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Notizie su Israele 252 - 12 agosto 2004

1. In Israele metà della popolazione non arriva alla fine del mese
2. Continua il contrasto tra sionismo e religione ebraica
3. Minimo storico di iscritti al partito laburista israeliano
4. Commissione d'inchiesta palestinese accusa Arafat
5. Le accuse delle Brigate di Al-Aqsa all'ANP
6. Un po' di coerenza, per favore!
7. Sulle tracce della perduta tribù di Manasse
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 14:1. Il SIGNORE avrà pietà di Giacobbe, sceglierà ancora Israele, e li ristabilirà sul loro suolo; lo straniero si unirà a essi e si stringerà alla casa di Giacobbe.
1. IN ISRAELE META' DELLA POPOLAZIONE NON ARRIVA ALLA FINE DEL MESE




GERUSALEMME - Metà della popolazione israeliana non arriva alla fine del mese, e almeno il 14 per cento dichiara di non avere i soldi per comprarsi da mangiare. Lo rivela un allarmante sondaggio condotto dall'Ufficio Centrale di Statistica di Gerusalemme, secondo cui il 38 per cento dei cittadini "non ha abbastanza soldi per pagare il riscaldamento", mentre il 16 per cento rinuncia alle medicine perchè "costano troppo". L'anno scorso, poi, il 54 per cento degli israeliani non avrebbe comprato nè capi di abbigliamento nè scarpe, e il 27 per cento avrebbe addirittura smesso di fumare per risparmiare sul budget mensile. Sempre nel 2003 ad almeno una famiglia su quattro sarebbe stata tolta la corrente elettrica o la linea telefonica a causa del mancato pagamento delle bollette. Il sondaggio, condotto su un campione di 7200 israeliani al di sopra dei vent'anni, è stato commissionato dal ministero delle Finanze di Gerusalemme.
    Immediate le critiche dell'opposizione, secondo cui i risultati dell'indagine dimostrano come il governo abbia adottato una "politica oppressiva e socialmente ingiusta" negli ultimi anni. "Esortiamo le autorità competenti a prendere in considerazione questo sondaggio e a cambiare le politiche sociali in funzione dei bisogni della popolazione", ha commentato il deputato dell'Yahad Roman Bronfman in un'intervista rilasciata oggi a 'Radio Israel'. "E' quello che stiamo facendo", ha ribattuto il direttore generale del ministero israeliano delle Finanze, Yossi Bacher. "Il nostro programma di governo ha un successo di oltre 18 mesi alle spalle e i settori più deboli rimangono la nostra priorità". Negli ultimi mesi, ha spiegato Bacher, sono stati creati 70mila nuovi posti di lavoro "a tutto vantaggio dell'economia del paese".

(Mam/Aki, 09.08.2004)






