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Notizie su Israele 365 - 26 ottobre 2006

1. Parla il padre di un militare israeliano rapito
2. Insicurezza araba
3. Per rispetto e per prudenza
4. L'essenza della guerra: immagine e pubbliche relazioni
5. Setaccio archeologico
6. Finanza e affari in Israele
7. Libri
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 52.3-6. Così parla il Signore: «Voi siete stati venduti per nulla e sarete riscattati senza denaro». Poiché così parla il Signore, DIO: «Il mio popolo discese già in Egitto per abitarvi; poi l'Assiro lo oppresse senza motivo. Ora che faccio io qui, dice il Signore, quando il mio popolo è stato deportato per nulla?» «Quelli che lo dominano lanciano urli», dice il Signore, «e il mio nome è del continuo, tutti i giorni insultato; perciò il mio popolo conoscerà il mio nome; perciò saprà, in quel giorno che sono; io ho parlato. Eccomi!»
1. PARLA IL PADRE DI UN MILITARE ISRAELIANO RAPITO




A colloquio con Noam Shalit

di Aviel Schneider

Il soldato israelIano Gilad Shalit è stato rapito il 25 giugno scorso in un attacco di terroristi palestinesi ad una base israeliana nella Striscia di Gaza. Israle allora ha reagito con massicce incursioni nella Striscia di Gaza. Pochi giorni dopo Hezbollah ha attirato l'esercito israeliano nel nord con il lancio di razzi katiuscia e ha rapito due altri soldati israeliani. Israele è entrato nella guerra del Libano, che è durata 33 giorni ed è costata la vita a 156 israeliani. Il governo aveva dichiarato che Israele entrava in guerra per liberare i militari rapiti. Adesso la guerra è finita, ma nessuno sa dove si trovano i rapiti e come stanno. Il mensile evangelico "israel heute" ha potuto parlare con Noam Shalit, padre di Gilad.

Noam Shalit - in alto si vede Gilad
israel heute: Più di cento giorni senza Gilad. Ci sono progressi nelle trattative?
Shalit: Niente! In tutto questo tempo non è stato fatto alcun progresso con la parte araba. La nostalgia di Gilad è insopportabile. Dobbiamo viverci, ma è indicibilmente difficile!

israel heute: Ma negli ultimi tre mesi si è parlato più volte dell'imminente liberazione di suo figlio.
Shalit: E' vero, ma purtroppo erano sempre falsi annunci. Tra gli annunci e la realtà c'è una differenza enorme. Le fonti erano soprattutto giornali arabi, che non riferiscono la verità su uno scambio di ostaggi. Dietro le quinte sono in contatto con alcune persone che mi riferiscono onestamente come stanno le cose.

israel heute: Il governo israeliano e lo stato maggiore dell'esercito stanno facendo qualcosa per la liberazione di suo figlio?
Shalit: Stando ai risultati ottenuti fino ad oggi, direi di no. In 107 giorni il governo israeliano non ha fatto abbastanza per portare a casa mio figlio. Ma è proprio per questo che è entrato in guerra.

israel heute: Dov'è l'intoppo nelle trattative diplomatiche?
Shalit: Credo da entrambe le parti, tenendo conto che da parte palestinese nessuno ha l'ultima parola. I diversi gruppi all'interno di Hamas lottano per l'egemonia, e inoltre adesso c'è anche una guerra civile tra Hamas e Fatah. Semplicemente non è possibile trovare un interlocutore nella parte palestinese.

israel heute: Avete ricevuto negli ultimi tempi qualche segno di vita di vostro figlio?
Shalit: No! Nessuno ci ha saputo comunicare qualcosa su come sta nostro figlio e se è ancora in vita.

israel heute: Anche se non so come lei è collocato politicamente, vorrei chiederle come giudica un possibile scambio di ostaggi, tenuto conto che Israele ha sempre proclamato di non voler mai trattare con terroristi.
Shalit: Nella sua storia Israele ha sempre trattato con terroristi e liberato terroristi palestinesi con le mani sporche di sangue ebraico in cambio di israeliani. Nel caso di mio figlio Gilad quindi non sarebbe la prima volta che Israele parla con dei terroristi. Tra le dichiarazioni di fondo di Israele e le sue azioni c'è sicuramente un certo margine, e noi speriamo che Israele porti a casa Gilad il più presto possibile. Io giudico il governo non dalle parole, ma dai fatti.

