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Notizie su Israele 371 - 11 dicembre 2006

1. Antisemitismo islamico
2. Negazionismo islamico
3. Una conferenza con il nuovo Hitler?
4. La tenaglia si stringe
5. Conseguenze della guerra del Libano
6. Il rapporto Baker
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 31:35-36. Così parla il SIGNORE, che ha dato il sole come luce del giorno e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare in modo che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: il SIGNORE degli eserciti. «Se quelle leggi verranno a mancare davanti a me», dice il SIGNORE, «allora anche la discendenza d’Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza».
1. ANTISEMITISMO ISLAMICO




Ahmadinejad invita 67 studiosi di 30 nazioni
per rispondere ai suoi quesiti



Il presidente iraniano
ROMA. L’11 e il 12 dicembre, in concomitanza con la giornata mondiale per i diritti umani, si terrà a Teheran una Conferenza sull’Olocausto. Coincidenza sinistra e tutt’altro che casuale visto che il suo ispiratore si è ormai assunto il compito di riscrivere la storia. Dopo l’Olocausto, ha infatti già annunciato di voler investigare “molti altri genocidi, per esempio quello perpetrato contro gli indigeni americani”. Genocidi e massacri da guardare con occhi nuovi e “senza pregiudizi”, con la garanzia di una “libertà di espressione” che l’occidente si ostina a negare e la certezza di trovare nel presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad un giudice super partes. Arbitro equanime nei confronti di tutte le parti come converrebbe il ruolo, a parte una malcelata simpatia, palesata da un anno a questa parte, per quanti contestano “il mito dell’Olocausto”. Una scelta coraggiosa ha lasciato intendere il portavoce del ministero degli Esteri, Manuchehr Mohammadi, perché “il genocidio degli ebrei è la linea rossa dell’occidente”. Ma l’occidente non fa paura al presidente. Perché mai dovrebbe temere l’indignazione di Tony Blair o fermarsi per essere stato invitato da Kofi Annan a usare la libertà di parola con “sensibilità”? Ahmadinejad ha interlocutori che gli stanno più a cuore, dice in pubblico quello che molti arabi dicono in privato e posa da vendicatore. Rovina i giochi all’establishment che strizza l’occhio ai realpolitiker al di qua e al di là dell’Atlantico e sposta il baricentro dell’odio rivoluzionario dal Grande Satana statunitense al Piccolo Satana israeliano.
    Dopo essere stato opportunamente strombazzato, l’evento andrà dunque in scena, organizzato dall’Istituto per la politica e le relazioni internazionali della capitale e sponsorizzato dal ministero degli Esteri. Parteciperanno 67 studiosi e intellettuali, accademici provenienti da più di 30 nazioni di cui però si preferisce non fornire ulteriori delucidazioni. Secondo il Guardian ci saranno anche alcuni delegati del Regno Unito, ma Mohammadi non ha sciolto il riserbo sui nomi “per timore che i passaporti degli invitati possano essere sottratti”. Filo conduttore del simposio è l’interrogativo posto da Ahmadinejad. “Il presidente si è soltanto chiesto se l’Olocausto sia avvenuto o no. E se fosse accaduto perché devono essere i palestinesi a pagare per questo?”. E’ per rispondere a questo dilemma che a Teheran si sviscererà la questione “rispettando il giudaismo ed evitando la propaganda”.

Le solite ambiguità e i nomi top secret
    Da un lato l’Iran “non nega i crimini di Hitler”, dall’altro si impegna a fornire – senza che nulla appaia come una contraddizione – l’opportunità di presentare studi “pro e contro la teoria del genocidio degli ebrei”. E così i revisionisti d’ogni dove potranno discutere sulla natura dell’antisemitismo, esaltare la storia degli ebrei in Iran, analizzare il sionismo, dibattere l’esistenza o no delle camere a gas e rivendicare orgogliosamente la libertà di espressione per tutti coloro che negano la verità dell’Olocausto. Tutto questo potrà essere fatto in Iran perché “l’antisemitismo è un fenomeno occidentale” e chi meglio di Teheran, mai coinvolta in tali orrori, può giudicare spassionatamente gli eventi? Non solo, il ministero degli Esteri sottolinea che, come ha testimoniato anche il concorso per le vignette sull’Olocausto, l’Iran è un paese libero. “In Iran possiamo investigare e studiare le tematiche islamiche e anche confutarle e nessuno ci fermerà”, ha detto Mohammadi. Nessuno dei giornalisti stranieri presenti gli ha fatto domande sul filosofo Hashem Aghajari, condannato due volte a morte dal regime per apostasia.

