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Notizie su Israele 388 - 9 maggio 2007

1. Il conflitto tra Israele e la «nazione araba»
2. Armi e munizioni attraversano il confine siriano
3. La pericolosa situazione in cui si trova Israele
4. «Teniamocelo stretto questo Stato d'Israele»
5. Il 70% degli antisionisti ignora la storia d'Israele
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 55:6-7. Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. Lasci l'empio la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al Signore che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare.
1. IL CONFLITTO È TRA ISRAELE E LA «NAZIONE ARABA»




Il caso Azmi Bishara

di Michel Gurfinkiel

«Ogni arabo è a casa sua in tutto il mondo arabo». E' quello che afferma l'ex deputato arabo israeliano Azmi Bishara in un'intervista diffusa da Al-Jazeera. Gli ebrei invece hanno soltanto Israele.

Azmi Bishara
Nato nel 1956 a Nazaret, questo cittadino israeliano appartiene alla minoranza araba cristiana. Compie i suoi studi secondari nel liceo battista della sua città natale. Nel 1974 s'iscrive all'Università ebraica di Gerusalemme. Vicino al partito comunista israeliano, come la maggior parte degli arabi israeliani cristiani in quell'epoca, effettua in seguito degli studi di secondo e terzo ciclo nella Germania dell'Est, paese che non riconosce Israele e che coordina gran parte delle attività anti-israeliane del blocco sovietico, ivi comprese le operazioni terroristiche. Nel 1986 ottiene un dottorato di filosofia all'Università Humboldt di Berlino-Est, che allora è uno dei bastioni intellettuali del totalitarismo comunista. Questo non gli impedisce affatto di tornare in Israele per svolgervi una carriera universitaria a due facce: ricercatore presso l'Istituto Van Leer, l'equivalente israeliano del CNRS, e decano della facoltà di filosofia e degli studi culturali all'università palestinese di Birzeit, in Cisgiordania.
    Nel 1996 è eletto deputato al parlamento israeliano, la Knesset, per la lista nazionalista araba Balad, d'ispirazione nasseriana. Nessuna istanza ufficiale israeliana si oppone a questa elezione per motivi di sicurezza nazionale. Viene rieletto altre quattro volte: nel 1999, nel 2001, nel 2003 e nel 2006. Nel 1999 fa perfino atto di candidatura al posto di primo ministro. La sua linea politica? Un rifiuto categorico dello Stato d'Israele come tale e delle sue istituzioni, un sostegno sistematico al nazionalismo palestinese e al nazionalismo arabo, un militarismo incessante per la trasformazione d'Israele in uno Stato binazionale ebreo-arabo destinato a dissolversi in una Grande Palestina araba. In compenso, neppure il più piccolo sostegno ai suoi fratelli arabo-cristiani israeliani (in particolare quando i musulmani di Nazaret tentano di costruire una moschea gigantesca di fronte alla basilica cattolica dell'Annunciazione), né ai palestinesi cristiani (sottoposti a incessanti persecuzioni e costretti all'esilio dopo l'instaurazione dell'Autonomia palestinese nel 1994).
    Nel 2001 Bishara si reca in Siria, paese con il quale Israele è in guerra, de jure e de facto. Lì s'incontra con il presidente Bashar el-Assad e gli fa l'elogio di Hezbollah, l'organizzazione terroristica e collaborazionista che organizza la comunità sciita libanese per conto di Teheran e di Damasco. Il governo israeliano - allora diretto da Ariel Sharon - ordina un'inchiesta che si concluderà con un nulla di fatto. Ma la Knesset in seguito voterà una nuova legge che vieta ai suoi membri ogni contatto non autorizzato con Stati nemici.
    Durante la guerra dell'estate 2006 tra Israele e Hezbollah, Bishara prende fragorosamente parte per quest'ultimo. Nel settembre 2006 si reca in Siria, in compagnia di due altri deputati arabi israeliani e mette pubblicamente in guardia i suoi interlocutori contro una nuova guerra che Israele scatenerà per «ristabilire la sua capacità di dissuasione militare». Si reca poi in Libano, dove afferma che «Hezbollah ha risvegliato lo spirito di resistenza del popolo arabo». Questa volta le autorità israeliane avviano delle azioni giudiziarie, invocando in particolare la legge del 2001.
    Bishara prende paura. Lascia Israele nell'aprile 2007. Il 22 aprile fa pervenire alla Knesset le sue dimissioni attraverso l'intermediario dell'ambasciata israeliana al Cairo.
    Quello che viene fuori da questi dati è l'immagine - poco brillante - di un uomo a cui una democrazia, Israele, ha permesso di condurre la sua vita e la sua carriera come gli pareva e che non ha mai smesso di combatterla, di diffamarla e alla fine di tradirla.
    Ma la cosa essenziale, la più decisiva, sta nell'intervista che Bishara ha accordato dopo la sua fuga, il 18 aprile scorso, a Al-Jazeera, la CNN araba situata nel Qatar. In essa dichiara che lui «è cresciuto in seno alla cultura araba», che ha degli amici in tutto il mondo arabo», che non ha «alcuna identità israeliana», e che «i nemici d'Israele non saranno mai i suoi nemici». In poche parole, non esisterebbe, secondo lui, un conflitto israelo-palestinese - non pronuncia nemmeno una volta la parola «Palestina» - ma piuttosto un conflitto globale tra Israele e la totalità di un mondo o di una nazione araba di cui lui sarebbe, nonostante il suo passaporto israeliano, un cittadino e un combattente.
    Si noti. Se Israele fosse stato creato a spese di una nazione palestinese, le dovrebbe delle riparazioni e dovrebbe accettare, come minimo, una suddivisione territoriale su un piede di parità. Ma se la nazione palestinese non esiste, e se il conflitto si situa, come dice Bishara, tra Israele e la nazione araba tutta intera, si entra in una logica del tutto differente: quella di un piccolo Stato che difende la sua sopravvivenza di fronte a un insieme geopolitico infinitamente più grande. E che, quindi, ha il diritto di esigere uno spazio territoriale minimo, un orticello sulla Terra promessa.
    Interrogato nel 1937 da una commisione d'inchiesta britannica sulla Palestina, Vladimir Jabotinski aveva dichiarato che le rivendicazioni di un mondo arabo già provvisto di numerosi Stati erano senza dubbio rispettabili in sé, ma che apparivano, quando le si paragonavano con quelle di un popolo ebraico senza Stato, come «le rivendicazioni dell'appetito» di fronte a «quelle della fame». Sessant'anni dopo, Bishara conferma questo punto di vista.