israel heute: Che cosa avverte dalla parte del popolo?
Shalit: Il popolo d'Israele ci abbraccia con calore e amore. Abbiamo visto tutti come il popolo appoggia le famiglie dei tre soldati israeliani rapiti. Migliaia di persone si sono radunate con noi a settembre, sulla piazza Rabin a Tel Aviv. Anche al governo questo certamente non è rimasto nascosto

israel heute: Come vive, nell'incertezza sulla sorte di Gilad?
Shalit: E' spaventoso. Viviamo in assoluta oscurità. Non sappiamo niente sulla sorte di Gilad. Non vediamo neppure un bagliore di luce alla fine del tunnel. Questo influenza fortemente la nostra vita quotidiana. Non sappiamo semplicemente niente: se è sano, se gli danno abbastanza da mangiare, il suo stato psicologico e così via.

israel heute: E tuttavia la vita continua.
Shalit: Continuiamo a respirare e andiamo al lavoro. Ma Gilad è al centro della nostra vita quotidiana. Come famiglie di soldati rapiti, adesso abbiamo fondato un'associazione per mantenere pubbliche relazioni mondiali.

israel heute: Che cosa vuole comunicare ai nostri lettori?
Shalit: Che vorremmo riabbracciare a casa nostro figlio. La mia famiglia ed io preghiamo tutti di impegnarsi per la liberazione di Gilad e degli altri soldati rapiti. Per favore, fatelo sapere ad altri e pregate per Gilad. Per favore. [ved. foto sul sito internet]

(israel heute, novembre 2006 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



2. INSICUREZZA ARABA




Un muro antiterrorismo nel regno dell’Islam più radicale

di Dimitri Buffa

A partire dai primi di novembre anche l’Arabia Saudita inizierà a costruire la propria barriera anti terrorismo, il “muro”, come lo chiamerebbero i “pacifisti senza se e senza ma” che rimproverano solo ad Israele simili misure di sicurezza. E lo faranno proprio ai confini con l’Iraq da cui temono infiltrazioni di armi, jihadisti e trafficanti di droga. Potenza e contraddizioni del mondo arabo: da una parte a Ryad ci sono migliaia di imam che anche in televisione predicano la guerra santa contro l’occidente e inducono tanti giovani ad arruolarsi nella guerriglia irachena, dall’altra le autorità politiche che cercano di mettere un freno a tutto ciò usando appunto gli stessi, a parole, odiati metodi del “non riconoscibile” stato d’Israele. La notizia della costruzione di questo “muro” lungo circa 814 chilometri è stata recentemente data da Nail al Jubeir, portavoce dell’ambasciata dell’Arabia Saudita a Washington, che è stato anche prodigo di dettagli: la barriera sarà dotata di fotocellule sensibilissime, probabilmente sarà costruita dagli americani e al confine con l’Iraq vigileranno squadre di pronto intervento dislocate in ben 40 basi ai confini con l’Iraq. Confini peraltro difficilmente controllabili al cento per cento visto che sono in pieno deserto. C’è anche da ricordare che analogo “muro” difensivo esiste già tra l’Arabia Saudita e lo Yemen e fu costruito nel 2004 per sigillare l’accordo di pace con quello stato, da sempre in conflitto strisciante con Ryad. Il principe Ahmad bin Abd al Aziz, vice ministro dell’Interno saudita così commenta il progetto con la stampa locale: “I ministri dell’interno saudita e iracheno hanno finalmente raggiunto un accordo che riguarda sforzi congiunti per rendere sicuri i confini tra i due paesi e l’Arabia Saudita di conseguenza sta lavorando per costruire “a fence” (stesso nome usato per il muro anti terrorismo israeliano, ndr) che fornirà sicurezza molto efficace in quelle zone”.
    Lo stesso vice ministro ha anche enfatizzato un po’ ipocritamente che “non si può e non si deve parlare di muro, piuttosto si usi il termine di barriera difensiva, formata da un sistema elettrico di fotocellule e altri congegni molto sensibili al calore”. Frasi che avrebbe potuto dire il quasi compianto Sharon e che suonano involontariamente auto ironiche in bocca a questi raiss arabi che hanno sempre una doppia verità e una doppia morale. Ad esempio in Europa sono in pochi a sapere che lo scorso 20 settembre c’è stata in gran segreto una riunione ai massimi vertici dei ministri dell’Interno di Iraq, Giordania, Kuwait, Arabia Saudita, Iran, Bahrain, Egitto e Turchia. E che l’incontro di tre giorni si è tenuto a Jeddah e aveva per oggetto la mutua cooperazione anti terrorismo per prevenire il passaggio delle armi ai gruppi di Al Qaeda che operano in ciascuno di quegli stati. Si è parlato dell’inaccettabilità di chi usa il nome dell’Islam per fare il terrorismo uccidendo altri musulmani. Si è detto che “è una contraddizione in termini”. Altra cosa però, evidentemente, è quando si uccidono ebrei e cristiani. Basta sentire i sermoni degli imam di questi paesi. Evidentemente il gioco è sfuggito di mano ai dittatori e ai monarchi assoluti dei paesi arabi e adesso si corre ai ripari. È forse questo il famoso Islam moderato?

