La pax americana, l’ultima speranza
di Ilaria Borletti Buitoni
Il presidente Trump ci ha abituato in più di un’occasione ai colpi di scena: affermazioni e smentite nel giro di poche ore, dichiarazioni roboanti o decisioni deflagranti per l’economia mondiale poi ridimensionate dai fatti.
Nel caso dei 20 punti della sua proposta per Gaza e per un nuovo equilibrio in Medio Oriente, ci sono alcuni motivi che potrebbero giustificare un cauto ottimismo.
Il primo riguarda l’adesione di molti paesi arabi e musulmani, in passato riluttanti a tagliare il proprio legame con Hamas forse anche per timore dell’integralismo islamico all’interno dei propri confini: Turchia e Qatar ne sono certamente gli esempi più eclatanti e proprio per questo sono eletti mediatori privilegiati nell’azione di convincimento alla resa dei terroristi.
Il secondo sono le implicazioni per Israele: non solo il ritorno degli ostaggi previsto dall’accordo, vivi o morti, ricucirebbe un paese lacerato, ma isolerebbe inevitabilmente la fazione più estremista del governo Netanyahu, infatti da subito contraria alla proposta americana. Il Primo Ministro israeliano si trova con le spalle al muro, isolato internazionalmente, con un paese stremato, spaccato, economicamente in affanno e senza una via d’uscita. Sa con certezza che quello che rimane di Hamas si è ormai mescolato con la popolazione in fuga e che non saranno certo ulteriori bombardamenti o invasioni a chiudere la partita a suo favore.
Il terzo è l’adesione di Putin a questo accordo, probabilmente non certo fatta senza uno scambio del quale non ci è dato sapere nulla. In uno scenario geopolitico mondiale, se Stati Uniti, Russia e anche Cina invocano la fine immediata della guerra in Medio Oriente significa che difficilmente i tempi potrebbero essere ulteriormente dilatati.
Il quarto punto è forse il più importante: il dramma di Gaza, sebbene la narrazione dei media occidentali in gran parte abbia voluto assecondare la propaganda di Hamas, ha scosso profondamente l’opinione pubblica e costretto tutta la politica occidentale a un confronto sempre più acceso. Porne fine significa non solo fermare una tragedia umanitaria le cui immagini rimarranno a lungo impresse, ma anche “sminare” la dialettica politica di buona parte dell’Occidente dal rischio di scontri non più gestibili e di piazze ormai lontane da quelle stesse forze che le hanno promosse.
Naturalmente rimangono molte perplessità: l’accordo prevede un percorso di indipendenza e autonomia per i palestinesi che Netanyahu ha sempre con forza negato, compiacendo in questo modo i suoi ministri più estremisti. L’accordo prevede una ricostruzione dettagliata di quel territorio devastato e non è chiaro cosa avverrà di questa popolazione disperata mentre verranno create le condizioni minime per poter rientrare in quelle che oggi sono solo macerie. Si prevede l’esclusione di qualunque movimento terrorista dal futuro Gaza e un rafforzato ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma nel 2006 i gazawi votarono il partito di Hamas e non Abu Mazen e, come sempre in quella parte del mondo, le previsioni e tantomeno le semplificazioni sono facilmente smentite dai fatti.
Per i palestinesi non è prevista nessuna deportazione forzata, concetto barbaro che giustamente aveva mosso vibrate proteste anche in Israele, bensì quelli tra di loro che hanno sostenuto Hamas potranno godere di un’amnistia e andare nei paesi che li accoglieranno. Un punto questo certamente combattuto dall’attuale governo dello Stato ebraico ma irrinunciabile per avere il sostegno dei paesi arabi.
In conclusione, dopo due anni, alla vigilia della commemorazione del massacro del 7 ottobre, dopo decine di migliaia di vittime, l’unica opzione è quella proposta dal presidente Trump, seppur piena di incognite e di ostacoli oggettivi: è meglio crederci e sperare che si possa realizzare, anche perché l’alternativa sarebbe un abisso ancora più profondo del quale non si vedrebbe la fine.
(Setteottobre, 2 ottobre 2025)
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Pace a Gaza, Hamas nicchia, Qatar e Turchia in pressing ma le mine vaganti sono Smotrich e Ben Gvir
di Lorenzo Vita
GERUSALEMME – La risposta di Hamas ancora non è arrivata. Ma dalla milizia palestinese arrivano segnali discordanti. Alcune fonti danno ormai quasi per certo l’ok del gruppo al piano del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e già accettato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Altre, invece, segnalano che all’interno della milizia si stia rafforzando il partito del rifiuto, perché l’accordo è visto come eccessivamente aderente alle posizioni di Israele e agli obiettivi che Netanyahu si è posto per dichiarare la vittoria nella Striscia di Gaza.
Ma al momento, tra le due posizioni, quella che appare maggioritaria è quella di una “pausa di riflessione”. E forse serviranno più delle 72 ore immaginate dal presidente Usa. Una fonte del gruppo che ha parlato con Al-Arabiya dicendo che “Hamas ha ribadito ai mediatori il proprio diritto di proporre modifiche al piano, sottolineando come lo stesso Netanyahu abbia già apportato cambiamenti analoghi”. La milizia palestinese non è convinta soprattutto della gestione futura della Striscia, soprattutto perché l’entità internazionale di transizione pensata da Trump non sarebbe coerente con un’amministrazione esclusivamente locale, anche se slegata da Hamas e altri partiti. Infine, Hamas vorrebbe una sorta di “cronoprogramma” del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e non una semplice promessa di un abbandono graduale della regione da parte delle Israel defense forces. Mentre altre fonti, questa volta all’Afp, hanno detto che il gruppo vorrebbe modificare le clausole sul disarmo e sull’esilio dei suoi membri.
La trattativa, quindi, sembra iniziata. E sono in molti a sospettare che The Donald rischia di non vedere affiorare un vero e proprio “si” al suo piano. Le pressioni su Hamas sono molte, anche da parte dei governi del Medio Oriente. Secondo Axios, Egitto, Qatar e Arabia Saudita stanno facendo di tutto per convincere Hamas ad accettare l’accordo. I leader del gruppo sono stati raggiunti da ben tre delegazioni in 24 ore per cercare di sbloccare la trattativa. Ci sono stati incontri con il premier del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, il capo dell’intelligence egiziana, Hassan Rashad, e anche il vertice dei servizi segreti turchi, Ebrahim Kalin. Ma dal Cairo, lo stesso ministro degli Esteri Bader Abdelatty ha confermato che potrebbero servire altri negoziati.
La questione è ovviamente centrale anche nel dibattito interno di Israele, entrato oggi nello Yom Kippur. Perché se Netanyahu ha accolto il piano, le opposizioni hanno concordato sulla bontà della bozza firmata da Trump, e le piazze e i familiari degli ostaggi hanno ammesso la loro gioia, la destra radicale è già sul piede di guerra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha già criticato il piano definendolo un “fallimento diplomatico”. Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, lo ha addirittura definito “pericoloso per la sicurezza di Israele”. “Ne parlerò ampiamente”, ha dichiarato Ben Gvir, “ma fin da ora bisogna dire che danneggia la sicurezza, è pieno di lacune e non raggiunge gli obiettivi di guerra che ci siamo prefissati”. “È vero, siamo tutti entusiasti del ritorno degli ostaggi” ha continuato il ministro e leader di Otzma Yehudit, “ma il prezzo da pagare è inconcepibile e avrò altro da dire su questo argomento”. E anche all’interno del Likud, il partito di Netanyahu, c’è chi ha già storto il naso. Si tratta, come raccontano i media locali, di membri non troppo importanti del movimento. Ma in ogni caso, è un segnale che “Bibi” non può sottovalutare.
L’impressione, in ogni caso, è che a questo punto Netanyahu può solo attendere. Se Hamas accetta, può dire di avere costretto la milizia a un accordo che aderisce ai suoi obiettivi di guerra. Se rifiuta, le forze armate sono pronte a stringere ancora di più l’assedio su Gaza. Ieri, l’Idf ha preso il pieno controllo del Corridoio Netzarim bloccando ogni spostamento da sud a nord. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha avvertito anche la popolazione. “Questa è l’ultima opportunità per i residenti di Gaza che desiderano farlo di spostarsi a sud e lasciare gli operativi di Hamas isolati a Gaza City”, ha detto il ministro, “Coloro che rimarranno, saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo”.
(Il Riformista, 2 ottobre 2025)
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L'accordo di Trump su Gaza: una mossa magistrale che elude verità scomode
I nemici di Israele – e persino coloro che attualmente sostengono il piano – rimangono in definitiva legati all'ideologia islamica, così come l'Occidente rimane legato a un antisemitismo profondamente radicato.
di Ryan Jones
Il piano per Gaza del presidente Donald Trump e il modo in cui ha ottenuto il sostegno e lo ha presentato sembrano a prima vista una mossa magistrale. I paesi che finora hanno tacitamente sostenuto Hamas nella sua guerra contro Israele sono ora allineati e insistono affinché il gruppo terroristico accetti i termini di una proposta che in sostanza significa la sua sconfitta.
Sembra che Trump abbia messo Hamas in scacco matto. O accetta l'accordo e perde la guerra, oppure esita – se non addirittura rifiuta categoricamente la proposta – e viene bollato come l'ostacolo evidente alla fine del conflitto.
Ma abbiamo già visto questo film. O qualcosa di simile.
Gli accordi precedenti, che avrebbero dovuto rappresentare una situazione vantaggiosa per Israele, si sono sempre rivelati in qualche modo errori catastrofici.
Due esempi eclatanti sono la firma degli “accordi di Oslo” – quando Israele accettò di riconoscere e negoziare con la PLO, la principale organizzazione terroristica al mondo – e il ritiro da Gaza del 2005 – quando Israele concesse unilateralmente ai palestinesi di Gaza tutto ciò che chiedevano.
In entrambi i casi, i leader israeliani e i loro partner internazionali hanno affermato che o i palestinesi avrebbero reagito in modo responsabile, aprendo la strada alla pace, oppure sarebbero rimasti irremovibili, rivelandosi una volta per tutte i veri cattivi della storia.
Ma questo modo di pensare ignorava due scomode verità: gli arabi sono motivati principalmente dall'ideologia islamica e l'Occidente rimane ancorato all'antisemitismo.
In entrambi i casi, i compromessi di Israele hanno portato a un aumento, non a una diminuzione, del conflitto, poiché gli islamisti palestinesi sono stati incoraggiati e rafforzati. E in entrambi i casi, il mondo non ha ritenuto responsabili i palestinesi, ma Israele e, di conseguenza, gli ebrei, perché si sono rifiutati di morire e scomparire.
Trump è un tipo diverso di leader, quindi forse resisterà come baluardo contro queste due forze dell'islamismo e dell'antisemitismo. Finora lo ha fatto. Ma non sarà lì per sempre. E l'accordo è già sul tavolo. Israele è già vincolato.
Nonostante tutte le sue qualità positive quando si tratta di Israele, Trump, come i suoi predecessori, ha comunque un certo punto cieco quando si tratta del ruolo dell'Islam in questo conflitto e della persistente diffusione dell'odio verso gli ebrei nell'Occidente “cristiano”. Non si tratta solo di inconvenienti. Sono forze potenti che non possono essere superate con generosi vantaggi economici. Richiedono una rieducazione intergenerazionale. Ciò significa, in realtà, che non scompariranno.
Non riconoscere questo fatto significa che il piano di Trump finirà, come tutti i precedenti, nel mucchio dei rifiuti della storia, come un'altra “soluzione” che è servita solo a generare ulteriori conflitti.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kiryat Sefer compie 15 anni. Una porta sempre aperta verso la tradizione ebraica
La libreria della Comunità ebraica di Roma diffonde cultura. È un punto di incontro e dialogo tra religioni diverse fondamentale per combattere pregiudizi e antisemitismo
di Ruben Della Rocca
In uno degli angoli più suggestivi e ricchi di storia della Capitale, incastonata tra la Sinagoga e il Portico d’Ottavia, da 15 anni un luogo magico di Roma diffonde cultura, libri e sapere. È la libreria della Comunità ebraica di Roma, la Kiryat Sefer, unica libreria a tema esclusivamente ebraico in Italia che proprio nel corso di quest’anno raggiunge la cifra tonda dei tre lustri. Luogo di incontro e di divulgazione, dove sfogliando le pagine del Talmud o immergendosi negli scritti di rabbini e pensatori ebrei di ogni secolo, ci si immerge nel mondo ebraico con la curiosità e la voglia di conoscere e approfondire. Allo stesso tempo, la narrativa moderna proveniente da Israele o dagli Stati Uniti, oppure quella prodotta dai tanti scrittori ebrei italiani, permette di avere un quadro di insieme che altrimenti sarebbe impossibile ricostruire.
La Kiryat Sefer, letteralmente tradotto Città del Libro, rappresenta un unicum nel panorama culturale del nostro Paese e un luogo da visitare, dove poter scoprire libri e volumi che nelle librerie generaliste sarebbero impossibili da trovare, assieme all’oggettistica a tema ebraico. Tutto questo fa parte della proposta all’affezionata clientela o al turista italiano e straniero che si reca nel locale di Via Elio Toaff per trovare quanto di ebraico non si trova altrove. Dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni a monsignor Vincenzo Paglia, dall’ex presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello all’onorevole Andrea Riccardi, dall’attore Luca Barbareschi al giornalista Enrico Mentana, sono tanti i personaggi noti che si recano alla Kiryat Sefer per scoprire le ultime novità dell’editoria ebraica o per riscoprire vecchi testi utili anche allo studio e alla ricerca, oltre che allo svago di un buon libro.
La libreria rappresenta anche e soprattutto un luogo di incontro e di vicinanza tra culture e religioni. Uno spazio quindi dedicato al rispetto e a quella conoscenza reciproca tra popoli e persone indispensabile ad abbattere luoghi comuni e pregiudizi. Se le librerie rappresentano un faro di luce e di educazione nelle nostre città, troppo spesso immerse nel buio dell’ignoranza e dell’odio, la Kiryat Sefer, assieme al Museo Ebraico e al Centro di Cultura della Comunità ebraica di Roma, costituisce un punto di riferimento fondamentale nel contrastare le false credenze e la sottocultura che sono il motore dell’antisemitismo e dell’antisionismo.
(Il Riformista, 2 ottobre 2025)
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Manchester, accoltellamento fuori da una sinagoga nel giorno di Yom Kippur: due morti, ucciso l'aggressore
Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall.
Un accoltellamento si è verificato oggi fuori da una sinagoga di Manchester, nel nord dell'Inghilterra. Lo riferisce la polizia britannica, intervenuta sul posto. Il sindaco della città, Andy Burnham, in contatto con la polizia, ha definito l'episodio «grave». Il bilancio è di due morti e due feriti. L'accoltellatore, come riporta la Bbc, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla polizia. Secondo Burnham, dopo l'intervento della polizia non ci sono ulteriori «pericoli imminenti» per la collettività. «Stiamo valutando la situazione e collaborando con gli altri membri dei servizi di emergenza. La nostra priorità è garantire che le persone ricevano l'assistenza medica di cui hanno bisogno il più rapidamente possibile», ha reso noto il servizio di ambulanze.
• L’aggressione
Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall. Si tratta di un tempio frequentato da fedeli ortodossi askhenaziti completato nel 1967. I media britannici sottolineano come l'attacco - la cui potenziale matrice terroristica e il cui movente resta da chiarire - è avvenuto nel giorno di Yom Kippur, festività sacra per gli ebrei.
(Il Mattino, 2 ottobre 2025)
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Marcia per la Vita – Padova 28 Settembre 2025
NON RESTEREMO IN SILENZIO
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Marina Soranzo e Heinz Reuss, Presidente del movimento internazionale March of Life |
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Domenica 28 Settembre 2025 si è svolta March of Life (Marcia della Vita) a Padova. E’stato un onore poter partecipare a questa marcia poiché nel 2018 e 2019 ho avuto modo di essere ospite alla March of Life House a Cesarea (Israele) e insieme a Petra e Lesly, le due volontarie che si occupavano della casa, pregavamo per un apertura in Italia dove poter organizzare la Marcia magari con la collaborazione di Edipi. Ringrazio Abba, che nel dicembre 2024 ha dato risposta a quelle preghiere, perché a Vò Euganeo PD c’è stata la prima March of Life in Italia. Quella successiva del 2025 invece si è svolta a Padova, dove ha la sede Edipi, e dove questa volta Edipi nella veste del Presidente Andie Hortai Basana, insieme ad altre associazioni ha collaborato per l’evento.
La manifestazione ha avuto inizio davanti alla Sinagoga di Padova, l’organizzatrice Marina Soranzo ha salutato i partecipanti elencando il programma e specificando il tema della Marcia, ovvero NON RESTEREMO IN SILENZIO, l’importanza di ricordare e riconciliare, per dare tutti insieme un segnale contro l’antisemitismo e l’odio verso gli ebrei. Non restare in silenzio in quanto nei tempi della Shoa gli italiani, compresi i cristiani, sono stati in silenzio davanti alle deportazioni e abusi nei confronti degli ebrei. Ovviamente, il ricordo non deve essere solo rivolto al passato ma, deve anche gettare un ponte verso il presente e futuro. Ha poi illustrato il tragitto che partiva dalla Sinagoga in Via delle Piazze (Ghetto Ebraico) fino alla Piazza del Santo, sfilando con la bandiera israeliana e cartelloni con foto e nome degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Sottolineando che si tratta di una manifestazione pacifica, ha avvisato i partecipanti che in caso di contestatori sul tragitto, non rispondere ma affidarsi alla scorta, scorta molto numerosa tra altro per il numero di partecipanti. Qui viene fatta notare la prima differenza, differenza tra una manifestazione a favore dei palestinesi e una pro Israele, ovvero le manifestazioni pro Israele devono essere per forza scortate, perché siamo arrivati a un punto di antisemitismo dove manifestare per Israele può essere pericoloso per i manifestanti, e se la scorta non c’è la manifestazione o evento viene cancellato!
Il saluto iniziale è stato dato dal Presidente della Comunità Ebraica di Padova Gianni Parenzo, seguito subito dopo dal saluto del Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss arrivato dalla Germania. La parola poi passa al Rabbino Adolfo Aharon Locci che parla del fatto che oggi si vuole delegittimare la Shoa, poiché la si vuole paragonare con i fatti del conflitto in corso tra Israele e Gaza per far dimenticare che cosa veramente è stata la Shoa, esortando le nuove generazioni di non confondere quello che accade oggi con ciò che accadde allora. Ha concluso ribadendo che anche se stiamo vivendo gli stessi tempi della Shoa, Israele pur se resta sola, a differenza di quei tempi oggi è in grado di difendersi. Infine ha concluso i saluti don Enrico Piccolo responsabile diocesano per il dialogo interreligioso continuando sul filo del discorso del Rabbino Locci, ricordando inoltre la figura di Padre Placido Cortese che ha aiutato ebrei a sfuggire dal regime nazista, cosa per cui è stato omaggiato nel 2021 da una Pietra d’ Inciampo proprio in Piazza del Santo. E’ intervenuta la Prof. Edda Fogarollo (CFI) docente di temi di Storia Moderna e Contemporanea che ha raccontato l’episodio del 1943 quando la Sinagoga è stata incendiata dai fascisti e altri episodi di quei tempi bui. Sono poi intervenute due ragazze dell’organizzazione tedesca e uno svizzero, che hanno raccontato la loro storia familiare, ovvero che i propri nonni servivano nelle SS e quindi si sono resi complici della morte di ebrei, hanno chiesto perdono per il loro operato agli ebrei presenti. Queste testimonianze sono state fatte con intensa emozione da toccare anche tutti i presenti. La parola poi è stata data a Benedetto Sacerdoti, padovano, portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, ringraziando per questa iniziativa, ringraziando i presenti per dimostrare la loro vicinanza alla Comunità Ebraica, a Israele e alle famiglie degli ostaggi, come padovano è stato importante per lui essere lì, nella Piazza del Santo, sfilare con le immagini dei volti degli ostaggi che da quasi due anni sono ancora prigionieri nel buio dei tunnel di Gaza. Ha fatto notare che nelle ultime settimane l’Italia è stata investita da manifestazioni, spesso violente per chiedere la fine di questo conflitto, che potrebbe finire immediatamente, qualora gli ostaggi venissero liberati. Ha sottolineato l’ambiguità presente nei nostri media, che non raccontano tutta la storia ovvero quello che è successo due anni fa, il 7 Ottobre 2025. Atti terribili sono successi in questa data, 1200 persone sono state trucidate, tra cui bambini e 250 persone rapite, di cui 48 ancora in ostaggio. Tutto ciò evidenzia che non si vuole la pace ma si cede ad una propaganda terroristica che vuole la distruzione d’Israele. Anche il Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss, ha evidenziato le incoerenze dei media e di tutta l’informazione che oggi giorno pone Israele come il cattivo della situazione, dimenticando che è stato attaccato quel 7 Ottobre, mentre nessuna condanna viene fatta ad Hamas, anzi, i media continuano a mandare avanti fake news come quella dei bambini morti, aumentando cosìl’antisemitismo nelle Nazioni.
Ha concluso l’evento il Presidente di Edipi Andie Hortai Basana, che risponde alla domanda perché siamo dalla parte d’Israele. Risposta: come Cristiani Evangelici il nostro punto di riferimento è la Parola di Dio, che ci chiede di sostenere Israele. In Genesi 12, Dio fa una promessa ad Abramo, “benedirò quelli che ti benediranno”… ,e in Esodo 4, Dio dice a Mosè, “tu dirai al Faraone, Israele è il mio figlio, il mio primogenito”…. Questo ci fa comprendere il sentimento che Dio ha verso Israele e aspetta anche da parte nostra un atteggiamento conforme alla Sua volontà.
Durante la marcia ci sono state alcune contestazioni verbali come criminali e free palestine, ma grazie al servizio d’ordine la cosa è sfumata in poco tempo e ringraziando Dio la marcia si è svolta senza incidenti. Concludo ricordando il versetto della Sua Parola che ha accompagnato questo evento:
Isaia 62:1 Per amore di Sion io non tacerò, per amore di Gerusalemme io non mi darò posa, finché la sua giustizia non spunti come l’aurora, la sua salvezza come una fiaccola fiammeggiante.
(Edipi, 1 ottobre 2025)
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Al bivio decisivo nella guerra contro Hamas
Il capo dell'IDF Eyal Zamir esorta alla vigilanza e sottolinea l'importanza storica dei prossimi passi.
Durante una visita alle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza, il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha parlato di una “realtà unica” in cui si trova attualmente Israele. Ha definito la guerra contro l'organizzazione terroristica Hamas un “bivio decisivo”, in cui i prossimi passi avranno conseguenze di vasta portata.
Zamir ha elogiato il coraggio e la determinazione dei soldati che operano da mesi a Gaza. Allo stesso tempo, ha avvertito che il pericolo non deve essere sottovalutato. Hamas è ancora in grado di sferrare attacchi e quindi la concentrazione, la pazienza e la perseveranza sono di fondamentale importanza. Solo così sarà possibile raggiungere l'obiettivo: il ritorno degli ostaggi e lo smantellamento delle strutture militari dell'organizzazione terroristica.
Il capo di Stato Maggiore ha inoltre chiarito che l'esercito sta pianificando le sue operazioni in modo da garantire alla leadership politica il necessario margine di manovra. L'IDF deve essere in grado di reagire in modo flessibile alle diverse decisioni del governo. Ha così sottolineato che l'operazione militare non può essere considerata isolatamente, ma va vista nel più ampio contesto strategico e politico.
Lo stesso giorno, l'IDF ha anche annunciato che il 9 settembre Muhammad Rashid Muhammad Masri, comandante di compagnia dell'unità Nukhba nel battaglione di Hamas di Beit Hanoun, era stato ucciso in un attacco mirato. Masri si era infiltrato nel territorio israeliano il 7 ottobre 2023 durante il massacro e successivamente, il 19 aprile 2025, aveva partecipato a un attacco a Beit Hanoun in cui il sergente maggiore G'haleb Sliman Alnasasra era stato ucciso e altri tre soldati erano rimasti gravemente feriti. L'incidente dimostra che, parallelamente alle operazioni su larga scala nella Striscia di Gaza, Israele continua a eliminare in modo mirato i vertici di Hamas.
Zamir ha ricordato alle truppe che, sebbene la guerra abbia portato a progressi significativi, non è ancora stata decisa. Gli attacchi alle unità israeliane nelle ultime settimane hanno dimostrato quanto sia importante mantenere un'elevata vigilanza. “Non dobbiamo sottovalutare il nemico”, ha ammonito, esortando i soldati ad affrontare le prossime fasi con la massima attenzione e perseveranza.
Con queste parole, il capo di Stato Maggiore ha chiarito che Israele si trova in una fase che può decidere l'esito dell'intera guerra.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Meloni: “La Flotilla è un pretesto per far saltare la pace”
Pressing sul Parlamento per votare il piano Trump
di Luca Spizzichino
La premier Giorgia Meloni è intervenuta con toni decisi sul caso della Global Sumud Flotilla, il convoglio di circa 50 imbarcazioni con attivisti internazionali entrato questa notte nella “zona ad alto rischio”, a 150 miglia nautiche da Gaza. “La Flotilla – ha dichiarato – è un pretesto per far saltare la pace”.
Secondo la premier, non si tratta di un gesto umanitario isolato, ma di una provocazione con il rischio di innescare incidenti e compromettere un fragile equilibrio diplomatico. “Non possiamo permettere che iniziative strumentali compromettano un percorso che finalmente può portare alla fine delle ostilità”, ha ribadito, inserendo la vicenda in un quadro politico più ampio: la difesa del piano Trump, che secondo Meloni rappresenta “l’unica speranza concreta per fermare la guerra e porre fine alla sofferenza dei civili palestinesi”.
Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lanciato un appello all’unità: “Non dividiamoci sulla pace, il piano Trump è l’unica strada per avviare una soluzione”. Stessa linea dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che avverte sul rischio di escalation e sottolinea che gli aiuti umanitari devono essere consegnati attraverso canali sicuri, “come il Patriarcato latino, non con operazioni che possono degenerare in incidenti”.
La fregata italiana Alpino, impegnata nel Mediterraneo orientale, da stanotte non scorta più la flottiglia, ma resterà pronta a intervenire in caso di emergenze che coinvolgano cittadini italiani.
Sul fronte politico interno, Carlo Calenda propone un voto unitario in Parlamento sul piano Trump. Dal Partito Democratico arrivano segnali di apertura, pur con critiche legate al riconoscimento dello Stato palestinese; il Movimento 5 Stelle parla di “spiraglio”, mentre Alleanza Verdi e Sinistra boccia il piano definendolo “colonialista e suprematista”.
Le dichiarazioni della premier si intrecciano con la linea di Israele, che prepara l’intercettazione delle navi accusando gli organizzatori di legami con Hamas. Meloni non si è espressa direttamente su questo punto, ma la vicenda rafforza l’idea che la Flotilla non sia solo una missione umanitaria.
Nella giornata di ieri, l’IDF ha diffuso documenti che accusano la Flotilla di ricevere finanziamenti da Hamas tramite la PCPA (Palestinian Conference for Palestinians Abroad), un network internazionale con sedi in Libano e in Europa. Tra i promotori citati figurano attivisti storici delle flottiglie, come Zaher Birawi nel Regno Unito e Saif Abu Kashk in Spagna.
Sul piano operativo, la marina israeliana si prepara a intercettare le imbarcazioni con i commando Shayetet 13, con l’obiettivo di fermare le navi prima che entrino nelle acque di Gaza, trasferire gli attivisti al porto di Ashdod e procedere con l’espulsione. Alcune barche potrebbero essere affondate dopo il sequestro.
(Shalom, 1 ottobre 2025)
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Yom Kippur – In 100mila al Kotel assieme agli ex ostaggi
Al tramonto di mercoledì inizia il digiuno dello Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario ebraico. A Gerusalemme, informa la Western Wall Heritage Foundation, oltre 100mila persone hanno partecipato alla lettura delle preghiere penitenziali (Selichot) nell’area del Muro Occidentale (Kotel). Tra loro gli ex ostaggi Eliya Cohen, Omer Shem Tov e Romi Gonen, a lungo prigionieri di Hamas a Gaza, che hanno recitato assieme al rabbino Shmuel Rabinowitz una preghiera speciale per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi: i vivi affinché possano riunirsi alle loro famiglie, i morti affinché possano essere sepolti. Einav Zangauker, la madre dell’ostaggio Matan Zangauker, ha depositato nelle crepe del muro un biglietto con una preghiera per il ritorno a casa degli ostaggi e dei soldati dell’Idf che stanno combattendo nella Striscia. Alla cerimonia sono intervenuti i rabbini capo del paese David Yosef (sefardita) e Kalman Bar (ashkenazita), il rabbino Yaakov Shapira a capo della yeshiva Mercaz HaRav, il sindaco della città Moshe Lion, ministri e rappresentanti istituzionali.
La Western Wall Heritage Foundation ha informato che quasi un milione e mezzo di persone si sono recate nell’area del Kotel nei dieci giorni penitenziali compresi tra Rosh haShanah e Kippur, facendo registrare «un aumento significativo delle presenze» rispetto al passato. Nell’occasione della cerimonia delle Selichot sono stati allestiti alcuni maxischermi nelle vicinanze del Kotel, nei pressi della porta di Giaffa e in piazza Safra, la piazza del municipio.
(moked, 1 ottobre 2025)
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Giro dell’Emilia: esclusa la squadra Israel-Premier Tech
di Pietro Baragiola
Alla vigilia del Giro dell’Emilia, la gara ciclistica di fama internazionale in programma il 4 ottobre, è arrivata una decisione inattesa: la squadra Israel-Premier Tech è stata esclusa dall’edizione di quest’anno.
La decisione, comunicata ufficialmente dagli organizzatori della gara in un comunicato stampa, è stata motivata da “ragioni di sicurezza pubblica”.
Negli ultimi mesi sono state diverse le corse ciclistiche a livello internazionale ad essere interrotte per la stessa motivazione a causa delle manifestazioni propalestinesi.
In Spagna, a La Vuelta, ben quattro tappe, compresa quella conclusiva a Madrid, hanno dovuto subire modifiche e riduzioni causando problemi durante la competizione. Per questo motivo il team del Giro dell’Emilia ha deciso di agire preventivamente ed evitare possibili incidenti.
“Il pericolo è troppo grande” ha affermato Adriano Amici, presidente della GS Emilia. “Il circuito finale, ripetuto cinque volte attorno a Bologna, potrebbe facilmente diventare teatro di proteste violente. È una scelta che mi addolora dal punto di vista sportivo, ma necessaria per tutelare il pubblico e gli altri corridori.”
• Il Giro dell’Emilia
Il Giro dell’Emilia è una delle corse più importanti del calendario ciclistico italiano e internazionale. Con i suoi 199 chilometri che si estendono da Mirandola fino a Bologna, rappresenta un banco di prova importantissimo per Il Lombardia, l’ultimo grande appuntamento della stagione.
Nel 2024 la vittoria è andata al campione sloveno Tadej Pogačar, confermando la presenza di molti dei migliori talenti del panorama mondiale.
L’arrivo è sempre fissato al Santuario della Madonna di San Luca, un luogo iconico, la cui pendenza supera il 10%, e domina la città di Bologna. Un panorama stupendo ma anche logisticamente delicato: Bologna è storicamente un centro di forte partecipazione politica dei moti studenteschi, molti dei quali quest’anno sono stati propalestinesi.
“Considerando quanto sta accadendo a Gaza, sarebbe ipocrita considerare insignificante la presenza di una squadra legata a questo governo” ha dichiarato Roberta Li Calzi, assessora dello sport dell’amministrazione comunale di Bologna.
Il portavoce della Israel-Premier Tech ha risposto a queste affermazioni volendo ricordare che la squadra non è la nazionale ufficiale di Israele, bensì un team di proprietà del miliardario Israelo-canadese Sylvan Adams. La formazione è da anni presente nei principali eventi ciclistici, tra cui il Tour de France e il Giro d’Italia.
Quest’anno però la situazione è diventata così delicata che persino il co-sponsor, Premier Tech, ha chiesto di rimuovere la parola “Israel” dal nome ufficiale della squadra, nel tentativo di ridurre l’esposizione politica e mediatica.
• L’esclusione di Israele nel mondo dello sport
La decisione di escludere la Israel-Premier Tech si inserisce in una più ampia ondata di boicottaggi e proteste che sta colpendo il mondo dello sport e della cultura israeliana.
Diversi eventi internazionali hanno visto crescere le pressioni per limitare la partecipazione dei team israeliani in segno di protesta contro il conflitto a Gaza.
Israele, dal canto suo, respinge le accuse di genocidio e ribadisce di adottare tutte le misure possibili per limitare le vittime civili, accusando Hamas di usare la popolazione come scudo umano. Ma la percezione internazionale resta fortemente polarizzata e lo sport, che teoricamente dovrebbe rimanere neutrale, finisce spesso al centro di questo clima di tensioni.
(Bet Magazine Mosaico, 1 ottobre 2025)
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Il piano di Trump segna la vittoria di Israele
di Ugo Volli
• Il consenso generale È davvero un passo storico il piano annunciato ieri da Trump e Netanyahu. Esso annuncia la via d’uscita dalla guerra scatenata due anni fa da Hamas con il sostegno dell’Iran, segnando una piena vittoria israeliana. Alla conferenza stampa dei due leader è rapidamente seguita una dichiarazione formale di appoggio dei maggiori stati islamici (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati, Turchia e anche il più popoloso paese musulmano del mondo, l’Indonesia e il più forte militarmente, il Pakistan). Perfino l’Autorità Palestinese ha dichiarato il suo consenso, anche se l’accordo la taglia fuori dalla gestione di Gaza fino a una riforma profonda e “reale non fatta di parole”, come ha detto Netanyahu ieri sera e cioè comprendente la “fine del pagamento degli stipendi ai terroristi, fine dell’incitamento anti-israeliano nelle scuole e nei media, fine dell’appoggio alla ‘lotta armata’, democratizzazione e fine della corruzione”. In Europa hanno approvato il piano il governo italiano (per primo), quello francese, quello inglese e diversi altri.
• Perché Israele ha vinto Come ha dichiarato il Segretario del gabinetto israeliano Yossi Fuchs, il 7 agosto 2025 il governo aveva stabilito cinque condizioni per porre fine alla guerra: 1. Il ritorno di tutti gli ostaggi, sia vivi che caduti. 2. Il disarmo di Hamas. 3. La smilitarizzazione della Striscia di Gaza. 4. Il controllo di sicurezza israeliano sulla Striscia di Gaza. 5. Un’amministrazione civile alternativa che non sia né Hamas né l’Autorità Palestinese. Tutte questa condizioni sono soddisfatte nel piano di Trump, certamente perché non è uscito dalla solita macchina delle trattative che funzionava cercando di far pressione su Israele per fargli accettare la condizioni di Hamas. Questa volta il processo è stato inverso: c’è stato prima l’accordo con Israele e ora Hamas ha la scelta fra accettarlo o essere completamente distrutta da Israele, con l’approvazione dell’America e senza la protezione dei suoi alleati, a parte l’Iran che in questo memento ha il suo daffare ad affrontare le nuove pesantissime sanzioni. La reazione del gruppo terrorista non è ancora nota. Il piano comunque prevede la sua realizzazione anche in caso di rifiuto di Hamas. Dall’inizio della guerra non era mai stata presentata alcuna proposta che includesse il ritorno di tutti gli ostaggi contemporaneamente, insieme al mantenimento del controllo della Striscia di Gaza da parte delle IDF e alla garanzia della sicurezza dello Stato di Israele. E per quanto riguarda l’opposizione israeliana a uno Stato palestinese, questa è soddisfatta; il piano non lo istituisce, il Presidente Trump ha dichiarato esplicitamente di rispettare la posizione israeliana. Le manovre tentate all’Onu da Francia, Gran Bretagna e altri stati sono rese completamente inutili, il premio che Hamas giustamente vi vedeva per la sua azione criminale non ci sarà. Anche la richiesta di una riforma vera dell’Autorità Palestinese, al momento impossibile, la mette fuori gioco, come Israele voleva. È poi completamente tagliata fuori e si mostra vacua e anacronistica anche tutta la mobilitazione delle sinistre pro Hamas, dalle piazze alla flottiglia. La canea anti-israeliana e antisemita continuerà probabilmente ancora per qualche tempo, ma non ha più una prospettiva di impatto reale.
• Le conseguenze sul Medio Oriente Trump ha molto sottolineato nel suo discorso che il piano non ambisce solo a concludere i combattimenti a Gaza, ma vuole disegnare un nuovo Medio Oriente, con collaborazioni larghe che avranno grandi effetti economici e politici sul mondo intero. Il progetto di un nuovo Medio Oriente pacifico e collaborativo fra stati che si riconoscono a vicenda senza rivendicazioni era del resto implicito nei patti di Abramo, molto citati nella conferenza stampa, e che ora saranno probabilmente nella condizione di espandersi all’Arabia Saudita e più in là “fino all’Iran” se esso cambierà regime e politica, come ha predetto Trump. Proprio contro questi patti e la pace regionale che cercava Israele era stato scatenato il 7 ottobre, con l’intento di portare tutto il mondo arabo e musulmano a combattere e distruggere Israele. Il risultato ora è l’inverso: uno schieramento di tutti i paesi della regione che accettano di stringere una pace con lo Stato ebraico e di ragionare su un futuro comune. Questa è la vittoria più influente per il futuro, perché rompe anche le strategie anti-occidentali di Cina e Russia, con conseguenze che andranno dall’Ucraina a Taiwan. Bisogna dire che questa vittoria diplomatica non sarebbe stata possibile senza le vittorie militari di Israele, senza la distruzione di Hezbollah, senza i bombardamenti che hanno disabilitato il progetto di armamento nucleare dell’Iran, senza il coraggio di sfidare il consenso internazionale e portare vittoriosamente la battaglia su Gaza, prima sull’asse Filadelfia e su Rafah, ora su Gaza City, senza anche l’incursione su Doha, che ha fallito nell’eliminare i capi di Hamas ma è riuscita a mostrare la determinazione di Israele per distruggere le minacce. Tutte queste operazioni sono state scelte imposte da Netanyahu, spesso contro il parere dei vertici della sicurezza e degli amici (o presunti tali) occidentali. Oggi è tutta sua la decisione di aderire al piano di Trump, anche in questo caso contro l’opposizione di parti del governo.
• Le reazioni in Israele Per arrivare a questo punto Israele ha già pagato un grande prezzo di sangue, con tutti i suoi caduti e i danni della guerra, e ne paga un altro dovendo liberare numerosi condannati per delitti di terrorismo anche sanguinosi e rinunciare a parte delle aspettative conseguenti alla vittoria, come la dichiarazione di sovranità su parti della Giudea e Samaria o la conquista definitiva di parti di Gaza che alcuni nella maggioranza volevano. L’esercito resterà a tempo indeterminato una zona cuscinetto e avrà la possibilità di intervenire se vi saranno a Gaza concentrazioni terroristiche, come già accade nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Ma non basta. La presenza di un’amministrazione internazionale diretta da Trump con Tony Blair e di truppe internazionali è una garanzia del processo di deradicalizzazione e di disarmo totale che è necessaria. Il piano ha soddisfatto il Likud, i partiti di riferimento degli Haredim, Gantz, Lapid, Eisenkot. Esiste una maggioranza parlamentare per sostenerlo. Sembra che Netanyahu non lo sottoporrà alla riunione di governo che si terrà questa sera dopo il suo ritorno, ma chiederà una votazione quando si metterà in pratica la liberazione degli ostaggi. Fino al momento in cui scrivo, Ben Gvir e Smotrich non hanno preso posizione. Avevano minacciato di uscire dal governo, ma non è detto che lo faranno. In silenzio sono rimasti anche gli avversari di Netanyahu che vengono da destra, innanzitutto Bennett e Lieberman. Senza dubbio se il piano si realizzerà anche la politica interna israeliana dovrà aprire una nuova pagina.
(Shalom, 30 settembre 2025)
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Il piano di Trump per Gaza: speranza o illusione?
Il corrispondente di Israel Geute Itamar Eichner parla della nuova iniziativa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, di Hamas e del futuro di Gaza.
di Itamar Eichner
GERUSALEMME - In una conferenza stampa dall'atmosfera surreale tenutasi a Washington, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un nuovo piano di pace per porre fine alla guerra tra Israele e Hamas, basato sulla mediazione del Qatar e dell'Egitto. Il cosiddetto “documento programmatico” comprende 20 punti e mira a consentire il rilascio di tutti gli ostaggi, la smilitarizzazione della Striscia di Gaza e la creazione di una nuova struttura di governo. Mentre il Qatar ha segnalato agli americani che Hamas potrebbe accettare, i leader di Hamas e della Jihad islamica hanno espresso profondo scetticismo. La domanda centrale rimane: Hamas accetterà l'offerta e, in caso affermativo, a quali condizioni?
• I 20 punti di Trump in sintesi
- Deradicalizzare Gaza: la Striscia deve diventare una zona libera dal terrorismo che non rappresenti più una minaccia per i paesi vicini.
- Ricostruzione per la popolazione: Gaza sarà ricostruita nell'interesse della sua popolazione, che ha sofferto a lungo.
- Cessazione immediata delle ostilità: se entrambe le parti acconsentono, la guerra cesserà immediatamente. Israele si ritirerà sulle linee concordate e tutte le operazioni militari saranno sospese.
- Rilascio degli ostaggi entro 72 ore – Tutti gli ostaggi, vivi o morti, devono essere restituiti previo consenso di Israele.
- Scambio di prigionieri – Dopo il rilascio di tutti gli ostaggi, Israele rilascerà 250 persone condannate all'ergastolo e 1.700 arrestate dopo il 7 ottobre 2023. Per ogni cadavere di ostaggio israeliano saranno consegnati 15 cadaveri palestinesi.
- Amnistia e ritiro sicuro – I membri di Hamas che puntano alla convivenza pacifica e consegnano le armi otterranno l'amnistia. Chi desidera lasciare il Paese riceverà un scorta sicura.
- Aiuti umanitari – Fornitura immediata di acqua, elettricità, medicinali, generi alimentari, attrezzature ospedaliere e per panifici, nonché attrezzature per la rimozione delle macerie.
- Distribuzione da parte di organizzazioni internazionali – Gli aiuti umanitari saranno distribuiti dall'ONU, dalla Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e da altre istituzioni; apertura del valico di Rafah secondo il meccanismo del 19 gennaio 2025.
- Amministrazione provvisoria – Un comitato palestinese tecnocratico e imparziale assume l'amministrazione. Supervisione da parte di un “Board of Peace” internazionale presieduto da Donald Trump (con Tony Blair, tra gli altri).
- Piano economico di Trump – Un comitato di esperti sviluppa un piano di ricostruzione sul modello delle moderne “città miracolose” del Medio Oriente, al fine di creare investimenti e posti di lavoro.
- Zona economica speciale – Istituzione di una zona con vantaggi doganali e commerciali, negoziata con gli Stati partecipanti.
- Libera scelta – Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza; chi se ne va potrà tornare in qualsiasi momento. Obiettivo: le persone devono rimanere e costruire un futuro migliore.
- Nessun ruolo per Hamas – Hamas e altre fazioni non possono assumere alcun ruolo di governo. Tutte le infrastrutture militari (tunnel, fabbriche di armi) vengono distrutte. Disarmo con controllo internazionale, riacquisto e reintegrazione.
- Garanzie regionali – Gli Stati partner garantiscono che Hamas e altri gruppi rispettino i loro impegni e che Gaza non rappresenti più una minaccia.
- Forza internazionale di stabilizzazione (ISF) – Una forza internazionale sarà di stanza a Gaza, addestrerà le forze di polizia palestinesi e lavorerà a stretto contatto con Egitto, Giordania e Israele. Obiettivo: nessuna fornitura di armi, ma flusso sicuro delle merci.
- Ritiro graduale dell'IDF – Israele non annetterà né occuperà in modo permanente Gaza. Ritiro graduale, a seconda dei progressi in materia di sicurezza e disarmo. Un perimetro di sicurezza rimarrà in vigore fino alla completa stabilizzazione.
- Il piano procede anche senza l'approvazione di Hamas – Se Hamas ritarda o rifiuta, le misure di aiuto saranno attuate nelle aree controllate dall'ISF.
- Dialogo interreligioso – Un processo mira a cambiare gli atteggiamenti e le narrazioni da entrambe le parti, basandosi sulla tolleranza e sulla coesistenza pacifica.
- Prospettiva di autodeterminazione: se la ricostruzione procede e l'Autorità Palestinese attua le riforme, potrebbe aprirsi una strada credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese.
- Dialogo politico Israele-Palestina: gli Stati Uniti avvieranno colloqui per creare un orizzonte politico a lungo termine per la coesistenza pacifica.
• Un progetto vago o un concetto incompleto? Il piano presentato da Trump è volutamente generico, per consentire ad Hamas di accettarlo senza impegni troppo concreti. Prevede il rilascio di tutti gli ostaggi – vivi o morti –, la distruzione di tunnel, officine di armi e missili, nonché l'istituzione di una nuova amministrazione, possibilmente con il coinvolgimento di un'Autorità Palestinese riformata. Tuttavia, mancano scadenze o tempistiche chiare, il che fa sorgere in molti osservatori il dubbio che si tratti piuttosto di una proposta “incompleta”, volta anche ad alimentare le ambizioni di Trump di ottenere il Premio Nobel per la Pace. Un alto funzionario di Hamas, Mahmud Mardawi, ha dichiarato ad Al Jazeera che le disposizioni sono “troppo simili alla posizione israeliana” e sono “vaghe e prive di garanzie”. Pur non escludendo un dialogo, ha sottolineato che Hamas discuterà prima le proposte con altre fazioni palestinesi. Ziad Nachala, segretario generale della Jihad islamica, ha invece respinto con decisione il piano, definendolo un “accordo americano-israeliano” che riflette gli interessi di Israele e “garantisce il proseguimento degli attacchi contro il popolo palestinese”.
• Punti controversi: Stato palestinese e smilitarizzazione Un punto di conflitto fondamentale rimane la questione di uno Stato palestinese. Già nel suo primo mandato, Trump aveva sollevato la possibilità di uno Stato palestinese con il “piano del secolo” e ora ha nuovamente accennato indirettamente al suo consenso, tenendo sempre conto della posizione negativa del primo ministro Benjamin Netanyahu. Quest'ultimo ha ribadito il suo rifiuto di principio di uno Stato palestinese e ha ringraziato espressamente Trump per non averlo riconosciuto ufficialmente. Anche il ruolo futuro dell'Autorità palestinese rimane incerto. Sebbene il piano preveda una possibile partecipazione dopo riforme globali, Netanyahu ha posto condizioni molto rigide: niente più soldi per i terroristi, niente più incitamento all'odio nelle scuole. Hamas, dal canto suo, ha segnalato che non si piegherà a un processo di disarmo totale. Mardawi ha sottolineato che le armi della “resistenza” sono destinate esclusivamente alla “libertà e all'indipendenza”. Trump, invece, ha precisato che la smilitarizzazione deve comprendere la distruzione di tutti i sistemi di tunnel e delle fabbriche di armi e ha annunciato che, in caso di rifiuto da parte di Hamas, Israele riceverà il pieno sostegno di Washington e degli Stati arabi per “portare a termine la questione”.
• Il Qatar come grande vincitore? Senza il Qatar questo piano non sarebbe stato realizzato. Doha ha svolto un ruolo decisivo di mediazione e, dal punto di vista israeliano, ha persino ottenuto un trionfo diplomatico. Le scuse israeliane dopo un attacco aereo a Doha, percepito come “imbarazzante”, hanno rafforzato la posizione del Qatar come attore chiave in Medio Oriente. I critici in Israele temono addirittura che il Qatar sia il vero artefice dell'iniziativa. Lo stesso Trump ha dichiarato apertamente di voler essere in futuro “l'addetto alle pubbliche relazioni del Qatar”, un'osservazione che ha rafforzato le preoccupazioni a Gerusalemme che Doha possa uscire dal processo come chiaro vincitore.
• Netanyahu sotto pressione o in vantaggio? Per Benjamin Netanyahu il piano è un esercizio di equilibrismo politico. Durante la conferenza stampa è apparso teso, come se fosse parte involontaria di una messa in scena. Trump, dal canto suo, ha approfittato del palcoscenico per criticare sottilmente Netanyahu: “Gli israeliani ne hanno abbastanza della guerra”, ha detto, riferendosi ai numerosi manifesti affissi nelle strade di Israele che chiedono l'immediato rilascio degli ostaggi. Netanyahu ha cercato di presentare l'iniziativa come una conferma dei propri obiettivi di guerra: il rilascio di tutti gli ostaggi e la smilitarizzazione di Gaza. Tuttavia, l'entourage del primo ministro sta già promuovendo il piano come un successo. I collaboratori di Netanyahu sottolineano che si tratta di una svolta strategica: Israele sta uscendo dall'isolamento internazionale, mentre Hamas è sempre più isolato in tutto il mondo arabo e musulmano. Per la prima volta è previsto il rilascio di tutti gli ostaggi, vivi o morti, in un'unica fase, mentre Israele è ancora presente a Gaza. Si tratta di un successo grande e significativo. Inoltre, secondo l'entourage di Netanyahu, il piano non prevede alcun obbligo di creare uno Stato palestinese. La posizione di Israele su questo tema rimane invariata. Anche l'elenco delle condizioni poste all'Autorità palestinese è così severo da apparire praticamente irrealizzabile. È inoltre prevista la costituzione di una forza multinazionale – composta da soldati degli Emirati Arabi Uniti, dell'Indonesia e dell'Azerbaigian – con il compito di disarmare Hamas. Il ritiro israeliano avverrà solo se Hamas sarà effettivamente completamente disarmato.
• Cosa succederà ora? La palla passa ora a Hamas. Il Qatar e l'Egitto continuano i loro tentativi di mediazione, Washington attende una risposta. Un accordo potrebbe portare al rilascio dei primi ostaggi entro pochi giorni. Ma se Hamas reagisse con un “sì, ma”, ci si aspetta una maratona negoziale difficile a Doha. Fino ad allora, la guerra continuerà a imperversare e le famiglie degli ostaggi temeranno per il destino dei loro cari. Il piano di Trump rimane un'impresa rischiosa: potrebbe portare a una svolta o finire nei cassetti della storia come una bolla di sapone politica. Trump lo ha comunque annunciato nella sala da ballo della Casa Bianca, il luogo in cui spesso vengono rilasciate dichiarazioni storiche. Il tempo dirà se questa sarà una di quelle o se sarà presto dimenticata.
(Israel Heute, 30 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In un video Netanyahu modifica un po’ il piano di Trump
di Sarah G. Frankl
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu elogia il piano in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla guerra a Gaza in una dichiarazione video da Washington, dove, nella stessa giornata, ha affiancato il presidente degli Stati Uniti e ha dato il suo benestare alla proposta.
“È stata una visita storica”, afferma. “Invece di essere isolati da Hamas, abbiamo ribaltato la situazione e isolato Hamas.
Ora il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini che abbiamo creato insieme a Trump, per riportare indietro tutti gli ostaggi – vivi e morti – mentre l’IDF rimane nella Striscia”.
Le sue osservazioni sembrano travisare una parte del piano di Trump, pubblicato online dalla Casa Bianca, poiché non prevede che l’IDF rimanga nella Striscia a tempo indeterminato, ma piuttosto che si ritiri gradualmente e ceda il posto a una forza di sicurezza internazionale.
“Chi l’avrebbe mai creduto”, dice della visione di Trump, sostenendo che fino ad ora a Israele era stato detto di accettare le richieste di Hamas e di consentirgli di rimanere e ricostruire all’interno dell’enclave devastata dalla guerra.
La persona dietro la telecamera chiede se Netanyahu abbia acconsentito alla creazione di uno Stato palestinese, cosa che il premier nega prontamente.
“Assolutamente no”, dice. “Non è scritto nell’accordo”.
“Abbiamo detto che ci saremmo opposti con forza a uno Stato palestinese”, aggiunge, sostenendo che Trump è d’accordo con lui sul fatto che sarebbe un “enorme premio per il terrorismo”.
Ancora una volta, questa sembra essere una rappresentazione piuttosto distorta del piano, poiché il punto 19 afferma che, dopo la ricostruzione di Gaza e una volta che l’Autorità palestinese avrà attuato le riforme necessarie, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese.
(Rights Reporter, 30 settembre 2025)
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Smotrich furioso, ma sì dalle opposizioni
«Un clamoroso fallimento diplomatico, un atto di cecità volontaria che ignora ogni lezione del 7 ottobre». Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, non ha preso bene il piano di pace illustrato alla Casa Bianca da Trump e Netanyahu. Aggiungendo che a suo avviso «finirà in lacrime».
Una reazione del genere da parte del ministro di ultradestra e leader del Partito Sionista Religioso, che potrebbe ora lasciare il governo, era nell’aria. Nel paese prevale però la speranza e molte voci anche dell’opposizione appoggiano l’iniziativa, lanciando messaggi di consenso più o meno esplicito e guardando anche alla prossima contesa elettorale. Tra gli analisti c’è chi ipotizza che possa essere anticipata di qualche mese rispetto all’ottobre del 2026, naturale scadenza dell’esecutivo.
Per l’ex premier Naftali Bennett il sì al piano «è un passo difficile, ma necessario, poiché il governo non è riuscito a raggiungere una decisione con Hamas e a recuperare i nostri fratelli rapiti che languiscono in cattività, e il prezzo che stiamo pagando e continueremo a pagare in vite umane è insopportabile». Bennett, che potrebbe candidarsi alla guida del paese nel 2026, aggiunge che «il difficile capitolo in cui ci troviamo deve chiudersi con il ritorno a casa dei nostri figli e delle nostre figlie e con la transizione verso un nuovo e diverso capitolo di unificazione e ricostruzione dello Stato di Israele». I punti presentati da Trump «non sono perfetti, ma rappresentano la migliore opzione sul tavolo», sostiene Yair Lapid, il leader dell’opposizione, rivendicando di aver elaborato «un piano molto simile» un anno fa. Per il politico di Yesh Atid il progetto di Trump «non è privo di buchi e interrogativi, ma l’esperienza degli Accordi di Abramo dimostra che il metodo di Trump funziona». Tre, nella sua interpretazione, i punti salienti: stabilire un obiettivo ambizioso, fissare una tabella di marcia e definire i dettagli man mano che si procede.
«Si tratta di un accordo sul tavolo da oltre un anno. Dobbiamo sperare che questa volta venga effettivamente attuato, che i rapiti tornino finalmente a casa e che questa guerra politica giunga alla fine», ha dichiarato Yair Golan, il leader dei Democratici, per il quale la guerra di Gaza «ha da tempo cessato di avere uno scopo di sicurezza» e il primo ministro Netanyahu dovrebbe chiedere scusa per il sangue versato «ai rapiti e alle loro famiglie, alle famiglie in lutto e a tutti i cittadini israeliani che combattono da due anni».
(moked, 30 settembre 2025)
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La genialità del piano Trump per Gaza risiede nel suo fallimento inevitabile
di Gregg Roman
Il piano del presidente Donald Trump per porre fine al conflitto di Gaza non è una proposta di pace; è una dichiarazione di guerra all’illusione strategica. Agli architetti del declino a Washington e a Bruxelles, sembrerà un’offerta ragionevole di ricostruzione, aiuti e autonomia. Si torceranno le mani per la frustrazione quando fallirà, ma non ne colgono il punto. La vera genialità del piano non risiede nel suo potenziale di successo, ma nel suo fallimento predeterminato. È un test finale e chiarificatore, progettato per smascherare i nemici di Israele, smascherare i loro protettori e fornire una giustificazione per l’unica politica in grado di portare una pace duratura nella regione.
Ovvero che la politica si fonda su una verità semplice e storicamente innegabile: i conflitti non si concludono con negoziati o compromessi quando una delle parti è un nemico implacabile e ideologico. La pace duratura non è il prodotto di un’intesa condivisa; viene imposta a un nemico sconfitto, la cui volontà di combattere è stata spezzata.
Il percorso per trasformare Giappone e Germania in pacifiche democrazie dopo la Seconda Guerra Mondiale ha richiesto la loro resa incondizionata e la trasformazione della società. Questa è la realtà necessaria, seppure brutale, che una generazione di politici occidentali si è rifiutata di accettare.
A prima vista, la proposta di Trump offre a Hamas un ponte d’oro verso la resa. Offre un cessate il fuoco, un massiccio scambio di prigionieri, l’amnistia per i combattenti che si disarmano e uno sforzo internazionale multimiliardario per ricostruire Gaza. È una via d’uscita da una guerra che Hamas ha iniziato e non può vincere, un’alternativa superficialmente attraente alla propria distruzione. Per la mentalità occidentale, assuefatta alla fantasia che tutti i conflitti siano semplicemente incomprensioni che il dialogo può risolvere, questa sembrerà un’offerta che Hamas non può rifiutare.
Ma è proprio questo il fallimento dell’immaginazione che ha portato all’eccidio del 7 ottobre 2023. Hamas non è un attore razionale che persegue obiettivi politici negoziabili; è un culto ideologico della morte, un movimento totalitario la cui intera identità si fonda sul rifiuto genocida dell’esistenza di Israele. Mentre i suoi leader ora affermano che rivedranno il piano in “buona fede”, l’asse del rifiuto ha già mostrato le sue carte. I suoi alleati, come la Jihad Islamica, hanno denunciato la proposta, e i delegati dell’Iran l’hanno definita un “complotto”. Il piano di Trump esige che Hamas si disarmi, rinunci al suo potere e accetti una realtà di coesistenza pacifica. Per Hamas, questo non è un compromesso; è un atto suicida. Il loro rifiuto è una certezza, ed è questa certezza che conferisce al piano il suo vero valore.
Quando Hamas dirà di no, metterà il suo principale sostenitore, il Qatar, in una posizione impossibile. Per anni, i qatarini hanno giocato un doppio gioco, presentandosi all’Occidente come mediatori indispensabili e, allo stesso tempo, agendo come principali finanziatori e protettori ideologici di Hamas e della Fratellanza Musulmana globale. Con un’ampia coalizione di ministri degli esteri arabi e musulmani che accolgono pubblicamente con favore l’impegno americano, la pressione sul Qatar affinché consegni un Hamas compiacente è immensa. Il suo fallimento sarà un’umiliazione globale, che lo mostrerà come non disposto o incapace di controllare il suo mandatario. Questo è il momento di spezzare finalmente l’asse Hamas-Qatar.
Il “no” di Hamas sarà il momento più chiarificatore di questo conflitto dai tempi dell’eccidio stesso. Eliminerà l’ultima scusa per la codardia morale dell’Occidente. Dimostrerà, una volta per tutte, che il conflitto persiste non per mancanza di concessioni israeliane – che persino il leader dell’opposizione Yair Lapid ora ammette – ma per l’impegno palestinese alla distruzione di Israele. Quando Hamas rifiuterà questa ultima, generosa offerta di resa, fornirà a Israele la chiarezza morale e la legittimità internazionale per offrire l’unica alternativa. La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “finire il lavoro” non sarà più una minaccia; sarà una necessità, e una con il “pieno appoggio” di Trump.
Questo piano non riguarda il processo di pace; riguarda la fine del processo di pace, una frode strategica che ha premiato il rifiuto palestinese per trent’anni. Costringendo Hamas a rifiutare una via verso la vita, il piano Trump apre la strada alla necessaria fine del gruppo. È l’atto finale di un teatro dell’assurdo, e il suo fallimento sarà l’apripista per un ordine nuovo e più realistico, costruito non sulle sabbie mobili dell’illusione diplomatica, ma sul fondamento di una vittoria israeliana.
(L'informale, 30 settembre 2025)
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Un ritorno al linguaggio della fede
Il liberalismo occidentale ha cercato a lungo di bandire Dio dalla sfera pubblica.
di
Meira Kolatch
(JNS) Nel mondo occidentale è da tempo di moda trattare la fede con una sorta di imbarazzata condiscendenza, come una reliquia di un'epoca più primitiva. Qualcosa che forse era utile per ispirare la grande arte o confortare chi era in lutto, ma che non doveva essere menzionato in ambienti seri, tanto meno in compagnia di generali o capi di Stato.
Ad un certo punto, il pensiero moderno è giunto alla conclusione che fosse incivile fare riferimento a Dio. Che le preghiere fossero una cosa da bambini e predicatori televisivi. Che i miracoli fossero metafore.
Ma poi è successo qualcosa di straordinario. Nelle ultime settimane, anche il laico più incallito difficilmente potrebbe negare che siamo testimoni di eventi che sfuggono alla politica. Eventi che non possono essere spiegati con la diplomazia o la realpolitik. Eventi che, e lo dico con cautela, sembrano biblici.
Il presidente Donald Trump ha neutralizzato il cosiddetto “cuore nucleare” dell'Iran in una delle operazioni militari più audaci della storia recente. In poche ore è stata eliminata una delle più grandi minacce per il popolo ebraico dal 1945. Non solo non ci sono state vittime, ma l'operazione è stata condotta con precisione chirurgica, quasi divina. È stato un miracolo sotto ogni punto di vista.
E poi ci sono le immagini: Trump al Muro del Pianto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che parla apertamente della guida divina e l'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, che invoca Dio senza mezzi termini. Non si tratta di impressioni casuali. Sono uomini – con i loro difetti, sì, come tutti i leader – che sembrano essere molto consapevoli di far parte di qualcosa di molto più grande di loro. Che la storia è guidata da una mano che non è la loro.
Da decenni il liberalismo occidentale cerca di bandire Dio dalla sfera pubblica. La fede è stata degradata a hobby personale.
“Tienilo per te”, ci è stato detto, come se la fede in Dio non fosse altro che un hobby come il birdwatching. Ma il popolo ebraico e anche lo Stato di Israele non esistono per realismo o probabilità. Esistono per l'alleanza tra Dio e il popolo ebraico. Per la promessa. Per i miracoli.
Quello a cui stiamo assistendo non è solo un cambiamento geopolitico. È qualcosa di più profondo. Un ritorno al linguaggio della fede. Un ripristino dell'immaginazione morale. Un mondo in cui possiamo dire senza imbarazzo che il faraone ha indurito il suo cuore. Che il male esiste. E che ci sono messaggeri, shluchim, come li chiamano gli ebrei, inviati dal cielo per intervenire.
Trump, nonostante tutta la sua eccentricità, comincia ad apparire come uno di loro, proprio come Netanyahu. Non perché siano perfetti, ma perché in questo momento storico stanno colmando il vuoto, tenendo duro e salvando una nazione che ancora una volta si trovava sull'orlo del baratro.
L'istinto ebraico, plasmato dall'esilio e dai pogrom, era quello di ritirarsi dalle manifestazioni pubbliche di fede. Attenersi alle regole di un mondo secolare che tollera le menorah come decorazione, ma non come professione di fede. Ma questo non è più sostenibile. La fede non è più facoltativa. È la lente attraverso la quale ora deve essere compresa la realtà. L'Iran non è una minaccia solo per l'uranio. È una minaccia a causa della sua ideologia, radicata nella fede teocratica che il popolo ebraico debba essere sterminato. Combattere un odio simile senza il linguaggio di Dio significa andare in battaglia con un'armatura incompleta. Il nemico è spirituale. E così deve essere anche la risposta.
I cristiani in America lo hanno capito da tempo. Camminano coraggiosamente nel mondo con la loro Bibbia. Votano secondo i loro valori. Costruiscono movimenti incentrati sulla preghiera. E non se ne vergognano. È ora che il popolo ebraico, in particolare coloro che ricoprono posizioni influenti, facciano lo stesso. È ora di smettere di sussurrare il nome di Dio come se fosse un peso e di pronunciarlo invece, come un tempo, con riverenza e orgoglio.
C'è un motivo per cui il Muro del Pianto è ancora in piedi e un motivo per cui è diventato teatro di questa guerra, una guerra che non è solo per la terra o la sicurezza, ma per la verità, per la luce e per la fede stessa.
Quindi sì, diciamolo chiaramente: Dio è tornato. E prima lo accoglieremo nei nostri titoli, nella nostra politica e nelle nostre anime, prima capiremo cosa sta realmente accadendo. Non solo in Israele. Non solo in Iran. Ma nel cuore della storia.
Let's make faith great again.
(Israel Heute, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Perché sono sionista e rivendico il mio diritto a esserlo
di Stefano Piazza
Essere sionista, nel 2025, è diventato per molti una colpa da cui difendersi, un’accusa da respingere. Per me, invece, è un’identità che rivendico con fierezza e con piena consapevolezza storica. Sionista non come insulto, ma come definizione legittima di appartenenza a un movimento che ha garantito al popolo ebraico ciò che per secoli gli è stato negato: la possibilità di vivere libero, sovrano e autodeterminato nella propria terra.
Il sionismo non nasce come ideologia di conquista, ma come movimento di liberazione nazionale. È la risposta a secoli di persecuzioni, ghettizzazione e pogrom in Europa e in Medio Oriente, fino all’apice dell’orrore della Shoah. Theodor Herzl, padre del sionismo politico, lo aveva capito già a fine Ottocento: finché gli ebrei fossero rimasti una minoranza dispersa, nessuna emancipazione, nessuna promessa di integrazione avrebbe potuto proteggerli dall’antisemitismo. La storia gli ha dato ragione in modo tragico.
Il ritorno a Sion non è stato un capriccio moderno, ma la concretizzazione di un sogno millenario. Nelle preghiere quotidiane, nel ricordo collettivo, nella cultura ebraica, Gerusalemme non è mai stata solo un simbolo: è stata sempre un luogo vivo, atteso, reclamato. Il sionismo ha trasformato quella speranza in un progetto politico. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, il Mandato britannico e le migrazioni forzate, lo Stato di Israele è stato proclamato nel 1948 e riconosciuto dalle Nazioni Unite come patria del popolo ebraico.
Essere sionista oggi significa, quindi, difendere un diritto fondamentale: che Israele esista e viva in sicurezza. Non è odio verso altri, non è negazione dei diritti palestinesi, non è arroganza coloniale. È la semplice affermazione che il popolo ebraico, come tutti i popoli, ha diritto a un focolare nazionale. Eppure, troppo spesso, il termine “sionismo” viene rovesciato in insulto, in etichetta da additare per delegittimare Israele e chi lo sostiene.
Per questo rivendico il mio diritto a essere sionista. Perché nessuno dovrebbe vergognarsi di difendere l’esistenza di uno Stato nato dopo secoli di oppressione e dopo lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei. Perché non accetto che, nel XXI secolo, si cerchi di negare a Israele ciò che è considerato naturale per ogni altro Paese: la legittimità a esistere e a difendersi.
Essere sionista significa anche rifiutare la manipolazione storica che riduce Israele a un intruso. La guerra del 1948 e i conflitti successivi non sono stati causati dall’idea stessa di Israele, ma dal rifiuto di accettarne l’esistenza. Ancora oggi, i movimenti che invocano la “liberazione della Palestina dal fiume al mare” non chiedono due Stati, chiedono la cancellazione di Israele. Davanti a questa minaccia, il sionismo resta l’unica risposta possibile.
Naturalmente il sionismo, come ogni movimento nazionale, non è stato privo di errori e contraddizioni. Ha conosciuto correnti diverse, dal socialismo dei kibbutz al revisionismo più rigido. Israele, nella sua storia, ha commesso scelte discutibili e politiche contestate. Ma nessuno di questi elementi può cancellarne la legittimità. Non si chiede agli italiani di rinnegare il Risorgimento per gli errori del Regno d’Italia, né ai francesi di vergognarsi della Rivoluzione perché sfociò nel Terrore. Allo stesso modo, il sionismo non si misura solo dalle sue imperfezioni, ma dalla sua ragion d’essere: garantire al popolo ebraico un futuro.
Io sono sionista perché credo che la sicurezza ebraica non sia negoziabile, e perché so che senza Israele gli ebrei del mondo sarebbero ancora una minoranza vulnerabile, facile bersaglio dell’odio. Sono sionista perché non accetto che l’unico Stato ebraico venga trattato con parametri diversi da quelli applicati a ogni altra nazione. Sono sionista perché, in un tempo in cui l’antisemitismo torna a crescere sotto nuove maschere, il sostegno a Israele è una forma di resistenza morale. Il sionismo, infine, non è chiusura ma apertura. Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi, significa piuttosto cercare un equilibrio in cui due popoli possano vivere fianco a fianco. Il rifiuto del sionismo, invece, non porta pace: porta solo all’illusione che un popolo intero possa essere cancellato. E mentre il mondo discute, Hamas giura apertamente di voler ripetere i massacri del 7 ottobre ancora e ancora. Questo è il terrore che Israele e il mondo libero devono affrontare: la minaccia dichiarata di chi non vuole la pace, ma la distruzione. Ed è per questo che io sono, e resto, sionista.
(L'informale, 29 settembre 2025)
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Israele rafforza i legami con Paraguay e Serbia
di Nina Prenda
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Aleksandar Vučić con Netanyahu
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La scorsa settimana, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente del Paraguay, Santiago Peña, a New York.
Durante il primo incontro, il Primo Ministro ha discusso con il presidente Vučić i modi per estendere la cooperazione tra Israele e Serbia, in particolare nei settori della sicurezza e del commercio.
“Il primo ministro Netanyahu ha espresso la sua gratitudine al presidente Vučić per il suo incrollabile sostegno agli sforzi di Israele per liberare tutti gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, incluso Alon Ohel, che detiene la cittadinanza serba”, ha detto una dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu.
“Il Primo Ministro ha condiviso con il presidente della Serbia i dettagli della sua conversazione con i genitori di Alon, a seguito della diffusione da parte di Hamas di un video che mostra il loro figlio nella brutale prigionia dell’organizzazione terroristica”, ha aggiunto.
Separatamente, Netanyahu ha incontrato il presidente del Paraguay, Santiago Peña.
L’ufficio del Primo Ministro ha detto che i due hanno discusso l’espansione della cooperazione tra Israele e Paraguay in una varietà di settori: sicurezza, tecnologia, energia e altro ancora.
“Il Primo Ministro Netanyahu ha ringraziato il presidente Peña per il suo incrollabile sostegno a Israele e la sua ferma posizione contro l’antisemitismo e contro il terrore, che è stata espressa anche nelle designazioni del Paraguay dell’IRGC, di Hezbollah e di Hamas come organizzazioni terroristiche”, ha aggiunto la dichiarazione.
“Il Primo Ministro ha espresso il suo apprezzamento per la ferma opposizione del Paraguay al pregiudizio anti-israeliano presso le Nazioni Unite, la Corte penale internazionale e altri organismi internazionali”.
Durante la sua visita negli Stati Uniti, Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York venerdì e lunedì incontrerà il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca.
(Bet Magazine Mosaico, 29 settembre 2025)
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Tesoro d'oro rinvenuto sul lago di Tiberiade
Gli archeologi hanno rinvenuto sul lago di Tiberiade un tesoro d'oro composto da circa 100 monete. Il ritrovamento è stato piuttosto casuale.
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Il ritrovamento comprende circa 100 monete e diversi frammenti di gioielli.
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HIPPOS – Durante uno scavo nell'antica città di Hippos, gli archeologi hanno fatto una grande scoperta. Come comunicato la scorsa settimana dall'Università di Haifa, nell'insediamento situato a circa 2 chilometri a est del lago di Tiberiade sono state rinvenute circa 100 monete d'oro e decine di frammenti di gioielli. Gli scienziati datano il ritrovamento all'inizio del VII secolo.
Come riporta il “Times of Israel”, il ritrovamento è stato casuale. Secondo quanto riportato, un collaboratore ha trovato per caso il tesoro di monete con il suo metal detector, lontano dall'attuale scavo, quando ha urtato accidentalmente una pietra con l'apparecchio. Il metal detector ha improvvisamente iniziato a emettere un segnale acustico, segno inequivocabile di aver trovato qualcosa. “Il dispositivo è impazzito”, riporta il quotidiano online citando l'archeologo. E continua: “Non potevo crederci: una moneta d'oro dopo l'altra continuava ad apparire”.
• Monete rare
Gli archeologi ipotizzano che il tesoro appartenesse a un ricco abitante della città, forse un orafo. Quest'ultimo potrebbe aver nascosto le sue monete dai Sasanidi, che conquistarono la città nel 614. Le monete risalgono al periodo bizantino. Alcune sono databili all'epoca dell'imperatore Giustino I (518-527). Le monete più recenti risalgono al primo periodo del regno dell'imperatore Eraclio (610-613).
Il co-direttore dello scavo, Michael Eisenberg, ritiene che la particolarità del ritrovamento risieda soprattutto nella varietà delle monete. Alcune monete sono state trovate finora solo molto raramente in Israele. Nel complesso, gli archeologi sperano che il ritrovamento fornisca nuove informazioni sul periodo bizantino in Israele.
I resti di Hippos si trovano nel Parco Nazionale di Sussita. Si trovano su una collina alle pendici delle alture del Golan, a est del lago di Tiberiade e di fronte al kibbutz Ein Gev. La città fu fondata intorno al 250 a.C. e raggiunse il suo apice durante il dominio romano e bizantino. Dopo la conquista musulmana continuò ad esistere fino a quando non fu distrutta da un forte terremoto.
Sussita è anche considerata una delle dieci città più importanti per i pellegrini cristiani, poiché si presume che sia la “città sulla collina” del discorso di Gesù sul Monte delle Beatitudini. Durante il periodo bizantino era la città cristiana centrale nella regione del lago di Tiberiade e fungeva da sede vescovile. Gli archeologi stanno studiando il sito da circa 20 anni. (mas)
(Israelnetz, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’antisemitismo che non si vede, ma logora
di Andrea Molle
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento sottile ma profondo nel modo in cui si manifesta l’antisemitismo negli spazi accademici: non più solo episodi clamorosi, volantini offensivi, vandalismi, ma una pressione costante, nutrita di sfumature, ambiguità e silenzi. È quella che Yael Silverstein e C. J. Block, in un articolo pubblicato recentemente sul Journal of Jewish Education, definiscono «antisemitismo contemporaneo» e che la loro analisi intende rendere visibile, costruendo una tassonomia delle esperienze antisemite che si dispiegano tra microaggressioni e manifestazioni più esplicite.
Il contributo degli autori si fonda sul quadro teorico delle microaggressioni, uno strumento concettuale che consente di indagare come certe forme lievi, quotidiane e diffuse di discriminazione — commenti ambigui, battute sugli stereotipi, allusioni contestuali, omissioni — possano configurarsi come esperienze antisemitiche reali, anche se non sempre riconosciute come tali da chi le subisce o da chi le osserva. La forza di questa prospettiva è che sposta l’attenzione dall’evento straordinario all’esperienza ordinaria: non conta solo l’attacco violento, ma anche quel piccolo gesto che, ripetuto, logora un’identità, isola una persona, trasmette un senso di non appartenenza.
Silverstein e Block elaborano una tassonomia che distingue vari livelli e modalità di antisemitismo contemporaneo nelle università: dalle forme sottili e pervasive, difficili da identificare, fino a manifestazioni più evidenti. La loro ricerca mostra che, tra gli studenti degli atenei nordamericani, gli episodi sottili prevalgono numericamente su quelli espliciti, ma entrambi — quelli “aperti” e quelli “invisibili” — producono effetti negativi sul benessere psicologico, sul senso di appartenenza e sull’impegno accademico. In altre parole, non sono gesti innocui né “deroghe tollerabili”: generano danno reale. Quasi la totalità degli studenti ebrei intervistati dichiara di aver subito almeno un episodio di questo tipo.
Questo sforzo di visibilità è rilevante non solo per chi studia l’antisemitismo, ma per chiunque voglia comprendere come oggi si costruiscano le soglie della discriminazione. L’articolo mette in guardia contro la tentazione di minimizzare o ignorare, sotto la scusa della delicatezza o della “buona intenzione”, pratiche che non esplodono in violenza ma che alimentano un clima sistemico di esclusione e marginalizzazione. Non tutte le aggressioni si manifestano con cartelli o scritte: talvolta si insinuano nei silenzi, negli sguardi, nei contesti in cui una battuta può passare per ironia, eppure lasciare un segno.
Un’opinione pubblica che accetta l’idea secondo cui “non è nulla di grave” rischia di legittimare comportamenti discriminatori mascherati. Allo stesso modo, le istituzioni accademiche che non riconoscono queste forme come parte integrante del fenomeno antisemita restano cieche a un danno collettivo: indeboliscono la fiducia di chi già si interroga sulla propria appartenenza e falliscono nel promuovere ambienti pluralisti e rispettosi.
Ciò non significa che qualsiasi critica al mondo ebraico o commento ambiguo debba essere automaticamente bollato come antisemitismo. Silverstein e Block invitano a un esercizio di discernimento: distinguere tra critica legittima, controversia politica e attacchi che replicano stereotipi, generalizzazioni o forme di isolamento sistemico. Serve uno sguardo sensibile, capace di contestualizzare senza eludere.
La rilevanza di questo contributo travalica il contesto accademico: ci ricorda che ogni comunità soggetta a discriminazione vive su un continuum che va dalla microaggressione alla violenza aperta. Negli spazi pubblici, nei media, nelle istituzioni, in ogni ambito della convivenza civile, l’attenzione ai segnali deboli non è secondaria: è parte della difesa di una comunità, ma anche della salute democratica condivisa.
In conclusione, ciò che Silverstein e Block ci consegnano è un invito alla vigilanza: l’antisemitismo contemporaneo non è scomparso, si è trasformato in forme più sottili. Riconoscerlo non significa criminalizzare ogni parola, ma assumersi la responsabilità di non sottovalutare gesti che alimentano un clima di esclusione. Un’opinione pubblica matura, un ateneo sensibile, una società viva devono saper vedere l’invisibile — e reagire non solo alla violenza esplosiva, ma anche a quella che si consuma goccia dopo goccia.
(Setteottobre, 29 settembre 2025)
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Taranto – Debutta la nuova Sezione ebraica: «La cultura porta cultura»
«La cultura porta cultura. È stato un ottimo inizio». È soddisfatta Eugenia Curiel Demattei, referente della neonata Sezione ebraica di Taranto. Domenica la città pugliese è stata protagonista di una iniziativa per la Giornata europea della cultura ebraica alla biblioteca civica Pietro Acclavio, con interventi dedicati alla storia ebraica nel territorio e al tema che fungeva da filo conduttore della Giornata di quest’anno: il popolo del libro. «C’erano tanti amici con noi e a salutarci è venuto tra gli altri il vicesindaco Mattia Giorno», sottolinea Curiel Demattei, israeliana d’origine, trapiantata da tempo nella città ionica e affiancata ieri in biblioteca dal vicepresidente Ucei Giulio Disegni, venuto a portare la vicinanza dell’ebraismo italiano e a testimoniare l’impegno dell’ente nei confronti del meridione d’Italia. «La Sezione, che dipende dalla Comunità di Napoli, è stata fondata a fine luglio e questo è stato di fatto il nostro debutto, la nostra presentazione alla cittadinanza», spiega la referente. Una presentazione calorosa: «L’ebraismo è un’identità positiva e gioiosa, fatta di stimoli culturali e anche della fragranza della challah, il pane del Sabato, che i nostri ospiti hanno potuto gustare e che certo non mancherò di riproporre in prossime circostanze». Curiel Demattei ha insegnato per anni ebraico a Taranto, a titolo volontaristico. Tra i suoi studenti, afferma, «c’era chi voleva avvicinarsi alle Sacre Scritture nella lingua originale, chi voleva riscoprire la propria identità ebraica, chi voleva andare in Israele per studiare archeologia».
Nel corso dell’evento di domenica sono state messe le basi di un nuovo progetto, in collaborazione con una delle relatrici della giornata: l’insegnante di ebraico Luisa Basevi, anima dell’Ulpan online dell’Ucei. «Chi volesse approcciarsi localmente alla lingua, potrà farlo in biblioteca per le prime quattro-cinque lezioni basiche con me», spiega Curiel Demattei. «Superata questa prima fase ci sarà poi la possibilità di proseguire online con la professoressa Basevi». Alla Giornata tarantina sono inoltre intervenuti Mariapina Mascolo, che ha parlato della presenza ebraica a Taranto dal Tardo antico all’Alto Medioevo, Maurizio Wiesel e Bernardo Kelz, che hanno raccontato la Puglia ebraica come “terra d’arrivo, di partenza, di transito”, Francesco Lucrezi, soffermatosi nella sua relazione su “Oralità e scritture nell’ebraismo”, e il rabbino capo di Napoli Cesare Moscati con una riflessione sull’argomento “Il popolo del libro: la parola e la tradizione”. Disegni condivide la soddisfazione di Curiel Demattei: «La partecipazione è stata buona e l’interesse era tangibile. Si conferma l’importanza di avere dei presidi ebraici in città con un passato fertile e voglia di rilancio. Anche tenuto conto della rilevante presenza, a Taranto e dintorni, di cittadini israeliani». a.s.
(moked, 29 settembre 2025)
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La settimana di Israele: il conflitto reale e la propaganda
di Ugo Volli
• Le battaglie in corso
La guerra di autodifesa di Israele sul terreno prosegue. A Gaza City l’esercito avanza con cautela per evitare il più possibile perdite di soldati e anche di abitanti civili, ma l’avanzata continua: ogni giorno qualche parte del difficilissimo teatro urbano di questa battaglia finale viene preso e liberato dai terroristi, le fortificazioni di Hamas sia negli edifici più alti sia sottoterra sono smantellate. Ormai oltre 800.000 del milione di abitanti della città hanno accettato l’indicazione delle forze armate israeliane a spostarsi in zone sicure, nonostante i tentativi di blocco da parte di Hamas: sia appelli verbali, sia violenze vere e proprie, inclusa la fucilazione, trasmessa online, di alcuni gazawi colpevoli secondo i terroristi di aver accettato rifornimenti alimentari provenienti da Israele. È caldo anche il fronte aereo con lo Yemen, da dove gli Houthi continuano a sparare razzi e droni contro la popolazione civile israeliana. Uno di questi droni ha colpito un albergo di Eilat, provocando danni e numerosi feriti. Israele reagisce bombardando installazioni militari, depositi di carburanti, porti da cui gli Houthi ricevono rifornimenti militari dall’Iran. Dato che Eilat è sotto attacco e che il pericolo viene soprattutto dai droni difficili da rilevare prima dell’arrivo, mentre i missili sono quasi sempre distrutti fuori dallo spazio aereo israeliano, proprio in questa città sono state installate le prime batterie della nuova difesa laser che Israele ha reso operativa per la prima volta al mondo.
• Le nuove sanzioni all’Iran
Il fronte principale nella scorsa settimana è stato però quello delle iniziative politiche, diplomatiche e mediatiche. In questo ambito bisogna distinguere gli atti esclusivamente propagandistici che colpiscono l’opinione pubblica ma hanno scarso impatto, dalle azioni politiche, giuridiche ed economiche vere e proprie, che hanno effetti reali e duraturi. In quest’ultima categoria c’è stata una sola notizia, molto importante e significativa, ma praticamente ignorata dai media: il ritorno delle sanzioni ONU all’Iran che erano state tolte dall’accordo Jcpoa del 2015. In esso era contenuta una clausola “snapback” che permetteva di reintrodurre le sanzioni in maniera pressoché automatica e a prova di veto del Consiglio di Sicurezza se alcuni dei firmatari avessero riconosciuto violazioni gravi ai limiti di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Così è accaduto e neppure il tentativo in extremis di Russia e Cina è riuscito a sabotare il meccanismo snapback. Da oggi vigono dunque le seguenti sanzioni:
- 1. Embargo sulle armi (divieto di vendita, acquisto o trasferimento di armi convenzionali, incluse restrizioni su missili balistici e tecnologie correlate).
- Restrizioni su transazioni finanziarie, commercio internazionale e investimenti esteri in settori chiave dell’economia iraniana, come quello energetico (petrolio e gas), bancario e industriale.
- Divieti di viaggio e congelamento dei beni detenuti all’estero a individui e entità iraniane coinvolti nel programma nucleare.
- Limitazioni all’accesso dell’Iran a materiali, tecnologie e attrezzature utilizzabili per lo sviluppo di armi nucleari, con un rafforzamento delle ispezioni da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
- Controlli e restrizioni su navi e aerei iraniani sospettati di trasportare materiali proibiti o legati al programma nucleare. Sono sanzioni severe, che possono colpire i terzi che commerciano con l’Iran; anche se ci saranno tentativi di aggirarle, esse potranno essere controllate dagli Usa. La ricostruzione militare dell’Iran ne sarà sensibilmente danneggiata.
• I riconoscimenti
Degli atti politici e simbolici fa parte certamente il “riconoscimento” di uno stato inesistente come quello “di Palestina”, che è stato proclamato nei giorni scorsi all’Onu da una serie di stati occidentali (Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia ecc.). Esso non ha nessuna conseguenza concreta, ed esprime solo una volontà di mostrare pubblicamente (e soprattutto al proprio elettorato interno) l’avversione a Israele. Ci saranno nei giorni prossimi certamente reazioni israeliane a questi gesti, come la chiusura dei consolati a Gerusalemme che servivano soprattutto gli arabi dell’Autorità Palestinese. Seguiranno contro-reazioni, si innescheranno scontri diplomatici e mediatici, ma il senso è chiaro fin da adesso: questi importanti stati, tutti con governi di sinistra o centrosinistra, che si proclamavano amici di Israele, non lo sono più e vogliono che sia chiaro a tutti. Come del resto Spagna, Irlanda, Brasile. Amici importanti restano gli Usa di Trump, l’Argentina, l’India, l’Ungheria, in parte la Germania e l’Italia.
