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Notizie su Israele 300 - 16 giugno 2005

1. Le poste israeliane smistano lettere a Dio
2. Dattero della Giudea, germoglia seme di 2000 anni fa
3. L'Islam sta andando verso la democrazia?
4. Problemi di un islamico laico in Italia
5. Il progetto razzista del Fascismo
6. Palestinesi contro il ritiro da Gaza
7. Paure collegate al programma di disimpegno
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Salmo 110:1-2. Il SIGNORE ha detto al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi». Il SIGNORE stenderà da Sion lo scettro del tuo potere. Domina in mezzo ai tuoi nemici!”
1. LE POSTE ISRAELIANE SMISTANO LETTERE A DIO




GERUSALEMME - Le poste israeliane ricevono ogni anno migliaia di lettere indirizzate a Dio. Ogni mercoledì il Direttore delle Poste, Yossi Sheli, e Rabbi Shmuel Rabinovich portano le lettere, come ogni anno, al Muro del Pianto e infilano le preghiere nelle fessure del muro.
Molte persone, da tutto il mondo, scrivono lettere a Dio e le mandano a
Indirizzo sulla busta: "All'attenzione di Dio
Muro del Pianto - Gerusalemme - Israele"
Gerusalemme. Indirizzo: "Dio, Muro del Pianto, Gerusalemme".
Tre anni fa le poste israeliane avevano deciso di non aprire queste lettere ma di non rispedirle al mittente. «Lettere a Dio arrivano da tutto il mondo», ha detto il portavoce delle Poste, Itzak Rav Jihija, al quotidiano "Ha´aretz". "Scolari e adulti scrivono una lettera, la mettono in una busta, ci mettono un francobollo e sperano che arrivi a destinazione. Noi crediamo che sia nostro compito portare queste lettere al Muro del Pianto.»
Fino ad ora il numero di queste lettere che arrivavano a Gerusalemme era veramente piccolo, ma da quando le Poste hanno reso pubblico il loro servizio, il numero continua a crescere. Di recente è arrivata una lettera dalla Cina, da 24 scolari di Hong Kong, riferiscono gli impiegati delle Poste. La maggior parte delle lettere sono scritte in occasione di feste, come il capodanno ebraico Rosh HaShana, Yom Kippur o Natale.
Se, tra i due milioni di lettere che vengono trattate ogni giorno dalle Poste israeliane, in alcune l'indirizzo non è chiaro, sono smistate ad un reparto speciale. «Qualche lettera l'abbiamo aperta e letta per individuare l'indirizzo e spedirla lì», ha dichiarato un'impiegata. «Di solito si tratta di persone in difficoltà che chiedono salute, soldi o amore, oppure confessano diversi peccati.»
«Quando arriva una lettera a Dio per raccomandata, abbiamo qualche problema», scherza un collega.

( Israelnetz Nachrichten, 16 giugno 2005)





2. DATTERO DELLA GIUDEA, GERMOGLIA SEME DI 2000 ANNI FA




TEL AVIV - Dopo duemila di anni di letargo il seme di una palma da dattero molto diffusa in Palestina all' epoca dei romani, poi estintasi, e' tornato a germogliare in un laboratorio del Neghev dopo essere stato stimolato da scienziati israeliani.
La rara piantina - chiamata affettuosamente 'Matusalemme', in omaggio al personaggio biblico vissuto mille anni - ha raggiunto l'altezza di 30 centimetri. Ancora non e' noto se dara' mai frutti, ne' se resistera' all'impatto con l'ambiente biologico del XXI secolo.
Ma l'interesse internazionale e' stato immediato: anche perche' le sue foglie potrebbero racchiudere doti terapeutiche, ben note del resto agli scienziati di quel tempo. I datteri e le foglie della palma della Giudea erano utilizzati per curare infezioni, per combattere la malaria e tumori, per accrescere la longevita', per rendere piu' levigata la pelle, e anche come afrodisiaco. Una prima foglia della piantina e' gia' stata inviata in un laboratorio, per approfonditi esami del Dna.

FORTEZZA MASSADA, 73 d.C. - La vicenda del seme e' legata al celebre assedio della fortezza di re Erode a Massada (a strapiombo sul mar Morto) da parte dei legionari di Flavio Silva, nel 73 d.C. Entro le mura si erano rifugiati centinaia di ribelli ebrei (Sicarii), guidati da un religioso di nome Eleazar. Preferendo la morte alla schiavitu', compirono infine un suicidio di massa.
Testimone di quegli eventi, lo storico di origine ebraica Giuseppe Flavio nota che nella fortezza c'erano magazzini colmi di quantita' di grano ''sufficienti ad anni di assedio'', nonche' ampi serbatoi di acqua fresca, di vino, e di olio. Grazie al clima asciutto del deserto ''il livello di preservazione di questi prodotti e' perfetto'', nota sbalordito nel libro 'Le guerre degli ebrei'. Nel lato settentrionale della fortezza - spiega lo storico - c'erano una dozzina di lunghi magazzini. La' si trovavano, fra le altre provviste, grandi quantita' di datteri.