(L'Opinione.it, 23 ottobre 2006)





3. PER RISPETTO E PER PRUDENZA




Bisogna credere ad Ahmadinejad sulla parola

di Rémi Bragu

Libera opinione comparsa sul sito di "Le Monde"

Come cristiano, partirò da una frase ben conosciuta del Sermone sul Monte. E' fatta per scioccare, e del resto ci riesce: «Amate i vostri nemici» [Matteo 5:44]. Troppo spesso si cade in un fraintendimento e si intende: fate come se non aveste nemici e cullatevi nel sogno di una benevolenza universale, siate convinti che tutti vi amano. E' più confortevole. E questo in fondo vuol dire: immaginatevi di essere degni di essere amati. Il primo modo, il più elementare, di amare il proprio nemico è di rispettarlo. E dunque accettare che sia vostro nemico, ammettere che vi odia. Soltanto dopo che si sarà preso atto dell'inimicizia dell'altro, non senza una certa pena, si potrà eventualmente amarlo. Questo consisterà in un certo modo di trattarlo con umanità, di essere pronti ad accordargli il perdono che chiede, e da parte nostra a modificare quello che in noi potrebbe dargli motivo di odiarci e disprezzarci (e che è proprio degno di essere amato e onorato?) . Ma tutto questo è un esercizio di alta scuola...
    Cominciamo dunque da qualcosa di più modesto: il primo passo nel rispetto dell'avversario è di prenderlo sul serio. E prendere sul serio quello che dice. Fargli l'onore di credere che pensa quello che dice. La Corea del Nord ce l'ha appena dimostrato: il suo capo voleva l'arma atomica, e lo diceva. L'ha ottenuta.
    Non si tratta di mettere sullo stesso piano, senza precauzioni, l'Iran di oggi e la Germania degli anni '30, Ahmadinejad e Hitler. Demonizzare il proprio avversario trattandolo da nazista è una manovra troppo facile e troppo frequente. Non sta a me pronunciarmi sulla natura profonda del regime iraniano.
    Non si tratta neppure di disprezzare un popolo che ha prodotto Avicenna, Razi, Al-Ghazi e tanti altri. Ancor meno di proporre una politica, cosa in cui non ho alcuna competenza. Ma bisogna per lo meno giudicare i dirigenti iraniani sulla base di quello che loro stessi dicono.
    C'è effettivamente un punto sul quale il parallelo con il nazismo può aiutarci: le intenzioni criminali di Hitler erano state formulate, nero su bianco, anni prima della presa del potere, nel "Mein Kampf". In quel tempo, molto pochi erano quelli che l'avevano letto e ancor meno quelli che l'avevano preso sul serio.
    L'attuale presidente dell'Iran dice e ripete pubblicamente quello che vuole: l'uranio aricchito. Dice e ripete pubblicamente quello che si augura: la scomparsa dello Stato d'Israele. Significa dar prova di eccessivi sospetti pensare che le due cose potrebbero avere qualche legame? Che la prima cosa potrebbe servire alla seconda? La negazione della Shoah del passato non potrebbe servire a prepararne la ripetizione nel futuro?
    Troppo spesso le persone "ragionevoli" pensano che questo tipo di considerazioni siano spacconate. Servirebbero soprattutto ad un uso interno, a saldare insieme in un sogno di grandezza e contro una vittima chiaramente designata un popolo stanco di venti anni di dittatura della cricca dei mullah. Sarebbero una manovra all'interno di una negoziazione con l'Occidente in cui, come si sa, bisogna fare la voce grossa, domandare tutto per ottenere qualcosa.
    C'è senza dubbio del vero in tutto questo. Ma fino a dove? Perché anche prima della seconda guerra mondiale si sentivano dire cose di questo genere. "Il cancelliere Hitler si è servito dell'antisemitismo del popolo tedesco per farsi eleggere: una volta al potere, si affretterà a dimenticarsi di questi assurdi slogan..."
    Nessuno può sapere con certezza se Ahmadinejad pensa quello che dice e se lo farà quando potrà. Alcuni vogliono lasciargli il diritto di giocare con l'idea di distruggere uno Stato - con i suoi cittadini. Mi sembra, da parte mia, che sarebbe nello stesso tempo più prudente e più onesto prenderlo sul serio.