• Il discorso di Netanyahu
Questa posizione si è vista anche durante un altro importante atto simbolico, il discorso di Netanyahu all’Onu. Seguendo un copione consolidato, ma anche le istruzioni contenute in una lettera della delegazione dell’Autorità Palestinese rivelata alla stampa, tutti gli stati musulmani, ma anche Cina, Russia e molti stati africani sono usciti dall’aula per non sentire le posizioni israeliane. Per la prima volta ad essi si sono uniti la Gran Bretagna, la Francia, l’Australia, l’Irlanda, la Spagna, il Belgio, la Slovenia, che di solito non partecipavano alla sceneggiata. Il discorso di Netanyahu è stato molto bello e chiarissimo. Partendo dalla situazione dell’anno scorso, ha ricordato le vittorie di Israele e la possibilità di pace che hanno aperto con Siria e Libano e in futuro magari con un Iran liberato dalla dittatura degli ayatollah. Netanyahu ha rivendicato il diritto di Israele all’autodifesa, ha spiegato che bisogna finire il lavoro a Gaza per evitare nuovi assalti terroristici, ha fatto molti paragoni con la situazione degli Usa e in particolare con l’11 settembre, rivolgendosi al pubblico americano. Ma si è indirizzato anche agli israeliani e in particolare agli ostaggi, premettendo a tutto l’impegno alla loro liberazione. Ha escluso la possibilità di lasciare Hamas al governo della Striscia ma anche la sua sostituzione con l’Autorità Palestinese, e in particolare la trasformazione in Stato di quest’ultima, citando i sondaggi che danno l’80% di gradimento a Hamas fra i suoi sudditi. Ha escluso che Israele possa cambiare politica se il suo governo cadesse, sottolineando il consenso al 90% della Knesset per il rifiuto dello “Stato di Palestina”. Ha rinnovato la speranza di un Medio Oriente pacificato e prospero dopo la vittoria di Israele, aprendo agli Stati Islamici moderati e alle iniziative di Trump, con cui dovrà discutere le ultime proposte americane nel corso dell’incontro di lunedì.
• La flottiglia
Fra le iniziative propagandistiche che hanno un’eco mediatica di gran lunga superiore alla propria importanza reale, primeggia la “flottiglia” detta Samud (che, pochi lo sanno, è una parola che indica la resilienza o la determinazione – evidentemente quella di Hamas contro Israele). Il rifiuto della proposta israeliana di scaricare nel porto di Ashdod le (pochissime) merci trasportate come “soccorso per Gaza”, come pure quella della Chiesa di lasciarle a Cipro, sempre con la garanzia di consegna ai gazawi, ha messo in luce il progetto esclusivamente politico e non umanitario dell’iniziativa: “rompere il blocco israeliano”. Ma naturalmente si tratta di un obiettivo solo propagandistico, senza alcuna possibilità di realizzazione. La marina israeliana è perfettamente in grado di bloccare senza violenza le barche e di arrestare i loro equipaggi (che entrando in acque di guerra soggetta a blocco navale compiono un reato), come ha sempre fatto. Incidenti potrebbero scoppiare solo se, come accadde alla nave turca “Mavi Marmara” di un’analoga flottiglia nel 2010, ci fosse una resistenza violenta contro i marinai israeliani. È comunque probabile che di questa montatura propagandistica dovremo riparlare perché la flottiglia da settimane sta ritardando il viaggio, in maniera da raccogliere il maggior eco di comunicazione, magari col progetto di far coincidere il suo arrivo e gli arresti col secondo anniversario del 7 ottobre, in maniera tale da coprirne il ricordo.
(Shalom, 28 settembre 2025)
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Discorso di Gesù della fine dei tempi sul Monte degli Ulivi
Quando Gesù Cristo annunciò profeticamente la distruzione del Tempio sul Monte degli Ulivi, le sue parole si adempirono con sconvolgente precisione. Un'interpretazione.
di Roger Liebi
Il martedì che precedette il Venerdì Santo, il Signore Gesù Cristo trascorse l'intera giornata nel Tempio di Gerusalemme. Fu una giornata particolarmente intensa, colma di tensione spirituale e conflitti aperti. Diversi gruppi religiosi ebraici si avvicendarono per sfidarlo: cercarono, con argomentazioni sottili e trappole verbali, di metterlo in difficoltà, di screditarlo davanti al popolo, e, in ultima analisi, di farlo cadere. I Vangeli sinottici riportano in modo dettagliato le dispute di quella giornata, che si estendono in una
narrazione continua e drammatica: (cfr. Matteo 21:23; 23:39; Marco 11:27; 12:44; Luca 19:47; 21:4). Alla fine di quella lunga giornata, si delineò chiaramente un fatto drammatico: la maggior parte dei capi religiosi d'Israele aveva rigettato Gesù come Messia. La sua autorità non fu riconosciuta, la sua missione fraintesa o volutamente respinta. Quando il Signore lasciò il Tempio, rivolse ai Suoi discepoli un annuncio sconvolgente: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata» (Matteo 24:2) (cfr. anche Marco 13:2; Luca 21:6).
Questo annuncio profetico non era solo un monito: era la rivelazione di una catastrofe nazionale imminente, il segno concreto della conseguenza del rifiuto del Salvatore promesso. Il Tempio - cuore pulsante del culto e dell'identità d'Israele sarebbe stato distrutto.
Terminata la sua uscita dal santuario, Gesù e i suoi discepoli attraversarono la valle del Cedron e si diressero verso il Monte degli Ulivi, sul versante opposto. Da quella collina, più elevata rispetto al Monte del Tempio, si può godere la vista più maestosa della spianata sacra. Quel luogo, silenzioso e sopraelevato, divenne teatro di uno dei discorsi più profondi del Signore: il cosiddetto discorso escatologico.
I discepoli, turbati e colmi di domande, si rivolsero al loro Maestro con inquietudine. La sola idea della distruzione del Tempio - centro spirituale e simbolico della nazione - era per loro impensabile. E così, in privato, Gli posero quattro domande fondamentali, domande che toccano il cuore stesso della fede, della storia e del destino dell'umanità.
• Quattro domande
- Quando avrà luogo la distruzione del tempio? (Matteo 24,3; Marco 13,4; Luca 21,7)
- Quale sarà il segno della distruzione del tempio? (Luca 21,7)
- Qual è il segno del tuo ritorno? (Matteo 24,3; Marco 13,4)
- Qual è il segno della fine dei tempi? (Matteo 24,3; Marco 13,4)
Queste domande possono essere divise in due gruppi: le domande 1 e 2 riguardano la distruzione del tempio.
Le domande 3 e 4 sono relative alla fine dei tempi.
Le domande 1 e 2 riguardano gli eventi successivi alla prima venuta di Gesù 2.000 anni fa, mentre le domande 3 e 4 riguardano gli eventi precedenti alla seconda venuta di Gesù come Re del mondo.
Le domande 1 e 2 si riferiscono al periodo che la Bibbia descrive come «l'inizio dei tempi», mentre le domande 3 e 4 si riferiscono alla «fine dei tempi». Nessuno dei Vangeli menziona tutte e quattro le domande. È necessario considerare tutti i resoconti sinottici nel loro insieme per ottenere un quadro completo.
• Dall'inizio alla fine
In risposta alle domande dei discepoli, il Signore Gesù tenne il cosiddetto discorso del Monte degli Ulivi. Questo discorso è riportato in tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo 24-25; Marco 13; Luca 21), sebbene con accenti differenti, come avviene sempre nei racconti evangelici paralleli.
Prima di rispondere alle quattro domande, il Signore mise in guardia in modo generale i suoi seguaci dal pericolo della seduzione da parte di falsi messia:
«Gesù rispose loro: "Guardate che nessuno vi seduca! Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: 'Io sono il Cristo'; e ne sedurranno molti» (Matteo 24,4-5).
Il termine «Cristo» (dal greco christos) usato nel testo è l'equivalente greco della parola ebraica «Messia». Nella tradizione ebraica, il Messia è il redentore promesso, l'unto da Dio come re, sacerdote e profeta
Secondo Matteo 24:5, dopo la venuta di Gesù Cristo (circa duemila anni fa), sarebbero comparsi molti che avrebbero affermato di essere il compimento delle profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Redentore.
In questo punto, il riferimento ai falsi messia non rappresenta ancora un segno della fine dei tempi; tale segno viene menzionato solo in Matteo 24:24 (cfr. anche Marco 13:22). Si tratta invece di un avvertimento generale, valido in ogni epoca, sin dall'«inizio» fino al tempo della «fine».
Il primo vero segno degli ultimi tempi viene introdotto nel versetto seguente, ed è preceduto dalla congiunzione greca «de» (tradotta «ma» o «però»), che lo distingue dall'ammonimento precedente: «Ma voi udirete parlare di guerre e di rumori di guerre ... » (Matteo 24:6).
Come conseguenza del rifiuto del vero Messia, nella storia del giudaismo - dal tempo della venuta di Gesù fino a oggi - sono apparsi più di 50 falsi messia. Alcuni di loro sono riusciti a trascinare grandi masse del popolo ebraico con inganno e seduzione.
Segue un elenco che riporta oltre cinquanta falsi messia comparsi negli ultimi duemila anni, con l'indicazione tra parentesi del periodo in cui sono apparsi (d.C.).
Theudas (44-46) Il Messia d'Egitto (tra il 52-58) Il profeta senza nome (59) Menachem il Galileo (circa 66) Jonathan il Tessitore (dopo il 70) Lukuas (115) Bar Kochba (ca. 100-135 d.C.) Il Messia-Mosè di Creta (440-470) Il Messia della Siria (circa 643) Abu Isa di Isfahan, Persia (684-705) Sereno di Siria (circa 720) Yudghan di Hamad, Persia (circa 800) Mushka (850) Menachem, Kazakistan (1000) Il Messia di Le6n, Spagna (1060) Ibn Ayre di Cordova, Spagna (noo'Chadd, Iraq (1100) Chadd, Irak (1100) Moshe al Dar'l del Marocco (1120) Il Messia illetterato dello Yemen (1192 David Alroy del Kurdistan (1120-1147) Abraham Abulafia, Spagna (1240-1291) Samuel di Ayllon, Spagna (1290) Nissim Ben Abraham, Spagna (1295) Moses Botarel, Spagna (1393) Rabbino Joseph Karo, Spagna (1488-1575) Il Messia dello Yemen meridionale (1495) Asher Lemmlein, Reutlingen (1500-1502) Shlomo Molkho, Portogallo (1500-1532) Ludovico Luis Diaz, Portogallo (1540) Isacco Luria Ashkenazi, Safed/Israele (1534-1572) Chajim Vital Calabrese (1542-1620) Shabbetai Zwi, Smirne (1626-1676) Suleiman Jabal, Yemen (1666) Miguel Cardoso, Creta (1630-1706) Moshe Chajim Luzzato, Padova (1707-1747) Nehemia Chija Chajun, Amsterdam (1650-1726) Jacob Filosofi (ca. 1650-1690) Mordechai Mokia, Eisenstadt (1650-1729) Jacob Querido, Turchia(? - 1690) Berechja (1740; figlio di Filosofi) Baruchja Russo (ca. 1720) Jacob Joseph Frank, Leopoli (1726-1791) Lobele Prossnitz (? - 1750) Rachel Frank (1770) Baal Shem Tov (1700-1760) Rabbino Nachman di Bratslav (1772-1811) Rabbino Israel di Rhuzin (1797-1850) Rabbino Itzak Eizik di Komarno (1806-1874) Shukr Ben Salim Kuhayl I, Yemen (1821-1865) Shukr Kuhayl II, Yemen (1867) Rabbino Menachem Mendel Schneerson, New York (1902-1994)
La tragedia del successo seducente di questi falsi Cristi dimostra che coloro che rifiutano la verità corrono il grave rischio di cadere nell'errore e di diventare vittime autoinflitte della seduzione (cfr. Giovanni 5,43)! Questo è un principio che si applica a tutti.
• Il Discorso sui Templi
Nel Vangelo di Matteo, capitolo 24, il Signore Gesù non affronta nel dettaglio le prime due domande poste dai discepoli riguardo alla distruzione del Tempio. Tuttavia, nel passo parallelo del Vangelo di Luca (capitolo 21), vi è un chiaro accento su questo tema.
In effetti, la questione del segno che preannuncia la distruzione del Tempio è menzionata esplicitamente solo da Luca:
«Maestro, quando dunque avverranno queste cose? E quale sarà il segno che queste cose stanno per compiersi?» (Luca 21:7).
Nei versetti successivi (Luca 21:8-11) - così come nei brani paralleli di Matteo 24 e Marco 13 - Gesù descrive i segni che anticiperanno la fine dei tempi, o meglio, l'inizio delle doglie di parto che precederanno l'instaurazione dell'era messianica. Tuttavia, in Luca 21:12 si verifica un'importante inversione cronologica. Il versetto introduce un vero e proprio flashback rispetto agli eventi della fine:
Questa indicazione temporale va osservata con attenzione. I versetti 12-19 contengono infatti dichiarazioni profetiche che si sono adempiute con precisione tra il 32 e il 68 d.C., nel periodo immediatamente successivo alla risurrezione di Cristo. Un breve parallelo si trova in Marco 13:9-11, ma per il resto, questo passaggio rappresenta un tratto distintivo del Vangelo di Luca.
Consideriamo da vicino le parole del Signore:
«Ma prima di tutte queste cose, metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza.» (Luca 21:12-13).
Nel brano parallelo di Marco 13:9, il riferimento è ampliato con la menzione del Sinedrio:
«Badate a voi stessi, perché vi consegneranno ai tribunali; sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro» (Marco 13:9).
In risposta alla domanda su quando sarebbe stato distrutto il Tempio, Luca 21:12 e seguenti descrivono gli eventi che lo avrebbero preceduto. Solo dopo l'adempimento di questi eventi, la distruzione avrebbe potuto avere luogo.
Gesù annuncia ai suoi discepoli ebrei un tempo di persecuzione intensa. Essa sarebbe provenuta inizialmente dall'interno del giudaismo stesso. Questo è evidente dalla menzione delle sinagoghe come luoghi di giudizio e dal riferimento ai tribunali ebraici - il Sinedrio incluso.
Fino all'anno 70 d.C., i cristiani furono perseguitati in modo particolare dalle autorità ebraiche. Ma con la caduta di Gerusalemme, si verificò un cambiamento profondo: da quel momento, furono gli ebrei stessi a diventare oggetto di persecuzioni, per secoli.
Dopo la crocifissione e la risurrezione di Gesù nella primavera del 32 d.C., nacque la comunità di Dio - la Chiesa. Le sue radici affondano nel giorno di Pentecoste di quello stesso anno, come descritto in Atti 2. In origine, questa comunità era formata esclusivamente da ebrei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia.
Nei primi decenni, decine di migliaia di ebrei giunsero alla fede in Cristo (cfr. Atti 2:41; 4:4; 6:7; 21:20). I capitoli da Atti 3 a 8 (tra il 32 e il 33 d.C.) narrano di come i primi ebrei messianici furono perseguitati, trascinati davanti al Sinedrio, imprigionati, e come questa persecuzione si trasformò in occasione di testimonianza.
Stefano fu il primo martire della Chiesa (Atti 7:54-8:1), dopo aver proclamato con potenza la gloria del Messia davanti alla corte suprema d'Israele. A seguito della sua morte, la persecuzione si intensificò, costringendo quasi tutti i cristiani a fuggire da Gerusalemme (Atti 8:1-3). In questo contesto, Saulo di Tarso (il futuro apostolo Paolo) giocò un ruolo centrale nella repressione, conducendo molti ebrei cristiani davanti ai tribunali locali (Atti 26:11).
In Luca 21:12 e Marco 13:9, il Signore non menziona solo sinagoghe e consigli, ma anche interrogatori davanti a governatori e re. Questo trova conferma nel racconto di Atti 23, in cui Paolo deve difendersi davanti al governatore romano Felice (anno 58). Ma il testo biblico parla di «governatori» al plurale: dunque, almeno un altro caso è atteso. E infatti, in Atti 25, Paolo si presenta davanti a Porcio Festo, successore di Felice, nell'anno 59.
Infine, Luca 21:12 menziona anche processi davanti a re, elemento fino ad allora mancante. Ma nell'anno 60, l'apostolo Paolo viene portato davanti al re Agrippa (Atti 26), adempiendo così pienamente la profezia di Gesù.
Anche questo gli diede l'opportunità di annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo a quest'uomo di alto rango, proprio come aveva fatto in precedenza con i governatori (Atti 26). Questa sarebbe stata la prova di un processo davanti a un re. Tuttavia, Luca 21:12 parla di «re» al plurale, intendendo almeno due.
Poiché Paolo si era appellato alla corte suprema dell'Impero Romano per ottenere giustizia (Atti 25:11), dovette essere condotto davanti all'imperatore nella capitale dell'impero, al re di tutti i re dell'impero mondiale a lui soggetti (Atti 25:12-28:31). Una volta a Roma, Paolo dovette attendere «due anni interi» (Atti 28:30) per il processo, fino all'anno 62. Secondo il diritto romano, gli accusatori dovevano comparire in giudizio entro «due anni interi», altrimenti l'accusato avrebbe dovuto essere assolto.
A quanto pare, i capi sacerdoti di Gerusalemme che accusarono Paolo non comparvero mai davanti all'imperatore a Roma. Pertanto, nella sua lettera ai Filippesi, scritta intorno al 62 d.C., Paolo poté annunciare la sua imminente assoluzione da parte dell'imperatore Nerone (Filippesi 1:12-14, 26; 2:24). Paolo poté anche rendere testimonianza di Gesù Cristo davanti all'imperatore, il re supremo di Roma (Filippesi 1:12-14).
A quel tempo, tutte le predizioni di Luca 21:12-13 si avverarono. Nell'anno 62, il tempo della distruzione del tempio era già molto vicino, che - come sappiamo a posteriori - sarebbe avvenuta nel 70 d.C. Descrivendo la prima persecuzione dei cristiani e le varie prove che si sarebbero susseguite, il Signore Gesù rispose alla domanda sul momento della distruzione del tempio nel suo Discorso sul Monte degli Ulivi. Mentre Luca 21:12-19 risponde quindi alla domanda «Quando sarà distrutto il tempio?» chiarisce la domanda: «Quale sarà il segno della distruzione del Tempio?»
«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea, fuggano sui monti; e quelli che sono in città, se ne allontanino; e quelli che sono nella campagna non entrino nella città. Perché quelli sono giorni di vendetta, affinché si adempia tutto quello che è stato scritto. Guai alle donne che saranno incinte, e a quelle che allatteranno in quei giorni! Perché vi sarà grande calamità nel paese e ira su questo popolo. Cadranno sotto il taglio della spada, e saranno condotti prigionieri fra tutti i popoli; e Gerusalemme sarà calpestata dai popoli, finché i tempi delle nazioni siano compiuti» Luca 21:20-24.
La storia conferma queste precise previsioni in ogni dettaglio:
La rivolta ebraica contro l'occupazione romana scoppiò nel 66 d.C. Intorno al 73 d.C., fu definitivamente e brutalmente schiacciata dalla drammatica caduta di Masada. Tutto iniziò con una spontanea rivolta popolare. La situazione politica era da tempo estremamente tesa. L'ultimo fattore scatenante per lo scoppio della rabbia popolare ebraica fu quando Gessio Floro, l'ultimo governatore romano a governare la Giudea, iniziò a saccheggiare il tesoro del Tempio a Gerusalemme. Inizialmente, i ribelli ottennero un grande successo. La conseguenza, tuttavia, fu che l'imperatore Nerone inviò Vespasiano, uno dei suoi migliori generali, con un grande esercito nella zona ribelle. All'inizio dell'estate del 67, Vespasiano, l'ex conquistatore della Britannia, arrivò nel nord del paese. Prima, Jodphat in Galilea fu sconfitta dai Romani, poi cadde Gush Halav e, alla fine dell'estate, cadde anche Gamla sulle alture del Golan.
Con la conquista di queste importanti città, la Galilea tornò finalmente sotto il controllo romano. Vespasiano si assicurò poi la Samaria. In Transgiordania, bloccò le strade per la Giudea. Poi si spostò lungo la fascia costiera e conquistò Giaffa, Yavne e Ashdod. Tutti questi eventi si verificarono nel 167.
• Gerusalemme circondata
Nel corso del 68, Vespasiano circondò progressivamente il centro della Giudea, la città di Gerusalemme. Ad eccezione di Macheronte, occupò tutta la Transgiordania e la riva occidentale del Giordano, comprese Gerico e Qumran. A ovest, conquistò l'intera Sefela, partendo dalle città costiere.
Anche le città di Lod, Emmaus e Beth Guvrin caddero in mano romana. Furono istituiti posti di blocco lungo le
principali arterie stradali nel resto della Giudea per impedire agli ebrei di lasciare la zona.
Nell'estate del 68, tuttavia, l'imperatore Nerone si suicidò.
Scoppiarono disordini nell'Impero Romano, che rallentarono la lotta contro gli ebrei. Lo stato d'assedio rimase sostanzialmente invariato. Nel luglio del 69, Vespasiano fu proclamato imperatore da gran parte dell'esercito. Successivamente lasciò la zona di guerra per recarsi a Roma, da dove rivendicò il suo diritto al trono in tutto l'impero.
• Fuga in montagna
Gerusalemme era ormai circondata da accampamenti militari romani, ma sorprendentemente, le ostilità sembravano essersi fermate. La guerra, pur scoppiata, si era come cristallizzata: per un periodo, tutto rimase in sospeso. Gli ebrei che avevano riconosciuto Gesù come il Messia compresero che ciò che stava accadendo corrispondeva esattamente alle parole da Lui pronunciate:
«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina» (Luca 21:20).
Alla luce di questa profezia, ebbe luogo un esodo di massa: migliaia di ebrei messianici fuggirono da Gerusalemme e dalla Giudea, obbedendo al comando di Gesù:
Le montagne verso le quali fuggirono erano situate prevalentemente nell'attuale Cisgiordania. Molti trovarono rifugio a Pella, una città della regione della Decapoli, al di là del Giordano. Qui furono accolti e protetti da re Agrippa II, che li riconobbe come cittadini pacifici e non sovversivi.
È significativo ricordare che, in un momento precedente, durante il suo processo riportato in Atti 26, l'apostolo Paolo aveva rivolto ad Agrippa un'appassionata testimonianza del Vangelo. Anche se il re non accolse la salvezza, rispondendo con una nota di sarcasmo:
«Per poco non mi persuadi a diventare cristiano!» (Atti 26:28), quel discorso non fu vano. Sebbene Agrippa non si convertì, le parole di Paolo contribuirono a dissipare i sospetti romani verso i cristiani, rendendo possibile, anni dopo, che il re vedesse con favore quegli ebrei credenti fuggiti da Gerusalemme.
Così, quel discorso divenne per molti una salvezza non dell'anima, ma della vita. Il risultato fu straordinario: non risulta che un solo ebreo messianico sia perito durante la catastrofica distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. La loro fede nel Messia Gesù e la fiducia nella Sua parola profetica contenuta in Luca 21 salvarono loro la vita.
Lo stesso Vangelo di Luca fu redatto e pubblicato prima del 62 d.C., ben prima dell'inizio della guerra giudaica del 66-73 d.C.. Ciò significa che la profezia di Gesù era già nota e condivisa tra gli ebrei cristiani in Israele, costituendo una guida vitale nei momenti decisivi. Fu, letteralmente, una parola che salvò.
• Guerra per Gerusalemme
Nel luglio del 70 d.C., Vespasiano salì definitivamente al potere come imperatore di Roma. Aveva già affidato a suo figlio Tito il compito di portare a termine la guerra contro gli ebrei. Nella primavera dello stesso anno, Tito raggiunse la zona di guerra, pronto a colpire il cuore della resistenza: Gerusalemme.
L'assalto alla città cominciò da nord, il punto meno fortificato. Il primo obiettivo fu il terzo muro, che una volta abbattuto permise ai legionari romani di conquistare i sobborghi esterni. Dopo questo, anche il secondo muro cadde sotto l'avanzata. Uno degli obiettivi più strategici era la fortezza Antonia, allora occupata dalle forze ebraiche, situata immediatamente a nord della spianata del Tempio. La sua riconquista fu decisiva: da lì, i romani potevano controllare tutto il quartiere del Tempio.
Ancor prima di lanciare l'assalto finale al santuario, Tito intraprese una feroce battaglia per conquistare anche la Città Alta, dove oggi si trova il quartiere ebraico di Gerusalemme. Ma fu durante l'estate del 70, che si consumò il momento più tragico: il 9 di Av, secondo il calendario ebraico, il Tempio prese fuoco.
La data ha un significato profondamente simbolico. Quel medesimo giorno, secoli prima, il Primo Tempio, costruito da Salomone, era stato distrutto dai Babilonesi. Il 9 di Av era già allora il giorno annuale di lutto nazionale per la caduta del santuario. Dopo il 70 d.C., questa data continuò a rappresentare il giorno del ricordo della perdita del Tempio, per oltre 2.500 anni. Una coincidenza tanto potente da diventare, per il popolo ebraico, una ferita sacra nella memoria collettiva.
Deportazione e dispersione Dopo la feroce battaglia per la conquista del Tempio, i Romani si concentrarono sull'eliminazione delle ultime sacche di resistenza nella Città Alta. Una volta completata la presa di quel settore, Gerusalemme fu definitivamente sottomessa. Fu allora che ebbe inizio una delle deportazioni più drammatiche della storia ebraica.
Lo storico Giuseppe Flavio riporta che circa 97.000 ebrei furono fatti prigionieri e condotti in varie regioni dell'Impero Romano per essere venduti come schiavi. Il numero era così elevato che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto l'Impero. Gesù aveva profetizzato con chiarezza questa tragedia:
«Cadranno sotto i colpi della spada, saranno condotti prigionieri fra tutte le nazioni, e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (Luca 21:24).
Dopo l'anno 70, iniziò un processo di diaspora che avrebbe segnato l'identità ebraica per secoli. Il popolo d'Israele
fu disperso gradualmente in ogni angolo del mondo conosciuto, fino a raggiungere tutti e cinque i continenti.
Era l'inizio di una lunga attesa, un cammino nella storia segnato da sofferenze, persecuzioni e speranze, ma anche da una promessa che, secondo le Scritture, non è venuta meno.
• «Calpestando Gerusalemme»
Il Messia Gesù aveva predetto con precisione sorprendente il tragico corso della storia di Gerusalemme, da quel primo secolo fino all'epoca contemporanea.
Le Sue parole, pronunciate secoli fa, mantengono una forza profetica impressionante: «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei Gentili siano compiuti» (Luca 21:24).
L'espressione «i tempi dei Gentili» si riferisce al periodo durante il quale il dominio politico e militare non apparterrà al popolo eletto, ma sarà nelle mani di imperi umani, spesso oppressivi e idolatri. È il medesimo scenario descritto nei capitoli 2 e 7 del libro di Daniele, dove le visioni del profeta parlano di una successione di regni terrestri, ciascuno con il proprio splendore e la propria ferocia, destinati però a essere sostituiti da un Regno eterno. Secondo questa prospettiva profetica, la dominazione delle nazioni su Israele - e in particolare su Gerusalemme - rappresenta una fase intermedia e necessaria del piano divino. Tuttavia, Gesù non lascia spazio a dubbi: questa fase avrà una fine. Il dominio dei Gentili cesserà quando il Regno di Dio, stabilito dal Messia, verrà manifestato pienamente alla fine dei tempi.
Gerusalemme, dunque, sarebbe stata, e in parte ancora è, sottomessa, vilipesa, calpestata, come segno visibile di un mondo governato da potenze lontane da Dio. Ma, come ogni periodo stabilito da Dio, anche questo ha un termine.
Con Luca 21:24, il racconto evangelico ci riporta nel cuore della fine dei tempi. E a partire dal versetto 25, il discorso si sposta nuovamente, con forza crescente, verso la manifestazione gloriosa del Figlio dell'uomo. Dopo aver parlato di guerre, persecuzioni, cadute e dispersioni, il Vangelo apre lo sguardo alla speranza finale.
«Allora si vedrà il Figlio dell'uomo venire su una nuvola con potenza e grande gloria. Quando queste cose cominceranno ad accadere, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina» (Luca 21:27-28).
Queste parole sono tra le più consolanti dell'intero discorso profetico. Quando la paura crescerà, quando i segni dei tempi diventeranno visibili, il credente non è chiamato a piegarsi, ma ad alzare lo sguardo. La venuta gloriosa del Messia non sarà motivo di terrore per i suoi, ma l'inizio della liberazione tanto attesa.
(Chiamata di Mezzanotte, maggio/giugno 2025)
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Bibi nel vuoto dell’Onu
ROMA - In una New York dove Israele ha lanciato una campagna su cartelloni pubblicitari e camion intorno al palazzo delle Nazioni Unite e a Times Square con lo slogan “ricorda il 7 ottobre”, ieri è arrivato il premier Benjamin Netanyahu per parlare al Palazzo di vetro. I delegati Onu di molti paesi (fra cui quelli di Irlanda, Spagna, Belgio e Norvegia) hanno abbandonato l’aula appena il premier israeliano ha iniziato a parlare. Netanyahu aveva una spilla durante il discorso e ha invitato a “inquadrare il codice Qr: vedrete perché combattiamo e dobbiamo vincere”.
Netanyahu ha ricordato che “il 7 ottobre Hamas ha condotto l’attacco peggiore contro gli ebrei dall’Olocausto, ha decapitato uomini, stuprato donne, bruciato bambini vivi, questi mostri hanno preso in ostaggio 200 persone”. Netanyahu ha chiesto il ripristino delle sanzioni contro l’Iran e a Hamas ha detto: “Deponete le armi e liberate tutti i 48 ostaggi o vi daremo la caccia”. Ha liquidato i due stati: “I palestinesi non ci credono, non vogliono uno stato vicino a Israele ma al posto di Israele. Dare ai palestinesi uno stato a un miglio da Gerusalemme dopo il 7 ottobre è come dare uno stato ad al Qaida dopo l’11 settembre a un miglio da New York”.
Netanyahu ha detto a cosa si oppone, ma non abbiamo sentito cosa li sostituirà. Il commentatore israeliano di destra Shimon Riklin ha elogiato un “discorso forte, intelligente e toccante”, per poi aggiungere un ma: “La lacuna del discorso è la mancanza di una spiegazione su dove andremo con Gaza e l’ignorare il grande banco di sabbia in cui Israele è bloccato. Hamas continuerà a rifiutare ogni accordo. Ogni giorno che passa intrappola Israele nell’arena internazionale ed economica. La nostra trasformazione in Sparta continuerà. Il mercato azionario continuerà a crollare. Altri paesi annulleranno i contratti. Hamas vede tutto e ne è felice, desiderando che la situazione continui. Alla fine, forse dal loro punto di vista, tutta la distruzione a Gaza sarà valsa la pena”. L’ex premier inglese Tony Blair potrebbe giocare un ruolo chiave dopo la fine del conflitto a Gaza: il Financial Times rivela che a Blair sarebbe stato proposto, con l’avallo della Casa Bianca, di presiedere in prima persona la Gaza International Transitional Authority dal momento in cui dovessero cessare le ostilità e gli uomini di Hamas fossero costretti a uscire di scena. Netanyahu ha risposto alle accuse di usare la carestia a Gaza: “Né genocidio né fame, evacuiamo civili e li sfamiamo. Quale paese che sta commettendo un genocidio cerca di convincere i civili a recarsi in una zona sicura? Ci accusano di affamare deliberatamente Gaza. Israele sta deliberatamente sfamando Gaza. Se non c’è abbastanza cibo è perché Hamas lo ruba”. Altoparlanti per il discorso di Netanyahu sono stati installati dall’esercito dentro Gaza su camion e gru, per rivolgersi agli ostaggi. “Non vi abbiamo dimenticato, non riposeremo finché non vi avremo riportato a casa” ha detto Netanyahu in ebraico. Il premier israeliano ha accusato i paesi europei: “Quando il gioco si è fatto duro, avete ceduto. Ma non commetteremo un suicidio perché non avete il coraggio di affrontare media ostili e folle antisemite che chiedono il sangue di Israele”. Netanyahu ne ha castigato l’ipocrisia: “Molti leader critici in pubblico, in privato ci ringraziano”.
Da diplomatico, l’isolamento per Israele rischia di trasformarsi anche in militare. Israel Hayom, il giornale vicino a Netanyahu, ieri ha rivelato che gli arsenali dello stato ebraico sono mezzi vuoti, complici la guerra che dura da due anni, ben oltre quanto immaginato inizialmente, e gli embarghi imposti da vari paesi sulla vendita di armi e componenti a Israele. Quella di Netanyahu su Sparta rischia di essere ricordata come un’autoprofezia.
Il Foglio, 27 settembre 2025)
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Le sedie vuote e l’orgoglio di Israele
di Niram Ferretti
Sono due gli elementi che devono essere tenuti bene presenti in merito al discorso che ieri, Benjamin Netanyahu ha tenuto all’ONU. Uno sono le numerose sedie vuote lasciate da molteplici delegazioni, la maggioranza islamiche, l’altro è la determinazione con cui il premier israeliano ha rivendicato i molteplici successi bellici ottenuti da Israele in questi ormai due anni di guerra su diversi fronti: contro Hamas, Hezbollah, l’Iran, nel perimetro siriano, con la caduta di Assad.
Le sedie vuote ci dicono soprattutto di come la propaganda di Hamas, diffusa principalmente da Al Jazeera, la tv del Qatar, grande sponsor della formazione jihadista, e recepita acriticamente da quasi tutto il comparto mediatico occidentale, abbia ottenuto i risultati sperati. Il portavoce di Hamas ha infatti dichiarato come, quelle sedie vuote, illustrino “l’isolamento di Israele e le conseguenze della sua guerra di sterminio”, ed è vero che è stato isolato, è vero che l’incessante criminalizzazione nei suoi confronti lo abbia trasformato oggi, agli occhi di molti, in uno Stato canaglia.
Da una parte abbiamo dunque, plasticamente evidente, la forza della menzogna, il suo riscontro, Hamas può certamente dirsi soddisfatto, dall’altra abbiamo l’evidenza delle parole di Netanyahu che respingono la menzogna con fatti incontrovertibili.
Come si fa a praticare un genocidio, avvisando con largo anticipo la popolazione che si vuole sterminare, di attacchi imminenti, in modo che si possa spostare? come si fa a praticare un genocidio quando si fanno entrare nel luogo in cui dovrebbe essere commesso, 2000,000 di derrate alimentari? Come si fa a praticare un genocidio quando il rapporto tra morti civili e terroristi è sostanzialmente paritario?
Ma questo è solo uno dei punti e non il più saliente del discorso di Netanyahu. Gli altri riguardano i Paesi che, dichiarandosi amici, hanno voltato le spalle ad Israele riconoscendo lo Stato palestinese. Ad essi Netanyahu ha ricordato come uno Stato arabo-palestinese non sia mai venuto in essere a fianco di quello ebraico per il costante rifiuto arabo di farlo nascere, ha ricordato altresì che uno Stato palestinese in miniatura è già nato ed è quello che ha portato al 7 ottobre. Israele non permetterà che, a un miglio da Gerusalemme, possa esserci uno Stato simile, “Non lasceremo che ci venga cacciato in gola”. Hamas e Fatah, ovvero l’Autorità palestinese, sono le due facce della stessa medaglia, entrambe nutrite dal medesimo antisemitismo, dal medesimo rifiuto di Israele, “usano gli stessi testi scolastici di Hamas, esattamente gli stessi. Insegnano ai loro bambini ad odiare gli ebrei e a distruggere lo Stato ebraico”.
L’altro punto riguarda la stessa storia ebraica, rivendicata con forza e orgoglio, di come Israele sia parte intrinseca e ineludibile di una storia che dura da più di tremila anni, non una pietra di inciampo, ma un “faro del progresso, dell’ingegno e dell’innovazione a beneficio di tutta l’umanità”.
Verità abbagliante, troppo, e insostenibile per le forze regressive e distruttive in seno all’Islam, per i nemici del progresso e dello sviluppo, di cui Hamas, che si è congratulato per le poltrone vuote, è uno degli esempi più flagranti.
L’ONU, già definito da Netanyahu, “palude antisemita”, è di nuovo il luogo in cui si palesa quell’avversione nei confronti di Israele cominciata dopo la guerra dei Sei Giorni e continuata nei decenni con un numero esorbitante di risoluzioni contro di esso, che non hanno eguali con quelle nei confronti di nessun altro Stato al mondo.
L’ONU delle poltrone vuote, di cui alcune lasciate da Paesi occidentali, certifica lo smarrimento morale in cui si trova una parte del mondo libero e democratico, quello che dovrebbe essere risolutamente dalla parte di Israele, ma che invece, per interessi economici, abiezione ideologica e meri calcoli politici, ha scelto di fiancheggiare chi ne vuole la capitolazione.
(L'informale, 27 settembre 2025)
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Il coraggio di Israele, baluardo contro l’isteria idolatrica di chi se ne frega di Hamas
di Giuliano Ferrara
A nessuno interessa l’unica notizia che conta, e che sarebbe o si spera sarà l’esito di una strategia di fermezza e di disperata ma inevitabile difesa di Israele dai suoi assassini. La sconfitta di Hamas, ormai accerchiato e incalzato a Gaza City da un esercito che ha perso mille uomini ed evacua i civili dal campo di guerra, il suo disarmo, la sua resa, il rilascio degli ostaggi vivi e morti, per gli abbracci e per i pianti e i kaddish dei superstiti, la ricostruzione di Gaza sotto un’autorità indipendente con i paesi arabi alla testa e l’egida delle Nazioni Unite. La vittoria di Israele e della sua difesa e la sconfitta di Hamas e la distruzione del suo progetto genocidario, compreso in tutto questo la liberazione degli ostaggi, non è oggetto di interesse e di passione. Non gliene frega niente a nessuno tra quanti si considerano gente umanitaria e militanti dell’antisionismo. Il mondo civilizzato in teoria dovrebbe essere in ansia per ricevere questa notizia, e solo per questo, per accogliere i reduci di una prigionia e di una tortura di due anni nei tunnel, cominciate con l’atroce spargimento di sangue e crudeltà perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Questa è o dovrebbe essere l’unica cosa che conta e che rimanda una eco ansiosa nell’aula dell’Assemblea generale dell’Onu: una soluzione militare e politica al dramma della Striscia, possibile solo con la distruzione della banda di predoni e assassini che ha aperto questo tremendo, doloroso capitolo di storia della disumanità. Ieri abbiamo invece assistito a uno spettacolo di isteria collettiva, una miserabile messinscena propagandistica, che di questa fermezza è lo specchio deformante, un’isteria di teatro che ha contagiato visibilmente e strumentalmente le diplomazie di mezzo mondo e più di mezzo mondo. Il capo di Israele si è presentato al podio con un QR Code sul bavero della giacca. Lì c’è la documentazione sul 7 ottobre, l’alternativa era vedere per credere oppure non guardare e urlare al genocidio.
L’aula in cui si riuniscono i rappresentanti e funzionari di un’organizzazione sottomessa all’ideologia, dove è l’Iran a dettare le regole in tema di diritti umani, un’agenzia internazionale incapace di fare il suo antico mestiere, ormai una tribuna di propaganda antisemita per moltissimi dei suoi componenti, si è rapidamente svuotata, dimostrando che l’isteria non ha limiti nell’emozione collettiva ma è generata dalla lucida strategia di intervento nei conflitti degli stati dei terroristi del jihad e nel tentativo di ridurre l’unica democrazia del medio oriente allo stato di nazione paria. Nello sforzo di far scattare il piano psicologico esplicito di Hamas, cioè addossare a Israele le sofferenze procurate a Gaza dall’infame progrom del 7 ottobre 2023 e trasformare le vittime di un genocidio storico, la Shoah, e di un genocidio programmato e teorizzato dal jihadismo, dal fiume al mare, negli autori di un genocidio inesistente, che si esprime in modo blasfemo nel conto delle vittime civili di guerra esposte a favore di telecamera da una banda di terroristi che si nasconde in una rete sotterranea e lascia il popolo in superficie come agnello sacrificale della sua causa di morte.
L’unica replica possibile all’isteria di teatro è la fermezza e la tenacia di un popolo e di uno stato e di una comunità combattente che non accettano, come ha detto Netanyahu, quello che sarebbe identico alla formazione di uno stato del terrore di al Qaida a un miglio da New York all’indomani dell’11 settembre. Non dovevano entrare nella Striscia né colpirla, per risparmiare le vittime civili. Oggi Hamas sarebbe il governo legale e diplomaticamente attivo di uno stato fortezza pronto a replicare il 7 ottobre e i palestinesi il suo ostaggio principale e il pegno della sua sopravvivenza come organizzazione terroristica. Non dovevano entrare a Rafah. Sinwar sarebbe vivo e vegeto con tutto il suo stato maggiore. Non dovevano colpire l’Iran, oggi uno stato prenucleare e guerrafondaio che minaccia la pace e l’equilibrio e la vita degli ebrei dell’entità sionista sarebbe forte e autorevole, insieme con i suoi eserciti di riserva come gli Hezbollah e la Siria di Assad. Non dovevano infine entrare nella città di Gaza, nemmeno muovendosi con lenta circospezione e organizzando l’evacuazione di centinaia di migliaia di civili. E così nessuno si augura che accada quello che deve accadere, a nessuno preme la caduta della tirannia di Hamas sui palestinesi, la fine dell’incubo, il rilascio degli ostaggi costretti a scavarsi da soli la fossa nei sotterranei dell’orrore. Quando tutto sarà finito, e il cuore e la testa delle persone che non hanno smarrito il senso etico della storia e non lo hanno barattato per la buona coscienza autogratificante non vedono l’ora che tutto sia finito al più presto, sarà studiata per anni questa guerra idolatrica dell’isteria contro la fermezza e il coraggio di un popolo.
Il Foglio, 27 settembre 2025)
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Netanyahu all’ONU: discorso trasmesso anche a Gaza tra risultati militari e messaggio agli ostaggi
di Samuel Capelluto
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato oggi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in un discorso definito “storico” dall’ufficio del premier, accompagnato da una campagna di comunicazione inedita: la proiezione del filmato delle atrocità del 7 ottobre all’interno del Palazzo di Vetro, l’invito ai delegati a scansionare un codice QR sulla sua giacca per accedere alle immagini del 7 ottobre, e la trasmissione simultanea del suo intervento nella Striscia di Gaza tramite altoparlanti e messaggi SMS inviati direttamente ai telefoni cellulari dei residenti, con traduzione in arabo.
Netanyahu ha aperto il suo intervento ricordando i risultati conseguiti da Israele al cosiddetto “asse iraniano”: «Abbiamo colpito gli Houthi, distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, ucciso Nasrallah, fatto esplodere beeperim a Hezbollah, demolito l’esercito di Assad e annientato l’apparato nucleare e missilistico balistico dell’Iran». Ha poi ribadito: «Cosa resta dell’asse iraniano? Gli Houthi li abbiamo sconfitti, Sinwar non c’è più, Nasrallah non c’è più, Assad non c’è più. I vertici dell’esercito iraniano – non ci sono più».
Nel corso dell’intervento Netanyahu ha cercato di rispondere alle accuse internazionali sul piano umanitario, sostenendo che Israele non sta compiendo un genocidio e che gli sforzi israeliani mirano a ridurre le vittime civili. «700.000 abitanti di Gaza sono già stati evacuati verso aree sicure — ha affermato — quale Paese che commette un genocidio cerca di convincere i civili a spostarsi in zone protette?» Ha poi aggiunto: «Israele ha fatto entrare a Gaza oltre due milioni di tonnellate di cibo… davvero una “politica di fame!”».
Rivolgendosi direttamente agli ostaggi israeliani a Gaza, Netanyahu ha dichiarato in ebraico: «Fratelli nostri, eroi, non vi abbiamo dimenticato neanche per un istante. Non ci fermeremo finché non vi riporteremo tutti a casa – vivi e caduti». Ha poi sintetizzato le condizioni per una rapida fine della guerra: restituzione degli ostaggi, disarmo di Hamas e smilitarizzazione della Striscia.
In un passaggio informale, il premier ha persino proposto al pubblico un’interazione retorica: «Facciamo un gioco, vi faccio delle domande — chi urla “morte all’America”? Iran, Hamas, Hezbollah, gli Houthi o tutti loro?». Dal palco la risposta riportata è stata «tutti loro!», seguita da Netanyahu: «Risposta corretta!».
Ha poi affermato che i palestinesi non vogliono uno Stato accanto a Israele ma «uno Stato al posto di Israele», ricordando che «avevano già Gaza e l’hanno trasformata in una base di terrorismo» e avversando la soluzione dei due Stati: «Dare ai palestinesi uno Stato accanto a Gerusalemme è come dare ad al-Qaeda uno Stato accanto a New York. Non lo permetteremo».
Ampio spazio è stato dedicato anche alla diplomazia regionale. Netanyahu ha detto di credere in un possibile accordo con la Siria «che garantisca la sicurezza delle minoranze come i drusi», e ha rivolto un appello diretto a Beirut: «Se il governo libanese agirà contro Hezbollah potremo raggiungere una pace stabile». Secondo il premier, la vittoria su Hamas «porterà a una massiccia espansione degli Accordi di Abramo».
La trasmissione del discorso ai cittadini di Gaza è stata definita da Netanyahu un messaggio di chiarezza e pressione: «La guerra può finire subito con la restituzione degli ostaggi, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia. Chi lo farà, vivrà. Chi non lo farà, sarà perseguitato».
Alcune delle famiglie degli ostaggi hanno reagito con durezza. Einav Tzangauker, madre di Matan, ha dichiarato di aver provato «un pugno nello stomaco» sentendo il premier citare il nome del figlio mentre si trova ancora in prigionia a Gaza: «Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Altre famiglie hanno parlato di «vergogna» per il fatto che il premier abbia menzionato solo parte dei rapiti, quelli vivi, accusandolo di «chiedere al mondo di ricordare il 7 ottobre mentre dimentica 28 ostaggi».
Il discorso ha avuto immediata eco internazionale: fonti riferiscono che, al termine dell’intervento, il presidente americano Donald Trump abbia detto ai giornalisti che «sembra che avremo presto un accordo a Gaza».
La giornata alle Nazioni Unite ha così mostrato un Netanyahu deciso a ribadire la linea di Israele: eliminare Hamas, impedire la nascita di uno Stato palestinese che possa minacciare Gerusalemme e ampliare le prospettive di pace partendo da una posizione di forza. La trasmissione del discorso fino a Gaza, insieme alla proiezione delle immagini del 7 ottobre, ha reso evidente la volontà di parlare non solo ai leader mondiali, ma anche ai nemici sul terreno e ai civili coinvolti.
Ma al centro del messaggio restano soprattutto gli ostaggi: Netanyahu ha ripetuto che Israele non li dimentica neanche per un istante e che ogni sforzo politico e militare continuerà fino al loro ritorno.
(Shalom, 27 settembre 2025)
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«Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Queste parole della madre di un ostaggio, dette in un'occasione come questa, sono vergognose. Avrebbero dovuto essere respinte con parole severe, non fatte conoscere ad altri. M.C.
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Storie di donne al fronte, le soldatesse Idf che abbattono stereotipi e terroristi
“Sentivamo di dover studiare più degli altri. Col tempo i dubbi spariscono”
di Paolo Crucianelli
Dalla danza classica al campo di battaglia. La tenente Sharon. ex ballerina promessa di una compagnia a Barcellona, oggi comanda un plotone del battaglione di ricognizione “Givati”, con le mani sporche di grasso dopo aver aggiustato un motore di un carro armato. Con lei, la tenente Karen, ufficiale di supporto al fuoco nella stessa unità; la dottoressa Abigail, medico nel battaglione di ricognizione “Nahal”; e la maggiore Naomi., ufficiale operativo del battaglione di ricognizione “Haruv”. Quattro donne che hanno scelto la prima linea, demolendo pregiudizi e dimostrando che il coraggio non ha genere.
Fino a pochi anni fa, l’idea di soldatesse in ruoli di combattimento suscitava scetticismo. Persino un ministro come Bezalel Smotrich aveva liquidato il tema affermando che «l’esercito deve combattere e vincere, non promuovere il femminismo». Ma la guerra di Gaza ha cambiato tutto: le donne hanno combattuto, guidato operazioni e salvato vite sotto il fuoco. «Un tempo si temeva l’idea di una donna caduta prigioniera», ricorda la maggiore Naomi, 25 anni. «Oggi ci spaventa altrettanto pensare a uomini in cattività. Se la mia vita vale come quella di un uomo, non c’è motivo di escludere le donne dal fronte».
Le prove sul campo non sono mancate. La tenente Karen ha coordinato il fuoco di artiglieria dopo un attacco che aveva ucciso tre commilitoni: «Sapevo che se sbagliavo i calcoli avrei colpito i nostri». La dottoressa Abigail ha curato soldati feriti in scontri a fuoco a Gaza e in Libano: «Sul campo non puoi pensare alle emozioni, solo a quello che devi fare». Sharon racconta di aver rimesso in moto un blindato sotto le esplosioni: «L’adrenalina è enorme, ma sai che senza di te quel mezzo non si muove». Entrare in reparti tradizionalmente maschili ha richiesto tenacia. «All’inizio sentivo di dover studiare più degli altri, imparare a memoria ogni vite e bullone», dice Sharon «Poi il comandante mi disse: ti considero una professionista, e da lì ho trovato la mia sicurezza». Anche Abigail ricorda lo scetticismo iniziale di un riservista: «Ma una volta dimostrata l’affidabilità, i dubbi spariscono».
Le quattro ufficiali respingono con decisione le accuse di “stragi indiscriminate” che vengono mosse contro l’IDF. «Le procedure di approvazione degli obiettivi sono rigidissime», sottolinea Naomi «Abbiamo evitato di colpire una donna e l’abbiamo accompagnata in un’area sicura: ne sono stata fiera». Karen conferma: «Ogni attacco è chirurgico, supervisionato dai gradi più alti». La guerra le ha fatte crescere. «Dormire due ore a notte, non lavarsi per settimane, vedere la morte da vicino: ci ha temprate», dice Karen «Quando torno a casa capisco quanto sia preziosa la normalità», aggiunge Naomi. Guardando al futuro, i progetti sono diversi: Karen vuole studiare medicina, Sharon sogna una laurea in legge e relazioni internazionali, Abigail punta alla neurochirurgia, mentre Naomi proseguirà la carriera militare come vicecomandante di battaglione. Tutte però condividono la stessa convinzione: «Chi pensa che una donna non possa combattere si sbaglia di grosso. Sul campo conta solo la professionalità».
(Il Riformista, 25 settembre 2025)
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La flotilla per Gaza, il blocco navale di Israele e le conseguenze legali per gli italiani
di Franco Londei
Cerchiamo di chiarire alcuni punti controversi sul blocco navale israeliano su Gaza, sul perché è legale e sul perché se la flotilla per Gaza forzasse il blocco sarebbe passibile di gravi conseguenze legali anche in Italia (per gli italiani).
Partiamo dallo spiegare perché il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo:
Secondo la Commissione d’inchiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite sul raid della Mavi Marmara (2010) nota come Rapporto Palmer (dal nome del presidente, Sir Geoffrey Palmer, ex primo ministro neozelandese), il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo in base al Diritto Internazionale.
• Cosa ha detto il Rapporto Palmer (2011):
- Ha riconosciuto che Israele affronta una seria minaccia alla propria sicurezza da parte di Hamas.
- Ha concluso che il blocco navale imposto da Israele a Gaza era, in linea di principio, legale sotto il diritto internazionale, come misura legittima di sicurezza.
- Tuttavia, ha criticato duramente l’uso eccessivo e sproporzionato della forza da parte delle forze israeliane durante l’abbordaggio della Mavi Marmara, definendolo “inaccettabile”.
• Cosa dice il Diritto Internazionale
Base giuridica: il diritto internazionale dei conflitti armati (DICA)
- Le norme rilevanti sono contenute nelle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra e nel Manuale di Sanremo sul diritto dei conflitti armati in mare (1994), che, pur non essendo un trattato vincolante, è spesso richiamato come riferimento.
- In linea teorica, un blocco navale può essere considerato legale se:
- è pubblicamente dichiarato e notificato;
- è efficace (cioè applicato in modo reale e non solo proclamato);
- non ha l’obiettivo principale di affamare la popolazione civile;
- consente il passaggio di aiuti umanitari essenziali, sotto controllo dell’autorità che impone il blocco;
- non discrimina tra Stati neutrali.
Quindi, quando sentiamo qualche esaltato affermare che “la flotilla vuole forzare il blocco illegale israeliano su Gaza” sappiate che dice una sciocchezza. Il blocco navale su Gaza è perfettamente legittimo e rispetta tutti i requisiti richiesti dal Diritto Internazionale.
Anzi, per quanto riguarda i cittadini italiani, un amico mi fa notare che commettono un reato penalmente perseguibile in base all’Articolo 244 del codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) [Aggiornato al 03/07/2025] Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra il quale afferma che:
Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo. Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini, ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni, la pena è della reclusione da tre a dodici anni. Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni.
Essendoci in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale e considerando che c’è almeno una nave da guerra italiana a protezione della flotilla per Gaza, al loro rientro in patria i cittadini italiani dovrebbero essere quantomeno indagati.
• Altre piccole considerazioni:
- Uno Stato che vuole fare un genocidio non ci mette due anni per conquistare un terreno di pochi Kmq come la Striscia di Gaza, specie se ha i mezzi militari che ha Israele. Se ci mette tutto quel tempo è perché pone attenzione alla vita dei civili.
- Si sente spesso dire che il numero delle vittime civili è “accertato”. È accertato da chi? Come è stato accertato? L’unica fonte fino ad oggi è Hamas, quindi non c’è proprio niente di accertato.
- Sempre sulle vittime si sente spesso affermare che sono in maggioranza “donne e bambini”. Non esiste un solo dato che lo provi. Non solo, nel conteggio delle vittime non si fa mai cenno al numero dei miliziani morti, tra i quali ci sono sicuramente molti bambini soldato di Hamas dei quali le tantissime ONG che ci sono a Gaza si guardano bene di parlare. La verità è che nessuno sa quanti sono i morti civili, quanti sono i terroristi, quanti i bambini e quanti i bambini soldato.
(Rights Reporter, 27 settembre 2025)
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Dovranno un giorno vergognarsi tutti coloro che oggi, con consapevole e grave volontà o ignorante e colpevole leggerezza, usano il termine "genocidio" per indicare quello che oggi sta facendo lo Stato d'Israele in difesa della sua esistenza. M.C.
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Un report svela i rapporti tra la Flotilla e Hamas
di Nathan Greppi
Un rapporto recentemente pubblicato per conto del governo israeliano, dal titolo Waves of Hate: The Terror Flotilla, ha messo in luce i legami esistenti tra i capi della Global Sumud Flotilla e alti dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica palestinese.
Sebbene il Comitato Direttivo della Flotilla abbia scelto di presentare Greta Thunberg come testimonial, in realtà l’attivista svedese non sarebbe affatto una figura centrale nell’organizzazione. La vera leadership è composta da individui che presentano legami assai documentati con Hamas e i Fratelli Musulmani.
• I leader
Una delle figure chiave dietro la Global Sumud Flotilla è Saif Abu Keshk , palestinese residente a Barcellona e membro del loro Comitato Direttivo. Nel giugno 2025, le autorità egiziane hanno arrestato Abu Keshk, che stava guidando la campagna “Marcia verso Gaza” in collaborazione con Yahia Sarri, un importante esponente religioso dei Fratelli Musulmani in Algeria direttamente legato ad Hamas.
Nel 2022, Sarri è stato in contatto diretto con alti funzionari di Hamas durante una conferenza tenutasi in Algeria, in occasione del 68° anniversario dell’inizio della guerra d’indipendenza algerina. All’evento hanno partecipato esponenti di spicco di Hamas, tra cui Zaher Jabarin e Osama Hamdan.
Nel gennaio 2024, Sarri ha incontrato in veste ufficiale Basem Naim, alto funzionario di Hamas di cui era il capo del dipartimento per le relazioni internazionali. Questo incontro ha posto le basi per la collaborazione di Sarri con la Marcia su Gaza e la Global Sumud Flotilla.
• Legami ramificati
Molti membri del Comitato Direttivo della Flotilla hanno partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate come tali dagli Stati Uniti, tra cui Hamas e la Jihad Islamica.
Muhammad Nadir al-Nuri, cittadino malese nato nel 1987 in Scozia, fondatore e CEO dell’associazione Cinta Gaza Malaysia, si presenta come un “attivista umanitario”. Al-Nuri ha finanziato diverse iniziative a beneficio di enti di Gaza affiliati ad Hamas. Ad esempio, ha finanziato la costruzione di un edificio per l’Ufficio per lo Sviluppo Sociale, un’istituzione operante sotto il controllo di Hamas.
Durante la cerimonia di inaugurazione, al-Nuri è stato fotografato insieme a Ghazi Hamad, un alto funzionario dell’ufficio politico di Hamas, che solo di recente ha dichiarato che con l’ondata di riconoscimenti di uno Stato palestinese da parte dei paesi occidentali si stanno cogliendo i “frutti” degli attacchi del 7 ottobre 2023.
Marouan Ben Guettaia è un attivista filopalestinese algerino affiliato al Convoglio Soumoud. Oltre a mantenere legami personali con Sarri, è stato visto incontrare l’alto funzionario di Hamas Youssef Hamdan.
Un altro membro del comitato direttivo della Flotilla è Wael Nawar, che in precedenza ha ricoperto il ruolo di coordinatore e portavoce del Convoglio Soumoud. È stato ripreso durante incontri con rappresentanti di Hamas, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e della Jihad Islamica Palestinese.
Nel febbraio 2025, Nawar ha partecipato al funerale di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso in un attacco israeliano. Durante l’evento, è stato fotografato mentre incontrava Ihsan Attaya, un alto funzionario della Jihad Islamica Palestinese.
(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2025)
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“Meloni all’Onu stigmatizza l’aggressione russa e critica Israele per aver superato il limite”
Dal giornale “La Verità” riportiamo parte del discorso del Presidente del Consiglio alll’Assemblea Generale dell’Onu.
LA GUERRA IN UCRAINA
Tre anni e mezzo fa, il 24 febbraio 2022, Mosca ha deciso di attaccare Kiev. Penso che non si sia riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella scelta e su un punto che considero fondamentale: la Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l'articolo 2 dello Statuto dell'Onu, violando l'integrità e l'indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace. Questa ferita profonda inferta al diritto internazionale, come era prevedibile, ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra. Il conflitto in Ucraina ha riacceso, e fatto detonare, diversi altri focolai di crisi. Mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite.
IL MEDIO ORIENTE
Non è un caso, che Hamas abbia approfittato dell'indebolirsi di questa architettura per sferrare - il 7 ottobre del 2023 - il suo attacco contro Israele. La ferocia e la brutalità di quell'attacco - la caccia ai civili inermi - hanno spinto Israele ad una reazione, in principio, legittima. Perché ogni Stato e ogni popolo ha il diritto di difendersi. Ma la reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Vale per gli individui, e vale a maggior ragione per gli Stati. E Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese. E su questo limite che lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili. Una scelta che l'Italia ha più volte definito inaccettabile, e che porterà al nostro voto favorevole su alcune delle sanzioni proposte dalla Commissione Europea verso Israele. Però non ci accodiamo a chi scarica su Israele tutta la responsabilità di quello che accade a Gaza. Perché è Hamas ad aver scatenato la guerra. È Hamas che potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi, liberando subito tutti gli ostaggi. È Hamas che sembra voler prosperare sulla sofferenza del popolo che dice di rappresentare. Israele deve uscire dalla trappola di questa guerra. Lo deve fare per la storia del popolo ebraico, per la sua democrazia, per gli innocenti, per i valori universali del mondo libero di cui fa parte. E per chiudere una guerra servono soluzioni concrete. Perché la pace non si costruisce solo con gli appelli, o con proclami ideologici accolti da chi la pace non la vuole. La pace si costruisce con pazienza, con coraggio, con ragionevolezza. I bambini di Gaza, come quelli che l'Italia sta orgogliosamente accogliendo e curando nei propri ospedali, chiedono risposte che possano migliorare la loro condizione, e su quello siamo impegnati. L'Italia c'è e ci sarà per chiunque sia disposto a lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco permanente, l'esclusione di Hamas da ogni dinamica di governo in Palestina, il graduale ritiro di Israele da Gaza, l'impegno della comunità internazionale nella gestione della fase successiva al cessate il fuoco, fino alla realizzazione della prospettiva dei due Stati. Consideriamo, in questo senso, molto interessanti le proposte che il presidente degli Stati Uniti ha discusso con i paesi arabi in queste ore e siamo pronti ovviamente a dare una mano. Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell'Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato.
(La Verità, 26 settembre 2025)
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E’ un discorso in classico stile democristiano. Non è né critica, né elogio: è rassegnazione. Di più non si poteva sperare. Per la posizione politica internazionale dell’Italia e per lo spessore di conoscenza personale della premier in fatto di politica mediorientale. È bene dire questo perché in altri settori di politica interna Giorgia Meloni ha mostrato di avere competenze, capacità e grinta di primo piano, ma la gioventù biologica e anche politica in fatto di questioni estere si fa sentire. Una cosa si potrebbe chiedere: che significa “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi”? Che lavoro c’è da fare? Perché non dire semplicemente che bisogna lasciarli tutti e subito? Aggiungendo magari qualcosa su quello si dovrebbe fare ai rapitori. Qualcosa di più si poteva anche dire sul “principio di proporzionalità”. Che cos’è? E’ difficile da definire con precisione. Effettivamente, l’azione di Israele è molto diversa da quella di Hamas. Per equipararla Israele potrebbe inizialmente catturare a sua volta 250 ostaggi palestinesi a caso, trattarli in modo “proporzionale” a quello usato da Hamas con i suoi, e invitare l’Onu a “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi” di entrambe le parti. È un paragone stupido, è vero, ma è in questo stile che viene trattato in sede pubblica l’aspetto più grave della congiuntura in cui si trova oggi il mondo. M.C.
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Il leader palestinese “moderato” si congratula con il terrorista e assassino di bambini rilasciato
“Mahmud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica”.
Mahmud Abbas, presidente dell'OLP e dell'Autorità Palestinese (AP), dovrebbe essere il partner di Israele per la pace. Secondo l'opinione pubblica internazionale, è anche considerato un leader arabo “moderato”. Tuttavia, le sue azioni continuano a smentire questa definizione.
Sabato scorso Abbas ha nuovamente incoraggiato il terrorismo antiebraico quando si è congratulato personalmente con un terrorista palestinese rilasciato che era stato incarcerato in Israele per aver ucciso o tentato di uccidere indiscriminatamente uomini, donne e bambini ebrei.
L'emittente televisiva pubblica israeliana KAN ha trasmesso la registrazione di una telefonata tra Abbas e Yasser Abu Bakr, condannato nel 2004 a 115 anni di carcere per aver partecipato ad attacchi terroristici in cui sono stati uccisi diversi civili israeliani, tra cui un bambino di nove mesi, e molti altri sono rimasti feriti.
Nella registrazione si sente il presidente dell'Autorità Palestinese congratularsi con Abu Bakr per il suo rilascio dal carcere e dirgli che la sua detenzione era stata “per il bene della nazione palestinese”. Abbas ha anche suggerito che la pena fosse eccessiva, come mostra una traduzione della piattaforma di notizie israeliana Walla.
Le dichiarazioni di Abbas hanno suscitato condanne da parte di politici israeliani, tra cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.
"La sua telefonata di stasera a un assassino di ebrei è un campanello d'allarme per coloro che nutrono ancora illusioni sul fatto che l'Autorità Palestinese possa essere un'alternativa ad Hamas nella Striscia di Gaza dopo la guerra. Questo non accadrà. Né a Gaza né in Giudea e Samaria“, ha detto Smotrich. ”Mahmoud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore e promotore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica e non è un ‘partner’".
Sabato Gerusalemme ha rilasciato circa 200 terroristi, nell'ambito della seconda ondata di rilasci nella prima fase del cessate il fuoco. Ciò è avvenuto in cambio di quattro soldatesse delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) catturate durante il massacro compiuto dal gruppo terroristico il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele.
Molti dei terroristi rilasciati sabato stavano scontando l'ergastolo per attacchi mortali contro israeliani.
109 terroristi palestinesi sono stati riportati in Giudea e Samaria, 21 nella Striscia di Gaza e i restanti – circa 70 – sono stati espulsi in Egitto. Secondo i termini dell'accordo, entrato in vigore il 19 gennaio, essi dovrebbero partire per altri paesi.
Al Cairo, i terroristi rilasciati sono stati accolti da rappresentanti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, sostenuta dall'Iran. Secondo quanto riferito, almeno alcuni dei terroristi si sono poi recati in Qatar. (JNS)
(Israel Heute, 26 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Record di esecuzioni in Iran, ma pochi ci fanno caso se Israele non c’entra
di Sadira Efseryan
La Repubblica Islamica dell’Iran ha giustiziato almeno mille persone negli ultimi nove mesi, nel più assoluto silenzio delle organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani, evidentemente troppo prese a tenere gli occhi su Gaza.
A denunciarlo è l’organizzazione umanitaria Iran Human Rights organization (IHR), con sede in Norvegia, la quale fa notare come solo nell’ultima settimana le esecuzioni in Iran siano state almeno 64, con una escalation senza precedenti.
Secondo quanto riferito da fonti locali, dopo la guerra dei 12 giorni con Israele, l’Iran avrebbe dato il via ad una campagna di incarcerazioni di massa a danno di dissidenti politici fatti passare per “spie di Israele”. Da due settimane sono iniziate le esecuzioni di massa le quali però vengono indicate come “esecuzioni di trafficanti di droga”, ma secondo le fonti in realtà sarebbero per buona parte dissidenti politici, tra cui molte ragazze e persino alcune donne incinte.
Il Presidente iraniano Masoud Pezeshkian, definito da molti un “moderato” e per questo eletto con molti voti di giovani e di donne, risulta in realtà il presidente del record di esecuzioni.
(Rights Reporter, 26 settembre 2025)
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Tesoro bizantino di 1400 anni fa ritrovato a Sussita
di Michelle Zarfati
Un eccezionale reperto archeologico risalente al periodo bizantino è emerso in Israele: gli archeologi dell’Università di Haifa hanno scoperto a Sussita, sulle alture del Golan, un tesoro sepolto che comprende 97 monete d’oro puro e decine di frammenti di orecchini in oro decorati con perle, pietre semipreziose e vetro. La scoperta è datata tra il VI e il VII secolo d.C.; uno dei pezzi più rari è una tremissis probabilmente coniata a Cipro intorno al 610, durante il regno dell’imperatore Eraclio il Vecchio e suo figlio, nell’epoca della rivolta contro l’imperatore Foca.
Secondo i ricercatori, il tesoro sarebbe stato nascosto “per paura della conquista sassanide-persiana”. Una curiosità: alcune delle monete recano ancora tracce del sacchetto di stoffa che le conteneva. L’opera degli orefici dell’epoca si rivela particolarmente raffinata nei gioielli: metalli di pregio, pietre, perle… un’eleganza che ha sorpreso gli studiosi.
Sussita, situata con vista sul Mar di Galilea, era nei secoli bizantini un centro cristiano importante, sede vescovile, con numerose chiese; la scoperta amplia la comprensione di come convivevano culture, comunità e pratiche religiose in quell’area tra cristiani, pagani e altri gruppi.
(Shalom, 26 settembre 2025)
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Gariwo, vetrina antisionista
di Davide Cavaliere
Nel momento in cui il conflitto tra Israele e Hamas vive uno dei suoi momenti più incandescenti e drammatici, le parole contano. Eccome se contano. Il report pubblicato da Gariwo, dal titolo «Le dodici tattiche di Israele per negare il genocidio», curato da Gregory H. Stanton del Genocide Watch, non solo travisa la realtà della guerra in corso, ma offre una rappresentazione ideologica e unilaterale, che mina alla radice ogni tentativo di lettura equilibrata della situazione. Ancora più grave: alimenta una narrazione che avvicina, fino a sovrapporre, la legittima critica alle politiche di un governo alla delegittimazione dell’intero Stato d’Israele – operazione in cui è specializzato uno degli autori di punta di Gariwo: Anna Foa.
Il report in questione, fin dall’introduzione, inanella un errore dopo l’altro, a cominciare dell’affermazione secondo cui «Gli Stati arabi e altri Stati musulmani rifiutarono la creazione di Israele perché il suo territorio era stato sottratto a parte della Palestina». Le cose sono andate esattamente all’opposto: del territorio mandatario designato per l’erezione di uno Stato ebraico, circa il 72% fu destinato agli arabi e solo il 28% per il popolo ebraico (si rimanda, per quanto concerne la suddivisione del Mandato Britannico per la Palestina, agli ottimi studi di David Elber).
Il report prosegue con un secondo errore: «700.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono da Israele sotto la pressione di paramilitari sionisti o delle forze militari israeliane». Come ha scritto Benny Morris, il più autorevole storico del conflitto arabo-israeliano: «Ciò che accadde fu che in alcuni luoghi alcuni ufficiali espulsero della gente, ma in molti casi gli arabi semplicemente fuggirono». Ma veniamo più propriamente al tema del report, ovvero l’accusa di «genocidio» mossa a Israele.
Definire le azioni israeliane come «genocidio» è un’accusa gravissima, usarla per descrivere un conflitto armato in cui uno Stato democratico risponde a un attacco terroristico brutale e senza precedenti – il mega pogrom del 7 ottobre 2023, con 1.200 israeliani massacrati, stupri, rapimenti, corpi bruciati – significa svuotare la parola di significato e farne un’arma ideologica. Il diritto internazionale, almeno su un punto, è chiaro: per parlare di genocidio è necessario vi sia l’intento specifico di distruggere un gruppo in quanto tale. Nessuna prova concreta, né dai documenti ufficiali né dalle dichiarazioni delle autorità israeliane né deducibile dalle azioni sul campo delle Forze di Difesa Israeliane, supporta questa accusa.
L’articolo, poi, elenca dodici presunte «tattiche» con cui Israele «negherebbe» il «genocidio», ma nessuna di esse viene discussa con rigore o verificata alla luce dei fatti o del diritto. È una lista ideologica, costruita per dimostrare una tesi preconfezionata. Nessuna delle complesse dinamiche del conflitto viene presa in considerazione: il ruolo di Hamas, l’uso sistematico di scudi umani, i tunnel sotto ospedali e scuole, la strategia deliberata di coinvolgere civili per guadagnare il favore mediatico. Tutto viene ricondotto a una narrativa semplicistica e manichea: Israele male assoluto, Palestina vittima sacrificale. Si dimentica, inoltre, che Israele è una democrazia pluralista, dove esiste un’opposizione interna, una stampa libera, un sistema giudiziario che ha più volte limitato l’operato del governo, e una società civile che discute aspramente ogni decisione militare. Non un regime autoritario monolitico.
L’operazione a Gaza è condotta in un contesto urbano densamente popolato, contro un nemico che si nasconde tra i civili e usa la popolazione come scudo. Le Forze di Difesa Israeliane adottano misure senza precedenti per minimizzare le vittime civili: volantini, messaggi mirati, corridoi umanitari. Può essere legittimo discutere se queste misure siano sufficienti, ma ignorarle completamente è disonesto. L’articolo cita solo le statistiche fornite dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, o quelle dell’ONU, agenzia inquinata da una storica e documentata pregiudiziale contro lo Stato ebraico, senza mai mettere in discussione la loro attendibilità. Come possiamo parlare di verità se ci affidiamo a una fonte diretta di una parte belligerante, con un evidente interesse a gonfiare i numeri delle vittime civili?
Il report raggiunge vette d’involontaria comicità quanto parla di «destino divino di Israele». Secondo l’autore «Gli ebrei ultra-sionisti sostengono di avere un diritto divino a occupare Gaza e la Cisgiordania». Si tratta di una mistificazione, l’area della Giudea e la Samaria, impropriamente nota come «Cisgiordania», appartiene a Israele in base a quanto stabilito dal Mandato Britannico per la Palestina, l’unico documento dotato di un valore giuridico definitivo secondo il diritto internazionale. Occupata illegalmente della Giordania dal 1948 al 1967 e resa judenrein dagli arabi, la «Cisgiordania» viene, oggi, rivendicata su basi storiche e giuridiche, e non in nome di un improbabile «messianismo» ebraico.
Il report presentato da Gariwo è un compendio delle peggiori calunnie mai formulate contro Israele. Sebbene il rapporto presenti anche qualche minima e ipocrita raccomandazione per Hamas («Hamas deve liberare ORA tutti gli ostaggi rimanenti»), rimane un testo fondamentalmente antisionista, come dimostrano le seguenti espressioni: «occupazione della Cisgiordania», «persecuzione dei palestinesi», «distruzione genocidaria di Gaza».
Ormai, Gariwo, più che di piantare alberi per «Giusti» veri o presunti, si occupa di seminare odio anti-israeliano. Se continuerà su questa linea, il prossimo albero lo dedicherà al «resistente» Yahya Sinwar.
(L'informale, 26 settembre 2025)
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Eilat tra attacchi Houthi e alberghi pieni per Sukkot
Durante l’attacco degli Houthi al centro commerciale di Eilat, l’ultimo di una lunga serie contro Israele, Hanna Gamarsani non è riuscita a distinguere se il rumore che aveva sentito fosse davvero un’esplosione. «Ero seduta fuori, ho sentito l’allarme e sono corsa in hotel», racconta a Ynet. «Poi la deflagrazione sopra la mia testa. Mio marito era con me, ma non sapevo dove andare. Ero sotto shock, tremavo». Gamarsani è rimasta ferita in modo lieve, ma ha descritto soprattutto la paura: «Non sapevo nemmeno se ci fosse un rifugio vicino. Alla fine ci siamo nascosti in un magazzino».
Ieri sera, a causa del drone esplosivo lanciato dallo Yemen, all’ospedale Yoseftal sono arrivate 48 persone: due in condizioni gravi, una in condizioni moderate, le altre con ferite leggere o sintomi d’ansia. «In pochi minuti il pronto soccorso era pieno», ha spiegato a Kan Daher Agbariya, responsabile dei servizi di emergenza. «Siamo addestrati a gestire scenari di maxi-emergenza e possiamo trattare fino a 250 pazienti. Ma la verità è che in un evento con molte vittime Eilat sarebbe scoperta».
Il sindaco Eli Lankri ripete lo stesso timore in tutte le interviste: «Se ci fossero stati più feriti gravi, non saremmo stati in grado di garantire cure adeguate. Le lacune nei servizi sanitari qui sono enormi. Abbiamo i peggiori servizi medici dello stato di Israele. È ora di intervenire». L’ospedale Yoseftal ha 65 posti letto e un pronto soccorso non protetto: i reparti più delicati, come maternità e dialisi, avranno spazi sicuri solo nel 2028.
Negli ultimi mesi Eilat è diventata un fronte sempre più caldo del conflitto. Dall’inizio della guerra a Gaza circa 300 droni sono stati lanciati dai ribelli yemeniti verso la città, dieci dei quali hanno superato le difese e sono esplosi in aree civili. Hanno colpito l’aeroporto Ramon, l’ingresso dell’hotel Jacob e, ieri sera, il cuore del distretto turistico, tra negozi, bar e pub. «Gli allarmi non sempre suonano», ha lamentato una residente della città. «Ieri ho avuto un attacco di panico, correvamo senza sapere dove portarci i bambini. La città non è pronta per la guerra».
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha telefonato al sindaco di Eilat per garantire sostegno e promesso: «Ogni attacco alle città israeliane sarà seguito da un duro e doloroso colpo contro il regime terroristico degli Houthi». L’esercito lavora a rafforzare ulteriormente le difese aeree nel sud e c’è un’indagine aperta per capire perché il drone non sia stato intercettato.
Accanto alla paura, ci sono i danni economici. Thomas Levy, proprietario del bar Bardak, ha visto il locale appena ristrutturato nuovamente danneggiato: «Siamo alla vigilia di Sukkot, dopo due anni di calo la città non regge altri colpi. Le pratiche burocratiche sono lente, sembra che nessuno abbia fretta di rimetterci in piedi», ha spiegato a ynet Levy.
Eppure, sottolinea il quotidiano israeliano, Eilat continua a riempirsi. «Non ci sono cancellazioni per Sukkot», sottolinea Itamar Elitzur, direttore dell’associazione albergatori. «La città è quasi al completo: il 90% delle camere sono piene. È tutto turismo interno. Gli hotel sono preparati, le procedure funzionano, le persone vogliono continuare a vivere». Anche Lior Raviv, ceo della catena Isrotel, conferma: «Nessuno ha lasciato gli hotel dopo l’attacco. È finita, e basta. La gente in Israele è abituata ad affrontare le emergenze».
Gli Houthi hanno preso di mira il simbolo stesso del tempo libero israeliano: il Mar Rosso, il turismo, l’economia stagionale. «I nemici vogliono distruggere la nostra routine», ha commentato il sindaco Lankri. «Il modo migliore per rispondere è non lasciarglielo fare».
(moked, 25 settembre 2025)
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Nostalgia della nazione ebraica
Dal libro “Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo” riportiamo un capitolo in cui si commenta il nocciolo del pensiero di Leon Pinsker (1821-1891) sulla “questione ebraica”, così come si presentava nell’Ottocento. Secondo Pinsker, gli ebrei senza terra sono come uno spirito vagante senza corpo, dunque uno spettro. E gli spettri fanno paura. Dare un corpo a questo spirito sarebbe la soluzione, e il corpo non potrebbe essere che la nazione ebraica. Le difficoltà che vede Pinsker a questa soluzione sono soprattutto interne, cioè tra gli ebrei, soggetti a una malattia che non percepiscono e di cui dunque non cercano il rimedio. Quando Pinsker morì, la nazione ebraica non era neppure all’orizzonte, ma ora che è presente, le ragioni che Pinsker porta per sottolineare l’importanza vitale del legame tra spirito e corpo, tra singoli e nazione, possono servire egregiamente come quadro per una riflessione su quello che sta avvenendo oggi tra ebrei, Israele e resto del mondo.
di Marcello Cicchese
Dalla fine dell’Ottocento la cosiddetta “questione ebraica” si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L’emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell’ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
Le cose invece sono andate diversamente nell’Europa dell’est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l’abbandono da parte degli ebrei dell’yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell’impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo “Auto-emancipazione”. Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell’individuazione del motivo profondo che secondo l’autore sta alla base dell’antisemitismo moderno: l’assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
Varrà la pena di fare lunghe citazioni [in colore diverso] di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
“Come nei tempi passati, l’eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo.”
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare “sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l’allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l’originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
“Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo.”
Pinsker parla di “riconquista di un’esistenza nazionale indipendente”, dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell’esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l’assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: “Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli”. La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L’autore non discute su che cosa l’abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
“Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione.”
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall’inesistenza all’esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
“In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
1) cittadini (il popolo);
2) patria (la terra);
3) sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto - secondo Pinsker - che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l’elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte “spirituale”. Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell’impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità “spirituale”, nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
“Questa apparizione spettrale, questa figura d’un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di ‘demonopatia’: ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.”
Per Pinsker dunque l’antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L’emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
“La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E’ il limite massimo della nostra ambizione.
È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
“Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato la nostra vita individuale, abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente.”
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
“Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?”
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Come commento, la riflessione che segue.
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Paura che genera odio
di Marcello Cicchese
Nel pensiero di Leon Pinsker sugli ebrei ci sono due punti singolari che non sembra siano stati ripresi in seguito da altri:
1) intorno agli ebrei vaga un indefinito spirito che misteriosamente li accomuna in qualunque nazione essi abitino e in qualunque epoca essi vivano;
2) questo spirito di una nazione senza corpo appare ai non ebrei come un fantasma che genera paura.
Questo indefinito spirito che tiene unito l’insieme degli ebrei può essere visto come Dio in azione che lavora per mantenere l’impegno che si è dato di mantenere in vita il suo popolo fino alla fine. E il fantasma che inquieta qualcuno è la visione ingannevole di Dio che può apparire a chi non crede in Lui.
Ma se dietro il fantasma c’è Dio, allora la paura che genera è paura di Dio.
C’è un tipo di paura che emerge davanti a un vuoto di cui non si vede il fondo, o davanti a un enigma importante di cui non si trova la risposta. La presenza operante di ebrei in una società crea prima o poi il sorgere di un tale enigma.
L’enigma sono loro, gli ebrei. Chi sono questi ebrei? perché ci sono? come si definiscono? da dove vengono? che cosa vogliono? Domande su domande, e un’infinità di risposte. Mistero.
C’è qualcosa di nebuloso in questo mistero. È qualcosa che si avverte sulla pelle. È paura. Una strisciante, indefinibile paura. L’oggetto misterioso appare e scompare. Poi riappare di nuovo mille volte, e sempre in forme nuove. Allora, nel momento in cui riappare e si pensa di poterlo trattenere si prova un tale odio per lui che lo si vorrebbe distruggere non una, ma due, tre, mille volte. E’ paura che genera odio.
Pinsker pensava che si potesse far sparire la paura provocata da questo spettro che si aggira nel mondo dando agli ebrei il corpo di una loro nazione. Questo è avvenuto, una settantina di anni fa, ma il fantasma non è sparito. Dopo aver dato alcuni segni premonitori, è improvvisamente riapparso il 7 ottobre, in un diverso formato. Non è più l’assenza di una nazione per gli ebrei che genera paura, ma il contrario. E’ la presenza impudente di una nazione che si ostina a volersi dire ebraica, a essere l’enigma che solleva domande. Cos’è questa nazione? Da dove viene? Perché vuol dirsi ebraica? Perché crea problemi agli altri, prima a quelli intorno e poi a tutto il mondo? E come mai riesce sempre a rimanere in piedi, nonostante tutti tentativi di abbatterla? Domande su domande e un’infinità di risposte. Alla fine non si sa. Mistero. Paura. Odio.
L’odio generato da paura è inattaccabile, impenetrabile da qualsiasi pensiero di ordine razionale. Adesso abbiamo i bambini di Gaza. Su quelli non si discute. Del resto è chiaro: chi è che li uccide senza pietà? Sono loro, gli ebrei. La loro nazione, Israele. E chissà che cosa potrebbero fare anche agli altri, questi ebrei. Anche a noi. Anche a me. C’è da aver paura, a sapere che esiste uno stato degli ebrei. Si capiscono allora i poveri palestinesi; e si capisce un movimento di liberazione come Hamas, che ha cercato di distruggere questo odioso stato che uccide i bambini e dare finalmente uno stato a questi poveri palestinesi.
Ma in fondo è vero: chi odia Israele, anche se non lo fa per paura, ha un motivo serio per averla. Perché alla fine di tutto sarà proprio la nazione di Israele quella di cui si servirà Dio per colpire le nazioni che si saranno mosse contro Gerusalemme. Certo, prima regolerà i conti interni con la Sua nazione, e quelli alla fine andranno a posto.
Andranno a posto anche quelli esterni, con le altre nazioni. Ma la cosa sarà per loro molto, molto dolorosa.
L’odio di adesso contro Israele può comprendersi allora come anticipazione della paura che coglierà in quel giorno tutte le nazioni che si saranno opposte alla volontà di Dio che, senza consultarsi con nessuno, ha scelto Israele. Infatti:
Dunque è vero, Israele fa paura. E’ paura di Dio che genera odio per Israele.
(Notizie su Israele, 25 settembre 2025)
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Indignazione per un cartello affisso in un ristorante di Fürth
Dopo il cartello affisso in un ristorante che dichiarava indesiderati i cittadini israeliani, la comunità ebraica di Fürth parla ora di antisemitismo e valuta di intraprendere azioni legali. In precedenza si era verificato un caso simile a Flensburg.
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"Cari clienti, amiamo tutti, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere in nessun caso delle vittime. Siamo una squadra internazionale. Facciamo parte della società civile e quindi non resteremo a guardare come il resto del mondo. Ecco perché abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non è politica, né tantomeno razzista. I cittadini israeliani non sono benvenuti in questa struttura. Naturalmente, saranno di nuovo benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore".
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La comunità ebraica di Fürth protesta contro un cartello temporaneo affisso in un ristorante locale che dichiarava “cittadini israeliani” non graditi. “Una simile esclusione è semplicemente vergognosa e terribile”, ha dichiarato la presidente Julia Tschekalina alla Deutsche Presse-Agentur. L'incidente è antisemita e le ricorda il 1933. “Allora è iniziato tutto così”.
Ha annunciato, tra l'altro, di voler valutare la possibilità di sporgere denuncia e di coinvolgere il commissario bavarese per l'antisemitismo Ludwig Spaenle.
