Segno che la popolazione palestinese è vissuta da chi dice di volerla difendere come uno strumento di guerra contro Israele piuttosto che come un fine. Ne è riprova il fatto che la comunità palestinese si è sfilata dal corteo pro-Pal di sabato scorso a Roma, dove i manifestanti che dicevano di scendere in piazza per la pace hanno ferito trenta agenti delle forze dell’ordine.
• ANTISEMITISMO Malgrado Hamas in Italia possa contare su tanti estimatori ma poche truppe effettive, le autorità ricordano che è invece in aumento vertiginoso l’antisemitismo in Italia, e questo a causa della copertura politica che un’ampia parte del campo largo dà alle manifestazioni di facinorosi anti-israeliani. Nel solo ultimo anno, dall’eccidio del 7 ottobre 2023 a oggi, c’è stato un incremento del 400% delle azioni antisemite nel nostro Paese, che ormai sono una novantina al mese.
È un allarme che è destinato a crescere e a durare nel tempo, perché l’odio razziale verso il popolo ebraico dilaga nelle giovani generazioni, presso le quali il credito della Shoah si è esaurito. Purtroppo, la difesa della causa di Israele ha subito in Italia ormai una divaricazione politica: il centrodestra schierato con Gerusalemme, il centrosinistra invece freddo, con una partecipazione non sentita, stanca, di prammatica, doveristica, al ricordo nelle sinagoghe del pogrom subito un anno fa dagli ebrei in casa loro.
Libero, 9 ottobre 2024)
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Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano
Si tratta di un'opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare.
L’ex primo ministro Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano che, a suo dire, “getta un’ombra oscura sul nostro futuro”, in mezzo a indiscrezioni che obiettivi militari o di intelligence iraniani, ma non le centrali atomiche, potrebbero essere colpiti in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran della scorsa settimana. “Per la prima volta, abbiamo la possibilità di agire contro l’Iran senza temere una reazione terribile e intollerabile”, ha dichiarato Bennett in una dichiarazione video, riferendosi alla debolezza dei proxy di Teheran, i gruppi terroristici Hezbollah e Hamas. “Il regime iraniano terrorista e omicida è esposto e vulnerabile per la prima volta”, ha dichiarato. “Questa è una finestra di opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare”, afferma Bennett. Proprio questa mattina, il New York Times ha riportato che Israele non aveva un vero e proprio piano per attaccare il programma nucleare iraniano fino a quando Bennett non è diventato primo ministro nel 2021, essendosi invece concentrato su Hezbollah. Bennett ha rapidamente “ordinato nuove esercitazioni per simulare i voli a lunga distanza verso l’Iran e ha investito nuove risorse nei preparativi”, secondo il quotidiano.
(Rights Reporter, 8 ottobre 2024)
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7 ottobre 2023-7 ottobre 2024. Il fratello di due prigionieri: “La liberazione degli ostaggi porterà il
cessate il fuoco”
di Nathan Greppi
“Sono figlio di Doron e Talia, che si sono salvati dal massacro di Kfar Aza. Io sono fratello maggiore di Idan, e anche lui si è salvato. Sono fratello di Ziv e Gali, che il 7 di ottobre sono stati presi in ostaggio dai terroristi di Hamas e portati a Gaza”. È cominciata così la testimonianza di Liran Berman, i cui fratelli, i gemelli Ziv e Gali, sono stati rapiti il 7 ottobre nel Kibbutz Kfar Aza e sono tuttora nelle mani di Hamas.
“Ziv e Gali sono i miei fratelli minori, e sono la luce della nostra casa”, ha spiegato Liran Berman. “E non è casuale che lavorino proprio nel mondo delle illuminazioni musicali. Da quando sono nati, Ziv e Gali sono sempre stati amici del cuore: tifosi della stessa squadra di calcio, amanti della stessa musica, sono i migliori nipoti per i propri nonni. Sono i figli migliori dei nostri genitori. Sono i miei fratelli migliori, e gli zii migliori per i miei figli”.
“Il 7 ottobre, in tutta Israele ci siamo svegliati alle 6:29 con le sirene che suonavano in tutto il paese. Pensavamo che fosse il solito attacco missilistico, a cui abbiamo fatto l’abitudine. Man mano che passavano le ore, dalla mattina presto, abbiamo cominciato a capire che era molto più grande di quello che pensavamo. Abbiamo capito che i terroristi si sono infiltrati in molte città al confine con Gaza”.
“L’ultimo contatto che abbiamo avuto con i miei fratelli”, ha raccontato, “è stato alle 10 del mattino. Più tardi, poi, abbiamo scoperto che questa è stata l’ora in cui sono stati portati a Gaza. I miei genitori sono stati portati in salvo, intorno a mezzanotte dello stesso sabato, e mio fratello Idan, invece, è stato messo in salvo solo l’indomani. E da quando ho capito che sono stati presi in ostaggio, la mia missione è quella di riportare a casa tutti gli ostaggi”.
Ha infine dichiarato: “Gli ostaggi vivi devono tornare a casa, e anche quelli che non sono più vivi e che sono tenuti in ostaggio devono tornare a casa per ricevere una degna sepoltura”. Ha concluso dicendo: “Non sono io qui l’eroe, il protagonista, ma sono i miei fratelli minori, e insieme a loro gli altri ostaggi che da più di un anno vengono tenuti nei tunnel di Hamas. Sono loro i veri eroi di questa storia, e loro vanno riportati a casa. A voi voglio dire che non ci fermeremo finché tutti gli ostaggi non torneranno a casa, fino a quando mia madre non potrà riabbracciare e baciare Gali e Ziv, fino a quando i miei figli non potranno di nuovo giocare con loro, e finché io non potrò riabbracciarli nuovamente. E a voi tutti, chiedo di cambiare terminologia: la liberazione degli ostaggi porterà il cessate il fuoco”.
• Spizzichino (Ugei): “Preoccupa la normalizzazione dell’antisemitismo mascherato da antisionismo nelle università” “L’anno passato è stato segnato da eventi che hanno profondamente scosso la nostra comunità in modi che non avremmo mai potuto immaginare”, ha dichiarato sul palco Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia). “Il 7 ottobre ha ferito profondamente l’intero popolo ebraico. La brutalità di quel giorno ha scosso ciascuno di noi e ha risvegliato un odio antico, che ha trovato terreno fertile ed è tornato a manifestarsi con forza e pericolosità, persino nelle università italiane”.
Ha continuato spiegando che “quello che oggi ci preoccupa di più non è solo la violenza fisica, ma la normalizzazione di questo odio, che si infiltra nei luoghi di formazione e cultura, nelle aule che dovrebbero essere spazi di tolleranza e libertà. È proprio qui che affrontiamo la forma più insidiosa di antisemitismo, che si mimetizza tra le aule e le discussioni. L’antisemitismo, oggi, si presenta con un volto più subdolo, quello dell’antisionismo, che ci rende bersagli, che ci isola”.
“In questi mesi, ci siamo sentiti esposti, vulnerabili, persino soli. Ma non ci siamo arresi, e non lo faremo ora. Siamo consapevoli delle minacce, come quella di una nuova ‘intifada universitaria’, ma non ci lasceremo intimidire. Non permetteremo che l’odio prevalga nei luoghi dove dovremmo sentirci liberi di studiare e crescere. Abbiamo fatto, stiamo facendo, e continueremo a fare tutto il necessario affinché ogni studente ebreo si senta protetto e al sicuro”.
Spizzichino ha spiegato che “fortunatamente non siamo soli. Negli ultimi mesi, abbiamo trovato preziosi alleati lungo il cammino. Il dialogo ha aperto nuove porte, e ci ha permesso di costruire ponti. Il sostegno che abbiamo ricevuto, specialmente grazie all’adesione di tante associazioni studentesche al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio, è stato cruciale. Questo manifesto non è solo una dichiarazione, ma un impegno concreto per garantire che ogni studente, indipendentemente dalle proprie origini, possa studiare in un ambiente sicuro e libero da discriminazioni. Ora è il momento di farlo applicare”.
Ha concluso dicendo che “in questo senso, noi giovani ebrei italiani abbiamo la responsabilità di essere protagonisti del nostro futuro. Continueremo a far sentire la nostra voce, a rivendicare il rispetto dei nostri diritti, sia nelle università che nella società in generale. Siamo consapevoli che le sfide saranno difficili, ma non perderemo mai la speranza. Con il coraggio che ci ha sempre contraddistinto, continueremo a lottare per un futuro fondato sul rispetto, la libertà e la sicurezza. L’Unione Giovani Ebrei d’Italia è qui e abbiamo bisogno di tutti vuoi per costruire un futuro migliore”.
• Il coro finale La serata si è poi conclusa con il coro Kol haShomrim insieme ai ragazzi dei movimenti giovanili Hashomer Hatzair e Benè Akiva, che hanno intonato la canzone israeliana HaBaita, e gli inni italiano e israeliano.
(Bet Magazine Mosaico, 8 ottobre 2024)
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Commemorazioni del 7 ottobre – Roma
Sabato 6 Ottobre – Partecipazione alla lettura dei nomi degli ostaggi nella piazzetta al fianco della Sinagoga La serata di sabato si è svolta con la lettura dei nomi degli ostaggi da parte di noi 5 (Bonnie Rose, Stefania Perciballi, Edda Fogarollo, Claudia Condemi ) e due giovani. Presenti in piazzetta al fianco della Sinagoga, un buon numero di ebrei che stavano uscendo, dopo la Commemorazione, dal Tempio, e che incuriositi si sono fermati a vedere e a partecipare a quello che stavamo facendo. È stato un momento emozionante, dopo la lettura dei nomi, liberare i 101 palloncini gialli al cielo in segno di partecipazione alla sofferenza degli ostaggi. Ho avuto anche il piacere di incontrare il giornalista Monteleone,oltre a complimentarmi con lui ho condiviso quello che stiamo facendo per Israele. Persona molto educata, simpatica e disponibile a cui ho regalato il nostro libro “Questa terra è la mia terra” La serata si è conclusa con i ringraziamenti da parte della Comunità Ebraica di Roma per la partecipazione degli evangelici. Grazie anche alla sorella Bonnie Rose che si è resa disponibile all’organizzazione…....
(EDIPI, 8 ottobre 2024)
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Gli errori e le responsabilità del 7 ottobre
di Ugo Volli
Dopo ogni guerra, Israele ha sempre istituito delle commissioni di inchiesta per individuare gli errori commessi, i loro responsabili e imparare da ciò che era accaduto; lo farà certamente anche questa volta: un’inchiesta è ancor più necessaria, perché un anno fa Israele si è fatto prendere di sorpresa e impreparato dall’assalto terrorista, pagando un costo altissimo per questo. Lo stesso primo ministro Bibi Netanyahu, in un’intervista al TIME, ha riconosciuto la responsabilità, scusandosi, dicendo di essere profondamente dispiaciuto per quanto avvenuto.
Senza anticipare i risultati dell’inchiesta e le reazioni dell’elettorato israeliano, bisogna prendere atto che ci sono stati errori e responsabilità. Parlarne non vuol dire naturalmente ignorare il fatto fondamentale di questa guerra: che Israele l’ha subita e non certo voluta, che la responsabilità morale e politica di tutte le morti e le distruzioni anche di quelle degli arabi di Gaza, ricade su chi ha deciso un anno fa di invadere Israele, sterminare, violentare e rapire i suoi cittadini inermi, di bombardare per mesi le città israeliane: Hamas, gli altri gruppi terroristici, gli arabi non inquadrati (“civili innocenti”) che hanno invaso le comunità di confine; e poi Hezbollah, gli Houti e innanzitutto l’Iran.
Ma il fatto che la colpa sia dei terroristi aggressori non cancella la responsabilità di chi in Israele aveva il compito di prevenirle. Senza parlare della conduzione vera e propria della guerra, ma ragionando schematicamente all’indietro dal 7 ottobre, si devono distinguere diversi livelli di responsabilità. Il più vicino ai fatti è la disorganizzazione tattica che impedì una reazione efficace all’attacco terrorista: in seguito a un allarme nella notte fra il 6 e il 7, in una veloce riunione telematica prima dell’alba, cui partecipò anche il capo di stato maggiore Herzi Halevi si decise che non c’era urgenza, si poteva attendere il giorno dopo, senza avvertire i politici e mettere in allarme i militari al confine. Questi erano pochi, in parte non armati (il personale di osservazione elettronica), non in posizione di combattimento. Furono facilmente sopraffatti dalle migliaia di terroristi. Non c’erano riserve pronte e, a parte l’azione eroica di qualche singolo, la reazione israeliana venne solo dopo molte ore e in maniera piuttosto confusa.
Facendo un passo indietro, questa impreparazione è conseguenza di un’erronea valutazione della “deterrenza” che, lo Stato Maggiore riteneva, Israele aveva ottenuto nei confronti di Hamas con le operazioni precedenti. Molte segnalazioni provenienti dai militari che seguivano le attività dei terroristi, furono ignorate o addirittura represse dai dirigenti del servizio di informazione militare (Haman) e da quello civile (Shin Bet). La barriera di sicurezza intorno a Gaza era progettata per dare l’allarme su incursioni di piccoli gruppi e non per resistere a un’offensiva organizzata di massa giudicata impossibile. Anche i numerosi preparativi mascherati da manifestazioni di massa non suscitarono il giusto allarme per la pretesa deterrenza, che suggerì anche di tagliare le forze di fanteria e dei carristi a favore dell’aviazione (la cosiddetta “riforma Gantz”). Vi sono poi due livelli contestuali. Uno è quello delle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, con i numerosi casi di rifiuto del servizio, soprattutto nell’aeronautica e nei servizi elettronici, che certamente diedero ai terroristi il senso di affrontare uno stato diviso e indebolito. Ancora più indietro vi è la politica, adottata da tutti i governi fino dal colpo di stato del 2007 di non cercare di eliminare Hamas da Gaza, sia perché si temeva che il vuoto di potere sarebbe stato più pericoloso, sia per dividere il fronte palestinista.
Per tutti questi livelli e per la conduzione successiva della guerra la commissione di inchiesta dovrà assegnare responsabilità precise e personali, al di là delle dimissioni che sono state già preannunciate o presentate. È probabile che quando arriverà la pace vi sia un ricambio profondo. nei vertici politici e militari di Israele.
(Shalom, 8 ottobre 2024)
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Popolazione israeliana vicina ai 10 milioni
GERUSALEMME - Nelle prossime settimane la popolazione israeliana dovrebbe superare il traguardo dei 10 milioni di abitanti. Lo ha annunciato un portavoce dell'Ufficio centrale di statistica al quotidiano online “Times of Israel”. Il motivo della pubblicazione delle statistiche è stato il capodanno ebraico, Rosh HaShanah.
Secondo le statistiche, in Israele attualmente vivono 9.999.000 persone. Di queste, 7,6 milioni sono ebrei e 2 milioni sono arabi musulmani. Ci sono anche cristiani non arabi e altre minoranze etniche. Gli ebrei rappresentano circa il 79% della popolazione totale, gli arabi circa il 21%.
Negli ultimi dodici mesi, la popolazione è aumentata di 118.000 persone. Sono nati 183.000 bambini, mentre sono morte 55.000 persone. Nonostante l'aumento, la tendenza della popolazione nel 2024 è cambiata: Il tasso di crescita è sceso dall'1,6% all'1,2%. Mentre nel 2023 sono immigrate in Israele 46.000 persone, quest'anno la cifra è stata di 33.000 persone.
• La guerra ha un impatto limitato sulla migrazione
Negli anni precedenti, ogni anno emigravano da Israele in media 16.000 persone. Sebbene per la prima volta l'Ufficio centrale abbia contato più emigranti che immigrati, ciò è dovuto principalmente a un nuovo metodo di conteggio, ha dichiarato il portavoce. Mentre negli anni precedenti venivano contate come emigranti le persone che lasciavano il Paese per più di un anno, il nuovo metodo include anche le persone che hanno lasciato Israele solo per pochi mesi. Il risultato è un numero molto più elevato di emigranti.
Complessivamente, la guerra di Gaza non ha avuto un grande impatto sui dati migratori, ha spiegato il portavoce. Il calo del numero di immigrati negli ultimi dodici mesi potrebbe avere anche altre cause oltre alla guerra. È anche difficile determinare le ragioni esatte dell'emigrazione. Il leggero aumento dei decessi, invece, può essere attribuito alla guerra: Solo nel primo attacco terroristico di Hamas sono morte circa 1.200 persone.
(Israelnetz, 8 ottobre 2024)
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Il leader dei palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, nella blacklist degli USA: “è di Hamas”
di Giovanni Giacalone
Il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, e l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), di cui è a capo, sono state inserite nella “blacklist” del Dipartimento del Tesoro statunitense e dunque sottoposti a sanzioni. Secondo quanto reso noto da Washington in data 7 ottobre 2024, Hannoun è indicato come membro di Hamas in Italia e accusato di aver inviato più di 4 milioni di dollari nell’arco di dieci anni all’ala militare dell’organizzazione terrorista palestinese utilizzando proprio l’ABSPP. Nel comunicato del Dipartimento del Tesoro si legge:
“Mohammad Hannoun (Hannoun) è un membro di Hamas con sede in Italia che ha fondato la Charity Association of Solidarity with the Palestinian People, o Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), un ente di beneficenza fittizio situato in Italia che apparentemente raccoglie fondi per scopi umanitari, ma in realtà aiuta a finanziare l’ala militare di Hamas. Come dirigente dell’ABSPP, Hannoun ha inviato denaro a organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018. Ha sollecitato finanziamenti per Hamas con alti funzionari di Hamas e ha inviato almeno 4 milioni di dollari ad Hamas in un periodo di 10 anni”.
E ancora:
“Hannoun e ABSPP sono stati designati per aver materialmente assistito, sponsorizzato o fornito supporto finanziario, materiale o tecnologico, oppure beni o servizi a sostegno di Hamas”.
Il soggetto in questione è stato più volte indicato dai media come uno degli uomini di Hamas in Europa e ci sono foto che lo ritraggono assieme a Khaled Meeshal e al defunto Ismail Haniyeh, l’ex leader di Hamas, eliminato a Teheran lo scorso luglio. L’ABSPP aveva già riscontrato diversi problemi, come già illustrato a suo tempo dal Sussidiario: nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’associazione per una serie di anomalie; dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane chiudeva unilateralmente il proprio rapporto. Subito dopo erano PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate a Hannoun e alla sua associazione. Le autorità israeliane avevano anche chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie dei kamikaze. In seguito alla chiusura dei conti bancari, Hannoun aveva richiesto ai suoi sostenitori di consegnare direttamente denaro contante presso le rispettive sedi della sua associazione tant’è che una troupe dell’Inkiesta si era recata presso la sede romana a Centocelle per testare il nuovo “metodo Hannoun” e aveva lasciato un’offerta senza ricevuta, senza controllo. Evidentemente però tramite contanti non è stato possibile raccogliere grosse somme e allora ecco arrivare la nuova iniziativa di Hannoun presentata presso la parrocchia romana di San Lorenzo di Lucina e con un nuovo IBAN, quello di Modestino Preziosi, indicato dal palestinese su Facebook come “testimonial ed il garante del Convoglio Umanitario della Pace per Gaza”. Il Giornale e OFCS Report avevano anche esposto i rapporti di Hannoun con politici italiani come Manlio Di Stefano, Matteo Orfini, Alessandro Di Battista e Laura Boldrini. Hannoun era anche stato invitato a parlare in Parlamento. Per quanto riguarda l’eccidio del 7 ottobre, è bene rammentare che, soltanto tre giorni dopo, il 10 ottobre, Hannoun aveva dichiarato ai microfoni di Rai3 che l’attacco di Hamas era “legittima difesa” e a gennaio 2024 aveva anche glorificato su Facebook Yahya Ayyash e Saleh al-Arouri, due terroristi di Hamas morti. Ecco la traduzione del post:
“In questo giorno è avvenuto il vigliacco assassinio; Misericordia ai martiri; Il leggendario ingegnere martire, che segnò una svolta nella storia della resistenza palestinese; Yahya Ayyash Abu Al-Baraa. La Palestina oggi ha un disperato bisogno del vostro spirito patriottico e della vendetta per lo spirito del martire Sheikh Saleh Abu Muhammad. I martiri non muoiono”.
Nel marzo del 2024, durante una manifestazione in stazione Centrale a Milano, aveva affermato:
“Concludo, con un applauso al popolo giordano, ai ribelli in Giordania che hanno obbligato il sistema di chiudere l’ambasciata israeliana. Invitiamo tutti i popoli arabi di fare lo stesso per cacciare via tutte le ambasciate israeliane, di chiudere e di trasformarle in centri per la resistenza. Un applauso alla resistenza dello Yemen, un applauso alla resistenza del Libano, dell’Iraq…”.
L’esternazione era stata ripresa anche in un filmato pubblicato su Facebook da Epal Media Center e sul profilo dello stesso Hannoun. In quell’occasione Hannoun aveva attaccato anche la senatrice Liliana Segre: “…abbiamo parlato qualche settimana fa della senatrice Segre che dubita, non si può chiamare genocidio perché c’è un’esclusiva riservata alla lobby, ai criminali che sono solo loro hanno subito un genocidio…” Il 13 ottobre 2023, Hannoun aveva utilizzato il pulpito del Centro Islamico di Genova per attaccare i paesi che sostengono Israele: “Abbiamo visto l’atteggiamento dei nostri governi italiano, europeo, americano e di alcuni paesi arabi che si sono schierati a favore di Israele, che hanno cominciato a piangere per le vittime, che hanno raccontato anche la menzogna per incoraggiare, a paragonare Hamas alla pari con l’Isis” … Tutto questo, per attaccare la “resistenza palestinese”. Il video è poi scomparso dalla pagina Facebook del Centro Islamico di Genova e dall’account di Hannoun pochi giorni dopo, ma oggigiorno è possibile salvare tutto ciò che viene pubblicato sul web. A questo punto non si può far altro che domandarsi come mai Hannoun possa operare indisturbato in territorio italiano nonostante tutto ciò che sta emergendo.
(L'informale, 8 ottobre 2024)
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Sette Ottobre
Israele,
un gioiello incastonato nel mondo
che il nemico brama per se’!
Demoni l’hanno violato,
vituperato, denigrato…
Quanto odio dall’intera umanità’!!!
Con il cuore straziato e lacerato,gli occhi
piangono lacrime di dolore costantemente
da troppo tempo ormai.
La vita scorre con l’ansia,
il sole sorge e tramonta
ma la mente è sempre avvolta nel buio.
Tunnel e morte, violenza e odio,
piazze e grida urlate:
“dal fiume al mare!”
La gioia di Gerusalemme, però’,
non si esaurisce col livore antisemita,
il popolo di ISRAELE vive,
soffre e gioisce, cade e si rialza, mille e
mille volte ancora… sempre!!!
“Ma quelli che sperano nell’Eterno
acquistano nuove forze,
s’innalzano con ali come aquile,
corrono e non si stancano,
camminano e non si affaticano!”
ISAIA 40:31
Carmela Palma
(Notizie su Israele, 7 ottobre 2024)
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7 ottobre
di Niram Ferretti
Un anno fa oggi, Hamas entrava in Israele perpetrando il maggiore eccidio di ebrei post Shoah. Coglieva Israele di sorpresa, provocando un trauma che ancora oggi è vivo e mettendo in luce, nel giro di pochissimo tempo, una realtà nota da tempo, ma mai così evidente; che agli ebrei, a cui si è perdonato attraverso una lunga e travagliata storia di essere ebrei, non è mai stato perdonato il Paese che hanno creato.
Il 7 ottobre ha messo a nudo, rapidamente, la cattiva coscienza dell’Occidente, la sua stucchevole ipocrisia, ha fatto cadere con un tonfo tutta la insopportabile retorica delle giornate della Memoria, riassunte nella formula stantia “Mai più!”. E’ stato il colpo di grazia dato all’idea che il genocidio perpetrato dai nazisti ottanta anni fa fosse da archiviare come un orrore irripetibile, irriproducibile, quando tremila jihadisti di Hamas, nel giro di poche ore hanno massacrato milleduecento ebrei (e tra loro anche pochi non ebrei), che sarebbero diventati idealmente tutti gli ebrei israeliani se non fossero stati fermati.
“Genocidio”, parola ben precisa, coniata da Raphael Lemkin giurista polacco ebreo per descrivere lo sterminio programmatico del suo popolo da parte dei nazisti, e ritorto oggi contro gli stessi ebrei vittime designate da altri potenziali perpetratori di genocidi, per trasformarli nei colpevoli, una volta che hanno reagito iniziando a bombardare Gaza. E qui, qui, si manifesta uno dei più consolidati tropi antisemiti, quello per il quale se gli ebrei vengono uccisi è colpa loro e se reagiscono contro chi ha cercato di ucciderli, sono colpevoli due volte.
La colpevolezza ebraica, ontologica per Hitler, è soprattutto oggi, dopo il 7 ottobre, la colpevolezza di Israele, ontologica anch’essa, che per essere dissociata dall’antisemitismo diventa antisionismo, ovvero l’antisemitismo à la page, quello sdoganabile, così come “sionista”, da parola designante tutti quegli ebrei che volevano autodeterminare il loro futuro sottraendolo all’arbitrio degli altri, è diventato, nelle menti deragliate degli odiatori una sorta di marchio di Caino, emblema di sopraffazione e usurpazione.
Tuttavia il 7 ottobre è anche qualcos’altro, è l’incudine su cui battere il martello del proprio riconoscersi a fianco di Israele, delle sue ragioni, della sua volontà di resistere e combattere l’oscurantismo feroce del radicalismo islamico. È stato ed è la prova del nove che permette di riconoscere coloro i quali lo giustificano, lo appoggiano, o lo obliano, chinandosi affranti sulle vittime civili di Gaza come se non ce ne fossero mai state altre, e molto più copiose, e molto molto meno piante, accusando Israele di stragismo e di barbarie, di uccidere preferibilmente donne e bambini.
Siamo qui, dopo un anno, con Israele costretto a combattere una guerra su più fronti, che non ha cercato, non ha voluto, come tutte le altre guerre precedenti di cui è stato vittima, mentre a Gaza, in condizioni disumane sono detenuti, non si sa quanti di loro ancora vivi, più di cento ostaggi, ad assistere al più virulento rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad ascoltare chi, Francia in testa, la Francia che già tradì Israele nel 1967, bloccando la fornitura di armi che gli aveva destinato, chiedere che non gli vengano più mandate armi.
“La solitudine di Israele”, così si intitola l’ultimo libro di Bernard-Henri Lévy, ovvero il suo isolamento, il recinto, o ghetto di appestato, di paria, che gli è stato in buona parte costruito intorno, la solitudine che ottanta anni fa costò la vita a sei milioni di ebrei, ma che oggi, nonostante il prezzo alto da pagare, non farà piegare a Israele la testa, non permetterà a chi ne vuole la scomparsa, che questa avvenga.
Il 7 ottobre è stato ed è per Israele, che oggi lo commemora, giorno atroce e di orrore puro, giorno di disfatta, ma, come sempre nella storia ebraica anche pungolo a rialzarsi, ad afferrare di nuovo il proprio destino, a non delegarlo ad altri, a combattere per affermarlo, per mantenerlo saldo.
(L'informale, 7 ottobre 2024)
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7 ottobre: tutti i numeri di un anno di guerra
17.000 terroristi sono stati uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; trovati 4.700 tunnel nella Striscia; colpite 11.000 postazioni di Hezbollah
di Sarah G. Frankl
Nel giorno in cui cade il primo anniversario del massacro del 7 ottobre, le forze di difesa israeliane (IDF) diffondono i numeri ufficiali di un anno di guerra che comprendono le operazioni dell’esercito e dell’aeronautica nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Secondo i dati diffusi questa mattina circa 17.000 terroristi di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra. In base alle informazioni diffuse l’esercito ha ucciso otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnia di Hamas e operativi con un grado simile. Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno individuato circa 4.700 tunnel. Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza. I combattimenti si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare, il mese scorso, in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano. In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 terroristi operativi, per lo più membri di Hezbollah, sostenuti dall’Iran. Il numero comprendeva 90 comandanti di Hezbollah. Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito. Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti. I numeri includono 13.200 missili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre. L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra. Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati in Libano. L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio. Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza. L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che stavano compiendo attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania. L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.
(Rights Reporter, 7 ottobre 2024)
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7/10/24 – Un anno di guerra: I dati dell’IDF
Un anno di guerra: I dati dell’IDF mostrano 728 soldati uccisi, e oltre 26.000 razzi lanciati contro Israele
Secondo l’esercito, sono 17.000 terroristi uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; 4.700 tunnel trovati nella Striscia; 11.000 postazioni Hezbollah colpite
Mentre il Paese segna un anno dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, l’ IDF ha pubblicato i nuovi dati sulle operazioni nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano, dal numero di razzi lanciati contro Israele al numero di siti colpiti dall’aviazione israeliana.
Secondo i dati, circa 17.000 agenti di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra, oltre a circa 1.000 terroristi all’interno di Israele il 7 ottobre, quando uomini armati si sono scatenati nelle comunità del sud massacrando circa 1.200 persone, per lo più civili, e rapendone 251 a Gaza.
Israele ha risposto con una campagna militare per rovesciare il regime di Hamas nella Striscia di Gaza, distruggere il gruppo terroristico e liberare gli ostaggi.
Il ministero della Sanità gestito da Hamas ha dichiarato che oltre 41.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, anche se la cifra non può essere verificata in modo indipendente e si ritiene che includa sia i civili che i membri di Hamas uccisi a Gaza.
I dati dell’IDF dicono che l’esercito ha eliminato otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Secondo i dati, sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnie di Hamas e operatori di grado equivalente. Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno localizzato circa 4.700 tunnel, ha dichiarato l’IDF.
Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza. Gli scontri si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare il mese scorso in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano.
In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 agenti terroristici, per lo più membri degli Hezbollah sostenuti dall’Iran. Il numero comprende 90 comandanti di Hezbollah, secondo l’IDF. Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito.
Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti.
I numeri includono 13.200 proiettili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre. L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra.
Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero almeno centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati brevemente in Libano. L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio.
Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre – l’ultima domenica. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza.
L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che hanno compiuto attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania, ha dichiarato l’IDF.
L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.
(Israele360, 7 ottobre 2024)
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ROMA – 7 ottobre, 9 ottobre: il ricordo che unisce
di Adam Smulevich
Il cittadino italiano Victor Green, 33 anni, è la settima vittima dell’attentato terroristico di Jaffa. «Il legame tra Italia e Israele passa purtroppo anche da questo», ha dichiarato Jonathan Peled, il neoambasciatore dello Stato ebraico a Roma, intervenendo in un Tempio Maggiore gremito per il ricordo di due tragici eventi: il pogrom del 7 ottobre, a un anno dalla carneficina; l’attentato palestinese alla sinagoga del 9 ottobre 1982. C’è un legame, ricordava la Comunità ebraica nel dare appuntamento alla commemorazione. E non soltanto perché in entrambi casi era Shemini Atzeret, festa gioiosa trasformatasi in tragedia. Ma perché permane la stessa, esistenziale, minaccia del terrorismo. «Israele non voleva questa guerra», ha detto l’ambasciatore, al suo primo intervento pubblico dall’insediamento. «Ma non possiamo permetterci di perderla, e per questo la vinceremo. Faremo di tutto per riportare a casa i nostri fratelli e sorelle a Gaza, continueremo a lottare contro l’estremismo, la minaccia dell’Iran, l’antisemitismo in Italia e nel mondo. Ce la faremo, tutti insieme». Unità: un concetto evocato in apertura anche da Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano vittima a due anni del terrorismo palestinese, gravemente ferito a sua volta nell’attacco al Tempio.
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Palloncini gialli, all’esterno del Tempio, per chiedere la liberazione degli ostaggi
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«Avevamo bisogno di stare tra di noi, di compattarci», il messaggio con cui ha aperto il suo intervento. Per poi aggiungere: «Oggi è caduta ogni maschera dei cosiddetti “pacifinti”; la formula “due popoli, due stati” è sempre stata una barzelletta, non perché non la vogliamo noi, ma perché non è mai stata voluta dai palestinesi». Parafrasando Primo Levi, il rabbino capo Riccardo Di Segni ha mosso un’accusa verso chi, «al sicuro nelle proprie tiepide case, pensa di insegnare la morale a chi rischia la vita». È chiaro l’intento di tanti manifestanti anti-Israele, ha proseguito il rav con amaro sarcasmo: «Vogliono distruggere Israele: non sono antisemiti, però vogliono uccidere altri sei milioni di ebrei». Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica, si è domandato «come facciano ragazzi di scuole e università a essere così sciocchi», non capendo «il mondo omofobico e illiberale» per il quale scendono in piazza. «Pasolini li detestava questi ragazzi». Israele, in ogni caso, «vincerà, perché non è isolato». Per Fadlun lo si è visto «con tanti arabi sunniti in festa dopo l’uccisione di Nasrallah» e con le parole di vicinanza all’alleato della Casa Bianca. Ha concluso la serata, condotta dal giornalista David Parenzo e con interventi dei gruppi giovanili e testimonianze registrate da Israele, una riflessione di Eitan Della Rocca: «Si è concluso un anno di dure prove. Dobbiamo essere consapevoli che Hashem è con noi, che continua a instradarci verso una speranza».
(moked, 7 ottobre 2024)
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Lunedì 7 ottobre, a un anno dal Pogrom, un evento aperto alla cittadinanza alla Sinagoga Centrale di Milano
La Comunità ebraica di Milano, insieme alle Istituzioni ebraiche milanesi, vi aspetta lunedì 7 ottobre ore 18.30, Sinagoga Centrale di via Guastalla. Un anno dal Pogrom il dramma dei Rapiti e la nuova ondata di antisemitismo.
Presentazione a cura di Giuliano Ferrara
Ne parliamo con Ilaria Borletti Buitoni, Daniele Capezzone, Klaus Davi, Mattia Feltri, Luciano Fontana, Giulio Meotti, Iuri Maria Prado, Alessandro Sallusti, Pietro Senaldi e Rayhane Tabrizi. Modera Paolo Salom
Saluti Istituzionali rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, Presidente Comunità ebraica di Milano Milo Hasbani,Vice Presidente Unione Comunità ebraiche Italiane Onorevole Lorenzo Guerini, presidente Copasir Ignazio La Russa, presidente del Senato
Con la partecipazione di (attivista iraniana) Con la testimonianza di Liran Berman, fratello dei gemelli Ziv e Gali, rapiti dai terroristi di Hamas e ancora nelle loro mani e i familiari di Shila Ayalon, uccisa al Nova Festival Con la partecipazione del coro Kol haShomrim e dei movimenti giovanili Bnei Akiva e Hashomer Hatzair
(Shalom, 7 ottobre 2024)
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Israele uccide il palestinese che nel 2000 aveva linciato soldati israeliani
Aziz Salha, uno degli assassini dei riservisti israeliani Vadim Norzhic e Yosef Avrahami, è stato rilasciato nell'ambito dello scambio Gilad Shalit nel 2011.
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Aziz Salha alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità Palestinese di al-Bireh
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Aziz Salha, uno dei partecipanti all'assassinio di due riservisti delle Forze di Difesa israeliane a Ramallah nel 2000, alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità Palestinese di al-Bireh. Foto: Palestinian Media Watch. Aziz Salha, che ha raggiunto la notorietà mondiale per un video in cui mostra di aver linciato 12 ottobre 2000 due soldati israeliani nella città gemella di Ramallah, al-Bireh, il , è stato ucciso in un attacco delle forze israeliane nella Striscia di Gaza giovedì. Le immagini di Salha in piedi alla finestra della stazione di polizia dell'Autorità Palestinese a el-Bireh nei primi giorni della Seconda Intifada, agitando le mani insanguinate di fronte a una folla palestinese, sono impresse nella coscienza collettiva israeliana e per molti rimangono una conseguenza diretta degli accordi di Oslo. Vadim Norzhic, 33 anni, autista di camion di Or Akiva, immigrato in Israele da Irkutsk dieci anni prima, e il sergente maggiore (ris.) Yosef Avrahami, 38 anni, venditore di giocattoli di Petach Tikvah, sono stati trascinati dal loro veicolo e picchiati e pugnalati a morte, per poi essere mutilati, dopo essere entrati accidentalmente nella città di Ramallah, controllata dall'Autorità Palestinese, sulle colline della Giudea, a circa 10 km a nord di Gerusalemme. Sasha, 43 anni, è stato arrestato un anno dopo, ma era tra i 1.027 terroristi palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane nell'ambito dell'accordo del 2011 per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit dalla prigionia di Hamas a Gaza. Salha è stato preso di mira in un attacco aereo a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, ha detto l'esercito. "Negli ultimi anni è stato coinvolto nella direzione di attività terroristiche in Giudea e Samaria e ha continuato a svolgere attività terroristiche negli ultimi giorni", hanno dichiarato le Forze di difesa israeliane.
(Israel Heute, 6 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Mossad spiava Hezbollah con i walkie-talkie esplosivi dal 2015
I cercapersone costruiti in Israele mentre i walkie-talkie con all'interno l'esplosivo sono stati fatti avere a Hezbollah addirittura nel 2015 consentendo agli israeliani di intercettare per anni tutte le comunicazioni dei terroristi
di Sarah G. Frankl
Il Washington Post approfondisce dettagli inediti sulla presunta operazione israeliana che il mese scorso ha fatto esplodere cercapersone e walkie-talkie usati dal gruppo terroristico libanese Hezbollah, ferendo migliaia di persone e dando il via a una operazione che ha inflitto a Hezbollah colpi immensi, tra cui l’uccisione del suo leader Hassan Nasrallah. Il rapporto – che cita funzionari della sicurezza israeliani, arabi e americani, politici e diplomatici, nonché fonti vicine a Hezbollah – afferma che i cercapersone sono stati prodotti in Israele e concepiti dall’agenzia di spionaggio Mossad, compresa una caratteristica che ha fatto sì che molti agenti di Hezbollah usassero i dispositivi con entrambe le mani quando esplodevano, rendendoli incapaci di combattere. Dopo che il 12 settembre i funzionari del Mossad hanno rivelato la funzionalità ai funzionari eletti e l’operazione è stata infine approvata dal gabinetto del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, migliaia di agenti di Hezbollah hanno ricevuto un messaggio che li informava di aver ricevuto un messaggio criptato che richiedeva la pressione di due pulsanti, costringendoli in pratica a usare entrambe le mani e a rimanere feriti a entrambe le mani quando le esplosioni avvenivano mentre premevano i pulsanti. Il rapporto rivela anche che i walkie-talkie con trappola esplosiva – che sono stati fatti esplodere un giorno dopo – erano stati usati da Hezbollah dal 2015, fornendo a Israele un accesso continuo in tempo reale alle comunicazioni del gruppo terroristico per molti anni, prima che i dispositivi fossero armati in modo più letterale. I minuscoli esplosivi nei cercapersone e nei walkie-talkie erano nascosti in modo tale che smontando il dispositivo – o anche passandolo ai raggi X – non si potesse rivelare il pericolo agli inconsapevoli membri di Hezbollah, che hanno prontamente abbracciato i gadget progettati e prodotti da Israele, riporta il Post. Aggiunge che la proposta di vendita che ha convinto Hezbollah ad acquistare i cercapersone AR924 a batteria grande all’inizio di quest’anno è stata fatta da una donna non identificata che lavorava con una ditta di Taiwan e che non era a conoscenza del complotto israeliano.
(Rights Reporter, 6 ottobre 2024)
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La stella e la lancia: Israele e il Sudafrica, un rapporto travagliato
di Nathan Greppi
Quando era un avvocato, Nelson Mandela aveva forti legami con la comunità ebraica in Sudafrica: uno studio legale gestito da ebrei gli offrì degli incarichi quando nessun altro l’avrebbe fatto, e una fetta consistente degli attivisti bianchi contro l’apartheid erano ebrei. Inoltre, pur avendo avuto stretti rapporti con l’OLP di Yasser Arafat, una volta Mandela disse che “come movimento, riconosciamo la legittimità del nazionalismo palestinese così come riconosciamo la legittimità del sionismo come nazionalismo ebraico. Insistiamo sul diritto dello Stato d’Israele ad esistere entro confini sicuri, ma con uguale vigore sosteniamo il diritto palestinese all’autodeterminazione nazionale”. Decenni dopo l’ANC (African National Congress), che fu il partito di Mandela, sembra aver rinunciato a questo pragmatismo. In seguito al 7 ottobre, dopo aver fatto chiudere l’Ambasciata israeliana in Sudafrica, il governo guidato da Cyril Ramaphosa ha cercato di far condannare per genocidio Israele presso la Corte Penale Internazionale. Tuttavia, a causa dei problemi socioeconomici che dilaniano nel paese, le elezioni sudafricane tenutesi a giugno hanno visto l’ANC perdere la maggioranza assoluta dei seggi per la prima volta dalla fine dell’apartheid, costringendo Ramaphosa a formare un governo di coalizione con altri partiti. Alcuni di questi, come il partito di centro Alleanza Democratica e quello di destra Freedom Front Plus, hanno espresso posizioni filoisraeliane. Per capire se ciò porterà a dei cambiamenti anche nei rapporti tra Pretoria e Gerusalemme, e come sta vivendo la situazione dopo il 7 ottobre la comunità ebraica sudafricana, abbiamo parlato con Howard Feldman: imprenditore, editorialista e scrittore, collabora con il settimanale South African Jewish Report, il sito di notizie News24 e l’emittente radiofonica Chai FM 101.9. Suoi articoli sono apparsi anche sul Jerusalem Post e il Times of Israel.
- Come ci può descrivere la reazione del Sudafrica ai fatti del 7 ottobre? Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra l’ANC e il popolo sudafricano. Tra il 7 e l’8 ottobre 2023, la reazione dell’African National Congress è stata orribile; si sono mostrati fin da subito vicini alla causa palestinese, senza mai mostrare alcuna empatia nei confronti della comunità ebraica né chiedere agli ebrei sudafricani come si sentivano in quel momento. Questo atteggiamento è proseguito anche in seguito, fino alla campagna elettorale. Durante l’ultima manifestazione dell’ANC in vista delle elezioni, tenutasi al Soccer City Stadium di Soweto, sventolavano più bandiere palestinesi che bandiere sudafricane. Avresti potuto scambiarla per una manifestazione palestinese. Hanno voluto rimarcare fin da subito il loro allineamento non solo con i palestinesi, ma anche con Hamas. Prima ancora che Israele iniziasse la sua risposta militare al 7 ottobre, è venuto fuori che l’allora Ministro degli Esteri sudafricano, Naledi Pandor, aveva fatto una telefonata ai vertici di Hamas. In un primo momento il suo staff ha cercato di negare, ma quando è risultato evidente, si è giustificata dicendo che voleva solo offrire loro sostegno umanitario. Peccato che l’avesse fatto quando l’operazione militare israeliana non era ancora iniziata, e non ha mai pensato di offrire aiuto agli israeliani sfollati dai villaggi al confine con Gaza.
- Come viene vissuta questa situazione all’interno della comunità ebraica? A causa di questo tradimento a sangue freddo da parte del governo, i rapporti tra il presidente Cyril Ramaphosa e la comunità ebraica sudafricana sono andati distrutti, e non credo che si potranno mai riparare. Non potrà mai essere perdonato il modo in cui si è comportato. Anziché essere equidistanti ed equilibrati, quelli del governo hanno cercato di cavalcare quello che ritenevano essere un ampio sostegno popolare in quella direzione, che invece li ha penalizzati nelle urne. E questo mi porta alla distinzione tra il governo e il popolo del Sudafrica; questi ha molto a cuore concetti come libertà di espressione, libertà di culto, antirazzismo e uguaglianza di genere. Ciò è probabilmente dovuto al nostro triste passato legato al regime dell’apartheid, che ha fatto capire ai sudafricani che cos’è l’oppressione. Per questo, da parte della popolazione non si vedono quelle manifestazioni d’odio contro Israele che vediamo altrove. Ci sono state delle manifestazioni pubbliche, ma non ci sono la violenza e l’antisemitismo che vediamo in altre parti del mondo. Non si vedono attacchi contro sinagoghe e scuole ebraiche.
- Che cosa ha spinto l’ANC, dopo il 7 ottobre, a mettere in atto una politica tanto ostile nei confronti d’Israele? Bisogna capire che l’ANC si è sempre identificato con la causa palestinese. Tuttavia, in passato questa posizione era molto più ponderata; lo stesso Nelson Mandela riconosceva che Israele aveva bisogno di sicurezza, e allo stesso tempo che dovesse essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Un atteggiamento condiviso anche da molti ebrei sudafricani, convinti che due Stati debbano convivere fianco a fianco. Purtroppo, vuoi per i suoi stretti rapporti con l’Iran e Hamas o per altri motivi, il governo si è spostato su posizioni molto più sbilanciate. Oggi non hanno più credibilità, il che è un peccato; potendo telefonare a quelli di Hamas, l’ANC avrebbe potuto giocare un ruolo positivo come mediatore, anche contribuendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi.
- Come opinionista che si occupa di ebraismo e Israele, che riscontro riceve in Sudafrica? Personalmente, io mi esprimo molto pubblicamente a favore d’Israele, e per questo ricevo diversi attacchi online. Ma fortunatamente, ciò non si è mai tradotto in minacce fisiche. Più in generale, gli ebrei non rischiano particolarmente di essere attaccati per le strade del Sudafrica. Al contrario, camminando nella periferia di Johannesburg, si possono vedere poster e nastri gialli appesi sugli alberi per chiedere la liberazione degli ostaggi israeliani. Quando dei visitatori stranieri vengono in Sudafrica, dicono che nei loro paesi questi verrebbero rimossi. Ma a Johannesburg, ciò non avviene.
- Dopo le elezioni di giugno, sono stati inclusi nel nuovo governo sudafricano anche partiti con posizioni filoisraeliane. È cambiato qualcosa da allora? Direi di sì. Oggi l’ANC deve mostrarsi più cauto, anche se non può fare marcia indietro su tutto ciò che ha fatto in passato. Il messaggio ricevuto alle elezioni è che ha molte sfide da affrontare in casa, e che il governo deve pensare più a risolvere i problemi interni che a un conflitto lontano migliaia di chilometri. Come organizzazione, l’ANC è un fallimento, e molti sudafricani sentono che li ha abbandonati. Durante il suo discorso inaugurale per il nuovo governo, Ramaphosa ha dichiarato di aver recepito questo messaggio, e che si concentreranno sul risolvere i problemi interni del Sudafrica. Se ci riusciranno o meno, questo non lo so, anche perché alla fine quelli dell’ANC rimangono sempre gli stessi.
- Il Sudafrica è un paese multietnico, dove convivono culture diverse. Tra queste, ci sono delle differenze per quanto riguarda la diffusione dell’antisemitismo e dell’antisionismo? In generale, l’antisemitismo è poco presente in tutti i gruppi. Piuttosto, a Città del Capo è molto forte la comunità musulmana, e anche se la maggior parte dei musulmani sudafricani non sono antisemiti, alcuni di loro si sono radicalizzati. Oggi, buona parte dell’antisemitismo in Sudafrica proviene da gruppi di estrema sinistra.
- Quando devono tutelare la propria sicurezza, le comunità ebraiche ricevono qualche aiuto da parte delle autorità? Lo Stato non fornisce alcuna protezione ufficiale ai luoghi ebraici. Se si presentano rischi evidenti, la comunità ebraica ne discute con l’intelligence, ma per il resto, deve badare a sé stessa con il proprio servizio di sicurezza.
- Alla luce della situazione nel paese, come vede il futuro dell’ebraismo sudafricano? Il futuro dell’ebraismo sudafricano è intrinsecamente legato al futuro del Sudafrica. Credo che gli ebrei sudafricani decideranno di restare solo se il paese tornerà a prosperare. In altre parole, più che l’aspetto religioso contano l’accesso ad un buon sistema sanitario, le prospettive di carriera lavorativa, l’istruzione e la sicurezza; cose che preoccupano tutti i sudafricani, non solo gli ebrei.
(Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2024)
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Guerriglia al corteo propal di Roma
Feriti, bandiere di Hezbollah e slogan che inneggiano al 7 ottobre
di Elisabetta Fiorito
È finita come purtroppo era prevedibile la manifestazione propalestinese e filo Hamas non autorizzata. Appena cinquemila i partecipanti ma la guerriglia si scatena comunque a corteo finito, verso le 17.30, in piazzale Ostiense. Alcuni incappucciati iniziano a tirare sassi, bottiglie, bombe carta e persino un palo stradale divelto dall’asfalto contro le camionette della polizia. Le forze dell’ordine reagiscono spruzzando gli idranti sulla folla. Almeno tre ragazzi vengono feriti durante gli scontri, tra loro anche una ragazza. Un fotografo viene colpito alla testa dopo essere stato bastonato da alcuni manifestanti incappucciati. Un altro è stato ferito a una mano, colpita da un sasso.
È l’epilogo di un pomeriggio che ha visto ancora una volta come protagonista l’antisemitismo mascherato da antisionismo tra urla e bandiere. “L’Italia fermi la vendita e l’invio di armi a Israele”, “Finisca immediatamente il genocidio a Gaza”, “Il 7 ottobre è iniziata la rivoluzione”, “Resistenza fino alla vittoria”, “Palestina immortale, Israele criminale”, “Free Palestine” con l’immagine che include tutto il territorio israeliano sono alcuni degli slogan. Inquietanti quelli dei Giovani palestinesi con “Viva il 7 ottobre” e che per i prossimi giorni annunciano “L’intifada studentesca” nelle scuole e nelle università di tutta Italia al grido di: “Se non cambierà intifada pure qua”. Una vera e propria minaccia per la nostra democrazia e per chi non ricorda che, a parte il terrorismo interno, i palestinesi sono gli unici ad aver fatto vittime sul nostro territorio come il piccolo Stefano Gai Taché nell’attentato alla Sinagoga del 1982.
Ma la ciliegina sulla torta è la presenza della bandiera di Hezbollah, il vessillo giallo spunta nello spezzone dei militanti libanesi, e riporta un versetto del corano: “E colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il partito di Dio, Hezbollah, che avrà la vittoria”con raffigurata la mano che stringe un fucile d’assalto stilizzato.
Nel corso della giornata, in una Piramide blindata, sono state controllate 1.600 persone e 19 portate in Questura. “Ci fermano per garantire la guerra”, dal megafono, uno dei rappresentati, dell’Unione democratica arabo palestinese. E alcune persone sono state fermate dopo gli scontri. Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha manifestato apprezzamento per “l’operato delle forze di polizia che, come sempre, hanno dimostrato grande professionalità ed equilibrio garantendo l’ordine pubblico in una giornata complessa, in cui non sono mancate gravi intemperanze da parte di chi è sceso in piazza anche utilizzando armi improprie e bombe-carta per aggredire gli agenti e causare danneggiamenti”.
È una manifestazione “esplicitamente pro- Hamas non pro-Palestina – dice il giornalista Pierluigi Battista – nel senso che il 7 ottobre 2023 viene considerato un atto di resistenza. Non è pro Stato palestinese è contro l’esistenza dello Stato d’Israele”. “Una vergogna le bandiere Hezbollah”, dichiara Maurizio Gasparri di Forza Italia, mentre per Daniela Santanché di Fratelli d’Italia “a preoccupare è l’antisemitismo”.
Resta l’amarezza per un rituale stanco che continua a minacciare la nostra democrazia. Una manifestazione vietata che si tiene comunque, che vuole soltanto la cancellazione d’Israele inneggiando ad Hamas e Hezbollah, due organizzazioni che non soltanto negano la libera manifestazione del pensiero ma ogni forma di dissenso e che sotto le loro dittature non sarebbe finita con qualche fermo, ma con la condanna a morte dei partecipanti al corteo.
(Shalom, 5 ottobre 2024)
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Chi ha ucciso Gesù?
di Marcello Cicchese
La risposta a questa domanda è di fondamentale importanza. Per secoli agli ebrei è stato imputato il tremendo crimine del “deicidio”, con tutte le conseguenze che ne sono seguite. Cerchiamo allora di capire il senso dei testi biblici che parlano dell’uccisione di Gesù.
La domanda: “Chi ha ucciso Gesù?” non è così chiara come sembra. Si potrebbe rispondere che Gesù è stato materialmente ucciso dai soldati romani che lo hanno inchiodato sulla croce. Questo è vero, ma non risponde al senso della domanda. Si sa bene che quando avviene un omicidio non basta scoprire chi l’ha commesso materialmente, perché può essere ancora più importante scoprire chi l’ha voluto e commissionato.
Rispondere alla domanda “Chi ha ucciso Gesù?” significa allora arrivare a stabilire chi ne porta la responsabilità ultima e quindi anche, se si tratta di crimine, la colpa.
Risaliamo allora la trafila delle responsabilità, cominciando dal basso.
E’ certo che chi ha legato Gesù alla croce e l’ha inchiodato al legno provocandone la morte fisica sono stati dei soldati romani. E’ un’osservazione che può sembrare ovvia e banale, ma ha la sua importanza. Gesù non è stato pugnalato nell’ombra da un sicario giudeo, non è stato linciato da folle ebraiche inferocite; le mani che l’hanno colpito appartenevano a pagani. I soldati romani certamente eseguivano degli ordini, e tuttavia teoricamente avrebbero potuto opporre obiezione di coscienza, se fossero stati convinti che l’azione era ingiusta. Questo avrebbe potuto scagionarli sul piano morale personale, ma certamente non avrebbe impedito l’esecuzione. Sarebbero stati passati per le armi e Gesù sarebbe stato ugualmente inchiodato sulla croce.
Risalendo la scala gerarchica si arriva a Pilato, che in quel momento rappresentava l’autorità imperiale romana. «Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?» (Giovanni 19:10), dice Pilato a Gesù, sorpreso dal suo silenzio. E aveva ragione: sul piano politico a lui spettava il compito di decidere la sorte di Gesù, e quindi lui ne porta la responsabilità davanti agli uomini. Certamente non poteva sapere che Gesù è il Figlio di Dio e tanto meno poteva capire la sua pretesa di essere, secondo l’accusa dei suoi nemici, il re dei giudei. E quando gli chiede: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù risponde: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Giovanni 18:37). «Che cos’è verità?» replica lo scettico governatore romano. Pilato, nella sua ignoranza di gentile, ovviamente non poteva capire il senso profondo delle parole di Gesù, ma certamente poteva capire, e di fatto l’aveva capito, che le accuse contro Gesù non erano vere. «Io non trovo colpa in lui» (Giovanni 18:38), ammette infatti pubblicamente. Per motivi di giustizia dunque avrebbe dovuto liberarlo, cosa che invece non ha fatto, e in questo modo «ha soffocato la verità con l’ingiustizia» (Romani 1:18).
E’ chiaro allora che sul piano strettamente politico umano, la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù ricade sul rappresentante dell’Impero romano a Gerusalemme. Chi non vuol far intervenire Dio in questi fatti, non può che arrivare a questa conclusione.
Chi invece fa intervenire Dio deve prendere in considerazione quello che dice la Scrittura, senza lasciarsi fuorviare da preferenze personali. L’apostolo Pietro nella sua prima predicazione a Gerusalemme dopo l’ascensione al cielo di Gesù pronuncia parole pesanti:
"Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso" (Atti 2:36).
E’ chiaro allora, dirà qualcuno: a uccidere Gesù sono stati gli ebrei, che ne portano la colpa e ne devono subire le conseguenze.
Due cose però si devono osservare: l’ebreo Pietro non dice: “I romani hanno crocifisso Gesù”, e neppure: “Noi ebrei abbiamo ucciso Gesù”. Dice: “Voi l’avete crocifisso”. Chi sono questi voi? Nel primo discorso Pietro si rivolge agli “uomini di Giudea” (Atti 2:14) e agli “uomini d’Israele” (Atti 2:22), e nel suo secondo discorso si rivolge ai “capi del popolo e anziani” dicendo:
"... sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele che questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti..." (Atti 4:8)
Quando Pietro si rivolge a tutta la casa d’Israele o a tutto il popolo d’Israele, lo fa per annunciare che quel Gesù che è stato crocifisso è il Signore e il Messia d’Israele (Atti 2:36), e che soltanto nel suo nome è possibile essere salvati (Atti 4:12). A tutto il popolo viene annunciato il perdono dei peccati e la salvezza proprio attraverso quel Gesù che i capi del popolo, con il consenso di molti, avevano consegnato nelle mani dei gentili:
"Uomini d’Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest’uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto” (Atti 2:22-24).
Pietro si comporta dunque come un profeta che dall’interno di Israele annuncia il peccato che i capi e una parte del popolo hanno commesso rifiutando il Messia mandato da Dio. Ma, esattamente come hanno sempre fatto tutti i profeti, annuncia anche che nonostante e anzi attraverso la disubbidienza di gran parte del popolo, Dio continuerà a compiere la sua opera a favore d’Israele.
Pietro dice ai suoi fratelli israeliti: “... voi, per mano d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste”. I romani indirettamente vengono coinvolti e indicati come iniqui, ma è indubbio che Pietro attribuisce ai suoi capi una maggiore responsabilità. E questo è vero, se si esce dal semplice piano politico umano e si fa intervenire Dio, con la sua volontà, le sue rivelazioni e le sue promesse. Pietro presenta Gesù come Messia: è chiaro allora che soltanto gli ebrei potevano rifiutare il Messia, non certo i romani, che non sapevano nemmeno che cosa fosse il Messia. Dal momento che soltanto Israele è a conoscenza dei piani di Dio, è naturale dire che se Gesù è il Messia, come Pietro pubblicamente annuncia, soltanto gli ebrei possono essere ritenuti responsabili di aver consegnato nelle mani dei gentili quel Messia che aspettavano come liberatore dalla schiavitù dei gentili. Pilato ha colpa nell’esecuzione di Gesù, anzi l’unica colpa se ci si arresta al piano politico, ma se si accetta il fatto che Gesù è il Messia, è chiaro che sul popolo di Dio di quel tempo grava una maggiore responsabilità. Questo è attestato dalle parole esplicite di Gesù, che davanti a Pilato afferma: “... chi mi ha dato nelle tue mani ha maggior colpa” (Giovanni 19:11).
Ma esaminiamo il contesto in cui viene pronunciata questa frase. Quando Gesù si trova davanti a Pilato è già stato condannato a morte dal Sinedrio. Al governatore romano arriva tra le mani una grana che avrebbe volentieri evitato. Ha capito benissimo che i capi dei sacerdoti glielo hanno consegnato per invidia (Marco 15:10), e in cuor suo spera di poter avere dall’ebreo che gli sta di fronte qualche valido argomento che gli consenta di respingere come manifestamente infondate le accuse avanzate. Ma tra queste ce n’è una per lui molto strana: Gesù è accusato dai suoi connazionali di essersi fatto Figlio di Dio. Pilato allora interroga su questo punto quello strano ebreo. Ma questi non gli risponde. Il governatore romano si sente snobbato, come se non valesse nemmeno la pena di rispondergli. E infatti è così: che cosa può capire un funzionario romano su un argomento come “il Figlio di Dio”. In che modo avrebbe potuto venirgli in aiuto? Poteva forse essere lui a confermare l’autodichiarazione di Gesù? Pilato allora ricorda all’imputato che chi comanda è lui, non quel Sinedrio ebraico che lo ha condannato e che lui certamente disprezza. Se vuol essere aiutato, Gesù deve rinnegare quell’autorità religiosa e appellarsi alla vera autorità mondiale di quel tempo: Roma, che in quel momento lui rappresenta. Gesù allora informa il governatore romano che l’autorità ultima non ce l’ha lui, ma Dio, che ha scelto Israele, con il quale un giorno regnerà sul mondo intero. Il Sinedrio che lo ha consegnato nelle sue mani ha maggior colpa (Giovanni 19:11) perché ha maggiore autorità. Gesù rifiuta dunque di lasciarsi difendere dai gentili contro i suoi connazionali ebrei. Dal momento che il Sinedrio lo ha rifiutato come Figlio di Dio, Pilato non può fare assolutamente nulla, perché nel piano di Dio lui è un’autorità inferiore. Pilato quindi è colpevole, davanti agli uomini e davanti a Dio, dell’uccisione di Gesù, ma non ne porta la responsabilità ultima, perché in ogni caso non avrebbe potuto fare niente per evitarla, per il semplice fatto che è un peccatore, rappresentante storico di tutti i gentili che soffocano la verità con l’ingiustizia (Romani 1:18).
Per trovare la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù bisogna allora salire ancora più in alto nella scala delle autorità. Superato Pilato, rappresentante del potere di Roma, si arriva al Sinedrio ebraico, la più alta autorità del popolo d’Israele. E’ lui che ha ucciso Gesù? La risposta sarebbe affermativa, se si potesse dimostrare che una sua decisione diversa avrebbe potuto evitare quella morte. Ma non è così. Il popolo d’Israele, rappresentato dai suoi capi di quel momento, ha certamente respinto il suo Messia e lo ha consegnato nelle mani dei gentili, e così facendo si è comportato come tante altre volte nel passato: ha disubbidito, ribellandosi al suo Dio. Ma era inevitabile che, in conseguenza di questo fatto, Gesù dovesse morire? Davanti ad una ribellione così grave del suo popolo, Dio avrebbe potuto prendere la palla al balzo e fare quello che tanti dicono che poi abbia fatto: rigettare definitivamente Israele, additarlo al disprezzo universale e passare ad altri le benedizioni promesse. Gesù avrebbe potuto manifestare pubblicamente la sua autorità, chiedere al Padre una legione di angeli, distruggere i suoi nemici ebrei e mettersi a capo di un’altra entità politica fatta di gentili ragionevoli e disponibili che lo avessero accolto. Ma tutto questo Gesù non l’ha fatto perché sapeva che la sua morte avrebbe dovuto servire ad espiare i peccati della nazione e portare salvezza a Israele e a tutto il mondo.
Chi dunque ha voluto la morte di Gesù? Chi ne porta la responsabilità ultima davanti a Dio? Non sono i soldati perché sopra di loro c’era Pilato; non è Pilato perché sopra di lui c’era il Sinedrio; non è il Sinedrio perché sopra di lui c’era Dio stesso, nella persona del Figlio che volenterosamente si sottomette al Padre.
"Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio»" (Giovanni 10:17-18).
La generazione degli israeliti di quel tempo porta indubbiamente la responsabilità di avere respinto il Messia, ma l’uccisione di Gesù non ne è una necessaria conseguenza, perché non era nelle possibilità di nessun uomo di togliere la vita al Principe della vita. Dio avrebbe potuto fulminare all’istante tutti quelli che minacciavano il suo prediletto Figlio. Se non l’ha fatto, se ha preso un’altra decisione, la responsabilità ultima è sua. E Dio se la prende, perché proprio questa era la sua volontà d’amore, decisa prima ancora della fondazione del mondo: offrire al popolo d’Israele anzitutto, e poi a tutte le genti, la possibilità di essere perdonati dei propri peccati e riconciliati con Lui. A nessuno, assolutamente a nessuno, Dio rimprovererà mai di avergli ucciso il Figlio. La morte di Gesù è stata fermamente voluta dal Padre, il quale ama il Figlio, riconoscendo in Lui la disponibilità a ubbidire alla sua volontà. Il Figlio ama il Padre, e manifesta il suo amore nella disponibilità a deporre liberamente la sua vita senza esservi costretto da nessun uomo. L’amore tra Padre e Figlio, espresso dolorosamente sulla croce, si espande in seguito, e si compie pienamente, in un amore redentivo per tutti gli uomini. Nell’intimo colloquio che precede la sua morte in croce, Gesù si rivolge al Padre con queste parole:
"Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l’amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro»" (Giovanni 17:25-26).
(da "La superbia dei Gentili")
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La rifondazione di Israele
A un anno dal 7 ottobre, gli israeliani guardano in faccia il trauma e ritrovano l’unità. Il sionismo, l’esercito, l’estrema destra, la convivenza con i palestinesi. Ritratto di un paese che non vuole più sbagliare.
di Micol Flammini
TEL AVIV - Il giallo non è più un colore, è un richiamo. Ottobre non è più un mese, è un lamento. Israele si volta indietro, vede che si avvicina un nuovo 7 ottobre, si guarda allo specchio e non si riconosce più. Tutto il giallo che c’è per le strade confonde e ricorda, è il colore degli ostaggi. Non c’è iniziativa che non si sia tinta di giallo: qualsiasi cosa faccia questo paese, lo fa ricordando che ci sono degli israeliani dall’altra parte del confine, a sud, in un tunnel di Hamas, forse morti, probabilmente moribondi, sicuramente irriconoscibili. Allora sono gialle le spille che le persone portano al bavero e mettono anche soltanto per andare a fare la spesa; sono gialli i menù dei ristoranti, perché la vita sociale è tornata, ma bisogna ricordare; sono gialli i nastri legati agli specchietti delle macchine, gialli i volantini di protesta, gialli i cartelloni delle rassegne cinematografiche. Giallo è il colore dell’incompletezza. Poi è tornato ottobre, il mese delle guerre, il mese del pentimento, il mese del danno. Ottobre ricorda che è trascorso un anno, che in tanti hanno percepito come infinito e porta a una domanda necessaria: quanto è cambiato Israele? Tanto, troppo, non abbastanza. Al Kikar Hatufim, la piazza degli ostaggi, chi si lascia rivolgere la domanda è comunque d’accordo su un punto: il paese non è più uguale a se stesso. Il Capodanno ebraico che ha ammantato la città di un’aria di festa e di sonno è finito, ma per tutti la preghiera di Rosh Hashanà che comincia con la frase “Finisca l’anno con le sue maledizioni. Cominci l’anno con le sue benedizioni” in questo ottobre, che torna e porta in dote un anniversario luttuoso, ha avuto un significato completamente diverso, inaspettato. “Ci ho pensato tutta la notte – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato e attivista – se devo comparare lo scorso Capodanno con questo, lo scorso Rosh Hashanà con questo, beh, preferisco essere qui adesso, in questo momento, con tutte le trasformazioni”. Israele è nuovo, doloroso, ma diverso: “Non siamo più ciechi – riprende Elbashan – ora vediamo con chiarezza chi siamo, vediamo gli amici e i nemici, i torti e le ragioni”. Non sono parole semplici per lo scrittore, impegnato per una vita nel processo di pace; ferreo sostenitore della convivenza con i palestinesi.
“Ho dimenticato quello che mia nonna non aveva mai dimenticato, le davo della razzista, credevo che fosse troppo traumatizzata dall’Olocausto e dalla guerra di Indipendenza per capire cosa fosse giusto. Io andavo a Ramallah per cercare una soluzione, ero impegnato in quella che oggi chiamo l’industria della pace e avevo dimenticato che se il mio impegno, da sionista, era quello di essere disposto a rinunciare a parte del territorio dello stato di Israele, l’altra parte invece non vuole l’esistenza dello stato di Israele”. Lo scorso anno, prima del 7 ottobre, Elbashan era fermo nella sua convinzione di un processo di pace che portasse alla collaborazione tra i due popoli, credeva che fosse giusto, da israeliano, impegnarsi per i diritti della parte palestinese e oggi, con la voce seria, monocorde, si guarda indietro e dice: “Aveva ragione mia nonna: non c’è convivenza”. Lo scrittore è ancora convinto che la soluzione sia due stati per due popoli, ma quei due popoli non saranno mai amici, saranno territori separati, divisi, impenetrabili: “Sono ancora dell’idea che è necessario cedere parte del territorio ai palestinesi, ma non ci saranno lavoratori che si spostano da Ramallah per andare a lavorare a Tel Aviv, non ci sarà un confine poroso, non si andrà da una parte all’altra, saranno due mondi chiusi, incomunicabili”. L’idea della convivenza è sempre meno presente, anche chi per anni, come Yuval, aveva pensato che fosse l’unica strada giusta da percorrere, adesso è sempre più convinto che la soluzione sia smettere di condividere qualsiasi cosa e questo ha anche un effetto politico. Michael Milshtein, esperto di gruppi terroristi e di sicurezza, ne fa una riflessione logica: “Gli elementi più estremisti del governo attuale, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, sostengono la creazione di un Grande Israele, dal fiume al mare, Eretz Yisrael Hashlema. La pancia di un paese traumatizzato può mostrarsi interessata ai loro discorsi, ma la verità è che gli israeliani non hanno intenzione di vivere in un unico stato con i palestinesi, quindi non approvano il loro progetto. Anzi quello che chiedono ora è: come possiamo separarci?”. Gli israeliani sono diventati ossessionati dal progettare, dal domani, chiedono risposte, racconta Milshtein. Non sono un popolo impaurito, sono un popolo che sa di poter contare sulla propria resilienza, su un senso intimo e spontaneo di comunità che in questo anno è venuto su con naturalezza, che si rende conto di quanto l’esercito, dopo il più grande dei fallimenti, abbia ottenuto risultati importanti: “La domanda adesso è: dove andiamo? – dice Milshtein – Israele sta vivendo la sua guerra più difficile, l’esercito è diventato più grande, ha cambiato il modo di ragionare: un tempo era cauto, evitava lo scontro, adesso si è fatto più aggressivo, ma mancano le priorità. Dal mio punto di vista la priorità è l’Iran, dobbiamo concentrarci su quello. Tsahal ha dimostrato di poter reggere su più fronti, ma manca una strategia”. E il problema, secondo Milshtein, è ancora una volta politico: “A guidarci c’è la stessa classe dirigente che ha commesso gli errori che hanno portato al 7 ottobre. Non c’è stata una commissione di inchiesta per stabilire non soltanto le responsabilità, ma anche per studiare nel dettaglio cosa è stato sbagliato. Queste sono le premesse per tornare a sbagliare di nuovo”. Anche Elbashan ne fa un discorso politico, è un avvocato e nella sua carriera ha insegnato anche a Ben-Gvir, dice di non capire quale sia il segreto del suo successo, ma confessa: “L’ho conosciuto che era un giovane radicale di destra, ero convinto sarebbe cambiato, invece no. Anche io ero un giovane radicale di sinistra, poi sono cambiato. Rimanere agli estremi è da immaturi”. Immaturo e deludente, secondo Elbashan, è anche l’atteggiamento di tutti coloro che non hanno chiesto scusa agli israeliani: “Il premier Netanyahu, l’esercito, i politici, gli ex premier”. Gli israeliani, invece, si sono ritrovati più uniti e consapevoli, “c’è una minoranza estremista che urla molto, l’abbiamo lasciata urlare, non lo permetteremo più. Siamo noi la maggioranza e ci faremo sentire”, dice lo scrittore. La politica è percepita come un impedimento, la società si è ritrovata ferita, ma più vicina: “Crediamo in noi stessi”, conclude Milshtein.