2. CONTINUA IL CONTRASTO TRA SIONISMO E RELIGIONE EBRAICA




Il movimento dei coloni è fondamentalmente antisionista

di Gadi Taub, storico all'Università di Gerusalemme


Il sionismo è nato dal rifiuto di due forme di esistenza ebraica. E' stata rifiutata da una parte quella ortodossia che in Europa si isolava dentro comunità chiuse, e dall'altra l'idea che gli ebrei potevano assimilarsi mantenendo tuttavia nel privato un'intatta religiosità ebraica. In altre parole: i sionisti si sono opposti a considerare l'ebraismo soltanto come religione.
    Con la generale crescita della coscienza nazionale in Europa, ai primi sionisti è divenuto chiaro che anche gli ebrei, se volevano farne parte e normalizzare la loro esistenza in un mondo in cui le persone fondavano sempre di più la loro identità su una nazione, dovevano considerare sé stessi come una nazione.
    I rabbini ortodossi della fine del diciannovesimo secolo consideravano il sionismo - del tutto a ragione - come una minaccia alla loro visione del mondo e il movimento come una specie di bestemmia. Fino ad oggi gli ebrei ultraortodossi di Israele si mostrano apertamente ostili allo Stato ebraico.
    A questa regola c'è stata fino ad oggi un'importante eccezione: il mistico hegeliano Rabbi Kook. Kook aveva concepito un sistema religioso in cui il sionismo secolare e l'antisionismo ortodosso costituiscono due parti - che si condizionano reciprocamente - di un futuro tutto.
    La dottrina di Kook è riuscita a spostare una frazione - all'inizio piccola - degli ortodossi, convincendoli a partecipare al movimento di rinascita nazionale. Ma dopo la guerra dei sei giorni del 1967 gli estremi si spostarono al centro. Dopo la gloriosa vittoria sull'esercito arabo, tutta la popolazione israeliana era entusiasta, ma nessuno più del figlio di Rabbi Kook.
    Il figlio di Kook, anche lui rabbino, vide nella guerra la dimostrazione della dottrina di suo padre, perché era lui che tra i suoi sostenitori aveva avvicinato religione e politica. La redenzione gli sembrava immediatamente a portata di mano e i suoi seguaci misero tutto il loro zelo per salvare la Terra Santa insediandosi nei territori recentemente conquistati in modo da impedire un ritorno degli arabi.
    Gli insediamenti non hanno mai costituito un processo legale o anche soltanto legalizzato. Certo, qualche volta è stato sostenuto e incoraggiato dai governi conservatori israeliani. Ma è accaduto spesso che gli Zeloti vogliono mettere sul terreno i fatti.
    Un mattino si è vista una carovana su una collina, il mattino dopo un'altra, qualche giorno dopo hanno chiesto la protezione dell'esercito, poi l'acqua e la corrente, poi il riconoscimento politico. Molti israeliani hanno simpatizzato con questi fatti, ma neanche i governi conservatori sono stati disposti ad annettere i territori. Perché l'annessione avrebbe messo in gioco la netta maggioranza ebraica in Israele. La maggior parte degli israeliani non era consapevole della dimensione del problema, fino a che è diventato chiaro che alla lunga sarebbe venuto fuori uno Stato binazionale. E questo, come tutti sanno molto bene, sarebbe la fine del sionismo.
    Oggi perfino Ariel Sharon ha rinunciato al sogno del Grande Israele. Ma il fatto che molti coloni vi sono attaccati ha messo in chiaro che essi non solo non osservano il processo democratico, ma hanno mandato all'aria il sionismo. Per questo la separazione degli israeliani dai palestinesi con la costruzione del muro e il ritiro parziale dai territori è il nucleo della politica di Ariel Sharon.
    Anche se lui vuole annettere grosse parti del territorio palestinese, il cambio di strategia è notevole: rinuncia all'ideologia di un Grande Israele, come è stato sempre sostenuto fino ad ora dai governi Likud e dal movimento dei coloni. Si comincia a capire che alla lunga l'unica possibiltà per la sopravvivenza del sionismo, la fontamentale filosofia israeliana, sta nella liberazione nazionale della Palestina. Vale anche il contrario: l'unica speranza di indipendenza palestinese sta nel sionismo.
    Perché il sionismo voleva normalizzare la vita ebraica, proponendosi di fare degli ebrei un popolo tra gli altri: sovrano nel suo proprio Stato nazionale democratico. I nazionalisti religiosi invece videro lo strumento di questa normalizzazione, cioè lo Stato democratico, come una tappa temporanea in un'altra direzione, come una fase del cammino verso la redenzione religiosa. Per questo non si preoccupano per niente del fatto che l'occupazione di un intero popolo costerebbe l'esistenza allo Stato ebraico democratico.
    Per loro questo Stato secolare è soltanto un mezzo per uno scopo, non un fine in sé stesso, e se i mezzi devono essere cambiati, va bene. Sembra quindi che l'originaria animosità tra il sionismo e la religione ebraica non sia ancora superata.
    