SEMI IN LABORATORIO - Per 30 anni - spiega il quotidiano Yediot Ahronot - alcuni noccioli di datteri, assieme con semi diversi recuperati da archeologi fra i resti di Massada, hanno giaciuto nell' universita' Bar Ilan (Tel Aviv), assieme con gli altri reperti archeologi dell'epoca. Nessuno aveva pensato che potessero essere di interesse particolare.
A guardarli con nuovo interesse e' stata la ricercatrice Sarah Sallon, una studiosa di medicina naturale interessata alla composizione di antichi medicinali in Medio Oriente e in Estremo Oriente. ''Le medicine del passato - ha detto alla stampa - potrebbero rivelarsi le medicine del futuro''.
In questo spirito ha esaminato il Dna dei semi di Massada. Poi ha compiuto un esperimento che sembrava una 'missione impossibile': risvegliare quei semi, vecchi di 1940-2040 anni.
Nel villaggio agricolo di Ketora (Neghev orientale) sono state create in laboratorio le condizioni necessarie e a gennaio l' operazione e' iniziata. Dei semi sottoposti al test, solo uno ha germogliato. Abbastanza per scatenare l'entusiasmo degli scienziati che sperano si tratti di una pianta femminile, in grado cioe' di produrre frutti. Nel migliore dei casi, avvertono gli scienziati, i primi datteri della Giudea - gia' degustati dai legionari romani - potranno essere assaporati fra 30 anni.

(Ansa, 14 giugno 2005)





3. L'ISLAM STA ANDANDO VERSO LA DEMOCRAZIA?




La strana metamorfosi dei partiti islamisti.
Ieri estremisti, oggi moderati da accettare


In molti casi senza di loro è impossibile governare. Ma Egitto e Siria tengono duro

di Paola Caridi

Saad Eddin Ibrahim se n’è accorto da un bel po’ di tempo. L’esclusione dei Fratelli musulmani dall’agone politico egiziano vanificherebbe qualsiasi tentativo di riforma democratica. È lui stesso, il campione del liberalismo sulle rive del Nilo, a ripeterlo nei commenti che sempre più spesso compaiono sulla stampa che conta negli Usa. «Da sociologo - ha scritto recentemente -, ho studiato la materia per 30 anni. Da detenuto in una prigione egiziana, ne ho discusso con i miei compagni di carcere, molti dei quali imprigionati perché sostenitori del movimento islamista egiziano. La mia conclusione? I partiti islamisti stanno cambiando».
     Ibrahim, in galera, ci ha trascorso un anno e mezzo - tra 2000 e 2002 - prima di venire rimesso in libertà anche grazie alla campagna politica e mediatica organizzata per sostenerlo. Lo accusavano di aver ricevuto illecitamente fondi (dall’Unione europea). Ma probabilmente i monitoraggi sulle passate elezioni politiche, compiuti attraverso il suo centro di ricerche Ibn Khaldoun del Cairo, non avevano fatto molto piacere. La prigione, comunque, ha consentito a uno dei più importanti (e influenti) sociologi egiziani di affrontare la questione dei Fratelli musulmani da un diverso punto di osservazione. Discutendone con un target decisamente diverso, ma allo stesso tempo molto influente. E cioè i detenuti islamisti, di cui le galere egiziane erano già piene quando ci si trovava anche Ibrahim. E ancor di più lo sono oggi, dopo le retate che tra aprile e maggio hanno portato almeno altri 800 militanti dietro le sbarre. Compreso uno dei leader più pragmatici, Essam el Arian, un dirigente che la Fratellanza avrebbe addirittura potuto indicare come proprio candidato nelle elezioni presidenziali.
     La conclusione di Ibrahim è la stessa che hanno tirato altri intellettuali arabi. In Egitto, anzitutto. Ma anche in Siria, per esempio, dove l’opposizione sta cercando di spingere per una riforma politica che tolga la spada di Damocle della pena di morte su chiunque professi di far parte, per esempio, dell’Ikhwan, dei Fratelli musulmani. O in Palestina, dove i tentativi di coinvolgere un movimento irraggiato e profondamente inserito nella società com’è Hamas (diretta filiazione della Fratellanza egiziana) stanno aprendo brecce persino dentro l’amministrazione americana e dentro il coté israeliano: perché senza Hamas è difficile, se non impossibile, costruire una nuova società politica tra Ramallah e Gaza.
     Cosa sta succedendo? Perché i movimenti islamisti “rischiano” di essere accettati nelle visioni strategiche degli intellettuali che contano, e di conseguenza di numerose cancellerie? Intanto, molto pragmaticamente, i movimenti islamisti non solo esistono, non solo non sono stati sconfitti. Ma guadagnano terreno. E in più qualcuno ha fatto sommessamente rilevare che il loro ingresso in politica, per esempio nel caso ormai classico della Giordania o in quello a latere della Turchia, non ha provocato un sovvertimento istituzionale. Anzi. Nessuna deriva di tipo iraniano, per ora, si allunga all’orizzonte. Semmai, quello che si sta notando è che - come diceva Ibrahim - i partiti islamisti «stanno cambiando». O meglio, una nuova generazione di islamisti si appalesa sulla scena politica. Più abituati a discutere con i propri avversari. Più pragmatici.
     Gli islamisti moderati, come ora vengono definiti tutti i movimenti nazionali che in un modo o in un altro si richiamano alla tradizione dei Fratelli musulmani, hanno insomma sviluppato nel proprio seno un settore disposto a parlare di griglie democratiche. L’ammorbidimento delle posizioni, però, non tocca l’altro attore di questa diatriba. E cioè alcuni regimi arabi come Egitto e Siria, ancora una volta simili (come lo furono nella loro storia recente) nella delicata gestione delle riforme politiche. Né al Cairo né a Damasco si è disposti a cedere terreno sulla questione degli islamisti. In Egitto, a finire in galera è, caso esemplare, Essam el Arian, uno dei dirigenti più noti per il pragmatismo e per la sua capacità di parlare con i laici. In Siria, finiscono in prigione gli oppositori che, nelle ultime settimane, si erano fatti portavoce di un documento dell’Ikhwan siriana in esilio. Come dire, nessuno sconto agli islamisti, e soprattutto a quelli pragmatici. Come se fosse d’un tratto apparso evidente che proprio i più moderati, nella Fratellanza, potrebbero rappresentare il vero pericolo per la stabilità degli attuali regimi.