(UPJF, 3 maggio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. ARMI E MUNIZIONI ATTRAVERSANO IL CONFINE SIRIANO




L'Onu accusa: Damasco continua a rifornire gli arsenali di Hezbollah

di Gian Micalessin

Tutto come prima. E forse peggio di prima. Nonostante i quindicimila soldati dell'Unifil schierati nel sud del Libano, tra i quali 2.500 italiani, armi, missili e munizioni continuano ad attraversare il confine siriano e a riempire gli arsenali di Hezbollah. A lanciare l'allarme stavolta è il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, preoccupato per il rischio di un riacutizzarsi della doppia crisi che vede Hezbollah contrapposto a Israele e al governo del premier libanese Fouad Siniora.
    Il Paese dei cedri, nella poco rassicurante raffigurazione offerta dal rapporto, sembra, insomma, un Paese ancora sull'orlo del precipizio, un Paese sospeso tra la guerra civile e il riaccendersi del conflitto con Israele. Le paure di Ban Ki Moon sono elencate in un dettagliato rapporto al Consiglio di sicurezza in cui il segretario generale sottolinea che «i trasferimenti di armi avvengono regolarmente» e propone la creazione di squadre di osservatori incaricate di controllare il confine siriano. «Sono molto preoccupato che la crisi politica in Libano possa approfondirsi e aggravarsi», scrive Ban Ki Moon nel rapporto.
    Ma al di là delle preoccupazioni il documento suona come un vero e proprio atto d'accusa contro la Siria accusata ancora una volta di soffiare sul fuoco, o meglio sui fuochi del braciere libanese. Esattamente l'opposto di quanto promesso dal governo di Damasco al segretario generale dell'Onu durante la sua visita in Siria dello scorso 24 aprile. In quell'occasione il presidente Bashar Assad e i suoi ministri avevano garantito a Ban Ki Moon di esser pronti a collaborare con le Nazioni Unite per garantire la pace e la stabilità. Impegni puntualmente smentiti, secondo il rapporto del segretario generale, da alcuni dettagliati rilevamenti d'intelligence provenienti da Israele e da altri Paesi coinvolti nelle operazioni dell'Unifil al Sud, che provano i continui trasferimenti di armamenti nella valle della Bekaa. Quelle armi, pur non raggiungendo il confine d'Israele e il sud del Libano pattugliato dalle truppe Unifil e dall'esercito di Beirut, continuano ad ingrossare gli arsenali del Partito di Dio situati nella valle della Bekaa.
    Il rafforzamento militare di Hezbollah rischia, secondo il rapporto, di deteriorare ulteriormente i delicati equilibri del Paese innescando «un diffuso riarmo e ridando vita allo spettro di un nuovo confronto». Per evitarlo, secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, è quanto mai urgente metter in piedi una task force in grado di tenere sotto controllo il confine siriano. L'idea, appena abbozzata nel rapporto, fa pensare ad un più vasto utilizzo dei quindicimila soldati del contingente internazionale dell'Onu parcheggiati per ora nel sud del Libano. Una parte di quei contingenti potrebbe, su richiesta del Consiglio di Sicurezza, venir impiegato per controllare gli impervi valichi della valle della Bekaa ancora sotto il totale controllo della Siria e dei guerriglieri del Partito di Dio. Una proposta senza precedenti che di certo non farà felice Damasco e che rischia di mettere Ban Ki Moon in rotta di collisione con la Siria e con l'Iran, grande padrino delle forniture di armi ad Hezbollah.