(Die Welt, 24 giugno 2004)





3. MINIMO STORICO DI ISCRITTI AL PARTITO LABURISTA ISRAELIANO




GERUSALEMME - Con appena 49 mila iscritti nel 2004, il partito laburista israeliano ha toccato il suo minimo storico: come segnala il quotidiano 'Maariv' in appena due anni, da quando cioè l'ex sindaco di Tel Aviv Amram Mizna conquisto' la leadership del partito per sfidare senza successo Ariel Sharon alle politiche, i laburisti hanno visto dimezzare il numero di tesserati, in una emorragia di consensi testimoniata dal numero di deputati - appena 19 sui 120 dell'assemblea - nella Knesset.
    Il deputato Dani Yetom, incaricato del tesseramento, attribuisce il pessimo risultato ai continui dinieghi del presidente ad interim del partito, Shimon Peres, che - riferisce 'Maariv' - boccerebbe ogni nuova iniziativa, giustificandola con la carenza di risorse economiche.
    L'unica speranza deriva dalla imminente fusione con il partito Am Ehad (Una Nazione) del potente leader sindacale Amir Peretz: in parlamento conta solo 3 seggi, ma la sua base di consenso e' molto piu' ampia. La fusione non solo permetterebbe di raddoppiare il numero degli iscritti laburisti, ma sanerebbe una frattura aperta nel fronte riformista proprio dalla nascita di Am Ehad. Ma prima di allora i laburisti dovranno affrontare il nodo della possibile adesione ad un governo di unita' nazionale con il Likud di Sharon. Peres sta spingendo in questa direzione, forte del suo carisma e dell'assenza di concorrenti, ma il malessere nel partito - dove molti vorrebbero invece andare ad elezioni anticipate - e' sempre piu' forte.
    
(Mge/Aki, 11.08.2004)





