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Notizie su Israele 367 - 11 novembre 2006

1. Cristiani che amano Israele
2. Un paese senza speranza?
3. Un articolo di autocritica della sinistra israeliana
4. Fragilità interna ed esterna di Israele
5. Lettera al Presidente iraniano
6. Gli ebrei in Iran
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 26:10. Se si fa grazia all’empio, egli non impara la giustizia; agisce da perverso nel paese della rettitudine e non considera la maestà del Signore.
1. CRISTIANI CHE AMANO ISRAELE




Giornata di preghiera per Gerusalemme

di Nicole Jansezian

Cristiani da tutte le parti del mondo
pregano per Israele
Centinaia di cristiani si sono raccolti qualche tempo fa nella famosa Cittadella di Davide a Gerusalemme per pregare per Israele e celebrare l'annuale Giornata di preghiera per la pace di Gerusalemme insieme a decine di migliaia di cristiani nel mondo. Molti israeliani che erano arrivati per la preghiera si sono commossi fino alle lacrime per il sostegno e l'amore dei cristiani.
    «Le benedizioni del patto procedono insieme alla responsabilità», ha dichiarato Robert Stearns, che ha dato vita alla Giornata di preghiera nel 2004. «E' un incarico continuo alla vigilanza.»
    Da ogni parte del mondo, centinaia di comunità si sono aggregate alla Giornata di preghiera per Israele. A Gerualemme vi hanno preso parte perfino dei politici israeliani e dei responsabili internazionali cristiani. Juri Stern, membro della Knesset, ha detto che il sostegno dei cristiani a Israele è diventato determinante. «Siamo minacciati di distruzione fisica. E' un pericolo grave per gli ebrei, ma anche per i cristiani. Dobbiamo collaborare», ha detto in un colloquio con israel heute.
    Il vicesindaco Yiga Amedi ha detto che è un onore constatare «quanti amici abbiamo nel mondo e vedere il loro amore per Israele e per questa città.» Linda Olmert, cognata del Primo Ministro israeliano Ehud Olmert, ha parlato di salutare manifestazione. «Se pensiamo a tutte le cose che ci hanno colpito, questa è una cura», ha dichiarato. «Quando sento parlare di un simile amore, questa è cura. Quando sento pastori tedeschi parlare del loro amore per Israele, questa è cura.»
    Daniel Müller, un pastore di Karslruhe, ha espresso il suo sostegno allo Stato d'Israele: «Come tedesco cristiano, è per me un grande onore pregare per la pace di Gerusalemme. Gerualemme, pace sia dentro le tue mura. Shalom.»
    Il sostituto Direttore della Giornata di preghiera, Jack Hayford, ha parlato di evento dinamico, perché ebrei, arabi e cristiani si sono radunati con il desiderio di pregare. Hayford ha detto a israel heute che la Giornata di preghiera è un passo importante per «risvegliare in quest'ora tutta la chiesa» invitandola a pregare per Gerusalemme
    In tutto, si sono ritrovate per pregare comunità da 170 nazioni, alcune provenienti anche da paesi islamici. Dal Brasile è arrivato a Gerusalemme Marcio Valadao. In patria ha una chiesa è di 34.000 membri che prega. «Crediamo che pregare per Gerusalemme sia un comandamento biblico», ha detto: «Se lo osserviamo, rallegriamo il cuore di Dio, e benedicendo gli ebrei anche noi siamo benedetti.»

(israel heute, novembre 2006 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. UN PAESE SENZA SPERANZA?




