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Notizie su Israele 408 - 4 dicembre 2007

1. Minacce di morte contro un pastore evangelico
2. Israele punta sul turismo
3. Intervista a Benny Morris
4. Se Israele non è lo Stato del popolo ebraico
5. La Bibbia aveva ragione sui re d'Israele
6. Terminata la piastra d'oro del Sommo Sacerdote
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 10:10-11. Il SIGNORE è il vero Dio, egli è il Dio vivente, e il re eterno; per la sua ira trema la terra, e le nazioni non possono resistere davanti al suo sdegno. «Così direte loro: "Gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo"».
1. MINACCE DI MORTE CONTRO UN PASTORE EVANGELICO




Il pastore Issa Bajalia
Gli annunci di persecuzioni di cristiani nei territori palestinesi non accennano a smettere. Solo poche settimane fa un cristiano palestinese è diventato martire. Rami Ayyad, membro della Società Biblica a Gaza, è stato rapito e brutalmente assassinato. Adesso c'è un pastore cristiano dell'Autonomia Palestinese che teme per la sua vita. Per non correre rischi, il pastore Issa Bajalia di Ramallah è fuggito a Gerusalemme. Ha ricevuto minacce di morte e ha chiesto protezione alle autorità palestinesi, ma queste gli hanno rifiutato ogni aiuto.
    Queste nuove minacce mostrano ancora una volta quanto è forte l'atteggiamento di violenza contro i cristiani palestinesi, soprattutto contro i cristiani evangelici. «Mi hanno detto che a me succederà la stessa cosa che è successa a Rami in Gaza», riferisce Bajalia. «Mi hanno detto che mi troveranno perfino negli USA e che mi romperanno braccia e gambe. 'Oltre al tuo problema agli occhi, non potrai nemmeno camminare più', mi hanno detto. Come Hamas ha trattato Fatah, così faranno a me: mi spareranno alle ginocchia.» Due uomini a Ramallah, uno dei quali è un impiegato dell'Autorità palestinese, hanno tentato di ricattare Bajalia chiedendo soldi. Uno è musulmano e l'altro è cristiano di origine. Bajalia si è rivolto all'Autorità palestinese, dove gli hanno detto che loro non hanno tempo per lui. Un poliziotto gli ha detto che per 5000 dollari può garantire la sicurezza di Bajalia. Dopo di che il pastore ha lasciato la città. «Da allora mi volto sempre indietro», ha dichiarato. «Sono sicuro che Rami era in una situazione simile alla mia.»
    Bajalia è nato in America e ha la cittadinanza americana. Sedici anni fa è arrivato a Ramallah, luogo di nascita dei suoi genitori. Offre aiuti umanitari, conduce una comunità e il suo lavoro si rivolge soprattutto ai musulmani. «Tra i musulmani adesso osserviamo un'apertura che prima non avevamo mai vista. Ma anche gli islamisti radicali sono attivi», ha detto il 47enne cresciuto in Alabama. E' stato il primo della famiglia ad arrivare alla fede. Dopo aver frequentato in Oklahoma la Rhema Bible Training School, nel 1991 ha spaventato i suoi genitori comunicando la sua intenzione di andare nel paese che loro avevano lasciato. Aveva sentito una chiamata che non gli permetteva di sfuggire. «Quando sono arrivato, lo stato del paese e delle case mi ha sorpreso», ha detto. «Qui sembrava che il tempo non fosse passato.»
    Le minacce sono iniziate quando medici e infermiere stranieri hanno cominciato a lavorare gratuitamente nella clinica di Bajalia e anche a pregare per i pazienti. Alcuni di loro erano evidentemente spie infiltrate. Lo hanno denunciato, dicendo che aveva tentato di convertire dei musulmani. I due uomini che molestavano Bajalia gli hanno detto che non doveva più evangelizzare, e gli hanno chiesto il terreno della sua famiglia con l'aggiunta di 30.000 dollari. La scarsa risonanza data alla cosa dall'Autorità palestinese non è necessariamente dovuta al fatto che è un cristiano - ha detto Baialia - ma piuttosto al fatto che lui «nella società non è nessuno». La stessa impressione l'ha ricavata dal Consolato americano, che è a conoscenza del suo caso, ma che si è fatto vivo soltanto una volta dandogli come consiglio di non ritornare a Ramallah.
    La cittadina di Ramallah, con i suoi 70.000 abitanti, una volta era nota per la sua fiorente popolazione cristiana. Adesso la percentuale dei cristiani è scesa all'1%, di cui Bajalia suppone che circa 400 sono cristiani nati di nuovo. «Con questi numeri, è chiaro che ci si sente in minoranza. Ma a me piacciono queste sfide. Qui siamo in zone non toccate per quanto riguarda l'Evangelo, e questa è una possibilità per Dio di far risplendere la sua luce.»