Elbashan ha sempre pensato che la sua israelianità fosse definita dal numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito da ragazzo. Ha trascorso una vita a sentirsi più israeliano che ebreo, dal 7 ottobre, ha capito di essere ebreo: “Non sono religioso, non vado in sinagoga, non indosso la kippah. Ho spesso ascoltato gli ultraortodossi andare in giro per strada a predicare la fratellanza fra tutti noi e non mi sono mai sentito loro fratello. Ora sì, sento un legame, come in ogni famiglia vedi le differenze, ma il senso di intimità rimane”. Molti israeliani hanno un timore che non provavano da tempo, hanno paura per la fine di Israele, uno stato che non è soltanto una casa, un progetto, un sogno, “rappresenta tutto quello che sei – spiega Elbashan – diversamente dagli ebrei della diaspora, sono cresciuto con l’idea che l’unico modo di essere, sia essere sionista. Così ho cresciuto i miei figli. Non so come essere ebreo senza essere sionista. Non so essere, senza essere sionista”. Yuval lo mette in parole, ma questo è un senso diffuso, un nuovo “essere o non essere” che gli israeliani si sono ripetuti per un anno. Il sionismo si è rafforzato, “lo vedi – conclude Yuval – calcolando le tante morti dei soldati a Gaza o in Libano – hanno tutti una vita, una famiglia, un lavoro. Vanno a combattere perché non possono esistere senza essere qui”. Elbashan spiega: “Un anno fa rifiutavo, come molti israeliani, l’idea di dover vivere con la spada. Ora so, come molti israeliani, che è meglio vivere con la spada che intrappolato in un’illusione”.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Come è dilagato l’antisemitismo dall’eccidio del 7 ottobre
di Giovanni Giacalone
Il 7 ottobre 2023 Hamas perpetrava il più grande eccidio nei confronti degli ebrei dai tempi della Shoah; un massacro pianificato e attuato contro uomini, donne, bambini, anziani e persino neonati. Stupri, decapitazioni, mutilazioni, omicidi a sangue freddo, sequestri. Scene di un’atrocità tale da impressionare persino militari di lunga esperienza giunti in soccorso della popolazione nel sud di Israele. Nonostante ciò, molti si sono rallegrati e hanno festeggiato l’eccidio, definendolo “resistenza”, oppure lo hanno giustificato come azione difensiva; un esempio, il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, soltanto tre giorni dopo il massacro, durante una manifestazione palestinese in centro a Milano, definiva l’eccidio “legittima difesa”; dichiarazione fatta ai microfoni dell’emittente televisiva italiana Rai 3. L’esternazione di Hannoun non è altro che una delle tante espressioni di odio nei confronti di Israele che si sono moltiplicate in tutto l’Occidente immediatamente dopo l’eccidio e ben prima che l’IDF iniziasse le operazioni di terra a Gaza. Per costoro, Israele non doveva nemmeno reagire; Israele non dovrebbe nemmeno esistere, come del resto evidenzia uno degli slogan più in voga alle manifestazioni “pro-pal”, ovvero “From the river to the sea, Palestine will be free” (Dal fiume al mare la Palestina sarà libera), incitamento alla distruzione dello Stato ebraico. Ci si nasconde dietro l’antisionismo, ma questa maschera non regge più. Come illustrato dal World Jewish Congress, l’antisionismo non è altro che una forma di antisemitismo in quanto negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nella sua patria ancestrale; è la negazione degli storici legami del popolo ebraico con la terra di Israele, ignorandone le prove storiche e archeologiche. Chiunque sostenga l’autodeterminazione ebraica e l’esistenza dello Stato di Israele è automaticamente un “sionista”, quindi “un nemico”, preparando di conseguenza il terreno per azioni violente contro gli ebrei in Israele e nella diaspora. Quel miscuglio di antisemitismo e antisionismo è emerso un po’ ovunque nelle manifestazioni pro-pal in Occidente, dal Canada all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa. I campus universitari sono diventati roccaforti dell’odio contro Israele mentre nelle piazze non si sono soltanto sentiti slogan, ma in alcuni casi si è anche passati alla violenza nei confronti degli ebrei. Alla University of Pittsburgh, due studenti ebrei venivano riconosciuti per via delle kippot che avevano in testa e aggrediti da teppisti filopalestinesi. In Gran Bretagna, appena dopo un mese dall’eccidio del 7 ottobre, il presidente dell’Unione degli Studenti ebrei, Edward Isaacs, denunciava un picco senza precedenti di aggressioni nei confronti di studenti ebrei. Il Community Security Trust (CST) ha infatti registrato 67 incidenti antisemiti dal 7 ottobre al 3 novembre 2023 in ben 29 campus, rispetto ai 12 registrati nello stesso periodo del 2022, come riportato dalla BBC, emittente certamente non filoisraeliana. La stessa CST ha registrato 5.583 casi di antisemitismo dal 7 ottobre 2023 al 30 settembre 2024, con un incremento del 204% rispetto ai 1.830 segnalati l’anno precedente. Si tratta tra l’altro dei dati più alti da quando il centro ha iniziato la propria attività nel 1984. In Francia, i dati del Ministero dell’Interno e dell’organismo di controllo del Servizio di protezione della comunità ebraica hanno mostrato che nel 2023 sono stati segnalati 1.676 atti antisemiti, rispetto ai 436 dell’anno precedente. Nel vicino Belgio, un ente pubblico indipendente che combatte la discriminazione ha dichiarato di avere ricevuto 91 segnalazioni tra il 7 ottobre e il 7 dicembre dello scorso anno, rispetto alle 57 segnalazioni dell’intero 2022. In Italia, i dati raccolti da OSCAD (Osservatorio sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) registrati dal 7 ottobre 2023 al 30 giugno 2024 indicano 406 casi di antisemitismo”. Dato successivamente aumentato a 456 in seguito a nuovi episodi. Queste sono solo le cifre ufficiali, ma possiamo tranquillamente supporre che non tutti gli episodi di denigrazione, sputi, intimidazione e insulti vengano registrati o segnalati. Nel Vecchio Continente si sono visti imam glorificare Hamas e diffondere propaganda antisemita, manifestanti con le bandiere nere, con quelle di Hezbollah, invocazioni alla distruzione di Israele, ma si è anche incorso in situazioni assurde, come a Londra, dove i manifestanti pro-Israele venivano confinati in un’area recintata mentre poco più avanti sfilava un corteo di islamisti, estremisti di sinistra e odiatori dello Stato ebraico. Per quale motivo ai primi veniva vietato il corteo? Che dire poi dell’episodio capitato a Gideon Falter, attivista del “Campaign Against Antisemitism”, minacciato di arresto da un agente della Met Police nei pressi di una manifestazione filopalestinese perché accusato di “apparenza apertamente ebraica” in quanto con la kippah in testa. All’aeroporto di Heathrow, alcuni passeggeri provenienti da Israele su un volo El Al venivano invece importunati dalle guardie doganali. In Italia, a Milano, nella giornata del 27 gennaio, Giorno della Memoria, lo studente italiano Mihael Melnic esponeva dalla finestra del proprio appartamento un cartello con scritto “Free Gaza from Hamas” mentre in strada era in corso l’ennesima manifestazione propalestinese, stavolta non autorizzata. Oltre agli insulti e alle minacce ricevute dai manifestanti, il ragazzo riceveva poco dopo la visita di due agenti di polizia che dopo essersi introdotti all’interno dell’appartamento, lo identificavano con modalità intimidatorie e cercavano, senza successo, di sequestrargli il cartello. Melnic successivamente rilasciava un’intervista al Times of Israel per raccontare l’accaduto. A Padova, la studentessa israeliana Jasmine Kolodro veniva invece convocata in questura per un avvertimento dopo aver esposto in strada la bandiera israeliana nei pressi di una manifestazione filopalestinese. Episodi inquietanti se si considera anche la dichiarazione del 1° ottobre 2024 del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, secondo cui l’antisemitismo è presente sia nel giornalismo che negli apparati di sicurezza. Una situazione che è degenerata anche in Spagna, dove la comunità ebraica si è detta molto preoccupata e gli studenti universitari ebrei hanno paura di andare a lezione. In realtà, il dilagare dell’antisemitismo dal 7 ottobre 2023 in poi non è altro che l’evoluzione di un “seme” malato, già ampiamente presente e diffuso in tutto l’Occidente e che aspettava soltanto un input per manifestarsi in tutta la sua “potenza”. Gli attentati ai musei e alle scuole ebraiche in Belgio e Francia durante la cosiddetta fase dell’ISIS ne erano un chiaro segnale. Oppure l’assalto a una sinagoga parigina nel 2014, con tanto di commento “è finita la pacchia” espresso dal coordinatore del CAIM e convertito all’Islam, Davide Piccardo, attualmente direttore editoriale del sito islamista in lingua italiana “La Luce News”. In Francia, imam come Mohamed Tataiat, Hassan Iquioussen, Mahjoub Mahjoubi sono finiti più volte nell’occhio del ciclone per la diffusione di narrativa antisemita e sono poi stati espulsi. In Italia la situazione risulta drammatica; la linea del “lasciare sfogare” messa in atto dal governo Meloni ha portato a liste di proscrizione, all’incitamento a segnare le case di “ebrei e sionisti”, alle parate con cartelli raffiguranti “agenti sionisti”, all’imbrattamento di una scuola elementare ebraica, alle prediche filo-Hamas e antisemite nelle moschee, alla pubblicazione di vignette antisemite, come illustrato dall’Osservatorio Antisemitismo. Come se non bastasse, il centro islamico sciita “Imam Mahdi” di Roma ha annunciato per il 3 ottobre la commemorazione di Hassan Nasrallah. La situazione è purtroppo in costante sviluppo ed un aggravamento della faccenda è più che plausibile, senza un intervento, seppure tardivo, delle autorità. Finché si continuerà a differenziare tra “antisemitismo” e “antisionismo” invece di riconoscere quest’ultimo come espressione del primo. Finchè si continuerà a volere vedere la situazione in corso come una guerra tra parti equivalenti invece che per ciò che realmente è, ovvero una lotta tra uno Stato sovrano, Israele, e un regime terrorista con base a Teheran che utilizza i propri proxy per colpire indiscriminatamente lo Stato ebraico e i suoi cittadini, non si potrà affrontare la questione con la necessaria onestà intellettuale. E’ bene inoltre ricordare che il regime iraniano opprime e perseguita la propria popolazione ma anche quella libanese, utilizzando quel corpo estraneo noto come Hezbollah che, fino a poco tempo fa, disponeva di un esercito più potente di quello libanese. Tutto ciò nel silenzio internazionale, perché le voci si levano soltanto quando Israele si difende. Ebbene sì, anche tutto questo può essere inteso come antisemitismo.
(L'informale, 5 ottobre 2024)
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L’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre
Lettera al Foglio dell'ex direttore dell'ANPI. Risalto aggiunto.
di Roberto Cenati
Fra pochi giorni ricorre l’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre, data in cui si è registrato contro Israele, da parte di Hamas, l’attacco più grave nella sua storia dopo la Shoah. I terroristi di Hamas si sono resi responsabili dell’uccisione a sangue freddo di 1.200 cittadini inermi, di violenze di ogni tipo, del rapimento di 250 cittadini israeliani tenuti in ostaggio e del più terribile stupro di massa dei nostri tempi, a danno delle ragazze israeliane. La guerra nella Striscia di Gaza sembra aver fatto dimenticare le responsabilità di Hamas, che non si è mai preoccupata del benessere della popolazione palestinese. Basti vedere come i finanziamenti arrivati in tutti questi anni a Gaza sono serviti a Hamas per costruire i suoi quartieri generali e chilometri di gallerie sotto alle infrastrutture civili, sotto ospedali, moschee, scuole, facendosi scudo dei civili palestinesi, durante i bombardamenti israeliani. Il governo israeliano si prefigge l’annientamento di Hamas che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l’eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio, termine ideato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin che sfuggì ai nazisti rifugiandosi prima in Svezia e poi negli Stati Uniti. Sdoganare un termine del genere fa sì che il passaggio successivo sia equiparare la tragedia della Shoah, che costituisce l’orribile paradigma della categoria di genocidio, a quello che sta facendo Israele. Ma sono situazioni incomparabili. E’ inaccettabile usare la logica della “vittima che diventa carnefice”, perché non fa altro che alimentare la deriva antisemita che, anche in Italia, sta crescendo in misura molto preoccupante. Così come è sbagliato pronunciare lo slogan “dal fiume al mare, Palestina libera”, slogan che viene scandito nelle manifestazioni palestinesi che percorrono da mesi, ogni sabato, le vie di Milano, perché dà per scontata la non esistenza di Israele, negando l’obiettivo di due popoli in due stati, per il quale la diplomazia internazionale sta lavorando. Ci eravamo illusi che dopo la Shoah tutto fosse superato. Ma non è stato così. Immediatamente dopo il 7 ottobre, prima ancora della reazione israeliana, abbiamo registrato un aumento esponenziale dell’antisemitismo. Oggi più che mai assistiamo a un ritorno di elementi antichi. E nonostante abbia cambiato nome nel tempo – da antigiudaismo come odio di stampo religioso ad antisemitismo come ostilità antiebraica di stampo razzista a cui si accompagna la negazione o la relativizzazione della Shoah, l’odio antiebraico presenta aspetti mai sopiti. Altro dato evidente è rappresentato dal fatto che tutte le persecuzioni e i massacri a cui sono stati assoggettati gli ebrei non hanno mai suscitato empatia, simpatia o reazioni nelle persone a loro vicine. L’indifferenza, di cui parla sempre Liliana Segre parlando delle leggi antiebraiche del 1938 e della Shoah, è in realtà una storia antichissima. Siamo di fronte a un clamoroso fallimento educativo, nonostante le numerose iniziative che ogni anno si svolgono nella ricorrenza del Giorno della memoria. Occorre rilanciare lo studio, la riflessione sotto il profilo culturale e storico soprattutto verso le giovani generazioni. E’ per me particolarmente doloroso constatare la disinformazione e la violenza degli attacchi rivolti a Israele. Manca una riflessione approfondita, sul piano storico e culturale, sul ruolo e l’importanza di uno stato democratico come Israele nell’area mediorientale. Israele costituisce per tutti noi un fondamentale presidio di libertà e democrazia. Spero sempre che i cittadini israeliani rapiti il 7 ottobre e ancora in ostaggio nelle mani dei terroristi di Hamas possano tornare nelle loro case.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Tre Nobel perfetti
Guterres, Unrwa e l’Aia candidati al blasone della pace nell’anniversario del 7/10
di Giulio Meotti
ROMA - Il segretario generale delle Nazioni Unite, l’agenzia Unrwa e la Corte dell’Aia si contendono il Nobel per la Pace. António Guterres, sotto il cui mandato è scoppiata la guerra in Ucraina e in medio oriente, è stato nominato insieme a un’organizzazione i cui dipendenti sono stati coinvolti nel 7 ottobre. Anche la Corte dell’Aia, dove pende il caso per “genocidio” contro Israele, è tra i candidati per il blasone.
Secondo Reuters, esperti vicini al processo di scelta del Nobel le due organizzazioni e il diplomatico sono i favoriti nella corsa al premio.
Da quando Guterres ha assunto l’incarico, la Russia ha invaso l’Ucraina e il medio oriente è entrato in uno stato di conflitto senza precedenti. In Israele, Guterres da questa settimana è “persona non grata”, in seguito al suo rifiuto di condannare l’aggressione iraniana a Israele e di nominare Hamas anche quando ha ucciso a sangue freddo sei ostaggi israeliani nei tunnel sotto Rafah.
Tuttavia, la nomina dell’Unrwa è ancora più problematica di quella del segretario generale. Durante l’ultimo anno di combattimenti a Gaza, la portata dell’infiltrazione di Hamas nell’agenzia delle Nazioni Unite è ripetutamente venuta alla luce. L’organizzazione stessa ha ammesso che alcuni dei suoi dipendenti, tra cui figure di alto livello, hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre e al rapimento di civili israeliani, licenziandoli ad agosto. Le scuole e i sistemi di approvvigionamento dell’organizzazione sono stati requisiti da Hamas e il gruppo ha persino creato una base di computer e server sotto la sede centrale dell’Unrwa a Gaza City. Nei giorni scorsi è emerso che anche il capo di Hamas in Libano era un dipendente di Unrwa. Ma per Henrik Urdal, direttore del Peace Research Institute Oslo, “l’Unrwa sta svolgendo un lavoro estremamente importante per i civili palestinesi”.
Il settimanale Le Point ha chiesto un commento a Noëlle Lenoir, ex ministro francese degli Affari europei: “Guterres è un antisionista dichiarato, si è schierato con la causa palestinese e non esita nella situazione attuale a presentarsi con regimi tra i più lesivi dei diritti umani. Ha ricevuto in pompa magna il ministro degli Esteri della Repubblica islamica dell’Iran. E’ stato lui che, personalmente, ha accettato che i talebani tornassero al tavolo degli stati membri, e senza donne. E’ ormai dimostrato che gli uomini dell’Unrwa sono stati complici, se non autori, di atti di terrorismo di Hamas. Per me, lungi dal meritare un Nobel per la Pace, è chiaro che Unrwa potrebbe essere considerata complice, o almeno coinvolta, nelle attività terroristiche a Gaza. E queste sono le stesse persone che sarebbero le favorite per un Nobel per la Pace? Perché non il leader supremo iraniano Khamenei!”.
Forse per festeggiare la “pace” nell’anniversario del 7 ottobre, tutti e tre meriterebbero di salire ex aequo su quel palco a Oslo e condividere il blasone. Ma perché non in quattro?
Ci sarebbe infatti anche UN Women, l’organismo delle Nazioni Unite per le donne. Ci ha messo soltanto sei mesi a nominare gli stupri di Hamas di donne fatte a pieces, altro che peace.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Israele bombarda il bunker di Hashem Safieddine, successore di Nasrallah
Continua la caccia alla leadership di Hezbollah. Preso di mira il bunker dove i leader superstiti, compreso il successore di Nasrallah, tenevano una riunione. Non si sa niente di chi c'è sotto l'immensa voragine
Israele ha bombardato una riunione dei vertici di Hezbollah intorno alla mezzanotte di giovedì, una riunione alla quale partecipava Hashem Safieddine, il presunto successore di Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah eliminato in un attacco aereo in Libano la scorsa settimana. Secondo fonti di intelligence israeliana, Israele ha colpito un bunker sotterraneo appartenente a Hezbollah vicino a Beirut, la capitale libanese. L’attacco è un chiaro segno che Israele non ha abbandonato la sua campagna per eliminare la leadership del gruppo sostenuto dall’Iran, quasi una settimana dopo l’uccisione di Nasrallah. Safieddine, cugino di Nasrallah, ha 50 anni, è stato a lungo uno dei principali esponenti di Hezbollah ed è stato considerato un candidato a diventare il nuovo segretario generale del gruppo. Funzionari israeliani avevano precedentemente dichiarato che Safieddine era uno dei pochi alti dirigenti di Hezbollah non presenti sul luogo del pesante bombardamento israeliano di venerdì scorso vicino a Beirut che ha ucciso Nasrallah. Non è stato immediatamente chiaro se Safieddine fosse presente nel bunker colpito venerdì notte. L’esercito israeliano non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento sull’attacco, ma ha emesso un ordine di evacuazione per il quartiere di Burj al-Barajneh, nel sud di Beirut, nella tarda serata di giovedì. Poco dopo, intorno a mezzanotte, una serie di enormi esplosioni ha scosso i Dahiya, i quartieri densamente popolati a sud di Beirut dove Nasrallah è stato ucciso e dove Hezbollah detiene il potere. Le onde d’urto hanno attraversato la capitale libanese, facendo tremare gli edifici; sono state avvertite ad almeno 15 miglia di distanza. Secondo l’agenzia di stampa statale libanese, si è trattato di uno dei più pesanti bombardamenti nell’area dall’inizio della guerra, lo scorso ottobre.
• CHI È HASHEM SAFIEDDINE? Nato all’inizio degli anni ’60 nel sud del Libano, Safieddine è stato uno dei primi membri di Hezbollah dopo la formazione del gruppo musulmano sciita negli anni ’80, sotto la guida iraniana, durante la lunga guerra civile libanese. Ha scalato rapidamente i ranghi del gruppo al fianco di Nasrallah, ricoprendo molti ruoli e servendo come leader politico, spirituale e culturale, oltre a guidare le attività militari del gruppo. Safieddine ha forti legami con Teheran, formatisi durante i suoi studi religiosi nella città iraniana di Qom. Come Nasrallah, ha studiato in Iran prima di tornare in Libano per lavorare per Hezbollah. Chierico, Safieddine è stato designato terrorista dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita nel maggio 2017 per il suo ruolo di leadership in Hezbollah. All’epoca, il Dipartimento di Stato lo definì “un alto dirigente” del Consiglio esecutivo di Hezbollah, che supervisiona le attività politiche, organizzative, sociali ed educative del gruppo.
• QUALI ALTRI LEADER DI HEZBOLLAH HA PRESO DI MIRA ISRAELE? L’attacco contro Safieddine è stato l’ultimo di una serie di attacchi israeliani in Libano volti a uccidere i leader di Hezbollah. Giovedì, un attacco israeliano ha preso di mira il comandante di Hezbollah Rashid Shafti, il funzionario del gruppo responsabile delle telecomunicazioni e della divisione informatica a Beirut, secondo due funzionari israeliani. Shafti aveva perso le dita nell’ondata di attacchi con esplosioni elettroniche compiuti da Israele questo mese, hanno aggiunto. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato giovedì di aver ucciso anche Mahmoud Yusef Anisi, un funzionario di Hezbollah coinvolto nella catena di produzione di missili di precisione del gruppo in Libano. Nell’attacco che ha ucciso Nasrallah la settimana scorsa, sono stati uccisi anche diversi leader del gruppo, tra cui Ali Karaki, comandante supremo di Hezbollah nel sud del Libano. Ibrahim Aqeel, che supervisionava le operazioni militari di Hezbollah e aveva fondato l’unità d’élite del gruppo, è stato ucciso il 20 settembre.
(Rights Reporter, 4 ottobre 2024)
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Come la partecipazione di Hezbollah alla guerra in Siria ha aiutato il Mossad
Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah.
Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è sopravvissuto a tre tentativi di assassinio durante la guerra libanese del 2006. Tuttavia, non è sopravvissuto al violento attacco al quartier generale di Hezbollah nel quartiere meridionale di Beirut, dove è stato ucciso insieme a diversi leader di Hezbollah, tra cui il comandante della regione meridionale, Ali Karaki. Cosa è cambiato in questa guerra rispetto alla precedente?
Secondo il Financial Times, Israele ha intensificato le sue attività di intelligence dopo la guerra del 2006, modificando il suo metodo di monitoraggio delle attività di Hezbollah.Leader attuali e passati hanno dichiarato al giornale che l'attuale forza di Israele deriva dalla profondità e dalla qualità dell'intelligence su cui il Paese fa affidamento.Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah. Un ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana ha spiegato che ciò ha richiesto un cambiamento fondamentale nella percezione di Hezbollah.
Il ritiro israeliano dalla zona di sicurezza nel 2000, considerato una vittoria da Hezbollah, è stato accompagnato anche da una significativa perdita di capacità di raccolta di informazioni. In compenso, l'intelligence militare "Aman" ha ampliato la sua concezione di Hezbollah al di là del singolo ramo militare, enfatizzando le sue ambizioni politiche e le sue crescenti relazioni con l'Iran e il regime di Bachar al-Assad in Siria.
Il coinvolgimento di Hezbollah nella guerra civile siriana a partire dal 2012 ha offerto a Israele nuove opportunità. I servizi segreti israeliani hanno pubblicato un "tableau de renseignement" che descrive nel dettaglio l'organizzazione e i suoi membri.
La guerra in Siria ha anche creato una miniera di dati, molti dei quali accessibili al pubblico, a beneficio dei servizi di intelligence israeliani e dei loro algoritmi. Le "foto dei martiri" dei combattenti Hezbollah uccisi in Siria, erano piene di piccoli dettagli.
Un ex politico libanese di alto livello di Beirut ha dichiarato che l'infiltrazione di Hezbollah da parte dei servizi segreti israeliani e americani è stata "il prezzo del loro sostegno ad Assad". E ha aggiunto: "Hanno dovuto nascondersi in Siria", dove il gruppo segreto ha dovuto mantenere contatti e scambiare informazioni con i corrotti servizi segreti siriani o con i servizi segreti russi, che erano sotto la costante sorveglianza degli americani.
(i24, 4 ottobre 2024)
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Il segreto della storica e misconosciuta popolarità di Netanyahu
La percezione internazionale del primo ministro è fortemente influenzata dalla copertura mediatica in Israele. Ma il pubblico israeliano non gli crede.
di Caroline Glick
È stato strano sentire Martha MacCallum di Fox News parlare di "impopolarità" del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Israele. MacCallum è una giornalista che non usa mezzi termini. Come fa a non sapere che Netanyahu è il primo ministro più popolare che Israele abbia avuto da molto tempo a questa parte?
"Direct Polls" è l'organizzazione di sondaggi più accurata in Israele. È stato l'unico a prevedere correttamente le elezioni della Knesset del 2022 che hanno riportato Netanyahu e il suo blocco religioso di destra al potere. L'anno scorso, Direct Polls ha raggiunto un risultato che prima era considerato impossibile: ha condotto sondaggi costantemente accurati su elezioni locali molto più piccole.
La popolarità di Netanyahu è scesa immediatamente dopo l'invasione di Hamas del 7 ottobre e l'uccisione di 1.200 israeliani. Tuttavia, è risalita alla fine di novembre. Dopo che il presidente del partito Resistenza per Israele, Benny Gantz, ha lasciato il governo Netanyahu a giugno, la popolarità di Netanyahu è aumentata costantemente nei sondaggi diretti ed era in vantaggio a due cifre su Gantz e sul presidente del partito di opposizione Yesh Atid, Yair Lapid. Negli ultimi mesi, il divario tra Netanyahu e il suo rivale è cresciuto costantemente.
Domenica, due giorni dopo che Israele aveva tolto di mezzo il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, Direct Polls ha pubblicato i risultati del suo ultimo sondaggio per Channel 14, mostrando che i partiti che compongono la coalizione di governo di Netanyahu detengono la maggioranza assoluta dei seggi alla Knesset per la prima volta dal 7 ottobre. Se le elezioni si tenessero oggi, il governo verrebbe rieletto.
La popolarità di Netanyahu ha raggiunto proporzioni epiche nella polarizzata giungla politica israeliana, superando la popolarità combinata dei suoi due principali rivali. In un confronto diretto, è in vantaggio su Gantz con il 52% a 25% e su Lapid con il 54% a 24%.
Ogni volta che Netanyahu scende in strada o che il suo convoglio passa davanti ai pedoni, questi gridano il loro sostegno e si accalcano per farsi un selfie con lui. Come ha notato il sociologo israeliano Avishai Ben Haim, Netanyahu è l'unico primo ministro dai tempi di Menachem Begin i cui sostenitori pregano attivamente per lui.
Nonostante la popolarità schiacciante di Netanyahu, la copertura mediatica in Israele e nel resto del mondo è rimasta al punto in cui si trovava subito dopo il 7 ottobre. Il mantra standard è quello che MacCallum ha ripetuto martedì sera. Il messaggio di fondo è che Netanyahu sta prolungando la guerra per evitare le elezioni.
A parte il fatto che questa affermazione è completamente falsa, essa oscura il significato di ciò che Netanyahu sta facendo. Se riduciamo la guerra a una questione politica, possiamo ignorare la sua importanza strategica. E se ignoriamo l'importanza strategica della guerra, possiamo anche eludere la questione dei sondaggi che mostrano come l'opinione pubblica si stia radunando dietro Netanyahu in un modo che nessun leader israeliano ha mai avuto nella memoria recente. E se ignoriamo i sondaggi, possiamo anche ignorare le ragioni della storica popolarità di Netanyahu.
Ma capire la sua popolarità è fondamentale per comprendere non solo le realtà politiche di Israele, ma anche le forze trainanti dietro gli eventi.
• LE RAGIONI DELLA POPOLARITÀ DI NETANYAHU La popolarità di Netanyahu ha due radici. La prima è il riconoscimento pubblico che Israele sta lottando per la propria sopravvivenza. La seconda è l'ostilità dell'amministrazione Biden-Harris.
Il 7 ottobre è stato un evento terribile. Non si è trattato solo di un massiccio attacco terroristico. Per gli israeliani è stato uno sguardo al futuro se Israele non vincerà la guerra. Ha mostrato agli israeliani che siamo in un gioco a somma zero con l'Iran e i suoi proxy terroristici. Non c'è accordo con Hamas, Hezbollah o il regime iraniano. O vincono loro e Israele viene distrutto, oppure Israele vince e loro vengono distrutti come entità militari e politiche. Non c'è una via di mezzo, non c'è una situazione vantaggiosa per tutti.
Sebbene l'amministrazione Biden-Harris abbia espresso solidarietà con Israele dal 7 ottobre, il giorno delle atrocità di Hamas non ha cambiato gli obiettivi politici dell'amministrazione. Sia prima che dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris aveva due obiettivi in Medio Oriente: raggiungere un accordo nucleare con l'Iran attraverso un'acquiescenza strategica e creare uno Stato palestinese a Gerusalemme, Giudea, Samaria e Gaza.
Entrambi gli obiettivi sono rifiutati dalla stragrande maggioranza degli israeliani, che vedono sia uno Stato palestinese sia un Iran dotato di armi nucleari come una minaccia esistenziale per il Paese. Dato il sostegno emotivo che gli israeliani hanno ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e dai suoi consiglieri dopo il 7 ottobre, gli israeliani si aspettavano giustamente che abbandonassero la loro politica anti-israeliana.
Ma il governo non ha fatto nulla del genere. Invece, pochi giorni dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris ha sbloccato 6 miliardi di dollari in conti iraniani e ha trasferito il denaro a Teheran. Nonostante le numerose prove, l'amministrazione ha negato che l'Iran fosse coinvolto nella pianificazione e nell'autorizzazione dell'invasione terroristica di Hamas. E ha ignorato il fatto che più del 75% dei palestinesi ha appoggiato il massacro di quel giorno e che nessun funzionario dell'Autorità Palestinese ha condannato le atrocità.
Lungi dallo schierarsi al fianco di Israele, il governo ha iniziato a smentire Israele già l'8 ottobre, insinuando che fosse sul punto di commettere crimini di guerra, insistendo sul fatto che Israele deve combattere in conformità con le "leggi di guerra", come se ci fosse qualche ragione per credere che ciò non fosse evidente.
Appena un mese dopo l'inizio dell'offensiva di terra di Israele a Gaza, il governo ha iniziato ad autorizzare con riluttanza armi offensive che andavano da fucili d'assalto e munizioni a carri armati, proiettili d'artiglieria e bombe per gli aerei da combattimento. Le uniche armi fornite in modo continuativo erano i missili Iron Dome.
Dal punto di vista del governo, Israele aveva il diritto all'autodifesa, ma non alla vittoria. A tal fine, il governo ha cercato di controllare le operazioni militari di Israele e di minimizzare la loro importanza strategica. Gli israeliani si resero conto che un pareggio equivaleva a una sconfitta.
Gantz, Lapid e il ministro della Difesa Yoav Galant erano pronti ad accettare la posizione del governo. Era in linea con decenni di pratica militare. Inoltre, il governo li ha elogiati per aver accettato i suoi dettami. I media che odiano Netanyahu hanno usato i loro flirt con la Casa Bianca e il Pentagono per dipingerli come statisti e Netanyahu come un egocentrico isolato che continuava a lottare solo per evitare nuove elezioni.
Ma l'opinione pubblica non ci ha creduto. Lungi dal considerare Netanyahu un egocentrico, lo vedeva come l'unica speranza di evitare la distruzione nazionale. Anche nella prima fase della guerra, Netanyahu si è distinto come l'unico leader che il pubblico vedeva: Israele ha di fronte nemici che vogliono uccidere ogni ebreo che incontrano, e se non li sconfiggiamo noi, loro lo faranno.
Netanyahu è stato l'unico a promettere pubblicamente e ripetutamente che non avrebbe permesso che i soldati caduti in Israele cadessero invano e che non avrebbe abbandonato i suoi sforzi bellici. Quando le pressioni degli Stati Uniti sono diventate più forti e aggressive, è stato anche l'unico a non vacillare.
Al rifiuto di Netanyahu di accontentarsi di qualcosa di meno della vittoria, il governo ha risposto interferendo apertamente nella politica israeliana, con il chiaro obiettivo di neutralizzarlo all'interno del suo governo o di estrometterlo dal potere. Per raggiungere il primo obiettivo, Biden, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e i loro subordinati hanno sfruttato l'appello dell'opinione pubblica all'unità nazionale per costringere Netanyahu a concedere a Gantz un effettivo potere di veto sulle operazioni militari, inserendolo nel gabinetto di guerra. Da questa posizione, Gantz è stato in grado di indebolire sistematicamente le operazioni militari israeliane in accordo con le richieste degli Stati Uniti. Il governo ha giocato un ruolo importante anche nella decisione di Gantz di lasciare il governo a giugno. L'idea era che, dopo le dimissioni di Gantz, Gallant avrebbe convinto quattro membri del Likud della Knesset a lasciare il governo con lui e a formare una coalizione alternativa con la sinistra. Alla fine, però, Gallant non è riuscito a realizzare questo piano. In assenza di Gantz, Netanyahu si è rapidamente impegnato ad aumentare l'aggressività e l'efficacia dello sforzo bellico di Israele a Gaza. L'opinione pubblica ha sostenuto fortemente le mosse di Netanyahu. La possibilità che i deputati del Likud si unissero all'opposizione era svanita.La relazione simbiotica che il governo Biden-Harris ha mantenuto con la sinistra israeliana non ha indebolito Netanyahu dal punto di vista politico, come i media e i suoi alleati politici di sinistra avevano ipotizzato. È stato invece il contrario. Poiché l'opinione pubblica era d'accordo con Netanyahu sul fatto che si trattava di una guerra per la sopravvivenza nazionale, il sostegno a Netanyahu è cresciuto man mano che l'opinione pubblica apprendeva dell'opposizione del governo a una vittoria israeliana. Anche politici come Galant, Lapid e Gantz, che si dice abbiano buoni rapporti con l'amministrazione Biden, sono stati visti con sospetto.
A risollevare gli indici di popolarità di Netanyahu da un impressionante 40 a uno stratosferico 50+ (per gli standard israeliani) è stato il suo viaggio a Washington alla fine di luglio. Gli israeliani considerano l'alleanza tra Stati Uniti e Israele una necessità strategica. Se da un lato approvano il rifiuto di Netanyahu di piegarsi alle pressioni americane, dall'altro temono che i media abbiano ragione ad accusarlo di distruggere le relazioni tra Stati Uniti e Israele.
La risposta entusiasta che Netanyahu ha ricevuto dai membri di entrambi i partiti quando ha tenuto il suo discorso alle due Camere del Congresso e i suoi incontri di successo con Biden, il vicepresidente Kamala Harris e l'ex presidente Donald Trump hanno dimostrato al pubblico israeliano che la ricerca della vittoria da parte di Netanyahu non ha in alcun modo diminuito il sostegno degli Stati Uniti a Israele. È stato dopo questa visita che Netanyahu ha ricevuto il maggior incoraggiamento.
• LO SCOPO DEL MITO DELL'IMPOPOLARITÀ DI NETANYAHU Questo ci riporta al persistente mito mediatico dell'impopolarità di Netanyahu. La copertura internazionale di Netanyahu è fortemente influenzata da quella dei media israeliani. Con la notevole eccezione di Channel 14, la stampa e i media elettronici israeliani sono stati protagonisti degli sforzi di lunga data della sinistra per demonizzare il primo ministro al fine di estrometterlo dal potere. A tal fine, la copertura è stata disfattista e demoralizzante fin dall'inizio della guerra. Ad esempio, i corrispondenti e i commentatori di Channel 12 hanno reagito all'annuncio dell'IDF del 27 settembre che Nasrallah era stato ucciso con facce tristi e una delusione appena celata. Al contrario, il pubblico era eccitato e motivato dalla notizia.
Insistendo sul fatto che Netanyahu è impopolare e che la sua impopolarità rafforza la sua determinazione a vincere la guerra, i media diffondono una narrazione che ignora le implicazioni strategiche della fine della guerra senza sconfiggere Hamas, Hezbollah o l'Iran.
Ma il pubblico non ci crede. Netanyahu è sostenuto perché insiste nel combattere per la vittoria a tutti i costi e poi si attiene ostinatamente alla sua promessa. In questo modo, Netanyahu ha riconquistato la fiducia del pubblico. E ora che la sua determinazione porta a vittorie giorno dopo giorno, l'inflessibile determinazione di Netanyahu aumenta la sua popolarità e fa apparire il governo, l'opposizione e i media sempre più ridicoli e irrilevanti agli occhi dell'opinione pubblica israeliana.
(Israel Heute, 4 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’esempio di Begin e il carpe diem di Netanyahu
di Niram Ferretti
Quando, nel 1981, Menachem Begin diede via all’Operazione Opera, il cui obiettivo fu la distruzione del reattore nucleare che Saddam Hussen stava ultimando a Osirak in Iraq, le reazioni degli Stati Uniti e non solo furono oltraggiate, si parlò di abuso, di terrorismo di Stato, di violazione della legge internazionale, esattamente quello che è accaduto recentemente dopo le azioni preventive contro Hezbollah. Con l’Operazione Opera si inaugurò la cosiddetta “dottrina Begin”, riassumibile semplicemente con, “Noi vi colpiamo prima che ci colpiate voi”.
Sono passati 43 anni, e Israele si trova ancora nella necessità di colpire prima che il nemico possa avere la forza di colpirlo. Dopo il traumatico fallimento dell’intelligence che ha causato il 7 ottobre, si è deciso di intervenire al sud del Libano per evitare un altro 7 ottobre, colpendo pesantemente Hezbollah, decapitandone i vertici, e ora, a seguito del secondo attacco missilistico dell’Iran su Israele, Israele è pronto a rispondere contro il principale agente di destabilizzazione regionale, il suo nemico principale.
Per più di un decennio, Benjamin Netanyahu ha messo in guardia il mondo sul pericolo iraniano, massimamente potenziato dalla sua capacità di dotarsi di armamenti nucleari, possibilità che, con il passare del tempo, è diventata una realtà sempre più concreta e una minaccia per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico.
Nel 2015 Netanyahu volò a Washington, dove, al Congresso, tenne un memorabile discorso intervallato da numerose standing ovation, durante il quale mise in guarda dal rischio che comportava l’accordo che l’Amministrazione Obama si apprestava a siglare con Teheran allo scopo di frenare il programma nucleare iraniano. Netanyahu sapeva che quell’accordo era fallato, che l’Iran avrebbe trovato il modo di aggirarne le clausole, che di fatto gli si lasciava la possibilità di raggiungere il suo scopo, non subito, ma a gradi. Obama stava solo “buying time”, acquistando tempo, ma Israele non aveva bisogno di un accordo che spostasse più avanti la minaccia, se accordo doveva esserci, ce ne voleva uno molto più rigoroso e coartante.
Dopo quasi dieci anni, l’Iran non ha mai smesso di lavorare al nucleare da impiegare a scopo militare, è stato solo frenato da operazioni di sabotaggio israeliane, uccisioni mirate di addetti al suo programma, attacchi cyber, ma si tratta di azioni non risolutive, non come fu l’Operazione Opera.
Colpire e distruggere i siti nucleari iraniani, incavati nella roccia in profondità rappresenta una sfida molto più complessa di quella che dovette affrontare Begin nel 1981, distruggendo un solo reattore ben visibile nel deserto, ma non ci sono strade alternative per debellare la minaccia. Adesso, dopo il 7 ottobre, dopo due attacchi missilistici dell’Iran, è arrivata l’ora, l’onda è alta, ed è necessario cavalcarla prima che si abbassi e forse non si ripresenti più.
Ci si chiede se Israele possa agire senza il supporto logistico statunitense, i pareri sono contrastanti, ma una cosa è certa, l’Amministrazione Biden, dove sono incardinati nei posti chiave gli uomini di Obama, e retta da un presidente che è ormai nelle condizioni di essere solo un passacarte, non vuole che i siti nucleari vengano colpiti, non vuole che l’Iran, con cui ha continuato imperterrita la politica di pacificazione voluta da Obama, venga messo in grave difficoltà.
Fin dall’inizio della guerra scoppiata a Gaza, a seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, l’Amministrazione Biden ha cercato costantemente di commissariarla, di indirizzare Israele lungo i binari della propria agenda politica che non solo non è quella dello Stato ebraico, ma è in evidente contrasto con la sua.
Netanyahu è stato abilissimo nel gestire la situazione, concedendo e ritirando, aprendo e chiudendo, facendo in modo che gli americani ottenessero in buona parte quello che chiedevano, ma, allo stesso tempo, continuando sulla linea che si era dato, smantellare Hamas a Gaza, linea che sta proseguendo infaticabilmente.
Il problema urgente, tuttavia, non è Hamas, ormai ridotto alla residualità dopo un anno di combattimenti, ma è l’Iran, il suo puparo. Netanyahu è giunto ora, alla vigilia dell'anniversario del 7 ottobre, al punto cruciale della sua carriera, a uno snodo che potrebbe farlo passare alla storia come colui che ha messo Israele in sicurezza dopo il grande fallimento precedente, di cui non si può negare anche la sua responsabilità.
Quarantatre anni fa Menachem Begin fece prevalere la sicurezza di Israele sopra ogni altra considerazione, annichilendo le velleità atomiche dell’Iraq, oggi è il testimone è passato a Netanyahu. Saprà seguirne l’esempio fino in fondo?
(L'informale, 3 ottobre 2024)
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Parashà di Haazìnu: Dove si accenna a Moses Mendelssohn nella Torà?
di Donato Grosser
In varie fonti si racconta che Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) aveva un talmìd (discepolo) di nome Abner, che abbandonò l’osservanza della mizvòt e abbracciò la religione locale credendo così di poter migliorare il suo standard di vita. Successivamente, quando il Nachmanide lo incontrò, Abner gli chiese se era vero che nella cantica di Haazìnu vi sono accenni sui nomi e sulle vicende delle persone in questo mondo.
Il Nachmanide rispose che confermava quanto aveva detto. Infatti, in questa parashà il Nachmanide insegna che la cantica di Haazìnu contiene una promessa esplicita della futura redenzione del popolo d’Israele contro le affermazioni dei miscredenti. Egli cita il Midràsh Sifrì nel quale i Maestri affermano che la cantica di Haazìnu contiene il presente, il passato e il futuro.
Abner gli chiese quindi di dirgli dove vi era un accenno al suo nome nella cantica di Haazìnu. Il Nachmanide rispose che si trova nel versetto dove è scritto: “… li disperderò, farò cessare il loro ricordo dall’umanità”(Devarìm, 32:26). Il Nachmanide mostrò ad Abner che in ognuna di queste quattro parole le terze lettere del testo ebraico (זכרם מאנוש אשביתה אפאיהם) Alef, Bet, Nun e Resh, componevano il nome Abner. Questo fu sufficiente per scioccare Abner che si pentì di quello che aveva fatto.
R. Aharon Shurin (Lituania,1913-2012, Brooklyn) in Keshet Aharon su questa parashà, scrive che una storia simile, viene raccontata nell’opera Mekòr Barùkh di r. Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941). In quest’opera egli offre un ritratto della sua famiglia e delle personalità di spicco della generazione precedente. Tra gli altri egli descrive i difetti fatali di Moses Mendelssohn nella sua negazione dell’identità nazionale ebraica nella diaspora. Per Mendelssohn gli ebrei erano una religione, ma la loro nazionalità era quella del paese in cui vivevano. Questa opinione era distruttiva al punto che nessuno dei suoi discendenti rimase ebreo. Fino ad oggi Mendelssohn è considerato un facilitatore dell’assimilazione degli ebrei in Germania.
Nell’introduzione alla sua traduzione e al commento della Torà in tedesco, Mendelssohn si lamentò del fatto che un suo assistente, r. Shlomo Dubna, fosse improvvisamente sparito, senza dare notizia di se o un motivo per la sua sparizione. R. Epstein scrive che il motivo per la sparizione di r. Dubna, fu il suo incontro ad Amburgo con r. Raphael Hakohen Susskind (Lituania, 1722-1803, Altona) rabbino capo delle comunità ebraiche di Altona, Amburgo e Waldsbeck. R. Susskind cercò in ogni modo, ma senza successo, di bloccare il progetto della traduzione della Torà in tedesco di Mendelssohn.
R. Epstein racconta che quando r. Dubna arrivò ad Amburgo per promuovere l’opera del Mendelssohn, venne a visitare r. Susskind. R. Dubna si lamentò con r. Susskind del fatto che tanti rabbini erano contrari al progetto del Mendelssohn. R. Susskind rispose citando la frase dei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 3:13) dove è scritto: “Chi ha la benevolenza degli uomini, ha certo anche quella dell’Onnipresente; mentre chi non è amato dagli uomini, non è amato nemmeno dall’Onnipresente” (traduzione di Joseph Colombo).
I due continuarono nella loro conversazione nel corso della quale vennero a parlare del Nachmanide che scrisse che nella Torà vi è un accenno di ogni israelita e di ogni grande evento in Israele. R. Susskind disse a r. Dubna che quello che aveva scritto il Nachmanide era pura verità. R. Dubna chiese quindi a r. Susskind dov’era l’accenno nella Torà a Mendelssohn e alla sua opera. R. Susskind rispose che il versetto della Torà era nella parashà di Emòr (Vaykrà, 22:25) dove è scritto: “Sono guasti e difettosi”. R. Susskind fece notare a r. Dubna che le iniziali di queste parole sono uguali a quelle del nome con cui veniva chiamato Mendelssohn, Moshè Ben Menachem Berlin: בם מום בהם משחתם – Mem, Bet, Mem, Bet. E fu così che r. Dubna non tornò a Berlino e non si fece più vivo con Mendelssohn.
(Shalom, 2 ottobre 2024)
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Parashà della settimana: Haazinu (Porgete orecchio)
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Israele all’ONU: “è finito il tempo della de-escalation”
Scontro al Consiglio di Sicurezza dell'ONU
di Sarah G. Frankl
L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha detto che “il tempo dei vuoti appelli alla de-escalation è finito”. Partecipando alla riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha aggiunto che “il vero volto dell’Iran è quello del terrore, della morte e del caos”. “Non è più una questione di parole”, ha detto. “L’Iran è un pericolo reale e presente per il mondo e, se non verrà fermato, la prossima ondata di missili non sarà diretta solo contro Israele”. Danon ha definito la raffica di missili iraniani che martedì l’Iran ha lanciato contro Israele “un attacco a sangue freddo contro 10 milioni di civili” e “un atto di aggressione senza precedenti”. Egli sottolinea che Israele non si fermerà finché tutti gli ostaggi presi da Hamas e da altri terroristi non saranno tornati in Israele. “Che il mondo capisca: Israele si difenderà e lo farà con giustizia e forza”, ha dichiarato. Parlando prima di Danon, l’ambasciatore iraniano ha affermato che l’Iran ha dovuto lanciare una raffica di missili contro Israele per “ristabilire l’equilibrio” dopo una recente serie di importanti attacchi israeliani contro i suoi proxy regionali. Amir Saeid Iravani descrive l’attacco missilistico come “una risposta necessaria e proporzionata ai continui atti terroristici aggressivi di Israele negli ultimi due mesi”. Sostiene che l’Iran ha “costantemente perseguito la pace e la stabilità” e che Israele vede la moderazione iraniana “non come un gesto di buona volontà ma come una debolezza da sfruttare”. “Ogni atto di moderazione da parte dell’Iran ha solo incoraggiato Israele a commettere maggiori crimini e più atti di aggressione”, afferma Iravani. “Di conseguenza, la risposta dell’Iran era necessaria per ripristinare l’equilibrio e la deterrenza”. L’ambasciatore libanese alle Nazioni Unite ha dichiarato che il suo governo rifiuta i combattimenti tra Israele e Hezbollah. Hadi Hachem afferma che il governo libanese vuole l’applicazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto porre fine all’ultima guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006. Essa chiedeva il disarmo di tutti i gruppi armati, compresi gli Hezbollah, e il dispiegamento delle forze libanesi al confine meridionale con Israele. Nulla di tutto ciò è avvenuto. L’ambasciatore libanese afferma che la piena attuazione della risoluzione è l’unica soluzione alla guerra in corso e alla “barbara aggressione” di Israele. Egli afferma che il Libano sta aprendo l’arruolamento di 1.500 nuovi soldati per rafforzare la presenza dell’esercito nazionale nel sud. “Il Libano oggi è bloccato tra la macchina di distruzione israeliana e le ambizioni di altri nella regione”, afferma Hachem, alludendo al sostegno dell’Iran a Hezbollah.
(Rights Reporter, 3 ottobre 2024)
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Colpiamo subito l'Iran
di Naftali Bennett
Israele ha ora la sua più grande opportunità in 50 anni di cambiare il volto del Medio Oriente. La leadership iraniana, fino a ieri famosa per la sua bravura nel giocare sulla scacchiera politica internazionale, stavolta ha commesso un terribile errore.
Dobbiamo agire ORA per distruggere il programma nucleare dell'Iran, le sue centrali energetiche e per paralizzare mortalmente questo regime terroristico. Agire ora per colpire la testa della piovra del terrore, che nella sua codardia ha mandato avanti i suoi tentacoli (Hamas, Hezbollah, gli Houthi, ecc.) per assassinarci, mentre gli Ayatollah sedevano al sicuro nei loro palazzi a Teheran. I tentacoli della piovra sono temporaneamente paralizzati, ora tocca alla testa. Dobbiamo rimuovere questa terribile minaccia sul futuro dei nostri figli.
Possiamo concedere al popolo iraniano l'opportunità di sollevarsi e scrollarsi di dosso il regime che tiranneggia le sue donne e le sue figlie. Abbiamo un buon motivo. Abbiamo gli strumenti. Ora che Hezbollah e Hamas sono paralizzati, l'Iran si ritrova allo scoperto.
In quest'ultimo anno terribile, i tentacoli iraniani hanno assassinato le nostre famiglie.
Hanno violentato le nostre figlie. Rapito i nostri piccoli. Saccheggiato le nostre città. Bruciato i nostri campi. Sparato contro le nostre navi. Terrorizzato i bambini a Kiryat Shmona, Kfar Aza e Sderot. Hanno svuotato intere regioni della nostra terra. Ci hanno umiliati.
Ma ora è il momento. Una nazione di leoni ha ritrovato la sua unità e ha dimostrato la sua forza nell'ultimo anno. Ha desiderato un cambiamento, un'azione, per così tanto tempo. Ci sono momenti in cui la storia bussa alla nostra porta e quella porta dobbiamo aprirla.
Questa opportunità non deve essere persa.
Libero, 3 ottobre 2024)
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Iran – L’attivista anti-regime: ayatollah fragili, Khamenei solleva fumo
di Adam Smulevich
«Se reagite sarà la fine», ha tuonato la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei rivolgendosi a Israele al termine dell’attacco missilistico delle scorse ore. Parole che non impressionano Rayhane Tabrizi, attivista iraniana tra le più esposte in Italia nella denuncia dei crimini del regime degli ayatollah e più volte in piazza anche al fianco dello Stato ebraico, per difendere il suo diritto a esistere. «Il regime ha bisogno di sollevare un po’ di fumo, di fare del circo. Ma non è in alcun modo in grado di entrare in una guerra “vera” contro Israele, ne verrebbe sconfitto», sostiene l’attivista, che vive a Milano ed è parte del movimento internazionale Donna, vita, libertà. Interpellata da Pagine Ebraiche, Tabrizi sostiene che la teocrazia iraniana sia in un momento di particolare debolezza, evidente sotto vari aspetti, perché è «senza l’appoggio di gran parte del popolo e con forti scissioni anche all’interno della sua struttura di potere». Secondo vari osservatori lo si è visto anche in quest’ultima circostanza, con il presidente Masoud Pezeshkian apparentemente informato dell’attacco soltanto pochi istanti prima del via. Così almeno riferisce il New York Times, citando fonti israeliane.
Negli scorsi giorni il primo ministro di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, ha diffuso un video in cui afferma che «quando l’Iran sarà finalmente libero, tutto sarà diverso», precisando che «quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi». Il pensiero di Tabrizi è che «l’Iran debba liberarsi da solo: non è Netanyahu che viene a salvare noi, siamo noi che dobbiamo salvare noi stessi». In ogni caso, gli avvenimenti di questo turbolento periodo «possono essere usati come una leva per procedere in quella direzione, la fine del regime». Forse i tempi non sono ancora maturi. Ma, a detta di Tabrizi, potrebbero essere ora più vicini. L’attivista è coinvolta in queste settimane in molte iniziative pubbliche. È in definizione ad esempio una tre giorni di sit-in davanti alla sede del Parlamento europeo a Milano, per protestare contro le condanne a morte ed esecuzioni inflitte dal regime. Anche sotto il “moderato” Pezeshkian, il boia resta sempre a pieno servizio.
(moked, 3 ottobre 2024)
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La pacificazione ad ogni costo, la più grande minaccia per la pace
di Davide Cavaliere
Adesso, dopo aver adottato questa politica scellerata, il team di Biden si rivela sempre più preoccupato dalla possibilità che l’Iran decida di approfittare del periodo di circa 90 giorni tra le elezioni del 4 novembre e l’insediamento del prossimo presidente americano, il 20 gennaio 2025, per violare le restrizioni internazionali e accelerare la costruzione di un’arma nucleare con cui colpire Israele.
Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell’Iran.
La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di
Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o di abdicazione forzata.
Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.
(L'informale, 3 ottobre 2024)
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Aperto un centro traumatologico per i sopravvissuti al massacro
In Thailandia è stato aperto un nuovo centro traumatologico. Il suo scopo è quello di sostenere le persone che soffrono di problemi psicologici dopo gli eventi del 7 ottobre.
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Il centro si trova sull'isola thailandese di Ka Pha Ngan
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BANGKOK - Un'organizzazione israeliana no-profit ha aperto un centro traumatologico in Thailandia per i sopravvissuti agli attacchi terroristici di Hamas che desiderano lasciare Israele. Lo riferisce il sito di notizie "Algemeiner".
Gli amici di una vittima della strage del 7 ottobre, David Newman, hanno fondato l'organizzazione chiamata "Let’s Do Something“. Insieme volevano contribuire a raccogliere attrezzature e aiuti umanitari per le persone colpite dagli attacchi terroristici. Finora l'organizzazione ha investito e fornito l'equivalente di circa 360.000 euro in aiuti militari e umanitari.
L'ultima iniziativa di "Let’s Do Something" è un centro traumatologico chiamato "David's Circle" per le persone che hanno sofferto di problemi psicologici come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo gli eventi del 7 ottobre. È stato creato in collaborazione con la terapeuta e specialista israeliana di traumi Jael Schoschani-Rom e l'assistente sociale Segev Ben-Schalom. Hanno scelto come location l'isola tailandese di Ko Pha Ngan.
• L’ultima iniziativa in Thailandia
La Thailandia è una delle destinazioni preferite dai turisti israeliani. Secondo le statistiche, più di 100.000 israeliani vi si sono recati dal 7 ottobre. Il centro traumatologico ha lo scopo di aiutare queste persone.
"Dopo il 7 ottobre, mi sono dedicato a lavorare con i sopravvissuti di Nova", ha detto Shoshani-Rom, riferendosi al festival musicale di Re'im. "È diventato chiaro che per molti, compresi i sopravvissuti delle comunità del sud e i soldati, ogni giorno sembra ancora il 7 ottobre 2023. In Israele non si può sfuggire al ricordo di quel giorno. Molte persone sono costrette ad andarsene, in India, in Europa o in Thailandia. Ma il trauma li segue e sono a rischio di gravi crisi psicologiche". Per questo motivo è stato fondato il "Circolo di David".
"Israele è un piccolo Paese in cui quasi tutti conoscono qualcuno che è stato colpito dagli eventi del 7 ottobre, sia che si trovasse alla Nova, che sia stato colpito dall'attacco, che sia stato in contatto con le famiglie degli ostaggi, che abbia combattuto a Gaza o che abbia perso una persona cara", ha spiegato Baruch Apisdorf, il direttore principale di Let's Do Something. "Oltre 17.000 israeliani si recano in Thailandia ogni mese. Molti di loro portano il peso di un grave trauma e stanno affrontando una crisi di salute mentale. 'David's Circle' è qui per fornire la pace e il sostegno di cui hanno disperatamente bisogno".
"Let's Do Something." comprende otto fondatori. Erano tutti amici intimi di Newman. Oggi gestiscono l'organizzazione a tempo pieno.
L'obiettivo della nuova iniziativa è di assistere in futuro circa 150 persone al mese nel nuovo centro traumatologico, ha dichiarato David Gani, cofondatore di "Let's Do Something". Il "Circolo di David" ha tenuto la sua prima riunione il 18 settembre; una seconda riunione è prevista per il 7 ottobre.
(Israelnetz, 3 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Due consigli per essere iscritti nel libro della vita
Riportiamo senza commenti un articolo che compare oggi su “Shalom” nella rubrica “Idee - Pensiero ebraico”. NsI
di Roberto Colombo 28-09-2022
Dichiarò Rabbì Keruspedài: disse Rabbì Yochanàn che vi sono tre libri aperti a Rosh Hashanà: uno per i veri malvagi, uno per i veri giusti e uno per coloro che si trovano in una fase intermedia. I veri giusti sono subito iscritti nel libro della vita, i veri malvagi in quello della morte e per coloro che si trovano in una fase intermedia si attende per la trascrizione da Rosh Hashanà a yom Kippùr… (T.B. Rosh Hashana 16b)
Molti Maestri si sono soffermati su questa Mishnà. La vita o la morte decisa per l’uomo in base al suo comportamento non è sempre da intendere come esistenza terrena. Vi sono malvagi che vivono per molto tempo e persone rette e oneste che muoiono in giovane età. Per i Tosafòt, i dotti commentatori del Talmùd, si tratta qui della vita oltre la morte, della serenità o dell’inquietudine decisa per l’anima nel mondo dell’aldilà. Per altri Maestri la Mishnà tratta della resurrezione che sarà permessa solo ai meritevoli dopo l’arrivo del Mashìach. Rosh ha shanà e Yom Kippùr, in cui si deciderà il nostro futuro, sono alle porte e il tempo che ci è rimasto per modificare in bene il nostro avvenire è ormai limitato. Nella Tefillà chiediamo a Dio ogni sera dopo la lettura dello Shemà Israèl di darci dei consigli per poter cambiare il nostro futuro. Questi suggerimenti ci vengono dati dai nostri Maestri. Qui ne riporteremo soltanto due, scritti cinquant’anni fa dal grande Maestro Rabbì Chaiìm Shemuèlevic’ (1902 – 1979) nel suo fondamentale libro Sichòt Mussàr. Facciamone tesoro.
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• TalmùRosh Hashanà 17A: attenti allo specchio Disse Rabbà: a chiunque sa passare oltre ai propri diritti il cielo perdona tutti i peccati commessi perché è detto: Egli sopporta il peccato, perdona la trasgressione (Michà 7, 18). Sopporta il peccato e perdona la trasgressione sembra un’inutile ripetizione perciò si deve intendere: Di quale persona il Signore sopporta il peccato? Di colui che sa perdonare le trasgressioni che altri hanno commesso verso di lui. Spesso, o sempre, giudichiamo gli altri per mancanze commesse verso i nostri confronti e attendiamo una giusta rivalsa ai diritti personali violati ingiustamente. Non è facile perdonare, cancellare un torto e guardare oltre, cercando di ricostruire rapporti personali ormai guastati. Perché, dunque, Dio non dovrebbe giudicare anche noi con lo stesso metro? Perché scusare, dimenticare e assolvere dalle offese chi a sua volta non sa discolpare, obliare o passare oltre ad un torto ricevuto provando a ricostruire legami ormai lesi? Il termine “Cielo” si traduce in ebraico Shamàim, che a sua volta è composto dalle due parole Sham-Màim – lì vi è acqua. L’acqua è uno specchio dove si riflette l’immagine, un volto che sempre nasconde anche il nostro carattere. Ciò che si decide in alto e dall’alto viene mandato è sempre anche il riflesso del nostro comportamento e dei nostri rapporti verso gli altri e verso noi stessi. La traccia lasciata in noi dalla maldicenza subita, dall’ingiustizia e dalle offese non può mai essere cancellata con facilità. L’unico modo è quello di ritrovare una forma di umiltà, la forza di guardarci dentro e di scoprire quante volte anche noi stessi abbiamo ingiuriato e diffamato gli altri e il Creatore. Ecco il primo consiglio: si impari a perdonare se si vuol essere perdonati da Dio e iscritti nel libro della vita.
• Talmùd Sanhedrìn 92a: non è sempre un bene aprire una finestra
Disse Rabbì Zeirà: Si insegna che se una casa è buia non si devono aprire le finestre per vedere i difetti nascosti nelle mura.
Un Cohèn, un Sacerdote giunto a valutare se le pareti di una casa colpite da strane chiazze mandate dal Signore dovevano essere demolite (Lev. 34), non poteva aprire le finestre per far entrare la luce e valutare l’entità del danno. I Maestri così imparano che il buio, la discrezione e la riservatezza nascondono i difetti e salvano dalla distruzione. Amiamo spesso farci notare per le nostre belle azioni e per le belle frasi spesso pronunciate solo per circostanza. Ma apparire non è un bene perché ciò illumina spesso anche le nostre mancanze. Racconta il Talmùd: Accadde che un giorno Rabbàn Yoḥanàn ben Zakkài… vide una povera donna che stava raccogliendo orzo tra lo sterco degli animali. Quando lo guardò, la donna si avvolse tra i capelli, poiché non aveva nient’altro con cui coprirsi, e si fermò davanti a lui. Lei gli disse: “Mio Maestro, dammi del sostentamento”. Le rispose: “Figlia mia, chi sei?” Gli disse: “Sono la figlia di Nakdimòn ben Guryòn”. Il Maestro replicò: “Figlia mia, i molti soldi di tuo padre, dove son finiti?”. Gli disse: “… Mio padre non faceva Tzedakà e per questo non mantenne intatti i suoi averi e perse tutto ciò che aveva”. Si chiede la Ghemarà: Nakdimòn ben Guryòn non dava denaro in elemosina?! Non è forse insegnato: Dissero di Nakdimòn ben Guryòn che quando usciva di casa indossava dei lunghi manti di seta nei quali nascondeva del denaro che i poveri venivano a prendere da dietro e faceva ciò per poter dare del denaro senza causare loro vergogna? Sì, ma egli agiva così solo affinché si parlasse di lui in modo onorevole. (T.B. Ketubàt 66b, 67a) Non vi è onore più grande della modestia, dell’agire in bene senza farsi notare ed apparire. È il buio della riservatezza e della semplicità che mantiene veramente intatta la nostra casa. L’agire per farsi notare produce solo macerie. Ecco il secondo consiglio per avere una vera vita ebraica. Si faccia del bene di nascosto per aprire una finestra verso il futuro. Possa tutto Israele avere il merito di essere iscritto nel libro della vita. Amèn.
(Shalom, 3 ottobre 2024)
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Il fallimento dell’attacco iraniano e le sue conseguenze
di Ugo Volli
• MISSILI FUORI BERSAGLIO
L’attacco con cui l’Iran si riprometteva di raddrizzare la situazione pericolante del suo ”Asse della resistenza” e di “punire” lo smantellamento di Hezbollah e l’eliminazione del suo leader Nasrallah, è miseramente fallito. I 180 missili balistici, sparati in due ondate sul centro di Israele, e gli sciami di droni usati per coprirne la traiettoria, sono stati quasi tutti abbattuti dalla contraerea israeliana, con l’aiuto, questa volta abbastanza secondario, degli americani. Vi sono stati dei danni ad alcune case, ma i loro abitanti si erano protetti nei rifugi come raccomandato dai comandi militari. Diversi proiettili sono finiti in mare, su campi disabitati e nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, dove c’è stata la sola uccisione: un palestinese colpito a Gerico, per l’ironia della sorte proveniente da Gaza. Le uniche vittime israeliane di ieri sera sono state provocate purtroppo da un attacco terroristico vecchio stile, effettuato a Giaffa, l’antica città portuale vicino a Tel Aviv, da una coppia di terroristi palestinesi con armi automatiche.
• LE RAGIONI DEL FALLIMENTO
Il risultato insomma non è diverso da quello ottenuto dagli ayatollah l’aprile scorso, per vendicare il colpo israeliano su una riunione terrorista in un edificio accanto alla loro ambasciata di Damasco, dove era rimasto ucciso Mohammad Reza Zahedi, il capo della milizia dei pasdaran per il Medio Oriente. Anche allora la sola persona colpita era stata una bambina beduina nel Negev e l’attacco aveva fatto solo molto fracasso e pochissimi danni veri. È difficile dire se questo fallimento derivi dall’incapacità delle forze missilistiche iraniane, da una sottovalutazione della capacità di autodifesa israeliana o da una scelta di fare un attacco solo dimostrativo, come alcuni sostengono, per segnalare che l’Iran non vuole una guerra vera. In ogni caso si tratta di una certificazione di impotenza che non resterà senza conseguenze in un ambiente che non perdona la debolezza, come il Medio Oriente. Dopo aver visto distrutta la forza militare di Hamas a Gaza e fortemente indebolita quella di Hezbollah, mentre le forze di terra israeliane avanzano in Libano e quelle aeree continuano a smantellarvi i depositi di armi e missili, non solo la reazione di Hezbollah è stata finora molto più debole di quel che si temeva, ma anche l’attacco iraniano non ha funzionato. Non bisogna farsi troppe illusioni, perché l’Iran è un grande Paese con una popolazione dieci volte più grande di quella di Israele e un’industria militare che oggi è la principale fonte di armamenti per la Russia. Ma sembra chiaro che non solo questa battaglia, ma l’intera strategia di logorare e distruggere Israele per mezzo dei gruppi terroristi, sia fallimentare.
• ISRAELE PUÒ RISPONDERE
“L’Iran ha fatto un grave errore e ne pagherà le conseguenze”, ha dichiarato il primo ministro Netanyahu alla fine del gabinetto di guerra convocato per valutare la situazione alla fine dell’attacco. L’errore sta non solo nel fallimento dell’attacco, ma nell’attacco stesso. Israele a questo punto ha l’occasione perfettamente giustificata sul piano politico e legale di colpire non i tentacoli, ma la testa stessa della piovra terrorista, il centro di comando di tutti i fronti aperti contro lo Stato ebraico. Ad aprile la risposta di Israele all’attacco dell’Iran fu solo un segnale: il bombardamento delle installazioni antiaeree di un impianto nucleare ben dentro il territorio dell’Iran significava che Israele poteva penetrare fino ai siti militari meglio difesi e che per il momento si asteneva dal colpirli, anche per le pressioni americane. Ora queste pressioni perché Israele non reagisca probabilmente si stanno ripetendo con la stessa intensità, ma la situazione politica negli Usa e anche quella strategica in Medio Oriente sono assai diverse. Israele ha sconfitto Hamas, anche se restano notevoli focolai terroristi; ha ridimensionato la maggiore fonte di deterrenza dell’Iran, cioè l’armamento di Hezbollah, così vicino allo stato ebraico e così abbondante da creare serie preoccupazioni; ha anche dimostrato di poter bloccare gli attacchi missilistici dallo Yemen e dall’Iran. In America le elezioni si avvicinano, l’amministrazione Biden e la candidata Harris si sentono più vincolati al giudizio di un elettorato che continua a essere notevolmente pro-Israele e dunque non possono seguire le spinte anti-israeliane che pure sono potenti nel partito democratico.
• I POSSIBILI OBIETTIVI
Che succederà ora? Se Israele si sentirà libero di rispondere all’aggressione degli ayatollah, senza doversi limitare di nuovo ad atti simbolici, cercherà però anche di non mettersi contro il popolo persiano, che considera amico e insofferente della dittatura clericale. Dovrà dunque escludere rappresaglie sulle città e sulle installazioni civili. Ci sono quattro gruppi di obiettivi possibili. Il primo e il più importante sono le installazioni del programma nucleare. L’Iran è vicinissimo alla bomba atomica e se riuscisse a realizzarla questo cambierebbe drasticamente in peggio tutta la situazione strategica del Medio Oriente e forse del mondo. Anche qualche giorno fa all’Onu Netanyahu ha ribadito l’impegno di impedirlo. Il secondo obiettivo sono invece gli impianti portuali da cui l’Iran deve far passare il proprio petrolio, che è la principale fonte di finanziamento per il regime. Sono istallazioni ben note e fragili: oleodotti, depositi di carburante, raffinerie, pozzi. Il terzo obiettivo potrebbero essere gli impianti militari e in particolare quelli missilistici. E il quarto i luoghi del potere e le residenze dei principali dirigenti, che Israele potrebbe colpire come ha fatto a Beirut e Damasco. Naturalmente non possiamo sapere quando e dove Israele colpirà. Ma è chiaro che questa è la partita decisiva di questa guerra, che potrebbe cambiare in meglio tutto il Medio Oriente, eliminando la minaccia terroristica, favorendo finalmente un cambio di regime in Iran e una pace fra Israele e il mondo arabo.
(Shalom, 2 ottobre 2024)
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Tensione alle stelle in Medio Oriente: il cuore di Israele sotto attacco
Il Medio Oriente è di nuovo sull’orlo del baratro. La tensione è alle stelle, catalizzando l’attenzione mondiale in un drammatico crescendo di violenza. Nelle ultime ore, l’incubo è diventato realtà: missili balistici lanciati dall’Iran, razzi dal Libano e dalla Siria hanno squarciato il cielo di Israele, colpendo duramente il centro del Paese.
Le esplosioni hanno causato la morte di un uomo a Jerico, un palestinese profugo da Gaza, e il ferimento di almeno due persone, e l’impatto psicologico è devastante: migliaia di cittadini terrorizzati sono stati costretti a fuggire nei rifugi antiaerei, mentre l’allarme risuona senza tregua.
Tel Aviv, cuore pulsante della nazione, è ora teatro di sparatorie in vari punti della città. Il suono dei colpi riecheggia ovunque, gettando la popolazione nel panico. Il terrore corre sottile, nessuno può prevedere cosa accadrà nelle prossime ore.
L’intera regione è in bilico, mentre il mondo osserva impotente una crisi che rischia di sfuggire definitivamente al controllo. Ai residenti è stato chiesto di non allontanarsi dalle aree sicure, mentre l’IDF ha chiarito che le misure restrittive resteranno in vigore per fronteggiare l’attacco coordinato da Hezbollah e Iran.
• COLPITA L’AUTOSTRADA FUORI TEL AVIV Uno degli episodi più preoccupanti, come riferisce il Times of Israel, è stato il lancio di un razzo che, martedì, ha centrato un’importante autostrada appena fuori Tel Aviv. Due persone sono rimaste ferite e subito sono state imposte nuove misure di sicurezza. L’esercito, nel frattempo, si prepara per un’ulteriore intensificazione degli scontri con Hezbollah, soprattutto dopo un’incursione terrestre nel sud del Libano avvenuta durante la notte.
• ISRAELE LANCIA AVVERTIMENTI AI CIVILI Le sirene d’allarme hanno risuonato in tutta Israele, dalla Galilea settentrionale fino a Gerusalemme e Tel Aviv. L’esercito ha invitato i civili libanesi a evacuare l’area a sud del fiume Litani, mentre si preparano nuovi schieramenti di truppe lungo il confine. Questa mossa, probabilmente, segna l’ingresso in una nuova fase del conflitto, già segnato da settimane di pesanti attacchi contro le postazioni di Hezbollah in Libano. Il lancio di razzi, avvenuto a metà mattinata di martedì, rappresenta la prima ondata di attacchi diretti al centro di Israele da quando è stata annunciata l’operazione di terra. Mentre il nord di Israele è stato bersagliato da numerosi missili, si è registrato anche un tentativo fallito di attacco con droni su Tel Aviv, rivendicato dai ribelli Houthi dello Yemen, alleati di Hezbollah e dell’Iran.
• CHIUSI SCUOLE, SPIAGGE E LUOGHI PUBBLICI
In risposta agli attacchi, l’IDF ha annunciato una serie di nuove restrizioni: chiuse scuole e luoghi di lavoro senza accesso ai rifugi, interdette le spiagge e limitati gli assembramenti. Non più di 30 persone possono radunarsi all’aperto, mentre al chiuso il limite è stato fissato a 300. Le misure interessano tutto il nord e il centro del Paese, inclusa Tel Aviv, Gerusalemme, la regione costiera di Sharon, l’area del Carmelo vicino a Haifa, Wadi Ara e la Cisgiordania settentrionale.
• RAZZI SU TEL AVIV, FERITO UN CONDUCENTE DI AUTOBUS Uno dei razzi, lanciato dal Libano, ha colpito la trafficata Route 6, vicino alla città di Kafr Qassem. L’esplosione ha lasciato un cratere sulla strada e frammenti del razzo hanno perforato un autobus di passaggio. Il conducente, un uomo di 54 anni, è stato ferito alla testa ed è stato trasportato in ospedale in condizioni moderate, come riportato dal servizio di soccorso Magen David Adom. Altri passeggeri sono stati trattati per lo shock, mentre un secondo automobilista è stato ferito in modo lieve.
Hezbollah ha rivendicato il lancio dei missili, affermando di aver colpito la base militare di Glilot, vicino a Herzliya, sede di importanti strutture dell’Intelligence israeliana.
• IL FUTURO INCERTO Mohammed Afifi, portavoce di Hezbollah, ha definito gli attacchi contro Tel Aviv «solo l’inizio». Le difese israeliane hanno respinto molti dei razzi, ma la tensione resta palpabile. Le sirene di allarme continuano a suonare e il Paese è in stato di massima allerta.
Mentre Israele si prepara a fronteggiare ulteriori attacchi, l’ombra di un conflitto ancora più ampio sembra avvicinarsi, portando con sé una sensazione di incertezza per il futuro della regione.
(Bet Magazine Mosaico, 2 ottobre 2024)
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Gerusalemme, festa di matrimonio in un rifugio: anche la Città Santa si scopre vulnerabile
di Michele Gravino
GERUSALEMME — Una cerimonia così Kristirae e Shawn Gibson, arrivati dal Colorado per sposarsi nel cuore di Gerusalemme, proprio non se la aspettavano. Cattolici praticanti, profondamente attratti dalle radici della loro religione e per questo da anni appassionati di ebraismo, avevano scelto di sposarsi nella Città Santa per consacrare la passione comune, oltre al loro amore. Ma di dover scendere nel rifugio dell’hotel dove si teneva la cerimonia insieme a tutti gli invitati non lo avevano messo in conto. «Volevamo venire qui già un anno fa, poi c’è stato il 7 ottobre», raccontano nei loro abiti da cerimonia mentre sulle teste si sentono i rumori dell’Iron dome che intercetta i missili su Gerusalemme. «Si vede proprio che doveva essere indimenticabile», dicono.
Come gli sposi americani Kristirae e Shawn, nove milioni di israeliani sono stati colti di sorpresa dall’intensità dell’attacco iraniano su Israele ieri sera. Moltissimi, come loro, sono corsi nei rifugi. Altri hanno scelto di non farlo: e di restare alle finestre a guardare la pioggia di missili e le scie lasciate in cielo dai proiettili che li intercettavano. Per quanto Israele fosse stato avvisato, la paura è arrivata improvvisa. Ad aprile, durate il primo attacco iraniano, i missili iraniani ci avevano messo nove ore ad arrivare: questa volta ne sono passate meno di due dalle prime avvisaglie di attacco alle esplosioni.
La sorpresa è stata forte soprattutto a Gerusalemme che, avendo una popolazione per il 30 per cento araba, di solito non è nel mirino di attacchi missilistici. Che qualcosa ci fosse da aspettarsi si era capito quando l’ambasciata Usa aveva mandato a casa i suoi impiegati invitandoli a non uscire, ma a prevalere era stato lo scetticismo. «Da quella parte. Ma vedrà che non serve» era stata la risposta del portiere dell’hotel quando, all’arrivo delle prime notizie, avevamo chiesto dove si trovasse il rifugio. E’ servito invece, a Kristirae e Shawn, ai loro invitati e a dozzine di altre persone che erano nella stessa struttura. Lacrime e tensione, soprattutto fra chi era arrivato dall’estero, sono durate meno di un’ora: il tempo delle intercettazioni. La danza improvvisata degli sposi ha migliorato l’atmosfera: ma i sorrisi sono tornati solo quando l’allarme è cessato e la sposa ha invitato tutte le compagne di avventura a unirsi al tradizionale momento del lancio del bouquet.
