<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 271 - 15 dicembre 2004

1. Intervista con il Ministro degli Esteri spagnolo
2. Cambieranno le cose con il nuovo governo palestinese?
3. Evoluzione militare del nuovo governo palestinese
4. Oscurata in Francia la televisione degli hezbollah
5. Dopo l'uscita di scena di Barghouti
6. «Salviamo i bambini!»
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Deuteronomio 30:1-3. Quando tutte queste cose che io ho messe davanti a te, la benedizione e la maledizione, si saranno realizzate per te e tu le ricorderai nel tuo cuore dovunque il Signore, il tuo Dio, ti avrà sospinto in mezzo alle nazioni e ti convertirai al Signore tuo Dio, e ubbidirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua, secondo tutto ciò che oggi io ti comando, il Signore, il tuo Dio, farà ritornare i tuoi dalla schiavitù, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo fra tutti i popoli, fra i quali il Signore, il tuo Dio, ti avrà disperso.
1. INTERVISTA CON IL MINISTRO DEGLI ESTERI SPAGNOLO




Moratinos: "Bisogna costruire ponti non muri"

Miguel Ángel Moratinos, Ministro degli Esteri spagnolo, e fino a poco tempo fa inviato speciale dell'Unione Europea per il Processo di pace in Medio Oriente, presenta la sua visione (ottimistica) sul futuro della regione.


di Fernando Navarro


Miguel Ángel Moratinos
MADRID, 13 dicembre 2004 - Ci riceve nella sua casa di Madrid colui che, probabilmente, è l’europeo in circolazione meglio informato sulle questioni legate a Israele e alla Palestina. Camminando per casa in pantofole e col suo abituale sorriso dai tratti orientaleggianti, cerca di non trasmetterci la fretta di chi vive su un aeroplano, con quella gestualità segno di pazienza biblica di chi è abituato a negoziati da maratona, e calcola certosinamente la tempistica di ogni conversazione. Sotto il suo pragmatismo lampante, si cela forse la personalità di un idealista convinto.

Signor Ministro, siamo davvero convinti che noi europei ne sappiamo abbastanza del mondo arabo e del conflitto israelo-palestinese?
Magari ne sappiamo anche un bel po’, ma lo conosciamo male. La profusione di immagini e di informazioni offre una sensazione di vicinanza. Eppure non si conoscono altri aspetti come l'origine, le prospettive di entrambe le parti e la mancanza di un compromesso necessaria per risolvere la situazione.

Lei è stato per anni mediatore nel conflitto israelo-palestinese: è così complesso come appare?
La situazione è assai complessa. Si tratta di parecchi decenni di conflitto tra società rinchiuse e polarizzate, conflitto nel quale si mischiano elementi territoriali, religiosi, sociali e politici; fattori endogeni ed esogeni che si incrociano e rendono più difficile la soluzione.

E’ Gerusalemme il nodo gordiano di tutto il conflitto?
Sì, è uno di essi, ma non l'unico. C'è molto rancore su una questione per la quale la comunità internazionale, da sola, non può portare a nessun tipo di soluzione. Ma ci sono più nodi. Come ho detto a volte, servono parecchie chiavi per aprire le porte del labirinto del Medio Oriente.

Il cosiddetto "muro della vergogna" suona come la fine delle idee o il trinceramento israeliano?
In Israele esiste una preoccupazione per la sicurezza che dobbiamo comprendere. Il che è essenziale. Ma la questione non è il muro, bensì dove si costruisce. Se ci si fosse attenuti alle frontiere del 1967 non vi sarebbe stato alcun problema, e non sarebbe stato oggetto di un giudizio negativo da parte del tribunale dell’Aia. Detto questo, credo che nel Ventunesimo secolo il nostro obbligo, il nostro obiettivo debba essere quello di costruire ponti e non di erigere muri.

Tra Israele e Palestina c’è la guerra o soltanto una resa dei conti tra terrorismi di diverse bande?
C’è violenza. In alcuni casi di matrice terroristica e pertanto condannabile. Poi c’è la presenza d'Israele nei "Territori". Bisogna comunque concentrarsi nel cercare soluzioni nel quadro della diplomazia e nei tavoli di negoziato, non nell’azione militare.