Lo stesso giorno Spaenle ha criticato un incidente simile: "È inconcepibile. Un negozio di musica chiede a un'orchestra israeliana di valutare la situazione nella Striscia di Gaza per poterle noleggiare un amplificatore“, si legge in un comunicato. ”Per lui è come un esame di coscienza pubblico". Secondo Spaenle, il negozio di musica dell'Alta Baviera sostiene quindi gli obiettivi del movimento antisemita Boycott, Divestment and Sanctions (BDS). Egli ha sottolineato: “Questa è una forma di antisemitismo”.
A Fürth, il gestore del ristorante ha confermato alla dpa, su richiesta, l'esistenza del cartello criticato dalla comunità ebraica. Tuttavia, ha affermato che non era antisemita e non conteneva alcuna offesa. Il cartello, che era stato affisso solo all'interno del locale, è stato rimosso dopo due o tre ore.
Il gestore del ristorante nega l'accusa di antisemitismo
"Amiamo tutte le persone, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere toccati in nessuna circostanza. Siamo un team internazionale. Apparteniamo alla società civile e quindi non resteremo a guardare inerti come il resto del mondo. Per questo abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non ha carattere politico, tanto meno razzista“, si legge nel manifesto secondo una foto diffusa dalla comunità ebraica. E poi: ”I cittadini israeliani non sono i benvenuti in questo locale. Naturalmente saranno nuovamente i benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore".
Tschekalina ha affermato che è ovviamente possibile criticare l'azione militare del governo israeliano, cosa che fanno anche gli stessi israeliani. Tuttavia, il manifesto emargina un intero popolo.
Secondo la procura, sussiste il sospetto “che il manifesto abbia offeso la dignità umana degli ebrei che vivono in Germania, in quanto questi ultimi sono stati maliziosamente disprezzati a causa della loro appartenenza al giudaismo”.
(Die Welt, 24 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Siria-Israele, si avvicina l’accordo sulla sicurezza militare. Le nuove garanzie per i drusi
Una luce in mezzo al buio per Tel Aviv: l’intesa potrebbe anticipare una vera collaborazione per la pace. Lo Stato ebraico si ritirerebbe parzialmente dalla zona cuscinetto, in cambio la rinuncia siriana al Golan
di Giuseppe Kalovski
TEL AVIV - Un nuovo anno pieno di paure per gli ebrei nel mondo sta arrivando, ma forse qualcosa di nuovo e di positivo timidamente si affaccia sullo scenario mediorientale, anche se viene taciuto o tenuto “low profile” dalle piattaforme mediatiche. Nei prossimi giorni, all’Assemblea Generale dell’Onu, verrà annunciato, a meno di improbabili ma possibili colpi di scena, l’Accordo di sicurezza (non un accordo di pace o di normalizzazione) tra Israele e il nuovo regime siriano guidato dall’ex terrorista sanguinario Ahmed Al-Shara’, più comunemente conosciuto con il nome di battaglia Al Jolani.
Dopo aver fatto visita negli Usa da Trump, in Francia da Macron e in Russia da alti funzionari governativi, Al Jolani si accinge a parlare dal palco delle Nazioni Unite e se verrà firmato questo Accordo di Sicurezza tra Israele e la Siria è lecito e auspicabile pensare che possa essere il preludio, l’anticamera di un vero accordo di pace. Israele, tramite il suo ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, ha posto delle condizioni prima di essere pronto a firmare questo storico accordo. Lo Stato Ebraico sarebbe disponibile a un ritiro parziale lasciando solo 2 km di profondità per la “zona cuscinetto” oltre il confine con la Siria ma non disponibile a ritirarsi dal Monte Hermon perché di vitale importanza strategica. Israele chiede anche una no fly zone a sud ovest di Damasco in direzione Israele e un corridoio aereo per i jet israeliani da utilizzare in caso di nuova guerra contro l’Iran.
Al Jolani, tramite il suo ministro degli Esteri, aveva già espresso il suo assenso informale alla rinuncia della sovranità siriana sulle alture del Golan occupate da Israele nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e annessa nel 1981. Questa rinuncia, se confermata, avrebbe come conseguenze due effetti estremamente positivi: il primo di ordine meramente geopolitico, perché ufficializzerebbe una situazione che ormai esiste da quasi sessanta anni, cancellando di fatto la risoluzione dell’Onu che dichiarò nulla l’annessione israeliana. Il secondo effetto sarebbe quello di tranquillizzare i drusi che abitano nelle Alture del Golan, circa 25.000, e offrire loro una definizione dello status di cittadini. Attualmente solo il 30% dei drusi del Golan hanno la cittadinanza israeliana, gli altri sono apolidi. La comunità drusa, pur avendo una forte identità culturale e religiosa, è leale e integrata e vive in modo armonioso accanto agli ebrei, e chiede protezione allo Stato Ebraico.
Lo scempio nella città drusa di Sweyda, in Siria, perpetrato dai beduini e dalle fazioni islamiche radicali nei confronti di uomini, donne e bambini drusi provocando 1400 morti e un numero imprecisato di donne in ostaggio, ha fatto salire alla ribalta in Israele, ma molto meno in Italia e nel resto dell’Occidente la questione drusa in Siria. I drusi sono una popolazione pacifica di origine araba che ha abbandonato l’Islam nel 1017 costituendo una religione che ha elementi cristiani ed islamici. Pur avendo le caratteristiche proprie di un popolo, non hanno velleità territoriali di autodeterminazione; si adattano pacificamente al governo dello Stato nel quale vivono. È scontato che un regime islamico sunnita come quello che si è instaurato cacciando Assad, l’Iran e i russi dal territorio siriano rappresenta, come si è tragicamente visto subito, un grave pericolo per la comunità drusa.
Nell’accordo di sicurezza, Israele chiede anche garanzie per l’incolumità dei drusi siriani; l’Idf, come ha già fatto qualche mese fa, è pronta a difenderli e a proteggerli. Bisogna anche considerare che i 25.000 drusi del Golan occupato da Israele hanno moltissimi parenti in Siria e a Sweyda in particolare: le autorità druse hanno chiesto corridoi umanitari con Israele e una maggiore solidarietà operativa da parte israeliana nei confronti dei loro fratelli siriani perseguitati e trucidati. Israeliani e drusi si considerano fratelli e questo sentimento di estrema vicinanza obbliga giustamente lo Stato Ebraico a difendere questa pacifica e orgogliosa popolazione.
Majdal Shams, villaggio druso ai piedi del Monte Hermon, è tristemente famoso per la strage dei 12 bambini drusi uccisi da un razzo di Hezbollah il 27 luglio del 2024. Quella orribile strage ha paradossalmente rafforzato i legami con il governo israeliano. Basta andare a fare una visita in quei luoghi e si può toccare con mano l’accoglienza, l’ospitalità, la gentilezza di questa popolazione che desidera solo di poter vivere liberamente, come già avviene in Israele. I drusi sono l’esempio, la testimonianza della volontà di pace e di convivenza da parte di Israele con chiunque non desideri annientarla. La comunità drusa in Israele può esprimersi liberamente a qualsiasi livello: è rappresentata in Parlamento come il resto degli arabi israeliani con un forte senso di lealtà nei confronti dello Stato Ebraico.
Ma in un mondo che parla a sproposito di genocidio, di un assurdo riconoscimento unilaterale dello stato di Palestina senza neanche chiedere come precondizione il diritto all’esistenza di Israele, la recente mattanza di Sweyda è passata quasi inosservata. Un accordo di sicurezza con un inaffidabile ex terrorista diventato premier siriano appare, in un contesto così assurdo, un lampo di luce nell’oscurità delle cancellerie occidentali.
(Il Riformista, 24 settembre 2025)
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Iniziativa di preghiera online il 6 ottobre
HERRENBERG – Il 7 ottobre ricorre il secondo anniversario dell'attacco terroristico di Hamas con il massacro nel sud di Israele. Esso ha scatenato la guerra di Gaza, che continua ancora oggi. Il grande attacco è stato seguito da un'ondata di antisemitismo e odio verso Israele, non solo in Germania. Molti cristiani vedono in questo sviluppo un'elevata carica spirituale. Per questo motivo diverse organizzazioni invitano alla preghiera il 6 ottobre. Dalle 18 alle 24 gli interessati potranno ricevere spunti in livestream. In gruppo o da soli potranno partecipare alla “notte nazionale di preghiera”. La preghiera sarà guidata da Detlef Kühlein del podcast “Bibletunes”. Il moderatore è Tobias Krämer di “Christen an der Seite Israels” (CSI), con sede a Herrenberg, nel Baden-Württemberg.
• Preghiera per gli ebrei e contro l'antisemitismo
È previsto che i cristiani preghino, tra l'altro, per le cerimonie commemorative in occasione dell'anniversario. Altre intenzioni di preghiera riguardano la Germania, Israele, gli ebrei in tutto il mondo e mezzi efficaci contro l'antisemitismo. All'inizio della serata, un esperto introdurrà il tema dell'antisemitismo, i suoi molteplici volti e le sue radici cristiane. Seguiranno brevi interventi di diversi oratori che indicheranno la via della preghiera. I dieci blocchi di preghiera dureranno circa mezz'ora, con brevi pause tra uno e l'altro. È possibile registrarsi qui. Tra i promotori e i sostenitori dell'iniziativa di preghiera figurano diverse organizzazioni cristiane. Anche Israelnetz partecipa all'iniziativa.
(Israelnetz, 24 settembre 2025)
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Pro-pal nell’università di Pisa, il rettore Riccardo Zucchi non denuncia
Peled: “È una vergogna”
di Marco Paganoni
In un’esibizione squadrista in stile Enzo Iacchetti – quello del “non accetto contradditorio, vengo lì e ti prendo a pugni” -, un manipolo di sedicenti pro-Pal (in realtà pro-Hamas, quindi contro la libertà dei palestinesi) hanno fatto irruzione in un’aula di Scienze Politiche dell’Università di Pisa dove hanno aggredito e malmenato il professor Rino Casella, “colpevole di sionismo”. La decisione del rettore Riccardo Zucchi di non denunciare la squadretta di picchiatori lascia esterrefatti.
“È una vergogna – ha scritto su X l’ambasciatore d’Israele in Italia, Jonathan Peled – che il Rettore sia più preoccupato di ribadire la condanna inappellabile d’Israele, piuttosto che garantire che le aule dell’ateneo siano spazi sicuri, luoghi di convivenza e confronto civile. Legittimando una reazione violenta nei confronti di chi evidenzia la necessità di un dibattito più articolato su ciò che sta succedendo a Gaza, l’Università di Pisa ha di fatto abdicato al suo ruolo educativo e formativo”. In effetti, il magnifico rettore non si è accontentato di condonare i violenti e condannare Israele.
Rivendicando con orgoglio che “il 24 luglio abbiamo rotto i rapporti con la Reichman University di Herzliya e la Hebrew University di Gerusalemme”, si è prodotto in un esempio da manuale di ignoranza e disinformazione. Ha infatti aggiunto: “La Hebrew [l’Università di Gerusalemme] ha aperto un campus nei Territori, in violazione della risoluzione dell’Onu”. Una menzogna. L’Università di Gerusalemme conta oggi quattro campus: l’Edmond J. Safra Campus s Givat Ram, fondato nel 1953 nella parte ovest di Gerusalemme; l’Ein Kerem Campus, fondato nel 1960, sempre nella parte ovest di Gerusalemme; il Rehovot Campus, che si trova appunto a Rehovot, nel centro di Israele, più vicino a Tel Aviv che a Gerusalemme. Ma il primo campus in assoluto della Hebrew Università è quello sul Monte Scopus, una famosa collina che sorge a nord-est della Città Vecchia. È sul Monte Scopus che venne posata la prima pietra dell’Università di Gerusalemme nel 1918. Ed è sul Monte Scopus che nel 1925 (cento anni fa esatti) venne inaugurata l’Università di Gerusalemme, patrocinata da personalità come Albert Einstein e Sigmund Freud. Il Monte Scopus è sempre stato israeliano.
Quando la Legione Araba di Transgiordania (oggi Giordania) attaccò e invase il neonato stato ebraico nel 1948 e occupò illegalmente la parte est di Gerusalemme, il campus sul Monte Scopus non cadde in mani giordane. Rimase invece come un’enclave israeliana circondata dai soldati nemici, ma garantita dagli Accordi di armistizio. Gli Accordi vennero infranti nel 1967 dalla Giordania, che prese a bombardare i quartieri ebraici di Gerusalemme. La controffensiva israeliana in quella “guerra dei sei giorni” portò alla riunificazione della città e, fra l’altro, alla liberazione dall’assedio del campus sul Monte Scopus. Che è ed è sempre stato territorio israeliano. Lo era il 13 aprile 1948, quando terroristi arabi attraccarono a sangue freddo un convoglio sanitario che vi si recava, trucidando 78 donne e uomini ebrei, quasi tutti medici, infermieri e studenti di medicina.
Lo era il 31 luglio 2002, quando terroristi palestinesi fecero esplodere un ordigno nella sala mensa del campus, causando 9 morti e un centinaio di feriti. Tra questi, anche una studentessa italiana e molti studenti arabi: giacché l’Università di Gerusalemme è sempre stata un libero ed eccellente centro di studi e ricerche frequentato da docenti, studiosi e studenti di ogni nazionalità, di ogni estrazione, di ogni provenienza. Con crescente angoscia, ci domandiamo: che insegnamento e che formazione potrà mai dare, invece, un’università come quella di Pisa, retta da persone che vantano tanta preclusione e ignoranza?
(Il Riformista, 24 settembre 2025)
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Israele-USA, proteste e chiarimenti sui visti
La notizia è rimbalzata in piena estate anche sui giornali italiani: pare che le autorità israeliane creino difficoltà nella concessione dei visti agli evangelici USA, che notoriamente si sono sempre spesi in difesa di Israele. Inevitabili le reazioni dei diretti interessati, che hanno interpretato questo giro di vite come una sorta di tradimento, e in questi toni la notizia è stata raccontata da alcuni media nostrani.
In realtà, ricostruendo i fatti, pare che dopo decenni sia cambiata la procedura relativa alla concessione di visti, e la nuova richiesta da formulare risulti più farraginosa e complessa in particolare per le organizzazioni cristiane. Da qui i problemi e le lamentele, con tutto il risalto internazionale del caso.
Ora, in tempi in cui il Risiko mondiale è costituito da presidenti che straparlano, ministri che azzardano e una diplomazia che arranca non è semplice trovare la giusta prospettiva sulle cose, ma la questione dei visti dev’essere stata percepita come una faccenda piuttosto seria, se l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Mike Huckabee – pastore battista di cui si ricorda anche qualche candidatura alla Casa Bianca – ha presentato a Gerusalemme una lettera di protesta minacciando un pari trattamento per l’accesso negli USA dei cittadini israeliani.
Anche se i media italiani non hanno dato seguito alla cosa – viene da pensare che la notizia fosse funzionale a una certa lettura dei fatti, più che alla ricerca della verità – la vertenza ha avuto uno sviluppo positivo: a stretto giro il ministro dell’Interno israeliano ha dato, come si dice, ampie rassicurazioni (pur manifestando una certa diplomatica sorpresa per l’iniziativa americana, vista come una fuga in avanti rispetto ai proficui colloqui già in corso). E l’ambasciatore USA ha così potuto annunciare – ovviamente sui social – di aver chiuso con successo la vertenza.
(Evangelici.net, 24 settembre 2025)
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La rinascita di Israele è una benedizione per l'Europa
Il periodo di pace più lungo dell'Europa è iniziato con la rinascita di Israele e potrebbe finire con una crescente ostilità nei confronti dello Stato ebraico.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Storicamente, l'Europa ha raramente conosciuto un periodo di pace così lungo come quello delle generazioni successive alla seconda guerra mondiale. Pieni di fiducia in se stessi, gli europei ne erano entusiasti e convinti che le guerre nel loro continente fossero ormai un ricordo del passato. Alcuni credevano addirittura di aver trovato la formula per la stabilità e la pace tra i popoli. Quante volte ho dovuto ascoltare queste convinzioni. Persone provenienti dalla Germania e da altri paesi europei chiedevano ripetutamente perché una tale stabilità e tranquillità non fossero possibili anche in Medio Oriente. Molti erano convinti che l'Europa fosse un modello di convivenza pacifica. “Fate come noi!”, si sentiva dire spesso. A me sembrava sempre un misto di ingenuità e presunzione.
Il fatto è che per secoli le guerre hanno dominato, dalle faide medievali e dalle crociate alle guerre di religione e dinastiche fino alle guerre mondiali del XX secolo. I lunghi periodi di pace consecutivi erano l'eccezione, per lo più limitati a livello regionale e interrotti dall'instabilità politica. Dopo il 1945 si è creato per la prima volta un ordine di pace duraturo: la deterrenza e la cooperazione hanno mantenuto l'equilibrio della Guerra Fredda, mentre l'integrazione europea ha escluso la guerra tra gli Stati. Il benessere, l'integrazione della Germania e il ricordo di due guerre mondiali hanno consolidato queste fondamenta. Ma oltre a tutti questi fattori geopolitici ed economici, è accaduto qualcosa che difficilmente può essere spiegato razionalmente: contemporaneamente, Israele ha vissuto la sua rinascita, come se negli eventi mondiali si fosse dispiegata una dimensione più profonda della storia e della promessa. La pace e la tranquillità tra i popoli in Europa dopo il 1945 sono quindi storicamente uniche. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Europa, almeno nella sua parte occidentale, vive in un periodo di tranquillità storico senza precedenti.
E qui lascio libero corso ai miei pensieri! Forse l'Europa gode di questa lunga pace e di questo straordinario periodo di tranquillità proprio grazie alla fondazione dello Stato ebraico di Israele nel 1948? Potrebbe essere che la rinascita di Israele sia una ragione fondamentale per cui l'Europa sta vivendo una stabilità senza precedenti nella sua lunga storia bellica? È possibile che l'esistenza di Israele nella sua patria sia una benedizione per le nazioni, qualcosa che è difficile spiegare dal punto di vista umano, ma che ha senso alla luce della Bibbia?
Proprio ora stiamo osservando come i governi europei, uno dopo l'altro, attribuiscano a Israele la responsabilità di ogni male in Medio Oriente e come questo atteggiamento si ritorca come un boomerang contro i loro stessi paesi. I migranti musulmani, che in Europa assumono un ruolo sempre più forte nella protesta contro Israele, mettono sempre più in discussione i sistemi occidentali e cristiani. Improvvisamente l'Europa comincia a temere per la stabilità, la tranquillità e la pace di lunga data che finora erano state date per scontate. Ci si può chiedere se tutto questo abbia a che fare con il fatto che le nazioni europee stanno perdendo la pazienza con lo Stato ebraico, mettendo sempre più apertamente in discussione il suo diritto all'esistenza e agendo così inconsciamente contro la missione di Israele.
Non potrebbe essere che, finché Israele prospera nella sua patria biblica, anche i popoli del mondo ne traggano beneficio? Dio non ha forse promesso ad Abramo: «E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra», e ancora: «Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce»? In parole povere: Dio promise ad Abramo che il suo popolo non sarebbe esistito solo per se stesso, ma come strumento attraverso il quale tutta l'umanità avrebbe potuto sperimentare la benedizione, la giustizia e la salvezza di Dio. Chi indebolisce Israele mette a rischio non solo il suo futuro, ma anche la propria pace.
Guardiamo indietro: fino a circa 80 anni fa lo Stato di Israele non esisteva, gli ebrei vivevano sparsi per il mondo, erano perseguitati ovunque e non avevano mai avuto il lusso di vivere nella loro patria biblica per essere da lì una luce per le nazioni. Guardate cosa accadde nel Medioevo, con guerre continue, dalla Guerra dei Cent'anni tra Inghilterra e Francia alle innumerevoli faide tra principi. All'inizio dell'era moderna, guerre di religione come la Guerra dei Trent'anni devastarono intere regioni e ridussero la popolazione di un terzo. Anche il XIX secolo, che con il Congresso di Vienna del 1815 inaugurò una fase di relativa stabilità, fu segnato da conflitti, dalla guerra di Crimea alle guerre di unificazione tedesca fino alla guerra franco-prussiana di oltre 150 anni fa. Per molti secoli i popoli europei hanno combattuto guerre sanguinose gli uni contro gli altri, spesso in nome di Gesù e del cristianesimo, nonostante fossero tutti popoli cristiani. Solo circa ottant'anni fa questa carneficina ha avuto fine.
Solo poco prima della fondazione dello Stato di Israele è diventato possibile ciò che prima sembrava impensabile: un ordine di pace duraturo in Europa. Il benessere, l'integrazione della Germania e il doloroso ricordo di due guerre mondiali hanno gettato le basi storiche per la stabilità. Tutto ciò può essere spiegato dal punto di vista politico ed economico, ma c'è un livello più profondo che spesso viene trascurato: la rinascita di Israele proprio in quel momento. È stata davvero una coincidenza? O forse si nasconde in questo evento la benedizione biblica che molti ancora oggi non vogliono ammettere?
Proprio in questi giorni l'Europa deve prendere una posizione chiara. Chi sta dalla parte di Israele non solo rafforza lo Stato ebraico, ma assicura anche la propria pace e apre le porte alla benedizione sul proprio continente. Ma solo pochissimi lo capiscono e lo vedono. Come disse il leggendario attore hollywoodiano Al Pacino: «Ammiro Israele. Se Israele è forte, il mondo è forte. Se Israele è debole, il mondo è debole. Per questo dobbiamo sostenere Israele!».
(Israel Heute, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Rosh Hashanah: dalla tradizione alla salvezza
I dieci giorni di pentimento del mese di Tishri sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento dei rapporti tra gli uomini e tra l'uomo e Dio.
di Ariel Winkler *
In questo settembre in Israele si festeggia il Capodanno ebraico, che inizia lunedì sera, 22 settembre, e martedì, 23 settembre. Sebbene nella tradizione sia chiamato «Rosh Hashanah» («capo dell'anno»), nel calendario biblico non è l'inizio dell'anno (il primo mese è Nissan, quando si celebra la festa di Pesach; Esodo 12,2). Si tratta piuttosto di una festività speciale che la Bibbia chiama «Zikaron Teru'a» («memoria del suono della tromba», Levitico 23,24) o «Yom Teru'a» («giorno del suono della tromba», Numeri 29,1). È una delle sette feste che Dio ha dato al popolo d'Israele nel ciclo annuale biblico.
Nella Bibbia non esiste una festa che sia espressamente definita come «inizio dell'anno». Tuttavia, nella tradizione rabbinica si è sviluppato il concetto di quattro diversi «inizi dell'anno», che rappresentano diversi conteggi e definizioni:
- Il primo giorno di Nissan: Capodanno per i re e le feste - da questa data si contano gli anni di regno dei re in Israele e l'ordine delle feste di pellegrinaggio (Mishnah Rosh Hashanah 1,1).
- Il primo giorno di Elul: Capodanno per la decima del bestiame - il momento a partire dal quale viene versata la decima delle pecore e dei bovini del nuovo anno.
- Il primo giorno di Tishri: Capodanno per gli anni, per lo Shmitta (anno sabbatico) e l'anno giubilare, per le coltivazioni e per gli ortaggi - questa data determina il nuovo anno per il conteggio dello Shmitta (anno sabbatico) e degli anni giubilari, l'età degli alberi e la decima sugli ortaggi.
- Il primo giorno dello Shwat: Capodanno per gli alberi - determina l'inizio del nuovo anno per il calcolo della decima dei frutti degli alberi.
Così è nata nel pensiero ebraico l'idea di Rosh Hashanah, non come un singolo giorno per tutto, ma in date diverse che esprimono i vari aspetti della vita nazionale e agricola.
Il Rosh Hashanah primo giorno di Tishri apre i dieci giorni di pentimento, un periodo speciale di raccoglimento interiore e di riflessione su se stessi. Questi giorni sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento delle relazioni tra le persone e tra l'uomo e Dio. Il culmine è rappresentato dallo Yom Kippur, in cui il popolo d'Israele si riunisce per digiunare, pregare e supplicare, chiedendo perdono e purificazione spirituale.
A Rosh Hashanah è tradizione recarsi in riva a un corso d'acqua (fiume, sorgente o mare) e praticare l'usanza del Tashlich («tu getterai»). In questa occasione, le tasche vengono svuotate e liberate da ogni traccia di polvere o sporcizia, come simbolo dell'abbandono dei peccati. Durante questa usanza viene recitata la preghiera del Tashlich, basata su Michea 7,18-19:
«Chi è un Dio come te, che perdona l'ingiustizia e trascura la trasgressione del resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, perché ha piacere nella misericordia. Egli avrà di nuovo pietà di noi, calpesterà le nostre iniquità; e tu getterai tutti i loro peccati nelle profondità del mare».
Anche se questo atto è simbolico, esprime la profonda consapevolezza che solo Dio può perdonare i peccati e gettarli nelle profondità del mare.
Allo stesso modo, il re Davide confessa che solo Dio è colui che perdona: «Egli ti perdona tutti i tuoi peccati, guarisce tutte le tue malattie» (Salmo 103,3). Lo stesso vediamo quando Gesù servì a Capernaum e guarì il paralitico: «Ma alcuni scribi erano seduti lì e pensavano nei loro cuori: “Perché costui parla così? Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?”» (Marco 2,6-7). Questa reazione riflette la concezione biblica secondo cui solo Dio può perdonare i peccati. La morte vicaria di Gesù sulla croce ci dona proprio questo perdono dei peccati: «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia» (Efesini 1,7).
Nonostante l'atto simbolico del Tashlich, in cui il popolo d'Israele chiede a Dio di gettare i suoi peccati nell'acqua e implora il perdono, esso è ancora lontano dal suo Dio e Messia Gesù. Ma proprio l'ostinazione e la caduta di Israele sono diventate salvezza per le nazioni (Romani 11,12). Non dobbiamo dimenticare che Dio ha sempre un residuo fedele, proprio come ai tempi di Elia, quando il Signore disse: «Ma io ho lasciato in Israele settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal» (1Re 19,18) . Anche oggi Dio ha un residuo fedele in Israele. Inoltre, ha un piano per la salvezza del suo popolo Israele, come promesso:
«Riverserò lo spirito di grazia e di supplica sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zaccaria 12,10).
E come scrive Paolo ai Romani: «Una parte d'Israele è stata indurita, finché non sia entrata la pienezza dei gentili; e così tutto Israele sarà salvato» (11,25-26).
Rosh Hashanah non è quindi solo un'occasione personale per esaminare la propria coscienza e chiedere perdono per il popolo d'Israele, ma anche un ricordo della fedeltà di Dio attraverso le generazioni. Il ricordo del suono delle trombe ci invita a pensare alla grazia di Dio, alle sue promesse infallibili e al suo piano globale per la salvezza del suo popolo Israele e del mondo intero. Quando oggi guardiamo alla condizione spirituale di Israele e preghiamo affinché si volga a Lui con tutto il cuore, manteniamo salda la speranza e la fede che Dio porterà a compimento ciò che ha iniziato.
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*Ariel Winkler, classe 1983, è cresciuto in Israele, dove ha portato a termine la sua formazione teologica e ha ottenuto il diploma di guida turistica. Lavora nel team di Beth Shalom ad Haifa.
(Nachrichten aus Israel Nr 9, september 2025/5786 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Riconoscere uno Stato palestinese, una vittoria del jihad
di Davide Cavaliere
Potrebbe essere solo una coincidenza che Canada, Australia e Regno Unito abbiano deciso di riconoscere uno Stato islamico e terrorista – la cui identità si basa sull’uccisione degli ebrei – proprio a ridosso di Rosh ha-Shana, una delle più importanti festività ebraiche; ciò che, certamente, non è casuale, è che abbiano dato ai terroristi esattamente ciò che desideravano.
L’idea di riconoscere uno «Stato palestinese» costituisce un’assurdità e un’offesa alla storia per almeno due motivi. In primo luogo, perché non esiste un «popolo palestinese» distinto, ma comunità arabe musulmane locali che, dopo la cocente sconfitta del 1967, hanno adottato l’identità «palestinese» per mascherare la volontà di distruggere Israele con una verniciatura di «liberazione nazionale». I «palestinesi» come popolo autoctono sono, in realtà, un’invenzione recente. In secondo luogo, perché il loro obiettivo non è mai stato costruire uno Stato in cui vivere in pace e in buoni rapporti con Israele, bensì sottrarre territorio agli ebrei e consolidare le proprie postazioni d’attacco.
Recenti sondaggi dimostrano che il 64% degli arabi che vivono sotto il governo dell’Autorità Palestinese ritiene che la «soluzione dei due Stati» non sia più praticabile; il 72% approva il massacro del 7 ottobre e il 41% sostiene una «lotta armata» – ovvero il terrorismo – per annientare Israele. Starmer, Carney e Albanese hanno frainteso le reali aspirazioni dei cosiddetti palestinesi.
Inoltre, non è chiaro dove questo «Stato palestinese» dovrebbe sorgere e con quali modalità. Non esistono confini concordati a livello internazionale, né una capitale definita, né un esercito, né un governo unitario. Gaza è nel mezzo di una guerra e la Cisgiordania non ha un esecutivo stabile: l’Autorità Palestinese esercita un controllo effettivo solo su porzioni limitate del territorio (zona A e parti della B).
Nei discorsi dei vari leader internazionali si è fatto riferimento ai «confini del 1967», in riferimento a quelli antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni, come linee di demarcazione per un futuro Stato palestinese. Tuttavia, quei confini non sono mai esistiti e non compaiono in alcun documento internazionale. Non si trattava di frontiere riconosciute, bensì di semplici linee armistiziali rimaste in vigore dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano del 1948 fino al 1967.
Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che, se Israele dovesse ritirarsi a quelle linee, lo Stato ebraico diventerebbe militarmente indifendibile. Pertanto, Israele non permetterà mai la nascita di una «Gaza su larga scala» a ridosso delle sue città principali.
La scelta di Starmer, Carney e Albanese non è dunque un «atto di pace», ma una capitolazione di fronte al ricatto della violenza. Premiano il terrorismo invece di isolarlo, ne legittimiamo le rivendicazioni più estreme e tradiscono le idee di sicurezza e sovranità nazionale. Riconoscere lo «Stato palestinese» significa voler erigere un santuario per il jihad. E Israele, giustamente, non abbasserà la guardia mentre l’Occidente, ancora una volta, cede alla tentazione di una «pace» concordata al prezzo della sua esistenza.
(L'informale, 23 settembre 2025)
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L’ubriacatura genera guerra
Macron ha indotto con un lavorio intensivo un risultato guerrafondaio. Solo l'estrema sinistra lo sostiene al 78%, il 41 nel suo partito
di Fiamma Nirenstein
La riunione indetta da Macron per riconoscere lo Stato palestinese completa la pluridecennale inimicizia dell'Onu verso Israele. Già il giorno prima Starmer, insieme ad altri tre volenterosi (Portogallo, Australia, Canada), ha dichiarato solennemente che sarà della partita. Così la Gran Bretagna, madre della dichiarazione Balfour e della risoluzione di Sanremo nel 1920 e mandataria per garantire la fondazione dello Stato ebraico, oggi tradisce Israele. È una pandemia: sono più di 150 stati che premiano Hamas. Sarebbe bello "due stati per due popoli", ma l'ombra del 7 ottobre incombe, già Macron, dice Hamas, ha causato il rifiuto di liberare i rapiti.
Menomale che l'Italia è stata saggia. Ma anche la gente dei Paesi che votano "Sì" lo sa: il 90% degli inglesi non è d'accordo, neppure due terzi dei francesi e il 38% chiede che almeno si restituiscano gli ostaggi. Macron ha indotto con un lavorio intensivo un risultato guerrafondaio. Solo l'estrema sinistra lo sostiene al 78%, il 41 nel suo partito. In Inghilterra solo il 13% sostiene un riconoscimento senza condizioni, il 51 lo vuole senza Hamas, il 41 chiede almeno gli ostaggi.
I genitori di Eviatar David e Ron Braslawsky, hanno firmato con gli altri parenti una lettera di protesta: chi è per lo Stato palestinese complica la restituzione dei rapiti. Starmer risponde alle accuse di Netanyahu di sostenere il terrorismo, ma è Ghazi Hamad, leader di Hamas, a vantare che il sostegno dello Stato palestinese è frutto del massacro del 7 ottobre. Macron ha fatto un passo indietro, senza ostaggi non ci sarà ambasciata. Ma ormai la valanga ruzzola, l'Onu fa saltare gli accordi di Oslo del '93: adesso per evitare il rischio dell'assedio di uno Stato palestinese fino a Tel Aviv, Israele potrebbe annettere una parte dei Territori. L'Anp, più furba di Macron, non dichiara l'indipendenza: cancellare gli accordi Oslo può portare in un baratro. L'Arabia Saudita minaccia un atteggiamento ostile in caso di annessione, ma avrà poco effetto.
Non c'è nessun segno che i palestinesi accettino la convivenza con Israele, rifiutata dal '48. Abu Mazen ha 90 anni e governa illegalmente dal 2006, le elezioni porterebbero al potere Hamas.
Uno stato sarebbe autoritario, antigay, antidonna, e ultra razzista. Non avrebbe strutture economiche né confini. Un'Onu ubriaca sembra convogliare il mondo su un'unica arte consolidata: l'odio per gli ebrei. Ovvero, alla guerra.
(il Giornale, 23 settembre 2025)
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Chi sono i «minimi fratelli» di Gesù»?
di Elisabeth Kleinschmidt
Da secoli la Chiesa insegna che i «minimi fratelli di Gesù» sono i poveri di questo mondo. I nostri fratelli messianici ci mostrano un nesso più profondo: Gesù racconta questa parabola in riferimento al Suo ritorno. Chiamiamo queste tre parabole di Matteo 25 anche parabole della fine dei tempi.
Cristo dice: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo 25:40)
Il nostro versetto settimanale per la 13ª domenica dopo la Trinità, che quest'anno cade il 14 settembre, è collegato al grande giudizio universale sui popoli. La linea spirituale risale all'affermazione del profeta Gioele: capitolo 3,1 ss. Qui viene descritto il grande giudizio punitivo sui popoli al momento del Suo ritorno.
Il criterio per il Suo giudizio è il comportamento nei confronti del Suo popolo Israele. Leggetelo con attenzione!
Il momento è la restaurazione di Israele nella Sua terra. Quindi ora è molto vicino!
E se guardiamo più indietro nella storia, arriviamo alle promesse di Dio ad Abramo:
«Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra!» (Genesi 12:3)
Quindi, attraverso tutta la storia della salvezza, Israele è il metro di Dio per il Suo giudizio! Nella parabola del giudizio universale, Gesù, il giudice del mondo, si identifica con il Suo popolo: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me».
Se vogliamo fare del bene o del male a Gesù, lo facciamo facendo del bene o del male ai Suoi fratelli carnali. Che forte monito per noi in questo periodo così antisemita!
(Israelnetz, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre”: tre sinagoghe vandalizzate in Canada
di David Fiorentini
Tre sinagoghe di Halifax, in Canada, sono state vandalizzate con svastiche e la scritta “Jews did 9/11” (“Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre”). Ad essere colpite sono state la Shaar Shalom Congregation, il tempio ortodosso Beth Israel e il centro Chabad of the Maritimes.
“È la prima volta che la nostra sinagoga è vandalizzata in questo modo”, racconta la pagina ufficiale di Shaar Shalom su Facebook. “In passato siamo stati bersaglio di minacce bomba inviate per email a tutte le comunità ebraiche del Paese, ma questo rappresenta per noi un nuovo passo dell’odio”.
“Sappiamo che queste notizie spaventano, ma non ci lasceremo intimidire né ci allontaneranno dalla preghiera”, ha aggiunto la Comunità.
Una serie di crimini d’odio che si aggiunge alla drammatica spirale di episodi di antisemitismo che imperversa da mesi in tutto il mondo.
“Attaccare i luoghi di culto è inaccettabile”, ha tuonato il sindaco di Halifax, Andy Fillmore, condannando con fermezza l’accaduto. “Viviamo in un’epoca in cui le discussioni su identità, storia e giustizia possono sembrare divisive e travolgenti, ma non possiamo permettere che questa complessità degeneri in odio nella nostra città”.
Nel frattempo, la polizia regionale ha immediatamente aperto le indagini e ha rilasciato l’immagine del sospettato dalle telecamere di sorveglianza, chiedendo la collaborazione dei cittadini per identificarlo.
La grande tensione di quei giorni era probabilmente legata anche all’incontro di Coppa Davis tra Canada e Israele in programma proprio a Halifax. Tra l’altro la sfida, giocata a porte chiuse per motivi di ordine pubblico, aveva comunque attirato l’ambasciatore israeliano in Canada, Iddo Moed, che quindi ha testimoniato di persona lo spiacevole accaduto.
“L’odio e le sue espressioni antisemite devono essere condannati. Questi atti vandalici sono inaccettabili e devono essere considerati un campanello d’allarme per tutti.”
(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2025)
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L’antisemitismo “democratico”
di Stefano Gatti
Il 28 luglio scorso, in un autogrill vicino a Milano, un ebreo francese insieme al figlio di sei anni è stato insultato e poi ha esposto denuncia per un’aggressione subita nell’indifferenza generale. Pochi giorni prima, una cinquantina di ragazzi ebrei francesi tra i 10 e i 15 anni, insieme alla loro direttrice di 21 anni, sono stati fatti scendere da un volo della compagnia Vueling in partenza da Valencia e diretto a Parigi, dopo aver cantato canzoni in ebraico a bordo: l’equipaggio avrebbe denunciato azioni di “disturbo”.
Questi episodi, su cui sono attualmente in corso le inchieste giudiziarie, costituiscono un paradigma di quanto accaduto dopo il pogrom del 7 ottobre: gli ebrei, vittime di un terribile massacro perpetrato da feroci assassini, dopo pochi giorni, vengono additati come “responsabili”.
Moltissimi commentatori sostengono che l’ondata di antisemitismo post 7 ottobre vada imputata alle azioni “genocide” del “governo di Tel Aviv”. In realtà, la solidarietà verso le vittime ebree è durata un battito di ciglia: nel giro di pochi giorni uccisi e rapiti sono stati dimenticati ed è iniziato il tam tam – spesso suonato da partiti politici, docenti universitari, altri prelati, cantanti, attori ed influencer – secondo il quale la reazione di Israele era “spropositata” e poi “genocida”. Gli ebrei sono stati considerati “responsabili” dell’antisemitismo poiché non hanno preso le distanze dal “genocidio” attuato dal “loro” governo. L’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte – e non solo lui – ha invitato più volte gli ebrei a condannare il “genocidio in corso”, pena la corresponsabilità del medesimo. Va ricordato che, da sempre, gli antisemiti si presentano come vittime degli ebrei, i crociati che li massacravano nel basso Medioevo sostenevano che la loro era una risposta all’iniquità ebraica, mentre Hitler “rispondeva” alla dichiarazione di guerra che gli aveva rivolto l’“ebraismo internazionale”.
Le vittime di antisemitismo vengono immancabilmente inquadrate come “sioniste”, termine quest’ultimo che ha assunto un significato distorto, e sintetizza i principali topoi dell’immaginario antiebraico. L’impiego alterato del termine è trasversale e non connota solamente gli ambienti estremisti. La generalizzazione agisce come meccanismo di disumanizzazione, favorendo una crescente legittimazione della violenza e della normalizzazione dell’odio verso un nemico indefinito (il “sionista”). L’effetto combinato di queste narrative è la legittimazione della violenza verbale e fisica contro gli ebrei, percepiti non come individui, ma come rappresentanti collettivi (i “nuovi nazisti”) delle azioni “genocide e sterminazioniste” di “IsraHell”. I travisamenti del concetto di sionismo risultano sempre più influenzati da matrici ideologiche islamiste, le quali hanno progressivamente guadagnato legittimità e spazio nel discorso pubblico, trovando eco in ambiti scolastici, universitari, mediatici e culturali. Emergono gruppi organizzati di “professionisti dell’antisemitismo”, che promuovono la distorsione del sionismo attraverso l’appropriazione di simboli e distorsioni della Shoah.
Si tratta di soggetti che, in larga parte, operano in maniera coordinata, con strategie mirate alla diffusione dell’odio, spesso sfruttando le dinamiche virali delle piattaforme digitali.
In Italia come nel resto del mondo si registra un numero record di atti di antisemitismo e questo odio organizzato assume toni vieppiù aggressivi, determinati dal fatto che l’antisemitismo in veste di “antisionismo” viene considerato “democratico e antifascista”. Nei primi sei mesi del 2025, l’Osservatorio antisemitismo del CDEC ha registrato circa 500 casi di antisemitismo e, persistendo questo clima, alla fine dell’anno verrà superata la soglia record del 2024 di 874 casi. Gli atti contro gli ebrei si fanno sempre più violenti e ormai gli odiatori si sentono liberi di minacciare con toni come: «sei uno sporco ebreo infame…Ti arriverà un proiettile in testa da parte mia» (maggio 2025).
La normalizzazione dell’antisemitismo attraverso la demonizzazione del “sionismo” ha condotto a questa situazione che è in continuo aggravamento. L’unica soluzione a questo fenomeno globale è che l’ubriacatura ideologica passi al più presto. Ma devono essere enti e persone che hanno rivitalizzato un antisemitismo da anni ’30 a porvi rimedio. E devono farlo al più presto.
(Shalom, 20 settembre 2025)
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Rosh Hashana: Benjamin Netanyahu promette vittoria e pace per Israele
Alla vigilia di Rosh Hashana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto i suoi auguri ai cittadini di Israele, lodando la loro resilienza e il loro coraggio in questo periodo di guerra. In un messaggio solenne, ha reso omaggio ai soldati dell'esercito israeliano, sia regolari che riservisti, nonché a tutte le forze di sicurezza, che ha definito “il muro di protezione dello Stato di Israele”.
Netanyahu ha ricordato i recenti successi militari, in particolare una “operazione storica” che, secondo lui, ha permesso di eliminare una minaccia esistenziale proveniente dall'Iran. “Abbiamo colpito duramente l'asse iraniano, in Libano, Siria, Yemen e persino sul suolo iraniano”, ha dichiarato.
Il capo del governo ha sottolineato che le forze israeliane continuano la loro offensiva nella Striscia di Gaza per “sconfiggere definitivamente Hamas e riportare a casa tutti i nostri ostaggi”. Ha espresso il suo sostegno alle famiglie degli ostaggi e alle famiglie in lutto, pregando per il ritorno dei prigionieri e la guarigione dei feriti. Netanyahu ha anche promesso di continuare a rafforzare l'economia e la sicurezza di Israele attraverso la tecnologia, l'intelligenza artificiale e le industrie della difesa. Ha insistito sulla ricostruzione delle comunità del nord e del sud, pesantemente colpite dal conflitto, e ha ribadito il suo impegno ad ampliare “il cerchio della pace” nella regione. “Che quest'anno sia un anno di unità, vittoria e pace”, ha concluso, augurando un felice anno nuovo a tutto il popolo di Israele.
(i24, 22 settembre 2025)
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Nessun'altra scelta: la battaglia di Israele per la città di Gaza
Oltre mezzo milione di abitanti ha già abbandonato la città: l'esercito sta attaccando gli ultimi bastioni di Hamas, mentre le sofferenze della popolazione civile continuano ad aumentare.
Da giorni il centro dei combattimenti si sposta sempre più in profondità nelle strade e nei vicoli della città di Gaza. I carri armati attraversano quartieri distrutti, i soldati setacciano i blocchi di case alla ricerca di depositi di armi, trappole esplosive e accessi ai tunnel. Qui Hamas ha creato il suo baluardo più importante, sopra e sotto terra.
Il portavoce dell'esercito, il generale di brigata Effie Defrin, ha chiarito domenica che non esistono soluzioni facili in questa guerra. “Hamas ha mostrato al mondo la sua vera strategia: sfruttare il proprio popolo e prolungare deliberatamente la guerra”, ha dichiarato. “Le nostre forze lavorano giorno e notte per riportare a casa gli ostaggi, smantellare le reti terroristiche di Hamas e creare un futuro più sicuro per l'intera regione”.
Negli ultimi giorni Hamas ha dato nuovamente prova dei propri metodi: sparando contro una squadra delle Nazioni Unite, utilizzando veicoli rubati alle Nazioni Unite per bloccare i trasporti di aiuti umanitari e rubando con la forza quattro camion dell'UNICEF carichi di alimenti per neonati. “In questo modo migliaia di bambini piccoli sono stati privati delle loro provviste”, ha affermato Defrin. “Allo stesso tempo, Hamas continua a impedire ai civili di lasciare le zone di combattimento”.
Israele sta rispondendo con un'operazione di evacuazione su larga scala. Con volantini, SMS, annunci altoparlanti e telefonate, i residenti sono invitati a lasciare le zone di combattimento. Secondo l'esercito, più di 550.000 persone hanno già lasciato la città di Gaza e si sono dirette verso sud. Lì Israele ha istituito una zona umanitaria vicino a Khan Yunis, con ospedali da campo, condutture idriche, impianti di desalinizzazione e nuove stazioni di rifornimento.
Al valico di frontiera di Kerem Shalom si accumulano aiuti umanitari in attesa di essere ritirati dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni. “Israele garantisce ai civili l'accesso al cibo, all'alloggio e alle medicine”, ha sottolineato Defrin. “Ora spetta alle organizzazioni internazionali portare effettivamente questi aiuti alla popolazione”.
Mentre la 162ª, la 98ª e la 36ª divisione operano direttamente nelle roccaforti di Hamas, rimane un fatto amaro: 48 ostaggi sono ancora nelle mani dell'organizzazione terroristica. Defrin ha dichiarato: “La loro prigionia è un capitolo aperto di questa guerra. Lo chiuderemo solo quando saranno di nuovo con noi. Non abbiamo altra scelta”.
Con il Capodanno ebraico alle porte, Israele chiarisce che questa guerra non è solo un'operazione militare per il Paese, ma una necessità esistenziale.
(Israel Heute, 22 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il non Stato palestinese
E così la Francia è stata battuta sul tempo, di un giorno, da Regno Unito, Australia e Canada.
Fu Macron il primo ad annunciare il riconoscimento di uno Stato palestinese, per altro già riconosciuto da 150 altri Paesi, che avverrà domani durante il consueto raduno all’ONU. Si riconosce una non entità politica, un luogo della mente, privo di governo, confini, classe dirigente, valuta, capitale. Ma appunto, lo Stato palestinese è un pensiero, o meglio un vessillo ideologico, con una bandiera che è quella giordana senza stella.
Lo Stato palestinese, ovvero il 23esimo Stato arabo, che gli arabi hanno sempre evitato che nascesse dal 1937 ad oggi, perché farlo avrebbe inevitabilmente significato legittimare l’esistenza di Israele e della presenza ebraica su un territorio considerato irrevocabilmente dotazione islamica, Dar al-Islam. Lo avrebbero già avuto fin da quando, dieci anni prima del secondo rifiuto, la Commissione Peel, propose agli arabi un loro Stato sull’80 per cento del territorio, relegando sostanzialmente gli ebri in un ghetto, tanto ci erano abituati da secoli. Ma dissero di no, e hanno detto di no fino al 2008, quando Ehud Olmert offrì ad Abu Mazen il 95 per cento dei territori della Cisgiordania, più Gerusalemme Est come capitale.
Hamas non ha mai nascosto le sue mire, e nemmeno Fatah se è per questo, sono riassumibili nello slogan tanto di moda tra gli studenti e i manifestanti occidentali, “Free Palestine from the river to the sea”, ovvero quello che volevano fare gli eserciti arabi nel 1948, e poi nel 1967 e poi ancora nel 1973, senza riuscirci. Eliminare gli ebrei dalla terra in cui è nata la loro storia, esattamente come Hitler voleva eliminarli dall’Europa e idealmente dalla faccia della terra.
“Non ci sarà nessuno Stato palestinese” ha dichiarato Netanyahu a stretto giro di posta, prossimo alla partenza negli Stati Uniti. Non ci sarà un altro più esteso stato jihadista a soli dieci chilometri da Tel Aviv. Un esempio di Stato palestinese si è già visto a Gaza dal 2005 ad oggi.
(Bet Magazine Mosaico, 21 settembre 2025)
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Il riconoscimento dello Stato palestinese rafforza Hamas e l’estrema destra israeliana
di Luca Lovisolo
La promessa è compiuta: il Regno unito ha riconosciuto uno Stato arabo di Palestina, la Francia e altri Paesi occidentali seguono.
È bene richiamare alla memoria alcuni punti. La nascita di uno Stato è un atto dichiarativo. L’elemento soggettivo della sua fondazione è la volontà di una popolazione di costituirsi come Stato. Nessun altro soggetto – nemmeno le Nazioni unite – ha diritto di pronunciarsi sulla volontà di un popolo che si vuole Stato. Un tale diritto di pronuncia lederebbe la pari dignità tra i popoli e gli Stati.
Se la nascita di un nuovo Stato non pregiudica i diritti di altri già esistenti, la nuova entità statale sorge dal momento della sua autoproclamazione. Il riconoscimento formale da parte di altri non è necessario: se un governo compie atti giuridici con il nuovo Stato, lo riconosce per comportamento concludente.
Nel 1947 la popolazione araba della Palestina aveva pieno diritto di costituirsi come Stato senza ledere diritti altrui. Al termine di una lunga controversia, l’ONU aveva deciso la spartizione territoriale della Palestina tra arabi ed ebrei. Quest’atto, però, produceva solo l’attribuzione dei rispettivi territori: l’ONU, infatti, non ha alcun potere di obbligare chicchessia a fondare uno Stato. Poiché gli arabi pretendevano per sé tutta la Palestina, hanno rifiutato quell’opportunità: accettarla avrebbe significato il riconoscimento implicito della divisione della regione. Da allora negano allo Stato ebraico, costituito legittimamente, il diritto di esistere.
La situazione, nel frattempo, non è cambiata. Il motto Palestina libera dal fiume al mare significa la cancellazione di Israele, un obiettivo fissato anche nello statuto di Hamas (1988). La già controversa nuova versione di tale statuto (2017), nella quale Hamas afferma di accettare i confini del 1967, è contraddetta dai fatti.
Il processo di pace di Oslo avrebbe dovuto implicare il riconoscimento di Israele da parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP),ma non si è mai completato. La distruzione di Israele resta un obiettivo iscritto anche nella Carta nazionale palestinese (1968), all’articolo 22. Anche per questo motivo, la posizione all’apparenza più moderata dell’Autorità nazionale palestinese, controllata da Fatah e di fatto priva di potere, non convince ed è sovrastata dalla più forte presenza di Hamas.
Ne discende che il popolo arabo di Palestina non vuole affatto costituirsi come Stato, finché esiste Israele. Poiché il diritto di Israele di esistere non è in discussione, viene meno il requisito soggettivo per il riconoscimento di uno Stato arabo nella regione. In conseguenza, diventa superflua ogni ulteriore considerazione sugli elementi oggettivi secondo la Convenzione di Montevideo del 1933 (territorio definito, popolazione, governo, relazioni internazionali). Un tale riconoscimento, nella situazione attuale, è comunque privo anche di fondamento oggettivo.
Non pochi giuristi e parlamentari hanno richiamato l’attenzione dei governi occidentali sulla mancanza di basi legali, per il riconoscimento di uno «Stato palestinese.» Sono stati zittiti.
Quello che è stato riconosciuto è uno Stato che non vuole sé stesso; un castello in aria che serve a giochi di politica interna occidentale e non avrà alcun effetto sull’andamento della guerra, tanto meno sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza. Piuttosto, rafforza Hamas e i partiti dell’estrema destra israeliana, che si vedono confermati nelle loro opposte pretese.
(InOltre, 22 settembre 2025)
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Un anno d’Israele: tra sfide affrontate e prospettive future
di Ugo Volli
• Un anno fa
Al posto della consueta sintesi sui fatti principali della settimana scorsa nella guerra che Israele sostiene, questa volta ho trovato opportuno considerare tutto l’anno che è trascorso. Non solo perché domani sera [domenica 21] inizia la celebrazione del capodanno ebraico, per cui faccio a tutti i lettori auguri per un 5876 buono e dolce. Ma anche perché è bene ricordare dove eravamo a settembre dell’anno scorso e dove siamo ora, per misurare come la situazione sia cambiata. All’inizio del 2024 Israele aveva preso il controllo delle zone di confine di Gaza e di parti del nord della Striscia. A maggio aveva conquistato l’asse Filadelfia che delimita il confine con l’Egitto, compreso il valico di Rafah (7 maggio), ma non la città, che sarebbe stata completamente conquistata solo ad aprile 2025, superato il blocco imposto dall’amministrazione Biden e una tregua. Israele aveva eliminato il leader storico di Hamas Ismail Haniyeh il 31 luglio a Teheran. Inoltre aveva colpito alcuni dei principali comandanti iraniani che coordinavano la guerra dei gruppi affiliati come Hamas e Hezbollah: il 25 dicembre 2023 Israele aveva eliminato a Damasco Razi Mousavi, un generale iraniano di alto rango, il 20 gennaio 2024 del generale di brigata Sadegh Omidzadeh, un ufficiale dell’intelligence della Forza Quds, e il 3 aprile il generale di brigata Mohamad Reza Zahedi. In seguito a queste eliminazioni, l’Iran aveva minacciato rappresaglie, che si sono poi concretizzate nell’attacco con droni e missili il 13 e 14 aprile del 2024, senza danni significativi. La controrappresaglia di Israele, frenato da Biden, fu minore ma significativa, colpendo le installazioni antiaeree vicino alla capitale e agli impianti nucleari.
• La situazione a settembre 2024
L’Iran appariva allora comunque come una minaccia gravissima e imminente, ormai alle soglie dell’armamento nucleare e fornito di un sistema missilistico capace di raggiungere non solo Israele ma anche l’Europa e di fare gravissimi danni. Anche Hezbollah faceva paura, con i suoi 100 mila missili, di cui parecchi forniti di impianti di precisione. Tenendo di riserva queste armi, Hezbollah bombardava però quotidianamente la Galilea, facendo numerose vittime e costringendo gli abitanti a fuggire nel centro di Israele. Nel gioco erano entrati anche gli Houthi, gruppo terroristico che controlla circa metà dello Yemen e grazie alle armi fornite dall’Iran stava bloccando lo stretto fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, vitale per il commercio mondiale; ma iniziava a sparare anche direttamente su Israele. Anche in questo caso l’amministrazione Biden impediva l’autodifesa diretta israeliana; del resto essa bloccava o rallentava molto i rifornimenti militari delle forze armate di Israele (seguita in questo dalla Gran Bretagna). Sembrava in quel momento che Kamala Harris avesse buone possibilità di succedere a Biden, accentuandone le politiche anti-israeliane. Trump avrebbe vinto largamente ma un po’ a sorpresa solo il 20 novembre e avrebbe assunto il potere solo a metà gennaio di quest’anno. Nell’intervallo c’era stata molta preoccupazione per un possibile colpo di coda della vecchia amministrazione all’Onu, come era accaduto con Obama. A livello internazionale si intensificavano dichiarazioni politiche, falsificazioni mediatiche e manifestazioni di piazza contro Israele: iniziava ad affermarsi, sulla base delle false cifre diffuse da Hamas, la propaganda sul “genocidio”, sulla “strage dei bambini”, sulla “fame di Gaza”. Gli ostaggi prigionieri a Gaza erano circa 100.
• La svolta
Insomma Israele aveva certamente prevalenza sul campo, ma era in grave difficoltà strategica, coi nemici principali ancora intatti. Proprio a partire da settembre però la situazione iniziò a cambiare profondamente. Il governo ottenne dallo Stato Maggiore lo spostamento al Nord delle truppe non più utilizzate a Gaza. Per decisione personale di Netanyahu, contro l’opinione di molti leader militari e politici israeliani, iniziò l’offensiva contro Hezbollah: il 17-18 settembre, con esplosioni di cercapersona e walkie-talkie (forniti dal Mossad) furono eliminati migliaia dei suoi quadri militari; il 23 settembre partirono i bombardamenti massicci sulle infrastrutture terroristiche che portarono il 27 all’eliminazione del leader carismatico del gruppo Nasrallah; il 1° ottobre iniziò una limitata, ma decisa operazione di terra oltre il confine libanese. Contemporaneamente furono colpiti numerosi obiettivi militari in Siria. Il risultato a medio termine fu un cambiamento politico fondamentale per tutto il Medio Oriente, l’eliminazione dell’influenza politica di Hezbollah sul Libano e il suo disarmo ancora in corso; il futuro scioglimento di Unifil, la forza Onu sostanzialmente “non ostile” ai terroristi, il rovesciamento del regime siriano con tutto quel che ne è seguito. Vale la pena di aggiungere che il 24 ottobre, durante una delle azioni preliminari al completamento della presa di Rafah, veniva eliminato Yaya Sinwar, capo militare di Hamas e primo responsabile del 7 ottobre.
• Una spinta che continua
L’impulso iniziato un anno fa è poi continuato con le operazioni contro l’Iran, gli Houthi, Hamas a Gaza e in Qatar: è molto migliorato il rapporto politico con gli Stati Uniti, l’alleato determinante, anche se altri stati fanno a gara a cercare di esprimere (in forma solo simbolica, però, perché d’altro non sono capaci) la loro avversione a Israele e le piazze, le università, le redazioni, i parlamenti, i tribunali sono pieni di antisemitismo. L’Iran è stato colpito duramente, il suo programma di armamento nucleare riportato indietro di molti anni. E proprio ieri è saltata l’ultima protezione che gli aveva concesso Obama, l’esenzione dalla sanzioni più pesanti, che è stata annullata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: un colpo durissimo per il regime, che gli renderà molto più difficile non solo il progetto di riarmo, ma anche il mantenimento del livello economico necessario a soffocare il dissenso della popolazione.
• Speranza di pace
Insomma, guardare indietro all’anno scorso mostra che la situazione è completamente cambiata, che Israele ha mostrato la forza e la determinazione necessaria a vincere e conservando questo atteggiamento è in grado di concludere la guerra nel giro di pochi mesi, eliminando le minacce incombenti e auspicabilmente liberando gli ostaggi. Questa vittoria sul campo è la condizione perché si acquieti la bufera sull’ottavo fronte, quello della comunicazione e delle prese di posizione politiche. È impossibile che su questo piano le cose tornino come prima, troppo veleno è uscito da politici, intellettuali, giornalisti, gente comune, troppo grande è stato il tradimento sentito dagli ebrei in Europa e altrove. Ma la sola pace possibile, che è quella della vittoria di Israele, permetterà a qualcuno dei nemici di Israele e degli ebrei di tornare indietro sinceramente, comprendendo di aver sbagliato, ad altri di cercare diversi temi di agitazione demagogica o di partecipazione isterica; altri ancora saranno costretti al silenzio dall’evidenza della sconfitta. È quanto ci auguriamo di poter constatare fra un anno.
(Shalom, 20 settembre 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 15
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Pieno successo
“A mezzanotte l'Eterno colpì tutti i primogeniti nel paese di Egitto, dal primogenito del Faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il Faraone si alzò di notte: lui con tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e ci fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto. Allora egli chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d'Israele; e andate, servite l'Eterno, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!” (Esodo 12:29-32).
“Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, e… andatevene!” Dio dunque ha ottenuto un pieno successo: in politica estera come in politica interna.
In politica estera: perché muovendo opportunamente le circostanze ha ottenuto che il Faraone non soltanto lasciasse andare il popolo, ma addirittura desse l’ordine di partire. Dunque non c’è stata alcuna rivolta popolare, né tanto meno una guerra di secessione: per partire il popolo ha aspettato che arrivasse l’ordine dall’autorità egiziana, che a sua volta è stata convinta a dare quell’ordine da un’Autorità più alta.
In politica interna: perché è riuscito a convincere Mosè a mettersi pienamente al suo servizio, e a far sì che il popolo restasse compatto dietro a lui.
Dio ha successo su Sé stesso quando muove le cose e aspetta fino a che sia l’uomo a darsi l’ordine di agire secondo la Sua volontà. È in questo modo che la creatura cresce nella conoscenza del Creatore.
Ed è quello che avviene anche nello svolgimento delle cosiddette “dieci piaghe” del libro dell’Esodo, che nell’uso popolare si presentano come dieci figurine da guardare con interesse una dopo l’altra e discuterne i coloriti aspetti tecnici, magari con una punta d’ironia. Ma sull’ultima piaga l’ironia si ferma: si è costretti a dire o pensare qualcosa di serio. Con la vita e la morte non si scherza.
Se si vuol parlare per immagini, più che come figurine le dieci piaghe possono essere pensate come fotogrammi staccati della pellicola di un film. Nelle figurine le immagini sono ferme; nel film invece, se si riesce a ricostruirlo a partire dai fotogrammi di cui sono parte, le immagini si muovono.
Si può fare allora un tentativo di ricostruire la storia avvenuta aggiungendo altri ipotetici fotogrammi a quelli ritrovati, ma in modo da ottenere una pellicola che costituisca uno stralcio credibile di un film che, se esistesse, rappresenterebbe l’intera storia della Bibbia. È dal movimento dei personaggi che compaiono nel film che si può sperare di capire il senso della realtà in cui si muovono.
• Contesa invisibile
La scena che precede le dieci piaghe è quella che abbiamo già visto: una partita a poker, con Mosè e Aaronne da una parte e il Faraone e i maghi egiziani dall’altra (Esodo 7:8-13). Era un test preliminare per stabilire chi è il più forte fra il Dio degli ebrei e gli dei degli egiziani. Con il serpente di Aaronne che ingoia tutti i serpenti dei maghi, la partita poteva dirsi finita, ma per i maghi egiziani evidentemente quello era soltanto un round di assaggio. Avranno detto al Faraone che se nel confronto tra serpenti ha vinto l’Eterno, vorrà dire che in questo settore è più forte, ma non è detto che sia il più forte in tutto.
I maghi dunque entrano in concorrenza con Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone: devono convincerlo che loro possono muovere gli dèi degli egiziani in modo più efficace di quello che può fare Mosè col suo Dio degli ebrei.
In un primo momento, nonostante la loro preliminare sconfitta, si direbbe che i maghi egiziani ci riescono, perché “il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 7:13).
Alla contesa visibile tra i maghi e Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone si affianca però una contesa invisibile fra Satana e Dio per la conquista del cuore del Faraone. È qui infatti la prima volta che si parla di indurimento del Faraone, cosa che non era accaduta nel primo incontro con Mosè. E nella Bibbia, quando si parla di indurimento s’intende quasi sempre la resistenza dell’uomo a Dio che parla o agisce.
Qui dunque si vede il Faraone che davanti all’agire di Dio chiude il suo cuore, così che non sia penetrato dalla Sua parola. Di conseguenza cade inevitabilmente sotto l’influenza del suo Avversario che, come disse Dio a Caino, “sta spiandoti alla porta” (Genesi 4.7).
Come nel caso di Caino, Dio non vuole il male di Faraone; vuole invece parlare al suo cuore con precisi ordini al fine di convincerlo che il vero bene per il popolo d’Egitto potrà arrivare soltanto dopo che Dio avrà potuto fare il bene del popolo di Israele. Se cercherà di impedire questo, alla fine il bene per Israele comunque arriverà, ma sull’Egitto si abbatterà il male.
Ma proprio in questo primo scontro il Faraone manifestò un indurimento che si mantenne tale fino alla fine. E fu dunque con una certa tristezza che “l’Eterno disse a Mosè: ‘il cuore di Faraone è ostinato’, egli rifiuta di lasciar andare il popolo” (7:14), e gli diede il compito di recapitare al Faraone un duro messaggio:
“L’Eterno, l'Iddio degli Ebrei, mi ha mandato da te per dirti: Lascia andare il mio popolo, perché mi serva nel deserto; ed ecco, fino ad ora, tu non hai ubbidito. ’Così dice l'Eterno: Da questo conoscerai che io sono l'Eterno; ecco, io percuoterò con il bastone che ho nella mia mano le acque che sono nel Fiume, ed esse saranno mutate in sangue (Esodo 7:17).
Sarebbe stata una possibilità per il Faraone di conoscere l’Eterno e, per il suo bene, adeguarsi ai Suoi ordini. Il messaggio di Mosè non voleva essere una sfida ai maghi egiziani, ma così la presero loro; quindi, per non perdere credito presso il Faraone a vantaggio di Mosè, “i maghi d'Egitto fecero lo stesso con le loro arti occulte” (7:22). E ottennero ciò che volevano: “il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto” (7:22).
Il sangue nel fiume durò sette giorni, poi sparì da solo. Il merito di questo risanamento dunque non andò a nessuno, e la contesa dopo il primo round rimase ancora in stato di parità.
Bisognava sparigliare le cose. Dio allora incaricò Mosè di ripetere al Faraone l’ordine di lasciar andare il suo popolo, ma di accompagnarlo con una minaccia:
“Se rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io colpirò tutta l'estensione del tuo paese con il flagello delle rane” (Esodo 8:2).
I maghi egiziani però sapevano fare anche questo, e “con le loro arti occulte fecero salire le rane sul paese” (8:7).
C’era però un problema per loro: non sapevano come mandarle via.
Da questo si capisce che dietro alle arti occulte c’è una potenza occulta che sa fare soltanto il male; e se talvolta sembra che abbia fatto qualcosa di bene, è soltanto perché ha fatto uso della più forte tra le sue arti: quella della menzogna.
Allo stato delle cose, resta il fatto che per il Faraone le rane continuano a imperversare nel paese e i suoi maghi non sanno come mandarle via con le loro invocazioni agli dèi. Non gli resta allora che rivolgersi ai due ebrei, che forse, invocando il loro Dio, potrebbero riuscire a mandare via le rane. Non si è convertito, il Faraone, ha soltanto licenziato temporaneamente i suoi maghi egiziani per incapacità e assunto i “maghi” ebrei a contratto. Il contratto consisterebbe in questo: Voi “pregate l'Eterno che allontani le rane da me e dal mio popolo”, e in cambio,“io lascerò andare il popolo, perché offra sacrifici all'Eterno” (8:8).
Se la cosa fosse andata in porto, il Faraone avrebbe potuto anche inserire l’Eterno tra gli dèi protettori dell’Egitto e assumere Mosè e Aaronne a tempo indeterminato come capi supremi della corporazione dei maghi. Un po’ come capiterà secoli dopo al profeta Daniele con il re di Babilonia (Daniele 2.48)
• “Affinché tu sappia”
“Sarà fatto come tu dici”, risponde Mosè al Faraone che gli chiede di mandar via le rane, ma specifica che l’Eterno avrebbe acconsentito alla sua richiesta per un motivo ben preciso: “affinché tu sappia che non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio” (8:10).
Non pensare dunque - sembra dire Mosè al Faraone - che l’Eterno si faccia mettere insieme a tutti gli altri dèi, perché “non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio” .
La precisazione di Mosè nella formulazione del contratto ha un’importanza decisiva. Se accetti il contratto - vuol far capire Mosè al Faraone - sappi che tu sottoscrivi che il nostro Dio, l’Eterno, è unico e superiore a tutti gli altri dèi.
E questo, per il re d’Egitto, che per posizione è un uomo di Satana, è proprio difficile da mandare giù, perché Satana non sopporta che si facciano atti di glorificazione all’Eterno, suo nemico. Soprattutto dai suoi uomini.
Il Faraone allora si toglie da imbarazzo con perfida astuzia: accoglie volentieri la liberazione dalle rane, che ottiene per la fedeltà al patto della parte avversa, ma da parte sua viola il patto rifiutandosi di lasciar andare il popolo. Così fa finire il flagello delle rane e nello stesso tempo ottiene che nessuno potrà dire che lui ha riconosciuto l’Eterno come unico Dio superiore a tutti gli dèi, perché ha rotto il contratto che lo impegnava a questo.
In conclusione, il Faraone si è ostinatamente rifiutato di piegare il suo ginocchio davanti all’Eterno, l’Iddio d’Israele. E così continuerà a fare sempre in seguito. Un esemplare discepolo di Satana!
Questo secondo rifiuto indica qual è il vero motivo per cui il Faraone si ostinerà sempre a non lasciar andare il popolo: non è tanto per la perdita del bene sociale di una massa di schiavi a disposizione, quanto per il suo legame con l’autorità superiore da cui dipende, che gli vieta minacciosamente, come re della nazione pagana d’Egitto, di riconoscere pubblicamente l’autorità dell’Eterno, il Dio degli ebrei.
Il Faraone dunque si muove sotto l’influenza del “principe di questo mondo” (Giovanni 14:30); ma nello stesso tempo è interessato a lui anche il Signore, ma con tutt’altra intenzione. Certamente Dio avrebbe preferito che la liberazione del suo popolo fosse un bene per tutti, anche per gli egiziani, come aveva fatto secoli prima con Giuseppe: è per questo che fa pressioni su di lui attraverso Mosè. Ma non fu possibile.
Il cuore del Faraone si trova dunque sotto la contemporanea e contrapposta azione di Dio e di Satana, e questo spiega anche i suoi tentennamenti, le sue capriole decisionali, gli sbalzi di umore, tutte manifestazioni tipiche di persone internamente divise e combattute, come sarà secoli dopo anche il re Saul.
Il Faraone resta ostinato anche dopo aver perso credito tra i suoi uomini. Cominciano i maghi, che dopo non essere riusciti a mandar via le rane. davanti alla piaga delle zanzare alzano bandiera bianca:
E intendono dire il Dio degli ebrei, a cui come dipendenti di Satana non si sottomettono, ma di cui sanno riconoscere la superiore potenza. Il Faraone, se avesse voluto, avrebbe potuto convertirsi, abbandonare Satana e passare dalla parte di Dio, ma non avvenne così:
“Il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto (Esodo 8:19).
Dopo aver messo fuori gioco i maghi, il Signore passò al punto successivo del programma: far sapere al Faraone e convincerlo che il popolo d’Israele occupa per l’Eterno un posto particolare. L’esecuzione del punto fu affidata alle mosche, che invasero case e terre di tutto il paese, con una eccezione:
"Ma in quel giorno io farò eccezione nel paese di Goscen, dove abita il mio popolo; e lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avverrà questo miracolo" (Esodo 8:22-23).
“Affinché tu sappia” è la parola che spiega. Dal momento che il Faraone aveva annunciato di non sapere chi è l’Eterno, qui gli viene detto di osservare bene, perché l’Eterno è proprio lì, “in mezzo al paese”.
E più avanti, dopo l’ennesimo rifiuto di lasciar andare il popolo, Dio incarica Mosè di avvertire il Faraone con tremende parole di minaccia:
“Questa volta manderò tutte le mie piaghe su di te, sui tuoi servitori e sul tuo popolo, affinché tu conosca che non c'è nessuno simile a me su tutta la terra” (Esodo 9:14).
E promette di mandare presto una grandinata spaventosa, Ma avverte in anticipo, affinché si riconosca chi crede alle sue parole e chi no.
A questo punto il corpo dei servitori del re si divide: alcuni mostrano di credere alle parole di Mosè e mettono al riparo le loro bestie; altri invece, per convinzione o per paura, mostrano di voler essere fedeli al re e lasciano all’aperto il loro animali. Pagandone le conseguenze.
Ancora una volta però il Faraone si ostina, e arriva puntuale la grandine che devasta il paese.
Dopo di che il Signore manda un altro ordine con allegata minaccia. E a questo punto, davanti all’indugio del Faraone la corte del re insorge:
“I servitori del Faraone gli dissero: “Fino a quando quest'uomo sarà come un laccio per noi? Lascia andare questa gente, e che serva l'Eterno, il suo Dio! Non lo sai che l'Egitto è rovinato?” (Esodo 10:7).
A queste parole il Faraone compie l’ennesima capriola: in un primo momento sembra voler seguire il consiglio dei suoi servitori, ma poi ci ripensa.
• Inevitabile conclusione
Sappiamo come andrà a finire la cosa, ma qui vogliamo sottolineare che l’ostinazione del Faraone non era superabile per via diplomatica, perché avrebbe significato che la più alta autorità della nazione più potente del mondo riconoscesse, con una decisione che dipendeva soltanto dalla sua volontà, che l’Eterno, il Dio degli ebrei, è l’unico vero Dio che ha autorità su tutti e su ogni cosa. E questo, Satana non poteva assolutamente permetterlo. Non poteva permettere che questo avvenisse come “libera” decisione di un suo sottoposto. La decisione ci fu, ma fu “forzata”.
Si compì allora quella parola che dopo il fallimento della prima missione Dio aveva pacatamente detto a Mosè in risposta alla sua accusa di non aver liberato il suo popolo:
“Ora vedrai quello che farò al Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese” (Esodo 7:1).
E così fu.
(Notizie su Israele, 21 settembre 2025)
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Oded Ailam: «Il Qatar mediatore e finanziatore del terrorismo»
di Stefano Piazza
Il Qatar è riuscito a costruire un’immagine di attore indispensabile sulla scena internazionale, capace di passare con disinvoltura dai salotti diplomatici alle trattative segrete con gruppi armati. Ma dietro questa patina di neutralità si nasconderebbe una strategia accurata che mescola diplomazia, denaro e sostegno al terrorismo. A sostenerlo è Oded Ailam, ex capo della divisione antiterrorismo del Mossad e oggi ricercatore al Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs (JCFA). «Il Qatar ha sviluppato una formula unica, quasi come una start-up globale, paragonabile a Charlie Chaplin che manda un ragazzo a rompere le finestre e poi torna a ripararle», ha dichiarato Ailam ad Arutz Sheva – Israel National News. «Hanno costruito un modello che permette a Doha di essere un attore dominante sulla scena mondiale. Oggi il Qatar è un impero diplomatico, economico e mediatico, costruito deliberatamente per conquistare un ruolo centrale a livello internazionale». Secondo Ailam, la formula ha funzionato: Doha si è proposta come mediatrice tra gli Stati Uniti e i talebani, in Siria con Jabhat al-Nusra, in Nigeria e in altri scenari instabili. «Il mediatore guadagna sempre prestigio, visibilità e potere», osserva. «Non è un caso che il Qatar abbia ospitato la Coppa del Mondo e punti ora a portare a Doha le Olimpiadi del 2036. Si presentano come costruttori di pace globali, ma il rovescio della medaglia è il loro sostegno a movimenti jihadisti».
• L’ombra di Hamas e il ruolo dei media
Uno degli esempi più evidenti riguarda Hamas. Dopo l’espulsione dalla Siria nel 2012, la leadership dell’organizzazione palestinese si è trasferita a Doha, dove risiede in condizioni di lusso. Da allora, il Qatar avrebbe trasferito circa 1,8 miliardi di dollari al gruppo, soldi che – secondo Ailam – hanno contribuito a rafforzarne l’apparato militare. «Il Qatar è il patrono dei programmi di Hamas, con Al Jazeera come suo portavoce», accusa. L’emittente qatariota non sarebbe solo un megafono politico: «I video degli ostaggi diffusi da Hamas sono stati realizzati da troupe di Al Jazeera», denuncia l’ex funzionario. E ricorda che poche ore dopo il massacro del 7 ottobre, il ministro degli Esteri di Doha accusò Israele senza mai chiamare Hamas alle proprie responsabilità. Per Ailam, la diplomazia israeliana è stata a lungo «abbagliata dall’offensiva di charme del Qatar», ma la realtà sarebbe diversa. «I veri negoziatori più duri non sono a Gaza, ma a Doha: induriscono le posizioni invece di favorire compromessi. È lecito sospettare che sia il Qatar stesso a spingere verso l’intransigenza».
• L’ambiguità di Doha tra Washington e Teheran
Il potere del Qatar si fonda anche su un equilibrio geopolitico attentamente calibrato. Da un lato, ospita la base militare americana di al-Udeid, la più grande del Medio Oriente, considerata un pilastro della presenza statunitense nella regione. Dall’altro, mantiene rapporti stretti con Teheran, con la quale condivide il gigantesco giacimento di gas di North Dome/South Pars. «Doha ha capito come muoversi in equilibrio tra gli opposti», spiegano analisti regionali: agli occhi di Washington appare un alleato indispensabile, ma agli occhi dei movimenti islamisti resta un patrono affidabile. Questo doppio registro consente al Qatar di rafforzare il proprio peso sia in Occidente sia nel mondo arabo, mantenendo margini di manovra che altri Paesi del Golfo non possiedono.
• Influenza economica e scandali politici
Secondo Ailam, la strategia qatariota non si limita alla diplomazia. «Stanno comprando l’Europa», denuncia. «Acquistano immobili, aziende, squadre di calcio: si dice possiedano un terzo dei grattacieli di Londra, una quota dell’Empire State Building a New York, oltre a compagnie aeree considerate tra le migliori al mondo». Il soft power sportivo e finanziario si intreccia però con dinamiche meno trasparenti. «Hanno sviluppato un ramo molto ‘interessante’ di acquisti di politici, usando qualsiasi mezzo, comprese le criptovalute», sostiene Ailam. Alcuni casi sarebbero già emersi in Francia e negli Stati Uniti, mentre in Europa il cosiddetto Qatargate ha scoperchiato i canali di influenza all’interno del Parlamento europeo. «Quella vicenda – aggiunge – è solo la punta dell’iceberg. Un intero sistema è in funzione da anni, capace di incidere direttamente sul processo decisionale dell’Unione Europea. Non è difficile capire perché al Qatar, una dittatura priva di diritti umani, sia stata comunque assegnata la Coppa del Mondo». Ailam descrive l’ideologia della famiglia al-Thani come radicale, anche se lontana dal jihadismo tradizionale. «Non vogliono conquistare il mondo sotto un califfato qatariota: conoscono i propri limiti, essendo uno Stato con 200.000 cittadini. Ma puntano al dominio e usano il jihad come strumento per promuovere questa ambizione».
• L’Europa e il dilemma Doha
Il quadro tracciato da Ailam apre interrogativi anche per l’Europa. Bruxelles, che continua a intrattenere rapporti economici e politici stretti con il Qatar, si trova oggi in una posizione ambigua: da un lato condanna Hamas come organizzazione terroristica, dall’altro continua a considerare Doha un partner energetico e un interlocutore privilegiato. La vicenda Qatargate ha già mostrato quanto profonda possa essere la penetrazione dell’influenza qatariota nelle istituzioni europee. Alcuni Stati membri hanno chiesto maggiore cautela, mentre altri – attratti dagli investimenti miliardari di Doha – chiudono un occhio. «È proprio questa la forza del Qatar», avverte Ailam. «Mostrarsi come un mediatore indispensabile e allo stesso tempo esercitare una pressione silenziosa sui centri decisionali dell’Occidente». Per l’Unione Europea, dunque, il dilemma resta aperto: continuare a trattare il Qatar come un partner affidabile o riconoscerne il ruolo ambiguo, tra diplomazia e finanziamento del terrorismo.
(L'informale, 20 settembre 2025)
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“Vietato l’ingresso agli ebrei ”
Un cartello a Flensburg ricorda il passato più oscuro e mostra quanto sia sottile il confine tra la critica a Israele e il puro odio verso gli ebrei.
di Dov Eilon
Pochi giorni fa, in un piccolo negozio di Flensburg era appeso un cartello alla finestra. Su di esso era scritto:
“Gli ebrei non sono ammessi qui. Niente di personale. Non è antisemitismo.
È solo che non vi sopporto”.
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“Gli ebrei non sono ammessi qui. Niente di personale. Non è antisemitismo. È solo che non vi sopporto”.
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Il proprietario del negozio ha giustificato la misura come una protesta contro le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. Ha affermato che ciò non ha nulla a che vedere con l'antisemitismo. Ma chi legge queste parole, chi conosce la storia tedesca, rimane senza fiato. Perché è proprio così che è iniziato tutto: con cartelli che vietavano agli ebrei l'accesso a negozi, ristoranti, istituzioni pubbliche o teatri. All'epoca non era raro leggere a grandi lettere: “Ebrei indesiderati”. Oppure: “Ebrei fuori!” Il fatto che nel 2025 dobbiamo leggere di nuovo frasi del genere per le strade tedesche dimostra che non abbiamo imparato nulla, o forse troppo poco.
Le reazioni della politica e della società non si sono fatte attendere. Il responsabile antisemitismo del governo federale, Felix Klein, ha parlato di “antisemitismo nella sua forma più pura”. I politici locali hanno espresso il loro sgomento, la polizia sta valutando la possibilità di perseguire penalmente il reato di incitamento all'odio razziale. Il codice penale tedesco è infatti chiaro: chi denigra o esclude un intero gruppo a causa della sua religione o origine è punibile. Ma al di là degli aspetti giuridici, qui si tratta di morale. Della consapevolezza che dovrebbe caratterizzare la Germania dal 1945. Il ricordo della Shoah, dell'emarginazione sistematica e dello sterminio degli ebrei, non è solo un capitolo nei libri di storia. È un impegno: mai più. Eppure, nel 2025, qualcuno appende un cartello nella sua vetrina che vieta l'ingresso agli ebrei. Con l'aggiunta: “Niente di personale”. Una distorsione assurda e allo stesso tempo amara. Come se fosse possibile smorzare l'antisemitismo con poche parole di relativizzazione.
Naturalmente, la critica al governo israeliano deve essere consentita. In una democrazia è ovvio che si mettano in discussione i governi, si critichino le decisioni e si protesti anche a gran voce. Israele non fa eccezione. Qui in Israele, i dibattiti vivaci e spesso molto accesi sul governo fanno parte della vita quotidiana – lo vedo continuamente. Ma è proprio qui che sta la differenza fondamentale: chi critica un governo deve riferirsi a quel governo, non a un intero popolo. Chi appende un cartello con la scritta “Agli ebrei è vietato l'ingresso” non rivolge più la sua rabbia contro una politica, ma contro delle persone. Contro vicini, amici, contro coloro che non hanno nulla a che fare con Gaza o Gerusalemme, se non il fatto di essere ebrei. Questa non è più una protesta politica. È odio verso gli ebrei. E questo odio ha una storia particolare e terribile in Germania. Per questo non bisogna mai minimizzarlo.
Questo episodio mi rende arrabbiato e triste allo stesso tempo. Arrabbiato perché dimostra che ci sono persone che evidentemente pensano che sia legittimo escludere interi gruppi solo per la loro appartenenza. Triste perché dimostra che il nostro lavoro di elaborazione storica, il nostro ricordo di ciò che è stato, evidentemente non sono stati sufficienti. Oggi c'è un cartello appeso a una vetrina a Flensburg. Domani altri si sentiranno incoraggiati a fare lo stesso. E a un certo punto una singola provocazione si trasformerà in un clima in cui sarà di nuovo normale emarginare gli ebrei.
Un cartello come questo non è un piccolo errore. È un simbolo. E i simboli hanno potere. Il potere di ferire. Il potere di far rivivere la storia. Il potere di polarizzare la società. Questo cartello ricorda a noi tedeschi quanto velocemente le parole possano trasformarsi in fatti. Come da un “divieto di accesso” si è passati al boicottaggio, dal boicottaggio alla privazione dei diritti e dalla privazione dei diritti, alla fine, alla Shoah. No, il negoziante di Flensburg non è Hitler. Ma usa parole che un tempo hanno segnato l'inizio della Shoah. Questo dovrebbe bastare a scuoterci.
Non dobbiamo permettere che l'antisemitismo torni ad essere socialmente accettabile, indipendentemente da come venga mascherato. Che si tratti di “critica a Israele”, di ‘provocazione’ o di “antipatia personale”. Parole come queste sono veleno per la nostra società. E ci ricordano che il passato non è così lontano come vorremmo credere. Quando vedo questo cartello, mi chiedo: non abbiamo davvero imparato nulla? Se permettiamo che una cosa del genere torni ad essere normale, allora non abbiamo davvero imparato nulla. Ma se la condanniamo chiaramente, se la perseguiamo legalmente e la condanniamo socialmente, allora dimostriamo di aver imparato molto bene.
La scelta spetta a noi. Ed è lei a decidere se le parole “Mai più” sono più di una frase vuota.
(Israel Heute, 19 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Una bandiera e troppe ambiguità
di Ariela Piattelli
La bandiera palestinese esposta in piazza del Campidoglio a Roma, a seguito della decisione dell’Assemblea capitolina per manifestare “vicinanza e solidarietà”, rappresenta un simbolo che va ben oltre gli intenti dichiarati nella mozione. Roma è la Capitale d’Italia, simbolo di civiltà e democrazia, città che porta e racconta nei suoi vicoli, nei muri e nelle piazze oltre 2.000 anni di storia di presenza e di contributo degli ebrei in ogni ambito. La bandiera in Campidoglio è un simbolo che ci racconta anche di due anni di narrativa a senso unico, di distorsioni, di accelerazione verso l’amnesia collettiva del pogrom di Hamas del 7 ottobre e del presente degli ebrei in Europa, in Italia.
Quel vessillo porta con sé ombre inquietanti: negli ultimi due anni, e sempre più quotidianamente, esso è diventato lo sfondo di atti antisemiti, aggressioni contro gli ebrei per le strade, insulti agli studenti, intimidazioni nei confronti dei professori negli atenei e slogan di odio lontani anni luce dalla soluzione per due popoli due Stati, ma che evocano semmai la soluzione finale (a cosa aspira, dopo tutto, chi grida “dal fiume al mare”, se non alla cancellazione dello Stato ebraico?). La violenza cieca di Hamas e il massacro del 7 ottobre 2023 hanno reso chiara la fragilità di chi interpreta la bandiera come simbolo di solidarietà, dimenticando le conseguenze concrete di certi silenzi e ambiguità.
