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Notizie su Israele 369 - 24 novembre 2006

1. Intervista a Gideon Meir
2. Nuove tecniche contro Israele
3. Uno stato nello stato
4. L'aspirazione dell'Iran
5. Vivere sotto la pioggia dei razzi
6. Il bombardamento continua
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
1 Cronache 17:20-22. “Signore, nessuno è pari a te, e non c’è altro Dio all’infuori di te, secondo tutto quello che abbiamo udito con i nostri orecchi. E quale popolo è come il tuo popolo d’Israele, l’unica nazione sulla terra che Dio sia venuto a redimere per formarne il suo popolo, per farti un nome e per compiere cose grandi e tremende, scacciando delle nazioni davanti al tuo popolo che tu hai riscattato dall’Egitto? Tu hai fatto del tuo popolo, Israele, il tuo popolo speciale per sempre; e tu, Signore, sei diventato il suo Dio.”
1. INTERVISTA A GIDEON MEIR




L’ambasciatore di Israele ci dice perché pure l’Italia è sequestrata a Gaza

di Paola Peduzzi

Gideon Meir
ROMA. Tre settimane tonde tonde. E’ questo il tempo che ha trascorso in Italia. Ma gli sembra di essere qui da anni, “l’intensità della vita italiana è incredibile”, dice al Foglio il nuovo ambasciatore di Israele a Roma. In effetti sono stati giorni intensi questi ultimi: non una, ma due manifestazioni sabato sul conflitto israelo-palestinese – giusto per dare un assaggio di quanto è abile l’Italia con i distinguo, le sfaccettature, le ambiguità anche – e ieri il rapimento, nella striscia di Gaza, di due operatori italiani della Croce rossa, Gian Marco Onorato e Claudio Moroni, fermati da uomini armati mentre erano in auto verso Khan Younis. Nelle stesse ore, a Beirut, è stato assassinato Pierre Gemayel, ministro dell’Industria e figlio dell’ex presidente Amin Gemayel, leader della comunità cristiano-maronita, gettando il Libano in un’ennesima, pericolosa instabilità. Meir dice che il rapimento dei due volontari italiani “indica la natura del regime che c’è a Gaza” e si augura che gli ostaggi siano liberati “il prima possibile, sani e salvi”. L’assassinio a Beirut è per l’ambasciatore un altro segnale dell’importanza della “completa implementazione delle risoluzioni 1.559 e 1.701 che vogliono il disarmo di Hezbollah e la restituzione del potere al governo libanese”.
    Cinquantanove anni, nonni tedeschi costretti a lasciare la Germania durante il nazismo, amante dell’opera, Meir è un diplomatico di lungo corso, era nel team dei negoziatori a Camp David, nel 1979, durante il processo di pace con l’Egitto. Poi è stato in Canada, negli Stati Uniti, a Londra e poi di nuovo a Gerusalemme, dove negli ultimi sei anni è stato il direttore generale della comunicazione esterna al ministero degli Esteri. Si è occupato dell’immagine di Israele, insomma. Ha visto tutto della politica di Gerusalemme, sostiene che in alcuni aspetti assomiglia a quella italiana, anche se “voi avete un linguaggio più ricco che mi piacerebbe ogni tanto vedere in Israele”, dice con tono scherzoso, gli occhi vispi dietro agli occhiali. Ha un fare sorridente e allegro, ma diventa subito serio quando si parla del conflitto tra israeliani e palestinesi, i sequestri di stranieri nella Striscia di Gaza, il lancio continuo di Qassam verso il Negev, le operazioni di Tsahal contro i terroristi, gli scudi umani. Meir ricorda che il premier di Gerusalemme, Ehud Olmert, ha rilasciato un’intervista “coraggiosa, prendendosi un alto rischio”, quando ha detto al rais palestinese, Abu Mazen, di volerlo incontrare al più presto, e di voler “andare lontano sulla lunga strada per la pace”. Il processo è in corso, cerca di muoversi dopo la guerra estiva contro Hezbollah e nonostante i negoziati infiniti tra Hamas e Abu Mazen per la creazione di un governo di unità nazionale palestinese. Però molti hanno voluto vedere la parte negativa del discorso di Olmert, “si sono lamentati” e hanno formulato nuove alternative per la pace. “Ma c’è la road map – precisa l’ambasciatore – E’ stata accettata da tutti e se non sta funzionando non è per via di Israele, ma dal fatto che i palestinesi non vogliono combattere il terrorismo. E allora che cosa fa l’Europa? Se ne esce con un’altra alternativa per il processo di pace. Ma chi ha detto che la road map è morta? Perché oggi dovremmo abbandonarla, non è forse più conveniente oggi per i palestinesi?”, chiede senza sosta Meir. Certo da ultimo le condanne sono state tutte contro Israele, dopo i fatti di Beit Hanoun. “C’è sempre una maggioranza automatica all’Onu contro di noi – sorride sarcastico Meir – E’ costituita dal mondo arabo. Ma chi vogliamo che guidi il mondo, i moderati o gli estremisti?”, chiede. La risposta pare palese, eppure non lo è.