(Il Foglio, 7 dicembre 2006)





2. NEGAZIONISMO ISLAMICO




A cosa serve negare la Shoah

di Fiamma Nirenstein

Difficile dire se domani, quando comincerà la conferenza organizzata a Teheran per negare la Shoah, appariranno più oltraggiosi e ridicoli gli «studiosi» che vanno a sostenere la tesi negazionista di Ahmadinejad o quelli che si presteranno a far loro da spalla recitando la seconda parte in commedia. Sessantasette «studiosi» discuteranno la veridicità dell’Olocausto - ha detto il viceministro degli Esteri Manouchehr Mohammad al giornale Jomhuriye Eslami -: provengono da 30 Paesi, intellettuali a favore dell’esistenza della Shoah e intellettuali contro, un dibattito senza pregiudizi per dimostrarvi la nostra libertà di pensiero. Peccato però che i cortesi ospiti abbiano fatto una loro fiammeggiante bandiera della negazione dell’Olocausto e di molte altre ripugnanti prese di posizioni che riguardano gli ebrei e Israele. Peccato anche che la negazione della Shoah non sia un’opinione, ma semplicemente una menzogna; e come parlare di libertà di opinione in un Paese che perseguita, tortura, uccide i dissenzienti e che considera nemici da battere tutti quelli che non aderiscono all’islam radicale?
    Ma cerchiamo le ragioni dell’infausto show di domani. Quando Ahmadinejad dice che l’Olocausto non è mai esistito, in realtà intende enunciare un programma: «Israele non ha diritto ad esistere». Il presidente iraniano ripete spesso che «Israele è un tronco marcio», che lui lo «spazzerà via dalla Terra». Dice anche che se l’Europa non se ne allontanerà in fretta, se ne pentirà. Che c’entra la Shoah con il suo piano? Israele se l’è inventata, dice l’Iran, per legittimare la sua esistenza. Poiché la Shoah non esiste, Israele non ha nessun motivo di legittimazione. È un messaggio che non tiene in considerazione che la storia del sionismo è precedente alla Shoah, che le radici del popolo ebraico sono rimaste nei millenni a Gerusalemme; che nella sua barbarie ignora che minacciare la distruzione di una società forte e attiva, dell’antico popolo che ha fondato il monoteismo e ha dato i natali a Gesù Cristo, di uno Stato democratico, è un patente crimine contro l’umanità.
    Per il presidente iraniano il nesso fra Shoah, antisemitismo e Israele è un magnifico strumento: mettere alla berlina la più grande tragedia ebraica è di fatto eguale a rallegrarsi della distruzione del popolo ebraico; e se auspicarla di nuovo in Israele, con la bomba atomica, è la dimostrazione di come l’antisraelismo coincida con l’antisemitismo, è anche meglio. L’antisemitismo è il drappo rosso davanti al toro della guerra islamista che egli ritiene suo compito storico. È la bandiera dietro la quale sono pronti a marciare tutti gli estremisti islamici; e bisogna tenerla alta questa bandiera per mostrare che l’islam ha trovato il capo che sognava. Quello che distruggerà Israele. E poi batterà l’Occidente.
    Da quando la settimana scorsa il prossimo ministro della Difesa americana Robert Gates ha dichiarato che gli Usa useranno la forza contro l’Iran solo come ultima risorsa, Ahmadinejad si è convinto di poter coronare la sua strategia e raggiungere il potere nucleare senza nessun intoppo esterno. Per questo scopo, gli ebrei e Israele sono il suo asso: il grandioso progetto di distruggere un popolo che ha saputo portare la fiaccola della propria cultura per più di tremila anni fra tante persecuzioni, è il suo passepartout verso il Califfato mondiale e la venuta del Mahdi, il 12° profeta. La negazione della Shoah è un tassello indispensabile al suo scopo.
    La conferenza cade un giorno dopo quello in cui Ahmadinejad ha annunciato che la realizzazione del potere atomico è fuori discussione; nei giorni in cui Ismail Hanje, il primo ministro palestinese di Hamas, ha promesso che non riconoscerà mai Israele. Cade anche nei giorni in cui gli Hezbollah, di nuovo in possesso di un arsenale di missili iraniani recapitati con l’aiuto siriano, pretendono di dominare il Libano per farne una roccaforte dell’integralismo sciita. Nasrallah, il capo degli Hezbollah, è oggi il garante del potere siriano in Libano; e la Siria è per Ahmadinejad il ponte su cui passano gli uomini e le armi diretti verso tutti gli angoli del suo scacchiere strategico: Gaza, il Libano, l’Irak, il Golfo... Grande giuoco: domani 67 «studiosi» che amano giocare col fuoco.