Adesso, un’altra volta, si chiede agli ebrei di abbassare la testa, di aspettare “sotto coperta” che passi, sperando che ciò avvenga senza troppi danni. Ma la storia ci insegna che non è mai così. Che per ogni ambiguità e per ogni viatico alla distorsione, all’antisemitismo mascherato da antisionismo, la Storia presenta il suo conto.
Le vicende di Roma intrecciano storie e anniversari della città e degli ebrei. Tra pochi giorni, il 9 ottobre, ricorderemo l’attentato alla Sinagoga di 43 anni fa, quando un commando palestinese uccise il piccolo Stefano Gaj Tachè. Fu l’odio antiebraico, alimentato da anni di ostilità mascherata da sostegno ai palestinesi, a creare le condizioni per quel vile atto. Come ricordava Gady, fratello di Stefano, scrivendo su questo giornale del primo anniversario del pogrom del 7 ottobre, “fu lo stesso odio a colpire”. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare il memorabile J’accuse pronunciato l’11 ottobre 1982 da Bruno Zevi, proprio nelle stanze del Campidoglio, davanti al Sindaco Ugo Vetere. Zevi denunciò il disinteresse di alcune istituzioni, l’atteggiamento del mondo cattolico, la distorsione dei media e la complicità degli intellettuali nel presentare Israele come unico responsabile dei mali del mondo. Con una frase che resta di straordinaria attualità, impartì una lezione rimasta scolpita nella storia: “L’antisemitismo è esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita: è una contraddizione in termini”.
Domani, 20 settembre, ricorderemo la Breccia di Porta Pia, l’evento che nel 1870 sancì la fine del potere temporale della Chiesa e l’ingresso di Roma nello Stato italiano. Tra i bersaglieri che entrarono nella città c’erano giovani ebrei, pronti a combattere per l’Unità d’Italia. Fu Giacomo Segre, Ufficiale del Regio Esercito, a comandare la batteria di artiglieria che praticò la breccia nelle Mura Aureliane. Da quel giorno, gli ebrei romani non furono spettatori, ma protagonisti: figure come Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, contribuirono a dare alla città una visione moderna; altri parteciparono al governo, al commercio e alla vita culturale, intrecciando il proprio destino con quello della città. Nel giorno in cui Roma dovrebbe celebrare chi l’ha resa libera e unita, issare la bandiera palestinese sul Campidoglio significa voltare le spalle a chi ha contribuito alla vita di questa città. È come chiudere di nuovo i cancelli appena abbattuti, lasciando soli proprio coloro che un tempo avevano lottato per abbatterli.
(Shalom, 19 settembre 2025)
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Per me, romano di nascita e di formazione, veder sventolare in Campidoglio la bandiera della Palestina, come un inno alla barbarie di un odio antiebraico che oggi continua ad esprimersi nella tortura applaudita di esseri umani presi in ostaggio, e questo proprio nel giorno della liberazione di Roma dall’oppressione papalina, è un pugno nello stomaco. Riportiamo due articoli inseriti nel sito esattamente quindici anni fa, giorno del 140° anniversario della Breccia di Porta Pia. M.C.
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20 settembre. Quel capitano ebreo che, in fondo, fece un favore al Papa
Il varco, la breccia aperta il 20 settembre 1870 dalle cannonate degli artiglieri piemontesi del generale Cadorna nelle mura di Roma, vicino alla bella e monumentale Porta Pia, rappresentava per i liberali italiani insieme la fine del Risorgimento, il completamento dell'unità nazionale e la conquista della capitale storica.
Per i cattolici papisti voleva dire l'introduzione forzosa dei principi del liberalismo e la fine del potere temporale del papato, cioè dell'abnorme figura del "Papa Re".
Ma, visto col senno di poi, per tutti i cattolici, liberali e papisti, il 20 settembre era in realtà il giorno della rinascita, l'inizio della riscoperta della sfera puramente spirituale e religiosa del cattolicesimo, come era già avvenuto nell'Europa del nord protestante. A Roma e nel Centro Italia (Stato della Chiesa) le incrostazioni da eliminare erano tante, anche rispetto ad altri Paesi cattolici, e proprio per i guasti e la corruzione che il potere temporale aveva generato sul territorio e tra le coscienze. Da allora, insomma, anche i cristiani italiani come i cristiani francesi, tedeschi, spagnoli o americani, smisero di adorare un parroco, un monsignore, un Prefetto della Fede, un Cardinale, un Nunzio, un Ministro, un Delegato di Sua Santità. E riscoprirono, se non Dio, almeno la propria coscienza di Dio.
Tutto merito d'un ebreo.
Ma sì, l'ufficiale israelita piemontese a cui il cattolico Cadorna affidò il compito del primo bombardamento delle mura, per evitare - oh, delicatezza de "li cavalieri antiqui" - che la scomunica decretata dal Papa a chi per primo avesse comandato di sparare toccasse la quasi totalità degli ufficiali italiani. Squisitezze di coscienza d'epoca, machiavelli morali del buon tempo antico che oggi fanno sorridere, ma che dimostrano che non furono i perfidi atei, i mangiapreti, i radicali, i rivoluzionari - che erano una minoranza - a combattere contro il Papa-Re per l'unità d'Italia e i principi liberali, ma i tantissimi liberali cattolici. Che, non erano neanche tutti moderati, anzi.
Però, scusate, facciamo un po' di filologia storico-militare. Tutti dicono che questo benedetto ufficiale ebreo era "un tenente che sparò le prime cannonate". Doppio errore. Gente che non ha neanche fatto il servizio militare. Se no, saprebbe che un ufficiale non può essere addetto ad un cannone. Dunque il "tenente" al massimo avrà ordinato di sparare. Bene. Ma, ditemi, vi pare possibile che un ordine così importante, destinato a cambiare la storia d'Italia, il generale Cadorna lo affidasse ad un giovane ufficiale inferiore? No, lì ci voleva almeno un capitano. E infatti, fu il capitano Segre, ebreo e piemontese tutto d'un pezzo, a ordinare l'attacco fatale.
"C'è una tomba nel cimitero ebraico di Chieri sulla quale è scolpito un simbolo: due cannoni incrociati. È la tomba di un ufficiale di artiglieria, il capitano Segre, che nel 1870 diede l'ordine di "Fuoco!" che aprì la breccia di Porta Pia", ricorda Guido Fubini in una pagina dell'Unione delle Comunità ebraiche.
Segre, un protagonista sconosciuto, uno dei tanti eroi del Risorgimento liberale a cui purtroppo non è dedicata nessuna strada o piazza d'Italia. Grazie, capitano Segre. E grazie ai tanti liberali e patrioti ebrei che animarono il Risorgimento e poi nell'Italia liberale unita salirono con la loro intelligenza ai posti di prestigio in tutti i campi, dall'esercito alla scienza, dall'industria all'amministrazione, alla politica.
A lei, capitano Segre, dedichiamo la più bella, la più vera delle feste nazionali, quella ricorrenza del 20 settembre che il fascismo cinicamente, per puro calcolo politico (Mussolini era ateo) per un piatto di lenticchie eliminò dopo il Concordato, e che ora deve essere assolutamente ripristinata. [...]
(Salon Voltaire, 20 settembre 2006)
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Insieme ai bersaglieri, nel 1870 a Roma è entrata anche la Bibbia
di Marcello Cicchese
«Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma» aveva detto Pio IX a chi gli aveva sottoposto la proposta di resa offerta al Papa dal governo italiano.
«Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre (intorno alle nove) l'artiglieria dell'esercito italiano, guidata dal generale Raffaele Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno di fanteria, l'altro di bersaglieri) di occupare la città.» (Wikipedia)
Che a dare l'ordine di sparare sulle mura di Roma fosse stato un ebreo per evitare che la scomunica papale cadesse su un cristiano, è un fatto poco noto. Ma un altro fatto poco noto è che dietro ai bersaglieri c'era un carretto pieno di Bibbie in lingua italiana stampate in Inghilterra dalla British and Foreign Bible Society, pronte ad entrare in Roma.
«XX settembre 1870, una data fausta per le minoranze religiose in Italia, in primis protestanti ed ebrei. Perché? E' molto semplice: perché fino al 20 settembre gli ebrei potevano vivere nella città del papa solo ghettizzati, i protestanti nemmeno quello. Tra la Riforma del XVI secolo e il 1870 a Roma mi risultano soltanto le seguenti presenze protestanti: quella del pastore Giovan Luigi Paschale, ministro delle chiese valdesi di Calabria, che vi fu condotto nel 1561 per essere processato dall'Inquisizione e che fu arso di fronte a Castel Sant'Angelo; i membri protestanti delle ambasciate europee, che nelle sedi diplomatiche potevano celebrare il loro culto, ma che dovevano esser sepolti "fuori le mura" della città santa; quelli che vennero a stamparvi il Nuovo Testamento durante la Repubblica Romana e che dovettero lasciare la città dopo il rientro di Pio IX e furono così risparmiati dall'assistere al rogo papalino dei testi evangelici. Possiamo immaginare - e li condividiamo come cittadini e come cristiani - i sentimenti dei "colportori" che entrarono in Roma poco dopo i bersaglieri con un
carretto di Bibbie trainato da un cane
che portava una gualdrappa con il nome "Pio IX"!
XX settembre 1870, una data fausta per l'Italia. Veniva posta fine ad une delle ultime e più caparbie monarchie assolute dei tempi moderni, che motivava la sua intolleranza e il suo dominio sulle coscienze e sui corpi non solo con il richiamo ad un generico diritto divino, ma con la specifica pretesa che il papa-re fosse il vicario del crocifisso, una contraddizione in termini, tanto più per ogni lettore del Vangelo.» (Daniele Garrone, da NEV - Notizie evangeliche 36/37 - 2009)
La caduta dello Stato pontificio non ha significato soltanto la vittoria del liberalismo laico, ma anche l'introduzione della possibilità di leggere e diffondere la Bibbia in Italia. Potere temporale dei papi e ignoranza popolare andavano di pari passo. La Bibbia era un libro proibito, e più persone sapevano leggere, maggiori erano i rischi per il potere clericale. Per questo nei primi tempi dell'unità d'Italia l'opera missionaria degli evangelici italiani ed esteri è andata di pari passo con la creazione di scuole e asili, perché per conoscere il contenuto della Bibbia è indispensabile saper leggere. Fino a qualche anno fa si potevano trovare ancora dei vecchi che dicevano di aver imparato a leggere sulle pagine della Bibbia. Ed era una Bibbia edizione Diodati, scritta in un italiano antiquato che i giovani scolarizzati di oggi avrebbero qualche difficoltà a capire.
A quel tempo poi non c'era internet: il testo doveva essere portato fisicamente a contatto con le persone. Per questo scopo i colportori usavano la cosiddetta
"carrozza biblica".
Ecco come la presenta l'Osservatore Romano in un articolo del maggio 1890:
«Ora abbiamo anche la "Carrozza Biblica", un ritrovato di cui ha il brevetto d'invenzione la società protestante [...]; lo spacciatore [il colportore] è un tipo fra il ministro evangelico e il cavadenti, il quale dall'alto della vettura cerca di accreditare la merce con discorsi ciarlataneschi nei quali fa entrare un poco di tutto... e le risa di scherno e le apostrofi burlesche che gli vengono dirette devono avergli fatto già inghiottire vari bocconi amari.»
Vengono in mente i versi del poeta romanesco Cesare Pascarella (1858-1940) nella sua famosa "Scoperta dell'America":
Ché mettetelo in testa ch'er pretaccio
È stato sempre lui, sempre lo stesso!
Er prete? È stato sempre quell'omaccio
Nimico de la patria e der progresso.
E in quelli tempi, poi, si un poveraccio
Se fosse, Dio ne scampi, compromesso,
Lo schiaffaveno sotto catenaccio,
E quer che'era successo era successo.
E si poi j'inventavi un'invenzione,
Te daveno, percristo, la tortura
Ner tribunale de l'inquisizione.
E 'na vorta lì dentro, sarv'ognuno,
La potevi tené più che sicura
De fà la fine de Giordano Bruno.
Questo era il sentimento diffuso tra i patrioti di allora. Adesso i tempi sono cambiati, ma non per questo sono migliori. Anzi.
(Notizie su Israele, 20 settembre 2010)
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Analisi smentisce il rapporto ONU sul “genocidio” a Gaza
Secondo l’analista John Spencer del sito Washington Free Beacon , “il rapporto non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, dicendo che “non rappresentavano una minaccia esistenziale”. Per il rapporto ONU, inoltre, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano.
di Nathan Greppi
“L’ultimo rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite su Gaza, che conclude che Israele sta commettendo un genocidio, è un caso di studio su come gli organismi internazionali possano mascherare la propaganda con il linguaggio della legge”. Con queste parole inizia un’analisi apparsa sul sito d’informazione americano Washington Free Beacon a firma di John Spencer, direttore esecutivo dell’Urban Warfare Institute.
Presentato come un’analisi giuridica da un trio guidato da Navy Pillay, ex-Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo Spencer, “chiunque legga il testo anche con un minimo di spirito critico si renderà conto che non si tratta di un’indagine imparziale. È un documento di attivismo che inizia con un verdetto e procede a ritroso, raccogliendo frammenti di informazioni a supporto della propria affermazione, escludendo tutto ciò che potrebbe complicarla o contraddirla”.
• Omessi i crimini di Hamas
Secondo l’analista, “l’aspetto più sorprendente del rapporto non è ciò che afferma, ma ciò che omette”. Innanzitutto, non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e nel menzionare l’offensiva militare israeliana a Gaza, fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, arrivando persino a dire che “non rappresentavano una minaccia esistenziale per Israele”. Per il rapporto ONU, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le decine di migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano quando è iniziata la guerra.
Un altro aspetto è che il rapporto ONU non parla mai della rete di tunnel scavati da Hamas sotto la Striscia di Gaza. La parola “tunnel” compare solo una volta, per mettere in dubbio che Mohammed Sinwar sia stato ucciso all’interno di uno di questi tunnel. Scrivono della guerra senza parlare dei tunnel che sono centrali nella strategia militare di Hamas, consentendogli di spostare combattenti, immagazzinare armi, nascondere ostaggi e lanciare attacchi da sotto ospedali, scuole e quartieri.
Un’altra omissione riguarda il fatto che il rapporto ignora completamente la distruzione compiuta da Hamas all’interno di Gaza, ad esempio quando trasformavano case civili in trappole esplosive. Così come viene trascurata la pratica di Hamas di utilizzare i civili come scudi umani.
• Gli ostaggi
Ad essere trascurata dal rapporto dell’ONU è anche la questione degli ostaggi. Su 72 pagine, la parola “ostaggi” compare solo 4 volte. Non solo non hanno un ruolo centrale, ma in più il documento arriva a mettere in dubbio l’idea se garantirne il rilascio sia un obiettivo strategico legittimo per Israele.
Questa non è la prima volta che i membri della suddetta commissione esprimono posizioni controverse: uno di questi, Miloon Kothari, in passato ha sostenuto che i social media siano controllati dalla “lobby ebraica”. Un altro, Christopher Sidoti, ha affermato che le accuse di antisemitismo vengono “lanciate come il riso ai matrimoni”.
(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2025)
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L’aggressione al prof Casella era nell’aria, la deriva violenta ricorda quella dell’attentato alla Sinagoga di Roma
di Alessandra Veronese
Dopo l’aggressione al collega e amico Rino Casella, la domanda che tutti – ma in particolare il Rettore e la governance dell’Ateneo – dovrebbero porsi è cosa debba ancora accadere perché si decida di intervenire, per garantire a tutti coloro che insegnano e studiano all’Università di Pisa di esprimersi liberamente e senza rischi per la propria incolumità.
Il clima che si respira in Ateneo è già da molti mesi pesantissimo: il punto non era dunque se dalle parole si sarebbe passati alla violenza fisica, ma quando. Quanto successo durante la lezione del prof Casella (offeso e infine malmenato da un gruppo di studenti “pacifisti”, per i quali evidentemente la non-violenza va applicata selettivamente) era un evento annunciato; ritengo moralmente responsabile il Rettore Zucchi di un eventuale, possibile peggioramento dell’attuale situazione: ha tollerato dapprima le “accampate” pro-Pal, con tanto di bandiere e tende nel giardino del mio Dipartimento (con relativi danni, ma si sa, “sono ragazzi”), poi le scritte contro Israele sul muro del Polo della Memoria “San Rossore 1938”. Scritte che non sono state rimosse, nonostante una richiesta arrivata anche dalla Comunità Ebraica, con la risibile motivazione della mancanza di fondi. E ha infine spinto per la sospensione degli accordi bilaterali con la Hebrew University e la Reichman University, colpevoli – a suo dire – di “rapporti con l’esercito israeliano”, contribuendo alla “mostrificazione” di Israele.
Già a dicembre 2023, quando la guerra a Gaza era appena iniziata e gli ostaggi erano ancora tutti nelle mani di Hamas, si erano avute le prime avvisaglie di boicottaggio: due colleghi del mio Dipartimento e membri del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici “Michele Luzzati” (CISE), di cui ero all’epoca direttore, si sono opposti alla presentazione dell’ottimo libro di Samuele Rocca sugli ebrei nell’Italia imperiale. Il motivo? Lo studioso insegnava “anche ad Ariel”, un Ateneo che si trova nei cosiddetti “territori occupati”. Non ci si opponeva, insomma, ad accordi bilaterali, ma a un invito a un singolo studioso, peraltro noto per la sua avversione a Netanyahu.
Pochi mesi dopo, il nuovo direttore del CISE e la Giunta mi hanno negato il patrocinio per una giornata di studio sulle università israeliane dopo il 7 ottobre, che vedeva invitati anche docenti di chiara fama come Sergio Della Pergola e Tamar Herzig. Anche in questo caso, la motivazione era risibile: non si trattava – a loro giudizio – di un convegno sufficientemente scientifico. Senza patrocinio, l’evento ha dovuto essere cancellato. Il Rettore, che pure aveva promesso di dare spazio a tutte le voci, in nome della par condicio, di fatto non si è mai sforzato di promuovere iniziative che consentissero di confrontarsi partendo da narrative diverse.
In seguito, sono arrivate le mozioni dei Dipartimenti, tutte ovviamente contro Israele. Significativo che i colleghi, così profondamente scossi da quanto stava accadendo a Gaza, non abbiano mai sentito l’imperativo morale di esprimersi relativamente ad altre tragedie umanitarie, sei delle quali considerate dagli organismi internazionali assai più gravi e con un numero di vittime molto più elevato. La mozione del Dipartimento di Scienze Politiche ha avuto un solo voto contrario, quello del docente aggredito: da allora, i suoi simpatici colleghi ne parlano come del “sionista Rino Casella”. Nel mio Dipartimento, i voti contrari sono stati pochi di più, oltre a qualche astenuto: in compenso, qualcuno è intervenuto sostenendo che Hamas non sarebbe solo un gruppo terrorista ma un soggetto politico, rammaricandosi del fatto che non sia possibile firmare accordi di cooperazione scientifica.
In questo clima avvelenato, il 5 settembre c’è stato un ennesimo deplorevole episodio: durante la cerimonia in cui si commemora da anni la firma a San Rossore – allora proprietà dei re d’Italia – delle leggi razziste che trasformarono 50mila cittadini ebrei italiani in individui di serie B, il presidente dell’ANPI si è esibito in un improvvido accostamento tra quell’evento e Gaza, invitando “a non voltarsi dall’altra parte”. Invito curioso, visto che ormai non c’è tg che non si apra informandoci di quanti civili l’esercito di Israele avrebbe eliminato.
L’aggressione al collega, dunque, non mi stupisce. Mi stupisco, anzi, che sino ad ora non abbiano aggredito anche me. Come Casella, anche io sono “sionista”, termine che nella mente di alcuni si configura ormai come un insulto, anche se c’è da dubitare che gli odiatori pro-Pal abbiano studiato abbastanza da sapere che cosa fu veramente il sionismo. Tutti costoro affermano di essere “solo” antisionisti, non antisemiti; negano il diritto all’esistenza di Israele e dividono ormai da mesi gli ebrei italiani in “buoni” e “cattivi”. I buoni, ovviamente, sono quelli che si affannano a dichiararsi contro Israele. Gli altri sono cattivi, e quindi vanno insultati e boicottati.
Questo clima violento e intollerante mi riporta con la memoria ai giorni bui del 1982, e ai sempre più espliciti discorsi d’odio, con il tragico epilogo dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con oltre 40 feriti e un morto, il piccolo Stefano Gay Taché, di soli due anni. E mi chiedo: dobbiamo aspettare un’altra tragedia simile per porre un freno alle manifestazioni d’odio antiebraico negli Atenei e sui social?
(Il Riformista, 19 settembre 2025)
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Israele: operativo l’Iron Beam, il sistema laser che intercetta missili e droni
di Jacqueline Sermoneta
Test superati con successo. Star Wars? No, realtà. Il sistema di difesa laser ad alta potenza “Iron Beam” è operativo e sarà consegnato alle Forze di Difesa israeliane (Idf) entro la fine dell’anno. Ad annunciarlo il Ministero della Difesa israeliano e l’industria militare israeliana Rafael, che ha prodotto il sistema.
In un gesto simbolico, è stato dato anche un nuovo nome in ebraico all’Iron Beam: da ‘Magen Or’ (scudo di luce) a ‘Or Eitan’ (luce di Eitan), in memoria di Eitan Oster, 22 anni, comandante dell’Unità di commando Egoz, ucciso combattendo contro Hezbollah nel Libano lo scorso ottobre. Il padre di Oster, che lavora per la DDR&D – Directorate of Defense Research and Development -, è stato tra coloro che hanno concepito e sviluppato la sofisticata tecnologia.
L’Iron Beam è in fase di sviluppo già da oltre dieci anni. È stato presentato per la prima volta nel 2014. Durante l’attuale guerra, una versione meno potente del sistema è stata utilizzata dalle Idf per abbattere alcuni droni di Hezbollah, lanciati dal Libano.
L’Iron Beam (o ‘Or Eitan’) non è concepito per sostituire l’Iron Dome o gli altri sistemi di difesa aerea come David’s Sling e Arrow, ma per integrarli e completarli. Il laser utilizza una fonte di energia elettromagnetica costante, quindi ha una capacità ‘illimitata’ e non necessita di munizioni. Nella sua versione più potente, è in grado di sparare un raggio di 450 millimetri con una potenza di 100 kW, impiegando circa 4 secondi per distruggere droni e missili e poi passare al successivo. Inoltre, c’è un enorme risparmio economico: il suo colpo (solo il costo dell’energia necessaria per il fascio laser) si aggira intorno ai 2 dollari. I funzionari lo hanno salutato il sistema come un potenziale “punto di svolta”. Con la dichiarazione di operatività dell’Iron Beam, “si prevede un significativo balzo in avanti nelle capacità operative del sistema di difesa aerea, grazie alle armi laser a lungo raggio”, ha affermato il Ministero.
Lo scorso giugno, l’azienda Rafael aveva presentato al Salone Aeronautico di Parigi tre “sistemi d’arma laser ad alta energia”, che hanno alla base questa sofisticata tecnologia. L’Iron Beam 450, la versione aggiornata dell’Iron Beam; l’Iron Beam M, una versione compatta e mobile dell’intercettore laser, progettato per essere montato su camion e utilizzato dalle Forze di terra o per proteggere siti strategici; e il Lite Beam, un intercettore laser leggero, compatto e di minore potenza, progettato per essere montato su veicoli trasporto truppe o altri veicoli blindati durante le operazioni a terra.
L’azienda Rafael ha anche affermato che sta sviluppando una versione navale dell’intercettore laser, che può essere installato sulle imbarcazioni della Marina.
L’Iron Beam “pone lo Stato di Israele all’avanguardia della tecnologia militare mondiale e fa dello Stato di Israele il primo Paese a possedere questa tecnologia” – ha detto il ministro della Difesa Israel Katz – Questo non è solo un momento di orgoglio nazionale, ma una pietra miliare storica per il nostro sistema di difesa: un’intercettazione rapida, precisa ed economica che si integra agli strumenti difensivi esistenti e cambia l’equazione della minaccia”.
(Shalom, 18 settembre 2025)
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La storia negata della “Nakba totale”
di Daniele Scalise
C’è un trucco francamente ignobile che oggi imperversa nel racconto del 1947-48: si annerisce Israele alle origini, si sbiancano leadership e milizie arabe, e un conflitto sporco di scelte diventa fiaba morale a buon mercato. Funziona perché è semplice. Ed è fuorviante. Nell’articolo di Lorenzo Cremonesi sul Corriere, la Nakba viene spacciata per un progetto unico e lineare di “cacciata”, un copione scritto in anticipo e recitato senza deviazioni. È narrativa consolatoria, non storia.
Nessuno nega la tragedia dell’esodo palestinese, né minimizza massacri, espulsioni, vendette e paure. Ma un quadro onesto pretende cornice e profondità: la Risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 che prevede due Stati; l’accettazione ebraica e il rifiuto arabo; i mesi di guerra civile nel Mandato britannico con attentati, convogli colpiti, città miste lacerate; e, dal 15 maggio 1948, l’invasione degli eserciti arabi.
Dentro quel teatro ogni villaggio, ogni snodo stradale, ogni quartiere diventa, tragicamente, un obiettivo militare. Qui va collocato il Piano Dalet, agitato come pistola fumante dell’“espulsione premeditata”: un piano operativo per garantire continuità territoriale, protezione delle vie di comunicazione e contrasto a milizie ostili. Che da esso siano scaturite anche espulsioni e abusi è vero. Che fosse un manifesto di pulizia etnica scritto al tavolo, è un falso. Scambiare un documento militare per un programma ideologico di annientamento civile è comodo per chi vuole un verdetto, non per chi cerca una verità scomoda e composita.
Colpisce poi la disinvoltura con cui si cancellano le molte cause dell’esodo. In alcuni luoghi si combatte casa per casa e la popolazione fugge. Altrove comandanti e notabili arabi ordinano o caldeggiano evacuazioni tattiche, promettendo – anzi, assicurando – un ritorno dopo la “vittoria” e la cacciata degli ebrei. Altroché avvelenamento dei pozzi. In altre situazioni autorità ebraiche e britanniche invitano a restare; a Haifa gli appelli pubblici, documentati, furono ignorati da una leadership che scelse il ritiro. Negare questa varietà significa truccare il tavolo: ridurre tutto a “cacciata sistematica” è lo stesso vizio di chi, ieri, assolveva ogni responsabilità israeliana. Cambia il bersaglio, non il metodo.
C’è infine l’uso strumentale dei “nuovi storici”. Si brandisce Benny Morris come clava per dimostrare la tesi dell’intenzione unica, dimenticando che proprio Morris ha scritto più volte che non esisteva un piano prebellico esplicito di espulsione generale e che le dinamiche dell’esodo furono molteplici, contraddittorie, spesso contingenti. Lo si cita a pezzi, lo si moralizza, lo si piega. E si elevano Irgun e Lehi a motore ideologico dell’intero movimento sionista, cancellando l’Haganah e la sua cultura politico-strategica, perché altrimenti il teorema perde nitidezza. Le parti si scambiano per il tutto: errore metodologico, comodo pregiudizio.
Da qui nasce la demonizzazione retrospettiva di Medinat Israel. Se la storia della nascita di Israele è “cacciata degli arabi”, ogni sviluppo successivo diventa corollario di un peccato originale: pulito, rassicurante, falso. Spariscono le responsabilità dei vertici arabi nel 1947-48, che preferirono la guerra alla nascita, accanto allo Stato ebraico, di uno Stato arabo votato dalle Nazioni Unite. Svanisce l’ovvio – e rivoluzionario – che due nazionalismi in conflitto non si neutralizzano proclamando uno colpevole e l’altro innocente, ma si governano con patti, confini, rinunce reciproche. Indignarsi costa meno che leggere le carte con occhio chiaro, pulito, e non strabico.
E poi c’è ciò che non entra mai a bilancio: oltre seicentomila ebrei scacciati o fuggiti dai Paesi arabi negli stessi anni, privati di beni e cittadinanza. Non è telegenico? Allora si espunge. Come si espunge – con mano leggera ma sistematica – la constatazione decisiva che l’esito politico del 1948 fu il fallimento di una leadership araba incapace di costruire istituzioni, più attratta dalla promessa di cancellare Israele che dalla fatica di edificare uno Stato. Denunciare una rimozione praticandone un’altra: ecco il giochetto.
Diciamolo chiaro: l’equiparazione, secondo la sconcia moda quotidiana, tra Shoah e Nakba – esplicita o insinuata – è un’operazione intellettualmente scorretta. Non perché il dolore palestinese sia indegno, ma perché le categorie non sono intercambiabili: da una parte lo sterminio industriale di un popolo inerme in Europa; dall’altra la conseguenza tragica di una guerra avviata per impedire la nascita di uno Stato deliberato dall’Onu. Mettere sullo stesso piano ciò che è incommensurabile non nobilita i palestinesi ma di sicuro scredita chi lo fa.
Criticare Israele è legittimo. Persino doveroso. Spacciare il 1947-48 per un’azione centrata su un infame e presunto avvelenamento dei pozzi e su una “distruzione metodica” predeterminata è fragile nelle fonti e tossico nel dibattito pubblico. Regala ai non specialisti l’illusione di aver capito in sei minuti una vicenda che chiede almeno un minimo di rigore che dovrebbe guidare persino chi esercita il mestiere aereo, spesso futile e ancor più spesso superficiale del giornalismo. E, sottotraccia, alimenta l’idea che la sola soluzione “giusta” sia l’azzeramento dell’esperimento sionista: come se l’esistenza di Israele fosse l’errore da correggere. O, meglio, da cancellare. Qui la semplificazione diventa complicità culturale con i professionisti della delegittimazione.
Si può – e si deve – discutere la condotta delle forze ebraiche nel 1948, compresi atti inaccettabili. Lo si può fare senza feticizzare il Piano Dalet. Si può riconoscere che l’esodo palestinese ha cause molteplici, non ultime le sciagurate scelte arabe, e che la storia non è un processo sommario in cui si cerca la pena esemplare. Soprattutto, si può uscire dalla moda del “pezzo che fa giustizia morale” e tornare a un’antica virtù: distinguere. Il che non assolve nessuno ma sottrae la verità alle tifoserie.
Se davvero vogliamo che le parole non preparino altre catastrofi, forse dovremmo smetterla con la scorciatoia della “Nakba totale”. Raccontiamo la nascita di Israele per ciò che fu: l’attrito duro e concreto di due diritti nazionali, in un Medio Oriente dominato da regimi che scelsero la guerra e da leadership palestinesi che troppo spesso imposero la promessa di un ritorno impossibile invece del lavoro paziente – e impopolare – di costruire un futuro accanto a Israele. Meno glamour, più realtà. È lì che sta l’utilità, per chi ancora oggi – da entrambe le parti – paga il conto di quelle scelte.
(Setteottobre, 18 settembre 2025)
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Se per Antonio Polito Gaza è un ghetto e il Qatar è un mediatore
di Iuri Maria Prado
Scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera: “Ora, dopo aver trasformato il ghetto in una fossa comune, Netanyahu si riprende la Striscia con una guerra senza quartiere che identifica il popolo palestinese con Hamas, e che per questo durerà per generazioni”. “L’obiettivo storico di Israele”, continua Polito, cioè “difendersi con le armi dai suoi nemici per fare con loro la pace, si è capovolto nel suo contrario: la guerra permanente su sette fronti, colpendo anche chi, come l’Oman o il Qatar, si presentava come mediatore”.
Analizziamo una per una queste belle trovate dell’editorialista del Corriere della Sera. “Trovate” per modo di dire, perché sono il recupero di un ordinario refluo della sentina social.
Dunque:
1) Gaza sarebbe stata un “ghetto”. L’uso di questa parola, “ghetto”, è preciso: i palestinesi come gli ebrei. I palestinesi perseguitati come gli ebrei, e il persecutore – cioè Israele – nella posizione, nella funzione, nelle responsabilità che furono dei persecutori degli ebrei. Questa è tecnicamente una proposizione antisemita. Testualmente: “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti”, che è una delle figure di antisemitismo descritte da International Holocaust Remembrance Alliance, cui l’Italia aderisce.
2) Il ghetto trasformato in una “fossa comune”. Di nuovo: l’evocazione delle persecuzioni degli ebrei e delle distruzioni dei ghetti ebraici paragonate alla guerra di Gaza. Antonio Polito come un Di Battista qualunque. Come un Orsini qualunque. E il Corriere della Sera che dà spazio a questi spropositi. Che non sono – attenzione – farneticazioni: sono aggressioni. È vilipendio, letteralmente.
3) La “guerra permanente su sette fronti”, scrive Antonio Polito. Quindi è Israele che ha aggredito il Libano, lo Yemen, l’Iran… Non ci sono le migliaia di missili che inceneriscono la Galilea: c’è Israele che aggredisce il Libano. Non ci sono le bande di fondamentalisti che lanciano missili sui civili israeliani e sparano sui navigli commerciali nel Mar Rosso: c’è Israele che aggredisce lo Yemen. Non c’è la Repubblica delle impiccagioni che lancia centinaia di missili, razzi, droni sui civili israeliani e finanzia tutto il terrorismo del Medio Oriente, rivendicando di voler distruggere Israele e uccidere anche l’ultimo ebreo in Israele e nel mondo: c’è Israele che attacca l’Iran.
E infine il Qatar, che “si presentava come mediatore”, scrive Polito. Il Qatar che il 7 ottobre del 2023 emetteva un comunicato secondo cui il responsabile esclusivo era Israele. Ma evidentemente Antonio Polito non l’ha letto, quel comunicato: oppure (più probabile) è d’accordo con quel comunicato. E Antonio Polito non ha visto i leader di Hamas che nelle residenze dorate del Qatar festeggiavano in diretta i massacri, gli stupri, i rapimenti del 7 ottobre. Era distratto, Polito. Stava studiando la storia del ghetto di Gaza.
(InOltre, 18 settembre 2025)
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Germania, Austria e Svizzera: una nuova alleanza contro l’odio
A Monaco è nata una nuova alleanza transnazionale contro l’antisemitismo che raccoglie oltre 200 comunità ebraiche, organizzazioni e chiese di Germania, Austria e Svizzera. L’iniziativa propone un piano in cinque punti per rafforzare sicurezza e libertà della vita ebraica ed è stata rilanciata con una petizione online da Guy Katz (nell’immagine), professore di gestione internazionale all’Università di Scienze Applicate di Monaco. «Viviamo nella paura», ha dichiarato Katz, ricordando che nel 2024 in Germania si sono registrati 8.627 incidenti antisemiti, con un aumento del 77% rispetto all’anno precedente. «Non possiamo farlo da soli, abbiamo bisogno del sostegno della società», ha aggiunto.
Il piano chiede un rafforzamento della legislazione contro l’incitamento all’odio: «La soglia di responsabilità penale dovrebbe essere abbassata al fine di proteggere efficacemente la vita ebraica», sottolineano i promotori. Si chiede di perseguire penalmente chi lancia appelli alla distruzione di Israele e di vietare «gli eventi in cui viene espresso odio contro gli ebrei o l’annientamento di Israele». Altre richieste riguardano il divieto dei boicottaggi accademici e culturali e una protezione più attiva di sinagoghe, memoriali ed eventi pubblici ebraici. Centrale anche il riconoscimento delle festività religiose, troppo spesso ignorate da scuole e datori di lavoro: i promotori ricordano che i dipendenti non dovrebbero subire alcuno svantaggio in quei giorni, «ad eccezione della perdita di guadagno per il tempo non lavorato».
Un punto cruciale è l’educazione, con l’introduzione di «contenuti educativi vincolanti» sulla vita ebraica e sull’antisemitismo nei programmi scolastici e universitari e la nomina di commissari contro l’antisemitismo in ogni ateneo, sul modello già sperimentato in Baviera. La dimensione culturale è stata sottolineata con forza: «Sono sconvolta dalla mancanza di solidarietà, soprattutto tra i giovani», ha affermato l’attrice Uschi Glas, denunciando «ignoranza e parzialità, soprattutto tra i giovani», e chiedendo che fondi pubblici non finanzino progetti che diffondono odio mascherato da attivismo politico.
Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera e sopravvissuta alla Shoah, ha ribadito che contrastare l’antisemitismo significa rafforzare la coesione dell’intera società. «Il potenziale di questa iniziativa è enorme», ha affermato, confessando la difficoltà di tornare a parlare pubblicamente di questi temi, «perché li ho già vissuti in passato». Il suo invito, come degli altri promotori, è alla società civile di partecipare in massa alla manifestazione contro l’antisemitismo organizzata a Monaco per il prossimo 5 ottobre. Proprio nella capitale della Baviera, il cancelliere Friedrich Merz, celebrando il recente restauro di una sinagoga, ha dichiarato «guerra a ogni forma di antisemitismo vecchio e nuovo in Germania a nome dell’intero governo federale».
Tra i sostenitori dell’alleanza e del piano in cinque punti figurano la premio Nobel per la Letteratura Herta Müller, l’attrice Iris Berben, il commissario governativo per l’antisemitismo in Germania Felix Klein e il ministro della Cultura tedesco Wolfram Weimer. L’iniziativa punta a raccogliere 100mila firme: superata la soglia delle 30mila, i promotori avrebbero già diritto a un’audizione al Bundestag, ma l’obiettivo è lanciare un messaggio più forte. «Non credo che la maggior parte dei tedeschi sia antisemita», ha sottolineato Katz. «Ma credo che la maggior parte dei tedeschi sia molto silenziosa. E questo ricorda un po’ la situazione degli anni ’30». E ha aggiunto: «Se non raggiungiamo le 100mila firme, possiamo anche andarcene».
(moked, 18 settembre 2025)
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“O ci si adegua o ci chiamano sionisti complici del genocidio”
Intervista al professor Casella
di Filippo Piperno
Una normale lezione di Diritto pubblico comparato all’Università di Pisa, tenuta dal professor Rino Casella, che in pochi attimi diventa il teatro di un’azione squadristica. Un gruppetto di attivisti propal fa irruzione nell’aula agitando bandiere palestinesi, interrompe la lezione, occupa l’aula e spedisce il professor Casella al pronto soccorso con una prognosi di 7 giorni.
- Professore ci racconti com’è andata
Stavo tenendo la mia lezione quando una trentina di facinorosi sono entrati nell’aula e sono saliti sulla cattedra strappandomi il libro che avevo in mano. Avevo anche un quadernino con la bandiera americana e hanno cominciato a chiamarmi “sporco imperialista” strappandomi il microfono. Ma quella bandiera era sul mio quaderno perché spiego anche l’ordinamento americano. È parte del programma didattico. Ho cercato di continuare la lezione alzando il tono della voce ed è allora che mi hanno spintonato e allontanato dalla cattedra. Gli studenti non hanno assolutamente solidarizzato con loro, anzi hanno chiamato più volte la polizia. Nel frattempo, uno studente ha cercato di togliere la bandiera palestinese ed è stato preso a calci e pugni e io mi sono frapposto nell’illusione che il mio ruolo istituzionale potesse proteggermi e invece mi sono preso un cazzotto e una gomitata e sono finito al pronto soccorso.
- Questo gruppo era composto da studenti?
No, non erano tutti studenti, era un collettivo che a Pisa si sta agitando tantissimo. Ha occupato la stazione e ieri sera ha fatto un’altra manifestazione bruciando la bandiera israeliana. Ieri ce l’avevano con l’università perché, a detta loro, crea laureati per Leonardo che produce le armi. L’ennesimo ipocrita paradosso, che insieme ad una collega abbiamo denunciato, è che si chiede di boicottare le università israeliane ma non le università dell’Iran che produce i droni con cui viene bombardata l’Ucraina.
- Anche le istituzioni accademiche hanno le loro responsabilità
Certamente ce l’ha anche il nostro Ateneo, perché un po’ li sostiene questi personaggi. Ci dialoga. Pochi giorni fa, per dire, il rettore ha sostenuto la Global Flottilla. Questo crea una situazione di ambiguità cosicché quando succedono problemi di ordine pubblico con minoranze molto violente l’università si trova in una posizione di debolezza e sembra quasi che si debba giustificare mentre esprime la propria condanna. Al contempo debbo dire che la maggioranza degli studenti vuole solo studiare e non solidarizza con i violenti.
- Che tipo di reazioni ci sono state tra i suoi colleghi?
Il mio è un dipartimento molto schierato e molti sono rimasti in silenzio. Però stamani (ieri mattina n.d.r.) c’è stato il Consiglio di dipartimento ed è stato molto bello sapere che hanno adottato la proposta di accompagnarmi tutti insieme quando riprenderò le lezioni la settimana prossima, un gesto simbolico molto bello, anche molto intenso sul piano emotivo personale. Anche se presumo che molti colleghi non parteciperanno.
- Un bel gesto in un clima avvelenato.
Il clima è quello che è. O ci si adegua alla narrativa o siamo assassini, sionisti, complici dello sterminio, agenti del Mossad, eccetera eccetera. Come si fa a discutere all’università in un clima del genere? Anche la persona con le migliori intenzioni si arrende perché il clima è davvero tossico e credo che agevoli poi episodi come quello capitato a me. Spero che questa cosa apra un po’ gli occhi e le menti.
(InOltre, 18 settembre 2025)
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Il rettore del Politecnico di Torino caccia il professore ebreo per ‘tutelarlo’ dagli studenti
I ghetti avevano una funzione analoga
di Iuri Maria Prado
Il quotidiano La Stampa ha offerto la propria prima pagina al rettore del Politecnico di Torino, Stefano Corgnati, per illustrare i motivi della cacciata di un professore ebreo molestato da squadracce pro-Pal durante una lezione.
Ovviamente né La Stampa né il responsabile del provvedimento di repulisti presentano in quel modo la faccenda. Il manipolo di sgherri che ha interrotto la lezione molestando il professore è trasfigurato in un leggiadro consorzio di “alcuni studenti esterni al corso”, i quali “hanno sollevato questioni” in merito all’azione dell’esercito israeliano. Invece le risposte del professore – che ha servito nell’esercito israeliano, da lui giudicato “il più pulito” – diventano “esternazioni” che “appaiono inappropriate nel contesto di un compito didattico relativo a lezioni di carattere tecnico” e rischiano “di alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica”.
Ricapitoliamo? “Inappropriato” non è il fatto che un branco di molestatori interrompa la lezione, ma il fatto che la vittima della molestia risponda dicendo di aver servito nell’esercito e di considerarlo esemplare. Ad “alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica” non è l’irruzione della falange pro-Pal al Politecnico di Torino, ma la “esternazione” del professore che osa dichiarare di aver prestato servizio nell’esercito e di averne apprezzato la levatura morale.
Ma il meglio è quando il rettore dell’istituto torinese spiega che “quanto prima” parlerà con il professore “per comprendere meglio i contorni della vicenda e le motivazioni delle sue risposte”. Un processino interno, diciamo, nell’attesa del quale vale il “raus” pronunciato sulla scorta di “quanto risulta dai frammenti video diffusi sui social”. È dubbio se, per la conferma del provvedimento, occorrerà sentire anche il parere del capo caseggiato. Delizioso, infine, è il riferimento del rettore alla funzione profilattica della cacciata: “rappresenta”, spiega, “un’azione di tutela nei confronti del docente nostro ospite, così come degli studenti che frequentano le sue lezioni”. Le ragioni della tutela degli studenti, per carità, sono chiare: rischiavano di essere ulteriormente esposti alla contaminazione sionista, e ci sta. Ma tutela del docente in che senso? Lo proteggiamo dal pericolo di essere molestato (o peggio) sbattendolo fuori? I ghetti avevano una funzione analoga.
(Il Riformista, 18 settembre 2025)
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Gaza, la fabbrica della menzogna
di Antonio Cardellicchio
Certo che la realtà di Gaza è un inferno, anzi è più infernale di quanto descrivono le “anime belle” che odiano Israele. Ma questo abisso infernale esprime realtà, disvalori, sentimenti, finalità che formano, giorno per giorno, una guerra ibrida martellante, totalizzante, che ribalta tutto con feroce cinismo. Tutti i riflettori del mondo puntati su Gaza, mentre cala il buio su tante altre stragi e delitti disumani, dall’Iran all’Afghanistan.
A Gaza 13mila operatori ONU, ottanta ONG, 1300 giornalisti accreditati. Tutti per una massiccia operazione di mistificazione, fabbrica di falsità, odio scatenato. Un mare di giornalisti falsari, pappagalli del terrore, senza giornalismo d’inchiesta, contraddittorio, con la censura totale sui tunnel, sulle strutture terroriste, i depositi di armi, sotto ospedali (veri e finti), scuole, moschee, abitazioni civili.
Censura su Hamas che ruba il cibo, lo trattiene o lo rivende a prezzi maggiorati, quando dovrebbe essere naturalmente gratuito, con proventi che vanno a finanziare l’attività terrorista; Hamas sequestra con la violenza armata il cibo della Gaza Humanitarian Foundation, che consegna un’enorme quantità di pasti ogni giorno. Censura sull’arruolamento forzato dei minori, censura sulla condizione Auschwitz degli ostaggi israeliani, sulla vendita dei cadaveri, sull’eliminazione fisica dei gazawi dissidenti.
Tutta una costruzione mediatica artificiale, ideologica, con inversione dei ruoli di vittima e carnefice. Tirannia mediatica che abolisce razionalità critica, dibattito, ogni dissenso dalla versione ufficiale dominante. Tutta la presenza dell’ONU nella Striscia è una convivenza complice con Hamas. La retorica umanitaria maschera il volto di un anti-umanitarismo di una crudeltà spietata.
Una sinistra dell’odio e una destra moderata ignava sfruttano con cinismo la comoda rendita, a portata di mano, di un imperialismo mediatico che ribalta fatti e valori, per i loro calcoli. La dittatura della disinformazione in una dittatura elettorale, dove la schiavitù ad Hamas si fonde con l’incapacità difensiva e le tendenze autodistruttive delle correnti antioccidentali in Occidente.
Da qui la negazione della realtà vivente di Israele, che sta realizzando con coraggio sia la propria esistenza sia i compiti propri della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, della giustizia di tutte le democrazie del mondo.
La guerra è lunga proprio perché l’autodifesa israeliana realizza tattiche difensive selettive, a cominciare dai bombardamenti sulle strutture terroriste preceduti da appelli all’evacuazione per salvare vite umane. Niente di tutto questo, invece, nei bombardamenti sommari, massicci della coalizione anti-Isis a Mosul, o degli Alleati per la capitolazione di Germania e Giappone: attacchi senza avvisi di evacuazione o distribuzione di cibo, fino agli estremi di Dresda e dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki. La storia democratica ha accettato queste tragiche necessità. L’atomica ha suscitato un naturale dibattito etico, ma allora venne accettata e, in quel dibattito, lo stesso Norberto Bobbio la giustificava. Questa comparazione mostra che l’israelofobia su Gaza è antisemitismo tossico, filoterrorismo militante, ideologia e prassi antioccidentale.
La sofferenza a Gaza, oltre quella vissuta, è generata e amministrata come arma politica per spostare i precari equilibri di un mondo tormentato e devastato a favore delle autocrazie e dei totalitarismi, con i loro orrori terroristi. Video di bambini affamati, di vittime, si trasformano in contenuti mediatici della guerra ibrida. Ogni tentativo onesto e umanizzante di squarciare il regime mediatico antisemita viene criminalizzato.
La funesta ideologia antioccidentale, comune ad Hamas e al dominio mediatico, sfrutta proprio l’etica ebraica per eliminare l’unico, piccolo Stato ebraico al mondo. L’autolimitazione-autoregolazione della difesa israeliana viene sfruttata con un cinismo assoluto, considerandola una debolezza per intensificare l’aggressione fisica e la calunnia morale.
La legittimazione della menzogna sistematica e del terrore genocida costituisce un autentico collasso morale dell’Occidente. Gaza è diventata la causa delle anime belle, ma è una vera trappola, fisica, militare e psicologica: da ogni anfratto, dai sottoscala, da tutte le strutture sotterranee di morte spietata, viene fuori l’agguato del mostro infernale. Realtà negata da una trappola ideologica che ribalta oppressori e oppressi, carnefici e vittime.
Davide Cavaliere ci ha ricordato le nobili parole di Imre Kertész, grande scrittore ebreo ungherese, deportato quindicenne ad Auschwitz e poi trasferito a Buchenwald, Premio Nobel per la letteratura nel 2002:
“Lo confesso con sincerità: quando per la prima volta vidi sullo schermo televisivo i mezzi corazzati israeliani diretti a Ramallah, inconsapevolmente e ineluttabilmente mi penetrò come una fitta questo pensiero: Dio mio, quant’è bello vedere la stella di Davide sui carri armati israeliani, piuttosto che cucita sul mio vestito, come avvenne nel 1944”.
(L'informale, 18 settembre 2025)
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La Paramount denuncia gli appelli al boicottaggio di Israele nel cinema: “Non fa avanzare la pace"
“L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.” Così la grande casa di produzione ha risposto all’appello firmato da 4.000 persone del mondo del cinema per boicottare le istituzioni cinematografiche israeliane.
di Nina Prenda
La Paramount ha condannato un impegno firmato questa settimana da oltre 4.000 attori, intrattenitori e produttori, tra cui alcune star di Hollywood, a non lavorare con istituzioni cinematografiche israeliane che affermano “sono implicate nel genocidio e nell’apartheid contro il popolo palestinese”. Tra i firmatari degli impegni ci sono gli attori Olivia Colman, Emma Stone, Mark Ruffalo, Tilda Swinton, Riz Ahmed, Javier Bardem, Joaquin Phoenix, Emma D’Arcy, Eric Andre, Elliot Page e Cynthia Nixon.
La dichiarazione ha spinto Paramount a rispondere all’impegno rilasciato lunedì 15 settembre.
“In Paramount, crediamo nel potere della narrazione per connettere e ispirare le persone, promuovere la comprensione reciproca e preservare i momenti, le idee e gli eventi che modellano il mondo che condividiamo. Questa è la nostra missione creativa”, si legge nella dichiarazione. “Non siamo d’accordo con i recenti sforzi per boicottare i registi israeliani. Mettere a tacere i singoli artisti creativi in base alla loro nazionalità non promuove una migliore comprensione o avanza la causa della pace”, ha continuato la dichiarazione. “L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.”
L’impegno si distingue da altri precedenti boicottaggi di arte e cultura in Israele, in quanto menziona specificamente le istituzioni culturali israeliane che i firmatari della lettera stanno boicottando. Tra queste, importanti festival cinematografici israeliani come il Jerusalem Film Festival, l’Haifa International Film Festival, il Docaviv e il TLVfest.
L’impegno non si rivolge specificamente agli individui israeliani. Invece, il documento dice che il “rifiuto mira alla complicità istituzionale, non all’identità” e che “alcune entità cinematografiche israeliane non sono complici”.
Diverse lettere aperte firmate da figure di spicco del cinema, della musica e della letteratura sono state pubblicate mentre la pressione aumenta sul governo israeliano per porre fine alla guerra di quasi due anni contro Hamas a Gaza scatenata dall’invasione e dal massacro del gruppo terroristico in Israele il 7 ottobre 2023.
(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2025)
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San Nicandro Garganico – Inaugurata in sinagoga la biblioteca Alfredo Ravenna
«Nel 1930, nella notte tra il 10 e l’11 agosto, ho avuto una visione: mi trovavo nell’oscurità e sentivo una voce che mi diceva: “Ecco, vi porto una luce”».
Prese le mosse da questa visione la “nuova vita” di Donato Manduzio (1885-1948), il fondatore della comunità ebraica di San Nicandro Garganico (FG) in Puglia. Una storia di “ebrei per scelta” senza alcun contatto fino a quel momento con l’ebraismo, convertitisi poi collettivamente nel Dopoguerra.
Un rabbino arrivato da Roma formalizzò quel processo, Alfredo Shelomò Ravenna (1899-1981). Ferrarese di nascita, formatosi a Firenze e nella capitale, fu in Gargano alla fine di luglio del 1946 e organizzò il rito di passaggio della circoncisione. Porta ora il suo nome la biblioteca di ebraismo inaugurata mercoledì sera nella sinagoga del comune pugliese nel corso di una cerimonia svoltasi alla presenza tra gli altri dei nipoti Elena e Yaakov Lattes, che hanno donato agli ebrei sannicandresi numerosi volumi della Rassegna Mensile di Israel, del vicepresidente della Comunità ebraica napoletana Sandro Temin e del rabbino capo del capoluogo campano Cesare Moscati.
«Ho avuto il privilegio di essere un suo allievo», sottolinea Moscati. «A parte la grande competenza, lo ricordo come un uomo dolce e simpatico. È stato emozionante onorarlo in un clima accogliente e caloroso come quello riservatoci». Concorda Temin: «Abbiamo sentito la vicinanza di tante persone toccate dalla sua storia, dal suo esempio e dalla personalità. Anche io ricordo il rav con molto affetto: era una presenza assidua in tante circostanze familiari». Lattes, che è docente allo Yaad Accademic College di Tel Aviv, ha rievocato nel suo intervento alcune tappe della sua carriera di rabbino e maestro e ricordato come anche durante l’occupazione nazista di Roma il rabbino Ravenna cercò di mantenere accesa, in clandestinità, una fiammella di ebraismo. Nei mesi successivi Ravenna sarebbe stato parte dell’equipe che, sotto la guida di Attilio Ascarelli, avrebbe dovuto riconoscere le salme e dare degna sepoltura alle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel corso della serata è stata svelata una targa commemorativa ed è stato trasmesso anche un video di Umberto Piperno, il rabbino capo di Livorno. Hanno inoltre preso la parola un ex preside di scuola e una insegnante, per testimoniare l’apprezzamento della società civile verso il piccolo ma vivace nucleo ebraico locale.
(moked, 18 settembre 2025)
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Dopo 2000 anni, il percorso di pellegrinaggio a Gerusalemme viene riaperto
Durante una cerimonia nella Città di Davide, Netanyahu, Rubio e Huckabee sottolineano il legame indissolubile tra l'eredità ebraica e quella cristiana.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - In un momento ricco di storia e fede, martedì Israele ha inaugurato l'intera lunghezza dell'antica Via dei Pellegrini, il sentiero in pietra lungo 600 metri che un tempo conduceva i fedeli dalla piscina di Siloe al Tempio. All'evento, che ha segnato la conclusione di 13 anni di scavi, hanno partecipato il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato americano Marco Rubio, l'ambasciatore Mike Huckabee, diversi ministri, il sindaco di Gerusalemme e archeologi di alto livello.
Questa è la nostra città. È sempre stata la nostra città e rimarrà sempre la nostra città”, ha dichiarato Netanyahu. “Duemila anni dopo la distruzione del Secondo Tempio, stiamo riportando alla luce il nostro passato e costruendo il nostro futuro su di esso. Gerusalemme non sarà mai più divisa”. Ha collegato la scoperta alle radici dell'alleanza di Israele e ha respinto i tentativi di separare Gerusalemme dal popolo ebraico: “Il nostro patrimonio comune ebraico-cristiano è nato proprio qui”.
Rubio ha presentato la cerimonia come una testimonianza dei valori biblici che hanno plasmato sia Israele che l'America. “I principi su cui sono stati fondati gli Stati Uniti 250 anni fa derivano dalle parole che sono state scritte qui per la prima volta”, ha detto. “Stare su questa strada significa stare nel luogo in cui la fede ha dato origine alla libertà”.
Huckabee, visibilmente commosso, ha ricordato la distruzione operata dai Romani nel 70 d.C.: “Hanno cercato di cancellare questo popolo e questo luogo. Ma gli ebrei non hanno mai dimenticato. Stasera le pietre proclamano la verità: che il popolo ebraico appartiene a questo luogo, non solo oggi, ma da 4.000 anni”.
Gli archeologi hanno definito lo scavo uno dei più ambiziosi al mondo, con tunnel scavati sotto la Gerusalemme moderna per portare alla luce strati risalenti a 2.500 anni fa. Tra i reperti figurano monete con la scritta “Per la libertà di Sion”, vasi rituali e un raro mezzo siclo d'argento utilizzato per le offerte al tempio. La piscina di Siloe, menzionata sia nella Bibbia ebraica che nel Nuovo Testamento, costituisce il centro della strada e ne sottolinea il significato universale.
Il direttore della Città di Davide, David Be'eri, ha affermato che l'inaugurazione della strada arriva in un momento in cui i nemici negano il legame degli ebrei con Gerusalemme. “Queste pietre smentiscono le loro menzogne”, ha detto. “Generazioni di pellegrini hanno camminato qui. Ora, dopo 2000 anni, milioni di altri seguiranno le loro orme”.
Per Israele, il progetto è di natura sia archeologica che teologica: è la prova che la storia ebraica a Gerusalemme non è un mito, ma un fatto concreto scolpito nella pietra. Per i cristiani rafforza le radici della loro fede nella città in cui si è svolta la Bibbia. Per entrambi, il percorso di pellegrinaggio non è solo una storia riportata alla luce, ma una conferma della verità biblica.
(Israel Heute, 17 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Una battaglia per la fine della guerra a Gaza
di Ugo Volli
• Un’offensiva annunciata
Come tutti i giornali hanno riportato, l’esercito israeliano è entrato l’altra mattina a Gaza City, il capoluogo della Striscia di Gaza. Non c’è nessuna sorpresa in questa azione, che era stata apertamente discussa fra governo e Stato Maggiore delle Forze Armate, con notevoli dissensi iniziali fra loro successivamente superati, poi annunciata tanto dal Primo Ministro Netanyahu e dal Capo di Stato Maggiore, contestata da parte (ma solo parte) dell’opposizione e da agguerrite manifestazioni di piazza. Soprattutto era stata preparata da una decina di giorni di colpi dell’aviazione su edifici che erano stati identificati come possibili roccaforti di Hamas, luoghi di avvistamento e di sparo sulle truppe, centri di coordinamento dell’azione terrorista. Oltre sessanta di queste “torri” erano state abbattute, nell’ultima settimana. La trasformazione di Gaza City da zona “santuario” di Hamas in terreno di guerra era stata anche largamente comunicata dall’esercito israeliano ai suoi abitanti, in maniera tale da sottrarli al fuoco dirigendoli in zone attrezzate per aiutarli e nutrirli, mentre Hamas aveva cercato in tutti i modi, dalla retorica religiosa alla violenza fisica, di trattenerli in città e usarli come scudi umani. Alla fine il via è venuto la mattina del 15 settembre dall’incontro fra Netanyahu e il Segretario di Stato (cioè il ministro degli esteri) americano Marco Rubio, che in una conferenza stampa ha dichiarato che la convinzione del Presidente Trump e sua è che “Hamas deve essere eliminato e gli ostaggi liberati”. Questo annunciato da Rubio è lo scopo dell’operazione: distruggere Hamas e finire la guerra.
• La propaganda contro Israele
In realtà è difficile distinguere Gaza City (o il suo centro, perché la periferia era già stata investita in precedenza dalle azioni israeliane) dal resto della Striscia: non vi sono ostacoli naturali, l’edilizia disordinata caratteristica di tante città mediorientali ne rende confusi i confini. Essa non era stata toccata finora soprattutto per il sovraffollamento e la presenza di ridotti e fortificazioni terroriste sottoterra e negli edifici, che insieme al sovraffollamento degli abitanti e alla probabile presenza dei luoghi di detenzione dei rapiti rendevano (e rendono ancora) difficile e pericolosa l’azione militare sul terreno. Hamas era ben consapevole di questa difficoltà e ci ha montato intorno una campagna di propaganda, appoggiata da media e forze politiche “progressiste”, talvolta da governi soprattutto in Europa e nel mondo anglosassone. Difficile pensare che alla base di questo schermo propagandistico stia davvero la preoccupazione per i rapiti e neanche quella per la gente comune di Gaza, tant’è vero che non vi sono proteste per il violento tentativo di Hamas di costringerli a fare ancora una volta gli scudi umani. Nella migliore delle ipotesi c’è preoccupazione per una vittoria “troppo netta” e dunque “destabilizzante” di Israele, come già era accaduto in tutte le guerre del passato ad opera degli Usa; nella peggiore, come nel caso della “flottiglia”, ma anche del governo spagnolo e del suo capo, il socialista Sanchez, c’è una chiara vicinanza politica con Hamas; in altri casi ancora un cinico calcolo di bacino elettorale o, nel caso dei media, di vendite.
• Come Rafah
Qualcosa di molto simile era accaduto in precedenza a Rafah, altra importante città della striscia di Gaza, che controlla l’accesso dall’Egitto. Israele aveva raggiunto questa frontiera da tempo ma la presa della città era stata bloccata da delibere dell’Onu, prese di posizione dei paesi europei, manifestazioni di piazza, ma soprattutto dal veto dell’amministrazione Biden. Tutti prevedevano che la conquista di Rafah avrebbe portato a disastri umanitari che non si sono verificati, a crisi internazionali che non si sono viste. Di fatto la conseguenza principale dell’ingresso israeliano in città è stata l’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas e il responsabile del 7 ottobre. Sia per Rafah, sia adesso per Gaza City c’è stata anche una certa resistenza interna, da parte dei vertici militari e di sicurezza. E’ stata la determinazione del governo, e personalmente di Bibi Netanyahu a superare queste esitazioni.
• Una battaglia difficile
Lo scopo dell’operazione è chiaro: spezzare le ultime resistenze organizzate di Hamas, obbligarli ad arrendersi e a liberare i rapiti, ed eliminare completamente coloro che rifiutano. Già la settimana scorsa l’esercito ha riportato i nomi di alcuni capi di Hamas che avevano chiesto un salvacondotto per fuggire all’estero, A uno di loro, che probabilmente aveva fatto recuperare i resti di due salme del 7 ottobre trattenute dai terroristi, l’emigrazione è stata concessa, agli altri è stata negata. La conquista di Gaza City non è facile, richiede a fanti e carristi di entrare in un labirinto urbano certamente pieno di trappole esplosive e di terroristi disposti a qualunque azzardo per ucciderli o – ancor peggio – rapirli. Per dare un segnale forte, per la prima volta nella storia di Israele, il Capo di Stato maggiore si è impegnato a dirigere l’operazione venendo in prima linea. Non bisogna pensare però che questa battaglia decisiva duri ore o giorni. Ci vorranno settimane, forse mesi, per eliminare la resistenza di Hamas, che non ha la forma di uno schieramento frontale, ma di mille agguati e trappole.
• Gli altri fronti
Intorno a questo scontro a Gaza, la guerra continua su altri fronti. Ci sono gli Houthi, che l’aviazione ha colpito ieri di nuovo, ma che continuano a sparare missili sulla popolazione civile, ci sono le situazioni di Libano e Siria, dove Israele sta intervenendo per impedire che Hezbollah si riarmi, che il regime siriano possa accumulare armi provenienti dalla Turchia e anche che possa sterminare i Drusi. E c’è l’Iran, con cui la partita quasi sicuramente non è finita: “ci saranno altri round” come ha detto il ministro della difesa Katz. Il più attivo di tutti però è l’“ottavo fronte” della politica internazionale, che ormai mira apertamente a isolare Israele, a impedirgli di difendersi negandogli armi e rifornimenti. Ciò potrebbe portare lo Stato ebraico a doversi trasformare in una “nuova Sparta” come ha detto con espressione molto discussa Netanyahu, che però ha aggiunto subito che il progetto di isolamento politico e militare di Israele non sta prevalendo, soprattutto grazie agli Stati Uniti. La visita di Rubio ne è una prova e un’altra è l’invito a visitare Trump fra due settimane che Netanyahu ha accettato: sarebbe il quarto incontro in un anno, un record assoluto.
(Shalom, 17 settembre 2025)
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«Fuori i sionisti dalle Università». Caos a Pisa: professore al pronto soccorso
«Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale», ha dichiarato il professore. La presidente UCEI, Noemi Di Segni: «Appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas». La ministra Bernini: «Intollerabile». Una frattura che divide il mondo accademico.
di Nina Deutsch
Momenti di forte tensione ieri mattina al Polo Piagge dell’Università di Pisa, dove un gruppo di circa quindici studenti dei collettivi pro Palestina ha interrotto una lezione del professor Rino Casella, associato di Diritto Pubblico Comparato. Gli studenti, saliti sulla cattedra e armati di megafono, hanno gridato slogan a favore di Gaza: «Palestina libera. Fuori i sionisti dalle Università».
Secondo quanto riportato dal docente, durante l’irruzione sarebbe stato colpito con calci e pugni: «Non mi è stato solo impedito di fare lezione – ha raccontato – ma sono stato anche aggredito fisicamente, soprattutto perché ho cercato di fare da scudo a uno studente picchiato solo per avere tentato di togliere una bandiera palestinese ai manifestanti». Dopo l’accaduto, Casella si è recato al pronto soccorso, dove gli sono state diagnosticate contusioni ed escoriazioni con prognosi di alcuni giorni. «Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale».
Sul profilo Instagram del collettivo Studenti per la Palestina Pisa sono poi comparsi foto e video del blitz, corredati dall’accusa al professore di essere «sionista»: «Gente come questo professore nelle aule non ci deve stare, non deve avere spazio» ha detto una delle attiviste al megafono. «Abbiamo interrotto la lezione del professore – hanno aggiunto gli attivisti – perché il docente ci ha impedito di parlare del genocidio in atto in Palestina e del fatto che l’Università di Pisa è complice tramite accordi e progetti che porta avanti con lo stato genocidario di Israele».
• Le reazioni istituzionali
La ministra dell’Università Anna Maria Bernini è intervenuta immediatamente e ha telefonato al rettore Riccardo Zucchi, al professor Casella e al prefetto di Pisa, Maria Luisa D’Alessandro.
«Sarà la magistratura ad indagare», ha dichiarato il rettore, precisando che «accusare la nostra Università di sostenere uno stato genocidario mi sembra fuori dal mondo, oltre che un grossolano errore». E ha aggiunto: «Posso dire in generale che, ferma restando la nostra posizione su Gaza ormai nota, il nostro ateneo rifiuta ogni forma di violenza, verbale o fisica, che faccia passare le persone dalla parte del torto. L’interruzione delle lezioni, a maggior ragione se accompagnata da aggressioni fisiche, è assolutamente intollerabile».
Bernini a sua volta ha condannato l’episodio con parole nette: «Le università non sono zone franche dove è consentito interrompere lezioni o aggredire professori. Quanto accaduto all’Ateneo di Pisa è intollerabile per una società che si riconosce nei valori della democrazia».
La ministra ha poi aggiunto: «Colpire la libertà accademica significa attaccare il cuore della nostra democrazia: dobbiamo difenderla tutti, senza se e senza ma». (HuffPost).
Durissima anche la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), Noemi Di Segni: «Quel che è successo all’Università di Pisa è proprio l’escalation che da tempo temiamo e avvertiamo come deriva della violenza già lungamente tollerata, in nome della “dialettica democratica”, e come appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas».
Di Segni ha ammonito: «Va ricordato che i palestinesi sono strumentalizzati da chi li considera scudi umani e nessuna irruzione nelle aule potrà mai soccorrerli. Anzi così si continua a legittimare il terrorismo. Noi speriamo che l’anno accademico si avvii invece con ben altre capacità di comprendere la complessità escludendo giudizi arbitrari e violenza verbale e fisica».
• Il comunicato UGEI
«Quanto accaduto oggi all’Università di Pisa, con l’irruzione in aula e il ferimento del professor Rino Casella, rappresenta un’escalation preoccupante, richiamando dinamiche già viste lo scorso maggio al Campus Einaudi di Torino. Non si tratta di una semplice contestazione: è un attacco diretto alla libertà accademica e alla sicurezza della comunità universitaria. Come UGEI, esprimiamo piena solidarietà al docente coinvolto e ribadiamo con forza che violenza e intimidazione non possono trovare spazio negli atenei italiani. Serve un argine deciso contro questi comportamenti, perché l’università deve restare un luogo di studio, confronto e crescita, non un palcoscenico di propaganda».
Così in una nota l’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI).
• Una frattura che divide il mondo accademico
L’episodio di Pisa si inserisce in una scia di tensioni già viste negli ultimi mesi in altre università italiane. A maggio, al Campus Einaudi di Torino, un’analoga irruzione durante una lezione aveva innescato polemiche e proteste. Non si tratta dunque di un caso isolato, ma di un fenomeno che sta assumendo un carattere ricorrente.
La questione solleva interrogativi cruciali: fino a che punto la protesta studentesca può invadere gli spazi accademici senza trasformarsi in intimidazione? È legittimo che un docente venga marchiato con etichette ideologiche e messo all’indice per le sue opinioni?
In una stagione internazionale segnata dalla guerra a Gaza e da un’ondata di proteste in campus universitari di tutto il mondo, le università italiane si trovano ora al centro di un bivio: restare luoghi di confronto aperto e civile, o diventare arene di scontro in cui il dialogo cede il passo alla forza.
(Bet Magazine Mosaico, 17 settembre 2025)
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Università al collasso morale: Pisa e Torino, avamposti dell’odio
di Aldo Torchiaro
Ciò che è accaduto all’Università di Pisa non è un episodio isolato, ma l’ennesima conferma che una parte del mondo accademico italiano è ormai ostaggio della violenza politica travestita da “solidarietà” per Gaza. Rino Casella, docente di Diritto pubblico comparato, è finito al pronto soccorso con sette giorni di prognosi: accusato di essere «sionista», circondato, spintonato, colpito a calci e pugni per aver osato difendere Israele e, peggio ancora, per aver tentato di proteggere un suo studente aggredito dai soliti squadristi pro-Pal. Questa è la fotografia di un’università che non garantisce più il diritto allo studio, ma la legge del branco.
A Pisa, da mesi, il senato accademico ha preferito abdicare al proprio ruolo, deliberando l’11 luglio che ogni collaborazione con istituzioni israeliane dovrà essere “oggetto di attenta valutazione”. Formula ipocrita che equivale a una messa al bando preventiva. Il risultato è stato quello che tutti temevano: i campus invasi da bandiere palestinesi (dietro le quali si celano quelle verdi di Hamas) e occupazioni tollerate con colpevole complicità. Quando l’università non difende la neutralità della conoscenza, diventa terreno fertile per la violenza.
Se Pisa rappresenta l’arroganza delle squadracce, Torino è la prova della viltà dei vertici accademici. Al Politecnico, il professor Pini Zorea, docente israeliano invitato come guest lecturer, ha pronunciato una frase semplice e inequivocabile: ha definito l’IDF «l’esercito più pulito al mondo». Apriti cielo. Non c’è stata nessuna aggressione fisica, non ce n’è stato bisogno: il rettore Stefano Corgnati ha immediatamente interrotto il corso, rescindendo ogni rapporto con il docente. Il tutto accompagnato da un comunicato ufficiale che sa di resa morale: il Politecnico «condanna quanto espresso dal docente». Tradotto: un’università italiana, invece di garantire libertà di parola a un ospite internazionale, lo caccia in tronco per aver espresso un’opinione sgradita. Il boicottaggio non è più una minaccia: è pratica corrente.
A Pisa e a Torino si consuma lo stesso delitto accademico. L’idea di università come luogo di confronto, democrazia e libertà, è sostituita dall’idea di università come spazio di intimidazione, dove l’unico discorso ammesso è quello filo-palestinese, possibilmente radicalizzato, e ogni voce ebraica o filoisraeliana deve essere silenziata, con le botte o con la censura istituzionale. È questo che chiamiamo libertà accademica? È questa la cultura che vorremmo trasmettere agli studenti?
Il ministro Anna Maria Bernini ha ragione a dire che «le università non sono zone franche». Ha ragione a dichiarare che il Mur si costituirà parte civile. Ma non basta. Non bastano i comunicati indignati, non bastano i richiami alla legalità: serve una svolta vera. I rettori devono essere messi di fronte alle proprie responsabilità, perché sono i primi garanti della sicurezza e della libertà di pensiero nei campus. E invece a Pisa hanno chiuso gli occhi, a Torino hanno scelto la strada della sottomissione. Due università che dovrebbero essere fiore all’occhiello del sistema italiano oggi sono la prova più lampante della sua decadenza morale.
Il movimento pro-Pal non è un innocuo collettivo di studenti idealisti. È un coacervo che salda frange eversive, fondamentalismo islamico e complicità accademiche. La stessa regia che ha fatto interrompere la Vuelta de España per impedire la volata dei ciclisti israeliani, la stessa che a Parigi ha espulso studenti ebrei dalla chat della Sorbona. A Pisa e Torino si sperimenta un nuovo livello: la violenza fisica e la censura formale. Gli anni Settanta ci hanno insegnato dove portano le degenerazioni nate nei campus: alle Brigate Rosse. Chi non lo vede, oggi, è complice.
Università di Pisa e Politecnico di Torino non possono più rifugiarsi dietro formule burocratiche o dietro l’alibi della “pluralità di opinioni”. Non si tratta di pluralismo, ma di persecuzione. Non si tratta di libertà di parola, ma della sua negazione. E quando un’accademia legittima la violenza o la censura, non sta educando cittadini liberi, ma apprendisti stregoni dell’odio.
Per questo, da qui, rivolgiamo un appello netto: basta ambiguità. Basta boicottaggi mascherati. Basta con rettori che chinano la testa davanti alle minacce. Le università italiane non possono diventare incubatori di antisemitismo né luoghi in cui le squadracce si esercitano a colpire i più deboli. Oggi è un professore aggredito a Pisa, domani sarà uno studente, dopodomani chiunque osi dirsi amico di Israele. È così che inizia la barbarie.
(SETTEOTTOBRE, 17 settembre 2025)
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Onu contro Israele: genocidio o processo politico?
di Stefano Piazza
Un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che Israele ha commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. Il Ministero degli Esteri ha denunciato il rapporto come «menzogne di Hamas riciclate» La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele, ha diffuso un rapporto che scuote il dibattito internazionale: secondo i tre relatori, vi sarebbero «fondati motivi» per ritenere che Israele abbia commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. L’organismo, istituito nel 2021 come sussidiario del Consiglio Onu per i diritti umani, è stato incaricato di indagare sulle presunte violazioni del diritto internazionale umanitario nella regione. Nell’ultima relazione, la Commissione sostiene che Israele avrebbe compiuto quattro atti vietati dalla Convenzione sul genocidio: uccisioni sistematiche, gravi danni fisici e mentali, inflizione di condizioni di vita intollerabili e misure tese a impedire nuove nascite. Per i commissari, tali atti sarebbero stati realizzati dalle autorità e dalle forze di sicurezza israeliane con l’«intento specifico» di annientare i palestinesi di Gaza. Le prove citate comprendono episodi di violenza sistematica e su larga scala, dalla distruzione di abitazioni e patrimonio culturale all’uso della carestia come strumento bellico, fino alla negazione dell’assistenza sanitaria e ad abusi sessuali e di genere.Il genocidio, definito dall’Onu «il crimine dei crimini», richiede di dimostrare non solo l’esistenza di violazioni gravi, ma soprattutto il dolo speciale: la volontà di eliminare un gruppo protetto. Secondo la Commissione, tale volontà si dedurrebbe «unicamente» dal comportamento delle autorità israeliane e dalle dichiarazioni pubbliche dei vertici dello Stato, compreso il Presidente, il Primo ministro e il Ministro della Difesa.
• Le accuse e il contesto legale
Il rapporto arriva in un quadro internazionale già segnato da tensioni legali e diplomatiche. Nel dicembre 2023 il Sudafrica aveva portato Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, accusandolo di violare la Convenzione sul genocidio. La Corte ha concesso misure provvisorie, mentre Amnesty International e l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio hanno sostenuto le accuse in rapporti successivi. Ad agosto 2025, anche l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio ha adottato una risoluzione che definisce le operazioni israeliane a Gaza come genocidio a tutti gli effetti. E solo un mese dopo, la relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha invocato un intervento straordinario dell’Assemblea Generale, parlando di «carestia di massa» e «prove schiaccianti» di genocidio. Tuttavia, Albanese è stata a sua volta ampiamente criticata per dichiarazioni considerate antisemite e per un approccio ritenuto squilibrato a favore della causa palestinese. Un’accusa simile grava anche sui tre relatori della Commissione d’inchiesta – Navi Pillay, Chris Sidoti e Miloon Kothari – già contestati in passato per prese di posizione giudicate ostili allo Stato ebraico. Kothari, in particolare, è stato al centro di polemiche per aver parlato di «lobby ebraica» che controllerebbe i media internazionali, suscitando condanne ufficiali da parte di numerosi Paesi occidentali. Sidoti, dal canto suo, ha minimizzato le accuse di antisemitismo, definendole «come riso lanciato a un matrimonio». Dichiarazioni che, sommate alle prese di posizione di Albanese, sollevano seri interrogativi sulla credibilità e sull’imparzialità dei relatori chiamati a stilare un documento di tale portata.
• La dura replica di Israele
Il Ministero degli Esteri israeliano ha reagito con estrema durezza. In un comunicato diffuso sui social ha bollato il documento come «falso rapporto della Commissione Pillay, Sidoti e Kothari», accusando i tre autori di «agire come rappresentanti di Hamas» e ricordando che le loro «orribili dichiarazioni sugli ebrei sono state condannate in tutto il mondo». Secondo Tel Aviv, «il rapporto si fonda interamente su menzogne di Hamas, riciclate e ripetute senza alcuna verifica indipendente». A sostegno, viene citato uno studio del BESA Center, think tank israeliano indipendente, che avrebbe «confutato ogni singola falsa affermazione riguardante il genocidio». Israele ha ribaltato l’accusa, sottolineando che il 7 ottobre 2023 Hamas ha compiuto un vero e proprio tentativo di genocidio «uccidendo 1.200 persone, violentando donne, bruciando famiglie vive e dichiarando l’intenzione di eliminare ogni ebreo». Inoltre, il governo israeliano ha fatto notare che i tre membri della Commissione si sono recentemente dimessi, definendo la circostanza «una conferma ulteriore dell’inconsistenza del loro lavoro» e chiedendo «l’immediata abolizione della Commissione stessa».
• Le implicazioni internazionali
Il documento Onu non si limita a registrare presunte violazioni: chiede ad Israele di cessare immediatamente ogni azione definita «genocida», imporre un cessate il fuoco permanente e garantire accesso illimitato agli aiuti umanitari. Allo stesso tempo, invita gli altri Stati a sospendere la fornitura di armi e carburanti destinati all’aviazione militare israeliana, per non incorrere nel rischio di complicità. Una raccomandazione che ha diviso le cancellerie. L’Irlanda ha adottato misure concrete in linea con l’appello, mentre il Regno Unito ha rigettato le accuse dopo aver condotto una propria valutazione, come dichiarato dall’ex ministro degli Esteri David Lammy in una lettera al Parlamento.
• Un rapporto sotto accusa
La questione, dunque, va ben oltre il piano giudiziario: rischia di trasformarsi in un nuovo terreno di scontro diplomatico e politico tra chi considera Israele responsabile di crimini internazionali e chi, al contrario, denuncia una campagna ostile orchestrata in sede Onu da figure giudicate non neutrali. Con il conflitto a Gaza ancora in corso, il rischio è che la contrapposizione si radicalizzi ulteriormente: da una parte l’accusa pesantissima di genocidio, dall’altra la difesa di Israele che punta il dito contro l’antisemitismo dei relatori e contro la strumentalizzazione politica delle Nazioni Unite. In questo contesto, il nodo centrale rimane proprio la credibilità dei relatori. Le polemiche passate di Albanese, Kothari e Sidoti pesano come macigni sulla percezione del loro lavoro: agli occhi di molte cancellerie occidentali, un rapporto firmato da figure già accusate di antisemitismo difficilmente potrà essere considerato neutrale.
(L'informale, 16 settembre 2025)
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Marcia della vita
Per Israele e contro l'antisemitismo
Domenica, 28 settembre 2025
80 anni fa, l'8 maggio 1945, con la fine della seconda guerra mondiale si concludeva la Shoah. 6 milioni di ebrei furono uccisi e la vita ebraica in Europa fu quasi spazzata via. Èun miracolo che i sopravvissuti abbiano trovato la forza di ricostruire la loro vita. Ma ancora oggi i loro discendenti soffrono per il trauma proveniente dall'esperienza dei campi di concentramento, dei ghetti e delle marce della morte. Da questa terribile esperienza è nato il grido: "Mai più!". Il 7 ottobre 2023, Hamas ha attaccato il sud di Israele e ha messo in atto il più grande pogrom contro gli ebrei dopo la Shoah. Da quello stesso giorno si è scatenato un vero e proprio diluvio di antisemitismo, che ancora oggi continua a scuotere il mondo intero con nuove ondate di odio contro Israele e il popolo ebraico. Molti discendenti di sopravvissuti alla Shoah nutrono la sensazione: "Potrebbe accadere di nuovo!"
- Non resteremo in silenzio - e porteremo avanti l'eredità dei sopravvissuti alla Shoah, contro tutti gli appelli di smetterla!
- Non resteremo in silenzio - sulla storia dell'antisemitismo nelle nostre città, chiese e famiglie!
- Non resteremo in silenzio - riguardo all'antisemitismo moderno, che oggi assume la forma dell'antisionismo!
- Non resteremo in silenzio - e staremo pubblicamente e in amicizia dalla parte
dello Stato di Israele!
-> Locandina
(Edipi, 16 settembre 2025)
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Riapre a Monaco l’unica sinagoga sopravvissuta ai nazisti
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Cerimonia di riapertura della Sinagoga in Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco
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La chiamavano in yiddish la Reichenbachschul. La sinagoga di Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco, era nata per ospitarle: centinaia di famiglie ebraiche provenienti dall’Est Europa, fuggite a inizio Novecento da pogrom, repressioni e rivoluzioni. Era un tempio ampio e luminoso, ispirato alle idee essenziali del Bauhaus. Profanata e gravemente danneggiata da nazisti nella Notte dei cristalli del 1938, la Reichenbachschul fu ricostruita nel Dopoguerra per poi venire chiusa nel 2006, quando fu aperto il grande tempio Ohel Jakob. Dimenticata per anni, oggi, a quasi un secolo dalla sua inaugurazione, la sinagoga è tornata a vivere grazie al progetto di restauro di Rachel Salamander e Ron Jakubowicz, fondatori dell’associazione “Reichenbachstraße Synagoge”. «Spero vivamente che questa sinagoga diventi un luogo di casa per la vita ebraica in Germania, capace di irradiare in tutto il paese», ha dichiarato il cancelliere Friedrich Merz, presente alla cerimonia di riapertura. Per Salamander il progetto «restituisce piena dignità all’eredità dell’ebraismo di Monaco. È giunto il momento di lasciarci alle spalle l’atmosfera depressa e traumatizzata del Dopoguerra, di ridare voce a coloro che furono spinti fuori dalla storia con la loro sinagoga, di farli sentire di nuovo a casa. Questo significa guarire un pezzo di storia».
La Reichenbachschul, ha ricordato Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera, è «l’unica sinagoga cittadina sopravvissuta al nazismo: ferita, riutilizzata, deturpata, ma mai completamente distrutta». Dopo il 1945 furono i sopravvissuti alla Shoah a ripararla con mezzi di fortuna: il 20 maggio 1947 la riaprirono e la riconsacrarono, restituendole un ruolo centrale nella vita ebraica di Monaco. Per quasi sessant’anni la Reichenbachschul rimase il principale luogo di culto della città, fino al trasferimento delle funzioni religiose nella nuova sinagoga Ohel Jakob.
Il lungo lavoro di restauro, costato circa 14 milioni di euro, ha restituito all’edificio le linee originali concepite nel 1931 dall’architetto Gustav Meyerstein. Vecchie fotografie e disegni hanno guidato l’opera di recupero, dalle ampie vetrate ricostruite ai dettagli interni, come le panche di legno chiaro e le pareti dai colori sobri. Davanti all’Aron HaKodesh c’è ora un tessuto intrecciato dell’artista Bauhaus Gunta Stölzl, che richiama lo spirito modernista dell’edificio.
Per il ministro-presidente della Baviera Markus Söder, la sinagoga è «un gioiello» che finalmente «torna a splendere». Parole a cui ha fatto eco il sindaco di Monaco, Dieter Reiter, secondo cui la Reichenbachschul rappresenta «un simbolo potente di memoria e riconciliazione». Entrambi hanno sottolineato come la rinascita della sinagoga non sia solo un restauro architettonico, ma «un segno politico e civile di impegno contro ogni forma di antisemitismo». d.r.
(moked, 16 settembre 2025)
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Bambini di Gaza e di Israele
di Fabio Fineschi
Quello che sta accadendo fra Israele e Hamas ha un nome, un tremendo nome: guerra. Sta di fatto, però, che le parole, alla faccia della realtà dei fatti, l’hanno trasformata in un’altra cosa: un genocidio.
Questa guerra, ormai, viene riassunta solo nel plurale di un nome comune di persona: bambini. Non esistono più né torti né ragioni, qualunque forma o tentativo di discernimento viene riassorbito nel plurale di questo sostantivo. Nell’opinione comune più diffusa in questa guerra le parti in causa sono: l’esercito di Israele, il carnefice, e i bambini palestinesi, le vittime. Anche il solo tentare un embrione di ragionamento è impossibile; il nemico vero, Hamas, quello contro cui Israele combatte sembra essere stato rimosso dalle menti avvezze ai social e alle piazze. I bambini palestinesi sono delle vittime, certo che lo sono, sempre è così nelle guerre, come in quella dell’Ucraina, quella dello Yemen, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Etiopia, del Sudan e Sudan del Sud, del Mali, Burkina Faso, Niger e Somalia.