(israel heute, dicembre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. ISRAELE PUNTA SUL TURISMO




Le stime per il 2008 sono di 2,7 mllioni di visitatori

di Carmine Cosenza

Se il governo israeliano continuerà a investire nella promozione del Paese all'estero, oltre 2,7 milioni di turisti visiteranno il paese nel 2008, stando alle previsioni del presidente dell'Associazione degli hotel israeliani, Eli Gonen, secondo cui la prima conseguenza dell'aumento dei turisti sarà la creazione di 23mila posti di lavoro.
Nel 2011, continua Gonen, secondo quanto riportato dal sito di informazione economica israeliano Globes online, la forza lavoro nel settore passerà da 75mila a 172mila persone.
Il direttore marketing dell'associazione, Ami Hirshstein, ha aggiunto che affinché siano realizzati questi obiettivi, bisogna mettere in pratica le raccomandazioni contenute nel rapporto della Ernst & Young commissionato e pubblicato dal ministero del Tesoro nel 2006. Il rapporto suggeriva in particolare di investire 50 milioni di dollari l'anno nel settore del turismo, una cifra superiore a quella attualmente messa a disposizione dal ministero.
Intanto il Marocco risulta, durante il 2006, una delle principali destinazioni turistiche dell'Africa, con circa 6,5 milioni di turisti ed entrate pari a 3,9 miliardi di dollari.
Secondo l'ultimo rapporto economico sull'Africa, elaborato dalla Commissione Economica per l'Africa (Cea), il paese maghrebino si posiziona al quarto posto, subito dopo la Tunisia, il Sudafrica e l'Egitto. Stando alle stime riportate dalla Cea, su 808 milioni di turisti che hanno viaggiato nel mondo nel 2004, l'Africa ha registrato 41,3 milioni d'arrivi, pari al 5,1 per cento, che hanno generato entrate per 25 miliardi di dollari.
All'interno del continente, la regione settentrionale è quella che registra la più forte attività turistica, coprendo il 38,2 per cento degli arrivi di turisti. Seguono il Sud Africa (27,5 per cento), l'Africa Orientale (22,7 per cento), l'Africa Occidentale (9,4 per cento) e quella Centrale con il 2,2 per cento.

(Il Denaro, 22 novembre 2007)





3. INTERVISTA A BENNY MORRIS




La jihad del 1948

di Susanna Nirenstein

«La Risoluzione Onu n. 181 del 29 settembre 1947, esattamente 60 anni fa, stabiliva la spartizione della Palestina in due Stati sovrani, uno ebraico e uno arabo. Gli arabi la rifiutarono e la guerra che scaturì dal quel rigetto ebbe un´anima jiadista che ha una continuità con il fondamentalismo islamico di oggi». Ecco, Benny Morris, ancora una volta spariglia le carte e toglie al conflitto che cambiò la faccia del Medio Oriente, l´aura di puro conflitto territoriale. Il primo grosso sconcerto si era creato negli anni Ottanta, quando Morris aveva affermato che gran parte dei 700 mila profughi palestinesi erano stati cacciati dagli israeliani, e non andati via in risposta all´appello della leadership araba, accusando di fatto Israele di un contestato "peccato originale". Lo scandalo, cambiando totalmente di segno, si era ripetuto pochi anni fa, quando Morris scrisse che quella espulsione aveva il solo torto, ai fini della pacificazione dell´area, di non essere stata più radicale.
La schiettezza di Morris è fuor di dubbio. Anche il suo ultimo libro pone nuovi inquietanti interrogativi. Appena uscito in anteprima mondiale in Italia, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli Stati Arabi 1947-1949" (Rizzoli, pagg. 647, euro 25), certo non ci risparmia nuove testimonianze dolorose sull´estromissione dei palestinesi, le distruzioni dei loro villaggi, né su alcuni eccidi commessi dagli ebrei quanto su quelli compiuti dai loro nemici questa volta accompagnati da feroci smembramenti dei corpi; ma la parte più cocente sta nelle conclusioni, quando Morris stabilisce senza tentennamenti quanto lo spirito della jihad sia stato importante per il fronte arabo, guidato allora come oggi da un sentimento di rifiuto radicale verso l´esistenza dello Stato ebraico che non prevede né concessioni né mediazioni. A 60 anni esatti dalla Risoluzione Onu 181, a quasi sessant´anni dalla nascita di Israele che cade nel 2008, l´abbiamo intervistato.