Una soluzione economica onorevole
    Secondo l’ambasciatore israeliano, “ora la palla del processo di pace è nel campo di Abu Mazen”, nell’“altro cinquanta per cento” del conflitto palestinese su cui la comunità internazionale “tende a non fare troppe pressioni, accettando i valori non democratici” di molti regimi. Ma sono i palestinesi che hanno scelto di farsi governare da “un gruppo che vuole la distruzione dello stato di Israele e – aggiunge Meir – Abu Mazen deve avere il potere di far cessare il terrorismo, di fermare i Qassam”. Tale forza pare non esserci, però. Che cosa si farà allora in questi Territori fuori controllo? Per Meir il dialogo resta la prima scelta, “ma noi dobbiamo difenderci, e se non ci sono altre possibilità non resta che la via militare”. Una soluzione appaiata al dialogo ci sarebbe: “Deve essere versato denaro a Gaza per ridurre l’incentivo dei palestinesi a schierarsi dalla parte dei terroristi”. Naturalmente questi fondi devono essere monitorati, altrimenti finiscono come quelli che arrivano da Iran e Siria “tutti in armi”: “E’ necessario fornire una soluzione economica onorevole per i palestinesi”.
    Il ruolo della comunità internazionale è fondamentale. L’Europa è convinta che, risolvendo il conflitto israelo-palestinese, il mondo sarà più al sicuro. E adesso che è stata coinvolta per la prima volta in modo diretto per pacificare il medio oriente – questo almeno è l’obiettivo scritto – con la risoluzione 1.701 e la forza di interposizione Unifil nel sud del Libano, si sente ancora più in dovere di trovare alternative alla pace. “Quella risoluzione è un test per tutti – dice Meir – Dev’essere fermato il riarmo di Hezbollah e il traffico di armi. In passato abbiamo avuto brutte esperienze con i disarmi. Abbiamo accettato la risoluzione nella convinzione che le condizioni saranno rispettate, spero che non ci sia dato modo di rimpiangere questa scelta”. Le verifiche sul campo non fanno ben sperare, a dire il vero, ma Meir cerca di mantenere l’ottimismo: fa parte dell’arte della diplomazia che conosce bene e che ha anche insegnato per anni ai giovani ambasciatori in giro per il mondo. Per questo anche quando parla delle proteste di Milano e Roma preferisce ricordare le “tante voci di dissenso” su quello che è successo: “Sono molto grato per le condanne arrivate a quelle manifestazioni di odio, di ostilità, di estremismo”.
Resta la preoccupazione. “Quel che più mi sorprende – dice Meir con uno sguardo cupo – è che uno stato membro dell’Onu, l’Iran, chiede ufficialmente e pubblicamente la distruzione di un altro stato membro dell’Onu, Israele, e continuo a non sentire voci che dicano a Teheran di smetterla”. Eccolo qui il problema del nostro occidente, che a volte appare così stanco da non volersi più difendere, così stanco dall’abbandonarsi nelle braccia dell’estremismo. Ma la lotta al terrorismo non è un affare di Gerusalemme, “non è una questione tra noi e l’Iran”. Anche perché, dice l’ambasciatore, “alla fine il conflitto che l’Europa indica come radice di tutti i mali sarà risolto. Non per la salvezza del mondo, ma per la salvezza di israeliani e palestinesi. Vivremo con due stati vicini e in pace. Ma allora non sarà risolto il problema che attanaglia il mondo, l’estremismo, il fondamentalismo islamico. Perché il terrorismo non è contro Israele, noi siamo una buona scusa per allearli tutti. Ma sono i nostri valori a essere messi in discussione, i nostri valori democratici, delle nostre culture. E per nostri non intendo israeliani, intendo di tutto l’occidente”. Moderati o estremisti, ecco la scelta. La vera domanda affiora subito, l’ambasciatore la formula: “Ci crediamo ancora nelle nostre democrazie?”. Bella domanda, dice. E immancabilmente sorride.