Nello Yemen il conflitto, attivo dal 2015, ha causato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo: 18 milioni di persone hanno bisogno di aiuto, di cui 11 milioni sono bambini. Nella Repubblica Democratica del Congo gli scontri tra esercito e gruppi armati continuano a causare sfollamenti di massa e insicurezza alimentare. Anche l’Etiopia, con la guerra nel Tigray e le tensioni in Oromia e Amhara, resta instabile. Il conflitto etiope da solo ha provocato oltre 100.000 morti.[1] Questo è solo un minuscolo elenco perché sembra che le guerre attualmente in atto nel mondo siano 56. Questo non significa che allora non ci si debba sdegnare per i bambini che muoiono a Gaza ma significa che lo stesso sdegno lo si dovrebbe avere per i bambini che muoiono in tutte le guerre, altrimenti viene il legittimo sospetto che si tratti di sdegno politicamente corretto; pietà ideologicamente ispirata; compassione di bandiera; commozione pilotata.
Si parla solo di genocidio a Gaza e il “bello” è che questo termine si iniziò a sbandierarlo dopo soli 7 giorni dalla mattanza d’ebrei del 7 ottobre 2023. Si gridava già allora, nelle piazze, che si doveva fermare quell’assassino, criminale e terrorista di Netanyahu:
“Sventolano i colori della Palestina in tutta Europa. Dopo le proteste di Roma e Berlino, sabato 14 ottobre anche a Londra migliaia di persone sono scese in piazza contro Israele mentre in Italia si manifesta a Milano, Bari e Torino in sostegno del popolo palestinese a una settimana dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, in risposta all’attacco di Hamas contro i civili nel sud del Paese del 7 ottobre 2023.”
La questione palestinese è ad alto contenuto politico, figlia del falso storico delle terre rubate agli arabi propinato a piene mani dall’URSS e, in Italia, dal PCI. I palestinesi sono i profughi più blasonati del mondo, con un’agenzia umanitaria, l’UNRWA, dedita solo a loro e che raccoglie fiumi di danaro dal 1949, anno in cui fu fondata dall’ONU.
Dal 1967, dopo la guerra dei 6 giorni vinta da Israele, che l’aveva subita, la propaganda comunista riuscì a trasformare quei profughi in un popolo palestinese che, di fatto, non è mai esistito in quanto tale. Insomma: l’attuale guerra in Medioriente si presta ad essere utilizzata come carro armato politico nell’agguerrita scena politica italiana.
Gli eterni antifascisti dell’opposizione usano i bambini di Gaza come argomento per screditare il governo “fascista” complice della strage. Non c’è manifestazione di piazza nella quale non si sventoli la bandiera palestinese, anche quando all’ordine del giorno vi sono questioni politico-sociali interne che nulla hanno a che fare con la politica estera. Questo perché la questione palestinese, per le ragioni suddette, è ormai un tutt’uno con la politica nazionale, vale a dire strumentale ad essa.
I bambini di Gaza si spartiscono l’agenda politica italiana insieme allo sgombero del Leoncavallo, l’occupazione abusiva delle case, l’immigrazione incontrollata, anche dei clandestini, il caso Almasri, il caso Ramy, l’immaginario volo di Stato della Meloni con la figlia, le case per gli studenti ecc. I bambini di Gaza servono alle fauci della politica perché costituiscono un boccone appetitoso per la bocca del politicante “resistente/rivoluzionario” di turno.
Il condivisibile pianto per i bimbi di Gaza deve diventare piagnisteo, nenia da prefiche ideologicamente interessate più che addolorate. Gli altri bambini, quelli delle guerre sopra dette, quelli non servono, i loro presunti carnefici non sono titolati come gli ebrei per essere odiati con costanza, dedizione e risonanza.
La sinistra italiana non sembra avere niente da dire nemmeno per le migliaia di bambini cinesi che vengono sfruttati dai loro connazionali, proprio qui in Italia, facendoli lavorare anche di notte (alla faccia della nostra Costituzione) e di giorno dormono sui banchi di scuola. I bambini mandati a rubare dai Rom che vivono negli immensi campi nelle nostre città vanno bene, per non parlare delle borseggiatrici perennemente incinta che derubano vecchi e pendolari sui mezzi pubblici trasformando i feti che portano in grembo in uno scudo etico e giuridico: quelle sono sacre.
Certo che ho pena per i bambini di Gaza, ne ho pena due volte: perché i loro aguzzini di Hamas, i responsabili di questa guerra, li mandano a combattere a 12 anni, non gli permettono di nascondersi nelle infinite gallerie quando Israele annuncia bombardamenti. Ne ho pena perché ogni ospedale o edificio civile è stato trasformato in un covo di terroristi e deposito di armi. Ne ho pena perché la politica, sinistra, di questa sgangherata Europa fa di loro il pietoso scudo umano nel cui nome si propaganda la nuova, rozza versione dell’antisemitismo: l’antisionismo.
Così si alza il volume del doloroso pianto dei bimbi palestinesi affinché non si oda più quello, altrettanto doloroso, di altri bimbi: quelli ebrei morti il 7 ottobre 2023.
(Rights Reporter, 16 settembre 2025)
“La pace sarà possibile solo quando i palestinesi dimostreranno di amare i loro figli più di quanto odiano noi ebrei”.
Golda Meir
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I documenti del governo di Hamas rivelano l’uso da parte del gruppo terroristico degli ospedali di Gaza
di Ludovica Iacovacci
Sono emersi documenti del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas a Gaza, risalenti al 2020, che mostrano in dettaglio come l’organizzazione terroristica abbia a lungo sfruttato le strutture mediche nel territorio per scopi militari.
Due documenti declassificati dall’IDF e recentemente portati all’attenzione del pubblico dall’organizzazione ONG Monitor filo-israeliana descrivono in particolare come Hamas abbia usato gli ospedali di Gaza per i propri scopi, anche per riparare e ospitare i suoi agenti e leader.
L’uso degli ospedali da parte di Hamas è stato sempre più esaminato durante la guerra di Gaza, con Israele che affronta la condanna internazionale per le operazioni dentro e intorno agli ospedali.
Hamas ha combattuto dall’interno degli ospedali e dai tunnel sotto gli ospedali durante tutta la guerra, e periodicamente ha nascosto alcuni degli ostaggi rapiti da Israele il 7 ottobre 2023, al loro interno. La legge internazionale generalmente vieta di prendere di mira gli ospedali in tempo di guerra, ma gli ospedali possono perdere questa protezione se vengono utilizzati per scopi militari.
NGO Monitor ha sostenuto che i documenti ministeriali dimostrano la strategia deliberata di Hamas di “incorporare le sue infrastrutture militari, i suoi combattenti e la sua leadership all’interno di ospedali e strutture mediche a Gaza” e quindi “violando il diritto internazionale e mettendo in pericolo la vita dei civili”.
In un documento del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas del 25 febbraio 2020, il Meccanismo di Sicurezza Interna di Gaza del ministero ha dichiarato che il Ministero della Salute di Gaza era una delle più grandi agenzie governative del territorio.
“Queste strutture sanitarie sono un luogo di incontro per numerosi leader del movimento [Hamas] e del governo durante i periodi di escalation”, afferma il documento. Il documento conteneva anche informazioni che testimoniano la presenza delle forze terroristiche e paramilitari di Hamas.
Nel documento è stato affermato che l’organizzazione Medici Senza Frontiere (MSF) Francia “ha scelto l’unica stanza nell’ospedale Abu Yousef El-Najar che ha un telefono fisso di comunicazione (sicura) che appartiene all’attività del positivo, in modo che MSF ci lavori separatamente”.
Secondo la ONG Monitor, “Il positivo” è un termine noto per le Brigate Al-Qassam di Hamas, il nome delle forze terroristiche e paramilitari del gruppo terroristico.
Un secondo documento, datato 17 marzo 2020, ha dettagliato le direttive di Hamas per limitare l’accesso al personale delle organizzazioni umanitarie straniere negli ospedali e nelle strutture mediche di Gaza per impedire loro di incontrare gli agenti di Hamas.
“I documenti interni di Hamas esaminati in questo rapporto espongono una strategia sistematica di Hamas per militarizzare il sistema sanitario di Gaza, utilizzando ospedali e strutture mediche come estensioni del suo apparato militare e di sicurezza”, ha dichiarato NGO Monitor.
“I centri medici a Gaza non sono solo spazi di trattamento, ma servono piuttosto come centri per la leadership di Hamas, punti di raccolta per gli agenti, zone sicure per i terroristi feriti e luoghi per infrastrutture di comunicazione sicure.
“Questo accordo è fondamentalmente incoerente con il principio della neutralità medica a Gaza, trasformando gli spazi umanitari in strutture a duplice uso che servono sia a scopi medici che militari”.
(Bet Magazine Mosaico, 16 settembre 2025)
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Emmy, l’influencer Emily Austin illumina il red carpet con la Stella di David e il fiocco giallo
“Al contrario di coloro che cercano di boicottare Israele e alimentare l’antisemitismo, scelgo di mettere in luce ciò che conta di più: gli ostaggi, il cui tempo sta per scadere. Dobbiamo concentrarci su di loro e riportarli a casa”. Queste le parole dell’influencer ebrea americana Emily Austin, presente alla 77esima edizione degli Emmy Awards, a Los Angeles.
Sul red carpet Austin ha sfilato indossando una collana con la Stella di David e mostrando la borsetta con il fiocco giallo, simbolo di solidarietà per gli ostaggi. “Questo red carpet potrebbe essere pensato per celebrare l’intrattenimento e la televisione. Per me è un palcoscenico per ricordare al mondo la loro storia” ha sottolineato l’influencer.
Di fatto, la nota passerella americana, oltre ad essere luogo di glamour nonché fulcro culturale e artistico, si è trasformata in un palco dove esprimere le proprie convinzioni politiche. Fra gli altri, l’attore spagnolo Javier Bardem ha sfilato con la kefiah al collo. Intervistato da ‘Variety’, Bardem, tra i promotori di Film Workers for Palestine, ha ribadito il suo sostegno al popolo palestinese. Ha inoltre parlato della Vuelta, la gara ciclistica di Spagna, elogiando i manifestanti propal che hanno bloccato il percorso.
(Shalom, 16 settembre 2025)
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“Il bambino che ho salvato è diventato uno shahid”
La rivelazione straziante di Idan Raichel
di Samuel Capelluto
Un racconto che gela il sangue, un paradosso che rivela tutta la crudeltà della realtà che si vive in Israele, combattendo un nemico avido e atroce: aiutare a salvare una vita, per poi scoprire che quella stessa vita è stata sacrificata sull’altare dell’odio. Il celebre musicista israeliano Idan Raichel ha condiviso in lacrime un ricordo personale che si è trasformato in un incubo.
Durante un’intervista con Dany Kushmaro a N12, Raichel ha raccontato di aver ricevuto da un soldato israeliano una fotografia trovata in una casa di Khan Younis, accanto al poster di un “shahid” (martire) di Hamas. Nella foto, datata 2008, si vede Raichel ancora con le treccine, in piedi accanto a un padre palestinese vicino al letto del figlio neonato. In quel periodo il cantautore collaborava con l’organizzazione umanitaria Save a Child’s Heart, che portava bambini da tutto il mondo in Israele per interventi salvavita di cardiochirurgia.
“Ho ricevuto una foto da Khan Younis, da un soldato che l’ha trovata su un comodino”, ha raccontato. “Nella foto io ho ancora le treccine e sono accanto a un padre, vicino al letto del neonato. In quegli anni facevo parte dell’organizzazione Save a Child’s Heart… a un certo punto hanno iniziato a portare anche molti bambini palestinesi”.
Il ritorno al presente è stato devastante. “Il soldato mi dice: ‘Ascolta, questo padre è un membro di Hamas e quel bambino è diventato uno shahid. Abbiamo il suo poster e la tua foto accanto’”, ha detto Raichel. Sullo schermo dell’intervista è apparsa l’immagine di quel bambino salvato grazie a Israele, oggi ritratto con la fascia verde di Hamas, celebrato come “martire”.
“È agghiacciante. Terribile”, ha proseguito con voce rotta. “Alla fine ho aiutato questa famiglia e quello che ne è venuto fuori è terrorismo e omicidio. È terribile, terribile”. Poi, guardando in camera con gli occhi pieni di lacrime, ha aggiunto: “Fino ad oggi non è stato trovato un “Giusto tra le Nazioni” a Gaza”.
La sua testimonianza ha scosso l’opinione pubblica in Israele. Non si tratta solo di un racconto personale, ma di un simbolo della tragica distorsione che l’odio di Hamas impone anche a chi un tempo ha ricevuto cure, accoglienza e compassione da parte dello Stato e del popolo ebraico.
Mentre a Gaza i terroristi trasformano i propri figli in strumenti di morte, in Israele si difendono e salvano vite. Tornano allora alla mente le parole di Golda Meir, che sembrano scritte proprio per storie come questa: “Avremo la pace con gli arabi soltanto quando ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”.
(Shalom, 15 settembre 2025)
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Gece 2025. La cultura dell’odio: Israele e Occidente tra disinformazione e crisi culturale
di Sofia Tranchina
Domenica 14 settembre, nella cornice della Giornata Europea della Cultura Ebraica, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano ha ospitato l’incontro “La cultura dell’odio”, dedicato alla riflessione sull’attuale crescita dell’antiebraismo a livello internazionale.
In collegamento video da Gerusalemme è intervenuta la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, Senior Fellow al Jerusalem Center for Public Affairs; a dialogare con lei c’era Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica e da anni voce attenta alle trasformazioni della memoria della Shoah e alle nuove forme di ostilità contro Israele.
L’appuntamento ha offerto una panoramica su un fenomeno che, dopo il 7 ottobre 2023, si è imposto con forza inattesa: il ritorno di un antiebraismo esplicito, diretto, sempre più normalizzato nei media, nelle università e nella cultura popolare.
Fin dalle parole di apertura, è emerso con chiarezza che parlare oggi di antiebraismo non è un esercizio commemorativo, ma una necessità urgente. Le manifestazioni degli ultimi due anni hanno mostrato quanto fragile sia il terreno della democrazia e quanto permeabili siano le società occidentali alla disinformazione.
Romano ha ricordato come, quando il tema delle fake news esplose durante la campagna di Donald Trump nel 2016, i media svilupparono protocolli di fact-checking per arginare la diffusione di falsità. Con la guerra a Gaza, però, quei protocolli sono sembrati abbandonati: molte notizie sono circolate senza alcuna verifica e, quando le smentite sono arrivate, non sono riuscite a smussare l’odio già sedimentato.
Nirenstein ha sottolineato che le nostre società vivono una vulnerabilità culturale gigantesca: non conta più la veridicità dei fatti, ma la loro presentabilità politica e sociale. In questo vuoto si insinua, secondo lei, un declino mentale e morale: dal boicottaggio quotidiano dei turisti israeliani, alle aggressioni a Venezia, fino alla diffusione di libri che descrivono Israele come paese colonialista o fascista.
La giornalista ha ripercorso la sequenza storica della demonizzazione degli ebrei: prima accusati di essere “assassini di Cristo”, poi dipinti come bolscevichi, capitalisti, imperialisti; oggi definiti colonialisti, razzisti, persino “genocidi”. Una catena di etichette che, a suo avviso, mostra la persistenza e l’adattabilità dell’odio.
Accanto a questo, Nirenstein ha denunciato la trasformazione dei diritti umani in “religione dei diritti umani”: non più un terreno concreto di lotta, ma una bandiera politica astratta. I loro paladini, ha osservato, finiscono spesso per contraddire i valori che proclamano, generando un fronte culturale che svuota di significato il concetto stesso di diritti.
Romano ha insistito invece sul ruolo della cultura, che da argine contro l’ignoranza è diventata veicolo di disinformazione. “Un tempo si diceva che l’ignoranza si combatte con la cultura,” ha osservato. “Oggi non è più così”. Le librerie, ha aggiunto, pullulano di testi che descrivono Israele come oppressore e raramente come democrazia da difendere. Alcune critiche sono legittime, ma il quadro complessivo è quello di una propaganda ostile. Per Romano, l’Occidente deve prepararsi al dopoguerra di Gaza non abbandonando i palestinesi a sé stessi, bensì valorizzando quelle voci che si opponevano a Hamas già prima del 7 ottobre e che potrebbero diventare i leader di domani.
Entrambi i relatori hanno criticato una certa sinistra culturale e politica, rimasta imprigionata in un desiderio performativo di custodire il”bene morale”. Questo zelo etico, hanno affermato, finisce per aprire spazi a un’ideologia ben più aggressiva: quella di Hamas e, più in generale, di un islam politico radicale che non nasconde il proprio progetto di espansione.
Nirenstein ha aggiunto che in Occidente prevale la paura di affrontare questo nodo: “Non si vuole vedere, non si vuole sapere. È lo stesso atteggiamento di chi, durante la Shoah, voltava lo sguardo altrove”. Ha ricordato come i fondi internazionali a Gaza siano stati usati per costruire gallerie del terrore anziché infrastrutture, e come l’Autorità Palestinese paghi stipendi ai terroristi. L’odio, ha detto, passa attraverso strumenti quotidiani: libri di testo che parlano di ebrei da uccidere, cartoni animati dove Topolino viene assassinato da un soldato dell’IDF.
“Non ci si può stupire – ha aggiunto – che poi queste narrazioni arrivino anche in Italia, nei libri di Rula Jebreal o nelle dichiarazioni di Francesca Albanese, che accusano i soldati israeliani di sparare volutamente alla testa e ai genitali dei bambini. Non sono solo fake news: è una cultura violenta che dall’Oriente travolge l’Occidente”.
Uno dei passaggi più discussi ha riguardato il carattere democratico di Israele. Nirenstein ha risposto con fermezza alle accuse di chi lo definisce uno Stato fascista: in Israele la protesta è reale e tollerata. Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per due anni (ma anche prima del 7 ottobre) contro il governo, senza subire repressioni violente. È, ha osservato, la prova di una democrazia viva.
Al tempo stesso, Israele resta un paese che combatte per la propria sopravvivenza. Dall’inizio dell’anno sono stati sventati mille attentati terroristici, in gran parte provenienti dalle zone sotto l’Autorità Palestinese: un dato che racconta la pressione costante sulla società israeliana. Circondato da minacce – Iran, Hamas, Hezbollah, Houthi – Israele deve tenere insieme difesa militare e pluralità politica, dolore collettivo per i rapiti e dibattito interno, mentre in Europa crescono episodi di antisemitismo violento.
L’incontro al Museo della Scienza e della Tecnologia ha restituito l’impressione di trovarsi di fronte a una sfida epocale. L’odio antiebraico non è un residuo del passato, ma un fenomeno vivo, alimentato dalla vulnerabilità culturale dell’Occidente, dalla propaganda radicale nel mondo arabo e dalla crisi del linguaggio dei diritti umani. In un’epoca in cui la sinistra occidentale rischia di smarrirsi dietro la propria ansia di legittimazione morale, e in cui l’islam politico radicale avanza con la forza di un progetto totalizzante, la posta in gioco non riguarda solo il Medio Oriente. Riguarda l’Europa, i suoi valori e la capacità di riconoscere le minacce prima che sia troppo tardi.
(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2025)
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Voci cristiane per Israele
Lettera della Prof.ssa Sivia Baldi a “L’Informale”
Insieme ad alcune amiche, responsabili di associazioni cristiane filoisraeliane da anni impegnate nella lotta all’antisemitismo, lunedì 8 settembre abbiamo inviato al governo italiano una lettera aperta per sollecitare un più incisivo impegno a tutela della verità, della giustizia e della solidarietà verso Israele. Preoccupate per la crescente distorsione mediatica e approfittando delle ferie, ad agosto – il mese più caldo dell’anno – abbiamo iniziato a lavorare al documento cercando di mettere da parte le differenze e i punti di vista personali per scrivere un testo efficace e condiviso da tutte. Non è stato semplice ma alla fine ci siamo riuscite!
Il documento richiama ad un più deciso impegno istituzionale che assicuri: «1. la tutela della verità storica e giuridica sulla nascita dello Stato d’Israele, sulle origini del conflitto araboisraeliano e conseguentemente sulla realtà contemporanea ribadendo inequivocabilmente e con la massima urgenza la necessità immediata della liberazione di tutti gli ostaggi e della resa totale e incondizionata di Hamas; 2. il mantenimento di una posizione del Governo chiara e coerente nello scacchiere geopolitico a tutela dello Stato d’Israele e del suo inalienabile diritto all’esistenza; 3. il contrasto attivo a ogni forma di antisemitismo, di distorsione mediatica e di boicottaggio contro Israele e le sue istituzioni continuando inoltre ad assicurare protezione e sicurezza per i cittadini ebrei e i turisti israeliani in Italia».
Richiamandosi alle radici giudaico-cristiane dell’Europa, il testo prosegue con richieste specifiche al Governo come quelle di: «1. affermare con chiarezza, in tutte le sedi istituzionali e diplomatiche, il diritto di Israele alla legittima difesa contro aggressioni e terrorismo; 2. istituire una Commissione permanente contro la disinformazione filo-terroristica e antisemita, in collaborazione con enti europei e internazionali; 3. promuovere una narrazione pubblica fondata su dati storici e giuridici verificati, contrastando la distorsione mediatica del conflitto araboisraeliano in Medio Oriente; 4. condannare e contrastare ogni forma di boicottaggio verso aziende, istituzioni e iniziative israeliane ed ebraiche, anche con strumenti normativi; 4. tutelare l’incolumità dei cittadini ebrei in Italia, così come quella dei turisti israeliani ed ebrei garantendo la libertà religiosa e la sicurezza contro discriminazioni, odio e violenza; 5. difendere la libertà accademica nelle università italiane tutelando il diritto allo studio degli studenti ebrei e israeliani, e impedire boicottaggi o ideologie discriminatorie che compromettano l’integrità della didattica».
Non poteva mancare il riferimento biblico del cuore, dal libro della Genesi 12,1-3: Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che ti indicherò. Farò di te una grande nazione, ti benedirò, renderò grande il tuo nome, sarai una benedizione. Benedirò chi ti benedice, maledirò chi ti maledice; si benediranno in te tutte le famiglie della terra».
Adesso ci impegniamo alla divulgazione del documento e alla raccolta delle firme. Chiunque può aderire individualmente inviando una mail ad uno dei seguenti indirizzi: silviabaldicucchiara@gmail.com oppure firme_sostegno_israele_2025@yahoo.com
Non possiamo rimanere in silenzio! È tempo di riscatto, innanzitutto per noi cristiani: un’occasione per dimostrare che il nome “cristiano” è qualcosa di cui andare fieri. Ma è anche tempo di riscatto per tutti gli uomini di buona volontà, chiamati a unirsi contro ogni forma di barbarie e contro l’avanzare delle tenebre. Insieme possiamo farcela, a difesa della verità, a difesa d’Israele. Shalom ‘al Israel.
(L'informale, 15 settembre 2025)
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Evangelici antisemiti
Da un fratello in fede che non conoosciamo personalmente, ma che si firma con nome e cognome, riceviamo una mail con il titolo sopra riportato. Con il consenso dello scrivente, ne riportiamo uno stralcio.
«Purtroppo di recente ho sentito tanti della comunità evangelica utilizzare la stessa terminologia adottata dai consueti canali di comunicazione che addita a Israele il genocidio e lo sterminio di massa dei Palestinesi di Gaza. Anche dai pulpiti ormai le parole usate sono quelle. Ma mi chiedo, come si possa arrivare a una tale cecità, a un tale allineamento a una informazione scadente e faziosa, che non sa misurare veramente i dati, fossero anche quelli che arrivano dalla fazione pro-pal, e tutto quello che accade da quelle parti? Capisco l’antisemitismo come conseguenza dell’inganno e oggi, come in antichità, sempre presente nell’uomo che non vuole allinearsi alla visione di Dio, ma anche tra chi dovrebbe essere illuminato e dovrebbe saper distinguere tra bene e male, non riesco veramente a capire. Per questo non voglio dire che tutto quello che decide il governo di Israele sia adempimento del piano di Dio, anzi, ma penso che un credente abbia il dovere di non lasciarsi trasportare da vani ragionamenti e di cercare di leggere quello che accade lì sempre in ottica escatologica, anche se purtroppo le morti, da entrambe le parti sono reali e non solo profetiche. Ma lo stesso dovrebbe valere anche per le morti in Darfur, in Burkina Faso, in Pakistan, in Thailandia… ma di tutte queste non si parla mai né sui giornali né nelle chiese e non si allestisce nessuna flotilla!» G.M.
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Avvilente, ma non sorprendente. È il primo commento che si può fare a una comunicazione come questa. È da più di vent’anni che questo sito si occupa non solo genericamente di Israele, ma anche del modo in cui questo argomento è percepito nel mondo evangelico. Avevamo segnalato espressioni di antisemitismo latente e ne avevamo temuto un aggravamento, che poi si bruscamente verificato dopo il 7 ottobre. Nel seguito riportiamo, in forma leggermente ristretta, un articolo pubblicato su “Chiamata di Mezzanotte” a seguito di una conferenza a Torino del 2014.
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Antisemitismo evangelico
di Marcello Cicchese
«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce.
Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del
resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio.
Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono.
La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana.
In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele.
Non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele?
La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e
Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo.
Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito a una superiore virtù. E questo ne aumenta la gravità.
La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.
(Notizie su Israele, 15 settembre 2025)
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La settimana di Israele: da Doha all’“ottavo fronte”
di Ugo Volli
• I fattori del successo
In questi quasi due anni di guerra le vittorie più importanti sono state assicurate a Israele da due strumenti in cui lo stato ebraico è all’avanguardia nel mondo: dal servizio segreto esterno (Mossad) e dall’aviazione. Ma soprattutto, dalla loro piena collaborazione. Ne sono esempi la decapitazione dell’apparato terrorista di Hezbollah con i “cercapersone” esplosivi e i bombardamenti che ne hanno eliminato i vertici compreso il leader carismatico Nasrallah; la “guerra dei dodici giorni” in cui Israele ha colpito pesantemente il programma nucleare dell’Iran e la leadership militare e scientifica che lo stava attuando; i precisi colpi su Siria e Iran che hanno distrutto tanta parte dell’arsenale segreto di Hezbollah e del regime siriano; l’eliminazione di buona parte dei capi Houthi due settimane fa. In tutti questi casi si sono unite l’infiltrazione delle reti di comunicazione, la capacità di individuare con estrema precisione le posizioni e le attività di bersagli molto segreti e protetti, la sorveglianza da vicino e magari l’eliminazione diretta sul terreno. Le abilità tecniche straordinarie dell’aviazione per portare gli aerei israeliani a portata di tiro di obiettivi assai lontani, la precisione e la forza dei colpi, sparati spesso a grande distanza.
• L’operazione a Doha
Secondo indiscrezioni del Washington Post, proprio questa collaborazione sarebbe mancata nell’ultima audace incursione di questa serie, quella della settimana scorsa sulla capitale del Qatar, Doha, che si proponeva di eliminare la cupola dei capi di Hamas riunita a distruggere delle strategie del gruppo. Il Mossad si sarebbe rifiutato di partecipare all’operazione “per non rovinare i rapporti col Qatar” e la mancata guida locale (e l’impossibilità di un successivo attacco da terra in caso di successo incompleto) avrebbe fatto sì che almeno alcuni fra gli obiettivi più importanti si sarebbero sottratti al bombardamento. Questa assenza sarebbe la causa dell’omissione del nome del servizio segreto esterno nei comunicati dopo il bombardamento e la sua anomala sostituzione con quello interno, lo Shin Bet, anche se certamente il Qatar è fuori dalla sua area normale di attività. Si tratta comunque di un segno allarmante della difficoltà di coordinamento delle istituzioni israeliane. In realtà sulla sopravvivenza dei suoi capi per ora abbiamo solo la parola di Hamas, che è sempre propagandistica. Sui giornali si è aggiunta anche l’ipotesi che le bombe usate fossero piuttosto deboli, per non fare danni collaterali, e che per questa ragione non abbiano centrato chi si era allontanato dalla sala di riunione. Inoltre si è molto parlato dell’ipotesi che Trump, attraverso il suo negoziatore Witkoff abbia inoltrato la notizia dell’attacco al governo del Qatar che avrebbe fatto in tempo ad avvertire Hamas. Notizia smentita da più parti, ma non per questo inattendibile: ci sono diversi precedenti di operazioni israeliane non realizzate per questa ragione. Bisogna infine dire che, anche se Israele non è riuscito a eliminare capi terroristi, ha dato un segno concreto di voler dare loro la caccia, come aveva annunciato e ha messo in rilievo la complicità che lega loro il Qatar, oltre a mostrare di nuovo una straordinaria competenza militare: il precisissimo bombardamento sarebbe stato compiuto con missili lanciati dal Mar Rosso, in modo da non invadere lo spazio aereo dell’Arabia Saudita, a una distanza quindi di 1500 chilometri.
• La situazione a Gaza
Se Mossad e aviazione sono stati certamente finora i maggiori fattori di forza di Israele, questa guerra ha mostrato anche di nuovo che solo fanteria e reparti corazzati possono conquistare il territorio e dunque concludere la battaglia. In questo momento infatti il fronte più attivo è ancora Gaza City, quella decina di chilometri quadrati che l’esercito deve finalmente occupare per smantellare le forze terroriste. Per il momento siamo ancora nella fase preliminare: lo sforzo principale è quello di allontanare dall’area urbana gli abitanti civili per non danneggiarli; seguendo le indicazioni israeliane e contro la violenta opposizione di Hamas se ne sono andati per il momento in 250 mila, circa la metà delle persone coinvolte. Per evitare le trappole, bisogna allo stesso tempo distruggere i punti di arroccamento, osservazione e cecchinaggio dei terroristi, in sostanza soprattutto gli edifici più alti. Ne sono stati abbattuti finora una sessantina. Le truppe israeliane avanzano con molta cautela per evitare di subire troppi danni e nei limiti del possibile di colpire gli scudi umani di Hamas. Se le cose procederanno come ora, è probabile che per la data simbolica del secondo anniversario della guerra, fra tre settimane, questa fase di battaglia possa essere chiusa e resti solo da consolidare la vittoria, catturando o eliminando le bande superstiti di Hamas. Si spera che, come sta in parte già accadendo, l’evidenza della sconfitta porti a defezioni da Hamas, permettendo la liberazione dei rapiti.
• L’ottavo fronte
Se Israele continua ad essere in chiaro vantaggio sui sette fronti di guerra (anzi appare “invincibile in questa fase, come ha dichiarato un politico islamista iracheno, insolitamente esplicito), esiste un ottavo fronte, quello della politica internazionale, dei media, dell’opinione pubblica occidentale, su cui invece oggi appare perdente. C’è stato in questa settimana un voto del Parlamento Europeo e uno dell’Assemblea Generale dell’Onu, entrambi solo politici e non esecutivi, ma largamente a favore del “riconoscimento” dell’inesistente “stato di Palestina”, una misura che ha senso solo come rappresaglia contro Israele. C’è stato il boicottaggio annunciato dalla Spagna, decine di atti antisemiti più o meno gravi, per esempio solo in Italia negli ultimi giorni lo striscione contro Israele appeso sulla cancellata della sinagoga di Livorno, le svastiche davanti alla casa di un regista ebreo, la querela e la minacce contro il lavoro di controinformazione svolto dal quotidiano “Il Tempo”, la vera e propria violenza fisica contro una coppia identificata come di origine ebraica a Venezia, eccetera. C’è la sfilata propagandistica della “flottiglia” destinata presto a essere bloccata dalla Marina militare israeliana, che al di là di ogni considerazione politica non può fare eccezioni nella tenuta del blocco di Gaza, perché questo ai termini del diritto marittimo internazionale gli toglierebbe validità giuridica. Non è difficile immaginare che quest’operazione provocherà altre violenze e altra propaganda antisemita a cascata. Israele da solo o solo col mondo ebraico non ha la forza di contrastare questa ondata, la più grave dai tempi della Shoah. Ci vorrebbe un’opinione pubblica davvero democratica, che si rendesse conto della situazione e denunciasse il progetto illiberale, antieuropeo, millenarista, sostanzialmente fascista che motiva questa ondata ancor più fra le masse occidentali che fra quelle musulmane. Ma purtroppo questa coscienza è rara e si può pensare che l’ottavo fronte si calmerà solo quando saranno vinti con chiarezza tutti gli altri sette e in particolare Gaza.
(Shalom, 14 settembre 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 14
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Scontro fra sponsor
“L’Eterno disse a Mosè: “Vedi, io ti ho stabilito come Dio per Faraone, e Aaronne tuo fratello sarà il tuo profeta. Tu dirai tutto quello che ti ordinerò, e Aaronne tuo fratello parlerà al Faraone, perché lasci partire i figli d'Israele dal suo paese. E io indurirò il cuore del Faraone, e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nel paese d'Egitto. E Faraone non vi darà ascolto; e io metterò la mia mano sull'Egitto, e farò uscire dal paese d'Egitto le mie schiere, il mio popolo, i figli d'Israele, mediante grandi giudizi. E gli Egiziani conosceranno che io sono l'Eterno, quando avrò steso la mia mano sull'Egitto e avrò fatto uscire di mezzo a loro i figli d'Israele”. E Mosè e Aaronne fecero così; fecero come l'Eterno aveva loro ordinato” (Esodo 7:1-6).
Il clamoroso fallimento del primo invio di Mosè al Faraone avrebbe potuto far cambiare idea al Signore: indurlo a rinviare ad altra data l’inizio dell’operazione, o destituire il condottiero incaricato e cercarne un altro. Al contrario, Mosè ebbe una promozione, dovuta non al merito, ma a necessità di guerra. Dal compito di ministro incaricato di trasmettere alla parte avversa una dichiarazione di guerra dell’Ente Supremo, Mosè passò alla carica di rappresentante plenipotenziario dello Stesso nei rapporti col nemico. La formula dell’investitura è contenuta nelle solenni parole di Dio a Mosè: “Io ti ho stabilito come Dio per Faraone”.
Nella sua prima missione Mosè aveva presentato al Faraone un ordine di Dio, perentorio nel contenuto, ma privo di un ultimatum minaccioso. Il Faraone l’aveva respinto e non ne aveva avuto alcun male. Il male invece era ricaduto tutto sul popolo del Dio che era stato presentato come l’Iddio di Israele e l’Iddio degli ebrei. La deduzione che avrebbe potuto trarne il Faraone è che questo Dio degli ebrei a cui Mosè si riferisce non può sottomettere alla sua volontà gli dei degli egiziani. E con questa convinzione ne aveva respinto con fermezza l’ordine; aveva anzi preso ad opprimere ancora più fortemente il popolo e aveva respinto irosamente le lagnanze dei sorveglianti ebrei. E probabilmente era sicuro di aver risolto il problema e di essersi tolto dai piedi i due sfacciati ebrei che avevano osato importunarlo.
Dio invece aveva deciso diversamente, e ordinò a Mosè e ad Aaronne di ripresentarsi al Faraone.
Per i due era un ordine, ma il ritrovarsi di nuovo davanti al Faraone dopo uno scontro nettamente perso, per loro era molto imbarazzante, perché avrebbe significato dover parlare da una posizione di debolezza. Sul piano orizzontale infatti, cioè nel confronto tra umane forze politico-militari, le parti in lotta cercano sempre di trattare da una posizione di forza: e fino a questo punto il più forte si era mostrato essere il Faraone.
La guerra in corso tra Mosè e il Faraone però non è come tutte le altre, perché è un’espressione della guerra cosmica fra Dio e Satana. E su questo piano il più forte era indubbiamente Mosè. La cosa in qualche modo doveva venir fuori.
Vedendosi davanti ancora una volta Mosè, il Faraone potrebbe aver pensato che se il perdente ardisce ripresentarsi davanti al vincente, significa che vuole impressionare con la sua sicurezza e indurre a credere che il suo Dio, l’Iddio degli ebrei che lo invia a dare ordini, è più forte del dio degli egiziani che sostiene il Faraone. Come in una partita a poker, se è un bluff, la cosa si vedrà. Dallo scontro che avviene sulla terra si vedrà qual è il più forte tra gli sponsor che operano nel cielo. E alla mossa di Mosè, il Faraone risponde: vedo.
Il Signore però sapeva che il Faraone avrebbe chiesto una verifica di questo tipo, e allora, prima ancora che i due inviati partano,
“L’Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, dicendo: “Quando Faraone vi parlerà e vi dirà: 'Fate un prodigio!' tu dirai ad Aaronne: 'Prendi il tuo bastone, gettalo davanti al Faraone, e diventerà un serpente'” (Esodo 7:8-9).
Come previsto, il Faraone chiede un segno.
I due mettono in tavola la loro carta: Aaronne getta il suo il bastone, che si trasforma subito in un serpente.
Il Faraone rilancia:
“Il Faraone a sua volta chiamò i sapienti e gli incantatori; e anche i maghi d'Egitto fecero lo stesso, con le loro arti occulte. Ognuno di essi gettò il suo bastone, e i bastoni diventarono serpenti” (Esodo 7:11-12).
Un solo bastone contro molti bastoni: sembrava proprio che ancora una volta avesse vinto il Faraone. E invece no:
Fine della partita.
“E il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come aveva detto l'Eterno” (7:13).
• Significati del preludio magico
Nei racconti biblici di grande portata, i preludi hanno sempre molta importanza. Spesso contengono segni retroattivi, o anticipatori, o comunque esplicativi di fatti riportati nella Bibbia. Vediamone alcuni per questo caso.
- Compare il serpente, cioè l’animale nella cui forma Satana aveva sfidato Dio nella creazione dell’uomo. Adesso vuole sfidare Dio nella creazione del suo popolo. Il serpente di Aaronne che divora i serpenti dei maghi è un segno anticipatorio della finale vittoria di Dio sulle potenze di Satana.
- In questa occasione, e anche dopo, nelle due prime piaghe, i maghi egiziani dimostrano di poter fare autentici miracoli. Da qui si vede che Satana ha un potere reale sugli elementi naturali della creazione, anche se limitato dalla volontà di Dio.
- Le nazioni pagane, come in questo caso l’Egitto, sono sotto il controllo di potenze demoniache. Ma il popolo che Dio si è formato da Dio, e agisce sotto la Sua autorità, risulta alla fine vittorioso.
C’è un altro fatto in questo preludio che ha un significato importante: la reazione del Faraone.
“Il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come aveva detto l'Eterno” (7:13).
Il cuore si indurì, o fu l’Eterno a indurirlo? La domanda è lecita, perché più avanti il testo dice: “E l'Eterno indurì il cuore del Faraone, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne come l'Eterno aveva detto a Mosè” (Esodo 9:12).
Va detto però che questo riguarda soltanto la sesta piaga, perché in tutte le precedenti sta scritto che "il cuore di Faraone si indurì" (Esodo 7:22, 8:15, 8:19, 8:32, 9:7). È vero che nel viaggio verso l’Egitto Dio aveva avvertito Mosè:
“L’Eterno disse a Mosè: “Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al Faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore, ed egli non lascerà partire il popolo” (Esodo 4:21),
ma questo avverrà solo dopo che il Faraone avrà visto fare davanti a lui molti prodigi, e nonostante ciò avrà indurito il suo cuore. A un certo punto allora sarà Dio stesso a prendere la decisione di indurire irrevocabilmente il cuore del Faraone.
Qui c’è per tutti una lezione: nei rapporti con Dio l'uomo deve stare ben attento, perché chi continua a dire NO al Signore che gli parla può raggiungere il punto di non ritorno. “Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Salmo 95:8, Ebrei 3:15).
In questo preludio si scorge anche un’opera di misericordia di Dio verso il Faraone, perché senza colpirlo e senza fare alcuna minaccia, Dio gli dà una dimostrazione della sua potenza, come per indurlo a non irrigidirsi contro quello che gli viene richiesto di fare, cioè lasciar andare il suo popolo. Ma il Faraone non volle cedere.
• Il popolo si sfila, poi si ricrede
È evidente che in quest’opera di liberazione il regista di tutto è Dio. Tuttavia, nei momenti cruciali la parte umana ha collaborato in forma di ubbidienza.
All’inizio, dopo il fallimento della prima missione, quando Dio ordinò a Mosè e ad Aaronne di andare di nuovo dal Faraone, “Mosè e Aaronne fecero così; fecero come l'Eterno aveva loro ordinato” (Ebrei 7:6).
E alla fine, nella notte che precedette l’uscita dal paese, quando Mosè e Aaronne diedero ordini tassativi alla comunità d’Israele su quello che dovevano fare per non essere colpiti dall’angelo e su come avrebbero dovuto ricordare quella notte, la reazione del popolo fu:
“Il popolo si inchinò e adorò. E i figli d'Israele andarono, e fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 12:28).
E anche dopo che furono usciti, quando Mosè e Aaronne diedero al popolo istruzioni su come avrebbero dovuto celebrare la Pasqua, la reazione fu la stessa:
“Tutti i figli d'Israele fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 12:50).
Questa corale ubbidienza a Dio dei figli d’Israele è il fondamentale “sì” che Israele come popolo presenta a Dio in risposta alla sua offerta di farli “uscire dall'Egitto, dalla casa di schiavitù” (Esodo 13:14). Ed è proprio questo iniziale, sofferto “sì” del popolo che consente a Dio di fargli fare il primo passo nel viaggio che doveva portarlo nella terra destinata alla nazione promessa ad Abraamo.
Infatti subito dopo si dice:
“E avvenne che in quello stesso giorno l'Eterno trasse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto, secondo le loro schiere” (Esodo 12:51).
Fu dunque l’Eterno che trasse fuori gli ebrei dall’Egitto. Niente lotte di liberazione, niente leader carismatici: è Dio che fa tutto. E lo fa per i suoi scopi. Ma è parte essenziale dei suoi scopi e dei suoi metodi il coinvolgere gli uomini nella sua azione, senza trascinarli, ma anzi rispettando la sfera della loro libertà, nell’ambito della sua indiscutibile sovranità.
E per lasciare libertà al popolo, Dio dovette anche accettare che per un certo tempo, dopo il fallimento del primo tentativo di approccio al Faraone, il popolo decidesse di ritirarsi dall’impresa iniziata, rifiutandosi di seguire Mosè.
Da questo segue un fatto importante. Dopo il fallimento, Mosè dovrà presentarsi di nuovo davanti al Faraone, ma questa volta non potrà più farlo a nome dei figli d’Israele: non potrà dire che li rappresenta, perché da loro non ha ricevuto alcun mandato. Si presenta al Faraone soltanto a nome di Dio. Il mandato per questo però l’ha ricevuto, con le parole stesse del Signore: “Io ti ho stabilito come Dio per Faraone” (7:1).
Ma il popolo no, i figli d’Israele non hanno rinnovato la loro fiducia in Mosè. E si può capirli. Si può immaginare infatti con quale terrore avranno appreso la notizia che “quei due” vogliono tornare un’altra volta dal Faraone. Se la prima volta era andata così, figuriamoci la seconda! E non avevano tutti i torti. Perché le prime tre piaghe che si abbatterono sull’Egitto colpirono tutti: non solo gli egiziani, ma anche gli ebrei. Solo a partire dalla quarta piaga, quella delle mosche, il Signore decise di fare una distinzione tra ebrei e egiziani:
“Ma in quel giorno io farò eccezione nel paese di Goscen, dove abita il mio popolo; e lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo” (Esodo 8:22-23).
Chissà quali pensieri avranno avuto allora gli ebrei, sapendo che Mosè e Aaronne stavano litigando col Faraone mentre loro scavavano fosse vicino al fiume per trovare acqua da bere, dal momento che tutte le acque in Egitto erano state cambiate in sangue. E poi hanno visto arrivare rane da tutte le parti, entrare in casa, nelle camere, posarsi sui letti. E poi hanno sentito arrivare le zanzare, che mordono uomini e animali senza possibilità di scampo. Certo, questo accadeva a tutti, anche agli egiziani, ma era una consolazione? Né si poteva pensare che in questa situazione il Faraone avrebbe diminuito il loro il lavoro. Se questa doveva essere la liberazione! Bel risultato: stavano peggio di prima.
Sarebbero tornati volentieri indietro, se avessero potuto, come avevano tentato di fare i sorveglianti quando erano andati a lagnarsi dal Faraone, non per far uscire il popolo dall’Egitto, come avevano chiesto Mosè ed Aaronne, ma per poter tornare a lavorare come prima, cioè senza che gli ebrei dovessero andare a cercarsi la paglia. Ma anche questo non fu loro concesso. E maledissero Mosè e Aaronne. Se dunque la rottura tra Dio e Mosè si era presto sanata, quella tra Mosè e popolo si era in un primo tempo aggravata.
Le cose cominciarono a cambiare a partire dalla quarta piaga, quando gli ebrei si accorsero che le loro case, a differenza di quelle degli egiziani, non erano attaccate dalle mosche; e, poco dopo, che “tutto il bestiame d'Egitto moriva; ma del bestiame dei figli d'Israele neppure un capo morì” (Esodo 9:6). Era questo il modo in cui Dio si faceva conoscere, sia dagli egiziani, sia dagli ebrei. I figli d’Israele cominciarono a capire qualcosa, il Faraone invece continuava a non voler capire niente.
Il tremendo ultimatum che Mosè avrebbe dovuto consegnare al Faraone nella sua prima missione, la minaccia di uccidere il suo primogenito se non avesse lasciato andare il suo popolo, non fu più ripetuto nei successivi contrasti. Se non l’ultima volta, e non in forma di ultimatum. Nell’ultimo, drammatico scontro, Mosè non minaccia, ma in veste d’araldo comunica una sentenza:
“Così dice l'Eterno: ‘Verso mezzanotte, io passerò in mezzo all'Egitto; e ogni primogenito nel paese d'Egitto morirà: dal primogenito del Faraone che siede sul suo trono, al primogenito della serva che sta dietro la macina, e a ogni primogenito del bestiame. E vi sarà per tutto il paese d'Egitto un grande grido, come non ci fu mai prima, né ci sarà poi. Ma fra tutti i figli d'Israele, tanto fra gli uomini quanto fra gli animali, neppure un cane muoverà la lingua, affinché conosciate la distinzione che l'Eterno fa tra gli Egiziani e Israele. E tutti questi tuoi servitori scenderanno da me, e si inchineranno davanti a me, dicendo: Parti, tu e tutto il popolo che è al tuo seguito!’. E, dopo questo, io partirò’. E Mosè uscì dalla presenza del Faraone, acceso d'ira” (Esodo 11:4-8).
E così fu. Fine di una storia, inizio di un’altra.
(Notizie su Israele, 14 settembre 2025)
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Forze di Israele: "Oltre 250 mila persone hanno lasciato Gaza City"
Colpito un grattacielo
Oltre 250 mila persone hanno lasciato Gaza City, nel nord della Striscia, per rifugiarsi in altre zone del territorio da quando le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno intensificato gli attacchi nel centro urbano più grande dell’enclave. Lo ha fatto sapere il portavoce delle Idf in arabo, Avichay Adraee, in un messaggio su X.
“Vi esorto, per la vostra sicurezza, a prendere la strada Al Rashid e a trasferirvi immediatamente nella zona umanitaria di Al Mawasi e nelle zone libere dei campi profughi centrali (…) dove potrete godere di una risposta umanitaria molto più efficiente, compresi i servizi sanitari”, ha affermato Adraee, rivolgendosi ai civili di Gaza City. Le Idf sono “determinate a sconfiggere (il movimento islamista palestinese) Hamas a Gaza City e stanno quindi intensificando gli attacchi. I tentativi di Hamas di diffondere menzogne e impedirvi di lasciare la città dimostrano la sua disponibilità a mettere a rischio la vostra vita per garantire la propria sopravvivenza”, ha aggiunto il portavoce.
Le Forze di difesa israeliane, guidate dal Comando Sud, hanno colpito un grattacielo “utilizzato” da Hamas nella zona di Gaza City. Lo riferiscono le stesse Idf in una nota su Telegram. “All’interno dell’edificio, Hamas aveva installato infrastrutture militari utilizzate per pianificare ed eseguire attacchi terroristici contro le truppe delle Idf nella zona. Prima dell’attacco sono state prese misure per ridurre i danni ai civili, tra cui avvertimenti alla popolazione, uso di munizioni di precisione, sorveglianza aerea e ulteriori informazioni di intelligence. Le organizzazioni terroristiche nella Striscia di Gaza violano sistematicamente il diritto internazionale e fanno uso militare delle istituzioni civili, utilizzando la popolazione di Gaza come copertura. Le Idf continueranno a operare contro le organizzazioni terroristiche nella Striscia”, si legge nella nota.
Circa mezz’ora prima, le Idf avevano chiesto ai civili “l’evacuazione immediata” del grattacielo Al Noor e delle tende vicine, situate in via Safad, a Gaza City. “Per la vostra sicurezza, siete tenuti a evacuare immediatamente l’edificio dirigendovi a sud verso la zona umanitaria di Al Mawasi”, aveva spiegato il portavoce Adraee in un post su X.
(Nova News, 13 settembre 2025)
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La risoluzione UE su Gaza è uno schiaffo a qualsiasi verità
di Iuri Maria Prado
Ad alcuni la risoluzione del Parlamento europeo intitolata “Gaza al punto di rottura” non è piaciuta perché troppo morbida con Israele. Ad altri non è piaciuta per il motivo opposto, e cioè perché la giudicavano troppo orientata contro lo Stato ebraico. A molti è invece sembrata una buona soluzione di compromesso perché richiamava Israele ai propri doveri, ma senza dimenticare di condannare le forze terroristiche che governano Gaza e, soprattutto, senza accantonare l’esigenza che siano escluse da ogni futuro scenario di ricostruzione della Striscia.
• La risoluzione UE su Gaza è uno schiaffo a qualsiasi verità
Ma tutti – e cioè sia i soddisfatti, sia i delusi per ragioni diverse e opposte – dimostrano di trascurare le ragioni per cui quella risoluzione non dovrebbe piacere proprio a nessuno, perché è uno schiaffo a qualsiasi verità anche quando cerca di affermarne una che piaccia a destra e a manca. Già l’esordio, riferito alla “carestia”, dovrebbe lasciare perplesso anche chi, giustamente, ha a cuore la situazione umanitaria dei palestinesi. La carestia, infatti, c’è stata nei fogli di propaganda, non nella realtà di Gaza. E i problemi di scarsità alimentare che ci sono stati vanno addebitati a Hamas e alle Nazioni Unite, che hanno boicottato (Hamas anche con le armi) il sistema di distribuzione degli aiuti che aveva fatto fuori il loro monopolio. La risoluzione è poi priva di senso quando chiede “un cessate il fuoco immediato e permanente”: perché di permanente, oggi, ci sarebbe solo il potere di Hamas (per il cui disarmo difficilmente ci si potrebbe affidare ai buoni propositi dei parlamentari europei).
• Tutto da dimostrare
La risoluzione potrà poi piacere a qualche curva pro-Pal quando deplora la “azione militare indiscriminata” di Israele, ma non è serio che in un documento simile si dia per assunto ciò che è tutto da dimostrare. La morte dei civili costituisce una tragedia, ma non è risarcita sottacendo che Hamas se ne fa scudo né addebitando a Israele di averla voluta. Per non parlare di quando la risoluzione si avventura in ambito giudiziario, esortando gli Stati membri a “ribadire il loro sostegno politico e finanziario” alla Corte Penale Internazionale che si sta occupando di eventuali crimini commessi a Gaza. Nessuno può chiedere agli Stati di sostenerla “politicamente”, salvo credere che il Parlamento europeo promuova l’organizzazione di girotondi stile Mani Pulite per reclamare che i giudici dell’Aia facciano sognare il popolo della causa palestinese.
• Quando la risoluzione prende il mare
Ma il peggio è quando la risoluzione prende il mare spiegando che “sostiene le azioni e le campagne condotte dalle organizzazioni e dagli attivisti della società civile allo scopo di promuovere sforzi concreti per eliminare la carestia a Gaza e porre fine ai crimini ivi commessi”. Ogni riferimento alla “Flotilla” – allegramente composta anche da gente che inneggiava con Hamas alla distruzione di Israele – è ovviamente casuale. Ma anche il boicottaggio degli agrumi israeliani, anche la cacciata degli studiosi ebrei dalle università rappresentano, per gli “attivisti” che vi si impegnano, “sforzi concreti” a favore di Gaza. Va anche a questi il “sostegno” del parlamento europeo?
(Il Riformista, 13 settembre 2025)
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Da Gand a Parigi, cultura e libertà sotto attacco
Non si placa l’eco sul caso di cui è stato suo malgrado protagonista Lahav Shani, il direttore della Filarmonica di Monaco escluso dal Festival delle Fiandre in programma nella città belga di Gand perché israeliano. Tra gli altri Olaf Zimmermann, il direttore esecutivo del Consiglio culturale tedesco, la definisce una decisione «del tutto sbagliata» e condanna chi pretende che gli artisti «si schierino a favore o contro lo Stato in cui vivono o da cui provengono». Frana quindi davanti alla realtà la speranza che «tempi simili fossero finiti». Per l’ambasciatore israeliano a Berlino, Ron Prosor, si tratta di «puro antisemitismo». Il diplomatico ha accusato gli organizzatori della rassegna di aver compiuto un «attacco frontale alla libertà artistica» ed esplicitato con la loro azione il concetto che «gli ebrei non sono benvenuti». Ferma anche la posizione dell’ambasciata tedesca in Belgio, che ha annunciato la fine della sua collaborazione con il festival. Il logo dell’ambasciata è stato così rimosso dal sito web della manifestazione e contestualmente i riferimenti ai concerti sono stati rimossi dai canali social dell’ambasciata.
È di queste ore anche un’altra allarmante vicenda, denunciata dal Museo d’Arte e Storia del Giudaismo di Parigi (MahJ): cinque ricercatori basati in Francia hanno annullato la loro partecipazione a una conferenza intitolata “Storie ebraiche di Parigi”, in programma il 15 settembre nei locali del museo, perché un programma di ricerca dell’Università Ebraica di Gerusalemme stava finanziando il viaggio di uno studente di dottorato. «Alcuni hanno sostenuto che la loro partecipazione equivaleva a sostenere il governo israeliano», accusa il MahJ in un comunicato. «Altri hanno semplicemente fatto riferimento alla guerra a Gaza per mettere in discussione l’organizzazione della conferenza». Sul caso è tra gli altri intervenuta Rachida Dati, la ministra della Cultura uscente: «Questi ripetuti appelli al boicottaggio di artisti, spettacoli, conferenze e blocchi di locali stanno diventando pretesti per un antisemitismo palese». Secondo Dati, «non è più una questione di opinioni, ma di giustizia e di politica penale».
(moked, 12 settembre 2025)
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L’istigazione all’odio nei libri scolastici palestinesi
di Nathan Greppi
Nel suo libro La Palestina nei testi scolastici di Israele, la filologa e attivista di estrema sinistra israeliana Nurit Peled-Elhanan sostiene che i testi destinati alle scuole in Israele abbiano veicolato un’immagine “disumanizzante” dei palestinesi, sedimentando in tal modo nell’opinione pubblica la legittimità di determinate decisioni dei governi israeliani.
Più di recente, il quotidiano Il Manifesto ha sostenuto che nei libri scolastici italiani viene minimizzata l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Nel sostenere ciò, si contesta il fatto che Gerusalemme venga riconosciuta come capitale d’Israele, dimenticando che questa è la realtà dei fatti: a Gerusalemme hanno sede il governo, la Knesset (il parlamento) e la Corte Suprema. Anche se la maggior parte dei paesi riconosce Tel Aviv come capitale, Gerusalemme lo è “de facto”, in quanto ospita le sedi di tutti i principali organi amministrativi, legislativi e giudiziari del paese.
• Libri di testo palestinesi
La tesi secondo cui siano gli israeliani a disumanizzare i palestinesi per giustificare i soprusi nei loro confronti non tiene conto del fatto che, dall’altra parte, i testi scolastici utilizzati nelle scuole palestinesi disumanizzano costantemente non solo gli israeliani, ma anche gli ebrei come popolo.
Per fare un esempio di questo fenomeno, già nel settembre 2019 uno studio condotto dall’organizzazione no-profit israeliana IMPACT-SE, che si occupa di monitorare i libri di testo usati in Medio Oriente, ha rivelato che i materiali di studio utilizzati nei territori palestinesi e previsti per l’anno scolastico 2019-2020 contenevano propaganda antisionista e, in alcuni casi, anche antisemita, oltre ad inneggiare alla jihad e al martirio.
In un libro di matematica compariva questo esercizio: “Il numero di martiri della Prima Intifada è di 2026 martiri, e il numero di martiri dell’Intifada di Al-Aqsa è di 5050. Il numero di martiri delle due Intifade è di ____ martiri.” In un altro testo, invece, si tessevano le lodi del terrorista Dalal Al-Mughrabi, responsabile del Massacro della Strada Costiera, avvenuto nel 1978 a Tel Aviv e che provocò la morte di 38 persone, inclusi 13 bambini.
Lo studio di IMPACT-SE ha anche fornito dei dati: su 1509 riferimenti a Israele nel curriculum scolastico, il 93,5% non si riferivano ad esso con il suo vero nome, ma con termini dispregiativi quali “occupazione sionista”, “occupazione”, “sionisti” ed “entità sionista”. Israele veniva chiamata per nome solo nel restante 6,5% dei casi.
Proprio al terrorista Al-Mughrabi, negli anni 2010 era stata intitolata una scuola elementare a Hebron, finanziata tramite donazioni provenienti dal Belgio. Anche per questo e altri episodi analoghi, nel 2018 il governo belga aveva deciso di interrompere i finanziamenti destinati alle scuole palestinesi. Mentre nel maggio 2025, il Parlamento Europeo ha congelato i fondi destinati all’Autorità Nazionale Palestinese per l’istigazione all’odio nei suoi libri di testo per le scuole.
• Insegnanti fanatici
Talvolta non sono solo i libri di testo ad incitare l’odio tra i bambini palestinesi, ma anche gli insegnanti: stando ad un rapporto pubblicato nell’agosto 2021 da UN Watch, associazione no-profit con sede a Ginevra, nelle scuole palestinesi gestite dall’UNRWA erano più di 100 gli insegnanti che istigavano alla violenza e all’odio sia contro gli israeliani che contro gli ebrei in generale.
Nello specifico, erano state raccolte 113 immagini di post pubblicati sui social da vari membri del personale UNRWA, che in alcuni casi incitavano all’uso della violenza anche tra i bambini. UN Watch aveva analizzato solo quelli che si identificavano pubblicamente come membri del personale dell’agenzia, e pertanto ipotizzava che il numero reale dei dipendenti con atteggiamenti apertamente violenti fosse molto più alto.
Per fare un esempio, Nahed Sharawi, insegnante di matematica in una scuola UNRWA a Gaza, sui social aveva condiviso un video che riprendeva Adolf Hitler, dicendo che lo faceva “per arricchire e illuminare le vostre menti e pensieri”. Mentre Husni Masri, che insegnava in una scuola in Cisgiordania, diffondeva teorie secondo le quali gli ebrei avrebbero creato il Covid-19, e avevano intenzione di distruggere l’Islam e dominare il mondo. Nei suoi post, se la prendeva con i cosiddetti “massoni sionisti”, sostenendo che “possiedono il 90% di tutto l’oro del mondo” e “controllano la Banca Mondiale”.
È curioso che Sharawi accusasse i sionisti di controllare la Banca Mondiale, quando questa annovera tra i suoi dipendenti Massimiliano Calì, marito dell’inviata speciale dell’ONU Francesca Albanese e già consulente del Ministero dell’Economia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nei suoi post sui social, anch’essi analizzati da UN Watch, Calì dimostra di avere posizioni non meno estreme della moglie, piene di odio nei confronti d’Israele e di giustificazione dei terroristi palestinesi.
(InOltre, 12 settembre 2025)
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Chiamami col tuo nome: quando l’antisionismo getta la maschera e attacca tutti gli ebrei
Dalle aggressioni fisiche agli ebrei riconoscibili per strada fino ai divieti negli alberghi, dai graffiti con svastiche ai social che amplificano odio e slogan importati dal conflitto mediorientale: in Italia l’antiebraismo non si nasconde più dietro l’antisionismo, ma si esprime apertamente come colpa collettiva.
di Sofia Tranchina
Per misurare quanto l’antisemitismo in Italia stia superando i freni del dopoguerra e trasformandosi sempre più in attacchi e discriminazioni concrete, basta un dato: per raccontare gli episodi registrati durante l’estate ho dovuto restringere il campo a quelli accaduti da metà luglio in poi — e neppure tutti. Altrimenti, l’elenco sarebbe diventato interminabile. È questa, oggi, la gravità della situazione.
Scorrendo le cronache delle ultime settimane, emerge una verità semplice e inquietante: agli ebrei viene attribuita una colpa collettiva. Poco importa quale, poco importa l’individuo. E non si tratta di “antisionismo”.
A dimostrarlo ci sono i due episodi gemelli di Venezia, l’ultimo avvenuto appena qualche giorno fa. In entrambi i casi, una coppia di turisti ebrei si godeva la notte salmastra passeggiando per le calli, senza nascondere kippah o altri simboli identitari. La normalità di una serata veneziana si è trasformata in paura nel momento in cui gruppi di aggressori hanno deciso di colpirli, soltanto perché riconoscibili come ebrei.
La prima aggressione risale all’8 agosto: due turisti americani sono stati insultati, spintonati, colpiti con sputi e bevande, minacciati di morte e persino attaccati con un cane aizzato contro di loro. Il marito è finito a terra, il telefono distrutto dai denti dell’animale; la moglie, incinta di cinque mesi, si proteggeva la pancia terrorizzata.
Il 7 settembre è accaduto di nuovo. Un’altra coppia, anch’essa chiaramente ebrea, è stata inseguita e accerchiata da una decina di uomini di origine magrebina al grido di “Free Palestine” e insulti antisemiti. Anche qui, dalle parole si è passati subito ai fatti: schiaffi, un cane aizzato contro di loro, una bottiglia di vetro che ha ferito la donna a una caviglia. Tra gli aggressori identificati, un tunisino residente a Modena e due uomini ora destinati al rimpatrio.
E non è solo Venezia. Il 27 luglio, in un autogrill vicino Milano, un padre e un figlio ebrei francesi sono stati presi di mira. Dalle offese filmate con un telefonino — “assassini, tornatevene al vostro paese, qui non siamo a Gaza” — si è rapidamente passati ai calci e agli spintoni. Il padre è stato scaraventato a terra, sotto lo sguardo spaventato del bambino.
Questi episodi non sono schegge isolate, ma tasselli di deriva che corre veloce. Una deriva alimentata da dichiarazioni pubbliche che finiscono per legittimare la logica della colpa collettiva. C’è chi, come Giuseppe Conte, ha chiesto agli ebrei italiani di dissociarsi da Israele, come se dovessero guadagnarsi l’innocenza. E c’è chi va oltre, vedendoli colpevoli a prescindere.
Tra questi Luca Nivarra, docente universitario di giurisprudenza che a fine agosto, in un post su Facebook, ha mostrato con chiarezza la china del dibattito pubblico: invitava a togliere l’amicizia a tutti gli ebrei — anche quelli “buoni”, ovvero quelli che si dichiarano disgustati dalle azioni del governo israeliano e dell’Idf, perché certamente “mentono”. La colpa ebraica non può essere lavata da comportamenti o opinioni personali. Sei ebreo e morirai ebreo, e in quanto tale, persona non grata.
Un messaggio dello stesso tenore è arrivato, in privato, al consigliere comunale di Milano Daniele Nahum. «I vostri genitori sono colpevoli di avervi messi al mondo perché siete dei parassiti», gli ha scritto qualcuno.
È il segno di uno sdoganamento del linguaggio: slogan e cornici belliche importati dal conflitto in Medio Oriente diventano passepartout identitari, trasformando il lessico della protesta in stigmatizzazione dell’ebreo in quanto tale, non della politica israeliana.
C’è chi ancora si nasconde dietro la maschera dell’antisionismo, come dimostrano i poster comparsi a Milano in estate con la scritta “Israeli not welcome”, o i cartelli che vietavano l’ingresso a “israeliani e sionisti” esposti a Milano fino a quello del bar a Termoli che recitava “in questo locale è vietato l’ingresso agli israeliani”. Ma c’è anche chi non si preoccupa più di fingere: il 25 agosto ad Alghero è apparsa la scritta “ebreo razza bastarda”, mentre a Montigo un architetto ha denunciato la comparsa ripetuta di graffiti come “ebrei di merda”.
Quando l’attacco diventa personale, l’escalation è ancora più grave. Il 5 agosto a Milano, sulla porta di casa di una famiglia ebraica è stata incisa la frase “ebrei bastardi”, accompagnata da due svastiche.
Le svastiche hanno colpito anche a Roma la sede del Keren Kayemeth LeIsrael, mentre a Milano graffiti che equiparavano la stella di David alla svastica sono apparsi in varie vie e davanti agli uffici di Forma International, casa di produzione indipendente di Ruggero Gabbai che realizza documentari spesso legati a temi ebraici.
Gli attacchi non risparmiano nemmeno chi si limita a parlare di Israele. Il 22 agosto, cinque giornalisti de Il Tempo hanno ricevuto una lettera di minacce di morte firmata da un gruppo di anarchici: «servi del potere, morirete». A Caserta, sulla montagna di San Michele, accanto a una lapide commemorativa, qualcuno ha appeso un cartello dal macabro italiano: «Hitler ne ha rimasti molti di ebrei».
• Libertà di espressione? O violenza e minacce?
La domanda torna sempre: dove finisce la libertà di espressione? Permettere che si diffondano pubblicamente messaggi che colpiscono gli israeliani come popolo, e ancor più gli ebrei in quanto colpevoli di una “colpa atavica”, significa rendere sempre più pensabile — e quindi sempre più praticabile — l’attacco contro chi è identificato o identificabile come ebreo. Un fenomeno alimentato dagli intolleranti, ma che si allarga anche ai conformisti e agli opportunisti, con il silenzio distratto di chi osserva senza reagire.
Come nota Pasqualino Trubia su Osservatorio Antisemitismo, la strumentalizzazione del conflitto mediorientale dà sfogo ai “rigurgiti di odio in Europa”, rimasti repressi dopo la Seconda guerra mondiale. Un odio che gli algoritmi dei social non fanno che amplificare, perché «premiano le urla, non le ragioni. E l’odio urla sempre più forte».
E dagli algoritmi si passa facilmente alle “performance” dell’idiozia premiata: in agosto due operatrici sanitarie hanno diffuso un video in cui gettavano nel cestino farmaci Teva, prodotti da un’azienda israeliana, invitando al boicottaggio. Un gesto tanto clamoroso quanto insensato, visto che si trattava di beni sanitari pubblici. Come ha ricordato l’esperto farmaceutico Levy de Rothschild, Israele rappresenta solo lo 0,2% della popolazione mondiale ma contribuisce a circa il 10% della ricerca medica globale: «chi propone un boicottaggio scientifico o industriale verso Israele lo fa a discapito della salute di tutti». Le due, travolte dalle polemiche, hanno poi diffuso un secondo video in cui mostravano i farmaci ancora intatti e chiedevano scusa.
L’odio, dunque, non resta confinato alla strada. Lo si ritrova nei boicottaggi grotteschi che non risparmiano neanche turismo e cultura.
Alberghi in Sicilia e Sardegna hanno respinto turisti israeliani, imponendo loro di “condannare il governo” per poter soggiornare. A Porto Pino, un residence lo ha persino scritto sul sito: chi si presenterà con documenti israeliani dovrà dichiarare di ripudiare il proprio governo e l’esercito. A Ragusa, una struttura ha chiesto a una turista israeliana di cancellare la prenotazione se non avesse condannato Israele. Il titolare, Andrea Leanza, si è difeso sostenendo che non si tratti di razzismo, ma di un’opposizione “a tutte le guerre”. Eppure difficilmente manderebbe la stessa richiesta a visitatori provenienti da altri Paesi in conflitto.
Il clima si ripete altrove: a Chia, un cartello in ebraico in spiaggia scoraggiava l’arrivo dei turisti israeliani indicati come “criminali di guerra”. Il 5 settembre, un’azienda di taxi per disabili ha negato il servizio a una turista israeliana in sedia a rotelle, “per prendere posizione contro Israele”.
Nel frattempo, il gruppo Venice4Palestine tentava di ostacolare la presenza di artisti israeliani alla Mostra del Cinema di Venezia.
Così, mentre molti dichiarano la propria solidarietà ai palestinesi — spesso in un legittimo sforzo morale di attenzione verso un popolo che ha sofferto e soffre — non mancano gli eccessi speculari: c’è chi inneggia a un nuovo genocidio ebraico o auspica un attacco nucleare su Israele. Del resto, da due anni nelle piazze italiane si lasciano risuonare slogan come “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, una formula violenta che richiama un Levante judenfrei e l’annientamento di Israele. Lo stesso slogan è stato adottato a fine agosto da tre alpinisti, che hanno aperto una nuova via battezzandola “Dal fiume al mare” (ovvero il territorio di Israele dove oggi vivono due milioni di arabi israeliani e sette milioni di ebrei israeliani) e dedicandola “ai palestinesi che combattono contro i sionisti”, una dedica dai toni violenti che inneggia alla lotta armata.
Un grido che, dalle strade ai cortei, dai bar ai manifesti affissi a Milano, fino alle insegne di locali e mercerie, viene ripetuto senza troppa cognizione di causa. Quello che sta emergendo è un clima che normalizza la discriminazione e trasforma slogan e simboli in atti concreti di esclusione, intimidazione e violenza. È un antisemitismo che non ha più bisogno di travestimenti, che non distingue individui e opinioni, e che si alimenta di silenzi e complicità. Per questo, più ancora delle svastiche sui muri o delle scritte sui social, il pericolo maggiore è la rassegnazione: l’idea che tutto questo possa essere tollerato come parte del paesaggio.
(Bet Magazine Mosaico, 12 settembre 2025)
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Riconoscere lo Stato palestinese: troppo presto?
di Gabriel Venezia e Daniele Steinhaus
• Storia di uno Stato palestinese mancato
Il tema del riconoscimento di uno Stato palestinese è di interesse pubblico già dal 1947, anno della decisione da parte delle Nazioni Unite di spartire il territorio dell’ex Palestina britannica in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo e la Città di Gerusalemme. Mentre le autorità ebraiche riconoscevano di buon grado la spartizione proposta dalle Nazioni Unite, nota come Risoluzione 181, costituendosi il 14 maggio 1948 nello Stato d’Israele, le potenze arabe della zona rigettarono tale decisione, dichiarando guerra al neonato Stato ebraico. Con la conseguente sconfitta, per i palestinesi che vivevano nel territorio è venuta meno anche la possibilità di ottenere una propria nazione.
Tale impedimento si era venuto a creare dopo il 1949 a causa della conquista israeliana di alcuni territori, ma anche per effetto dell’occupazione militare egiziana a Gaza e dell’occupazione giordana nella West Bank e a Gerusalemme Est. Infatti, le autorità del Cairo e di Amman, annettendo i suddetti territori alle rispettive entità territoriali, amministrarono direttamente le zone occupate, non consentendo la fondazione dello Stato palestinese.
Nel maggio 1964 numerose personalità politiche del mondo arabo si radunarono a Gerusalemme Est per fondare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il suo organo legislativo, il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC). Il PNC e l’OLP decisero di adottare come Costituzione la Convenzione Nazionale Palestinese, modificata nel 1968 e nel 1996. La Carta riconosceva come confini dello Stato palestinese quelli del mandato britannico (Art. 2), negando il diritto degli ebrei di essere nazione (Art.6) e legittimando la lotta armata (Artt. 9, 10, 12, 15).
La guerra dei Sei Giorni nel 1967, terminata con la vittoria d’Israele, ha comportato l’estromissione dell’Egitto e della Giordania da Gaza e dalla West Bank, decretando la conquista israeliana della totalità della Palestina storica, con anche le alture del Golan siriano e il Sinai egiziano, e la creazione di insediamenti in tutto il territorio.
Successivamente alla Guerra dello Yom Kippur del 1973, nel 1979 Israele ed Egitto resero pubblico il loro primo accordo di pace, favorito dagli USA e frutto degli accordi segreti di Camp David dell’anno precedente. Di fatto, l’accordo del 1979 segnò il primo atto di riconoscimento d’Israele da parte del mondo arabo, a cui seguirono l’accordo del 1994 con la Giordania e gli accordi di Abramo nel 2020 con Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, poi estesi a Marocco e Sudan.
• Accordi di Oslo e le problematiche dell’assetto politico
Solo nel 1988, quarantuno anni dopo la risoluzione ONU per la spartizione della Palestina mandataria e un anno dopo l’inizio dell’Intifada, il Consiglio Nazionale Palestinese ad Algeri proclamò l’indipendenza dello Stato di Palestina. I politici israeliani e i rappresentanti dell’OLP decisero di cercare un’intesa, la quale fu raggiunta provvisoriamente con la firma degli accordi di Oslo del 1993 e 1995. Il processo di pace prevedeva clausole come il riconoscimento reciproco, la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il ritiro parziale delle forze israeliane e l’organizzazione di elezioni democratiche palestinesi.
Nel 1995 furono aggiunte altre clausole in materia di sicurezza e di spartizione territoriale, attraverso la divisione della West Bank in 3 aree: -Area A: territorio sotto il pieno controllo palestinese; -Area B: territorio sotto il controllo civile palestinese e gestione della sicurezza congiunta con Israele; -Area C: territorio sotto il pieno controllo israeliano.
Le elezioni all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese sono state proclamate in due sole occasioni dalla stipulazione degli accordi di Oslo ad oggi, nel 1996 e nel 2006. In quegli anni si sono susseguiti governi israeliani di diverso schieramento politico, i quali hanno restituito territori all’ANP allo scopo di adempiere agli obblighi previsti dagli accordi di pace. Nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente dalla striscia di Gaza, affidandone il controllo ai palestinesi, che nelle elezioni del 2006 votarono in massa per Hamas. Tendenza diversa per la West Bank, dove i palestinesi si affidarono ad Al Fatah, il partito più rappresentativo dell’OLP. Nonostante l’ascesa del movimento integralista a Gaza e l’aumento delle tensioni, Israele tentò di rilanciare gli accordi di Oslo in due fasi distinte: nel 1999-2000 e nel 2006-2008. Nella prima fase la parte israeliana presentò una proposta che prevedeva il ritiro di Israele da gran parte della Cisgiordania e di Gaza, la creazione di uno Stato palestinese e una limitata autonomia per alcune aree di Gerusalemme Est. Tuttavia, la proposta escludeva il controllo palestinese sulla Città Vecchia di Gerusalemme e non contemplava il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. L’ANP rifiutò l’offerta, giudicandola insufficiente e sbilanciata. Il vertice si concluse senza accordi e poche settimane dopo, nel settembre del 2000, esplose la Seconda Intifada, segnando una grave escalation del conflitto. La seconda fase vide la proposta israeliana di una bozza di accordo nota come “Piano Olmert”. La proposta prevedeva: -La creazione di uno Stato palestinese sulla quasi totalità della Cisgiordania; -Una divisione di Gerusalemme, con la Città Vecchia affidata a un’amministrazione internazionale; -Il riconoscimento simbolico del diritto al ritorno dei rifugiati, ma con un numero limitato di ingressi in Israele. Tuttavia, Abbas non diede seguito alle trattative e anche quell’occasione sfumò.
Tra il 2006 e il 2007 scoppiò una guerra intestina tra Hamas e Al Fatah, che si risolse con l’estromissione dell’ANP da Gaza. In seguito, Hamas ha imposto con la forza un dominio autoritario sulla Striscia di Gaza, trasformandola in una roccaforte militare e in una base per lanciare attacchi contro Israele. In più occasioni ha fatto partire intensi lanci di missili contro il territorio israeliano, culminati nell’attacco efferato del 7 ottobre 2023, guidato direttamente dal movimento terroristico.
• Lo Stato palestinese oggi
A settembre 2025, 147 membri delle Nazioni Unite, lo Stato Vaticano e il Sahara Occidentale hanno riconosciuto la legittimità dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentanza del proprio popolo. Gli ultimi membri dichiaratisi aperti al riconoscimento dello Stato palestinese sono Gran Bretagna, Canada, Francia e Malta. Il presidente francese Emmanuel Macron già a luglio aveva annunciato l’intenzione di attendere l’Assemblea Generale dell’ONU per riconoscere lo Stato palestinese, come risposta alla guerra fra Israele e Hamas.
Ma esattamente, Francia, Canada e Gran Bretagna che Stato hanno intenzione di legittimare?
• La statualità nel Diritto internazionale
La condizione di Stato (in inglese, statehood) è stata ed è tutt’ora argomento di dibattito tra gli studiosi del diritto internazionale, ossia quella branca del diritto che si occupa del rapporto tra gli Stati. A seguito della formazione degli Stati moderni, si è incominciato a riflettere su quali possano essere i requisiti che un Paese deve possedere per considerarsi tale.
È importante sottolineare che l’ottenimento della personalità giuridica di Stato, nell’attuale scenario giuridico internazionale, non è un atto puramente simbolico, scevro da conseguenze rilevanti. Uno Stato difatti, ha la capacità di sottoscrivere trattati vincolanti con uno o più Paesi, vantando diritti e adempiendo ad obblighi nei confronti della comunità internazionale.
Nel corso del tempo si sono formate due teorie circa l’esistenza degli Stati: la teoria costitutiva e la teoria dichiarativa.
I sostenitori della prima ritengono che uno Stato si possa definire tale una volta che uno o più Paesi ne riconoscano l’esistenza. Tale teoria risulta problematica poiché si rivelerebbe eccessivamente soggettiva, potendo qualunque Stato attribuire tale qualità a qualsiasi tipo di entità, con tutte le conseguenze legali a cui si è sopra accennato.
Invece, la teoria dichiarativa, attualmente maggioritaria, ritiene che il riconoscimento consista in un mero atto politico di uno Stato, con il quale lo stesso dichiara sussistenti i requisiti di legge affinché possa formarsi uno Stato. Però secondo questa teoria, è importante ribadirlo, sostenere che uno Stato esista non significa che ci sia realmente.
La principale fonte giuridica in materia di statualitá è la Convenzione di Montevideo (1933), la quale all’art. 1 afferma che uno Stato possiede congiuntamente le seguenti qualità:
– Una popolazione permanente; – Un territorio ben definito; – Un governo; – La capacità di relazionarsi con altri Stati.
Di seguito si analizzeranno sinteticamente i requisiti di legge con riferimento alla possibile esistenza di uno Stato palestinese controllato dall’Autoritá Nazionale Palestinese (ANP).
- Una popolazione permanente
La nozione di popolazione è tradizionalmente definita come “insieme di individui di entrambi i sessi che vivono assieme come comunità, nonostante possano appartenere a etnie o credi differenti”. Per dotarsi del requisito di permanenza, invece, vi deve essere l’intenzione di stabilire la residenza all’interno del Paese e di essere riconosciuti come abitanti del luogo. Si ritiene che la legge non richieda che la popolazione sia indigena, ossia originaria del territorio.
Si tratta del requisito più agevole da soddisfare. La popolazione della Palestina è infatti identificata dall’attuale Statuto ANP chiaramente negli individui che ivi risiedono, così come è innegabile che almeno parte della popolazione abbia ivi stabilito la propria residenza permanente.
- Un territorio ben definito
Per soddisfare questo requisito è necessario che il territorio dell’aspirante Stato, su cui esso esercita la propria sovranità, sia delimitato da elementi fisici riconoscibili da parte di terzi. Tale criterio è stato tuttavia storicamente disatteso, essendosi verificato che uno Stato si fosse formato nonostante l’esistenza di dispute territoriali sui suoi confini.
Con riferimento allo Stato palestinese, i Paesi europei e non europei che si sono prodigati nel suo riconoscimento hanno implicitamente riconosciuto la sovranità su Gaza e sulla West Bank.
Tuttavia, vi sono incertezze circa l’esercizio della sovranità da parte dello Stato della Palestina su un territorio definito. Sebbene la delimitazione del territorio non sia un requisito necessario, è indiscutibile che maggiore è l’indeterminatezza del territorio, più l’esistenza dello Stato può essere messa in discussione. Inoltre, gli Accordi di Oslo affermano chiaramente che i confini attuali dei Territori palestinesi sono solo provvisori e saranno oggetto di future negoziazioni.
Pertanto, non solo il territorio è attualmente indeterminato, essendo la presenza palestinese a Gaza e nella West Bank frammentata e non contigua, ma non vi è neppure un solido fondamento legale per l’esercizio della sovranità sui suddetti territori.
- Un governo
Tale requisito richiede che lo Stato sia dotato di un governo efficace ed indipendente, in grado di controllare il territorio ove esercita la propria sovranità.
Tale principio legale può certamente dirsi non soddisfatto con riferimento allo Stato palestinese.
Nello scenario politico attuale, infatti, i Territori palestinesi sono controllati da due entità distinte, l’ANP e Hamas. Si tratta, infatti, di due organizzazioni che predicano teorie politiche alquanto distanti: se l’ANP sostiene che il popolo palestinese abbia il diritto di prendere decisioni che influenzino la vita quotidiana nei territori, Hamas invece afferma un tipo di società fortemente teocratico, basato sull’autorità di Dio e su una radicale interpretazione del Corano.
Ne segue che, ironicamente, il maggiore ostacolo al riconoscimento della Palestina trova la sua causa nelle dinamiche interne ai territori, ossia nell’incapacità del popolo palestinese di eleggere una compatta classe dirigente. Inoltre, l’ipotetico governo dell’ANP mancherebbe anche del requisito dell’indipendenza, essendo l’Autorità Palestinese limitata nell’esercizio dei suoi poteri dai già citati Accordi di Oslo.
- La capacità di relazionarsi con gli altri Stati
Tale criterio è forse il più importante, richiedendo che lo Stato in formazione abbia la capacità legale di sottoscrivere trattati internazionali e di tener fede alla parola data. Inoltre, lo Stato non deve essere controllato da entità o Paesi stranieri, che ne minino l’influenza e l’indipendenza. Contrariamente a quanto spesso si sostiene, il riconoscimento non è condizione sufficiente per garantire il rispetto del principio legale di cui sopra.
Nello scenario politico attuale permangono dubbi circa la capacità legale di un ipotetico Stato palestinese di relazionarsi con altri Paesi. Se, come già accennato, l’Autorità palestinese detiene poteri limitati e quindi non una piena capacità legale di sottoscrivere accordi bilaterali con altri Stati, un ipotetico Stato guidato da Hamas, solleva perplessità circa il grado di indipendenza da potenze straniere, quali l’Iran.
• L’integrità territoriale di Israele
Come più volte asserito, il riconoscimento di uno Stato ha un valore meramente politico e non legale, pertanto, esso non si qualifica come requisito necessario affinché si determini uno Stato (articolo 3 della Convenzione di Montevideo).
D’altra parte, però, merita una riflessione quanto sancito dall’art. 2 della Carta ONU, il quale afferma che tutti gli Stati Membri devono desistere dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato.
Come noto, nella società palestinese esistono frange estremiste, le cui rivendicazioni territoriali non si limitano a Gaza e alla West Bank, ma si estendono a territori appartenenti ad Israele.
Ciò premesso, il riconoscimento di uno Stato palestinese in una forma tanto indeterminata sotto il controllo di gruppi politici estremisti, potrebbe integrare una violazione dell’articolo 2 della Carta ONU, qualificandosi come una lesione dell’integrità territoriale di Israele.
• In conclusione
La formazione dello Stato palestinese presuppone dunque il soddisfacimento di determinati requisiti, che non si possono dire integrati. Pertanto, appare ad oggi prematuro parlare di uno Stato. L’eventuale formazione di un Paese dipenderà dal futuro scenario politico internazionale, in cui giocherà un ruolo importante il popolo palestinese e la sua capacità di generare una classe politica competente e preparata per intraprendere un percorso di pace e progresso.
(Shalom, 12 settembre 2025)
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Voci da Israele, oggi: Guerra e normalità o normalità della guerra? Occupazione o ostaggi?
di Anna Balestrieri
L’incontro organizzato dall’Associazione Italia Israele di Milano il 9 settembre 2025 ha offerto uno spaccato intenso e sfaccettato della realtà israeliana odierna, segnata da una guerra che sembra non conoscere tregua e da una società che si interroga sulla propria tenuta morale e politica. Guidati dalla moderazione di Davide Assael, Rav Michael Ascoli e Jonathan Sierra hanno intrecciato due registri differenti ma complementari: quello etico-filosofico e quello pragmatico-politico.
• La voce di Rav Michael Ascoli
Rav Ascoli ha posto al centro del suo intervento il peso morale che grava su Israele: la sofferenza dei civili palestinesi e la corrosione dell’anima israeliana sono, a suo avviso, due facce della stessa realtà. Il rabbino ha ricordato l’esistenza di un codice etico elevatissimo all’interno delle Forze di Difesa Israeliane, sottolineando tuttavia la difficoltà di mantenerlo in un contesto come Gaza, dove l’asimmetria del conflitto logora anche la coscienza.