Viribus Unitis

La sensazione che pervade oggi la popolazione del paese e' la mancanza di speranza. Anche in passato le persone non andavano sempre d'accordo con le decisioni governative ma erano convinte di poter cambiare la situazione con le proprie forze e che il paese potesse tornare ad essere il "gan eden". Questa speranza e' sparita. Cercano a destra e sinistra, sopra e sotto e c'e' solo.... il vuoto!
  Le inchieste contro molte personalita' che avrebbero dovuto essere di esempio morale aumentano lo sconforto. Il fallimento di ogni ideologia e di ogni movimento han cancellato il poco di fiducia che era rimasto. Oggi e' chiaro anche ad un bambino israeliano che e' impossibile credere alle promesse dei politici, tutte le bandiere e gli slogans non si sono dimostrati altro che propaganda per la quale nessuno aveva l'intenzione di battersi seriamente.
  Moltissimi hanno applicato su se' stessi il "programma di separazione unilaterale", molto semplicemente si sono staccati da cio' che accade. Essi non vogliono piu' vedere e sentire, leggere e sapere. Se non fosse bastata l'auto-distruzione dei paesi del Gush-Katif e del nord Samaria stanno arrivando i primi risultati delle indagini sulla conduzione della guerra nel nord del paese ad aumentare lo sconforto: questo sarebbe il potente esercito che dovrebbe proteggere 6 milioni di ebrei viventi in Eretz Israel?!
  Inoltre sempre piu' notizie riferiscono degli ammonimenti degli esperti della sicurezza che a Gaza si stanno rafforzando e stanno diventando una minaccia come il Libano del sud, sta avvenendo esattamente cio' che molti avevano avvertito alla vigilia dell'attuazione del "piano di separazione unilaterale", ma che restarono purtroppo inascoltati.
  Ma non deve essere lo sconforto e l'estraniarsi la risposta dell'ebreo a cio' che sta avvenendo. Il processo di cedimento che pervade la maggioranza della popolazione e' indice che il paese e' gravemente ammalato e che la cura deve essere sino alla radice.
  Anche se stiamo attraversando dei giorni durissimi dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo avuto il privilegio di tornare in Eretz Israel. Stiamo vivendo la fase finale della Gheulah (Redenzione). Il Signore ci sta mettendo alla prova. Cio' che ci fara' superare tale esame sara' di dimostrare amore e rispetto profondi per la nostra Terra, per la Torah e per l'enorme retaggio spirituale lasciatoci dai nostri grandi Maestri. La nostra parashah ci riporta il litigio tra i pastori di Abramo e quelli di Suo nipote Lot. La Torah finisce il verso che riporta tale diatriba con le parole : ed i cananei ed i perizei risiedevano allora nel paese (Genesi 13,7). Qual'e' il rapporto tra l'inizio e la fine del verso? La Torah ci vuole insegnare che quando ci sono discordie profonde tra di noi esse sono sfruttate dai nostri nemici per tentare di sloggiarci dalla nostra Terra.
  L'ultima volta perdemmo la Terra d'Israele e subimmo la distruzione del Secondo Santuario a causa delle discordie interne e dell'odio gratuito. Oggi, quando abbiamo avuto il privilegio di tornare in Eretz Israel, dobbiamo trarre le giuste lezioni dal passato sapendo che la forza del popolo e' nella sua compattezza. Abramo nostro padre disse a Lot: che non ci sia discordia tra di noi perche' siamo fratelli!". Siamo fratelli e percio' dobbiamo comportarci con fraternità. Dobbiamo preoccuparci che scorra tra di noi amore, comprensione, pazienza e solidarieta' e con cio' rafforzeremo il nostro possesso sull'intera Terra d'Israele e supereremo la dura prova postaci dal Signore.
    Concludo con le parole del profeta Isaia dell'haftarah: "Non temere, perche' Io sono con te, non turbarti, perche'.... ecco, saranno delusi e svergognati tutti quelli che si adiranno contro di te. Coloro che litigavano con te, li cercherai, ma non li troverai;coloro che ti facevano guerra saranno ridotti al nulla ed annientati..... Io sono il tuo Redentore!" (40,10-16).
 
(Da "Hamabui hasatum molic leprizah cadashah", articolo di fondo di Sicath hashavuah n.1035, 3/11/06, p.1 e dal commento alla parashah Lech-lechah di Rav Moshe Olstein in Mishab; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair).





3. UN ARTICOLO DI AUTOCRITICA DELLA SINISTRA ISRAELIANA




Israele ha dimenticato che il suo conflitto con gli arabi è di natura esistenziale

L’illusione della normalità


di Ari Shavit *

In questa triste estate del 2006 e alla fine dell’anno più drammatico conosciuto dalla nostra difesa, Israele è sotto shock. “Loro” ci hanno sorpresi. Ci hanno sorpresi con i katiuscia, con i razzi Al Fajr e Zilzal, con i bunker, con la loro professionalità e, soprattutto, con la loro determinazione. Ma quel che ci ha stupiti di più non è stata tanto la forza di Hezbollah quanto la nostra debolezza. “Loro” ci hanno sorpresi mettendoci di fronte all’inconsistenza dei nostri dirigenti, all’assenza di una visione nazionale, alla nostra scarsa determinazione, alla dubbia affidabilità dei servizi di sicurezza e alla plateale mancanza di preparazione alla guerra. “Loro” hanno dimostrato che la nostra macchina bellica non è più quella di una volta. Mentre ci apprestavamo a celebrare il quarantesimo anniversario della vittoria del 1967 (la guerra dei sei giorni), abbiamo scoperto che ci eravamo arrugginiti.
    Ma, a quanto pare, non abbiamo realizzato l’entità del disastro; un disastro che rischia di aggravarsi dopo la nostra immediata accettazione di un cessate il fuoco nella speranza di evitare un bagno di sangue ancora più tremendo. Che ci è successo? Cosa diavolo ci è capitato? La risposta è semplice e si riassume in due parole: takkinut politit, politicamente corretto. Il politicamente corretto coltivato per vent’anni da un’intera generazione di dirigenti israeliani ci ha completamente scollegati dal mondo reale.
    Abbiamo perso i mezzi per affrontare la realtà di un conflitto esistenziale. Da un lato, focalizzandoci sulla questione palestinese abbiamo finito per credere che l’occupazione sia la sola causa di tutti i mali. Dall’altro, convincendoci che la potenza di Israele fosse un fatto acquisito, ci siamo privati della capacità di preservarla e consolidarla. La spesa militare è stata ridotta e il volontariato patriottico deriso. Nel mondo ideale del politicamente corretto, “forza” ed “esercito” sono diventati parolacce.