(Il Foglio, 22 novembre 2006)





2. NUOVE TECNICHE CONTRO ISRAELE




Il leader della Jihad islamica ammette: muro d’Israele funziona

ROMA - Nel concorso mondiale indetto a Teheran sulle migliori vignette che sbeffeggiano, minimizzano o negano la Shoah, ha vinto il marocchino Abdollah Derkaoui con una vignetta dove si vede una gru israeliana che allinea grandi blocchi di cemento imprigionando a poco poco la moschea di Al-Aqsa di Gerusalemme, mentre sul muro si disegna l’immagine del campo di sterminio di Auschwitz. E non si conta tutta la letteratura occidentale sul “muro” d’Israele, a cominciare da Mario Vargas Llosa su Repubblica. A “difendere” la logica della barriera difensiva che protegge lo stato ebraico dagli attacchi suicidi palestinesi, è adesso uno dei leader dell’industria dei kamikaze, quel Ramadan Shalah a capo della Jihad islamica palestinese. Shalah ha pubblicamente ammesso che la barriera di sicurezza israeliana tra Israele e Cisgiordania rappresenta un importante ostacolo all’attività dei gruppi terroristici e che “se non ci fosse, la situazione sarebbe completamente diversa”. La Jihad islamica, sostenuta da Siria e Iran, è un’organizzazione fondamentalista palestinese responsabile di un gran numero di stragi perpetrate negli anni scorsi ai danni di civili israeliani. Nel 2005, durante il cosiddetto periodo di “calma” deciso da alcune organizzazioni armate palestinesi, la Jihad islamica ha realizzato cinque attentati suicidi dentro Israele, e altri due nel 2006 (l’ultimo il 17 aprile alla stazione centrale degli autobus di Tel Aviv: nove morti, 80 tra feriti e mutilati). Lo scorso 11 novembre, durante una lunga intervista all’emittente tv Al-Manar di Hezbollah, per la prima volta Shalah ha riconosciuto che la barriera israeliana costituisce un ostacolo alla “lotta armata”. Ramadan Shalah ha spiegato che le organizzazioni terroristiche hanno tutta l’intenzione di continuare con gli attentati suicidi, ma la possibilità concreta di realizzarli e la scelta del momento dipendono da altri fattori. “Per esempio – ha detto – c’è la barriera di separazione, che costituisce un ostacolo alla lotta armata, e se non ci fosse la situazione sarebbe completamente diversa”. I morti israeliani per mano di terroristi islamici sono calati in modo netto e proporzionale: dalle molte centinaia dei primi anni di guerra, più di mille fino al 2004, siamo arrivati a “solo” 52 vittime nel 2005. Senza la barriera, saremmo forse ancora fermi alle migliaia di vittime.
    La nuova tecnica palestinese si chiama “scudi umani”, come scrive il Jerusalem Post. Sabato sera centinaia di palestinesi, comprese donne e bambini, sono stati fatti schierare attorno all’abitazione di Mohammed Baroud, un capo delle squadre di lanciatori di missili Qassam dei Comitati di Resistenza Popolare. Venerdì scorso diversi predicatori affiliati a Hamas avevano ingiunto ai fedeli di “occupare” ogni edificio minacciato d’essere colpito dalle forze israeliane, contando sul fatto, ben noto a Gaza, che le forze israeliane cancellano un’operazione quando sanno di non poter evitare perdite civili. “Anziché andarsene, i proprietari devono restare dentro e chiamare quanta più gente possibile – aveva affermato uno dei predicatori –. Gli scudi umani sono la nostra migliore difesa”. Dall’Iran giungono parole di fuoco contro l’esistenza d’Israele. I quotidiani iraniani Kehyan e Resalat invitano gli islamici di tutto il mondo a prepararsi ad una “grande guerra” per distruggere lo stato di Israele. “Hezbollah ha distrutto almeno metà di Israele nella guerra in Libano – si legge nell’editoriale pubblicato dal conservatore Kehyan il 20 ottobre scorso in occasione della Giornata di Gerusalemme – Ora resta da fare solo metà della strada. È stato dimostrato che, grazie a un’operazione offensiva che non deve necessariamente essere pari alle mosse di Israele, è possibile neutralizzare i sionisti. Come in una guerra di soli 33 giorni è stato distrutto più del 50 per cento di Israele - prosegue l’articolo - e sono state infrante le speranze dei suoi sostenitori che quel regime possa continuare a vivere, così è molto probabile che nella prossima battaglia crollerà anche l’altra metà. Quel giorno la Giordania non potrà impedire ai miliziani islamici giordani di agire lungo il confine fra Giordania e Palestina, e milioni di islamici egiziani non lasceranno che il confine fra Sinai e Israele resti tranquillo, e le alture siriane del Golan non resteranno semplici testimoni della battaglia. Quel giorno non è lontano”. Il quotidiano Resalat usa toni se possibile più bellicosi. “La grande guerra ci attende forse già domani, o fra pochi giorni, o fra pochi mesi, o anche pochi anni. Israele deve crollare. Per la prima volta nei sessant’anni della sua scellerata esistenza, il regime sionista, beniamino dell’occidente in Medio Oriente, ha assaggiato il gusto della disfatta e i cittadini di quel regime hanno tremato di fronte alla minaccia dei missili di Hezbollah. La nazione islamica deve prepararsi per la grande guerra: per spazzare via completamente il regime sionista e rimuovere questa crescita cancerosa. Come diceva l’imam Khomeini, Israele deve cadere”. (g.m.)