(Il Giornale, 10 dicembre 2006)





3. UNA CONFERENZA CON IL NUOVO HITLER?




Sono sessantasette gli «studiosi» accorsi alla corte di Ahmadinejad per negare che la pagina più vergognosa della storia contemporanea - l'Olocausto - sia stata scritta.
La conferenza della vergogna è stata travestita di pluralismo con intellettuali a favore dell'esistenza della Shoah e intellettuali contro: «un dibattito senza pregiudizi per dimostrarvi la nostra libertà di pensiero».
Peccato anche che la negazione della Shoah non sia un'opinione, ma una odiosa menzogna, una menzogna vergognosa pronunciata in un paese che tortura ed uccide, nega strutturalmente ogni forma di dignità individuale.
Quando Ahmadinejad afferma che l'Olocausto è un'invenzione, intende enunciare un paradigma: «Israele non ha diritto ad esistere».
L'infausto show revisionista che si tiene a Teheran serve a sostenere che la Shoah è stata inventata da Israele (nientemeno!) per legittimare la propria esistenza.
Quando Ahmadinejad offende la Memoria di 6 milioni di ebrei sterminati nella Shoah, non tiene in considerazione che la storia del sionismo è precedente alla Shoah, che le radici del popolo ebraico si sono miracolosamente preservate nei millenni; nella sua barbarie ignora che minacciare la distruzione di una società e di una antica cultura rappresenta un crimine contro l'umanità.
Come spesso accade di sentire anche in Italia, anche per Ahmadinejad il nesso fra Shoah, antisemitismo e Israele è un eccezionale strumento di propaganda odiosa, che salda l'antisrealismo con l'antisemitismo: ridicolizzare la più grande tragedia ebraica è di fatto eguale a rallegrarsi della distruzione del popolo ebraico.
Nel folle progetto di distruggere un popolo che ha saputo portare la fiaccola della propria cultura per più di tremila anni fra tante persecuzioni, c'è il suo tramite per il Califfato mondiale.
Non a caso la conferenza antisemita avviene il giorno dopo quello in cui Ahmadinejad ha annunciato che la realizzazione del programma atomico è fuori discussione; nei giorni in cui il primo ministro palestinese di Hamas, ha promesso che non riconoscerà mai Israele; gli Hezbollah, di nuovo in possesso di un arsenale di missili iraniani recapitati con l'aiuto siriano, pretendono di dominare il Libano per farne una roccaforte dell'integralismo sciita.
Tutto quadra, insomma. Tutto appare pronto per una seconda fase dell'escalation di violenza in Medio Oriente.
Davvero Prodi ritiene di poter avviare una Conferenza sul Medio Oriente coinvolgendo direttamente Ahmadinejad? Davvero Prodi sederebbe a fianco di questo nuovo Hitler?
A queste domande senza sicura risposta, c'è una sicurezza odiosa, quel silenzio colpevole della classe politica italiana e un ingenuo permissivismo di gran parte dell'opinione pubblica.