Professor Morris, quella del '48 è stata una guerra santa?
«Non solo: ebbe i tratti di una jihad, di un conflitto culturale. E naturalmente politico».

Una risposta a quel che percepivano come un´invasione colonialista?

«Non volevano uno stato ebraico. Non importava se dietro ci fosse o meno una potenza coloniale».

Su cosa basa questa affermazione?
«Molti leader politici e religiosi parlarono di un´invasione di infedeli a cui bisognava reagire con la jihad. Non si trattava della presa di possesso di una parte del territorio palestinese a opera di un altro popolo: gli infedeli occupavano una terra islamica, e questo per l´Islam era intollerabile».

Una guerra santa simile agli jihadismi attuali?
«Gli jihadisti di oggi pensano di combattere in difesa dell´unica verità, quella di Allah, contro l´Occidente che invade i loro territori con truppe e cultura. La stessa cosa avvenne nella Palestina del '48: i palestinesi e gli arabi lanciarono una jihad, considerandola non una guerra d´attacco, ma di difesa contro un´invasione degli infedeli. Ecco perché spesso i leader arabi nel '48 paragonarono i sionisti ai crociati».

Crede che anche oggi non accettino l´idea di uno stato ebraico?
«La domanda oggi è più complicata dalla dissimulazione che gli arabi adottano. Penso che in generale rifiutino la legittimità di Israele tanto quanto allora, e siano convinti che prima o poi scomparirà. Alcuni pensano che Israele ora sia troppo forte e sia meglio rimandare l´attacco alle generazioni future. Altri, come Ahmadinejad, invece vogliono occuparsene subito. Questioni di tattica».

E i moderati?

«Non so cosa si intenda per moderati. Gente che tortura gli oppositori politici e non accetta il multipartitismo? In fondo sono tutti dittatori. Tra moderati ed estremisti non vedo grandi differenze».

Lei ha scritto tre libri sulla Guerra d´Indipendenza in 30 anni. Perché insiste? Cosa cerca, e cosa ha trovato?
«Non insisto su niente. Il 1948 rappresenta una grande rivoluzione che ha cambiato drammaticamente il Medio Oriente. È come il 1789 per gli storici francesi, o il 1917 per i russi. E poi è il mio anno di nascita, ecco un´altra ragione».

Il suo saggio si sofferma molto sulle atrocità commesse da Israele, ne svela di nuove. Eppure gli ebrei dell´yishuv, la comunità insediata in Palestina, erano intrisi di ideali di giustizia: da dove venne questa brutalità?
«È stata una questione di autodifesa. Gli ebrei in Palestina nel '48 erano 650 mila. Avevano intorno il doppio di palestinesi e gli arabi erano più di cinquanta volte tanto. Hanno dovuto combattere per sopravvivere. Io però farei una distinzione. Non considero espulsioni e distruzioni dei villaggi, atrocità. Sono state misure militari necessarie per difendere il territorio che stava per essere invaso. Se avessero fatto diversamente non avrebbero mai potuto vincere. I massacri e quella decina di stupri, invece, sono sicuramente dei crimini, come avvengono in tutte le guerre. Ma il totale delle nefandezze commesse dagli ebrei è molto inferiore a quello di altri conflitti: pensi ai Balcani. A Srebrenica i serbi hanno ucciso 9.000 persone in due giorni: in Palestina, in un intero anno di una guerra scatenata dagli arabi, gli ebrei uccisero in totale 800 tra civili e prigionieri».