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Rémi Brague è professore di filosofia a Parigi I Sorbona. E' uno dei firmatari di un "Appello ai dirigenti europei"

(Le Monde, 23 ottobre 2006 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





4. ESSENZA DELLA GUERRA: IMMAGINE E PUBBLICHE RELAZIONI




Adesso in guerra le parole sono più importanti delle pallottole

di Daniel Pipes

Un tempo, soldati, marinai ed avieri determinavano l'esito della guerra, ma non è più così. Oggi, produttori televisivi, columnist, predicatori e politici svolgono un ruolo fondamentale nel decidere il giusto modo in cui l'Occidente debba combattere. Questo cambiamento ha delle grosse implicazioni.
    In un conflitto convenzionale come la Prima guerra mondiale, i combattimenti si fondarono su due prodromi così elementari da passare pressoché inosservati. Il primo di essi consistette in ciò: le forze armate convenzionali ingaggiarono un'accanita lotta, volta a conseguire la vittoria. Gli avversari dispiegarono file serrate di soldati, file di carri-armati, flotte navali e squadre aeree. Milioni di giovani andarono in guerra, mentre i civili subirono privazioni. Strategia e intelligence furono importanti, ma la densità della popolazione, l'economia e gli arsenali contarono ancora di più. Un osservatore poteva valutare il progresso della guerra tenendo conto di fattori oggettivi come la produttività siderurgica, le scorte petrolifere, la cantieristica navale e il controllo di terra.
    Il secondo prodromo consistette in ciò: la popolazione di ogni parte in guerra appoggiò la sua leadership nazionale. Sicuramente, traditori e dissidenti andavano stanati, ma i governanti godettero di un ampio consenso. Questo in particolar modo in Unione Sovietica, dove perfino le folli uccisioni di massa di Stalin non fermarono la popolazione dal sacrificare la propria vita per la "Madre Russia".
    Entrambi gli aspetti di questo paradigma sono adesso scomparsi in Occidente.
    Innanzitutto, l'idea di combattere accanitamente per ottenere la vittoria contro le forze nemiche convenzionali è pressoché scomparsa, rimpiazzata dalla sfida più indiretta di operazioni di guerriglia, insurrezioni, intifada e atti di terrorismo. Questo nuovo schema è stato applicato ai francesi in Algeria, agli americani in Vietnam e ai sovietici in Afghanistan. Attualmente, esso si applica agli israeliani contro i palestinesi, alle forze di coalizione in Iraq e nella guerra al terrorismo.
    Questo cambiamento implica che ciò che l'esercito americano definisce "la conta del fagiolo"– computare il numero delle armi e dei soldati – è oggi pressoché irrilevante, come lo sono le diagnosi dell'economia o il controllo del territorio. Le guerre asimmetriche sono simili alle operazioni di polizia molto più che le battaglie delle ere precedenti. Come nella lotta al crimine, la parte che gode di una vasta superiorità di forze agisce in base a un'ampia gamma di costrizioni, mentre la parte più debole infrange apertamente leggi e tabù nel perseguire senza scrupoli i propri obiettivi.
    In secondo luogo, la solidarietà e il consenso di una volta non esistono più. Questo processo di disfacimento è in corso da oltre un secolo (a partire dalla posizione assunta dall'opinione pubblica britannica riguardo alla Guerra anglo-boera del 1899-1902). Come scrissi nel 2005: "Il concetto di fedeltà e lealtà è sostanzialmente cambiato. Tradizionalmente, una persona era fedele alla sua comunità d'origine. Uno spagnolo o uno svedese erano devoti al loro monarca, un francese alla sua Repubblica e un americano alla sua Costituzione. Oggi, questo presupposto è obsoleto ed è stato rimpiazzato da un senso di fedeltà ad una società politica, come il socialismo, il progressismo o l'islamismo, tanto per citare alcune opzioni. I legami geografici e sociali rivestono un'importanza minore rispetto a una volta".
    Con i vincoli di fedeltà adesso tirati in ballo, le guerre vengono decise più sulle pagine degli editoriali e in misura minore sul campo di battaglia. Buone argomentazioni, efficace retorica, sagaci presentazioni dei fatti in una luce favorevole a un governo e la guerra di cifre dei sondaggi contano molto più che prendere una collina o attraversare un fiume. Solidarietà, morale, lealtà e comprensione sono le nuove armi. Gli opinion leaders sono le nuove bandiere e i nuovi generali. Perciò, come scrissi nell'agosto 2005, i governi occidentali "devono considerare le public relations come parte integrante della loro strategia".
    Perfino nel caso dell'acquisizione di armi atomiche da parte del regime iraniano, la soluzione è rappresentata dall'opinione pubblica occidentale e non dagli arsenali dell'Occidente. Se uniti, gli europei e gli americani avranno buone probabilità di dissuadere gli iraniani dall'andare avanti con le armi nucleari. Se saranno invece disuniti, gli iraniani si sentiranno incoraggiati a portare a compimento l'impresa.
    Ciò che Carl von Clausewitz definisce "il centro di gravità" della guerra si è spostato dalla forza delle armi ai cuori e alle menti dei cittadini. Gli iraniani accettano le conseguenze delle armi nucleari? Gli iracheni accolgono le truppe della coalizione come dei liberatori? I palestinesi sono disposti a sacrificare le loro vite negli attentati suicidi? Europei e canadesi desiderano avere una credibile forza militare? Gli americani vedono nell'Islamismo un potenziale pericolo?
    Gli strateghi non-occidentali riconoscono la supremazia della politica e si focalizzano su di essa. Una serie di trionfi – in Algeria nel 1962, in Vietnam nel 1975, e in Afghanistan nel 1989 – sono tutti dipesi dall'erosione della volontà politica. Il numero due di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha di recente codificato questa idea, osservando che oltre la metà delle battaglie islamiste "si svolgono sul campo di battaglia dei media".
    L'Occidente è fortunato a predominare nelle arene militari ed economiche, ma esse non sono più sufficienti. Insieme ai suoi nemici, esso deve prestare la dovuta attenzione alle pubbliche relazioni della guerra.