Ci troviamo forse nel tipico conflitto in cui la violenza genera violenza...
Esatto, ed è il circolo vizioso dal quale dobbiamo uscire. Ogni atto terroristico determina una reazione da parte israeliana, e questo circolo infernale va contro ogni dinamica di negoziato. Nella cui dinamica bisogna credere, come fece Yitzhak Rabin quando affermava la necessità di continuare a negoziare come se il terrorismo non ci fosse, e di continuare a combattere il terrore sapendo che i negoziati vanno avanti.

Si tratta di un conflitto religioso, economico o di sovranità che si sovrappongono?
È soprattutto un conflitto politico con la "p" maiuscola. Gli Acccordi di Oslo rappresentarono una grande speranza, ma in essi non fu incorporata la componente religiosa. Invece, gli Accordi di Camp David fallirono quando fece la sua comparsa la questione di Gerusalemme. E come ho detto prima, Gerusalemme non è l'unico nodo gordiano. C'è anche un qualcosa di territoriale: nei negoziati di Taba nei quali presi parte, le proposte furono accomodanti, creative, immaginifiche…, prova che le cose possono risolversi. Ebbene, non si riuscirà mai a far nulla se non si stabilisce uno stato palestinese indipendente, sovrano e vitale economicamente, e se contemporaneamente non vengon garantite le esigenze di sicurezza d'Israele. È come una matrioska russa, nel senso che aperta una se ne ritrova un’altra, ed un’altra ancora fino ad arrivare al centro della questione.

La Palestina dipende economicamente da Israele: la Road Map prevede dei meccanismi tramite i quali le cose possano mutar col tempo?
La Palestina ha bisogno di piena sovranità sulle proprie risorse naturali, specialmente sulle proprie acque territoriali. Deve anche poter sviluppare capacità di produzione agricola e di esportazione. Non è un caso che il 60% del bilancio palestinese provenga da aiuti internazionali (di cui 50% sono europei) e dal commercio con lo stato d'Israele. Credo che alla fine la soluzione somiglierà ad una sorta di Benelux costituito da Giordania, Egitto, Israele e Palestina. Sarà una specie di zona di libero scambio in parte già pronosticata nel Processo di Barcellona, dietro al quale si cela l'Ue. Inutile sottolineare il fatto che, la chiusura delle frontiere, fa sì che a soffrir di più sono gli esportatori israeliani.

Ariel Sharon è accusato di corruzione e ha perso alcuni appoggi politici: crede che si possa arrivare ad un cambiamento di leadership anche in Israele?
No. Sharon gode del forte sostegno dell'opinione pubblica israeliana. Non ha difficoltà in termini di leadership politica. In realtà, alla fine ha ottenuto l'appoggio della Knesset (il parlamento israeliano ndr) per il ritiro da Gaza. Ed in Israele viene considerato come un elemento centrista del Likud (partito conservatore ndr).

Stretto tra Hamas o Hezbollah da un lato, e il governo Sharon dall’altro, resterà un margine di manovra al prossimo rappresentante dell’Autorità Nazionale Palestinese, per non mostrarsi come un rifugio per i terroristi o un traditore della causa palestinese?
Navigare in quelle anguste strettoie è la sfida di oggi. Il prossimo rappresentante dell'Anp deve ricevere collaborazione da Israele e dallo stesso Sharon. Quest’ultimo ha in alta considerazione [l’attuale primo ministro] Ahmed Qorei e [il candidato del Fatah] Mahmud Abas, e confida in questa seconda opportunità. Credo che si debba estendere la base di partecipazione nel governo ad altri gruppi, e cercare accordi con Sharon per aprire una nuova tappa: quella della normalizzazione della vita.

