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Notizie su Israele 277 - 20 gennaio 2005

1. Calunniate, calunniate, qualcosa resterà
2. Finkielraut: Nuove forme di odio in Europa
3. La politica attraverso gli adesivi
4. Anche a Napoli ci fu ostilità verso gli ebrei
5. La Knesset critica le banche israeliane
6. Cronache di ebrei non ortodossi
7. Il Monte del Tempio interdetto agli ebrei
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Salmo 62:7-8. Dio è la mia salvezza e la mia gloria; la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio. Confida in lui in ogni tempo, o popolo; apri il tuo cuore in sua presenza; Dio è il nostro rifugio.
1. CALUNNIATE, CALUNNIATE, QUALCOSA RESTERA'




Come il film "Jenin Jenin" ha diffamato Israele
    
di Deborah Fait (*)
    
Muhammad Bakri
Il regista arabo israeliano Muhammad Bakri, autore del documentario “Jenin, Jenin” che accusava Israele di genocidio e crimini di guerra, ha ammesso in una deposizione la scorsa settimana d’aver falsificato alcune scene usando informazioni sbagliate e d’aver ricevuto finanziamenti da parte dell’Autorità Palestinese per la produzione del film diffamatorio. Il regista e produttore del celebre film, che accusava i militari israeliani d’aver commesso atrocità inaudite nel campo profughi di Jenin nell’aprile 2002, deponendo in tribunale nel corso di un processo per diffamazione ha riconosciuto che in tutto il film sono presenti errori e artifici.
    Il regista deve difendersi dalla querela di cinque soldati israeliani che hanno combattuto a Jenin e i cui volti sono riconoscibili nelle sequenze del documentario che accusa i militari d’aver ucciso “un grande numero di civili”, mutilato corpi di palestinesi, eseguito esecuzioni a casaccio, bombardato donne bambini e disabili psico-fisici, e d’aver spianato l’intero campo profughi compresa un’ala del locale ospedale.
    Il documentario non mostra nessuna immagine delle presunte atrocità, ma in alcune sequenze i volti dei soldati (che hanno querelato Bakri) vengono soprapposti a presunte “testimonianze oculari” con la chiara indicazioni che essi sarebbero colpevoli di “crimini di guerra”.
    Ora però Bakri ammette d’aver “prestato fede” a testimonianze selezionate senza procedere a nessun controllo sulle informazioni che gli venivano fornite. “Ho creduto alle cose che mi venivano dette. Le cose a cui non ho creduto non sono state incluse nel film”, ha spiegato il regista.
    Ad una domanda relativa alla scena del film in cui si lascia intendere che truppe israeliane siano passate con i loro mezzi sopra civili palestinesi, Bakri ha ammesso d’aver costruito la sequenza come sua propria “scelta artistica”.
    Alla domanda se crede davvero che “durante le operazioni a Jenin soldati israeliani abbiano ucciso la gente in modo indiscriminato”, Bakri ha risposto “No, non lo credo”.
    La parte forse più clamorosa della deposizione è giunta quando Bakri ha ammesso che il suo documentario, proiettato nei cinema di tutto il mondo, è stato finanziato dall’Autorità Palestinese, spiegando che “parte delle spese per il film sono state coperte da Yasser Abed Rabu, allora ministro palestinese per la cultura e l’informazione nonché membro del comitato esecutivo dell’Olp sotto la direzione dell’allora leader palestinese Yasser Arafat.
    Nell’aprile del 2002 le truppe israeliane entrarono a Jenin nel quadro dell’Operazione Scudo Difensivo volta a fermare la sequela ormai quotidiana di attentati suicidi ad opera di Hamas, Jihad Islamica e Brigate Martiri di Al Aqsa. Israele inviò unità di fanteria alla ricerca di terroristi casa per casa anziché colpire da lontano la “culla” degli attentatori: una scelta che costò la vita a 23 riservisti uccisi da imboscate, cecchini e trappole esplosive palestinesi. Subito dopo la fine dei combattimenti venne fatta circolare dalla dirigenza palestinese l’accusa che Israele avesse commesso un deliberato massacro a sangue freddo di più di 500 civili indifesi. Successivamente è stato appurato che i morti palestinesi nei durissimi combattimenti erano stati 53, per la maggior parte armati. Resoconti di stampa, prove documentarie, indagini di enti governati, non governativi e di organizzazioni umanitarie hanno presto dimostrato che non aveva avuto luogo nessun massacro di civili.