(radicali di sinistra, 10 dicembre 2006)






4. LA TENAGLIA SI STRINGE




La politica delle illusioni

di Giorgio Israel

Ricomincia la politica delle illusioni, che prepara un aggravarsi della situazione e, con ogni probabilità esiti molto drammatici.
    Il presidente Bush sembra sempre più isolato ed ora anche il nuovo ministro della Difesa americano parla di soluzioni "politiche" e di riaprire il dialogo con la Siria e l'Iran. La disponibilià del governo israeliano è grande come non mai e non si limita al rispetto del cessate il fuoco con Gaza, ma si spinge fino alla decisione di un ministro di introdurre nei libri di testo scolastici la demarcazione dei confini del paese entro la "linea verde", come eloquente segnale di massima disponibilità nei confronti dei palestinesi.
    Cosa corrisponde a questi passi in avanti dall'altra parte? Si constata qualche passo simmetrico? Nulla di nulla. Al contrario.
    Sul fronte libanese, ormai il governo Siniora è sotto assedio, il primo ministro non riesce neppure a mettere il naso fuori del suo palazzo e non si vede come possa evitare il crollo del suo governo. Mentre Hezbollah continua a riarmarsi si profila la prospettiva di un governo da esso controllato e quindi il passaggio dell'esercito libanese sotto il comando del gruppo terrorista. Sono assai concrete le prospettive di una situazione in cui la missione Unifil non avrebbe più nulla da fare, in quanto la risoluzione ONU su cui è basata sarebbe svuotata: l'esercito libanese dovrebbe disarmare se stesso? Non stupisce, al riguardo, che il nostro ministro degli esteri sia preoccupato: evidentemente le sue capacità di previsione sono inferiori a quelle del più mediocre ufficio di meteorologia. Occorre ora che pensi, e in modo concreto, alle modalità di un probabile rientro delle truppe senza troppi danni.
    Intanto, la prospettiva della formazione di un governo palestinese unitario sfuma e il primo ministro palestinese Ismail Haniyeh ha ribadito che il suo movimento, Hamas, non farà nessuna "concessione" quale il riconoscimento di Israele. "Non rinunceremo a nessun lembo della terra di Palestina, né al diritto al ritorno per i rifugiati", ha proseguito Haniyeh, secondo cui "la resistenza (contro Israele) ormai non è la scelta di una sola fazione, ma quella di tutti i palestinesi, all'interno e all'esterno" dei Territori. Haniyeh ha anche detto ha ripetuto che non permetterà nessun conflitto interpalestinese, poiché "la nostra lotta è diretta soltanto contro l'occupante?". Malgrado ciò il governo israeliano confida che il riconoscimento della Linea Verde nei libri scolastici possa indurre Haniyeh ad abbandonare il proposito di recuperare ogni lembo di terra? L'Europa ed ora anche il ministro degli esteri americano vogliono parlare con la Siria. Intanto, mentre dalla Siria passano materiali bellici verso Hezbollah, Haniyeh viene ricevuto dal presidente siriano Bashar al Assad, che annuncia per i palestinesi un aiuto siriano di circa 17 milioni di dollari.
    Mentre la tenaglia iraniana si stende intorno a Israele, il presidente iraniano Ahmadinejad, con abilità alterna le sue profezie di prossima distruzione di Israele a minacce e avvertimenti concernenti la questione nucleare. Quando l'Occidente riapre il discorso sul programma nucleare iraniano egli solleva la questione palestinese, come madre di tutti i problemi, e trova subito attente orecchie e menti pronte a sperare che inducendo Israele a concedere quanto più possibile di suo il despota iraniano si calmi e conceda qualcosa sul terreno nucleare. Non appena l'insolubilità della questione palestinese risulta evidente dall'assoluta intransigenza del fronte Iran-Hezbollah-Hamas, Ahmadinejad riporta l'attenzione sulla questione nucleare. Procedendo e minacciando su entrambi i fronti, e ottenendo progressivi arretramenti dell'occidente, Ahmadinejad avanza verso il suo obbiettivo. E, in realtà avanza verso la guerra. In questo vortice, l'occidente stralunato non trova neppure la forza per profferire una sola parola per denunciare l'infamia del convegno "storiografico" sulla Shoah che avrà luogo a Teheran il prossimo 11 dicembre.
    Siamo ormai ad un passo da Monaco 1938 e Israele prende il posto dei Sudeti. Non sono pochi , ne siamo purtroppo convinti , coloro che lascerebbero Israele andare in malora pur di ottenere la pace, la "pace per la nostra epoca" di Chamberlain. Certo, Israele non è i Sudeti e rappresenta comunque un osso duro militare non indifferente. Ma nessuno è invincibile, soprattutto se è