Un’anomalia positiva

Qualsiasi idea d’identità nazionale e di destino collettivo è stata respinta in nome della sacrosanta sfera privata. La potenza è stata assimilata al fascismo e a una virilità deteriore. La ricerca di una giustizia assoluta è andata di pari passo col perseguimento dell’edonismo assoluto. Peggio ancora, ci siamo lasciati contagiare dall’illusione della normalità. Ma lo stato d’Israele è per definizione uno stato anormale, uno stato ebraico in uno spazio arabo, un paese occidentale in uno spazio musulmano, un paese democratico in uno spazio di fanatismo e di tirannia. Per via delle tensioni dovute alla sua posizione geografica, Israele non vivrà mai la normalità europea. Ma per i suoi valori e le sue norme culturali ed economiche, Israele non vivrà mai al di fuori della normalità europea. Per risolvere questa contraddizione il nostro paese deve creare un’anomalia positiva in grado di rispondere all’anomalia negativa che è al centro della sua identità.
    In parole povere, Israele deve avvolgersi in un involucro protettivo per difendere il suo spazio interno da un ambiente esterno irriducibilmente ostile. La sola realtà che tenga è il fatto che vivere sfidando il nostro ambiente naturale è il nocciolo dell’identità israeliana.
    Se siamo arrivati al punto in cui ci troviamo adesso è perché per due decenni, accecati dall’illusione della normalità, il capitalismo, i mezzi d’informazione e gli intellettuali israeliani hanno portato avanti un paziente lavoro di logoramento ai danni del nazionalismo, del militarismo e del sionismo. Le élite finanziarie, politiche e intellettuali sono state distruttive: ognuna nella sua sfera, hanno tutte pazientemente decostruito l’opera sionista disfacendo il nostro regime socioeconomico, spingendo il politicamente corretto fino ai limiti dell’assurdo e instillando la pratica suicida della critica dei nostri fondamenti esistenziali.
    Le élite israeliane si sono smarrite persuadendosi, insieme ai loro connazionali, che Tel Aviv fosse Manhattan. Con tutte le sue forze e con tutta l’anima Israele ha voluto essere Atene. Ahimè! Qui e ora non c’è futuro per un’Atene che rifiuti di essere al tempo stesso una Sparta.

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* Ari Shavit è giornalista del quotidiano israeliano Ha’aretz.

(Internazionale, 25 agosto 2006 - da morasha.it)





4. FRAGILITA' INTERNA ED ESTERNA DI ISRAELE




L'illusione della normalità mette a rischio Israele

Allarme Israele

di Giorgio Israel

Per una breve stagione, dopo il ritiro da Gaza, è sembrato che qualcosa cambiasse; che il mondo guardasse più benevolmente Israele; che ne capisse le ragioni e, in particolare, l’assurdità di creare uno stato palestinese governato da un movimento terrorista che nega il diritto all’esistenza di Israele. Oggi questo clima positivo è in frantumi e Israele fronteggia una condizione esterna e interna drammatica. Nello stesso giorno (20 ottobre) in cui Ahmadinejad intimava all’occidente di “prendere nel suo interesse le distanze da uno stato che ha perso la ragione della sua esistenza”, aggiungendo “questo è un ultimatum”, il governo francese rompeva un tabù storico, dichiarando per bocca del presidente Chirac e del ministro della Difesa che ai sorvoli di Israele sul Libano doveva essere posto fine “in un modo o nell’altro” e che, se i mezzi diplomatici non fossero bastati, si sarebbe fatto ricorso ad “altri mezzi”. Dunque l’Europa profila la possibilità di un confronto militare con Israele: a tanto siamo giunti. Mi si perdonerà l’autocitazione se dico che la previsione fatta su queste pagine (12 settembre) circa la natura perversa della “trappola Unifil” si è purtroppo avverata puntualmente. Oggi Israele è messo in pericolo da una missione fallimentare che serve da paravento al riarmo di Hezbollah e al crearsi di una tenaglia iraniana tutt’attorno, mentre non una delle condizioni previste dalla risoluzione 1701 è ottemperata: non la “liberazione incondizionata” dei soldati rapiti, non il “disarmo dei gruppi armati”, non l’esercizio esclusivo dell’autorità e la detenzione esclusiva delle armi da parte del governo libanese. Intanto piovono missili su Israele da Gaza, che si trasforma in un territorio gestito sul modello Hezbollah, senza che nessuno deplori. Nella reazione israeliana cadono tragicamente dei civili creando un clima alla Sabra e Shatila, ma con una differenza: la fragilità esterna e interna di Israele, investito da una crisi di orientamento politico e militare senza precedenti, con un ministro che chiede scusa, un altro che ribadisce la linea fin qui seguita e un terzo che blocca le operazioni militari. Che succede? Come è potuto accadere che Israele si sia cacciato in luglio in una campagna militare condotta in modo incerto e fluttuante, ricorrendo dapprima soltanto all’arma aerea e concludendola con un’offensiva che ha prodotto perdite e nessun vantaggio diplomatico? Come è potuto accadere che Israele abbia accettato di entrare nella trappola Unifil e che il suo governo, pur non ricavandone altro che la prospettiva di una nuova guerra, continui a ringraziare chi ha costruito la trappola? Come può accadere che Israele continui a non trovare il bandolo della matassa tra diplomazia e opzione militare e non riesca a definire una linea di azione univoca guidata da un governo di emergenza nazionale che renda chiaro al mondo che sta lottando per la sopravvivenza contro un nemico che ha come unico scopo di distruggerlo? La risposta l’ha data un giornalista di Haaretz, Ari Shavit, con una magistrale autocritica condotta da sinistra (“L’illusione della normalità”). E la risposta è: “Il politicamente corretto coltivato per vent’anni da un’intera generazione di dirigenti israeliani”. Israele – dice Shavit – ha finito col credere che l’occupazione dei territori sia la causa di tutti i mali e che la sua potenza sia un fatto acquisito. La spesa militare è stata ridotta e il patriottismo deriso. “Nel mondo ideale del politicamente corretto, “forza” ed “esercito” sono diventati parolacce”. “Mezzi d’informazione e intellettuali hanno portato avanti un paziente lavoro di logoramento ai danni del nazionalismo e del sionismo… istillando la pratica suicida della critica dei fondamenti esistenziali” della nazione. Israele è un frammento di occidente che vive in un contesto ostile: perdere la consapevolezza di uno di questi due aspetti è, per Israele, quanto perdere l’identità. Israele ha voluto essere Atene – prosegue Shavit – ma in quelle terre non vi è futuro per un’Atene che non sia anche Sparta. La crisi della fiducia in se stessi può significare non riuscire a trovare la via né per la pace né per la guerra. Sarebbe un grave errore pensare che questa sia un’anomalia israeliana che non ci riguarda. De te fabula narratur. Il ciglio su cui si trova Israele è il medesimo verso cui si avvia l’occidente. Il suo dramma è il paradigma di un dramma che sta nel nostro vicino orizzonte.