(Il Riformista, 7 giugno 2005)


COMMENTO - Anche Hitler e il suo movimento nazionalsocialista a un certo momento della loro storia «sono cambiati», convertendosi da forme violente di lotta a una «pragmatica» lunga marcia attraverso le istituzioni democratiche. In fondo, il nazismo che è andato al potere è quello «moderato» del 1932, non quello «putschista» del 1923. Nazismo e islamismo radicale sono ideologie di guerra (jihad): loro sacro dovere è la conquista del potere con tutti i mezzi possibili al fine di esercitarlo secondo i canoni della loro ideologia, non certo secondo quelli della democrazia, da loro intimamente e fondamentalmente disprezzata. Che alcuni «pragmatici» islamisti abbiano capito che in uno stato moderno non si può andare al potere solo attraverso attentati e guerriglia, ma che bisogna anche saper «dialogare» con i propri avversari per ottenere alla fine i propri scopi, non è affatto rassicurante. M.C.





4. PROBLEMI DI UN ISLAMICO LAICO IN ITALIA




Intervista a Magdi Allam: “Sotto scorta per colpa dei convertiti italiani”

di Dimitri Buffa

“Il mio caso è emblematico: io sono un islamico per bene, laico, che accetta le leggi dello stato italiano di cui è cittadino da anni e che oggi è costretto a vivere sotto scorta per colpa delle minacce non di Osama bin Laden ma delle quinte colonne dell’estremismo e del terrorismo islamico di casa nostra: cittadini italiani convertiti che hanno fatto del proprio essere musulmani una sorta di professione”.
Parlare con Magdi Allam, vivere per un’oretta la sua vita, pranzare con lui, in un ristorante (di cui si tace ovviamente il nome) circondato da cinque robusti carabinieri che lo seguono in ogni suo movimento da due anni, da quando i fratelli musulmani gliel’hanno giurata per via di quello che scriveva prima su “Repubblica” e poi sul “Corriere della sera”, può essere molto istruttivo per chi ancora non si è fatto un’idea precisa di quali pericoli può rappresentare l’estremismo islamico nel nostro paese. Essere stato minacciato da questi signori che altrove nel mondo si chiamano Hamas, hanno un braccio armato e già nel 1981 uccisero il loro ex confratello Anwar el Sadat, presidente egiziano, ferendo gravemente anche il suo successore tuttora in carica, Horsni Mubarak, per la sola colpa di avere firmato la pace con Israele, non è cosa da prendere sotto gamba. Specie quando i basisti in Italia sono convertiti nostrani all’Islam, gente che ha abbracciato questa fede o per fare un matrimonio misto oppure per alimentare un proprio piccolo centro di potere facendosi chiamare Imam (ricordate quello di Carmagnola?) e affittando appartamenti che vengono elevate al grado di “moschee”. In Italia infatti l’estremismo islamico non è alimentato, si badi bene, solo da cittadini extra comunitari che hanno scambiato il nostro paese per un terreno di conquista religioso, quanto piuttosto dai loro complici italiani che hanno fatto un mestiere della propria nuova religione e che cercano e spesso ottengono visibilità mediatica e un po’ di potere da esercitare su altri loro confratelli decisamente sprovveduti. I fratelli musulmani per chi non lo sapesse esistono anche qui da noi. Ce li hanno portati quelli dell’Ucoii, un’organizzazione islamista che raggruppa tutte le moschee e gli imam fai da te del Nord Italia. A parole dicono di cercare il dialogo e Pisanu una volta ha persino mandato loro un telegramma di apprezzamento durante un congresso. Nei fatti invece di cercare l’integrazione nelle leggi dello stato, come ci assicura Magdi Allam in questa intervista, agiscono secondo la tattica inventata dai discepoli di Hassan al Banna oltre 50 anni orsono: creare uno stato teocratico all’interno di quello laico e democratico che li ospita. Ci sono riusciti in Egitto, dove peraltro la democrazia non esiste e non è mai esistita sinora, ci sono riusciti in Francia, Olanda e Inghilterra dove le comunità che fanno riferimento a loro vivono come in un mondo a parte dove spesso non entra pure la polizia. Ci riusciranno in Italia, assicura Allam, se continueremo a guardarli in questa distorta ottica di relativismo culturale mista alle pretese politically correct che ha portato alcuni nostri sedicenti intellettuali ad arrivare a “capire” se non a “giustificare” un po’ tutto: dai kamikaze che si fanno esplodere in Iraq e in Israele all’escissione genitale femminile. “Così – dice Magdi Allam di cui è da poco nelle librerie l’imperdibile “Vincere la paura “ (Mondadori) – ci facciamo del male da soli e nuociamo anche ai musulmani veri, quelli che lo sono per nascita e non per conversione di convenienza o per professione”.