    Il film di Bakri mostra diversi “testimoni” che descrivono “brutalità” da parte delle Forze di Difesa israeliane, sostenendo che Israele avrebbe aggredito e ucciso “numerosissimi” palestinesi con carri armati, aerei e cecchini. L’autore tuttavia si guarda bene dall’indicare chiaramente quale dovrebbe essere, secondo lui, il numero esatto di palestinesi uccisi.
    Nel frattempo un altro film, "The Road To Jenin” di Pierre Rehov, è giunto a smentire le accuse di Bakri. Una di queste era che Israele avrebbe sparato undici missili contro l’ospedale di Jenin spianandone un’intera ala con tutti i pazienti all’interno, e che non avrebbe nemmeno permesso al personale di soccorso di accedere alla zona. Il direttore dell’ospedale, dottor Mustafa Abo Gali, dice al pubblico del film di Bakri: “Tutta l’ala ovest è stata distrutta. Caccia militari lanciavano i loro missili ogni tre minuti”. Bakri non si prese la briga di controllare. Ma quando Rehov intervistò lo stesso dottor Gali per il suo film e si fece mostrare le dimensioni dei danni, tutto ciò che questi poté mostrare fu un modesto buco sull’esterno dell’ala ovest, completamente intatta. Rehov fornisce anche le immagini aeree dell’ospedale prese l’ultimo giorno della battaglia di Jenin in cui si vede che tutte le sezioni dell’edificio sono normalmente in piedi.
    Circa l’accusa di Bakri per cui alle ambulanze non fu permesso di raggiungere la zona, il dottor David Zangen, capo ufficiale medico delle Forze di Difesa israeliane durante l’azione a Jenin, racconta a Rehov come i soldati israeliani hanno soccorso molti combattenti palestinesi feriti, compresi quelli di Hamas. Rehov mostra persino un soldato israeliano che autorizza Gali in persona a ricevere tutto il materiale medico di cui ha bisogno per il suo ospedale.
    “Anche lo spettatore più distratto – ha scritto Tamar Sternthal, del Committee for Accuracy in Reporting in the Middle East – si accorgerebbe delle evidenti incongruenze delle presunte testimonianze su cui fa affidamento Bakri”.
    Bakri sostiene che i soldati avrebbero sparato a una mano di un inerme abitante palestinese, Ali Youssef, per poi sparargli anche alle gambe. Ma Rehov ha rintracciato Youssef e nel suo film rivela che questi venne ferito a una mano mentre stava dentro a un edificio insieme a terroristi armati di Hamas. Medici israeliani medicarono la ferita di Youssef, gli riscontrarono un difetto congenito al cuore e lo inviarono in Israele perché fosse curato nell’ospedale di Afula. Dalle cartelle cliniche dell’ospedale si rileva che Youssef non è mai stato ferito alle gambe.
    Secondo Zangen, Bakri fa ampio ricorso a tecniche filmiche ingannevoli per creare il mito del massacro a freddo, cosa che ora Bakri ammette nella sua deposizione. Zangen cita ad esempio la scena di un tank che si dirige verso una folla. La scena quindi si oscura, lasciando la falsa impressione che quella gente sia stata uccisa. Inoltre Bakri, che in nessun momento della battaglia è stato sul posto a filmare, ingannevolmente giustappone le immagini di tank israeliani e quelle di tiratori scelti in posizione di tiro ad immagini di bambini palestinesi: altra circostanza ammessa da Bakri nella sua deposizione.
    Alcune di queste immagini giustapposte includono i cinque soldati riservisti che hanno querelato l’autore davanti a un tribunale di Tel Aviv. I cinque accusano Bakri d’averli falsamente accusati di crimini di guerra e spiegano che, oltretutto, nella loro professione civile hanno frequenti contatti con palestinesi che ora potrebbero riconoscere i loro volti per averli visti nel diffamatorio documentario di Bakri, cosa che mette a repentaglio la loro attività professionale e la loro stessa vita.
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(*) Da un articolo di Aaron Klein su www.worldnetdaily.com, 17.01.2005

(Informazione Corretta, 18 gennaio 2005)