A Tel Aviv l’allarme è scattato prima ancora che a Gerusalemme: che la città fosse a rischio era stato detto da giorni e ieri i residenti erano stati avvisati di non uscire e stare vicino ai rifugi. Così ha fatto Sarah, che abita in centro, in un palazzo di una zona che era popolare ma ora è diventata di moda: che, proprio perché vecchio e costruito senza grandi mezzi, non ha un rifugio. «Avevamo già le scarpe ai piedi e siamo corsi nell’hotel di fronte con i bambini: come facciamo da un anno a questa parte ogni volta che suonano le sirene». Spesso, spessissimo, nell’ottobre del 2023, quando l’avevamo conosciuta fra una corsa e all’altra nel sotterraneo: molto meno negli ultimi tempi, con l’eccezione di aprile. «Questa notte dormiamo vestiti», ci dice al telefono.
A Tel Aviv la tensione è alta: il comitato che riunisce le famiglie degli ostaggi portati a Gaza il 7 ottobre sin da ieri mattina, prima ancora che arrivassero le istruzioni dell’esercito che proibivano i raduni, aveva annullato le manifestazioni previste nel fine settimana per ricordare la strage di un anno fa. Al momento sono in dubbio anche quelle previste nei kibbutz del Sud.
Diversa atmosfera a Ramallah e nei Territori occupati, dove pure sono atterrati dozzine di missili: più che la paura qui ha prevalso la gioia. «Allah U Akbar», è stato il grido che è risuonato a Ramallah quando si sono sentite le sirene suonare negli insediamenti che circondano la città. La gente non è scappata nei rifugi, perché nei Territori palestinesi di rifugi non ce ne sono, se non negli insediamenti.
A Gerico un palestinese è rimasto ucciso dalle schegge di un missile. Ma le immagini sui social mostrano la festa attorno ai pezzi degli ordigni iraniani. Lo stesso giubilo c’è stato a Gaza: i video condivisi sui Social media mostrano i bambini inneggiare di fronte alle sirene che suonavano oltre il confine e alla pioggia di missili che teneva impegnata l’Iron Dome.
(la Repubblica, 2 ottobre 2024)
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La base di Khamenei potrebbe abbandonarlo
di Shay Khatiri
Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell'Iran. La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o di abdicazione forzata.
Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.
(L'informale, 2 ottobre 2024 - trad. Niram Ferretti)
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Bernard-Henri Lévy: «Criminale manifestare a favore di Hamas»
Il filosofo francese parla del suo nuovo saggio «La solitudine di Israele»
di Francesco Mannoni
Bernard-Henri Lévy, filosofo, giornalista, attivista e regista francese che abbiamo incontrato a Pordenonelegge è duro, preciso e inflessibile nel difendere Israele: «Israele, contro Hamas sta combattendo una guerra che riguarda il mondo intero. Una guerra che va contro ogni forma di totalitarismo, di islamismo e terrorismo, come quando ha lottato contro l’Isis e Al Qaeda. Ma questa volta Israele ha il diritto di difendersi. L’esserci fatti sorprendere da Hamas, è la nostra colpa morale. Israele ha l’obbligo di vincere questa guerra che significa riportare a casa gli ostaggi e distruggere le infrastrutture militari di Hamas».
Questi concetti li espone anche nel suo ultimo libro, «Solitudine di Israele» (La Nave di Teseo, pag. 174, euro 17), nel ribadire che Israele ha subito un attacco terroristico almeno altrettanto impressionante di quello degli Stati Uniti l’11 settembre 2001 o degli attentati francesi al Bataclan, nella sede di «Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher. E aggiunge: «Non solo Israele deve difendersi, ma è necessario che vinca. Se non vince, Hamas resterebbe al potere a Gaza e i palestinesi sotto il tacco di Hamas che diventerebbe il campione del mondo arabo e del mondo musulmano: avrebbe una sorta di aureola del vincitore, e Israele andrebbe incontro ad altri 7 ottobre. Prima o poi potrebbero esserci problemi all’interno di Israele, ma per il momento è fondamentale vincere la guerra e portare a casa gli ostaggi».
- Israele con questa guerra di cui lei auspica la vittoria sta perdendo il consenso mondiale, perché da perseguitato starebbe diventando persecutore. Non sarebbe stato meglio dare una patria alla Palestina? «Ci sono due elementi in questa domanda che bisogna spiegare bene. Innanzi tutto Israele, gli ebrei, sono sempre stati perseguitati. Quando si è vittima di un attacco dell’ampiezza e della crudeltà del 7 ottobre, e quando i terroristi dicono: “il nostro obiettivo è ricominciare”; oppure quando affermano: “lo scopo finale è avere la Palestina libera dal mare al fiume, e la scomparsa totale di Israele”, non credo ci siano molte possibilità di dialogo. E se le persone che dicono queste cose hanno alleati potenti, come Hezbollah, l’Iran e la Russia, un Paese piccolo come Israele - un milionesimo del pianeta -, di fronte alla volontà distruttiva di tutte queste forze, forse è difficile affermare che è un persecutore. Ma la patria dei palestinesi è il nodo più difficile da sbrogliare. Auspico uno stato palestinese da cinquant’anni e ho militato per questo scopo per tutta la mia vita. Ho fatto parte del gruppo che ha partecipato all’elaborazione del Piano di Ginevra -credo sia uno dei migliori – perciò non dica a me che ci vuole una patria per i palestinesi: ne sono persuaso. Però ora è il momento peggiore per dichiarare questo Stato: sarebbe un errore enorme».
- Perché? «Hamas sarà al potere, finché gli abitanti della Cisgiordania penseranno che i suoi uomini sono degli abili e valorosi combattenti, e per questo la questione dello Stato Palestinese, non può essere posta ora. Se domani l’Italia, la Francia e la Norvegia dicessero finora abbiamo commesso un errore, avremmo dovuto ascoltare i militanti dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli, ecco qua lo Stato palestinese, sa quale sarebbe la conclusione in tutto il mondo? Tutti penserebbero: quando si chiedono le cose con metodi pacifici non funziona; quando si negozia e si dialoga non funziona; invece quando si prendono degli ostaggi e si trucidano migliaia di persone innocenti o quando si prende un intero popolo in ostaggio, allora così funziona. È questo il messaggio che vogliamo inviare? Vogliamo dire questo ai terroristi del mondo intero? Vedrebbe come cambierebbe la situazione del pianeta dopo. Una patria per i palestinesi è da molto tempo che avremmo dovuto dargliela, e quando Hamas sarà eliminato con tutti quelli che gli somigliano e lo sostengono si potrà parlare di uno Stato palestinese, ma non ora. Oggi, questa possibilità non si dovrebbe nemmeno nominare».
- Ma che diciamo agli studenti che protestano pro Palestina? «Bisogna fare una distinzione. Ci sono gli studenti che manifestano contro il governo israeliano, e ci sono gli studenti che manifestano a favore di Hamas: sono due cose completamente diverse. La prima è perfettamente legittima, la seconda, manifestare pro Hamas, è criminale. È stata dichiarata una guerra contro Israele minacciata di distruzione, e si tratta di una guerra totale. Al momento c’è una sola possibilità accettabile per Israele e per i Palestinesi: la capitolazione di Hamas come si è fatto con Al Qaeda e con Isis».
- Il blocco di Gaza che impedisce di rifornire di viveri oltre un milione e mezzo di sfollati che vivono in condizioni drammatiche ritenute dal sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’Onu un «flagello per la nostra coscienza collettiva», non è un po’ inumano? «Sono andato di persona a Gaza due o tre volte e posso dire che venivano bloccate solo le merci che servivano per la fabbricazione di armi. In secondo luogo il mercato è sempre stato chiaro: basta coi razzi, basta col blocco; niente razzi, niente blocco. Il giorno in cui Hamas smetterà di inviare razzi su Israele, allora non ci sarà più nessun blocco. La fonte di quello che è successo il 7 ottobre, non è l’humus, non è il contesto: è una ideologia. Siamo vicini ad una forma di nazismo che si chiama islamismo radicale che non risale al momento del blocco. Hamas (che è un ramo della fratellanza musulmana, un movimento nato un secolo fa in Egitto, e si colloca ideologicamente all’interno del fondamentalismo islamico), ha sempre detto fin dalle origini che loro non hanno mai accettato lo Stato di Israele. È proprio un fattore ideologico. Può esserci o non esserci un blocco, Gaza può essere liberata o occupata dagli israeliani, e non cambierebbe niente. L’ideologia di Hamas e della fratellanza musulmana resta un elemento essenziale: Israele non deve esistere».
- Perché Netanyahu non viene fermato visto che non tutti in Israele vogliono la guerra? «Israele è una democrazia. Ci sono milioni di persone che vogliono che Netanyahu vada via perché vuole salvare solo se stesso: sono speculazioni, un’idea di complotto. Il dibattito in Israele riguarda la politica nazionale domestica portata avanti da Netanyahu e in particolare sui suoi progetti prima della guerra, e non c’è alcun dibattito sulla necessità di distruggere Hamas. Ho avuto l’immenso onore di essere scelto dalle famiglie degli ostaggi, per il discorso settimanale che viene tenuto ogni sabato nella piazza degli ostaggi. Ho visto i famigliari degli ostaggi, li ho ascoltati, alcuni di loro sono amici: però per quanto riguarda la distruzione di Hamas e di hezbollah, in Israele non c’è alcun dissenso. In realtà c’è un dibattito strategico: dobbiamo recuperare gli ostaggi prima e distruggere Hamas dopo o dobbiamo agire contemporaneamente. Questo è il dibattito in corso in Israele. Personalmente sono per la liberazione degli ostaggi. Mi piacerebbe che si potesse fare prima una cosa prima e dopo l’altra, ma non credo sia possibile. Ritengo che gli uomini di Hamas siano dei mostri ma non totalmente stupidi. Non li vedo liberare gli ostaggi ed essere battuti».
- Nell’eventuale post-Hamas, come pensa reagirebbe il popolo palestinese? «Credo che il popolo palestinese si risveglierebbe e capirebbe di essere stato condotto in un vicolo cieco. Sarebbe un po’ come i tedeschi dopo il 1945. Un intero popolo che era stato stregato, si risveglia e finalmente capisce che non c’è alcuna altra soluzione se non quella del dialogo, dell’accettazione dell’altro e della condivisione della terra. Quel giorno, tutto sarà possibile».
- Il nuovo presidente americano saprà porre fine alla guerre in Israele e in Ucraina? «I due candidati non dicono la stessa cosa. Uno non è pro Ucraina, ed è Trump. Sono reduce da una visita negli Stati Uniti, dove ho fatto un giro di presentazioni. Ho ascoltato e ho capito che fra i due candidati ci sono differenze immense, tuttavia non credo che potrà esserci un’intesa amichevole apprezzabile in Medio Oriente. In Ucraina penso possa andare diversamente: è un fronte in cui si gioca la pace mondiale».
(Gazzetta di Parma, 2 ottobre 2024)
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La svolta della guerra: è iniziata l’operazione di terra in Libano
di Ugo Volli
• L’ATTACCO DI TERRA
La notte scorsa è partita la tanto attesa operazione di terra delle forze armate israeliane in Libano, partendo dal “dito” di Kiryat Shmona e Metula, alle pendici occidentali del Monte Hermon. Con un forte appoggio di artiglieria e la copertura dell’aviazione, le truppe della divisione 98 hanno attaccato finora 21 villaggi, roccaforti di Hezbollah e già abbandonati dalla popolazione civile. Come ha dichiarato un comunicato dello stato maggiore, “in conformità con la decisione dei vertici politici, le forze armate di Israele hanno avviato poche ore fa un’operazione di terra mirata e delimitata nel sud del Libano contro obiettivi terroristici e infrastrutture dell’organizzazione terroristica di Hezbollah, in una serie di villaggi vicino al confine, che rappresentano un pericolo immediato e una vera minaccia per i villaggi israeliani al confine settentrionale. I reparti operano secondo un piano elaborato dallo Stato Maggiore Generale e dal Comando Nord, per il quale si sono addestrati e preparati negli ultimi mesi. Le forze di terra sono accompagnate nell’attacco dall’aviazione e dall’artiglieria, che attaccano obiettivi militari nella zona in coordinamento con i combattenti delle forze di terra. L’operazione Frecce del Nord continua contemporaneamente ai combattimenti a Gaza e in altri fronti.”
• LA REAZIONE AMERICANA
Il punto chiave e politicamente delicato in questo comunicato è la qualificazione dell’attacco come “mirato e delimitato”. A queste condizioni Israele ha ottenuto l’appoggio degli Stati Uniti, fondamentale per prevenire una reazione iraniana. C’è stato infatti un comunicato importante dalla Casa Bianca, in cui si dice che le azioni mirate di Israele in Libano fanno parte del suo diritto a difendersi: “Comprendiamo che gli israeliani effettueranno azioni limitate per distruggere le infrastrutture di Hezbollah che potrebbero minacciare i cittadini israeliani. Ciò rientra nel diritto di Israele di proteggere i suoi cittadini e di consentire loro di tornare sani e salvi alle loro case. Sosteniamo il diritto di Israele di difendersi contro Hezbollah e altri affiliati iraniani.”
• LE RAGIONI DELL’OPERAZIONE
Ci si può chiedere se l’attacco alle postazioni terroristiche del Libano meridionale fosse necessario dopo la distruzione del vertice di Hezbollah realizzata negli ultimi dieci giorni. La risposta è sì, che a Hezbollah rimangono decine di migliaia di truppe e molte armi avanzate, in particolare missili di precisione. Anche se Israele ha bloccato i rifornimenti all’organizzazione terroristica che potevano arrivare per via aerea dall’Iran e per via di terra dalla Siria, la capacità potenziale del gruppo terroristico di attaccare Israele è ancora alta. Era importante approfittare del suo stato di shock e di disorganizzazione, conseguente ai colpi subiti in questi giorni, per distruggere le istallazioni e i depositi militari ancora esistenti e non raggiungibili dall’aviazione perché nascosti in tunnel sotterranei e anche per eliminare le truppe accumulate da Hamas al confine israeliano. L’operazione mira, insomma, a smantellare la potenza militare di Hezbollah e a garantire la possibilità del ritorno a casa per le decina di migliaia di israeliani fatti sfollare in questi mesi dai bombardamenti di Hezbollah.
• GLI ALTRI TEATRI DI GUERRA
Contemporaneamente all’operazione di terra, la notte scorsa vi sono stati anche intensi bombardamenti nella periferia meridionale di Beirut contro depositi di armi sotto edifici residenziali, bombardamenti anche a Tiro e Sidone sulla costa meridionale del Libano, e diversi attacchi aerei a Damasco contro capi di Hezbollah, delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran e di altre organizzazioni terroristiche. Durante il giorno sono anche continuate le azioni a Gaza, dove c’è stato un attentato di Hamas che ha ferito gravemente un soldato israeliano, ma è stata catturata l’ennesima scuola trasformata in deposito d’armi e centro d’attacco. Finora le reazioni da parte dell’asse terrorista sono state scarse. Dopo la decina di missili abbattuti ieri nell’area di Haifa, i mezzi israeliani hanno abbattuto un drone, forse sparato dagli Houti, che puntava nella zona di Tel Aviv.
• CORAGGIO
Non c’è dubbio che questa operazione, insieme ai colpi decisivi inferti a Hezbollah nelle scorse due settimane, possa costituire la svolta della guerra. Israele è tornato all’offensiva anche al nord, non si limita più a ricambiare i colpi, ma opera strategicamente per la vittoria. C’è voluto molto coraggio per superare i timori e i freni che venivano dall’amministrazione americana, per non parlare dell’ostilità del resto del mondo: ancora ieri notte Josep Borrell, ministro degli Esteri dell’Unione Europea per fortuna in scadenza, ha dichiarato che l’UE vuole rafforzare l’esercito libanese come elemento di stabilità della regione. Peccato che l’esercito libanese, al primo annuncio dell’operazione israeliana, si sia immediatamente ritirato, dopo non aver fatto nulla contro Hezbollah da decenni. E c’è voluto molto coraggio per intraprendere questa operazione, perché già nel 2006, durante la seconda guerra del Libano, l’esercito israeliano ha avuto molte difficoltà nelle strette valli di montagna del Libano meridionale e ora esse sono ancora più difficili, densamente fortificate da Hezbollah. Proprio per questo l’operazione, che i terroristi aspettavano e sfidavano da tempo, è stata attuata solo dopo lo smantellamento della catena di comando e di comunicazione.
• IL FUTURO
Israele non ha ambizioni sul Libano. Se tutto andrà bene, ci vorranno alcune settimane per ripulire a fondo la zona di confine, che era già interdetta a Hezbollah dalla risoluzione 1701 dell’Onu. È possibile che le forze israeliane debbano andare oltre i villaggi di confine, fino al fiume Litani, per stabilire una zona libera dal terrorismo. Difficile però che arrivino a Beirut, come è difficile che si fermino a presidiare la zona liberata. Più facilmente si riserveranno il diritto di entrare a smantellare ogni nuovo insediamento terrorista. La situazione potrebbe complicarsi se l’Iran cercasse di intervenire direttamente per salvare qualcosa del suo strumento militare imperialista più importante, com’era Hezbollah. Ma non sembra probabile. Israele ha dichiarato e mostrato coi fatti di essere in grado di raggiungere le istallazioni atomiche e i terminali petroliferi da cui gli ayatollah traggono buona parte dei loro fondi. E non è detto che nelle circostanze opportune non possa farlo autonomamente. Netanyahu si è rivolto ieri, con un messaggio poco prima dell’operazione, al popolo iraniano, dicendo che non vi è odio fra Israele e gente della Persia e che, se gli iraniani si libereranno dalla cricca di fanatici che li governa, potrà sorgere un tempo di amicizia e di prosperità. Anche questo è un coraggioso programma d’azione.
(Shalom, 1 ottobre 2024)
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Dopo 24 anni Israele onora la sua promessa
24 anni dopo il ritiro dal Libano, Israele sta tornando. Con un'offensiva di terra contro le posizioni di Hezbollah nel sud del Libano, l'IDF vuole ripristinare la sicurezza nel nord.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Quando 24 anni fa, nel giugno 2000, Israele lasciò la zona di sicurezza del Libano meridionale, molti politici di spicco, tra cui l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak, promisero di invadere nuovamente il Libano o di "raderlo al suolo" al primo attacco missilistico proveniente dal Libano. Gli attacchi contro Israele cominciarono nelle prime settimane successive e non accadde nulla. Come promemoria, 950 soldati israeliani sono morti in Libano dall'invasione del giugno 1982, di cui oltre 600 nella guerra del Libano. Quello è stato il mio tempo e la mia guerra come giovane soldato in Libano. Ora Israele e i nostri figli devono tornare e probabilmente riprendere la zona cuscinetto fino al fiume Litani. Se il governo e l'esercito libanese non sono in grado di onorare la loro promessa e di assicurare la calma nel sud, come avevano promesso a Israele, anche sei anni dopo la seconda guerra del Libano con la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, allora nessuno dovrebbe sorprendersi che Israele sia tornato in Libano oggi. Meglio tardi che mai. Ma Israele deve stare molto attento a non sprecare questo slancio militare. Il Libano è più pericoloso della Striscia di Gaza. L'operazione di terra contro gli obiettivi terroristici di Hezbollah nel sud del Libano è iniziata ufficialmente nelle prime ore di questa mattina. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha autorizzato l'operazione ieri sera e diverse unità speciali hanno iniziato a operare nel sud del Libano durante la notte. Le forze di terra dell'IDF, supportate dall'aviazione e dall'artiglieria, stanno attaccando obiettivi militari nella regione in un'operazione coordinata con le forze di terra. Prima dell'inizio dell'operazione, l'esercito ha invitato gli abitanti dei villaggi libanesi vicini al confine con Israele ad evacuare. Chiunque si trovi nell'area è considerato un terrorista di Hezbollah. Già ieri l'esercito libanese si era ritirato da alcune posizioni lungo il confine meridionale, a circa cinque chilometri dal confine libanese-israeliano, su richiesta delle truppe UNIFIL. Fonti della sicurezza israeliana spiegano che la tempistica dell'operazione mira a capitalizzare lo slancio dei successi ottenuti contro Hezbollah in Libano nelle ultime due settimane per distruggere le strutture operative di Hezbollah lungo la barriera di confine con Israele. Queste includono tunnel e postazioni d'attacco che facevano parte del piano di Hezbollah per infiltrarsi in alcune aree della Galilea e catturare le comunità israeliane e le basi dell'IDF - in modo simile all'attacco di Hamas alle comunità israeliane di confine intorno a Gaza il 7 ottobre dello scorso anno. Questa è la minaccia immediata per le comunità del nord che deve essere eliminata in modo che le decine di migliaia di israeliani evacuati possano tornare in sicurezza alle loro case. Un'altra minaccia per le comunità al confine è il lancio di missili anticarro da parte di Hezbollah verso le case delle città israeliane dal confine, per il quale l'IDF deve trovare una soluzione in tempi brevi. Secondo le stime dell'esercito, l'operazione durerà diverse settimane e, a seconda dell'evoluzione della situazione, potrebbe essere estesa all'area del fiume Litani per eliminare ulteriori infrastrutture terroristiche e combattenti nascosti di Hezbollah. Negli ambienti politici si vocifera che Israele attualmente preferisca un'operazione limitata e temporanea a causa delle pressioni internazionali, senza rimanere in modo permanente nel Libano meridionale. Parallelamente alle attività militari, si stanno intensificando gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo politico nel Libano meridionale, che dovrebbe consentire il ritiro delle truppe dell'IDF al termine della loro missione. Gli ambienti della sicurezza ipotizzano anche che l'esercito alla fine dovrà cambiare i suoi piani e preparare l'istituzione di una zona di sicurezza permanente nel sud del Libano per impedire il ritorno dei terroristi di Hezbollah al confine. L'esercito israeliano era già stato presente nella zona di sicurezza del Libano meridionale per 18 anni, fino al suo ritiro nel 2000, quando tutti i principali politici del Paese assicurarono che le truppe israeliane sarebbero rientrate non appena il primo razzo fosse stato sparato di nuovo contro Israele. Ciò avvenne nei primi mesi successivi e non accadde nulla. Oggi, 24 anni dopo, Israele sta onorando la sua promessa.Il governo statunitense respinge l'invasione del Libano meridionale da parte dell'IDF e chiede a Israele di ritirarsi e di raggiungere un cessate il fuoco in Libano e nella Striscia di Gaza per consentire lo scambio di ostaggi. La pressione internazionale su Israele aumenterà nei prossimi giorni. I libanesi stanno già segnalando la loro disponibilità a raggiungere un accordo politico. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri, vicino a Hezbollah, ha dichiarato questa mattina al quotidiano Asharq Al-Awsat che il Libano è impegnato a rispettare gli accordi raggiunti dal mediatore statunitense Amos Hochstein su un processo politico che porti a un cessate il fuoco con Israele e all'attuazione della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. I negoziati sono importanti, ma solo durante i combattimenti e non durante il cessate il fuoco. Oggi, dopo quasi 25 anni in cui le milizie terroristiche sciite hanno tenuto in ostaggio l'intero Libano dal punto di vista politico e sociale, questo è un sollievo per gli altri gruppi etnici del Libano, come i cristiani, i sunniti e i drusi. Se il Libano vuole davvero iniziare una nuova era e liberarsi delle milizie terroristiche sciite, deve lavorare dietro le quinte con Israele per creare una nuova speranza per entrambi i Paesi.
(Israel Heute, 1 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il messaggio di Herzog: Siamo un popolo forte
Si avvicina l’anniversario del 7 ottobre e la terra in Israele «trema ancora». «Le nostre ferite non possono ancora guarire completamente perché sono ancora aperte. Perché gli ostaggi vengono ancora torturati, giustiziati e muoiono in prigionia. Perché decine di migliaia di famiglie non possono ancora tornare a casa. In molti sensi, tutti noi stiamo ancora vivendo le conseguenze del 7 ottobre», afferma il presidente d’Israele Isaac Herzog in un messaggio inviato alla vigilia del nuovo anno ebraico alle comunità ebraiche della Diaspora per ricordare l’anniversario delle stragi di Hamas.
La minaccia di Hamas, di Hezbollah e del loro principale finanziatore, l’Iran, assieme all’ondata di antisemitismo nel mondo fanno ancora parte del presente, sottolinea Herzog.
In questo momento di fragilità, di dolore e lutto, «dobbiamo ricordarci chi siamo: Un popolo con la forza di continuare a resistere sempre e comunque contro l’odio». Quest’anno «ci ha costretti a tornare alle verità fondamentali del nostro essere popolo. Ci ha costretti a riconnetterci gli uni con gli altri e a riprendere il cammino di responsabilità collettiva e di giustizia sociale che sono la nostra eredità spirituale».
Per affrontare gli effetti del 7 ottobre sono nate migliaia di iniziative di solidarietà in Israele e nella Diaspora, ricorda Herzog. «Inoltre non abbiamo abbandonato il nostro profondo desiderio e la nostra aspirazione alla pace con i nostri vicini. E continuiamo a mantenere questo obiettivo, anche se insistiamo sul fatto che noi ebrei meritiamo di sentirci al sicuro e di essere al sicuro, indipendentemente dal luogo in cui viviamo». Per il presidente israeliano ad essere d’ispirazione devono essere «il coraggio e la bellezza di tutti coloro che abbiamo perso» in questo anno difficile. In loro memoria «non smetteremo di credere che un mondo migliore sia possibile».
A chiusura del suo messaggio, Herzog recita una preghiera in ebraico: «Adonai Oz Lamo Yiten. Adonai Yivarech Et Amo, BaShalom». «Che Dio dia forza a tutto il Suo popolo. Che Dio benedica il Suo popolo con la pace».
(moked, 1 ottobre 2024)
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Tirare drittodi Davide Cavaliere Tutti coloro che condannano le azioni dello Stato ebraico volte a contrastare la minaccia rappresentata dall’antisemitismo apocalittico di Hezbollah e Hamas, considerano Israele un progetto criminale e «coloniale». Quando si nutre un odio intenso e irrazionale per una nazione, ma per galateo e convenienza non si può chiederne direttamente la cancellazione dalle mappe, allora si invita quella nazione ad abbassare le armi, a diminuire le difese e a non reagire alle «provocazioni» – anche se si tratta di «provocazioni» mortali.
No, non siamo ancora alla vittoria totale, quella che Benjamin Netanyahu ha promesso a Israele a seguito dell’eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, c’è ancora molto lavoro da fare, ma il fatto evidente, incontrovertibile è il cambio di marcia. Nel giro di poche settimane, dopo un lungo, quasi interminabile anno in cui il paese è stato sottoposto a un assedio senza precedenti con sette fronti militari aperti, più un ottavo, non meno temibile e insidioso, come ha sottolineato qui David Elber il ruggito di Israele si sente forte e chiaro. La decimazione del vertice di Hezbollah con l’eliminazione a sorpresa del lord of terror Hassan Nasrallah, il massiccio bombardamento dei suoi arsenali che continua e continuerà, a cui è seguita ieri l’incursione aerea in Yemen per mettere in ginocchio la linea di rifornimento degli Houti, ha messo Teheran con le spalle al muro, ha pietrificato l’anziano Khamenei, il quale, pateticamente, invoca l’unità inesistente del mondo musulmano contro “l’entità sionista” (e quanto sia unito si è visto con festeggiamenti in Iran e in Siria per la morte di Nasrallah e l’ancora più eloquente silenzio tombale proveniente dal mondo arabo sunnita con in testa a tutti l’Arabia Saudita). Sì, c’è ancora della strada to finish the job, come esortava tempo fa Donald Trump e più recentemente ha esortato suo genero Jared Kushner, uno degli artefici degli Accordi di Abramo. A Gaza sono ancora prigionieri 117 ostaggi, non si sa quanti di loro vivi, Yayha Sinwar non è stato eliminato, e Hezbollah è tuttora operativo, ma, come un pugile barcollante sul ring prima del ko, l’asse del terrore guidato da Teheran non è in grado di rispondere. Proprio in un momento come questo, quando il vento soffia in poppa, bisogna evitare di cingersi frettolosamente il capo con l’alloro, e fingere, per scaramanzia, di essere solo all’inizio del cammino anche se in realtà si è molto avanti. Intanto, Benjamin Netanyahu, l’uomo dalle molte vite, che i suoi nemici sparsi ovunque davano per spacciato, incassa l’ingresso nel governo del vecchio e aspro rivale Gideon Sa’ar, fortificandolo e allontanando lo spettro di elezioni anticipate che una opposizione irresponsabile appoggiata da Washington ha cercato insistentemente di provocare in questi mesi.
(L'informale, 30 settembre 2024)
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Sa’ar entra nel governo, Bibi meno ricattabile da destra
Appena rientrato da New York, dopo il suo intervento all’Onu e con in mano il successo dell’eliminazione del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiamato l’ex rivale Gideon Sa’ar. I due hanno concluso un accordo che allarga la maggioranza (da 64 a 68 seggi in parlamento) e permette a Netanyahu di consolidare la sua posizione. Ora il premier sarà meno condizionato dalle pressioni del ministro della Pubblica sicurezza, Itamar Ben-Gvir, e dal peso dei suoi sei seggi alla Knesset. «Apprezzo il fatto che Gideon Sa’ar abbia risposto alla mia richiesta e abbia accettato di entrare nel governo. Questa mossa contribuisce all’unità tra di noi e alla nostra unità di fronte ai nemici», ha dichiarato il premier.
Per Sa’ar e il suo partito Nuova Speranza si tratta di una seconda volta. Avevano già fatto parte del governo di unità nazionale nato dopo il 7 ottobre. A marzo però Sa’ar aveva dato le sue dimissioni, contestando alcune scelte sulla gestione del conflitto. Ora rientra con una posizione più influente: farà parte del gabinetto di sicurezza di Netanyahu, l’organo in cui si decidono le strategie contro Hamas e Hezbollah. Per il momento Sa’ar sarà ministro senza portafoglio. Sperava di sostituire alla Difesa Yoav Gallant, ma l’opzione è sfumata la settimana scorsa. Quando i media locali hanno rivelato il possibile siluramento di Gallant, l’opinione pubblica ha contestato la scelta e Sa’ar ha fatto un passo indietro. Il cambio però, scrive l’emittente Kan, potrebbe avvenire più avanti visto lo scontro aperto tra l’attuale ministro della Difesa e il premier.
«Non ha senso continuare a stare all’opposizione, dove sulla questione della guerra la maggior parte delle posizioni sono diverse, persino lontane dalle mie. In questo momento, è mio dovere cercare di contribuire al tavolo dove si prendono le decisioni», ha dichiarato Sa’ar, definendo la sua decisione di unirsi al governo come «patriottica». Sa’ar è tra i contrari a un accordo con Hamas per lo scambio degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco. Per questo il suo ingresso nel governo è stato commentato con preoccupazione dal Forum delle famiglie degli ostaggi, che vorrebbe al più presto un’intesa per poter riportare a casa i 101 rapiti ancora prigionieri a Gaza.
Oltre alle decisioni sul conflitto, il voto di Sa’ar e degli altri tre parlamentari di Nuova Speranza potrebbe incidere in futuro su altri due punti: la controversa riforma della giustizia, al momento congelata, e la legge per la coscrizione degli studenti delle scuole religiose. Su quest’ultima si giocherà la tenuta dell’intera coalizione, vista la contrarietà dei partiti religiosi. Senza i loro 14 seggi, Netanyahu non ha la maggioranza.
(moked, 30 settembre 2024)
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Un altro miracolo compiuto da Israele
La guerra non è finita, ma a quasi un anno dall'attentato del 7 ottobre 2023, il popolo di Israele sta rinnovando la propria storia.
di Fiamma Nirenstein
Il prossimo 7 ottobre non sarà un anniversario di sole lacrime, di pura contrizione anche se la memoria è cocente. Il popolo d'Israele vive! E non era affatto scontato. Tutta la sua storia è fatta di miracoli: per salvarlo dal faraone si deve aprire il mare; dall'Inquisizione, dai pogrom, dalle altre aggressioni genocide; l'uscita è sempre incredibile e gli ebrei ne sono usciti fedeli a se stessi e alla tradizione Torah, e al ritorno a Gerusalemme, finché l'hanno realizzato. Il 1948 fu una guerra combattuta da reduci dei campi di concentramento eppure abbiamo vinto tutti gli eserciti arabi uniti nell'odio che ci marciarono addosso; e più avanti nel '67, nel '73... Tutte guerre vinte per un pelo, colpi di fantasia miracolosi, leader con idee salvifiche. Oggi nessuno avrebbe puntato un euro sull'idea che si potesse eliminare Nasrallah e tutta la sua gerarchia, pietrificando l'Iran cui abbiamo ridotto a pezzi anche l'altro proxy favorito, Hamas. E adesso abbiamo bombardato a 2mila chilometri di distanza l'altro suo incaricato speciale, gli Houthi, distruggendogli l'aeroporto da cui riceve armi e aiuti. Khamenei è nascosto sotto terra, gli sciiti iracheni e siriani aspettano il loro turno, le cinque capitali controllate da Teheran tremano. È una misura di giustizia come ha detto Biden, Israele se l'è costruita col suo stile impossibile, difendendo i suoi fra mille divieti e senza paura di fantasticare. Solo così si difende uno Stato giovane, attaccato da ogni parte. La guerra non è finita, Hezbollah aveva 100mila uomini: Netanyahu sa che la deve portare fino in fondo, nonostante la pressioni internazionali. Adesso ha capito che la sua stessa esistenza è a rischio se non ci sarà un «nuovo Medioriente». Strano, era il modo in cui Shimon Peres chiamava quello che doveva nascere da un accordo che si è rivelato fallimentare: per stabilire la pace che Israele ama più di se stesso, ha capito che anche la guerra deve essere vera, fino in fondo, altrimenti vince e ti uccide chi non la vuole. Questa è la lezione del nostro tempo per tutti.
Il popolo ebraico è il capofila di una pagina di storia in cui il mondo libero deve combattere al suo fianco, per la sopravvivenza. Per ora ha eliminato le due formazioni terroriste più pericolose del mondo: Hamas e Hezbollah. E sfida l'Iran. Vorrei sentire gli applausi, prego.
(il Giornale, 30 settembre 2024)
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"Il popolo ebraico è il capofila di una pagina di storia in cui il mondo libero deve combattere al suo fianco, per la sopravvivenza", afferma in tono lirico l'autrice aspettandosi gli applausi. Ancora una volta questa giornalista si fa prendere dall'entusiasmo e immagina un Israele "capofila" di popoli in un programma di salvezza del mondo da qualche cosa. In questo caso si tratta della sopravvivenza del "mondo libero". Qualche anno fa il mondo sarebbe stato salvato dal mortale pericolo del Covid tramite "il miracolo della vaccinazione" che sarebbe avvenuto per il ruolo di leader mondiale assunto da Israele nella trattazione dei vaccini 8 (ved.). Israele farebbe bene a guardarsi da certe autocelebrazioni. M.C.
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Gli errori di valutazione di Hassan Nasrallah
La guerra di Hezbollah gli si è ritorta contro, ampie zone del Sud sono distrutte e centinaia di migliaia di sciiti sono sulla strada o sostanzialmente rifugiati nel loro Paese
di Yaroslav Trofimov
Settimane dopo l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre, il leader del gruppo terrorista libanese Hezbollah ha tenuto un discorso fragoroso per spiegare perché i suoi uomini si stavano unendo alla lotta contro il “nemico sionista”. Israele «trema e trema per la paura, più debole di una tela di ragno», ha detto Hassan Nasrallah. A differenza dei precedenti conflitti con lo Stato ebraico, questa guerra «è storica e decisiva» e tutti i movimenti di resistenza sostenuti dall’Iran, dal Libano alla Siria, all’Iraq e allo Yemen, hanno il dovere di partecipare. Oggi Nasrallah è morto, così come gran parte dei vertici di Hezbollah. Il resto dell’organizzazione è stato decimato da una serie di colpi che hanno messo in luce una sorprendente penetrazione dell’intelligence israeliana. In retrospettiva, questo è stato il risultato di due errori strategici commessi da Nasrallah: sottovalutare grossolanamente Israele, il suo nemico, e sopravvalutare le capacità del suo patrono, l’Iran, e della sua rete di gruppi terroristi alleati nella regione. Hezbollah possiede un vasto arsenale di missili e razzi, compresi missili balistici a guida di precisione. L’obiettivo era quello di scoraggiare un’escalation israeliana. Finora le sue armi non hanno inflitto danni significativi a Israele. Migliaia di persone sono state uccise in Libano dal 16 settembre, secondo il ministero della Sanità libanese, durante la campagna israeliana per porre fine agli attacchi di Hezbollah che hanno costretto decine di migliaia di persone a lasciare le loro case nel nord di Israele. Dal 19 settembre, nessun israeliano è morto a causa degli attacchi di Hezbollah. «Abbiamo visto una cosa molto importante negli attuali scontri: Sebbene Hezbollah si comporti come un esercito, non è all’altezza di Israele in termini di potenza di fuoco, di potenza aerea, di intelligence e di tecnologia», ha dichiarato Fouad Siniora, un critico del gruppo sostenuto dall’Iran che era primo ministro del Libano quando Hezbollah e Israele hanno combattuto una guerra nel 2006. L’Iran, nel frattempo, ha dimostrato che il suo concetto di “unità dei fronti” è a senso unico: i suoi alleati nella regione dovrebbero versare sangue per il regime iraniano, ma senza alcuna reciprocità da parte di Teheran. «L’Iran è pronto a combattere fino all’ultimo libanese», ha detto Siniora. Mentre Hezbollah è diventato vittima della sua stessa arroganza, Israele rischia ora di cadere in una trappola simile, soprattutto se lancia un’invasione di terra del Libano e tenta di ridisegnare la composizione politica del Libano. L’invasione del Libano nel 1982, che mirava a questo scopo, ha portato alla creazione di Hezbollah e a un’occupazione prolungata che si è conclusa con il ritiro unilaterale di Israele dal Libano meridionale nel 2000. Israele ha eliminato il predecessore di Nasrallah, Abbas Musawi, nel 1992. Nonostante la morte di Nasrallah e di molti alti comandanti, Hezbollah conserva ancora migliaia di combattenti ben addestrati e un grande arsenale che potrebbe usare per infliggere perdite significative sul terreno preparato nelle sue roccaforti del Libano meridionale. «Hezbollah non può che aspettare che Israele inizi a operare sul terreno nel sud del Libano, perché quel momento potrebbe diventare per loro una svolta, un punto di svolta che gli permetterebbe di risorgere dalle ceneri e di riconquistare ancora una volta il sostegno della società libanese in generale», ha ammonito Ksenia Svetlova, ex legislatore israeliano e senior fellow non residente presso l’Atlantic Council. Mentre i comandanti israeliani sono consapevoli dei pericoli dei combattimenti a terra – e ricordano le perdite della campagna del 2006 – il problema politico è che l’obiettivo dichiarato di Israele – il ritorno di circa 60.000 israeliani sfollati dagli attacchi di Hezbollah dalle aree lungo il confine – è difficile da raggiungere con la sola potenza aerea. Nonostante i recenti colpi, Hezbollah si rifiuta di fermare il fuoco transfrontaliero senza che Israele accetti anche un cessate il fuoco con Hamas a Gaza. «Non possono farlo, sarebbe una sconfitta umiliante per loro», ha dichiarato Eyal Zisser, specialista della regione e vice rettore dell’Università di Tel Aviv. Il drammatico indebolimento di Hezbollah crea una sfida particolare per l’Iran, che ha fatto affidamento sui missili e sui razzi del gruppo libanese come deterrente contro qualsiasi potenziale attacco israeliano al proprio programma nucleare. «È una trasformazione per la regione, perché Hezbollah non è solo un altro proxy dell’Iran. Fa parte della dottrina difensiva dell’Iran e del suo principale strumento di deterrenza contro Israele», ha detto Michael Horowitz, responsabile dell’intelligence della società di consulenza Le Beck International. «Questo mette l’Iran in una posizione molto difficile, perché Hezbollah è stato costruito per difendere l’Iran, ma ora l’Iran si trova di fronte al dilemma di dover potenzialmente difendere Hezbollah». I calcoli dell’Iran – a meno di due mesi dall’eliminazione da parte di Israele del leader di Hamas Ismail Haniyeh in una foresteria governativa – sono ulteriormente complicati dall’incertezza sull’esatta penetrazione di Israele nel proprio apparato di sicurezza. L’Iran, che è sottoposto a sanzioni occidentali, deve procurarsi gran parte delle sue attrezzature e dei suoi componenti attraverso loschi intermediari. Secondo gli analisti militari, Israele, che si è infiltrato nella catena di approvvigionamento di Hezbollah per riempire di esplosivo i suoi walkie-talkie e i suoi cercapersone, potrebbe aver interferito in modo analogo con le reti di comunicazione o le armi iraniane. Con il nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, che sta tentando una “offensiva di fascino” in Occidente e un possibile ritorno ai negoziati nucleari che allevierebbero le sanzioni sulla martoriata economia iraniana, è probabile che Teheran si astenga da azioni dirette a favore di Hezbollah, ha detto Vali Nasr, professore alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies ed ex consulente senior del Dipartimento di Stato. «Lo stato d’animo di Teheran è sempre stato quello di non abboccare all’amo. Sanno che Israele vuole la guerra ora, perché ha un vantaggio militare e di intelligence, perché c’è un vuoto politico negli Stati Uniti e perché la Marina statunitense è seduta nel Mediterraneo», ha detto Nasr. «L’Iran non è pronto in questo momento perché non è il momento giusto. Ma ci sarà il momento giusto». L’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso quasi 1.200 israeliani e ha portato all’invasione di Gaza che ha causato decine di migliaia di morti palestinesi, è stato un umiliante fallimento di intelligence per Israele. Eppure, uno dei motivi per cui Israele non ha tenuto d’occhio Gaza è stato proprio perché, fin dal 2006, i servizi militari e di intelligence israeliani si sono concentrati su quella che consideravano una guerra inevitabile con Hezbollah. La sequenza di attacchi di settembre ha mostrato quanto profondamente Hezbollah fosse stato infiltrato e ha contribuito a ripristinare la reputazione offuscata dell’intelligence israeliana. «Questi attacchi sono enormemente devastanti per Hezbollah dal punto di vista pubblico e operativo, ovviamente. Ma non è chiaro che cosa emergerà da questa nuova situazione», ha dichiarato Andrew Tabler, ex funzionario della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato che si occupa di Medio Oriente e che ora è senior fellow presso il Washington Institute for Near Eastern Policy. «Cambia davvero la situazione strategica? Non è detto». Hezbollah, naturalmente, non è scomparso e il movimento conserva migliaia di combattenti e una parte significativa del suo arsenale. «Le capacità della resistenza sono ancora intatte, nonostante la battuta d’arresto ricevuta dagli israeliani. Se questa follia non si ferma, Israele potrebbe avere un brusco risveglio», ha avvertito Kamel Wazne, analista politico di Beirut. Ma ciò che Hezbollah ha chiaramente perso all’interno del Libano è l’aura di invincibilità che gli ha permesso di controllare essenzialmente lo Stato libanese. Il Paese è senza presidente dall’ottobre 2022 a causa dell’ostruzionismo di Hezbollah e dei suoi alleati che hanno impedito al Parlamento di tenere una votazione. Hezbollah sta ora rischiando la sua posizione con la sua base all’interno della comunità sciita libanese, soprattutto perché i residenti delle aree a maggioranza sciita nel sud e nella Valle della Bekaa stanno fuggendo dalle loro case a causa degli attacchi aerei israeliani. «La guerra di Hezbollah gli si è ritorta contro, ampie zone del Sud sono distrutte e centinaia di migliaia di sciiti sono sulla strada o sostanzialmente rifugiati nel loro Paese. Come fa Hezbollah a garantire di non perdere queste persone?», ha detto l’analista politico libanese Michael Young. «L’altro problema è che, a livello interno, Hezbollah è isolato quando si tratta di aprire un secondo fronte con Israele. In molte comunità, ora c’è una certa dose di schadenfreude nei confronti di ciò che sta accadendo».
(Rights Reporter, 30 settembre 2024)
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Michael Di Porto: “L’orgoglio di essere ebreo, sionista e senza paura”
di Michelle Zarfati
A volte un gesto, anche piccolo, può far rumore. O musica, come in questo caso. Come è riuscito a fare Michael Di Porto, ventiquattrenne pieno di passioni che sabato ha intonato davanti al Colosseo la melodia di “Am Israel Chai”. Un canto di speranza, in un periodo buio e pieno di insicurezze, eseguito da un giovane ebreo senza paura. Con indosso una maglia con la scritta “Bring Them Home”, riferito agli ostaggi rapiti da Hamas, Michael nel cuore della Capitale ha fatto sentire la sua voce, e idealmente quella di tanti giovani che come lui, non hanno paura. Shalom ha intervistato Michael, che ha rivelato molto di sé, delle sue passioni ma soprattutto della sua identità ebraica.
- Cosa ti ha spinto a fare questo gesto? In realtà è nato tutto in modo abbastanza casuale. Ero lì semplicemente per cantare in strada un paio d’ore, ma quando ho visto il nastro giallo degli ostaggi proiettato sul Colosseo mi è venuta una gran voglia di cogliere l’occasione di fare qualcosa di unico. Ho messo subito una story su Instagram per segnalare quanto stesse accadendo, ed ho ricevuto risposta dal mio amico Benedetto Sacerdoti, Rappresentante per l’Italia del Forum delle famiglie degli ostaggi. Lui mi ha portato la maglietta con scritto “Bring Them Home”, e assieme abbiamo girato il video pubblicato ed un altro paio di backstage che usciranno prossimamente.
- Come è nata la tua passione per il canto? Non ho un momento preciso, la passione per il canto me la porto dietro da quando sono nato, con alti e bassi ovviamente. Non è però soltanto qualcosa di mio, ma un amore che mi è stato trasmesso dalla mia stessa famiglia. Con il canto mi diverto e riesco a coinvolgere le persone intorno a me. Inoltre, ultimamente, ho scoperto che con il busking (arte di strada) posso unire il dovere al piacere, dato che riesco a guadagnare discretamente per gli standard di un semplice studente.
- E lo fai regolarmente nella tua vita? Ad oggi studio economia in magistrale, ma in triennale mi sono laureato in fisica ed ho passato l’ultimo anno e mezzo a fare diverse esperienze che mi sono servite per chiarirmi cosa volessi davvero dalla vita. Ho viaggiato, ho lavorato e ho passato un periodo in un moshav in Israele al confine con l’Egitto in cui ho svolto del volontariato.
- Cosa volevi comunicare questo gesto? Ho voluto dare voce al mio orgoglio, l’orgoglio di essere ebreo, sionista, e soprattutto di non avere paura. Sappiamo tutti che il nostro popolo sta vivendo un momento molto difficile. La situazione degli ostaggi spesso viene dimenticata dal mondo ed anche questa è stata una delle motivazioni che mi ha portato a fare questo gesto, ma come già anticipato non è l’unica. Oggi, nuovamente, non è facile essere ebrei. Il mondo è di fatto riuscito di nuovo ad odiarci: nessuno si dice antisemita, ma poi in moltissimi fanno la distinzione tra gli ebrei buoni (i pochissimi antisionisti) e gli ebrei cattivi (la stragrande maggioranza degli ebrei sionisti). Questi atteggiamenti, puramente antisemiti, rendono problematico anche soltanto comunicare agli altri la nostra identità ebraica. Dietro alla parola sionisti, coscientemente o meno, pregiudizi vecchi e nuovi vengono a galla. Per come la vedo io, il pregiudizio è legato all’ignoranza. I meccanismi dell’antisemitismo e la mancanza di conoscenza sono difficili da combattere, ma se questo è il risultato, vuol dire che necessariamente dobbiamo fare di più.
- Quindi la tua mission, attraverso la tua arte, è far conoscere la verità? Io la verità non ce l’ho in tasca, e non pretendo di imporre a nessuno quello che io posso pensare. Ma allo stesso tempo quello che vedo è che le persone hanno il bisogno e la necessità di confrontarsi con un ebreo. Un ragazzo che oggi dice che i “sionisti” occupano terre altrui è un ragazzo che probabilmente non ha mai parlato con un ebreo in vita sua, e che di sicuro non ha la minima idea di chi siano gli ebrei. Ed è su questo che noi dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Al contrario, capita spesso che abbiamo l’atteggiamento opposto, invece di farci conoscere ci chiudiamo nel tentativo di proteggerci. Ci sono validissime ragioni storiche per cui abbiamo spesso questo atteggiamento; ma se pensiamo che il non ebreo non potrà mai capirci, e che arginare in modo significativo i pregiudizi ed i meccanismi dell’antisemitismo sia impossibile, allora perché siamo ancora in Italia? Andiamo direttamente tutti in Israele! Io non ho voglia di vivere in un Paese in cui comunicare agli altri una cosa normalissima, come la mia identità ebraica, sia un problema. Non ho voglia di essere costantemente non compreso dal prossimo. Non ho voglia di essere straniero in casa mia, quando tra l’altro gli ebrei hanno contribuito in modo significativo alla nascita e allo sviluppo dell’Italia. Ed anche chiudendoci tutti in Israele non credo che il problema dell’antisemitismo si risolverà. Abbiamo buoni rapporti con le istituzioni e tutto ciò è importantissimo, ma a cosa serve se poi buona parte delle persone comuni ci odia? Di fatto non abbiamo scelta, se non comunicare tutti i giorni ed in modo efficace agli altri chi siamo; soprattutto perché dall’altra parte sono invece bravissimi a farlo. Certo li aiuta il numero, ma dobbiamo allora trovare modi alternativi per avere una buona risonanza mediatica. Questo mio gesto è stato proprio un tentativo di parlare agli altri, di far vedere con orgoglio la mia identità ebraica e sionista, e anche di far vedere che un ebreo è una persona qualunque, come un semplice cantante di strada. È pericoloso? Si. Ma non abbiamo altra scelta. Dobbiamo manifestare, farci sentire e conoscere, discutere tra noi e con gli altri. Questa è e deve essere la nostra battaglia, soprattutto quando i nostri fratelli e le nostre sorelle in Israele stanno combattendo una guerra vera. Vorrei rifare flash mob come questi in futuro, e se con me ci fossero 10 ,20, 30 persone si potrebbe riuscire a veicolare il messaggio con ancora più forza. Sono finiti i tempi in cui dobbiamo nasconderci o avere paura, dunque: Am Israel Chai.
(Shalom, 30 settembre 2024)
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I comunisti in piazza esaltano Nasrallah e attaccano gli ebrei
La politica tace. Le reazioni ebraiche
Comunisti che fanno un minuto di silenzio per Nasrallah, defunto capo di un movimento terroristico e islamista, mafioso, implicato nel narcotraffico, proxy dell’IRAN che impicca i gay e uccide le donne che non indossano bene il velo: sono più stupidi e ridicoli che pericolosi, almeno si spera. Perché i loro obiettivi sono gli ebrei italiani, con nomi e cognomi, presi di mira come “agenti sionisti”. Tra questi anche la Senatrice Liliana Segre.
Intanto a Londra i Libanesi ringraziano Israele per aver eliminato il leader di Hetzbollah che avvelena il Paese dei Cedri da troppi anni. Video clicca QUI
Contro gli esponenti di questa frangia del movimento ProPal in piazza a Milano sabato28 settembre sono intervenuti Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, e Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica.
“Quanto messo in piazza a Milano sabato 28/9 dai ‘manifestanti’ ProPal è di una gravità eccezionale. – ha detto Meghnagi – Questo purtroppo a dimostrazione di come oramai non ci sia più alcun limite che possa considerarsi insuperabile nella sua inaccettabilità. Si è creata una spirale di cieco odio antisemita e appelli genocidi ormai equiparabili a quelli di matrice nazi-fascista degli anni ’30 e 40’ dello scorso secolo. È una involuzione totale e assoluta delle sensibilità, morale e del progresso educativo e culturale che le società civili Occidentali avevano messo in atto dopo la Seconda guerra mondiale. È un ritorno ad un ‘medioevo’ che si pensava sorpassato e sublimato, ma che constatiamo con profonda angoscia e sgomento essere riemerso dai tempi bui della Storia.
Ulteriore motivo di grossa preoccupazione è il continuo spingersi sempre più oltre nel calpestare e oltraggiare i canoni che definiscono e caratterizzano le società libere e democratiche senza che queste reagiscano subendo passivamente questi oltraggi. Questo non può che portare ad un ulteriore involuzione accompagnata da un alzamento del tiro da parte di questi gruppi. Siamo a un passo dalla caccia all’ebreo e da atti di aperta violenza nei confronti di istituzioni ebraiche religiose e non e dei loro rappresentanti.
In virtù di quanto sopra, ma anche dell’imminenza dell’anniversario del 7/10 ritengo necessari i seguenti miei appelli al Governo e alle forze dell’opposizione:
• Al Governo, a cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti per la comprensione ed appoggio che non ci hanno mai fatto mancare, affinché siano prese delle misure preventive e, nel caso queste venissero disattese, anche di contrasto nel caso questo tipo di “manifestazioni” dovessero realizzarsi nelle nostre piazze;
• Ai partiti di opposizione affinché anche loro prendano le distanze dalla galassia da cui si generano queste manifestazioni e di attivarsi in maniera fattiva ad un contenimento delle loro modalità e contenuti espressi”.
Così si è espresso il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, mentre Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica, ha detto: “Siamo stufi di questa ennesima manifestazione di odio con annesse minacce personali perfino alla senatrice Liliana Segre. Mi domando come sia possibile che questo governo intervenga su tutto (dai Rave Party a chi manifesta in maniera nonviolenta nelle carceri), ma lasci liberi questi manifestanti di attaccare chi ha già pagato un prezzo incalcolabile nella propria vita ad Auschwitz. Questa gente è così spietata (alcuni di loro anche pregiudicati) da sostenere esplicitamente una organizzazione terrorista e mafiosa come Hezbollah, dedita secondo la DIA anche al narcotraffico e al riciclaggio.
Sarebbe ora di fermare queste continue minacce in stile mafioso rivolte da diversi manifestanti Propal a cittadini italiani che non la pensano come loro”.
Anche Roberto Cenati, già Presidente ANPI provinciale di Milano, ha voluto esprimere solidarietà alla Senatrice Segre, e non solo, con queste parole: “Esprimo la mia profonda solidarietà a Liliana Segre per il vergognoso e infame cartello esposto nel corso della manifestazione propal che ha percorso oggi le vie di Milano. Concordo pienamente con le dichiarazioni di Liliana Segre che ha definito una bestemmia sostenere che Israele sta commettendo un genocidio. La mia solidarietà va anche a Riccardo Pacifici esponente della Comunità Ebraica di Roma”.
Ma a nessuno viene in mente che esiste nel Codice Penale (art. 414) italiano il reato di apologia di terrorismo? Non abbiamo più avvocati e giuristi che intraprendano un'azione legale contro gli organizzatori di queste manifestazioni?
Intanto siamo allo sbando più totale nelle reazioni all’uccisione di Nasrallah, la politica italiana è in stato di confusione se persino il Ministro degli esteri Tajani arriva a chiedere che Israele garantisca la sicurezza dei militari italiani dell’Unifil. Ma non dovevano essere loro a garantire la sicurezza di Israele, del suo confine Nord impedendo le incursioni missilistiche di Hetzbollah dal Libano? Compito fallito miseramente.
Nasrallah è stato eliminato sabato in un bombardamento contro il quartiere generale di Hetzbollah a Beirut, con bombe capaci di sfondare i bunker dove era in corso una riunione generale. L’organizzazione terroristica ha perso tutta la sua catena di comando.
(Bet Magazine Mosaico, 29 settembre 2024)
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Medio Oriente: 'Nasrallah ucciso da Israele con una bomba Usa', Safieddine è il nuovo leader di Hezbollah
Recuperato il corpo dell'ex capo del gruppo sciita, annullati i funerali. Primo attacco in centro a Beirut, altri 105 i morti in Libano. Truppe americane in allerta. Biden: una guerra su larga scala va evitata, parlerò con Netanyahu
di Silvana Logozzo
TEL AVIV - La bomba che Israele ha usato per uccidere l'ex leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a Beirut la scorsa settimana era un'arma guidata di fabbricazione americana: lo ha rivelato alla Nbc il senatore democratico Mark Kelly, presidente della sottocommissione Aereonautica del Senato per le forze armate Usa. Secondo Kelly, Israele ha utilizzato una Mark 84 da 900 kg. Israele ha effettuato in nottata un attacco aereo nei pressi dell'incrocio di Kola nel centro di Beirut. Lo riferisce il Guardian precisando che è la prima volta che Israele colpisce Beirut fuori dai sobborghi meridionali dall'inizio della guerra. Il rumore dell'esplosione è stato udito in tutta la città. L'incrocio di Kola è un punto di riferimento popolare a Beirut, dove taxi e bus si riuniscono per raccogliere i passeggeri. Le prime immagini del raid mostrano due piani di un condominio completamente distrutti. Fino ad ora Israele aveva limitato i suoi attacchi sulla capitale del Libano ai suoi sobborghi meridionali. Una fonte della sicurezza libanese ha reso noto che almeno due persone sono morte nel raid. Secondo questa fonte, "sono state uccise nell'attacco israeliano con un drone che ha preso di mira un appartamento appartenente alla Jamaa Islamiya. Questo gruppo islamista libanese sostiene Hezbollah nelle sue operazioni condotte nel nord di Israele. Il Consiglio della Shura di Hezbollah, l'organismo decisionale centrale del gruppo sciita libanese, ha scelto Hashem Safieddine per sostituire Hassan Nasrallah come leader di Hezbollah. Lo scrive Haaretz e Al Arabya. Safieddine proviene da Deir Qanoun al-Nahr, un villaggio nel Libano meridionale, nato in una prominente famiglia sciita nota per aver prodotto influenti chierici e parlamentari. È cugino di Nasrallah e ha legami familiari con Qassem Soleimani, l'ex comandante della Forza Quds dell'Iran che è stato ucciso in un attacco aereo statunitense in Iraq nel 2020. I funerali di Hassan Nasrallah, previsti per domani sono stati intanto annullati. Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha ordinato all'esercito Usa di rafforzare la propria presenza in Medio Oriente con capacità di supporto aereo "difensive" e ha messo altre forze armate in uno stato di prontezza elevata. Austin "ha aumentato la prontezza di ulteriori forze statunitensi da schierare, elevando la nostra preparazione a rispondere a varie contingenze", ha detto il Pentagono. "Austin ha chiarito che se l'Iran, i suoi partner o i suoi alleati dovessero usare questo momento per colpire il personale o gli interessi americani nella regione, gli Stati Uniti adotteranno tutte le misure necessarie per difendere il nostro popolo". L'esercito israeliano ha effettuato oggi violenti raid contro le roccaforti di Hezbollah in Libano in cui sono morte almeno 105 persone. A tracciare il nuovo bilancio delle vittime è stato in serata il ministero della Salute libanese. I feriti sono 359.
IL REPORT DELLA GIORNATA "Chi vuol fare del male allo Stato ebraico pagherà un caro prezzo". Le parole ripetute da tempo dal premier israeliano, dal suo ministro della Difesa e dal capo dell'esercito, sono diventate realtà: nella notte tra sabato e domenica gli aerei con la stella di David (Iaf) hanno colpito duramente 'l'anello di fuoco', la strategia architettata per soffocare lo Stato ebraico dal generale iraniano Soleimani, ucciso dagli Usa nel 2020. Un piano sposato soprattutto da Hassan Nasrallah e perseguito dalle milizie in Libano, Siria, Iraq, Cisgiordania, Gaza e Yemen. Domenica la reazione contro gli Houthi, attesa da giorni, dopo che nel mese di settembre hanno sparato missili balistici terra-terra e droni. L'esercito (Idf) ha inflitto un nuovo, possente colpo agli alleati di Teheran nello Yemen: decine di aerei hanno volato fino a 1.800 chilometri di distanza dal confine israeliano per colpire i porti di Hodeidah e Ras Issa, usati per il rifornimento di armi e petrolio. L'Iaf ha confermato di aver lanciato raid contro i siti utilizzati dal gruppo per scopi militari nel principale porto sul Mar Rosso e nel vicino terminal di Ras Issa. Quattro morti e feriti secondo le autorità locali. Preso di mira anche l'aeroporto internazionale di Hodeidah, dove i cargo degli ayatollah fanno arrivare carichi di armi. Gli stessi con cui gli Houthi da quasi un anno attaccano le navi commerciali in transito. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha sottolineato che "nessun posto è troppo lontano per Israele". E questo è il secondo attacco in Yemen, dopo che il 20 luglio, rispondendo a un drone lanciato su Tel Aviv, che aveva provocato una vittima, Tsahal aveva bombardato lo scalo portuale di Hodeidah che aveva provocato un incendio colossale. La rappresaglia di Benyamin Netanyahu nella giornata è continuata in Libano dove, dal 17 di questo mese, praticamente l'intera leadership di Hezbollah è stata 'eliminata'. L'Idf ha annunciato che nell'attacco di venerdì al quartier generale di Beirut del gruppo fondamentalista libanese oltre al leader del partito di Dio sono stati uccisi anche 20 comandanti, tra cui Ali Karaki, comandante del fronte meridionale, Ibrahim Hussein Jazini, capo della sicurezza personale di Nasrallah, il consigliere Samir Tawfiq Deeb, Abd al-Amir Muhammad Sablini, responsabile del rafforzamento delle forze militari, Ali Nayef Ayoub, capo della potenza di fuoco di Hezbollah. L'Idf ha pubblicato una mappa dell'area bombardata dove a soli 53 metri c'era una scuola gestita dalle Nazioni Unite. I media libanesi invece hanno mostrato il video con il recupero del cadavere di Nasrallah, 'intatto', tirato fuori dal cratere lasciato dalle bombe anti bunker dell'Idf. Non solo: nella notte tra sabato e domenica i caccia israeliani hanno di nuovo preso di mira la roccaforte sciita uccidendo Nabil Kawak, comandante dell'unità di sicurezza dei miliziani e membro del Consiglio centrale esecutivo. I piloti dell'Iaf hanno poi puntato il mirino sulla Siria, a Homs, dove hanno centrato, secondo il Centro di monitoraggio dei diritti umani, un veicolo con milizie irachene filo-iraniane. Sul fronte di Gaza un nuovo raid ha distrutto con missili di precisione un centro di comando di Hamas in una ex scuola nel nord della Striscia. Intanto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è tornato a mettere in guardia dalle "conseguenze pericolose" degli attacchi in Libano. E ha aggiunto: "Il regime israeliano non troverà mai pace e tranquillità". Alle minacce di Teheran hanno risposto indirettamente gli Usa con la loro posizione: "Il sostegno alla sicurezza di Israele è incrollabile e questo non cambierà", ha detto il portavoce della sicurezza nazionale John Kirby, ribadendo il diritto dell'alleato a difendersi "da attacchi quotidiani". "Biden e Netanyahu si conoscono da 40 anni, non sono d'accordo mai su nulla ma su una cosa concordano: la sicurezza di Israele", ha aggiunto. Intanto funzionari statunitensi hanno dichiarato ad Abc News che operazioni "su scala ridotta " dell'Idf in territorio libanese "potrebbero essere iniziate al confine con il Libano, o potrebbero essere sul punto di iniziare" per eliminare le posizioni di Hezbollah. Israele tuttavia sembra non aver preso ancora nessuna decisione su una eventuale invasione di terra. Ma se dovesse decidere di muovere le suo truppe oltreconfine, secondo gli Usa "la portata sarà probabilmente limitata".
(ANSA, 30 settembre 2024)
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”Continuate a colpirli”: l'ex prodigio del calcio iraniano Ali Karimi sfida il regime e sostiene Israele
Le sue dichiarazioni pro-israeliane manifestano le profonde divisioni all'interno della società iraniana.
Ali Karimi, leggenda del calcio iraniano, ha pubblicato un messaggio sui social network incoraggiando Israele a continuare i suoi attacchi in Libano. Questo tweet, pubblicato il 18 settembre 2024, segna una nuova tappa nell'impegno politico di Karimi contro il regime islamico di Téhéran.
“Continua a colpire Bibi, stai facendo un ottimo lavoro... spero che questo possa essere un rimedio per i cuori degli iraniani e dell’Iran”, ha scritto Karimi in persiano, accompagnando il suo messaggio con gli hashtag "#ÀVotreServiceNetanyahu" e "#BibiBut".
Non è la prima volta che l'ex centrocampista prende posizione contro la Repubblica islamica dell'Iran. Nell'aprile dello scorso anno, durante l'attacco iraniano a Israele, Karimi aveva già colpito l'opinione pubblica pubblicando un'immagine dei drappi israeliani e iraniani con il messaggio: "Noi siamo l'Iran, non siamo la Repubblica islamica".
La posizione di Karimi avviene in un contesto di crescenti tensioni tra Israele e Hezbollah libanese, sostenuto dall'Iran. Le sue dichiarazioni filo-israeliane, rare per una personalità iraniana della sua importanza, portano in luce le profonde divisioni all'interno della società iraniana e la forte contestazione del regime in corso. Ali Karimi, soprannominato il "Maradona asiatico" per le sue prodezze sul campo, ora usa la sua notorietà come arma politica. Il suo esplicito sostegno a Israele e la sua opposizione al governo iraniano ne fanno una figura di dissidenza, che riflette le aspirazioni di una parte della gioventù iraniana in cerca di cambiamento.
(i24, 29 settembre 2024)
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Hassan Nassrallah (1960-2024), fine di un terrorista
Hassan Nassrallah non c’è più. Il segretario generale di Hezbollah, la temibile milizia sciita libanese armata dall’Iran, è rimasto ucciso in uno dei bombardamenti israeliani di venerdì scorso su Dahieh, il sobborgo meridionale di Beirut, considerato una delle roccaforti del gruppo. Turbante nero degli autoproclamati discendenti del profeta Maometto, Nasrallah era assurto alla guida della milizia nel 1992 dopo che Israele aveva eliminato il suo predecessore Abbas al-Musawi. Immutate le consegne: muovere guerre e distruggere lo stato ebraico in linea con la visione iraniana di un Medio Oriente senza “l’entità sionista” e in cui il mondo sunnita si inchini agli sciiti. Ecco perché sotto la guida di Nasrallah, Hezbollah ha partecipato attivamente alla guerra civile in Siria sostenendo il presidente Bashar Assad, anche lui burattino dell’Iran, nel reprimere le proteste della maggioranza sunnita, massacrandola. Come riportato da tanti blogger indipendenti, nel mondo arabo sunnita l’eliminazione del feroce leader sciita è stata festeggiata nelle piazze. Pur vivendo quasi sempre nascosto, fra bunker e luoghi protetti per sfuggire al Mossad, Nasrallah è stato capace anche di rafforzare il coté politico di Hezbollah, facendo della milizia un partito libanese di primo piano capace di condizionare ogni scelta strategica del governo di Beirut e di eliminare con la forza chi si opponesse alla strategia sciita. È il caso questo come dell’ex premier libanese Rafiq Hariri rimasto ucciso il 14 febbraio del 2005 assieme ad altre 21 persone nell’esplosione della sua auto e di quelle della sua scorta sul lungomare di Beirut: per la sua morte tre hezbollah saranno condannati all’ergastolo nel 2022 (17 anni dopo).
Gli obiettivi di Hezbollah non sono solo Israele – l’ultimo conflitto aperto risale al 2006, sei anni dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano – e i sunniti ma anche gli ebrei in tutto il mondo. Era il 18 luglio del 2012 quando un attentatore suicida di Hezbollah uccise sei persone (cinque turisti israeliani e un bulgaro) ferendone altre 32 a Burgas, località balneare sul Mar Nero, in Bulgaria. Ed era il 18 luglio del 1994 quando 85 persone rimasero uccise e oltre 300 ferite per l’esplosione di un camioncino nei pressi degli uffici dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA) a Buenos Aires. Le indagini puntarono all’Iran quale mandante e a Hezbollah quale esecutore della strage. Il governo argentino ha catalogato Hezbollah come gruppo terrorista nel 2019. Il governo Usa lo aveva già fatto nel 1997. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito la morte di Nasrallah “una misura di giustizia per le sue numerose vittime tra cui migliaia di civili americani, israeliani e libanesi”. dan.mos.
(moked, 29 settembre 2024)
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Israele elimina Nasrallah. Chi era e come è stato ucciso il “padrone” del Libano e leader di Hezbollah
di Ugo Volli
• IL BOMBARDAMENTO
È confermato. Israele ha liquidato venerdì sera il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah con un pesantissimo bombardamento sul quartier generale del gruppo a Dahiyeh, nella periferia sud di Beirut. Con lui sono stati uccisi alcuni altri importanti dirigenti del gruppo terrorista fra cui il numero tre di Hezbollah Ali Karki, che era sfuggito a un bombardamento due giorni prima e il generale di brigata iraniano Abbas Nilfrushan, vicecomandante dei pasdaran e plenipotenziario dell’Iran in Libano e Siria. È il colpo più importante che Israele abbia inferto all’asse terrorista nell’intera guerra, ben maggiore dell’eliminazione del presidente del politburo di Hamas Haniyeh il 31 luglio scorso a Teheran, o delle altre numerose eliminazioni di capi terroristi di questi mesi. Nasrallah era infatti il più importante alleato dell’Iran, il più fidato e sperimentato, il vero padrone del Libano.
• LA DISARTICOLAZIONE DI HEZBOLLAH
Inoltre la sua eliminazione segue immediatamente a una serie di atti di guerra con cui Israele ha disarticolato completamente il vertice della più pericolosa organizzazione terroristica che deve affrontare. Prima, la mattina del 17 settembre in Libano e in Siria, migliaia di cercapersone in dotazione ai quadri di Hezbollah sono esplosi nel giro di pochissimo tempo; il giorno dopo l’azione è stata ripetuta con le radio portatili. Complessivamente sono morte molte decine di comandanti di Hamas e in migliaia sono stati messi fuori combattimento, perlopiù definitivamente. Poi, il 21 settembre, c’è stata l’eliminazione del capo di stato maggiore di Hezbollah, Ibrahim Aqil e di altri quattordici comandanti della forza d’élite del movimento, le “brigate Radwan”. Dopo sono venuti alcuni altri attacchi a capi militari di Hezbollah e ai suoi depositi di missili e di esplosivi, ma soprattutto è stata la volta di Nasrallah. I bombardamenti sono continuati mirando ad altre armi, in particolare i razzi antinave che avevano creato seri problemi alla marina israeliana già nel 2006, i depositi di droni e di missili guidati a lunga gittata.
• CHI ERA NASRALLAH
In questa serie molto concentrata ed efficace di attacchi, che ha almeno dimezzato l’armamento di Hezbollah, distrutto completamente il suo comando militare e i suoi sistemi di comunicazione, l’uccisione di Nasrallah ha un alto valore simbolico, ma anche un grande effetto pratico. Nasrallah aveva preso il comando di Hezbollah nel 1992, l’aveva trasformato da piccolo gruppo terrorista nel padrone del Libano e nella principale forza fra quelle alimentate e dirette dall’Iran, capace di intervenire in maniera decisiva nella guerra civile siriana e di costituire una minaccia serissima per Israele, coi suoi 80 mila uomini inquadrati e più di centomila missili. Era insieme il capo politico e militare indiscusso del gruppo, la sua guida religiosa, il principale interlocutore della “guida suprema” del mondo sciita, Alì Khamenei.
• UNA SCONFITTA DELL’IRAN
La durissima sconfitta di questi giorni mette a rischio l’intera strategia imperialistica dell’Iran. Dopo la distruzione delle forze armate di Hamas, che ormai può continuare a combattere Israele solo in forma di piccoli gruppi di guerriglia. La disarticolazione di Hezbollah distrugge decenni di investimenti economici e militari. Vi sono ancora risorse militari del gruppo libanese, migliaia di armi, missili e infrastrutture, che possono permettere al gruppo di infliggere ancora danni e costringere Israele a fare quel che Hezbollah si era preparato a fronteggiare come prima reazione, cioè un’operazione di terra. Ma soprattutto se le forze armate israeliane saranno lasciate operare senza essere bloccate da tregue imposte dagli americani, la capacità bellica del gruppo terrorista continuerà a diminuire. Tanto più che l’Iran ha commentato la morte dicendo che Hezbollah sta comunque vincendo, che Israele è troppo piccolo per minacciarla, insomma rifiutando di impegnarsi direttamente nella guerra. Tanto che quando Israele sabato mattina ha intimato all’aeroporto di Beirut di non lasciare atterrare un aereo di rifornimenti iraniani, questo ha invertito immediatamente la rotta e Iran Air ha annunciato di rinunciare a ogni collegamento col Libano.
• ISRAELE COLPISCE DA SOLO
Vale la pena di sottolineare due aspetti significativi dell’operazione “nuova forza” con cui Israele ha eliminato Nasrallah. La prima è che gli americani hanno dichiarato ufficialmente di non essere stati informati in precedenza e di non aver fornito intelligence a Israele. Non hanno dato neanche le molto richieste bombe antibunker con cui l’aviazione israeliana ha raggiunto il capo terrorista in un sotterraneo blindato sotto case di abitazione, secondo il solito stratagemma terrorista di usare i civili come scudi umani. Dunque Israele ha fatto tutto da sé, ha usato bombe di sua costruzione e informazioni procurate solo dal Mossad, com’è accaduto del resto anche negli altri attacchi dei giorni scorsi. C’è stato insomma un gesto di forte indipendenza. Israele probabilmente avrebbe potuto eliminare Nasrallah molte volte, avendo informazioni su tutti i movimenti della leadership di Hezbollah, come si è visto nei giorni scorsi. Ma ha deciso di farlo in questo momento nonostante le pressioni provenienti da Usa, Francia e altri Paesi, perché ritiene di dover passare ora all’offensiva, per non essere bloccato in una guerra di logoramento.