(New York Sun, 17 ottobre 2006 - archivio di Daniel Pipes)






5. SETACCIO ARCHEOLOGICO




Preziosi reperti archeologici fra i detriti del Monte del Tempio

Il progetto di setacciare interi strati di detriti provenienti dal Monte del Tempio (a Gerusalemme) ha portato alla luce migliaia di manufatti finora sconosciuti, risalenti a periodi che spaziano dall’epoca del Primo Tempio fino ai giorni nostri.
    I detriti vennero rimossi nel 1999 ad opera del Waqf (ente del patrimonio islamico) dall’area detta Scuderie di Salomone (al di sotto della Moschea di al-Aqsa) e scaricati nella sottostante Valle di Kidron (fra Monte del Tempio e Monte degli Ulivi).
    Il lavoro di setaccio è stato svolto nel parco nazionale della valle Tzurim, ai piedi del Monte Scopus (sempre a Gerusalemme), grazie ai finanziamenti della Ir David Foundation. Gabriel Barkai e Tzachi Zweig, i due archeologi che hanno realizzato il progetto con l’aiuto di centinaia di volontari, pubblicheranno fotografie e informazioni relative alle nuove scoperte sul numero in uscita fra pochi giorni della rivista d’arte e cultura israeliana Ariel.

prosegue ->
I detriti furono rimossi dal Waqf nel corso dei lavori per aprire la monumentale entrata alla nuova moschea sotterranea costruita sette anni fa sotto il lato sud-orientale della spianata del Monte del Tempio. Il Waqf e il Movimento Islamico israeliano fecero separare i detriti dalle pietre, quindi riutilizzarono gli antichi blocchi da costruzione nel timore che la polizia impedisse di portare all’interno nuovi materiali edilizi.
    Il grosso dei manufatti consiste in piccoli ritrovati, termine usato per indicare manufatti che possono essere sollevati e trasportati anziché essere elementi fissi. La maggior parte dei ritrovati risale a prima del Medio Evo. Tra questi, alcuni utensili vecchi di diecimila anni, numerosi frammenti di vaso, alcune monete di mille anni fa, molti monili (ciondoli, anelli, braccialetti, orecchini e collane in una varietà di colori e materiali), accessori di vestiario, elementi decorativi, talismani, dadi e altri pezzi da gioco fatti in osso e avorio, intarsi per mobili in avorio e madreperla, figurine e statuette, pesi da bilancia in pietra e metallo, punte di freccia e proiettili di fucile, cocci di pietra e di vetro, resti di mosaici murari in pietra e vetro, mattonelle decorate e parti strutturali, marche da bollo, sigilli e una grande quantità di altri oggetti.
    Il progetto di setaccio non ha precedenti: è la prima volta che detriti prelevati da un sito antico vengono passati interamente al setaccio. Tra i molti volontari che hanno collaborato all’impresa si sono visti soldati, turisti, studenti delle scuole superiori, studenti di yeshiva (seminari talmudici).
    Quando i detriti vennero originariamente scaricati dal Waqf nella vallata, l’allora direttore della Israel Antiquities Authority, Amir Drori, definì la cosa “un crimine archeologico”, mentre il procuratore generale del tempo, Elyakim Rubinstein, affermò che era stato dato “un calcio alla storia del popolo ebraico”. Ora emerge che i detriti rimossi in quel modo dal Monte del Tempio nascondevano migliaia di piccoli ritrovati di molti diversi periodi.
    I manufatti più antichi finora trovati sono resti di utensili, come una lama e un raschietto, risalenti a diecimila anni fa. Alcuni cocci e frammenti di vaso in alabastro sono dell’Età del Bronzo, fra III e II millennio a.e.v. (epoca dei Cananei e dei Gebusei). Sono stati trovati solo pochi cocci del X secolo a.e.v. (regni di Davide e Salomone). Numerosi sono invece i manufatti che risalgono a periodi più tardi dei re di Giudea (fra VIII e VII secolo a.e.v.), come pesi di pietra per pesare l’argento.