(Il Velino, 22 novembre 2006)





3. UNO STATO NELLO STATO




Libano: qualcuno vuole fermare inchiesta internazionale

di Shorsh Surme*

Le violenze crudeli che per ben 15 anni hanno causato migliaia di morti e quasi la distruzione del Libano che è ancora una volta sull'orlo di una crisi senza precedenti causati dall'ingerenza straniera e dal conflitto interno.
    Hezbollah, spinto e appoggiato dall'Iran e dalla Siria, è riuscito a costruire uno stato nello Stato, coinvolgendo l'intera popolazione Libanese in una guerra che non avrebbe mai voluto. E' da dopo l'invasione israeliana nell'82 che la Siria continua a distribuire le armi a tutte le parti in conflitto per propri interessi soprattutto quello di egemonizzare lo stato libanese.
    Uno stato come quello del Libano, in cui non è mai mancata la libertà, di associazione e di dialogo. Tutti i problemi dei paesi arabi, vere e proprie dittature confessionali, di clan, personali, hanno trovato in Libano la loro tribuna: esuli Siriani, Iracheni, Sauditi potevano stampare libri e pubblicizzare la loro causa.
    La guerra del Libano è in realtà la guerra degli eserciti che in questi anni tentano e hanno tentato in tutti i modi di sbriciolarlo. Il divide et impera è stato praticato più volte contro una povera terra umiliata davanti ai suoi invasori. I massacri di cristiani e musulmani sono stati interamente ideati nei gabinetti politici degli stati vicini, realizzati con sadica raffinatezza perché le diverse comunità tremassero di paura.
Infatti, l'uccisione di Pierre Gemayel è un segnale chiaro che qualcuno non vuole che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dia via libera al progetto per l'istituzione di una corte speciale internazionale per giudicare i sospettati dell'omicidio dell'ex premier libanese Rafik Hariri, l'ex primo ministro anti-siriano che mori' in un attentato esplosivo il 14 febbraio dell'anno scorso.
    Dal Palazzo di Vetro di New York arriva inoltre la condanna "inequivocabile" dell'uccisione, avvenuta martedì a Beirut, di Gemayel, il giovane ministro dell'Industria libanese.
    Una cosa è chiara: gli autori di questo crimine stanno azionando numerose leve nel tentativo di plasmare il futuro del paese medio orientale a loro vantaggio.
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* giornalista curdo-iracheno

(Osservatorio sulla Legalita', 23 novembre 2006)