• IL DISCORSO DI NETANYAHU
Il secondo aspetto importante è che il bombardamento è avvenuto subito dopo il grande discorso all’assemblea generale dell’Onu pronunciato da Netanyahu, che aveva autorizzato il colpo prima di iniziare a parlare, forse direttamente dalla sede dell’Onu. Il discorso, come pure la discussione intorno a una tregua di 21 giorni promossa dall’amministrazione Biden, è servito dunque come copertura, per tener tranquillo Nasrallah quando gli aerei che l’avrebbero ucciso erano già in volo. Ma è stato anche un intervento alto e significativo, in cui Netanyahu ha chiarito a chi lo stava a sentire (pochi nell’aula dell’Onu abbandonata dai Paesi arabi, ma probabilmente molti nei ministeri degli stati coinvolti). Netanyahu, visibilmente emozionato tanto da commettere un paio di lapsus per lui inconsueti e prontamente corretti, ha quasi anticipato il colpo su Nasrallah, dichiarando a proposito di Hezbollah che “il troppo è troppo” e che “badate signori, noi stiamo vincendo”; ha riaffermato due volte enfaticamente la missione di liberare gli ostaggi (senza mai citare un cessate il fuoco) e poi quella di riportare gli israeliani sfollati a casa; ha motivato duramente la sua totale sfiducia nell’autorità palestinese, ha sostenuto con forza che Israele non combatte solo per sé ma per molti Paesi nel Medio Oriente e nel mondo, ha soprattutto confermato la propria visione della pace come frutto della vittoria di Israele e dell’accordo con gli arabi moderati, innanzitutto i sauditi: un programma politico del tutto diverso da quello dell’amministrazione Biden e dell’Unione Europea, ma che è stato certamente molto rafforzato dalla distruzione della forza dei movimenti terroristi e in particolare dell’eliminazione di Nasrallah. In una situazione normale, questa sarebbe la base dell’accordo che porrebbe fine alla guerra. Non è detto che sia così, perché ammettere la sconfitta sarebbe la fine dei movimenti terroristi e forse anche per la dirigenza iraniana. Bisogna prepararsi ad altri mesi di guerra, a colpi di coda con attacchi missilistici e terroristici. Ma la direzione della pace, come ha spiegato Netanyahu, è quella che usa la forza e l’autodifesa, non certo l’accondiscendenza all’aggressione che vorrebbero i democratici Usa e l’Europa.
(Shalom, 29 settembre 2024)
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Il ministero della Salute getta la spugna sulle sanzioni ai non vaccinati
Le sanzioni non sono mai state abolite: solo sospese. Così il dicastero della Salute invia a una renitente un atto con cui, «in autotutela», annulla anche per il futuro qualunque richiesta di soldi. Dopo anni vince il buonsenso.
di Francesco Carraro
Lo Stato italiano prende finalmente atto che la furibonda stagione degli obblighi vaccinali contro il Covid-19 ha rappresentato qualcosa di molto vicino a una persecuzione illegittima e a un «abuso di potere». Una convinzione che già è condivisa da milioni di italiani, ma che da oggi ha il supporto - anzi, addirittura la «certificazione» - dello Stato medesimo.
Lo dimostra la vicenda che andiamo a raccontarvi, per certi versi surreale, ai limiti del grottesco, ma anche consolante giacché rappresenta una sorta di pubblica abiura rispetto a una delle tante, troppe, degenerazioni dell'assolutismo vaccinale (di Stato) dell'era pandemica.
Protagonista della storia è un avvocato padovano, Elisa Pavanello, la quale - alla pari di moltissimi altri connazionali - ricevette, nel marzo 2022, una lettera del ministero della Salute e dell'Agenzia della riscossione. Con la medesima la si rendeva edotta di essere destinataria di un procedimento sanzionatorio in quanto renitente alla leva della vaccinazione coatta (introdotta dal governo Draghi nei confronti dei soggetti over 50). Nella missiva, si contestava alla legale patavina il fatto di non aver iniziato il ciclo vaccinale alla data del primo febbraio 2022 e le si intimava di adempiere entro dieci giorni, dando altrimenti prova della sussistenza di un valido motivo che giustificasse l'inottemperanza alle prescrizioni di legge. L'avvocato rispondeva, nei termini previsti, con una articolata missiva con cui si protestava tutta una serie di violazioni e irregolarità della ingiunzione ricevuta.
Per tutta risposta, nel febbraio del 2023, il ministero della Salute e l'Agenzia della
riscossione notificavano all'avvocato un avviso di addebito con il quale le irrogavano la sanzione amministrativa di 100 euro da pagare entro 60 giorni. L'avvocato proponeva ricorso avanti al giudice di Pace di Padova che, con sentenza del 13 luglio 2023, annullava l'avviso di addebito poiché, per effetto del dl 162 in vigore dal 31 dicembre 2022 - dalla stessa data e fino a giugno 2023 - dovevano intendersi sospese tutte le attività di irrogazione di sanzioni per soggetti inadempienti all'obbligo vaccinale. La sentenza, decorsi i termini per l'appello, passava in giudicato e, a questo punto, la diretta interessata pensava che la controversia potesse considerarsi conclusa. Ma invece non lo era del tutto perché la stessa riceveva, in data 18 settembre 2024, una comunicazione letteralmente (e per due volte) incredibile da parte del ministero della Salute.
Con tale informativa, il ministero comunica all'avvocato l'annullamento d'ufficio, in autotutela, dello stesso avviso di addebito che era già stato annullato, come visto, dal giudice di Pace. Il che già rappresenta un «non senso» sul piano giuridico. Ma veniamo alla motivazione del provvedimento ove si legge testualmente: «In seguito all'acquisizione di ulteriori informazioni da cui risulta insussistenza dell'inadempienza dell'obbligo vaccinale di cui all'art. 4 quater del decreto legge 44 del 2021, è disposto annullamento d'ufficio ai sensi di art. 21 nonies comma 1 della legge 241 del 1990». Ebbene, la norma da ultimo citata dal ministero è quella che consente alla pubblica amministrazione l'annullamento d'ufficio di atti viziati da violazione di legge o eccesso di potere. Ci troviamo, quindi, in presenza di una sostanziale ammissione (da parte dei vertici dello Stato) della illegittimità delle sanzioni. Infatti, il ministero non motiva l'annullamento facendo riferimento alla sentenza, ma alla «insussistenza dell'inadempienza dell'obbligo vaccinale».
Ma è un altro l'aspetto più succoso della vicenda che ci fa comprendere il peso e il valore specifico di un atto amministrativo che, in prima battuta, potrebbe sembrare inutile. Sempre nella missiva del 18 settembre 2024, si specifica pure che l'annullamento è dettato «in considerazione dell'interesse pubblico ad evitare un contenzioso e conseguente dispendio di risorse umane e finanziarie». Insomma, lo Stato non vuole buttare i soldi dei contribuenti in una battaglia persa. Tanto da aggiungere un solenne impegno: «Il procedimento sanzionatorio di cui trattasi non avrà alcun seguito e non sarà necessario, da parte dell'interessato, effettuare alcun pagamento».
A questo punto, bisogna guardare alle date: la sospensione del recupero delle sanzioni in questione risulta, ad oggi, prorogata fino al 31 dicembre 2024. Ergo, se non intervenisse la proroga di tale sospensione, in linea di principio nulla vieterebbe allo Stato di ricominciare, l'anno venturo, un'attività di recupero nei confronti della ricorrente (la quale si è vista annullare l'avviso di addebito solo perché la sanzione era, medio tempore, sospesa). E nulla impedirebbe di procedere con consimili attività nei confronti di cittadini che versino in una situazione analoga. Ma il ministero ha invece, e a tutti gli effetti, con la menzionata comunicazione, dichiarato di abdicare definitivamente a tale possibilità, quantomeno nei confronti della protagonista del caso in esame. Ci troviamo di fronte a un atto di resa dello Stato o, come minimo, di ammissione che gli obblighi di legge nei confronti degli over 50 sono, se non illegittimi tout court, quantomeno iniqui e destinati a sfociare in processi inutili e costosi per le casse pubbliche.
Possiamo concludere affermando che nel caso qui segnalato - ma ciò vale anche tutte le decine di migliaia di situazioni identiche pendenti in tutta Italia - lo Stato non solo non può (per il momento, in base a una sospensione ex lege), ma soprattutto non vuole procedere a recupero coattivo. E ciò per quella ragione non solo di forma (giuridica), ma anche di sostanza (politica) che è stata denunciata innumerevoli volte su queste pagine ed è compendiabile in sette parole: violazione di legge ed eccesso di potere. Più precisamente: violazione di legge costituzionale e intollerabile abuso di potere sulla base di presupposti (anche scientifici) rivelatisi, come noto, inesistenti. Che ora la Repubblica, attraverso il suo ministero di riferimento per materia, lo abbia nesso nero su bianco, lascia ben sperare per il futuro.
(La Verità, 29 settembre 2024)
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Maledirò chi ti diminuirà
Anche l’articolo che segue è presente da tempo sulle pagine del nostro sito, ma lo riproponiamo ora in questa forma come invito a riflettere sulla maledizione che si sta abbattendo su movimenti come Hamas e Hezbollah che maledicono Israele dichiarando apertamente, nelle parole e nei fatti, la loro intenzione di cancellare Israele come nazione dalla faccia della terra (Salmo 83). Chi si indigna per i morti e i danni provocati da Israele per difendere il suo concreto esistere (e non soltanto l’ideologico “diritto all’esistenza”) si pone di fatto dalla parte di coloro che agiscono per cancellarne l’esistenza. Stiano attenti coloro che anche soltanto a parole “diminuiscono” Israele ai loro occhi definendolo con ingiuste parole di disprezzo. La maledizione di Dio è una cosa tremendamente seria. E prima o poi colpisce.
di Marcello Cicchese
L'Eterno disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò quelli che ti malediranno. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3).
Questi tre versetti della Genesi possono essere considerati l'incipit di tutto il programma di redenzione di Dio. Soffermiamoci in particolare sulla frase:
"Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno".
Nell'originale ebraico, per indicare la benedizione in questo testo si usa sempre lo stesso verbo: ברך (barach), mentre per indicare la maledizione sono usati verbi diversi: il maledirò di Dio viene espresso con il verbo ארר (arar) mentre il malediranno degli uomini viene reso con il verbo קלל (qalal).
La cosa merita attenzione. Riportiamo allora i primi versetti della Bibbia in cui compare il verbo "arar".
Genesi 3:14 - Allora Dio il Signore disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.
Genesi 3:17 - Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall'albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.
Genesi 4:11 - Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano.
Come si vede, sono tre devastanti maledizioni con cui Dio colpisce, nell'ordine, il serpente, la terra e l'omicida.
Riportiamo poi i primi due versetti della Bibbia in cui compare il verbo "qalal".
Genesi 8:8 - Poi mandò fuori la colomba per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
Genesi 8:11 - E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo. Così Noè capì che le acque erano diminuite sopra la terra.
Il verbo "qalal" qui viene tradotto con l'italiano diminuire, che in questo contesto non ha alcun sinistro significato morale ma indica soltanto l'abbassamento del livello dell'acqua.
In senso morale invece il verbo viene usato poco più avanti per rappresentare l'atteggiamento di Agar verso Sara dopo il concepimento di Ismaele:
Genesi 16:4 - Egli [Abramo] andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di
essere incinta, guardò con disprezzo la sua padrona.
L'espressione "guardò con disprezzo la sua padrona" vuol rendere il senso di una traduzione che letteralmente sarebbe "fu diminuita ai suoi occhi la sua padrona". La serva in un certo senso "diminuì" la sua padrona perché cominciò a guardarla dall'alto in basso. Le parti si erano invertite: prima la padrona stava in alto e lei in basso, adesso la padrona sta in basso e lei sta in alto. E tutto questo senza che nulla sia cambiato nei fatti, ma soltanto "ai suoi occhi". La fertile serva egiziana cominciò a guardare la sterile padrona ebrea con disprezzo, o forse soltanto con compatimento, che è la stessa cosa in forma diversa.
E' chiaro che con femminile intuito Sara non ci mise molto a capirlo. Conosciamo il seguito della storia: Sara va dal marito e gli dice che da quando Agar si è accorta di essere incinta, "io sono diminuita ai suoi occhi". E poiché la cosa non è sopportabile, invoca il giudizio dell'Eterno. Cosa che poi avviene, come si trova scritto nel seguito del racconto.
Il testo in questione di Genesi 12 potrebbe allora essere tradotto così, rispettando la figura retorica del chiasmo usata nell'originale:
Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti diminuiranno io maledirò.
Applicando queste parole al popolo d'Israele, discendenza etnica di Abramo, se ne deduce che per cadere sotto la tremenda maledizione di Dio (arar) non è necessario essere antisemiti militanti: è sufficiente diminuire (qalal) Israele ai propri occhi. Basta tenere nei confronti di Israele un atteggiamento simile a quello di Agar verso Sara: un intimo senso di superiorità, un latente disprezzo che può assumere forma di compatimento quando le cose gli vanno troppo male, un'avversione inespressa che emerge soltanto in occasioni particolarmente vistose, un disinteresse totale che si trasforma in antipatia quando viene disturbato e provoca lo sbuffo: "ma sempre questi ebrei, proprio non se ne può più!"
Nella maggior parte dei casi la maledizione di Dio non è percepita come tale, anche perché può avere diverse gradazioni di intensità e di tempi che la rendono irriconoscibile agli occhi di chi non è attento alle vie di Dio. Ma è tremendamente reale, perché Dio è una Persona seria: quello che dice, lo fa. Non è come i nostri governanti.
Le cose non cambiano in ambienti genericamente cristiani. "Diminuire" Israele ai propri occhi con una varietà di argomenti che si presentano come biblici è un fatto che avviene con naturalezza anche tra evangelici, ed esprime quella superbia da cui l'apostolo Paolo (Romani 11:13-32) vuole mettere in guardia i gentili che per grazia di Dio arrivano a credere nel Messia d'Israele come loro Signore e Salvatore. E se la superbia non è riconosciuta come tale, allora non si è più in grado di riconoscere che i tanti problemi che affliggono singoli e comunità possono essere aggravati dalla mancanza di una benedizione che avrebbe dovuto esserci, ma non c'è.
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(Notizie su Israele)
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Nasrallah è morto! Finalmente!
L'esercito israeliano ha annunciato ufficialmente la morte del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah oggi, Shabbat. E questo viene festeggiato in Israele - anche noi abbiamo brindato con un bicchiere di vino a tavola di Shabbat ieri sera, Le'Chaim!
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Poco dopo che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha terminato il suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, la situazione è esplosa a Beirut. Nessuno dei media mondiali si è concentrato sul discorso e sulla retorica di Netanyahu alle nazioni. Tutto era concentrato sulla roccaforte del terrorismo sciita di Dahieh a Beirut. L'area sotto la quale il centro di comando della milizia del terrore sciita si era trincerato in bunker sotterranei sembrava essere stata colpita da un meteorite. Poi è stata diffusa la foto che mostrava Netanyahu al telefono da qualche parte nell'edificio delle Nazioni Unite in territorio americano, dando il via libera al bombardamento di Hassan Nasrallah. Già durante il suo discorso alle nazioni, nella sua testa fluttuava il pensiero che in pochi minuti o ore Hassan Nasrallah sarebbe scomparso da questa terra e sarebbe stato mandato all'inferno. È possibile che a causa di ciò scoppi una guerra su più fronti. L'Iran vede anche quello che è successo ad Hamas ed Hezbollah dal 7 ottobre. È troppo presto per negoziare con il nemico. Solo quando imploreranno di negoziare, non prima. Fino ad allora, Israele deve continuare a colpire. Infine, l'apparato di sicurezza israeliano sta operando come il popolo voleva fin dall'inizio. Non reagire, colpire. Poche settimane dopo l'attacco del 7 ottobre nel sud del Paese, il leader di Hezbollah Nasrallah dichiarò nel suo primo discorso pubblico che l'attacco dimostrava che Israele era "più debole di una tela di ragno". La ragnatela è elastica, è sopravvissuta a quasi dodici sanguinosi mesi di guerra e ha dato una bella lezione a Hamas e Hezbollah. Solo insieme possiamo vincere. E i nostri nemici fantasticano che Israele sia debole come una ragnatela a causa della divisione della società israeliana. Non è l'entità sionista che scomparirà presto, come Nasrallah ha spesso sottolineato nei suoi discorsi. Sembra che lui e tutto il suo gruppo dirigente siano scomparsi una volta per tutte. Nel suo discorso alle nazioni, Netanyahu ha ricordato al mondo ciò che aveva detto l'anno scorso davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, pochi giorni prima del 7 ottobre. "L'anno scorso ho detto che oggi ci troviamo di fronte alla stessa decisione che Mosè prese migliaia di anni fa. Egli disse allora che i nostri passi determineranno se lasceremo una benedizione o una maledizione per le generazioni future - e questa è la scelta che abbiamo di fronte oggi. La maledizione dell'Iran o la benedizione di una storica riconciliazione tra arabi ed ebrei. Dopo questo discorso, la benedizione sembrava più vicina che mai - ma poi è arrivata la maledizione del 7 ottobre". Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, non è un leader qualsiasi di un'organizzazione terroristica e la sua eliminazione non è paragonabile all'uccisione di un membro di spicco del braccio militare di Hamas o di Hezbollah. La sua morte è un enorme terremoto in Medio Oriente e nell'intero mondo del terrore, la cui portata è attualmente difficile da valutare. Per Hezbollah si tratta di una perdita senza precedenti, in quanto la figura più importante dell'organizzazione dalla sua fondazione è scomparsa. È una perdita senza precedenti anche per l'Iran, che vede scomparire il suo agente più importante al di fuori dei confini iraniani. Ed è un duro colpo per tutte le organizzazioni terroristiche, che fino a ieri vedevano in Nasrallah l'uomo in grado di sconfiggere Israele e ridurlo a una "ragnatela". In Occidente, i politici si grattano la testa e pensano che Israele sia impazzito. Josep Borrell, ministro degli Esteri dell'Unione Europea, ha dichiarato dopo gli attacchi israeliani a Dahieh, Beirut: "Stiamo esercitando tutte le pressioni diplomatiche per ottenere un cessate il fuoco, ma sembra che nessuno possa fermare Netanyahu". È vero, Israele sta impazzendo. Qui da noi si dice: "Il padrone di casa sta impazzendo". Finalmente. Ma non è Netanyahu che deve essere fermato, Israele deve essere fermato. Ma Israele non vuole e non può fermarsi ora. Finalmente Netanyahu sta reagendo come la stragrande maggioranza del popolo aveva immaginato. Il nemico va battuto senza pietà. I governi occidentali non capiscono quale favore abbia fatto Israele all'Occidente combattendo le milizie terroristiche islamiche come Hezbollah e Hamas. Ciò che il governo statunitense a Washington teme è che la guerra di Israele in Medio Oriente rovini le prossime elezioni di Kamala Harris e dei Democratici. Tutto il resto è secondario. Il fatto che 70.000 israeliani siano stati sfollati dal nord per un anno non è affatto un problema per i governi occidentali. Credono ancora che la diplomazia possa risolvere tutto. È sbagliato. La guerra è uno strumento di diplomazia e Israele deve continuarla. Negoziati durante la guerra, non durante il cessate il fuoco. È inutile. Può andare bene ai francesi e all'UE e aiutare Hezbollah e Hamas, ma non Israele. L'Occidente e l'UE non capiscono nemmeno la differenza tra Israele e Hezbollah, tra il bene e il male, tra la benedizione e la maledizione. A volte è meglio tacere che dire sciocchezze, e non bisogna essere invidiosi di chi ha il coraggio di combattere il terrore islamico. In Libano e in Siria, musulmani, sunniti, ma anche cristiani e drusi stanno festeggiando l'eliminazione di Nasrallah in Libano da parte di Israele. Lo abbiamo mostrato sul nostro canale Telegram per tutta la notte. Nasrallah era più di un terrorista. È stato un pioniere della politica, del terrorismo e del legame tra i due. A soli 32 anni è stato inaspettatamente nominato Segretario Generale della milizia terroristica, succedendo ad Abbas al-Musawi, anch'egli ucciso da Israele nel 1992. In breve tempo divenne un astro nascente nei cieli del terrorismo internazionale, ma anche sulla mappa politica dell'intero mondo arabo e musulmano, in particolare del Libano. Hezbollah ha distrutto l'armonia in Libano e ha fatto sprofondare il Paese dei Cedri in un abisso politico ed economico negli ultimi 30 anni, proprio come aveva fatto l'OLP sotto il suo leader Yasser Arafat negli anni '70 fino all'invasione israeliana del 1982. Per fermare gli attacchi missilistici, allora erano razzi Katyusha, e cacciare l'OLP dal Libano. Lo stesso scenario si è ora ripetuto. Per molti versi, Nasrallah è riuscito a cambiare la regione, soprattutto il volto del Libano. Sotto la sua guida, Hezbollah si è trasformato da una piccola milizia isolata in un impero militare con influenza sulle forze in Siria, ma anche in Yemen e in Iraq. La guerra civile siriana del 2011 ha spinto Nasrallah a prendere una decisione drammatica: ha inviato truppe per salvare Bashar al-Assad. I suoi combattenti hanno combattuto su tutti i fronti, sia contro i jihadisti dell'IS che contro l'opposizione moderata siriana. Hezbollah ha iniziato a operare anche in Yemen, Iraq, Bahrein e in tutto il mondo. Sotto Nasrallah, Hezbollah è diventato uno dei più grandi cartelli della droga al mondo e ha istituito il cosiddetto narco-terrorismo, ovvero il traffico di droga per finanziare attacchi terroristici. Nasrallah ha diffuso tra molti musulmani di tutto il mondo l'idea che Israele fosse debole come una tela di ragno. Ma l'arroganza di Nasrallah è diventata la sua trappola. Nell'ultimo anno ha commesso un errore dopo l'altro e non ha saputo leggere correttamente la mappa politica. L'errore più grave è stata la sua solidarietà con Hamas e la decisione di attaccare Israele l'8 ottobre 2023. Nasrallah era convinto che Israele fosse troppo debole e diviso per osare lanciare un attacco massiccio contro Hezbollah. Ora sta pagando il prezzo della sua arroganza. In conclusione, ci troviamo davvero di fronte a tempi drammatici ed emozionanti, ma Israele non ha altra scelta che eliminare o almeno ridurre drasticamente la minaccia terroristica e missilistica a sud e a nord una volta per tutte. Un attacco ripetuto dell'Iran stesso contro Israele è possibile, ma non inevitabile. Israele sa che potrebbe scoppiare una guerra. Il problema più grande è l'Occidente, che vuole impedire a Israele di farlo e minaccia di imporre un embargo sulle armi. Anche se l'Occidente non è d'accordo con la guerra di Israele al terrorismo e all'Iran, non dovrebbe almeno impedire a Israele di distruggere le milizie terroristiche. Dopo tutto, questo è nell'interesse di tutte le persone che vogliono vivere in libertà. Ma se non si sa scegliere tra Israele e Hezbollah, non si sa scegliere tra benedizione e maledizione. Netzach Israel lo Jeschaker - L'eternità di Israele non mente!
(Israel Heute, 28 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La fine del capo terrorista che trasformò una banda di terroristi libanesi in una potenza jihadista al servizio dell’Iran
Nasrallah convinse innumerevoli musulmani di tutto il mondo che Israele fosse debole “come una ragnatela” e potesse essere facilmente sconfitto: una tracotanza che gli si è ritorta contro
Hassan Nasrallah non era un capo terrorista come un altro e la sua eliminazione potrebbe avere ripercussioni in tutto il Medio Oriente, di cui al momento non è possibile stimare la portata.
L’uscita di scena di Nasrallah rappresenta una perdita senza precedenti per Hezbollah e una perdita senza precedenti per l’Iran, in quanto era la sua risorsa più preziosa al di fuori dei suoi confini.
Nasrallah era molto più di un terrorista. Si era fatto strada nella politica ed era riuscito a collegarla al suo terrorismo.
Divenne il capo di Hezbollah a soli 32 anni, dopo che nel 1992 Israele aveva eliminato Abbas Musawi (che deteneva ostaggi israeliani), e divenne rapidamente un astro nascente del terrorismo globale, ma anche della politica nel mondo arabo e musulmano.
Nasrallah è riuscito a cambiare il Libano e l’intera regione, trasformando Hezbollah da una banda di terroristi in un impero militare con forze in Siria, Iraq e Yemen.
Rimuovendo molti membri veterani del suo gruppo terroristico, spianò la strada per diventare parte della politica libanese. Hezbollah si presentò per la prima volta alle elezioni nell’agosto del 1992 e ottenne otto seggi nel parlamento di Beirut, diventando così un partito politico “legittimo” pur continuando a essere una milizia armata.
Dopo quelle elezioni, Hezbollah divenne la principale organizzazione sciita e la più grande fazione religiosa del Libano. Nasrallah guadagnò popolarità anche perché, a differenza di altri politici libanesi, non appariva alla ricerca di ricchezza e vantaggi personali.
Hezbollah crebbe in forza a tal punto che il Libano non è stato più in grado di nominare un presidente o un primo ministro senza l’approvazione del gruppo. Persino il capo di stato maggiore libanese, tradizionalmente un membro della comunità cristiana, non poteva essere nominato senza il consenso di Nasrallah.
Il ritiro di Israele dal Libano meridionale nel 2000 e la seconda guerra in Libano del 2006 trasformarono Nasrallah in una figura mitica, ammirata non solo tra i musulmani sciiti. Era visto, in particolare agli occhi dell’Iran, come colui che era in grado di sconfiggere Israele.
Il Consiglio musulmano che doveva decidere le politiche del gruppo jihadista non era altro che un gruppo di fedeli fan, molti dei quali erano parenti e amici intimi.
Nasrallah ha anche fondato dei mass-media per veicolare il messaggio del gruppo terroristico e guadagnare consensi. Ha sempre cercato di presentarsi come un patriota libanese, sebbene fosse innanzitutto un braccio armato rigorosamente fedele al regime iraniano, facendo del Libano un prolungamento dell’Iran.
I suoi nemici venivano rapidamente eliminati, incluso l’ex primo ministro libanese Rafiq al-Hariri, assassinato nel 2005 dalla Siria con l’aiuto di agenti di Hezbollah.
Quando scoppiò la guerra civile siriana nel 2011, Nasrallah inviò ingenti forze per supportare la feroce repressione del regime del dittatore alawita Assad. Le sue truppe hanno combattuto a fianco delle forze governative su tutti i fronti, sia contro l’opposizione siriana che contro l’ISIS (sunnita). Poi ha inviato truppe in Yemen, Iraq e Bahrein.
Sotto Nasrallah, per finanziare il proprio terrorismo, Hezbollah è diventato anche un impero del narcotraffico, portando alla nascita del termine narcoterrorismo.
Ma l’ossessione principale di Nasrallah è sempre stata la distruzione dello stato ebraico. Fu lui ad instillare nella testa di innumerevoli musulmani di tutto il mondo l’idea che Israele fosse debole “come una ragnatela” e potesse essere facilmente sconfitto.
Questa tracotanza gli si è ritorta contro. Ha commesso errori, in particolare con la decisione di legarsi a Hamas nella guerra scatenata il 7 ottobre contro Israele e di avviare sin dal giorno successivo una serie ininterrotta di attacchi.
Credeva – erroneamente – che Israele fosse ormai troppo debole per attaccare le sue forze in Libano in modo significativo: una convinzione che ha pagato con la vita, dopo aver procurato danni e sofferenze al Libano.
Non sarà facile per l’Iran sostituire una figura carismatica e centralista, da lungo tempo a capo del gruppo terrorista Hezbollah, del Libano e del terrorismo jihadista globale.
(YnetNews, israele.net, 28 settembre 2024)
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“Il popolo d’Israele vive ora, domani, per sempre”: il discorso di Netanyahu all’ONU
Il discorso che il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha tenuto all’ONU.
“Signor Presidente, signore e signori, non avevo intenzione di venire qui quest’anno. Il mio Paese è in guerra, sta lottando per la sua sopravvivenza, ma dopo aver ascoltato le bugie e le diffamazioni rivolte al mio Paese da molti degli oratori su questo podio, ho deciso di venire qui e di mettere le cose in chiaro. Ho deciso di venire qui per parlare a nome del mio popolo. Per parlare per il mio paese, per parlare per la verità. Ed ecco la verità: Israele cerca la pace. Israele anela alla pace. Israele ha fatto la pace e farà di nuovo la pace. Eppure affrontiamo nemici selvaggi che cercano il nostro annientamento, e dobbiamo difenderci da loro. Questi assassini selvaggi, i nostri nemici, non cercano solo di distruggerci, ma cercano di distruggere la nostra civiltà comune e riportarci tutti a un’epoca oscura di tirannia e di terrore. Quando ho parlato qui l’anno scorso, ho detto che ci troviamo di fronte alla stessa scelta senza tempo che Mosè pose di fronte al popolo di Israele migliaia di anni fa quando stavamo per entrare nella Terra Promessa. Mosè ci disse che le nostre azioni avrebbero determinato se avremmo lasciato in eredità alle generazioni future una benedizione o una maledizione. Ed è questa la scelta che ci troviamo di fronte oggi: la maledizione dell’aggressione incessante dell’Iran o la benedizione di una riconciliazione storica tra arabi ed ebrei. Nei giorni successivi a quel discorso, la benedizione di cui parlavo è diventata più nitida. Un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele sembrava più vicino che mai. Ma poi è arrivata la maledizione del 7 ottobre. Migliaia di terroristi di Hamas sostenuti dall’Iran e provenienti da Gaza hanno fatto irruzione in Israele a bordo di pick-up e motociclette e hanno commesso atrocità inimmaginabili. Hanno brutalmente assassinato 1.200 persone. Hanno violentato e mutilato donne. Hanno decapitato uomini. Hanno bruciato vivi bambini. Hanno bruciato vive intere famiglie: neonati, bambini, genitori, nonni, in scene che ricordano l’Olocausto nazista. Hamas ha rapito 251 persone da decine di paesi diversi, trascinandole nelle segrete di Gaza. Israele ha riportato a casa 154 di questi ostaggi, tra cui 117 che sono tornati vivi. Voglio assicurarvi che non ci fermeremo finché anche gli ostaggi rimasti non saranno riportati a casa, e alcuni dei loro familiari sono qui con noi oggi. Vi chiedo di alzarvi in piedi. Con noi c’è Eli Shtivi, il cui figlio Idan è stato rapito dal festival musicale Nova. Quello è stato il suo crimine: un festival musicale. E questi mostri assassini lo hanno preso. Koby Samerano, il cui figlio Jonathan è stato assassinato e il suo cadavere è stato portato nelle segrete, nei tunnel del terrore di Gaza: un cadavere tenuto in ostaggio. Salem Alatrash, il cui fratello Mohammad, un coraggioso soldato arabo israeliano, è stato assassinato. Anche il suo corpo è stato portato a Gaza. E così è stato per il corpo della figlia di Ifat Haiman, Inbar, che è stata brutalmente assassinata durante quello stesso festival musicale. Con noi c’è Sharon Sharabi, il cui fratello Yossi è stato assassinato, e che prega per il fratello maggiore Eli, che è ancora tenuto in ostaggio a Gaza. E con noi c’è anche Yizhar Lifshitz del Kibbutz Nir Oz, un kibbutz che è stato spazzato via dai terroristi. Fortunatamente, siamo riusciti a liberare sua madre, Yocheved, ma suo padre, Oded, sta ancora languendo nell’inferno terroristico sotterraneo di Hamas. Vi prometto ancora una volta che riporteremo a casa i vostri cari. Non risparmieremo questo sforzo finché questa sacra missione non sarà compiuta. Signore e signori, la maledizione del 7 ottobre è iniziata quando Hamas ha invaso Israele da Gaza, ma non è finita lì. Israele è stato presto costretto a difendersi su altri sei fronti di guerra organizzati dall’Iran. L’8 ottobre, Hezbollah ci ha attaccato dal Libano. Da allora, ha lanciato oltre 8.000 razzi contro le nostre città e i nostri paesi, contro i nostri civili, contro i nostri bambini. Due settimane dopo, gli Houthi sostenuti dall’Iran nello Yemen hanno lanciato droni e missili contro Israele, il primo di 250 attacchi di questo tipo, tra cui uno ieri diretto a Tel Aviv. Anche le milizie sciite iraniane in Siria e Iraq hanno preso di mira Israele decine di volte nell’ultimo anno. Alimentati dall’Iran, i terroristi palestinesi in Giudea e Samaria hanno perpetrato decine di attacchi lì e in tutto Israele. E lo scorso aprile, per la prima volta in assoluto, l’Iran ha attaccato direttamente Israele dal suo stesso territorio lanciando contro 300 droni, missili da crociera e missili balistici. Ho un messaggio per i tiranni di Teheran: se ci colpite, vi colpiremo. Non c’è posto, non c’è luogo in Iran che il lungo braccio di Israele non possa raggiungere. E questo vale per tutto il Medio Oriente. Lungi dall’essere agnelli condotti al macello, i soldati di Israele hanno reagito con incredibile coraggio e con sacrificio eroico. E ho un altro messaggio per questa assemblea e per il mondo fuori da questa sala: stiamo vincendo. Signore e signori, mentre Israele si difende dall’Iran in questa guerra su sette fronti, le linee che separano la benedizione dalla maledizione non potrebbero essere più chiare. Questa è la mappa che ho presentato qui l’anno scorso. È una mappa di una benedizione. Mostra Israele e i suoi partner arabi che formano un ponte di terra che collega Asia ed Europa. Tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo, attraverso questo ponte, poseremo linee ferroviarie, condotte energetiche e cavi in fibra ottica, e questo gioverà a 2 miliardi di persone. Ora guardate questa seconda mappa. È la mappa di una maledizione. È una mappa di un arco di terrore che l’Iran ha creato e imposto dall’Oceano Indiano al Mediterraneo. L’arco maligno dell’Iran ha bloccato le vie marittime internazionali. Interrompe il commercio, distrugge le nazioni dall’interno e infligge miseria a milioni di persone. Da un lato, una luminosa benedizione: un futuro di speranza. Dall’altro, un oscuro futuro di disperazione. E se pensate che questa mappa oscura sia solo una maledizione per Israele, allora dovreste ricredervi. Ecco perché finanzia reti terroristiche in cinque continenti. Ecco perché costruisce missili balistici per testate nucleari per minacciare il mondo intero. Per troppo tempo, il mondo ha placato l’Iran. Ha chiuso un occhio sulla sua repressione interna. Ha chiuso un occhio sulla sua aggressione esterna. Bene, questa pacificazione deve terminare. E deve terminare adesso. Le nazioni del mondo dovrebbero sostenere il coraggioso popolo iraniano che vuole liberarsi di questo regime malvagio. I governi responsabili non dovrebbero solo sostenere Israele nel respingere l’aggressione iraniana, ma dovrebbero unirsi a Israele. Dovrebbero unirsi a Israele nel fermare il programma di armi nucleari dell’Iran. In questo organismo e nel Consiglio di sicurezza, avremo una deliberazione tra qualche mese. E invito il Consiglio di sicurezza a ripristinare le sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro l’Iran perché dobbiamo fare tutti ciò che è in nostro potere per garantire che l’Iran non ottenga mai armi nucleari. Per decenni, ho messo in guardia il mondo contro il programma nucleare iraniano. Le nostre azioni hanno ritardato questo programma di forse un decennio, ma non l’abbiamo fermato. L’abbiamo ritardato, ma non l’abbiamo fermato. L’Iran ora cerca di trasformare il suo programma nucleare in un’arma. Per il bene della pace e della sicurezza di tutti i vostri paesi non dobbiamo permettere che ciò accada, e vi assicuro che Israele farà tutto ciò che è in suo potere per assicurarsi che ciò non accada. Quindi, signore e signori, la domanda che ci si pone è semplice: quale di queste due mappe che vi ho mostrato plasmerà il nostro futuro? Saranno le benedizioni di pace e prosperità per Israele, i nostri partner arabi e il resto del mondo? O sarà la maledizione con cui l’Iran e i suoi delegati spargono carneficina e caos ovunque? Israele ha già fatto la sua scelta. Abbiamo deciso di promuovere la benedizione. Stiamo costruendo una partnership per la pace con i nostri vicini arabi mentre combattiamo le forze del terrore che minacciano quella pace. Per quasi un anno, i coraggiosi uomini e donne dell’IDF hanno sistematicamente annientato l’esercito terroristico di Hamas che un tempo governava Gaza. Il 7 ottobre, il giorno di quell’invasione in Israele, quell’esercito terroristico contava quasi 40.000 terroristi. Era armato con più di 15.000 razzi. Aveva 350 miglia di tunnel terroristici, una rete sotterranea più grande della metropolitana di New York, che usavano per scatenare il caos sopra e sotto terra. Un anno dopo, l’IDF ha ucciso o catturato più della metà di questi terroristi, distrutto oltre il 90% del loro arsenale di razzi ed eliminato i segmenti chiave della loro rete di tunnel terroristici. In operazioni militari misurate, abbiamo distrutto quasi tutti i battaglioni terroristici di Hamas, 23 su 24. Ora, per completare la nostra vittoria, ci concentriamo sul ripulire le capacità residuali di combattimento di Hamas. Stiamo eliminando i comandanti terroristi di alto rango e distruggendo le infrastrutture terroristiche rimanenti. Ma nel frattempo restiamo concentrati sulla nostra sacra missione: riportare a casa i nostri ostaggi, e non ci fermeremo finché questa missione non sarà portata a termine. Ora, signore e signori, anche con la capacità militare notevolmente ridotta di Hamas, i terroristi esercitano ancora un certo potere di governo a Gaza rubando il cibo che noi permettiamo alle agenzie umanitarie di portare a Gaza. Hamas ruba il cibo, e poi alza i prezzi. Si nutre la pancia, e poi riempie le sue casse con i soldi che estorce alla sua stessa gente. Vendono il cibo rubato a prezzi esorbitanti, ed è così che restano al potere. Bene, anche questo deve finire, e stiamo lavorando per porvi termine, e la ragione è semplice: perché se Hamas resta al potere, si riorganizzerà, si riarmerà e attaccherà Israele ancora e ancora e ancora, come ha giurato di fare. Quindi, Hamas deve andarsene. Immaginate, per coloro che dicono che Hamas deve restare, deve far parte di una Gaza postbellica: immaginate, in una situazione postbellica dopo la Seconda guerra mondiale, avere permesso ai nazisti sconfitti nel 1945 di ricostruire la Germania? È inconcepibile. È ridicolo. Non è successo allora e non succederà ora. Ecco perché Israele rifiuterà qualsiasi ruolo per Hamas in una Gaza post-bellica. Non cerchiamo di ricollocare insediamenti a Gaza. Ciò che cerchiamo è una Gaza smilitarizzata e de-radicalizzata. Solo allora potremo garantire che questo round di combattimenti sarà l’ultimo round. Siamo pronti a collaborare con partner regionali e di altro tipo per sostenere un’amministrazione civile locale a Gaza, impegnata nella coesistenza pacifica. Quanto agli ostaggi, ho un messaggio per i rapitori di Hamas: lasciateli andare. Lasciateli andare. Tutti quanti. Quelli vivi oggi devono essere restituiti vivi, e i resti di coloro che avete brutalmente ucciso devono essere restituiti alle loro famiglie. Quelle famiglie qui con noi oggi e altre in Israele meritano di avere un luogo di riposo per i loro cari. Un luogo dove possano piangere e ricordarli. Signore e signori, questa guerra può finire adesso. Tutto ciò che deve accadere è che Hamas si arrenda, deponga le armi e rilasci tutti gli ostaggi. Ma se non lo faranno, combatteremo finché non otterremo la vittoria. Vittoria totale. Non c’è sostituto per essa. Israele deve anche sconfiggere Hezbollah in Libano. Hezbollah è l’organizzazione terroristica per eccellenza nel mondo odierno. Ha tentacoli che abbracciano tutti i continenti. Ha assassinato più americani e più francesi di qualsiasi altro gruppo, eccetto Bin Laden. Ha assassinato i cittadini di molti paesi rappresentati in questa sala. E ha attaccato Israele in modo feroce negli ultimi 20 anni. L’anno scorso, senza alcuna provocazione, un giorno dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre, Hezbollah ha iniziato ad attaccare Israele, costringendo più di 60.000 israeliani al nostro confine settentrionale ad abbandonare le loro case, diventando rifugiati nella loro stessa terra. Hezbollah ha trasformato città vivaci nel nord di Israele in città fantasma. Quindi voglio che pensiate a questo in termini equivalenti in merito agli Stati Uniti. Immaginate se i terroristi trasformassero El Paso e San Diego in città fantasma. Poi chiedetevi: per quanto tempo il governo americano tollererebbe una cosa del genere? Un giorno, una settimana, un mese? Dubito che lo tollererebbero anche solo per un giorno, eppure Israele ha tollerato questa situazione intollerabile da quasi un anno. Bene, sono venuto qui oggi per dire basta. Non ci fermeremo finché i nostri cittadini non potranno tornare sani e salvi alle loro case. Non accetteremo un esercito terroristico appollaiato sul nostro confine settentrionale, in grado di perpetrare un altro eccidio in stile 7 ottobre. Per 18 anni, Hezbollah si è rifiutato sfacciatamente di implementare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che richiede di spostare le sue forze lontano dai nostri confini. Invece, Hezbollah si è spostato fino al nostro confine. Hanno segretamente scavato tunnel del terrore per infiltrarsi nelle nostre comunità e hanno sparato indiscriminatamente migliaia di razzi nelle nostre città e nei nostri villaggi. Non lanciano questi razzi e missili da siti militari, fanno anche questo, ma li lanciano dopo averli piazzati nelle scuole, negli ospedali, nei condomini e nelle case private dei cittadini del Libano. Mettono in pericolo la loro stessa gente, mettono un missile in ogni cucina, un razzo in ogni garage. Ho detto al popolo del Libano questa settimana: uscite dalla trappola mortale in cui vi ha cacciato Hezbollah. Non lasciate che Nasrallah trascini il Libano nell’abisso. Non siamo in guerra con voi. Siamo in guerra con Hezbollah, che ha sequestrato il vostro paese e minaccia di distruggere il nostro. Finché Hezbollah sceglierà la via della guerra, Israele non avrà scelta. E Israele ha tutto il diritto di rimuovere questa minaccia e di riportare i nostri cittadini alle loro case in sicurezza, ed è esattamente ciò che stiamo facendo. Proprio questa settimana, l’IDF ha distrutto grandi percentuali di razzi di Hezbollah, che sono stati costruiti con i finanziamenti dell’Iran per tre decenni. Abbiamo eliminato comandanti militari di alto rango che non solo hanno versato sangue israeliano, ma anche americano e francese. E poi abbiamo eliminato i loro sostituti. E poi i sostituti dei loro sostituti. E continueremo a degradare Hezbollah finché tutti i nostri obiettivi non saranno raggiunti. Signore e signori, ci impegniamo a rimuovere la maledizione del terrorismo che minaccia tutte le società civili. Ma per realizzare davvero la benedizione di un nuovo Medio Oriente, dobbiamo continuare il percorso che abbiamo spianato con gli Accordi di Abramo quattro anni fa. Soprattutto, questo significa raggiungere uno storico accordo di pace tra Israele e l’Arabia Saudita. E dopo avere visto le benedizioni che abbiamo già portato con gli Accordi di Abramo, i milioni di israeliani che hanno già volato avanti e indietro attraverso la penisola arabica sopra i cieli dell’Arabia Saudita verso i paesi del Golfo, il commercio, il turismo, le joint venture, la pace, vi dico, quali benedizioni porterebbe una tale pace con l’Arabia Saudita. Sarebbe una manna per la sicurezza e l’economia dei nostri due Paesi. Incrementerebbe il commercio e il turismo in tutta la regione. Aiuterebbe a trasformare il Medio Oriente in un colosso globale. I nostri due Paesi potrebbero cooperare su energia, acqua, agricoltura, intelligenza artificiale e molti, molti altri campi. Una tale pace, ne sono certo, sarebbe un vero perno della storia. Inaugurerebbe una riconciliazione storica tra il mondo arabo e Israele, tra l’Islam e l’ebraismo, tra la Mecca e Gerusalemme. Mentre Israele è impegnato a raggiungere una simile pace, l’Iran e i suoi rappresentanti terroristici sono impegnati a mandarla a monte. Ecco perché uno dei modi migliori per sventare i nefandi disegni dell’Iran è raggiungere la pace. Una pace simile costituirebbe il fondamento per un’alleanza abramitica ancora più ampia, e tale alleanza includerebbe gli Stati Uniti, gli attuali partner arabi di Israele per la pace, l’Arabia Saudita e altri che scelgono la benedizione della pace. Ciò promuoverebbe la sicurezza e la prosperità in tutto il Medio Oriente e porterebbe enormi benefici al resto del mondo. Con il supporto e la leadership americana, credo che questa visione possa materializzarsi molto prima di quanto la gente pensi. E come Primo Ministro di Israele, farò tutto ciò che è in mio potere per realizzarla. Questa è un’opportunità che noi e il mondo non dovremmo lasciarci sfuggire. Signore e signori, Israele ha fatto la sua scelta. Vogliamo andare avanti verso un’era luminosa di prosperità e pace. Anche l’Iran e i suoi delegati hanno fatto la loro scelta. Vogliono tornare a un’era oscura di terrore e guerra. E ora ho una domanda, e la pongo a voi: quale scelta farete? La vostra nazione starà dalla parte di Israele? Starà dalla parte della democrazia e della pace? O starà dalla parte dell’Iran, una dittatura brutale che soggioga il suo stesso popolo ed esporta il terrorismo in tutto il mondo? In questa battaglia tra il bene e il male, non ci devono essere equivoci. Quando ti schieri con Israele, ti schieri per i tuoi valori e i tuoi interessi. Sì, ci stiamo difendendo, ma stiamo anche difendendovi da un nemico comune che, attraverso la violenza e il terrore, cerca di distruggere il nostro stile di vita. Quindi non ci dovrebbe essere confusione su questo, ma sfortunatamente, ce n’è molta in molti paesi e in questa stessa sala, come ho appena sentito. Il bene è rappresentato come male e il male è rappresentato come bene. Vediamo questa confusione morale quando Israele viene falsamente accusato di genocidio quando ci difendiamo dai nemici che cercano di commettere un genocidio contro di noi. Lo vediamo anche quando Israele viene accusato in modo assurdo dal Procuratore della CPI di avere deliberatamente fatto morire di fame i palestinesi a Gaza. Che assurdità. Aiutiamo a portare 700.000 tonnellate di cibo a Gaza. Sono più di 3.000 calorie al giorno per ogni uomo, donna e bambino a Gaza. Vediamo questa confusione morale quando Israele viene falsamente accusato di prendere deliberatamente di mira i civili. Non vogliamo vedere morire una sola persona innocente. È sempre una tragedia. Ed è per questo che facciamo così tanto per ridurre al minimo le vittime civili, anche se i nostri nemici usano i civili come scudi umani. E nessun esercito ha fatto ciò che Israele sta facendo per ridurre al minimo le vittime civili. Lanciamo volantini. Inviamo messaggi di testo. Facciamo milioni di telefonate per assicurarci che i civili palestinesi si mettano al sicuro. Non risparmiamo alcuno sforzo in questa nobile ricerca. Assistiamo a un’altra profonda confusione morale quando gli autodefiniti progressisti marciano contro la democrazia di Israele. Non si rendono conto che sostengono i delinquenti sostenuti dall’Iran a Teheran e a Gaza, i delinquenti che hanno sparato ai manifestanti, ucciso le donne perché non si coprivano i capelli e impiccato i gay nelle piazze pubbliche? Alcuni progressisti. Secondo il direttore dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti, l’Iran finanzia e alimenta molti dei dimostranti contro Israele, chissà, forse alcuni dei dimostranti o persino molti dei manifestanti fuori da questo edificio ora? Signore e signori, il re Salomone, che regnò nella nostra capitale eterna, Gerusalemme, 3.000 anni fa, proclamò qualcosa che è familiare a tutti voi. Disse: Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Bene, in un’epoca di viaggi spaziali, fisica quantistica e intelligenza artificiale, alcuni direbbero che è un’affermazione discutibile. Ma una cosa è innegabile: non c’è sicuramente nulla di nuovo alle Nazioni Unite. Fidatevi di me. Ho parlato per la prima volta da questo podio come ambasciatore di Israele all’ONU nel 1984. Esattamente 40 anni fa. E nel mio discorso inaugurale qui, mi espressi contro una proposta di espellere Israele da questo organismo. Quattro decenni dopo, mi ritrovo a difendere Israele da quella stessa assurda proposta. E chi guida la carica questa volta? Non Hamas, ma Abbas. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. Questo è l’uomo che afferma di volere la pace con Israele, ma si rifiuta ancora di condannare l’orribile eccidio del 7 ottobre. Sta ancora pagando centinaia di milioni ai terroristi che hanno assassinato israeliani e americani. Si chiama Pay for Slay. Più uccidi, più vieni pagato. E continua a condurre una guerra diplomatica incessante contro il diritto di Israele a esistere e contro il diritto di Israele a difendersi. E, a proposito, sono la stessa cosa, perché se non puoi difenderti, non puoi esistere. Non nel nostro quartiere, di certo. E forse non nel vostro. In piedi su questo podio 40 anni fa, ho detto ai promotori di quella scandalosa risoluzione per espellere Israele: Signori, lasciate il vostro fanatismo fuori dalla porta. Oggi, dico al Presidente Abbas e a tutti voi che sosterreste vergognosamente quella risoluzione: lasciate il vostro fanatismo fuori dalla porta. L’individuazione dell’unico e solo Stato ebraico continua a essere una macchia morale per le Nazioni Unite. Ha reso questa istituzione un tempo rispettata spregevole agli occhi delle persone perbene ovunque. Ma per i palestinesi, questa casa delle tenebre delle Nazioni Unite è il tribunale di casa. Sanno che in questa palude di bile antisemita, c’è una maggioranza automatica disposta a demonizzare lo Stato ebraico per qualsiasi cosa. In questa società anti-Israele della terra piatta, qualsiasi falsa accusa, qualsiasi accusa stravagante può radunare una maggioranza. Nell’ultimo decennio, sono state approvate più risoluzioni contro Israele in questa sala, nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che contro il mondo intero messo insieme. In realtà, più del doppio. Dal 2014, questo organismo ha condannato Israele 174 volte. Ha condannato tutti gli altri paesi del mondo 73 volte. Sono più di 100 condanne in più per lo Stato ebraico. Che ipocrisia. Che doppi standard. Che buffonata. Quindi, tutti i discorsi che avete sentito oggi, tutta l’ostilità rivolta a Israele quest’anno, non riguarda Gaza; riguarda Israele. Si è sempre trattato di Israele, della stessa esistenza di Israele. E vi dico, finché Israele, finché lo Stato ebraico, non sarà trattato come le altre nazioni, finché questa palude antisemita non sarà prosciugata, l’ONU sarà vista dalle persone imparziali ovunque come niente più che una farsa sprezzante. E dato l’antisemitismo all’ONU, non dovrebbe sorprendere nessuno che il procuratore della CPI, uno degli organi affiliati all’ONU, stia considerando di emettere mandati di arresto contro di me e il ministro della difesa israeliano, i leader democraticamente eletti dello Stato democratico di Israele. La fretta del procuratore della CPI nel giudicare, il suo rifiuto di trattare Israele con le sue corti indipendenti come vengono trattate le altre democrazie, è difficile da spiegare con qualcosa di diverso dal puro antisemitismo. Signore e signori, i veri criminali di guerra non sono in Israele. Sono in Iran. Sono a Gaza, in Siria, in Libano, in Yemen. Quelli di voi che stanno con questi criminali di guerra, quelli di voi che stanno con il male contro il bene, con la maledizione contro la benedizione, quelli di voi che lo fanno dovrebbero vergognarsi di se stessi. Ma ho un messaggio per voi: Israele vincerà questa battaglia. Vinceremo questa battaglia perché non abbiamo scelta. Dopo generazioni in cui il nostro popolo è stato massacrato, massacrato senza pietà, e nessuno ha mosso un dito in nostra difesa, ora abbiamo uno Stato, ora abbiamo un esercito coraggioso, un esercito di incomparabile coraggio, e ci stiamo difendendo. Come dice il libro di Samuele nella Bibbia: “נֵ֣צַח יִשְׂרָאֵ֔ל לֹ֥א יְשַׁקֵּ֖ר” “L’eternità di Israele non vacillerà”. Nel viaggio epico del popolo ebraico dall’antichità, nella nostra odissea attraverso la tempesta e i rivolgimenti dei tempi moderni, quella promessa antica è sempre stata mantenuta e rimarrà vera per sempre. Per citare un verso di un grande poeta: Israele non se ne andrà dolcemente in quella buona notte. Non avremo mai bisogno di infuriarci contro la morte della luce perché la torcia di Israele brillerà per sempre. Al popolo d’Israele e ai soldati d’Israele dico: siate forti e coraggiosi. “חִזְק֣וּ וְאִמְצ֔וּ אַל־תִּֽירְא֥וּ וְאַל־תַּעַרְצ֖וּ מִפְּנֵיהֶ֑ם כִּ֣י ה’ אֱלֹקיךָ ה֚וּא הַהֹלֵ֣ךְ עִמָּ֔ךְ לֹ֥א יַרְפְּךָ֖ וְלֹ֥א יַעַזְבֶֽךּ” עם ישראל חי Il popolo d’Israele vive ora, domani, per sempre”.
(L'informale, 27 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti)
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Il 7 ottobre e la grande rimozione
È possibile una lettura religiosa degli avvenimenti?
di Rav Riccardo Di Segni
È successo a tutti in questi mesi. Stiamo seduti davanti alla televisione accesa e sentiamo l’ennesima notizia o commento pieni di odio e disinformazione contro Israele. Possiamo reagire con la rabbia, con l’insulto diretto a chi parla, scrivere su Facebook, protestare con il direttore di testata, o rinchiuderci nell’apatia. Tutte reazioni comprensibili. Ma questo basta? Siamo sicuri che il nostro essere ebrei non ci richieda anche qualcos’altro, su un piano differente?
La tragedia del 7 ottobre e la guerra che ne è derivata hanno determinato reazioni in tutto il mondo e soprattutto nella comunità ebraica. Nella maggioranza dei casi si è trattato e continua ad essere un coinvolgimento politico con un’intensa partecipazione emozionale, quale che sia la posizione che si assume, dal sostegno totale e incondizionato alla critica. C’è un aspetto della reazione che, a confronto con gli altri prevalenti, è passato sotto tono, quasi relegato per molti alla sfera privata o di piccoli gruppi: la dimensione spirituale, o meglio religiosa. È la domanda, davanti a tutto quello che è successo e continua a succedere, se vi sia un senso, un messaggio dall’alto, una sollecitazione a interrogare le coscienze, una spiegazione nelle fonti antiche, una guida per uscirne fuori. Se ascoltiamo una notizia terribile dai fronti aperti ai confini di Israele reagiamo con il dispiacere, l’orrore; se sentiamo un commento polemico antiisraeliano in un blog televisivo o in un qualsiasi canale mediatico ci arrabbiamo, proviamo a rispondere, protestare, manifestare, esprimere solidarietà. Ma il più delle volte non ci poniamo la domanda: perché succede questo? Perché proprio a noi come popolo ebraico è riservato questo nuovo spargimento di sangue e questa campagna di demonizzazione? Che senso ha, alla luce della nostra storia e alla luce di ciò in cui ha creduto il popolo ebraico da millenni?
Vi sono diversi motivi per spiegare questa elusione della domanda. Il primo è il nostro modo di pensare che è sostanzialmente “laico”, portato a spiegare le vicende umane prima di tutto secondo una dinamica sociale e politica, che chiaramente non deve mancare, ma non è detto che debba essere esclusiva. Il secondo motivo è che la ricerca di un senso più profondo è impegnativa, sia perché è difficile trovare risposte esaurienti, sia perché spesso la risposta coinvolge le responsabilità di ogni persona che da spettatore coinvolto e arrabbiato si potrebbe trasformare in una sorta di indagato.
Per dirla in termini molto semplificati, in tutta la Bibbia, e poi nella letteratura successiva, corre un pensiero uniforme: se il popolo ebraico soffre è perché le sofferenze sono un campanello di allarme che ne denuncia comportamenti scorretti e richiama a correggere le proprie azioni.
Un intero periodo dell’anno, il suo inizio, il mese di Tishrì, è dedicato a questo tema. E quest’anno il 7 ottobre cade proprio in mezzo agli Yamim Noraim, tra Rosh hashanà e Kippùr. Ascoltiamo il suono dello shofàr, che come spiega Rambàm in questi giorni ha soprattutto il ruolo di una sveglia: state dormendo, svegliatevi, prendete coscienza. E il ruolo dello shofàr in questi giorni è simile a quello che svolgono determinati accadimenti nella vita. Sta suonando un campanello, da mesi.
In questo periodo ciascuno è invitato a riflettere sul suo comportamento, a riparare le azioni sbagliate, e a tornare indietro (è il significato letterale della parola teshuvà). Quale possa essere il comportamento scorretto di un singolo individuo, davanti al lungo elenco di precetti da rispettare, può essere facile dirlo. Le cose si complicano quando ci si chiede quale sia il comportamento scorretto di un intero popolo. E ancora di più si complicano quando si confrontano i comportamenti sbagliati del singolo o del gruppo con gli eventi negativi che li colpiscono; spesso ai nostri occhi c’è una sproporzione inspiegabile. Tutto questo rende difficili i ragionamenti, e discutibili le conclusioni. Si pensi ad esempio che malgrado vi siano state tante interpretazioni autorevoli sulla Shoah, dal punto di vista filosofico e religioso, nessuna appare convincente fino in fondo. E le domande prevalgono sulle risposte, che qualche volta rischiano di essere banali e divisive.
Lo stesso rischio si può correre tentando di interpretare religiosamente il 7 ottobre, come ha fatto qualcuno accusando e denunciando certi comportamenti della società israeliana. Una società della quale si apprezzano le virtù ma che non è certo una società ideale, attraversata come è da polarizzazioni, fratture e profonde incomprensioni.
Il 7 ottobre ha rafforzato in molti ebrei l’identità ebraica, il sentirsi popolo minacciato. Questo per molti ebrei lontani è già un inizio di teshuvà. Dubito però che abbia risvegliato una teshuvà più forte, singolare e collettiva. Non è facile declinare in termini attuali le rampogne dei profeti della Bibbia. Non è facile, e forse è impossibile, spiegare in termini religiosi perché certe cose sono successe e stanno succedendo, ma l’incapacità di dare una risposta non ci sottrae dal dovere di esaminare noi stessi e provare a migliorarci. Il senso diretto e immediato nel messaggio antico è che non dobbiamo solo dolerci o arrabbiarci o reagire politicamente, non siamo solo delle vittime reali o potenziali, siamo persone dotate di coscienza che ogni giorno la devono sottoporre ad esame, e che devono capire cosa va fatto sul piano personale e collettivo per migliorare noi e la società.
(Shalom, 27 settembre 2024)
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È possibile una lettura religiosa degli avvenimenti? E’ doverosa direi, se per “religiosa” s’intende “in rapporto con Dio”. Se per molti la cosa non è possibile, dipende da loro, che pensano di poter interpretare i fatti riguardanti Israele senza far riferimento a Dio. Una difficoltà interna del mondo ebraico potrebbe essere il fatto che il tema centrale della loro riflessione ruota intorno alla Torà e non alla figura del Messia. Al centro della riflessione sulla Torà c’è il Dio che istruisce, mentre al centro della riflessione sul Messia c’è il Dio che agisce, che nella sua azione ha come oggetto primario la persona del Messia. Come primo frutto dell’agire di Dio nel mondo c’è proprio la presenza stessa di Israele come popolo e nazione. Come è possibile allora interpretare gli avvenimenti intorno a Israele prescindendo dalla volontà di Dio per Israele? Che senso ha interrogarmi su quello che devo pensare e fare io, se non mi chiedo che cosa ha fatto, sta facendo e si propone di fare Dio? M.C.
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Il Muro del Pianto viene pulito per Rosh HaShanah
Tra pochi giorni, tutto Israele festeggerà Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Le celebrazioni iniziano la sera del 2 ottobre e terminano venerdì 4 ottobre.
In preparazione alla festa, decine di migliaia di piccoli pezzi di carta sono stati rimossi dal Muro del Pianto, come ogni anno. Il rabbino del Muro del Pianto e dei luoghi sacri, Rabbi Shmuel Rabinowitz, ha personalmente supervisionato e portato a termine l'azione. Si tratta principalmente di preghiere e petizioni, piccoli pezzi di carta che le persone di oltre 100 Paesi inseriscono personalmente nelle fessure o inviano dall'estero via e-mail o lettera ad alcuni servizi, che poi depositano i foglietti di preghiera tra le pietre del cosiddetto Muro Occidentale. In media, ogni mese arrivano circa 3.000 richieste di preghiera dall'estero. La maggior parte dei biglietti stranieri proviene da Stati Uniti, Brasile, Canada e Colombia.
Negli ultimi sei mesi si è registrato un aumento significativo del numero di biglietti di preghiera inviati al Muro Occidentale. La situazione del Paese spinge molti residenti a lasciare una preghiera al Muro del Pianto. La maggior parte delle preghiere sono per il recupero di soldati feriti o di ostaggi rapiti. "Quest'anno biglietti sono pieni di lacrime di famiglie in lutto, famiglie rapite, soldati feriti, cittadini evacuati, famiglie di soldati e altro ancora", ha detto il rabbino.
Il rabbino Rabinowitz ha augurato, in occasione dell'azione di pulizia: "Che un anno con le sue maledizioni finisca, un anno con le sue benedizioni inizi - la pace in Israele e l'unità tra noi è la preoccupazione di tutti noi".
I biglietti di preghiera vengono rimossi ogni anno secondo le linee guida della halacha. Vengono utilizzati guanti e utensili di legno monouso. L'operazione deve essere effettuata regolarmente per fare spazio ai nuovi biglietti di preghiera dei fedeli e dei visitatori che si recheranno al Muro del Pianto in futuro. I biglietti stessi vengono raccolti in speciali sacchetti Geniza e cerimoniosamente sepolti insieme ai libri sacri consumati. Questa usanza è stata documentata 300 anni fa. Di tanto in tanto, durante gli scavi nelle vicinanze, vengono ritrovati pezzi di carta sepolti di epoche passate.
Alla fine, si è pregato per il ritorno a casa dei rapiti e dei dispersi, per la pace dei soldati e delle forze di sicurezza dell'IDF, per la guarigione dei feriti, per la pace e la sicurezza in Israele e per le migliaia di visitatori e credenti le cui preghiere sono raccolte qui.
(Israel Heute, 27 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Riflessioni sulla “chirurgia” israeliana contro Hezbollah
di Giovanni Giacalone
Le operazioni militari dell’esercito israeliano in Libano hanno messo in ginocchio Hezbollah, decimandone non soltanto l’arsenale missilistico, ma anche la catena di comando e controllo al punto che soltanto due comandanti, Ali Karaki e Abu Ali Rida, sarebbero ancora in vita. Sul primo si era tra l’altro inizialmente pensato fosse morto in un raid. Rimane poi il leader supremo, Hassan Nasrallah, nascosto nel suo bunker.
Inoltre, l’utilizzo dei beeper esplosivi per colpire i terroristi di Hezbollah, una tattica mai usata prima da nessuno e che rimarrà nella storia, ha suscitato stupore ma anche forti critiche.
Ovviamente Israele è finita per l’ennesima volta al centro di accuse provenienti da più parti e la narrativa è sempre la stessa: gli attacchi dell’IDF non sono chirurgici e causano vittime civili; le operazioni israeliane non sono di contro-terrorismo ma si tratta invece di un’aggressione nei confronti del Libano; Hezbollah non era in grado di mettere in atto un attacco in stile 7 ottobre e per finire, Israele bombarda le abitazioni dei civili libanesi.
E’ bene dunque chiarire una volta per tutte questi punti visto che tali accuse presentano una natura faziosa e di parte, ben lontana dalla realtà dei fatti.
In primis, la natura chirurgica degli attacchi e la morte dei civili. Quando il 2 gennaio del 2024 a Beirut venne eliminato Saleh al-Arouri, il missile dell’IDF colpì il pavimento dell’abitazione dove era nascosto il soggetto in questione, raggiungendo l’obiettivo ed evitando di far collassare l’edificio. La stessa tattica venne utilizzata anche per l’eliminazione di Ibrahim Muhammad Qabisi, nel popoloso quartiere di Dahieh, a sud di Beirut.
Nel caso di Ibrahim Aquil, il missile raggiunse il piano seminterrato e ciò causò l’involontario collasso delle fondamenta dell’adiacente edificio. Diverse invece le dinamiche nel caso della tentata uccisione di Ali Karaki visto che veniva colpito il piano sbagliato, errore che permetteva al comandante di Hezbollah di sopravvivere all’attacco.
E’ dunque possibile affermare che attacchi di questo tipo non sono chirurgici? Ci sono forse altre forze armate che sono riuscite a fare di meglio in altri conflitti?
I missili hanno tra l’altro un costo non indifferente ed anche la raccolta delle informazioni, lavoro di anni, ha un forte valore. Non è dunque interesse di Israele sprecarli.
Per quanto riguarda la popolazione libanese, l’IDF invia ripetuti messaggi ai civili utilizzando sms, messaggi audio, comunicati radio, avvisandoli di allontanarsi da tutti quegli edifici civili dove Hezbollah nasconde e spara contro Israele. La medesima strategia è tra l’altro stata utilizzata a Gaza.
Sul tema della detonazione dei beepers in possesso dei terroristi di Hezbollah, bisogna veramente arrampicarsi sugli specchi per affermare che non è di natura chirurgica. E’ chiaro che se i terroristi si nascondono in mezzo alla popolazione, c’è sempre il rischio che qualche civile si faccia male, ma questa è una responsabilità che riguarda Hezbollah, certamente non Israele. Tanto più che l’eliminazione di terroristi salva vite, sia israeliane e sia libanesi.
Altra accusa mossa contro Israele è quella di aver aggredito uno Stato sovrano, il Libano, presentando la cosa come operazione di contro-terrorismo.
Anche questa è una semplificazione errata che mostra una non comprensione del fenomeno in corso. Hezbollah è infatti una vera e propria struttura di tipo militare dedita al terrorismo e che ha preso il controllo del Libano. Trattasi di un vero e proprio esercito, più potente di quello libanese e facente capo a un partito politico, oltre che un proxy iraniano e un suo strumento di destabilizzazione regionale.
Quella in atto è una vera e propria guerra tra l’esercito israeliano e una struttura militare che occupa il suolo libanese con l’obiettivo di aggredire Israele.
Sulla questione delle abitazioni civili colpite dall’IDF nel sud del Libano, anche in questo caso la responsabilità ricade su Hezbollah che le utilizza per nascondere missili, armi e per lanciare attacchi contro Israele. Una tattica ben nota e già vista anche a Gaza ad opera di Hamas. L’immagine del missile cruise posizionato all’interno di un’abitazione civile e pronto per essere lanciato dalla finestra ha fatto il giro del mondo, mostrando la reale natura terroristica di Hezbollah.
E’ inoltre utile ricordare che Hezbollah è da mesi che bersaglia i centri abitati del nord di Israele. Più di 60,000 cittadini israeliani sono attualmente sfollati e aspettano di poter rientrare nelle proprie abitazioni. La situazione è diventata insostenibile e Israele ha il diritto e il dovere di garantire ai propri cittadini la normalità. Questo non può avvenire senza un intervento forte nei confronti della minaccia, ovvero Hezbollah.
Bisogna poi aggiungere che le stesse preoccupazioni di molti enti internazionali non sono state riscontrate nei confronti dei civili israeliani bersagliati da Hezbollah.
In ultimo, si è addirittura letto che Hezbollah non era in grado di mettere in atto un attacco in stile 7 ottobre, nonostante le superiori capacità militari ed operative rispetto a Hamas. Già di per sé tale affermazione è contraddittoria per sua natura, visto che maggiori capacità e strumenti a disposizione permettono una maggior scelta tattica.
Il presidente israeliano, Israel Herzog, ha reso noto che i comandanti di Hezbollah (eliminati in un raid aereo) si erano riuniti a Beirut per pianificare proprio un attacco in stile 7 ottobre nel nord di Israele, a ridosso del confine con il Libano.
Anche il sito statunitense Al-Monitor ha citato una fonte vicina a Hezbollah, la quale ha affermato che tale incontro era stato organizzato per pianificare un’invasione su vasta scala della Galilea settentrionale.
Questa, che piaccia o no, è la situazione reale sul campo, priva di teorie quanto meno faziose che non tengono conto dei fatti concreti.
(L'informale, 27 settembre 2024)
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Parashà di Nitzavìm-Vayèlekh: Vi sono diversi tipi di ‘Avodà Zarà
di Donato Grosser
In questa parashà Moshè avvertì il popolo di non pensare che qualcuno possa evitare la punizione divina se servirà “gli dei falsi e bugiardi”. Moshè disse: “Non vi sia tra di voi un uomo o una donna o una famiglia o una tribù il cui cuore si distolga [dall’accettare il patto] dell’Eterno nostro Dio, per andare a servire gli dei di altre nazioni; non vi sia tra di voi una radice che produca veleno e assenzio. E non avvenga che qualcuno, dopo aver udito le parole di questo giuramento, si lusinghi in cuor suo dicendo: Avrò pace, anche se camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore […]. L’Eterno non lo vorrà perdonare […] (Devarìm, 29: 17-19). R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 371-2) si sofferma sulle parole “Avrò pace, anche se camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore”. R. Elyashiv scrive: Sembra impossibile capire come una persona possa pensare di darsi all’idolatria e di non essere soggetto a nessuna punizione divina. Perché quindi è necessario che venga scritto che “L’Eterno non lo vorrà perdonare”?. Per rispondere a questa domanda r. Elyashiv cita i Maestri nel trattato ‘Avodà Zarà (Sull’idolatria, culti estranei, 14b) dove è raccontato che il nostro patriarca Avraham scrisse un trattato sull’idolatria di quattrocento capitoli. Possibile che una trattato su questo argomento comprendesse tanti capitoli? Bisogna capire quindi che vi sono molti tipi e manifestazioni di ‘Avodà Zarà. Per esempio, nel trattato talmudico di Sotà (Sulla donna traviata, 4b) i Maestri affermano che una persona arrogante assomiglia a chi si dedica all’idolatria. Nel trattato di Ketubòt (Sui contratti matrimoniali, 68a), è detto che chi ignora il suo dovere di fare beneficenza assomiglia a chi “adora le stelle” e così via. Questi sono quindi alcuni degli argomenti che erano compresi nel trattato del patriarca Avraham. In verità le persone arroganti, coloro che ignorano la beneficienza, o anche che si adirano facilmente non pensano affatto di commettere delle trasgressioni che hanno a che fare con l’idolatria. Al contrario, sono lontanissimi dal commettere questa trasgressione. Queste persone frequentano regolarmente il bet ha–kenèsset (la sinagoga), indossano i tefillìn (filatteri) e si comportano in modo regolare. Con tutto ciò la Torà testimonia che nel fondo di queste persone esiste un seme di ‘Avodà Zarà o, nel linguaggio della Torà, “una radice che produce veleno e assenzio”. Poiché questa persona pensa “camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore”, egli ritiene di essere a posto e non si rende conto affatto del suo peccato. E così il Signore non lo potrà perdonare. Anche il profeta Geremia (2:35) espresse questo concetto quando disse: “Ecco, Io entrerò in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato”. R. Elyashiv conclude che non è possibile tornare sulla via retta senza la Torà. Per questo motivo i nostri Maestri nella quinta benedizione della ‘amidà (la tefillà, preghiera, che comprende diciotto benedizioni), le parole “fai sì che possiamo tornare alla Tua Torà” precedono le parole “e fai sì che possiamo tornare con totale pentimento alla Tua presenza”. R. Joseph Pacifici in Hearòt ve-He’aròt (p. 231) commenta che Moshè sapeva che in quel momento non vi era tra il popolo nessuno che adorava gli idoli, ma temeva che ci fosse qualche “radice” di opinioni false (“veleno e assenzio”) dalla quale sarebbe potuta scaturire l’idolatria. R. Pacifici aggiunge che se non si sradicano le opinioni false dalla radice, ne può venire fuori l’idolatria e sottolinea quindi che lo studio della Torà fatto nel modo giusto impianta nell’uomo opinioni consone con la Torà.
(Shalom, 27 settembre 2024)
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Parashà della settimana: Nitzavim
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Netanyahu smentisce le notizie di un imminente cessate il fuoco con Hezbollah
"La notizia di un cessate il fuoco è falsa. Si tratta di una proposta americano-francese alla quale il primo ministro non ha nemmeno risposto", ha dichiarato l'ufficio del primo ministro israeliano.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu giovedì ha smentito le notizie secondo cui Israele starebbe per concludere un cessate il fuoco con Hezbollah in Libano.
"La notizia di un cessate il fuoco è falsa. Si tratta di una proposta americano-francese alla quale il Primo Ministro non ha nemmeno risposto", ha dichiarato il suo ufficio mentre Netanyahu si recava a New York per parlare all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite venerdì.