prosegue ->
lasciato da solo o circondato dall' indifferenza.
    Come a Monaco 1938 così oggi, c'è chi crede che concedendo all'Iran, un ruolo di potenza regionale "stabilizzatrice" - e quindi anche stabilizzatrice della Palestina? - si riuscirebbe a calmare i bollenti spiriti dei suoi dirigenti e a imboccare una via di pacificazione. Come a Monaco 1938 si fallirà perché nessuna concessione materiale può soddisfare chi è animato da un ideale escatologico. Chi ripete che la questione palestinese é la madre di tutte le questioni ha idee chiare della situazione quanto le aveva chi credeva di poter allontanare la guerra concedendo i Sudeti. Disse Churchill a proposito di Monaco: "Potevano scegliere tra disonore e guerra, hanno scelto il disonore, avranno la guerra". Non si riesce a sottrarsi alla tragica impressione che questa frase sia ancora pienamente attuale, dopo quasi settant'anni.

(Informazione Corretta, 6 dicembre 2006)





5. CONSEGUENZE DELLA GUERRA DEL LIBANO




Tre mesi dopo, un terzo della popolazione del nord
soffre ancora per le conseguenze della guerra.

Dalla fine della guerra, il numero delle persone che si sono rivolte al Centro per la Prevenzione dello Stress è decuplicato