(Il Foglio, 9 novembre 2006)





5. LETTERA AL PRESIDENTE IRANIANO




Ahmadinejad, arriviamo!

di Michael Schneider

Con un'insolita richiesta, il direttore della Federazione delle Organizzazioni dei Sopravvissuti dell'Olocausto, Noah Flug, si è rivolto al Presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad. «Inviti anche noi, sopravvissuti israeliani dell'Olocausto, alla sua conferenza», era la richiesta, che si riferiva alla Conferenza sull'Olocausto progettata per dicembre a Teheran. «Sarebbe l'occasione adatta per condurre una seria, obiettiva discussione», si diceva nello scritto. «Noi stiamo seguendo le sue dichiarazioni razzistiche, e anche la mostra di vignette razzistiche che si sta svolgendo a Teheran. Ci chiediamo: davvero non sa che cosa è successo, o semplicemente non vuole sapere quello che successo?»
    Sotto lo slogan "L'olocausto e il sionismo", questa conferenza olocausto-negazionista (come viene intesa dagli israeliani) dovrebbe avere lo scopo di trovare "Ragioni per l'antisemitismo in Europa, l'olocausto e il sionismo". E' anche atteso, fra l'altro, l'arrivo di neonazisti dalla Germania.
    Noah Flug ha anche invitato Ahmadinejad a visitare il campo di morte di Auschwitz e a incontrarsi lì con lui: «Lì potremo mostrarle in modo molto chiaro la macchina di sterminio nazista. Potrà vedere come lavorava la macchina e come ha potuto uccidere più di un milione di ebrei e non ebrei.»
    Noah Plug è nato nella polacca Lodz, una città in cui prima della seconda guerra mondiale vivevano circa 250.000 ebrei. Oggi ne sono rimasti soltanto 300. Flug conclude il suo scritto con un messaggio di speranza: «Noi che abbiamo vissuto queste atrocità, custodiamo il ricordo delle vittime e tramandiamo la nostra storia alle successive generazioni affinché mai e poi

prosegue ->
mai un olocausto abbia a ripetersi nel mondo. Noi amiamo la pace e la invitiamo a mettere da parte tutto ciò che conduce a un nuovo olocausto!»
    Nella lettera Flug ha parlato anche della lettera che il Presidente iraniano ha inviato al Cancelliere Angela Merkel. In essa Ahmadinejad sosteneva che gli alleati hanno inventato l'olocausto dopo la guerra. «Non è la prima volta che lei nega lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti e presenta l'olocausto come un mito che ha lo scopo di giustificare la fondazione dello Stato d'Israele. E' ora di rinfrescare le conoscenze su questa cosa», ha dichiarato provocatoriamente Flug. Ha inviato inoltre una lettera di ringraziamento al Cancelliere tedesco esprimendole il suo apprezzamento per la sua concreta risposta. Nel frattempo il predecessore di Ahmadinejad, Mohammed Khatami, ha riconosciuto l'esistenza dell'Olocausto. "E' un fatto storico", ha detto in una sua breve visita negli Stati Uniti.