    Il rapporto del Segretario generale contiene altre proposte potenzialmente dirompenti come la richiesta di procedere ad una chiara demarcazione dei confini siriano-libanesi e l'invito a Damasco a stabilire relazioni diplomatiche con Beirut. Entrambi gli inviti puntano a far piazza pulita delle convinzioni di quanti continuano a considerare il Libano parte integrante dei territori della grande Siria. In base a questa tesi, mai esplicitamente abbandonata, il regime siriano non ha mai proceduto ad una chiara demarcazione dei confini e non ha mai aperto un'ambasciata a Beirut. Secondo il segretario generale dell'Onu è invece venuto il momento di dare il via a «queste importanti misure per affermare uno stretto rispetto della sovranità del Libano, della sua integrità territoriale e della sua indipendenza politica».

(Il Giornale, 9 maggio 2007)





3. LA PERICOLOSA SITUAZIONE IN CUI SI TROVA ISRAELE




Purtroppo quella di Israele non è soltanto una crisi di leadership

di Giorgio Israel

Gli eventi attuali mi spingono a ribadire quanto ho già sostenuto su queste pagine: la guerra libanese e i suoi esiti hanno messo in luce una crisi di Israele più grave di una semplice crisi di leadership. Ci si chiedeva come era stato possibile che Israele avesse condotto in modo così inconcludente la guerra e avesse violato un cardine della sua politica, affidando la sua sicurezza ad altri, e oltretutto a una missione ambigua e incoerente rispetto ai suoi fini costitutivi. Oggi i motivi sono sempre più chiari e si riassumono in tre aspetti:
(a) eccessiva tecnologizzazione dell'esercito collegata all'illusione dell'invulnerabilità di Israele, e all'illusione correlata che fosse finita l'era delle guerre tradizionali, da cui la singolare prassi di condurre una guerra come se non lo fosse;
(b) il dilagare di un conformismo politicamente corretto (nello stile dell'odio di sé occidentale) che ha demonizzato il patriottismo, l'idea di nazione e persino il sionismo;
(c) una caduta di livello della classe politica israeliana, meno consapevole di un tempo che la posta in gioco è più che mai l'esistenza del paese.
Quando si legge Ha'aretz o un recente articolo di Amos Oz in cui si sostiene che "ora" vi sarebbero le condizioni ideali per la pace e che compete a Israele farsi carico del problema del "ritorno" dei profughi palestinesi, viene da chiedersi in quale dimensione dell'irrealtà vivano queste persone e ci si rende conto che la crisi ha raggiunto strati più profondi del ceto politico. Oggi Israele fronteggia la situazione più difficile e pericolosa della sua esistenza. Nessuna delle condizioni della risoluzione Onu 1701 è stata ottemperata. I soldati sono sempre in mano dei rapitori. Hezbollah si è riarmato e la missione Unifil è come una cortina di nebbia destinata a dissiparsi al primo vento di guerra. Gaza si è "hezbollizzata" ed è un gigantesco deposito bellico. Il piano saudita riesuma proposte arcaiche a scopi meramente propagandistici e al fine di estendere l'influenza saudita sulla politica palestinese, che ha di fatto sanzionato l'egemonia di Hamas. L'isolamento di Hamas sembra reggere, ma mostra crepe evidenti, in primis quelle provocate dalle dichiarazioni del premier italiano. Ma, soprattutto, Hamas non ha rinunziato a una virgola delle sue posizioni. Anzi, lo speaker del Consiglio legislativo palestinese, Sceicco Ahmad Nahr (membro di Hamas) in un recentissimo discorso tenuto in una moschea del Sudan ha invitato Allah a vincere gli ebrei, gli americani e i loro sostenitori, con un esplicito appello al genocidio: "Oh Allah, conta il loro numero e uccidili tutti fino all'ultimo". Non si sono udite né condanne né proteste, né si è arrestato il "cupio dissolvi" alla base di proposte come quella di Amos Oz. La leadership israeliana appare talmente debole da trincerarsi dietro l'oscillare tra proclami di mirabolante disponibilità alla trattativa e il rifiuto sussurrato di concessioni che condurrebbero il paese al suicidio. Quel che è peggio, non sente la responsabilità di farsi da parte, e segue invece una logica di sopravvivenza a ogni costo che fa pensare ai modelli della politica italiana.
Sono convinto che Israele sia un paese che possiede la vitalità e le forze