4. L'ASPIRAZIONE DELL'IRAN




Stanno preparando la guerra ad Israele

di Davide Giacalone

Stanno preparando la guerra ad Israele, per propiziare la salita dell'Iran al rango di potenza regionale e protagonista mondiale. La Siria se ne gioverà, e per questo è nella partita, uscendo dall'isolamento e mostrandosi interlocutore necessario per l'occidente. Perché la minaccia sia reale occorre che il Libano sia nelle mani delle milizie sciite di Hezbollah, ed è per questo che è stato assassinato prima Rafik al Hariri, sono stati commessi altri omicidi politici, ed infine (per ora) è morto Pierre Gemayel. La cosa ci riguarda direttamente, perché non solo i nostri militari sono esattamente nel mezzo del conflitto già in atto, ma il trascinarsi delle ambiguità brucia il tempo necessario ad evitare che siano le armi a scrivere questa pagina di storia.
    Iraniani e Siriani hanno un convergente interesse in Libano. I primi lo usano per portare ad Israele una guerra per procura, mostrando tutta la reale concretezza della minaccia armata. I secondi lo ritengono addirittura territorio proprio, vivendo ancora come ingiusta amputazione la scelta di destinare quell'area alla sopravvivenza dei cristiano maroniti (1916), dopo la lunga lotta contro turchi e francesi. Il Libano nasce come Stato laico, comprendente diverse etnie e diverse religioni. Purtroppo questa è anche la causa di ricorrenti e ferocissime guerre civili. Ci risiamo, ma con protagonisti nuovi, come gli iraniani. Il presidente di questo Paese, Ahmadinejad, si è rivolto a Prodi dicendosi disposto a discutere (bontà sua), ed il nostro presidente del Consiglio gli ha risposto dicendo di considerare legittima l'aspirazione iraniana ad essere una potenza regionale. Già, ma gli iraniani sono sciiti, sono una minoranza nel mondo islamico, e neanche ben vista, quali mezzi useranno per farsi valere? Hanno scelto di mettersi alla testa dell'attacco contro l'avamposto dell'occidente e della libertà: Israele.
    La prima ondata è servita a mostrare quanto debole è la reazione internazionale e quanto fragili gli equilibri politici interni ad Israele, dove i

prosegue ->
fautori della pace e del ritiro unilaterale da Gaza devono ora fare i conti con un terrorismo che colpisce da ambo i lati. La seconda ondata si prepara destabilizzando il Libano. Noi siamo nel mezzo, ostaggi di un Iran assetato di potere ed in corsa verso l'atomica.

(Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana, 21 novembre 2006)





5. VIVERE SOTTO LA PIOGGIA DEI RAZZI




Sderot: 20 secondi per trovare rifugio

di Moran Zelikovich
                                                 
Eti Azran, direttore della scuola elementare di Sderot,che mercoledì mattina è stata colpita da un razzo Qassam, spiega che “è difficile per noi gestire un qualsiasi giorno di scuola, molto difficile, ma non abbiamo altra scelta”.
“La routine è l’unico rimedio, perché i qassam sono diventati una costante. Non stiamo parlando di un giorno o due, e nemmeno di un anno, ma di quasi sei anni”, dice.
Sfortunatamente, Azran è da tempo abituata a vedere bambini che corrono in cerca di rifugio. Alcuni giorni fa, all’inizio della settimana, aveva visitato Tel Aviv con i suoi studenti per portarli, anche solo se per breve tempo, lontano dalla routine dei qassam.
Tuttavia, sia lei che i suoi studenti sono stati di nuovo colpiti dalla realtà delle cose quando un razzo è caduto nel cortile della scuola.
“Sono arrivata a scuola alle 7:30 del mattino, e lungo il percorso ho visto gli studenti del quartiere che aspettavano l’autobus. Ho pregato perché non succedesse nulla”, ricorda. “Nel preciso istante in cui ho appoggiato le mie cose sul tavolo ho sentito l’allarme. Ero nervosa, perché quella era esattamente l’ora in cui gli stuenti arrivano a scuola”.
Secondo Azran, "Dal nostro punto di vista, il pericolo maggiore si manifesta quando i bambini scendono o salgono dagli autobus all’inizio o alla fine della giornata. Quello è il momento che fa più paura, perché non sono vicini alle classi bunker… Nonostante ciò, quando si sente la sirena bisogna trovare rifugio entro 20 secondi. È un compito problematico quando si è allo scoperto in strada”.

“Un miracolo ha salvato i bambini”
Azran continua: “Siamo tutti corsi nelle classi bunker. Dopo il primo impatto volevo uscire per controllare che i bambini stessero bene, ma lo scoppio del secondo missile mi ha ributtata in classe. È stato in quel momento che ho capito che il secondo missile era caduto molto vicino a noi”.
È convinta che a salvare le vite dei bambini mercoledì mattina sia stato un miracolo, oltre che la forza dell’abitudine che li spinge a correre direttamente verso le aree fortificate e ad appiattirsi lungo i muri ogni volta che sentono l’allarme. Dice che è stato questo a salvarli.
Per i bambini di Sderot, la mancanza di routine causata dal bombardamento di qassam è diventata, in realtà, la loro routine.
“È molto difficile per noi vedere i bambini in questa situazione, ma d’altro canto dobbiamo trasmettere loro automatismi e sicurezza”, dice Azran. “Tutti gli insegnanti che avevano oggi il giorno libero sono venuti a scuola per aiutare”.
Spiega che gli insegnanti passano molto tempo lavorando con i bambini sulle tecniche per affrontare e gestire le loro paure.
“La prima domanda che un bambino fa dopo lo scoppio di un qassam è dove è caduto e se è successo qualcosa alla sua famiglia. Naturalmente, i bambini si preoccupano per gli altri membri della famiglia, pertanto noi permettiamo loro di portare i cellulari in classe e di contattare il resto della famiglia”, dice Azran.
“Può non essere una normale routine, ma ci siamo abituati e siamo organizzati: riprendiamo le lezioni, nonostante il razzo e nonostante le molte difficoltà a ritrovare la concentrazione. Non abbiamo altra scelta”, conclude