"Anche la notizia di un presunto ordine di moderare i combattimenti nel nord è falsa", ha proseguito il comunicato. "Il Primo Ministro ha dato istruzioni all'IDF di continuare a combattere con piena forza e secondo i piani che gli sono stati presentati", ha dichiarato il suo ufficio.
Anche le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza continueranno "fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi di guerra", ha aggiunto il comunicato.
Pochi minuti dopo, il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X: "Non ci sarà alcun cessate il fuoco nel nord. Continueremo la lotta contro l'organizzazione terroristica Hezbollah con tutte le nostre forze fino alla vittoria e al ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case".
Le dichiarazioni arrivano dopo che i membri della coalizione di Netanyahu hanno respinto la proposta statunitense-francese di un cessate il fuoco di 21 giorni.
"La campagna nel nord può terminare solo con uno scenario: lo smantellamento di Hezbollah e l'eliminazione della sua capacità di danneggiare i residenti del nord", ha dichiarato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, un membro chiave della coalizione di governo.
Gli Stati Uniti, l'Australia, il Canada, l'Unione Europea, la Francia, la Germania, l'Italia, il Giappone, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar hanno chiesto congiuntamente, mercoledì sera, un "immediato cessate il fuoco di 21 giorni al confine tra Libano e Israele per creare lo spazio per una soluzione diplomatica".
In precedenza, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il Presidente francese Emmanuel Macron avevano dichiarato che era "tempo di una soluzione al confine israelo-libanese che garantisca la sicurezza in modo che i civili possano tornare alle loro case".
Nessuna delle due dichiarazioni faceva riferimento a Hezbollah.
(Israel Heute, 26 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele: “Hezbollah responsabile di un duplice crimine di guerra”
di Olga Flori
Nelle ultime 24 ore Israele ha attaccato 1600 obiettivi terroristici in Libano, avvertendo prima con telefonate, comunicazioni radiofoniche, siti internet e sms i civili di evacuare alcune zone del Paese interessate dalle operazioni militari. Sono queste le ultime informazioni fornite dal portavoce del governo israeliano, David Mencer che, nel corso di una conferenza stampa, martedì 24 settembre, ha accusato l’organizzazione terroristica di Hezbollah di un “doppio crimine di guerra”: «Hezbollah sta mettendo in pericolo i cittadini libanesi usandoli come scudi umani per nascondere le loro armi e per portare avanti attacchi contro Israele».
«Preferiremo sempre una soluzione diplomatica» ha ribadito Mencer «ma per 11 mesi e mezzo Hezbollah l’ha rifiutata e il governo libanese non è stato in grado di fare pressioni sull’organizzazione terroristica». Mencer ha spiegato che «l’Iran ha creato un anello di organizzazioni terroristiche [intorno ad Israele] da Hezbollah in Libano, Huthi in Yemen e altre milizie. Riceviamo missili anche dall’Iraq. Siamo in alta allerta».
A Shalom il portavoce del governo israeliano ha risposto sull’eventuale impatto dell’escalation militare in Libano sui colloqui per un cessate il fuoco, considerando che Hezbollah ha affermato che i suoi attacchi sono direttamente collegati alle operazioni militari a Gaza. Mencer ha spiegato che «la preoccupazione di Hezbollah di lanciare missili verso Israele per sostenere la causa palestinese non ha senso. Da oltre 76 anni molti palestinesi dentro al Libano non hanno mai ottenuto la cittadinanza. […] Si tratta di un odio patologico contro Israele». Le negoziazioni con Hamas, secondo quanto riferito dal portavoce israeliano, stanno proseguendo sulla base delle linee previste dagli Stati Uniti per prevedere il ritorno degli ostaggi e per raggiungere gli altri obiettivi della guerra.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che le azioni militari israeliane sono dirette contro l’organizzazione terroristica di Hezbollah e non contro il popolo libanese. Operazioni che hanno l’obiettivo di prevenire la minaccia di Hezbollah (eliminando leader di Hezbollah, i missili e le armi del gruppo), secondo quanto ribadito in data odierna nel corso della conferenza stampa. Mencer ha anche sottolineato che «alcuni dei leader di Hezbollah che abbiamo eliminato hanno sangue americano sulle loro mani e di 250 marine US degli anni ’80, oltre che di soldati francesi».
Dal giorno successivo al massacro del 7 ottobre, Hezbollah ha attaccato Israele con missili, droni ed oltre 9100 razzi, ferendo oltre 345 israeliani ed uccidendo 48 persone tra cui 12 bambini drusi israeliani su un campo da calcio. L’organizzazione terroristica ha colpito città del nord, abitazioni civili, kibbutzim e bestiame. Sono oltre 63mila gli israeliani evacuati dal nord del paese per motivi di sicurezza. «Non è una realtà sostenibile» ha spiegato Mencer.
(Shalom, 26 settembre 2024)
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Il tacito consenso islamico
E' un po' come se, sotto sotto, approvino la guerra di Israele contro il terrorismo islamico
Se c’è una cosa che appare roboante in merito alle guerre di Israele contro Hamas e contro Hezbollah, è il tacito consenso islamico all’annientamento dei terroristi palestinesi e dei terroristi al soldo di Teheran. Il silenzio dei regimi islamici, in particolare di quelli arabi, non stupisce più di tanto. Al di là del lato formale e delle condanne di circostanza, il rapporto tra Israele e gli Stati Arabi non è mutato nemmeno dopo la distruzione di Gaza. Gli Accordi di Abramo non ne hanno minimamente risentito. Meno che meno stupisce il silenzio arabo sull’attacco di Israele a Hezbollah. Persino Bashar Assad non è andato oltre le denunce di circostanza, forse perché stanco di vedersi bombardato per colpa dell’Iran e di Hezbollah. Se qualche voce si è alzata è per chiedere di tener fuori il popolo libanese. Almeno fino a quando sarà possibile dato che Hezbollah, esattamente come Hamas, usa le abitazioni civili, le scuole e gli ospedali come rifugio o, peggio, come base di lancio per gli attacchi. Scudi umani. Secondo Ynet, dieci anni fa, Hezbollah lanciò un’iniziativa segreta per offrire incentivi finanziari alle famiglie sciite nel Libano meridionale se avessero assegnato una stanza della loro casa a un lanciamissili a lungo raggio. Il missile, con una testata pesante, sarebbe stato pronto per essere lanciato da quella stanza. La stanza avrebbe avuto un tetto rimovibile, consentendo di sparare rapidamente. Ynet ha aggiunto che Hezbollah ha scelto specificamente le famiglie povere sciite che avevano bisogno di un reddito extra. A quanto si dice, Hezbollah ha acquistato appezzamenti di terreno e ci ha costruito case residenziali, offrendole a un prezzo ridotto o gratuitamente se le famiglie erano disposte a immagazzinare missili. L’Iran, chiaramente incapace (o timorosa) di dare il via a una iniziativa bellica in aiuto di Hezbollah, che pure lo ha chiesto, alle Nazioni Unite ha provato a mettere insieme il mondo islamico contro Israele. Non ha funzionato, o ha funzionato poco. Anzi, la mossa ha mostrato la tigre di carta che si nasconde dietro la facciata da bullo degli Ayatollah. Gli arabi sono stanchi dei palestinesi. Miliardi e miliardi di dollari in aiuto di uno Stato che non nascerà mai, con leader corrotti o votati unicamente alla Jihad. Un popolo che non ha storia, di cui non si sapeva niente prima degli anni 70 quando è stato inventato come arma contro Israele. Un’arma che agli arabi adesso non serve più, ma che fa comodo all’Iran e a tutto il mondo antisemita che ogni giorno brama una strage da usare contro Israele. L’unico caso che in parte si discosta dagli Stati arabi è quello del Qatar, che con Al Jazeera diffonde propaganda pro-Hamas e pro-Hezbollah a grandi mani e che, come maggiore finanziatore del terrorismo islamico, da ISIS fino ad Hamas, non gradisce particolarmente che Israele gli rompa i giocattoli. Noi abbiamo chiesto diverse volte e in diverse occasioni ad Al Jazeera e ai loro giornalisti come spiegavano il sostanziale silenzio degli arabi sulle guerre di Israele e come mai gli Accordi di Abramo non ne avessero risentito. Ma non abbiamo mai avuto risposta. Troppo piccoli noi, troppo bugiardi loro. Diciamolo chiaramente, il silenzio islamico assomiglia tantissimo ad un tacito consenso. La vita nei paesi arabi scorre senza scossoni, senza grandi proteste contro Israele. Anzi, le proteste contro Israele sono vietate in diversi stati arabi, compresa l’Arabia Saudita. Paradossalmente ci sono più proteste contro Israele in Occidente di quante ce ne siano nel mondo islamico. Magari se qualcuno lo facesse notare anche ai nostri tromboni non sarebbe male.
(Rights Reporter, 26 settembre 2024)
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La BBC vieta di chiamare quelli di Hamas “terroristi”
di Nathan Greppi
Yariv Mozer, regista israeliano del documentario We Will Dance Again, incentrato sul massacro avvenuto al Supernova Music Festival, ha raccontato in una recente intervista rilasciata a The Hollywood Reporter di aver dovuto evitare di descrivere Hamas come un’organizzazione terroristica se voleva che andasse in onda sulla BBC. Il film, trasmesso dall’emittente pubblica britannica mercoledì 25 settembre e commissionato dalla BBC Storyville, contiene filmati inediti del massacro di Hamas avvenuto al festival musicale il 7 ottobre 2023.
Mozer ha dichiarato a The Hollywood Reporter che questa era una concessione che ha dovuto fare affinché il film ricevesse la giusta copertura nel Regno Unito: “Era un prezzo che ero disposto a pagare affinché il pubblico britannico potesse vedere queste atrocità e decidere da sé se si tratta o meno di un’organizzazione terroristica”, ha detto.
Successivamente, il documentario verrà proiettato anche in Spagna e in Australia. Mentre negli Stati Uniti, è stato acquisito dalla piattaforma streaming Paramount+. Mozer ha raccontato di aver offerto We Will Dance Again a più piattaforme di streaming negli Stati Uniti; tuttavia, secondo quanto riferito, non erano disposti a riprenderlo a causa delle loro preoccupazioni in merito alla situazione politica attuale. “Il film non è politico – ha affermato Mozer -. È raccontato attraverso gli occhi dei sopravvissuti e quelli di Hamas. C’è la verità su quello che è successo”.
• FILMATI ATROCI Per quanto riguarda il contenuto del documentario, e l’utilizzo di filmati pieni di violenza, Mozer ha detto che voleva conservarne il più possibile, per poter mostrare quale fosse la portata dell’attacco e la brutalità con la quale Hamas ha colpito persone che non potevano difendersi. “Un brutale movimento fondamentalista sta cercando ossessivamente di distruggere i valori della società occidentale. Si trattava di giovani ad un festival musicale che celebrava la vita, l’amore e la pace: molto ingenui e di spirito libero. E hanno incontrato le persone peggiori, che amano la morte”.
Il documentario fa una ricostruzione minuziosa: partendo dal momento precedente all’attacco, iniziato alle 6:30 di sabato 7 ottobre, descrive gli eventi utilizzando testimonianze, video, telecamere a circuito chiuso, filmati GoPro dal live streaming di Hamas e filmati di telefoni e dashcam. Il filmato copre le oltre sei ore in cui le persone hanno cercato di nascondersi o fuggire dai terroristi.
• L’OPERATO DELLA BBC Intervistato da Israel Hayom, Asserson ha spiegato la sua teoria in merito alle ragioni dietro alla mancanza di obiettività da parte dell’emittente: “Sulla carta, la BBC si impegna rigorosamente ad essere oggettiva e imparziale, ma la sua direzione non ha regole effettive per assicurarsi che sia rispettato questo impegno. Noi ora possiamo dimostrare, attraverso le ricerche che abbiamo condotto, quanti intervistati sono vicini ai palestinesi e quanti a Israele, quanti contenuti mostrano empatia verso Hamas, ma l’azienda stessa non ne ha idea. Non possiede dati, non controlla le proprie produzioni, e in tal modo si permette di aggirare i suoi stessi standard”.
“La seconda ragione -, ha continuato Asserson – è che attaccare Israele è diventato lo sport di riferimento per gruppi di sinistra che si definiscono ‘progressisti’. Nel corso degli anni, questa tendenza è peggiorata. I giornalisti della BBC hanno adottato classici preconcetti di sinistra per quel che concerne Israele, e così loro, compresi quelli più estremi, sentono che la direzione non li supervisiona e lascia mano libera per mettere in atto delle manipolazioni, e persino per creare notizie false anziché riportare quelle vere. La BBC è stata presa in ostaggio da persone che fanno pienamente parte di questa propensione all’odio contro Israele”.
(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2024)
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ROMA – I volti di Israele, la testimonianza di rav Ascoli
Misurare cosa è cambiato nella società israeliana dopo il 7 ottobre è uno degli obiettivi del ciclo di incontri “I tanti volti di Israele”, promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma.
Stasera alle 20.45 porterà una sua testimonianza al Pitigliani l’ingegnere e rabbino Michael Ascoli, già docente al Collegio Rabbinico Italiano e assistente del rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni. Dal 2010 rav Ascoli vive a Haifa, dove svolge la professione di project manager. Apriranno l’incontro i saluti della presidente Ucei Noemi Di Segni e del presidente del Pitigliani Daniel Coen. L’ospite sarà poi intervistato da Raffaele Genah, ex capo sede Rai per il Medioriente.
Nel numero di ottobre di Pagine Ebraiche in arrivo nelle case, rav Ascoli affronta uno dei dilemmi che attraversano la società israeliana di questi tempi: «Riportare a casa gli ostaggi o garantire la sicurezza nazionale?».
(moked, 26 settembre 2024)
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Antisemitismo incandescente
di Niram Ferretti
Nel teatro metafisico e apocalittico di Hezbollah, il Partito di Dio, nato nel 1982 a seguito dell’operazione israeliana del Libano del sud contro l’OLP, non è solo Israele a rappresentare il male assoluto ma lo sono gli ebrei in quanto tali. L’antisemitismo è una componente persistente della formazione radicale musulmana sciita, mano longa dell’Iran in Medioriente. Nel 2002, Hassan Nasrallah il segretario generale del partito, disse al giornalista americano Jeffrey Goldberg: “Se cercassimo nell'intero mondo delle persone più vigliacche, disprezzabili, deboli e senza nerbo nella psiche, mente, ideologia e religione, non troveremmo nessuno come gli ebrei. Noti, non sto dicendo gli israeliani ma gli ebrei”. Lo stesso Nasrallah che, sempre nel 2002, dichiarò al Daily Star di Beirut, “Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo”. Come ha scritto Robert S. Wistrich, nel suo opus magnum, A lethal obsession, Antisemitism from Antiquity to the Global Jihad, “Hezbollah considera chiaramente il suo conflitto con Israele come una lotta per la vita o la morte. Questa lotta è simultaneamente storica, sociale e culturale, con le sue radici in una battaglia lunga tredici secoli tra l’ebraismo e l’Islam”. La guida spirituale di Hezbollah, il suo chierico più influente, lo sceicco Muhammad Husayn Fadallah, spiegava come il sionismo null’altro fosse se non la maschera del “giudaismo politico” e che il suo nucleo portante fosse da trovarsi nella continua e invincibile aggressione degli ebrei per i musulmani radicata nel rigetto ebraico di Allah. Tutto ciò non ha mai impedito che in Occidente, Hezbollah trovasse ammiratori, anche tra file ebraiche di estrema sinistra. Nel 2009 l’attivista antiisraeliano, ex professore universitario e politologo statunitense Norman Finkelstein, pupillo di Noam Chomsky, imbastiva una apologia di Hezbollah davanti a una giornalista libanese palesemente spiazzata da ciò che il suo ospite stava dicendo, ovvero che l’antagonismo di Hezbollah a Israele andrebbe inteso come una lotta per non soccombere alla “schiavitù” inevitabile che verrebbe imposta al Libano da parte di Israele e degli Stati Uniti, dipinti come stati guerrafondai e imperialisti interessati ad estendere il proprio dominio sulla regione. L’anno dopo sarebbe stato il turno del suo mentore Noam Chomsky che si recò in Libano per incontrare l’allora capo spirituale di Hezbollah, Mohammad Hussein Fadlallah, (dopo avere già incontrato nel 2006 Nasrallah) grande sostenitore della distruzione di Israele e degli attacchi terroristici contro civili inermi, il quale definì “eroico” il massacro alla yeshiva Mercaz HaRav avvenuto nel 2008 in cui vennero massacrati otto studenti religiosi ebrei. In Europa c’è chi andava con Hezbollah a braccetto per le strade di Beirut, come l’ex Ministro degli Esteri Massimo D’Alema, il quale, nel 2006, si accompagnava con un deputato del partito perché Hezbollah era “un interlocutore necessario per la pace”. Il ragionamento allora svolto fu il seguente: “Hezbollah mi sembra difficilmente liquidabile come un gruppetto terroristico essendo un movimento di natura assai complessa. Hezbollah è innanzitutto un partito politico che gode di un vasto consenso democratico, di una robusta rappresentanza parlamentare e che fa parte del governo di quel Paese che le Nazioni Unite dicono che dobbiamo sostenere”. Sicuramente, per i distratti, non per gli appassionati della malafede il consultare cosa pensa specificamente l’Unione Europea di Hezbollah, potrebbe essere utile, laddove il Regolamento d’esecuzione (UE) 2018/468 del Consiglio del 21 marzo 2018 che attua l’Articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2580/2001 relativo a misure restrittive specifiche, contro determinate persone ed entità, destinate a combattere il terrorismo, e che abroga il regolamento di esecuzione (UE) 2017/1420, continua ad inserire fra gli organismi terroristici l’«Ala militare di Hezbollah» («Hizballah Military Wing») [alias «Hezbollah Military Wing», alias «Hizbullah Military Wing», alias «Hizbollah Military Wing», alias «Hezballah Military Wing», alias «Hisbollah Military Wing», alias «Hizbùllah Military Wing», alias «Hizb Allah Military Wing», alias «Consiglio della Jihad» (e tutte le unità che dipendono da essa, compresa l’Organizzazione per la sicurezza esterna)]. La visione del mondo di Hezbollah è quella rigorosamente islamica incarnata dalla teocrazia sciita iraniana per la quale Israele è uno stato da annichilire e gli Stati Uniti sono il Grande Satana. Gli appartenenti al gruppo non hanno mai fatto mistero del loro antisionismo radicale forgiato sull’incudine del loro antisemitismo: un insieme di antigiudaismo coranico abbinato all’antisemitismo cospirazionista originato da “I Protocolli dei Savi di Sion”, l’Urtext di tutti gli antisemiti del Novecento, Hitler in testa. Dobbiamo a Muhammad Husayn Fadlallah, la dovuta chiarezza sull’argomento, “Gli ebrei desiderano minare o obliterare l’Islam e l’identità culturale araba in modo da incrementare il loro dominio economico e politico”, una frase che sembra uscita direttamente dai Protocolli. D’altronde, per ribadire meglio il concetto, nel 2008, l’emittente televisiva dell’organizzazione islamica, Al Manar mise in onda un programma il cui fulcro era la cospirazione ebraica per dominare il mondo a cui veniva aggiunta una variante moderna dei libelli medioevali antiebraici, la responsabilità diretta degli ebrei nella diffusione dell’AIDS. Il gemellaggio tra Hezbollah e Hamas, al di là delle differenze denominative, (lo sciismo per il primo, il sunnismo per il secondo) non può essere più stretto, l’antisemitismo virulento, lo stesso che ha motivato l’eccidio del 7 ottobre scorso. Nel gennaio 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton avviò delle trattative con i talebani. “Non fai pace con i tuoi amici. Devi essere disposto a impegnarti con i tuoi nemici”, spiegò. Fu un duro colpo per il governo afghano eletto e una scarica di adrenalina per gli talebani insorti . Per la Clinton, però, si trattò solo di realismo. Non importava quanto potessero essere detestabili i talebani, erano una realtà. Gli Stati Uniti non potevano né sconfiggere il gruppo né farli scomparire. Gli stessi atteggiamenti verso i gruppi terroristici permeano ampiamente, non solo Washington, ma anche l’Europa e le Nazioni Unite. Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, un attacco che ha causato la morte in un singolo giorno di più ebrei dall’ epoca dell’Olocausto, i diplomatici hanno scrollato le spalle e hanno sollecitato la negoziazione. Dopo tutto, Hamas controllava Gaza. Era una realtà impossibile da invertire. Usare la forza militare per sradicarlo sarebbe equivalso a pugnalare la gelatina. La maggioranza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite era dello stesso avviso, premiando il terrorismo palestinese nel concedere l’adesione allo Stato di Palestina. La stessa valutazione vale per Hezbollah. Il 20 settembre 2024, un orientalista britannico ha affermato che “gli interessi dell’Iran, di Hezbollah e, a lungo termine, di Israele, non risiedono in una guerra con obiettivi massimalisti, ma in uno stato di coesistenza che, per quanto deplorevole e cinico possa essere, include tutto tranne la guerra”. Ci sono tre fattori che governano tali atteggiamenti. Il primo è l’eredità delle frequenti rotazioni di diplomatici e funzionari internazionali. Il saccheggio di Kabul da parte dei talebani nel 1996 o la presa del potere da parte di Hamas a Gaza poco più di un decennio dopo possono essere stati scioccanti nella loro brutalità, ma le rotazioni diplomatiche ogni anno o due li hanno normalizzati. Per quanto riguarda i diplomatici, i talebani rappresentavano la cultura pashtun e lo hanno sempre fatto, ed era normale che i terroristi controllassero il Ministero della Salute di Gaza. Il secondo è l’assenza di consapevolezza storica e di visione strategica. L’islamismo è semplicemente l’ultimo “ismo” ad avere invaso il Medio Oriente. Il nazionalismo arabo del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser è scomparso con il tempo e così faranno anche le visioni islamiste dell’ayatollah Ruhollah Khomeini o di Recep Tayyip Erdoğan. Né è corretto supporre che sia impossibile sconfiggere l’ideologia. Il gruppo Baader Meinhof è scomparso molto prima della fine dell’Unione Sovietica. Ciò è vero anche quando il gruppo ideologico controlla il territorio. Né l’Occidente né le Nazioni Unite sono scese a compromessi con i Khmer Rossi mentre trasformavano la Cambogia in campi di sterminio. Il gruppo è scomparso dopo l’invasione del Vietnam allo scopo di porre fine al terrore. La forza militare ha ampiamente sconfitto il califfato dello Stato islamico, anche se la Turchia di Erdoğan cerca di tenerlo in vita. Il terzo è la condiscendenza, se non il razzismo e l’antisemitismo. Gli Stati Uniti e l’Europa possono avere uno standard di tolleranza per quanto riguarda il terrorismo ai loro confini, ma i diplomatici che dominano il Foreign Office insinuano che Israele e gli arabi vivano secondo standard inferiori. L’operazione “Sotto la cintola” di Israele del 17 settembre 2024 o, come l’ha definita Michael Doran dell’Hudson Institute, “l’Operazione Grim Beeper”, è stata brillante dal punto di vista tattico e strategico. Ha preso di mira Hezbollah in modo preciso e ha neutralizzato il gruppo con effetti devastanti. Gli attacchi successivi di Israele contro le radio e gli scontri faccia a faccia hanno lasciato Hezbollah nel caos. Mai nei 42 anni da quando la Repubblica islamica dell’Iran ha formato il gruppo esso è stato così vicino a un colpo definitivo. È tempo che Israele sferri questo colpo. Guidando nel Libano meridionale nel 2020, ho incontrato membri attuali ed ex di Hezbollah nel loro territorio. Seduti in una sala da tè appena fuori Nabitiyeh, in Libano, i membri di Hezbollah, tra cui un uomo che aveva trascorso anni in una prigione israeliana, hanno detto che ne avevano abbastanza. Israele esisteva, Hezbollah era più una mafia che un movimento di liberazione e volevano solo la normalità. Quella “pressione massima” ha prosciugato le risorse di Hezbollah e ha solo accelerato tali conclusioni. Molti hanno maledetto l’Iran e hanno visto il commercio di confine con Israele prima del 2000 come un periodo d’oro per il Libano meridionale. Quando Israele invase per la prima volta il Libano nel 1982, gli sciiti libanesi li acclamarono mentre gli israeliani cacciavano l’Organizzazione per la liberazione della Palestina dalle loro città e dai loro villaggi. La luna di miele fu breve, poiché Israele si trattenne oltre il suo benvenuto e il corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la Siria cercarono separatamente di riempire il vuoto con gruppi fedeli a Teheran o Damasco ma ostili a Israele. L’Iran vinse la guerra civile intra-sciita del Libano entro il 1986, ma 38 anni dopo, gli sciiti libanesi ne hanno avuto abbastanza. Gli Antony Blinken, i Jake Sullivan, i Jeremy Corbyn e i David Lammy potrebbero cercare di preservare lo status quo, ma Israele non dovrebbe farlo. Eliminare Hezbollah e ripristinare la piena sovranità del Libano cambierebbe il paradigma strategico e cambierebbe la convinzione diplomatica prevalente che sia necessario parlare con i terroristi piuttosto che elaborare strategie preordinate alla loro sconfitta.
(L'informale, 25 settembre 2024)
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I nemici di Israele aiutano Israele contro altri nemici
È così semplice. Quello che sta accadendo ora in Libano è esattamente questo.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Negli ultimi giorni e settimane, Israele ha dimostrato ai suoi nemici di avere tutte le informazioni segrete necessarie per uccidere uno ad uno l'intera leadership di Hezbollah. Questo perché la milizia terroristica sciita ha abbastanza nemici in Libano che stanno generosamente aiutando Israele a sbarazzarsi della piaga di Hezbollah in Libano - cristiani, drusi e sunniti. Ma Israele sa anche come usare i suoi nemici in Siria per attaccare altri nemici. La stragrande maggioranza dei siriani è sunnita e l'Iran è diventato sempre più potente nel Paese dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011. Questo era importante e necessario per il regime di Assad, ma ora l'Iran e gli sciiti in Siria sono diventati troppo potenti e questo crea sfiducia e inimicizia. Una brillante opportunità per Israele. Nell'ultimo anno, questi gruppi hanno ripetutamente sottolineato nei media libanesi che loro e il Libano non vogliono una guerra con Israele. Ieri abbiamo mostrato un video sul canale Telegram che mostra come i cristiani libanesi non accolgano gli sfollati del Libano meridionale e gli scontri nel quartiere residenziale di Ain al-Rummaneh, un sobborgo cristiano di Beirut. Il motivo: i residenti cristiani del sobborgo si rifiutano di accogliere nel loro quartiere gli sciiti di Nasrallah fuggiti dal sud del Libano. Alla fine di luglio, il leader di Hamas Ismail Haniye è stato ucciso nel cuore di Teheran, pochi giorni dopo l'eliminazione del numero due della milizia terroristica sciita Hezbollah, Fuad Shukr, nel cuore di Beirut. Poi, improvvisamente, migliaia di cercapersone sono esplosi nelle tasche dei terroristi Hezbollah in Libano e in Siria. L'aviazione israeliana ha poi immediatamente bombardato i depositi di armi e razzi nel sud del Libano. Israele ha anche tutti i dettagli e i luoghi in cui Hezbollah li nasconde. So da varie fonti a Gerusalemme che i drusi e i cristiani, ma anche i sunniti in Libano, sostengono Israele nella guerra contro gli sciiti e Hezbollah. È stato così anche nella prima guerra del Libano, nel 1982, quando cristiani e drusi hanno inizialmente operato con Israele contro i terroristi palestinesi dell'OLP in Libano, finché tutto è andato storto. Non è un segreto che la milizia terroristica sciita stia subendo pesanti colpi da Israele in questi giorni e sembra che Hassan Nasrallah si aspetti un aiuto urgente dall'Iran. Ma finora il regime degli ayatollah non ha mai preso le difese delle sue milizie in Libano. Questo potrebbe essere il motivo per cui il presidente iraniano Massud Peseshkian ha dichiarato ieri che l'Iran non vuole la guerra. "È Israele che vuole trascinare l'Iran in una guerra su larga scala in Medio Oriente e tendere trappole a Teheran affinché si unisca a tale guerra". Peseshkian, che si è recato a New York per partecipare all'annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato: "Non vogliamo essere la causa dell'instabilità in Medio Oriente, perché le conseguenze sarebbero irreversibili. Non vogliamo la guerra, vogliamo vivere in pace, mentre è Israele che vuole provocare una guerra totale". Ha sottolineato che l'Iran è consapevole che in una guerra non ci sono vincitori. "In una guerra e in un conflitto tutti perdono, ci inganniamo se crediamo che qualcuno possa uscire vincitore da una guerra regionale", ha detto il presidente iraniano. "Sappiamo meglio di chiunque altro che una guerra in Medio Oriente non porterà benefici a nessuno nel mondo. Non vogliamo la guerra". Finora l'Iran non ha reagito all'uccisione di Ismail Haniye. Israele ha anche dimostrato all'Iran di avere un'intelligence precisa che opera in profondità tra i ranghi delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Ora si ipotizza che anche il Presidente iraniano Ebrahimm Raisi, destituito a maggio, sia stato un obiettivo dell'intelligence israeliana, dopo che è stata diffusa una sua foto che mostra un cercapersone accanto a lui. Ammettere pubblicamente una cosa del genere sarebbe motivo di imbarazzo per il regime degli ayatollah. È possibile che Israele sia riuscito a dimostrare all'Iran che non vale la pena di mettersi contro Israele? Dopo tutto, l'attacco missilistico iraniano contro Israele a metà aprile è fallito. In seguito si è persino scoperto che la metà dei missili era un'arma difettosa. Forse l'Iran si sta rendendo conto di non essere attrezzato per una guerra con Israele? Le cose potrebbero cambiare, perché è in gioco anche l'onore. Gli sciiti e l'Iran possono rendersi ridicoli di fronte ai loro vicini sunniti, come già avviene sui social network e sui media. Israele opera con astuzia dietro le linee nemiche. "Fai la guerra con l'astuzia, e la salvezza è dove ci sono molti consiglieri", disse il saggio re Salomone, e questo è stato il motto del servizio segreto israeliano Mossad, oltre che dell'esercito, da allora. All'inizio di aprile, tre giorni dopo che Israele aveva deliberatamente ucciso il comandante iraniano dell'unità Quds, Mohammad Reza Zahadi, in un edificio vicino al consolato iraniano a Damasco, è stato citato un alto funzionario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale a Teheran. Egli ha dichiarato che le forze di sicurezza hanno presentato al Consiglio un rapporto in cui sospettano che funzionari del governo siriano siano coinvolti nell'uccisione di alti comandanti iraniani. Secondo questa fonte mediatica araba, le informazioni segrete delle autorità di sicurezza siriane avrebbero permesso a Israele di compiere le uccisioni. Due mesi prima, fonti iraniane avevano dichiarato alla Reuters che "le autorità di sicurezza iraniane sospettano che attori siriani abbiano fornito a Israele informazioni precise che hanno portato all'uccisione di alcuni alti comandanti delle Quds". Il mese scorso, il capo di Stato Maggiore siriano Abdul Karim Mohammad Ibrahim ha visitato segretamente Teheran per rafforzare i legami con l'Iran, all'insaputa del presidente siriano Bashar al-Assad. Lo ha riferito l'emittente televisiva saudita Al-Hadath in agosto. Secondo il rapporto, il Capo di Stato Maggiore siriano ha autorizzato operazioni contro Israele dalla Siria senza informare il suo capo Assad, compreso il lancio di droni contro Israele dalla Siria. Queste decisioni hanno portato Israele ad attaccare posizioni siriane e non iraniane. Inoltre, il Capo di Stato Maggiore siriano avrebbe autorizzato la consegna di armi dall'esercito siriano a Hezbollah. "Il Capo di Stato Maggiore siriano sta mettendo a rischio la stabilità della Siria e danneggiando le sue strutture vitali", sostiene il giornale saudita. Secondo il rapporto, la guerra ha modificato la presenza dell'asse iraniano in Siria. Gli sciiti, iraniani, hanno iniziato a mescolarsi con la popolazione siriana, abusando di loro come scudi umani e mettendoli così in pericolo. Inoltre, risorse civili e apparentemente legittime dello Stato vengono utilizzate per scopi terroristici. La forte presenza iraniana in Siria è evidente anche nel settore civile. Negli ultimi anni, e soprattutto negli ultimi mesi, le attività religiose a Damasco sono aumentate, soprattutto nei luoghi sacri sunniti. Le fonti riferiscono che la presenza iraniana sta diventando sempre più dominante sia nel settore civile che nelle basi dell'esercito siriano. All'ombra dell'escalation regionale, nei giorni scorsi alcuni rappresentanti del regime di Assad hanno inviato messaggi all'Iran, affermando che la Siria non vuole essere coinvolta in una guerra regionale in Medio Oriente. Questo è stato riportato dal Wall Street Journal. Secondo il rapporto, che si basa sulle dichiarazioni di un consigliere del governo siriano e di un alto funzionario della sicurezza europea, Damasco ha dichiarato di non voler essere coinvolta in una guerra in questo momento a causa della grave crisi economica del Paese e delle sanzioni internazionali contro il regime siriano. Israele sta sfruttando la situazione in Siria per i propri scopi e sa come colpire gli altri nemici in modo feroce e intenso in questo momento. Israele sta facendo lo stesso in Libano e sta collaborando con i nemici delle milizie terroristiche sciite in Libano contro Hezbollah. Questo spiega il successo delle eliminazioni e dei bombardamenti di depositi di armi e razzi in Libano e in Siria. Israele è in avanzata e non deve fermarsi. Perché i nemici di Israele capiscono solo il potere e altro potere - non la pietà.
(Israel Heute, 25 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“Cari amici di Israele”
Editoriale di “Nachrichten aus Israel”
di Fredi Winkler
HAIFA - Israele ha giurato di trovare e liquidare tutti i responsabili delle atrocità del 7 ottobre di un anno fa, proprio come fece con gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, anche se ci sono voluti 20 anni perché l'ultimo venisse catturato.
Israele conosce abbastanza bene i responsabili, poiché gli stessi membri di Hamas hanno filmato le loro atrocità per potersene vantare in seguito. E la maggior parte di questo materiale cinematografico è finito nelle mani degli israeliani.
Con la liquidazione di Ismail Haniyeh a Teheran, è stato raggiunto un leader di Hamas di altissimo livello. L'attacco contro di lui è stato un colpo da maestro dell'intelligence israeliana, che ha dimostrato come questi efferati assassini non saranno al sicuro da nessuna parte.
L'Iran non poteva credere a quello che era successo. Uno dei suoi più importanti alleati nella lotta contro Israele era stato fatto fuori da Israele nel bel mezzo di Teheran. Le voci più assurde giravano su come Israele fosse riuscito a uccidere Ismail Haniyeh, che era un ospite d'onore sotto la protezione del regime degli ayatollah.
L'Iran non aveva altra scelta che vendicare questa umiliazione. Ma la domanda è: vale la pena di rischiare una grande guerra per questo? Sebbene Ismail Haniyeh sia stato un alleato nella lotta contro il nemico sionista, non era uno sciita come gli iraniani, ma "solo un sunnita". Ma quando si tratta di combattere il nemico sionista, anche le differenze religiose altrimenti rivali nell'Islam scompaiono.
Le dichiarazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan sono estremamente preoccupanti in questo contesto. Ha minacciato Israele di invaderlo. Questa dichiarazione è una minaccia oltraggiosa, ma Israele deve prenderla sul serio.
Inoltre, Erdogan ha dichiarato una giornata di lutto nazionale per Ismail Haniyeh, durante la quale la bandiera turca è stata esposta a mezz'asta.
Sebbene Turchia e Iran appartengano a campi religiosi diversi all'interno dell'Islam, si stanno avvicinando sempre di più. Ciò che li unisce sempre più è l'opposizione a Israele. Questo crescente avvicinamento ideologico tra Iran e Turchia è un serio motivo di preoccupazione per Israele.
Tuttavia, quattro Stati arabi non hanno condannato l'eliminazione dell'assassino di massa Ismail Haniyeh: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Mauritania e Marocco. Questo dimostra che il mondo arabo e islamico non è così unito come potrebbe sembrare dall'esterno.
Quando la Turchia minaccia di invadere la terra d'Israele, Dio dice: "Nel giorno in cui Gog entrerà nella terra d'Israele, dice il Signore Dio, la mia ira salirà nelle mie narici" (Ezechiele 38:18). Ciò che significa è descritto nei versetti 19 e 20, e poi nel versetto 21 si dice: "E chiamerò la spada contro di lui su tutti i miei monti, dichiara il Signore DIO, e la spada dell'uno sarà contro l'altro".
Il mondo islamico può apparire minaccioso ed esteriormente unificato, ma grazie a Dio ci sono molte crepe. Ci sono anche coloro che vogliono semplicemente pace e tranquillità e che sono contrari alle sciabolate dell'Iran.
Grazie alla Parola di Dio - come in Ezechiele 38, dove possiamo vedere che il Signore stesso combatterà contro i nemici - un caloroso saluto dall'Israele minacciata.
(Nachrichten aus Israel, ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele: nozze last minute a pochi chilometri dal confine con il Libano
Tanti invitati per un matrimonio programmato da tempo in una location di Haifa. Un desiderio di una giovane coppia di israeliani, Aviram Afota e Shani Vaknin, che l’incessante lancio di missili da parte di Hezbollah ha però dissolto, costringendoli ad annullare il lieto evento.
Tuttavia, Aviram e Shani non hanno perso la speranza e sono riusciti a ripianificare le nozze in una sinagoga a Nahariya, nel nord d’Israele, a circa 10 chilometri dal confine con il Libano. Un matrimonio last minute: poche ore per trovare un truccatore, un event designer, un DJ e un catering e alla fine gli sposi sono stati raggiunti anche da 70 persone, tra familiari e amici. “Queste non saranno nozze tristi perché coloro che devono essere qui, ora sono proprio accanto a noi. – ha detto lo sposo, come riporta Ynet – Certamente, sarebbe stato più gioioso essere in una sala con tutti i nostri amici e la famiglia intera, ma festeggeremo con loro più avanti. La chuppah di oggi è il nostro modo di rispondere a Hezbollah, proprio qui a Nahariya”.
La coppia ha anche auspicato il ritorno degli ostaggi israeliani e la sicurezza dei soldati dell’IDF.
Il padre e il fratello maggiore di Shani fanno parte della squadra di allerta locale del moshav di Shomera, mentre un altro fratello, tornato di recente da Gaza, presta servizio come comandante di plotone nella Brigata Golani. “Stiamo attraversando un momento difficile, ma siamo qui e ringraziamo Dio perché stasera possiamo stare sotto la chuppah e perché nostra figlia sta iniziando la sua vita matrimoniale in Israele. – ha detto la madre di Shani, Ayelet Chen Vaknin. Questa è la nostra forza, la forza del popolo di Israele: siamo qui contro Nasrallah e Hezbollah. – e ha aggiunto – Non ci toglieranno la gioia. Prego per il ritorno di tutti gli ostaggi sani e salvi e che i nostri soldati tornino presto a casa”.
(Shalom, 25 settembre 2024)
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Gli sciacalli della guerra
Agghiacciante la spasmodica ricerca di bambini tra le vittime dei bombardamenti israeliani, fino quasi ad augurarselo pur di sparare il "titolone".
di Sarah G. Frankl
Ieri sera ho avuto modo di vedere praticamente in diretta una chat privata tra una fonte libanese e alcuni giornalisti che mi dicono essere italiani e inglesi.
Il libanese avvisava che c’erano morti e feriti tra i civili ma ai giornalisti interessava solo sapere se tra le vittime c’erano bambini e quanti erano. Una cosa incredibile. Tutti lì a sbavare, quasi a sperare che ci fossero bambini tra le vittime così da poter sparare il titolone.
Noi di RR ci eravamo già accorti su Twitter che, oltre ai video e immagini fake (fatti malissimo) c’era questo interesse quasi morboso per sapere se tra le vittime civili, ammesso che si possa distinguere tra miliziani e civili, ci fossero bambini.
Ai giornalisti (chiamiamoli così giusto per dar loro una collocazione) non interessava affatto quello che il libanese aveva da dire, tra l’altro non lesinava attacchi a Hezbollah, no, a loro interessava esclusivamente sapere se tra le vittime ci fossero bambini o, in seconda battuta, donne.
Se nella realtà non si ripete del tutto lo schema di Gaza, grazie al fatto che il Ministero della salute libanese è certamente più attendibile di Hamas, nel mondo virtuale girano numeri e resoconti destituiti di ogni fondamento. Addirittura video e immagini risalenti alla guerra in Siria che mostrano distruzioni assolutamente non compatibili con la situazione in Libano.
Quello di questi “giornalisti” è uno sciacallaggio sulle vittime innocenti – come ce ne sono in tutte le guerre – che lascia francamente inorriditi. Questa maniacale ricerca di bambini vittime di bombardamenti, anzi, questo schifoso “quasi augurarsi” che vi siano bambini tra le vittime, è agghiacciante.
(Rights Reporter, 25 settembre 2024)
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Angelica Calò Livne: Mi dispiace per i libanesi ma dobbiamo reagire
La chat del kibbutz Sasa trilla a ciclo continuo. L’invito, reiterato a ogni ora, è a tenere pronto un bagaglio in caso di evacuazione urgente. E in ogni caso a riempire il mamad, la stanza blindata, con tutto il necessario. Perché la situazione da molto complicata potrebbe presto farsi critica.
«Potremmo dover lasciare il kibbutz in ogni momento», racconta l’educatrice italo-israeliana Angelica Edna Calò Livne da Sasa. Il Libano ed Hezbollah sono appena oltre il confine e la pioggia di razzi e missili è la cifra quotidiana del vivere da queste parti. Nelle ultime ore il contesto è ulteriormente peggiorato e un ordigno sparato da Hezbollah ha avuto come conseguenza il divampare di un ampio incendio «partendo dal nostro frutteto». Per fortuna, aggiunge la donna, «mio marito Yehuda, che è il responsabile della sicurezza qui a Sasa, è riuscito ad attrezzare un camion che ci permette di affrontare scenari del genere senza dover attendere l’arrivo dei pompieri». L’incendio è stato domato, ma due kibbutznik del gruppo della sicurezza «sono stati comunque ricoverati in ospedale».
(moked, 24 settembre 2024)
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Una vittoria israeliana su Hezbollah cambierebbe il paradigma strategico
di Michael Rubin
Nel gennaio 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton avviò delle trattative con i talebani. “Non fai pace con i tuoi amici. Devi essere disposto a impegnarti con i tuoi nemici”, spiegò. Fu un duro colpo per il governo afghano eletto e una scarica di adrenalina per i talebani insorti . Per la Clinton, però, si trattò solo di realismo. Non importava quanto potessero essere detestabili i talebani, erano una realtà. Gli Stati Uniti non potevano né sconfiggere il gruppo né farli scomparire.
Gli stessi atteggiamenti verso i gruppi terroristici permeano ampiamente, non solo Washington, ma anche l’Europa e le Nazioni Unite. Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, un attacco che ha causato la morte in un singolo giorno di più ebrei dall’epoca dell’Olocausto, i diplomatici hanno scrollato le spalle e hanno sollecitato la negoziazione. Dopo tutto, Hamas controllava Gaza. Era una realtà impossibile da invertire. Usare la forza militare per sradicarlo sarebbe equivalso a pugnalare la gelatina. La maggioranza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite era dello stesso avviso, premiando il terrorismo palestinese nel concedere l’adesione allo Stato di Palestina.
La stessa valutazione vale per Hezbollah. Il 20 settembre 2024, un orientalista britannico ha affermato che “gli interessi dell’Iran, di Hezbollah e, a lungo termine, di Israele, non risiedono in una guerra con obiettivi massimalisti, ma in uno stato di coesistenza che, per quanto deplorevole e cinico possa essere, include tutto tranne la guerra”.
Ci sono tre fattori che governano tali atteggiamenti. Il primo è l’eredità delle frequenti rotazioni di diplomatici e funzionari internazionali. Il saccheggio di Kabul da parte dei talebani nel 1996 o la presa del potere da parte di Hamas a Gaza poco più di un decennio dopo possono essere stati scioccanti nella loro brutalità, ma le rotazioni diplomatiche ogni anno o due li hanno normalizzati. Per quanto riguarda i diplomatici, i talebani rappresentavano la cultura pashtun e lo hanno sempre fatto, ed era normale che i terroristi controllassero il Ministero della Salute di Gaza.
Il secondo è l’assenza di consapevolezza storica e di visione strategica. L’islamismo è semplicemente l’ultimo “ismo” ad avere invaso il Medio Oriente. Il nazionalismo arabo del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser è scomparso con il tempo e così faranno anche le visioni islamiste dell’ayatollah Ruhollah Khomeini o di Recep Tayyip Erdoğan. Né è corretto supporre che sia impossibile sconfiggere l’ideologia. Il gruppo Baader Meinhof è scomparso molto prima della fine dell’Unione Sovietica. Ciò è vero anche quando il gruppo ideologico controlla il territorio. Né l’Occidente né le Nazioni Unite sono scese a compromessi con i Khmer Rossi mentre trasformavano la Cambogia in campi di sterminio. Il gruppo è scomparso dopo l’invasione del Vietnam allo scopo di porre fine al terrore. La forza militare ha ampiamente sconfitto il califfato dello Stato islamico, anche se la Turchia di Erdoğan cerca di tenerlo in vita.
Il terzo è la condiscendenza, se non il razzismo e l’antisemitismo. Gli Stati Uniti e l’Europa possono avere uno standard di tolleranza per quanto riguarda il terrorismo ai loro confini, ma i diplomatici che dominano il Foreign Office insinuano che Israele e gli arabi vivano secondo standard inferiori.
L’operazione “Sotto la cintola” di Israele del 17 settembre 2024 o, come l’ha definita Michael Doran dell’Hudson Institute, “l’Operazione Grim Beeper”, è stata brillante dal punto di vista tattico e strategico. Ha preso di mira Hezbollah in modo preciso e ha neutralizzato il gruppo con effetti devastanti. Gli attacchi successivi di Israele contro le radio e gli scontri faccia a faccia hanno lasciato Hezbollah nel caos. Mai nei 42 anni da quando la Repubblica islamica dell’Iran ha formato il gruppo esso è stato così vicino a un colpo definitivo. È tempo che Israele sferri questo colpo.
Guidando nel Libano meridionale nel 2020, ho incontrato membri attuali ed ex di Hezbollah nel loro territorio. Seduti in una sala da tè appena fuori Nabitiyeh, in Libano, i membri di Hezbollah, tra cui un uomo che aveva trascorso anni in una prigione israeliana, hanno detto che ne avevano abbastanza. Israele esisteva, Hezbollah era più una mafia che un movimento di liberazione e volevano solo la normalità. Quella “pressione massima” ha prosciugato le risorse di Hezbollah e ha solo accelerato tali conclusioni. Molti hanno maledetto l’Iran e hanno visto il commercio di confine con Israele prima del 2000 come un periodo d’oro per il Libano meridionale.
Quando Israele invase per la prima volta il Libano nel 1982, gli sciiti libanesi li acclamarono mentre gli israeliani cacciavano l’Organizzazione per la liberazione della Palestina dalle loro città e dai loro villaggi. La luna di miele fu breve, poiché Israele si trattenne oltre il suo benvenuto e il corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la Siria cercarono separatamente di riempire il vuoto con gruppi fedeli a Teheran o Damasco ma ostili a Israele. L’Iran vinse la guerra civile intra-sciita del Libano entro il 1986, ma 38 anni dopo, gli sciiti libanesi ne hanno avuto abbastanza.
Gli Antony Blinken, i Jake Sullivan, i Jeremy Corbyn e i David Lammy potrebbero cercare di preservare lo status quo, ma Israele non dovrebbe farlo. Eliminare Hezbollah e ripristinare la piena sovranità del Libano cambierebbe il paradigma strategico e cambierebbe la convinzione diplomatica prevalente che sia necessario parlare con i terroristi piuttosto che elaborare strategie preordinate alla loro sconfitta.
(L'informale, 24 settembre 2024)
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Con “Frecce del Nord” inizia la seconda fase della guerra
di Ugo Volli
• L’AGGRESSIONE DI HEZBOLLAH
Ha un nome la nuova operazione delle forze armate di Israele in Libano: “Frecce del Nord”. In realtà non è un’operazione isolata, ma l’inizio di una nuova fase della guerra che è iniziata a Gaza il 7 ottobre dell’anno scorso e al nord il giorno dopo, l’8 ottobre, quando Hezbollah, senza alcuna provocazione, iniziò a bombardare Israele coi suoi missili. All’inizio erano singoli razzi anticarro (RPG) sparati da armi a spalla, poi i bombardamenti aumentarono di intensità e di qualità, con missili sulle istallazioni militari e anche sui kibbutzim, i villaggi e le cittadine della Galilea, fino a lanci più penetranti che arrivarono anche su località maggiori come Tzfat. Dall’8 ottobre Hezbollah ha sparato più di 8.800 missili, ferendo 325 persone e uccidendone 48. Particolarmente efferato fu il bombardamento diretto, cioè mirato di un campo sportivo del villaggio druso di Majdal Shams che il 26 luglio scorso uccise dodici ragazzini morti mentre giocavano a calcio. Oltre 63.000 civili israeliani sono stati costretti ad abbandonare le loro case in seguito ai bombardamenti.
• LA RISPOSTA PUNTUALE DELLA PRIMA FASE
La tattica dell’esercito israeliano è stata in questi mesi quella delle risposte puntuali: ogni volta che c’era un bombardamento, Israele sparava a sua volta contro la fonte del fuoco, usando l’artiglieria e gli aerei, con l’intento di distruggere il pericolo. Vi sono stati anche numerosi abbattimenti mirati di comandanti terroristi di grado più o meno alto. Ma non sembrava possibile intervenire sulla minaccia complessiva del nord, perché la massa dell’esercito era impegnata a Gaza e perché la forza di Hezbollah è molto superiore a quella di Hamas: all’inizio della guerra si stimava che i terroristi libanesi avessero nei loro depositi fra 100 e 150 mila missili, di cui un numero notevole di lunga gettata e con guida elettronica che ne assicurava la precisione e molte migliaia di droni, tutti forniti dall’Iran. Inoltre Hezbollah ha parecchie decina di migliaia di militari inquadrati in reparti ben armati e addestrati, veterani di campagne importanti nella guerra civile siriana. Il terreno montuoso con valli molto strette e il controllo totale del territorio, su cui sono stati scavati numerosi bunker e tunnel offensivi, rendono difficile un’offensiva di terra, in particolare la manovra dei carri armati, come si era già visto nella seconda guerra del Libano del 2006. Vi era inoltre una forte pressione americana ed europea, in particolare della Francia, perché non si “estendesse” la guerra al Libano – come se quel che faceva Hezbollah non fosse già una guerra terroristica. Israele ha comunque sempre dichiarato di non poter sopportare i bombardamenti sul proprio territorio e lo svuotamento della popolazione del nord, tanto da aver inserito recentemente fra gli scopi ufficiali della guerra in corso la possibilità per loro di tornare indisturbati alle loro case.
• LA NUOVA STRATEGIA
Dopo averlo molto annunciato e aver ripetutamente ammonito Hezbollah a cessare la sua aggressione e a obbedire alla risoluzione dell’Onu del 2006 che imponeva non vi fossero forze armate in Libano fra il confine con Israele e il fiume Litani, 15 chilometri circa più al nord, salvo l’esercito regolare libanese e il corpo internazionale Unifil dell’Onu, Israele ha cambiato strategia ed è passato all’offensiva. Non però come tutti credevano e Hezbollah pure aveva pensato, facendo entrare immediatamente una forza di terra oltre il confine, in modo da ripulire la zona da cui prevalentemente agiscono i terroristi, esponendosi però alle trappole da loro predisposte. È stata un’operazione diversa, più complessa ed efficace. Prima, martedì e mercoledì scorso, vi è stata l’esplosione dei cercapersone e delle radio detenute dai quadri dell’organizzazione, con il doppio risultato di mettere fuori combattimento alcune migliaia di terroristi, in sostanza tutti i capi intermedi, disarticolandone il quadro di comando, e di disabilitare l’infrastruttura di comunicazione, che per un esercito moderno è come il sistema nervoso- Poi venerdì c’è stato il bombardamento di un edificio di Deyah, il quartiere fortezza di Hezbollah a Beirut, che ha colpito una riunione dei massimi comandanti dell’organizzazione, eliminandoli tutti e sconvolgendo ulteriormente la sua catena di comando con la distruzione di tutto lo stato maggiore terrorista. Infine negli ultimi due giorni è partita una campagna sistematica di distruzione dei luoghi dove Hezbollah schiera e conserva i suoi missili e i loro lanciatori, tanto al confine con Israele quanto più al nord, nella lunga valle della Beka. Sono stati colpiti finora quasi duemila obiettivi, a quanto pare, dimezzando gli strumenti offensivi del gruppo. Hezbollah è riuscito a sparare alcuni missili, anche a lunga gettata, ma non è stato in grado finora di provocare gravi danni: evidentemente le difficoltà interne di comunicazione, l’eliminazione dei comandanti, lo stato di shock dell’organizzazione è tale da rendere difficile una sua offensiva anche coi materiali che le restano. L’esercito israeliano del resto continua a colpire i missili e i depositi di armi che spesso sono nascosti dentro villaggi e case civili (dopo aver invitato insistentemente e con molti mezzi la popolazione civile a evacuarli).
• COME ANDRÀ AVANTI?
È difficile dire come proseguirà “Frecce del Nord”. L’obiettivo minimo israeliano è costringere Hezbollah a ritirarsi dietro il fiume Litani, obbedendo alla risoluzione dell’Onu, e a abbandonare l’aggressione. Per questo potrebbero bastare in teoria i bombardamenti aerei. Ma è possibile che ciò non accada e che un’azione di terra si riveli necessaria per distruggere molto più a fondo il gruppo terrorista, sul modello di Gaza. L’incognita è l’Iran, grande protettore e in sostanza mandante di Hezbollah come di Hamas. Visto che i suoi calcoli strategici di sconfiggere lo stato ebraico col logorio di una guerra multifronte non funzionano, gli ayatollah accetteranno la sconfitta e indurranno i loro satelliti a cercare una via d’uscita, salvando almeno parte della loro organizzazione, o li getteranno completamente nella mischia, rischiando la loro distruzione totale? O addirittura, come si vociferava ieri, l’Iran entrerà direttamente in guerra? Su questo punto c’è dissenso, a quanto dicono i media, fra il nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian, più disponibile a una de-escalation e la Guida Suprema Khatami che sarebbe più propenso a una guerra totale. Quel che è certo è che devono fare i conti con un Israele tutt’altro che esaurito e senza risorse, che conosce il fronte settentrionale molto meglio di quel che sapeva di Hamas un anno fa e ha pianificato da molto tempo la possibilità di uno scontro diretto con l’Iran, addestrandosi anche a distruggere il suo apparato nucleare. Tutti questo avviene in un momento in cui gli Stati Uniti sono ormai a meno di due mesi dalle elezioni e i candidati devono misurare bene il loro atteggiamento di fronte a un elettorato che è in grande maggioranza schierato dalla parte di Israele. Questo potrebbe essere un momento di svolta nella guerra.
(Shalom, 24 settembre 2024)
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L'aviazione israeliana colpisce 1.300 obiettivi in Libano mentre Hezbollah bombarda il nord di Israele
L'esercito invita i civili nel sud del Libano a lasciare le case utilizzate dall'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran.
di Joshua Marks
GERUSALEMME - Per tutta la giornata di lunedì, i caccia dell'aviazione israeliana hanno effettuato massicci attacchi aerei su obiettivi di Hezbollah in Libano per impedire all'esercito del terrore sostenuto dall'Iran di lanciare razzi oltre il confine. La sera di lunedì, l'IAF aveva attaccato più di 1.300 obiettivi di Hezbollah in Libano. Oltre a un precedente aggiornamento, l'esercito ha pubblicato un video in cui il tenente generale Herzi Halevi autorizza gli attacchi dalla sala di comando sotterranea del quartier generale delle Israel Defence Forces a Tel Aviv. Il portavoce dell'IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha avvertito che gli attacchi dell'IAF continueranno nel prossimo futuro e ha criticato il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah. Ha accusato il capo del terrorismo di "trascinare il Libano e l'intera regione in un'escalation". Sulla possibilità di manovre di terra in Libano, ha dichiarato: "Faremo tutto il necessario per riportare gli abitanti [del nord di Israele] nelle loro case. Abbiamo piani dettagliati che abbiamo presentato alla leadership politica". Lunedì mattina, Hagari ha avvertito i civili libanesi lungo il confine che Hezbollah stava usando le loro case come nascondigli di armi e che dovevano essere evacuati immediatamente per la loro sicurezza. Durante la conferenza stampa, ha anche annunciato che i terroristi hanno recentemente tentato di lanciare un missile da crociera da una casa civile, ma sono stati sventati, e ha presentato la documentazione dell'attacco preventivo. Il missile da crociera era un modello DR-3 con un raggio di volo di 200 km (124 miglia) e una testata fino a 300 kg (661 libbre), ha dichiarato l'IDF. "Ho registrato un messaggio chiaro per tutti i residenti del Libano meridionale - nelle ultime ore abbiamo rilevato l'intenzione di attaccare Israele e colpiremo presto", ha detto Hagari. "Per più di 20 anni, Hezbollah ha piazzato armi nelle case e le ha armate, trasformando il Libano meridionale in una zona di combattimento. Noi monitoriamo queste attività, localizziamo le armi e le distruggiamo con attacchi precisi. Vi invitiamo ad allontanarvi immediatamente da queste case per la vostra sicurezza. Hezbollah vi sta mettendo in pericolo", ha detto Hagari. L'IDF ha inviato messaggi di testo ai residenti del Libano meridionale invitandoli a stare lontani dagli edifici di Hezbollah. Il video messaggio di Hagari era sottotitolato in arabo: "Chiunque si trovi vicino o nelle case in cui Hezbollah nasconde armi è pregato di andarsene immediatamente". Gerusalemme ha intensificato la sua retorica e gli attacchi contro Hezbollah da quando ha recentemente aggiunto come obiettivo ufficiale di guerra il ritorno dei suoi residenti nel nord. Più di 60.000 israeliani rimangono sfollati all'interno del Paese dopo quasi un anno di attacchi quasi quotidiani di razzi, missili e droni da parte di Hezbollah a sostegno di Hamas nella Striscia di Gaza. I media libanesi affiliati a Hezbollah hanno riferito di vittime degli attacchi israeliani, che sono penetrati in profondità nel territorio libanese nella Valle della Bekaa. Nel frattempo, nella zona di Safed, nell'Alta Galilea israeliana, è stato lanciato un allarme razzi, con numerose esplosioni e decine di intercettazioni. È stata segnalata anche una raffica importante nella Bassa Galilea. Il gruppo medico di emergenza Magen David Adom ha dichiarato che due israeliani hanno riportato ferite minori quando un razzo ha colpito nella zona del Golani Junction, nella Bassa Galilea, tra Tiberiade e Nazareth. I due uomini, di 25 e 59 anni, sono stati portati al Centro medico di Poria (Baruch Padeh Medical Centre) vicino a Tiberiade per essere curati. A Giv'at Avni, situata sul Mar di Galilea, è scoppiato un incendio dopo che un razzo di Hezbollah ha colpito direttamente una casa, hanno riferito i media locali. I residenti si erano barricati nel loro rifugio e ne sono usciti illesi dopo gli attacchi. Dopo l'attacco dell'IAF a Beirut, lunedì sera, le sirene di allarme aereo hanno suonato in tutto il nord di Israele, mettendo in guardia da un nuovo lancio di razzi e missili. Il Magen David Adom ha dichiarato che i suoi paramedici hanno evacuato un uomo di 23 anni in condizioni moderate al Centro medico Rambam di Haifa dopo che era stato colpito alla testa da frammenti di razzi nell'Alta Galilea.Il leader dell'opposizione israeliana Yair Lapid ha accolto con favore gli attacchi dell'IAF in Libano in una dichiarazione. "Sostengo l'aviazione, l'IDF e le forze di sicurezza nella loro operazione in Libano. I tempi sono maturi. Siate forti e coraggiosi e agite - non abbiate paura e non disperate finché tutti i residenti del nord non torneranno sani e salvi nelle loro case", ha twittato il presidente del partito Yesh Atid.
(Israel Heute, 24 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Iran: una tigre di carta ammutolita dalla decimazione di Hezbollah
Il Presidente iraniano appena arrivato a New York dice senza mezzi termini che l'Iran "è disposta a deporre le armi se lo farà anche Israele". Una presa di coscienza non si sa quanto gradita ai Guardiani della Rivoluzione e all'Ayatollah Khamenei
di Franco Londei
Una vera pioggia di fuoco si è abbattuta su Hezbollah e per il momento la tanto temuta risposta dell’Iran a sostegno dei terroristi libanesi o come ritorsione per l’eliminazione di Ismail Haniyeh avvenuta proprio in casa degli Ayatollah, non si è vista. Anzi, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian si è affrettato a dire che «Vogliamo vivere in pace, non vogliamo la guerra». «Siamo disposti a mettere da parte tutte le nostre armi a condizione che Israele sia disposto a fare lo stesso», ha affermato al suo arrivo a New York dove parteciperà all’Assemblea Generale dell’ONU. Poi ha aggiunto che Israele vuole trascinare il Medio Oriente in una guerra in piena regola provocando l’Iran a unirsi al conflitto che dura da quasi un anno tra Israele e Hezbollah sostenuto da Teheran in Libano. Il fatto di accusare Israele di “provocazione”, usanza assai diffusa tra gli antisemiti, è una sorta di capovolgimento della realtà a cui purtroppo siamo abituati. Hezbollah ha iniziato a lanciare missili dall’8 ottobre, cioè dal giorno dopo del massacro del 7 ottobre e solo un sito antisemita come la BBC può tirar fuori un rapporto secondo il quale nello scambio tra Israele e Hezbollah lo Stato Ebraico avrebbe attaccato i terroristi con un numero di attacchi 4/5 volte superiore a quello dei terroristi. Tuttavia è molto indicativo il fatto che il Presidente iraniano abbia lanciato un messaggio di de-escalation, anche se poi il Ministero degli Esteri di Teheran si è affrettato a rilasciare una dichiarazione in cui smentisce le dichiarazioni riportate dal presidente. Perché è indicativo? Perché gli iraniani temono più il rischio che la guerra arrivi in casa loro di quanto abbiano sete di vendetta. Se infatti provassero a lanciare un nuovo attacco contro Israele, nel volgere di pochissimo tempo l’IDF colpirebbe direttamente obiettivi in Iran. E la situazione interna all’Iran potrebbe portare ad una implosione del regime. Non solo, esattamente come Hezbollah, l’Iran ha tantissimi missili ma pochi lanciatori per i missili balistici, circa 250 in tutto. Una volta lanciata la prima salva i lanciatori verrebbero immediatamente individuati e distrutti. È già successo in Libano. Gli iraniani lo hanno visto e sanno che succederà anche in Iran. Come hanno visto cosa è in grado di fare il Mossad che in due giorni ha tolto di mezzo il 10% dei miliziani di Hezbollah, decimato i vertici del gruppo terrorista e messo nel panico tutto il resto, lasciati quasi senza mezzi di comunicazione. La capacità di infiltrazione del Mossad, dimostrata anche ieri con l’attacco mirato contro Ali Karaki, il comandante in capo di Hezbollah, e contro quello che rimaneva dei vertici operativi terroristici, rende nervosi i Guardiani della Rivoluzione (IRGC) che, come dimostra anche l’eliminazione di Ismail Haniyeh, sanno di essere stati infiltrati ma non sanno come né a che livello. Il dubbio che una sorpresa come quella dei cercapersone esplosivi capitata a Hezbollah, possa capitare anche a loro, magari in forma più grande, sconsiglia qualsiasi azione. L’IDF e l’intelligence israeliane hanno calcolato tutto. Sanno che l’Iran non può lanciare «migliaia di missili» come i catastrofisti e gli anti-israeliani (spesso la stessa persona) vanno dicendo. Non perché non hanno i missili, non hanno i lanciatori e quelli che hanno sono facilmente individuabili. La lezione che sta subendo Hezbollah è molto più grande di quello che si possa vedere dall’esterno. È la decimazione del gruppo terrorista sia a livello fisico, a partire dai vertici, che a livello militare. A Teheran guardano impotenti l’umiliazione del loro proxy più potente. Attenti, non sto dicendo che Hezbollah non è ancora pericoloso. Sarebbe un errore imperdonabile crederlo. Anche questa mattina hanno lanciato centinaia di missili. Tuttavia è innegabile che in poco più di una settimana ha subito un colpo che se non è mortale poco ci manca. E adesso l’Iran è di fronte al dilemma più grande che gli Ayatollah si siano mai trovati ad affrontare: supportare Hezbollah con un attacco a Israele, oppure rimanere fermi aspettando che lo Stato Ebraico ritenga di aver raggiunto il suo obiettivo e si fermi. Nel primo caso sanno che sarebbe probabilmente la loro fine. Nel secondo dimostrerebbero di essere una tigre di carta e perderebbero ogni forma di deterrenza verso i nemici regionali, gli Stati Arabi.
(Rights Reporter, 24 settembre 2024)
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USA: allarmante aumento dei crimini d'odio antiebraico nel 2023
L'FBI ha pubblicato lunedì le statistiche che rivelano un aumento del 63% dei crimini d'odio contro gli ebrei negli Stati Uniti nel 2023. Il numero di episodi segnalati è passato dai 1.122 del 2022 ai 1.832 dell'anno successivo, raggiungendo il livello più alto mai registrato.
Secondo i dati, gli incidenti antisemiti hanno rappresentato il 15% di tutti i crimini d'odio nel 2023 e il 68% dei crimini d'odio basati sulla religione, anche se gli ebrei rappresentano solo il 2% circa della popolazione statunitense.
Il rapporto dell'FBI mostra anche un aumento del 34% degli incidenti anti-arabi, con 123 casi documentati, il numero più alto da quando l'agenzia ha iniziato a tracciare questi dati nel 2015. Gli incidenti anti-musulmani hanno registrato un aumento del 49% nel 2023, raggiungendo un totale di 236, il più alto dal 2017.
Jonathan Greenblatt, amministratore delegato dell'Anti-Defamation League (ADL), ha reagito ai dati dichiarando: "In un momento in cui la comunità ebraica sta ancora soffrendo per il forte aumento dell'antisemitismo in seguito al massacro di Hamas in Israele del 7 ottobre, il numero record di episodi di crimini d'odio antisemiti è purtroppo del tutto coerente con l'esperienza della comunità ebraica e con il monitoraggio dell'ADL".
Ted Deutch, amministratore delegato dell'American Jewish Committee (AJC), ha aggiunto: "Mentre la comunità ebraica si sta ancora riprendendo dallo shock del brutale attacco di Hamas agli israeliani del 7 ottobre, ci troviamo contemporaneamente di fronte a un aumento scioccante della violenza antisemita. I 1.832 crimini antisemiti denunciati - uno sconcertante aumento del 63% rispetto allo scorso anno - hanno avuto un grave impatto sullo stile di vita di molti ebrei americani".
Greenblatt ha sottolineato l'importanza di una raccolta completa di dati per combattere efficacemente questa recrudescenza della violenza d'odio: "I dati guidano la politica, e senza una comprensione completa del problema, non possiamo affrontare efficacemente questo significativo aumento della violenza d'odio".
Deutch ha concluso esprimendo la sua preoccupazione: "La parte peggiore di questa nuova realtà è che i giovani ebrei sono sempre più il bersaglio di questo aumento dell'odio antisemita, secondo il rapporto 2023 dell'AJC sullo Stato dell'Antisemitismo in America. È inaccettabile che negli Stati Uniti, tra tutti i luoghi, ci siano in media quasi cinque crimini di odio antisemita al giorno".
(i24, 24 settembre 2024)
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La lettera testamento di Daniel Mimon Toaff: Il bene del nostro popolo la mia bussola
Lettera scritta dal capitano Daniel Mimon Toaff prima di entrare a Gaza, poche settimane dopo il 7 ottobre.
«Comincerò dicendo che ricordo che da bambino, nonno e nonna mi dicevano sempre che quando sarei cresciuto non ci sarebbero più state guerre e non sarebbe servito l’esercito. Ho capito molto presto che non era vero, perché ho imparato cosa sono il popolo di Israele, la terra di Israele e lo Stato di Israele, che in ogni generazione si alzano contro di noi per annientarci, e il Santo, benedetto Egli sia, ci salva.
Noi ci troviamo in un momento storico, un momento che sarà ricordato per le generazioni, e noi qui abbiamo il privilegio di partecipare a questa storia. Un altro capitolo nella storia del popolo ebraico. Ogni capitolo nella storia del popolo ebraico inizia sempre da una cosa: le nostre lotte interne, quando osiamo pensare che anche chi la pensa diversamente da me sia inutile, rotto, non parte del popolo, e scollegato da noi.
Ogni volta che giungono le nostre crisi interne, ne deriva una catastrofe nazionale, come quella che è appena accaduta a noi: neonati sgozzati, intere famiglie distrutte, e noi siamo rimasti qui con le uniformi dell’IDF per difendere il nostro popolo, e abbiamo fallito. Bisogna dire la verità.
Ora tocca a noi, è il nostro turno di portare il peso, di assumere la responsabilità per il popolo. Come Abramo, Isacco e Giacobbe, ciascuno con la sua prova, Mosè che portò il popolo nella terra, Giosuè ben Nun nella conquista della terra, Davide, Salomone e i re di Israele, Ester e Mardocheo, i Maccabei, i membri delle organizzazioni clandestine, i partigiani, gli ebrei che affrontarono le sofferenze della Shoah, i soldati dell’IDF di tutte le generazioni: tutti presero la responsabilità per il loro popolo. Ora tocca a noi.
Un mese e mezzo fa era Rosh Hashanah, i Dieci Giorni di Penitenza e Yom Kippur. Tutti noi abbiamo pregato per il bene collettivo, e personalmente, la cosa su cui mi concentro sempre di più è il “Libro della Vita”. Non si tratta di vivere un altro anno o non morire, ma di avere una vita significativa, di fare del bene per il popolo di Israele e la terra di Israele. Io mi concentro sempre su questo e prego che la nostra vita sia dedicata a fare del bene per il popolo e la terra, una vita in cui rendiamo il mondo un posto migliore, e rendiamo il nostro popolo migliore. Questo è lo scopo della vita, e ora sono giunto a questo momento, e ho avuto il privilegio di fare questa cosa e di vivere questa vita: una vita di collettività e di fare del bene per il popolo di Israele con tutto il mio essere.
Grazie per un’educazione straordinaria, senza compromessi, con valori eterni di un popolo eterno che vincerà sempre. Ai miei cari fratelli, vi amo tutti. Ho imparato da ciascuno di voi, sono sempre orgoglioso di raccontare ciò che fate. Siete il mio orgoglio, anche se a volte mi comporto come un bambino sciocco, sappiate che vi amo sempre e sono orgoglioso di voi.
Grazie a mamma e papà, che per tutta la vita mi avete dato ciò di cui avevo bisogno, ma non mi avete mai permesso di montarmi la testa e pensare di essere il centro del mondo. Tutta la mia vita vedo come vi preoccupate di fare il bene ovunque vi troviate, sia mamma che lavora giorno e notte, sempre preoccupata per i problemi del nostro popolo nei luoghi in cui si trova, e come non rimane mai indifferente e pretende che giustizia e verità prevalgano. E sia papà che lavora sempre per il popolo, per la sicurezza del nostro popolo, e ne trae una soddisfazione ispiratrice. Siete la fonte della mia vita.
L’uomo è il riflesso del suo ambiente, e l’ambiente in cui sono cresciuto è questo: un ambiente di donazione infinita e di fare per il bene comune, non guardando solo a me stesso. Vi amo e vi chiedo, mentre io sono lì a combattere contro il male e a riportare il bene al popolo di Israele, che voi siate qui a casa, continuando a fare del bene per il nostro popolo. Non fermatevi mai. Tenete sempre la testa alta e il petto in fuori, perché siete riusciti a crescere una generazione fedele e devota al popolo di Israele, alla terra di Israele e alla Torah di Israele. Guardate che impero avete cresciuto: ogni figlio, con la sua unicità, contribuisce al popolo di Israele. Questa è la prova del successo di genitori eccellenti. Tutti dovrebbero invidiarvi per quanto siete riusciti a fare.
“E concedimi di crescere figli e nipoti saggi e intelligenti, amanti del Signore, timorati di Dio, che siano veramente un seme santo attaccato al Signore. Che illuminino il mondo con buone azioni e in ogni lavoro di servizio al Creatore.” [Preghiera istituita da Rav Levi Itzchak di Berditchev, recitata dai genitori ogni Motzei Shabbat. N.d.r.]
Questo è ciò che avete fatto e in cui siete riusciti, e io prego di riuscire come voi. Ci vediamo presto, e vi chiedo di mantenere sempre il sorriso, non importa cosa accada, e di continuare a fare per il popolo e la terra. Vi amo senza fine».
(moked, 24 settembre 2024)
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Israele: nuova grande ondata di attacchi contro Hezbollah
di Sarah G. Frankl
L’IDF ha annunciato di aver lanciato una nuova ondata di attacchi aerei contro obiettivi di Hezbollah nel Libano meridionale.
Anche i media libanesi riferiscono di pesanti attacchi in diverse zone del sud del Paese.
Gli attacchi sono avvenuti dopo che l’IDF avevano avvertito che avrebbero preso di mira le armi di Hezbollah conservate nelle case dei civili e avevano dichiarato di aver individuato agenti di Hezbollah che si preparavano a lanciare attacchi missilistici contro Israele.