2. FINKIELKRAUT: NUOVE FORME DI ODIO IN EUROPA




L'antisemitismo torna insieme all'appoggio per la causa palestinese

VIENNA - Durante una conferenza sull'antisemitismo, Alain Finkielkraut, noto filosofo e studioso ebreo, ha messo in guardia contro un ritorno dell'odio in Europa sotto nuove forme: "l'appoggio alla causa palestinese in nome dei diritti umani si lega sempre più all'odio verso Israele. La critica verso Israele per i suoi rapporti con la Palestina - ha continuato il filosofo - assume quindi sempre più i connotati di un giudizio negativo verso tutti gli ebrei".
    "Le persone che oggi odiano Israele - ha spiegato lo studioso, docente alla prestigiosa Scuola Politecnica di Parigi, durante un'intervista rilasciata al quotidiano Die Presse - non sono antisemiti nel senso stretto del termine. Questi infatti giustificano le loro prese di posizione con la difesa dell'umanità e della democrazia. L'odio per Israele nasce, in coloro che sostengono la lotta palestinese, dall'antirazzismo, dall'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini. Questo - ha concluso Finkielkraut - è il più grande paradosso della nostra epoca".
    "Benché vi sia un'unanime condanna verso le parole e gli atti rivolti contro gli ebrei, verso quindi il classico antisemitismo - ha affermato lo studioso - allo stesso tempo esiste però una diffusa condanna dell'arroganza sionista".
    Finkielkraut, autore di "Riflessioni sul ritorno dell'antisemitismo" - fortunatissimo libro che analizza i timori degli ebrei francesi, ha quindi puntato il dito contro il paese in cui vive: "nonostante in Francia 600 mila ebrei siano sottoposti al violento antisemitismo islamico, raramente i media e il governo prendono posizioni forti a riguardo. Questo rende la vita degli ebrei francesi molto difficile"

(Virgilio Notizie, 19 gennaio 2005)