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necessarie a superare la crisi e a ritrovare la capacità di riprendere un cammino basato sull'unica vera risorsa che lo ha sempre salvato: la dimensione morale e il senso del proprio destino; rifiutando di affidarsi passivamente alla diplomazia politicante o alla mera tecnologia. Ma perché questo accada occorre che la società civile imponga con energia e presto un radicale rinnovamento del panorama politico.

(Il Foglio, 4 maggio 2007)





4. «TENIAMOCELO STRETTO QUESTO STATO D'ISRAELE»




Democrazia, la lezione di Israele

di Roberto Arditti

Teniamocelo stretto questo Stato d'Israele. Noi europei del XXI secolo, pacifisti comodi nel continente più pacifico del globo. Teniamocelo stretto perché non è detto che la storia ce ne dia un altro. Teniamocelo stretto con le sue contraddizioni, i suoi campi irrigati strappati al deserto e le sue missioni militari di dubbia efficacia. Un Paese in guerra continua, con la sua classe dirigente non più mossa dalla furia creatrice dei pionieri sopravvissuti all'Olocausto ma capace di tenere salda la barra di quella strana barca, in perenne e perigliosa navigazione, chiamata democrazia. Un Paese solo ma amico di molti. A volte in pubblico, altre in privato. Un Paese che rivendica la sua diversità con orgoglio, ma al tempo stesso un popolo che pone, da secoli, la stessa domanda: possiamo vivere in pace? Teniamocelo stretto anche dopo gli accadimenti degli ultimi giorni, con la lezione di democrazia che Israele sta dando al mondo.
    Così e solo così possiamo definire la pubblica presentazione dei primi risultati della commissione Winograd, che sta pubblicamente e brutalmente mostrando tutti gli errori commessi nel conflitto della scorsa estate nel nord del Libano contro le milizie di Hezbollah. I primi rapporti contengono una plateale sconfessione dell'operato del governo e dei vertici militari, mettendo in chiaro gli errori del primo ministro Olmert, del ministro della Difesa Peretz e di tutti gli altri protagonisti della vicenda. Lo smacco riguarda anche i servizi segreti, che avrebbero subito una lezione di intelligence dai loro avversari, capaci di diffondere false informazioni in grande quantità, riuscendo così ad indirizzare molte azioni aeree e terrestri contro falsi obiettivi. In sostanza Israele sta lavando in piazza i panni sporchi.
    Certo, parte di questo fenomeno è spiegabile con la lotta politica interna, da sempre furibonda ma particolarmente incattivita negli ultimi anni. Nel profondo però il rapporto Winograd è la prova ulteriore, o definitiva, dell'irreversibile scelta di campo compiuta 50 anni fa a Gerusalemme: Israele vuole vivere, crescere, prosperare come può e deve fare una vera democrazia. Possiamo dire altrettanto dei paesi circostanti? Certo che no. Possiamo chiamare democrazia l'Egitto, quell'Egitto di Mubarak che perpetua il suo potere, amico dell'Occidente fuori da propri confini assai più che nelle strade de Il Cairo? Possiamo chiamare democrazia i regimi della Siria o dell'Arabia Saudita? Nessuna persona di buon senso può affermarlo, anche se vediamo segni incoraggianti in diversi Paesi, ad esempio sul rispetto dell'indipendenza ed affermazione delle donne. Possiamo chiamare democrazia quella feroce guerra per bande che è la politica palestinese, dove le fazioni pensano più ad acquistare armi che a costruire strade e scuole? Ciò non significa che in Israele va tutto bene, sia chiaro. Scelte politiche discutibili ed a volte sbagliate sono state compiute in questi anni, ad esempio ostinandosi a cercare di garantire la sicurezza dello Stato senza alcun appoggio di contingenti internazionali. Ma tutto si è svolto in una cornice democratica, che peraltro vuol dire leadership contendibile, elemento con cui gli altri satrapi mediorientali non debbono fare i conti. E scusate se è poco. Allora cosa aspetta quest'Europa sorda e cieca a chiedere a gran voce l'ingresso di Israele nell'Unione Europea e magari nella Nato? Chi vuole associarsi da noi a questa giusta intuizione di Marco Pannella?