4. COMMISSIONE D'INCHIESTA PALESTINESE ACCUSA ARAFAT




Secondo i risultati di un’indagine ufficiale del Consiglio Legislativo Palestinese sui motivi del caos che imperversa nei territori dell’Autorità Palestinese, la principale ragione per la situazione di anarchia è che il presidente dell'Autorità Palestinese Yasser Arafat non ha mai preso la chiara decisione politica di farla cessare.
    Il rapporto sollecita inoltre la cessazione dei lanci di missili Qassam su Israele e degli attentati all’interno di Israele, nonché le dimissioni dei membri del governo di Ahmed Qureia (Abu Ala) ed elezioni generali.
    “La principale ragione del fallimento delle forze di sicurezza palestinesi e della loro mancanza di azione per ripristinare legge e ordine – si legge nel rapporto, preparato da una commissione di cinque membri del parlamento palestinese – è la totale mancanza di una chiara decisione politica, e la mancata definizione dei ruoli [delle forze palestinesi] sia sul breve che sul lungo periodo”.
    Il mese scorso la commissione del Consiglio Legislativo Palestinese ha ascoltato una dozzina di persone, compreso il primo ministro Ahmed Qureia (Abu Ala) e i principali comandanti delle varie forze di sicurezza, oltre ad attivisti di Fatah un po’ da tutta la striscia di Gaza. Ne è scaturito un documento sorprendentemente franco nel muovere alla dirigenza dell’Autorità Palestinese l’accusa di non aver saputo costruire le istituzioni di uno stato, affidandosi a meccanismi di clan anziché al diritto e a metodi legali per affrontare le fazioni armate fuori controllo.
    Il rapporto sollecita Arafat e Abu Ala a definire per legge il ruolo delle varie forze di sicurezza palestinesi, emanando nel frattempo ordinanze presidenziali per la loro gestione fino a quando le leggi necessarie saranno approvate.
    Il rapporto si scaglia anche contro il Consiglio di Sicurezza Nazionale guidato da Arafat, per aver fallito il proprio compito di fissare una strategia sulla sicurezza, e chiede ad Arafat “di usare la sua autorità per emettere ordini immediati nel senso di porre fine a tutte le pericolose attività che hanno luogo nella striscia di Gaza ad opera di alcuni dei comandanti e degli uomini delle forze armate di sicurezza, che intimidiscono la cittadinanza, creano caos e danneggiano i supremi interessi della popolazione palestinese”.
    La commissione, che comprende sia lealisti arafattiani che riformatori (tra i quali Nabil Amr, cui è stata recentemente amputata una gamba dopo che era stato vittima di un attentato da parte di terroristi palestinesi), era stata istituita ai primi di luglio di fronte al grave deterioramento dell’ordine nei territori, in particolare nella striscia di Gaza, registrato nei mesi precedenti. Proprio mentre la commissione era nel pieno dei suoi lavori, si verificarono una serie di sequestri-lampo e di scontri armati fra le varie fazioni armate palestinesi. La commissione ha preferito non diffondere il proprio rapporto prima che la situazione sul fronte palestinese si calmasse un po’.
    Particolarmente rivelatrice la testimonianza del ministro degli interni palestinese Hakim Balawi, depositata il 14 luglio scorso. Balawi ha evitato di citare per nome Arafat, ma le sue parole si riferivano chiaramente al presidente dell'Autorità Palestinese. “Abbiamo perso il controllo – ha dichiarato alla commissione – a causa dell’esitazione nel processo decisionale, e perché non abbiamo detto con chiarezza alla piazza che cosa volevamo e quale fosse la situazione politica… Il Consiglio di Sicurezza Nazionale è responsabile per la sicurezza. Ma a Gaza tutto ciò che esiste sono dei simboli dell’Autorità Palestinese. C’è la disponibilità da parte delle forze di sicurezza, abbiamo decine di migliaia di uomini, ma non c’è una chiara e genuina decisione a livello politico… Deve essere vietato lanciare razzi e sparare dall’interno delle case, questo è un supremo interesse palestinese che non dovrebbe essere violato a causa delle dure reazioni da parte dell’esercito occupante, e la cittadinanza non può tollerare queste azioni. Le fanno certi gruppi che non rappresentano il popolo né la nazione, e le fanno senza alcun riguardo per l’interesse generale e per l’opinione pubblica nel mondo e in Israele. Non c’è nessuna prospettiva né alcuno scopo nel lancio di missili. L’interesse dei palestinesi è più importante”. Secondo Balawi, negli ultimi quattro mesi il rinnovato coordinamento con Israele avrebbe impedito altri attentati suicidi, “ma noi continuiamo a usare la retorica che non dà alcun credito alla hudna [tregua provvisoria] e all’accordo, e continuiamo a dire che tutta la Palestina è waqf [inalienabile patrimonio islamico]. Questi sono gli slogan di Hamas”.
    Il giorno successivo è stata la volta della testimonianza di Amin al Hindi, capo dell’Intelligence Generale palestinese a Gaza. Al Hindi ha puntato il dito contro “la mancanza di istituzioni, fin dall’inizio, e la mancanza di regole e regolamenti, senza chiari obiettivi, e alla mancanza di una gestione senza ambiguità delle forze di sicurezza”. “Nessuno – ha detto al Hindi – è stato processato per violazione delle regole perché non ci sono regole, e dal momento che non c’era budget le forze di sicurezza hanno iniziato a operare secondo i capricci dei loro comandanti, facendo ciò che altri, come il Consiglio di Sicurezza Nazionale, non facevano, e cercando da sé nuove autorità. La disoccupazione nascosta dentro le forze di sicurezza e il numero gonfiato degli addetti alla sicurezza si sono tradotti in un enorme spreco di risorse su persone incapaci di fare ciò per cui erano pagate. Una gestione appropriata richiederebbe che ogni forza selezionasse i propri membri in base alle necessità e ai compiti. Ma l’autorità è nel vago. L’Intelligence Generale dipende direttamente da Arafat, ma sul piano amministrativo e finanziario dipende da altra gente, e le forze non hanno nessuna autonomia quando si tratta di assunzioni, promozioni e punizioni. Le forze non possono difendersi, e talvolta la gente è costretta a trovare protezione nei clan e nelle famiglie”. Al Hindi ha poi detto che i tribunali dell’Autorità Palestinese sono troppo deboli. “La polizia ci fa rilasciare criminali e collaboratori. I miei investigatori subiscono minacce da parte delle famiglie e dei parenti della gente sotto arresto per motivi criminali. I progetti per migliorare le cose non vengono attuati perché manca la volontà di cambiare da parte di tutti, e per personalismi. Il mio compito è applicare le decisioni politiche circa la sicurezza, ma la responsabilità delle decisioni ricade sulle spalle dei politici”.
    E’ stata poi la volta di Rashid Abu Shbak, capo dei Servizi di Sicurezza Preventiva a Gaza, un alleato di Dahlan. Abu Shbak ha detto che “la maggior parte delle forze di sicurezza non hanno alcuna disciplina né controllo sui propri membri. Ciascuna organizzazione fa quello che vuole, impone la propria volontà alle autorità palestinesi e nessuno può dire d’avere la situazione sotto controllo. La maggior parte dei miliziani agisce secondo l’atmosfera generale invece che la legge e gli ordini dell’Autorità Palestinese. Ciò mette a repentaglio l’intero progetto nazionale… Abbiamo affrontato i problemi in modo completamente sbagliato. Abbiamo discusso i problemi che le persone