Questa mattina i civili libanesi erano stati avvertiti con messaggi e telefonate da un numero libanese di lasciare le loro case nel caso in cui ospitassero armi di Hezbollah. Lo stesso numero li avvertiva di stare ad almeno 1.000 metri dalle postazioni di Hezbollah.
Secondo Ynet, dieci anni fa, Hezbollah lanciò un’iniziativa segreta per offrire incentivi finanziari alle famiglie sciite nel Libano meridionale se avessero assegnato una stanza della loro casa a un lanciamissili a lungo raggio. Il missile, con una testata pesante, sarebbe stato pronto per essere lanciato da quella stanza. La stanza avrebbe avuto un tetto rimovibile, consentendo di sparare rapidamente.
Ynet ha aggiunto che Hezbollah ha scelto specificamente le famiglie povere sciite che avevano bisogno di un reddito extra. A quanto si dice, Hezbollah ha acquistato appezzamenti di terreno e ci ha costruito case residenziali, offrendole a un prezzo ridotto o gratuitamente se le famiglie erano disposte a immagazzinare missili.
(Rights Reporter, 23 settembre 2024)
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Cresce la tensione in Medio Oriente, tra l’escalation nel nord di Israele e il mistero della scomparsa di Sinwar
di Luca Spizzichino
Il conflitto tra Israele e Hezbollah, in parallelo alla guerra contro Hamas a Gaza, si sta intensificando giorno dopo giorno. Negli ultimi giorni, lo scontro tra Israele e il gruppo terroristico sciita libanese ha assunto proporzioni preoccupanti, caratterizzate da pesanti bombardamenti e attacchi mirati dell’esercito israeliano, mentre Hezbollah ha intensificato il lancio di missili verso il territorio israeliano. Nel frattempo circolano voci sulle sorti del capo di Hamas, Yahya Sinwar, che si presume sia stato colpito in uno dei recenti bombardamenti nella Striscia di Gaza.
• Attacchi missilistici di Hezbollah contro il nord di Israele Nelle ultime ore, Hezbollah ha intensificato i suoi attacchi missilistici contro Israele, con un’ondata di oltre 85 razzi che ha colpito l’area di Haifa nelle ultime ore. L’attacco ha provocato il ferimento di tre persone e, tragicamente, ha causato la morte indiretta di un adolescente, vittima di un incidente d’auto mentre cercava rifugio durante le sirene d’allarme. Questo episodio rappresenta uno degli attacchi più pesanti da parte del gruppo, evidenziando la crescente aggressività della campagna condotta da Hezbollah contro Israele.
• Raid aerei israeliani contro le installazioni militari e i vertici di Hezbollah Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Non permetteremo a Hezbollah di continuare ad attaccare i nostri cittadini impunemente. La nostra risposta sarà feroce e mirata”. Nelle ultime ore, infatti, Israele ha ulteriormente intensificato la sua risposta militare con un massiccio bombardamento contro Hezbollah. Più di 300 attacchi sono stati lanciati dalle IDF in una serie di raid mirati che hanno colpito lanciarazzi, depositi di armi e posizioni strategiche del gruppo terrorista. La portata e l’intensità delle operazioni non hanno precedenti, con attacchi concentrati soprattutto nelle aree da cui Hezbollah lancia missili contro Israele. Prima di avviare queste operazioni, l’IDF ha inviati degli avvertimenti ai civili libanesi affinché evacuassero le aree controllate da Hezbollah, sottolineando che chiunque si trovasse nelle vicinanze dei siti colpiti sarebbe stato considerato a rischio. “Non stiamo mirando ai civili libanesi, ma Hezbollah si nasconde tra di loro e usa i loro villaggi come basi operative”, ha dichiarato il portavoce dell’IDF. Il capo di Stato maggiore dell’IDF, Herzi Halevi, ha confermato che queste operazioni continueranno fino a quando Hezbollah non cesserà i suoi attacchi contro il nord di Israele. Uno degli attacchi più significativi, tuttavia, è avvenuto venerdì a sud di Beirut, in una delle roccaforti di Hezbollah. L’aviazione israeliana ha colpito un edificio in cui erano presenti due alti comandanti di Hezbollah e altri 14 membri della Forza d’élite Radwan di Hezbollah. Questa operazione ha colpito duramente l’organizzazione, che stava pianificando possibili incursioni contro Israele. Il presidente israeliano Isaac Herzog in un’intervista a Sky News ha parlato del raid, che ha prevenuto un attacco su larga scala simile a quello compiuto da Hamas il 7 ottobre. “Le informazioni di intelligence indicavano che i vertici di Hezbollah stavano pianificando un’invasione coordinata nelle nostre comunità settentrionali, – ha affermato Herzog – Abbiamo impedito una catastrofe”. L’IDF ha confermato che i comandanti uccisi stavano discutendo un’offensiva simile.
• La possibile morte del capo di Hamas, Yahya Sinwar Parallelamente al conflitto al nord, vi sono crescenti speculazioni sulla sorte del leader di Hamas, Yahya Sinwar. Secondo fonti israeliane, Sinwar potrebbe essere “irraggiungibile” o addirittura morto, a seguito di un attacco aereo israeliano. “Siamo in fase di verifica, ma le probabilità che Sinwar sia stato colpito sono alte”, ha riferito un funzionario della sicurezza israeliana. Il portavoce di Hamas ha evitato di commentare queste notizie; tuttavia, l’IDF continua a monitorare la situazione con attenzione.
• Un conflitto sempre più complesso L’intensificarsi del conflitto tra Israele e Hezbollah, in parallelo alla guerra contro Hamas, sta creando un contesto sempre più complesso, in primis per lo Stato ebraico, dove il timore di un conflitto esteso rimane alto, con il nord del Paese che rappresenta un fronte particolarmente vulnerabile. Hezbollah ha promesso di continuare i suoi attacchi, e il segretario generale del gruppo, Hassan Nasrallah, ha dichiarato in un recente discorso: “Israele non riuscirà a riportare i suoi cittadini al nord finché continua a colpire Gaza e il Libano. Non smetteremo di combattere finché l’aggressione contro il nostro popolo non cesserà.” Le forze israeliane si stanno preparando a fronteggiare e rispondere a nuove minacce. “Non esiteremo a continuare le nostre operazioni contro Hezbollah, e saremo inflessibili nel difendere i nostri cittadini”, ha affermato il ministro della Difesa Yoav Gallant.
(Shalom, 23 settembre 2024)
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Escalation del conflitto: oltre 100 razzi di Hezbollah verso Israele
di Anna Balestrieri
L’esercito israeliano ha riferito che Hezbollah ha lanciato oltre 100 razzi verso il nord di Israele, colpendo aree civili e attivando sirene di allarme. Gli ospedali nel nord del paese hanno trasferito le loro operazioni in strutture sotterranee protette. In risposta, l’aviazione israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano, intensificando ulteriormente le tensioni.
- HEZBOLLAH COLPISCE COMPLESSI INDUSTRIALI ISRAELIANI Hezbollah ha rivendicato un attacco contro complessi industriali della compagnia di difesa israeliana Rafael, vicino a Haifa, come “risposta iniziale” agli attacchi recenti in Libano. Le ostilità tra Israele e Hezbollah si sono intensificate, con bombardamenti reciproci tra il sud del Libano e il nord di Israele. Le autorità libanesi hanno confermato la morte di almeno una persona e il ferimento di altre nell’ultimo attacco israeliano.
- DICHIARAZIONI DEL PREMIER BENJAMIN NETANYAHU Domenica, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito la strategia di Israele di intensificare gli attacchi contro Hezbollah, affermando che il paese avrebbe intrapreso “qualsiasi azione necessaria” per ridurre la minaccia rappresentata dalla milizia libanese, nonostante i timori di un possibile conflitto regionale più ampio. Le sue dichiarazioni sono arrivate poche ore dopo che Hezbollah ha lanciato più di 100 razzi, missili e droni contro il territorio israeliano, in risposta a una serie di attacchi mortali contro il gruppo in Libano, tra cui esplosioni di dispositivi di comunicazione e attacchi aerei contro alti comandanti. Netanyahu ha lasciato intendere, senza entrare nei dettagli, che Israele aveva inflitto a Hezbollah “una serie di colpi” inaspettati. “Se Hezbollah non ha compreso il messaggio, vi prometto che lo comprenderà”, ha affermato in una dichiarazione registrata, sottolineando la determinazione di Israele a riportare gli israeliani sfollati nelle loro case nel nord del paese. Nonostante non abbia menzionato direttamente ’attacco notturno di Hezbollah, il quale ha fatto scattare sirene antiaeree in numerose città del nord di Israele, Netanyahu ha indicato la volontà di continuare le azioni militari. Hezbollah ha rivendicato di aver colpito basi militari israeliane, tra cui una vicino a Haifa. L’attacco è stato il più profondo nel territorio israeliano da quando il gruppo ha iniziato a lanciare attacchi l'8 ottobre, ma le forze israeliane hanno dichiarato di aver intercettato la maggior parte dei missili con i sistemi di difesa aerea. Tuttavia, la vita in molte città del nord, tra cui una a nord di Haifa, è stata pesantemente disturbata, con nuove restrizioni sugli assembramenti pubblici imposte in aree come le Alture del Golan e la Galilea. L’offensiva aerea di Hezbollah sembrava essere stata calibrata con attenzione, evitando un colpo diretto su una grande città come Tel Aviv, probabilmente per evitare una risposta ancora più dura da parte di Israele.
- SITUAZIONE IN LIBANO In Libano, la tensione è aumentata a seguito delle esplosioni di cercapersone e walkie-talkie, attribuite a Israele, e a un raid aereo nel quartiere Dahieh di Beirut. L Hezbollah ha confermato la morte di Ibrahim Aqil, capo delle operazioni e comandante della Forza Radwan dell’organizzazione terroristica Hezbollah, ricercato dagli Stati Uniti per il suo ruolo negli attentati del 1983 a Beirut, che causarono oltre 350 vittime. Oltre ad Aqil, nell’attacco sono stati eliminati altri 15 terroristi di Hezbollah, tra cui alti comandanti della catena di comando della Forza Radwan, che secondo l’esercito israeliano, erano responsabili della pianificazione, dell’avanzamento e dell’esecuzione di centinaia di operazioni terroristiche contro Israele, compresa la pianificazione del piano omicida di Hezbollah di razziare le comunità della Galilea. Tra i terroristi eliminati c’era Abu Hassan Samir, che era a capo dell’unità di addestramento della Forza Radwan. Ha ricoperto varie posizioni all’interno dell’organizzazione terroristica ed è stato comandante della Forza Radwan per un decennio, fino all’inizio del 2024. È stato uno dei pianificatori e leader del piano d’attacco “Conquista della Galilea” ed è stato coinvolto nell’avanzamento del radicamento di Hezbollah nel sud del Libano, cercando di migliorare le capacità di combattimento terrestre dell’organizzazione. Nel corso degli anni e durante i primi mesi di guerra, ha pianificato ed eseguito numerosi attacchi e infiltrazioni in territorio israeliano. Gli altri comandanti: Samer Abdul-Halim Halawi – Comandante della zona costiera; Abbas Sami Maslamani – Comandante dell’area di Qana; Abdullah Abbas Hajazi – Comandante dell’area della cresta di Ramim; Muhammed Ahmad Reda – Comandante dell’area di Al-Khiam; Hassan Hussein Madi – Comandante dell’area di Monte Dov. Inoltre, sono stati eliminati alti funzionari dell’organizzazione e del quartier generale della Forza Radwan: Hassan Yussef Abad Alssatar, responsabile delle operazioni della Forza Radwan. Ha guidato e portato avanti tutte le operazioni di fuoco della Forza Radwan; Hussein Ahmad Dahraj – Capo di Stato Maggiore della Forza Radwan. Era coinvolto nel trasferimento di armi e nel rafforzamento dell’organizzazione.
- DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE ISAAC HERZOG In un’intervista con Trevor Phillips di Sky News, il presidente israeliano Isaac Herzog ha affermato che Israele non vuole una guerra con il Libano, ma ha accusato le forze iraniane e Hezbollah di essere la causa dell’attuale conflitto. Herzog ha dichiarato: “Israele sta lottando per il suo benessere, la sua esistenza e i suoi cittadini”. Ha poi aggiunto che Hezbollah, che ha definito un “organizzazione terroristica”, sta usando il Libano come base per attacchi contro Israele, con il sostegno dell’Iran.
- L'IRAQ, UN ALTRO FRONTE Domenica, l’esercito israeliano ha dichiarato di aver intercettato il fuoco proveniente dall’Iraq, dove un altro gruppo sostenuto dall’Iran ha affermato di aver lanciato droni contro Israele. In un’intervista rilasciata a New York, prima dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha accusato Israele di aver creato “un vero inferno a Gaza”. Citato dalla giornalista di Haaretz, Allison Kaplan Sommer, Araghchi ha affermato che “i crimini del regime sionista in Libano, seppur mossi dalla frustrazione, non rimarranno senza risposta”.
- L'IDF ANNUNCIA MODIFICHE ALLE LINEE GUIDA DIFENSIVE NEL NORD Da questa mattina, sono stati apportati aggiornamenti significativi alle linee guida difensive dell’Israeli Home Front Command, a seguito di una valutazione della situazione condotta dalle Forze di difesa israeliane (IDF). Queste modifiche, entrate in vigore alle 06:00, hanno un impatto su diverse regioni settentrionali, tra cui le alture del Golan settentrionali e meridionali, la Galilea, la baia di Haifa e le valli. L’IDF ha chiarito che queste linee guida sono fondamentali per la sicurezza dei civili in queste aree. “Le istruzioni pubblicate sui canali ufficiali dell’Home Front Command devono essere seguite”, ha sottolineato l’IDF, esortando ulteriormente i cittadini a fare riferimento al National Emergency Portal e all’app dell’Home Front Command per le informazioni più aggiornate. Oltre alle misure difensive riviste, l’IDF Northern Command ha emesso linee guida specifiche per le comunità lungo la linea di scontro, in particolare nelle alture del Golan settentrionali e meridionali. Mentre le comunità di Emek Hayarden sono esentate da queste nuove misure, quelle situate lungo la linea di scontro sono invitate ad attenersi scrupolosamente alle istruzioni aggiornate. Nel frattempo, mentre aumentano le tensioni al confine settentrionale di Israele, l’IDF ha intensificato le sue operazioni nel Libano meridionale. Nel corso della giornata appena trascorsa, l’aeronautica militare israeliana (IAF), sotto la direzione della Direzione dell’intelligence dell’IDF, ha lanciato una vasta serie di attacchi, prendendo di mira l’infrastruttura terroristica di Hezbollah. “L’IDF ha colpito circa 290 obiettivi, tra cui migliaia di lanciarazzi, insieme ad altre infrastrutture terroristiche in più aree nel Libano meridionale”, ha riferito l’IDF. Solo nelle ultime ore, “l’IDF ha colpito circa 110 obiettivi terroristici di Hezbollah”, continuando la sua campagna per indebolire le capacità operative di Hezbollah. L’IDF ha ribadito il suo impegno per questi attacchi in corso, affermando: “L’IDF continuerà a operare per smantellare e degradare le capacità e le infrastrutture terroristiche di Hezbollah”. Con l’evolvere della situazione, si invitano i cittadini a tenersi informati attraverso i canali ufficiali dell’Home Front Command e ad attenersi scrupolosamente alle linee guida aggiornate per la loro sicurezza.
(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2024)
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La tattica di Israele: lasciare Hezbollah senza lanciatori
Se non puoi eliminare l'arsenale di Hezbollah, lo rendi inutilizzabile.
di Sarah G. Frankl
Nella notte appena trascorsa Hezbollah ha lanciato un centinaio di missili verso Israele mentre l’aviazione israeliana ha colpito decine di lanciarazzi con i loro equipaggi.
La tattica dell’esercito israeliano sembra quella di colpire i lanciatori in modo che ad Hezbollah rimangano i missili ma non la possibilità di lanciarli.
Nelle ultime settimane, a partire dalla vasta azione preventiva fino alle ultime grandi ondate di attacchi successive alle operazioni del Mossad in Libano che hanno distrutto centinaia di lanciatori, l’IDF e l’IAF si sono concentrati in modo sistematico sulla distruzione della capacità di Hezbollah di lanciare missili.
In sostanza, non potendo eliminare tutti i missili stessi (si dice 150.000) eliminano i mezzi per lanciarli.
Il discorso vale anche per i missili balistici, difficilmente non individuabili prima del lancio visto che i lanciatori sono enormi e vengono caricati su camion. Negli attacchi preventivi della notte tra il 24 e il 25 agosto ne sono stati distrutti centinaia tra cui molti lanciatori per Fateh-110, cioè per i missili tra i più pericolosi in dotazione a Hezbollah.
Rimane il pericolo rappresentato dai droni di produzione iraniana. Anche questa mattina l’IDF ne ha abbattuto uno partito dall’Iraq, da dove hanno lanciato anche due missili balistici abbattuti dai sistemi di difesa israeliani fuori dallo spazio aereo di Israele. Presto toccherà anche a loro.
(Rights Reporter, 22 settembre 2024)
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“La nuova caccia all’ebreo”: l’antisemitismo che cambia nel libro di Pierluigi Battista
di Michelle Zarfati
Tante cose sono cambiate dopo il 7 ottobre. Ma ciò che più ha caratterizzato gli accadimenti legati al pogrom messo in atto da Hamas è un risveglio, pericoloso e senza precedenti, di odio antiebraico. È un antisemitismo dal volto nuovo che si è insidiato nelle menti dell’Occidente, un’ondata di odio che si è trasformata in una vera nuova caccia all’ebreo quella di cui parla nel suo libro – edito da Liberilibri – Pierluigi Battista. Shalom ha intervistato l’autore su come oggi la Shoah sia stata “desacralizzata” e su come l’odio contro l’ebreo agisca ormai indisturbato nella società odierna.
- Il tuo libro si chiama “La nuova caccia all’ebreo”: in cosa differisce questa “caccia all’ebreo” rispetto ai fenomeni del passato? Per nuova caccia all’ebreo non ci si riferisce soltanto a quel fenomeno, ormai noto, della persecuzione verso gli ebrei, ma piuttosto a come questo antisemitismo dilagante abbia delle motivazioni profondamente diverse, diciamo aggiornate, rispetto al passato. Nessuno oggi potrebbe avanzare l’idea di un antisemitismo di tipo biologico, come il nazismo classico, oppure additare agli ebrei la morte di Gesù, come faceva l’antisemitismo di matrice cristiana. Questo antisemitismo odierno è esploso con la totale sovrapposizione di antisemitismo e antisionismo. L’odio verso Israele ha trascinato l’odio verso gli ebrei, per cui non si protesta per la politica sbagliata del governo israeliano – cosa anche legittima – ma si mette in discussione l’esistenza d’Israele. Basti pensare all’ormai famoso slogan “from the river to the sea”. Lo suggerisce la frase stessa, il problema è semplicemente l’esistenza dello Stato ebraico. Israele è diventato il nemico: lo Stato usurpatore e gli ebrei di conseguenza, a causa del loro rapporto con Israele, devono esser presi di mira. E da qui l’assalto alle sinagoghe, l’interdire l’entrata nelle università agli studenti ebrei – in Italia come in Francia – come è accaduto in un tempio della cultura come Sciences Po. Ormai la distinzione è completamente devastata. Gli ebrei sono diventati i nuovi oppressori, e lo sono per l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Questo è un fenomeno nuovo e sconvolgente, assolutamente non arginato dalla cultura democratica. Ormai tutto accade nella totale indifferenza e omertà.
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Dopo il 7 ottobre possiamo asserire che il lavoro sulla memoria abbia fallito L’Italia è un paese in cui il Giorno della Memoria viene insultata Liliana Segre ed è proprio questo a cui faccio riferimento quando parlo di una “nuova caccia all’ebreo”, un fenomeno che si nutre di odio mettendo in atto una totale sovrapposizione di antisemitismo e antisionismo. Tutto questo compone un quadro agghiacciante in cui gli ebrei vengono inesorabilmente lasciati soli. Proprio all’inizio del secondo capitolo del mio libro racconto di una studentessa torinese che nell’aprile del 2024 ha rilasciato a La Repubblica un’intervista. Lei racconta della sua paura ad andare in giro per Torino, al dover nascondere, assieme ai suoi amici, i simboli ebraici, all’aver paura di entrare nelle università o di dire il proprio cognome. La vera follia è come la classe parlamentare possa permettere che una cittadina italiana possa sentirsi così perseguitata alla luce del sole. Che senso ha allora far le cerimonie del 27 gennaio? L’ebreo che si difende non è più simpatico e viene messo ai margini. Non è più un problema di memoria, il mai più è diventato una formula ridicola e vuota. Ormai la nostra cultura si nutre della memoria ma si gira dall’altra parte mentre si dà la caccia all’ebreo, questo è ciò che dovrebbe preoccupare: questa specie di pellicola di indifferenza. Tutto ciò accade perché è stata “sconsacrata” la Shoah, che era una sorta di argine morale in passato. Gli ebrei sono soli a causa di questo antisemitismo culturale, ed è forse a causa di ciò che viene insegnato nelle università, ovvero che il mondo si divide in oppressi e oppressori, e in questa ottica gli oppressi hanno il diritto di ribellarsi. Così, il 7 ottobre è diventato un atto di resistenza. Stuprare le donne ebree, massacrare i bambini ebrei nei kibbutzim e uccidere centinaia di ragazzi in un rave diviene improvvisamente sinonimo di resistenza da parte di gente che non vuole, come vorrei io, due popoli due stati – e, come diceva Marco Pannella, due Stati democratici – questa gente vorrebbe solo pura Jihad, desidererebbe semplicemente la cancellazione d’Israele dalla faccia della terra, non esiste niente di più, nessuna rivendicazione nazionalista. Non c’è la volontà di uno Stato palestinese ma la volontà della fine totale degli ebrei.
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Bernard-Henri Lévy in una recente intervista sul suo libro ha affermato che se Israele perdesse sarebbe peggio della Shoah, è d’accordo? Proviamo ad immaginare un mondo senza Israele per gli ebrei di tutto il globo, non solo quelli della diaspora o gli israeliani stessi. Immaginiamo: 8 milioni d’israeliani che fine farebbero? Tornerebbero in Polonia? Non sarebbe possibile, specialmente perché dall’altra parte non esiste la possibilità di una coesistenza pacifica.
- Tu sei stato il primo ad intervistare Gadiel Gaj Taché: riconosci qualcosa in comune con quel 9 ottobre? In realtà è tutto molto peggio, anche del clima che si respirava nel 1982. Non dobbiamo più guardare al passato, non è quella la chiave, non è più come allora, ma il quadro è ancora più agghiacciante. Questa è una cosa sta avvenendo ora: una donna in Francia viene stuprata perché ebrea, ora; le sinagoghe vengono prese d’assalto perché sono il luogo di culto degli ebrei, ora; non c’entra più il passato, si tratta invece di vecchi pregiudizi dentro a un contesto culturale nuovo e diverso, che non dovrebbe essere ignorato.
(Shalom, 22 settembre 2024)
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Hollywood – Lauren Bacall fra successo e antisemitismo
Per quanto sullo schermo sia ricordata come un personaggio audace e spavaldo, Lauren Bacall ha trascorso buona parte della sua carriera cercando di schivare l’antisemitismo di Hollywood. Morta nel 2014, l’attrice era nata nel Bronx come Betty Joan Perske, per poi adottare una versione modificata del nome della madre, Natalie Weinstein-Bacal. Nel 2014, subito dopo la sua morte, il Forward ricordava come nel suo libro di memorie, By Myself and Then Some, Bacall raccontò di essere stata licenziata, subito dopo aver informato un collega di essere ebrea: «L’antisemitismo del mondo intero fu particolarmente scioccante, e opposto all’atmosfera calorosamente accogliente data dall’insieme delle radici ebraiche e rumene». L’attrice si dichiarava felice delle sue radici, e della sua identità, cui non avrebbe mai neppure pensato di rinunciare, ma quando arrivò a Hollywood, grazie a un contratto con il regista Howard Hawks, non gli disse di essere ebrea perché – disse al New York Times nel 1996 – «lui era antisemita e mi spaventava a morte… Mi rendeva così nervosa che non dissi nulla. Sono stata vigliacca, devo dirlo».
Nel 1979, dopo essersi innamorata di Humphrey Bogart, affrontò l’argomento raccontando un vecchio episodio a People Magazine: «Una volta un cadetto di West Point mi aveva chiesto di uscire ed era saltato fuori l’argomento religione. Non mi richiamò mai, e io ero sicura che fosse perché ero ebrea… Così, quando mi sono innamorata di Bogie, ho capito che dovevo assolutamente mettere le cose in chiaro, lui era l’ultimo uomo al mondo a cui avrebbe dato fastidio». Quando nel 1944 uscì To Have and Have Not, i pubblicitari parlarono di una «figlia di genitori che hanno origini americane da diverse generazioni» rimuovendo il fatto che sua madre era passata per Ellis Island, come tanti altri immigrati ebrei.
Del suo ebraismo era consapevole solo una cerchia ristretta, a Hollywood, e – scriveva Benjamin Ivry – «forse la Yiddishkeit della Bacall si riflette meglio nei suoi saldi principi etici, e nella sua propensione ad abbracciare un punto di vista minoritario, se lo riteneva giusto. Come ha detto a Larry King nel 2005, era antirepubblicana e liberale. Riteneva che essere liberali fosse la scelta migliore che si possa fare: quando si è liberali si è accoglienti con tutti». Una diva che ha spesso optato per personaggi fuori dagli schemi, scegliendo parti pensanti, complesse, e che non cercò mai di ingraziarsi il potere. Anche quando Shimon Peres fu nominato primo ministro in Israele, la Bacall tenne una linea di discrezione: era suo cugino dal lato paterno, i Perske, che lei aveva evitato per decenni, e in seguito si recò a trovare Peres in Israele per una visita di cortesia, forse come gesto di riconciliazione. L’epitome di una donna indipendente, e forte.
(moked, 22 settembre 2024)
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«Io farò di te una grande nazione»
di Marcello Cicchese
La difficoltà che hanno molti cristiani ad inserire correttamente il popolo d’Israele nella loro comprensione del Vangelo dipende dal fatto che gran parte dell’insegnamento ricevuto è centrato sulla salvezza individuale e sulla santificazione personale. Al centro dell’interesse ci sono io, la mia felicità eterna e il mio benessere temporale. La dimensione sociale e storica dell’opera di salvezza di Dio non è tenuta in considerazione perché non interessa, dal momento che non corrisponde a quella richiesta di felicità individuale che è la ragione di vita di quasi tutti, ivi compresi molti cristiani.
Quanto agli ebrei invece, si può dire che se non si fanno riferimenti al loro popolo e alla loro storia, non esistono. Tutti i tentativi di presentare - in modo di solito dispregiativo - i caratteri antropologici tipici dell’individuo ebreo si sono rivelati vani. Il singolo ebreo non ha niente di particolare, né nel bene, né nel male. Gli ebrei esistono nella loro specificità in quanto sono un popolo, e il popolo esiste in quanto ha una storia. Ed è una storia che non si è arrestata nel passato, ma inaspettatamente continua ancora nel presente e, secondo la convinzione di molti ebrei e non ebrei, e, soprattutto, secondo quanto sta scritto nella Bibbia, continuerà ancora nel futuro. La storia di Israele come popolo e nazione ha a che fare direttamente con la volontà di Dio. Chi trascura o interpreta in modo distorto questa volontà, sia egli ebreo o non ebreo, si pone in rotta di collisione con Dio stesso.
Per salvare il mondo Dio prese la decisione di scendere nell’umanità, senza naturalmente perdere la sua divinità, nella persona del suo Figlio. Ma dopo il diluvio la società universale umana si era suddivisa in tante sottosocietà che Dio stesso aveva chiamato “nazioni”. Prima ancora di scegliere una donna in cui far scendere il suo Spirito Santo, Dio avrebbe dunque dovuto scegliere la nazione a cui questa donna avrebbe dovuto appartenere. Ma, se così si può dire, tra le nazioni che si erano sparse sulla terra dopo il diluvio Dio non ne trovò alcuna. Decise allora di formarsene una sua propria, di “generarla” come si genera un figlio.
Il modo in cui avvenne questo particolare parto è di importanza fondamentale per la comprensione della successiva opera di salvezza compiuta da Dio nella storia. Dio chiamò un uomo ad uscire dalla sua nazione, a rompere i legami affettivi con il suo paese e i suoi familiari, e a recarsi in un paese a lui sconosciuto.
“Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò»” (Genesi 12:1).
Fu dunque un ordine, con aspetti indubbiamente laceranti e spaventosi, ma accompagnato da una precisa promessa:
“Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».” (Genesi 12:2-3).
Per creare una nuova nazione Dio avrebbe potuto procedere in molti modi. Avrebbe potuto, per esempio, scegliere tra le varie nazioni un certo numero di persone particolarmente dotate, insegnare loro una nuova lingua, stabilire una gerarchia di autorità, consegnare una legislazione per regolare i rapporti fra di loro. In questo modo sarebbe stato esaltato l’aspetto sociale della nazione, la struttura comunitaria a cui tutti i singoli cittadini avrebbero dovuto conformarsi. Nel continuo gioco tra individuo e società si pone sempre di nuovo la domanda: quale dei due termini ha la priorità? E’ il singolo che deve essere pronto a sacrificare il proprio interesse personale per il bene comune, o è la società che deve mettersi al servizio dei singoli per offrire a ciascun membro le maggiori possibilità di sviluppo e il massimo conforto? Nell’attuale società occidentale è chiaramente vero il secondo caso. Ma non è sempre stato così. La Germania nazista offre un esempio recente di società in cui era stato inculcato e accettato il principio secondo cui “il singolo è nulla, la nazione è tutto”. L’attuazione di un principio simile porta inevitabilmente alla costruzione di un idolo, che prima o poi richiede il compimento di sacrifici umani, come sempre è avvenuto nella storia.
Dio invece comincia sempre dall’individuo. Il Dio che si rivela nella Bibbia non è un brillante organizzatore di esseri a lui sottoposti, ma è innanzitutto un Dio che parla. E quando decide di parlare agli uomini non raduna intorno a Sé le folle per arringarle come fanno i tribuni, ma sceglie tra tutti un particolare interlocutore, un uomo fatto a sua immagine e somiglianza, gli rivolge la parola e gli affida un messaggio che contiene due tipi di ingredienti: ordini e promesse. Nel suo rapporto con gli uomini Dio fa sempre precedere la parola all’azione. Dio parla all’uomo che ha scelto, aspetta la sua risposta, e in conformità di questa risposta agisce, manifestando la sua sovranità e la sua fedeltà. Da quel momento l’interlocutore a cui Dio si è rivolto diventa il rappresentante della società che nasce da questo rapporto tra Dio e l’uomo. Prima di Abraamo, questo era già avvenuto nel rapporto di Dio con Adamo e con Noè. Adamo è diventato il rappresentante di tutta l’umanità peccatrice, e Noè è diventato il rappresentante di tutta l’umanità che, pur essendo peccatrice, si trova sotto la paziente misericordia di Dio che tollera la presenza del peccato in vista dell’opera di salvezza che ha progettato fin dall’eternità.
Anche Abraamo è stato scelto da Dio come interlocutore, ma, al contrario di Adamo e Noè, non diventerà il rappresentante di tutta l’umanità. Attraverso il segno della circoncisione Abraamo diventerà rappresentante storico della nazione d’Israele e, spiritualmente, di tutti coloro che credono nella Parola salvifica di Dio.
Anche ad Abraamo Dio diede ordini e promesse. Il primo ordine era di lasciare la nazione in cui era nato e cresciuto, e che era diventata parte della sua identità. La prima promessa, che sembra quasi la contropartita dell’ordine, fu espressa con queste parole: “Io farò di te una grande nazione”. Ad Abraamo Dio dunque non disse: “Io ti inserirò in un’altra nazione più adatta che ho già preparata per te”, ma gli promise che da lui sarebbe nata una nuova, grande nazione. E’ nella relazione verbale tra Dio e Abraamo che fu concepita la nazione d’Israele.
La nazione però non nacque subito. Abraamo non conobbe il calore di una comunità nazionale in cui condividere con i suoi simili gioie e dolori. Con lui Dio aveva fatto un patto solenne contenente grandiosi promesse che parlavano di nazione e di terra, ma nella sua vita terrena non vide compiersi le parole di quel patto. E tuttavia è scritto che “credette al Signore, che gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6).
“Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio. Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare. Tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse, ma le hanno vedute e salutate da lontano, confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra.” (Ebrei 11:8-13).
La nazione d’Israele, il popolo eletto di Dio, nacque dunque come conseguenza della fede ubbidiente di un singolo uomo. Dio aveva proposto ad Abraamo un patto che aveva come unica clausola l’ubbidienza a un ordine: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò”. E la risposta fu che “Abramo partì, come il Signore gli aveva detto” (Genesi 12:4). Da quel momento Dio si considerò impegnato a mantenere tutte le promesse contenute nel patto che aveva fatto con Abraamo.
Continuando nell’immagine della nascita della nazione d’Israele come parto, si può dire che il tempo dei patriarchi, da Abraamo fino a Giuseppe, corrisponde al concepimento, il periodo dei quattrocento anni trascorsi nella “casa di schiavitù” (Esodo 20:2) dell’Egitto, alla gravidanza, e l’uscita traumatica per mano di Mosè dal paese del Faraone, al momento del parto vero e proprio, preceduto dalle doglie delle dieci piaghe. Il ventre che conteneva il futuro popolo d’Israele apparteneva dunque a un popolo pagano, e poiché il suo capo, il Faraone, sembrava deciso a impedire la nascita del “figlio di Dio”, intervenne direttamente il Signore,:
“Tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: «Lascia andare mio figlio, perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito»” ( Esodo 4:22-23).
Sorge subito la domanda: perché questa preferenza? La venuta al mondo di questa nuova nazione significa forse che Dio voleva salvare soltanto gli israeliti e condannare tutti gli altri? Sono interrogativi che si pongono coloro che sanno ragionare soltanto in termini di salvezza individuale e non percepiscono gli aspetti storici dell’opera di Dio. Dicendo: “Io farò di te una grande nazione” , Dio costituisce Abraamo come capostipite e rappresentante della nazione storica d’Israele; e dicendo: “… in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”, Dio manifesta, attraverso la scelta di Abraamo e della sua progenie, di voler compiere un’opera di salvezza universale. Questo però non significa che un giorno tutte le differenze tra le nazioni saranno annullate: se Dio parla di famiglie della terra, vuol dire che il suo proposito non è di far diventare tutti una grande famiglia. Le differenze tra famiglie rimarranno, ma il punto di riferimento delle nazioni (non dei singoli) davanti a Dio, e il metro di giudizio con cui saranno valutate, sarà Israele, il popolo che Dio “si è formato” (2 Samuele 7:23, Isaia 43:21). Le nazioni sono sorte come conseguenza di un’azione di giudizio di Dio contro un peccato “sociale” degli uomini, cioè contro il loro tentativo di crearsi una società che fosse a loro propria gloria e potesse fare a meno di Dio, ma nel momento stesso in cui furono stabilite era già presente nella mente di Dio il progetto di una nazione che aveva deciso di creare non come espressione di giudizio, ma come volontà di grazia: Israele.
Prima di morire Mosè rivolse al suo popolo queste parole:
“Ricòrdati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre ed egli te lo farà conoscere, i tuoi vecchi ed essi te lo diranno. Quando l’Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d’Israele. Poiché la parte del Signore è il suo popolo, Giacobbe è la porzione della sua eredità.” (Deuteronomio 32:7-9).
Dopo l’esperienza della torre di Babele, Dio dunque fissò i confini dei popoli, cioè permise a ciascuno di loro di attribuirsi una parte di terra da considerare come loro eredità. Ma nel fare questo pensò anche alla porzione della sua eredità: Giacobbe. La Bibbia non dice in quale senso Dio tenne conto del numero dei figli d’Israele, ma in ogni caso è chiaro che dal momento in cui la nazione d’Israele venne al mondo, uscendo dalla casa di schiavitù d’Egitto, le altre nazioni sono state destinate a tener conto del popolo che il Signore ha scelto come “sua parte”. E un giorno dovranno anche risponderne, perché prima ancora che fosse annunciata la benedizione in Abraamo per tutte le genti, Dio aveva avvertito:
Nella storia di Abraamo, come del resto in tutta la Bibbia, sono presenti aspetti individuali e aspetti sociali che bisogna sapere distinguere e ben collegare fra di loro. La fede con cui Abraamo ubbidisce alla Parola di Dio è certamente un fatto individuale:
“Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare». E soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia.” (Genesi 15:5-6).
E’ scritto che Abraamo credette al Signore, ed è questa la prima volta che nella Bibbia si usa il verbo credere. Dio “gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6): Abraamo dunque fu giustificato per fede, e questa fu la prima e più importante forma in cui Dio lo benedisse. Il Signore però aveva anche promesso: … in te saranno benedette tutte le famiglie della terra; questo significa che con Abraamo sono destinati ad essere benedetti, e quindi giustificati, tutti coloro che crederanno in Dio con una fede personale simile alla sua.
“Così Abraamo «credette a Dio, e ciò gli fu messo in conto di giustizia»; sappiate pure che coloro che sono dalla fede sono figli di Abraamo. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato le nazioni mediante la fede, diede prima ad Abraamo una buona notizia: «Tutte le nazioni saranno benedette in te». Perciò coloro che si fondano sulla fede sono benedetti col fedele Abraamo.” (Galati 3:6-9).
“Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo diventato maledizione per noi (poiché sta scritto: «Maledetto chiunque è appeso al legno»), affinché la benedizione di Abraamo pervenisse ai gentili in Cristo Gesù, perché noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede.” (Galati 3:13-14).
La fede personale di Abraamo gli ha permesso di ricevere per grazia la giustizia che viene da Dio e lo ha fatto diventare il padre spirituale di tutti coloro che credono con una fede simile alla sua. La benedizione che in Abraamo giunge a tutte le famiglie della terra è la possibilità individuale di ricevere per grazia mediante la fede il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo promesso a Israele (Ezechiele 36:26-27), ma destinato, dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù, a spandersi su tutti coloro che avrebbero creduto alla predicazione del Vangelo (Atti 10:44-47). Per ricevere questa benedizione non ha alcuna importanza l’essere circonciso o incirconciso, perché Abraamo fu giustificato quando era ancora incirconciso.
“Che diremo dunque che il nostro antenato Abraamo abbia ottenuto secondo la carne? Poiché se Abraamo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? «Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia». Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia. Così pure Davide proclama la beatitudine dell’uomo al quale Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: «Beati quelli le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l’uomo al quale il Signore non addebita affatto il peccato». Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi o anche per gl’incirconcisi? Infatti diciamo che la fede fu messa in conto ad Abraamo come giustizia. In quale circostanza dunque gli fu messa in conto? Quando era circonciso, o quando era incirconciso? Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gl’incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia; e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abraamo quand’era ancora incirconciso. Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abraamo o alla sua discendenza in base alla legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede. Perché, se diventano eredi quelli che si fondano sulla legge, la fede è resa vana e la promessa è annullata; poiché la legge produce ira; ma dove non c’è legge, non c’è neppure trasgressione. Perciò l’eredità è per fede, affinché sia per grazia; in modo che la promessa sia sicura per tutta la discendenza; non soltanto per quella che è sotto la legge, ma anche per quella che discende dalla fede d’Abraamo. Egli è padre di noi tutti (com’è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». (Romani 4:1-18).
La promessa fatta ad Abraamo di essere erede del mondo ha carattere universale, perché l’ingresso personale nel nuovo mondo riconciliato con Dio e da Lui benedetto non avviene sulla base dell’appartenenza a una particolare nazione o dell’osservanza di una legge morale, ma sulla base della fede personale nella Parola rivolta da Dio agli uomini nelle varie epoche della storia. E’ chiaro allora che per l’apostolo Paolo la Parola che Dio rivolgeva agli uomini al suo tempo, e rivolge ancora oggi, è l’invito a ravvedersi e a credere in Gesù come Figlio di Dio, Messia d’Israele, Signore e Salvatore di tutti gli uomini. Dio ha chiamato Abraamo padre di molte nazioni perché sapeva che in tutte le parti del mondo il patriarca avrebbe avuto dei figli spirituali, cioè delle persone a cui la fede sarebbe stata imputata come giustizia.
Ma ad Abraamo Dio aveva anche promesso di diventare una grande nazione, e questa nazione è Israele, un ben preciso popolo storico, diverso dagli altri non per le qualità peculiari dei suoi membri, ma per la scelta fatta da Dio in vista di un incarico che è chiamato a svolgere tra le nazioni. E’ vero che il compito principale del popolo eletto era quello di “generare” ed accogliere, dal punto di vista umano, il “Salvatore del mondo” (Giovanni 4:42), ma il suo incarico non si esaurisce in questo puro fatto genetico. Se così fosse, effettivamente dopo la venuta di Gesù su questa terra e il suo ritorno al Padre in cielo, la presenza nel mondo del popolo d’Israele non avrebbe più alcun senso. Ma non è così. Dire che “La salvezza viene dai Giudei” (Giovanni 4:22) non significa soltanto – come qualcuno ha detto – che Gesù è nato ebreo. Il significato di quella dichiarazione è molto più profondo e ricco di implicazioni: in quelle parole è contenuto l’ammonimento che chiunque riceve individualmente il perdono dei peccati è tenuto a ricordarsi che la salvezza ottenuta per grazia non gli piove in testa direttamente dal cielo, ma gli arriva attraverso un percorso storico che ha nel popolo d’Israele un passaggio ineliminabile. La sua salvezza individuale è conseguenza di un patto che Dio ha fatto “con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31), cioè con una realtà sociale che ha un posto unico e insostituibile nell’opera di “riconciliazione del mondo” (Romani 11:5) con Dio.
Quando la chiesa locale si riunisce per celebrare la Cena del Signore istituita da Gesù, molto spesso si leggono queste parole dell’apostolo Paolo:
“Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».” (1Corinzi 11:23-26).
Si tratta certamente di un memoriale, non di un sacrificio. I credenti riuniti ricordano Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra, esaltandolo come Colui “che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Apocalisse 1:5). Spesso però si dimentica che il vino simboleggiante il “sangue dell’aspersione che parla meglio del sangue d’Abele” (Ebrei 12:24) è contenuto in un calice che rappresenta il “nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31). Il memoriale di Gesù è dunque sempre, anche, un memoriale d’Israele, affinché si ricordi che la persona di Gesù è inscindibile dal suo popolo. Chi ha stabilito un rapporto individuale con Dio tramite Gesù deve sapere che nello stesso tempo ha stabilito un rapporto sociale con Israele. Che lo sappia o no, che lo voglia o no.
Dio è amore, su questo tutti sono d’accordo. Purtroppo però di solito si parte dal presupposto umano di sapere che cos’è l’amore e questa conoscenza dovrebbe gettare luce sulla persona di Dio. E’ vero il contrario. Soltanto la conoscenza di Dio può far capire che cos’è l’amore, e a questa conoscenza non si può arrivare per riflessione o esperienza, ma soltanto per rivelazione. Dio è amore, ma manifesta la sua natura sempre attraverso la parola e nella forma di un patto. L’amore di Dio non è mai semplice effusione di sentimenti affettuosi o prestazione di servizi pratici: Dio parla, si rivolge all’uomo con ordini e promesse, vincolandosi a lui con la sua parola ed esigendo da lui fiducia ubbidiente. Questa forma di rapporto amorevole tra Dio e l’uomo nella Bibbia si chiama patto. E da Abramo in poi Dio ha stipulato i suoi patti d’amore sempre e soltanto con il popolo d’Israele. Parlando dei suoi parenti secondo la carne, l’apostolo Paolo si esprime con queste parole:
“… gli Israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!” (Romani 9:4-5).
E rivolgendosi ai gentili dice invece:
“Perciò, ricordatevi che un tempo voi, Gentili di nascita, chiamati i non circoncisi da quelli che si dicono i circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo” (Efesini 2:11-12).
Il nuovo patto annunciato da Gesù nell’ultima cena è certamente quello con la casa d’Israele e con la casa di Giuda promesso dal profeta Geremia, ed è nuovo rispetto al patto di Dio con Mosè, non rispetto al patto con Abraamo, di cui invece è un’articolazione, una precisazione e un compimento. Questo viene chiaramente espresso in un famoso cantico del Vangelo di Luca:
“Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo: «Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace»” (Luca 1:67-79).
Come nel caso della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto, la venuta del Messia è vista come un intervento di Dio in favore del suo popolo, perché Dio “si ricorda” del suo patto con Abraamo ( Esodo 2:24, Luca 1:72).
Ma come si devono intendere le parole di Zaccaria quando dice, sotto l’impulso dello Spirito Santo, che il Dio d’Israele ha visitato e riscattato il suo popolo? In un commentario esegetico pratico della casa editrice Claudiana viene data la seguente spiegazione:
«Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio ha visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E’ probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d’un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo.»
Chi sono i nemici da cui Dio promette di liberare il popolo? Lo stesso commentario risponde in questo modo:
«Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d’ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza.»
Queste parole, scritte nei primi anni del secolo scorso, prima delle due guerre mondiali e dell’orrore dell’Olocausto, sono un esempio eloquente di quella “superbia dei gentili” che costituisce il tema del presente libro. I “compatrioti” di Zaccaria avrebbero avuto il torto, non solo secondo l’autore del commentario, ma anche secondo l’opinione “cristiana” più diffusa nei secoli, di aspettarsi un regno messianico “terreno”, mentre non avevano capito che il regno che avrebbe instaurato il Messia era di natura “spirituale”. E questo perché la mente dei giudei era “dominata da siffatti pregiudizi”. Zaccaria dunque non avrebbe nemmeno capito quello che diceva, perché i concetti espressi nel suo cantico erano prettamente spirituali, cosa che gliene rendeva difficile una piena comprensione, dal momento che la sua mente di giudeo era piena di immagini terrene. Anche i nemici, naturalmente, erano spirituali e non temporali, e lui non l’aveva capito.
Non a tutti forse appare chiara la gravità delle conseguenze teologiche e politiche di una simile “spiritualizzazione” del messaggio evangelico. Nel sinistro linguaggio dei nazisti questa operazione potrebbe essere chiamata “Entjudung” (degiudaizzazione), perché secondo alcuni una caratteristica tipica degli ebrei è proprio quella di essere un popolo materialista, attaccato alla terra, privo di autentici interessi spirituali superiori.
«No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto.»
«… dalla sua natura fondamentale l’ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, ché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell’aldilà.»
Sono considerazioni espresse da Adolf Hitler nel suo “Mein Kampf”.
La prima domanda da porre a chi rimprovera agli ebrei il loro materialismo è questa: da quali passi della Sacra Scrittura gli ebrei del tempo di Gesù avrebbero dovuto capire che il regno messianico era di natura puramente spirituale? In realtà, i profeti dell’Antico Testamento parlano sempre di un regno anche politico, in cui il Messia governerà come Re d’Israele su un popolo liberato dalla mano dei suoi nemici. Parlando della Gerusalemme dei tempi messianici, il profeta Isaia si esprime così:
“«Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te. Le nazioni cammineranno alla tua luce, i re allo splendore della tua aurora. Alza gli occhi e guàrdati attorno; tutti si radunano e vengono da te; i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, il tuo cuore palpiterà forte e si allargherà, poiché l’abbondanza del mare si volgerà verso di te, la ricchezza delle nazioni verrà da te. Una moltitudine di cammelli ti coprirà, dromedari di Madian e di Efa; quelli di Seba verranno tutti, portando oro e incenso, e proclamando le lodi del Signore. Tutte le greggi di Chedar si raduneranno presso di te, i montoni di Nebaiot saranno al tuo servizio; saliranno sul mio altare come offerta gradita, e io onorerò la mia casa gloriosa. Chi mai sono costoro che volano come una nuvola, come colombi verso le loro colombaie? Sono le isole che spereranno in me e avranno alla loro testa le navi di Tarsis, per ricondurre i tuoi figli da lontano con argento e con oro, per onorare il nome del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti avrà glorificata. I figli dello straniero ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio; poiché io ti ho colpita nel mio sdegno, ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te. Le tue porte saranno sempre aperte; non saranno chiuse né giorno né notte, per lasciar entrare in te la ricchezza delle nazioni e i loro re in corteo. Poiché la nazione e il regno che non vorranno servirti, periranno; quelle nazioni saranno completamente distrutte. La gloria del Libano verrà a te, il cipresso, il platano e il larice verranno assieme per ornare il luogo del mio santuario, e io renderò glorioso il luogo dove posano i miei piedi. I figli di quelli che ti avranno oppressa verranno da te, abbassandosi; tutti quelli che ti avranno disprezzata si prostreranno fino alla pianta dei tuoi piedi e ti chiameranno la città del Signore, la Sion del Santo d’Israele. Invece di essere abbandonata, odiata, al punto che anima viva più non passava da te, io farò di te il vanto dei secoli, la gioia di tutte le epoche. Tu popperai il latte delle nazioni, popperai al seno dei re, e riconoscerai che io, il Signore, sono il tuo salvatore, io, il Potente di Giacobbe, sono il tuo redentore. Invece di rame, farò affluire oro; invece di ferro, farò affluire argento; invece di legno, rame; invece di pietre, ferro; io ti darò per magistrato la pace, per governatore la giustizia. Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza, e le tue porte: Lode” (Isaia 60:1-18).
Questo è soltanto uno dei moltissimi passi profetici che parlano di un regno messianico di natura anche politica. Chi vuole “spiritualizzarli” fa violenza al testo e non prende in seria considerazione la Scrittura.
Anche per quanto riguarda i nemici di Israele, non è assolutamente possibile spiritualizzare tutti i passi che evocano “il giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Celebrando il Messia come uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano, Zaccaria poteva avere in mente un passo come questo:
“«Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: «Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato, tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te saranno svergognati e confusi; i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno; tu li cercherai e non li troverai più. Quelli che litigavano con te, quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla, come cosa che più non è; perché io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto!” (Isaia 41:8-13).
Quello che gli ebrei del tempo di Gesù, ivi compresi i suoi discepoli, non avevano capito, perché non avevano voluto capire, non era il carattere “spirituale” del regno, ma il fatto che il Messia avrebbe dovuto soffrire prima di entrare nella gloria del suo regno. Questo però era stato chiaramente preannunciato dai profeti (Luca 24:25-26). La difficoltà di comprensione per gli ebrei di allora e di oggi non sta dunque nella “spiritualità” del regno, ma nello scandalo della croce.
(da "La superbia dei Gentili")
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Israele colpisce Hezbollah, Netanyahu: “Obiettivi chiari”
Usa: “Serve diplomazia”
Non solo cercapersone e walkie talkie esplosivi. Il raid in Libano con l'uccisione del numero due di Hezbollah a Beirut ha reso ancora una volta "chiari" gli obiettivi di Israele mentre "le nostre azioni parlano da sole".
A dirlo è stato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo il raid di ieri, un attacco aereo ''mirato'', il terzo condotto dalle Forze di difesa israeliane (Idf) a Beirut dall'inizio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza lo scorso 7 ottobre. Obiettivo principale dell'attacco, il comandante di Hezbollah Ibrahim Aqil, ricercato dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento negli attentati all'ambasciata americana e alla caserma dei marines americani a Beirut nel 1983. Aqil, precisa il Times of Israel, era membro del Consiglio della Jihad, massimo organismo militare di Hezbollah. Era ricercato anche per aver diretto la presa di ostaggi tedeschi ed americani in Libano negli anni Ottanta. Sulla sua testa pendeva una taglia di 7 milioni di dollari posta dal dipartimento di Stato americano. L'Idf, che ha poi confermato l'avvenuta uccisione del comandante di Hezbollah, descrive Aqil come il capo delle operazioni militari del gruppo sciita, comandante in carica della forza di élite Radwan, a capo di un piano di invasione della Galilea.
Assieme ad Aqil, secondo l'esercito, sono stati uccisi i vertici dello schieramento operativo di Hezbollah e la leadership della Forza Radwan. "Aqil e i comandanti che sono stati eliminati erano tra gli architetti del 'piano per l'occupazione della Galilea', in cui Hezbollah progettava di fare incursioni in territorio israeliano, occupare le comunità della Galilea, assassinare e uccidere innocenti, in modo simile a quello che l'organizzazione terroristica di Hamas ha compiuto nel massacro del 7 ottobre", afferma l'Idf nella dichiarazione.
Le Forze di difesa israeliane non vogliono tuttavia allargare l'escalation nella regione, ha assicurato il portavoce Daniel Hagari in un briefing con i giornalisti. "Non puntiamo a un'ampia escalation nella regione. Stiamo operando in linea con gli obiettivi definiti della guerra e continueremo a farlo”, ha dichiarato. Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha intanto parlato per telefono con il ministro della Difesa israeliano ed ha ribadito "la sua preoccupazione" per l'escalation delle tensioni tra Israele e Hezbollah, ha reso noto il Pentagono. Il ministro ha anche sottolineato come gli Stati Uniti credano nell'"importanza di raggiungere una soluzione diplomatica che consenta ai residenti di tornare in sicurezza nelle loro case dalle due parti del confine". Il Pentagono teme intanto per l'avvio di una operazione militare di terra delle forze israeliane nel sud del Libano nel prossimo futuro, scrive il Wall Street Journal. Ne ha parlato nei giorni scorsi il segretario della difesa e l'attacco ai dispositivi di comunicazione di Hezbollah dà sostanza a tali timori. Se Austin e il dipartimento di Stato hanno insistito nel sollecitare Israele a dare più tempo alla diplomazia, gli Stati Uniti temono che la situazione possa andare fuori controllo.
(ANSA, 21 settembre 2024)
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La piaga contemporanea degli antisemiti riciclatisi esperti di antisemitismo
di Iuri Maria Prado
Fertilizzato dal sangue del 7 ottobre, il campo degli esperti ha prodotto l’ultima categoria: gli esperti di antisemitismo. Sono quelli che ti spiegano che cos’è, come si manifesta, in che cosa risiede. Ma sono quelli che, soprattutto, ti spiegano che cosa non è antisemita. Non è la critica a Israele. Non è la protesta contro il governo israeliano. Non è la denuncia dei crimini sionisti a Gaza. Non è l’antisionismo.
Tutte cose, queste, in modo notorio intimamente connesse all’incendio delle sinagoghe, alla devastazione dei cimiteri ebraici, alle sassate ai bambini con la kippah, alle stelle disegnate sulle case degli ebrei, ai rabbini bastonati per strada, alla caccia all’ebreo nelle università: vale a dire i fatti che, sottoposti agli esperti di antisemitismo, sono da questi giudicati con l’opportuno richiamo alla legittimità di quegli altri oggetti e modi di contestazione. Cioè, appunto, la critica a Israele, la protesta contro il governo israeliano, la denuncia del genocidio, l’antisionismo (e un po’ anche il ritiro dei ghiacciai: che lo zampino magari non degli ebrei, ma dei sionisti sì, deve esserci anche nel cambio climatico).
Magari è venuto il tempo di insinuare che gli esperti di antisemitismo non sono quelli. Sono altri. Magari è il tempo di dire che gli esperti di antisemitismo sono coloro che lo subiscono. Gli esperti di antisemitismo sono quelli che ne hanno fatto esperienza. Gli esperti di antisemitismo sono coloro che lo subiscono e ne fanno esperienza da duemila anni. Gli esperti di antisemitismo sono coloro che, dopo averlo subito e averne fatto esperienza per duemila anni, si sentono spiegare, due mila anni dopo, ciò che è davvero antisemitismo e ciò che, palesemente, non lo è, signori miei.
Gli esperti di antisemitismo sono coloro ai quali si spiega, da parte degli altri esperti di antisemitismo, che quando una sinagoga è incendiata, quando un cimitero ebraico è devastato, quando un bambino con la kippah è preso a sassate, quando fioriscono le stelle gialle sulle case degli ebrei, quando i rabbini sono bastonati per strada, quando nelle università ci si esercita nella caccia all’ebreo, occorre ricordare che l’antisionismo non è antisemitismo, che criticare Israele non è antisemita e che Israele commette crimini a Gaza. Gli esperti di antisemitismo sono coloro ai quali si spiega, da parte degli altri esperti di antisemitismo, che l’antisemitismo, a guardare bene, di norma non c’è. E a guardare meglio, quando proprio lo si trova, si vede che non viene dal nulla.
(LINKIESTA, 21 settembre 2024)
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Cresce la tensione tra Israele e Hezbollah: cosa sta succedendo?
di Luca Spizzichino
Negli ultimi giorni, il conflitto tra Israele e Hezbollah si è intensificato drammaticamente, con un’escalation di attacchi su entrambe le parti del confine tra Libano e Israele.
Ieri l’aviazione israeliana ha lanciato decine di raid contro obiettivi nel sud del Libano, colpendo oltre 100 rampe di lancio di razzi pronte per essere utilizzate. Secondo l’esercito israeliano, le rampe, appartenenti a Hezbollah, contenevano circa 1000 tubi di lancio, posizionati per sferrare attacchi immediati contro il territorio israeliano. Inoltre, sono stati distrutti diversi edifici e depositi di armi di Hezbollah in varie località del sud del Libano. “L’IDF continuerà a danneggiare le capacità terroristiche e l’infrastruttura militare dell’organizzazione terroristica Hezbollah”, ha dichiarato un portavoce dell’IDF.
I bombardamenti sono arrivati in risposta a un pesante lancio di razzi contro le comunità israeliane del nord e si inserisce in un contesto di preparazione per un potenziale conflitto su vasta scala con Hezbollah. “Non abbiamo mai visto una tale intensità di attacchi dal Libano dall’inizio di questo conflitto”, ha affermato David Azoulay, sindaco di Metula, una delle città più colpite. Il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha commentato la situazione durante un incontro con i vertici militari. “Le nostre operazioni militari continueranno. L’obiettivo è garantire la sicurezza dei residenti del nord e riportarli nelle loro case in sicurezza. Col passare del tempo, Hezbollah pagherà un prezzo sempre più alto”.
Sul fronte libanese, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha promesso vendetta contro Israele. Tra martedì e mercoledì, delle esplosioni coordinate hanno distrutto migliaia di dispositivi di comunicazione utilizzati dai membri del gruppo. Gli attacchi, attribuiti a Israele sebbene non rivendicati ufficialmente, hanno causato decine di vittime e feriti, colpendo duramente le unità d’élite di Hezbollah. “Questa è stata una perdita enorme e senza precedenti nella storia della nostra resistenza”, ha ammesso Nasrallah in un discorso televisivo. “Israele ha superato ogni limite con questi attacchi, che costituiscono crimini di guerra e una vera dichiarazione di guerra. Ma non ci fermeremo. Continueremo i nostri attacchi finché l’occupazione non terminerà e l’aggressione a Gaza non cesserà” ha ribadito.
Mentre le autorità israeliane continuano a monitorare attentamente la situazione, il rischio di una guerra su più fronti è concreto. Gli alti comandi dell’esercito hanno presentato nuove strategie al governo per affrontare il peggioramento del conflitto.
(Shalom, 20 settembre 2024)
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“Probabilmente l’intera leadership di Hezbollah è danneggiata”.
Un ex funzionario della difesa afferma che l'attacco ai cercapersone si aggiunge ad altri attacchi volti a “indebolire” il gruppo terroristico in vista di futuri sviluppi.
di Yaakov Lappin
In un discorso televisivo giovedì, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha riconosciuto che la sua organizzazione ha subito un colpo senza precedenti al suo personale e alla sua sicurezza. Nasrallah e altri leader di Hezbollah hanno giurato di reagire. Lo storico attacco ha colpito duramente l'infrastruttura operativa di Hezbollah, strappando migliaia di comandanti dal campo di battaglia, centinaia dei quali in modo grave, e distruggendo gran parte della loro capacità di comunicare con le forze sul campo, dato che i cercapersone erano stati pensati come un sostituto più sicuro degli smartphone, che il gruppo considerava troppo vulnerabili allo spionaggio. Si ritiene che i danni alla struttura di comando, all'infrastruttura di comunicazione e al morale di Hezbollah siano stati significativi e abbiano influito sulla capacità dell'organizzazione di operare con fiducia.
• HEZBOLLAH IN GINOCCHIO Secondo Eyal Pinko, ricercatore presso il Centro Begin-Sadat per gli studi strategici dell'Università Bar-Ilan ed ex ufficiale della marina israeliana che ha lavorato anche in un'organizzazione di intelligence, l'attacco ha colpito fino a 3.000 terroristi in “meno di un secondo”. "Se si considerano le persone che indossavano questi cercapersone, probabilmente si trattava di comandanti di alto rango e oltre. Comandanti di battaglione e oltre. Quello che probabilmente sta accadendo ora con Hezbollah è che l'intera struttura di comando, diciamo dal grado di tenente colonnello nell'esercito regolare fino ai generali, due o tre generali, sono completamente feriti o alcuni di loro sono già morti. Ci vorranno alcuni giorni perché si riprendano e capiscano cosa è successo. L'attacco a sorpresa ha messo in ginocchio Hezbollah, ha aggiunto, anche se l'opposizione dell'organizzazione in Libano non ha ancora alcuna possibilità di contrastare i militanti armati del gruppo islamista, stimati in quasi 100.000 (comprese le forze di riserva). “Ci vorrebbe un esercito enorme per affrontarli”, afferma Pinko. Tuttavia, i circa 3.000 militanti feriti significavano che un numero enorme di comandanti di alto livello non era operativo - con ogni probabilità “tutti i comandanti di alto livello sono stati feriti”, ha stimato. Anche i militanti di Hezbollah in Siria sono stati feriti dalle esplosioni dei cercapersone. Il 9 settembre, secondo i media internazionali, le forze speciali e gli aerei israeliani hanno attaccato una fabbrica di missili dell'IRGC ad Hama, nella Siria occidentale, dove vengono prodotti missili di precisione per Hezbollah. Questo attacco, ha detto Pinko, ha colpito la capacità del gruppo “di ottenere kit che rendono le loro bombe più precise - il programma di miglioramento della precisione dei missili”. Tutti questi passaggi sembrano indebolire l'obiettivo prima che venga effettivamente attaccato”, ha affermato. Il 31 luglio, l'aviazione israeliana ha ucciso il secondo in comando di Hezbollah, Fuad Shukr, considerato il capo di stato maggiore “militare” dell'organizzazione, infliggendo un ulteriore colpo. Pinko ha dichiarato che questo e altri attacchi simili hanno rivelato “un'intelligence molto precisa, molto accurata, molto buona e sorprendente”. Mentre la copertura mediatica internazionale si è concentrata sull'attacco con il cercapersone, è stata prestata meno attenzione alle modalità di attivazione degli esplosivi in esso contenuti.
• CODICE MALIGNO Barak Gonen, docente presso il Jerusalem College of Technology ed ex ufficiale di sicurezza informatica delle Forze di Difesa israeliane, ha dichiarato a JNS che in teoria “per eseguire un codice maligno su un dispositivo remoto è necessario caricare il codice sul dispositivo prima dell'esecuzione, il che è un compito immenso se fatto da remoto”. E ha aggiunto: “Presumo che tutti i moderni servizi di intelligence impieghino esperti in grado di attaccare i dispositivi da remoto. Ma in questo caso, man mano che vengono rivelati i dettagli, diventa sempre più chiaro che i dispositivi sono stati 'trattati' prima di essere passati a Hezbollah. Per un aggressore è molto più facile attaccare un dispositivo quando lo ha in mano, perché può modificare il codice in esecuzione sul dispositivo. L'aggressore avrebbe solo bisogno di un'immagine del nuovo codice e potrebbe masterizzarlo nel dispositivo nello stesso modo in cui lo fanno la fabbrica o i tecnici dei telefoni cellulari”.
(Israel Heute, 20 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Scienziati israeliani e italiani identificano le debolezze delle cellule tumorali
Una ricerca innovativa identifica i punti deboli delle cellule tumorali aneuploidi, aprendo la strada a nuove terapie mirate.
Con un'importante scoperta, scienziati israeliani e italiani hanno identificato vulnerabilità cruciali nelle cellule tumorali che potrebbero portare a trattamenti innovativi. Ricercatori dell'Università di Tel Aviv e dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano hanno scoperto, in due recenti studi, specifiche debolezze nelle cellule tumorali aneuploidi, caratterizzate da un numero anomalo di cromosomi. L'aneuploidia, una condizione in cui le cellule si discostano dalle normali 23 coppie di cromosomi, è una caratteristica comune a molti tumori. Queste anomalie creano fattori di stress unici per le cellule tumorali, che i ricercatori ritengono possano essere presi di mira per ottenere trattamenti più efficaci. Gli studi, guidati dal professor Uri Ben-David e dalla dottoranda Johanna Zerbib a Tel Aviv, insieme al professor Stefano Santaguida e alla dottoranda Marica Rosaria Ippolito a Milano, hanno rilevato due principali punti deboli nelle cellule aneuploidi: la loro dipendenza dai meccanismi di riparazione del DNA e la loro difficoltà a gestire la produzione di proteine in eccesso. I risultati sono stati pubblicati su Cancer Discovery e Nature Communications. “Una parte significativa delle cellule tumorali è aneuploide e questa caratteristica le distingue dalle cellule sane”, ha spiegato Ben-David. “Il nostro lavoro si concentra sulle vulnerabilità delle cellule aneuploidi, con l'obiettivo di promuovere nuove strategie per eliminare i tumori cancerosi”. Sulla base di ricerche precedenti, il team ha indotto l'aneuploidia in colture di cellule umane geneticamente identiche, consentendo di isolare gli effetti specifici di un numero anomalo di cromosomi. Attraverso il sequenziamento del DNA e dell'RNA, la misurazione dei livelli proteici e lo screening CRISPR, hanno identificato che la via MAPK (mitogen-activated protein kinase) svolge un ruolo chiave nella riparazione del DNA nelle cellule aneuploidi. La ricerca ha dimostrato che l'interruzione della via MAPK rende queste cellule tumorali più sensibili alla chemioterapia, che agisce causando danni al DNA. Questa scoperta potrebbe consentire ai medici di trattare il cancro con dosi inferiori di chemioterapia, riducendo gli effetti collaterali dannosi. Un'altra vulnerabilità significativa identificata è stata la sovrapproduzione di RNA e proteine nelle cellule aneuploidi, risultato del loro numero anomalo di cromosomi. Le cellule cercano di degradare questo materiale in eccesso, rendendole particolarmente sensibili ai farmaci che inibiscono la degradazione delle proteine. I ricercatori hanno scoperto che le cellule aneuploidi sono più sensibili a questi farmaci, aprendo potenzialmente la strada alla riproposizione dei trattamenti esistenti per colpire i tumori altamente aneuploidi. Questa ricerca innovativa offre nuove speranze per terapie antitumorali più efficaci e mirate, sfruttando le debolezze specifiche delle cellule tumorali aneuploidi.
(Israfan, 20 settembre 2024)
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Perché è necessario un attacco in Iran
di David Elber
Dopo quasi un anno dall’eccidio palestinese del 7 ottobre e dalla conseguente guerra che Israele è costretto a combattere su due fronti, Gaza e Libano, è opportuno che l’establishment di Israele cambi strategia. Da una guerra di logoramento su due fronti imposta dall’Iran, Israele deve prendere l’iniziativa e attaccare la fonte del problema: l’Iran.
Per prima cosa è opportuno chiarire la natura di un possibile attacco militare. Israele è in guerra con l’Iran perché l’Iran ha attaccato Israele tramite le organizzazioni terroristiche che finanzia, addestra e arma: Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah e Houti. Inoltre l’Iran ha attaccato militarmente Israele con droni e missili balistici (14 aprile). In pratica l’Iran sta attuando una guerra di logoramento nei confronti di Israele che lo Stato ebraico non può sostenere all’infinito, mentre l’Iran finanzia questa guerra con i proventi del petrolio. Per molti aspetti, all’Iran, questo logoramento non costa nulla in termini di perdite economiche, militari e di infrastrutture. Tutti i terroristi uccisi sono facilmente rimpiazzabili con altri. Ad esempio, è notizia di questi giorni che diverse centinaia di terroristi Houti sono giunti nel sud della Siria per prendere parte ad un eventuale scontro armato in Libano o per attaccare Israele dal Golan o per infiltrarsi in Israele (per attaccare le comunità ebraiche in Samaria o in Giudea) tramite il porosissimo e mal controllato confine sul Giordano. Per tutte queste ragioni un attacco in Iran deve avere due obiettivi precisi: la distruzione del programma nucleare e la distruzione delle infrastrutture petrolifere che finanziano e alimentano la guerra in corso contro lo Stato ebraico. È doveroso mettere subito in luce che tale azione militare è estremamente complessa, rischiosa e dagli esiti incerti. Ma bisogna tentarla per non doverlo fare in futuro, quando sarà ancora più difficile soprattutto quando il regime iraniano sarà dotato di armi nucleari (il vero scopo del suo programma nucleare).
Israele ha già dimostrato di avere la capacità aerea di colpire a grande distanza (il 20 luglio quando ha attaccato il porto yemenita di Hodeidah che si trova ad una distanza maggiore rispetto l’Iran). Inoltre, Israele dispone di una flotta di sottomarini con enormi capacità offensive, soprattutto, quelli di classe Dolphin, tecnologicamente avanzatissimi, dotati di missili da crociera e balistici. Questi sottomarini sono in grado di avvicinarsi alle coste iraniane (se necessario) per distruggere le infrastrutture petrolifere senza essere individuati dall’Iran.
Un attacco all’Iran provocherebbe sicuramente una reazione militare iraniana e soprattutto una reazione politico-diplomatica capeggiata dalla Russia e dalla Cina, ma questo non deve essere un deterrente decisivo per fermare l’azione militare di Israele, per vari motivi che illustreremo.
Per prima cosa, una reazione militare iraniana può essere contenuta da Israele, come già dimostrato il 14 aprile scorso, e questo ha portato alla rinuncia iraniana, ad agosto, di vendicare l’eliminazione di Hanyeh a Teheran.
In merito ad una reazione di Russia e Cina, esse sono già apertamente e sempre schierate contro Israele in tutti i forum internazionali ad iniziare dall’ONU. Intrattengono già una forte collaborazione militare, nucleare ed economica con gli Ayatollah. Quindi da punto di vista politico e diplomatico la situazione per Israele non può peggiorare rispetto alla sua configurazione attuale. Presumere un coinvolgimento militare di Cina e Russia a fianco dell’Iran è altamente improbabile: la Russia è impantanata in Ucraina e in Siria non ha mai contrastato le centinaia di raid israeliani. La Cina non ha interesse a scatenare una guerra contro Israele, cosa, tra l’altro, estremamente difficile per i cinesi che non hanno truppe in Medio Oriente né basi militari. Sicuramente sono molto più interessati a partecipare a ricostruire le infrastrutture che eventualmente saranno distrutte e mettere così un piede in Medio Oriente come stanno facendo, da anni, in Africa e in America del Sud. L’unica vera incognita è rappresentata dagli Stati Uniti.
Con gli USA si possono aprire due scenari completamente diversi in base a chi vincerà le prossime elezioni presidenziali il 5 novembre. Nel caso, malaugurato, che vincesse il partito democratico, l’appoggio ad Israele sarebbe limitatissimo. A una fase iniziale di forte opposizione a un'azione militare, seguirebbe molto probabilmente un appoggio diplomatico obtorto collo in sede ONU per evitare le condanne più dure che si scatenerebbero al Consiglio di Sicurezza. Militarmente non fornirebbero nessun tipo di aiuto rendendo il blitz di Israele molto più difficoltoso. Ben diverso sarebbe lo scenario se vincessero i repubblicani. Con Trump al timone, è auspicabile e più probabile un grande appoggio militare oltre che diplomatico e politico. Con Trump alla presidenza può divenire plausibile un coinvolgimento indiretto anche dell’Arabia Saudita (il vero antagonista dell’Iran) sotto forma di concessione dello spazio aereo per compiere il blitz, ma soprattutto un coinvolgimento saudita per il dopo attacco.
Se l’Iran non fosse in grado di produrre petrolio per un lungo periodo, questo porterebbe ad un aumento vertiginoso delle sue quotazioni che potrebbe causare una crisi economica mondiale. Ma se l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti aumentassero la loro produzione per compensare quella mancante dell’Iran i mercati si stabilizzerebbero in poco tempo. Dopo una fiammata iniziale sopra i 100$ al barile le quotazioni scenderebbero con i mercati rassicurati dalla maggiore produzione di petrolio di Arabia Saudita, USA e altri paesi del Golfo. Oggi l’Iran produce circa 3.5 milioni di barili al giorno che equivalgono a circa il 4% della produzione mondiale. Quota ampiamente recuperabile con una maggiore produzione saudita e americana. Perché questo accada è necessaria una intesa politica non semplice ma possibile con Trump già artefice degli Accordi di Abramo.
Un simile scenario è sicuramente un grande azzardo ma è l’unico che possa garantire una certa sicurezza a Israele nei prossimi anni, altrimenti assisteremo a una interminabile serie di piccole guerre che porteranno lo Stato ebraico al collasso. In fin dei conti cosa ha Israele che possa interessare all’Arabia Saudita? La forza militare e la determinazione di sconfiggere l’unico avversario pericoloso per i sauditi: l’Iran.