Un punto forte della sua analisi è stata la denuncia della “normalizzazione” di fenomeni che fino a poco tempo fa sarebbero stati considerati inaccettabili: dal terrorismo dei coloni in Cisgiordania, sempre più tollerato e persino incoraggiato, all’attacco alle istituzioni democratiche israeliane – giustizia, stampa, società civile, scuola. Per Ascoli, Israele ha senso solo se resta fedele a diritto e giustizia: perdere questo ancoraggio significherebbe svuotare di senso l’intero progetto sionista.
• La voce di Jonathan Sierra
Se Rav Ascoli ha parlato in termini di principi, Sierra ha portato il terreno dell’analisi nella concretezza delle piazze, delle famiglie, delle cifre. Il suo intervento si è concentrato sulla questione degli ostaggi, cuore pulsante della società israeliana da quasi un anno.
Sierra ha ricordato i numeri – quante persone sono state liberate, quante uccise, quante rimangono in mano a Hamas – e ha descritto con forza la lacerazione che attraversa la società israeliana: da un lato chi sostiene la continuazione della guerra fino alla caduta di Hamas, dall’altro chi chiede un cessate il fuoco per salvare almeno chi è ancora vivo. Entrambe le opzioni, ha osservato, sono “lose-lose”: la vittoria militare rischia di coincidere con la morte degli ostaggi, mentre il negoziato può indebolire Israele sul piano strategico.
Sierra ha parlato anche delle manifestazioni antigovernative, molto più partecipate di quanto dicano i dati ufficiali, e delle divisioni interne alle famiglie degli ostaggi. Ha poi allargato lo sguardo ai rapporti con il mondo arabo e all’occasione mancata rappresentata da figure moderate come Salam Fayyad, rapidamente marginalizzate dalla scena politica palestinese.
• Punti di convergenza
Entrambi i relatori hanno insistito sul rischio di una deriva autoritaria e di una “guerra normalizzata”: uno Stato che perde i suoi principi etici o che misura la propria vittoria sul sacrificio dei più vulnerabili (gli ostaggi) è uno Stato che rischia di consumarsi dall’interno.
Non è mancata l’attenzione alle responsabilità esterne: la propaganda di Hamas che trova terreno fertile in Europa, l’influenza del Qatar nei media e nelle università, la difficoltà dell’Occidente a cogliere la minaccia iraniana. Allo stesso tempo, è stata sottolineata la necessità di guardare anche oltre l’Occidente, verso un dialogo con quei Paesi arabi che hanno già mostrato disponibilità al confronto pragmatico.
L’incontro ha restituito un’immagine complessa di Israele: un Paese che vive “tra guerra e normalità”, con cittadini che continuano a discutere, a manifestare, a cercare soluzioni mentre i missili cadono e gli ostaggi attendono. La domanda che ha attraversato la serata – occupazione o ostaggi? guerra o pace? – non ha trovato risposte definitive, ma ha messo a nudo l’urgenza di scelte che non possono essere rimandate.
Più che fornire soluzioni, Rav Ascoli e Jonathan Sierra hanno mostrato l’essenza stessa del dibattito israeliano: un intreccio di dolore, pragmatismo, memoria e speranza.
(Bet Magazine Mosaico, 12 settembre 2025)
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Omicidio Kirk, proiettili con “dedica” e balletti sui social per festeggiare il cecchinaggio
Sui social, sotto i post che ne parlano, è facile imbattersi anche in chi festeggia con balletti e musichette la sua morte. Dopo il ritrovamento del fucile il movente è sempre più chiaro.
di Pasquale Ferraro
Morire a trentuno anni in un campus universitario con la sola colpa di esercitare il proprio diritto alla libertà di espressione, dovrebbe accendere un campanello d’allarme in una società come quella americana dove la violenza politica non è una novità, e neanche un prodotto dell’attuale radicale contrapposizione che dal 2016 gli Stati Uniti vivono.
La storia politica americana è in parte una storia violenta, fatta di sangue, e di vittime spesso innocenti. Basta elencare tutti i presidenti caduti durante i loro mandato, la violenza della campagna elettorale del 1968 dove caddero Martin Luther King e Robert Kennedy, l’attentato a Reagan e la miriade di attentati sventati dal secret service e dalla FBI di cui forse non sapremo mai nulla. Del resto non è un mistero svelato da Hollywood quello della squadra dei servizi segreti chiamata a indagare e discernere le migliaia di minacce che ogni presidente riceve e capire quali siano il frutto di menti ottenebrate ma innocue e quali invece provengono da soggetti con l’indole di passare dalla semplice minaccia ai fatti. Non è un dettaglio che il sangue, quello di Abramo Lincoln abbia macchiato gli Stati Uniti dopo la fine del confitto interno che dilaniò la giovane nazione, segnando con il sangue l’unità ritrovata.
Il sangue che bagna le strade d’America non è una invenzione del cinema western, ma l’immagine priva di architettare romantiche e moderne di una nazione estrema nella sua più profonda interiorità. Per questo un certo stupore per l’emergere della violenza, se intimamente e umanamente legittimato, appare storicamente alquanto forzato. Se a questo si aggiunge il clima d’odio che da tempo promana da quegli stessi ambienti pronti ad inginocchiarsi per chiunque purché non corrisponda al profilo della vecchia America Wasp e neanche della giovane America latina, la spiegazione di come possa accadere quello che ieri è avvenuto alla Utah Valley University è evidente e purtroppo tristemente lontano dall’esaurirsi con questo ennesimo atto violento dall’epilogo drammatico.
E sbirciando i social alla notizia della morte di Charlie Kirk era facile imbattersi anche in chi festeggiava con balletti e musichette la morte di un uomo, di un padre di famiglia, bianco, cristiano, conservatore e etero sessuale. Il movente del delitto è sempre più chiaro, dopo il ritrovamento nella boscaglia intorno al campus del fucile – utilizzato per colpire a morte Kirk – e delle munizioni su cui erano incisi slogan antifascisti e di ideologia transgender.
Nessuno si inginocchierà per Charlie Kirk nei salotti televisivi, negli stadi e nelle competizioni olimpiche. E forse è giusto così, perché Charlie Kirk era figlio di una cultura che non ama inginocchiarsi se non davanti a Dio e che per le proprie idee è pronta a morire, ma in piedi, e cosi del resto Charlie è morto, non zittendo qualcuno, o impedendo la libertà di altri, ma dialogando, esercitando quella libertà che oggi è merce rara e diritto vietato a chi non si piega o inginocchia ad un pensiero unico che ha finito per annichilire anche quelle università un tempo – anche nei momenti più cupi e grami – isole di libertà. Morire cosi, per esercitare la propria libertà nel cuore di un’università è forse nella sua tremenda drammaticità il ritratto vivo, come fosse un Goya, dell’epoca che viviamo e come sosteneva il celebre artista spagnolo: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.
(Il Riformista, 12 settembre 2025)
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Netanyahu rende omaggio a Trump con una nuova passeggiata sul lungomare a Bat Yam
La città sulla costa mediterranea riceve la “Trump Promenade”, un chiaro segnale politico.
Il 10 settembre, a Bat Yam, è stata posata con una cerimonia solenne la prima pietra di una nuova passeggiata sul lungomare, che in futuro porterà il nome di “Trump Promenade”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il presidente degli Stati Uniti Donald Trump “il miglior amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”.
Netanyahu ha ricordato che Trump ha sottolineato più volte l'importanza delle regioni costiere di Israele. In particolare, la Striscia di Gaza, situata a sud, dovrebbe essere, secondo Netanyahu, alludendo alle parole dell'ex presidente degli Stati Uniti, un luogo di pace, prosperità e buona vita, e non un luogo di terrore.
Alla cerimonia erano presenti anche l'ambasciatore statunitense Mike Huckabee, il sindaco di Bat Yam Tzvika Brot e i membri del consiglio comunale. Netanyahu ha invitato il sindaco a intitolare ufficialmente il lungomare a Trump.
Nel suo discorso, il primo ministro ha elogiato diverse decisioni di Trump che, a suo avviso, hanno rafforzato l'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti: il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme e il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan, il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo nucleare con l'Iran e il deciso sostegno a Israele nella lotta contro l'Iran e Hamas. Netanyahu ha anche sottolineato l'impegno di Trump per il rilascio degli ostaggi israeliani.
La nuova passeggiata a Bat Yam fa parte di un più ampio piano di sviluppo costiero volto ad aumentare l'attrattiva della regione. Con la scelta del nome, la città vuole anche lanciare un segnale politico: ricorda un presidente americano che, agli occhi di molti israeliani, ha preso decisioni storiche a favore dello Stato ebraico. Netanyahu ha approfittato della cerimonia per sottolineare ancora una volta che queste misure hanno rafforzato in modo duraturo l'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti.
(Israel Heute, 12 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Aggressione antisemita (con rottweiler) al grido di “Free Palestine”
VENEZIA - Nella notte tra 7 e l’8 settembre una coppia di ebrei – lui americano, lei israeliana – è stata aggredita a Venezia da una decina di cittadini nordafricani al grido di “Free Palestine”. Nel gruppo di aggressori, subito fermati dalle forze dell’ordine e in parte identificati, c’è chi avrebbe aizzato contro la coppia il proprio rottweiler privo di museruola e lanciato una bottiglia di vetro. Tra le ipotesi di reato, mentre sono scattate le prime denunce, ci sono minaccia aggravata dall’istigazione o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. L’episodio è avvenuto nelle vicinanze di un chiosco in Strada Nuova.
Già ad agosto una coppia di ebrei americani aveva denunciato un’aggressione con modalità simili. Per la Comunità ebraica veneziana, che in una nota definisce l’atto “vile” e “ignobile”, fatti come questo «ci interrogano sul ruolo di Venezia città dell’accoglienza, mentre emerge un clima di intolleranza che oggi colpisce tutta la collettività». Allo stesso tempo la Comunità riconosce «il ruolo fondamentale delle istituzioni» e l’impegno delle forze dell’ordine «nella tutela di ogni libertà contro ogni forma di discriminazione».
(moked, 11 settembre 2025)
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Israele piange Charlie Kirk
Il commentatore cristiano conservatore era una voce decisa a favore di Israele. Netanyahu: Abbiamo perso un “amico coraggioso”.
di Ryan Jones
Il commentatore e attivista cristiano evangelico americano Charlie Kirk è stato assassinato mercoledì durante un discorso in un evento pubblico, provocando immediatamente un'ondata di cordoglio in Israele e nella comunità ebraica americana.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito Kirk un “coraggioso amico di Israele” che “ha combattuto le menzogne e ha difeso con fermezza la civiltà giudaico-cristiana”. Bibi ha detto di aver parlato con Kirk solo poche settimane fa e di averlo invitato a visitare Israele. “Purtroppo questa visita non avrà luogo”.
Pochi minuti dopo la sparatoria alla Utah Valley University, mentre le équipe mediche lottavano ancora per salvare la vita di Kirk, Netanyahu ha twittato che pregava per il cristiano, così come molti altri membri del suo gabinetto.
L'ambasciatore israeliano all'ONU Danny Danon ha pianto la perdita di un “amico e leader straordinario. La sua voce unica ha influenzato molti giovani negli Stati Uniti e ha lasciato un segno indelebile su un'intera generazione”.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha osservato che Kirk era stato uno dei pochi ad avere il coraggio di mettere pubblicamente in guardia dalla pericolosa “collaborazione tra la sinistra globale e l'Islam radicale”. Ben-Gvir ha ringraziato Kirk “per il tuo sostegno a Israele e per aver lottato per un mondo migliore”.
Charlie Kirk era diventato molto famoso in Israele negli ultimi anni per aver affrontato pubblicamente e discusso con attivisti filopalestinesi e sostenitori di Hamas.
Anche la comunità ebraica americana ha pianto la perdita di una voce cristiana così forte.
L'American Jewish Committee ha dichiarato di essere “profondamente sconvolto e indignato per l'omicidio di Charlie Kirk”.
La Republican Jewish Coalition ha descritto Kirk come un “caro amico” del popolo ebraico e “una luce splendente in questi tempi difficili per la comunità ebraica americana”.
La Coalition for Jewish Values ha sottolineato che l'omicidio non è stato un atto insensato, ma un “omicidio calcolato per mettere a tacere una delle voci più potenti d'America a favore della moralità e della verità”.
StandWithUS ha scritto di essere “profondamente grato per il sostegno impegnato di Charlie a Israele e al popolo ebraico, nonché per la sua chiara opposizione all'antisemitismo”.
(Israel Heute, 11 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Graffiti e feci, ulteriori attacchi alle sinagoghe nel mondo
In un quartiere di Londra con una vasta comunità ebraica, ignoti hanno spalmato escrementi sui muri e sul citofono di una sinagoga. Mentre in un sobborgo di Chicago un individuo non identificato ha imbrattato il parcheggio di una sinagoga con un simbolo fallico e la scritta “hate jews” su una parete dell’edificio.
di David Fiorentini
La crescente ondata di antisemitismo che sta colpendo l’Europa e il mondo occidentale non accenna a fermarsi. Dalla violenza verbale online agli episodi di vandalismo contro luoghi di culto ebraici, si moltiplicano i segnali di un clima di odio che desta forte preoccupazione nelle comunità e nelle istituzioni.
A Golders Green, un quartiere di Londra con una vasta comunità ebraica, ignoti hanno spalmato escrementi sui muri e sul citofono di una sinagoga. La polizia metropolitana ha confermato l’apertura di un’indagine per “danno criminale aggravato da motivazioni religiose”, ma senza ancora aver rintracciato i responsabili.
Nello stesso periodo, sull’altra sponda dell’Atlantico, la polizia di un sobborgo di Chicago sta cercando l’autore di un altro atto vandalico di matrice antisemita compiuto il 31 agosto presso la sinagoga Or Shalom di Vernon Hills. Intorno alle 20:30, un individuo non identificato ha imbrattato il parcheggio con un simbolo fallico e la scritta “hate jews” (“odio gli ebrei”) su una parete dell’edificio.
Ciò nonostante, dalle Comunità colpite traspare ancora resilienza e speranza, a partire dalle parole del rabbino americano Ari Margolis.
“L’atto codardo di chi ha imbrattato le nostre mura per farci sentire soli e impauriti sta avendo l’effetto opposto”, ha commentato su Facebook. “Sto ricevendo messaggi da tante persone, da leader religiosi, membri della comunità, polizia locale e politici: tutti ci dicono che quelle scritte non parlano a loro nome, che restano al nostro fianco e difendono il nostro diritto a essere noi stessi e a radunarci in sicurezza. Questo gesto, che voleva essere una maledizione, si sta trasformando in una benedizione grazie all’amore che ci state dimostrando”.
(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2025)
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L’Europa sanziona Israele, ma non può fare a meno delle sue armi
di Sarah G. Frankl
Tra scene di distruzione e fame a Gaza e il bombardamento di questa settimana in Qatar, i leader europei minacciano sanzioni contro Israele e stanno riconsiderando i legami con il loro miglior alleato in Medio Oriente.
Ma nonostante tutta la loro indignazione – compresa la spinta alla creazione di uno Stato palestinese e alcune limitate restrizioni alla vendita di armi – un settore che non hanno toccato è quello dell’industria della difesa israeliana, che vale miliardi di dollari. Gli eserciti europei sono i maggiori acquirenti di armi e sistemi di difesa di fabbricazione israeliana, con un valore di 8 miliardi di dollari (6,8 miliardi di euro) lo scorso anno, pari a poco più della metà delle esportazioni, e la domanda è destinata a crescere.
Sotto la spinta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i membri della NATO in Europa si sono impegnati ad aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035, rispetto al requisito del 2% in vigore dal 2014, un obiettivo che ha assunto maggiore urgenza dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Questo obiettivo potrebbe essere difficile da raggiungere senza Israele, le cui tre maggiori aziende del settore della difesa sono profondamente integrate nelle loro economie e nelle catene di approvvigionamento militare.
“Il sentimento nei confronti di Israele può essere negativo, ma i clienti in Europa e altrove cercano di acquistare i migliori prodotti possibili e non si può ignorare il fatto che i sistemi israeliani sono collaudati in combattimento”, ha affermato Elad Kraus, responsabile della ricerca presso la Meitav Brokerage Services Ltd. con sede a Tel Aviv. “Sarebbe difficile esercitare pressioni su Israele attraverso le sue industrie della difesa, vista la domanda globale alle stelle”.
I tre giganti della difesa israeliani – Elbit Systems Ltd., Rafael Advanced Defense Systems Ltd. e Israel Aerospace Industries – non vendono solo in Europa, ma operano sul territorio attraverso filiali e partnership con aziende locali. Secondo due alti funzionari della difesa israeliani che hanno parlato a condizione di rimanere anonimi, indipendentemente dall’opinione pubblica contraria a Israele, il vecchio continente continuerà probabilmente ad acquistare i prodotti da Israele.
Questa dipendenza complica gli sforzi europei per persuadere Israele a porre fine o almeno a sospendere la sua campagna a Gaza, iniziata dopo la sanguinosa invasione dei terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. Da allora l’offensiva israeliana ha distrutto gran parte della Striscia, sfollando quasi tutti i suoi 2 milioni di abitanti.
In tutto l’Occidente si sono svolte manifestazioni contro la condotta di Israele nella guerra, con alcuni che hanno specificatamente chiamato in causa gli appaltatori della difesa del Paese. Gli stabilimenti europei di proprietà delle aziende di difesa israeliane sono stati vandalizzati, compreso lo stabilimento di Elbit a Ulm, in Germania.
Gli incidenti verificatisi presso gli stabilimenti Elbit nel Regno Unito sono stati attribuiti al gruppo di protesta Palestinian Action, che il governo del primo ministro Keir Starmer ha etichettato come organizzazione terroristica nel mese di luglio. Ciò ha portato l’azienda israeliana a mantenere segrete alcune delle sue sedi nell’Unione Europea.
Elbit gestisce 40 filiali in tutto il mondo, di cui almeno la metà in Europa, secondo un portavoce. Gli stabilimenti nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Romania sono stati recentemente ampliati a causa della crescente domanda. L’azienda con sede ad Haifa impiega circa 2.000 lavoratori in tutto il continente, pari a circa il 10% della sua forza lavoro, e gestisce una scuola di volo in Grecia che forma cadetti provenienti da diversi paesi dell’Unione Europea.
L’anno scorso, le vendite di Elbit in Europa sono raddoppiate rispetto al 2021, raggiungendo 1,8 miliardi di dollari. Ad agosto, l’azienda ha annunciato il più grande accordo della sua storia: un contratto da 1,6 miliardi di dollari con un paese europeo non specificato per un periodo di cinque anni.
L’azienda statale israeliana Rafael, nota per i suoi sistemi di difesa missilistica Iron Dome e Iron Beam basato su laser, vende e produce missili attraverso la joint venture tedesca Euro Spike GmbH, in collaborazione con Diehl Defense e Rheinmetall Group. Lo scorso anno, i ricavi di Rafael sono stati equamente suddivisi tra il mercato interno e quello globale, con l’Europa che ha rappresentato il 45% delle sue vendite internazionali.
Rafael sta lavorando per costituire altre joint venture in Germania: Euro Dome, per il sistema di difesa missilistica Iron Dome, ed Euro Spyder, per il suo sistema di difesa aerea mobile a corto e lungo raggio.
La decisione del cancelliere tedesco Friedrich Merz del mese scorso di vietare la spedizione di armi che potrebbero essere utilizzate a Gaza ha dimostrato quanto stia crescendo l’opposizione europea alla condotta di Israele. Tuttavia, le restrizioni, che riguardavano i pezzi di ricambio per i carri armati e altri beni legati alla difesa, si applicavano solo alle esportazioni e non alle importazioni o ad altre collaborazioni.
L’impatto è stato ulteriormente attenuato questa settimana con l’emergere dei piani tedeschi di acquistare tre droni Heron da Israele per quasi 1 miliardo di euro.
Tuttavia, c’è stata una certa opposizione al boom del commercio di armi. Due funzionari israeliani hanno riferito a Bloomberg che recentemente alcuni ministeri degli Esteri europei hanno chiesto ai responsabili degli acquisti di sospendere gli acquisti da Israele fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza.
Un funzionario del ministero della Difesa israeliano, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto che i suoi omologhi in Europa gli stanno dicendo di porre fine alla guerra in modo che sia più facile continuare gli affari.
Un alto dirigente di una delle più grandi aziende israeliane nel settore della difesa, parlando anch’egli in forma anonima, ha affermato che un numero crescente di clienti europei sta chiedendo che i colloqui sui futuri ordini siano tenuti segreti. Ma un secondo alto dirigente ha sostenuto che i processi di approvvigionamento sono lunghi e non saranno influenzati da quello che ha definito un problema temporaneo.
Un’altra azienda di proprietà del governo israeliano, la IAI, co-sviluppatrice e produttrice del sistema di difesa aerea Arrow, ha ricavato i due terzi dei ricavi dello scorso anno dalle vendite all’estero. L’affare più grande mai concluso dall’azienda è stata la vendita del sistema Arrow 3 alla Germania nel 2023 per circa 4,3 miliardi di dollari.
Come Elbit e Rafael, anche IAI sta cercando di espandere le proprie operazioni sul territorio europeo. Lo scorso anno ha acquisito la greca Intracom Defense “per rafforzare le proprie capacità commerciali in Grecia e in Europa”, secondo una dichiarazione della società.
“Nonostante il clamore globale contro Israele, il ritmo degli ordini da Rafael è aumentato di anno in anno”, ha dichiarato l’amministratore delegato Yedidia Yaari al quotidiano economico israeliano Calcalist il 28 agosto. “Non è stato cancellato nemmeno un progetto o un ordine. Anche se alcuni progetti hanno subito un leggero rallentamento, ritengo che, una volta terminata la guerra a Gaza, torneremo molto rapidamente alla normalità”.
(Rights Reporter, 11 settembre 2025)
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Lo Sheba Medical Center è tra gli ospedali più ‘smart’ al mondo
di Jacqueline Sermoneta
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Lo Sheba Medical Center
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Tecnologie all’avanguardia, imaging digitale, telemedicina, robotica e Intelligenza Artificiale nel settore sanitario. Lo Sheba Medical Center di Tel HaShomer si posiziona al nono posto nella prestigiosa classifica degli ospedali più ‘intelligenti’ al mondo, ‘World’s Best Smart Hospitals 2026’, sottolineando la leadership d’Israele anche nel campo dell’assistenza sanitaria. A stilare l’elenco, il settimanale statunitense ‘Newsweek’ in collaborazione con Statista.
Il ranking si basa sulla valutazione di 350 eccellenze ospedaliere in tutto il mondo in base a criteri come l’implementazione di tecnologie mediche avanzate. La Mayo Clinic a Rochester, Minnesota, è al primo posto, seguita da altri sette ospedali statunitensi. Solo altri due centri sono riusciti a entrare nella top 10: lo Sheba Medical Center in Israele e il Charité – Universitätsmedizin Berlin in Germania.
Presenti nella lista anche altre quattro eccellenze ospedaliere israeliane, oltre allo Sheba: Tel Aviv Sourasky Medical Center (125mo posto), Hadassah Ein Kerem (171), Rambam Health Care Campus (254) e Rabin Medical Center (270).
“Il riconoscimento della rivista Newsweek sottolinea il ruolo del sistema sanitario come forza creativa, guida ed esempio – ha affermato il Prof. Yitshak Kreiss, direttore dello Sheba Medical Center. – L’innovazione medica di Sheba e la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale che stiamo guidando nel settore sanitario, non sono solo una risorsa nazionale, ma anche potenti motori di crescita per la società e l’economia israeliane e la prova che il futuro di Israele risiede nella sua creatività e nella sua eccellenza”
Lo Sheba ha recentemente collaborato con Paradigm Health per sviluppare una piattaforma basata sull’Intelligenza Artificiale per la gestione degli studi clinici. L’iniziativa mira a snellire il processo di fattibilità dei trial, semplificare l’arruolamento dei pazienti, monitorando i dati clinici, e aumentare l’accesso a trattamenti sperimentali all’avanguardia. Sheba prevede che entro due anni la piattaforma aumenterà le sperimentazioni cliniche internazionali di oltre il 50%, attirando significativi investimenti globali e offrendo ai pazienti un accesso più rapido a terapie personalizzate.
(Shalom, 11 settembre 2025)
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La resa dei conti a Doha
di Gregg Roman
Le esplosioni che hanno infranto la calma mattutina nel distretto di Katara a Doha il 9 settembre 2025 hanno segnato il ripristino della chiarezza morale nella guerra. Per quasi due anni, dai massacri del 7 ottobre, la leadership di Hamas aveva orchestrato il genocidio dalla comodità dei lussuosi hotel del Qatar, protetta dalla finzione dell’immunità diplomatica e dallo scudo di un presunto alleato americano. L’attacco preciso di Israele contro questi architetti del terrore rappresenta l’applicazione di un principio antico quanto la giustizia stessa: chi pianifica un omicidio di massa non può rivendicare asilo in nessuna parte del mondo.
L’operazione è stata pulita. Professionale. Necessaria. E avrebbe dovuto essere portata a compimento anni fa.
Le guerre finiscono quando una delle due parti perde la volontà o la capacità di continuare a combattere. Per Hamas, questo calcolo è stato distorto dalla concessione da parte del Qatar di un santuario extraterritoriale dove la sua leadership poteva dirigere le operazioni, gestire le finanze e pianificare attacchi rimanendo fisicamente lontana dalle conseguenze. Questo vantaggio – in base al quale Khalil al-Hayya, Khaled Mashal e i loro luogotenenti hanno potuto assistere allo svolgersi del 7 ottobre in televisione dagli attici di Doha, mentre le famiglie israeliane bruciavano vive nelle loro case – rappresenta una perversione sia della guerra che della diplomazia che nessuna nazione civile dovrebbe tollerare.
Il principio in gioco trascende le immediate preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza. Quando il Qatar si è trasformato in un centro di comando a cinque stelle per il terrorismo, ha sfidato l’architettura fondamentale dell’ordine internazionale. Il sistema post-westfaliano presuppone che gli Stati non forniscano sedi operative a gruppi dediti alla distruzione genocida di altri Stati. L’accoglienza di Hamas da parte del Qatar dal 2012 ha infranto questo presupposto, creando un precedente in base al quale le nazioni ricche potevano sponsorizzare il terrorismo mantenendo rispettabilità diplomatica attraverso ambiguità strategiche e leva energetica.
Si consideri la grottesca asimmetria: mentre i combattenti di Hamas usavano i civili di Gaza come scudi umani nei tunnel sotto gli ospedali, la loro leadership politica godeva della protezione della sicurezza dello Stato del Qatar. Mentre i riservisti israeliani abbandonavano le loro famiglie per mesi di guerriglia urbana, i decisori di Hamas tenevano conferenze stampa da sale da ballo climatizzate di hotel. Mentre i civili palestinesi a Gaza soffrivano sotto il brutale governo di Hamas e la risposta militare di Israele, i principali responsabili di questa sofferenza rimanevano intoccabili nelle loro case sicure di Doha.
Questa biforcazione di responsabilità – in cui coloro che ordinano atrocità rimangono immuni dalle loro conseguenze – corrompe il concetto stesso di guerra. Incentiva la massima violenza con il minimo rischio personale, creando rischi morali su scala di civiltà. L’attacco di Israele ha ripristinato il principio secondo cui la leadership implica vulnerabilità, e che coloro che scelgono la guerra devono condividerne i pericoli.
Da una prospettiva puramente militare, il quartier generale di Hamas a Doha rappresentava quello che Carl von Clausewitz avrebbe definito un “centro di gravità”: una fonte di forza la cui eliminazione altera radicalmente le dinamiche del conflitto. L’ufficio svolgeva molteplici funzioni cruciali che hanno sostenuto la capacità bellica di Hamas molto tempo dopo che la sua infrastruttura militare a Gaza era stata decimata.
In primo luogo, forniva capacità di comando e controllo impossibili da mantenere nelle condizioni di assedio a Gaza. Comunicazioni sicure, trasferimenti finanziari criptati, coordinamento diplomatico con i delegati iraniani: tutto ciò richiedeva l’infrastruttura tecnologica e la protezione politica che solo uno Stato sponsor poteva fornire. Ogni razzo lanciato da Gaza, ogni tunnel scavato sotto il Corridoio di Filadelfia, ogni video di ostaggi diffuso per tormentare le famiglie israeliane risaliva a decisioni prese e a risorse stanziate da Doha.
In secondo luogo, l’ufficio di Doha ha permesso a Hamas di mantenere la finzione della legittimità politica pur perseguendo obiettivi genocidi. Trattando i funzionari di Hamas come rappresentanti diplomatici piuttosto che come comandanti terroristi, il Qatar ha permesso loro di interagire con utili idioti nelle capitali occidentali, organi di stampa favorevoli e organizzazioni internazionali che altrimenti li avrebbero evitati. Questa legittimità si è tradotta direttamente in vantaggi operativi: approvvigionamento di armi sotto copertura diplomatica, reclutamento attraverso reti “umanitarie” e diffusione di propaganda attraverso canali rispettabili.
In terzo luogo, e forse il punto più critico, la protezione del Qatar ha permesso a Hamas di preservare la sua leadership dall’attrito che tipicamente degrada le organizzazioni terroristiche nel tempo. Mentre Israele eliminava sistematicamente i comandanti di Hamas a Gaza – da Mohammed Deif a Marwan Issa – il cervello strategico dell’organizzazione è rimasto intatto a Doha, garantendo la continuità della pianificazione e della memoria istituzionale. Questo accordo ha reso funzionalmente impossibile sconfiggere Hamas solo con mezzi militari, poiché l’organizzazione poteva semplicemente recuperare le perdite tattiche, mentre la sua leadership strategica rimaneva intoccabile.
L’attacco del 9 settembre ha infranto questa garanzia di protezione. Dimostrando che i leader di Hamas sono vulnerabili persino nel cuore di una ricca capitale del Golfo, Israele ha ripristinato l’elemento di rischio personale che limita il comportamento estremista. Il messaggio è inequivocabile: scegli il terrore e scegli di vivere come un bersaglio, indipendentemente dal governo che ti offre rifugio.
La finzione secondo cui il Qatar svolgerebbe il ruolo di mediatore neutrale nel conflitto israelo-palestinese si è completamente dissolta dopo il 7 ottobre. Le prove della trasformazione di Doha da facilitatore diplomatico a promotore attivo del terrorismo sono debordanti e schiaccianti.
Iniziamo dalla dimensione finanziaria. Dal 2012, il Qatar ha trasferito circa 1,8 miliardi di dollari a Gaza, con pagamenti mensili in contanti di 30 milioni di dollari che sono proseguiti fino alla vigilia del 7 ottobre. I funzionari del Qatar hanno insistito sul fatto che questi fondi servissero a scopi umanitari: pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, fornire aiuti alle famiglie povere, acquistare carburante per la produzione di energia. Eppure, l’intelligence israeliana ha documentato il dirottamento sistematico di questi fondi verso l’ala militare di Hamas, con valutazioni dello Shin Bet che indicano che milioni di dollari sono andati direttamente alle Brigate Qassam per l’acquisto di armi e la costruzione di tunnel.
L’accordo funzionava con un cinismo sbalorditivo. Valige letteralmente piene di denaro contante arrivavano ai valichi di Erez e Kerem Shalom, dove i funzionari israeliani le ispezionavano prima di autorizzarne il trasferimento a Gaza. Questo teatro kabuki – dove Israele facilitava il finanziamento dei propri nemici per mantenere una separazione strategica tra Gaza e la Cisgiordania – rappresentava un catastrofico fallimento dell’intelligence che il 7 ottobre ha smascherato col sangue.
Ma il sostegno del Qatar si è esteso ben oltre il mero finanziamento. L’emirato ha fornito a Hamas sofisticate infrastrutture tecnologiche che ne hanno potenziato le capacità militari. Esperti israeliani di sicurezza informatica hanno documentato gli investimenti del Qatar nei sistemi di comunicazione criptati utilizzati nelle reti di tunnel di Hamas, consentendo operazioni di comando e controllo che sarebbero impossibili in condizioni di blocco. Hamas ha utilizzato il sistema bancario del Qatar per riciclare fondi attraverso transazioni in criptovaluta, i suoi aeroporti per coordinarsi con i fornitori di armi iraniani e i suoi hotel per condurre attività di reclutamento e raccolta fondi da donatori solidali in tutto il mondo.
Ancora più perniciosamente, la rete qatariota Al Jazeera ha svolto il ruolo di braccio propagandistico globale di Hamas. Documenti sequestrati dalle forze israeliane hanno rivelato comunicazioni dirette tra i comandanti di Hamas e i produttori di Al Jazeera, con la rete che impiegava diversi agenti di Hamas e della Jihad islamica palestinese come “giornalisti”. Durante il 7 ottobre e nei giorni successivi, Al Jazeera Arabic ha glorificato gli attacchi definendoli “resistenza”, ha definito i civili assassinati “coloni” e ha sistematicamente soppresso i filmati delle atrocità di Hamas, amplificando al contempo le accuse di violazioni israeliane. Questa infrastruttura mediatica si è rivelata preziosa nel plasmare l’opinione pubblica internazionale, in particolare nel mondo arabo, dove la portata di Al Jazeera supera quella di qualsiasi canale occidentale.
La risposta del governo del Qatar al 7 ottobre ha rivelato le sue vere alleanze. Mentre il mondo guardava le immagini dei terroristi di Hamas che davano la caccia alle famiglie al festival musicale Nova, il Ministero degli Esteri del Qatar ha incolpato Israele per l’escalation. Il portavoce Majed Al-Ansari ha elogiato il “lancio di 3.000 razzi in 10 giorni” da parte di Hamas e ha descritto Gaza come “il primo territorio palestinese liberato dall’occupante”. Anche mentre aumentavano le prove dell’uso sistematico dello stupro da parte di Hamas come arma di guerra, di bambini bruciati vivi nei loro letti, di sopravvissuti all’Olocausto giustiziati nelle loro case, il Qatar si è rifiutato di condannare gli attacchi o di prendere in considerazione l’espulsione dei leader di Hamas.
Questa non era neutralità. Era complicità.
I dettagli operativi dell’attacco del 9 settembre rimangono secretati, ma un’analisi approfondita suggerisce un capolavoro di coordinamento dell’intelligence ed esecuzione tattica. La sfida era ardua: eliminare obiettivi di alto valore nel centro di una capitale ostile, protetta dai servizi di sicurezza statali, senza creare una crisi diplomatica più ampia o vittime civili che avrebbero minato la legittimità dell’operazione.
La costruzione della base di intelligence ha richiesto probabilmente mesi. Le reti di intelligence umane del Mossad avrebbero reclutato risorse all’interno della comunità di espatriati palestinesi del Qatar, nei settori dei servizi che supportano i leader di Hamas e potenzialmente all’interno dello stesso apparato di sicurezza del Qatar. Ogni schema di movimento, protocollo di sicurezza e programma di riunioni è stato mappato con meticolosa precisione.
La raccolta di informazioni tecniche ha integrato le fonti umane. Le intercettazioni dei segnali delle comunicazioni dei leader di Hamas, nonostante la crittografia fornita dal Qatar, hanno rivelato i piani di raduno. La sorveglianza satellitare ha monitorato i veicoli e identificato i luoghi di raduno. Le operazioni informatiche potrebbero aver penetrato i sistemi di pianificazione o le reti di comunicazione per confermare la presenza di obiettivi in luoghi e orari specifici.
L’attacco in sé sembra avere applicato la dottrina israeliana della “prevenzione mirata”: l’eliminazione chirurgica della leadership terroristica con danni collaterali minimi. I sistemi d’arma utilizzati – probabilmente munizioni a guida di precisione lanciati da aerei stealth o piattaforme navali nel Golfo – sarebbero stati selezionati per la loro capacità di neutralizzare obiettivi in ambienti urbani, limitando al contempo il raggio d’azione dell’esplosione. La tempistica, metà pomeriggio nel distretto di Katara, suggerisce uno sforzo deliberato per ridurre al minimo la presenza civile.
Ma la vera complessità non risiede nell’operazione cinetica, bensì nella preparazione strategica. Israele ha previsto la risposta del Qatar, la condanna internazionale e la potenziale ritorsione iraniana. Un lavoro diplomatico con gli stati arabi favorevoli, in particolare quelli che considerano i gruppi affiliati ai Fratelli Musulmani come Hamas una minaccia esistenziale, ha garantito il sostegno regionale o almeno l’acquiescenza. Sono state preparate e diffuse giustificazioni legali basate sul principio di autodifesa del diritto internazionale. Ancora più critico, la tempistica – dopo quasi due anni di negoziati falliti e la continua intransigenza di Hamas – ha creato uno spazio politico per un’azione che sarebbe stata impossibile subito dopo il 7 ottobre.
Il successo dell’operazione invia un messaggio cruciale all’Iran e alla sua rete di delegati: l’era della leadership terroristica intoccabile è finita. Proprio come Israele ha eliminato la struttura di comando di Hezbollah in Libano e gli scienziati nucleari iraniani a Teheran, ora ha dimostrato la capacità e la volontà di colpire Hamas ovunque si riuniscano i suoi leader.
L’attacco di Doha accelera i riallineamenti fondamentali già in corso in Medio Oriente dal 7 ottobre. Il più significativo è il crollo della posizione attentamente costruita dal Qatar come mediatore indispensabile della regione. Per oltre un decennio, Doha ha sfruttato il suo rapporto con Hamas per inserirsi in ogni crisi, posizionandosi come l’unico attore in grado di portare tutte le parti al tavolo dei negoziati. Questo monopolio sulla mediazione ha creato una struttura di incentivi perversa: più Hamas provocava conflitti, più il Qatar diventava essenziale per la loro risoluzione.
L’attacco infrange questa dinamica. Dimostrando che ospitare Hamas comporta costi inaccettabili, Israele ha costretto gli attori regionali a riconsiderare i propri rapporti con le organizzazioni terroristiche. Già vediamo segni di questo ripensamento. La Turchia, che si era posizionata come un rifugio alternativo per la leadership di Hamas, ora comprende che offrire rifugio significa accettare la vulnerabilità. L’Iran, che assiste al sistematico smantellamento della sua architettura per procura dal Libano alla Siria a Gaza, deve rivalutare se il rifiuto palestinese di Israele valga ancora l’investimento.
Ancora più significativo, l’attacco rafforza la posizione degli stati arabi che hanno scelto la normalizzazione al posto del nichilismo. I paesi firmatari degli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan – vedono convalidata la loro scommessa strategica. L’Arabia Saudita, che sta ancora calibrando il suo approccio nei confronti di Israele, riceve la conferma che il massimalismo palestinese non deve necessariamente dettare la diplomazia regionale. Egitto e Giordania, stremati da decenni di rifiuto palestinese, ottengono la leva per chiedere la completa capitolazione di Hamas come prerequisito per la ricostruzione.
L’Autorità Nazionale Palestinese, paradossalmente, ne esce rafforzata. Per anni, la leadership esterna di Hamas ha minato i tentativi dell’Autorità Nazionale Palestinese di una diplomazia pragmatica, offrendo un’alternativa di rifiuto, sostenuta dalla ricchezza del Qatar e dalle armi iraniane. Con la struttura di comando di Hamas decimata e i suoi rifugi sicuri eliminati, l’Autorità Nazionale Palestinese diventa l’unico interlocutore palestinese valido, costringendo a un consolidamento della rappresentanza palestinese a lungo atteso.
All’interno di Gaza, la presa di Hamas si indebolisce ogni giorno di più. La promessa dell’organizzazione – che la fermezza e la resistenza avrebbero portato alla vittoria – giace sepolta sotto le macerie di un territorio devastato. Con la sua leadership esterna eliminata o dispersa, la sua rete di tunnel distrutta, le sue armi esaurite e il suo sostegno popolare eroso sotto il peso di perdite catastrofiche, Hamas si confronta con la realtà che la sua guerra di estinzione contro Israele è diventata un percorso verso la sua stessa eliminazione.
I critici si chiederanno inevitabilmente: perché ora? Perché non subito dopo il 7 ottobre, quando la solidarietà internazionale per Israele era al suo apice? O perché non aspettare una risoluzione negoziata che avrebbe potuto garantire il rilascio degli ostaggi? La risposta rivela la pazienza strategica che ha sempre caratterizzato le operazioni di maggior successo di Israele.
Una rappresaglia immediata dopo il 7 ottobre sarebbe apparsa emotiva, potenzialmente minando la legittimità della risposta di Israele. Il mondo aveva bisogno di tempo per digerire la piena portata delle atrocità di Hamas, per capire che non si trattava di un altro round di conflitto limitato, ma di un tentativo di genocidio. Israele aveva bisogno di tempo per presentare la sua tesi, per dimostrare buona fede accettando pause umanitarie e tentativi di negoziazione, per dimostrare che l’azione militare non era la sua prima scelta, ma l’ultima risorsa.
I due anni trascorsi dal 7 ottobre hanno rappresentato un periodo cruciale per lo sviluppo dell’intelligence. I leader di Hamas, inizialmente cauti, hanno gradualmente ripreso i normali schemi di movimento e di incontro. È subentrata la compiacenza. I protocolli di sicurezza sono stati allentati. La convinzione che la protezione del Qatar fosse inviolabile ha creato vulnerabilità che un paziente lavoro di intelligence avrebbe potuto sfruttare.
Ma soprattutto, l’intransigenza di Hamas ha creato lo spazio politico per l’azione. Ogni proposta di cessate il fuoco respinta, ogni richiesta impossibile di un ritiro completo da parte di Israele, ogni video di propaganda di ostaggi in cattività hanno rafforzato la tesi dell’inutilità dei negoziati. Persino i sostenitori apparenti di Hamas si sono stancati del suo massimalismo. Quando la Lega Araba ha rilasciato la sua dichiarazione senza precedenti nel luglio 2025, chiedendo ad Hamas di disarmarsi e abbandonare il potere – firmata dallo stesso Qatar – l’isolamento dell’organizzazione è stato totale.
La tempistica riflette anche dinamiche regionali più ampie. Con l’Iran indebolito dagli attacchi israeliani al suo programma nucleare, la leadership di Hezbollah decimata e Assad in Siria rovesciato, Hamas ha perso la sua profondità strategica. L'”asse di resistenza” che avrebbe potuto reagire all’attacco di Doha non esiste più come forza coerente. La Russia, preoccupata per l’Ucraina, non può fornire protezione diplomatica. La Cina, concentrata su Taiwan, non spenderà capitali per difendere il rifiuto palestinese di Israele.
In questo contesto, il 9 settembre 2025 non era solo un momento accettabile, ma anche ottimale.
L’attacco di Doha impone un dibattito, da tempo atteso, sulla sovranità nell’era del terrorismo. Il principio westfaliano di sovranità assoluta entro i confini presuppone che gli Stati non utilizzino il proprio territorio per muovere guerra ad altri Stati. Quando una nazione fornisce quartier generale, finanziamenti e protezione a un’organizzazione dedita alla distruzione di un’altra nazione, rinuncia al suo diritto all’inviolabilità.
Il Qatar vuole avere entrambe le cose: ospitare la più grande base militare americana in Medio Oriente e allo stesso tempo dare rifugio a coloro che vorrebbero distruggere gli alleati degli Stati Uniti; partecipare alle istituzioni internazionali agevolando coloro che rifiutano il diritto internazionale; e rivendicare l’immunità diplomatica, favorendo coloro che prendono di mira i diplomatici. Questo approccio schizofrenico alla sovranità – in cui la protezione è assoluta quando conveniente e permeabile quando redditizia – non può reggere.
Il diritto internazionale riconosce questo principio. La Risoluzione 1373 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, vincolante per tutti gli Stati membri, incluso il Qatar, impone ai paesi di “negare rifugio sicuro a coloro che finanziano, pianificano, sostengono o commettono atti terroristici”. La Convenzione Internazionale per la Repressione del Finanziamento del Terrorismo obbliga gli Stati a impedire che il loro territorio venga utilizzato per scopi terroristici. Secondo qualsiasi ragionevole interpretazione di questi obblighi, l’accoglienza di Hamas da parte del Qatar ha costituito una violazione sostanziale che richiedeva misure coercitive.
Gli Stati Uniti, che mantengono 11.000 soldati nella base aerea di Al Udeid in Qatar, si trovano ad affrontare un rischio morale particolare. Le forze americane garantiscono la sicurezza di un regime che ospita coloro che uccidono cittadini americani: sei americani sono morti il 7 ottobre e altri rimangono in ostaggio. Questo accordo non è semplicemente ipocrita; è strategicamente incoerente. Nessuna quantità di ricchezza di gas naturale o posizionamento regionale giustifica un compromesso di principi così fondamentale.
L’attacco di Doha chiarisce queste contraddizioni. Gli Stati devono scegliere: possono essere membri della comunità internazionale o sponsor del terrorismo, ma non entrambe le cose. Possono ospitare basi americane o quartieri generali di Hamas, ma non entrambe le cose. Possono rivendicare la protezione sovrana o consentire attacchi contro altri stati sovrani, ma non entrambe le cose.
Per troppo tempo, il Medio Oriente ha operato partendo dal presupposto che il terrorismo pagasse, che la violenza portasse concessioni, che il massimalismo attraesse mediazione, che il rifiuto portasse ricompense. La leadership di Hamas, avvolta nel lusso qatariota, incarnava questa perversa struttura di incentivi. Potevano ordinare atrocità senza subirne le conseguenze, negoziare in malafede senza correre rischi personali e mantenere la presa su Gaza dalla comodità del Four Seasons Hotel di Doha.
L’attacco del 9 settembre pone fine a quest’era di impunità. Ripristina il principio che le scelte hanno conseguenze, che dichiarare guerra significa accettarne i rischi, che prendere di mira i civili significa rinunciare a qualsiasi diritto alla protezione. Questa non è un’escalation, ma un ripristino della deterrenza, della responsabilità, del principio fondamentale per cui chi pianifica un genocidio non può rivendicare asilo.
Hamas sta imparando ciò che Hezbollah ha imparato in Libano, ciò che la Jihad islamica palestinese ha imparato a Damasco, ciò che l’OLP ha imparato a Tunisi: il braccio di Israele è lungo, la sua memoria è più lunga e il suo impegno a proteggere i suoi cittadini è assoluto. Non ci sono rifugi sicuri per chi sceglie il terrore. Nessuna immunità diplomatica per chi orchestra massacri. Nessun rifugio per chi tiene in ostaggio innocenti.
La strada da seguire è chiara. Hamas deve arrendersi incondizionatamente, rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi e accettare lo scioglimento del suo apparato militare. La sua leadership, dispersa e vulnerabile, deve scegliere tra la capitolazione e l’eliminazione. Il Qatar deve espellere tutti i rimanenti agenti di Hamas e cessare ogni sostegno finanziario, oppure accettare la sua designazione come Stato sponsor del terrorismo, con tutte le conseguenze che ne conseguono. La comunità internazionale deve fare rispettare gli obblighi antiterrorismo esistenti, anziché sacrificarli per comode finzioni di mediazione e dialogo.
Alcuni condanneranno l’azione di Israele come una violazione della sovranità, un’escalation di violenza, un ostacolo alla pace. A questi critici bisognerebbe porre una semplice domanda: quale pace è possibile con coloro che cercano il vostro annientamento? Quale sovranità protegge coloro che conducono una guerra genocida? Quale escalation va oltre il bruciare vive le famiglie nelle loro case?
Le esplosioni di Doha non sono state il rumore di una guerra in espansione, ma di una giustizia compiuta.
Non sono state un ostacolo alla pace, ma un prerequisito per essa. Perché la vera pace richiede la sconfitta di coloro che la rifiutano, l’eliminazione di coloro che la rendono impossibile e la dimostrazione che scegliere la violenza non porta alla vittoria, ma alla distruzione.
Israele ha inviato questo messaggio con chiarezza cristallina. L’era del terrorismo senza conseguenze è finita. Il santuario di Doha è andato in frantumi. I leader di Hamas, ovunque si nascondano, ora comprendono una verità fondamentale: si può scappare, ma non ci si può nascondere per sempre. E quando la giustizia ti troverà, che sia in un tunnel di Gaza o in un hotel del Qatar, il risultato sarà lo stesso.
Questa non è stata semplicemente la mossa giusta. È stata l’unica mossa possibile. E avrebbe dovuto essere fatta molto tempo fa.
(L'informale, 10 settembre 2025)
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Crisi Israele-Spagna: sanzioni incrociate e accuse di antisemitismo
di Davide Cucciati
L’8 settembre 2025 ha segnato un punto di rottura drammatico nelle relazioni tra Israele e Spagna. In una durissima dichiarazione rilanciata ufficialmente dall’ambasciata israeliana a Madrid, il ministro degli Esteri Gidon Sa’ar ha accusato il governo guidato da Pedro Sanchez di antisemitismo istituzionale, annunciando sanzioni personali contro due ministre spagnole: Yolanda Diaz, vicepresidente del governo e ministra del Lavoro, e Sira Rego, ministra dell’Infanzia e della Gioventù, entrambe esponenti del partito di sinistra radicale Sumar.
Secondo l’inchiesta di El Pais, Diaz è accusata di aver invocato il boicottaggio di Israele, definito lo Stato ebraico “genocida” e rilanciato lo slogan “dal fiume al mare”, considerato da Israele come un invito alla sua cancellazione. Rego, riferisce Israel National News, avrebbe invece giustificato pubblicamente la strage del 7 ottobre 2023, e sostenuto la rottura totale delle relazioni con Israele. Entrambe sono ora ufficialmente bandite dal territorio israeliano e non potranno più intrattenere rapporti con le autorità dello Stato ebraico. A sua volta, Yolanda Díaz ha dichiarato di essere “orgogliosa” di essere stata esclusa da “uno Stato che perpetra un genocidio”.
Il contesto è segnato da un’escalation diplomatica e ideologica. Da un lato, Israele denuncia una “carica d’odio” da parte dell’esecutivo spagnolo; dall’altro, Madrid ha annunciato lo stesso giorno un pacchetto di nove misure che include il varo di un embargo totale di armi verso Israele nonché restrizioni all’uso di porti e spazio aereo spagnoli per movimenti collegati a materiale bellico diretto a Israele.
Un precedente concreto aveva già dato forma a questa linea d’azione: nel novembre 2024, la Spagna ha negato l’accesso al porto di Algeciras alla nave Maersk Denver e, successivamente, anche alla Maersk Seletar, poiché sospettate di trasportare armamenti statunitensi destinati a Israele. Secondo El Pais, entrambe le navi furono dirottate verso Tangeri, in Marocco. Pur avendo negato la presenza di carichi militari, Maersk non riuscì a ottenere l’autorizzazione allo scalo spagnolo. L’episodio portò gli Stati Uniti ad aprire un’indagine formale attraverso la Federal Maritime Commission, segnalando che le restrizioni spagnole non erano semplici prese di posizione simboliche, ma azioni operative con impatto internazionale.
La linea del governo Sanchez non nasce oggi. Infatti, dopo aver riconosciuto formalmente la Palestina nel mese di maggio 2024, il 28 giugno dello stesso anno la Spagna è diventata il primo Paese dell’Unione Europea a schierarsi apertamente contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, aderendo al procedimento avviato dal Sudafrica con l’accusa di genocidio. Nei mesi successivi, solo l’Irlanda ha seguito lo stesso percorso. Nessun altro Stato membro dell’UE ha, finora, deciso di unirsi.
La risposta israeliana è arrivata con tempismo e toni durissimi. Gidon Sa’ar ha dichiarato che il governo Sanchez sfrutta l’attacco a Israele per distogliere l’attenzione da scandali di corruzione interna e ha accusato i suoi ministri di essersi schierati con Hamas. Secondo quanto riportato da Israel National News, il ministro ha sottolineato la coincidenza tra le accuse di genocidio mosse da Sanchez e l’attentato terroristico avvenuto a Gerusalemme proprio l’8 settembre, in cui sono stati uccisi sei civili israeliani. Tra le vittime, riferisce il Jerusalem Post, c’era anche Yaakov Pinto, un oleh chadash, cioè un nuovo immigrato in Israele, originario della Spagna.
Nel medesimo comunicato, Sa’ar ha annunciato l’intenzione di portare la questione dell’antisemitismo istituzionale del governo spagnolo all’assemblea plenaria dell’IHRA, l’organismo internazionale che definisce i criteri per riconoscere l’antisemitismo contemporaneo. Sa’ar sostiene che le dichiarazioni e le politiche dell’esecutivo spagnolo rientrano a pieno titolo nella definizione dell’IHRA, per via della delegittimazione sistematica e dei doppi standard applicati a Israele.
La tensione si è ulteriormente aggravata. Il 9 settembre, riferisce Ynet, il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha annunciato che la Spagna proibirà l’ingresso nel proprio territorio al ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, inserendoli nella lista delle personalità sanzionate da Madrid.
La Spagna si sta così trasformando, suo malgrado, da Paese guidato da un amico di Israele come il popolare José Maria Aznar a terreno d’avanguardia per la nuova postura ideologica della sinistra europea incarnata dal governo Sanchez.
(Bet Magazine Mosaico, 10 settembre 2025)
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“Addio Europa”
Il crescente sentimento anti-israeliano e le decisioni politiche in Europa mi spingono a congedarmi.
di Dov Eilon
Come il crescente sentimento anti-israeliano e le decisioni politiche in Europa mi spingono a congedarmi.
Qualche giorno fa ho scritto su Facebook le parole “Addio Europa”. Due piccole parole che pesano molto su di me. Le ho scritte in modo del tutto spontaneo, senza averlo pianificato in anticipo. Forse è stato a causa delle continue notizie negative provenienti dall'Europa che si sono accumulate nelle ultime settimane e negli ultimi mesi.
Si riferiscono a tutto questo: il crescente sentimento anti-israeliano in molti paesi europei, gli annunci di diversi governi di riconoscere la Palestina, le minacce della Spagna di non far più entrare nel paese i soldati israeliani che hanno prestato servizio nella Striscia di Gaza, le sanzioni economiche da parte del Belgio o della Gran Bretagna. Tutto questo avviene in un momento in cui Israele, dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, non ha fatto altro che difendersi.
Eppure Israele viene messo alla gogna. È incredibile la rapidità con cui in Europa si esprimono giudizi morali, mentre la realtà qui è difficilmente comprensibile. Che ne è degli ostaggi che sono ancora detenuti nella Striscia di Gaza e che Hamas sta deliberatamente lasciando morire di fame? Come è possibile che Israele sia accusato di genocidio, mentre Hamas glorifica il terrorismo e celebra i suoi assassini come eroi? Questa distorsione mi fa star male.
Anche la Norvegia, il paese di mio padre, di cui ho avuto la cittadinanza nei miei primi dodici anni di vita, ha riconosciuto la Palestina e ha criticato aspramente Israele. Per me personalmente è uno schiaffo in faccia. La Spagna, dal canto suo, cerca di distinguersi con particolare durezza: un embargo totale sulle armi contro Israele, il divieto di ingresso per il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, dichiarati persona non grata, e recentemente persino piani per negare l'ingresso a tutti gli israeliani che hanno prestato servizio come soldati nella Striscia di Gaza. Il governo di Madrid lo presenta come una vittoria morale, ma per me non è altro che una politica simbolica che divide piuttosto che risolvere.
La Francia sta seguendo una strada diversa, ma non meno pericolosa. Emmanuel Macron ha annunciato che riconoscerà la Palestina all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Parla di pace e stabilità, ma in realtà sta premiando il terrorismo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito chiaramente e il ministro degli Esteri Gideon Sa'ar ha dichiarato Macron “non benvenuto” fintanto che persisterà in questo piano. Una visita programmata di Macron in Israele è stata annullata. Le relazioni tra Parigi e Gerusalemme sono pessime come raramente in passato.
E la Germania? Qui la situazione è particolarmente dolorosa. Per anni si è detto che la sicurezza di Israele era una questione di ragion di Stato tedesca, una frase che il cancelliere e il presidente hanno ripetuto così spesso da farla sembrare quasi un dogma. Ma quando la situazione si fa seria, quando Israele ha davvero bisogno di questa solidarietà, a Berlino si discute improvvisamente di embargo, di restrizioni alle forniture di armi, di accuse reciproche. Che ne è rimasto della “ragion di Stato”? A me oggi sembra piuttosto una frase fatta. E proprio nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno, Israele è rimasto solo.
Ma non è solo una questione di politica. È anche l'andamento demografico che influenza tutto. In molti paesi europei la presenza musulmana sta crescendo rapidamente. In Francia i musulmani costituiscono già quasi il 9% della popolazione, in Belgio circa il 6%, in Germania e Gran Bretagna oltre il 6%. Interi quartieri di Bruxelles, Londra o Parigi sono ormai a maggioranza musulmana. Questa realtà ha un'influenza diretta sull'opinione pubblica nei confronti di Israele e influenza la politica e i media. Chi ascolta ciò che si dice in Belgio o in Francia se ne accorge subito: molte persone vedono nella narrativa palestinese il proprio riflesso. A ciò si aggiunge il fatto che l'antisemitismo è aumentato massicciamente negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Belgio, con un triplicarsi degli episodi antisemiti solo nel 2023.
E nel Regno Unito si mette ufficialmente in guardia contro la crescente radicalizzazione dei giovani musulmani che si sentono emarginati dalla società. Tutto ciò influisce sul clima in Europa e spiega perché Israele sia sempre più emarginato dall'opinione pubblica.
Quando vedo tutto questo, il mio “Addio Europa” non è una frase provocatoria, ma l'espressione di una profonda delusione. L'Europa ama parlare di valori e morale, ma quando si tratta di agire, manca completamente la comprensione della realtà. Israele non combatte per conquistare. Israele combatte per sopravvivere. Chi non vuole vederlo può continuare ad approvare risoluzioni e fare bella figura nei talk show, ma per noi qui è una questione di vita o di morte.
Il mio addio all'Europa non è odio. È un grido. Un grido contro l'ingenuità, contro l'arroganza, contro l'oblio. Un grido per la giustizia, per gli ostaggi, per il diritto di un popolo di non essere emarginato, ma rispettato nella sua esistenza. “Addio Europa” significa: ho smesso di contare su di voi.
(Israel Heute, 10 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Shira Haelion, la prima donna coach della Nazionale femminile israeliana di basket
di Jacqueline Sermoneta
“E’ un onore incredibile. Un sogno che si avvera”. Queste le parole di Shira Haelion, una delle più titolate allenatrici israeliane nonché la prima donna a guidare la Nazionale femminile di basket. “È un enorme privilegio aver guadagnato la fiducia necessaria per guidare la Nazionale, soprattutto in un momento così cruciale. – ha detto Haelion, come riporta Ynet – Abbiamo giocatrici israeliane eccezionali e sono entusiasta di iniziare a lavorare con loro in vista della nostra prima sfida a novembre”.
Haelion avrà accanto come assistente Limor Peleg, che ha allenato l’Hapoel Lev Jerusalem guidandola a due finali consecutive della State Cup, con la vittoria storica nella scorsa stagione. Entrambe formano il primo staff tecnico interamente al femminile nella storia della Nazionale israeliana.
“Shira è stata scelta per le sue capacità professionali, la sua vasta esperienza e la visione condivisa per il futuro della pallacanestro femminile israeliana – ha affermato Liron Cohen, presidente del Comitato di basket femminile – Questo è un importante passo avanti nella promozione del ruolo delle donne meritevoli nello sport israeliano. Shira è la prima donna in assoluto ad essere nominata allenatrice della Nazionale senior e siamo orgogliosi di scrivere la storia con lei”.
Haelion ha iniziato la sua carriera di allenatrice con l’Hapoel Tel Aviv prima di trasferirsi all’Hapoel Rishon Le’zion, guidando la squadra a un’ottima corsa ai playoff. Ha allenato club di alto livello, tra cui l’Elitzur Ramla, il Maccabi Ramat Gan e la squadra maschile dell’Hapoel Tel Aviv.
La scorsa stagione ha guidato il Maccabi Ashdod a una storica tripletta, vincendo la Winner Cup, la State Cup e il campionato. Ha, inoltre, allenato a tutti i livelli del programma nazionale femminile, incluse le squadre giovanili e cadette, e in precedenza ha ricoperto il ruolo di assistente dell’ex coach Eli Rabi.
Nel girone di qualificazione all’EuroBasket 2027 Israele è stato inserito insieme a Lussemburgo, Irlanda e Bosnia. La prima sessione, che si svolgerà a novembre 2025, prevede tre partite, con altre tre in programma a febbraio 2026.
(Shalom, 10 settembre 2025)
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Le bugie e i falsi storici di Wikipedia impossibili da correggere: “Così hanno cancellato la storia ebraica”
A colloquio con il giovane gruppo di volontari informatici anglosassoni che da anni opera per combattere la disinformazione e la propaganda ingannevole della famosa enciclopedia digitale. Ed è costretto a farlo mantenendo segrete le identità degli attivisti per evitare ritorsioni pericolose
di Andrea B. Nardi
Wikipedia non è un’enciclopedia scientifica con voci studiate da analisti competenti e verificate con cura e metodi accademici. È solo un blog che negli anni è diventato la fucina dei falsi storici per ciò che vuole propagandare, e della censura per le verità che invece vuole oscurare.
L’holding è governata da una lobby con un potere enorme di epurazione delle voci contrarie alla sua politica: se si corregge una falsificazione sulle sue pagine, non solo in poche ore essa torna come prima, ma chi ha compiuto la correzione rischia stalking informatico sui suoi account e anche negli altri social. A ciò contribuisce soprattutto, da un lato, la condiscendenza di Google che permette solo a W. di apparire sulla prima pagina delle ricerche, e dall’altro l’abdicazione delle enciclopedie autentiche che sono scomparse dal web o vi stanno nascoste con pagine insulse. Il massimo delle falsificazioni Wikipedia lo raggiunge nelle pagine su Israele e la cosiddetta “Palestina” araba. Diventando un’importante causa dell’enorme incremento di odio sociale, razziale e antisemita che sta attraversando tutti i Paesi. Alla voce Ramallah, per esempio, sfodera una serie infinita di notizie faziose e menzognere, mentre la Treccani si limita a due righe striminzite. Abbiamo provato a intervistare il dott. Bray direttore Treccani ma non ha mai avuto tempo per noi. In compenso siamo riusciti a rintracciare il giovane gruppo di volontari informatici anglosassoni che da anni opera per combattere la disinformazione e la propaganda ingannevole di Wikipedia, ed è costretto a farlo mantenendo segrete le identità degli attivisti per evitare ritorsioni pericolose. Non possiamo svelare il nome del coordinatore del gruppo.
- Quanta responsabilità ha W. nella diffusione di fake news?
«Tantissima, ed è data dal fatto che si tratta di una piattaforma social open source, e non è per nulla una vera enciclopedia. Essi sostengono che le vere enciclopedie per le voci accurate esistono già, ma questa non è una ragione per diffondere falsità».
- Come fanno questi operatori di W. a inserire la propria propaganda in modo così sistematico?
«Gli attori anti-israeliani hanno lavorato duramente per diffondere la loro propaganda nelle voci di W. per oltre 20 anni. Sono organizzati e pagati, spesso dall’Iran, Qatar e altri Paesi e organizzazioni, seguendo un’agenda precisa. Gli ebrei non sono le uniche vittime della guerra dell’informazione su W.: anche gli indù, i curdi, gli ucraini e così via».
- Perché le bugie e i falsi storici pubblicati su W. non possono essere corretti?
«In teoria si possono correggere, il problema è la quantità di cattivi autori su W. che rende molto difficile per persone competenti diventare redattori affermati. Occorre anche essere rappresentati negli organi di governo di W., cosa che al momento nessuna voce autorevole e imparziale è. Sarà necessario che persone competenti si impegnino, altrimenti W. diventerà sempre peggio».
- A chi rispondono questi gruppi di controllo di W.? C’è una lobby islamista al suo interno che fomenta l’antisemitismo e le fake news su Israele?
«Ci sono diversi gruppi che lavorano professionalmente con W. per fomentare la propaganda islamista, ma i dettagli delle organizzazioni di pressione dietro questi redattori sono molto celati. Noi monitoriamo costantemente i redattori estremisti e li segnaliamo. C’è pure un rapporto dell’ADL (Anti-Defamation League, un’organizzazione non governativa internazionale statunitense dedita a difendere i diritti civili e umani, combattere l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio, difendere gli ideali democratici) che ha denunciato questo sistema di autori organizzati anti-israeliani».
- Come vedi il futuro di questa piattaforma? C’è la possibilità che cambi e diventi affidabile?
«Vedo un futuro molto buio senza serie contromisure. Possiamo lasciare che il mondo accademico e tutte le informazioni online siano ostaggio degli estremisti che modificano la nostra storia e il nostro futuro, oppure possiamo contribuire a rendere W. quanto più corretta possibile. Per fare ciò e invertire la tendenza servirebbero meno di mille nuovi redattori con buone intenzioni, competenza e parzialità! Insegnate ai vostri figli il pensiero critico, a studiare su documenti seri, a trovare la verità e modificare W».
- Cosa vorresti aggiungere sull’argomento?
«Vengono sempre prima per gli ebrei, ma non finisce mai lì. Se diventa normale cancellare la storia ebraica e aggiungere al suo posto qualsiasi idea odiosa, ciò verrà fatto a qualunque altro popolo».
(Il Riformista, 10 settembre 2025)
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Spari a bordo di un autobus: sei vittime a Gerusalemme. Hamas esulta: “Atto eroico”
Uccisi i due attentatori: venivano dalla Cisgiordania. Il ministro Smotrich: «Sciogliere l'Anp», Netanyahu va sul luogo della strage: annullata l'udienza del suo processo
di Stefano Piazza
Usata mitraglietta modello «Carlo»: imprecisa, però potente e economica
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I miliziani rifiutano ancora un rilascio totale immediato degli ostaggi
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Un nuovo attacco ha insanguinato Gerusalemme: sei persone hanno perso la vita e altre undici sono rimaste ferite, sei delle quali in condizioni critiche, durante una sparatoria avvenuta su un autobus nei pressi di Ramot Junction, all'ingresso nord della città. Secondo ricostruzioni fornite dai media locali e da testimoni oculari, due uomini si sono avvicinati a un autobus, riuscendo a salire a bordo, e hanno fatto fuoco contro i passeggeri. La polizia ha confermato che entrambi gli attentatori sono stati uccisi: ad abbatterli sono stati un soldato e un giovane ebreo ultra-ortodosso della Brigata Hashmonaim che si trovava sul posto armato. Le autorità hanno diffuso i nomi di quattro delle sei persone rimaste uccise: il rabbino Levi Yitzhak Fash, figura legata alla scuola Kol Torah di Gerusalemme; Yaakov Pinto, 25 anni, residente in città ma originario dell'enclave spagnola di Melilla in Marocco; il rabbino Israel Menatzer, 28 anni, del quartiere Ramot; e il rabbino Yosef David, 43 anni. Tra le altre vittime ci sono anche un uomo e una donna di circa cinquant'anni e tre giovani sulla trentina.
L'attacco è avvenuto in un punto particolarmente trafficato, lungo la strada che collega Gerusalemme agli insediamenti ebraici situati a est della città. Una passeggera ha raccontato a Channel 12: «L'autobus era strapieno. Quando l'autista ha aperto le porte sono arrivati i terroristi. Io ero vicino all'uscita posteriore, sono caduta su altre persone e sono corsa via. Mi sono salvata per miracolo». I due assalitori Muthanna Naji Amro e Muhammad Bassam Taha erano palestinesi poco più che ventenni, provenienti dai villaggi di al-Qubeida e Qatanna, nell'area di Ramallah e hanno sparato alla testa delle vittime.
L'esercito israeliano ha circondato la zona per rintracciare eventuali complici. Lo Shin Bet ha intanto arrestato un residente di Gerusalemme Est sospettato di aver accompagnato i due attentatori fino al luogo della sparatoria. Sul posto è stata recuperata un'arma artigianale, una mitraglietta modello «Carlo», già usata in precedenti attacchi.
Il «Carlo» è, dopo il coltello, l'arma più usata dai terroristi palestinesi in Israele e Cisgiordania. Si tratta di una mitraglietta artigianale ispirata al Cari Gustav svedese: rudimentale, poco precisa e con gittata limitata, ma economica, potente e facile da produrre con strumenti di base e progetti reperibili online. Il nome deriva dal Carl Gustav m/45, adottato dall'esercito svedese nel 1945 e poi fabbricato anche in Egitto. Il meccanismo è semplice: il rinculo espelle il bossolo e carica automaticamente il colpo successivo. Ogni modello può adattarsi a munizioni diverse e presenta varianti che richiamano Uzi, MP5 o Kalashnikov. Proprio per la sua semplicità e il basso costo, il «Carlo» ha superato i confini mediorientali: esemplari sono stati rinvenuti in Europa, America Latina, Australia e perfino in Italia, rendendo difficile il loro tracciamento una volta circolanti.
I jihadisti di Hamas, pur non rivendicando direttamente l'azione, hanno definito l'assalto «un atto eroico» e «la risposta naturale ai crimini dell'occupazione», invitando la popolazione palestinese della Cisgiordania a «intensificare la resistenza».
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che avrebbe dovuto presenziare a un'udienza del processo per corruzione a Tel Aviv poi rinviata, ha convocato una riunione d'emergenza sulla sicurezza e successivamente si è recato sul luogo dell'attacco insieme al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. «Stiamo conducendo una dura guerra contro il terrorismo su più fronti», ha dichiarato Netanyahu. Bezalel Smotrieh, ministro delle Finanze e leader della destra religiosa, ha colto l'occasione per ribadire la richiesta di scioglimento dell'Autorità nazionale palestinese, rilanciando il piano che prevede l'estensione del controllo israeliano su gran parte della Cisgiordania.
L'episodio si inserisce in una serie di attacchi che hanno colpito Israele negli ultimi mesi. L'ultima sparatoria di massa risaliva all'ottobre 2024, quando due palestinesi della Cisgiordania aprirono il fuoco a Jaffa contro passanti e viaggiatori della metropolitana leggera, uccidendo sette persone. In quell'occasione la rivendicazione arrivò dall'ala militare di Hamas.
Sempre nella giornata di ieri, le Forze di Difesa israeliane hanno colpito un grattacielo a Gaza City utilizzato da Hamas. Secondo l'Idf, l'edificio ospitava postazioni di osservazione, sistemi di raccolta informazioni e ordigni esplosivi impiegati dai miliziani per pianificare e condurre attacchi durante il conflitto. Prima del raid, l'esercito ha dichiarato di aver adottato misure per ridurre i rischi ai civili, con allerte preventive, uso di munizioni di precisione, sorveglianza aerea e supporto di intelligence. «Hamas e le altre organizzazioni terroristiche nella Striscia continuano a violare il diritto internazionale, sfruttando infrastrutture civili e popolazione come scudi umani», ha affermato l'Idf.
In questo contesto a poche ore dalla proposta del presidente statunitense Donald Trump, che chiedeva la liberazione immediata di tutti i 48 ostaggi al primo giorno del cessate il fuoco, Hamas ha replicato che un rilascio totale non è possibile. In un'intervista ad Asharq Al-Awsat, fonti del movimento hanno spiegato che «alcuni ostaggi sono morti e i corpi si trovano sotto le macerie o in zone che possono essere raggiunte solo dopo l'avvio della tregua». Si conferma, per l'ennesima volta, come Hamas non mostri alcuna reale volontà di giungere a un'intesa.
(La Verità, 9 settembre 2025)
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Pioggia di droni Houthi: l’IDF intercetta molteplici attacchi dei proxies iraniani
di Anna Balestrieri
Tre droni lanciati dai ribelli Houthi dallo Yemen sono stati abbattuti dall’aeronautica israeliana nella giornata di lunedì 8 settembre, nel giro di mezz’ora. I velivoli senza pilota puntavano al sud del Paese, ma non hanno causato né feriti né danni. L’episodio è avvenuto a poche ore dall’attacco che, domenica, aveva colpito il terminal passeggeri dell’aeroporto Ramon di Eilat.
• L’attacco di lunedì 8 settembre: droni abbattuti in volo
Secondo l’IDF, uno dei droni si stava dirigendo verso l’aeroporto Ramon, dove già il giorno precedente si era verificata un’esplosione. Le sirene sono risuonate nell’area di Eilat e diversi missili intercettori sono stati lanciati con successo. Un altro velivolo ha fatto scattare gli allarmi a Dimona e nei dintorni, ma anche in questo caso è stato distrutto prima che potesse causare danni. Il terzo drone, intercettato senza far scattare sirene, è stato neutralizzato “secondo protocollo”, ovvero prima che diventasse una minaccia per i centri abitati.
• La rivendicazione Houthi
Gli Houthi, sostenuti dall’Iran, hanno rivendicato l’attacco, sostenendo di aver preso di mira l’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, l’aeroporto Ramon e un “obiettivo sensibile” a Dimona. Gli stessi ribelli continuano a colpire Israele con droni e missili a partire da novembre 2023, nel contesto del conflitto seguito al 7 ottobre. Il loro slogan politico rimane inequivocabile: “Morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei.”
• L’attacco di domenica: il bilancio delle vittime
Il giorno precedente, domenica 7 settembre, un drone era riuscito a eludere i sistemi di difesa israeliani e si era schiantato contro il terminal passeggeri dell’aeroporto Ramon. L’impatto ha provocato il ferimento di alcune persone.
• Le vittime civili
Un uomo di 63 anni è rimasto ferito da schegge ed è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Yoseftal di Eilat, dove le sue condizioni sono state dichiarate stabili. Una donna è caduta mentre cercava riparo dall’esplosione, riportando ferite lievi e venendo anch’essa ricoverata a Yoseftal. Diversi passeggeri e operatori presenti nell’aeroporto hanno accusato attacchi di panico e forte ansia, ricevendo assistenza immediata da parte del Magen David Adom.
• Errori di valutazione nella difesa aerea
Un’inchiesta interna dell’aeronautica israeliana ha stabilito che il drone era stato individuato dai radar, ma non correttamente classificato come minaccia. Per questo motivo non erano stati attivati gli allarmi né tentativi di intercettazione. L’episodio ha destato forti critiche e preoccupazioni, soprattutto considerando che Ramon rappresenta uno snodo vitale per i voli interni e per l’evacuazione di pazienti palestinesi verso l’estero per cure mediche.
• Un’escalation che non si arresta
Dall’inizio del 2025, in particolare dopo l’uccisione del premier Houthi Ahmed Ghaleb Nasser al-Rahawi in un raid israeliano in Yemen, gli attacchi dei ribelli si sono moltiplicati: solo negli ultimi mesi sono stati lanciati almeno 80 missili balistici e 31 droni contro Israele. L’attacco all’aeroporto Ramon evidenzia la vulnerabilità del fronte interno israeliano, mentre le intercettazioni di lunedì dimostrano l’efficienza, ma anche la pressione costante a cui è sottoposto il sistema di difesa aerea.
(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2025)
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"Un Miracolo di Popolo" – Mostra a Torino
Inaugurazione della mostra "Un Miracolo di Popolo" dell’artista Nazario Melchionda.
14 – 18 settembre 2025 | Torino, Sala Associazione Camis De Fonseca, Via Pietro Micca 15
In occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, domenica 14 settembre 2025 a Torino sarà inaugurata la mostra "Un Miracolo di Popolo" dell’artista Nazario Melchionda, ospitata presso la Sala dell’Associazione Camis De Fonseca (Via Pietro Micca 15).
La mostra propone un viaggio visivo attraverso quattromila anni di storia del popolo ebraico: dalla chiamata di Abramo, alla nascita dello Stato di Israele, fino alle moderne innovazioni in agricoltura e tecnologia.
Per la realizzazione delle opere sono state utilizzate tecniche miste di intelligenza artificiale ed elaborazione grafica digitale tradizionale. Attraverso queste tecnologie sono state create delle istantanee che restituiscono i volti e gli eventi rappresentativi della storia ebraica, trasformando la memoria in immagini capaci di dialogare con il presente.
L’iniziativa è ospitata e organizzata dall’Associazione Italia Israele di Torino, presieduta da Marco Zanetti.
Interverrà Corrado Maggia, vicepresidente dell’Associazione Evangelici d’Italia per Israele.
Dettagli evento
- Inaugurazione: 14 settembre 2025, ore 15:00
- Apertura nei giorni successivi: dal 15 al 18 settembre 2025, dalle ore 16:00 alle 18:00
- Luogo: Sala Associazione Camis De Fonseca, Via Pietro Micca 15 – Torino
- Ulteriori informazioni: www.unmiracolodipopolo.it
(Associazione Italia Israele - Torino, 9 settembre 2025)
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Attacco contro un'azienda israeliana produttrice di armi a Ulm
Attivisti in parte mascherati con foulard palestinesi attaccano una filiale tedesca di un'azienda israeliana produttrice di armi. La polizia sta indagando.
ULM – Lunedì mattina presto, verso le 3:30, diversi attivisti mascherati hanno attaccato un edificio a Ulm. Lì si trova una filiale dell'azienda israeliana produttrice di armi Elbit Systems.
Gli attivisti di “Palestine Action” si sono filmati durante l'azione e i video sono visibili sui social media. L'organizzazione è considerata un gruppo terroristico nel Regno Unito ed è vietata dall'inizio di luglio. I rivoltosi hanno lanciato sacchetti di vernice contro l'edificio e sono entrati all'interno rompendo le finestre. Una volta dentro, hanno devastato gli uffici e lanciato bombe fumogene. Anche i server dell'azienda sono stati danneggiati dai rivoltosi. Le scritte “Babykiller” (assassini di bambini) sui muri suggeriscono che l'atto fosse motivato politicamente.
Attivisti di Palestine Action Germany hanno fatto irruzione nella fabbrica di armi Elbit Systems a Ulm per smantellare gli strumenti utilizzati per commettere il genocidio a Gaza.
La polizia ha arrestato cinque sospetti sul posto. Si erano barricati al piano superiore dell'azienda e cantavano in coro “Libertà per la Palestina”. La polizia criminale dello Stato (LKA) sta indagando. Lunedì, la portavoce della LKA Lisa Schröder ha dichiarato alla Südwestrundfunk (SWR) che molti indizi suggeriscono che l'atto fosse motivato dall'estremismo di sinistra. Il danno ammonta a una cifra a sei zeri.
L'ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor ha scritto su X: “Questi attacchi sono atti terroristici: devono essere chiaramente definiti come tali e puniti con severità”.
• Produzione a Ulm esclusivamente per l'esercito tedesco
Elbit Systems è un gruppo industriale israeliano che produce, tra l'altro, droni, sistemi di comunicazione e dispositivi per la visione notturna. Un portavoce tedesco dell'azienda ha chiarito in un'intervista con un giornalista della SWR che lo stabilimento di Ulm produce esclusivamente apparecchi radio portatili per l'esercito tedesco.
In passato ci sono state diverse proteste contro l'azienda produttrice di armi. Alla fine di luglio, alcuni sconosciuti hanno appeso alla cattedrale di Ulm uno striscione lungo 30 metri con la scritta: “Elbit fuori da Ulm – Fermate il genocidio”. Un altro stabilimento dell'azienda israeliana a Heidenheim è stato messo sotto protezione dalla polizia dopo l'attacco di lunedì.
(Israelnetz, 9 settembre 2025)
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Israele-Italia, la doppia faccia della serata: vincono gli Azzurri ma perde il tifo italiano
di Luca Spizzichino
Quello che avrebbe dovuto essere un momento di sport e rispetto si è trasformato in una brutta pagina per il tifo italiano. Al Nagyerdei Stadion di Debrecen, in Ungheria, prima del fischio d’inizio della sfida di qualificazione ai Mondiali tra Israele e Italia – partita poi vinta dagli Azzurri per 5-4 nei minuti di recupero – circa duecento tifosi italiani hanno voltato le spalle durante l’esecuzione dell’inno israeliano, esponendo successivamente cartelli con la scritta “stop” e accompagnando il gesto con fischi e cori.
Israele è scesa in campo con il lutto al braccio per ricordare le sei vittime dell’attentato terroristico di Gerusalemme, mentre sugli spalti erano presenti 35 ragazzi sopravvissuti alla strage di Majdal Shams, dove dodici giovani drusi furono uccisi da un missile di Hezbollah mentre giocavano a calcio. Di fronte a ferite ancora aperte, i tifosi arrivati a Debrecen per supportare la Nazionale hanno scelto di trasformare quel momento in un atto vergognoso, lontano dai valori dello sport.
L’episodio richiama quello avvenuto un anno fa a Budapest e si ripete come un copione triste. Non si è trattato di una protesta generica o di un appello alla pace, ma di un gesto mirato a colpire un momento solenne: l’inno nazionale, simbolo di identità e di rispetto reciproco nello sport. Voltare le spalle non significa dialogo, ma insulto gratuito.
Esiste una netta differenza tra critica politica e mancanza di rispetto: la prima può avere senso se argomentata e contestualizzata; la seconda resta solo maleducazione e superficialità. Voltare le spalle a un inno significa voltare le spalle allo sport stesso e al rispetto che lo sostiene. E per chi dice di amare la Nazionale e seguirla ovunque, questo gesto rappresenta il fallimento più grande.
Alla vigilia, il c.t. Gattuso aveva ricordato come “c’è tanto rispetto e tanto dolore”, cercando di riportare l’attenzione sul terreno del gioco e sulla dignità umana. Parole rimaste inascoltate da chi, in nome di una presunta protesta, ha scelto di macchiare la serata con una manifestazione sterile e offensiva.
(Shalom, 9 settembre 2025)
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Attentato a Gerusalemme, 5 morti e diversi feriti: «I terroristi hanno aperto il fuoco alla fermata dell'autobus». Hamas: «Azione eroica»
Attentato a Gerusalemme Est: i due terroristi, palestinesi di Cisgiordania, sono stati uccisi da due passanti. Il premier Netanyahu convoca la sicurezza nazionale
di Francesco Battistini
GERUSALEMME - Una mitraglietta è ancora per terra, vicino a un jersey di cemento. Davanti all’autobus, tra i vetri polverizzati, un haredim è immobile: arriva una moto arancione, il servizio d’emergenza 101 del Magen David, e il medico salta giù e si butta a praticare un massaggio cardiaco.
È un lunedì di sangue a Ramot, vecchia colonia di Gerusalemme est, dove si viene a fare spesa nel secondo centro commerciale più grande della città. Alle 10 del mattino, poco lontano dalla bandiera americana di bronzo che ricorda l’11 Settembre, due armati spuntano all’incrocio che a quell’ora è affollato di settler, di religiosi, di gente che va al lavoro. C’è il pullman della linea 62 che ha appena fatto la sua fermata. Gli spari sono veloci, ripetuti. Qualcuno prova a buttarsi fuori dal bus: viene eliminato.
I terroristi sparano anche sulle macchine di passaggio, finché due passanti – un ultraortodosso e un soldato - non riescono a rispondere al fuoco e ad eliminarli: sono due palestinesi di Kubiba e di Kutna, due villaggi della Cisgiordania, per uscire dai quali è necessario un permesso speciale (che non era stato concesso). Hamas, che pure non sembra direttamente responsabile, elogia «l'azione eroica» del commando.
Dice Nadav Taib, portantino d’una delle tante ambulanze che si sono precipitate su Ramot: «C’era il panico dappertutto, chi ancora scappava a piedi lungo la tangenziale».
I feriti sono stati portati all’Hadassah Hospital e allo Shaare Zedek, da Ramla sono arrivati i flaconi di sangue per le trasfusioni.
I 5 morti, i 6 feriti gravi, gli altri 15 sono il bilancio più pesante degli attacchi terroristici degli ultimi mesi, in Israele.
Pochi minuti dopo l’ennesimo proclama del ministro della Difesa, Israel Katz - che aveva preannunciato «oggi, un potente uragano di fuoco s’abbatterà su Gaza City» -, ecco l’attentato.
Domenica sera, scrutando la luna rossa che in queste notti domina Gerusalemme, qualcuno aveva addirittura postato sul web una fosca profezia, «Luna di sangue», riferendosi ai cinquanta palestinesi che ogni giorno muoiono a Gaza e alla vendetta sotto forma d’attacco terroristico, che tutti s’aspettavano.
Ogni ingresso e ogni via d’uscita a Gerusalemme, com’è d’abitudine rimarranno bloccati fino a nuovo ordine.
Il premier israeliano, Bibi Netanyahu, ha riconvocato il gabinetto di sicurezza per decidere il da farsi: solo ieri sera, sul suo tavolo era arrivata l’ultima proposta di tregua nella Striscia, avanzata dall’amministrazione Usa. È probabile che il nuovo attacco congeli di nuovo tutto. Di sicuro, ha bloccato il processo per corruzione che proprio oggi doveva riprendere a carico del primo ministro.
L’ultima volta, era stata quasi due anni fa: la prima sparatoria in Israele dopo il 7 ottobre, un mese e mezzo dopo l’inizio della guerra a Gaza. Era successo a Trampark, dove una coppia di terroristi aveva assaltato a colpi di mitra, usando anche una pistola. A terra, ammazzati, erano rimasti un rabbino e due donne. Nella concitazione del primo intervento, per sbaglio, i soldati avevano ucciso pure un israeliano che in realtà stava tentando di neutralizzare il commando. Anche allora, un autobus: l’obbiettivo più facile.