La diplomazia Ue deve concentrarsi per porre un termine alle dispute tra paesi arabi?
Sì, è stata questa la preoccupazione essenziale per l'Ue. E non solo a beneficio della causa palestinese, ma anche per ottenere la pace nella regione. Si rende necessario un riconoscimento dello stato d'Israele unanime da parte degli arabi, per rompere questo tabù. Inoltre si lavora per stabilire degli aiuti senza compromessi e senza doppie agende a favore della Palestina, per rafforzare l'ANP ed evitare finanziamenti a gruppi che non condividano la necessità di un accordo storico con Israele. Il momento ideale, quello che dirà se siamo o meno sulla buona strada, sarà il prossimo vertice della Lega araba in Algeria nel marzo del 2005. Dobbiamo essere coraggiosi e fare un'offerta di pace che presupponga un cambiamento qualitativo e la negazione delle fobíe verso Israele.

Crede nella possibilità di ritornare alle frontiere del ’67?
Non ci sarà nessuna soluzione senza uno stato palestinese sulla base dei confini del 1967. A meno che sopravvengano modifiche certe da ambo le parti.

Ripone speranza che il conflitto possa risolversi nel breve periodo?
Credo che il 2005 sarà un buon anno: l'anno della riconciliazione. Se non si spreca quest'opportunità, sarei parecchio ottimista: tempo 2 o 3 anni e raggiungeremo una soluzione definitiva.

Ha mai creduto alla possibilità di una Intifada "alla Gandhi"?
Sarebbe stata la cosa ideale nei momenti più difficili. La prima Intifada si limitò alle pietre. La seconda, purtroppo, è stata combattuta con le armi ed ha lacerato il paese. Un completo fallimento. Che ha ritardato la soluzione. Forse ha giovato soltanto a far capire che bisogna cambiare strategia. Credo che esista un diritto a resistere, ma solo con la politica e la diplomazia.

(Café Babel, 13 dicembre 2004 - trad. Ottavio Di Bella)






2. CAMBIERANNO LE COSE CON IL NUOVO GOVERNO PALESTINESE?




Ben-Ami invita a non farsi troppe illusioni sul Medio Oriente


BERLINO - L’ex Ministro degli Esteri israeliano, Shlomo Ben-Ami (Partito Laburista), ha ammonito l’Unione Europea (UE) a non farsi troppe illusioni sulle riforme all’interno dell’Autorità Palestinese. "Anche una nuova direzione non cambierà gli obiettivi fondamentali dei palestinesi", ha detto la settimana scorsa Ben-Ami nell’annuale dialogo Europa-Israele, nella sede della casa editrice Axel-Springer (Berlino).
    Il politico di sinistra Ben-Ami ha ricordato gli obiettivi che perseguiva il defunto capo dell’OLP Arafat durante le trattative di pace nell’anno 2000 a Camp David. "Arafat ha insistito su un diritto al ritorno di tutti i profughi palestinesi; voleva uno Status definitivo di un futuro Stato palestinese. E’ davanti a queste richieste che alla fine sono fallite le trattative, e anche i successori di Arafat non si sposteranno da queste pretese", ha dichiarato Ben-Ami.
    Come Arafat, anche il prossimo governo dell’Autorità Palestinese cercherà il largo appoggio degli europei, dei russi e delle Nazioni Unite. E’ una cosa che ha già fatto con successo Arafat per consolidare le sue richieste sul piano internazionale.
    "L’Unione Europea ha unilateralmente criticato Israele".
    Ben-Ami ha anche criticato le reazioni di diversi Stati europei dopo le fallite trattative di pace a Camp David. "Gli europei allora hanno sbagliato. Invece di considerare Arafat responsabile del fallimento dei colloqui a causa delle sue pretese, hanno attribuito a Israele quel fallimento." L’Unione Europea adesso non deve porre di nuovo ad Israele delle richieste unilaterali e lasciare spazio al governo palestinese.
    Anche il Direttore del Centro Interdisciplinare di Herzliya, Usi Araf, ha chiesto all’Unione Europea di fare chiarezza sulla sua posizione nei riguardi della cosiddetta Road Map, del piano di pace degli USA, UE, Russia e ONU.
    Il dialogo Europa-Israele è organizzato dal "Axel-Springer-Verlag" e dal "Club dei Tre", e quest’anno si è svolto per la sesta volta a Berlino.
    