(israel heute, novembre 2006 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. GLI EBREI IN IRAN




Aggiornamento sulla comunità ebraica iraniana

redatto da Larry Derfner

Un paio di settimane fa un negozio di commercianti ebrei è stato dato alle fiamme nella città iraniana di Shiraz, dove vive circa un quarto dei 25.000 ebrei residenti in quel Paese. Negli ultimi mesi la stella di Davide è stata dipinta sul pavimento di fronte alle entrate della principale sinagoga di Teheran e di una delle università della capitale, per cui chiunque entra finisce inevitabilmente col calpestare il simbolo nazionale dello Stato d’Israele. Un professore ebreo che per entrare all’università aveva preferito camminare intorno alla stella, piuttosto che calpestarla, è stato licenziato.
    Secondo “Kamran” – un ebreo di origine iraniana, il quale è in contatto con dozzine di ebrei che, in questi ultimi quattordici mesi, hanno abbandonato il Paese – da quando Mahmoud Ahmadinejad si è insediato come presidente dell’Iran la televisione mostra con molto rilievo e molto più spesso di quanto non avvenisse in passato le scene degli attacchi delle Forze di Difesa Israeliane (FDI) a Gaza, in Cisgiordania e in Libano.
    Tuttavia, nonostante il ripetersi di incidenti allarmanti come questi, e nonostante la negazione dell’Olocausto da parte di Ahmadinejad e le sue minacce di “cancellare Israele dalla carta geografica mondiale”, Kamran sostiene che gli ebrei di recente emigrazione – che hanno avuto modo di parlargli liberamente dopo essere usciti dall’Iran – non citano il presidente o qualsivoglia altra nuova persecuzione degli ebrei iraniani quale causa della loro partenza.
    “Sfortunatamente [gli incidenti anti-semiti e la retorica di Ahmadinejad] non sembrano influenzare in alcun modo gli ebrei che vivono laggiù, né sembrano preoccuparli”, dice Kamran. “Se ne stanno tranquillamente in Iran. Troppo tranquillamente”.
    Persino la mostra di vignette sull’Olocausto, che è stata da poco allestita a Teheran, e che ha suscitato l’oltraggio di gran parte del mondo occidentale, non viene ricordata dagli ebrei emigrati recentemente. A quanto sembra, la mostra ha avuto un effetto minimo se non nullo sulla maggioranza dei residenti ebrei di quel Paese, come sostiene “Shahnaz”, un altra ebrea di origine iraniana che pure è in contatto con molti ebrei iraniani che sono emigrati da quando Ahmadinejad è salito al potere.
    “Gli ebrei iraniani non ne sanno molto dell’Olocausto”, dice Shahnaz. “Non sono cresciuti ascoltandone i racconti, non è una tragedia che li tocca personalmente, non è parte del loro vissuto – sicuramente non di quello della gioventù iraniana”. Aggiunge: “Nonostante gli ebrei iraniani amino profondamente Isarale, ciò che Ahmadinejad dice di Israele non sembra disturbarli affatto”.
    Nel corso di un’intervista telefonica con Kamran, Shahnaz e altri ebrei di origine iraniana si delinea l’immagine di una comunità vecchia di 2.000 anni che dalla rivoluzione islamica del 1979 ha perso a tal punto la capacità di leggere obiettivamente la realtà dei fatti e si è a tal punto abituata a camminare sul filo del rasoio da convincersi di poter sopravvivere anche all’era Ahmadinejad, che quel filo ha ulteriormente assotigliato, ma – in fin dei conti – nemmeno troppo.
    In effetti, eccezion fatta per i pochi episodi di antisemitismo e antisionismo sopra riportati, la vita degli ebrei iraniani non è cambiata sostanzialmente in peggio con il nuovo presidente, con buona pace di quanti osservano la situazione da fuori e sono convinti che di fronte all’odio anti-israeliano di Ahmadinejad e alla sua ossessiva negazione dell’Olocausto la comunità si sia fatta prendere dal panico, come se sentisse un laccio che le si sta chiudento attorno al collo.
    Shahnaz sostiene anzi che gli indicatori economici mostrano che gli ebrei iraniani, o quanto meno quelli di mezza età e più anziani, stanno considerando con maggiore convinzione che in passato l’eventualità di trascorrere il resto delle loro vite in Iran, probabilmente a causa della crescita economica portata dall’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio.
    “In passato, per esempio, gli ebrei non avrebbero speso del denaro per acquistare una macchina nuova perché erano nell’ordine di idee di lasciare, prima o poi, il Paese. Ma ora investono, comprano appartamenti, automobili, oggetti di lusso”, dice Shahnaz e conclude: “Fino ad oggi Ahmadinejad non ha fatto nulla contro gli ebrei. Nonostante tutto quello che dice nei media sull’Olocausto e su Israele, gli ebrei non avvertono alcuna pressione e la maggior parte degli adulti vuole rimanere qui. Sono i giovani che vogliono andarsene”.