    Il ritrovato più sorprendente di questo periodo è una bulla, o impronta di sigillo, del Primo Tempio contenente lettere ebraiche, che potrebbe essere appartenuta a una ben nota famiglia sacerdotale menzionata nel Libro di Geremia.
    Molti altri ritrovati risalgono al periodo persiano (ritorno dal primo esilio), ai periodi Asmoneo, Tolemaico ed Erodiano, e all’epoca del Secondo Tempio. Fra questi, resti di costruzioni: cocci di gesso decorati rosso ruggine, che secondo Barkai erano di moda a quell’epoca; una pietra di dieci centimetri con un sofisticato intaglio simile alle decorazioni erodiane; una pietra spezzata proveniente da una parte decorata del Monte del Tempio con evidenti segni di incendio che, secondo Barkai, potrebbero risalire alla distruzione del Secondo Tempio nel 70 e.v.
    Il progetto ha anche restituito manufatti dei periodi romano, bizantino, primo arabo e ottomano. Secondo Barkai, i ritrovati bizantini sono tali da modificare radicalmente la tradizionale convinzione che, a quell’epoca, il Monte del Tempio fosse deserto.

(Ha’aretz, 19 ottobre 2006 - da israele.net)





6. FINANZA E AFFARI IN ISRAELE




Per Morgan Stanley la Borsa di Tel Aviv può ancora crescere

di Sarah Pozzoli

Da inizio anno la Borsa di Tel Aviv ha guadagnato il 14% (in dollari) nonostante il conflitto libanese, e secondo Morgan Stanley, ci sono le condizioni per proseguire al rialzo.
    In un report su Israele, l’analista Serhan Cevik della banca d’affari americana sostiene infatti che l’economia ha dalla sua diversi fattori positivi. Innanzitutto, lo shekel, la valuta locale, è sottovalutato. Con la fine delle ostilità in Libano, osserva Cevik, la moneta si è apprezzata del 10% rispetto al dollaro e anche di più nei confronti di altre monete. "Qualche mese fa un movimento del genere sarebbe stato impensabile – dice l’analista e mostra la forza dell’economia sottostante". Secondo i calcoli di Morgan Stanley, il prezzo giusto dello shekel è di 3,90 dollari e di 3,45 euro. Il che significa che è ancora sottovalutato del 9,5% rispetto al dollaro e del 27,5% rispetto a un paniere di valute dei principali partner commerciali.
    "Guarda oltre le congetture geopolitiche – ammonisce quindi Cevik – e vedrai che i fondamentali economici sono solidi. Israele è un piccolo Paese con grossi rischi politici ma a volte questi rischi vengono esagerati". E continua: "Con l’introduzione di politiche economiche più razionali e di riforme strutturali, il Paese ha raggiunto una stabilità dei prezzi, risanato gli squilibri fiscali e accelerato il tasso di crescita della produzione industriale".
    Inoltre, dice ancora l’analista, "l’economia israeliana non ha soltanto beneficiato di un deciso aumento nel flusso degli investimenti stranieri da 7,2 miliardi nel 2004 a 10 miliardi l’anno scorso e 16,9 miliardi nei primi nove mesi di quest’anno, ma anche la quota di investimento diretto è più che duplicata dal 25% nel 2004 al 56% l’anno scorso e per ora al 52% quest’anno".
    Nonostante le incertezze geopolitiche e il possibile rallentamento dell’economia Usa e quindi globale, Morgan Stanley stima una crescita dell’economia del 4,8% nel 2006 e del 4,2% nel 2007.
    E ancora: secondo l’analista, la forza dello shekel ha ridotto le pressioni inflazionistiche sull’economia domestica. Le stime sono di un tasso d’inflazione a settembre pari al 2% rispetto al 3,5% a giugno, al 2,4% a luglio e al 2,2% in agosto. Entro la fine dell’anno le attese sono dell’1,4%.
    Infine, l’analista non si aspetta che, in seguito al recente apprezzamento dello shekel, la Banca centrale israeliana imiti la politica che fu della Federal Reserve Usa e inizi a tagliare i tassi d’interesse. Secondo le nostre stime – conclude Cevik – "la politica monetaria di Israele è ancora a un livello neutro e quindi non presenta ostacoli alla crescita".