(Israelnetz Nachrichten, 13.12.2004)





3. EVOLUZIONE MILITARE DEL TERRORISMO PALESTINESE




Nuove strategie per vecchi scopi

di Federico Steinhaus


Due tunnel, due scontri sanguinosi, molti morti e molti problemi: questo è il bilancio provvisorio della nuova strategia elaborata per mesi ed ora messa in atto dai palestinesi di Gaza.
     Gli stessi responsabili delle forze armate israeliane non usano la parola "terrorismo" per riferirsi a quanto sta accadendo, e definiscono questi due eventi come "operazioni militari": questa indicazione da sola basta per comprendere l’entità del cambiamento in atto.
     Proviamo pertanto a mettere un po’ d’ ordine nei fatti e nelle considerazioni, basandoci prevalentemente sulle analisi degli esperti di intelligence israeliani.
     In una sola settimana da Gaza sono stati lanciati 42 attacchi terroristici, e ciò dimostra che la situazione sta diventando incandescente in una zona che non gradisce l’idea della pace e della convivenza, e dalla quale di conseguenza sono anche stati lanciati avvertimenti minacciosi nei confronti di Abu Mazen, candidato a succedere ad Arafat ma con un programma opposto a quello del defunto dittatore.
     Gaza era anche il terminale di alcune centinaia di gallerie scavate per valicare sottoterra il confine con l’ Egitto, ed usate per contrabbandare armi e munizioni in grande quantità nella Striscia. La maggior parte di queste gallerie è stata scoperta e neutralizzata da Israele nel corso di operazioni il cui senso non era stato compreso da molti stati occidentali, che ne avevano solamente ravvisato e criticato alcuni aspetti negativi particolarmente visibili.
     Da qualche mese, dal territorio di Gaza sono stati scavati altri percorsi sotterranei, ma non più sulla direttrice nord-sud, bensì su quella ovest-est; gallerie ampie e non più budelli, ben attrezzate e protette per evitare crolli e consentire anche una sopravvivenza prolungata, esse conducono in pieno territorio israeliano.
     Una piccola squadra specializzata, guidata da cani addestrati a tal fine, ha recentemente scoperto l’ imbocco di uno di questi tunnel, quello di Karni, che ingenti forse militari avevano lungamente cercato. La squadra è stata immediatamente attaccata in forze dai palestinesi, che hanno ucciso il suo comandante ed il cane; l’ esercito israeliano si è mosso con un ingente spiegamento di forze, e ne è nata una vera e propria battaglia. Il tunnel si è poi rivelato come ben progettato da specialisti, e costruito con molta cura. La sua lunghezza avrebbe dovuto raggiungere i 5-600 metri per passare sotto i posti di controllo israeliani, con una altezza di 5, ed avrebbe consentito a squadre di terroristi di arrivare alle città israeliane per compiervi attentati e poi scomparire.
     Quello utilizzato domenica 12 dicembre era dunque il secondo tunnel noto ad oggi, la cui lunghezza di circa 800 metri ha fatto sì che la tonnellata e mezza di esplosivi deflagrasse in tre punti diversi sotto le postazioni militari israeliane. Immediatamente dopo le esplosioni, le forze palestinesi hanno attaccato gli israeliani con colpi di mortaio ed armi automatiche, spingendosi fino a mandare alcuni uomini a cercare gli eventuali militari feriti per ucciderli.
     Le forze palestinesi della Striscia di Gaza hanno agito insieme, unificate sotto il comando del sessantaduenne brigadiere generale Saib Ajez di Khan Yunes, veterano dell’ OLP; attorno al tunnel esse avevano la consistenza di un battaglione, ma si calcola che egli possa disporre di 20.000 uomini.
     Risulta chiaro a questo punto che di strategia e non di tattica si tratti:
  • un comando unificato che disponga di così ingenti forze ben armate ed addestrate (molti provengono dalle forze di sicurezza che agivano al comando di Arafat) è troppo impegnativo anche sotto il profilo politico per costituire una scelta di opportunità transitoria;
  • l’ imminenza delle elezioni in Palestina giustifica un aumento della pressione che da Gaza può essere esercitata sulla nuova futura dirigenza palestinese e rappresenta una minaccia diretta contro Abu Mazen ed il suo cambio di strategia politica;
  • il contesto politico più ampio, dal prossimo governo di unità nazionale in Israele alla rielezione di Bush alle imminenti elezioni in Iraq, configura una pressione estremamente forte che viene esercitata da più parti per una "normalizzazione" della regione ed una emarginazione di fatto delle pulsioni estremiste e fondamentaliste; pertanto, questa nuova strategia