di Eli Ashkenazi

Di recente Y., residente nell’Alta Galilea, è stata convocata per un colloquio di lavoro. Le sarebbe piaciuto accettare quel particolare incarico, ma dopo lunghe e attente riflessioni, ha informato il datore di lavoro che aveva deciso di ritirare la sua candidatura. “Gli ho aspiegato che volevo cominciare con il piede giusto. Mi ripresenterò quando mi sentirò di nuovo sicura e tutta d’un pezzo. In questo momento non sono emotivamente pronta,” spiega Y.
    Come molti altri residenti del nord, dalla fine dell’ultima guerra, Y. prova paure che le impediscono di operare normalmente.
    “All’inizio della guerra, un razzo katyusha è caduto sulla casa accanto alla nostra,” racconta Y. “L’intero edificio ha tremato, le finestre sono andate in frantumi e noi siamo stati sollevati da terra e sbattutti contro i muri. È stato molto difficile. Quello stesso giorno abbiamo raccolto le nostre cose e abbiamo abbandonato la casa. I giorni successivi li abbiamo trascorsi in un rifugio”.
    “Quando, qualche tempo dopo, siamo tornati a casa, è andata via la luce e la gente ha iniziato a gridare ‘Giù la testa!’. Siamo corsi nel rifugio antimissile e ci siamo seduti lì al buio. Io ero distrutta. Avevo la nausea e i nervi a fior di pelle e c’è mancato poco che non svenissi”, ricorda Y.
    Y. dice che da quando la guerra è finita, alla sera lei non riesce ad addormentarsi. “Ho paura quando sono sola in casa e non riesco a mandare mio figlio a scuola da solo perché temo che da un momento all’altro possa partire la sirena dell’allarme antimissile”. Entrare nella lavanderia, dov’era quando è caduto il razzo, è per lei quasi impossibile.
Y. ha, da poco, deciso di farsi curare, insieme al marito e ai due figli, dallo psicologo Alan Cohen presso il Centro Comunitario per la Prevenzione dello Stress (CSPC) del collegio universitario Tel Hai di Kiryat Shmona. Dalla fine della guerra, il numero delle persone che si rivolgono al centro è decuplicato. Da più di 25 anni il CSPC lavora a livello individuale, organizzativo e governativo per combattere lo stress.
    Secondo Nira Kaplansky, direttore delle cliniche del CSPC, “prima della guerra avevamo 12 pazienti e quattro terapeuti. Ora abbiamo 16 terapeuti e 130 pazienti, e 70 persone hanno completato la cura. Nel contempo, continuiamo a cercare persone che hanno bisogno del nostro aiuto”.
    Con ciò, al CSPC sono consapevoli di riuscire a raggiungere solo una frazione di quanti hanno bisogno di aiuto.
    Gli studi insegnano che, in situazioni traumatiche di emergenza, circa il 5% della popolazione registra sintomi gravi. Per Kiryat Shmona, questo vorrebbe dire che 1.200 persone hanno bisogno di cure, mentre solo circa 200 si sono rivolte al CSPC per essere aiutate.
    Il professor Mooli Lahad è il fondatore e il direttore del centro. Stando ai dati raccolti in vista di una ricerca a tutto campo sulla guerra, “più del 40% [dei residenti del nord] continua a pensare agli eventi della guerra. Più del 50% dei residenti della Galilea conosce persone che sono state ferite. Questo è un tasso di esposizione molto alto. Per queste persone la guerra è un’entità tangibile, non teorica”, dice Lahad.
    “La cura non è lunga, e si è dimostrato che nell’80% dei casi aiuta ad alleviare i sintomi”, spiega Lahad. “Non c’è alcuna ragione perché le persone continuino a soffrire”.
    I funzionari del centro dicono che il disordine da stress post-traumatico (PTSD) si sta diffondendo. Secondo Lahad, “si manifesta attraverso scoppi d’ira, un basso livello di tolleranza, incubi notturni, disordini del sonno e l’evitare le incombenze più semplici – le persone non escono alla sera, non vanno al supermercato, fanno solo ciò che non è procrastinabile. Tutto ricorda loro l’evento originario: il katyusha che è caduto a pochi passi da me, che continua a inseguirmi ovunque io vada”.
    Kaplansky ricorda una donna che è scappata da Kiryat Shmona con la figlia. Un katyusha è caduto accanto alla loro macchina mentre stavano scappando. La donna ha soffocato le proprie grida ed è corsa via come impazzita con la bimba tra le braccia.
“Questo è bastato ed avanzato: sia la madre che la figlia oggi soffrono di esaurimento”, dice Kaplansky. “Quando compaiono i primi sintomi, le persone non capiscono che si tratta di PTSD: sanno di non stare bene e cercano di far fronte alla situazione, ciascuno a modo suo. La persona che non riesce a dormire, per esempio, chiede al dottore di prescriverle dei sonnifferi e non sa o non cerca di capire che cosa le sta in realtà succedendo”.
     Anche molti studenti della scuola per assistenti sociali del collegio universitario
Tel Hai manifestano i sintomi della sindrome da stress post-traumatico (PTDS). Il dottor Moshe Farchi, lettore presso la facoltà, dice: “Molti studenti sono stati arruolati nell’esercito, molti vivono nel nord e la maggior parte degli studenti della scuola per assistenti sociali, circa il 60%-70% del totale, ha prestato servizio di volontariato nelle tendopoli di Nitzanim, allestite per accogliere i residenti del nord in fuga dalla guerra. Per la prima volta nella loro vita si sono ritrovati faccia a faccia con lutto, trauma e stenti”. Il collegio ha deciso di dedicare a questa questione una giornata all’inizio dell’anno accademico e lo scorso mercoledì gli studenti hanno avuto la possibilità di riunirsi e analizzare le proprie esperienze estive. “Era impossibile ignorare gli eventi che la scorsa estate tutti qui hanno vissuto”, dice Farchi, aggiungendo che: “I ragazzi hanno bisogno di sfogarsi e di parlare della loro esperienza”.
     Per esempio, una delle studentesse che ha prestato volontariamente assistenza nella tendopoli di Nitzanim ha parlato del momento in cui una donna, che era scappata dal nord con i figli, ha ricevuto la notizia che il marito, rimasto ad Acri, era stato ucciso da un razzo katyusha. A Nitzanim non c’era nessuno che potesse riportare la donna nel nord e la studentessa si è offerta volontaria per accompagnrla in questo difficile viaggio.
     “Ora”, dice Farchi, “alcuni studenti hanno perso la gioia di vivere e si sentono vuoti dentro. Nonostante siano altamente motivati, si sentono come se le loro batterie si fossero scaricate durante la guerra”. Farchi, che per lavoro va a Sderot una volta alla settimana, mette a confronto la cittadina del sud e Kiryat Shmona. Secondo lui, si percepisce un’atmosfera di scoramento e pessimismo in entrambe le città. “Per questo”, dice, “non si sentono quasi mai lamentele o proteste. Le persone imparano a vivere con la routine della disperazione”.