Se invece che attaccare l’Iran, Israele decidesse di attaccare Hezbollah, si troverebbe a combattere una sanguinosissima guerra campale che produrrebbe un uguale sdegno mondiale con le immancabili condanne di ONU, UE, “amici” e nemici vari. Dal punto di vista politico e diplomatico con cambierebbe nulla. Ma questa guerra non sarebbe risolutiva: per l’Iran anche Hezbollah – e tutto il Libano – sarebbero sacrificabili. Questo perché molti terroristi libanesi riparerebbero in Siria e da lì tutto ricomincerebbe da capo: attacchi dal suolo siriano da parte di Hezbollah, milizie sciite siriane e irachene oltre agli Houti (già arrivati in Siria) e altri ancora. Cosa dovrebbe fare Israele nel momento in cui dalla Siria si ripetesse lo stillicidio di missili e razzi quotidiani che ora proviene dal Libano? È pensabile che Israele invada anche la Siria? No, non è ipotizzabile, ma anche se di dovesse verificare questo caso, inizierebbe un lancio di razzi dall’Iraq, altro Sato controllato dall’Iran, a questo punto cosa potrebbe fare Israele? L’unica cosa da fare è non cadere nella trappola iraniana di una infinita guerra di logoramento e colpire direttamente la fonte del terrorismo di tutta l’area, fonte ben nutrita e fatta crescere dalle amministrazioni Obama e Biden. Gli errori incalcolabili di Obama/Biden sono ormai un fatto compiuto, ora è necessario eliminare il pericolo iraniano prima che si doti di armi nucleari perché a quel punto non ci saranno rimedi.
In conclusione, o la comunità internazionale decide di fare cessare l’aggressione iraniana con mezzi sanzionatori/militari (assai probabile) oppure Israele dovrà prendere l’iniziativa militare per la sua stessa sopravvivenza.
(L'informale, 20 settembre 2024)
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Nasrallah denuncia “l’atto di guerra” di Israele, ma è vulnerabile
Le minacce del leader di Hezbollah che si ritrova con la rete dei miliziani e delle comunicazioni molto danneggiata
Il percorso dei cercapersone.
di Priscilla Ruggiero
ROMA - Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha parlato ieri, il primo discorso dopo che, per due giorni di fila, migliaia di suoi miliziani sono stati feriti – molti gravemente – e uccisi – una quarantina – in seguito all’esplosione di cercapersone e walkie-talkie in dotazione per le comunicazioni interne al gruppo. Questo attacco senza precedenti attribuito a Israele vìola “tutte le norme e le regole” esistenti, ha detto Nasrallah, “è un atto di guerra” che supera “limiti e linee rosse”: “il nemico” riceverà “una giusta punizione, che se l’aspetti o no”. Mentre il leader del Partito di Dio compariva sugli schermi e pronunciava questo suo discorso minaccioso, forse il più duro dal 7 ottobre, i jet israeliani volavano a bassa quota sopra Beirut.
Nasrallah si è riferito alle esplosioni simultanee dei device in tutto il Libano e in Siria definendolo “il massacro di martedì e mercoledì”, un’azione “disumana e senza morale” oltre che senza precedenti, con l’obiettivo di “uccidere quattromila persone in un minuto”: un colpo ben assestato, “in termini di sicurezza e in termini umani”, che però non fermerà il sostegno dato a Gaza, il fronte libanese continuerà a essere operativo e la punizione arriverà al momento giusto.
Molti commentatori hanno sottolineato il tono duro e severo del leader di Hezbollah, simile a quello che aveva avuto all’inizio di agosto dopo che il suo numero due era stato ucciso a Beirut e il leader di Hamas, Ismail Haniyeh era stato ucciso a Teheran: allora aveva detto che la guerra sarebbe cambiata, “entra in una nuova fase”, “questa non è più una guerra di sostegno” a Hamas e a Gaza “ma una guerra aperta in Libano e in Iran”. Le linee rosse sono state nuovamente superate, ma se il tono minaccioso di Nasrallah è certamente più concreto di quanto fosse in passato – prima dell’estate e degli omicidi mirati si era rivelato ben più cauto rispetto alle attese – questo è anche un momento di grande vulnerabilità per Hezbollah: il controspionaggio del gruppo non è riuscito a intercettare l’operazione degli scorsi giorni (stava per farlo, secondo le ricostruzioni, ed è anche per questo che Israele ha deciso di accelerare il suo piano), centinaia di suoi miliziani sono in ospedale, molti sono morti e la sua rete di comunicazione è stata devastata. Per quanto Nasrallah si sia premurato di specificare che, grazie alla bontà divina, molti device erano spenti e quindi non sono esplosi, il danno è enorme, in termini umani e di operatività, ma anche di immagine: la più importante e potente milizia armata della Repubblica islamica dell’Iran è stata dilaniata da migliaia di aggeggi minuscoli manomessi senza che nessuno se ne accorgesse. Lo sconvolgimento attraversa tutta la rete del cosiddetto “Asse della resistenza” genera insicurezza e condiziona le decisioni future sulla reazione (foss’anche solo la catena delle comunicazioni).
Nasrallah ha detto che è in corso un’indagine interna per capire come sia stato possibile il “massacro”: in realtà se lo sta chiedendo tutto il mondo. Se sulla manomissione dei dispositivi si è stabilito che è stata inserita una piccola quantità di un esplosivo molto potente, ancora resta da capire il dove, il chi e il quando. Il New York Times ha fornito qualche dettaglio significativo: i funzionari dell’intelligence israeliana avrebbero visto nella richiesta di Nasrallah di non utilizzare più i telefoni cellulari e investire nei cercapersone un’opportunità, e ancora prima che decidesse di ampliarne l’utilizzo, “Israele aveva messo in atto un piano per fondare una società fittizia che si sarebbe spacciata per produttrice internazionale di cercapersone”. Sin dalle prime ore dell’esplosione dei cercapersone le indagini si sono così concentrate sul percorso della manomissione dei device, e si è presto raggiunta una conclusione: poiché i dispositivi elettronici sono diventati più complessi e le catene di fornitura globali più contorte, è ormai impossibile proteggere la moderna catena di fornitura di prodotti elettronici da un avversario determinato e sofisticato. E non è così difficile pensare a delle infiltrazioni nella catena con la cooperazione di un produttore.
Il marchio sui pager era dell’azienda taiwanese Gold Apollo, uno dei principali produttori di cercapersone al mondo, ma il presidente Hsu Ching-Kuang ha subito precisato di essere completamente estraneo alla vicenda e di aver soltanto concesso i diritti di produzione con il proprio marchio a un’azienda europea, l’ungherese Bac Consulting. Ai media, Hsu ha raccontato come ci fossero anche stati dei pagamenti “strani” da parte di Bac da un conto mediorientale. L’attenzione si è così spostata su Budapest, su un ufficio deserto, un sito web chiuso e una misteriosa unica proprietaria e responsabile, Cristiana Barsony- Arcidiacono. La ceo ha però affermato di essere soltanto un’intermediaria, e anche il governo ungherese ha precisato che l’azienda non ha alcun sito produttivo in Ungheria. Secondo il New York Times, la Bac sarebbe soltanto una delle società fittizie aperte dall’intelligence israeliana per vendere i cercapersone manomessi – sarebbero almeno altre due le società fantasma – che accettavano sì clienti “ordinari”, ma l’unico che contava davvero era solo Hezbollah. E’ infine emersa una pista bulgara, con i media ungheresi che hanno individuato un’altra azienda con sede a Sofia, Norta Global Ltd., con un proprietario norvegese e un altro sito web bloccato. I walkie-talkie esplosi mercoledì avevano invece un marchio giapponese, della società Icom, con sede a Osaka, che ha affermato come gli apparecchi esplosi siano stati esportati in medio oriente dal 2004 al 2014, quindi ormai fuori produzione con quelli in circolazione quasi tutti contraffatti. Eppure secondo fonti della sicurezza libanese, i walkie-talkie sarebbero stati acquistati da Hezbollah circa cinque mesi fa, nello stesso periodo in cui sono stati acquistati anche i cercapersone.
Il Foglio, 20 settembre 2024)
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Come hanno fatto i cercapersone di Hezbollah a diventare bombe?
di Christiaan Hetzner
Due giorni consecutivi di esplosioni che hanno colpito chirurgicamente i militanti di Hezbollah in tutto il Libano hanno mostrato quella che sembra essere un’elaborata e sofisticata infiltrazione, da parte di Israele, nella catena di rifornimento che equipaggia il suo nemico.
Martedì scorso, migliaia di cercapersone imbottiti di esplosivo sono scoppiati contemporaneamente, prima che un numero imprecisato di radio ricetrasmittenti venisse fatto esplodere appena 24 ore dopo.
Si stima che gli attacchi coordinati contro Hezbollah, organizzazione paramilitare sciita sostenuto dall’Iran, abbiano ucciso più di due dozzine di persone e ne abbiano ferite gravemente altre decine. Gli esperti stanno ancora cercando di mettere insieme le prove nella speranza di spiegare come sia stata compiuta questa ‘straordinaria’ impresa. Ma una cosa è chiara: Israele in questo modo ha ridotto drasticamente la capacità di Hezbollah di colpire le posizioni dell’IDF nel nord del Paese.
“In due ondate di attacchi, ciascuna di pochi minuti, Hezbollah ha perso migliaia di militanti pronti a combattere e le sue capacità di comando e controllo”, ha scritto Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana, in un commento a Fortune. Tra i morti ci sono anche due bambini e più di 2.800 persone sono rimaste ferite, molte delle quali potrebbero essere innocenti. “Questa è stata un’operazione brillante in termini di intelligence ed esecuzione, davvero su scala globale”, ha dichiarato il generale di brigata israeliano Amir Avivi, citato da Bloomberg. “Da molti anni dico che siamo bravi nelle missioni e pessimi nelle guerre”.
• Chi ha prodotto i cercapersone esplosivi?
I cercapersone esplosi martedì erano un modello venduto con il marchio Gold Apollo. Hsu Ching-kuang, fondatore e presidente dell’azienda taiwanese, ha tuttavia dichiarato di aver autorizzato una società ungherese chiamata BAC Consulting a progettare e produrre il cercapersone in questione utilizzando il suo marchio.
“Lo hanno progettato loro stessi”, ha dichiarato nei commenti citati dall’Associated Press. Gold Apollo ha semplicemente riscosso un compenso per aver concesso loro l’uso del marchio della sua azienda, secondo quanto dichiarato. Quando l’emittente pubblica tedesca DW ha cercato l’azienda al suo indirizzo di Budapest, le tracce si sono raffreddate. Tutto ciò che ha trovato per confermare la sua esistenza è stata una pagina di carta con il suo nome stampato. Ciò suggerisce che si tratta di una società di comodo per fornire copertura.
• Gli alleati di Israele potrebbero aver intercettato dispositivi in viaggio
L’amministratore delegato dell’azienda, Cristiana Bársony-Arcidiacono, ha inoltre smentito qualsiasi coinvolgimento diretto nella loro produzione. “Non produco i cercapersone. Sono solo l’intermediario”, ha dichiarato a NBC News. Non ha detto però chi fosse responsabile della loro produzione né ha risposto a una richiesta di commento di Fortune. È possibile che sia stata un’azienda israeliana a produrre i cercapersone, ma potrebbe anche trattarsi di un’azienda legata a Hezbollah che desidera semplicemente rimanere nell’ombra. L’analista militare Elijah Magnier, da Bruxelles, ha suggerito un’altra possibilità: Israele è stato probabilmente avvisato da servizi segreti amici in Medio Oriente che hanno assicurato che i cercapersone sarebbero stati bloccati durante il viaggio prima di raggiungere Hezbollah. In questo modo, gli agenti israeliani avrebbero avuto il tempo e l’accesso ai dispositivi per impiantare manualmente l’esplosivo in migliaia di cercapersone, probabilmente nascosto direttamente nelle loro batterie agli ioni di litio.
“Avevano tutto il tempo del mondo”, ha dichiarato l’analista ad Al Jazeera.
• Le radio potrebbero essere state acquistate sul mercato nero
Come siano stati compromessi esattamente i walkie-talkie al momento rimane un mistero. Le prove visive suggeriscono che i dispositivi erano radio ricetrasmittenti vendute dall’azienda giapponese Icom, uno dei principali produttori. Tuttavia, l’azienda ha dichiarato di aver interrotto la produzione del modello in questione, l’IC-V82, circa dieci anni fa. Inoltre, Icom non fornisce più batterie di ricambio.
Gli agenti di Hezbollah avrebbero potuto procurarsi le radio portatili da qualsiasi fonte, senza affidarsi a documenti scritti che potessero essere rintracciati: per un’organizzazione indicata come terrorista dalla maggior parte dei governi occidentali, sarebbe sensato coprire le proprie tracce.Gli IC-V82 potrebbero anche non essere originali, ma copie a basso costo provenienti dal mercato nero, impossibili da rintracciare.
“Non è stato applicato un sigillo con ologramma per distinguere i prodotti contraffatti, quindi non è possibile confermare se il prodotto sia stato spedito dalla nostra azienda”, ha dichiarato Icom alla BBC. Con così tanti dettagli non chiari, potrebbero passare settimane, mesi, o addirittura anni, prima che si possa fare luce sugli eventi di questa settimana.
• Storia dei dispositivi di comunicazione con trappola esplosiva
Il governo israeliano non ha confermato né smentito la propria responsabilità e l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu non ha risposto a una richiesta di commento di Fortune.
Ma i servizi segreti del Paese hanno dimostrato più volte in passato la capacità di colpire chirurgicamente gli agenti nemici. Yahya Ayyash, una figura di spicco dell’ala militare di Hamas, è stato assassinato nel 1996 dopo l’esplosione del suo telefono cellulare proprio con una trappola esplosiva. L’impiego di questa tecnica su così larga scala, tuttavia, sembra senza precedenti. “Si può intervenire su un singolo dispositivo a distanza, e anche in questo caso non si può essere sicuri che prenda fuoco o che esploda davvero”, ha dichiarato al Financial Times un anonimo ex funzionario dell’antiterrorismo israeliano. “Farlo a centinaia di dispositivi contemporaneamente? Sarebbe una sofisticazione incredibile”.
L’operazione arriva poco dopo l’assassinio mirato di Ismail Haniyeh a Teheran, dove la figura di spicco di Hamas era stata ospite personale del leader iraniano Ayatollah Ali Khamenei, e pochi giorni prima dell’anniversario dell’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas che ha ucciso circa 1.200 israeliani.
Il prezzo del “Brent” europeo del Mare del Nord, il parametro di riferimento del greggio globale, è balzato dell’1,3% a 73,70 dollari al barile, in seguito al ritorno dei timori di un’escalation in Medio Oriente.
• Probabile paralisi dell’efficacia militare di Hezbollah
Se dietro l’attacco ci fosse il governo israeliano, come si ritiene da più parti, si può dire che sarebbe riuscito a compromettere le infrastrutture critiche di Hezbollah. Eliminando in un colpo solo gran parte delle loro possibilità di comunicazione, si paralizza la loro capacità di rispondere efficacemente a un attacco israeliano, mentre l’attenzione si sposta dalla lotta contro Hamas a Gaza al nord del Paese e a Hezbollah. “La perdita delle capacità di comunicazione wireless di Hezbollah compromette gravemente la sua flessibilità, connettività e manovrabilità”, ha dichiarato Melamed a Fortune. Inoltre, qualsiasi macchina alimentata da una batteria agli ioni di litio potrebbe potenzialmente essere una bomba a orologeria in miniatura e, pertanto, è ora sospetta. Setacciare le loro forniture per individuare i punti deboli distoglie l’attenzione dal campo di battaglia. “I componenti di Hezbollah ora esamineranno a fondo tutto ciò che può fungere da dispositivo di comunicazione”, ha dichiarato Fabian Hinz, analista militare dell’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici, in un’intervista rilasciata giovedì all’emittente televisiva tedesca ZDF. “E sarà un compito immane”.
(Fortune Italia, 20 settembre 2024)
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“Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, ma per l’umanità”
Il soldato Maayan Mulla ospite della Comunità ebraica di Milano
di Pietro Baragiola e Ludovica Iacovacci
Martedì 17 settembre la
Scuola Comunità Ebraica di Milano ha ospitato
Ritorno alla vita di un eroe da oltre il mare, la conferenza del riservista
Maayan Mulla, rimasto ferito a Gaza durante
un’imboscata dei terroristi di Hamas.
Comandante del battaglione di ingegneria dell’esercito israeliano con 14 anni di esperienza nell’IDF, il 39enne Mulla è stato tra i primi soldati israeliani a varcare la Striscia di Gaza
il 27 ottobre.
“Sono rimasto scioccato nel vedere che
ogni casa ha al suo interno decine di armi e bombe” ha affermato Maayan, raccontando la sua esperienza diretta al pubblico riunito nella
Sala Segre.
Lo scorso dicembre, durante l’assalto all’
ospedale Kamal Adwan, il comandante e il suo team sono caduti in una trappola tesa dai terroristi di Hamas.
Due soldati sono morti sul colpo e cinque sono rimasti gravemente feriti.
“Io sono stato portato d’urgenza in ospedale con
l’elicottero. Il mio corpo era pieno di schegge e sono rimasto sotto osservazione per diversi mesi” ha spiegato Maayan che, una volta dimesso, ha deciso di raccontare la sua vicenda in tutto il mondo. “La mia vita quel giorno è cambiata per sempre ma non mi guardo indietro per autocommiserarmi, bensì per ricordarmi che sono vivo e che posso ancora dare il mio contributo”
• LA CARRIERA DI MAAYAN MULLA
Dopo il liceo, tutti i ragazzi israeliani sono tenuti alla
leva obbligatoria ma il giovane Maayan, nonostante fosse felice di prendere servizio nell’esercito, è stato subito
respinto perché era considerato ‘un cattivo ragazzo e un pessimo studente’.
“Ciononostante ho continuato a lottare per questa opportunità e, dopo diversi tentativi, hanno lasciato che mi arruolassi” ha spiegato Mulla, orgoglioso della sua tenacia.
Le parole di sua madre sul ‘
non abbandonare mai un obiettivo’ hanno guidato il soldato per tutta la sua carriera, spingendolo sempre verso nuovi e straordinari traguardi: Maayan è diventato presto
ufficiale dell’IDF, poi
comandante di battaglione, poi è tornato all’università conseguendo a pieni voti la
laurea in legge e ha persino completato per ben 5 volte la nota competizione agonistica
Iron Man.
Nel 2017 Mulla si è trasferito a Nuova Delhi, in
India, dove è diventato
CEO della Watergen, l’azienda che si impegna nel combattere la carenza di acqua pulita nel mondo attraverso un processo che la ricava dall’atmosfera.
“Per molti il
6 ottobre è stato un venerdì come un altro, ma per me è stata una delle giornate migliori della mia carriera: avevo appena finito di programmare i miei futuri viaggi di lavoro a Dubai, Londra e in Grecia e avevamo raddoppiato il nostro KPI rispetto alle previsioni di quell’anno fiscale” ha raccontato Maayan.
La mattina del 7 ottobre però, dopo aver appreso al telegiornale la notizia del brutale attacco di Hamas, la vita di Mulla è cambiata per sempre.
“Ho chiamato
mia moglie, Rachel, e l’ho informata che sarei subito partito” ha proseguito Maayan. “Israele era la nostra casa e sapevamo entrambi che mi ero impegnato a difenderla anche per garantire la sicurezza dei nostri figli Barry, Noah e Nativ.”
Appena arrivato in Israele, Mulla ha fatto visita a suo fratello, rimasto ferito durante gli scontri con i miliziani di Hamas. Qui ha incontrato anche i suoi genitori che, sorpresi nel vederlo di nuovo a casa, hanno cercato in tutti i modi di fermarlo dal tornare nell’esercito, ma senza successo.
Dieci giorni dopo, quando Israele ha lanciato ufficialmente la sua operazione di terra,
Maayan è stato tra i primi soldati ad entrare nella Striscia di Gaza: “avevo un team di quasi 700 persone quando sono entrato a Gaza il 27 ottobre, e lì sono rimasto fino al fatidico 12 dicembre”.
• L’IMBOSCATA
Il
12 dicembre 2023, il sesto giorno di Hanukkah, Maayan e i suoi soldati sono stati mandati ad eseguire un’operazione nel
campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza.
Il loro compito era far saltare gli edifici dei terroristi di Hamas nascosti nell’area ma, all’insaputa dell’IDF, il territorio in cui sono entrati era un’imboscata.
Alle 2.30 del pomeriggio un
RPG ha colpito la squadra di Maayan, uccidendo due soldati e ferendone altri 5.
“Mi ricordo ancora che, quando l’esplosione mi ha sbalzato indietro, mi sembrava come se un camion mi avesse schiacciato contro un muro” ha spiegato Maayan. “Ho controllato subito se tutti gli arti c’erano ancora e, non vedendo parti mancanti, ho pensato di stare bene. Non sospettavo minimamente di essere gravemente ferito.”
Durante la presentazione di martedì, l’ex comandante ha mostrato un
video di 3 minuti e mezzo registrato dall’elmetto del suo commilitone
David, in cui si vede il momento dell’esplosione e come Maayan abbia prestato assistenza al suo compagno tra il caos e il fuoco nemico.
“Sono solo 3 minuti e mezzo ma il combattimento è durato 24 minuti. Le altre tre persone rimaste ferite nell’esplosione costituivano il nostro intero team medico perciò non c’era nessuno ad aiutarci ed io ho cercato di tenere unita la mia squadra, gestendo la situazione al meglio delle mie capacità” ha affermato Mulla. “L’unica cosa importante in quel momento era la missione: non avrei permesso che nessuno dei miei soldati venisse rapito.”
Ci sono voluti
14 minuti prima che i membri del suo team riuscissero a ricevere i primi soccorsi.
• LE FERITE DEL COMANDANTE
Quando la squadra di soccorso ha raggiunto Mulla, si è accorta subito che il comandante aveva
più di 140 schegge conficcate nel corpo, dal piede destro fino al collo.
“Avevo perso 3 litri di sangue. Riportavo danni ai nervi delle gambe e un buco nello stomaco causato dalle schegge” ha spiegato Maayan che è stato caricato subito sull’elicottero dell’equipe medica.
Qui ha incontrato la
dottoressa Roni Sharon, sua amica di lunga data, che non aveva idea che lui fosse a Gaza.
“Maayan, cosa ci fai qui?” ha gridato la dottoressa e, capendo subito la gravità della situazione, nei 14 minuti di volo verso l’ospedale ha effettuato un
intervento d’urgenza per rimuovere le schegge dalle costole di Mulla, salvandogli la vita.
“L’arrivo all’
Ospedale di Sheba è stato come un film. Il mio corpo era lì ma la mia mente era a Gaza e continuavo a pensare che sarei tornato presto” ha raccontato l’ex comandante. “Cercavo di convincere tutti che stavo bene, ma negli occhi dei dottori capivo che non sarebbe stato così.”
Maayan si è sottoposto a
più di 7 interventi chirurgici, 5 dei quali alle gambe, ed ha dovuto affrontare un lungo e faticoso processo di riabilitazione in Israele, lontano dalla sua famiglia in India.
È stato su una sedia a rotelle per 5 mesi e mezzo e le ferite gli hanno fatto
perdere l’80% dell’udito dall’orecchio destro.
Un recupero “completo” potrebbe richiedere almeno 5 anni, ma Maayan sa che non tornerà più come prima.
“Cosa avrei potuto fare? Portare la mia famiglia in Israele? I miei figli non sapevano studiare in ebraico nonostante fosse la loro lingua madre. E cosa avrei fatto con la mia azienda?” sono queste le domande che Maayan si è posto in ospedale. “Era una situazione difficile ma sapevo che non dovevo caderne vittima. Anzi dovevo lottare per renderla migliore!”
Mulla ha concluso l’incontro spiegando come il vedere volontari che arrivavano da ogni parte del mondo per aiutare i feriti israeliani in ospedale gli ha aperto gli occhi sulla vera forza della comunità ebraica: “non dobbiamo mai smettere di aiutarci e darci speranza l’un l’altro.
Questa non è solo la guerra d’Israele bensì la guerra dell’intera comunità ebraica mondiale. È la guerra per far sì che ciò che è successo il 7 ottobre non riaccada mai più.”
• L’INTERVISTA A MOSAICO
- Maayan, lei era in India il 7 ottobre, quando ha deciso di tornare in Israele per arruolarsi in Tzahal. Quali sono le ragioni che l’hanno mossa a compiere questo gesto?
“Quello che so è che abbiamo solo un Paese ed è Israele, lo Stato delle Comunità ebraiche del mondo. Noi abbiamo un impegno verso questo Paese e nei confronti della Comunità. A seguito del 7 ottobre ho pensato che ognuno dovesse fare quanto poteva. Un’ora dopo che ho capito cosa stesse accadendo, ovvero verso le 8 e mezza israeliane, ho realizzato che se non fossi andato in Israele non me lo sarei mai perdonato”.
- Poi le è successo qualcosa tra le strade imprevedibili di Gaza. Potrebbe riassumerlo?
“Sono andato in Israele volontariamente, nessuno mi ha chiamato. Io ho servito l’esercito per 14 anni dopodiché ho deciso di lasciare il militare per iniziare una nuova vita. A seguito del 7 ottobre ho scelto di tornare. Non mi importava cosa mi assegnassero da fare, perché
avrei fatto di tutto per aiutare: soldato regolare, autista, qualunque posizione. Ho ricevuto tre missioni differenti. Inizialmente sono stato incaricato di pulire e seppellire i corpi, dopo 10 giorni mi hanno nominato leader di un’operazione speciale da condurre a Gaza, successivamente mi hanno dato una nuova posizione come Comandante del Battaglione degli Ingegneri perché ero cresciuto in quell’unità. Il 27 ottobre siamo entrati a Gaza, di venerdì notte. A Jabalia, il 12 dicembre, alle 14:30 del pomeriggio, abbiamo condotto un’operazione speciale, critica, nel campo di rifugiati: dovevamo far saltare in aria alcuni edifici relativi ai terroristi responsabili del 7 ottobre. Sapevamo al cento per cento che loro erano dentro l’edificio e che erano gli artefici dei disastri nei kibbutzim, avevamo le evidenze, ma le posizioni degli edifici rendevano molto difficile l’entrata. Sulla strada, appena alcuni metri prima di entrare negli edifici,
Hamas ci ha teso un’imboscata. Uno dei miei è morto sul campo. Quella domenica aveva festeggiato il suo compleanno ebraico, aveva 20 anni.
A causa dei combattimenti sono rimaste ferite sei persone, tre in maniera molto grave, altre tre in maniera meno grave. Io ero uno di quelli più gravemente feriti, ma inizialmente non l’avevo capito. Quando sei il comandante di un’unità pensi agli obiettivi della missione, non ti interessa del tuo corpo, non senti il dolore, sei unicamente concentrato nel finire quello che devi fare. Mi sono ritrovato a gestire tutto il combattimento ed ero l’unico comandante lì, provvedendo per il supporto medico perché le tre persone ferite mediamente erano la nostra squadra di medici. È stato un grande scontro, per 70 minuti nessuno si è potuto avvicinare perché volavano proiettili dappertutto. Ho cercato di dare il primo soccorso medico assolutamente necessario per la sopravvivenza dei feriti più gravi. Quando una squadra di soccorso è riuscita a raggiungerci, un dottore mi si è avvicinato e mi ha detto che ero pieno di sangue. In quel momento mi sono guardato e avevo una scheggia molto grande tra le costole che è entrata nella prima linea di protezione del fianco. Ho perso più di due litri e mezzo di sangue e quando mi hanno salvato mi hanno portato all’ospedale: avevo
più di 100 schegge, gravi danni ai nervi, all’elevatore, il mio balbettio è esploso, il braccio destro si è danneggiato, ho perso l’udito all’orecchio destro, ho avuto un danno celebrale al cervello e ho ancora un centinaio di schegge nel corpo. È qualcosa che resterà con me per sempre. Sono già stato operato undici volte e ricoverato per circa 247 giorni e ne ho ancora da fare”
- Secondo lei, prima di entrare in Gaza e tutt’ora, è cambiata l’opinione della società israeliana nei confronti dell’esercito rispetto a quanto successo?
“Io non credo che ci sia stato un cambiamento nel capire cosa succeda, posso dire che questa è la mia quarta guerra, sono stato già in Libano nel 2006 e già a Gaza.
L’apprezzamento e l’aspettativa dei soldati dopo il 7 ottobre è sempre stata in crescendo. Controllare la mentalità dei soldati affinché agissero come tali è stata una delle sfide più impegnative. Quello che abbiamo visto il 7 ottobre è qualcosa che un essere umano non dovrebbe vedere mai. Quando si pensa a tutta la barbarie con cui hanno agito, quello che verrebbe istintivamente da fare è ripagarli. Il fatto che non abbiamo perso il controllo è qualcosa che mi rende molto fiero sia nei confronti dei nostri soldati sia delle Comunità ebraiche.
Abbiamo fatto tutto ciò che ci si aspetta da un soldato, non da terroristi. Questo è il modo in cui abbiamo agito in Gaza ed è così che le persone parlano dei nostri soldati fuori.
Non è tutto un arcobaleno, c’è una guerra con delle sfide da affrontare ma alla fine ci chiederemo cosa abbiamo fatto e dovremmo rimanere focalizzati sulle missioni, senza distrazioni e lasciando fuori le emozioni. Nella mia unità c’erano 700 soldati sotto di me, tra loro c’era chi aveva perso la famiglia, i fratelli, gli amici; loro hanno fatto ciò che c’era bisogno da fare e questo è qualcosa di incredibile. La stragrande maggioranza delle persone, quando c’è un pericolo, scappa. Noi abbiamo visto il pericolo e ci siamo andati dentro. Questo è un approccio totalmente diverso ed è qualcosa legato alla nostra Comunità ebraica mondiale, di cui, dopo tanti anni vissuti all’estero, ho capito l’importanza e la sua connessione con Israele. Siamo tutti uniti, come un grande puzzle; se manca un piccolo pezzo, il puzzle non è completo.
Oggi la nostra sfida più grande è connettere Israele con gli altri Paesi. È difficile da gestire, perché il mondo è stanco della guerra e la sua continuazione è qualcosa che gli altri fanno difficoltà ad accettare, ma bisogna trovare una soluzione affinché i politici degli altri Stati supportino Israele: questa è la missione principale delle comunità ebraiche nel mondo. Se presentiamo le nostre comunità in un buon modo, andrà bene”.
- Collegandomi a questo, come pensa che nel resto del mondo, per esempio nel Paese nel quale viveva, vedano Israele e le Comunità ebraiche?
“Non sono un politico e non voglio entrare in questioni politiche ma posso dire di aver capito che
il governo di Israele ha un gran lavoro da fare nel connettersi alle opinioni pubbliche degli altri Stati. Per esempio, in India noi abbiamo supporto: loro capiscono perfettamente la situazione. Nei Paesi occidentali, come in Europa o negli Stati Uniti, la guerra stanca, quindi Israele ha una finestra di due, tre, quattro mesi per concluderla, ma sfortunatamente è impossibile risolvere la questione in termini così rapidi. Se si vuole ripulire il territorio, questa operazione richiede molto tempo. A Gaza ci sono ancora degli ostaggi e non si ha qualcuno con cui contrattare, perché dall’altra parte c’è un’organizzazione terroristica che non ha standard, loro fanno quello che vogliono. Questa è la sfida più grande.
Se vogliamo finire la guerra – come infatti vogliamo –
abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile degli altri Paesi, affinché facciano pressione su questa organizzazione terroristica. La maggioranza delle persone crede che questa guerra sia dello Stato d’Israele: non è la realtà.
Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, per l’umanità. Se un’organizzazione terroristica supera l’ISIS, questa è la chiave di ogni cellula terroristica per agire contro cristiani, indù, o qualsiasi altra persona. Noi, persone che viviamo sulla Terra, non possiamo aiutare e supportare tali organizzazioni. Questo conflitto è iniziato in Israele ma è la guerra di tutte le comunità ebraiche del globo e di tutto il mondo contro persone che compiono azioni di questo genere. Uccidere bambini, una donna incinta, è inaccettabile come essere umani. Secondo me l’unico modo per finire la guerra in una buona maniera è mettere da parte le agende politiche e restare insieme. Quando siamo insieme, nessuno può entrare dentro; quando siamo divisi, c’è una fessura nella quale insidiarsi. “Basta terrore” dovrebbe essere il messaggio che unisce l’Europa. Guardiamo cosa succede in Francia, nel Regno Unito… i governi non sanno cosa fare. Non importa se si è a destra, sinistra, o al centro, la questione è facile: si tollerano azioni di questo tipo? Sì o no? Se si risponde affermativamente, allora non si merita di essere qui. È molto semplice”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 settembre 2024)
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Onustan e Nasrallah
Le Nazioni Unite sembrano diventate la Farnesina di Hamas e Hezbollah
di Giulio Meotti
ROMA - A volte sembra che il segretario generale dell’Onu per i suoi comunicati tragga spunto da “1984” di George Orwell. Come quando disse che il 7 ottobre non era avvenuto “dal nulla”. Insomma, Israele se l’è un po’ cercata. A proposito delle esplosioni ai danni di Hezbollah a Beirut, Antonio Guterres ieri ha chiesto di “non trasformare gli oggetti civili in armi”. Non sta bene far detonare cercapersone e walkie talkie in tasca ai terroristi sciiti libanesi. Va da sé che il segretario generale non si è chiesto perché anche l’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani, aveva un cercapersone di Hezbollah. All’Onu non sta bene porsi certe domande.
E così molti occidentali sono troppo impegnati a criticare il malvagio Israele per chiedersi perché un alto funzionario iraniano si trovasse così vicino a un cercapersone di Hezbollah. Sappiamo tutti perché. Né Guterres ha mai chiesto a Hamas di non “trasformare gli oggetti civili in armi”, come invece ha fatto ogni giorno dal 7 ottobre e con ogni risorsa civile di Gaza: scuole, case, uffici dell’Onu, moschee, impianti per acqua e luce, ospedali, ambulanze. Guterres non riesce proprio a dire “Hezbollah”, neanche quando a fine luglio tirarono un missile sul campo da calcio di Majdal Shams, nel Golan, uccidendo dodici bambini. Nel comunicato del segretario non c’è traccia di chi ha lanciato il missile. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ieri ha ripostato su X un video di Edward Said, intellettuale palestinese della Columbia University, in cui il famoso orientalista spiegava che il terrorismo in medio oriente è stato introdotto dai “sionisti”. Caspita. Ma Orwell non è una prerogativa del Palazzo di vetro. Ieri il Lemkin Institute, che prende il nome da Raphael Lemkin, il giurista ebreo che coniò il termine “genocidio” in risposta alla Shoah, condanna “l’attacco israeliano al popolo libanese”. Popolo libanese? Forse voleva dire milizia armata illegale?
Intanto all’Onu si approvava una risoluzione (a cui si sono opposti soltanto Stati Uniti, poche isole dalle Fiji a Papua e alcuni stati europei dell’Est) che impone un embargo su Israele e gli ordina di lasciare tutte le terre prese nella guerra del 1967 entro dodici mesi. Il testo non si sforza neanche di citare Hamas, il 7 ottobre o gli ostaggi. Perché l’Italia si è astenuta? Una coalizione di avvocati che combattono l’antisemitismo, nota come International Legal Forum, commenta che la risoluzione ha segnato il posto dell’Onu come “braccio diplomatico di Hamas”.
Martedì, prima del voto, l’ambasciatrice statunitense all’Onu Linda Thomas-Greenfield ha detto al plenum che la risoluzione “si rifiuta di affrontare la realtà che Israele, uno stato membro delle Nazioni Unite, ha semplicemente il diritto di proteggere e difendere il suo popolo da atti di terrore e violenza. Nonostante il fatto che Hamas abbia appena sconvolto i negoziati del cessate il fuoco assassinando brutalmente sei ostaggi e nonostante il fatto che Hamas continui a usare i civili come scudi umani a Gaza, questa risoluzione non include alcuna misura per fare pressione su Hamas”.
Invece l’Onu di pressione su Israele ne mette molta. Dal 2015, l’Assemblea generale ha approvato 141 risoluzioni di condanna di Israele, che è più del doppio del numero di risoluzioni di condanna rivolte a tutti gli altri paesi messi insieme. E il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato 104 risoluzioni contro Israele, rispetto alle 99 contro altri paesi. E oggi si riunisce anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu, su richiesta dell’Algeria, per discutere delle esplosioni a Beirut. E Guterres ormai non fa più neanche finta di citare la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. Fu sottoscritta nel 2006 e prevedeva che nel raggio di trenta chilometri dal confine con Israele non fossero schierate milizie non regolari. Quindi, secondo la 1701, i terroristi di Hezbollah non dovrebbero essere dove si trovano, con o senza walkie talkie. E nonostante la risoluzione, nel 2008, i miliziani sciiti hanno creato una loro unità chiamata “Radwan”, con la missione di stare proprio al confine, pronta a infiltrarsi nel territorio israeliano. Ma così va. Quando Israele bombarda è colpevole di “genocidio”. Quando Israele compie strike chirurgici contro un’organizzazione designata come terroristica da Stati Uniti e Unione europea, è colpevole di “terrorismo di stato”. Quando Israele esiste, è colpevole di “colonialismo”. Il “partito di Dio” ha davvero tanti amici in occidente.
Il Foglio, 20 settembre 2024)
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L’offerta a Hamas: tutti gli ostaggi contro salvacondotto
Il rilascio di tutti gli ostaggi in una sola volta in cambio della fine dei combattimenti e di un passaggio sicuro fuori dalla Striscia di Gaza per il leader di Hamas Yahya Sinwar e i suoi uomini. Sono alcuni dei termini dell’ultima proposta di Israele per arrivare a un accordo con Hamas. Il piano, scrivono i media locali, è stato presentato all’amministrazione Usa la scorsa settimana da Gal Hirsch (nell’immagine), responsabile israeliano dell’accordo sugli ostaggi. Se il gruppo terroristico palestinese dovesse dimostrarsi interessato, spiega l’emittente Kan, allora la proposta verrebbe formalizzata dal governo di Gerusalemme. L’iniziativa di Hirsch prevede il rilascio di prigionieri palestinesi incarcerati in Israele, la smilitarizzazione della Striscia e un nuovo sistema di governance per l’enclave. «Un accordo in una sola fase che includa tutti i 101 ostaggi è l’aspirazione di tutti i cittadini d’Israele», ha commentato il Forum delle famiglie degli ostaggi, sostenendo la nuova trattativa israeliana.
Sul terreno intanto l’attenzione militare è sempre più rivolta al nord. In 48 ore Hezbollah ha perso diversi suoi uomini a causa dell’esplosione, attribuita all’intelligence israeliana, di cercapersone, radio e walkie-talkie. I terroristi libanesi hanno giurato vendetta e attaccato ancora una volta il nord d’Israele. Otto le persone rimaste ferite dai missili anticarro del movimento sostenuto dall’Iran. «Il centro di gravità si sta spostando a nord. Stiamo dirottando forze, risorse ed energie in questa direzione», ha ribadito il ministro della Difesa Yoav Gallant. L’obiettivo, ha aggiunto, «è chiaro e semplice: riportare i residenti delle città del nord alle loro case in modo sicuro». Da quasi un anno l’area è bersaglio di Hamas e decine di migliaia di persone sono state evacuate. Il prossimo passo potrebbe essere una operazione nel sud del Libano. «La regola è che ogni volta che agiamo, le due fasi successive sono pronte», ha avvertito il capo dell’esercito Herzl Halevi. In ogni nuova fase «il prezzo pagato da Hezbollah aumenterà», ha aggiunto.
Oltre ai fronti di guerra, Gerusalemme deve affrontare anche quello diplomatico. Una nuova risoluzione dell’Assemblea generale Onu punta il dito contro lo stato ebraico. Il provvedimento chiede di «porre fine senza indugio alla sua presenza illegale» nei «Territori palestinesi occupati» entro 12 mesi, ritirando tutti i soldati e i civili israeliani dall’area. Si chiede inoltre un embargo sulle armi inviate a Israele dai diversi paesi. «La risoluzione dell’Onu guidata dai palestinesi, che chiede mosse unilaterali contro Israele, non porrà fine al conflitto, ma che rafforzerà un’Autorità Palestinese già radicalizzata», ha commentato il ministero degli Esteri israeliano.
(moked, 19 settembre 2024)
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Israele colpisce ancora Hezbollah: la strategia dell’eliminazione mirata
di Ugo Volli
• UN COLPO STRAORDINARIO – E RADDOPPIATO
È difficile pensare a una storia di spionaggio e di azione meglio congegnata. Dopo il colpo ai cercapersone, il personale di Hezbollah è stato colpito di nuovo ieri da una serie di esplosioni alle radio personali (i cosiddetti walkie talkie) e ha subito altre centinaia di feriti di cui molti gravi e una decina di morti. Il responsabile dell’azione, naturalmente, è Israele, che però non l’ha rivendicata e non l’ha neppure negata, come accade regolarmente nel caso di azioni sensibili, per esempio per l’eliminazione del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta a Damasco il 4 agosto. Il risultato è una doppia crisi molto grave del nemico dello Stato ebraico più attivo in questo momento: da un lato la maggioranza dei quadri di Hezbollah sono feriti e messi nell’impossibilità di nuocere; dall’altro è disabilitato completamente il sistema di comunicazione che è ciò che tiene insieme e rende operativi gli eserciti moderni. Hanno un bel dire i nemici di Israele, come il senatore americano Sanders o la deputata Ocasio-Cortez, o la vicepremier belga Petra De Sutter che l’azione andrebbe punita perché non rientrerebbe nelle consuete tattiche della guerra. In realtà non vi è mai stata un’eliminazione più mirata. Solo i terroristi inquadrati da Hamas (e i loro più stretti alleati, come l’ambasciatore iraniano) avevano i mezzi di comunicazione che sono esplosi; e fra essi solo i più responsabili, quelli che svolgono un ruolo di comando. È un colpo di grandissima efficacia e selettività che rientra perfettamente nella dura guerra che Hezbollah conduce contro Israele senza provocazione dal 7 ottobre dell’anno scorso.
• PASSARE ALLA BASSA TECNOLOGIA
La storia di questa azione deve far riflettere. In generale i terroristi conoscono l’abilità digitale di Israele, in particolare per quanto riguarda il web, i computer e gli smartphone. Cercano dunque di usarli il meno possibile. A quanto si dice, il più ricercato di tutti, il capo di Hamas Sinwar, dall’inizio della guerra non usa nessun mezzo tecnologico e comunica solo con biglietti scritti, quel che nel gergo mafioso si chiamano pizzini. Anche Hezbollah ha deciso all’inizio della guerra di usare le tecnologie meno avanzate per gestire il coordinamento e la comunicazione interna, scegliendo come canale informativo e veicolo degli ordini non dei telefoni cellulari, ma i vecchi cercapersone, che si usavano negli anni Ottanta. Sono dispositivi che ricevono solo brevi messaggi di testo, non voce né dati né immagini, e che per lo più sono passivi, cioè non possono trasmettere ma solo ricevere; non sono nella rete, ma prendono i dati da onde radio su una frequenza personalizzata. Quindi sono difficilmente intercettabili, e sembravano molto sicuri per i terroristi.
• LA TRAPPOLA
Di conseguenza Hezbollah, all’inizio della guerra o forse anche prima, ne ha ordinati 5.000 (abbastanza per tutti i suoi quadri), molto resistenti ed efficaci, alla Gold Apollo, un’azienda di Taiwan. Peccato che questa avesse ceduto i business e il marchio a un’altra azienda, la BAC Consulting KFT, una compagnia che ha sede in Ungheria e che da un paio d’anni gestisce gli ordini per alcune aree geografiche, fra cui il Medio Oriente. Questa però è solo un “intermediario commerciale senza nessun impianto di fabbricazione in Ungheria”, dice il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs sui social, affermando quindi che non gli risulta che i cercapersone siano stati prodotti in Ungheria. Non si sa dunque chi abbia prodotto gli apparecchi: probabilmente forse una società creata dai servizi israeliani, che comunque hanno avuto fisicamente in mano le macchine per qualche tempo. Il che conferma che Israele ha il modo di conoscere anche le decisioni organizzative più riservate dei terroristi, come quelle che riguardano i sistemi di comunicazione.
• LE ESPLOSIONI
Qualcuno legato ai servizi israeliani, infatti, ha inserito all’interno dei dispositivi vicino alla batteria una piccola quantità (fra i 20 e i 50 grammi, il peso di un piccolo tuorlo d’uovo) di alto esplosivo. I “pager” sono stati consegnati cinque mesi fa e distribuiti immediatamente. Al momento buono, con una chiamata contenente un apposito comando software che ha raggiunto tutte le macchine, i cercapersone sono stati indotti a sovraccaricarsi, sfruttando al massimo e riscaldando così la batteria, che ha fatto esplodere l’esplosivo ed essa stessa si è incendiata producendo una pericolosissima fiammata. Chi stava leggendo il messaggio inserito nel dispositivo ha perso la vista e le mani, chi lo teneva in tasca ci ha rimesso le parti basse del ventre. Lo stesso è accaduto quando dopo l’esplosione dei cercapersone Hezbollah ha ordinato di passare a dispositivi ancora più primitivi, i walkie talkie che consentono solo una comunicazione bidirezionale vocale di qualche chilometro. Anch’essi erano stati consegnati alcuni mesi fa ed erano stati minati e al momento buono sono esplosi, provocando altri numerosi feriti e morti.
• CHE SUCCEDE ADESSO?
Hezbollah ha minacciato rappresaglie sanguinose, ma al momento è disorganizzato. Questo sarebbe il momento di attaccarlo, e infatti si dice che tutta l’operazione fosse stata concepita in vista dello scontro sul terreno con i terroristi libanesi, ma Israele si sarebbe accorto che intorno ai cercapersone incominciavano a girare dei sospetti nell’organizzazione di Hezbollah e dunque avrebbe deciso di procedere ora prima che l’esplosivo fosse trovato. Ma, a quanto pare, c’è un veto dell’amministrazione democratica, che non vuole la vittoria di Israele e neppure troppi combattimenti fino alle elezioni. E Israele, di fronte alle minacce americane di togliere l’appoggio militare e quello diplomatico all’Onu, è costretto a cedere. Deve quindi aspettare che sia Hezbollah, quando se la sentirà, a provocare lo scontro di terra. Per ora Israele ha dimostrato ancora una volta di avere risorse di intelligence e audacia operativa senza pari al mondo.
(Shalom, 19 settembre 2024)
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Israele: attacco di Hezbollah nell’Alta Galilea. Diversi feriti. Jet in azione
Durante la notte, i caccia israeliani hanno colpito gli edifici utilizzati da Hezbollah a Chihine, Taybeh, Blida, Mays al-Jabal Aitaroun e Kafr Kila, nel Libano meridionale. Anche un deposito di armi di Hezbollah è stato colpito da un drone a Khiam.
In mattinata almeno due missili anticarro sono stati lanciati da Hezbollah verso l’Alta Galilea, nei pressi di Menara, ferendo diverse persone.
Secondo quanto riferito, i feriti sono stati curati sul posto prima di essere trasportati in ospedale. L’IDF ha risposto al fuoco con tiri d’artiglieria e droni che hanno colpito la zona di Ramim Ridge.
Hezbollah ha promesso una “sanguinosa vendetta” attribuendo a Israele la colpa per le esplosioni dei cercapersone prima e delle radio ricetrasmittenti poi che negli ultimi due giorni hanno provocato la morte di decine di terroristi e il ferimento di almeno 4.000 miliziani di Hezbollah.
(Rights Reporter, 19 settembre 2024)
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“Dal Front Populaire al Nouveau Front Populiste”, il webinar di UAII
di Anna Balestrieri
L’Unione delle Associazioni Italia Israele presieduta da Celeste Vichi ha ospitato su zoom il 17 settembre “Dal Front Populaire al Nouveau Front Populiste”, un’analisi incisiva sulle due ultime elezioni in Francia e sull’evoluzione politica del paese. L’incontro, continuum ed aggiornamento del precedente webinar del 29 maggio, ha visto la partecipazione della professoressa Sophie Nezri, esperta di letteratura italiana e studi ebraici, e di Francesco Domenico Vitale, dottorando in storia contemporanea. La discussione ha offerto uno sguardo approfondito sugli sviluppi politici, sociali e culturali che stanno plasmando il panorama francese.
• LA FRANCIA E IL NUOVO ANTISEMITISMO La professoressa Sophie Nezri ha analizzato in modo approfondito la condizione della comunità ebraica in Francia, evidenziando una preoccupante crescita dell’antisemitismo nel paese. La fuga di oltre 4000 ebrei francesi verso Israele, nonostante la situazione di guerra nel paese dal 7 ottobre 2023, dimostra come il clima di ostilità locale sia diventato insostenibile. Aggressioni quotidiane, discriminazioni e minacce nelle università francesi sono ormai parte della realtà per molti giovani ebrei, e l’antisemitismo sembra alimentarsi da diversi fronti: da una parte l’estrema sinistra rappresentata dal partito La France Insoumise, dall’altra l’estrema destra del Rassemblement National, entrambe forze che cercano consensi elettorali su basi ideologiche contrapposte, ma con un pericoloso elemento in comune: la strumentalizzazione delle tensioni religiose e sociali. Il partito France Insoumise, con il suo leader Jean-Luc Mélenchon, trova una vasta base di sostegno non solo negli intellettuali di sinistra, ma anche tra i sei milioni di musulmani in Francia, una comunità in crescente tensione con la popolazione ebraica. Questo schieramento politico ha contribuito ad un clima di intolleranza che sta spingendo sempre più ebrei a cercare rifugio all’estero. A ciò si contrappone il Rassemblement National, unico partito che ha difeso pubblicamente Israele dopo i fatti del 7 ottobre, pur rimanendo ancorato a un elettorato legato al ceto popolare che spesso manifesta sentimenti nazionalisti e xenofobi.
• LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ E IL “PROBLEMA DI CIVILTÀ” La Francia vive un momento di crisi identitaria profonda, descritto dalla professoressa Nezri come un “problema di civiltà”. Alcuni quartieri, ad esempio nella città multietnica di Marsiglia, vedono una crescente islamizzazione, con negozi in cui le donne non possono entrare senza velo. La stessa Nezri ha denunciato la situazione precaria in cui si trova come donna ebrea, costretta a confrontarsi con una crescente ostilità. La polarizzazione politica si riflette anche nelle elezioni, dove il declino dei partiti tradizionali ha permesso l’ascesa di formazioni populiste di destra e sinistra.
• IL FUTURO POLITICO DELLA FRANCIA Durante la conferenza, Vitale ha sollevato interrogativi cruciali sulle prospettive politiche del paese, chiedendosi quale sarà il destino della Francia nel prossimo futuro. Con la recente nomina di Michel Barnier, il più anziano primo ministro del paese, ci si chiede se il governo riuscirà a formare una maggioranza solida. La risposta, secondo Nezri, è incerta, soprattutto in un contesto in cui gli arabi, descritti come i “nuovi dannati della terra”, stanno diventando la nuova classe proletaria. La Fête de l’Humanité, paragonata da Nezri alla festa dell’Unità in Italia, è un esempio della crescente propaganda anti-israeliana che sta prendendo piede in Francia. La conferenza ha offerto una visione complessa e inquietante del futuro della Francia, definita come un laboratorio del nostro futuro europeo. La crescente tensione tra la comunità ebraica e quella musulmana, l’emergere di movimenti populisti e il declino dei partiti tradizionali sono solo alcuni dei segnali di una crisi politica e sociale che richiede un’attenta riflessione.
(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2024)
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“Non ho mai visto una macchina diffamatoria così ben oliata"
La moglie di Gideon Saar denuncia la violenza scatenata dalle voci sulla nomina del marito. “Ho persino pensato di venire in studio per assumermi la responsabilità del 7 ottobre, della cattiva gestione della guerra, della mancata restituzione degli ostaggi - perché questa settimana sono stata accusata di tutto questo”.
Mentre si rincorrono le voci sulla nomina di Gideon Saar a Ministro della Difesa, sua moglie, Geula Even-Saar, ha parlato giovedì a Radio 103FM della settimana che ha appena vissuto: “Non ho mai visto nulla di simile. Una macchina della calunnia ben oliata, un sacco di soldi investiti, un tentativo grossolano di estorcere e minacciare un funzionario eletto e la sua famiglia”.
In un'intervista con Nissim Mishal, ha dichiarato ironicamente: “Ho persino pensato di venire in studio per assumermi la responsabilità del 7 ottobre, del fallimento, del massacro, della cattiva gestione della guerra, del mancato ritorno degli ostaggi - perché sono stata accusata di tutto questo questa settimana”.
“Personalmente ricevo migliaia di sms e telefonate minatorie, rivolte anche ai miei figli e alle figlie maggiori di Gideon, migliaia ogni giorno. Messaggi come 'Il sangue degli ostaggi è sulle tue mani, moglie di un assassino, dovresti vergognarti, certi atti sono imperdonabili, sei una traditrice, se Gideon sarà nominato ministro della Difesa sarai punita per sempre' - questi sono solo esempi”.
Ha continuato: “Sono abituata alle campagne diffamatorie, ma non ho mai visto nulla di simile. Si tratta di una macchina ben rodata, con molti soldi investiti, e soprattutto di un palese tentativo di fare pressione su un funzionario eletto e sulla sua famiglia. Non è solo di cattivo gusto. Sono una persona coraggiosa. Le persone stanno vivendo tragedie reali. Non sono una vittima e non c'è bisogno di dispiacersi per me. Ma queste non sono persone che scrivono con il cuore, è un sistema orchestrato”.
“Non sono il portavoce di Gideon Saar, ma è forse l'unico uomo, oltre a Netanyahu, che ha esperienza in un gabinetto di governo quando si tratta di decisioni sulla sicurezza. Cosa hanno fatto le persone esperte a ottobre? Come sono state abbandonate le persone della periferia? Non ditemi che se Gideon fosse stato il capo di gabinetto sarebbe stato diverso. C'erano persone esperte nello staff, eppure siamo sopravvissuti a ottobre. Continuerò a ricevere messaggi, ma questo è il mio messaggio: non importa quanta pressione facciate su di me, non mi costringerà a fare pressione su di lui. Non riuscirete a ricattare un politico attraverso di me”.
(i24, 19 settembre 2024)
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Bernard-Henri Lévy: “Se Israele perde è peggio dell’Olocausto. L’accordo di pace ci sarà, ma senza Hamas”
Le esplosioni che a macchia d’olio si allargano da Beirut, proiettando sulla regione l’ombra di una pericolosa escalation, non sorprendono Bernard-Henri Lévy, il cui ultimo libro, “Solitudine di Israele” (La nave di Teseo), racconta il piano inclinatosi vertiginosamente dopo il 7 ottobre e l’inevitabilità per lo Stato ebraico di affrontare a «una guerra esistenziale». Il celebre filosofo francese è in partenza da New York diretto in Italia dove, da Pordenone a Milano, ripeterà la sua convinzione, il suo incubo: «Israele deve vincere o sarà peggio dell’Olocausto».
- Il Libano è ammutolito, Hezbollah minaccia vendetta, Tsahal sposta le truppe al nord. Può Israele permettersi un’altra guerra e quanto conta invece la volontà del premier Benjamin Netanyahu di sopravvivere politicamente? «È in corso una guerra dichiarata da altri contro Israele, un Paese sotto attacco su più fronti. C’è Hezbollah, ci sono le milizie in Siria e gli houthi nel mar Rosso, c’è l’Iran e c’è Hamas. Combattere questa guerra è nell’interesse di Israele».
- Non ci sono grandi dubbi sulla paternità della sbalorditiva operazione libanese. Come spiega invece il fallimento d’intelligence del 7 ottobre? Israele aveva con arroganza rimosso i palestinesi al punto di trascurare i segnali? «Non è questione di arroganza ma di cosa sia possibile prendere in considerazione e cosa no. Il pogrom del 7 ottobre è un evento impensabile, imprevedibile, imparabile. Pur disponendo di alcune informazioni nessuno in Israele avrebbe potuto credere a uno scenario del genere, neppure avendocelo sotto gli occhi, è troppo nuovo, selvaggio, troppo inutile se non per il gusto della crudeltà. È così irrazionale e disumano che si fa fatica anche a capire».
- Conosce Bibi Netanyahu? «Ho incontrato tutti i primi ministri israeliani, da Golda Meir in poi. Con alcuni, come Rabin e Peres, siamo stati amici, per altri, come Begin, ho provato rispetto pur trovandomi in disaccordo. Ho criticato Netanyahu, che conosco bene, per tutta la mia vita politica: l’ho fatto in modo molto duro durante le proteste contro la sua riforma della giustizia e lo farò di sicuro quando questa guerra sarà finita. Ma oggi no, non mentre Israele è in guerra».
- «Se ti dimentico, responsabilità ebraica che ha fatto dire a un grande primo ministro ebreo: ancora più imperdonabile dell’omicidio dei figli d’Israele è costringere Israele a uccidere i figli dei suoi assassini...» scrive alla fine del suo libro paventando la perdita dell’anima ma chiosando che non siamo a quel punto. Siamo però a oltre 40 mila morti a Gaza e la Knesset è ostaggio degli estremisti. Vede ancora margini per recuperare lo spirito originario d’Israele? «Non c’è nulla da recuperare perché quello spirito è lì, vibrante. Basta andare tra le famiglie degli ostaggi per sentirlo fisicamente, in mezzo a loro l’ho respirato come nel giugno del 1967. In Israele ci sono due correnti politiche contrastanti: la prima spinge per la normalizzazione e per fare del Paese una nazione come qualsiasi altra dimenticando i valori del giudaismo, l’altra tiene vivi i principi dei pionieri. C’è tensione, ma per ora non sono pessimista sull’anima d’Israele, lo sono invece sulla guerra esistenziale che il Paese sta affrontando e che deve vincere: se perdesse sarebbe la più grossa tragedia dall’Olocausto».
- Hamas non sembra un partner con cui Israele possa negoziare alcunché, sebbene neppure l’Olp di Arafat lo fosse prima di Olso. Ma, sul fronte opposto, come potrebbe Israele dialogare senza sacrificare le colonie che, cresciute senza sosta, sono oggi dilaganti? «Non c’è parallelismo tra Hamas e i coloni. Con Hamas non esiste accordo di sorta che non sia quello circoscritto alla liberazione degli ostaggi. E Hamas non li libererà perché sono la sua assicurazione, la più potente arma di terrore. Chi spera nel negoziato s’illude. E per quanto riguarda i coloni, li avverso. Ma credo che quando l’Autorità nazionale palestinese si sveglierà e riconoscerà come la “resistenza” di Hamas abbia avvelenato la sua gente avremo una soluzione politica in Cisgiordania, nell’ambito della quale i coloni decideranno se andarsene o restare da minoranza in uno Stato arabo».
- La prospettiva due popoli per due Stati è naufragata, restano al massimo sul tavolo gli accordi di Abramo, congelati il 7 ottobre. Ma con quale partner palestinese se l’Anp, anche con la complicità d’Israele, è così screditata? «Mi rifiuto di parlare di una soluzione politica fin quando gli ostaggi non saranno tornati a casa e Hamas non sarà stato sconfitto militarmente in modo tale che il suo mondo riconosca il disastro di quella strategia. Succederà. Anche l’Unione europea era impensabile nel 1945. La condizione però è zero compromessi con Hamas, un gruppo che equivale ad al Qaeda e va schiacciato. Gli accordi di Abramo non sono stati accantonati, restano sullo sfondo, i Paesi arabi si stanno muovendo con accortezza, consapevoli che Hamas è il peggio anche per loro».
- “La solitudine d’Israele”, nato per essere il rifugio degli ebrei del mondo, è la solitudine degli ebrei nel mondo? «Di sicuro, gli ebrei sono sotto attacco negli Stati Uniti, nei campus, nelle strade. Criticare Israele è legittimo ma condannare la natura ebraica d’Israele o gli ebrei in generale è diverso. Ho ascoltato proporre l’espulsione d’Israele dalle Nazioni Unite, un’enormità senza precedenti, una misura mai evocata per l’Iran o per altre feroci dittature. Questa non è critica politica è antisemitismo».
- C’è stato un tempo in cui Israele dialogava col socialismo mentre oggi ha spesso accanto amici di destra. È cambiata la sinistra o Israele? «La sinistra è cambiata molto più d’Israele».
Israele, scrive, è diviso tra i liberali che gli somigliano e gli illiberali che lo difendono. Un buon esempio è la nuova Europa emersa dal voto di giugno, spostata a destra e con forze conservatrici che avanzano dall’Italia, alla Francia, alla Germania. Cosa si aspetta da questa Europa? «Mi aspetto il ritorno dei liberali in Europa, l’illiberalismo non è un’opzione. E rispetto ai nuovi amici illiberali d’Israele, credo che il Paese sia in uno stato di debolezza tale da non poter rifiutare nessun aiuto. Al tempo stesso però gli suggerisco di tenere gli occhi aperti perché l’alleanza con le forze illiberali è fragile, non si basa su valori condivisi né sulla reciproca conoscenza ma sull’opportunità del momento».
- È un’Europa attrezzata a fronteggiare le sfide poste dalle nuove potenze come la Russia, la Cina e l’Iran ma anche dalla prospettiva di un’America sempre più lontana? «No, è troppo divisa per affrontare le due minacce più serie: l’America, che gradualmente ci volterà le spalle indipendentemente da chi vinca le elezioni, e l’offensiva dei nuovi attori che io definisco i 5 re e che rappresentano per l’Europa una sfida esistenziale, a cominciare dalla guerra in Ucraina».
- Cosa succede se Donald Trump diventa presidente? «È imprevedibile, lo sappiamo debole con dittatori. Non c’è nulla di buono da aspettarsi».
- Come risponde ai tanti Paesi del sud che nel caso di Russia, Israele e delle violazioni del diritto internazionale parlano di due pesi e due misure ? «Israele non viola il diritto internazionale, la Russia lo fa. Israele si difende e difende la democrazia contro il peggior fascismo del nostro tempo».
- Le critiche più dure in questo senso vengono da Israele, i soldati refusenik, l’ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon… «C’è un dibattito interno che dimostra la vitalità della democrazia israeliana, non per questo devo essere d’accordo».
(La Stampa, 19 settembre 2024)
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Centinaia di cercapersone esplodono in tutto il Libano: Hezbollah accusa Israele
di Anna Balestrieri
Hezbollah ha accusato Israele di aver orchestrato un attacco coordinato, in cui centinaia di cercapersone sono esplosi simultaneamente in tutto il Libano e in alcune parti della Siria. L’esercito israeliano ha rifiutato di commentare.
• L'ATTACCO SIMULTANEO
Centinaia di cercapersone sono esplosi contemporaneamente in tutto il Libano e in alcune parti della Siria, in quello che sembra essere un attacco coordinato che ha preso di mira i membri di Hezbollah, secondo le dichiarazioni di funzionari libanesi e di Hezbollah.
L’attacco è avvenuto il giorno dopo che i leader israeliani avevano avvertito di un possibile intensificarsi della loro campagna militare contro Hezbollah, in risposta ai continui attacchi contro il nord di Israele del gruppo filo-iraniano, solidale con i terroristi di Hamas nella guerra contro Israele a Gaza. Tre funzionari informati sull’attacco hanno dichiarato che l’operazione ha preso di mira centinaia di cercapersone utilizzati dai membri di Hezbollah, dispositivi che si erano diffusi ulteriormente dopo gli attacchi del 7 ottobre, quando il leader di Hezbollah aveva avvertito che la rete cellulare era stata tracciata dai servizi segreti israeliani e la segretezza dei loro spostamenti irrimediabilmente compromessa.
Hezbollah ha accusato Israele e ha promesso di vendicarsi per quella che ha definito “aggressione flagrante”. L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali.
• TENTATIVO DI ASSASSINIO FALLITO
Martedì pomeriggio, il 17 settembre, prima delle esplosioni dei cercapersone, l’esercito israeliano ha accusato Hezbollah di aver tentato di assassinare un ex membro di alto livello dei servizi di sicurezza israeliani con un ordigno esplosivo. Questo tentativo di attacco era stato attribuito agli stessi operativi di un altro attentato fallito a Tel Aviv l’anno scorso.
• AMBASCIATORE IRANIANO FERITO
Tra le vittime delle esplosioni ci sono anche il figlio di un parlamentare di Hezbollah, Ali Ammar, e l’ambasciatore iraniano in Libano, Mojtaba Amini, che ha riportato ferite alla mano e al volto quando il cercapersone che portava è esploso.
L’ambasciatore iraniano in Libano, Mojtaba Amini, è rimasto ferito nell’apparente attacco, secondo i media statali iraniani. Le sue ferite non sono gravi e si prevede che si riprenderà. Le recenti esplosioni coordinate di cercapersone in tutto il Libano, che Hezbollah attribuisce a Israele, segnano una significativa escalation nel conflitto in corso tra le due entità. Questo evento ha aggiunto un nuovo livello di complessità a una regione già instabile. Con i cercapersone che detonano simultaneamente, ferendo quasi 3.000 persone e uccidendone almeno nove, tra cui civili e membri di Hezbollah, le implicazioni di questo attacco sono multiformi e toccano la strategia militare, le vulnerabilità tecnologiche e le dinamiche geopolitiche.
• CONFUSIONE E SHOCK A BEIRUT
La serie di esplosioni ha lasciato Beirut in uno stato di confusione. Testimoni hanno riferito di fumo proveniente dalle tasche delle persone, seguito da piccole esplosioni. Filmati amatoriali mostrano scene caotiche negli ospedali con pazienti feriti che cercano soccorso.
Il ministro della sanità libanese, Firass Abiad, ha dichiarato che almeno otto persone sono rimaste uccise e più di 2.700 ferite, con circa 200 in condizioni critiche. Una delle vittime era una bambina di 8 anni.
Un medico che ha visitato gli ospedali di Sidone ha dichiarato che molti dei feriti hanno subito gravi lesioni agli occhi e che c’è una carenza di chirurghi oculisti. I medici hanno raccolto donazioni di sangue a Sidone e nella periferia meridionale di Beirut, mentre le ambulanze continuavano a trasportare feriti agli ospedali.
Le scuole in tutto il Libano rimarranno chiuse mercoledì, secondo quanto riferito dai media statali libanesi.
Almeno 14 persone sono rimaste ferite dalle esplosioni di cercapersone in Siria, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.
• CONFLITTO IN ESCALATION
Le esplosioni sembrano essere l’ultima mossa in un conflitto che dura da 11 mesi tra Israele e Hezbollah, iniziato dopo che il gruppo, sostenuto dall’Iran, ha iniziato a sparare missili nel territorio israeliano in solidarietà con Hamas.
• NATURA DELL'ATTACCO E SIGNIFICATO MILITARE
Il targeting dei cercapersone utilizzati dai membri di Hezbollah sottolinea un cambiamento critico nel modo in cui la tecnologia gioca un ruolo nella guerra moderna. I cercapersone erano diventati uno strumento sempre più importante per Hezbollah dopo aver percepito che l’intelligence israeliana si era infiltrata nelle reti di telefonia mobile del Libano. Affidandosi a questi dispositivi low-tech, Hezbollah sperava di salvaguardare le comunicazioni, evitando intercettazioni che avrebbero potuto portare ad attacchi mirati. L’attacco sofisticato a questi stessi dispositivi illustra la capacità di Israele di penetrare anche sistemi di comunicazione presumibilmente sicuri, probabilmente attraverso la rete di intelligence del Mossad, secondo alcuni esperti militari.
Il presunto coinvolgimento di Israele, sebbene non confermato dall’esercito, rientra in un modello più ampio di attacchi mirati e operazioni di intelligence, tesi a minare l’infrastruttura militare di Hezbollah. Disattivando il sistema di comunicazione del gruppo, questo attacco potrebbe essere stato progettato per seminare confusione e interrompere le capacità operative di Hezbollah, ostacolandone il coordinamento. Tuttavia, l’atto ha conseguenze molto più profonde che vanno oltre gli obiettivi militari immediati.
• IMPATTO STRATEGICO E IMPLICAZIONI REGIONALI
Le esplosioni giungono in un momento di forti tensioni, con Israele e Hezbollah già impegnati in periodici scontri da ottobre. L’allineamento di Hezbollah con Hamas durante la sua guerra con Israele complica ulteriormente la situazione, trasformando quelli che un tempo potevano essere conflitti localizzati in tensioni regionali più ampie. L’attacco, che ha ferito membri di Hezbollah e civili, tra cui l’ambasciatore iraniano in Libano, segnala un potenziale ampliamento del campo di battaglia, con il rischio crescente di un coinvolgimento diretto dell’Iran.
La decisione di Israele di evitare di commentare l’incidente potrebbe riflettere il desiderio di mantenere l’ambiguità strategica, un segno distintivo del suo approccio alle operazioni basate sull’intelligence. Tuttavia, la promessa di rappresaglia di Hezbollah rende chiaro che questo attacco non passerà senza una risposta. La retorica di Hezbollah di infliggere una “giusta punizione” a Israele aumenta la probabilità di un’escalation che potrebbe estendersi oltre i confini del Libano, coinvolgendo fazioni siriane e potenzialmente persino l’Iran.
• CAOS UMANITARIO E RIPERCUSSIONI INTERNE
Il tributo alla popolazione civile libanese, già sconvolta da anni di instabilità politica, difficoltà economiche e guerra, non può essere sottovalutato. Con gli ospedali sopraffatti dall’afflusso di pazienti, la crisi umanitaria si sta aggravando. Il governo libanese ha etichettato l’attacco come una violazione della sovranità, ma la sua capacità di rispondere in modo significativo è limitata dalle sue crisi interne.
Per Hezbollah, l’attacco è una grave violazione del suo apparato di sicurezza e potrebbe minare la sua reputazione a livello nazionale, anche tra i suoi sostenitori. La forza di Hezbollah si è sempre basata in parte sulla sua immagine di forza resiliente “contro l’aggressione israeliana”. Questo attacco dimostra che il gruppo non è immune alle operazioni di intelligence israeliane, sollevando interrogativi sulla sua strategia futura e su come può mantenere la sua influenza nella regione.
Da un punto di vista geopolitico, questo incidente aumenta la pressione sugli attori internazionali come gli Stati Uniti e l’ONU, entrambi impegnati a contenere il conflitto e a impedirgli di trasformarsi in una guerra più ampia. La presenza dell’ambasciatore iraniano tra i feriti introduce un ulteriore livello di complessità, poiché Teheran potrebbe considerare questo come un affronto diretto ai suoi interessi in Libano, aumentando così il potenziale coinvolgimento iraniano in future escalation.
Le esplosioni, unite alla promessa di Hezbollah di vendicarsi, probabilmente avranno effetti di vasta portata sulla diplomazia nella regione, bloccando potenzialmente gli sforzi di cessate il fuoco tra Hamas e Israele. Il rischio di una guerra su vasta scala che coinvolga Hezbollah e, per estensione, l’Iran, potrebbe avere conseguenze devastanti non solo per il Libano e Israele, ma per l’intero Medio Oriente. L’attacco ai cercapersone di Hezbollah rappresenta più di una violazione tecnica; è un’escalation drammatica che potrebbe cambiare la traiettoria del conflitto in Libano e oltre.
Mentre il guadagno militare immediato per Israele potrebbe essere chiaro (l’interruzione delle comunicazioni di Hezbollah), le conseguenze a lungo termine, sia per le operazioni di Hezbollah sia la fragile stabilità della regione, restano impossibili da prevedere.
(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2024)
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Esplosione dei cercapersone in Libano: ecco i dettagli dell’operazione del Mossad
di Luca Spizzichino
Oltre cinquemila cercapersone appartenenti ai membri di Hezbollah sono esplosi simultaneamente in diverse aree del Libano, causando almeno dieci morti e circa 2.750 feriti, tra cui l’ambasciatore iraniano a Beirut, che ha riportato gravi ferite e ha perso un occhio. L’operazione, attribuita al Mossad, rappresenta uno dei più grandi atti di sabotaggio degli ultimi anni, infliggendo un colpo significativo all’organizzazione sciita libanese e ai suoi alleati iraniani. Le linee di comando di Hezbollah sono state decimate, mettendo in luce le avanzate capacità operative di Israele anche nelle roccaforti del gruppo.
• IL PIANO DEL MOSSAD Secondo diverse fonti, tra cui Times of Israel e Ynet, l’attacco è stato reso possibile attraverso l’infiltrazione della catena di approvvigionamento dei cercapersone ordinati da Hezbollah. Questi dispositivi erano stati acquistati da Gold Apollo, un’azienda taiwanese, ma durante il processo di produzione sarebbero stati alterati dall’agenzia di intelligence israeliana. L’analisi effettuata da diversi esperti di cybersicurezza evidenzia la complessità dell’operazione: il Mossad non solo ha impiantato gli esplosivi nei cercapersone senza essere scoperto, ma ha anche garantito che la detonazione potesse essere comandata a distanza e simultaneamente su migliaia di dispositivi.
Arutz 7 ha riportato che i dispositivi erano stati prodotti in una fabbrica europea, autorizzata a utilizzare il marchio Gold Apollo, e che il Mossad avrebbe infiltrato la catena di produzione per sabotare i dispositivi sin dall’inizio. Hsu Ching Kuang, fondatore di Gold Apollo, ha espresso profondo imbarazzo per la situazione: “Il prodotto non era nostro. È stato prodotto da una compagnia europea. È molto imbarazzante,” ha dichiarato, sottolineando che la sua azienda non aveva avuto alcun coinvolgimento diretto nella produzione dei cercapersone manomessi. La posizione della fabbrica europea resta ignota, ma questa strategia ha permesso agli agenti israeliani di alterare i dispositivi prima che fossero consegnati in Libano.
La maggior parte dei dispositivi coinvolti erano del modello AP924, sebbene altre tre varianti prodotte dalla stessa azienda siano state coinvolte. Diversi analisti di sicurezza sono rimasti sorpresi dalla sofisticatezza dell’operazione, in particolare per la capacità del Mossad di inserire una piccola quantità di esplosivo – meno di 20 grammi per ogni cercapersone – direttamente nella batteria dei dispositivi. Questa soluzione ha reso praticamente impossibile l’individuazione dell’esplosivo da parte di Hezbollah.