Allam, nel suo libro viene ricordato un Egitto laico, ai tempi in cui lei ci viveva ancora, anche se governato da un tiranno come Nasser, e vengono rimpianti i tempi in cui le persone andavano al cinema e i giovani vivevano più o meno come in Europa negli anni ’60 (sesso, droga e rock ‘n’ roll, ndr) mentre oggi non si vedono che donne velate. Come è potuto accadere tutto questo in soli 20 anni?
Va precisato che Nasser era un dittatore sanguinario e che la sua idea panaraba ha portato la nazione letteralmente alla rovina. Prima delle guerre in cui ci ha impantanato, a cominciare da quelle rovinose contro Israele nel 1967 e nel 1973, senza dimenticare il conflitto in Yemen contro l’Arabia Saudita, l’Egitto esportava metà della sua produzione agricola, oggi importa l’80% delle materie prime e dei beni di prima necessità dall’estero. Ricordo, e ne parlo anche nel libro, che dopo il tragico epilogo della guerra dei sei giorni nei negozi di alimentari si vedevano solo scaffali vuoti, tranne qualche marmellata che veniva dalla Bulgaria. Nasser però fu un laico e finchè visse lui l’Egitto non cadde in mano agli integralisti. Tutto cambiò con Sadat, che era stato affiliato alla setta dei Fratelli mussulmani e che lasciò loro via libera per l’occupazione dell’educazione dei giovani nelle scuole e nell’università.. fu appunto in quel tempo che decisi di finire i miei studi in Italia perché in quel paese era chiaro che la libertà sarebbe stata la prima cosa a mancare per tutti e a me mancava da quando ero piccolo.”

Sadat lasciò fare i fratelli mussulmani e costoro lo uccisero. Poi anche Mubarak ha seguito questa politica suicida e i risultati sono quelli che descrive lei nel libro. Una specie di avvertimento di quello che avverrà in Europa se continueremo a far finta di niente?
Io sono sicuro di questo. Il relativismo culturale e morale che non ha impedito alla fratellanza mussulmana di occupare la vita sociale dell’Egitto e anche di altri paesi arabi è lo stesso che permette in Italia e in Europa il formarsi di veri e propri mini stati teocratici all’interno dei nostri stati di diritto. E questo non può essere più tollerato. Mubarak che si salvò per miracolo nello stesso attentato in cui morì Sadat (lui gli stava accanto nella qualità di vicepresidente in quella parata militare quando alcuni uomini dell’esercito spararono sul palco presidenziale, ndr) non si riprese mai da quello shock e continuò nell’errore del suo predecessore: lasciare mano libera ai religiosi che predicavano l’odio verso l’occidente e Israele e che puntavano e tuttora puntano a prendersi lo stato laico con un colpo di stato.”

E in Italia si potrà mai avere il riconoscimento dell’Islam come è avvenuto per le altre religioni?
Si, a patto che si tratti di un islam italiano, con imam che parlano la nostra lingua e accettano le leggi dello stato e non predicano la violenza né arruolano kamikaze in improvvisate moschee. Finchè non si chiuderanno tutte quelle moschee che fungono da covi eversivi riconoscere questi interlocutori è impensabile. Questa è gente pericolosa che non rappresenta nessuno che non è imam di nulla e che fa del proprio essere mussulmano una sorta di professione o di strumento di promozione sociale. Senza contare che in Italia solo il 5% dei musulmani frequenta la moschea, esattamente come tra i cristiani non sono molti quelli che vanno a messa tutte le domeniche.