3. LA POLITICA ATTRAVERSO GLI ADESIVI




"Comunicazioni adesive": in Israele i nuovi media sono per strada

di Magdalena Szymkow

Le strade di Israele parlano. Discutono con i passanti. Un incrocio stradale è un forum di scambio di idee. Il dialogo che manca tra le parti del conflitto israeliano-palestinese si è spostato per le strade ed è condotto attraverso gli slogan stampati sugli adesivi che rivestono i muri, le vetrine, le macchine e i segnali stradali. Attraverso le battute si deride, si critica, si domanda e si risponde. Gli adesivi attaccano con gli slogan politici, citano i versi sacri, esortano alla guerra, chiedono la pace.
    Agli stranieri che non conoscono l’ebraico sembrano pubblicità, divieti d’entrata o di fumo. In realtà questi piccoli oggetti colorati non informano sulle nuove marche, non promuovono le nuove riviste o i gruppi musicali. In questo modo qui si diffondono i manifesti politici, i programmi elettorali sia di destra che di sinistra, sia dei religiosi, che dei liberali, sia degli ortodossi che dei laici. In questo modo le organizzazioni non governative, i gruppi sociali, tutti i tipi di circoli e di associazioni commentano gli eventi e le decisioni politiche. Così si percepisce cosa pensa e sente la strada, la città e i suoi abitanti.
    A Gerusalemme l’incrocio della via King George e via Jaffa è il cuore della città. L’una, King George porta al quartiere moderno pieno di negozi, di ristoranti e di bar, l’altra, via Jaffa alle mura della Città Vecchia. Mentre si cammina, ci si siede in un bar, si guida una macchina non è possibile non accorgersi dei tanti adesivi. O noi, o loro. Distruggi il nemico arabo! si può leggere sull’adesivo attaccato sulla macchina che al semaforo rosso si è fermata vicino ad una Renault con un altro adesivo: Credo nel piano di pace di Sharon e dietro un taxi giallo con uno slogan: Coalizione per la pace.
    - Questa discussione si svolge ad ogni incrocio, anche sull’autostrada. Gli adesivi sono ovunque! – dice Micah Halpern, uno scrittore, rabbino ortodosso, esperto di terrorismo per la Casa Bianca.
    All’inizio gli adesivi venivano attaccati sui quaderni, sulle borse, sugli zaini. Dopo sono apparsi sulle magliette, sulle giacche, sulle carrozzine per i bambini, perfino sulle mura e sulle macchine. Ci sono sugli autobus, sui taxi addirittura sulle macchine della polizia.
    “A Gerusalemme gli adesivi sono una parte importante del dibattito sociale molto vitale. Mostrano come attiva e politicamente vibrante è la strada. Questi slogan rispecchiano la situazione estremamente tesa in cui vive le gente di Israele. Quando vedo le auto con gli adesivi attaccati ai paraurti ho l’impressione di prendere parte alla manifestazione stradale infinita” – dice David Grossman, uno scrittore e saggista israeliano.
    Via Jaffa, “la via centrale di Gerusalemme, che esiste ormai da più di cent’anni, di solito colpisce per la sua semplicità e per la sua trasandatezza: due file di vecchi edifici di pietra tappezzati di giganteschi cartelloni pubblicitari. (…) Tutti i bambini della capitale la conoscono e per alcuni è uno dei simboli più popolari: chi è passato di lì, confondendosi per un attimo nel via vai di gente, si è sentito parte di Gerusalemme”- ha scritto nel libro “La guerra che non si può vincere“ (Mondatori 2003) David Grossman.
    La strada è un target terroristico ideale. Da quando ha cominciato morire lì la gente, sono apparsi anche gli adesivi. Fino ad oggi la scritta con il nome della via Jaffa è coperta a metà con una scritta: “La via dei feriti negli attentati.”. Vicino, sul muro si può leggere in inglese: “No arabs, no terror”. “Niente Arabi, niente terroristi” è uno degli slogan più diffusi dagli attivisti dell’estrema destra che spesso si vede nella città, anche se la sua distribuzione è proibita, considerata razzista e punita con cinque anni di prigione. Quando avevano proibito la sua diffusione subito dopo è apparso un adesivo con la scritta: “Niente sinistra, niente terrore”.
    “Gli adesivi più popolari e più forti sono quelli che ripetono, scherzano o ridono degli altri” – dice Halpern.
    Gli adesivi messi in ordine cronologico permettono di seguire la storia del conflitto e mostrano come negli anni sia cambiato lo stato d’animo della società. “Popolo è con Golan” è apparso sul muri già 15 anni fa per protestare contro la consegna di quei territori alla Siria. “Pace per il potere” si poteva leggere parecchi anni dopo, invece “Attenzione! Stanno dividendo Gerusalemme” durante il governo di Ehud Barak, che aveva proposto ai Palestinesi la parte orientale di Gerusalemme. “La terra d’Israel per il popolo israeliano” è apparso alla fine degli anni ’90, “Lasciate i territori occupati” nel 2003. In questo anno invece: ”Israele vuole la pace”.
    Da tanti anni le parti in conflitto manifestano slogan contraddittori, ma veramente nessuno ascolta più. Tutti conoscono gli argomenti degli altri. Non sono niente altro che accuse reciproche. “Mi spaventa la violenza delle dichiarazioni senza obiezione. Gli adesivi solo annunciano. Nessuno cerca tramite loro un dialogo – racconta Tamar Matza, una fotografa israeliana, che da tanti anni raccoglie un archivio degli adesivi. – E’difficile respirare fra il gran numero di questi assiomi. Sono cosi tanti che nessuno ha il tempo di fermarsi e riflettere cosa veramente significhino.
    Spesso compaiono scritte con significati opposti l’uno all’altro. Il giorno dopo la comparsa di uno slogan da qualche parte, qualcuno ne attacca un altro con un riposta contraria. Con il tempo perdono valore, diventano indifferenti e nessuno li nota. Come questo con la scritta riflessa in una vetrina: “Israele è forte” nel centro della città; o come questo con lo slogan:” Finite con l’incubo libanese” attaccato ad una batteria che ferma una porta di un negozio nel quartiere arabo della Gerusalemme Vecchia; o alla fine questo ”Salvate la pace” che qualcuno con disperazione ha attaccato sul bidone verde della spazzatura.

(Infocity, 19 gennaio 2005)





4. ANCHE A NAPOLI CI FU OSTILITA' VERSO GLI EBREI




L’antisemitismo non risparmiò gli ebrei napoletani

di Titti Marrone

Ci sono casi in cui la reputazione di tolleranza di cui gode Napoli rischia di tramutarsi in stereotipo fuorviante. Succede quando si parla di persecuzione antiebraica e di leggi razziali. È infatti convinzione diffusa che, non essendoci state a Napoli retate e deportazioni in massa verso i lager, cominciate in Italia con il rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma quando a Sud era già avvenuto lo sbarco alleato, non ci sia stata nemmeno la discriminazione contro gli ebrei. E invece una quantità di vicende personali, non ancora raccolte organicamente in un unico studio ma affiorate solo da poco tempo in testimonanze, filmati, libri e tesi di laurea, raccontano i percorsi di sofferenza solitaria degli ebrei napoletani, finora scappati dalle maglie larghe della grande storia. Vale la pena raccoglierle, decifrarle, come faremo da qui al 27 gennaio, sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: dicono, contro ogni luogo comune, quanto fu dura la vita vissuta