prosegue ->
    si propone di contrapporre la forza dell’estremismo basata a Gaza ad ogni ipotesi di pace con Israele;
  • l’ avanzare del progetto di ritiro delle forze israeliane da Gaza costituisce una minaccia incombente sull’ estremismo locale, in quanto costringerà la nuova dirigenza palestinese a gestire con la massima energia una situazione finora lasciata incancrenire a spese di Israele;
  • le ambizioni egiziane di esercitare un ruolo attivo in questo nuovo scenario attraverso il riavvicinamento ad Israele, in atto da alcune settimane, e con gli ammiccamenti agli Stati Uniti, non è gradito all’ estremismo palestinese di Gaza esattamente come non piace alla Siria, all’Iran e di conseguenza agli Hezbollah: ecco come e perché, forse per il tramite dell’ esule Farouk Khaddumi, armi e denaro possono essere convogliati a Gaza a sostegno di questa strategia.
     L’ ampiezza di questa sfida ed il suo carattere fortemente innovativo rispetto agli schemi abituali del terrorismo sono talmente imponenti da giustificare le preoccupazioni che oramai la collocano al vertice della lista delle priorità politiche e militari in Israele, e non dovrebbero (il condizionale purtroppo è d’obbligo in questi casi) lasciar dormire sonni tranquilli neppure alla nostra Europa così pronta, sempre, a prendere posizione in una sola direzione ed a chiudere occhi e cervello dinanzi ad una realtà che non corrisponde ai suoi desideri.
    
(Informazione Corretta, 13 dicembre 2004)





4. OSCURATA IN FRANCIA LA TELEVISIONE DEGLI HEZBOLLAH




La rete satellitare Al Manar «promuove l’odio razziale». Il Libano minaccia ritorsioni


Parigi oscura la tv degli Hezbollah: «E’ antisemita»