    L’abilità degli ebrei iraniani di scrollarsi di dosso le umiliazioni che l’Islamismo riserva loro non è facile da comprendere per un ebreo israeliano od occidentale. Un esempio di questa abilità viene offerto da un’intervista telefonica con “Farjad”, uno studente universitario che ha lasciato l’Iran e i suoi cari circa dieci anni fa, poco prima di venire arruolato nell’esercito.
    Farjad non nutre alcuna illusione per l’Iran o per Ahmadinejad, e teme che la situazione degli ebrei di quel Paese stia per peggiorare drammaticamente. Tuttavia, quando viene invitato a raccontare alcuni incindenti specifici che lo hanno visto coinvolto in prima persona, non riesce, in un primo momento, a ricordare altro che quella volta in cui il direttore musulmano radicale di una scuola superiore aveva respinto la sua domanda di ammissione. È solo verso la fine della nostra intervista di un’ora che a Farjad sono venute in mente le assemblee mattutine alla scuola (che alla fine aveva accolto la sua domanda di iscrizione dopo che l’unico membro ebreo del parlamento iraniano era intervenuto in suo favore).
    Farjad descrive una assemblea scolastica tipo come se non fosse stata niente di più che una piccola noia quotidiana, un problemino che lo disturbava relativamente e che aveva imparato a gestire con una certa tranquillità. A me sembra piuttosto una scena tratta da “1984”.
    “Tutti gli studenti si mettevano in fila e un leader religioso della scuola ci leggeva passi dal Corano e attaccava i ‘sionisti’ e tutte quelle loro stronzate, e gli studenti iniziavano a cantare e io mi univo a loro. Cantavano ‘morte a Israele’ e così facevo anch’io, anche se – naturalmente – non credevo a quello che dicevo.
    Gli ebrei amano Israele profondamente, ma non possono darlo a vedere. Devono fare parte del gruppo, non farsi notare. C’erano studenti che non erano d’accordo con i radicali, e altri che invece condividevano quelle idee. Io ho sempre cercato di comportarmi in modo tale da venire accettato da tutti”.
    Questo accadeva verso la metà degli anni ’90. Il fatto è che la minaccia di Ahmadinejad di “cancellare Israele dalla carta geografica mondiale” è stata ripetuta molte volte, in molti modi diversi, da altri leader nazionali, a partire dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979. L’unica novità per quanto concerne le minacce di Ahmadinejad è che in pochi anni esse potrebbero venire affiancate e sostenute da un vero e proprio arsenale nucleare. Mentre, però, questo fatto rende Ahmadinejad estremamente pericoloso per il resto del mondo, per gli ebrei iraniani egli non costituisce una minaccia più grave di quella costituita dalla maggior parte degli altri leader mussulmani da loro conosciuti.
    Gli apologisti ebrei iraniani sottolineano il fatto che la loro è la seconda comunità ebraica più numerosa del Medio Oriente, dopo Israele, e che il livello di aperto antisemitismo (dato dalla frequenza degli attacchi contro persone di religione ebraiche e istituzioni ebraiche) è incomparabilmente più basso in Iran che in Europa o nell’ex-Unione Sovietica.
    Mentre da fuori molti (tra cui anche molti ebrei di origine iraniana) tracciano dei parallelismi tra la situazione degli ebrei in Iran oggi e quella degli ebrei europei nelle prime fasi del regime nazista, i leader ebraici in Iran respingono questo tipo di confronti. Sottolineano il fatto che se da un lato Ahmadinejad nega l’Olocausto, dall’altro i capi della comunità ebraica si sentono sufficientemente tutelati, al punto di inviare al presidente una lettera di protesta a questo riguardo.
    Due mesi fa, in un’intervista al Guardian di Londra, Maurice Motamed, che occupa l’unico dei 290 seggi parlamentari (o majlis) riservato ad un ebreo, ha raccontato che: “Quando il nostro presidente ha parlato dell’Olocausto, ho ritenuto mio dovere – in quanto ebreo – sollevare la questione. Ho detto che questi commenti costituiscono un grave insulto nei confronti dell’intera comunità ebraica iraniana e del mondo intero”. Motamed ha anche sottolineato il fatto che tre anni fa è stata approvata una legge che impedisce ai giudici di discriminare la parte lesa ebraica nelle cause per danni. Egli vede in questo un segno di progresso e, in un certo senso, ha ragione.
    L’accordo che gli ebrei iraniani hanno “sottoscritto” con il governo islamico concede loro una notevole libertà religiosa, fin tanto che essi sostengono la politica del regime, inclusa la sua politica anti-israeliana.
    David Menashri, che ha lasciato l’Iran prima della rivoluzione e che ora dirige il Centro di Studi Iraniani dell’Università di Tel Aviv, nota che: “Questo tipo di accordo, che stabilisce una netta distinzione tra l’essere ebreo e l’essere sionista, era stata un’idea della comunità ebraica, che l’ha trasferita nel regime di Khomeini dopo la rivoluzione”.