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dagli esponenti della comunità più a Sud della penisola, fondata nel 1862 da un Rotschild, dopo la promulgazione delle leggi del 1938. In quell’anno a Napoli gli ebrei si contavano in 714, più numerosi che in passato, ed erano assai integrati nella vita cittadina: era stato un ebreo, Giorgio Ascarelli, il primo presidente del Calcio Napoli. Molti di essi, come Aldo Sinigallia, avevano combattuto nella prima guerra mondiale, conservavano con fierezza la divisa e le decorazioni da ufficiali del Regio esercito italiano ed erano animati da spirito patriottico che li faceva sentire tutt’altro che estranei alla guerra di Mussolini. Poi arrivò, a Napoli come nel resto d’Italia, quel «corpus» legislativo che, privandoli del diritto al lavoro, alla proprietà, all’insegnamento, a frequentare le scuole e le università, cambiò il segno delle loro vite. Non contò più niente che l’economista napoletano Bruno Foà avesse divulgato in Italia le teorie di John Maynard Keynes e della Scuola di Cambridge: quando il suo nome comparve in quell’elenco, fece le valigie, salutò Napoli per l’ultima volta e partì per Londra. Di lì a poco, dalla «Federico II» furono cacciati cinque tra i più prestigiosi docenti: Anna Foà, Ugo Forti, Ezio Levi D’Ancona, Donato Ottolenghi, Alessandro Graziani. Il figlio di quest’ultimo, l’economista Augusto Graziani, allora bambino di 5 anni, non dimenticherà mai quel che ne seguì: la consapevolezza angosciosa e improvvisa di essere «un ebreo figlio di ebrei», il reddito familiare di colpo assottigliato, i lavori «arrangiati» cui l’ex titolare di Diritto della Navigazione si trovò costretto, redigendo atti per conto di studi legali senza che il suo nome comparisse. Come agli altri bambini ebrei, anche ad Augusto Graziani e alla sorella non fu possibile frequentare le scuole napoletane, e si pose il problema di un’istruzione a casa. Una delle tre eccezioni italiane a quella legge del 1938 si ebbe proprio a Napoli, e fu la storia dei dieci bambini per i quali la scuola elementare «Vanvitelli» istituì una sezione speciale, separata dagli altri alunni, con orari sfalsati per l’entrata e l’uscita e senza intervalli, in modo da impedire contatti con gli «ariani». Di quella classe, la cui vicenda è stata resa nota per la prima volta dal nostro giornale qualche anno fa, fece parte il piccolo Dino Assom, che nel 1940 sarebbe stato espulso dall’Italia con la famiglia e mandato a Salonicco, dove sarebbe stato deportato ad Auschwitz e gasato. E tra la scuola «Vanvitelli» e Salonicco si diparte l’altro doloroso destino di una famiglia ebraica napoletana, quella dei Bivasch: e se il piccolo Alberto, compagno di banco di Dino, riuscì a salvarsi, così non fu per il padre, catturato a Salonicco e sterminato nel lager. Dopo il 1938 tutte le famiglie ebraiche di Napoli, comprese quelle con uno dei due coniugi cattolici, ricevettero per posta la richiesta che una mattina arrivò a casa di Gisella Perlow: «documentazione dalla quale possa desumersi che da parte di ciascuno dei figli non concorre alcuna manifestazione di ebraismo». Quella lettera avrebbe indotto Gisella, sposata al cattolico Eduardo De Simone, a fuggire da Napoli a Fiume con il figlio Sergio, andando incontro alla deportazione che sarebbe costata la vita al bambino. A Napoli come altrove, l’ostilità cresceva intorno ai bambini ebrei: Tullio Foà ricorda i suoi compagni di giochi, improvvisamente nemici, che gli negavano la bibicletta perché «un ebreo, usandola, l’avrebbe sporcata». Bice Foà ha ancora in testa le raccomandazioni dei genitori: «Non salutare per prima, non dire mai il tuo nome». E David Schiffer, di origine ungherese, non dimenticherà mai quei manifesti improvvisamente affissi sui muri di Procida, dove si era trasferito dal Cuneese con la famiglia: raffiguravano ebrei con i nasi adunchi e occhi rapaci, intenti ad accarezzare sacchi di denaro. E come in un incubo i procidani, da gentili e ospitali, si trasformarono in ostili, catturarono suo zio, dirigente della Società Elettrica sospettato di aver fatto mancare l’audio della radio al momento dell’annuncio dell’entrata in guerra. Niente fu più come prima, né a Napoli né in altre parti d’Italia, dopo quelle leggi promulgate dallo Stato italiano, nell’indifferenza di tutti.