di Massimo Nava


PARIGI - Dove comincia l'incitamento all'odio razziale e dove finisce la libertà di espressione? Per la Francia, il dilemma non si pone. Ieri il Consiglio di Stato, la più alta autorità amministrativa, ha ordinato l'oscuramento del segnale di Al Manar, televisione in lingua araba da mesi al centro di infuocate polemiche.
    I programmi sono ritenuti non conformi alle leggi francesi, i cui princìpi sono stati recentemente riaffermati a proposito di antisemitismo e omofobia. La società Eutelsat, che trasmette il segnale, dovrà agire entro 48 ore o pagare 5.000 euro di multa per ogni giorno di ritardo.
    L'emittente, vicina agli Hezbollah libanesi e diffusa via satellite, è sotto osservazione dal giorno stesso in cui ha cominciato a trasmettere, nel novembre 2003. Telegiornali, interviste, reportage hanno suscitato un'ondata d'indignazione per il loro contenuto fortemente antisemita e per una sostanziale esaltazione dei kamikaze palestinesi, tanto che il primo ministro Jean Pierre Raffarin ha parlato di «immagini insopportabili», di «messa in scena dell'odio» e di contenuti contrari a princìpi e valori culturali della Francia. Per Parigi, nonostante il sostegno convinto alla causa palestinese, la questione dell'antisemitismo resta un nervo scoperto, un impegno alla vigilanza preso in prima persona dal presidente Chirac.
    Il diritto di Al Manar a trasmettere è stato preso in esame in un primo momento dalla CSA, la commissione statale di vigilanza sugli audiovisivi, che ha accolto le denunce presentate dal Crif, il consiglio rappresentativo delle comunità ebraiche francesi. A sua volta, la Commissione ha interessato il Consiglio di Stato, che ha accordato all'emittente araba una proroga di qualche mese, il tempo necessario alla stipula di una convenzione nella quale Al Manar si impegnava a rispettare alcuni princìpi deontologici. In particolare ad astenersi da messaggi che suonassero come «un incitamento all'odio, alla violenza, alla discriminazione per ragioni di razza, sesso, religione o nazionalità».
    Ma il tono dei programmi non è cambiato e, alla fine del novembre scorso, la CSA è intervenuta una seconda volta per chiedere al Consiglio di Stato di pronunciarsi sulla revoca della convenzione e quindi sull'interruzione dei programmi. Pietra dello scandalo, un programma intitolato «Diaspora», tendente ad accreditare la tesi secondo la quale Israele introdurrebbe segretamente prodotti tossici nei Paesi arabi.
    Non sono mancate le prese di posizione a favore dell'emittente, aprendo anche un fronte diplomatico nei rapporti fra Francia e Libano. Il ministro dell'informazione libanese, Elie Ferzli, è ricorso alla Lega Araba, per denunciare «il razzismo antiarabo» delle proposte delle autorità francesi. La direzione dell'emittente sostiene che Al Manar è vittima di una campagna israeliana e che la denuncia della politica d'Israele in Palestina non si presterebbe all'accusa di antisemitismo. «Essere anti-israeliani non significa essere antisemiti», ha detto Mohamed Haidar, direttore dei programmi, il quale sostiene che Israele cerca di chiudere gli spazi informativi sul conflitto nei territori occupati.
    La questione non è di facile soluzione anche sul piano tecnico. I programmi di Al Manar sono diffusi attraverso il satellite Eutelsat, che a sua volta riceve un pacchetto di nove canali arabi inviati dal satellite Arabsat, con sede in Arabia Saudita. Di conseguenza, secondo i legali di Eutelsat, l'oscuramento sospenderebbe anche la diffusione delle altre emittenti, aggiungendo alla questione deontologica un vespaio di problemi giuridici e politici.
    Il Consiglio nazionale degli audiovisivi libanesi minaccia analoghe ritorsioni nei confronti dei media francesi, il che metterebbe in discussione i rapporti all'interno della «francofonia», uno dei capisaldi della politica estera francese. Recentemente, la Francia ha lanciato il progetto per una Cnn francese, destinata ai Paesi della «francofonia», ma con programmi anche in lingua araba. Un progetto ambizioso, che da oggi dovrà fare i conti anche con la televisione e le proteste degli hezbollah.

(Corriere della Sera, 13 dicembre 2004)