    Per esempio, secondo alcuni resoconti giornalistici, circa tre mesi dopo l’inizio del mandato di Ahmadinejad, Motamed avrebbe partecipato in Iran ad un raduno filopalestinese per il “Giorno di Gerusalemme” e avrebbe proclamato alla folla: “I veri ebrei, in pieno accordo con alcuni musulmani, continuano la loro battaglia contro i sionisti e contro i crimini israeliani. Il popolo oppresso palestinese, che vive sotto l’occupazione sionista, deve sentire che i credenti di tutte le fedi sono dalla sua parte”.
    Per quanto concerne la pratica religiosa, ci sono circa 20 sinagoghe attive nella sola Teheran. Ci sono anche molte scuole ebraiche. Tuttavia, queste scuole non posso chiudere al sabato, e non infondono negli studenti la religiosità ebraica; piuttosto insegnano storia del giudaismo e del popolo ebraico come materie accademiche.
    “Lo studio della Torah è molto limitato, perché verrebbe visto dal governo come propaganda”, sostiene Shahnaz. “Queste scuole non sono yeshive, non si studia l’halacha [la legge ebraica]”, dice Farjad, che ha frequentato una scuola elementare ebraica in Iran. Nota, comunque, che il regime rispetta l’osservanza ebraica: “Quando mio fratello è stato arruolato nell’esercito, è stato stanziato vicino a casa e ha ricevuto il permesso di andare a casa ogni sera e di ritornare la mattina seguente per poter mangiare kosher”. Tuttavia le vite degli ebrei iraniani subiscono evidenti limitazioni. Mentre i giovani ebrei vengono arruolati nell’esercito per 18 mesi come gli altri giovani iraniani, non possono però diventare soldati di carriera (cosa che probabilmente non percepiscono come una grave perdita). Ma non possono nemmeno essere assunti in alcun posto di lavoro “sensibile”, ovvero avente a che fare con la vita o la sicurezza nazionale. Inoltre, dal momento che i media, la giurisprudenza, il sistema educativo e tutti i settori “umanistici” si sono interamente islamicizzati, gli ebrei che entrano nelle professioni gravitano attorno alle sfere neutrali delle scienze come la medicina e l’ingegneria. Comunque, ancora oggi, come prima della rivoluzione, la maggioranza di loro è impiegata nel commercio, per lo più nei settori del tessile e dell’oro.
    Per paura di essere sorvegliati, non discutono mai nulla che abbia a che fare con la politica quando amici o familiari telefonano o scrivono un’e-mail. (Possono ricevere telefonate o e-mail da Israele ma non possono spedire messaggi perché l’Iran non ha ancora creato i necessari collegamenti). D’altro canto, gli ebrei iraniani emigrati all’estero hanno solo cose belle da dire sul popolo iraniano in generale, e fanno ricadere la colpa dei sentimenti anti-semiti sul solo governo islamico e sui suoi sostenitori tra la gente.
    “La persecuzione viene più dal governo che dalla gente”, dice Kamran. “Gli ebrei si sentono tranquilli e al sicuro con gli iraniani comuni. Vivono tutti insieme, non hanno nulla l’uno contro l’altro”.
    Non ci sono ghetti ebraici o quartieri ebraici; gli ebrei vivono porta a porta con i musulmani. “I nostri vicini [musulmani] ci volevano bene sul serio”, nota Farjad. Ma mentre di regola la maggioranza della popolazione sciita iraniana vive tranquillamente con gli ebrei, ci sono delle eccezioni – e gli ebrei iraniani prendono le dovute precauzioni contro siffatte eccezioni. “Indossiamo la kippà solo in sinagoga, non per la strada, perché là fuori ci sono degli estremisti”, dice Farjad. Su un totale di 69 milioni di iraniani, ci sono 14.000 ebrei a Teheran, altri 6.000-7.000 a Shiraz, 2.000 a Isfahan, più un altro paio di migliaia distribuito per lo più tra le città di Kerman, Kashan, Yazd e Hamadan. “Gli ebrei si sentono liberi a Teheran; è più cosmopolita ed è lì che risiede la maggior parte degli intellettuali, per cui non si trova molto antisemitismo”, dice Shahnaz. Ma ancora una volta, ci possono essere le eccezioni alla regola. “Persino nelle città la qualità della vita degli ebrei dipende da chi sono i loro vicini – intellettuali o trogloditi”, aggiunge. E nei villaggi, dove i mussulmani tendono ad essere poveri sotto il profilo economico e retrogadi per quanto concerne educazione e religione, il sospetto e l’odio nei confronti degli ebrei sono comuni, dice Shahnaz.
    Essendo cresciuta in paese, e non in città, Shahnaz ha frequentato una scuola cristiana e poi la scuola musulmana, e per quanto avesse amiche non ebree, ricorda gli anni della scuola con cinismo: “Nella scuola cristiana alcune ragazze dicevano che avevo ucciso Cristo, e in quella musulmana alcune di loro si rifiutavano di bere dalla stessa fontanella da cui avevo appena bevuto io. Per i fondamentalisti sciiti tutto ciò che viene toccato da un ebreo diventa impuro”.