(Il Mattino, 19 gennaio 2005)





5. LA KNESSET CRITICA LE BANCHE ISRAELIANE




GERUSALEMME - Una commissione della Knesset ha oggi duramente criticato il comportamento mantenuto da diverse banche israeliane quando negli scorsi decenni superstiti dell'Olocausto hanno chiesto loro di recuperare i risparmi depositati da loro congiunti negli anni Trenta.
    Al termine di una indagine protrattasi per quattro anni, i membri della Commissione hanno pubblicato un ponderoso rapporto in cui affermano che "le banche non hanno operato in maniera energica per restituire i fondi ai loro legittimi proprietari, anche quando avevano di fronte superstiti dell'Olocausto o i loro legittimi eredi". Quanti infine sono stati risarciti, afferma il rapporto, "hanno ricevuto somme che non corrispondevano al loro valore reale".
    La ricerca è stata resa complessa dal fatto che durante la Seconda guerra mondiale i conti depositati da ebrei europei in Palestina furono trasferiti in Gran Bretagna, la nazione responsabile del Mandato. Con la costituzione dello stato d'Israele quei conti furono trasferiti alle autorità israeliane. Secondo la commissione, 9.000 conti restarono nelle casse della banche israeliane e oggi i nominativi dei loro detentori sono stati divulgati via internet.
    Secondo una loro valutazione, il debito delle banche assomma oggi a 73,3 milioni di shekel (un euro equivale a sei shekel) e quello delle autorità israeliane assomma a 101,2 milioni. Ma secondo la Knesset la valutazione di quei conti deve essere condotta secondo una formula diversa. Di conseguenza il debito delle banche diventerebbe 323 milioni di shekel e quello delle casse israeliane 587 milioni di shekel.

(swissinfo SRI, 18 gennaio 2005)