(Il Tempo, 4 maggio 2007)





5. IL 70% DEGLI ANTISIONISTI IGNORA LA STORIA D'ISRAELE




Ritratto scientifico dell'antisemita moderno

Anche chi considera lo stato ebraico uno dei problemi del Medio Oriente e scende in piazza sa pochissimo del "nemico".

di Elena Lattes

Un sondaggio del novembre scorso rivela che quasi il 70% tra chi considera Israele se non il principale, almeno uno dei problemi del Medio Oriente, non sa nulla o pochissimo e in maniera errata, della risoluzione Onu che sancì la fondazione dello Stato ebraico e della storia fino al 1967. Tra questi anche alcuni politici o persone impegnate che partecipano alle manifestazioni per la pace o per la Palestina. L'Haaretz, quotidiano liberal, ha riportato il 16 aprile scorso una tabella che indica che gli attacchi antisemiti in Europa, Australia e Canada nel 2006 sono raddoppiati rispetto al 2005. In alcuni casi si tratta di aggressioni fisiche con armi da fuoco, perpetrate con la chiara intenzione di uccidere. Il maggiore aumento è avvenuto in Australia, Canada, Gran Bretagna e Francia e vede coinvolti sempre di più giovani musulmani.
    La responsabile del Centro per gli studi sull'antisemitismo e il razzismo di Tel Aviv menziona la convention negazionista organizzata dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come una delle cause principali, insieme alla guerra degli Hezbollah della scorsa estate, di questo aumento. Che correlazione c'è tra i due sondaggi? Entrambi dimostrano che la disinformazione è fortemente legata alla violenza e che i maggiori responsabili dell'ignoranza sono evidentemente i governanti (con le loro dichiarazioni e i loro comportamenti) e i mass media (che non sempre informano in maniera corretta ed equilibrata).
    Come ha ampliamente dimostrato anche Emanuele Ottolenghi nel suo libro "Autodafé", giornalisti e vignettisti, durante gli anni dell'ultima "intifada", hanno a volte attinto alla peggiore iconografia dell'antisemitismo cristiano, quello che avrebbe dovuto essere debellato con il Concilio Vaticano II del 1965, secondo la quale il popolo ebraico è il popolo deicida ed è responsabile di tutte le violenze che subisce. E questa negativa concezione degli ebrei è stata trasferita pari pari allo Stato di Israele.
    Ogni qualvolta, infatti, è scoppiata un'aggressione araba o palestinese, la maggioranza dei media ha rivolto quasi tutta l'attenzione alla reazione israeliana anziché al casus belli, estrapolando singoli fatti dal contesto generale, omettendo particolari importanti, ma ritenuti evidentemente scomodi per il quadro che si voleva dipingere, dando maggiore spazio alle versioni propagandistiche e non ritrattando quando queste si sono rivelate esagerate o addirittura false. E' altresì significativo che l'ignoranza della storia e dei fatti più recenti sia maggiormente diffusa tra chi si dichiara "filopalestinese" e che le violenze antisemite aumentano di numero e di gravità proprio nei momenti più aspri del conflitto arabo-israeliano. Certamente non tutti i filopalestinesi sono antisemiti, ma è evidente che tutti gli antisemiti sono filopalestinesi, siano essi di destra che di sinistra. Ma, verrebbe da chiedersi, cosa c'entrano gli ebrei della Diaspora con la politica israeliana? Giusto per fare un esempio, è mai avvenuto che per dimostrare il proprio disaccordo con la politica italiana qualcuno avesse aggredito dei singoli cittadini, magari di origine italiana o legati culturalmente al nostro Paese, in un altro Stato? La risposta è ovviamente negativa e anche se, non sia mai, dovesse succedere, nessuno si sognerebbe di giustificare l'atto di violenza come "una giusta critica alla politica" dei nostri governanti.
    Allora come mai nei confronti di Israele e degli ebrei questo succede? E' chiaro che esiste un doppio standard di giudizio e che questo investe tutte le categorie lavorative, ma è ben più grave se a farsi influenzare dai propri preconcetti sono coloro che, quanto meno per etica professionale, dovrebbero dimostrare una certa equidistanza o se vogliamo una certa "equivicinanza".
In questo contesto rientra anche in un certo senso il boicottaggio dei prodotti israeliani da parte dell'Unione Nazionale dei giornalisti inglesi (NUJ). Questa iniziativa è stata presa subito dopo il rapimento del loro collega Alan Johnston da parte dei palestinesi.
Logica vorrebbe che invece di prendersela con Israele, i giornalisti prendessero posizione contro l'Autorità Palestinese che non fa nulla per liberare lui e il soldato Gilad Shalit.