Lei, anche in un libro precedente, ha sostenuto che il vero pericolo in Italia e in Europa sono questi convertiti che entrano a far parte a vario titolo nell’esercito di Bin Laden. Il problema esiste anche qui da noi?
Nel libro ricordo oltre ai 40 arruolati in Italia che si sono fatti saltare in aria

prosegue ->
in Iraq anche il semplice fatto della mia disavventura personale: io sono un musulmano perbene, italiano di cittadinanza ma nato in Egitto, e vivo sotto scorta per le minacce di estremisti islamici italiani, convertiti magari per motivi di matrimoni misti o per convenienza, che fanno da quinte colonne ad altri estremisti islamici dentro e fuori del nostro amato paese.
Le minacce alla mia persona che costringono lo stato di cui sono cittadino a pagarmi una scorta per 24 ore su 24 provengono da altri cittadini italiani che hanno trovato nel fanatismo religioso islamico quel terreno franco per le loro idee sovversive, che magari prima di scoprire l’islam erano incanalate nel terrorismo di destra o di sinistra.
Non combattere ciò e trovare normale che io debba vivere questa situazione paradossale fa parte di quel relativismo etico che sta facendo cadere l’Europa in mano degli stessi assassini che hanno ucciso Theo Van Gogh in Olanda.
Da noi fatti gravissimi sono già accaduti ma la legge e l’ideologia di certi giudici nemmeno permettono di combattere chi arruola i kamikaze. Anzi qualcuno li osa chiamare con il nome di resistenti.

(L'Opinione.it, 14 giugno 2005)

* * *

Magdi Allam, le minacce di Hamas

di Dimitri Buffa

La minaccia terroristica che tiene Magdi Allam inchiodato a cinque carabinieri che lo circondano ogni giorno che Dio manda in terra è ben più pesante dell’ostilità e del “quintocolonnismo” di alcuni convertiti italiani fiancheggiatori di organizzazioni estremiste islamiche.
Quella minaccia che da due anni ha cambiato la vita di un grande e valoroso collega (oltre che coraggioso) in realtà si chiama Hamas ed è stato lo stesso Allam a pregarci di precisarlo. Anzi si dovrebbe parlare di rettifica rispetto al testo della lunga intervista uscita sabato. Già perché, per un disguido di correzioni che non sono state registrate in pagina, un intero passaggio esplicativo in materia è saltato. Ed era un passaggio importante.
Infatti appare molto riduttivo, da una parte, e sopravvalutato, dall’altra, il ruolo di questi convertiti italiani all’Islam, che per lo più lo sono all’acqua di rose. Generalmente perché hanno dovuto accettare di fare questo cambio di religione per sposarsi una donna musulmana o un uomo. Certo molti di loro in Italia sono poco raccomandabili e nel libro di Magdi sono indicati per nome e per cognome. Tanto dovevamo alla verità e all’autore del libro, cioè allo stesso Allam.

(L'Opinione.it, 16 giugno 2005)





5. IL PROGETTO RAZZISTA DEL FASCISMO




Il Duce antisemita

Gli ultimi studi sul regime hanno messo a fuoco il razzismo verso ebrei e neri di Mussolini: prima di Hitler e delle leggi razziali