(Corriere della Sera, 8 settembre 2025)
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Proposta Trump: ultima opportunità per Hamas
di Samuel Capelluto
Donald Trump ha lanciato un’iniziativa senza precedenti: liberare tutti i 48 ostaggi, vivi e caduti, già nel primo giorno dell’accordo. In cambio, Israele dovrebbe scarcerare centinaia di terroristi condannati e migliaia di detenuti palestinesi. L’operazione “Merkavot Gidon B”, volta alla conquista di Gaza City, verrebbe interrotta e si aprirebbe un negoziato diretto, guidato personalmente dal presidente americano, con l’obiettivo di porre fine alla guerra. Durante le trattative, sottolinea il piano, non riprenderebbero i combattimenti.
A Gerusalemme la proposta viene valutata con estrema attenzione: «Israele la prende molto sul serio, ma Hamas probabilmente continuerà nella sua ostinazione», hanno fatto sapere fonti governative. Netanyahu, pur mantenendo prudenza pubblica, sa che il piano offre a Israele una legittimità strategica: se Hamas rifiutasse, il via libera a un’operazione massiccia dentro Gaza city diventerebbe inevitabile e giustificato agli occhi del mondo.
Trump stesso ha avvertito Hamas: «Questa è la mia ultima avvertenza. Non ce ne sarà un’altra». Non è la prima volta che il presidente minaccia l’organizzazione, ma questa volta l’ultimatum è accompagnato da una proposta concreta, definita dal coordinamento delle famiglie degli ostaggi «un’opportunità storica per riportare a casa tutti».
Hamas, però, resta diviso. In una dichiarazione ufficiale il movimento islamista ha affermato di «accogliere con favore ogni passo verso un cessate il fuoco» e di essere disposto a sedersi al tavolo, ma ha rilanciato le sue condizioni massime: liberazione di tutti i detenuti, ritiro totale di Israele e creazione immediata di un comitato palestinese indipendente. Una posizione che appare ben lontana dalle richieste israeliane, incentrate sul disarmo della Striscia, del mantenimento del controllo di sicurezza israeliano sulla striscia e la creazione di un’amministrazione civile alternativa .
Sul terreno, intanto, Israele continua a colpire con forza i grattacieli usati da Hamas nel cuore di Gaza City, preparando le condizioni per l’ingresso via terra. L’alternativa è ormai chiara: o Hamas accetta la proposta americana e consegna gli ostaggi, o si troverà ad affrontare la caduta della sua roccaforte e la sconfitta totale.
Mentre il movimento terroristico trasforma i prigionieri in merce di scambio, Israele ribadisce il proprio obiettivo: riportare a casa i suoi cittadini e garantire che il 7 ottobre non si ripeta mai più. L’ “ultima opportunità” è nelle mani di Hamas. Se sceglierà ancora la strada del rifiuto, dovrà assumersi la responsabilità delle conseguenze.
(Shalom, 8 settembre 2025)
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Israele: il partito ortodosso Agudat Israel mette per la prima volta in discussione la sua alleanza con la destra
Per la prima volta dalla formazione dell'attuale coalizione, il partito ortodosso Agudat Israel lascia intendere che potrebbe riconsiderare la sua partnership con i partiti di destra. Questa presa di posizione arriva dopo la decisione del governo israeliano, annunciata domenica, di avviare una procedura di pianificazione per lo sfruttamento dei giacimenti di fosfati a Sdé Barir, vicino alla città di Arad, nel Negev.
L'area interessata ospita centinaia di famiglie appartenenti alla comunità chassidica di Gur, vicina ad Agudat Israel, che si oppone fermamente al progetto a causa dei rischi sanitari e ambientali.
Nel suo editoriale pubblicato lunedì, Hamodia, il giornale ufficiale del partito, ha criticato aspramente il governo, definendo la decisione un “colpo di forza”. Secondo il quotidiano, l'esecutivo avrebbe approfittato dell'attuale assenza di ministri ortodossi all'interno del gabinetto, conseguenza, secondo il giornale, di “una campagna di persecuzione contro il mondo della Torah”, per portare avanti un progetto che “ignora gli interessi di coloro che il governo pretende di considerare suoi ‘partner naturali’”.
Il giornale invita quindi i responsabili di Agudat Israel a “ridefinire le loro alleanze”: “È ora che il pubblico ortodosso capisca chi sono i suoi veri partner, quelli che cercano davvero il suo bene e quelli che lo riconoscono solo quando vi trovano un interesse politico”, si legge nell'editoriale.
“Il bilancio della partecipazione a un ‘governo al 100% di destra’ è estremamente scarso”, prosegue il testo, ricordando che questa alleanza non ha offerto al mondo ortodosso altro che “attacchi incessanti alla Torah”.
Questa dichiarazione segna una svolta politica importante: è la prima volta che Agudat Israel mette pubblicamente in discussione la sua partnership con la destra. È degno di nota il fatto che l'attuale crisi non sia legata alla spinosa questione della legge sul servizio militare obbligatorio per gli ortodossi, che aveva tuttavia provocato forti tensioni negli ultimi mesi, ma piuttosto a una decisione del governo ritenuta minacciosa per la comunità di Gur nel Negev.
(i24, 8 settembre 2025)
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Ebrei fuori da bar, università e red carpet: i nuovi boicottaggi sanno di leggi razziali
Le discriminazioni subite da studenti, professori e artisti somigliano ai provvedimenti antisemiti del ‘38. Il clima di intolleranza limita le libertà fondamentali.
di Giuliano Cazzola
Il concetto di “Costituzione materiale” fu teorizzato da un grande giurista come Costantino Mortati per definire un insieme dei comportamenti, delle interpretazioni e della prassi effettiva che dà vita, integra e modifica la “costituzione formale” (ovvero il testo scritto della Costituzione) senza però contraddirla, a dimostrazione di come l’attuazione concreta e le dinamiche del potere politico influenzino il significato e l’efficacia della Costituzione stessa, talvolta creando un disallineamento o una tensione con il testo scritto. Ovviamente questo concetto può essere esteso anche ad altri regimi normativi, fino a individuare il manifestarsi di comportamenti di fatto (“materiali”) che regolano situazioni in assenza di una legge.
Le leggi razziali del 1938 in Italia furono un insieme di decreti e leggi discriminatorie emanate dal regime fascista, principalmente dirette contro la comunità ebraica allo scopo di emarginare gli ebrei dalla società italiana, privandoli di diritti civili e politici. Questa legislazione del disonore fu abrogata in Italia con i decreti legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emanati nel territorio liberato dagli Alleati e dalla Resistenza, con l’obiettivo di reintegrare i cittadini perseguitati nei loro diritti civili e politici. La legislazione antisemita comprendeva il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei; il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana; il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei; il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri; la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1º gennaio 1919; il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali; il divieto per le scuole di adottare come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo.
Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Furono 96 i professori universitari italiani di ruolo identificati come ebrei e sospesi dal servizio a decorrere dal 16 ottobre 1938, a cui vanno aggiunti gli oltre 200 ricercatori e studiosi ebrei che esercitavano la libera docenza. Insomma, oltre 300 docenti epurati dall’università italiana in seguito all’introduzione delle leggi razziali, senza contare i professori di liceo, gli accademici, gli autori di libri di testo messi all’indice e i tanti giovani laureati e ricercatori la cui carriera fu stroncata sul nascere. Si arrivò così a numeri molto più elevati.
Le perdite furono particolarmente significative nei campi della medicina, delle discipline giuridico-economiche, delle scienze e delle materie umanistiche. Quanto agli studenti di religione ebraica, non era permessa l’iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado, decretando così – come ha ricordato per la sua esperienza personale Liliana Segre – la fine dell’esperienza scolastica per migliaia di ragazzi che avevano condiviso fino a quel momento i banchi con i loro coetanei. Anche ai magistrati fu richiesta una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica.
Senza accorgersene, stiamo strisciando – in via di fatto – in un contesto che presenta molte similitudini. Certo, nessuno sospende dal servizio i docenti ebrei e gli studenti, ma le “guardie rosse” pro-Pal limitano loro l’accesso negli atenei e nelle scuole, minacciando la loro sicurezza e impedendo lo svolgimento del loro lavoro. Sulla tragedia di Gaza c’è un “pensiero unico” che non può essere messo in discussione. Agli ebrei può essere precluso l’ingresso in locali pubblici (in sostanza, un barista può permettersi di non servire un caffè a un ebreo) e impedito l’esercizio della libertà di opinione (conferenze, manifestazioni, celebrazioni, ecc.). Persino la Giornata della Memoria è stata requisita.
Le proibizioni delle leggi razziali vengono convertite in boicottaggi, ma l’effetto non cambia. Quanto ai libri, vi è un controllo politico sui loro contenuti. Fior di scrittori rifiutano la traduzione in ebraico delle loro opere. Le fiere rifiutano gli espositori israeliani; persino la Mostra del Cinema di Venezia, prodiga di premi e riconoscimenti per noiosissimi film iraniani, ha bandito dal red carpet due artisti israeliani. Ma il fatto più assurdo è la spinta alla rottura dei rapporti istituzionali, culturali e scientifici con Israele, dove i nostri atenei e le nostre amministrazioni hanno solo da perdere.
(Il Riformista, 8 settembre 2025)
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Ora salvate Carrai, l'amico di Israele messo al muro come "sionista genocida"
Va tutelato l'imprenditore fiorentino linciato dai fanatici pro Palestina
di Fiamma Nirenstein
Adesso, si tratta di salvare Marco Carrai. Un cristiano che ama Israele, per questo coperto di offese e minacce mortali. Perseguitato fino alla porta di casa da anni, e adesso indicato come "agente sionista genocida" sui muri della sua città, che è anche la mia, Firenze, perché è il console onorario d'Israele. La Toscana ultimamente eccelle in questa vergogna. È l'ora di scusarsi! Si devono scusare Giani presidente della Regione Toscana che ha chiesto a Carrai di dimettersi dall'ospedale Mayer; la città di Firenze che ha votato in consiglio comunale la rottura di tutti i rapporti con Israele sulla base di un documento che, fuori da questo mondo, parla dell'utilizzazione da parte di Israele degli stupri come arma da guerra! Dopo lo stupro di massa di Hamas il 7 di ottobre!
Firenze e la Toscana si devono scusare per aver buttato alla spazzatura le magnifiche medicine israeliane; la coop per cancellare i prodotti di questa terra che ha fatto fiorire il deserto; la gente che ignora i fatti e si accoda alla antica fiumana di odio per gli ebrei addirittura in Piazza Signoria. Devono tutti salvare Carrai e il suo ruolo con un passo indietro, la polemica politica non deve travalicare il muro dell'incitamento all'omicidio, come invece sta succedendo. Sul manifesto per Carrai c' è la foto dell'imprenditore, l'anno di nascita, la scritta "wanted", l'elenco dei suoi titoli e la dicitura "agente sionista, complice del genocidio". In questo caso firma un centro sociale di estrema sinistra, marxista leninista con infiltrazioni jihadiste, ma è solo l'ultima delle persecuzioni contro Marco Carrai console in Toscana e Lombardia.
Chi conosce Carrai sa che la passione per Israele è, in un carattere puntuto, deciso, scherzoso, da fiorentino, una roccia inamovibile infitta dentro la sua altra passione maggiore: il cattolicesimo nella sua versione scoutistica, quella del volontariato, in cui per altro è innestata la sua amicizia millenaria con Renzi. Dentro a questo involucro ideale, che conosce il senso dell'aggettivo "giudaico-cristiano" e sa che sta alle origini della democrazia, c'è molto senso pratico, di uno che non la confonde con stupidaggini fanatiche su falsi diritti umani che poi diventano apprezzamento della violenza: il suo affetto per Israele rispetta l'ebraismo, il suo restare democratico in mezzo a un mondo di terroristi aggressivi, ammira la capacità di mantenere alta la sicurezza. Carrai sa che il domani uno se lo deve conquistare, ma adesso è aggredito troppo da vicino. Ha tre bambini, una moglie di grande cultura, una salute che deve essere sempre salvaguardata con attenzione.
Qui c'è un problema che riguarda tutta l'Italia: essere dalla parte di Israele in una regione rossa è ormai, che tu sia ebreo o meno molto, molto pericoloso. Sei sull'orlo del pogrom ogni giorno, le folle sono ormai scatenate, le parole e i gesti non si misurano più. Carrai è uno dei più visibili esempi di un problema molto largo. La violenza è dietro l'angolo. Sindacati, Anpi, centri sociali, movimenti per la pace, Ucoi possono diventare feroci macchine di guerra e compiere azioni di persecuzione personale anche se come ha fatto Carrai, hai portato fra i primi i bambini di Gaza all'ospedale contro ogni senso di realtà, hai mandato aiuti alimentari a Gaza tramite il porto di Ashod. Non importa. Basta dire Israele e il web e la piazza si scatenano. Ci sono valorosi oppositori: un gruppo di 100 intellettuali e giornalisti ha firmato una lettera in sostegno di Carrai che spiega la folle logica della persecuzione "sei amico di ebrei, o ebreo, non puoi ambire a cariche pubbliche". L'opportunismo della politica legittima pompose ufficialità: i cosiddetti governatori della Puglia Michele Emiliano, dell'Emilia Romagna Michele De Pascale, seguiti dal sindaco di Bologna Matteo Lepore e ora da Firenze hanno agito come se l'Italia fosse uno Stato federale rompendo i rapporti con Israele.
È solo un richiamo della foresta per la folla che non sa che viene turlupinata continuamente sul numero dei morti, sul cibo non recapitato, sulle ragioni del conflitto. Dalla bugia continua, nasce la minaccia contro Carrai e un dilagante razzismo di massa.
(il Giornale, 8 settembre 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 13
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• L’inganno della mezza verità
“Allora Dio parlò a Mosè, e gli disse: ‘Io sono l'Eterno, e apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come l'Iddio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro sotto il mio nome di Eterno. Stabilii pure il mio patto con loro, promettendo di dare loro il paese di Canaan, il paese dei loro pellegrinaggi, nel quale soggiornavano. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù, e mi sono ricordato del mio patto. Perciò di' ai figli d'Israele: 'Io sono l'Eterno, vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi emanciperò dalla loro schiavitù, e vi redimerò con braccio steso e con grandi giudizi. Vi prenderò per mio popolo, e sarò vostro Dio; e voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani. E vi introdurrò nel paese che giurai di dare ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe; e ve lo darò come possesso ereditario: io sono l'Eterno'’” (Esodo 6:2-8).
Una traduzione italiana riporta questo passaggio con il titolo “L’Eterno rinnova la promessa della liberazione”. Ma in che senso sarebbe un rinnovo? Non certo come doppione, non solo per la diversità con cui è formulata, ma anche, come vedremo, per il cambiamento di contesto in cui è avvenuta. Sarebbe allora una seconda edizione corretta e perfezionata? Ma perché ci dovrebbe essere una seconda edizione della promessa? Non bastava la prima? No, evidentemente non bastava, perché la prima appare essere una promessa non mantenuta. Mosè, cioè lo strumento che Dio aveva scelto per portare agli ebrei in Egitto la “buona notizia” di una loro prossima liberazione, si è sentito sconfessato dal suo Mandante, che gli aveva ordinato di annunciare la prossima liberazione agli schiavi e il risultato è stato che gli schiavi si sono visti raddoppiate le loro catene, e lui è stato maledetto da loro.
La promessa dunque doveva essere ripetuta, non per inadempienza del Mandante, ma perché l’incaricato Mosè, come abbiamo già visto e vedremo ancora, non ha eseguito con fedeltà il suo mandato.
Questa volta allora il contesto in cui sarebbe avvenuta la promessa era radicalmente cambiato in peggio. Il primo insuccesso aveva prodotto una serie impressionante di gravi crisi:
1) tra il Faraone e Mosè; 2) tra il Faraone e gli ebrei; 3) tra gli ebrei e Mosè; 4) tra Mosè e Dio.
Era questo che il Signore voleva?
La spiegazione di tutto si trova in Esodo 5:3. Lì si vede un Mosè che al Faraone non dice quello che Dio gli aveva ordinato di dire (Esodo 4:22-23), e attribuisce a Lui un’intenzione che si era inventata sul momento.
Riesaminiamo attentamente la cosa. L’ordine di Dio a Mosè era:
“ Tu dirai al Faraone: ' Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, affinché mi serva; e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito’” (Esodo 4:22-23).
È ripetuto il verbo dire: “Tu dirai … dice l’Eterno … io ti dico”. Questo è un linguaggio politico-militare: l’Iddio degli ebrei incarica il suo ministro Mosè di consegnare nelle mani della massima autorità d’Egitto una dichiarazione di guerra in forma di ultimatum. In dichiarazioni di questo tipo le parole pesano come quintali, non possono essere tolte, o aggiunte, o scambiate: parlano alla ragione affinché la volontà sia diretta nella voluta direzione.
Che fanno invece Mosè e Aaronne? Parlano al cuore affinché i sentimenti siano mossi a pietà:
“Ed essi dissero: ‘L’Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrire sacrifici all'Eterno, che è il nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada’” (Esodo 5:3).
Figuriamoci quanto potesse commuovere il Faraone il pensiero che gli ebrei avrebbero dovuto soffrire per le punizioni ricevute dal loro Dio!
Eppure è proprio questo che sottolinea un commentario biblico (Walwoord-Zuck, Casa della Bibbia):
“Il Faraone fu insensibile riguardo alla possibilità che agli Israeliti potesse venire qualche danno”, come se invece avrebbe dovuto esserlo.
Anche il commentario biblico di John MacArthur dice qualcosa dello stesso tipo:
“Dopo il rifiuto del Faraone, i portavoce formulano la loro richiesta in modo più concreto e mettono in guardia dal possibile giudizio di Dio che potrebbe abbattersi su Israele se non obbedisse al proprio Dio”, anche se non sta scritto che Dio abbia fatto qualche minaccia agli ebrei, né lo farà mai fino all’uscita dall’Egitto.
Il commentario biblico di William MacDonald dice invece:
“Quando Mosè e Aaronne presentarono al Faraone il loro primo ultimatum, egli li accusò di voler distrarre il popolo dai suoi lavori”. Parla di “ultimatum”, perché questo era effettivamente ciò che Dio voleva, ma non è vero che Mosè e Aaronne lo “presentarono al faraone”, perché nelle loro parole non c’è alcun ultimatum, alcuna minaccia, neanche di altro tipo.
Nessuno dei commentatori ha fatto invece notare che Mosè non solo non aveva riportato le esatte parole di Dio, ma ne aveva addirittura capovolto il significato. Le parole messe in bocca a Mosè dal Signore avevano un significato politico intimidatorio; il fatto di capovolgerle ne ha capovolto il risultato: ad essere intimiditi sono stati gli ebrei, non il Faraone.
Una spiegazione un po’ diversa ci viene da fonte ebraica, e precisamente dal commentario “Esodo - ספר שמות“, edito da Mamash Edizioni Ebraiche:
“Non ci colpisca: Moshè parlò a Par’ò nei termini a cui questo era abituato, citando un Dio vendicativo che punisce coloro che non Gli offrono sacrifici (Dà’at Mikrà). Rashì spiega che la minaccia di morte espressa da Moshè in realtà era rivolta all’Egitto ma, per rispetto alla corona, Moshè non parlò in seconda persona. È comunque molto probabile che Par’ò avesse colto il messaggio”.
A differenza dei commentatori cristiani, Rashì si è almeno accorto che Mosè non ha riportato le esatte parole ricevute da Dio, anche se poi ne dà una spiegazione che appare anch’essa molto poco convincente.
Va detto infine che se non fosse stato Mosè ad aver sbagliato, allora bisognerebbe dire che Mosè ha ragione nell’accusare Dio. Perché Dio aveva sì annunciato che il Faraone non avrebbe concesso di sua spontanea volontà l’uscita dal paese, ma aveva anche aggiunto che vi sarebbe stato costretto dalla “potente mano” di Dio che si sarebbe abbattuta sull’Egitto con segni e miracoli fino al punto di costringerlo a lasciarli partire. Non aveva detto invece che il Faraone avrebbe reagito con quella ferocia devastante che poi si è vista, moltiplicando fino all’impossibile il loro lavoro e riempiendo di botte i sorveglianti.
Questo è avvenuto come precisa conseguenza delle parole di Mosè, che aveva scambiato l’intimidazione di Dio al Faraone: “se rifiuti… io ucciderò tuo figlio” con le parole: “affinché … Egli non colpisca noi”. Accettare l’intimidazione nella forma presentata da Mosè, per il Faraone avrebbe significato:
1) riconoscere l’autorità del Dio degli ebrei; 2) riconoscere il dovere da parte sua di preoccuparsi dello star bene degli ebrei.
Con la sua mezza verità, che è doppia menzogna, Mosè aveva alterato la parola di Dio, dunque non c’è da meravigliarsi se il diavolo, che “quando dice il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8:44), abbia immediatamente strumentalizzato questa menzogna per fare la sua politica: istigare l’autorità pagana sotto la sua giurisdizione a dare un segno di significato opposto: il Faraone avrebbe colpito ancora più duramente gli ebrei per far capire che:
1) lui non conosce l’Eterno, quindi non gli attribuisce alcuna autorità;
2) a lui non importa niente della salute degli ebrei.
Ciò che in realtà è accaduto, è che Mosè, come prima di lui Abraamo, sentendosi in pericolo davanti al Faraone ha pensato bene di cavarsela con una mezza verità. In quel caso, come ora in questo, Abraamo non fu pubblicamente rimproverato, ma per "il superiore interesse" del suo progetto, il Signore fu costretto a metterci una pezza. Cosa che fa anche in questo caso, ripetendo in sostanza il discorso fatto a Mosè intorno al roveto ardente, con qualche aggiunta e sottolineatura.
Torniamo allora al passo di Esodo 6:2-8 riportato sopra.
• Conoscere l’Eterno
Dopo il tremendo “incidente diplomatico” col Faraone, e senza rispondere alle accuse di Mosè, il Signore gli rivolge la parola una seconda volta dopo il colloquio intorno al roveto ardente. Si riferisce ancora ai tre patriarchi Abraamo, Isacco e Giacobbe, precisando che pur essendo apparso a loro come “Iddio onnipotente” (אל שדי) non era stato conosciuto da loro sotto il nome di Eterno (tetragramma). In realtà, questo nome era stato pronunciato dai patriarchi qualche volta, ma qui non si tratta di conoscere lessicalmente un termine, ma di conoscere Dio sotto questo nome. Perché d’ora in poi il nome di Eterno sarà sempre collegato a qualcosa di specifico: il popolo che Dio ora si sta formando .
Nel discorso del roveto ardente il Signore ha usato per la prima volta l’espressione “mio popolo” (Esodo 3:7-10); qui la ripete dicendo: “vi prenderò per mio popolo” , aggiungendovi: “e sarò vostro Dio”, espressione usata anch'essa per la prima volta nella Bibbia. Il piano redentivo prevede dunque che Israele sia il popolo di Dio, e l’Eterno sia il Dio di Israele. Il programma è questo, ma il processo per far sì che Israele arrivi a conoscerlo in senso pieno sarà molto lungo. Ma il Signore è intenzionato a non demordere.
Dio costringe Mosè a parlare una seconda volta ai figli d’Israele, dicendo loro: “Voi conoscerete che io sono l’Eterno, il vostro Dio”, ma dovrà anche ripetere quanto detto la prima volta: “il sono l’Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani”, e questo, gli ebrei gementi sotto un peso raddoppiato di lavoro, non se lo vogliono sentir dire da Mosè. Risultato:
“Mosè parlò in quel modo ai figli d'Israele; ma essi non diedero ascolto a Mosè, a causa dell'angoscia del loro spirito e della loro dura schiavitù” (Esodo 6:9).
All’inizio avevano creduto a Mosè, ora non più. Eppure a Mosè Dio aveva detto che “essi ubbidiranno alla tua voce” (3:18). Poiché non è Dio che non mantiene la sua parola, bisogna dire che la voce di Mosè aveva perso l’autorità che Dio gli aveva data per rivolgersi al popolo.
Il Signore comunque va avanti nell’esecuzione del suo progetto, e continua a usare Mosè come suo strumento; ma è chiaro che ora qualcosa deve essere aggiornato nel programma.
Dal Faraone inizialmente avrebbe dovuto andare Mosè con una delegazione di anziani in rappresentanza della comunità ebraica. Dopo l’esito disastroso del primo incontro, i figli di Israele, che non credono più a Mosè, “si sfilano”. La relazione Mosè-popolo si è rotta. Il Signore allora ripete l’ordine di andare dal Faraone, ma questa volta è rivolto soltanto a Mosè:
“E l'Eterno parlò a Mosè, dicendo: “Va', parla al Faraone re d'Egitto, affinché egli lasci uscire i figli d'Israele dal suo paese” (6:10-11).
Mosè ha capito che dovrà andarci da solo, e allora ancora una volta obietta:
“Ma Mosè parlò alla presenza dell'Eterno, dicendo: “Ecco, i figli d'Israele non mi hanno ascoltato; come vorrà darmi ascolto il Faraone che sono impacciato con la parola?” (6:12).
L’obiezione è seria, perché da solo, a titolo personale, presentandosi al Faraone che ha dato in escandescenze la prima volta, che speranze ci sono di poter avere successo una seconda volta? E di nuovo tira fuori l’argomento di essere poco sciolto di lingua. Il Signore tiene conto solo di questa seconda obiezione e gli mantiene l’accompagnatore, ma poi emette un secco ordine :
“Allora l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, e comandò loro di andare dai figli d'Israele e dal Faraone re d'Egitto, per trarre fuori i figli d'Israele dal paese d'Egitto” (6:13).
“Andate, e tirateli fuori!” Questo è il succo dell’ordine.
• Politica interna e politica estera di Dio
A questo punto si può cominciare ad usare in modo sistematico i concetti di politica interna e politica estera di Dio nella Sua guerra in corso contro Satana, il suo Avversario.
Non è che parlando di guerra fra Dio e Satana si fa uso di un antropomorfismo: è vero il contrario. È dall’esistenza di questa guerra celeste che nasce il concetto che poi sarà applicato a tutti i conflitti terrestri.
In ogni guerra si parla di politica interna e politica estera. Nella guerra contro Satana per la “riconquista del creato”, Dio ha scelto di formarsi la Sua nazione facendo un patto con Abraamo. Questo stabilisce una differenza eterna fra “la nazione” scelta da Dio (Israele), e “le nazioni” (tutte le altre). Detta così, la cosa è molto, molto irritante. Ma corrisponde all’uso che ne fa la Bibbia. Prendere o lasciare.
Per politica interna di Dio s’intendono tutte le parole e azioni che Dio compie verso Israele per formare, educare, disciplinare il popolo della Sua nazione per il compito che dovrà svolgere nel mondo.
Per politica estera di Dio s’intendono tutte le parole e azioni che Dio compie verso le nazioni, mettendole in relazione con Israele.
L’uso di questo linguaggio serve a sottolineare che la Bibbia non è un’antologia di racconti su personaggi interessanti come Abramo, Mosè, Davide o Gesù, con paragrafi moralmente istruttivi o spiritualmente edificanti o artisticamente sublimi o miticamente fondanti, ma è storia dell’agire di Dio nel rapporto da Lui voluto con la terra abitata da uomini creati a sua immagine e somiglianza. È parola di Dio non solo nel senso lato che è Dio che parla, ma nel senso specifico che Dio parla di Sé, cioè rivela Se stesso, si fa conoscere attraverso parole e fatti. Infatti agli ebrei dice:
“Voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani” (6:7),
e degli altri dice:
“E gli Egiziani conosceranno che io sono l'Eterno, quando avrò steso la mia mano sull'Egitto e avrò fatto uscire di mezzo a loro i figli d'Israele” (7:5).
È ovvio concluderne che il personaggio principale della Bibbia è Dio stesso. Chi leggendola non trova Dio, ha perso il suo tempo. O forse qualcosa di peggio.
Con linguaggio politico si possono indicare per esempio tutte le azioni di Dio dal patto di Abraamo in poi, classificandole come operazioni di politica interna o estera.
Parlando molto in generale, in tutto il libro della Genesi l’azione di Dio nella gestione della tribù familiare abramitica è politica interna, con poche relazioni con figure politiche come Abimelec, re di Gherar, e poi, attraverso Giuseppe, con il Faraone d’Egitto e la sua corte.
Nel libro dell’Esodo ha inizio la vera politica estera di Dio. In Egitto, nel periodo di tempo indicato da quel libro, si trova il popolo che dovrà formare la nazione promessa ad Abraamo. Il compito che ora compete a Dio è di trarre fuori il suo popolo dalla terra pagana in cui è cresciuto per portarlo nella terra che, secondo i patti, sarebbe stata donata alla nazione come suo possesso: cioè la terra di Canaan. Non si tratta dunque soltanto di liberare gli ebrei dalla schiavitù, in ossequio a un ideale universale di libertà per tutti gli uomini, ma di farlo uscire dalla terra di una nazione pagana per farlo andare a formare una “nazione santa” (Esodo 19:5-6) in un’altra terra.
Per arrivare a questo dovranno essere compiuti atti di politica estera, necessariamente preceduti da atti di politica interna.
La politica interna di Dio comincia con la nomina di un condottiero come capo politico e militare: Mosè. Continua con l’opera di convinzione del popolo che formerà la nuova nazione. Diventa politica estera quando al capo politico viene assegnato il compito di portare una dichiarazione ultimativa al capo della nazione avversa. E sappiamo come andò a finire.
La missiva che doveva portare Mosè al Faraone è una dichiarazione ultimativa che è un atto politico della guerra in corso fra Dio e Satana per il possesso della terra e dei suoi abitanti. Mosè è l’uomo di Dio, il Faraone è l’uomo di Satana.
È certamente una guerra asimmetrica, perché le armi con cui i due contendenti combattono sono infinitamente diverse tra loro: verità e giustizia da una parte, menzogna e ingiustizia dall’altra.
È una guerra a risultato sicuro, perché si sa già chi è il Vincitore. Ma è proprio nel coinvolgimento degli uomini in questa guerra vittoriosa che si svolge il progetto redentivo di Dio.
Bisogna dire allora che, fino a questo punto, mentre il Faraone, capo dell’esercito di Satana, ha svolto perfettamente il suo compito, Mosè, capo dell’esercito di Dio, non ha fatto altrettanto. Ha commesso un gravissimo errore “diplomatico” nella consegna della dichiarazione di guerra e, di conseguenza, ha mostrato di essere incapace di convincere il popolo a seguirlo nell’azione voluta da Dio.
Alla fine, la volontà del Faraone sarà vanificata: il popolo uscirà dall’Egitto e si metterà in marcia verso la terra promessa. Ma nessun uomo, neppure Mosè, potrà vantarsi di questa vittoria. Il popolo potrà gioirne, come avverrà poi nel canto trionfale di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso (Esodo cap.15), ma ne loderà l’Eterno. Perché solo a Lui appartiene la gloria.
(Notizie su Israele, 7 settembre 2025)
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Avvocato di Gaza rivolge un appello all’Albanese sui crimini di Hamas
Durante il convegno del Consiglio Nazionale Forense svoltosi oggi in streaming sul tema “Guerra e diritti umani: Gaza, Cisgiordania e Israele” con la partecipazione di Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, l’avvocato astigiano Luigi Florio, che era nel panel dei relatori, ha reso nota la lettera-appello fattagli pervenire da un avvocato di Gaza perché fosse resa nota alla relatrice speciale.
L’avvocato, di cui Florio non ha reso noto il nome per non esporlo a gravi rischi personali, lamenta come la popolazione gazawa sia vittima sia dell’occupazione israeliana conseguente alla guerra scaturita dal massacro del 7 ottobre 2023, sia della “repressione sistematica imposta da Hamas contro ogni voce che osi rivendicare dignità, libertà e giustizia”.
Ho conosciuto questa persona tramite una collega di Lodi, Alessandra Casula, che già aveva contatti con lui”, ha detto Florio. “Ci siamo parlati in videochiamata. Si sta cercando di organizzare un convegno tra avvocati israeliani e palestinesi. Quando ha saputo che oggi avrei avuto un incontro con la relatrice speciale Albanese mi ha pregato di metterla al corrente del suo appello, con cui chiede che l’Onu apra gli occhi sui crimini quotidiani di Hamas, di cui nessuno parla e di cui egli stesso è stato più volte vittima con imprigionamenti arbitrari, torture, saccheggi della sua casa. Ora teme per la sua vita”.
Florio ha comunicato che trasmetterà la lettera al presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, presente anch’egli al convegno, che ha al tempo stesso pregato di impegnare l’avvocatura italiana per salvare la vita di questo e di numerosi altri avvocati gazawi minacciati dal regime di Hamas oltre che dalla guerra che si combatte nella striscia.
(il Giornale, 6 settembre 2025)
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Il Processo
di Angelica Edna Calò Livne e Francesco Lucrezi
In tutto il mondo, da quasi due anni, si sta svolgendo, com'è noto, un gigantesco processo contro una parte del popolo ebraico (spesso tutto quanto), celebrato in tutte le sedi immaginabili: aule di tribunale, certo, ma anche giornali, televisioni, Università, scuole, piazze, festival, fiere, ristoranti, alberghi ... L'accusa è chiarissima: genocidio. Le condanne sono varie, alcune già applicate, altre di futura esecuzione: imputati cacciati, banditi, picchiati, uccisi, destinati (là dove stanno tutti insieme) alla completa eliminazione (dal fiume al mare).
Si può forse discutere sul fatto se queste condanne siano più o meno appropriate, ma sul fatto che una qualche condanna ci debba essere sembra inutile discutere: possibile che l'intero mondo stia prendendo una gigantesca cantonata?
Ma è la prima volta che ciò succede? Direi proprio di no. Ripercorriamo un po' di storia.
Per quasi duemila anni gli ebrei (tutti gli ebrei del mondo) sono stati processati e condannati per avere (tutti quanti) ucciso Gesù. Ma poi, con grande tempismo, nel 1965, la Chiesa ha detto, in un comunicato di quattro righe, che non era vero. Piccolo errore giudiziario, scusate.
Dopo hanno detto che usavano il sangue dei bambini cristiani per fare il pane azzimo. Molte condanne sono state emanate per questa ragione. Ma poi, qualche secolo dopo, hanno riconosciuto che non era vero. Piccolo errore giudiziario, scusate.
Dopo hanno detto che erano tutti usurai.
Poi, molto tempo dopo, hanno riconosciuto che non era vero. Qualcuno sì, tutti no. Piccolo errore giudiziario, scusate.
Dopo hanno detto che erano tutti comunisti rivoluzionari e pericolosi sovversivi. Ma, nello stesso tempo, hanno detto che erano tutti ricchi banchieri capitalisti, affamatori del popolo.
Poi si sono accorti che era difficile che fossero tutti entrambe le cose insieme. Hanno riconosciuto che c'era stata un po' di confusione. Due piccoli errori giudiziari uguali e opposti, scusate.
Dopo hanno detto che appartenevano tutti a una razza inferiore. In questo caso, non bisognava dimostrare che si fosse fatto qualcosa di male. La colpa era genetica. Bastava avere uno solo dei quattro nonni ebreo, e il destino era segnato. Il bello è che, prima, nessuno sapeva che esistesse una razza ebraica, nessuno ne aveva mai parlato. Ma, improvvisamente, questa razza ebraica è comparsa, e quasi tutti ci hanno creduto, al punto da impegnare enormi energie per procedere alla dovuta opera di disinfestazione.
Poi, però, gli stati impegnati a ripulire il mondo da questa razza, purtroppo per loro, hanno perso la guerra. E, improvvisamente, come un palloncino che scoppia, le razze, tutte le razze sono scomparse, compresa quella ebraica. Qualche milione di persone è stato condannato a morte per questo, ma pazienza. Nessun errore giudiziario, è solo il codice penale che è cambiato. Cose che capitano.
Ora c'è questo nuovo processo (e questa nuova condanna) per genocidio.
Domani certamente si riconoscerà che il solo fatto di averlo pensato è stato, oltre che una menzogna infamante, un'assurdità assoluta. Si riconoscerà che non c'è mai stato un solo caso, nella storia, in cui, in una guerra di difesa, tanti soldati abbiano preferito rischiare, e spesso perdere, la propria vita, pur di non mettere a repentaglio quella di civili innocenti. E si riconoscerà che l'unico responsabile di quelle morti era un altro. Si ammetterà che quella condanna è stata un altro, piccolo errore giudiziario.
Magari avverrà tra qualche secolo, ma avverrà. Tanto, che fretta c'è?
(Il Riformista, 6 settembre 2025)
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Deficit, audio falsi e decisioni degli Usa: ora l’Anp vacilla

di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Un file audio diffuso anonimamente sui social media ha generato nei giorni scorsi un’ondata di preoccupazione in Cisgiordania. «Tra la gente, ma più di tutto nel quartier generale (la Muqata) del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen)», precisa Anwar, un anziano militante di Fatah a Ramallah che ci ha chiesto di non usare il suo vero nome. «Quelle registrazioni sono arrivate nel momento meno indicato – aggiunge – mentre l’Autorità nazionale palestinese (Anp) affronta una fase molto delicata». Abu Mazen e il suo vice Hussein Sheikh, ci spiega Anwar, si erano convinti che i riconoscimenti annunciati dello Stato di Palestina da parte della Francia e di altri Paesi occidentali avrebbero rilanciato il loro ruolo sulla scena diplomatica, anche in vista della gestione futura di Gaza.
«Gli Stati Uniti li hanno gelati con la decisione annunciata da Rubio», afferma Anwar, riferendosi alla revoca dei visti d’ingresso comunicata dal Segretario di Stato Usa, che impedirà al presidente e ad altri funzionari dell’Anp e dell’Olp di partecipare all’Assemblea generale dell’Onu. «Poi – conclude – sono arrivati i file audio che annunciano il crollo dell’Anp. Nella Muqata regna la depressione».
Gli autori degli audio restano sconosciuti, anche se la polizia dell’Anp ha arrestato tre persone accusate di aver diffuso i file. Nella registrazione, due uomini discutono del presunto imminente scioglimento dell’Anp e della situazione nei Territori occupati. Per il governo palestinese si tratta di «pura disinformazione». La registrazione, afferma, è «falsa». Allo stesso tempo la rapidità con cui la voce si è propagata e l’allarme che ha generato raccontano molto sullo stato d’animo della popolazione palestinese, che da lungo tempo percepisce l’Anp come piegata ai voleri di Israele e degli Usa, fragile e paralizzata politicamente.
Del resto, la «discussione» tra i due palestinesi non identificati tocca questioni che da mesi animano le conversazioni nei bar, nei mercati e nei campi profughi: stipendi pagati a intermittenza, anno scolastico di fatto fermo, mancanza di risorse nei servizi di base e timori concreti di annessione della Cisgiordania a Israele. «Certo, qualcuno ha avuto interesse a realizzare e a diffondere sui social quelle registrazioni. Però non sono storie inventate, la gente parla di questo ogni giorno», sottolinea Anwar.
È d’accordo l’analista Ghassan Al Khatib, docente di scienze politiche all’università di Bir Zeit. «Non stupisce che una voce anonima, priva di fondamento, sia riuscita a scatenare un’ansia collettiva», afferma. «L’Anp non gode di consenso – aggiunge – questo è noto da tempo, ma fornisce servizi importanti, dall’istruzione all’assistenza sanitaria, impiega decine di migliaia di palestinesi, rappresenta l’unico reddito per migliaia di famiglie. Il suo crollo improvviso, senza un’alternativa, avrebbe effetti catastrofici».
Alla crescente incapacità della leadership dell’Anp di incidere sui processi politici si è aggiunta la preoccupazione del collasso senza orizzonte che, temono in tanti, potrebbe portare caos e instabilità nelle città palestinesi, destinate a diventare bantustan a tutti gli effetti se Israele, come prevede il piano presentato dal ministro Bezalel Smotrich, procederà all’annessione di gran parte della Cisgiordania senza assorbire la popolazione palestinese. L’ipotesi di un crollo dell’Anp si è rafforzata dopo la decisione di Trump, sotto la pressione di Israele, di prendere di mira Abu Mazen, che pure è l’esponente palestinese più moderato e pronto al dialogo con Tel Aviv e Washington. Pesa anche la crisi finanziaria prodotta dal blocco israeliano dei trasferimenti fiscali: oltre otto miliardi di shekel (più di due miliardi di euro) trattenuti che privano l’Anp di risorse vitali. Insegnanti, infermieri, agenti di polizia ricevono stipendi parziali o in ritardo, mentre ospedali e scuole sono in grande affanno.
Al Khatib non sminuisce l’impatto e il significato politico della revoca dei visti d’ingresso negli Usa – un colpo basso non ancora assorbito dalla Muqata, al punto che la presidenza palestinese non ha chiesto che la sessione dell’Onu sia trasferita dagli Usa in Svizzera, come vorrebbero alcuni –, ma ritiene che il rischio di un’implosione dell’Anp e delle sue conseguenze sia la vera priorità al momento. «Se l’Autorità dovesse cedere – avverte – molti temono che il vuoto potrebbe essere occupato da milizie locali o da formule ibride e pericolose».
(il manifesto, 6 settembre 2025)
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Fabrizio Corona a Gerusalemme: la guerra come passerella
di Stefano Piazza
Ci mancava solo Fabrizio Corona a Gerusalemme. Tra sirene antiaeree, trattative in stallo e minacce di nuove offensive, è atterrato il «re del gossip» italiano, come se la Striscia di Gaza fosse l’ultima passerella utile per rilanciare un personaggio che da vent’anni si reinventa senza sosta: dalle copertine patinate ai reality show, dalle aule di tribunale alle interviste scandalistiche.
La sua presenza in Israele è un ossimoro vivente. Da un lato un Paese che discute di sicurezza nazionale, ostaggi, operazioni militari e scenari geopolitici complessi; dall’altro un uomo che non ha mai avuto alcuna familiarità con conflitti, diplomazia o analisi internazionale. Corona non conosce i fatti, non maneggia i nomi, non ha idea delle dinamiche regionali. Ma per il suo universo mediatico questo non è un problema. Perché ciò che conta non è sapere, ma esserci: farsi vedere, occupare la scena, trasformare ogni contesto – anche il più drammatico – in un contenuto da raccontare.
Ed eccolo dunque, catapultato in una cornice che nulla ha a che fare con la sua biografia, pronto a trasformare tragedie epocali in materiale per storie Instagram. Per gli israeliani, abituati a generali in uniforme e analisti di strategia militare, sarà difficile comprendere se Corona sia un inviato speciale improvvisato, un turista spaesato o un esperimento sociale. Il vero paradosso è evidente: mentre inviati di guerra e reporter indipendenti rischiano la pelle per documentare la realtà, basta l’arrivo di un ex fotografo dei vip per catalizzare l’attenzione. Un uomo che, più che al conflitto, è legato a un curriculum giudiziario che sembra uscito da un manuale di criminologia: condanne per bancarotta fraudolenta, per estorsione, una lunga serie di processi e rientri mediatici orchestrati con la precisione di un marketing spregiudicato.
Il suo arrivo, lungi dall’essere un contributo alla comprensione del conflitto, diventa invece l’ennesima dimostrazione della debolezza del sistema mediatico italiano. Un sistema che, di fronte a un evento internazionale drammatico e complesso, riesce a spostare l’attenzione dal fronte alla cronaca rosa, dal destino degli ostaggi alla biografia di un personaggio che della provocazione ha fatto mestiere. In un momento in cui l’Europa discute di mediazioni, la comunità internazionale di cessate il fuoco e Israele di strategie militari, l’Italia riesce a esportare il peggio del suo star system. La sproporzione è lampante. Da una parte i diplomatici logorati da mesi di colloqui, i leader politici impegnati a cercare vie d’uscita, le famiglie degli ostaggi appese a notizie frammentarie. Dall’altra, un uomo che ignora completamente i meccanismi della diplomazia, ma che della guerra farà comunque un contenuto social, corredato da selfie e video da condividere con i follower.
Il risultato è surreale, ai limiti del grottesco. L’idea che Fabrizio Corona possa raccontare la guerra di Gaza ha lo stesso peso analitico di un talk show del pomeriggio. Ma la cosa più inquietante è che trova spazio, attenzione e visibilità. Invece di chiedersi quali possano essere le conseguenze di una nuova offensiva, o quale futuro attenda i negoziati sugli ostaggi, ci si interroga su come mai Corona sia atterrato a Tel Aviv. E così, mentre in Medio Oriente si consuma uno dei conflitti più complessi e pericolosi degli ultimi decenni, l’Italia conferma il suo primato in una disciplina unica: trasformare la tragedia in spettacolo, la geopolitica in pettegolezzo, la guerra in un set fotografico.
Morale della favola? Mentre Israele prepara nuove operazioni e Hamas proclama resistenza, Fabrizio Corona prepara storie Instagram e dirette You Tube per fare «il vero giornalismo» . Il conflitto continua, i mediatori si logorano, le famiglie piangono, ma lui sorride all’obiettivo, pronto a cavalcare l’ennesima onda di visibilità. È la dimostrazione che il circo mediatico italiano non conosce limiti né confini: pianta la sua tenda ovunque, anche in mezzo a una guerra. E alla fine resta solo una domanda, amara ma inevitabile: se la tragedia diventa palcoscenico, cosa resta della dignità del giornalismo? Forse nulla. Ma almeno avremo un nuovo selfie da commentare.
(L'informale, 6 settembre 2025)
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Il conformismo pro-Pal domina la Mostra di Venezia: The Voice of Hind Rajab ha già vinto
di Alessandro Agostinelli
Fin dal suo annuncio, il film della regista tunisina Kawthar ibn Haniyya era dato come probabile vincitore. Poi ci sono stati la proiezione con le bandiere palestinesi al Palazzo del Cinema e gli oltre 20 minuti di applausi. Nel mezzo si sono avvicendati l’appello Venice4Palestine, con firmatari più o meno convinti di aver aderito, e il corteo acqueo dei pro-Pal. Qui al Lido si intuisce che non ci sono mai state alternative. The Voice of Hind Rajab ha già vinto la 82esima Mostra del Cinema. Ha vinto comunque, a prescindere se riceverà o meno il Leone d’oro. È una storia vera. Viene da Gaza. È diretto da una bravissima regista donna. È un film ben orchestrato, che racconta la storia di Hind Rami Iyad Rajab, bambina palestinese di sei anni che il 29 gennaio 2024 fu fatta morire durante un’operazione dell’esercito israeliano nel nord della Striscia di Gaza. L’auto dove viaggiava con i parenti fu colpita da un carro armato. Si salvò solo lei, che rimase al telefono con la Mezzaluna Rossa. Ma, in attesa dei soccorsi, Hind Rami morì.
Il film è basato sull’audio vero della bambina, mentre i soccorritori sono attori sul set. Così è stata pensata e montata questa pellicola, che avrà una buona distribuzione anche nelle sale europee e americane. Non c’è alcuna giustificazione per cui una bambina debba morire in auto, dopo aver visto uccidere i propri familiari. Non c’è giustificazione che tenga al confronto di questo strazio andato in scena a Gaza a gennaio 2024. Eppure è proprio sui corpi delle persone che si fa la guerra. E questo film, mettendo palesemente in scena pezzi di reale, agisce anche sui nostri corpi. È sui corpi che si gioca la politica, quelli dei poveracci e dei potenti, delle vittime e dei carnefici, degli informati e dei disinformati.
Sui corpi lavora il cinema, e in questo caso su una porzione di corpo: la voce. Sul corpo di Marah Abu Zuhri ha agito il comune di San Giuliano Terme, sotterrandola nel proprio territorio (per questo il sindaco ha subìto una minaccia anonima giunta dagli Stati Uniti). Sono i corpi a entrare in gioco, anche nell’uso strumentale che di questi ne fa la politica, l’informazione, il doppio fine. E tuttavia c’è sempre una guerra concreta, sul campo. Ed è quella su cui è sempre difficile esprimersi, non conoscendone fino in fondo i rilievi. E c’è sempre una rappresentazione della guerra, che in questo caso è quella del film.
Ma se lo strazio è vero e non è una rappresentazione? Ecco, pare che se si usa un lacerto di vita vera, allora siamo di fronte a un pezzo di verità. E va bene. Ma se l’immediatezza si sostituisce alla rappresentazione, come faremo a porre una distanza emotiva e quindi razionale sulle cose? Per molti è proprio questo che il cinema deve fare: porre porzioni di reale di fronte a un pubblico con la pancia piena. E infine c’è pure una guerra dell’informazione. Ed è esclusivamente su questa che si gioca la costruzione delle nostre opinioni, dei nostri giudizi, dei nostri stati d’animo. Oggi si chiuderà la 82esima Mostra d’Arte cinematografica di Venezia. L’omaggio alla Palestina ha dominato la scena: la storica rassegna di film conferma di adeguarsi al sentimento comune della maggioranza del Paese. E quest’anno ha deciso di sposare il conformismo pro-Pal.
(Il Riformista, 6 settembre 2025)
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Un sondaggio mostra ampio consenso alla conquista della città di Gaza
La guerra è iniziata con orrore e l'opinione pubblica non ha alcun interesse a che finisca con mezze misure.
GERUSALEMME - Mentre i commentatori internazionali si tormentano sulla guerra a Gaza, gli israeliani stessi sono consapevoli che la battaglia non è finita e deve essere vinta.
Un nuovo sondaggio pubblicato mercoledì sera mostra che una netta maggioranza del 65% degli israeliani sostiene la conquista della città di Gaza e dei campi profughi centrali, aree che sono ancora in gran parte sotto il controllo di Hamas. Il 32% si è detto contrario. Solo il 3% ha dichiarato di non avere un'opinione in merito.
Il sondaggio è stato condotto dal Direct Polls Institute e pubblicato dall'emittente israeliana i24. Il 3 settembre sono stati intervistati 513 adulti utilizzando un sistema digitale combinato e un panel di ricerca. Il margine di errore statistico è del ±4,4%.
I risultati appaiono sullo sfondo di un acceso dibattito all'interno della leadership israeliana. I decisori politici stanno spingendo per l'attuazione dell'operazione “Gideon's Chariot 2”, una manovra decisiva per conquistare le ultime roccaforti di Hamas. Al contrario, alti funzionari della difesa – tra cui il capo di Stato Maggiore, il tenente generale Eyal Zamir – sono stati citati dai media con l'intenzione di concludere prima un accordo parziale sugli ostaggi prima di approvare un'offensiva più profonda.
Tuttavia, il sondaggio chiarisce la posizione dell'opinione pubblica: determinata a portare a termine la missione. Per gli israeliani, il 7 ottobre non è un ricordo che può essere cancellato con la diplomazia. E come l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, oggi la maggior parte delle persone crede che gli ultimi 20 ostaggi ancora in vita non possano essere liberati solo attraverso i negoziati.
Mentre i critici all'estero descrivono la guerra come una situazione di stallo o una crisi umanitaria, gli israeliani sanno bene che non è così. Una netta maggioranza non considera la conquista di Gaza City un'escalation, ma il necessario completamento della missione.
Gli israeliani rimangono divisi su questioni di tempistica e tattica, ma l'obiettivo è chiaro: Hamas non deve essere lasciato armato e al controllo della Striscia di Gaza. La guerra è iniziata con orrore e l'opinione pubblica non ha alcun interesse a che finisca con mezze misure.
(Israel Heute, 5 settembre 2025)
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Come Hamas cerca di dividere la società israeliana e il supporto a Israele
La proposta di Hamas è inaccettabile perché permetterebbe al gruppo terrorista di sopravvivere, cosa che Israele vuole evitare ad ogni costo. I terroristi lo sanno ma pensano di far leva sulla società israeliana divisa sull'attacco a Gaza city
di Paola P. Goldberger
Ieri sera Hamas ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui afferma di essere ancora in attesa della risposta di Israele alla proposta dei mediatori del 18 agosto, secondo cui dieci dei 20 ostaggi ancora in vita sarebbero stati rilasciati. L’organizzazione terroristica afferma di essere pronta a un “accordo globale”, che includerebbe “il rilascio di tutti i prigionieri israeliani in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi, come parte di un accordo che porterà alla fine dei combattimenti, al ritiro delle IDF da Gaza, all’apertura dei valichi e all’inizio del processo di ricostruzione”.
Fonti di sicurezza di alto livello affermano che Hamas sta cercando di impedire l’occupazione di Gaza City da parte delle forze di difesa israeliane e, pertanto, sta nuovamente diffondendo propaganda mediatica volta a promuovere la ripresa dei negoziati sull’accordo per gli ostaggi e un lungo cessate il fuoco, che ritarderanno l’occupazione di Gaza e le consentiranno di tergiversare per qualche altro mese. Secondo loro, attraverso l’annuncio, Hamas sta cercando di ampliare la frattura interna nella società israeliana e di mobilitare l’opinione pubblica contro le decisioni del governo.
Un alto funzionario di Hamas all’estero, Izzat al-Rashq, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Stiamo dicendo al presidente degli Stati Uniti Trump che Hamas ha accettato il 18 agosto la proposta dei mediatori, basata sulla proposta di Witkoff, e Netanyahu non ha ancora risposto. Abbiamo espresso la nostra disponibilità a un accordo globale, ma Netanyahu è il vero ostacolo agli accordi e vuole una guerra senza fine”.
Il mediatore palestinese-americano Bishara Bahabah, che funge da collegamento tra l’organizzazione terroristica e gli Stati Uniti, ha dichiarato ieri sera al canale saudita Al-Arabiya che “Hamas ha offerto tutto ciò che poteva, e in passato ha sempre rimandato. La risposta di Hamas all’offerta odierna è razionale e responsabile. Trump farà pressione su tutti affinché pongano fine alla guerra di Gaza, che può concludersi entro due settimane se c’è una reale intenzione. Ci sono più segnali positivi che mai verso una soluzione permanente per Gaza”.
Israele ha respinto categoricamente la proposta di Hamas. L’ufficio del Primo Ministro ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava: “Purtroppo, questa è l’ennesima versione di Hamas che non ha nulla di nuovo. La guerra può finire immediatamente alle condizioni stabilite dal governo: il rilascio di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas, la smilitarizzazione della Striscia, il controllo di sicurezza israeliano su Gaza e l’istituzione di un governo civile alternativo che non fomenti terrorismo, non invii terrore e non minacci Israele. Solo queste condizioni impediranno ad Hamas di riarmarsi e ripetere il massacro del 7 ottobre più e più volte, come promette”.
Anche il Ministro della Difesa Israel Katz ha risposto all’annuncio di Hamas. In una dichiarazione, ha affermato che “Hamas continua a chiudere gli occhi e a pronunciare parole vuote, ma presto si renderà conto che deve scegliere tra due opzioni: accettare le condizioni israeliane per porre fine alla guerra, in primo luogo il rilascio di tutti gli ostaggi e il disarmo, oppure Gaza diventerà equivalente a Rafah e Beit Hanoun. Le Forze di Difesa israeliane si stanno preparando a pieno regime”.
Diverse ore prima dell’annuncio di Hamas, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scritto su Truth Social: “Dite ad Hamas di rilasciare tutti i 20 ostaggi, non 2, 5 o 7, e poi le cose cambieranno rapidamente. Sarà finita!”
Alti funzionari politici a Gerusalemme affermano che non vi è alcun cambiamento nella decisione del gabinetto di sicurezza di occupare Gaza City e che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è determinato a implementare la decisione. Secondo loro, le IDF continuano a combattere nell’area di Gaza City e presto amplieranno notevolmente la loro attività. Il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha dichiarato che “l’Operazione Gideon Chariots II è stata lanciata”.
L’ala militare di Hamas ha annunciato tramite Al Jazeera di aver lanciato una serie di operazioni denominate “Quartier Generale di Mosè” per sventare il piano “Gideon Chariots II”.
(Rights Reporter, 5 settembre 2025)
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A Gaza non ci sono genocidio e carestia, lo studio empirico smonta le accuse: Israele attacca i terroristi e fornisce cibo
L’analisi del Centro Begin-Sadat parla chiaro: non esiste un disegno di sterminio della Striscia. I dati calorici pro capite restano sopra la soglia minima di sopravvivenza. E l’Idf è prudente
di Luca Sablone
C’è un termine che, più di ogni altro, fa tremare le coscienze: genocidio. È la parola che definisce la Shoah, i massacri in Ruanda, i campi di sterminio in Bosnia. È la parola che segna l’abisso morale dell’umanità. Proprio per questo viene usata a sproposito come arma devastante, per calpestare la memoria storica e strumentalizzare il diritto internazionale. Accusare Israele di genocidio significa accusare lo Stato ebraico – nato dalle ceneri dell’Olocausto – di ripetere lo stesso crimine di cui fu vittima. Una menzogna che trova terreno fertile nelle piazze, nelle Università e perfino nella comunità internazionale. Ma la verità è un’altra: nessun dato empirico dimostra un disegno di sterminio. La tesi del genocidio viene smontata pezzo per pezzo dallo studio del Centro Begin-Sadat per gli Studi Strategici (BESA), Università Bar-Ilan, firmato da Danny Orbach, Jonathan Boxman, Yagil Henkin, Jonathan Braverman. «Le accuse di genocidio non sono corroborate dai dati empirici», scrivono nero su bianco gli esperti. Non è un dettaglio: è il cuore della questione. Anzi, subito dopo affermano che le dinamiche sul terreno (come evacuazioni, corridoi umanitari, pause operative) «suggeriscono piuttosto un tentativo, pur imperfetto, di limitare i danni collaterali».
• Lo studio del BESA: i fatti abbattono la propaganda
Il documento non è uno scritto polemico, ma una ricerca storica e quantitativa che prende in esame la guerra tra Israele e Hamas dal 7 ottobre 2023 all’1 giugno 2025. Il metodo è semplice ma rigoroso: confrontare dati ufficiali israeliani, comunicati ufficiali di Cogat (Coordinatore delle attività governative nei territori), rapporti dell’Onu, stime di Ong, indagini giornalistiche e fonti militari. Non opinioni o slogan, ma numeri e verifiche. Fatti. L’obiettivo è capire se davvero esistano le prove di un piano genocidiario. Il responso è netto, inequivocabile: non ci sono. Esistono invece migliaia di vittime civili, distruzioni immani, sofferenze senza fine. Ma la responsabilità è dei terroristi, che utilizzano la popolazione come scudo umano e che costruiscono le proprie basi militari operative sotto le infrastrutture sensibili, come scuole e ospedali.
• Il contesto: tutto è partito dal 7 ottobre 2023
Per capire tutto bisogna partire dall’inizio. Ovvero dal 7 ottobre 2023, quando Hamas lancia l’attacco più sanguinoso mai subìto da Israele: circa 1.200 morti, in gran parte civili, e oltre 250 ostaggi rapiti. Un pogrom bestiale. La risposta israeliana è inevitabile: un conflitto su larga scala, con operazioni di terra e un’offensiva aerea senza precedenti. Da quel momento, però, Hamas e i suoi alleati costruiscono la narrazione del «genocidio a Gaza», presentando lo Stato ebraico come carnefice e facendo cadere nel dimenticatoio il Sabato Nero. E l’Occidente fa da sponda alla macchina del fango. Le accuse sono sempre le solite: Israele affama deliberatamente la popolazione di Gaza; le forze di terra israeliane massacrano intenzionalmente civili; l’aviazione bombarda indiscriminatamente, senza distinguere tra combattenti e civili, colpendo in maniera sproporzionata.
(Il Riformista, 5 settembre 2025)
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La vera immagine del Messia
di Benjamin Shel Haseh Berger *
Sono passati quasi 2000 anni da quando il nostro Messia, Yeshua, il vero figlio di Davide, erede al trono di Davide e allo stesso tempo unico figlio di Dio, insegnava e compiva miracoli in terra d'Israele. L'incarnazione del Figlio dell'uomo, di cui parla il profeta Daniele, pose molti interrogativi ai primi Padri della Chiesa: è Dio? È uomo? È Dio-uomo? È Dio e uomo allo stesso tempo con due nature? Alla fine si comprese che era entrambe le cose – Dio e uomo – in una natura completamente indivisa.
Tuttavia, con il passare del tempo, con la distruzione del tempio, la dispersione definitiva della maggior parte degli ebrei tra le nazioni e lo sviluppo della Chiesa di Gesù tra i pagani, l'identità ebraica del Messia fu completamente dimenticata. Molti leader ecclesiastici la sostituirono addirittura con un'identità non ebraica.
Su ogni crocifisso c'è la scritta “Gesù di Nazareth, Re dei Giudei” (INRI), e lo stesso valeva per sua madre, che era ebrea e discendeva dalla stirpe di Davide. Tutti gli apostoli erano ebrei. Ricordo quando incontrai Papa Giovanni Paolo II; le sue ultime parole per noi furono: “Io sono il successore di Pietro, e Pietro era ebreo”. Egli non aveva dimenticato ciò che molti altri avevano negato in passato.
Pilato scrisse un'iscrizione e la mise sulla croce; e c'era scritto: Gesù di Nazareth, re dei Giudei (Giovanni 19,19).
Con lo sviluppo della teologia della sostituzione, l'identità del Messia e quella della Chiesa divennero completamente pagane, e ci si separò completamente dalle loro radici ebraiche. Il popolo d'Israele divenne il grande nemico della Chiesa, e la Chiesa divenne nemica del popolo ebraico. Un altro grande problema è che l'ebraismo rabbinico ha completamente escluso Yeshua dal campo d'Israele, presentandolo addirittura come nemico d'Israele.
• Guardare indietro e andare avanti
A causa di questa triste storia, si pone la domanda: come viviamo ora come ebrei messianici? Dobbiamo guardare indietro e allo stesso tempo andare avanti, trovare il modo di esprimere e vivere la nostra fede qui ed ora. Fare in modo che la nostra fede non sia una costruzione umana, ma un’autentica, rivelata opera dello Spirito Santo, è una delle sfide più grandi. Certamente, dobbiamo condurre una vita santa e giusta; dobbiamo camminare nella luce – davanti al Signore e gli uni davanti agli altri. Dobbiamo – come gli apostoli – riconoscere che i credenti pagani sono stati innestati nel nobile ulivo dell'Israele messianico e ora sono uno con noi.
Solo ciò che è veramente nato dallo Spirito di Dio, vissuto in santità e giustizia e compiuto in obbedienza al nostro Messia, convincerà il popolo ebraico che Yeshua è l'erede del trono di Davide e convincerà anche il mondo che Yeshua di Nazareth è, come disse Pietro, «il Figlio del Dio vivente».
Non lasciamoci sedurre, sia noi ebrei che i non ebrei, da insegnamenti che dipingono un'immagine falsa del nostro grande Signore. C'è il pericolo di trasformarlo in un rabbino ortodosso. Ma Lui è molto di più. È sì ebreo, della stirpe di Davide, ma è anche il Figlio di Dio e Dio stesso, che si è fatto uomo. Egli è innanzitutto il re e il Messia di Israele. È il re dei Giudei e allo stesso tempo il re di tutti i re.
Come primogeniti nella famiglia di Dio – come ebrei che hanno riconosciuto il Messia – abbiamo la responsabilità di non imporre al Messia un'identità che abbiamo creato noi stessi. Siamo chiamati ad essere il popolo d'Israele che grida al Signore Yeshua HaMaschiach – vero figlio di Davide e figlio di Dio –: «Benedetto sei tu che vieni nel nome del Signore». --
* Benjamin Shel Haseh Berger è nato nel 1941 a New York, figlio di profughi ebrei. È pastore di una comunità messianica nella città vecchia di Gerusalemme.
(Israelnetz, 5 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il sistema segreto che Hamas usa per pagare gli stipendi di governo: saccheggiare gli aiuti umanitari e rivenderli, mentre il mondo incolpa Israele di affamare Gaza
La BBC afferma d’aver parlato con tre dipendenti di Hamas, ognuno dei quali ha riferito d’aver ricevuto trecento dollari nell’ultima settimana: soldi che servono per pagare 30.000 stipendi dei dipendenti pubblici per un totale di 7 milioni di dollari (5,3 milioni di sterline). Mentre Giulio Meotti sul Foglio denuncia, dati alla mano: “su 3.167 camion di aiuti umanitari entrati a Gaza tra il 19 maggio e l’11 agosto, solo 351 hanno raggiunto le destinazioni, gli altri sono stati saccheggiati”.
di Nina Prenda
Una delle accuse che vengono mosse contro Israele, al centro della pressione internazionale, è quella secondo la quale lo Stato ebraico starebbe utilizzando la fame come arma su Gaza. L’accusa viene riportata anche nelle sedi istituzionali italiane, dove, da ultima, nella giornata del 3 settembre 2025 al Senato della Repubblica italiana, è stata ospitata la conferenza stampa per la Global Sumud Flotilla, l’operazione mediatica e pubblicitaria che vede al centro decine di imbarcazioni dirette verso Gaza partite da più porti d’Europa nei primi giorni di settembre. In Senato, nel cuore istituzionale italiano, l’attivista Maria Elena Delia ha affermato: “È uno sterminio indiscriminato, sadico […] un laboratorio di sterminio. Quella di Gaza non è una fame dovuta a una carestia naturale, è una fame indotta da una carestia scientemente voluta dal governo israeliano”.
Eppure le gravi carenze alimentari a Gaza che le organizzazioni umanitarie continuano ad attribuire alla responsabilità di Israele non trovano coerenza con la realtà sul campo, ovvero con l’operazione di saccheggio degli aiuti umanitari attuata da Hamas al fine di rivendere la merce ad un prezzo maggiorato. La televisione inglese BBC, che ha ampi contatti a Gaza, rivela: “Un chilogrammo di farina nelle ultime settimane è costato fino a 80 dollari – un massimo storico”. Ancora: “Al fine di generare entrate durante la guerra, Hamas ha anche continuato a imporre tasse sui commercianti e ha venduto grandi quantità di sigarette a prezzi gonfiati fino a 100 volte il loro costo originale. Prima della guerra, un pacchetto di 20 sigarette costava 5 dollari – che ora è salito a più di 170 dollari”. La tv pubblica inglese afferma d’aver parlato con tre dipendenti di Hamas, ognuno dei quali ha riferito d’aver ricevuto trecento dollari nell’ultima settimana. “Durante tutta la guerra Hamas è riuscita a continuare a utilizzare un sistema di pagamento segreto basato sul contante per pagare 30.000 stipendi dei dipendenti pubblici per un totale di 7 milioni di dollari (5,3 milioni di sterline)” scrive la testata.
I dipendenti, dagli agenti di polizia ai funzionari fiscali, spesso ricevono un messaggio crittografato sui propri telefoni o dai loro coniugi che li istruisce ad andare in un luogo specifico in un momento specifico per “incontrare un amico per il tè”, ovvero ricevere lo stipendio. Al punto d’incontro, il dipendente viene avvicinato da un uomo – o occasionalmente da una donna – che consegna discretamente una busta sigillata contenente i soldi prima di scomparire senza ulteriori interazioni.
Rivela la BBC: “Oltre ai pagamenti in contanti, Hamas ha distribuito pacchi alimentari ai suoi membri e alle loro famiglie tramite comitati di emergenza locali la cui leadership è spesso a rotazione a causa dei ripetuti attacchi israeliani. Ciò ha alimentato la rabbia pubblica, con molti residenti a Gaza che accusano Hamas di distribuire aiuti solo ai suoi sostenitori ed escludere la popolazione più ampia. Israele ha accusato Hamas di aver rubato aiuti che sono entrati a Gaza durante il cessate il fuoco all’inizio di quest’anno, cosa che Hamas nega. Tuttavia, fonti della BBC a Gaza hanno affermato che quantità significative di aiuti sono state prese da Hamas durante questo periodo”.
Giulio Meotti, storica firma per il Medio Oriente, in un articolo di agosto per Il Foglio, scrive: “I dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi ai progetti (Unops), il braccio operativo dell’Onu che contribuisce all’attuazione dei progetti umanitari, sul proprio sito web ha rivelato che, tra il 19 maggio e l’11 agosto, 3.167 camion carichi di aiuti umanitari hanno lasciato il territorio di Israele per raggiungere Gaza. Tuttavia, solo 351 di questi camion hanno raggiunto le destinazioni previste a Gaza, mentre 2.816 camion sono stati “intercettati” e saccheggiati lungo le rotte. I dati mostrano un numero record di 90 camion carichi di 1.695 tonnellate di aiuti saccheggiati solo il 31 maggio. Non è Israele a bloccare l’ingresso degli aiuti, come sostenuto dalla retorica dominante: i problemi iniziano dentro Gaza, dove le fazioni armate impediscono la distribuzione dei beni. I dati dell’Unops non fanno distinzioni tra i responsabili delle intercettazioni. Il 98,6 per cento degli aiuti rubati è costituito da cibo, il resto è classificato come “combustibile solido”, “nutrimento” e “medicine”. Il 90,3 per cento degli aiuti rubati apparteneva al Programma Alimentare Mondiale. Il resto a World Central Kitchen, all’Unicef, alla Croce Rossa e all’International Medical Corps Gaza. Hamas ha creato una rete di distribuzione parallela, che vende gli aiuti confiscati a prezzi dal 300 al 500 per cento superiori al valore di mercato, tassando i venditori e utilizzando il controllo alimentare come strumento politico. Da questo mercato nero Hamas riesce a ricavare decine di milioni di dollari”.
(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2025)
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Al via l’anno scolastico delle scuole ebraiche di Torino con i disegni degli allievi
Con l’apertura dell’anno scolastico le scuole ebraiche di Torino hanno presentato una nuova iniziativa: il diario-agenda che i ragazzi trovano sui banchi il primo giorno di scuola e che li accompagnerà fino a giugno 2026.
Dal 31 Dicembre 1913, con la circolare ministeriale n°6, che ha sancito l’obbligo del diario nella scuola italiana, fino ai giorni nostri, il diario scolastico si è evoluto: da semplice strumento di comunicazione durante il Regno d’Italia, a mezzo di propaganda del regime fascista per indottrinare i bambini e gli adolescenti delle scuole, a raccoglitore di compiti, avvisi, talvolta note, ma anche di dediche, segreti e pensieri di ogni alunno. Il diario è l’emblema degli anni che passano e dell’età che avanza: dai sei anni del primo giorno di scuola ai diciotto del diploma, è l’oggetto più desiderato e atteso tra il materiale scolastico.
Shalom ha chiesto alla professoressa Irene Cottura, coordinatore delle attività educative e didattiche delle scuole ebraiche di Torino di raccontare il progetto.
Cosa rende speciale questo diario?
Il progetto è un fiore all’occhiello della nostra Scuola che ha indetto un concorso a premi, molto atteso e partecipato dai ragazzi, dai più piccoli ai più grandi. In questo modo i ragazzi approfondiscono i diversi aspetti delle feste, a seconda dell’età. Il primo giorno di scuola cresce l’attesa per scoprire la copertina e i simboli vincitori.
Oltre alle parti istituzionali, alle comunicazioni tra scuola e famiglie ogni festa ha il simbolo disegnato da un alunno. La veste grafica è certamente originale, accattivante e vivace, abbiamo prestato grande attenzione al lunario ebraico e agli approfondimenti sulle feste.
Come sono state scelte le illustrazioni?
Gli allievi delle scuole hanno proposto i loro disegni per la copertina e per le immagini interne, una commissione composta da designer, grafici, professori e presieduta da me ha scelto il vincitore. È sempre molto difficile. Le copertine per la primaria e secondaria di Torino sono differenti ma tutte molto significative. Raccontano con colori e chiaro scuri, come solo i bambini e i ragazzi sanno fare, la situazione in cui sta vivendo il popolo ebraico e le speranze di pace per Israele.
Come si concretizzano le collaborazioni con le altre scuole ebraiche italiane?
Sono dieci anni che la Scuola di Torino realizza il diario. Ma la vera novità è stata che, in occasione degli incontri periodici con le scuole della Comunità ebraica di Trieste abbiamo avuto la possibilità di mostrarlo alle docenti che, colpiti ed entusiasti del nostro progetto, ne hanno apprezzato il valore educativo e artistico. Se l’anno scorso dati i tempi per organizzare il medesimo concorso con gli studenti di Trieste erano stati stretti quest’anno lo stesso concorso è stato indetto a Trieste: una dimostrazione dell’importanza del dialogo con i colleghi: è sempre una occasione di crescita e di confronto cui attribuisco grande importanza.
Come in passato abbiamo organizzato un apprezzatissimo viaggio di istruzione a Roma, un’occasione per i nostri alunni per conoscere i loro coetanei romani, visitare il museo, la sinagoga e il quartiere ebraico. Per le altre classi le mete del viaggio di istruzione sono state Firenze e Casale Monferrato dove, non essendoci scuole ebraiche, il supporto delle locali comunità ebraiche è stato fondamentale.
(Shalom, 5 settembre 2025)
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L’altro Sudafrica che sostiene Israele
di Nathan Greppi
Quando il Sudafrica ha deciso di intentare causa a Israele con l’accusa di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, diversi osservatori vi hanno visto una conferma dei loro pregiudizi, tali per cui equiparano Israele al regime di apartheid. Una tesi che non tiene conto del fatto nello Stato Ebraico i cittadini arabi godano da sempre del diritto di voto e di essere eletti a cariche pubbliche, mentre i sudafricani neri non avevano questi diritti quando vigeva la segregazione razziale.
Sono altre le ragioni per cui l’ANC (African National Congress) ha portato avanti la sua crociata contro Israele. Già sostenuto dai sovietici durante la Guerra Fredda, questo partito è fortemente vicino sul piano internazionale alle potenze antioccidentali come la Russia e la Cina. Tanto che Naledi Pandor, ex-Ministro degli Esteri sudafricano dal 2019 al 2024, durante un incontro tenutosi nel maggio 2024 in una moschea di Città del Capo ha confermato la sua speranza che lo Stato Ebraico fosse stato processato, dopo il loro prossimo obiettivo sarebbe stato quello di far processare anche gli Stati Uniti e “tutti quei paesi che armano e foraggiano la macchina da guerra d’Israele”.
Quello che spesso non traspare, è che l’opinione pubblica sudafricana è molto più eterogenea di quanto i media nostrani diano a vedere. Non solo tra i bianchi, ma anche tra i neri ci sono sostenitori d’Israele che si oppongono categoricamente ai falsi paragoni con l’apartheid.
Nel dicembre 2024, mentre il partito di governo ANC portava avanti le sue posizioni filopalestinesi tradottesi nella causa intentata contro Israele all’Aja, una delegazione sudafricana si è recata in Israele, per visitare la Knesset e il luogo del massacro al Nova Music Festival, nonché per incontrare le famiglie degli ostaggi rapiti da Hamas. La visita, organizzata dall’organizzazione israeliana DiploAct in collaborazione con l’associazione SAFI (South African Friends of Israel), intendeva dare voce a quei sudafricani che prendevano le distanze dalle posizioni antisraeliane del loro governo.
Uno dei membri della delegazione, Bhelekazi Mabandla, ha dichiarato al sito di notizie israeliano Ynetnews: “Come sudafricano, non appoggio la decisione del mio governo. È molto triste che il governo sudafricano abbia intrapreso questa strada invece di sceglierne una di dialogo, riconciliazione e pace”.
Marie Sukers, all’epoca deputata dell’ACDP (African Christian Democratic Party), ha raccontato: “La narrativa dell’apartheid e del genocidio adottata dall’African National Congress ignora completamente la popolazione cristiana del Sudafrica – che ha forti legami con Israele – e il significato della nostra storia in questo conflitto. È molto triste vedere che la leadership sudafricana ha dimenticato ciò che ha impedito una guerra civile nel nostro paese”.
Bafana Modise, conduttore radiofonico e portavoce del SAFI, ha parlato al sito del Nova Music Festival. “Trovo difficile capire come il mio governo difenda coloro che hanno ucciso 400 giovani a una festa senza motivo. Facciamo feste in Sudafrica. Non voglio pensare che ci possa succedere qualcosa di così orribile. Mi vergogno che questa sia una decisione del mio governo”.
Un partito sudafricano che si è contraddistinto per le sue posizioni filoisraeliane è il PA (Patriotic Alliance). Nell’estate 2023, pochi mesi prima del 7 ottobre, una sua delegazione si è recata in visita in Israele, attirandosi aspre critiche da parte dei sudafricani filopalestinesi.
Nel difendere la decisione del suo partito, il vicepresidente di PA Kenny Kunene ha spiegato all’emittente televisiva Newzroom Afrika che “abbiamo un problema idrico in questo paese, e Israele ha buone tecnologie di desalinizzazione per trasformare l’acqua di mare in acqua potabile”. Ha aggiunto che “definire Israele uno Stato di apartheid è un insulto nei confronti di noi sudafricani. […] In Israele, ho incontrato deputati che sono palestinesi, giudici palestinesi che siedono nella Corte Suprema d’Israele […] In Israele, israeliani e palestinesi condividono la stessa toilette che ho usato anch’io. Durante l’apartheid, non avevamo la stessa toilette. Durante l’apartheid, non avevamo neri in parlamento. Durante l’apartheid, venivamo trattati diversamente”.
Se su Israele i partiti sudafricani a maggioranza nera si dividono tra quelli ostili (ANC, EFF) e quelli favorevoli (PA, ACDP), per i partiti di riferimento della minoranza bianca il discorso è diverso: se l’FF+ (Freedom Front Plus), che rappresenta la destra afrikaner, dopo il 7 ottobre si è dichiarato dalla parte d’Israele e contro il sostegno dell’ANC a Hamas, il centrista DA (Democratic Alliance) si è mostrato più cauto: il suo leader John Steenhuisen (attuale Ministro dell’Agricoltura del Sudafrica), in un’intervista del marzo 2024 ha detto sulla causa intentata alla Corte Internazionale di Giustizia: “Ho detto molto chiaramente fin dall’inizio che dobbiamo rispettare i processi della Corte Internazionale di Giustizia. Dobbiamo rispettare il risultato perché questo è il diritto internazionale. E come partito che sostiene il diritto internazionale, ci atterremo a qualunque sia il risultato”.
Alcuni politici non si sono limitati a difendere le ragioni dello Stato Ebraico, ma hanno persino giustificato l’occupazione israeliana in Cisgiordania: nell’aprile 2025 una delegazione di 15 parlamentari sudafricani, affiliati ai partiti PA, ACDP e DA, si è recata in visita nella West Bank, per sostenere la sovranità israeliana sul territorio.
In un sondaggio condotto dal Pew Research Center nella primavera del 2025, è emerso che talvolta in Africa la percentuale di coloro che simpatizzano per lo Stato Ebraico è superiore a quella in Europa: se in Italia il 29 per cento degli intervistati aveva un’opinione positiva d’Israele e il 66 per cento un’opinione negativa, in Sudafrica il 34 per cento aveva un’opinione positiva e il 52 per cento negativa. In altri paesi africani, il dato era ancora più favorevole: in Kenya, il 50 per cento aveva un’opinione positiva d’Israele e il 42 per cento un’opinione negativa, mentre in Nigeria per il 59 per cento era positiva e il 32 per cento negativa.
(InOltre, 4 settembre 2025)
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Gerusalemme, scoperta un’imponente diga di 2.800 anni fa
di Jacqueline Sermoneta
Una diga monumentale, risalente a 2.800 anni fa, è stata portata alla luce dagli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità (IAA) all’interno del Parco Nazionale della città di David, a Gerusalemme.
Secondo l’esperto Nahshon Szanton questa imponente struttura “dimostra che Gerusalemme era, già all’epoca, una città potente, tecnologicamente avanzata e in grado di realizzare importanti progetti ingegneristici”.
Lo studio condotto dagli archeologi dell’IAA e da studiosi del Weizmann Institute of Science rivela che la costruzione risale al regno dei Re di Giuda, Ioas e Amaziah, tra l’805 e il 795 a.e.v.
La posizione, i materiali e le prove raccolte da questa antica struttura dimostrano lo stile di vita degli abitanti di Gerusalemme e le necessità idriche del periodo, poiché la diga faceva parte della Piscina di Siloe, la più grande riserva della città che raccoglieva le acque della sorgente di Gihon.
Gli esperti hanno scoperto che la diga fu costruita strategicamente per far fronte alla carenza di acqua e alle inondazioni improvvise. La datazione, ottenuta grazie al metodo del radiocarbonio di altissima precisione, fornisce una prova tangibile della potenza del Regno di Giuda. La diga di Siloe è la più grande mai rinvenuta prima in Israele: è alta circa 12 metri, larga 8, per una lunghezza finora scoperta di 21 metri.
La diga “è una delle più significative testimonianze del periodo del Primo Tempio, straordinariamente conservata” ha spiegato Eli Escusido, direttore dell’IAA. Secondo il Ministro del Patrimonio, Rabbi Amichai Eliahu, l’opera dimostra come gli ebrei, già 2.800 anni fa, riuscirono a realizzare soluzioni ingegneristiche sofisticate e creative per affrontare le sfide climatiche.
(Shalom, 4 settembre 2025)
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IDF: oltre 1.100 soldati colpiti dal disturbo da stress post-traumatico
di Nathan Greppi
Dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, più di 1.100 soldati dell’IDF sono stati dimessi dal servizio poiché affetti da disturbo da stress post-traumatico (noto anche come PTSD). A riportarlo, i dati militari ottenuti dal sito d’informazione israeliano Walla.
• Un problema in crescita
I dati rivelano che 1.135 soldati in servizio attivo, riservisti e soldati di carriera sono stati rimossi dai loro incarichi tra il 7 ottobre 2023 e il luglio 2025 a causa di traumi psicologici riportati in combattimento. Con i preparativi in corso per l’operazione di terra a Gaza City e la continua mobilitazione dei riservisti, i comandanti dell’IDF mettono in guardia su un peggioramento del bilancio della salute mentale delle truppe. In risposta, il Corpo medico e la Direzione tecnologica e logistica dell’IDF hanno ampliato i servizi psicologici. Al Ministro della Difesa Israel Katz sono stati presentati dati che indicano che circa l’85% dei soldati trattati precocemente per sintomi acuti di stress da combattimento sono potuti tornare in servizio. “Una delle questioni più difficili relative al disturbo da stress post-traumatico è la vergogna”, ha detto un ufficiale riservista che ha prestato servizio in più fasi di combattimenti dal 7 ottobre in avanti. “Combattenti e comandanti manifestano sintomi a vari livelli, ma hanno paura di chiedere aiuto”. Ha invitato l’IDF e il Ministero della Difesa ad aprire più strutture terapeutiche e canali di comunicazione per contrastare lo stigma sociale e fornire supporto a lungo termine.
• Trovare delle soluzioni
I comandanti delle forze di terra hanno affermato che il ramo dell’IDF che si occupa di salute mentale ha apportato miglioramenti significativi nella prontezza, nel trattamento e nel monitoraggio prima, durante e dopo il combattimento. “Siamo costantemente sorpresi dalla disponibilità e dalla qualità”, ha detto un ufficiale. “Ma non importa quanto viene fatto, dobbiamo continuare a pensare ai soldati ancora in prima linea”. Tra le iniziative introdotte dall’inizio della guerra c’è la creazione di cliniche Ta’atzumot, dedicate al trattamento dei soldati in servizio attivo esposti a traumi durante il combattimento. Una hotline per la salute mentale è attiva 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, per i soldati e le loro famiglie. I soldati in congedo possono contattare l’Unità di risposta allo stress da combattimento mentre i membri del servizio di carriera al terzo anno o successivi possono raggiungere il Family Institute for Career Soldiers. Anche l’Unità di risposta allo stress da combattimento, gestita congiuntamente dall’IDF e dal Ministero della Difesa, è in fase di ampliamento. Ulteriori filiali dovrebbero essere aperte nel nord e nel sud, assieme ad un nuovo centro nazionale per i soldati di carriera e le loro famiglie, che offre assistenza psicologica e medica completa.
• Una questione urgente
La crescente crisi che ha colpito la salute mentale dei soldati dell’IDF è diventata una delle sfide più urgenti che l’esercito e il governo devono affrontare. Il numero di riservisti in cerca di assistenza psicologica è aumentato da circa 270 all’anno prima della guerra a circa 3.000 all’anno, diventando più di dieci volte superiore. Coloro che si occupano della loro salute mentale affermano che ciò riflette non solo l’intensificazione dei combattimenti, ma anche una lenta erosione dello stigma che colpisce chi cerca aiuto. Questo picco della domanda va di pari passo con un preoccupante aumento dei suicidi tra i militari. L’IDF ha riferito che 21 soldati si sono tolti la vita nel 2024, il numero più alto in oltre un decennio. Quest’anno sono già stati registrati almeno altri 17 suicidi, con la maggior parte delle vittime identificate come riservisti tornati dalle zone di combattimento. Il caso di Daniel Edri, un soldato morto dopo mesi di lotta contro traumi legati alla guerra, ha riacceso le richieste di riforme urgenti per le cure dei veterani. In risposta alla crescente crisi, il governo ha formato un comitato speciale guidato dal Maggior Generale Moti Almoz, al fine di valutare e rivedere l’attuale sistema di supporto alla salute mentale per i soldati in congedo e in servizio attivo. Il comitato comprende psicologi militari, esperti legali e funzionari del Ministero della Difesa. Uno dei suoi principali obiettivi è quello di semplificare il riconoscimento dei segni dello stress da combattimento e migliorare l’accesso a cure tempestive. Dal punto di vista operativo, l’IDF ha implementato protocolli di risposta più rapidi per garantire un intervento precoce. I soldati ora ricevono assistenza sanitaria mentale entro 24 ore dalla presentazione di sintomi come ansia, insonnia o disconnessione emotiva.