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avevano creati, cedendo alle loro pretese illegali… Abbiamo incoraggiato e accettato questo andazzo, contro la legge e contro lo spirito stesso dell’indipendenza statale. Siamo costretti a usare i metodi dei clan, anziché metodi legali. Se le cose continueranno così, ciò invierà al nostro popolo, agli israeliani che dicono di non avere un affidabile interlocutore palestinese, e alla comunità internazionale un messaggio negativo: che non siamo degni di uno stato”.
    
(Ha’aretz, 10.08.2004 - israele.net)





5. LE ACCUSE DELLE BRIGATE DI AL-AQSA ALL'ANP




Il Foglio del 10-08-04 pubblica ampi stralci dell'importante documento con cui le Brigate di Al-Aqsa attaccano l'Anp e un'analisi della strategia israeliana di fronte alla crisi politica palestinese.Di seguito il pezzo.


Le accuse palestinesi ad Arafat e la nuova tattica di Sharon

Pubblichiamo stralci di un documento delle Brigate al Aqsa critico nei confronti dell’Anp. Le Brigate, legate ad al Fatah, il partito di Arafat, hanno emanato un comunicato di circa venti pagine in lingua araba contenente un dettagliato programma di riforme, che offre una diagnosi della crisi che colpisce la leadership palestinese. Il testo, già citato da un articolo del Corriere della Sera, circola tra i militanti e su Internet.

Il documento, siglato “Sogno di martiri nella nazione santa. Brigate al Aqsa, 15 luglio 2004. Nel nome di Dio, il clemente e il misericordioso, contiene un programma di riforme elaborato dai leader del movimento “nel momento in cui abbiamo compreso che le nostre speranze non erano altro che illusioni. Ciò in cui credevamo era soltanto un miraggio avvolto nella nebbia”.

La trappola. “L’Autorità palestinese è caduta nella trappola dei negoziati quale unica opzione possibile, ed è diventata prigioniera dell’illusorio progetto negoziale. Ha mantenuto un atteggiamento neutrale nei confronti della nostra santa Intifada”.

L’incapacità di agire. “La leadership palestinese non è stata in grado di stare al passo con il rapido mutamento degli eventi politici, perdendo la propria capacità di agire, ed è rimasta incatenata dalla reazione violenta. Ha accettato definizioni come violenza, estremismo e terrorismo per descrivere la lotta armata”. Il monopolio ai vertici. Le Brigate affermano che la maggior parte dei funzionari dell’Autorità nazionale palestinese insediati nei ministeri e nell’apparato di sicurezza sono “incapaci, disonesti e imbroglioni”. L’Anp ha creato numerose istituzioni, forum e un intero apparato di sicurezza. “Tutto ciò è diventato un feudo, una proprietà di famiglia, un investimento privato e un monopolio, mentre il nostro popolo continua a subire la disoccupazione, la fame e l’ingiustizia”.