di Giorgio Fabre

Negli ultimi anni, alcuni studi hanno notevolmente modificato la storiografia mussoliniana e fascista. In pratica grazie a questi studi è stato retrodatato, e di parecchio, l'avvio delle intenzioni razziste di Mussolini e in particolare delle sue concrete decisioni antisemite. Si è così giunti a individuare le prime iniziative razziste esplicite del duce contro gli ebrei, italiani e non - ma anche a favore di un razzismo antinero - agli inizi degli anni Trenta.
     Da quanto sta emergendo, Mussolini e il fascismo, a modo loro, sul piano razzista provarono a essere concorrenziali rispetto al nazismo, che in quella fase saliva al potere e s'imponeva in Europa. Si è delineato in sostanza un fascismo italiano che - tra il 1932 e il 1934 - tentava di indicare a Hitler e al mondo una propria via razzista, probabilmente molto più politica e meno urlata di quella nazista. Rispetto alle tesi che negano addirittura l'esistenza di un razzismo mussoliniano o sostengono invece che Mussolini avrebbe imparato da Hitler, si è delineata una realtà completamente diversa, molto articolata e ricca di sfumature. Il razzismo mussoliniano preesisteva alla salita al potere di Hitler. In modo autonomo, aveva trovato sue soluzioni persecutorie. Quando poi il nazismo conobbe una forte crescita politica, il razzismo mussoliniano ebbe un impulso nuovo: ovvero indurì le proprie posizioni e allo stesso tempo, acquistò una prospettiva più ampia.
     In altre parole, l'ascesa prodigiosa di Hitler, razzista integrale, incrociò un Mussolini che elaborava un complesso accordo internazionale, il Patto a Quattro, in cui si prospettava un'Europa bianca, ricompattata e aggressiva (e in effetti l'Italia finì, di lì a poco, per essere l'unico Paese che in quel periodo invase una nazione africana). Allo stesso tempo, Mussolini mise a punto una severa azione razzista e antisemita interna: in gran parte segreta (ma non del tutto), cautissima, ma anche piuttosto chiara e non priva di minacciosità più estese. In base a quest'azione, nel giro di qualche anno l'Italia si sarebbe dovuta presentare al resto dell'Europa senza ebrei nei posti di comando.
     Naturalmente non si trattò di un progetto preordinato, lineare e ben definito dal principio: ogni passaggio successivo potrebbe essere stato il frutto del precedente, ma anche di altri fattori, in una sequenza non prevedibile (e talvolta difficile da capire). Però Mussolini partiva da un pensiero di fondo elaborato molto per tempo. E ci fu una grandissima coerenza tra quel prima e il suo successivo e più noto razzismo, a proposito sia dell'idea di razza sia di quelle relative agli ebrei.
     Ma ci sono altre conseguenze ancora. Se finora la storia del razzismo fascista era stata ricostruita soprattutto a partire dalla guerra d'Etiopia o dal fatidico 1938, e in riferimento alla normativa specifica contro gli ebrei e i neri, ora andrà indagata in varie altre direzioni. Di qui insomma può prendere forma un'impostazione di studio più aperta e duttile e poi nuove vere e proprie linee di ricerca, e persino una nuova idea di cronologia del fascismo.
     Innanzitutto, si dovrà iniziare a studiare come si è formata in Italia una mentalità pubblica nazionale razzista tra gli anni Venti e Trenta: perché il fascismo ebbe indubbiamente una base razzistico-discriminatoria. Poi andranno studiati gli atteggiamenti e le decisioni fasciste e di governo relativi alle minoranze interne che, in una fase di complessa definizione del concetto di minoranza, avevano un fortissimo connotato razziale. Ancora: occorrerà ripercorrere i rapporti internazionali su questo punto, e non solo tra l'Italia e gli altri Paesi, ma tra il Partito fascista e altri partiti stranieri e forse, in senso più generale, tra razzismo fascista e razzismo in altri Paesi. La netta impressione che ormai emerge è che il fascismo, a proposito di razza, negli anni Venti abbia dato lezioni a tutta l'Europa e non solo ai nazisti bavaresi; e che abbia tentato di continuare a farlo, seppur con minor fortuna, anche negli anni Trenta. Che insomma sia stato a modo suo una guida politica di razzismo per quel continente che di lì a poco si sarebbe ricoperto del sangue delle razze «diverse».
     Ci sarà poi ancora da lavorare su Mussolini. Si dovrà ad esempio capire quando e come si affacciò davvero nella sua mente e nelle sue azioni il problema del razzismo antinero. Finora l'unica certezza in proposito è che per quanto riguarda il razzismo in colonia, Mussolini contribuì a emanare la legge organica per l'Eritrea e la Somalia del luglio 1933, che pose dei limiti ai requisiti che doveva possedere un «meticcio» per ottenere la cittadinanza italiana: ma, come si vedrà, si trattava di una legge non del tutto innovativa e che era un esito diretto di quelle dell'Italia liberale. Invece, per quanto riguarda il razzismo metropolitano, nell'aprile 1934 il duce si esibì in un'eclatante azione di censura letteraria contro un romanzetto che parlava di un rapporto tra una donna bianca e un uomo nero e proprio per difendere la «dignità» della razza italiana. Si avvicinava la conquista d'Etiopia e questo ne era un annuncio. Ma non è detto che il problema del razzismo antinero non fosse stato da lui affrontato anche in precedenza.
     Cruciale invece, da subito, fu il suo antisemitismo e l'azione esplicita contro gli ebrei. Gli ultimi atti e gesti antisemiti sicuri del giovane Mussolini sono della metà del 1923. I primi atti concreti e ostili sono dell'inizio 1929, ma si intravedono elaborazioni e pensieri precedenti di diversi mesi. Le prime decisioni operativamente antisemite e in parte pubbliche che si conoscono risalgono al 1932-1933. Una certa continuità viene stabilita. Si trattava di una forma mentis, ma via via divenne continuità di scelte: caute, guardinghe, «politiche»; progressivamente sempre più dure e applicative. Fino alle vere e proprie «leggi razziali», di cui Mussolini fu direttamente responsabile e ispiratore anche in vari dettagli.