(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2025)
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Ciclismo - Direttore Vuelta per ritiro Israel Premier Tech da competizione
La replica: «Creerebbe pericoloso precedente»
«Dobbiamo trovare una soluzione tutti insieme. Per me al momento è solo una: che la squadra israeliana si renda conto che la sua presenza qui non facilita la sicurezza di tutti gli altri. Ma non possiamo prendere questa decisione, devono prenderla loro».
Dopo l’ennesima violenza propal sulle strade della Vuelta, con la tappa di mercoledì “neutralizzata” ai tre chilometri dal traguardo di Bilbao per via della presenza massiccia di attivisti sulla linea d’arrivo e il concreto rischio di incidenti, il direttore tecnico della corsa a tappe spagnola Kiko García sembra aver trovato la soluzione giusta per svelenire il clima: mettere alla porta la Israel Premier Tech, la squadra israeliana più volte oggetto di “attenzioni” in questi giorni.
Ipotesi neanche lontanamente contemplata dal team, che ha risposto in serata con una nota ufficiale in cui si afferma che un eventuale ritiro costituirebbe «un pericoloso precedente nel ciclismo non solo per Israel Premier Tech, ma per tutte le squadre». Nella nota il team dell’imprenditore e filantropo Sylvan Adams, da qualche mese alla guida della sezione israeliana del World Jewish Congress, ribadisce «il suo rispetto per il diritto di tutti a protestare, purché tali proteste rimangano pacifiche e non compromettano la sicurezza del gruppo». In questo senso, il comportamento degli attivisti in azione a Bilbao «non è stato solo pericoloso, ma anche controproducente per la loro causa e ha privato i tifosi baschi, tra i migliori al mondo, del traguardo di tappa che meritavano» .
In classifica, dopo undici tappe, la Israel Premier Tech resta al decimo posto della generale grazie alle ottime prove finora dello statunitense Matthew Riccitello. Subito davanti a lui ci sono due italiani, Giulio Ciccone e Giulio Pellizzari. Mentre alle spalle Riccitello è tallonato a pochi secondi dal colombiano Egan Bernal, già vincitore di Giro e Tour de France, in cerca di rilancio dopo anni difficili. a.s.
(moked, 4 settembre 2025)
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La maschera dell’antisemitismo
Lettera a “L’informale”.
Gentile Redazione de L’Informale,
Vi scrivo per condividere alcune riflessioni a partire dall’ignobile redazionale apparso su L’Internazionale (n. 1531, 28 agosto 2025), dedicato al saggio di Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani).
Trovo sconcertante che una casa editrice prestigiosa come Bompiani accolga un testo che, dietro la patina di rigore semiologico, finisce per normalizzare una distorsione pericolosa: quella che mette sullo stesso piano la legittimità di esistere di Israele e le critiche contingenti alle sue politiche, fingendo che la confusione nasca soltanto da un abuso linguistico.
A rendere ancora più grave l’operazione culturale c’è il titolo stesso scelto da Internazionale per la nota di Giuliano Milani: Ostaggio. Non so se sia stato pensato in chiave ironica o metaforica, ma in un tempo in cui decine di ostaggi veri e propri sono ancora nelle mani di Hamas, usare quella parola come chiave di lettura per un libro che relativizza l’antisemitismo è un gesto doppiamente inaccettabile. La retorica linguistica qui scivola nella rimozione del reale: mentre ostaggi vivi attendono di essere liberati, la parola “ostaggio” viene piegata a un gioco semiologico che ignora il dolore, la paura, la carne della storia.
In realtà, il problema è esattamente l’opposto di quello che sostiene Pisanty.
Il termine antisionismo è ormai costruito come schermo rispettabile dell’antisemitismo, una sorta di “codice aggiornato” che permette di odiare l’ebreo senza dichiararlo apertamente.
Non è un caso se lo slogan “Palestina libera dal fiume al mare”, che di fatto invoca la cancellazione di Israele, sia diventato parola d’ordine non solo nelle piazze mediorientali, ma anche nei campus occidentali e nei cortei europei. Non è “critica politica”: è negazione dell’esistenza di un popolo come soggetto nazionale.
Il ragionamento di Pisanty è subdolo in due punti fondamentali:
Sposta il fuoco. Non si tratta più di stabilire se l’antisionismo sia davvero la nuova forma dell’antisemitismo, ma di accusare chi lo denuncia di “strumentalizzare” le parole.
Ribalta la responsabilità. Non è antisemita chi nega a Israele il diritto di esistere, bensì chi smaschera questa negazione come antisemitismo.
Così l’antisionismo viene presentato come legittima opinione critica, mentre chi ne rivela la vera natura – quella di maschera dell’antisemitismo – viene accusato di abuso linguistico. È un cortocircuito logico e morale che svuota di senso la lotta contro l’odio antiebraico e lascia campo libero a chi, oggi come ieri, delegittima l’esistenza stessa degli ebrei come soggetto politico e nazionale.
Guido Turco
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Gent. Sig. Turco,
I tempi che viviamo sono sufficientemente atroci da giustificare un motivato disgusto. Atroci, perché, quando il vero e il falso non solo vengono scientificamente confusi, ma il secondo viene spacciato al posto del primo, si perde la bussola del nostro orientamento morale. La guerra ancora in corso a Gaza, a breve da quasi due anni, e causata dall’eccidio di Hamas perpetrato in Israele il 7 ottobre 2023, ne è la rappresentazione massima. Ha portato all’apice la menzogna diffondendo in modo massiccio la propaganda di Hamas che ha permesso la mostrificazione di Israele e un rigurgito ormai esondante di antisemitismo.
Lei coglie perfettamente nel segno là dove scrive, “Il termine antisionismo è ormai costruito come schermo rispettabile dell’antisemitismo, una sorta di ‘codice aggiornato’ che permette di odiare l’ebreo senza dichiararlo apertamente”. Valentina Pisanty ribalta la verità e si presta al gioco facile di coloro, e tra loro anche ebrei, i quali si sentono legittimati nel negare a Israele la sua piena legittimità e di considerare gli israeliani ebrei satanici, mentre, al contempo, si autoassolvono dall’accusa di essere antisemiti. Ma mentre storicamente è esistita in ambito ebraico anche se fortemente minoritaria, una opposizione ideologica al sionismo, la quale poteva avere le sue ragioni prima della nascita di Israele, oggi, l’antisionismo rappresenta solo ed unicamente il desiderio che Israele cessi di esistere come Stato ebraico, ovvero chiede per esso la soluzione finale. Non sono certo deboli sofiste come la Pisanty a poterci convincere che questo non sia antisemitismo.
(L'informale, 4 settembre 2025)
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Teshuvà: dallo spillo al sigillo
di Rav Adolfo Locci
I maestri del Midrash, nel commentare un verso del Canto dei Cantici, per insegnarci come intraprendere il percorso della Teshuvah (sincero pentimento e ritorno sulla giusta via), affermano che il Signore misericordioso ci chiede: “Apritemi un’apertura come il foro di uno spillo”. Questa richiesta, non sarebbe altro che una prova, necessaria per testare il nostro impegno a voler intraprendere questo percorso di Teshuvah. Se viene superata, nell’aprire quel piccolo pertugio, poi sarà il Signore ad espanderla in una apertura più ampia.
Il messaggio è che una volta compiuto il primo piccolo passo, anche delle dimensioni di un “foro di spillo”, Dio verrà ad aiutarci ad andare molto più lontano e a compiere grandi passi avanti nel miglioramento e nella crescita. Non dobbiamo, e non dovremmo, cercare subito di apportare cambiamenti drastici e di diventare notevolmente migliori in modo repentino. La nostra sfida è creare una piccola “apertura”, avanzare lentamente, e sarà poi Dio che ci aiuterà ad andare ancora oltre. Ma perché i maestri hanno usato specificamente la metafora di un foro di spillo? Ci sono infiniti esempi con cui esprimere la metafora di una piccola apertura. Perché hanno scelto l’immagine di un ago che perfora una superficie? La risposta sta nel tipo di foro che produce l’ago: un foro minuscolo, ma permanente.
Questo è dunque il messaggio che i nostri maestri desideravano trasmettere.
Un serio percorso di Teshuva richiede di assumere piccoli e modesti impegni, con l’intenzione però di mantenere in modo permanente, per sempre. L’impegno, per ben iniziare, non deve essere enorme, ma sostenibile e per essere duraturo nel tempo, deve essere soprattutto onesto.
Accade molto spesso che le persone che hanno apportato cambiamenti radicali al proprio stile di vita, lo mantengano per poco tempo e poi, prima di nascosto e poi in modo manifesto, ritornano al modo di fare che avevano prima. Questa non è Teshuvah. Si tratta di fare un buco molto grande nella sabbia, che produce un cambiamento significativo in superficie, ma che viene annullato molto presto, all’infrangersi della prima onda del mare.
La Teshuvah è un foro di spillo, che apporta quei piccoli cambiamenti che rimangono permanenti e durano per produrre sempre più crescita e miglioramento spirituale.
Questo è un messaggio essenziale su cui riflettere fin da oggi, primo giorno del mese di Elul. Elul è il mese che momento propizio per prepararci spiritualmente alle grandi feste di Tishrì, Rosh Hashanah, Kippur. Le Selichot, le preghiere di supplica e perdono che da domani si inizieranno a recitare il mattino prima dell’alba e la sera prima del tramonto, sono uno dei mezzi per intraprendere questo processo. Ma per dare un senso a questi 40 giorni, non dobbiamo pensare in termini grandiosi ai cambiamenti che idealmente vorremmo apportare nelle nostre vite, perché tali pensieri non ci porteranno da nessuna parte.
Il percorso che inizia con il mese di Elul, consiste nel riuscire a fare uso della qualità della Binah / discernimento che, in questo periodo, è molto favorevole (Binah e Elul hanno lo stesso valore numerico, 67). La Binah è essenziale proprio per creare “un’apertura come un foro di spillo”.
Se impareremo ad agire secondo l’insegnamento dei maestri del Midrash, proponendo quei piccoli e realistici cambiamenti che si possano poi mantenere in modo permanente, Dio poi farà la Sua parte, ed espanderà quel “foro di spillo” in traguardi ancora più grandi e significativi per il nostro sviluppo spirituale, individuale e collettivo, Chodesh Tov!
(Kolòt - Morashà, 4 settembre 2025)
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Ottimo. L'azione del Signore che apre il pertugio piccolo come il foro di uno spillo e ci "aiuta ad andare molto più lontano e a compiere grandi passi avanti nel miglioramento e nella crescita" i credenti in Gesù la chiamano "grazia". L'apostolo Paolo infatti ricorda che: "è Dio che opera in voi il volere e l'agire, per la sua benevolenza" (Filippesi 2:13). Per far entrare in noi questa benevolenza, sarà bene allora tener presente quello chiede il Signore misericordioso secondo i maestri del Midrash: "Apritemi un’apertura come il foro di uno spillo". M.C.
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L'intervista a Dror Eydar: “La propaganda anti Israele esiste grazie ai miliardi di governi e ong”
di Giulia Sorrentino
«La campagna mediatica contro Israele orchestrata da RSF? Gli do un consiglio, dovrebbero pubblicare lo Statuto di Hamas in tutte le lingue. Come storico, conosco solo un documento simile, il Mein Kampf». A dircelo è Dror Eydar, precedente ambasciatore di Israele in Italia, oggi studioso e opinionista del più importante giornale israeliano, Israel Hayom.
- 250 testate giornalistiche di oltre 70 paesi per andare contro la narrazione filoisraeliana. Dietro che disegno c’è? E quanto incidono gli investimenti economici?
«Come altre ONG, RSF fa parte di un'industria che fattura miliardi, sponsorizzata da governi e organizzazioni antisraeliane e persino antisemite, e naturalmente con l'aiuto di donazioni da parte di utili idioti benintenzionati. Non c'è davvero alcun controllo su queste organizzazioni, i governi non controllano cosa viene fatto con i loro soldi e trattano le loro donazioni come un compenso per proteggere la loro immagine. I politici vogliono apparire come persone illuminate, e cosa c'è di più illuminato della libertà di stampa, che è la base di ogni democrazia occidentale?».
- Si dice che l’attuale campagna sia finalizzata a difendere i giornalisti a Gaza…
«Abbiamo visto con i nostri occhi come questi "giornalisti" operano come parte dell'organizzazione terroristica Hamas. Per anni hanno usato il titolo "Press" per mascherare l'attività terroristica. Gli esempi sono molteplici. Gli obiettivi del progetto e i documenti trapelati portano a concludere che il denaro del governo francese (tra le altre cose) abbia finanziato questa guerra di coscienza. Questa è un'ulteriore prova del collegamento distorto tra le organizzazioni per i "diritti umani" e i media, e il denaro dei governi europei. Immaginate quante volte ciò è accaduto senza che avessimo il privilegio di visionare i documenti trapelati, e quante accuse di omicidio sono state promosse e hanno avvelenato l'opinione pubblica mondiale. RSF può fare campagna per i giornalisti in Corea del Nord, dato che il livello di libertà di stampa lì e a Gaza è simile. Anche il livello di ipocrisia dei giornalisti che fanno campagna contro lo Stato ebraico, che lotta per la propria vita contro criminali che si sono prefissati l'obiettivo di distruggere Israele e uccidere quanti più ebrei possibile. Forse sarebbe bene che RSF facesse qualcosa per il bene dell'umanità, per una volta, pubblicando lo Statuto di Hamas in tutte le lingue. Come storico, conosco solo un documento simile pubblicato circa cento anni fa in tedesco: Mein Kampf».
- Il bersaglio è l’Occidente, ma chi parla di islamizzazione viene tacciato di islamofobia. Quanto c’è di reale?
«Esatto. L'obiettivo è la conquista dell'Occidente e la sottomissione della civiltà giudaico-cristiana sotto le ali dell'Islam. Questa non è fantasia, ma una semplice osservazione di ciò che i leader musulmani stanno pubblicando dall'interno dell'Occidente e sotto gli auspici di paesi come il Qatar, che acquista tutto ciò che può. Il leader supremo dei Fratelli Musulmani, Yusuf al-Qaradawi, scomparso tre anni fa, emise una fatwa nel 2003 per incoraggiare i suoi seguaci nell'Europa infedele: "I molti segni di salvezza sono cristallini e decisivi, secondo cui il futuro appartiene all'Islam e che questa religione di Allah trionferà... su tutte le religioni". Si basava su una tradizione, secondo la quale uno dei segni della redenzione sarebbe stata la conquista della città di Costantinopoli (Istanbul) e poi la conquista di Roma: "Costantinopoli fu conquistata nel 1453 dall'ottomano Muhammad Ibn Murad... e ora rimane la conquista dell'altra città - Roma, e questo è ciò che speriamo e in questo crediamo. Il significato di queste parole: l'Islam tornerà in Europa ancora una volta come conquistatore e vincitore dopo esserne stato espulso due volte... Credo che questa volta la conquista dell'Europa non avverrà con la spada, ma con la predicazione e la diffusione dell'ideologia islamica... fino a includere l'Oriente e l'Occidente (il mondo intero)”. Ma l'Occidente dorme, come negli anni '30. L'Europa si rifiuta di vedere il grande pericolo che la attende. Chiunque cerchi di risvegliare i popoli europei dal loro pericoloso sonno si scontra con un muro di accuse: questo è un meccanismo di silenziamento progettato per controllare il linguaggio attraverso il politicamente corretto. Ma è un meccanismo a senso unico: mentre è proibito parlare contro l'Islam radicale e i Fratelli Musulmani, a loro e ai loro sostenitori è permesso dire le cose più terribili contro Israele e contro gli ebrei. Viviamo in un periodo di oscurità intellettuale, in cui la verità è assente e occultata. Abbiamo bisogno di leader coraggiosi che si facciano avanti e si rifiutino di collaborare con la menzogna. Solo così l'Occidente potrà essere salvato».
- Iran dà le armi e il Qatar i soldi ad Hamas: Israele non ha un solo nemico ma ne ha almeno tre…
«L'elenco dei nemici di Israele è lungo. Iran, Qatar e Hamas ne sono solo una parte. Israele è l'avamposto di tutto l'Occidente. Non per niente i nemici dell'Occidente lo attaccano per primi: sanno che la caduta di Israele, Dio non voglia, sarà il preludio al crollo dell'intero Occidente. La nostra guerra contro Hamas, Hezbollah, l'Iran e altri nemici è la guerra di tutto il mondo libero. Il problema è che ci sono persone in Occidente che comprendono il quadro generale, ma è difficile per loro superare i sentimenti antisemiti che li pervadono. È difficile eliminare duemila anni di lavaggio del cervello antisemita. E così, invece di collaborare con Israele contro i nemici dell'Occidente, stanno lavorando per impedire a Israele di combattere i suoi nemici, che sono anche i loro nemici. L'Iran ha sviluppato armi nucleari e missili con una gittata che raggiunge l'Europa. Anche il Qatar sta operando dietro le quinte in Italia. I Fratelli Musulmani sono stati messi fuori legge in molti paesi arabi e classificati come organizzazione terroristica. Perché continuano a operare in Italia senza interferenze? Stanno sfruttando la democrazia occidentale per diffondere e agire contro i valori liberali della società italiana. La tragedia è questa: Israele riconosce e conosce i suoi nemici, e quindi li combatte. Ma l'Occidente, e l'Italia al suo interno, non riconosce ancora l'enorme pericolo che lo minaccia. Ci sono alcuni leader irresponsabili in Europa che credono che sacrificando Israele otterranno la pace nelle loro strade. Questo è un terribile errore. Israele non è il problema, ma la soluzione per salvare l'Occidente. Ma come alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, lo stesso errore si ripete sotto i nostri occhi, come disse Churchill: "Avete scelto il disonore per paura della guerra; avete disonore e guerra insieme"».
- Eppure, c’è chi come la relatrice speciale ONU Francesca Albanese nega che Hamas sia un’organizzazione terroristica.
«Francesca Albanese non è l'unica a essere al servizio delle forze del male nel mondo. Ce ne sono stati molti prima di lei e ce ne saranno molti dopo di lei. Il problema è che i media la trattano come una figura legittima, mentre in realtà lavora per insabbiare i terribili crimini di Hamas. Persone come lei stanno minando l'esistenza stessa dell'Occidente, si stanno battendo contro la semplice verità che qualsiasi bambino può discernere. Albanese non si batte solo contro Israele, ma contro l'Italia e l'Occidente. Hamas è nemico dell'umanità come i nazisti prima di loro. Per quanto riguarda gli errori commessi, sono molti. Israele è impegnato in una guerra esistenziale su sette fronti. È difficile per Israele operare contro l'ulteriore fronte della propaganda globale contro di noi. Per fare questo, abbiamo bisogno di persone coraggiose e di una stampa coraggiosa che non abbia paura di lottare per la verità e per l'intero Occidente».
(Tempo, 3 settembre 2025)
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Dietro le navi "solidali" un assedio via mare con la regia di Hamas
La missione è propaganda in vista del voto Onu sullo Stato palestinese.
di Fiamma Nirenstein
Ieri una parte della Flottiglia internazionale diretta a Gaza si è mossa da Genova. Dovrebbe arrivare alle 70 imbarcazioni. Il 30 maggio del 2010 una flottiglia di 6 navi lasciò le coste di Cipro con 718 persone di 37 paesi. Israele non consentì l'approdo, peraltro illegale. Lo scontro fu durissimo e portò a sei morti, oltre che alla rottura con la Turchia. I pretesi aiuti erano il mero travestimento di una campagna politica, i naviganti in gran parte membri dell'IHH. Nel 2011 un altro tentativo ha portato centinaia di attivisti a tentare di entrare su voli commerciali. Poi è stata la volta di Greta Thunberg. Le Flottiglie sono uno sperimentato mezzo di propaganda, ma adesso siamo alla guerra aperta, a un assedio fisico e politico condotto con 70 imbarcazioni grandi, medie e piccole, super attrezzate o elementari, cariche di casse-regalo per Hamas che si avventurano da Genova, dalla Spagna dalla Tunisia, dalla Grecia, dalla Turchia per l' appuntamento davanti alla coste di Gaza con la scusa della consegna di aiuti alimentari. Se fosse vero, i naviganti e chi li organizza con molti mezzi saprebbero che il porto di Ashod, fornirebbe una strada semplice e garantita per consegnare il cibo, le bevande, le medicine: "fino all'ultimo yogurt" come ha detto il capo del movimento Genovese, che ha tenuto un discorso alla partenza davanti a una grande folla di portuali mobilitati nell'inconsueta evenienza. È la folla che deve essere mossa, è l'odio di massa che si cerca ormai: un'ondata popolare (che cosa lo è di più dei lavoratori genovesi, con la CGIL alle spalle) che minaccia la violenza: "Se verrà torto un capello ai nostri ragazzi bloccheremo il commercio in tutti i porti che controlliamo, tutto il Mediterraneo".
Acque territoriali, divieti internazionali... che importa quando si tratta di colpire Israele. Non è un atteggiamento lontano dal pogrom, e certo riflette un cieco sostegno alla jihad e una ricerca di scontro sociale e politico in tutta Europa basato sulla parola d'ordine facile per tutti, attaccare Israele. C'è un risvolto strategico importante: alla fine del mese, quando si voterà all'ONU per lo stato palestinese, la flottiglia di fronte a Gaza, necessariamente bloccata da Israele in qualche modo, dovrà dimostrare a tutti che il consenso europeo antisraeliano è totale, dovrà ribadire sul campo lo slogan che l'IDF affama e compie genocidio. Questo, anche se è ben noto che centinaia di camion di aiuti entrano ogni giorno, distribuiti alla gente quando Hamas non li sequestra con le armi. Ma in questi giorni con la Flottiglia si torna allo slogan della fame e lo si rende uno slogan popolare europeo, di cui non a caso i sostenitori italiani sono Conte, Fratoianni, Bonelli e, come no, Schlein. Questo è lo scopo: mentre la spuma marina sui fianchi dei battelli umanitari accompagna l'Europa a Gaza, si avvicinano i cattivi militari a impedirlo. Sarà così chiaro come sia indispensabile stare con Macron e gli altri che voteranno alle Nazioni Unite per lo Stato palestinese, un premio a Hamas. Da dove esca tanto denaro da finanziare una flottiglia come questa è difficile dire: ma dato che Hamas e i proxy dell'Iran hanno potuto sempre contare sui miliardi sia sciiti che sunniti, anche stavolta si può pensare che siamo sulla stessa strada, quella del terrorismo finanziato. A Barcellona, si è imbarcato dice il Jerusalem Post, Jaidia Abubakra, fondatore di "Sentiero Rivoluzionario Masar Badil", coordinatore della struttura madrilena del Network di solidarietà con i prigionieri di Samidoun. Samidoun, fondata nel 2011 con uno sciopero della fame guidato dai prigionieri di sicurezza del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è un ramo dell'organizzazione marxista leninista designata come terrorista nel 2021. La Germania ha bandito Samidoun nel 2023, e nel 2024 il loro esempio è stato seguito da USA e Canada. Khaled Barak uno dei suoi leader, descritto come uno dei leader del PFLP è nella lista americana per le sue connessioni terroristiche, ed è il fondatore con Abubakra nel 2021 di Masa Badil. Un altro personaggio molto noto è l'onnipresente attivista palestinese Saif Abu Kish, certo non un promotore di pace.
Questo significa che tutta la Flottiglia è composta di jihadisti? Che gli aiuti alimentari sono forniti in mala fede? No, sulle navi certo troviamo persone generose e in buona fede. Forse non sanno quanto ormai il nesso fra Hamas, il terrorismo, la jihad sia indistricabile e pericoloso per loro stessi.
(il Giornale, 3 settembre 2025)
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Le Ong pro-Pal arruolano i giornali, ecco il piano anti-Israele: fake e propaganda su oltre 200 testate
di Andrea B. Nardi
Attenzione: oltre 200 testate giornalistiche preparano una campagna anti-Israele coordinata da due Ong (Reporters Without Borders e Avaaz). La campagna mediatica internazionale è orchestrata appositamente per diffamare Israele, inondando l’opinione pubblica di fake news, e coinvolge almeno 50 Paesi. L’operazione si chiama Global Media Join Forces in a World-First for Press Freedom in Gaza, è sponsorizzata dal Palestinian Information Center di Hamas; e continua la meticolosa strategia di propaganda jihadista di menzogne cui abboccano gli utili idioti occidentali. Alle testate giornalistiche viene richiesto di diffondere un messaggio unificato che affermi: “Al ritmo con cui i giornalisti vengono uccisi a Gaza dall’esercito israeliano, presto non resterà più nessuno a tenervi informati”.
Il falso presupposto della campagna è che “a Gaza sono stati uccisi dall’Idf almeno 210 giornalisti”. Questo dato, in realtà, è completamente inventato, come acclarato da numerose indagini indipendenti, sia di istituzioni sia di autorevoli redazioni private. Il Wall Street Journal, per esempio, il 21 agosto scorso ha scritto: “Dei 192 presunti giornalisti nell’elenco del Cpj, Committee to Protect Journalists, 26 erano collaboratori di Al-Aqsa Tv, struttura di Hamas; 19 appartenevano ad Al-Quds Al-Youm, in forza alla Jihad islamica; 7 erano di Palestine Today, che lo stesso Cpj inquadra nella Jihad; 6 stavano con Al Mayadeen o Al-Manar (che appartengono a Hezbollah); altri 23 erano per pseudo testate inquadrate in vari gruppi terroristici che vanno da Hamas al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e agli Houthi, come confermato anche dal Dipartimento di Stato Usa”.
E ancora: Anas al-Sharif, reporter di Al Jazeera, era a tutti gli effetti arruolato in Hamas; idem Abdullah Al-Jamal, spacciatosi per corrispondente di Palestine Chronicle, era il terrorista che teneva prigionieri in casa sua tre israeliani rapiti il 7 ottobre. Quindi, a parte i numeri di morti gonfiati ad arte, e non essendoci a Gaza giornalisti embedded, le uccisioni mirate dell’Idf colpiscono terroristi veri semplicemente travestiti da giornalisti, come quelli in azione nell’ex ospedale Nasser a Khan Yunis: Jum’a Khaled, Hisham Tayseer, Imad Abd al-Hakim, Muhammad Ahmad, Salah Yusuf, Omar Kamal. Tutti appartenenti ad Hamas e perfino coinvolti nel massacro del Sabato Nero.
Eppure, le due Ong stanno bombardando di istruzioni precise le redazioni internazionali per calunniare Israele con accuse infondate. Queste prevedono: prime pagine di stampa interamente o parzialmente nere con messaggi unificati; per le news online, banner neri con scritte coordinate e link ai comunicati stampa di Rsf; dichiarazioni prescritte per le emittenti televisive su schermi neri; materiali uniformati tradotti in nove lingue. Le testate partecipanti a questa operazione ricevono copioni e messaggi già scritti; materiali visivi e modelli standardizzati; tempistiche coordinate attraverso i fusi orari globali; campagne di hashtag unificati.
In tutto ciò non c’è proprio nulla del giornalismo indipendente e della protezione dei diritti. D’altra parte, Rsf non è nuova alle critiche di essere un gruppo fazioso terzomondista, mentre Avaaz appartiene allo spettro della sinistra-liberale, con appelli e azioni sempre diretti contro politici e gruppi di opposta compagine politica. Tutto ben lontano dalla libertà di stampa e dalla verità; molto più corretto definirlo raffinata guerra mediatica del neo-terrorismo jihadista.
(Il Riformista, 3 settembre 2025)
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L’ombra dell’odio sulle università italiane
di Nathan Greppi
Hanno fatto scandalo le esternazioni di Luca Nivarra, docente di giurisprudenza dell’Università di Palermo che ha invitato i suoi follower a “ritirare l’amicizia su FB ai vostri ‘amici’ ebrei, anche a quelli ‘buoni’”, e a “farli sentire soli, faccia a faccia con la mostruosità di cui sono complici”. Nivarra, che in passato è stato arrestato per peculato, aveva definito su Facebook gli israeliani “solo macchine di morte votate allo sterminio dei palestinesi”, che “con il sangue dei palestinesi” vorrebbero “lavare quello degli ebrei vittime della Shoah”.
• Deriva drammatica
Quello di Nivarra non è un caso isolato: da quando è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas, non sono stati sdoganati solo l’antisionismo e i boicottaggi d’Israele, ma anche l’odio nei confronti degli ebrei come popolo. Un odio che sta diventando sempre più evidente nel mondo universitario, che in teoria dovrebbe aprire le menti e contrastare i pregiudizi.
Non si contano le censure nei confronti di ebrei e filoisraeliani: da Maurizio Molinari, contestato prima all’Università Federico II di Napoli e poi all’Università di Parma, a David Parenzo, che non ha potuto parlare all’Università La Sapienza di Roma. Senza contare gli atenei che hanno adottato posizioni ostili a Israele: come l’Università di Pisa, che ha deciso di interrompere gli accordi con gli atenei israeliani; o come l’Università di Urbino, che ha pubblicato un documento di condanna della guerra a Gaza, ma senza mai menzionare le vittime del 7 ottobre o i crimini di Hamas.
L’ostracismo dei collettivi propal non prende di mira solo gli studenti israeliani, ma anche ebrei italiani e non ebrei che si oppongono all’antisemitismo. È ciò che è successo a maggio all’Università di Torino, quando i manifestanti hanno impedito lo svolgersi dell’incontro Per le Università come luogo di democrazia e di contrasto all’antisemitismo.
• Conformismo dilagante
Se le posizioni antisraeliane si impongono negli atenei non è solo per l’atteggiamento aggressivo degli attivisti, ma anche perché dall’altra parte vi è un conformismo che spinge in molti a stare in silenzio o a giustificare gli intolleranti per paura o per opportunismo. “Quando si è iniziato a discutere della possibile interruzione dei rapporti con le università israeliane, devo dire che anche i miei colleghi ebrei in ateneo, o perché antisionisti o perché codardi, mi hanno lasciata totalmente sola”, ci racconta Alessandra Veronese, docente di Storia Medievale all’Università di Pisa e già direttrice del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici. “Al Senato Accademico, mi sono presentata con una mia mozione contro l’interruzione degli accordi, firmata da pochi colleghi, tra cui il docente di Scienze Politiche Rino Casella”.
Purtroppo, “alla fine è arrivata la mozione del Senato Accademico per rescindere i rapporti, anche se in realtà non hanno sospeso l’Erasmus con l’Università Ebraica di Gerusalemme, che in teoria rimane in vigore. Questa è una mozione ipocrita: colpisce Israele ma non tocca gli accordi che abbiamo con le università iraniane, turche e cinesi, nonostante quello che la Cina fa ai tibetani e agli uiguri”.
La Veronese racconta che “un altro episodio grave è avvenuto nel dicembre 2023; dovevamo invitare uno storico italiano che vive in Israele, Samuele Rocca, per presentare il suo libro In the Shadow of the Caesars: Jewish Life in Roman Italy. Ma in quell’occasione, due docenti hanno contestato l’invito perché l’Università di Ariel, dove insegna Rocca, si trova nei Territori occupati”.
Non è solo a Pisa che si verificano certi episodi: “All’Università di Firenze ci sono almeno cinque dipartimenti che hanno chiesto di recedere dagli accordi con le università israeliane”, spiega Benedetto Allotta, che nell’ateneo fiorentino insegna Robotica Industriale. “Anche nel mio dipartimento, nei prossimi giorni, si svolgerà un’assemblea di tutto il personale finalizzata a promuovere ‘azioni sulla pace.’ È presumibile però che queste assemblee si rivelino occasioni per illustrare mozioni, da presentare successivamente nei rispettivi consigli di dipartimento, che chiedono di uscire dagli accordi. Alla fine, credo che l’università sceglierà di mantenere gli accordi in corso ma di non rinnovare quelli in via di scadenza, almeno finché non si saranno calmate le acque”.
• Israeliani discriminati
Quando Alessandra Veronese ha proposto la sua mozione a Pisa contro l’interruzione degli accordi, “gli studenti israeliani erano talmente terrorizzati che hanno chiesto di non esporre le loro singole firme sulla mozione, ma di firmarla come un gruppo per non essere identificati. Questo perché avevano paura e non si sentivano protetti da nessuno”.
A subire l’ostilità non sono solo gli studenti, ma anche i docenti, come ci racconta Sara Britti, dottoranda in Studi Religiosi presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. “Nel settembre 2024, eravamo ad uno dei seminari della nostra Summer School, che facciamo alla fine di ogni anno accademico per presentare i risultati delle nostre ricerche. Tra i relatori c’era la storica israeliana Tamar Herzog, che si occupa di tematiche di genere e storia della schiavitù”. La Britti spiega che “dato che la lezione trattava il tema della prigionia, la Herzog decise di fare un parallelismo con l’attualità mostrando le immagini delle proteste contro il governo Netanyahu per il rilascio degli ostaggi. In quell’occasione, quasi tutti i colleghi dei curricula sull’Islam si sono alzati e se ne sono andati, assieme ad una collega dei curricula sul cristianesimo. Al termine della lezione, un mio professore si è alzato dicendo che la professoressa non rappresenta il governo Netanyahu, e che non è concepibile che i ragazzi si alzino e se ne vadano in un contesto come quello accademico, che fa del confronto la sua bandiera. Perché, se non si può avere un confronto nel mondo accademico, dove lo si può avere?”.
• Contesti diversi
La situazione negli atenei italiani non è uguale dappertutto, come spiega Francesco Lucrezi, docente di Diritto Romano all’Università di Salerno. “Devo dire che la mia università beneficia di due circostanze favorevoli. La prima è che non serve un’utenza di grandi città, ma di una città di media grandezza come Salerno, una piuttosto piccola come Avellino, e minuscole altre cittadine e paesi, sparsi su un vasto territorio. E, com’è noto, in genere i movimenti organizzati antisistema si coagulano sempre nelle grandi metropoli. È difficile vedere una manifestazione propal in un paesino di campagna, perché sono fenomeni che richiedono vasti bacini di riferimento”.
La seconda circostanza è “che si tratta di un campus, nel quale occorre arrivare con mezzi di trasporto pubblici o privati. Ciò significa che gli studenti che vengono a frequentare le lezioni e partecipano alla vita universitaria sono solo studenti ‘veri’, che vogliono studiare, e non perdigiorno. Io ho insegnato per cinque anni anche all’Orientale di Napoli, nota per essere un ricettacolo di attivisti. Posso testimoniare che anche là la stragrande maggioranza degli studenti sono bravi ragazzi, ma ci sono dei gruppetti di facinorosi che non sono neanche studenti, e che vanno là a bivaccare, occupando le aule e dormendoci la notte solo perché non hanno niente da fare. Il tutto nella generale ignavia non tanto delle autorità accademiche, quanto delle istituzioni pubbliche che, anzi, spesso li incoraggiano”.
• Passare al contrattacco
Nonostante le diverse iniziative emerse per contrastare il pregiudizio antiebraico e antisraeliano nelle università, come gli incontri già citati e la nascita di collettivi come “Studenti per Israele”, c’è ancora tanto lavoro da fare per tenere testa agli estremisti. A tal proposito, Lucrezi afferma che “la nostra unica arma è la parola, il pensiero: dobbiamo perciò parlare, spiegare, fare ragionare, fare capire, ricordare la storia, instillare dei dubbi, aprire gli occhi, soprattutto a coloro che non sono antisemiti, ma solo disinformati. Certo, si potrebbe fare di più ma, nel nostro piccolo, qualche risultato lo otteniamo”.
(Bet Magazine Mosaico, 3 settembre 2025)
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Israele elimina il terrorista che aveva tenuto in ostaggio Emily Damari, Romi Gonen e Naama Levy
di Samuel Capelluto
Israele ha colpito ancora al cuore dell’infrastruttura terroristica di Hamas. In un’operazione congiunta guidata dal Comando Sud, le forze dell’IDF e dello Shin Bet hanno eliminato a Gaza il terrorista Hazem Oni Naim, responsabile della prigionia di tre delle più note sopravvissute israeliane: Emily Damari, Romi Gonen e la soldatessa Naama Levy, liberate nei primi mesi del 2025 nell’ambito delle operazioni di scambio ostaggi.
Secondo il portavoce militare, Naim ricopriva ruoli di alto livello nella brigata di Gaza di Hamas e durante la guerra era divenuto un elemento di spicco dell’intelligence militare dell’organizzazione. La sua vicinanza al comandante della brigata di Gaza, Az al-Din Haddad, oggi considerato leader operativo di Hamas nella Striscia, ne faceva una figura chiave della catena di comando.
La notizia della sua eliminazione ha scosso positivamente soprattutto le ex prigioniere. Emily Damari, in particolare, ha condiviso sui social e nei media israeliani la sua emozione:
“Ho urlato di gioia. Era un uomo malvagio, spietato. Sono travolta dalla felicità. Ringrazio chi ha reso possibile questo momento.”
Emily ha raccontato come quel terrorista fosse stato uno dei carcerieri più crudeli durante i suoi lunghi mesi nelle mani di Hamas. “La gente non può capire chi era questo mostro per me e per Romi”.
Già in passato, Damari aveva ricordato i volti dei suoi rapitori, descrivendo il sadismo psicologico con cui cercavano di illuderla con false promesse di liberazione. Le sue parole testimoniano oggi la forza di chi, nonostante il dolore e l’angoscia della schiavitù nei tunnel sotterranei di Hamas, sceglie di trasformare il proprio ricordo in determinazione e speranza.
Naama Levy, in un discorso pubblico dopo la liberazione, aveva raccontato i 477 giorni di prigionia come un “inferno di paura”, ma anche la consapevolezza che Israele non smette mai di lottare per i propri figli. Le immagini di quelle dichiarazioni si intrecciano oggi con la notizia della giustizia compiuta.
L’operazione rappresenta non solo un colpo significativo contro Hamas, ma anche un messaggio netto: Israele non dimentica e non lascia impunito nessun responsabile dei crimini del 7 ottobre e dei mesi di guerra successivi.
Il portavoce dell’IDF ha ribadito: “Continueremo a colpire con forza le infrastrutture terroristiche nella Striscia e a eliminare ogni minaccia contro i cittadini di Israele”.
Il sorriso liberato di Emily, oggi condiviso da migliaia di israeliani, diventa il simbolo della vittoria morale di Israele: la vita che trionfa sul terrore, la giustizia che prevale sull’oscurità.
Ma la stessa Damari, pur esprimendo gioia per l’eliminazione del terrorista, ha voluto ricordare gli ostaggi che sono ancora nella Striscia:
“Il cuore, per quanto gioisca per questa notizia, è ancora terrorizzato pensando agli altri ostaggi che sono ancora lì.”
E ha concluso con un messaggio di speranza e determinazione: “Il vero trionfo sarà il ritorno di tutti gli ostaggi”.
(Shalom, 3 settembre 2025)
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Una narrazione pericolosa
di Kishore Bombaci
FIRENZE - Ieri a Palazzo Vecchio si è definitivamente cristallizzata l’inversione della realtà, ha trionfato il pregiudizio sulla verità e l’ideologica travestita da politica ha preso il sopravvento contro una forza razionale che purtroppo sta progressivamente venendo meno.
L’assise fiorentina, invece di pensare allo stato (pietoso) della città, non ultima la vicenda dell’ex teatro Comunale, hanno preferito concentrarsi sul tema del conflitto israelo-palestinese
Tema che evidentemente esula dalle competenze dell’organo comunale, ma che comunque è una bella vetrina per la propaganda sinistra in servizio permanente.
Complice anche l’uscita dall’aula dell’opposizione, il Consiglio Comunale si è trasformato in un festival della faziosità e dell’ipocrisia con ben tre mozioni a firma Sinistra Progetto Comune/Movimento Cinque Stelle che impegnano la GIunta a interrompere ogni rapporto con il Governo israeliano, a cessare ogni rapporto di collaborazione economica con aziende che hanno sede in Israele (sic!) e a far parte di organismi di coopearazione internazionale volti a combattere gli stupri delle donne palestinesi utilizzati come arma di guerra
Un tris niente male per l’ala sinistra del Consiglio che evidenemente condiziona gli equilibri delle istituzioni fiorentine le quali ormai hanno perso ogniqualsivoglia forma di raziocinio per sposare integralmente la propaganda pro pal. Gli effetti delle mozioni sono e saranno probabilmente nulle e del tutto prive di efficacia dal momento che non risulta nè che vi siano rapporti fra Firenze e il governo israeliano, tantomeno di natura economica.
• Fuffa ideologica e niente di più
Sarebbe opportuno che il Consiglio Comunale si occupasse di cose serie e soprattutto di propria competenza. Ma quello che fa più specie è adombrare il dubbio – o peggio – che lo Stato Ebraico utilizzi la violenza sessuale come arma di guerra contro le donne palestinesi. Una circostanza assolutamente priva di fondamento e certamente mai provata ma che serve a gettare ulteriore fango nei confronti di Israele.
Quello che invece risulta certo – e persino riconosciuto dall’ONU – è lo stupro sistematico delle donne israeliane avvenuto il 7 Ottobre e le violenze sessuali cui sono state e sono sottoposte le donne ostaggio di Hamas
Ebbene, di fronte a tali disumanità certificate e persino rivendicate dai terroristi palestinesi, non risultano mozioni di condanna, non pare esservi stata alcuna indignazione dei progressisti, indignati in servizio permanente, ma in modo alternato evidentemente.
Anzi, quando durante una manifestazione in occasione dell’otto marzo una ragazza ha esposto un cartellone che ricordava quegli stupri di donne ebree, questa è stata cacciata in malomodo dai collettivi femministi di sinistra intenti a contrastare il patriarcato in patria
Una dopppia morale che ieri ha trovato consacrazione persino in Consiglio Comunale. Nessuna voce sulle donne israeliane. Niente di niente! Completamente finite nel dimenticatoio di una propaganda per nulla interessata a difendere i diritti umani (che come tali dovrebbero valere per tutti), ma esclusivamente direzionata a offrire una ricostruzione perenemmente faziosa.
Ebbene, questa narrazione unilaterale soprattutto nell’ultimo anno ha interessato in maniera sempre più preponderante le istituzioni di vari comuni, i quali, sono del tutto privi di competenza in materia di politica estera
Dai riconoscimenti dello Stato di Palestina, all’esposizione di bandiere palestinese in presunta solidarietà al popolo, a suon di mozioni ideologiche praticamente tutte uguali e “spammate” nei vari consigli comunali e regionali, la sinistra estrema ha conquistato il campo culturale del centrosinistra annichilendo le voci critiche, ormai divenute sempre più impotenti rispetto a questa narrazione martellante.
È la Caporetto della sinistra riformista, di quella sinistra che almeno un tempo provava ad affrontare la complessità delle vicende cercando di evitare il tifo da stadio. Questa sinistra è completamente sparita, non pervenuta
Encefalogramma piatto! Ma, attenzione. Non v’è giustificazione dal momento che questa inversione dei rapporti di forza è avvenuta col pieno consenso di chi doveva fare da argine al massimalismo ideologico della sinistra estrema. E invece vi si è genuflesso senza colpo ferire.
Eugenio Giani ne è la prova vivente.
L’attuale Presidente di Regione Toscana è passato dalla lotta all’antisemitismo (adozione in Consiglio Regionale della definizione IHRA) al riconoscimento della Palestina, allo sventolare della bandiera palestinese, a cianciare di genocidio facendo propri gli slogan dei più estremisti della sinistra
Sbaglia tuttavia chi pensa che tutto questo sia solo opportunismo politico (che pure c’è). Sbaglia anche chi pensa che le mobilitazioni pro pal siano frutto estempornaeo di una visione ingenua o buonista dei fatti.
Senza che nessuno vi presti attenzione, questi movimenti stanno alzando il tiro non solo a Firenze ma un po’ ovunque. Siamo passati dal tradizionale terzomondismo a un attacco frontale a Israele e a chiunque lo sostenga.
• Prendiamo il caso della Flottilia che sta navigando verso Israele in queste ore
Chi finanzia l’operazione? Non deve essere semplice trovare risorse per la flotta civile che sta solcando i mari. Chi paga?
Prendiamo la denuncia presentata a Vicenza contro l’On. Donazzan per il solo fatto di aver detto che i bambini palestinesi sono usati come scudi umani da Hamas.
Prendiamo l’iniziativa del CNF (Consiglio Nazionale Forense) di organizzare un convegno formativo (con crediti) sui diritti umani a Gaza con ospiti esclusivamente schierati verso le tesi mainstream del genocidio; con tanto di invito di Francesca Albanese le cui posizioni faziose sono evidenti e conclamata
E allora basta unire i punti. Il tentativo di colonizzazione dell’immaginario collettivo che da tempo ha infettato l’opinione pubblica trova sponda nelle istituzioni, anche quelle più alte.
Possibile che non ci sia nessuno che voglia schierarsi contro questo tipo di narrazione?
Possibile che siamo già così sotto ricatto delle minoranze (che presto saranno maggioranze) islamiche?
(AdHoc ANews, 3 settembre 2025)
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Israele, primo giorno di scuola tra emozione e speranza
di Samuel Capelluto
Dall’Alta Galilea fino all’area del confine di Gaza, 2,58 milioni di studenti hanno varcato ieri l’ingresso delle scuole.
Il 1° settembre 2025 non è stato un giorno come gli altri: è stato il ritorno sui banchi per 2,58 milioni di bambini e ragazzi israeliani, di cui 180.600 in prima elementare e quasi 150.000 hanno iniziato l’ultimo anno delle scuole superiori. È il giorno in cui ogni famiglia sente la continuità della vita, nonostante le difficoltà di un Paese in guerra da quasi due anni.
Eppure, tra cartelle nuove, lavagne e sorrisi, la giornata ha trasmesso soprattutto ottimismo e voglia di normalità. Le immagini arrivate da nord a sud raccontano lo stesso filo conduttore: scuole che riaprono, comunità che si stringono attorno ai bambini, leader politici che parlano non solo di educazione ma anche di futuro.
A Kiryat Shmona, città che più di altre ha sofferto per la vicinanza al confine e per oltre un anno e mezzo di tensioni con Hezbollah, il suono della campanella ha avuto un valore speciale. Il presidente Isaac Herzog ha partecipato alla cerimonia inaugurale, abbracciando studenti e insegnanti. “Voi siete la nostra speranza”, ha detto agli alunni, sottolineando l’importanza di una generazione che cresce con amore per il Paese e per la comunità. Non solo parole di rito: a Kiryat Shmona, tornare sui banchi significa provare a ricostruire una quotidianità che la guerra aveva strappato.
A Nof HaGalil, il ministro dell’Istruzione Yoav Kisch e il premier Benjamin Netanyahu hanno visitato la scuola “Menachem Begin”. Netanyahu ha parlato con emozione di “bambini e insegnanti che costruiscono il futuro di Israele”, mentre Kisch ha ribadito l’impegno per una “scuola di radici e innovazione”, capace di rafforzare allo stesso tempo valori, identità e competenze tecnologiche. Quest’anno, infatti, il Ministero ha lanciato il programma “Israele Reale”, volto a rafforzare le discipline scientifiche e tecnologiche, con particolare attenzione alle materie STEM, all’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle classi e alla formazione degli insegnanti alle competenze del futuro.
Se al nord il ritorno a scuola è stato un simbolo di stabilità, al sud è stato soprattutto un atto di resilienza. Nell’area del Negev occidentale e del confine con Gaza, circa 23.700 studenti hanno iniziato l’anno scolastico – 2.000 in più rispetto allo scorso anno, segno di una crescita demografica che, in questo contesto, ha il sapore della vittoria sulla paura.
A Kfar Aza, una delle comunità più colpite il 7 ottobre, gli studenti sono tornati a studiare, anche se in scuole provvisorie allestite nei kibbutz vicini. “Non è facile, ci mancano compagni che non ci sono più – ma torniamo a studiare insieme ad altri ragazzi”, hanno raccontato due ragazzi, Maor e Amit. Le loro parole fotografano con semplicità il contrasto tra dolore e voglia di continuare a vivere.
Il deputato Almog Cohen, accompagnando i suoi figli a scuola nel sud, ha sottolineato: “Qui cresce una generazione che continuerà il cammino con valori di rispetto, responsabilità e coraggio”.
La giornata del ritorno a scuola è stata anche l’occasione per ricordare che l’istruzione non è solo trasmissione di conoscenze, ma anche ancora di stabilità, luogo di cura e comunità. Gli insegnanti e i dirigenti scolastici sanno bene che, soprattutto in anni come questi, la scuola non è solo il luogo in cui si studiano matematica o scienze. Le classi diventano spazi di condivisione, di ascolto e di sostegno reciproco. Gli educatori non trasmettono soltanto nozioni, ma accolgono emozioni, danno voce ai dubbi e alle paure, e aiutano i ragazzi a ritrovare insieme forza e normalità.
Il 1° settembre 2025 resterà come una giornata di ritorni, sorrisi e speranza. Dal nord al sud, tra difficoltà e memorie ancora vive, gli alunni hanno ricordato a tutti che la volontà di andare avanti e continuare a vivere, è la risposta più forte e luminosa alle sfide del presente.
Nonostante le ferite, Israele riparte dalla scuola, dal futuro dei suoi bambini. E il messaggio che arriva dai corridoi di Kiryat Shmona, dai banchi di Nof HaGalil e dai kibbutz del Negev è chiaro: la vita vince, e il futuro si costruisce insieme, giorno dopo giorno.
(Shalom, 2 settembre 2025)
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Flottilla da Genova a Gaza: il business milionario della solidarietà da crociera
di Stefano Piazza
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"Un misto di turismo ideologico e farsa geopolitica"
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Ogni estate ha il suo spettacolo: c’è chi organizza festival musicali, chi maratone e chi, con un tocco di autocelebrazione militante, preferisce imbarcarsi in una “flottilla per Gaza”.
Piccole e grandi barche, bandiere colorate, slogan roboanti e carichi che farebbero sorridere persino la Croce Rossa: qualche scatolone di medicinali, due pacchi di pasta e tanta voglia di selfie. È la “solidarietà da crociera”, versione ONG.
Dietro questo teatrino c’è la Freedom Flotilla Coalition, un patchwork internazionale che va dagli svedesi di Ship to Gaza agli irlandesi di Irish Ship to Gaza, passando per i turchi dell’IHH – organizzazione già criticata da vari governi occidentali e oggetto di inchieste internazionali per presunti legami controversi con ambienti radicali. In Spagna troviamo Rumbo a Gaza, in Canada e negli Stati Uniti altri gruppi satellite, tutti accomunati da un obiettivo: trasformare un gommone traballante in un’arma di propaganda.
Il copione è collaudato: le navi salpano, la marina israeliana interviene, gli attivisti resistono o fanno resistenza passiva, le telecamere riprendono. Fine dell’operazione. Il carico umanitario è irrilevante, ma il bottino mediatico è assicurato. Non a caso, il caso della Mavi Marmara del 2010 – finita in tragedia – è diventato per i promotori una sorta di mito fondativo: il giorno in cui il “diritto internazionale” si sarebbe ribellato al blocco israeliano, dimenticando che quel blocco è stato ritenuto legittimo da diverse fonti giuridiche internazionali per impedire il contrabbando di armi verso Hamas.
In questo copione si è inserita anche l’Italia, con la flottilla partita dal porto di Genova. Presentata come un’iniziativa “dal basso” con il sostegno di associazioni locali e sindacati, è stata in realtà collegata a sigle della Freedom Flotilla Coalition e a reti internazionali di attivismo politico filo-palestinese. Il tutto condito da conferenze stampa, dichiarazioni roboanti sul “diritto di resistenza” e passerelle di attivisti pronti a immortalarsi sul ponte con kefiah e megafono. Un’operazione che ha garantito grande visibilità mediatica agli organizzatori e zero impatto reale per la popolazione di Gaza.
Sul piano economico, secondo varie inchieste giornalistiche e rapporti di think tank, parte dei finanziamenti che orbitano intorno a queste iniziative proviene da fondazioni islamiste in Europa e da reti di donatori del Golfo. In diversi dossier viene citata anche Qatar Charity, più volte accusata da fonti occidentali di sostenere indirettamente la causa palestinese e attività connesse. Anche realtà associative riconducibili alla galassia della Fratellanza Musulmana hanno espresso supporto politico e mediatico a queste campagne.
Israele, dal canto suo, guarda a queste “carovane del mare” come a semplici operazioni di marketing ideologico. Le IDF intercettano le navi, spesso senza colpo ferire, ma il rumore mediatico è già scritto. Non sorprende quindi che il ministro Itamar Ben-Gvir abbia annunciato un trattamento speciale: detenzione prolungata per gli attivisti nelle carceri di massima sicurezza di Ketziot e Damon e confisca delle imbarcazioni, magari da riutilizzare per la polizia israeliana.
In definitiva, la flottilla non serve a Gaza: serve a se stessa. È un’operazione perfetta per attivisti in cerca di gloria, ONG affamate di donazioni e governi come quello del Qatar desiderosi di posizionarsi come difensori della causa palestinese. Un misto di turismo ideologico e farsa geopolitica, dove la merce più preziosa non sono i medicinali o gli alimenti, ma le fotografie da postare su Instagram.
E qui arriviamo al capitolo italiano. La flottilla partita da Genova ha trasformato il porto ligure in una passerella ideologica: kefiah al vento, dichiarazioni di “resistenza”, applausi di circostanza e un carico di illusioni più che di aiuti. Un reality show marittimo dove gli attivisti nostrani recitano la parte dei rivoluzionari in vacanza, pronti a sfidare Israele con l’eroismo di chi, in realtà, non rischia nulla. Gaza, intanto, resta dov’era: stretta tra Hamas e la miseria. Ma almeno a Genova, per qualche giorno, qualcuno ha avuto il suo quarto d’ora di gloria.
(L'informale, 2 settembre 2025)
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Come l'Iran ha rafforzato – involontariamente – lo Stato ebraico
Ironia della sorte, è proprio l'antisemitismo dell'Iran – come quello di molte dittature arabe prima di esso – ad aver rafforzato Israele e reso possibile la sua sopravvivenza.
di Micha Danzig
Una delle grandi ironie della storia è che Israele – nonostante Teheran spenda miliardi di dollari per distruggere lo Stato ebraico – è oggi più sicuro proprio grazie, tra l'altro, agli ebrei che sono fuggiti dall'Iran pochi decenni fa.
I discendenti degli ebrei iraniani, le cui radici familiari si estendono per secoli a Isfahan, Shiraz e Teheran, apportano la loro conoscenza del regime alle industrie militari, di sicurezza e strategiche di Israele. Non sono “colonizzatori”, ma esiliati che sono tornati nella loro regione d'origine, dotati di memoria, competenze e una forte motivazione a garantire la sopravvivenza nel paese in cui ha avuto origine la storia ebraica.
Prendiamo ad esempio il maggiore Arye Sharuz Shalicar, portavoce delle forze di difesa israeliane di origine ebraico-persiana, fluente in farsi, che racconta la storia di Israele direttamente agli iraniani. Oppure Beni Sabti, ex portavoce del governo persiano di Israele, che fornisce consulenza a Israele in materia di comunicazione strategica con l'Iran.
Essi incarnano qualcosa che Teheran teme, perché non considerano la persecuzione iraniana come un concetto astratto, ma come un'esperienza vissuta – e utilizzano questa conoscenza per difendere lo Stato ebraico.
Le loro famiglie vivevano già in Persia molto prima che l'Islam sciita acquisisse importanza. Le comunità ebraiche della diaspora esistevano lì fin dai tempi biblici, fin dai tempi dell'impero achemenide e di Ciro il Grande, quasi 1.500 anni prima dell'ascesa dell'Islam. La presenza ebraica in Iran precede quindi di millenni i religiosi che oggi governano il Paese. Ciononostante, il regime che ha espulso gli ebrei osa definire Israele un “avamposto straniero”, cancellando la propria storia e fingendo che gli ebrei siano arrivati in Medio Oriente solo in epoca recente.
Ogni razzo lanciato da Hamas da Gaza, ogni attacco di Hezbollah o droni Houthi contro Israele, ogni razzo lanciato dall'Iran su Tel Aviv – tutto questo sottolinea una brutale verità: la guerra di Teheran contro Israele non riguarda i confini. È una lotta per la sopravvivenza.
Ma proprio i nipoti degli esiliati ebrei iraniani – così come i nipoti degli ebrei espulsi da molti altri paesi arabi – sono ora tra i soldati che difendono Israele: pilotano gli aerei da combattimento israeliani, dirigono la sua difesa cibernetica, azionano le batterie Iron Dome che intercettano questi razzi e svolgono molti altri compiti cruciali.
Ironia della sorte, è proprio l'antisemitismo dell'Iran – come quello di molte altre dittature arabe prima di esso – che ha rafforzato Israele e ha permesso alla sua popolazione di continuare a esistere.
Questa realtà smentisce la caricaturale narrazione secondo cui Israele sarebbe un progetto coloniale occidentale. Gli ebrei provenienti dall'Iran, dall'Iraq, dallo Yemen, dalla Siria, dalla Libia e dall'Algeria sono stati banditi dalle loro regioni d'origine, dove le loro comunità esistevano da secoli, molto prima che le conquiste arabe o islamiche dominassero quelle terre. Invece di occupare la terra altrui, sono venuti in Israele e sono tornati nella regione indigena degli ebrei, l'unica nazione che offriva loro rifugio e continuità.
La propaganda di Teheran dipinge gli ebrei come colonizzatori, ma la storia del regime stesso racconta il contrario. I media statali iraniani cancellano secoli di vita ebraica in Persia, una vita che ha arricchito il Paese in ogni ambito. Prima del regime clericale, la comunità ebraica in Iran contava fino a 100.000 persone. Oggi sono solo circa 8.000 a sopravvivere in condizioni repressive.
Gli ebrei espulsi dall'Iran portano con sé il segno del rifiuto, ma anche gli strumenti per difendere la continuità ebraica. Hanno trasmesso questa conoscenza ai loro figli e nipoti. L'Iran potrà anche voler distruggere Israele, ma – ironia della sorte – ha contribuito a creare israeliani che sanno esattamente cosa sono la tirannia e il colonialismo islamista, e cosa serve per combatterli.
Questo conflitto è una lotta secolare sulla questione se gli ebrei – abitanti indigeni della terra di Israele – possano vivere lì come popolo libero.
L'Iran sta cercando di cancellare la vita ebraica in Medio Oriente. Ma quando l'antisemitismo caccia gli ebrei dalle loro case, essi non scompaiono. Ricostruiscono. Ritornano. Diventano più forti. E questa rimane la confutazione più incisiva della visione barbarica del regime iraniano: la storia ebraica in Persia non è finita con l'esilio. Continua a vivere in Israele, dove la storia ebraica – una storia di sopravvivenza e di trionfo contro ogni impero e ogni colonizzatore, da Roma a Teheran – continua a scriversi.
(Israel Heute, 2 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Regno Unito esclude il governo israeliano dall’Expo della difesa
di David Fiorentini
I funzionari del governo israeliano non potranno partecipare alla prossima edizione della Defense and Security Equipment International (DSEI) a Londra, afferma il Times of Israel.
In programma dal 9 al 12 settembre, la DSEI è la principale fiera britannica del settore della difesa. Allestita ogni due anni nei Docklands londinesi, ospita centinaia di aziende da tutto il mondo, e con il sostegno del governo britannico suole invitare anche i rispettivi esponenti politici.
Quest’anno però gli organizzatori hanno voluto dare un forte segnale politico nei confronti di Israele, in seguito al recente ampliamento delle operazioni a Gaza. Per questo, la tradizionale cortesia è stata sospesa.
“È un atto deliberato e deplorevole di discriminazione” ha tuonato il Ministero della Difesa israeliano. “In un momento in cui Israele combatte su più fronti contro estremisti islamici e organizzazioni terroristiche, che minacciano anche l’Occidente e le rotte marittime internazionali, questa decisione della Gran Bretagna favorisce gli estremisti, legittima il terrorismo e introduce considerazioni politiche del tutto inappropriate in una fiera professionale del settore difesa”.
Tuttavia, nonostante il divieto per i rappresentanti governativi, le aziende belliche israeliane saranno comunque ammesse.
Il caso segue una controversia simile dello scorso giugno, quando la Francia aveva vietato a diversi costruttori israeliani di esporre armi “offensive” al Salone aeronautico di Parigi.
Analogamente, Berlino aveva sospeso le forniture a Israele di armamenti utilizzabili a Gaza, ma poco fa l’azienda israeliana Rafael Advanced Defense Systems ha annunciato un contratto da 358 milioni di euro con l’Aeronautica tedesca per la fornitura di tecnologia di puntamento per aerei da combattimento.
Un ennesimo accordo che, per il ruolo centrale dell’industria israeliana, dimostra ancora una volta l’ipocrisia dei boicottaggi e l’inefficacia della censura.
(Bet Magazine Mosaico, 2 settembre 2025)
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L’israeliano Solomon al Villarreal: sfiderà la Juventus in Champions
Cambia ancora casacca Manor Solomon. Il forte centrocampista israeliano di recente accostato in Serie A alla Roma e al Bologna, sarà protagonista nella Liga spagnola. Ad annunciarle l’ingaggio in prestito, nell’ultimo giorno di calciomercato, sono stati i “sottomarini gialli” del Villarreal.
Nato a Kfar Saba, 26 anni, Solomon è di proprietà del Tottenham Hotspur e nella passata stagione ha militato (sempre in prestito) nel Leeds, contribuendo al suo ritorno in Premier con dieci goal e dodici assist. Solomon «è un abile attaccante destro che gioca come ala sinistra, possiede un eccellente dribbling e la capacità di superare gli avversari nell’uno contro uno», sottolinea in una nota il club iberico, quinto nella scorsa Liga e nei prossimi mesi impegnato in Champions League. Nel dargli il benvenuto, il Villareal ne ha lodato anche la velocità e «il suo fantastico tiro dalla media distanza», affinato nel campionato inglese e in precedenza con gli ucraini dello Shaktar Donetsk, con i quali si è distinto anche nella massima coppa continentale andando due volte in rete contro il Real Madrid. Solomon aveva poi lasciato lo Shaktar e l’Ucraina con l’inizio dell’attacco russo nel marzo del 2022, fuggendo in modo rocambolesco in Polonia.
Solomon si è formato calcisticamente nel Maccabi Petah Tikva e conta anche 44 presenze con la maglia della nazionale, che verosimilmente indosserà di nuovo nei prossimi giorni nella sfida contro l’Italia per la qualificazione ai mondiali del 2026 in Usa, Canada e Messico. Con il Villareal, incontrerà inoltre a ottobre la Juventus in Champions League. Intanto, come riporta Ynet, il suo acquisto ha suscitato la reazione scomposta di alcuni movimenti anti-israeliani attivi in Spagna e al rimorchio di vari tifosi online. Per Ynet, gli atleti israeliani in Europa si trovano ad affrontare «un crescente controllo politico legato alla guerra di Gaza, con proteste, accordi annullati e richieste di boicottaggio». Tale pressione, si legge, «complica trasferimenti e carriere, soprattutto perché agenti e club temono le reazioni negative dei tifosi».
(moked, 2 settembre 2025)
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Ucciso il portavoce di Hamas: così Israele combatte la propaganda
Obeida, eliminato in un raid a Gaza, ha gestito la campagna sugli ostaggi, dai video alle liberazioni.
di Fiamma Nirenstein
La comunicazione è un fronte di guerra importante come gli altri 7 con cui si confronta Israele e da cui proviene, in tutto il mondo, una minaccia sostanziale al mondo democratico. Crea odio antisemita e contro i cristiani. Gli episodi delle ultime ore, lontani per quanto possano sembrare, dell'eliminazione del portavoce di Hamas e della decisione americana di proibire l'ingresso di Abu Mazen all'Assemblea Generale dell'Onu, sono un modo di fronteggiare la forza della propaganda antioccidentale. Anche chi crede di non conoscere Abu Obeida, perché ha visto la sua faccia sempre avvolta nella kefia o issata come bandiera alle manifestazioni, lo conosce bene. Obeida, al secolo Hudayfa Abdallah al Kahlout, eliminato sabato con un'incursione aerea, era molto di più di un portavoce. È lui che ha amministrato la popolare, vittoriosa campagna di criminalizzazione di Israele che si è pasciuta dei termini genocidio e fame; quella in cui si è visto la disperazione dei rapiti, le loro ossa senza carne, le lacrime e le preghiere, così da demoralizzare e dividere l'opinione pubblica israeliana; lui che, col sostegno dei media, di Al Jazeera, coi "ministeri" di Hamas che forniscono i numeri poi ripresi senza verifiche, ha inondato l'opinione pubblica. Abu Obeida era popolare e famoso, un simbolo per il suo popolo e quello dei propagandisti affascinati dall'immagine mascherata, dalla voce nasale in arabo eccitato: quando Al Arabiya ha annunciato la sua morte, Hamas ha diffidato dal diffondere la notizia. Ma una volta verificato che lo spokesman di Izza din al Qassam dal 2004, famoso da quando annunciò nel 2006 il rapimento di Shalit, era stato colpito, lo stesso ministro della Difesa Israel Katz l'ha annunciata di persona. Il suo stile era la minaccia di morte a Israele e ai rapiti. L'ultima volta, venerdì, ha detto, che se l'esercito entrerà a Gaza "gli ostaggi saranno coi nostri guerrieri nel combattimento, soggetti agli stessi rischi".
È una guerra senza quartiere, tutte le roulettes girano, ore decisive anche per un eventuale accordo sui rapiti, l'ingresso a Gaza, gli accordi e gli scontri coi Paesi Arabi. Gli Stati Uniti non stanno a guardare: il divieto ad Abu Mazen di entrare negli Usa per l'Assemblea generale e per la riunione collaterale voluta da Macron per approvare uno Stato Palestinese resterà, è probabile, senza conseguenze. Anche per Arafat, quando Reagan lo rifiutò nel 1988, si tenne la riunione a Ginevra e poi comunque nel 1974 parlò con la rivoltella e l'ulivo in mano anche a New York. Ma il senso della mossa è chiaro: Abu Mazen, che solo a giugno si è deciso a dire una parola, forzata, sul 7 di ottobre, ha uno storico nesso col terrorismo che alimenta con gli stipendi mensili e la deificazione degli shahid. Oggi in particolare, suggeriscono gli Usa, questo non deve essere ammesso dal consesso interazionale, deve finire l'era del terrore, fare posto a quegli Accordi di Abramo cui Abu Mazen si oppose con tutte le forze. L'America non ignora che Abu Mazen, anche se Hamas gli ha strappato il ruolo di protagonista, vuole essere nel giuoco per uno Stato che odora di premio al terrore.
Tutto è simbolico, ma importante. La roulette gira, niente terrorismo nel mondo prossimo venturo dicono gli Usa. Una scommessa interessante, mentre Israele porta le riserve sul campo di Gaza e di conserva tiene aperto il fronte sui rapiti.
(il Giornale, 1 settembre 2025)
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La settimana di Israele. A Gaza ora bisogna finire il lavoro
di Ugo Volli
È difficile rendersene conto in un’Europa sempre più obnubilata dall’isteria anti-israeliana, motivata ormai sempre più chiaramente dal riemergere dell’antico odio antisemita. Ma a chi guardi le cose con lucidità è evidente che la guerra in Medio Oriente sta finendo con una grande vittoria di Israele, la più generale e promettente dalla fondazione dello Stato. Una vittoria non solo militare ma anche politica e diplomatica, con forti aspetti economici. Per capirlo bisogna evitare di fissare lo sguardo solo su Gaza. La Striscia è stata il punto di innesco di questa guerra, e il luogo dove il comportamento criminale e la volontà genocida dei nemici di Israele sono emersi nella forma più chiara, allo stesso dolorosa e teatrale; dove si è costruita una campagna propagandistica menzognera contro Israele e gli ebrei di dimensioni inedite nella politica mondiale. Ma strategicamente essa è solo un campo del conflitto, non certo il suo centro. Bisogna invece guardare insieme i sette fronti della guerra, considerare che il centro di comando che la dirige è l’Iran e che i suoi satelliti meglio armati sono (o meglio erano) Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Vediamo dunque uno per uno questi campi.
• Iran
La “guerra dei dodici giorni” condotta da Israele e dagli Usa dal 13 al 25 giugno scorso ha fortemente danneggiato il suo progetto nucleare e anche il suo armamento aereo, missilistico e le difese antiaeree, oltre a decimare i quadri dirigenti militari e gli scienziati atomici. L’economia langue, mancano nelle città acqua, elettricità e carburante gli aiuti russi non si sono visti e quelli cinesi sono sulla carta. Il regime non crolla perché è sostenuto ancora da un’atroce repressione interna (almeno 841 esecuzioni capitali ufficialmente dichiarate dal 1º gennaio al 28 agosto 2025).
È possibile che per disperazione gli ayatollah provino a lanciare un nuovo attacco di sorpresa contro Israele, ma il risultato sarebbe quasi certamente la loro distruzione totale.
• Libano
La decimazione di Hezbollah con l’operazione dei “cercapersona” e con i bombardamenti ha provocato una rivoluzione politica nel paese. La nuova dirigenza si è impegnata a disarmare quel che resta di Hezbollah e delle milizie palestiniste e a quanto pare lo sta facendo, sia pur con qualche necessario aiuto dell’aviazione israeliana. L’Onu ha deciso finalmente di abolire (fra un anno…) la sua forza locale Unifil, che era la foglia di fico dei terroristi. Israele sta progettando di ritirarsi dalle zone di intervento di qualche mese fa, per agevolare la ricostruzione di un paese che vuole liberarsi dal terrorismo.
• Siria
La distruzione della capacità militare di Hezbollah ha provocato la caduta del regime di Assad. Quello di Al-Jolani che gli è succeduto ha quadri formatisi nell’Isis ed è appoggiato da una Turchia sempre più antisionista, dunque non è certo rassicurante, anche se impedisce il passaggio dei rifornimenti iraniani a Hezbollah. Israele ha distrutto gli arsenali dell’esercito siriano, ha occupato i punti dominanti del confine ottenendo libertà di intervento fino alla periferia di Damasco, ha difeso i drusi che il regime voleva distruggere, creando una zona cuscinetto preziosa alla frontiera; ora tratta con il regime per ottenere una normalizzazione alle sue condizioni di sicurezza, ma continua a garantire i drusi, e una forza speciale è intervenuta nei giorni scorsi per distruggere una centrale turca di spionaggio elettronico installata pochi chilometri a sud di Damasco.
• Yemen
Dopo molti interventi aerei e navali per bloccare la linea di contrabbando di armi con l’Iran, Israele è riuscito venerdì scorso in un’altra operazione da maestro, decapitando il movimento degli Houthi con l’eliminazione del Capo del Governo, dei Ministri della Difesa e dell’Interno, del vicecapo di stato maggiore e di molti dirigenti. Questo significa non solo che il movimento terrorista è a portata delle armi di autodifesa israeliana, ma anche che è stato infiltrato dall’efficientissimo servizio di sicurezza esterno (il Mossad). Gli Houthi non sono ancora finiti, ma colpiti gravemente e costantemente sotto tiro. Con questa azione Israele ha reagito allo stillicidio di missili e droni sparati in questi mesi dallo Yemen sullo Stato ebraico, ma ha anche fatto un favore all’Arabia Saudita, da tempo minacciato da questi terroristi e anche all’Egitto, che ha subito perdite economiche pesanti a causa degli atti di pirateria marittima praticata da loro all’imbocco del Mar Rosso, scoraggiando così la navigazione attraverso il canale di Suez. Essi peraltro erano intervenuti quando avevano potuto per abbattere i proiettili contro Israele.
• Patti di Abramo
Non a caso questi e gli altri paesi arabi moderati non si sono mai fatti prendere in questi due anni dall’isteria anti-israeliana, pur non mancando all’obbligo formale di chiedere la fine della guerra a Gaza: fra loro e Israele vige qualcosa di simile a un’alleanza informale contro l’Iran e i suoi satelliti. Ma per fine della guerra, come hanno detto chiaramente i paesi arabi in una dichiarazione comune emessa a New York due settimane fa, essi intendono il disarmo e l’espulsione di Hamas da Gaza, che si preparano ad amministrare. L’Egitto sta formando alcune migliaia di nuovi poliziotti palestinesi che terranno l’ordine nella Striscia e gli Emirati stanno collaborando alla gestione dei soccorsi umanitari, candidandosi a sostituire il Qatar come finanziatore di Gaza.
• Gaza
Perché tutto ciò si realizzi, è necessario che Israele finisca il lavoro a Gaza, applicando anche qui il principio usato in Libano, Iran e altrove: come ha detto Netanyahu “chi prova a danneggiare Israele sarà messo nella condizione di non nuocere”. La fine della guerra con la resa di Hamas era già possibile un mese fa, prima del dannosissimo intervento di Macron e degli altri leader sprovveduti o demagoghi (Inghilterra, Australia, Canada ecc., per fortuna non l’Italia) che lo hanno seguito nella promessa di un prossimo riconoscimento dello “Stato di Palestina” all’Assemblea Generale dell’Onu che inizia a settembre. Ciò ha suggerito ai terroristi la possibilità di intestarsi un successo storico e quindi di resistere. Difficile dire se l’intervento di Macron sia stato solo stupido o dettato da odio antisemita e rivalità nei confronti del progetto dei patti di Abramo guidato dall’Amministrazione americana. Così l’ha comunque percepito Trump che nei giorni scorsi ha bloccato per rappresaglia l’ingresso dei dirigenti dell’Autorità Palestinese a New York dove si svolgerà l’Assemblea.
• Un’offensiva necessaria
Il gesto di Macron ha però ha reso inevitabile per vincere la resistenza dei terroristi la conquista israeliana delle ultime roccaforti di Hamas a Gaza City, obbligando di conseguenza Israele a sgomberare gli scudi umani di cui i terroristi si sono circondati e mettendo in serio pericolo la sopravvivenza dei rapiti in mano ai terroristi. D’altro canto Israele non può certo cedere al ricatto di Hamas ora e abbandonare la guerra senza la sua resa, perché ciò sarebbe una sconfitta storica che aprirebbe la via a future ripetizioni del 7 ottobre e renderebbe inutili due anni di sacrifici e di vittorie. Anche l’opposizione in Israele, quella seria che aspira a sostituire Netanyahu e non i manifestanti più fanatici, se ne rende conto e infatti misura le parole, lasciando che il governo attuale sciolga i nodi politici e militari prima di cercare di batterlo alle elezioni che si svolgeranno comunque l’anno prossimo.
(Shalom, 31 agosto 2025)
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Il Ministro dell'Interno dell'Assia Poseck: l'antisemitismo è un attacco alla dignità umana
Durante una manifestazione a favore di Israele a Francoforte sul Meno, il ministro dell'Interno dell'Assia mette in guardia dal rischio di un'inversione dei ruoli tra carnefici e vittime. Egli definisce antisemita lo slogan «From the River to the Sea».
di Elisabeth Hausen
FRANCOFORTE SUL MENO – Circa 650 persone hanno manifestato domenica pomeriggio a Francoforte sul Meno la loro solidarietà con Israele. I partecipanti alla manifestazione “United We Stand” (Uniti resistiamo) hanno voluto lanciare un segnale contro l'odio e a favore della vita. Hanno così reagito anche a una manifestazione filopalestinese con circa 11.000 partecipanti, durante la quale il giorno prima era stato relativizzato l'Olocausto. Diversi oratori hanno espresso il loro rammarico non solo per le vittime del massacro di Hamas e della guerra in Israele che ne è seguita. Hanno anche parlato delle sofferenze degli innocenti palestinesi nella Striscia di Gaza. Tuttavia, è importante non confondere causa ed effetto: il gruppo terroristico Hamas ha causato la guerra. Il ministro dell'Interno dell'Assia Roman Poseck (CDU) ha definito l'antisemitismo un “attacco alla dignità umana” e ha aggiunto: “È vergognoso quanto la vita ebraica sia attualmente minacciata nel nostro Paese”. La manifestazione in Opernplatz è stata in netto contrasto con quella di sabato: “Ieri, purtroppo, abbiamo assistito ancora una volta a episodi di discriminazione, antisemitismo, odio e incitamento all'odio per le strade di Francoforte”. Poseck ha sottolineato: “Non dobbiamo invertire i ruoli di carnefici e vittime”. Hamas non ha ancora posto fine all'attacco del 7 ottobre 2023. Infatti, nella Striscia di Gaza continuano a essere torturati degli ostaggi. Durante la manifestazione filopalestinese non è stata evidente alcuna presa di distanza da Hamas e da altre organizzazioni terroristiche.
• Due tribunali hanno revocato il divieto
La città di Francoforte aveva vietato la manifestazione “United4Gaza – Stoppt den Völkermord jetzt” (Uniti per Gaza – Fermate subito il genocidio) anche per motivi di sicurezza. Tuttavia, il tribunale amministrativo di Francoforte ha revocato il divieto, scrivendo: “Non spetta alle autorità statali valutare le opinioni protette dall'articolo 5 della Costituzione tedesca”. Venerdì, il tribunale amministrativo dell'Assia a Kassel ha dato il via libera alla manifestazione. Il ministro dell'Interno, tuttavia, ha definito lo slogan “From the river to the sea” (Dal fiume al mare), che è stato anche intonato durante la manifestazione, “intollerabile, perché attacca fondamentalmente il diritto all'esistenza di Israele”. Si tratta di antisemitismo, l'opposto della volontà di pace. Egli ha chiesto che il diritto all'esistenza dello Stato ebraico sia posto sotto la protezione del diritto penale.
• Sindaco: il 7 ottobre ha mostrato il desiderio di distruzione dell'Iran
Il sindaco Nargess Eskandari-Grünberg (Alleanza 90/I Verdi), originario dell'Iran, ha ricordato l'orologio di Teheran. Fino alla guerra in Iran nel mese di giugno, questo contava le ore che mancavano alla prevista distruzione dello Stato ebraico. Il desiderio iraniano di distruggere Israele si è manifestato il 7 ottobre. Il regime è la causa del massacro. Eskandari-Grünberg ha ricordato che prima della rivoluzione islamica del 1979 l'Iran intratteneva buoni rapporti con Israele. Alla manifestazione erano visibili diverse bandiere iraniane di quel periodo, con il simbolo del leone. La politica locale afferma di non aver sentito slogan come “Abbasso il regime iraniano” o “Abbasso Hamas”. Inoltre, non ha mai sentito nessuno dire: “Ho timori per la mia sicurezza se indosso il mio foulard palestinese”. Eskandari-Grünberg dirige il Dipartimento II di Francoforte, che comprende, tra l'altro, l'Ufficio per gli affari multiculturali. È inoltre responsabile dell'Ufficio per la discriminazione.
• Il responsabile per l'antisemitismo: “Basta con l'esaltazione del terrorismo”
Il responsabile del governo dell'Assia per la vita ebraica e la lotta contro l'antisemitismo, Uwe Becker (CDU), ha chiesto che si ponga fine all'“esaltazione del terrorismo a Francoforte”. A causa dell'aumento degli episodi di antisemitismo, gli ebrei hanno lasciato la Germania e anche Francoforte per trasferirsi in Israele. Anche il presidente dell'Associazione regionale delle comunità ebraiche dell'Assia, Daniel Neumann, ha criticato la manifestazione di sabato. I partecipanti avrebbero finto di manifestare per il destino della popolazione di Gaza. In realtà, molti si sarebbero schierati a favore della distruzione dello Stato di Israele. Neumann ha espresso gratitudine per le persone non ebree che sostengono gli ebrei e “li fanno sentire che non sono soli”. Ha detto: “Siamo i nuovi spartani”. Con questo si riferiva alla lotta per il diritto degli ebrei di vivere e pregare liberamente in questo Paese. Un bambino ebreo, mentre si recava a un campo estivo, alla domanda di un coetaneo se anche lì sarebbero stati recintati, ha risposto: “Siamo ebrei. Siamo sempre recintati”. Riferendosi alla decisione del cancelliere federale Friedrich Merz (CDU) di limitare le forniture di armi a Israele, ha fatto riferimento alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Già allora il cancelliere Willy Brandt (SPD) non aveva permesso la fornitura di armi a Israele. Per alcuni anni aveva parlato della necessità di una “politica senza complessi” nei confronti di Israele. Il presidente della comunità ebraica di Francoforte, Marc Grünbaum, ha affermato che l'odio ha origine dai social media e dalla disinformazione: “Dobbiamo riconquistare Internet e i social media”. Questi sono infatti attualmente caratterizzati da falsità che si radicano nella mente delle persone.
• Avviso di viaggio israeliano per Francoforte
Simone Hofmann dell'iniziativa “Frankfurt Vereint Gegen Antisemitismus” (Francoforte unita contro l'antisemitismo) ha sottolineato che l'ambasciatore israeliano Ron Prosor ha emesso un avviso di viaggio per Francoforte a causa della manifestazione. Eppure Francoforte è considerata la “città più ebraica della Germania”. Hofmann ha contestato con veemenza l'idea che gli ebrei debbano sopportare le opinioni espresse in tali manifestazioni: “Non dobbiamo sopportare di essere insultati, imbrattati di vernice o picchiati fino a finire in ospedale”. Una settimana prima, Sacha Stawski, presidente della piattaforma “Honestly Concerned”, era stato aggredito con vernice rossa mentre cercava di affiggere manifesti con le foto degli ostaggi nei pressi di un campo filopalestinese a Francoforte. Durante la manifestazione di solidarietà sono stati letti i nomi dei 48 ostaggi ancora detenuti nella Striscia di Gaza. I rabbini di Francoforte Julian-Chaim Soussan e Avichai Apel hanno pregato per i rapiti e i dispersi. Sotto la guida del cantore Menachem Ganon, i partecipanti hanno concluso cantando “Osse Schalom” (La pace regna nei suoi cieli) e l'inno nazionale israeliano “HaTikva” (La speranza).
(Israelnetz, 1 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I responsabili della morte dei bambini a Gaza
di Davide Cavaliere
Ospite nel talk show di Piers Morgan, alla faziosa e moraleggiante domanda del conduttore su cosa ne pensasse dei «ventimila bambini palestinesi uccisi a Gaza dopo il 7 ottobre», Daniella Weiss, storica leader degli ebrei della Giudea e della Samaria, ha risposto nell’unico modo possibile, ossia «che i palestinesi, come gli arabi attorno, dovrebbero smettere di attaccare Israele».
Il sottinteso della sua risposta è semplice: a Gaza non ci sarebbe un solo bambino «palestinese» morto se il 7 ottobre Hamas, rompendo una tregua con Israele, non avesse commesso il più grande eccidio di ebrei dopo la Shoah; così come numerosi bambini che adesso sono morti sarebbero vivi se la milizia di feroci assassini che il 7 ottobre ha ucciso, decapitato e stuprato, non si nascondesse tra i civili, non li usasse come scudi umani e non considerasse la vita della popolazione di Gaza come carne da cannone, da esibire tra finte lacrime, finta disperazione e finta indignazione morale a uso e consumo dell’Occidente.
Morgan ha insistito con la sua domanda, incalzando l’ospite, e dicendo di volere sapere cosa provasse riguardo «ai bambini uccisi dell’IDF» (come se le forze armate israeliana avessero volontariamente ucciso i bambini «palestinesi»). La risposta della Weiss non si è fatta attendere: «Penso che i genitori dovrebbero essere molto attenti prima di insegnare ai figli a odiare gli ebrei e a ucciderli. Penso che gli arabi, i gazawi, i giordani, i siriani, chiunque, dovrebbero essere molto, molto attenti al modo in cui educano i loro figli».
Daniella Weiss tocca qui un punto fondamentale: alcuni bambini di Gaza, certamente i più piccoli, sono stati vittime collaterali delle necessarie operazioni militari israeliane (nonché del cinismo di Hamas), mentre altri sono caduti come combattenti. Il gruppo islamista, per bocca dei suoi vertici militari, Hassan Suhare e Esra Halil Juma, ha ammesso di addestrare, armare e mandare a combattere migliaia di bambini e adolescenti. Negli ultimi mesi, è stato documentato anche il caso di un bambino di quattro inviato da Hamas contro i soldati israeliani.
Inserita in un contesto più ampio, la domanda di Piers Morgan appare per quello che è: un quesito stucchevole e retorico, inutile alla comprensione dei fatti e tutto teso a mettere in difficoltà la Weiss.
Ora, come abbiamo già scritto in precedenza, a preoccuparsi dei bambini palestinesi dovrebbero essere, prima di tutto, gli adulti palestinesi, non gli israeliani. Non si capisce perché Daniella Weiss dovrebbe provare per loro più pietà di quella avuta dai loro stessi genitori. I palestinesi non si curano affatto dei loro figli: se lo facessero, come ha giustamente sottolineato la fondatrice di Nachala, non li crescerebbero come fondamentalisti religiosi e assassini di massa, né inizierebbero guerre che non possono vincere.
Piers Morgan non ha mai chiesto a un leader «palestinese» cosa provasse per i bambini israeliani uccisi, mutilati, bruciati vivi, torturati, ingabbiati… dai terroristi di Hamas, con la complicità dei «civili» palestinesi. Se lo avesse fatto, la risposta, forse, lo avrebbe sorpreso: sarebbe stata una manifestazione di giubilo e di orgoglio «nazionale».
(L'informale, 1 settembre 2025)
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