L’innesco è avvenuto a distanza attraverso un impulso elettronico. Yehoshua Kalisky, ricercatore dell’Institute for National Security Studies in Israele, ha suggerito che l’attivazione sia stata orchestrata tramite un impulso elettromagnetico inviato al momento giusto, causando l’esplosione dei dispositivi in modo simultaneo. Secondo il rapporto di Al Monitor, il Mossad avrebbe anticipato la detonazione quando due membri di Hezbollah avevano iniziato a sospettare un’anomalia nei dispositivi, costringendo l’agenzia ad agire rapidamente.
• LE FALLE NELLA SICUREZZA DI HEZBOLLAH Hezbollah, che aveva scelto di utilizzare i cercapersone come sistema di comunicazione più sicuro rispetto agli smartphone, si trova ora a dover fare i conti con una grave falla nella propria sicurezza interna. Un funzionario dell’organizzazione ha definito l’attacco “la più grande violazione di sicurezza” subita da Hezbollah dalla guerra con Israele iniziata il 7 ottobre. La portata della violazione ha colto di sorpresa anche i leader dell’organizzazione, che ora stanno conducendo indagini interne su come il Mossad sia riuscito a infiltrarsi nella loro catena di approvvigionamento senza essere scoperto.
• UNA NUOVA FASE NEL CONFLITTO? L’attacco arriva in un momento di alta tensione nella regione e potrebbe avere importanti implicazioni per il conflitto in corso. Al momento, Israele non ha né confermato né smentito la propria responsabilità per l’attacco. Tuttavia, Hezbollah ha immediatamente accusato Israele e ha promesso vendetta, considerando l’operazione una grave violazione della propria sicurezza.
Jonathan Panikoff, ex vice ufficiale dell’intelligence nazionale statunitense per il Medio Oriente, ha commentato: “Questo rappresenta il più grande fallimento di controspionaggio che Hezbollah abbia subito in decenni”. La situazione resta estremamente incerta e non è escluso che questo evento possa innescare una nuova fase di scontro tra Israele e Hezbollah, alimentando ulteriormente le tensioni nella regione.
(Shalom, 18 settembre 2024)
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Con astuzia e grazia di Dio
Se Israele vuole sconfiggere i suoi nemici in questo round di guerra, dobbiamo procedere con astuzia. Fare la guerra con astuzia. Questo è esattamente ciò che abbiamo visto in diretta in Libano ieri pomeriggio.
di Aviel Schneider
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Un'ambulanza arriva all'American University of Beirut Medical Center (AUBMC) di Beirut, in Libano, il 17 settembre 2024, dopo l'esplosione di migliaia di cercapersone appartenenti a membri di Hezbollah.
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GERUSALEMME - Più di 5000 cercapersone sono esplosi simultaneamente nelle tasche dei terroristi di Hezbollah ieri pomeriggio. I membri della milizia terroristica sciita portano sul corpo questo tipo di dispositivo di chiamata per ricevere messaggi ed essere pronti all'azione in qualsiasi momento. Come disse il saggio re Salomone nei Proverbi 24: “Con l'astuzia si fanno le guerre, e la liberazione è dove ci sono molti consiglieri”. Per inciso, questo è il motto del servizio segreto israeliano Mossad: “fare guerre di nascosto”. Questo spiega anche il nostro messaggio Telegram di ieri, quando il capo del servizio segreto israeliano Mossad, David Barnea, ha dovuto improvvisamente lasciare un lungo incontro con il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ieri all'ora di pranzo . Tre ore dopo, i cercapersone dei terroristi di Hezbollah in Libano sono esplosi. Questo è l'unico modo - con l'astuzia e la grazia di Dio - in cui Israele può sconfiggere i suoi nemici. Anche se nessuno nel Paese ha ancora ammesso ufficialmente che c'è lo zampino di Israele, siamo tutti orgogliosi di questa esplosione tascabile. L'operazione avrà conseguenze? Questa operazione ricorda le guerre bibliche con l'astuzia e dà speranza. Questo è sempre positivo.
Il sito web arabo-americano Al-Monitor ha riferito poche ore fa che Israele non aveva pianificato di far esplodere le migliaia di dispositivi di chiamata presenti ieri in Libano. Tuttavia, l'operazione è stata effettuata perché Hezbollah si era insospettito. Secondo il rapporto, due attivisti di Hezbollah si sono insospettiti per i dispositivi, il che ha costretto Israele a far esplodere il dispositivo ieri. La decisione di far esplodere l'ordigno è stata presa all'ultimo minuto, secondo il rapporto. Ora si discute se sia stato saggio effettuare comunque l'operazione, anche se potrebbe scatenare una guerra globale. Ieri il quotidiano kuwaitiano Al-Anbaa, citando una fonte diplomatica occidentale a Beirut, ha rivelato il messaggio completo dell'inviato statunitense Amos Hochstein a Israele poco prima del cosiddetto “attacco con il cercapersone”. Nel suo messaggio, Hochstein ha trasmesso tre punti chiave per evitare che Israele scateni una guerra totale contro Hezbollah. Washington teme che Israele entri in guerra, il che potrebbe portare a una guerra mondiale. In Libano ci sono 4.000 vittime, tra cui 400 terroristi gravemente feriti. Altri 500 terroristi sarebbero ora ciechi: “Circa 500 combattenti di Hezbollah hanno perso la vista a causa dell'esplosione di cercapersone”, ha riferito l'emittente televisiva saudita Al-Hadath. Il famoso giornalista siro-ruzo Fitzal Al-Qassem, che ha milioni di follower sui social media e un programma su Al-Jazeera, descrive così il colpo:
"Quello che è successo a Hezbollah può essere descritto come il più grande attacco preventivo della storia moderna. È paragonabile all'attacco preventivo di Israele contro la forza aerea egiziana prima della Guerra dei Sei Giorni. Oggi Hezbollah ha migliaia di paraplegici nelle sue forze d'élite. E se Hezbollah entra in guerra ora, i suoi feriti non troveranno un letto d'ospedale libero perché gli ospedali sono attualmente sovraffollati di feriti. Peggio ancora, Hezbollah ha perso i suoi mezzi di comunicazione sicuri. Scacco matto”.
Fonti libanesi e di altri Paesi arabi chiariscono che la milizia terroristica in Libano è sotto shock. Più di 5000 dispositivi di chiamata sono esplosi in Libano. Hezbollah incolpa Israele per l'attacco informatico e minaccia una rappresaglia. Israele si sta preparando a una risposta di Hezbollah all'attacco informatico, che viene attribuito a Israele. L'aviazione, il Comando settentrionale, i servizi segreti e l'intero esercito sono in stato di massima allerta. Al-Jazeera cita una fonte della sicurezza libanese: “I cercapersone sono stati portati in Libano cinque mesi fa. Erano stati preparati per questo attacco fin dall'inizio. Ogni dispositivo conteneva esplosivo del peso massimo di 20 grammi”. Improvvisamente, come un fulmine o come in una storia di guerra biblica, 500 arcinemici di Israele sono diventati ciechi. Sospetto che ciò sia avvenuto a causa del messaggio che ogni singolo terrorista aveva ricevuto prima dell'esplosione del cercapersone. I terroristi hanno guardato il messaggio e poi il dispositivo è esploso davanti ai loro occhi. La batteria agli ioni di litio è stata probabilmente riscaldata dal messaggio, che ha portato all'esplosione. I feriti sono stati distribuiti e curati in circa 100 ospedali in tutto il Paese, compresi quelli cristiani (maroniti), che sono avversari di Hezbollah. 400 terroristi sono rimasti gravemente feriti. È da notare che questo attacco informatico non unisce i vari gruppi etnici (sciiti, sunniti, maroniti, altri cristiani, drusi e altri) in Libano contro Israele. È vero il contrario, dicono. Le ambulanze cristiane (Croce Rossa) portano i membri di Hezbollah e i terroristi feriti negli ospedali. Il video mostra una chiesa, cioè i membri della milizia terroristica sciita vengono curati nei quartieri cristiani del Libano. Nella Bibbia, ci sono diverse guerre che i figli di Israele hanno vinto con l'astuzia. Ma anche altri hanno superato Israele, come i Gabaoniti. Gli esempi che seguono mostrano che l'astuzia e la tattica erano spesso elementi importanti nelle guerre degli israeliti nella Bibbia. La conquista di Ai. (Giosuè 8) Dopo che gli israeliti furono inizialmente sconfitti nel loro primo attacco ad Ai, Giosuè escogitò uno stratagemma per conquistare la città. Preparò un'imboscata nascondendo alcune delle sue truppe mentre attaccava direttamente la città con un altro gruppo. Quando gli uomini di Ai uscirono per inseguire gli israeliti, finsero di fuggire. Mentre le truppe di Ai inseguivano gli Israeliti, la forza nascosta entrò in città, la catturò e la mise a ferro e fuoco. I soldati di Ai furono presi dal panico e alla fine furono sconfitti dagli israeliti. La conquista di Gerico. (Giosuè 6) La conquista di Gerico da parte degli israeliti potrebbe anche essere vista come una vittoria per astuzia divinamente ispirata. Per ordine di Dio, essi marciarono intorno alla città per sette giorni, finché il settimo giorno le mura crollarono a causa degli squilli di tromba e delle forti grida del popolo. Questa tattica insolita portò alla conquista della città pesantemente fortificata. La vittoria di Gedeone sui Madianiti. (Giudici 7) Gedeone vinse la guerra contro i Madianiti con soli 300 uomini utilizzando una tattica astuta. I suoi uomini suonarono trombe, ruppero vasi di argilla e alzarono torce per confondere il nemico e fingere un esercito molto più numeroso. Ciò provocò il caos nell'accampamento madianita, che fu preso dal panico e si attaccò a vicenda. Il trucco dei Gabaoniti contro Giosuè e Israele. (Giosuè 9) Anche se non si tratta di una guerra diretta, l'inganno dei Gabaoniti appartiene alla stessa categoria. Quando i Gabaoniti vennero a sapere che Giosuè e gli Israeliti stavano entrando nella terra di Canaan, finsero di venire da una terra lontana. Indossarono abiti logori e si finsero viaggiatori pacifici per concludere un trattato di pace con gli israeliti. Giosuè e gli Israeliti caddero in questo stratagemma e risparmiarono i Gabaoniti.
CONCLUSIONE: I dispositivi di chiamata esplosi hanno neutralizzato la capacità delle milizie terroristiche sciite di condurre un'operazione su larga scala contro Israele, consentendo un'opportunità senza precedenti per un attacco israeliano pianificato e ad ampio raggio. La situazione in cui si trova attualmente Hezbollah è un'opportunità storica per Israele di sconfiggere la milizia terroristica in Libano. Tuttavia, è probabile che gli Stati Uniti impediscano a Israele di farlo.
(Israel Heute, 18 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele ha una lunga storia di attacchi non convenzionali
Bombe piazzate nei telefoni, virus informatici, mitragliatrici comandate a chilometri di distanza: l'attacco con i cercapersone di Hezbollah ha molti precedenti.
L’operazione in cui si ritiene che Israele abbia fatto esplodere migliaia di cercapersone appartenenti a membri del gruppo radicale libanese Hezbollah è senza precedenti per ambizione e per l’eccezionale numero di persone colpite. Al tempo stesso si inserisce in una lunga storia di operazioni a distanza con esplosivi nascosti, azioni tecnologicamente avanzate e uccisioni mirate con cui Israele ha da sempre colpito i propri nemici, e che hanno contribuito a rendere il Mossad, l’intelligence esterna israeliana, una delle agenzie di spionaggio più temute del mondo. Una delle operazioni più note messe in atto dal Mossad avvenne nel 1972 a Parigi contro Mahmoud Hamshari, il rappresentante dell’OLP (l’allora Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat). Agenti dell’intelligence israeliana piazzarono un esplosivo nella base di marmo del telefono fisso di casa sua, e quando Hamshari alzò la cornetta per fare una telefonata lo attivarono a distanza. Hamshari fu ferito gravemente, e morì in ospedale il giorno dopo: fu uno dei leader dell’OLP uccisi dopo l’attacco palestinese contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di quell’anno. Un altro caso, forse più noto, è quello di Yahya Ayyash, un famoso miliziano di Hamas soprannominato “l’ingegnere” per la sua bravura nel fabbricare bombe. Nel 1996 Ayyash si trovava nella Striscia di Gaza quando lo Shin Bet (l’intelligence interna israeliana) convinse con promesse e minacce un suo conoscente a consegnargli un telefono cellulare Motorola. Al conoscente era stato detto che dentro al telefono c’era una ricetrasmittente con cui lo Shin Bet avrebbe tenuto sotto controllo le comunicazioni di Ayyash. Invece nel telefono c’era una potente carica esplosiva: appena gli agenti israeliani ebbero conferma che Ayyash era al telefono (con suo padre), fecero partire l’esplosione, uccidendolo.
Più in generale, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, l’intelligence israeliana face un notevole utilizzo di pacchi esplosivi. Era un periodo in cui la leadership dell’OLP si trovava in clandestinità ed era sparsa in vari paesi del mondo, ed era relativamente frequente che leader e miliziani ricevessero nelle loro abitazioni lettere e pacchi con esplosivi all’interno, pensati per attivarsi all’apertura. A volte l’intelligence israeliana nascondeva esplosivi in oggetti innocui come libri; altre volte piazzava esplosivi in elettrodomestici casalinghi come radio e televisori, che si attivavano all’accensione. Un altro strumento molto utilizzato sono sempre state le autobombe, come quella che uccise nel 2008 Imad Mughniyeh, uno dei più importanti comandanti di Hezbollah. Questo tipo di tattiche era usato anche dai miliziani palestinesi, che hanno messo in atto negli anni numerosi attacchi esplosivi contro israeliani. Anche la recentissima uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, potrebbe ricadere nella categoria delle operazioni di questo tipo: secondo alcune ricostruzioni (smentite però dall’Iran) Israele aveva piazzato una bomba nella camera di hotel di Haniyeh con mesi di anticipo, e poi l’aveva fatta esplodere quando aveva avuto conferma che il leader palestinese vi si trovava dentro. Oltre agli esplosivi, l’intelligence israeliana ha utilizzato numerosi altri metodi inusuali per mettere in atto uccisioni e operazioni comandate a distanza. Uno dei casi più noti ed eccezionali è stato quello di Mohsen Fakhrizadeh, uno dei più importanti scienziati nucleari iraniani, che Israele e gli Stati Uniti consideravano la mente dietro ai piani dell’Iran di sviluppare un’arma nucleare. Fakhrizadeh fu ucciso nel 2020 in Iran da una mitragliatrice comandata da più di 1.600 chilometri di distanza. La mitragliatrice, montata su un pick-up, era stata fatta entrare in Iran da alcuni collaboratori, e piazzata al bordo di una strada in cui si sapeva che Fakhrizadeh sarebbe passato. Quando l’auto di Fakhrizadeh si è avvicinata la mitragliatrice, comandata a distanza per via satellitare e aiutata da un software che migliorava la precisione dei colpi, ha cominciato a sparare, uccidendolo. Un altro attacco celebre contro il programma nucleare iraniano è quello di Stuxnet, un virus informatico che nel 2011 si diffuse nei sistemi digitali iraniani fino a raggiungere i computer che governavano le centrifughe nucleari del sito di ricerca di Natanz (le centrifughe sono macchinari necessari per l’arricchimento dell’uranio). A quel punto il virus attaccò i sistemi, facendo girare fuori controllo le centrifughe nucleari fino a renderle del tutto inutilizzabili. Ancora oggi quello di Stuxnet è considerato uno degli attacchi informatici più efficaci della storia.
(il Post, 18 settembre 2024)
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7 ottobre – Il riservista Mulla racconta la sua guerra a Gaza
«L’attacco contro il mio battaglione è sempre nei miei pensieri. Ho perso un amico quel giorno, diversi miei soldati sono rimasti feriti. Io stesso sono stato ferito in modo grave e la mia vita è cambiata per sempre. Non mi guardo indietro per autocommiserarmi, ma per ricordarmi che sono vivo e posso ancora dare il mio contributo», racconta a Pagine Ebraiche Maayan Mulla, riservista dell’esercito israeliano, ferito lo scorso 12 dicembre a Gaza. «Era la sesta sera di Hanukkah. I terroristi di Hamas ci hanno teso un’imboscata, attaccandoci con un lanciarazzi». Mulla ricorda l’esplosione e la palla di fuoco che lo ha investito. Ospite della Comunità ebraica di Milano, racconterà questa sera la sua esperienza.
Con l’adrenalina in corpo e ignaro dell’entità delle sue ferite, subito dopo l’attacco era riuscito a fatica a dare assistenza a un commilitone ferito. «Sono riuscito a raggiungerlo strisciando vicino a lui. Per 30 secondi ho risposto al fuoco nemico da solo. Non potevo usare la mia radio perché era danneggiata». Quando una squadra di soccorso è riuscita a raggiungere Mulla, il team medico si è accorto dell’entità delle sue ferite: aveva oltre 100 pezzi di schegge conficcate nel corpo. «Sono stato portato d’urgenza con l’elicottero in ospedale. Ho subito un danno neurologico e per mesi sono rimasto in ospedale». Quando è stato dimesso ha deciso di raccontare la propria esperienza in Israele e all’estero. «Penso sia importante far capire quanto in questo momento il popolo ebraico debba rimanere unito. Il conflitto in corso non è solo una guerra d’Israele, ma è una guerra del mondo ebraico per difendere il suo diritto ad avere un paese sicuro. Io da otto anni vivo in India, ma il 7 ottobre sono tornato subito per dare il mio contributo nella lotta al terrorismo».
(moked, 18 settembre 2024)
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Netanyahu ha un nuovo obiettivo nella guerra contro Hamas
Permettere ai cittadini sfollati dal nord a causa degli attacchi di Hezbollah di rientrare nelle loro case al confine con il Libano.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aggiunto un nuovo obiettivo nella guerra in corso contro Hamas, ovvero permettere ai cittadini sfollati dal nord a causa degli attacchi di Hezbollah di rientrare nelle loro case al confine con il Libano. Lo rende noto l'ufficio di Netanyahu. Finora i tre obiettivi che si era posto il premier israeliano erano sconfiggere Hamas militarmente e politicamente, far sì che la Striscia di Gaza non rappresentasse più una minaccia per Israele e riportare a casa gli ostaggi ancora trattenuti nell'enclave palestinese.
"Il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case" è stato ora aggiunto come quarto obiettivo della guerra, ha affermato l'ufficio del Primo Ministro in una nota. "Israele continuerà ad agire per raggiungere questo obiettivo", si legge nella nota rilasciata dopo una riunione a tarda notte del gabinetto di sicurezza a Tel Aviv. Gli sfollati del nord sono in gran parte ospitati in hotel pagati dallo stato ebraico.
• Blinken in Egitto, no tappa in Israele mentre cerca accordo su ostaggi Intanto visita oggi in Egitto per il segretario di Stato americano Antony Blinken, che nel suo nuovo tour nella regione questa volta non farà tappa in Israele. E' la prima volta che evita di recarsi nello Stato ebraico dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre dello scorso anno, l'ultima volta che visitò Israele fu ad agosto per fare pressione su Benjamin Netanyahu perché accettasse i termini dell'accordo. Obiettivo nella missione è sempre quello di cercare di arrivare a un accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi, obiettivo che sembra sempre più difficile prima della scadenza dell'Amministrazione Biden.
Il Dipartimento di Stato ha affermato in una nota che Blinken "incontrerà i funzionari egiziani per discutere degli sforzi in corso per raggiungere un cessate il fuoco a Gaza che garantisca il rilascio di tutti gli ostaggi, allevi le sofferenze del popolo palestinese e aiuti a stabilire una più ampia sicurezza regionale". Sarà anche "co-presidente dell'apertura del dialogo strategico Usa-Egitto con il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty", ha affermato la nota, sottolineando che il "dialogo strategico mira a rafforzare le relazioni bilaterali e ad approfondire lo sviluppo economico, nonché ad aumentare i legami tra le persone attraverso la cultura e l'istruzione".
• Idf: "Ucciso comandante Jihad islamica in raid a Khan Younis" Sul fronte della cronaca, un comandante della Jihad islamica palestinese è stato ucciso in un attacco con drone israeliano nella Striscia di Gaza meridionale. Lo ha reso noto l'Idf, precisando che Ahmed Ayesh Salama al-Hashash, che comandava l'unità missilistica della Jihad islamica a Rafah, è stato ucciso nell'attacco di ieri nella zona umanitaria designata da Israele nell'area di Khan Younis.
Mentre è di quattro morti il bilancio del bombardamento israeliano di un'abitazione nel campo profughi di Bureij, nella Striscia di Gaza centrale, ha reso noto la protezione civile dell'enclave, aggiungendo che decine di persone sono ancora intrappolate sotto le macerie dell'edificio crollato.
(ANSA, 17 settembre 2024)
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Israele a un passo dalla guerra totale contro Hezbollah
Se sarà guerra totale, quella tra Israele e Hezbollah, sarà una guerra sanguinosa.
di Franco Londei
Ieri sera il gabinetto di guerra israeliano ha aggiunto un nuovo significativo obiettivo alla guerra, quello del ritorno alle loro case degli sfollati al nord costretti a lasciare città e kibbutz a causa degli attacchi di Hezbollah.
Detta così sembra una cosa da niente, ma non lo è. Anzi, è una cosa enorme perché per far rientrare alle loro case gli sfollati del nord occorre ricacciare Hezbollah oltre la linea blu decisa dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite la quale prevede una zona smilitarizzata che va da fiume Litani al confine con Israele. Risoluzione del tutto disattesa da Hezbollah che invece occupa stabilmente quel tratto di terra da dove dal giorno successivo al massacro del 7 ottobre ogni giorno lancia missili contro Israele.
In realtà non spetterebbe a Israele far rispettare la risoluzione 1701, spetterebbe alla missione UNIFIL la quale avrebbe dovuto vigilare affinché Hezbollah non entrasse nella zona smilitarizzata, meno che meno con armi e missili.
Purtroppo, checché ne dicano le cornacchie dell’ONU, UNIFIL ha fallito miseramente nella sua missione di mantenimento della pace, perché non si mantiene la pace permettendo ad un gruppo terrorista islamico di fare tutto ciò che vuole senza battere ciglio.
E così si torna alla riunione del gabinetto di guerra di ieri sera e alla decisione di inserire negli obiettivi di guerra il ritorno alle loro case degli sfollati del nord.
Per farlo Israele sembrerebbe orientato a creare una zona cuscinetto non si sa bene entro che confini, se cioè entro quelli stabiliti a suo tempo dalle Nazioni Unite con la risoluzione 1701, o se andare oltre il fiume Litani e risalire il Libano.
Come dicevo non è affatto una cosa da niente. Significa entrare in Libano, significa intraprendere una guerra su larga scala con Hezbollah, cioè con l’esercito più forte e preparato del Medio Oriente dopo quello israeliano.
Attenti, l’esercito israeliano non si scontrerà con l’esercito libanese, per altro addestrato e armato dagli americani, ma con Hezbollah, uno Stato nello Stato, un esercito indipendente meglio armato di quello nazionale.
Voglio vedere quanti anti-israeliani avranno il coraggio di accusare Israele di aver invaso un altro Stato sovrano invece che accusare l’Iran di controllare il Libano attraverso Hezbollah. Voglio vedere quanti salteranno a piè pari il fatto che da 11 mesi Hezbollah spara ogni giorno missili contro Israele.
Naturalmente non sono stato a spiegare che Hezbollah è controllato, armato, addestrato e finanziato dall’Iran e in particolare dai Guardiani della Rivoluzione Islamica e dalla loro Forza Quds. Credo che tutti lo sappiano.
Tutto ciò detto, se sarà guerra totale sarà una guerra sanguinosa, molto diversa da quella che si combatte a Gaza contro Hamas. Gli Hezbollah si sono fatti il callo in Siria, sanno combattere, sono molto ben armati, hanno temibili razzi anticarro, missili antinave, almeno 150.000 tra razzi e missili, forse qualcosa di meno dopo l’ultima operazione preventiva israeliana. Ma sono davvero pericolosi.
La scelta di Israele deve essere attentamente valutata. So che in tanti analisti, me compreso, giudicano “indispensabile” una operazione israeliana su larga scala in Libano. Forse lo è, non lo metto in dubbio. Ma è facile fare gli strateghi da una poltrona (mi ci metto pure io). Questa sarà una guerra totale, si andrà a sbattere contro un vero vespaio terrorista. Iran, Siria, Iraq, Yemen, saranno tutti coinvolti contro Israele. Forse chiudere prima il fronte con Hamas non sarebbe una cattiva idea.
(Rights Reporter, 17 settembre 2024)
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Rav Arbib: «Ebrei fra le nazioni o no?»
Gli ebrei fanno ancora parte della famiglia delle nazioni? È l’interrogativo con cui rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, nella sinagoga di via Guastalla si è rivolto al pubblico della 25esima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Domenica mattina nel tempio si è celebrato un evento felice: un matrimonio. Per questo il rav ha parlato sotto una chuppah, il baldacchino matrimoniale della tradizione ebraica. «In una giornata dedicata alla famiglia è una coincidenza felice e di buon augurio», afferma il presidente della Comunità, Walker Meghnagi. Ma il suo messaggio, come quello di Arbib e del vicepresidente Ucei Milo Hasbani è amaro. «Oggi più che mai è importante celebrare la cultura ebraica, senza dimenticare che la nostra è una famiglia ferita dal 7 ottobre», ha affermato Meghnagi. Una ferita che tra un mese, a un anno di distanza dai massacri di Hamas, verrà ricordata in Israele e in tutto il mondo ebraico. «A voi, ai media, alle istituzioni chiediamo ancora una volta di ricordare l’origine di questa guerra, di ricordare la verità: tutto è iniziato con i crimini di Hamas», sottolinea Hasbani. Un appello alla solidarietà raccolto dalla presidente del Consiglio comunale di Milano, Elena Buscemi. «Questa giornata non è solo un’occasione di studio, ma anche un momento per ricordare come il 7 ottobre abbia gettato nel vuoto, nella disperazione, nel dolore migliaia di famiglie. Per riconoscere il coraggio di questi parenti che continuano a farsi sentire e manifestare».
Proprio l’eccidio compiuto dai terroristi palestinesi ha riportato d’attualità l’interrogativo di Arbib. Il rav si è soffermato sul significato per l’ebraismo di essere diverso e allo stesso parte integrante della famiglia delle nazioni. Il punto di partenza sono le parole che Dio rivolge ad Abramo «Vai verso di te (lekh lekhà)». E subito dopo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra». Il primo è «un ordine ad Abramo a separarsi dalla propria famiglia, tradizione, cultura, terra», ha spiegato il rabbino capo. Con una separazione, aggiunge, «ha quindi inizio la storia ebraica». Una particolarità coltivata e difesa nel corso dei secoli dall’ebraismo. Una differenza, ha sottolineato il rav, che permette di dare seguito alla seconda parte del dettato di Dio ad Abramo, la benedizione. «Solo consapevoli della nostra identità, della nostra differenza possiamo essere utili al mondo. Come diceva rav Jonathan Sacks, bisogna prima separarsi per poi potersi unire».
La separazione però nella storia ebraica non è stata solo volontaria. Anzi. Secoli di antisemitismo hanno segnato con violenza e dolore la vita di milioni di ebrei. «Alcuni elementi si sono riprodotti nel tempo: l’accusa di essere vendicativi, di complottare contro il mondo, di non essere mai uguali agli altri, di non avere empatia». Elementi di un odio antico, ha ricordato il rav, oggi ritornati d’attualità nell’ondata di antisemitismo post 7 ottobre. «Più volte ci siamo illusi che il pregiudizio fosse stato sconfitto. È un errore che non dobbiamo commettere ancora».
A chiudere la domenica in sinagoga, un dialogo sulla famiglia Rothschild con lo storico ed economista britannico Niall Ferguson, la lezione di rav Roberto Colombo sul rispetto coniugale e il racconto di come si è evoluto oggi lo shidduch, il sistema ebraico per far incontrare e sposare le coppie.
Il programma della Gece milanese prosegue lunedì con l’appuntamento organizzato dalla Fondazione Cdec al Memoriale della Shoah (ore 18.00) e intitolato “Scene di famiglia: la vita e i luoghi attraverso i filmati privati”. Nel corso della serata, il direttore del Cdec Gadi Luzzatto Voghera e Daniela Scala, responsabile dell’archivio fotografico, presenteranno una selezione di pellicole raccolte grazie al progetto “Mi ricordo – Raccolta nazionale di film di famiglia”, una campagna nazionale di raccolta, digitalizzazione e catalogazione dei filmati conservati dalle famiglie ebraiche italiane, avviata nel 2019 dalla Fondazione CDEC in collaborazione con l’Archivio Nazionale Cinema Impresa.
(moked, 16 settembre 2024)
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Nel 31° anniversario di Oslo, la sinistra deve rinunciare all'odio
Il problema della politica dell'odio è che l'odio è un'abitudine difficile da spezzare.
di Caroline Glick
Il 13 settembre 1993 è stato il giorno in cui la classe dirigente israeliana ha abbandonato il sionismo. Il giorno in cui l'allora primo ministro Yitzhak Rabin si presentò nel Giardino delle Rose della Casa Bianca e riconobbe ufficialmente l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina - tra gli applausi entusiasti dei suoi sostenitori in patria - fu il momento in cui l'élite israeliana rinunciò collettivamente all'attaccamento alla propria nazione. L'OLP era molte cose. Era un'organizzazione terroristica. È stata l'architetto del terrorismo moderno, compresi i dirottamenti aerei, i rapimenti, l'assassinio di famiglie, l'uccisione di massa di bambini e l'assassinio di diplomatici. L'OLP ha addestrato chiunque, dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche di Khomeini all'Armata Rossa giapponese, alla Banda Baader-Meinhof e alle Pantere Nere. Ha riunito terroristi di ogni provenienza ideologica e li ha forgiati in un conglomerato rivoluzionario unito dal desiderio di distruggere gli Stati Uniti, l'Occidente, gli ebrei e il loro Stato di Israele. L'OLP era un gruppo di guerra politica. Ha portato l'odio genocida per gli ebrei nella sinistra radicale dell'Occidente. Ha usato i media per romanzare i barbari omicidi di massa e le brutali torture mentre li eseguiva. Attraverso i suoi lacchè occidentali, l'OLP è riuscita a ristabilire l'odio per gli ebrei come strumento di mobilitazione politica e come forza culturale importante, appena 20 anni dopo l'Olocausto. Attraverso le sue operazioni di propaganda, l'OLP ha convinto giovani ignoranti con la coscienza sporca che i loro genitori nazisti erano in realtà vittime. Il sionismo è stato demonizzato come un nuovo nazismo, peggiore del primo. Nel 1975, 30 anni dopo la liberazione di Auschwitz, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 3374, che etichettava il sionismo come una forma di razzismo. Il sionismo viene spesso definito come il movimento di liberazione nazionale ebraico. Anche questo è vero, ma questa definizione oscura più che illuminare. Il sionismo è semplicemente ebraismo. L'ebraismo ha tre fondamenti: la Torah, la nazione di Israele e la terra di Israele. Ci sono stati secoli di campagne per convertire con la forza gli ebrei ad altre fedi, con tanto di roghi di massa di libri sacri con l'obiettivo di sradicare la Torah e distruggere gli ebrei distruggendo fisicamente i loro testi sacri e imprigionandoli spiritualmente attraverso la rinuncia forzata alla loro fede. Le campagne di annientamento del popolo ebraico - attraverso il genocidio, le espulsioni di massa, il Codice napoleonico o i diktat comunisti che imponevano agli ebrei di abbandonare la loro fedeltà nazionale - miravano a distruggere fisicamente gli ebrei o a costringerli a rifiutare la rilevanza della propria identità. Il sionismo ha preceduto sia la Torah che il popolo di Israele. L'ebraismo è iniziato nel momento in cui Dio disse ad Abramo di lasciare la terra dei suoi padri e di trasferirsi nella terra d'Israele, dove sarebbe diventato una nazione organizzata secondo le leggi prescritte da Dio. La nazione ebraica è nata nella terra d'Israele. E lì è nata la fede di Israele. Né la legge né la nazione hanno alcun significato senza la terra d'Israele. E questo è il punto: ognuno dei tre fondamenti degli ebrei è inseparabile dagli altri. L'OLP ha avuto tre fondatori: Yasser Arafat, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e il KGB. Per Arafat, l'OLP era un mezzo per ereditare l'eredità del fondatore del nazionalismo palestinese, l'agente nazista Haj Amin el Husseini. Husseini era il leader della moderna jihad contro gli ebrei e gli inglesi in tutto il mondo arabo. Usò l'antisemitismo come mezzo per convincere gli inglesi e altri a sostenere i suoi sforzi contro gli ebrei, mentre dirigeva i suoi seguaci a fare la guerra contro la Gran Bretagna. Con l'aiuto dei suoi sponsor sovietici, Arafat ha condotto un'operazione politica simile tra i radicali occidentali. Come Husseini, Arafat cercò di consolidare il sostegno panarabo per la distruzione di Israele nel lungo periodo. L'OLP servì gli obiettivi di Nasser in due modi. Quando fondò il gruppo terroristico nel 1964, Nasser pensava che esso avrebbe consolidato la sua posizione di leader indiscusso del mondo arabo. Dopo la sua schiacciante sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni, tre anni dopo, vide l'OLP come un proxy che doveva servire come avanguardia della guerra panaraba per distruggere Israele e tenerlo nei titoli dei giornali mentre gli arabi ricostruivano le loro forze e si organizzavano per un nuovo round di guerra. Per i sovietici, l'OLP era un mezzo per minare la sensibilità morale dell'Occidente guidato dagli Stati Uniti. Lo Stato ebraico era il fondamento paradigmatico dello Stato nazionale occidentale. I padri fondatori degli Stati Uniti cercarono di stabilire una nuova Gerusalemme nel Nuovo Mondo, basata sulla legge di Dio e sulla fede nella fallibilità intrinseca dell'uomo. L'OLP, che sosteneva che Israele fosse un avamposto razzista e colonialista, era uno strumento per delegittimare Israele e, per estensione, gli Stati Uniti e il mondo occidentale. Se Israele era nato nel peccato, allora la Bibbia era una menzogna e gli stessi Stati Uniti erano stati fondati sulla convinzione immorale di una supremazia razzista ed europea. Per quanto riguarda Israele, il duplice terrorismo e guerra politica dell'OLP mirava alla balcanizzazione della società israeliana. I surrogati e i simpatizzanti dell'OLP corteggiavano avidamente prima gli ebrei americani di sinistra e poi gli attivisti israeliani di sinistra per allontanarli dalla stragrande maggioranza degli ebrei americani e israeliani che riconoscevano l'insidiosità delle azioni politiche dell'OLP e la pura malvagità del suo terrorismo. L'idea era di convincerli che la “pace” avrebbe prevalso se Israele avesse semplicemente accettato la legittimità dell'OLP. Questi attivisti, a loro volta, lanciarono campagne nella comunità ebraica americana e in Israele per demonizzare gli israeliani che rifiutavano l'OLP come guerrafondai atavici. Col tempo, i loro sforzi sono stati ripagati. Quando la destra israeliana salì al potere per la prima volta nel 1977 con il sostegno degli israeliani religiosi e della classe operaia, prevalentemente sefardita, la legittimazione dell'OLP divenne sempre più un mezzo per unire la sinistra in un'opposizione coesa e in una classe sociale. Data la natura, l'obiettivo e il modus operandi dell'OLP, riconoscere la legittimità dell'OLP al suo inizio significava rifiutare la legittimità del sionismo o dello Stato degli ebrei. Per gli israeliani e gli ebrei della diaspora, ciò significava attivismo sociale e politico volto a legittimare l'odio verso le comunità israeliane i cui membri rifiutavano di indebolire i loro legami con l'ebraismo. Questo vale sia per l'ebraismo tradizionale degli ebrei sefarditi, sia per l'ultraortodossia degli Haredim, sia per l'attaccamento della comunità religiosa nazionale israeliana alla terra d'Israele, in particolare alla Giudea e alla Samaria. La decisione di Rabin di riconoscere la legittimità dell'OLP alla Casa Bianca, il 13 settembre 1993, ha fatto di questo atteggiamento odioso e antiebraico nei confronti del popolo di Israele e della sua identità nazionale la strategia nazionale del governo israeliano. Tuttavia, essa è completamente fallita. È fallita completamente per due motivi. In primo luogo, l'obiettivo dell'OLP non è mai stato la pace. È sempre stato la distruzione di Israele - di tutto Israele. Pertanto, non ha mai potuto essere un vero partner per nessun israeliano, per quanto di sinistra, che non fosse convinto che Israele dovesse scomparire completamente. E anche loro hanno avuto un problema. Perché si scoprì che l'OLP era solo una droga di passaggio per Hamas, che non voleva nemmeno fare la distinzione tra ebrei post-sionisti e sionisti. La seconda ragione del fallimento è che la narrazione della criminalità e dell'immoralità di Israele non è mai stata vera e la maggior parte degli israeliani non ci ha mai creduto. La maggior parte degli israeliani non ha mai accettato la distinzione tra ebrei “buoni” e “cattivi”. Non hanno mai accettato che ci sia qualcosa di moralmente riprovevole nel sionismo, nella Torah o nel popolo israeliano. Per quanto la sinistra ci abbia provato, non è mai riuscita a far accettare alla maggioranza degli israeliani il principio fondamentale che guida le sue politiche e le sue azioni. Certo, gli israeliani vogliono la pace. Ma non credono di essere il motivo per cui lo Stato ebraico e il popolo ebraico non hanno ottenuto la pace. Si rifiutano di incolpare se stessi per l'aggressione e l'odio contro il loro popolo e il loro Paese. Il problema della politica dell'odio è che l'odio è un'abitudine difficile da spezzare. Se siete stati condizionati a credere che il vostro futuro dipenda dalla sconfitta dell'oggetto del vostro odio, potete cambiare idea solo se smettete di odiare. Dal 1993, l'OLP ha dimostrato più volte di essere il nemico di Israele e non il suo partner di pace. Ma accettare la verità significava accettare che la sinistra aveva portato il Paese al disastro e che gli oggetti del loro odio - gli ebrei che si rifiutavano di rinunciare a qualsiasi aspetto della loro identità - avevano sempre avuto ragione. In altre parole, l'accettazione del fallimento imponeva loro di ridefinire la propria identità di classe o di abbandonarla. La sinistra scelse di reinventarsi. Ha abbracciato il concetto di “Start-Up Nation” per garantire il proprio potere economico e culturale, prendendo le distanze dal resto della società. Impadronendosi del nuovo elisir dell'alta tecnologia, la sinistra è entrata a far parte dell'élite globale con le sue capitali a Davos e nella Silicon Valley. Ma per entrare nel regno della nuova élite globalista bisogna pagare. I padroni si battono per una forma di governo post-nazionalista e internazionalista. Le loro radici ideologiche non sono nel capitalismo americano. Piuttosto, i leader della nuova classe dirigente globale, educati nelle università d'élite radicate nell'anti-occidentalismo sovietico, sono post-nazionalisti e sottoscrivono la visione sovietica secondo cui il sionismo, l'apoteosi delle aspirazioni nazionaliste, è illegittimo. Per entrare nel loro club, i titani della tecnologia israeliana hanno dovuto rinnegare la loro fedeltà ai loro compatrioti “coloni violenti” e “ultraortodossi”. In altre parole, anche quando hanno cercato di sfuggire all'elisir dell'OLP che ha portato alla catastrofe dello Stato del terrore palestinese nel cuore di Israele, si sono trovati di fronte alla stessa scelta. Ha funzionato, più o meno, fino al 7 ottobre. Quel giorno sono accadute due cose. In primo luogo, i terroristi palestinesi, con i loro parapendii, i loro pick-up Toyota, i loro bazooka e la loro sadica sete di sangue, hanno fatto esplodere il mito che la tecnologia libererà Israele dalla necessità di difendersi con i fratelli che la sinistra sperava disperatamente di abbandonare. Tutte le applicazioni militari della Start-Up Nation - i sensori ad alta tecnologia, i segnali di intelligence, i recinti intelligenti, l'aviazione - hanno fallito completamente il 7 ottobre. L'unica cosa che ha funzionato quel giorno è stato l'eroismo e il patriottismo sfrenato dei civili e delle forze di sicurezza ebraiche che si sono precipitati a sud, senza alcun preavviso, per salvare le famiglie e le comunità che venivano invase. La seconda cosa che accadde fu che il jet set internazionale, l'élite globale, abbandonò ogni distinzione tra ebrei “buoni” e “cattivi”. Le foto degli ostaggi di Be'eri e di Kfar Azza sono state oggetto dello stesso odio che per lungo tempo era stato rivolto solo ai “coloni violenti” o agli “ebrei identificabili”. I detrattori degli ebrei universitari non hanno più sentito il bisogno di fingere che alcuni israeliani fossero accettabili. Negli ultimi 11 mesi, i membri del settore post-sionista hanno lottato per venire a patti con la frantumazione delle loro illusioni. I loro leader stanno cercando di consolidare la loro posizione. Ma la loro insistenza sul fatto che i problemi risiedano nel Primo Ministro Benjamin Netanyahu, negli Haredim, nei coloni messianici o negli imbecilli che scoppiano in lacrime alle canzoni su Am Yisrael trova sempre meno sostenitori. Ogni protesta si spegne dopo pochi giorni. L'emozione non c'è più. Senza le foglie di fico della “pace” o della “Start Up Nation” dietro cui nascondersi, l'odio è tutto ciò che rimane. Trentuno anni dopo aver abbracciato l'OLP e l'odio, la sinistra deve finalmente abbandonarlo. La sopravvivenza di Israele dipende da questo.
(Israel Heute, 17 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Antica Torà venduta all’asta per 6,9 milioni di dollari
di Michelle Zarfati
L’antica Torà di Shem Tov, risalente a 700 anni fa e acquistata nel 1994 dal banchiere Jacob (Jacqui) Safra per 825.000 dollari, è stata venduta all’asta da Sotheby’s la scorsa settimana a New York, dopo una fitto rilancio di offerte tra tre acquirenti anonimi. Il prezioso testo è stato venduto per 6,9 milioni di dollari. La Bibbia, nota come “Tanach Shem Tov” fu scritta nel Regno di Castiglia (nell’attuale Spagna) intorno all’anno 1312, ed è considerata una delle versioni più accurate della Bibbia ebraica scritta a mano.
Il testo, scritto da Rabbi Shem Tov ben Avraham Ibn Gaon, ha intrapreso un viaggio intorno al mondo che è iniziato nel Regno di Castiglia ed è proseguito in Medio Oriente, Africa, Europa e Safed, dove è stato acquistato da un ricco uomo di Baghdad. Il manoscritto è sempre stato conservato dalle famiglie nobili della comunità ebraica locale. Uno dei suoi proprietari in passato fu il famoso collezionista David Solomon Sassoon, che lo acquistò nel 1909. Dopo la sua morte, questa Torà fu venduta per la prima volta da Sotheby’s a New York. La famiglia Safra ha acquistato il libro nel 1994, aggiungendolo così alla loro collezione di manoscritti storici ebraici, che comprende anche il Codice Sassoon che è stato venduto nel maggio 2023 per 38,1 milioni di dollari, diventando il manoscritto ebraico più costoso mai venduto.
Durante l’ultima asta, la concorrenza per aggiudicarsi questa Torà è stata particolarmente agguerrita. Secondo i presenti, hanno partecipato telefonicamente almeno tre acquirenti. Infine, la Bibbia è stata venduta per un totale di 6,9 milioni di dollari, comprese le commissioni, ad un acquirente anonimo. La famiglia Safra, una delle più importanti famiglie di banchieri al mondo, è originaria della Siria ha avuto fortuna in Libano, con l’apertura della prima banca da parte di Jacob Safra nel 1920 a Beirut. La famiglia è oggi nota per i suoi investimenti globali.
La Bibbia di Shem Tov non è solo un bene finanziario, ma anche un elemento culturale e storico di enorme importanza. Fu scritto durante l’età d’oro della Spagna, quando ebrei, musulmani e cristiani vivevano fianco a fianco in una cooperazione culturale relativamente insolita, e questo elemento è evidente nel suo complesso lavoro di progettazione, che combina stili artistici di tutte le religioni monoteistiche.
L’autore non era impegnato solo in manoscritti ebraici, mezuzot e tefillin, ma era un vero e proprio artista. Le sue pagine sono piene di illustrazioni e simboli appartenenti al mondo della flora e della fauna, motivi architettonici come gli archi a ferro di cavallo (che rivelano una chiara influenza musulmana), e persino immagini mistiche come il serpente Ouroboros (il serpente che si mangia la coda). Gli esperti spiegano che si tratta di un’opera artistica rara, in quanto le illustrazioni sono direttamente correlate al testo scritto, il che indicherebbe che lo stesso Ibn Gaon potrebbe essere stato l’illustratore del testo.
Nel corso degli anni, il documento passò attraverso importanti collezioni fino ad arrivare nelle mani di Safra. In precedenza, è stato esposto in prestigiose mostre in tutto il mondo, tra cui Amsterdam, Berlino e New York.
(Shalom, 16 settembre 2024)
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Israele nel mirino: Hezbollah spara, razzo dallo Yemen
di David Zebuloni
A meno di un mese dall’anniversario del 7 ottobre, data in cui i terroristi di Hamas hanno invaso il sud di Israele per commettere un vero e proprio pogrom, la tensione in Medio Oriente pare alle stelle. Dopo innumerevoli attacchi missilistici di Hezbollah sulle alture del Golan e con decine di migliaia di sfollati israeliani che non possono tornare nelle loro case a causa dell’offensiva terroristica, la scorsa notte Benjamin Netanyahu ha dato il via libera per un’operazione militare in Libano. Non prima di aver subito l’ennesima aggressione: 55 missili lanciati su Tiberiade.
Così, secondo fonti libanesi, lo Stato ebraico ha bombardato due villaggi a circa 150 e 80 km dal confine. Secondo fonti saudite, invece, i due obiettivi in questione sono stati attaccati insieme ad altre nove località diverse, tutte nel giro di un’ora. L’Idf ha confermato di aver colpito i depositi militari di Hezbollah, sia nella valle della Bekaa che nel distretto di Baalbek. «La situazione non può continuare così», ha dichiarato il premier israeliano, facendo poi intendere di essere pronto ad ampliare il conflitto così da neutralizzare Hezbollah. «Dobbiamo ridefinire gli equilibri al confine, per permettere ai nostri cittadini di tornare a vivere nelle loro case. Ciò non sarà possibile senza un intervento militare di larga scala», ha aggiunto. La riunione di gabinetto volta a discutere la faccenda, tuttavia, è stata rimandata a lunedì prossimo.
Secondo alcuni esperti coinvolti nella mediazione tra i due Paesi, l’eventualità di trovare una soluzione diplomatica al conflitto nel nord è quasi inesistente. «Quali sono le probabilità che Nasrallah accetti di rinunciare alla propria offensiva armata? È un sogno utopico che non si realizzerà mai», hanno spiegato. Nonostante ciò, entrambi gli armamenti sembrano indugiare. Giocano a braccio di ferro e a nascondino contemporaneamente.
Colpiscono in modo tale da tenere acceso il conflitto, ma non da far scoppiare una vera e propria guerra. Diversa è la situazione a sud, a Gaza, dove la guerra contro il terrorismo continua imperterrita.
Il portavoce dell’Idf ha informato ieri che gli aerei da combattimento dell’aeronautica militare israeliana hanno attaccato in modo mirato, e sotto la guida dell’intelligence dello Shin Bet, un complesso di comando e controllo dell’organizzazione terroristica. Hamas si era insediato nell’edificio precedentemente utilizzato come scuola, rendendolo una vera e propria base militare a fini bellici. Il complesso è stato utilizzato dai terroristi come luogo in cui nascondersi e prepararsi al fuoco dell'IDF, per poi rispondere al fuoco in modo indisturbato, sotto copertura, fingendo di rifugiarsi in un innocuo luogo di studio.
«Prima dell'attacco, sono state adottate molte misure per ridurre la possibilità di danneggiare i civili, compreso l'uso di armi di precisione, osservazioni aeree e ulteriori informazioni di intelligence», ha precisato il portavoce per poi concludere: «Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale, sfruttando brutalmente le istituzioni civili e la popolazione come scudi umani per i loro fini terroristici. L’Idf continuerà ad agire con forza e determinazione contro tutte le organizzazioni terroristiche che minacciano la sua esistenza».
Intanto, mentre il conflitto si fa sempre più duro, tre ostaggi israeliani sono stati dichiarati morti ieri mattina: Ron Sherman, 19 anni, Nik Beizer, 19 anni, Elia Toledano, 28 anni.
Oltre a loro, altri 97 ostaggi innocenti sono tenuti ancora in cattività, nei tunnel dei terrore di Hamas a Gaza. Il loro rilascio incondizionato, probabilmente, definirebbe la fine della guerra.
Libero, 16 settembre 2024)
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Yahya Sinwar, il genio del male
Il leader di Hamas conosce gli israeliani meglio di quanto loro conoscano sé stessi
Sinwar ha trovato l’arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei loro connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo.
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"Ho visto il video di Eden prima che fosse uccisa: lo facciamo perché siete figli di maiali - è il messaggio di Hamas - godiamo del dolore che vi causiamo."
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Nel 2011, dopo cinque anni di negoziati, un soldato israeliano tenuto prigioniero da Hamas è stato scambiato con mille prigionieri palestinesi, compresi i peggiori terroristi” scrive il romanziere olandese Leon de Winter sulla Neue Zürcher Zeitung. “Uno di loro era l’attuale leader di Hamas, Yahya Sinwar. Durante la prigionia studiò gli ebrei e li conobbe meglio di quanto loro stessi conoscessero sé stessi. Gli israeliani lo rilasciarono, un criminale responsabile di innumerevoli omicidi, perché quell’unico soldato era al centro dell’immagine che gli ebrei avevano di sé. Un migliaio di potenziali terroristi furono rilasciati in un colpo solo. Non ci sono regole per i nemici di Israele. Riguarda la distruzione di Israele, indipendentemente dai metodi, dalle morti, dal dolore. L’Islam è permeato dall’idea di una guerra permanente contro gli infedeli, e gli ebrei sono un ostacolo in quella guerra, che sarà eliminato con perseveranza e sufficiente spargimento di sangue, poiché ogni ostacolo è stato eliminato nella storia dell’Islam. E’ solo questione di tempo e di generazioni di credenti che dovranno essere sacrificate prima che gli ebrei vengano sottomessi ed espulsi.
Sinwar ha trovato l’arma con cui può sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo, e gli israeliani non possono sottrarsi a questo nella loro lotta contro Hamas, poiché il movimento terroristico si nasconde dietro le spalle della popolazione di Gaza.
Quando ci sono morti civili, il mondo incolpa Israele, non Sinwar e la sua cricca di assassini. Sa come reagisce il mondo alle morti causate dagli ebrei. E gli ebrei prendono sul serio queste accuse. Sviluppano metodi di combattimento per ridurre al minimo il rischio di vittime civili nella Striscia di Gaza proteggendo i terroristi, ma nel caos della guerra si verificano ancora innumerevoli morti civili. Sinwar, d’altro canto, non si preoccupa di risparmiare il più possibile i civili israeliani. I suoi uomini uccidono senza pietà e sanno di essere in armonia con la loro gente, la loro cultura e le loro tradizioni. Perché gli ebrei non sono solo i loro nemici, ma anche i nemici del loro profeta, e lui stesso ha ordinato l’assassinio delle tribù ebraiche, come dicono i resoconti islamici. Di conseguenza, nei territori palestinesi non esiste un ampio dibattito sociale sulla possibilità che una società civile possa tollerare l’omi-cidio, lo stupro, la mutilazione e la decapitazione. Internet è pieno di leader religiosi che definiscono le circostanze legali in base alle quali lo stupro è consentito. Nella tradizione islamica è un mezzo consentito per instillare la paura nei non credenti.
Mentre viveva in una prigione israeliana, a Yahya Sinwar è stato diagnosticato un tumore al cervello. Da detenuto aveva dei diritti e ha subito un intervento chirurgico. E gli è venuto in mente che quando un prigioniero ha diritto a un’operazione costosa, possibile solo grazie alle tasse pagate dagli israeliani, grazie alle loro conoscenze scientifiche, grazie al loro impegno a onorare e proteggere ogni vita, anche quella di un assassino che odiava gli ebrei come lui, allora gli ebrei erano perduti. Allo stesso tempo, l’operazione con cui gli ebrei gli salvarono la vita fu l’umiliazione più profonda che potesse essergli inflitta. Ma era anche euforico. Aveva riconosciuto la debolezza degli ebrei, i quali credevano che la salvezza di una vita fosse la salvezza di tutta l’umanità. Sinwar sapeva che un’idea del genere era uno scherzo in medio oriente. Gli ebrei non potevano immaginare che egli disprezzasse i suoi salvatori in ogni senso: personale, culturale, religioso. E sebbene potessero immaginarlo, gli ebrei non erano nella posizione di lasciarlo morire. L’unico soldato scambiato con mille prigionieri palestinesi nel 2011 è stato rapito in un attacco dalla cosiddetta Striscia di Gaza libera nel 2006. Nel 2005 Israele se ne era completamente ritirato. Non c’erano più ebrei lì. Ma il 25 giugno 2006, un gruppo di terroristi emerse da un tunnel lungo 300 metri che avevano scavato al valico di frontiera di Kerem Shalom. Il loro attacco a sorpresa ha provocato la morte di diversi soldati israeliani e la cattura del caporale Gilad Shalit. Non un uomo famoso. Non uno scienziato degno di nota. Solo un giovane ebreo. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 prigionieri responsabili della morte di 569 israeliani. Per persone come Sinwar, questa fu la prova finale della debolezza degli ebrei. Nessun leader di un paese islamico sarebbe disposto a scambiare mille criminali con un qualunque soldato. Ma gli ebrei erano abbastanza stanchi del mondo da credere che la vita di Shalit fosse più importante dell’imprigionamento degli assassini di 569 ebrei. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Cento ebrei rapiti avrebbero fatto a pezzi la terra ebraica. La chirurgia cerebrale può portare a profondi cambiamenti caratteriali, ma Sinwar era già infinitamente crudele quando fu condannato nel 1989 per l’omicidio di due soldati israeliani e l’uccisione di quattro palestinesi che accusava di collaborare con Israele. Il medico della prigione che lo conosceva ha detto al Times of Israel: ‘Prima del suo arresto, viveva nella paura e nel terrore. Fece scavare delle fosse, vi gettò dentro le persone che sospettava fossero contro di lui e vi versò sopra il cemento mentre erano ancora vive. In prigione mandava le persone a torturare gli altri che non gli piacevano. Ma non si è sporcato le mani lui stesso’. Finché Sinwar avrà i suoi ostaggi, sarà intoccabile. I familiari degli ostaggi chiedono al governo israeliano di accettare qualsiasi accordo per la loro liberazione, compreso il ritiro completo dalla Striscia di Gaza e l’abbandono della striscia di confine, che contiene i tunnel attraverso i quali Hamas fornisce componenti per armi e razzi, nonché come materiali da costruzione contrabbandati per la città sotterranea della guerra. Ma Sinwar non consegnerà mai gli ostaggi. Il tempo è dalla sua parte. Non importa se gli ostaggi sono ancora vivi o sono già stati uccisi. Ogni ostaggio in un tunnel sconosciuto significa tortura per lo Stato ebraico, che non può adempiere al proprio obbligo di salvare ogni ebreo. Al contrario, nessun leader islamico si sottometterebbe mai a un simile ricatto.
Per Sinwar il fine giustifica ogni mezzo. Tiene sulla linea di fuoco innumerevoli suoi compatrioti nella Striscia di Gaza. Con l’aiuto di utili idioti nei media e nei governi occidentali, incolpa gli ebrei per la loro morte. Ciò è diabolico: Sinwar scommette sulla coscienza degli israeliani e, se ne avrà la possibilità, massacrerà spietatamente gli ebrei. La legge marziale avvantaggia i terroristi Questa guerra è asimmetrica, dicono i critici israeliani, intendendo con questo che la forza militare di Israele è di gran lunga maggiore di quella di Hamas. Questa è una distorsione della realtà. La spietatezza di Hamas è in netto contrasto con la coscienza di Israele, che è vincolata alle regole culturali interne ed esterne e alle leggi dello stato di diritto. L’esercito di Hamas conta due milioni di persone, tutti potenziali martiri sacrificati da Hamas nella guerra mediatica globale contro Israele. La vera forza dirompente nell’asimmetria è la capacità di Hamas di contrastare i civili dell’esercito israeliano, non la potenza di fuoco dell’esercito israeliano. La leadership israeliana si trova di fronte a un dilemma insolubile: se stringerà un accordo con Sinwar e si ritirerà dalla Striscia di Gaza in cambio del rilascio degli ostaggi, Hamas sfrutterà l’opportunità per rafforzare il suo esercito. Poi tra cinque o dieci anni attaccherà di nuovo, sostenuto dalle armi nucleari iraniane. Se il governo israeliano non riuscirà a raggiungere un accordo, condannerà i restanti ostaggi a morte o a sofferenza per tutta la vita in una gabbia nel deserto del Sinai o in una prigione in Iran. Israele è stato fondato per dissipare la paura tra gli ebrei che nessuno al mondo si preoccupi di loro. Nessun politico israeliano può abbandonare gli ostaggi al loro destino. Sinwar, il brillante diavolo, conosce gli ebrei e quelli che considera i cani miscredenti dell’occidente. Lui lo sa, che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere le guerre nel deserto: il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan. Nessun accordo potrà convincerli che è meglio convivere pacificamente con gli ebrei. Nel loro mondo non ci sono dubbi sulla direzione della storia. Conducono una guerra eterna sotto la bandiera del Profeta finché l’umanità non sarà sottomessa. È triste, drammatico, disperato: per sopravvivere, lo Stato ebraico deve diventare uno Stato mediorientale che agisce spietatamente come i leader della Siria o dell’Arabia Saudita? E’ questo il prezzo che gli ebrei devono pagare per preservare la loro autonomia e le loro tradizioni in Medio Oriente? Questo è il nocciolo della crisi nella società israeliana: è possibile combattere il male senza usare i mezzi del male? E’ qui che hanno origine le storie della Bibbia. Noi, menti illuminate in Occidente, riduciamo le cause delle bestialità perpetrate da Hamas alle conseguenze della deprivazione socioeconomica, alla Nakba del 1948 o alla rabbia per le azioni dei coloni in Cisgiordania. Ma tutto questo fallisce quando si vede il video dell’ostaggio assassinato Eden Yerushalmi. La 24enne era stata rapita il 7 ottobre dal festival musicale Nova, dove lavorava al bar. Era bellissima. Nel video è ancora lì, ma emaciata, con lo sguardo sfinito e triste. Le forze israeliane erano sulle tracce di Eden Yerushalmi e di altri cinque ostaggi. Ma prima che potessero essere liberati, furono uccisi in un tunnel sotterraneo.
Quando i soldati israeliani l’hanno trovata, Hamas ha pubblicato un video in cui Eden parlava per alcuni minuti con la sua famiglia. Lo facciamo perché non siete altro che figli di maiali, è il messaggio implicito di Hamas, vi massacriamo e godiamo del dolore che causiamo. Ero sopraffatto, sbalordito, mentre la guardavo parlare e mi rendevo conto che era stata macellata come un cane. Non sono religioso. Ma il rituale di Hamas può essere descritto solo con un termine religioso. Il male assoluto”.
(Il Foglio, 16 settembre 2024 - trad. Giulio Meotti)
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I Fratelli Musulmani trionfano alle elezioni in Giordania, cresce la frustrazione per la guerra a Gaza
di David Fiorentini
Le recenti elezioni legislative in Giordania hanno segnato un trionfo significativo per il Fronte di Azione Islamica (IAF), l’ala politica dei Fratelli Musulmani, che ha conquistato 31 seggi su 138 nel parlamento del regno. Questo risultato ha triplicato la rappresentanza del principale partito islamista, che nel 2020 aveva ottenuto solo 10 seggi, riporta The Times of Israel. Il successo dell’IAF è avvenuto in un contesto politico e sociale dominato dalla crescente frustrazione dei giordani per la guerra tra Israele e Hamas a Gaza. Con metà della popolazione giordana di origine palestinese, la crisi ha avuto un impatto profondo sull’opinione pubblica, che ha visto nel voto per l’IAF un modo per esprimere la propria solidarietà con il popolo palestinese e la propria opposizione alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Il leader dei Fratelli Musulmani in Giordania, Murad Adailah, ha descritto la vittoria come un “referendum popolare” in favore del sostegno a Hamas e contro il trattato di pace firmato tra Giordania e Israele nel 1994. L’accordo, pur garantendo stabilità geopolitica, è sempre stato motivo di divisione all’interno del paese, con gli islamisti fortemente opposti. Nonostante l’importante affermazione elettorale, l’IAF rimane lontano dalla maggioranza parlamentare, che richiederebbe 70 seggi. Tuttavia, il partito ha consolidato la sua posizione come forza politica più influente nel paese, superando partiti come Al-Mithaq Al-Watani, di orientamento nazionale, che ha ottenuto 21 seggi, e Taqaddum, partito progressista di sinistra, fermo a 8 seggi. Le elezioni si sono svolte con un’affluenza del 32%, un dato relativamente basso, con 1,6 milioni di votanti su 5,1 milioni di aventi diritto, di cui circa 500.000 andati all’IAF. Un elemento significativo di questa tornata elettorale è stata anche l’elezione di 27 donne in parlamento, superando la quota minima di 18 seggi, evidenziando un passo avanti verso una maggiore inclusione di genere nella vita politica del paese. D’altro canto, il potere legislativo del Parlamento in Giordania rimane limitato, poiché ampiamente superato dal Senato, composto da 65 membri nominati dal Re, così come il ramo esecutivo. Per questo, ogni disegno di legge proposto dal Parlamento deve essere ratificato dal Senato e, in ultima istanza, dal Re stesso, garantendo al sovrano un controllo diretto sul processo legislativo. Gli islamisti, dal loro ingresso sulla scena politica all’inizio degli anni ’90, hanno sempre rappresentato l’opposizione principale agli accordi di pace con Israele, ma hanno evitato critiche dirette alla famiglia reale, considerata intoccabile nella politica giordana. Questa strategia ha permesso al movimento di consolidarsi come una forza politica rilevante senza scontrarsi apertamente con il potere centrale. Con il risultato delle elezioni, il Fronte di Azione Islamica ha ora l’opportunità di ampliare ulteriormente la sua influenza e di giocare un ruolo chiave nel prossimo futuro politico della Giordania, soprattutto in un contesto regionale sempre più teso e instabile.
(Bet Magazine Mosaico, 16 settembre 2024)
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GECE – Torino apre l’evento. Dario Disegni: Vetrina di conoscenza. Noemi Di Segni (Ucei): Spazio sereno e di stimolo
Si è aperta in Piazzetta Primo Levi, davanti all’ingresso della sinagoga di Torino, la XXV edizione della Giornata della Cultura ebraica (Gece). Il primo a salutare il pubblico è stato “il padrone di casa” – Torino è città capofila dell’edizione 2024 – il presidente della Comunità ebraica torinese, Dario Disegni, che ha dato lettura del messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «La conoscenza è lo strumento fondamentale per superare le degenerazioni dei valori della convivenza civile che i principi fondanti della Repubblica scolpiscono nell’uguaglianza di tutti i cittadini. In un momento di cambiamenti epocali e di ferite lancinanti procurate dalle guerre», ha scritto il Capo dello Stato, «la cultura, nella sua pluralità, assume un valore risolutivo per la difesa dell’umanità».
Nel ricordare il 600esimo anniversario della vita ebraica a Torino, Disegni ha definito la Gece, dedicata quest’anno al tema della famiglia, «una straordinaria vetrina per far conoscere la vita e la cultura ebraica vero antidoto contro il pregiudizio». Dopo di lui ha parlato Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) che ha tra l’altro ricordato come «conoscere la cultura ebraica significa comprendere che il vissuto ebraico non è solo Shoah e persecuzione, orrore e crimini subiti e distorsioni denunciate. È vita quotidiana, è vitalità di comunità, di bambini, di famiglie che prima della Shoah e nei secoli precedenti, così come dopo la Shoah, hanno reagito e dato un significato anche ebraico alla propria esistenza».
La presidente Ucei ha poi approcciato il tema della famiglia: «Mishapachà in ebraico nella radice e nel concetto di essere l’uno di servizio all’altro. Una parola che per ciascuno di noi è immediata e intuitiva, tra le prime alle quali diamo un senso dopo il primo respiro nel mondo circondati di padre, madre, fratelli e nel mondo ebraico tipicamente da un intero parentame. Nel nostro vissuto è il luogo primario, al centro della trasmissione dell’identità ebraica e, per la giornata di oggi, appunto desiderio di condividere con voi i «come» della nostra cultura di essere famiglie ebraiche, può essere un contributo anche alle famiglie accanto alle quali conviviamo. Quest’anno – ha proseguito Di Segni – la Giornata arriva dopo lunghi mesi di sofferenza e dolore, dopo la strage del 7 ottobre avvenuta in Israele, violando e distruggendo le case che pensavamo essere sicure e blindate, facendo lasciare alle spalle le case e gli spazi personalizzati amati per cercare sicurezza, rendendo vedove ragazze speranzose di vita banale, orfani fratelli e figli per gli oltre 1.658 caduti, massacrando e violando ogni sacralità della famiglia, prendendo ostaggi e lasciando monche centinaia di famiglie. E con loro la grande famiglia del popolo di Israele. Con animo sconvolto e affaticati anche da una continua ed esasperante distorsione, affrontiamo sempre più punti interrogativi. Ineludibile, in questo contesto, il riferimento alla famiglia, proprio come soggetto preso di mira, considerato il nucleo sul quale perpetrare l’orrore e su cui si è poi abbattuta la guerra. Il 7 ottobre oltre il dolore e il lutto mai immaginati ci ricorda ancora una volta che la funzione dei precetti religiosi è di coadiuvare la vita e la convivenza. L’abuso e l’uso della ragione religiosa per ricercare altro genera orrore, prevaricazione e conquista politica.
Invece per noi la cultura e la conoscenza reciproca sono il presupposto per arginare fenomeni di odio, sospetto e antisemitismo e, proprio per questo, desideriamo vivere questo appuntamento non come momento di protesta contro una situazione insostenibile ma come spazio sereno, gioioso e ricco di stimoli per tutti i partecipanti».
(moked, 15 settembre 2024)
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I Rothschild e il “potere ebraico”
Intervento di Niram Ferretti tenuto ieri al Tempio Centrale di via Guastalla a Milano in occasione della Giornata Europea della Cultura ebraica dedicata quest’anno al tema della famiglia.
Il nome Rothschild è un nome immediatamente evocativo ed è sostanzialmente sinonimo di denaro, potere, e, con il passare del tempo, di influenza occulta. Su questo aspetto torneremo in modo particolare a breve. Intanto un bignamino storico. I Rothschild hanno origine a Francoforte, nel sedicesimo secolo, e iniziano la loro fortuna attraverso la gestione delle finanze di Gugliemo I il Langravio di Assia, ultimo dei figli di Federico II. Sostanzialmente, Meyer Amschel Rothschild, il capostipite della futura dinastia di banchieri, inizia come cosiddetto ebreo di corte, ovvero nel ruolo di quegli ebrei che potevano prestare il denaro ai reali i quali, in questo modo, non si sporcavano le mani con una attività considerata disonorevole come il prestito di soldi. Da qui si arriverà poi, dopo la rivoluzione francese, alla gestione dei capitali che, attraverso la Gran Bretagna, arrivavano in Assia Kassel per l’arruolamento dei mercenari da impiegare nelle guerre contro Napoleone. E’ importante tenere a mente questo punto perché verrà usato poi contro i Rothschild. I profitti che essi fecero durante il periodo delle guerre napoleoniche gli verrà in seguito imputato. Infatti, dalle guerre napoleoniche, i Rothschild trassero enormi profitti che poi vennero usati per finanziare altre imprese. E ora arriviamo al tema del mio intervento, che è relativo a come, nel corso dei secoli, il nome dei Rothschild sia diventato sostanzialmente, ad uso degli antisemiti, una sineddoche per ebreo.
Nella immaginazione paranoica degli antisemiti, Rothschild significa sostanzialmente “potere ebraico”, e soprattutto, potere occulto ebraico, e qui, inevitabilmente, non possiamo evitare di ricollegarci ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso complottista confezionato agli inizi del Novecento, dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, l’antesignana del KGB, in cui viene descritto come realmente accaduto, un incontro dei maggiori esponenti dell’ebraismo i quali, in sintesi, illustrano il loro piano segreto per influenzare e dirigere il mondo.
Nel 1846 esce a Parigi un pamphlet di un autore che si firma con lo pseudonimo “Satana” il quale informa i suoi lettori che Nathan Rothschild, il più noto dei figli del capostipite della dinastia, conoscendo in in anticipo l’esito della battaglia di Waterloo era riuscito a trarne grandi profitti in borsa e che suo fratello James era il principale responsabile di un incidente ferroviario avvenuto in Francia causato da una carenza di manutenzione intenzionale, quindi dovuto alla volontà di risparmiare a danno degli utenti. Il libretto fu un grande successo editoriale, vendette decine di migliaia di copie ed è il primo esempio di una pressoché infinita serie di accuse rivolte ai Rothschild, di fatto assurti al ruolo dell’ebreo astuto, cinico, avido e manipolatore.
Nel suo libro del 2023 Jewish space lasers, the Rothschilds and 200 years of conspiracy theories, Mike Rothschild, l’autore, un giornalista americano, che è solo un omonimo, ha raccolto l’insieme di queste teorie cospirazioniste che vanno dalle più plausibili a quelle più folli, come è appunto quella che dà il titolo al volume, secondo la quale, nel 2018 dei generatori solari spaziali avevano provocato l’incendio di alcune foreste in California. Una deputata repubblicana aveva sostenuto che avendo fatto delle ricerche aveva scoperto che i generatori erano riconducibili, tra gli altri, a dei finanziamenti dei Rothschild.
Il fondamento delle teorie della cospirazione si basa sull’assunto che la maggioranza, se non tutti i fenomeni rilevanti, politici, storici, economici e culturali abbia una regia, ci sia cioè un gruppo o più gruppi che li determinano, i quali, però, poi fanno sempre riferimento in senso ascendente, a un gruppo egemone, a un apice generativo, che ne è il regista occulto. Il primo a mettere nero su bianco questa idea fu un sacerdote francese alla fine del diciottesimo secolo, l’abate Barruel il quale, nel 1797, nei cinque volumi del suo Memoire pour servir a l’histoire du jacobinisme, sostenne che la Rivoluzione Francese era stata ordita dai massoni i quali, a loro volta erano dominati dall’ordine dei templari, che in realtà non era mai stato distrutto nel 1314. Dai massoni si arrivava poi agli illuminati bavaresi.
E’ interessante evidenziare come, ai primi dell’Ottocento, un presunto ufficiale dell’esercito italiano, J.B. Simonini poi diventato protagonista di Il cimitero di Praga di Umberto Eco, scrive una lettera all’abate per informarlo che c’era in giro gente assai peggiore dei massoni, si trattava della “setta ebraica”, il prototipo della cosiddetta lobby, una setta molto ricca e influente che ordiva trame e complotti spaventosi.
I Rothschild sono e diventano senza sosta il prototipo di questa setta, ne rappresentano il nefasto emblema, così come vengono raffigurati in una vignetta su un settimanale satirico francese. Le Rire, fondato a metà Ottocento in cui un vecchio dalla lunga barba bianca e sul capo una strana corona con una testa di animale, il vitello d’oro, ghermisce un globo con delle mani artigliate.
Nell’immaginazione paranoica degli antisemiti e dei complottisti, due categorie che si intrecciano indissolubilmente, essi sono inscalfibilmente tali, e nulla, nessun argomento, nessun tentativo di spiegare in modo puntiglioso che questo assunto si basa su fantasie e leggende potrà fare cambiare loro opinione poiché le teorie complottiste sono logicamente inespugnabili, essendo strutturalmente circolari, cioè inglobando al loro interno ogni possibile confutazione come parte stessa del complotto.
(L'informale, 16 settembre 2024)
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Dunque secondo l'autore antisemiti e complottisti sarebbero “due categorie che si intrecciano indissolubilmente” e “logicamente inespugnabili” perché “strutturalmente circolari, inglobando al loro interno ogni possibile confutazione come parte stessa del complotto”. E’ un modo superficiale di fare accostamenti.
Prima che emergesse l’anelito e il tentativo di fondare uno stato ebraico, prima che uscissero i falsi “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, l’antisemitismo nella storia ha preso forme anche molto diverse dal semplicistico “complottismo”. Quello che accomuna complottisti e anticomplottisti nell’antisemitismo è l’incapacità di riconoscere e capire quale sia, o anche quale potrebbe essere, la relazione che lega tra loro gli ebrei e ne mantiene in vita una inspiegabile unità. Il complottista crede di aver trovato una ragione, ma l’anticomplottista che si vanta di non cadere in sempliciotte o truffaldine spiegazioni, non trovandone una che lo soddisfa finisce col dire che non c’è nessuna ragione per cui quelli che si dicono ebrei debbano voler vivere una particolare forma di unità. Nel caso storico attuale, può significare che non si giustifichi l’accanimen |