(Avvenire, 12 giugno 2005)





6. PALESTINESI CONTRO IL RITIRO DA GAZA




Un redattore di "israel heute", mensile in lingua tedesca stampato a Gerusalemme, ha parlato nei giorni scorsi con alcuni lavoratori palestinesi in Gush Katif sul piano di sgombero israeliano

Non sono soltanto i coloni ebrei di Gush Katif a temere il ritiro israeliano dalla striscia di Gasa, ma anche i loro lavoratori palestinesi. Più di 3.000 palestinesi che lavorano ogni giorno nelle piantagioni israeliane pregano Allah di impedire a tutti i costi il piano di ritiro di Ariel Sharon. «Se gli ebrei lasciano la striscia di Gaza, io perdo il mio posto di lavoro», dice a "israel heute" Dscherbil (34 anni) di Chan Yunis, nel sud della striscia di Gaza. «Da più di 12 anni lavoro nelle piantagioni israeliane, dirigo più di 30 operai. Dal mio datore di lavoro israeliano ricevo 20 euro al giorno, tre volte di più di quello che riceverei da un datore di lavoro palestinese in Gaza.» Dschebril e i suoi colleghi di lavoro ci comunicano quanto è depresso lo stato d'animo tra i lavoratori palestinesi alla vigilia dello sgombero.
     Molti di loro lavorano già da molti anni negli insediamenti ebraici che dovranno essere evacuati nei prossimi due mesi. «Quando i coloni ebraici perderanno le loro case, noi perderemo il nostro posto di lavoro», ci confida Mohammed (30 anni), che abita non lontano dal suo amico e collega di lavoro Dschebril. «Sono cresciuto in queste piantagioni e non posso immaginarmi una vita senza il mio lavoro. In Gaza non c'è lavoro e se veramente le case e le piantagioni non verranno distrutte dopo il ritiro, è garantito che noi non riceveremo niente. Andrà a finire tutto sotto le grinfie della direzione dell'OLP», spiega Mohammed.
     Mohammed, Dschebril, Adel e altri palestinesi che da anni possono testimoniare di una pacifica collaborazione con i coloni ebrei, hanno perso fiducia nella direzione palestinese e israeliana. Contro il fatto che la direzione palestinese è corrotta, non possono farci niente. Della situazione di crisi in cui si trova oggi la popolazione palestinese, attribuiscono tutti la responsabilità a Israele. «Se Israele non avesse fatto accordi con il defunto Rais, Führer Yasser Arafat, la nostra sofferenza non sarebbe stata così grande», dichiara Adel, che ha lavorato quasi 20 anni nell'agricoltura ebraica in Gush Katif. «Ebrei e arabi possono vivere insieme; ci ricordiamo tutti degli anni '70 e '80, fino allo scoppio della prima intifada nel 1987. La direzione OLP di Tunisi ci succhia il sangue e la popolazione è delusa di lei.»
     Poiché la direzione dell'OLP è così corrotta, il popolo cerca un rifugio alternativo e per la frustrazione cade nelle spire di Hamas. «Invece di parlare con il popolo, avete trattato con un uomo di nome Arafat che ha mandato tutto in rovina», dice Dschebril. «Oggi l'OLP paga fino a 200 euro se si vota lui e non Hamas. Ma adesso nessuno si fida più dell'OLP. Dove sono tutti i soldi che la direzione dell'OLP ha ricevuto negli ultimi 10 anni da USA, Europa, Giappone e Cina per lo sviluppo dell'Autonomia? E' sparito tutto nelle casse dell'OLP a Tel Aviv.»
     Per i lavoratori agricoli palestinesi nella enklave ebraica Gush Katif soltanto un miracolo può impedire l'evacuazione degli insediamenti ebraici. «Non appena i miei datori di lavoro ebrei saranno evacuati, i miei figli ed io mangeremo la polvere», dice Mohammed, che incolpa Ariel Sharon per il furto del suo lavoro e del suo stipendio mensile. Di una cosa sono sicuri tutti e tre i palestinesi: il piano di ritiro di Sharon non cambierà in meglio la vita dalla parte israeliana e da quella palestinese. Adesso i coloni e i palestinesi sperano in un miracolo, perché tutti dipendono dal successo dell'agricoltura in Gush Katif, nella striscia di Gaza. «Ci completiamo a vicenda, il mio datore di lavoro ebreo ha bisogno di me nella sua piantagione e io ho bisogno di lui nella striscia di Gaza», ci dichiara Adel sorridendo, ma con voce triste. A.S.
    