(Keren Hayesod, 23 novembre 2006 - www.ynet.co.il)



* * *

Parla il sindaco di Sderot, città colpita dai razzi Qassam: «Riprendere il dialogo con i palestinesi»

di Cristina Balotelli

«Se ci saranno altre vittime dei Qassam, esiste la possibilità che si vada a una guerra totale. Anche il Governo più pacifista non potrebbe tollerare altri morti».
    Eli Moyal, sindaco di Sderot da 8 anni, attualmente al secondo mandato, è esasperato. «Fino al 2005 si diceva che i Kassam venivano lanciati su Sderot a causa degli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, ma anche dopo il disimpegno le cose non sono cambiate, anzi, il numero di Kassam è aumentato e il 25% della popolazione ha abbandonato la città».
    Il sindaco si sfoga con i suoi ospiti, una delegazione italiana composta dal presidente della Commissione Esteri del Parlamento, On. Umberto Ranieri, e dagli onorevoli Pietro Marcenaro (Ds) e Dario Rivolta (Forza Italia), accompagnati dall'Ambasciatore italiano in Israele, Sandro De Bernardin. In segno di solidarietà, dopo la notizia della seconda vittima dei Qassam in pochi giorni, la delegazione parlamentare in visita ufficiale a Gerusalemme ha deciso di posticipare il rientro per fare tappa a Sderot.
    «Il Parlamento italiano compirà ogni sforzo per scongiurare un futuro di violenza in Medio Oriente. Comprendiamo l'esasperazione di un Paese esposto all'incubo dei Kassam, ma al tempo stesso constatiamo la vostra voglia di reagire e siamo sicuri che Sderot vivrà», dice il presidente della commissione esteri. «Israele ha il diritto di difendersi da chi mette in discussione la sua esistenza, ma non vorremmo che dovesse solo difendersi», aggiunge. Per un futuro di pace e stabilità «è necessario riprendere la strada del dialogo con i Palestinesi».
    Poco distante dal Municipio dove avviene l'incontro con il sindaco di Sderot si svolgono i funerali di Yaakov Yaakobov, immigrato di origine russa ucciso da un Kassam che ha colpito la fabbrica dove lavorava. Padre di due ragazzi, 43 anni, Yaakobov è solo l'ultima vittima dei Qassam lanciati dalla Striscia di Gaza. Beit Hanun, uno dei luoghi usati per i lanci, dista solo 800 metri da Sderot. Dal punto più alto della città israeliana si possono vedere le case di Beit Hanun, teatro recente di una strage di civili palestinesi durante una rappresaglia israeliana.
    Particolarmente significativa, quindi, la proposta di un incontro tra il sindaco di Sderot e quello di Beit Hanun, per realizzare il quale si adopereranno anche i parlamentari italiani. Un incontro che abbia come obiettivo il dialogo comune sul piano umanitario. E avrà un seguito l'esperienza di ospitalità a Roma di studenti di Sderot come atto concreto di solidarietà. Quest'estate, durante la guerra, bambini israeliani provenienti da zone sotto bombardamento sono stati ospitati per un mese di vacanza in colonie del Lazio e della Toscana. Attualmente è in corso la visita, in Italia, di una squadra di calcio di bambini israeliani, per assistere alla partita Ascoli-Lazio.