Società civile e apparato di sicurezza. “Fin dal primo momento l’impegno dell’Autorità nazionale palestinese nella costruzione della società civile e del suo apparato di sicurezza si è rivelato un fallimento, perché ha basato il proprio lavoro sul principio di una divisione degli incarichi e dei titoli ministeriali tra i membri delle gang, che mancano di capacità, professionalità e onestà”.

Una voce senza alcun peso. “[L’Autorità nazionale palestinese] è soltanto una voce senza alcun peso, e senza alcuna influenza. Quasi tutti i suoi membri hanno non soltanto accettato il crimine di assumere un ruolo inesistente, ma si sono anche lasciati attrarre dal desiderio di guadagnare e di sfruttare questo ruolo per arricchirsi. La loro principale preoccupazione è quella di trovare il modo di firmare documenti e risoluzioni per promozioni e nuovi incarichi, insediando i propri parenti in questi nuovi posti. Hanno svenduto la loro posizione politica in cambio di alti stipendi, belle macchine, immunità diplomatica e carte di credito”.

La corruzione. “La corruzione si è incuneata nel sistema, e giudici corrotti hanno ottenuto alti stipendi. Gli artigli del sistema giudiziario sono stati tagliati, la giustizia calpestata. Il sistema non è stato capace di fare nulla”

Manipolazione dei mass media. A proposito dei mezzi di informazione, le Brigate al Aqsa dicono che “i media ufficiali sono annegati nel mare della corruzione amministrativa e finanziaria. Si è persa la visione ideale perché non ci sono quadri qualificati”. L’attacco a Fatah. “L’unità nazionale si è trasformata in uno slogan vuoto e privo di significato. Quasi tutti i dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese hanno lottato per ottenere incarichi e titoli, schiacciando i combattenti di Fatah. Le persone più corrotte e disoneste sono entrate nel Fatah. Possiamo soltanto immaginare il degrado del suo prestigio e della sua influenza”.

I funzionari disonesti. “La leadership dell’Anp è completamente responsabile per i suoi miseri risultati, i suoi errori di calcolo, la sua erronea interpretazione della realtà politica e il suo modo di condurre i negoziati. Ha nominato funzionari corrotti e disonesti. Al posto della legge ha messo la solidarietà tribale, ha rafforzato il regno di un uomo solo, e se ne è infischiata del diritto. Ha ostacolato il potere giudiziario e legislativo. Non è stata capace di promuovere i bisogni della società e delle nuove generazioni. Ha combattuto contro ogni possibilità di democrazia, di cambiamento di riforma”.

Il tempo della lealtà è finito. “La Brigate dichiarano con decisione e fermezza che il tempo dell’obbedienza e della cieca lealtà è finito. Di fronte a Dio, al popolo e alla storia, noi rifiutiamo e rinneghiamo questa banda di corrotti. E’ giunto il momento della punizione. Noi non permetteremo che continui così, e non vivremo sotto la spada della corruzione e dei corrotti. Costruiremo la nostra patria e la nostra società palestinese secondo i principi della giustizia”.

Peggio dell’occupazione. “Le ingiustizie, le aggressioni e i crimini dell’Autorità nazionale palestinese sono stati persino peggiori di quelli dell’occupazione”.

Contro la diplomazia. Le Brigate invocano la distruzione “delle tane della corruzione nelle ambasciate e nei consolati palestinesi”. “Gli ambasciatori, che si comportano come dei mercanti, si sono arricchiti viaggiando per tutto il mondo”.