(Ha'aretz, 13 novembre 2006 - da Keren Hayesod)





6. IL RAPPORTO BAKER




"Parlare con Siria e Iran? Una follia"

di Arturo Zampaglione

NEW YORK - «E´ un pessimo rapporto, questo del gruppo di studio sull´Iraq. Ha un approccio burocratico e la tendenza a riciclare vecchie idee fallimentari, senza neanche porsi il problema di capire quali siano i veri interessi strategici degli Stati Uniti. Spero proprio che finisca nel dimenticatoio». Daniel Pipes non usa mezzi termini per esprimere il suo disappunto sul documento finale del gruppo di studio sull´Iraq, guidato dall´ex-segretario James Baker e dall´ex-parlamentare democratico Lee Hamilton. Come tanti esponenti di primo piano della destra ideologica, Pipes non si identifica nelle iniziative bi-partisan che si moltiplicano dopo la vittoria dei democratici nelle elezioni di mezzo-termine. «In Iraq abbiamo fatto degli errori negli ultimi tre anni e mezzo», ammette. «Ma con il rapporto Baker, scritto da dieci personaggi incompetenti, metà di un partito metà dell´altro, rischiamo di commettere sbagli ancora più gravi».
Fondatore e direttore del Middle East Forum, autore di diciotto libri tradotti in 19 lingue, Pipes è uno dei maggiori esperti americani del Medio Oriente. E´ anche un "neo-con" dalle posizioni anti-conformiste: nel passato ha parlato dell´opzione militare per l´impasse nucleare con l´Iran. Gli abbiamo chiesto di spiegare i rischi che la destra americana intravede nel rapporto sull´Iraq e quali alternative esistano al piano Baker.

Qual è a suo avviso il punto più debole del rapporto presentato ieri a George W. Bush e al Congresso?
    «Il documento dà per scontato che i membri della coalizione, e quindi soprattutto gli Stati Uniti, siano responsabili per quel che succede in Iraq. Non è così: se gli iracheni vogliono ammazzarsi tra di loro, è una cosa terribile, ma non è affare nostro. Certo, avremmo dovuto chiarirlo sin dall´inizio, limitandoci a togliere di mezzo Saddam Hussein, a insediare un uomo forte e concentrarci sulla sicurezza del paese. Invece per tre anni e mezzo ci siamo fatti distrarre dai sogni di democrazia e libertà, con notevoli sacrifici in termini economici e di vite umane. Adesso è necessario rielaborare l´intera politica irachena in base ai nostri obiettivi strategici, tenendo presente che l´Iraq non è vitale per gli interessi americani, come invece lo erano la Germania, il Giappone e in parte anche l´Italia, dopo la seconda guerra mondiale».