("israel heute" nr 322)





7. PAURE COLLEGATE AL PROGRAMMA DI DISIMPEGNO




Su Israele l’ombra della terza Intifada

di Stefano Magni

“Il futuro ritiro è un coltello a due lame puntato al basso ventre di Israele. Qualsiasi cosa accada, non sembra che vi sia fine al lancio di razzi Qassam, che vi sia o meno il disimpegno”. Così scrive al quotidiano Haaretz un lettore di Bat Chefer. Un altro lettore precisa che: “La recente dichiarazione di Abu Mazen che i Palestinesi non rinunceranno al “diritto al ritorno” è un chiaro segnale che la soluzione dei due popoli in due Stati, per ora non è percorribile. D’altra parte non c’è nulla, nelle azioni e nei fatti dei Palestinesi, che possa suggerire il contrario”. E non sono casi isolati. Nonostante, il 9 giugno scorso, la Corte Suprema israeliana abbia respinto il ricorso dei coloni e sancito la piena legalità del piano di disimpegno dalle colonie di Gaza, stando al sondaggio effettuato dal centro di ricerca Maagar Muhot, meno del 50% degli Israeliani è d’accordo con il programma di disimpegno. Il sostegno popolare al piano di Sharon è crollato rispetto all’abbondante 70% dell’anno scorso. Sebbene risultati del sondaggio non siano certi, Sharon rimane ottimista e non ha intenzione di rinunciare al suo piano di disimpegno. È comprensibile, però, che si sia diffuso un certo malcontento, non solo tra i coloni che dovranno lasciare le loro case.
     Fra questi ultimi la disperazione è palpabile: prova ne è il tentato suicidio per protesta di due coloni, che volevano darsi fuoco sulla loro auto e le ripetute minacce alla vita del premier Sharon. I coloni alzano il tono e qualcuno inizia a volte anche ad adottare la tattica del suicidio-omicidio, anche se finora non è mai avvenuto nulla di simile. Ma a parte i coloni, è comprensibile il malcontento anche nel resto di Israele, per una ragione di fondo: i palestinesi non rinunciano alla violenza, nonostante Abu Mazen e nonostante le prime elezioni. Hamas ha già annunciato di non voler deporre le armi: il nuovo leader politico, Khaled Mashaal lo ha dichiarato pubblicamente alla fine di maggio. E i fatti lo dimostrano: una pioggia di razzi Qassam si è abbattuta sugli insediamenti israeliani nei dintorni di Gaza e sulle cittadine meridionali in territorio israeliano, tanto che il capo del Consiglio di Sicurezza Giora Eiland ha dichiarato che l’esercito israeliano deve essere pronto a rioccupare, se necessario, i centri abitati palestinesi a ridosso degli insediamenti.
     La paura è che il disimpegno, già di per sé difficile, venga ostacolato da una pioggia di razzi e granate. L’incapacità delle forze di sicurezza palestinesi di mantenere il controllo del territorio di Gaza è dimostrata anche dalla crescita di violenza fra i palestinesi. La città, una delle aree più densamente popolate nel mondo, è in balia delle bande armate già da settimane. L’ultimo episodio di violenza è l’assalto (condotto anche con armi pesanti) contro il quartier generale della Sicurezza Preventiva. Ma solo dall’inizio di giugno si sono registrati molti altri gravi episodi di violenza, motivati da regolamenti di conti e faide: venerdì 3 l’alto funzionario Ali Faraj è stato assassinato assieme a suo fratello, molto probabilmente per una vendetta politica e familiare; lo stesso giorno, uomini armati di Al Fatah si sono scontrati con reparti della polizia e la sparatoria si è conclusa solo in seguito ad una difficile mediazione. Il giorno successivo, un diplomatico palestinese è stato sequestrato dai “Falchi” di Al Fatah al confine con l’Egitto. Estremisti e bande armate, insomma, imperversano nella città. Per lanciare un segnale forte, Abu Mazen ha ricominciato ad eseguire sentenze capitali, a partire dall’impiccagione di tre prigionieri e dalla fucilazione di un quarto, tutti condannati a morte per omicidio anni fa.
     Ma il pieno ripristino della pena capitale fa temere il peggio, perché tra i condannati ci sono ancora prigionieri che sono stati processati in modo sommario, anche con accuse di tipo politico. In questo scenario da incubo, è comprensibile che tutti abbiano letto, con attenzione e apprensione, quanto dichiarato dal capo di Stato Maggiore uscente, Moshe Yaalon, il quale teme che il disimpegno da Gaza non possa far altro che estendere il conflitto al resto di Israele: “Tel Aviv e Gerusalemme saranno come Sderot. Faranno attentati suicidi ovunque potranno. È altamente probabile che vi sia una seconda guerra terroristica (…) L’idea che possa esservi uno Stato palestinese entro il 2008 è semplicemente avulsa dalla realtà e pericolosa. Un tale Stato si adopererebbe per minare lo Stato di Israele e prima o poi vi sarebbe una guerra, una guerra che potrebbe essere pericolosa per Israele”. Cioè una terza Intifada, forse ancora peggiore rispetto alla seconda. E d’altra parte, al primo processo di pace e al ritiro dal Libano meridionale, la guerriglia palestinese aveva risposto lanciando la seconda Intifada. Perché escludere che al ritiro da Gaza segua una terza Intifada?
 
(ideazione.com, 15 giugno 2005)




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