5. DOPO L’USCITA DI SCENA DI BARGHOUTI




Abu Mazen e la mina Hamas

di Paola Caridi

Potrebbe esserci il Mossad dietro l’autobomba esplosa a Damasco


GERUSALEMME - La prima risposta israeliana al massacro dei soldati al terminal di Rafah, al confine tra Gaza ed Egitto, era sembrata sin troppo morbida, rispetto agli standard sin qui usati dalle forze armate di Tel Aviv. Dopo l’attacco congiunto di Hamas e dei falchi di Fatah, costato la vita a cinque soldati e il ferimento di altri sei, gli elicotteri israeliani si erano "limitati" a colpire per rappresaglia una officina a Gaza City. Si è dovuto attendere sino al pomeriggio di ieri per capire quale sarebbe stata la vera risposta di Israele. Stando, almeno, a quanto hanno dichiarato le autorità siriane dopo la misteriosa autobomba che ieri è esplosa nel quartiere diplomatico-residenziale di Mazzeh, a Damasco. L’autobomba, che ha mancato di poco il suo bersaglio e ha "solo" ferito un passante, era diretta - per il ministero dell’interno di Damasco - a un esponente non meglio precisato di Hamas nella capitale siriana. Come diretta a Hamas era stata l’autobomba che nello scorso settembre aveva ucciso Ezzedin Sobhi Sheikh Khalil, uno dei più alti dirigenti dell’organizzazione islamista palestinese.
    Se così fosse, se cioè fosse stato realmente il Mossad a organizzare l’ultimo attentato a Damasco, significherebbe che il governo israeliano avrebbe deciso di limitare lo scontro con i palestinesi entro un confronto diretto con Hamas. Tenendo fuori, per quanto possibile, l’Autorità nazionale palestinese da questo conflitto a due. Una decisione, questa, evidente per esempio nella presa di posizione di ieri di Shaul Mofaz, non solo ministro della Difesa ma anche uno degli uomini più politicamente vicini al premier Ariel Sharon, resa pubblica sull’autorevole palcoscenico della conferenza di Herzliya sulla sicurezza nazionale di Israele. Lungi dal ricorrere ai toni duri nei confronti dei palestinesi nel loro complesso e dell’Anp nello specifico, nonostante fossero passate soltanto poche ore dall’attacco al terminal di Rafah, Mofaz ha invece fatto delle aperture proprio sulla questione della sicurezza. Dichiarandosi possibilista sul trasferimento della gestione della sicurezza in Cisgiordania settentrionale e a Gaza all’Autorità palestinese. Come e in quali termini, bisognerà capirlo. Sul quando, invece, la posizione di Mofaz è ancora lontana da quello che chiede l’Anp: il ministro della difesa ha parlato di un allontanamento dell’esercito israeliano dalle città palestinesi nelle 72 ore a cavallo delle elezioni presidenziali del 9 gennaio. L’Anp chiede che i soldati di Tsahal se ne vadano già ora dai Territori occupati per consentire un percorso normale a una campagna elettorale che è già fatta in condizioni al limite, visto che Cisgiordania e Gaza sono presidiate dalle forze armate di Tel Aviv.
    Le dichiarazioni di Mofaz, comunque, mostrano che Israele spinge sul moderato Abu Mazen prossimo presidente palestinese. Soprattutto ora che è stata rimossa l’incognita rappresentata dalla candidatura in absentia di Marwan Barghouti, dopo la decisione del Mandela palestinese di ritirarsi in cambio di una seria riforma di Fatah. E se Israele, l’establishment di Fatah e anche la parte cisgiordana del movimento fondato da Yasser Arafat hanno deciso di scommettere su Mahmoud Abbas, è quindi evidente perché Hamas ha a sua volta deciso non solo di continuare gli attacchi all’esercito israeliano dentro la Striscia, ma anche di spedire un messaggio ad Abu Mazen.
    Un messaggio in codice, quello contenuto nell’attacco a Rafah, che dice varie cose. Anzitutto, che Hamas non vede nella sostanziale tregua de facto della campagna elettorale palestinese - attualmente in corso - uno stop alla sua lotta contro Tsahal dentro la Striscia. I militari israeliani sono forza di occupazione, dunque Hamas (e non solo) continuerà ad attaccarli. Un dato di fatto che probabilmente neanche Abu Mazen pensava di poter modificare, quando ha incontrato a Gaza i responsabili della sicurezza, prima di assumere una parte dell’eredità ad interim di Arafat. La forza di quell’accordo, infatti, si misurerà non tanto nello stop degli attacchi ai militari, quanto nella cessazione degli attentati ai civili dentro i confini di Israele. Se non ci saranno attentati nelle città israeliane, insomma, vorrà dire che Mahmoud Abbas - grazie anche ai buoni uffici egiziani - è riuscito a raggiungere una intesa con Hamas.
    C’è però un altro avvertimento che sembra emergere dalla tempistica dell’attacco di Rafah. Avvenuto mentre Abu Mazen stava compiendo una visita storica in Kuwait, per riannodare quei fili spezzati quattordici anni fa, quando Arafat decise di appoggiare Saddam nella sua avventura nel Golfo. Abu Mazen ha ieri pronunciato scuse pubbliche, per quella decisione, e non è certo che le sue scuse siano andate bene a tutti, dentro il mondo palestinese. Troppo rapide, e pronunciate soprattutto prima di essere eletto presidente.
    