6. CRONACHE DI EBREI NON ORTODOSSI




A Beit Daniel, la sinagoga riformata

di Jacopo Tondelli

TEL AVIV - Non sorprende che Beit Daniel, la più importante e frequentata sinagoga riformata d’Israele, stia nella parte nord di Tel Aviv. Lunghe strade alberate costeggiano ampi parchi, in eleganti quartieri di case basse, immerse in rigogliosi giardini. Vivere a Nord Tel Aviv non è un semplice status symbol, visto che da decenni, ormai, questa zona è il naturale approdo della classe emergente ed intellettuale. Benestante, certo, ma soprattutto laica e cosmopolita. Avvocati, professori universitari, medici, designer, architetti hanno eletto questi verdeggianti isolati a propria dimora.
    E Beit Daniel, da queste parti, è al suo posto, con le sue geometrie essenziali, modernissime, da sinagoga di New York. Più difficile, invece, sentirsi a proprio agio in Israele, come emerge dalle prime parole del rabbino capo, Meir Arazi: «La voce dell’ebraismo riformato è quella più numerosa, più forte, dell’ebraismo mondiale. Ma in Israele è invece minoritaria. Una delle ragioni principali di questa inversione, rispetto alla tendenza mondiale, è la provenienza di un alto numero di ebrei israeliani da paesi e da culture non democratiche. Chi arriva qui dagli stati arabi, o dell’ex Unione Sovietica, ha forse maggiori difficoltà ad assumere pienamente i principi di democrazia e pluralismo che costituiscono il fondamento dell’ebraismo riformato. Proprio per questo è una grande sfida Beit Daniel», nello Stato ebraico che accorda e riconosce pieno statuto di “ebraicità” ai soli rabbinati ortodossi, almeno per quanto riguarda i numerosi effetti civili e legali delle pratiche religiose. «E’ ridicolo che lo Stato d’Israele continui a non riconoscere i matrimoni celebrati da noi. Una coppia israeliana che voglia contrarre un matrimonio religioso, ma non presso una sinagoga ortodossa, è costretta a sposarsi civilmente all’estero». Percorso tortuoso, dunque: matrimonio civile altrove, riconoscimento dell’unione da parte delle autorità israeliane e, infine, matrimonio a valenza esclusivamente religiosa in una sinagoga riformata d’Israele. «Per lo Stato ebraico, dunque, un matrimonio celebrato da un pescatore di Cipro, delegato dal sindaco della sua cittadina, vale più di quello celebrato da me». Eppure i numeri dicono di una tendenza in costante aumento: se nei primi anni novanta i matrimoni “riformati” erano poche decine, oggi la sinagoga di Beit Daniel ne celebra centinaia, come molte altre sinagoghe riformate d’Israele. Non solo, a dichiarare la propria appartenenza all’ebraismo non ortodosso, è sempre più spesso quella che Rav Arazi definisce «la creme della creme della società israeliana». La Bar Mitzvà della figlia di Ehud Barak presso Beit Daniel è solo un lampante esempio. Emerge qui, stilizzata, una delle faglie di conflitto che più in profondità segna, al proprio interno, la società israeliana, quella riguardante la diversa percezione dell’identità ebraica, spesso semplicisticamente riassunta nella dicotomia laici-religiosi. «Quando vengo intervistato telefonicamente per gli exit pool elettorali, una delle prime domande è se sono laico o religioso. Cosa che, in Israele, significa o ortodossia, o assenza di ogni pratica religiosa. Queste, per persone come noi, sono domande dalla risposta difficile, e tendenzialmente fuorviante. Se dico che sono tradizionale, mi colloco nell’area dello Shas; se dico che sono religioso, vengo percepito immediatamente come ortodosso; se dico che sono secolare, si pensa ad una assenza di pratica e di convinzione religiosa». Proprio la posizione di ufficiale subalternità, cui è relegato l’ebraismo riformato israeliano, tuttavia, contribuisce a quel dualismo senza sfumature già rinvenibile alle radici storiche dello Stato: i kibbutzim atei e socialisti da un lato, e la laboriosa costruzione di un fronte sionista legato all’ortodossia, dall’altro. «O bianco o nero» dice Arazi. Vale a dire: o la secolarità disconnessa da ogni identificazione religiosa con l’ebraismo, o un’affiliazione integralmente ortodossa.
    La situazione è particolarmente delicata per i numerosi nuovi immigrati, la cui identità ebraica ha, talora, dei tratti decisamente sfumati. «Già, loro quando arrivano devono scegliere: o ebrei ortodossi, o niente. Questo, dell’alternativa tra scelte radicali, è un grosso problema e limite della società israeliana, anche in politica». La terza via che manca, sbarrata o mai davvero percorsa, Arazi la indica in uno Stato compiutamente laico, capace però di conservare un’identità culturale ebraica plurale. Non discute il rispetto dello Shabbat, e la garanzia del cibo kasher nelle pubbliche istituzioni, sapendo però che «forzare al rispetto delle norme e costringere ex lege non è mai salutare». E’ ben conscio, Rav Arazi, che il riferimento all’ebraismo rimane il sottotesto indispensabile di ogni discorso pubblico e politico efficace, che sia capace di parlare all’anima della società israeliana. Di questo discute, oltre che da rabbino capo del più importante centro dell’ebraismo riformato in Israele, anche da militante storico e membro della commissione centrale del partito di Meretz, da sempre punto di riferimento per la sinistra sionista, e ora confluito, con la sinistra laburista, guidata da Yossi Beilin, nel partito di “Yachad”. «Uno dei più grossi errori dell’area impegnata nel processo di pace, che l’ha indebolita fino a renderla minoritaria, è stato il non parlare un linguaggio ebraico. Parlando una lingua sempre razionale, dicendo certo cose giuste, ma senza riferimenti alla tradizione ed identità ebraica, ha finito per perdere il contatto con la cittadinanza israeliana, per la quale i simboli d’identità e d’appartenenza sono comunque simboli ebraici». E’ questa un’ulteriore tensione da affrontare, di fronte ad una consistente maggioranza di israeliani secolarizzati, che tuttavia rispondono con i simboli e i linguaggi dell’ebraismo ad un forte bisogno identitario. All’orizzonte un bivio: la laicità plurale di uno Stato ebraico rinnovato, come lo immagina Arazi, o la sclerotizzazione di risposte conservatrici alla diffusa e naturale necessità di appartenenza, potenzialmente produttiva di gravi tensioni sociali, nell’Israele odierno. «Una sfida che la sinistra israeliana rischia di perdere, affidandosi completamente a linguaggi più convincenti per l’orecchio dell’intellighenzia europea o americana, che per le sensibilità di questo paese». Indica in Clinton e Tony Blair due modelli da cui trarre insegnamento, «perché hanno saputo parlare alle radici della loro nazione, senza pervertire la storia del proprio partito».
    In Israele, dice, questa cosa sembra riuscire meglio ai Begin e agli Sharon: «A sinistra solo Yitzak Rabin, negli ultimi decenni, ne è davvero stato in grado». Vede un partito laburista allo sbando, capace solo di soccorrere Sharon nel momento del bisogno. «Sarà naturale, in queste condizioni, che gli israeliani continuino a votare Sharon: parla la loro lingua e viene riconosciuto nei fatti, da Peres, come più capace di lui, nel fare ciò che la sinistra propone da decenni». Del resto, grandi cambiamenti non paiono in vista all’interno del Labour israeliano che, mentre partecipa all’ennesimo governo di unità nazionale, deve anche iniziare a pensare al prossimo candidato premier. «Si fa di nuovo il nome di Ehud Barak, o di questo giovane astro in ascesa, Pin-Paz, ma vedrete che, alla fine, il giovane leader della nuova sinistra israeliana, si chiamerà Simon Peres».