(La Repubblica, 23 ottobre 2006)





7. LIBRI




Israele tra ortodossia e riformismo

di Daria Raiti

L'eredità del sionismo, gli inesorabili dubbi posti dall'olocausto, il dovere della memoria. Sono tutti capitoli di una storia che ha condizionato un popolo umiliato nel suo passato e, oggi, sempre più contraddittorio. E' così che, dalla terra "promessa" di Israele, terra di sanguinosi conflitti e simbolo del riscatto, un giornalista racconta una civiltà quasi intrappolata fra ortodossia e riformismo, fra Oriente e Occidente. E' l'"Israele in bianco e nero" di Giovanni Russo (Avagliano editore). Un libro-reportage che, attraverso gli occhi di un ebreo italiano,Vittorio Dan Segre, con cui l'autore ha visitato Israele nel 1963, descrive un viaggio in una terra tanto bella quanto lontana. Ma, dopo tutti questi anni, Israele è ancora così? Giovanni Russo, nelle prime pagine del suo libro, lo ha chiesto a un autorevole ebreo italiano, il giornalista Arrigo Levi. Ed ecco che l'intimo colloquio si veste delle pagine semplici di un diario per spiegare l'evoluzione di un paese e la volontà e la saggezza della sua gente.

(La Sicilia.it, 23 ottobre 2006)

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Lia Levi: Storia e storie nella Roma delle leggi antiebraiche

di Fiorella Iannucci

Una canzone, “Ma l’amore no”, la più ascoltata nel 1939, e un volto, quello di Alida Valli, che la interpretava sul grande schermo, aleggiano nel denso romanzo ( L’amore mio non può ) di Lia Levi (nella foto di Muriel Oasi) come vividi fantasmi di una città, la Roma delle leggi antiebraiche, e di un’epoca, il fascismo delle tessere annonarie e delle guerre coloniali, sciogliendo il gelo delle amnesie sulla nostra storia recente. Ed è Elisa, che non si perde un film con la sua diva preferita, a ridare carne e sangue a quegli anni terribili, “difficili per tutti”, è vero, ma molto più per quella comunità ebraica spogliata, da un giorno all’altro, del suo diritto a vivere. E’ Elisa l’io narrante e al tempo stesso la testimone di vicende individuali e tragedie collettive: a cominciare dal suicidio del marito Andrea, che si è buttato dal muraglione del Pincio «dieci mesi dopo aver perso il lavoro per motivi di “razza”», lucida e tragica Cassandra degli orrori che seguiranno.
E’ sola Elisa, con una bambina di cinque anni da accudire. Ma è una donna “forte”, anche se non sa di esserlo. E’ diplomata maestra, eppure si adatta a confezionare zoccoli lavorando anche di notte, a fare da segretaria al suocero del fratello, che la violenterà. Accetterrà alla fine il posto da cameriera in una famiglia di ebrei ricchi, più attenti ai «grotteschi rituali» di classe che alla comune appartenenza religiosa con quella “cameriera” dal grembiulino bianco che non fa che rompere piattini. Intorno, squarci vividi di vite familiari (quella della madre e della sorella di Elisa), e storie belle di amicizia, con personaggi (primo tra tutti il signor Morabito, «educatamente fascista») davvero difficili da dimenticare.