Baker, Hamilton e gli altri saggi hanno suggerito alcuni orientamenti. Che giudizio dà delle singole proposte, a cominciare dal dialogo con la Siria e l´Iran?
    «E´ una idea davvero singolare: perché mai i nostri nemici dovrebbero aiutarci a uscire dall´impasse? Semmai sono interessati a umiliarci, a indebolirci, a sconfiggerci. Nella migliore delle ipotesi, dunque, la proposta del dialogo con Tehran e Damasco è ingenua; nella peggiore delle ipotesi è folle. E sicuramente il presidente iraniano Ahmadinejad ne approfitterà per intensificare il confronto con il mondo occidentale».

Un´altra proposta è il rilancio dei negoziati diplomatici per il problema palestinese.
    «Ed è un esempio del pessimo lavoro di riciclaggio: dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo, invece di concentrarsi sul Kuwait e l´Arabia Saudita, la Casa Bianca si impelagò nelle trattative israelo-palestinesi. Fu un fallimento. Adesso il comitato Baker ripropone la stessa strada, ipotizzando persino la restituzione ai siriani delle alture del Golan. E´ tutto assurdo, ma non ne sono affatto sorpreso: non potevamo aspettarci molto di più da un gruppo di incompetenti».

Incompetenti?
    «Non basta che dieci pensionati della politica e della Corte suprema abbiano buona volontà per produrre soluzioni creative. Purtroppo è una vecchia abitudine della politica americana: quando qualcosa non va, ci si affida ai vecchi saggi, non agli esperti del campo. L´unica speranza, ora, è che prevalga lo spirito critico. Dobbiamo smetterla di combattere contro gli insorti, di presidiare le città, di lottare contro il caos: a questo ci pensino gli iracheni. Al tempo stesso dobbiamo mantenere un forte contingente militare in Iraq a salvaguardia dei nostri interessi strategici nella regione».

(La Repubblica, 7 dicembre 2006)


* * *

La follia di Baker

di Carlo Panella

Il rapporto che J. Baker ha consegnato ieri a George W. Bush merita un posto nella storia. Leggetelo e studiatelo, perché il suo schema è identico a quello di Monaco del 1938 ed è ispirato alla medesima dottrina politica.
Baker e i suoi colleghi sono evidentemente convinti, come Chamberlain, che il problema in gioco in Medio Oriente sia ''la terra''. Ragionano quindi -come Kissinger- dentro lo schema europeo post Westfalia: propongono trattative con gli Stati, mediazioni, accordi. Non si accorgono, non si vogliono accorgere, che invece la questione non è ''la terra'', o meglio che non è la sola. Non vogliono rendersi conto che l'avversario non è un indistinto terrorismo, ma un progetto totalitario islamista composto da estremismo sciita, politica di potenza siriana, fanatismo di Hamas e Hezbollah in cui la terra è secondaria, il punto focale è ''eliminare Israele dalla faccia della terra'' per ragioni religiose, come ha ripetuito ancora ieri Ahmadinejad..
    Conclusione: la proposta Baker è di trattare oggi Israele peggio di quanto non fu trattata la Cecoslovacchia nel 1938: obbligarlo a cedere a Damasco le alture del Golan di modo che Behar al Assad possa essere ben certo che la sua politica di appoggio al terrorismo di Hamas e Hezbollah paga e quindi lo spinga ancora di più a mettere le alture restituite a loro disposizione per lanciare razzi sulla Galilea anche da lì. Non fare nulla contro il progetto della bomba atomica dell'Iran e infine auspicare addirittura il ''diritto al ritorno dei palestinesi in israele'', in modo da cancellarlo con una bomba demografica.
    Colpendo in questa direzione, Baker infligge un colpo mortale anche a Abu Mazen, avversario dichiarato di Damasco che proprio in questi giorni tenta di liberarsi del figlioccio di Beshar al Asaad, Hanyeh, e il premier libanese Fouad Siniora che sta tentando di resistere alle pressioni eversive della piazza di Hezbollah, ectata apertamente da Damasco.
    Naturalmente, Baker propone anche implicitamente che non si faccia il processo sull'assassinio di Hariri, perché se no non si potrebbe trattare con il fratello e il cognato degli imputati, sempre Beshar al Assad.
Un capolavoro, non a caso osannato dalla sinistra progressista italiana.

(dal blog di Carlo Pannella)





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