Gerusalemme. In Israele si continua a seguire il vento che soffia da Gaza e dalla Cisgiordania. Fonti dell’esercito israeliano hanno confermato al Foglio che “Israele segue gli eventi, valutando le due questioni più importanti nel dibattito in queste ore. Si parla del ‘giorno dopo’: da una parte il confronto dentro il partito Fatah e nell’Anp nel dopo Arafat, dall’altra il giorno dopo il ritiro da Gaza”. Sul dopo Arafat, Israele segue la lotta fra le organizzazioni, fra le parti militari, le forze che sono nelle mani di Mohammed Dahlan, la polizia, le bande e le famiglie di criminali che hanno guadagnato un posto di peso anche sul campo della politica. Per quanto riguarda il giorno dopo il ritiro dalla Striscia, Israele monitora la lotta fra le organizzazioni militari soprattutto a Gaza e lo scontro per la conquista della leadership nel partito Fatah in Cisgiordania. Il documento delle Brigate al Aqsa contiene lo spirito delle idee di Dahlan e riguarda da vicino il dopo Arafat. A Gaza, Dahlan ha la sua forza e potrebbe mettere in pratica le sue minacce utilizzando i 30 mila uomini che sono sotto il suo diretto e indiretto controllo. I servizi israeliani sottolineano che non si tratta di un evento prevedibile e che è sufficiente un fatto straordinario per far surriscaldare le strade di Gaza da un momento all’altro. Se nella Striscia la presenza di Dahlan è determinante, anche per i suoi solidi rapporti con l’Egitto e soprattutto con il capo dei Servizi segreti del Cairo, Omar Suleiman, in Cisgiordania la questione è molto più complessa. Nel corso degli ultimi tre anni, Israele ha praticamente eleminato gli organi di polizia e di sicurezza palestinesi, coinvolti nella seconda Intifada, e come conseguenza i clan di criminali, attivi anche nell’ambito della lotta politica nazionale, hanno rialzato la testa. Gerusalemme sembra aver imparato dagli errori del passato e lascia che gli avvenimenti interni palestinesi abbiano luogo, senza intervenire, soprattutto per quanto riguarda lo scenario interno ad al Fatah. In passato il governo Sharon aveva puntato sul premier Abu Mazen, ma alla fine questo sostegno troppo esplicito si è rivelato uno svantaggio per la sopravvivenza del pragmatico leader palestinese; anche l’appoggio al successore alla guida del governo dell’Anp, Abu Ala, non ha portato finora a niente di concreto, come dimostra anche lo stesso documento delle Brigate al Aqsa. Israele sembra dunque aver capito che sostenere alcuni leader è un errore e una scelta che indebolisce chi potrebbe essere un reale interlocutore. Quindi il governo Sharon preferisce attendere, sperando che emergano leader davvero in grado di controllare le strade palestinesi, sempre più agitate in vista del ritiro israeliano da Gaza, e di condurre negoziati costruttivi. Intanto, mentre le Brigate al Aqsa fanno emergere sempre di più la crisi dell’Anp, l’Egitto media. Ha raggiunto un accordo con Hamas per tentare di garantire la stabilità e l’unione politica nella Striscia di Gaza, dopo il ritiro israeliano, rivela il giornale al Ahram. L’Egitto sta inoltre cercando di raggiungere un accordo simile con Fatah e altri settori palestinesi (e ritorna Dahlan). Secondo il quotidiano cairota, gli sforzi per raggiungere un’intesa con le varie fazioni si concluderanno a metà settembre. Il giornale traccia le linee del “Piano di lavoro nazionale palestinese”: avrà l’appoggio dei partiti dell’Anp e cercherà di stabilizzare i Territori dopo il ritiro da Gaza. Per questo progetto, il Cairo ha chiesto all’Autorità palestinese di inviare 45 ufficiali in campi di addestramento in Egitto.

(Il Foglio, 10.08.2004 - da Informazione Corretta)





6. UN PO' DI COERENZA, PER FAVORE!




Dal sito "Ebraismo e dintorni" riportiamo uno stralcio di un articolo di Antimo Mirandola.