(Il Riformista, 14.12.2004)





6. «SALVIAMO I BAMBINI!»




La storia di settecento bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme.


"Saving Children", un progetto per i bambini palestinesi


di Paolo Morello Marchese
Direttore generale Azienda ospedaliera-universitaria Meyer


Settecento bambini palestinesi curati in un anno negli ospedali israeliani di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme. Bambini che grazie al progetto "Saving Children", voluto e promosso dalla Regione Toscana con la Fondazione Peres, l'ospedale pediatrico Meyer e il contributo di Unicoop, hanno visto negli israeliani non più i soldati che sparano e abbattono le case con i carri armati ma le persone che li hanno medicati, occupandosi della loro salute e delle loro famiglie. Un progetto il cui valore umano è straordinario, perchè getta i germogli di pace tra due popoli in conflitto. "Questa la forza di "Salviamo i bambini. La Medicina al servizio della pace", giustamente sottolineata dal presidente della giunta regionale Claudio Martini, dal Nobel per la pace Shimon Peres e dai medici israeliani e palestinesi di recente ospiti a Firenze per il convegno di aggiornamento sui trapianti di midollo osseo e sui progressi della neurochirurgia. Un progetto che compie un anno, anniversario che meglio non si poteva celebrare: oltre alla Toscana, ora vi aderiscono anche le regioni Emilia Romagna, Umbria e Calabria.
    E la Toscana ne è stata ancora una volta il "motore". Qui è stato firmato il protocollo d'intesa che consente un ulteriore sviluppo del progetto di cooperazione sanitaria internazionale. Il Meyer vuole mantenere in modo forte l'impegno pluriennale di "Saving Children" che ha superato gli obiettivi che inizialmente si era dato, arrivando a risultati rilevanti: dei 700 bambini curati nelle maggiori strutture sanitarie israeliane, 200 sono stati sottoposti ad interventi chirurgici a cuore aperto. Non solo. Gli altri piccoli pazienti, vittime innocenti della guerra e della violenza, sono stati curati per patologie neurochirurgiche, ortopediche e per le ustioni. Parallelamente all'attività di cura, il progetto ha avviato iniziative di formazione rivolte alla salute dei bambini per il personale sanitario palestinese presso ospedali israeliani e conferenze annuali sulle problematiche pediatriche emergenti. In questo ambito il convegno organizzato al Demidoff hotel di Pratolino è il terzo appuntamento del percorso formativo. Il primo avvenne nel dicembre del 2003 sul Mar Morto, in Giordania. In quel contesto ottanta medici israeliani, palestinesi e toscani si confrontarono sui temi della gastroenterologia, della cardiologia e delle malattie respiratorie. Successivamente a Nazareth si svolse la seconda conferenza di aggiornamento sulla pediatria d'urgenza. Ora la tappa fiorentina che ha nuovamente riunito i pediatri dei tre Paesi.
    E domani? Come ha sottolineato Shimon Peres l'impegno è di poter offrire cure e trattamenti a mille bambini all'anno, a partire dal 2005, includendo nel progetto "Saving Children" anche la cura dei tumori. L'attenzione alla salute dei bambini, ne siamo sicuri, avrà un effetto significativo per la comunità palestinese, facendo emergere quella voglia di pace presente nelle due società, tra persone che al di là della loro appartenenza geografica o politica, grazie al progetto si sono incontrate, si sono conosciute, si sono aiutate. Un prezioso terreno di rapporti tra uomini e donne nel quale è possibile piantare il seme della pace e del dialogo.
    
(l'Altracittà, 12 dicembre 2004)





7. MUSICA E IMMAGINI




Mi Ymalel




8. NDIRIZZI INTERNET




The free Evangelical Community

International Fellowship of Christians and Jews




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.