(Il Messaggero, 23 ottobre 2006)

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Calimani e gli ebrei russi, tra "passione e tragedia"

Boris Pasternak, Ilya Ehrenburg, Vasilij Grossman, Isaak Babel',Josif Brodskij, Lev Trockij: grandi nomi della cultura e della storia russa, con un minimo denominatore comune, pur nelle innumerevoli differenze: le loro origini ebree, ma anche la vocazione a coniugarle attivamente nella vita sociale e politica del loro tempo. Una caratteristica propria della diaspora ebrea all'ombra del Cremlino, raccontata ora dal veneziano Riccardo Calimani nel corposo "Passione e tragedia", edito da Mondadori (¤ 20).
    Una storia iniziata piuttosto in ritardo, stante la diffidenza nei confronti degli ebrei da parte della popolazione ortodossa, che ne impedì l'insediamento fino al dominio di Ivan III (1462-1505). Fra i primi ebrei che riuscirono a penetrare nella regione della Moscovia c'era anche un medico veneziano, messer Leon, tanto sicuro della propria perizia da scommettere la testa che sarebbe riuscito a guarire il figlio di Ivan. La perse.
    «Confinati nei villaggi della cosiddetta "zona di residenza", una sorta di enorme ghetto a cielo aperto che si estendeva dall'Ucraina alla Lituania - scrive Calimani - gli ebrei vissero per secoli in condizione di isolamento, con una propria lingua e una propria fede, fino a raggiungere, all'inizio del XX secolo, la considerevole cifra di 5 milioni di individui». A fronte di questa esclusione dalla vita politica e culturale, la comunità russa fu, rispetto alle altre comunità ebraiche presenti in Europa, più ricca di sfumature, suggestioni e contraddizioni, e si caratterizzo soprattutto per alcune intense fiammate di partecipazione rivoluzionaria alle vicende del tempo. Di fronte al diffondersi dell'antisemitismo fomentato dal regime zarista, ad esempio, e alla tolleranza nei confronti di pogrom sempre più cruenti, gli ebrei non solo andarono a ingrossare le file dei maggiori gruppi politici d'opposizione, ma fondarono addirittura un proprio partito, il Bund, che per primo in Russia difese energicamente gli interessi e i diritti di larghe masse di diseredati.
    «Agli inizi del XX secolo - scrive Calimani - grazie ad un tasso di natalità molto elevato, gli ebrei arrivarono alla rilevante cifra di 5 milioni di individui, pari al 5\% dell'intera popolazione russa». Ma la comunità, gelosa della propria identità e della propria religione, «non sembrava affatto pronta ad affrontare le sfide che la modernità aveva in serbo».
    L'aspro confronto con l'antisemitismo alimentato dalla straordinaria diffusione dei falsi "Protocolli dei Savi di Sion", ma anche con le fazioni rivoluzionarie del Partito socialdemocratico russo, preconizzò quelle che sarebbero state qualche decennio dopo le tragiche condizioni con cui si sarebbero dovuti misurare gli ebrei russi. Nel frattempo si era avverata, osserva l'autore, «la fosca e cinica previsione di un cinico ministro zarista: un terzo degli ebrei russi emigrò in America, un terzo morì sui campi di battaglia della Grande Guerra e un terzo finì per assimilarsi, gettandosi nelle fauci del leone sovietico». Gli ebrei si accorsero infatti molto presto che le speranze di uguaglianza e di libertà suscitate dalla Rivoluzione d'Ottobre, nelle quali essi avevano confidato, si stavano spegnendo tragicamente nel Terrore staliniano. E così nella "patria del socialismo" si scatenò una dura repressione contro il "cosmopolitismo" ebraico, venne proibita la pubblicazione del "Libro nero" sul genocidio nazista nei territori sovietici occupati, gli intellettuali citati all'inizio furono osteggiati e perseguitati (come capitò a Boris Pasternak, nonostante il successo internazionale del "Dottor Zivago" e il premio Nobel), rinchiusi in ospedali psichiatrici (come Josif Brodskij) o addirittura giustiziati (come Isaak Babel').«Infine, dopo la caduta del Muro di Berlino - osserva ancora Calimani - l'Unione Sovietica diventò il paese che fornì a Israele un grandissimo numero di immigrati». E anche questo è significativo. R.C.

(Il Gazzettino Online, 24 ottobre 2006)





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