    Ma a Sderot c'è molta rabbia. Ne è prova il fatto che al funerale di Yaakobov la famiglia non ha voluto né i media né alcuna autorità politica o militare. La gente non ne può più. La pressione psicologica è intollerabile. I Qassam sono circa venti volte più piccoli dei Katyusha, ma uccidono. Essendo ordigni estremamente inaccurati, non si sa dove possono cadere e proprio per questo seminano il panico tra i civili. Uccidere e terrorizzare i civili è infatti l'obiettivo delle organizzazioni terroristiche che operano nella Striscia di Gaza. I media europei però non parlano (o parlano poco) di Sderot, delle sue strade deserte, dei resti di Qassam ammucchiati nel cortile della stazione di polizia, della gente nei rifugi, delle sirene che suonano 10, anche 15 volte al giorno, delle scuole semi-deserte (solo il 40% dei bambini si presenta in classe perché i genitori hanno paura). Di questo si lamentano gli abitanti della martoriata città del Sud d'Israele.«Negli ultimi sei anni abbiamo subito continui attacchi - spiega il sindaco - ma nei media internazionali si parla solo di Beit Hanun».
    Poi c'è la rabbia nei confronti dello Stato, la stessa provata dalle città del Nord che durante e dopo la guerra con gli Hezbollah si sono sentite abbandonate. «Il Governo ha promesso molto ma non è seguita nessuna azione», racconta il sindaco di Kyriat Shmona, Haim Barbevai, arrivato a Sderot per esprimere la solidarietà della sua città che si è trovata in una situazione molto simile, sotto il fuoco dei Katyusha. «La risposta del Governo dovrebbe essere un rafforzamento dell'economia locale», aggiunge. Ma finora non si è visto nulla di concreto. Anche il sindaco di Sderot è critico nei confronti del Governo che ha fatto un sacco di promesse non mantenute. «Prima del ritiro da Gaza promisero che se un solo Kassam fosse caduto su Sderot, Gaza avrebbe tremato». Ma i Kassam non hanno mai smesso di cadere e il ritiro israeliano, secondo Moyal, è stato «una mossa sbagliata perché non è stato seguito da alcun accordo o presa di responsabilità da parte palestinese».
    Gli attacchi da Gaza hanno anche un impatto devastante sull'economia locale. L'attività industriale di Sderot, che va dall'hi-tech alla plastica e al tessile, rischia di collassare se la situazione dovesse perdurare. Molta gente non ha i mezzi per andarsene. I 23mila abitanti di Sderot sono quasi tutti immigrati: circa il 50% della popolazione è arrivata dall'ex Unione Sovietica e l'altro 50% da Asia e Africa. «A Sderot non c'è disoccupazione - spiega il sindaco - ma i salari sono molto bassi».
    Nel Municipio, su un pannello rivestito di nero sono appese 15 fotografie. Sono i volti degli abitanti di Sderot che hanno perso la vita a causa dei Qassam o di attacchi terroristici. Tre di loro sono bambini in età d'asilo, morti nel 2004. «I sentimenti della comunità locale oggi sono ancora più forti rispetto al 2004 perché il missile che ha ucciso Yaakobov è diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto», sottolinea Eli Moyal. Si tratta sempre di un Qassam, stesso calibro, ma è dotato di una quantità più elevata di esplosivo. «All'inizio l'esplosivo era fatto in casa, ora invece migliaia di kilogrammi di esplosivo comprato all'estero sono introdotti nella Striscia di Gaza attraverso il confine egiziano grazie ai tunnel scavati dai palestinesi». La differenza è data dall'impatto psicologico sui civili: l'esplosione è uguale, ma il rumore è potenziato allo scopo di scatenare il panico.

(Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2006)

COMMENTO - Si sarà notato l'"errore" presente nel titolo dell'articolo. La frase tra virgolette non l'ha pronunciata il sindaco di Sderot!





6. IL BOMBARDAMENTO CONTINUA




Aggrediti e condannati

da un articolo di Yoel Marcus

Da diversi anni in Israele ci sono due temi che aprono ogni mattina le notizie dei radio-giornali: le previsioni del tempo e i lanci di Qassam su Sderot.
    Il 16 aprile 2001 venne sparato il primo Qassam. Gli esperti ne esaminarono i resti, un po’ sorpresi, e dissero che si trattatava di un ordigno primitivo, prodotto in qualche officina metallurgica. Roba artigianale, niente di serio.
    Due mesi dopo, l’ordigno primitivo uccideva due abitanti di Sderot, tra i quali un bambino. Poi, per più di cinque anni, gli ordigni primitivi hanno continuato a migliorare, sia in potenza che in gittata, fino ad avvicinarsi a obiettivi strategici alle porte di Ashkelon. Per terra e dal cielo Israele ha demolito decine, forse centinaia di officine metallurgiche artigianali. Ma i razzi continuano ad aumentare e ad attaccare località israeliane.
    Hanno trasformato la vita degli abitanti di Sderot in una roulette russa. Il numero delle vittime, è vero, non si conta nell’ordine delle migliaia o delle centinaia. Ma gli abitanti della città muoiono di paura ogni giorno. L’allarme che suona con 20 secondi di anticipo sull’impatto sembra uno scherzo di cattivo gusto. Gli abitanti corrono per le strade, uno riesce a trovare un rifugio anti-aereo, un altro resta colpito e perde un braccio o una gamba. L’assalto ai pullman messi a disposizione degli abitanti di Sderot da Arcadi Gaydamak per una vacanza fuori programma a Eilat dimostra cosa possono fare 17 Qassam in un giorno, una donna uccisa e due persone mutilate – così, per nessuna ragione particolare – a una città che non sa più come controllare la propria angoscia.
    Dopo il bombardamento a Beit Hanun che ha provocato la morte per errore di 19 civili palestinesi, la grande maggioranza delle Nazioni Unite considera Israele il feroce aggressore. Le sue scuse non sono state accettate. Probabilmente non sono state nemmeno credute del tutto. Ma si è mai sentita Hamas chiedere scusa per l’uccisione di donne e bambini? Hanno mai chiesto scusa per i lanci su Sderot? Da più di sei anni sparano su una località civile, se ne vantano, ed è Israele che viene considerato l’aggressore.
    Israele è il solo paese al mondo di cui una città viene quotidianamente bersagliata coi razzi. Viene da chiedersi come reagirebbe – che so – la Francia se Digione fosse bersagliata ogni giorno per anni. Nessun paese tollererebbe una situazione in cui una delle sue città fosse permanentemente sotto tiro, e dove il gesto di attraversare la strada o andare dal fruttivendolo fosse trasformato in una roulette russa.
    Il capo dei servizi di sicurezza ha riferito alla commissione esteri e difesa della Knesset che nelle mani di Hamas ci sono almeno 33 tonnellate di esplosivo e centinaia di missili e razzi di ogni tipo. Lo scopo è colpire il tallone d’Achille di Israele, che è il suo fronte interno.
    Israele si è ritirato unilateralmente dalla striscia di Gaza mostrando in questo modo d’essere capace non solo di smantellare gli insediamenti, ma anche di restituire territori ai palestinesi con un accordo di pace. Purtroppo sta diventando evidente che i più estremisti e pessimisti fra i coloni israeliani avevano ragione: i palestinesi non vogliono riconoscere Israele né venire a patti con la sua esistenza.
    E ancora una volta, questa volta sotto il bastone di Hamas, non hanno perso un’occasione di perdere un’occasione. Anziché dedicarsi ad edificare e sviluppare il territorio che Israele ha sgomberato, come fecero gli egiziani nel Sinai, hanno trasformato Gush Katif in una base per fare fuoco quotidianamente sugli abitanti del Negev israeliano, in primo luogo quelli di Sderot: fuoco mirato deliberatamente contro civili, donne e bambini.
    Gli avvertimenti dell’allora primo ministro Ariel Sharon e del capo di stato maggiore Dan Halutz secondo cui, se i lanci di Qassam fossero continuati anche dopo lo sgombero da Gaza, la reazione di Israele sarebbe stata molto severa, non li intimoriscono affatto. Abbiamo invaso Beit Hanun, abbiamo sparato dall’aria, ma non è servito a niente. E la seconda guerra in Libano ha minato la posizione delle Forze di Difesa israeliane, rivelando le fragilità del fronte interno.
    Tutti i tentativi israeliani di porre fine ai lanci di Qassam, anche quelli fatti con la mediazione dell’Egitto e dell’Europa, si sono rivelati vani. Israele si trova nella situazione di essere nello stesso tempo aggredito e condannato come aggressore, mentre diplomatici e opinionisti non fanno che ripetere continuamente lo stesso mantra: la situazione non può andare avanti così.
    Se Hamas continuerà a far naufragare ogni dialogo opponendosi al riconoscimento di Israele e continuando a impiegare il terrorismo contro i cittadini israeliani, non resterà che tornare all’occhio per occhio. Una minaccia banale e sempre uguale. Ma che altro resta da fare, finché non emerge un leader capace di riportare la questione del negoziato e della pace nei titoli di apertura dei radio-giornali?

(Ha’aretz, 21 novembre 2006 - da israele.net)






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