I ponti vigliacchi del Vaticano

    “Ci servono ponti non muri” ha sentenziato il Vaticano accodandosi a quella marmaglia di dittatori chiamata Onu riproducendo l’atteggiamento compiacente tenuto durante la Shoà e chiarendo – qualora ce ne fosse stato ancora bisogno – che il famigerato silenzio di allora non fu casuale o dubbio, ma intrinseco alla natura pavida dell’Istituzione e degli uomini che, a prescindere dal contesto storico, per natura propria si schierano sempre dalla parte del più violento.
    Allora con Hitler, oggi con i terroristi islamici e ne danno clamorosa prova oltre che con le muraglie ciclopiche che avvolgono il Vaticano e la vettura iperblindata con cui va in giro il Papa, anche con le “azioni e le opere” poste in essere. E’ bastato un attentato in Iraq e subito le chiese sono state blindate, piantonate dall’esercito con le armi spianate, protette da barriere di cemento e rotoli di filo spinato. I mezzi di informazione ci fanno sapere che le famiglie cristiane lasciano l’Iraq e che i negozi cristiani rimangono chiusi mentre interi quartieri intorno alle chiese sono stati chiusi al traffico per paura di altri attentati.
    Certamente fanno bene a proteggere i luoghi di culto e i loro fedeli perché è innaturale rimanere indifesi e permettere ai sanguinari islamici di fare carne macinata dei bambini ma perché questo diritto si condanna se è adottato da Israele? Perché il Vaticano ha paura per se stesso dopo un attentato e condanna Israele che realizza una barriera difensiva dopo mille morti e migliaia di feriti? E’ pura vigliaccheria, è un comportamento miserabile e meschino!
    I bambini cristiani valgono forse di più dei bambini Ebrei? [...]
    Un po’ di coerenza, per favore! E un po’ più di coraggio!
    
(Ebraismo e dintorni, agosto 2004)





7. SULLE TRACCE DELLA PERDUTA TRIBU' DI MANASSE





Secondo un rapporto dell'emittente dell'esercito israeliano Tsahal, una delegazione ufficiale comprendente membri dell'Alto Rabbinato israeliano è partita la settimana scorsa per un viaggio verso una regione indiana al confine con il Pakistan. La delegazione è diretta dal Rabbino Capo israeliano Shlomo Amar. Amar vuole verificare come vive oggi la tribù Menashe (Manasse). I suoi membri si considerano discendenti della tribù perduta, una delle dodici tribù del popolo ebraico. Se si dovesse accertare che sono effettivamente ebrei secondo la Halacha (legge religiosa ebraica), migliaia di indiani che sono membri della tribù potrebbero emigrare nello Stato d'Israele.
    La tribù ha mantenuto nel corso dei secoli le caratteristiche ebraiche: imparano lwrith, nei centri delle loro comunità ci sono scuole ebraiche e sinagoghe, e fanno viaggi turistici in Israele. Una piccola parte della tribù vive già in Israele, dopo che i suoi membri sono passati all'ebraismo, come altri non ebrei. Il team dei Rabbini verificherà le radici storiche e in quale misura osservano i comandamenti ebraici. "Noi sentiamo di essere ebrei e vogliamo tornare a casa, in Erez Israel", ha detto Alenby Sela, uno dei conduttori delle comunità in India.
    Alcuni anni fa il Rabbino Capo Amar ha confermato l'essere-ebreo secondo la Halacha della tribù dei Falashmura. Dopo di che molti membri dei Falashmura sono emigrati in Israele. Elyahu Birnbaum, uno dei Rabbini della delegazione, ha detto di essere convinto che si tratti di discendenti ebrei, discendenti del popolo ebraico.
    
(Ambasciata d'Israele a Berlino, 10.08.2004)




8. MUSICA E IMMAGINI




Any Dream Will Do




9. INDIRIZZI INTERNET




Ebraismo e dintorni

Messianic Bureau International




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