    Comunque, per avere un quadro completo della situazione è doveroso dire che non solo gli ebrei, ma anche i zoroastriani, i cristiani e altre minoranze religiose camminano sul filo del rasoio in Iran, in particolare i Bahai, che sono stati terribilmente perseguitati persino prima che gli islamici prendessero il potere. Menashri fa notare che durante la rivoluzione del 1979 furono giustiziati 12 ebrei, tra cui il capo della comunità, Habib el-Kanayan, che venne accusato di essere una spia israeliana. A fronte di ciò, si ritiene che siano stati assassinati più di 200 Bahai.
    Il miglior amico che gli ebrei iraniani, le altre minoranze e gli sciiti riformisti abbiano mai avuto durante la rivoluzione è stato il predecessore di Ahmadinejad, Mohammad Khatami. “Khatami è un uomo rinascimentale”, dice Shahnaz. “Ha conseguito un dottorato di ricerca, parla sette o otto lingue. Gli ebrei hanno prosperato durante la sua presidenza [1997-2005]. Uno dei suoi migliori amici d’infanzia era un importante rabbino. Era solito fare visita alle sinagoghe. Ha concesso maggiore libertà non solo agli ebrei, ma anche ai giovani iraniani, che desiderano una società più aperta. Ma a causa del suo liberalismo, la leadership radicale – la Guardia Rivoluzionaria, i mullah – gli hanno sottratto il potere”.
    Farjad ricorda di aver votato per Khatami (gli iraniani possono votare dall’età di 15 anni), perchè non era un antisemita. (Secondo il sistema elettorale iraniano, il presidente e il parlamento vengono eletti dal popolo – tra cui gli ebrei e le altre minoranze – ma entrambi sono completamente subordinati alla volontà del “leader supremo”, il grande ayatollah eletto a vita dal consglio degli “esperti” islamici. Pertanto, il presidente Ahmadinejad non può fare nulla che non gli sia concesso di fare dal leader supremo estremista Ali Khamenei).
    Alla vigilia della rivoluzione in Iran c’erano circa 100.000 ebrei; da allora tre quarti di loro hanno lasciato il Paese. E con i genitori che fanno l’impossibile per mandare i figli all’estero o prima o dopo il servizio militare e gli studi universitari, la comunità ebraica iraniana continua a scendere. Tutti coloro che sono decisi ad emigrare possono farlo, ma non tutti sono così determinati; lasciare la propria casa per un Paese nuovo non è sempre facile, in particolare per coloro che hanno genitori anziani e una disponibilità finanziaria limitata. Farjad dice che lui e i suoi genitori avevano discusso spesso di lasciare il paese tutti insieme, con il fratello minore e la sorella, ma che poi era capitato sempre qualche imprevisto. “Una delle ragioni per cui sono partito da solo era di costringere i miei genitori a seguirmi, di metterli di fronte al fatto compiuto”, dice. Ma i suoi genitori, che hanno superato i sessant’anni e hanno problemi finanziari, sono riluttanti a compiere questo passo, per cui “partire diventa più difficile anche per mio fratello e mia sorella”, sottolinea Farjad . “Parvaneh”, una donna ebrea di origine iraniana che si è trasferita in Israele circa 40 anni fa, dice che i suoi genitori anziani, che in Iran hanno seri problemi economici, vogliono disperatamente partire e venire a vivere vicino a lei, ma hanno paura di venire ridotti in povertà. E potrebbero anche avere ragione; gli emigrati iraniani subiscono perdite gravissime quando convertono i loro rial in dollari, euro o shekel.
    E quando cercano di vendere le loro proprietà prima di lasciare l’Iran, si trovano con le spalle al muro di fronte ai potenziali acquirenti iraniani perché quando un’intera famiglia lascia il Paese, qualunque proprietà rimasta invenduta viene automaticamente incamerata dallo Stato. Questo frena molti iraniani che invece vorrebbero partire.
    “Parlo regolarmente con i miei genitori e loro mi dicono che va tutto bene, che non mi devo preoccupare”, dice Parvaneh. “Ma devono cambiare appartamento in continuazione perché i padroni di casa alzano sempre l’affitto. Verrebbero in Israele se avessero le risorse per farlo, ma temono di non potersi permettere un posto per vivere qui, così dicono”. Considerate le ambizioni nucleari iraniane, la minaccia di distruggere Israele e ora l’inclinazione di Ahmadinejad a negare l’Olocausto, i 25.000 ebrei che ancora vivono in Iran sembrano, almeno da lontano, giocare col fuoco. Gli ebrei che hanno lasciato il Paese la pensano senza dubbio così. Temono che coloro che sono rimasti laggiù vengano coinvolti o in un secondo Olocausto o in una guerra preventiva. “C’è un altro Hitler laggiù ora, questo è veramente un SOS”, dice Parvaneh.
    Secondo quanto Shahnaz sente dai recenti emigrati, gli ebrei in Iran devono affrontare simili minacce, rifiutandosi di riconoscerle. “Nessuno laggiù parla di queste cose”, dice. “Pensano che Ahmadinejad sia solo un po’ più radicale degli altri, tutto qui. Si comportano come se non avessero nulla da temere da ciò che è successo loro in passato o da ciò che potrebbe succedere in futuro”.
    
(Jerusalem Post, 28 settembre 2006 - ripreso da Keren Hayesod)





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