(Il Riformista, 12 gennaio 2005)





7. IL MONTE DEL TEMPIO INTERDETTO AGLI EBREI





GERUSALEMME - Entrambi i rabbini capo di Israele, Jonah Metzger e Shlomo Moshe Amar, d'accordo con diversi altri rabbini, hanno promulgato una legge religiosa che vieta agli ebrei di entrare nell'area del Monte del Tempio. Il motivo sta nel fatto che nessuno sa più dove si trovava il luogo santissimo, e quindi potrebbe accadere che per sbaglio qualcuno calpesti il terreno sacro.
    Una legge simile era già stata emanata pochi mesi dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967. La versione originaria di questa halacha risale ai rabbini capo Isser Yehuda Unterman e Yitzhak Nissim, e fu appoggiata da centinaia di altri rabbini.
    Questa legge è stata di nuovo messa in vigore dal rabbino per il Muro del Pianto, Shmuel Rabinowitz, e dal direttore della Yeshiva Ateret Cohanim, Shlomo Aviner. Anche gli ex rabbini capo Ovadia Josef, Avraham Shapira, Eliahu Bakshi-Doron e i leader delle grandi scuole religiose nazionali della Torah hanno sottoscritto la legge.
    "Nel corso degli anni abbiamo perso la conoscenza del luogo esatto dove si trovava il Tempio", hanno scritto i rabbini, "e ogni persona che si trova sul Monte potrebbe per sbaglio calpestare il luogo dove una volta si trovava il Tempio". Di conseguenza ripetono l'avvertimento che "nessun uomo e nessuna donna deve mettere piede sul Monte del Tempio, indipendentemente dalla porta che usa per arrivarci".
    Oggigiorno non c'è più nessun sacerdote che si attiene strettamente ai precetti di purità. Tra questi si trova anche la regola che un sacerdote (Cohen) non deve avere alcun contatto con i morti. In tempi biblici si usava la cenere di una giovenca rossa senza macchie e senza difetti che non abbia mai partorito. I seguaci dei Movimenti del Tempio, che da alcuni anni si impegnano per la riattivazione del servizio del Tempio, fino a questo momento non hanno ancora trovato una giovenca simile [nel giugno 2002 sembrava che fosse stata trovata. Ved. Notizie su Israele 104].
    Il divieto di calcare il Monte del Tempio viene in un momento in cui sempre più ebrei, soprattutto religiosi, si interessano alla ricostruzione del Tempio. E' un duro colpo per i Movimenti del Tempio, che invece sono convinti che gli ebrei possano andare sui luoghi sacri. Da quando i rabbini del Consiglio dei coloni diedero il permesso di calcare il Monte del Tempio, molti studenti delle Yeshivot (scuole talmudiche) ci andarono. Questi rabbini sostengono di aver trovato alcuni luoghi in cui si può andare senza calpestare i terreni sacri. Tra questi ci sono gli impianti costruiti da Erode, le stalle di Salomone e la zona dietro il Muro del Pianto.

(Israelnetz Nachrichten, 17 gennaio 2005)




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