(L'Opinione, 3 maggio 2007)





6. LIBRI




Giancarlo Elia Valori, «Antisemitismo, Olocausto, Negazione», Mondadori, 2007.

Recensione di Gianfranco Ferroni

Nel mondo c'è sempre qualcuno pronto a progettare la distruzione del popolo ebraico.

È un odio che non conosce confini geografici: la latitudine e la longitudine sono ininfluenti, la follia che provoca guerre insensate contro uomini inermi alberga e si insinua in qualsiasi nazione. Una ricorrente minaccia alla pace, sottolineata da Giancarlo Elia Valori nel libro «Antisemitismo, Olocausto, Negazione», edito da Mondadori. L'autore, che anche con questa pubblicazione conferma le sue capacità di sintetizzare e spiegare al grande pubblico i temi geopolitici che dominano l'agenda mondiale (con la semplicità che deriva dal saper coniugare le scienze dell'economia con quelle della comunicazione, permeate da una cultura fondata sull'umanesimo), dispiega informazioni preziose su una delle tragedie più devastanti compiute ai danni di un'intera comunità. E non dimentica di evidenziare le tesi di Karl Marx, scritte alla fine della sua Questione ebraica del 1844, quando definì un modello generale di antisemitismo 'di sinistra': «Noi spieghiamo la tenacia dell'ebreo non con la sua religione, ma piuttosto con il fondamento umano della sua religione, il bisogno pratico, l'egoismo». Parole che serviranno a uno dei più spaventosi regimi, quello stalinista, per adottare una politica antisemita ancor prima delle famigerate legislazioni di stampo nazista. È stata l'Unione Sovietica a lanciare una delle politiche più efferate mai ideate da una mente umana. Valori sottolinea che nel 1928 «furono proibite tutte le pubblicazioni in lingua ebraica», e «nel 1930 era stata definitivamente compiuta la desertificazione della vita culturale ebraica in Urss, con l'uccisione di molti dei suoi protagonisti (Dimanstein, Lirvakov) e, ricordiamolo, di Osip Mandel'stam in carcere». L'alleanza sovietica con Adolf Hitler intensificò le misure contro la popolazione ebraica: «Poco dopo la firma del patto Ribbentrop-Molotov dell'agosto 1939, il Cremlino si felicitava con i nazisti per la 'lotta contro la religione giudaica' e la stampa, la radio e il cinema e sovietici ebbero l'ordine di non fare alcun riferimento alla brutalità antisemita del regime nazista». Pagine da leggere nelle scuole ai più giovani (e utili ai più grandi per capire come sono censurati i testi utilizzati negli istituti di ogni ordine e grado). Shimon Peres, vice primo ministro di Israele, nella prefazione rileva «la capacità di resistenza di questo popolo e la sua determinazione a sopravvivere». E il portavoce del governo israeliano, Avi Pazner, auspica che il volume diventi «un comandamento per le persone di buona volontà, affinché siano consapevoli che ciò che è già accaduto può accadere di nuovo». Sapendo che solo gli uomini giusti potranno salvare il nostro futuro.

(Il Tempo, 28 aprile 2007)





MUSICA E IMMAGINI




Once There Was a Wicked Man




INDIRIZZI INTERNET




Beth Shlomo

Word of Messiah Ministries Messianic Jewish




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