Gli arabi si sono comportati meglio?
«Hanno fatto meno atrocità (nella Guerra d´Indipendenza comunque morì l´1 per cento dell´yishuv) solo perché hanno perso la guerra. Mentre gli ebrei hanno occupato 400 insediamenti nemici, gli arabi ne hanno presi una dozzina. Persero, dunque non furono in grado di compiere tanti massacri».

Dopo questa sua nuova indagine ha concluso che i 700 mila profughi palestinesi furono il risultato di un´esplicita politica di espulsione, o della guerra?
«La verità sta nel mezzo. Non c´è stata nessuna politica ufficiale di espulsione: i maggiori partiti sionisti non l´hanno mai decretata. Abbiamo i verbali delle riunioni di gabinetto, del comando generale, dell´Agenzia Ebraica. Al tempo stesso però le espulsioni ci furono, e, nell´estate '48, si decise di non riammettere chiunque avesse già lasciato il paese, espulso o fuggito che fosse».

Una decisione formale?
«Sì. E reiterata in diverse riunioni di gabinetto. Ogni volta che l´Onu o gli Usa hanno proposto un ritorno dei profughi si sono sentiti rispondere no. Il fatto è che nella primavera del '48 cambiò l´atmosfera: i palestinesi erano all´attacco; gli americani sembravano incerti sull´appoggio alla spartizione; gli inglesi stavano per ritirarsi; gli stati arabi erano in procinto di invadere: la leadership ebraica allora stabilì di non stare più sulla difensiva. È stata una questione

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militare, non ideologica, né politica. Molti palestinesi fuggirono, una parte minore fu espulsa: il ritorno fu impedito perché avrebbe destabilizzato il nuovo Stato sul piano demografico e politico».

Lei parla anche di una politica espulsionista araba. Cosa intende?
«Già nel '37 Haj Amin al Husseini, leader palestinese, rispose alla proposta di spartizione Peel rifiutando ogni compromesso: lo stato che chiedevano non avrebbe ospitato che gli ebrei venuti prima del 1917 (circa 70 mila dei circa 400 mila dell´yishuv di allora). E questa visione fu accolta nella Carta fondativa dell´Olp e ripresa negli emendamenti del '68: solo gli ebrei che avevano scelto la Palestina prima dell´"invasione sionista" (la Dichiarazione Balfour del '17, sul focolare ebraico in Palestina) avrebbero avuto la cittadinanza. E nel '48, dovunque siano entrati gli arabi, la popolazione ebraica fu cacciata e i villaggi distrutti».

Sono citate anche le espulsioni degli ebrei dagli stati arabi, circa 600 mila persone.
«Dal '48 in poi gli stati islamici imposero restrizioni severe ai loro ebrei, ci furono migliaia di arresti, pogrom. Nel giro di pochi anni le comunità ebraiche nel mondo arabo scomparvero, e la maggior parte di loro andò in Israele. 700 mila profughi palestinesi da una parte, 600 mila profughi ebrei dall´altra».
Lei denuncia il concreto rischio di un nuovo Olocausto ebraico.
«Più il tempo passa, più l´Iran si avvicina all´arma nucleare. Israele sarà in pericolo mortale così come l´Europa occidentale, perché i missili iraniani avranno una gittata sufficiente a raggiungerla. Per il Vecchio Continente sarebbe comunque una minaccia, un ricatto. E il terrorismo internazionale si rafforzerebbe. La questione va risolta, il 2008 sarà l´anno cruciale. Qualcuno, gli Stati Uniti o Israele, devono fare qualcosa».

Lo faranno?
«Sì. Ma forse mi sbaglio».

Come vede la conferenza di Annapolis?
«È un teatro delle ombre, non ne verrà niente. I palestinesi, specie quelli legati ad Hamas, respingono il compromesso, vogliono tutta la Palestina. Non cederanno sul cosiddetto "diritto al ritorno" dei profughi o su Gerusalemme. Abu Mazen per di più non ha potere. Qualsiasi cosa firmi, non potrà farla rispettare. E anche Olmert, non c´è che dire, è debole».

(La Repubblica, 26 novembre 2007)





4. SE ISRAELE NON È LO STATO DEL POPOLO EBRAICO




Sogni e incubi

da un articolo di Amnon Rubinstein

Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora non può chiamarsi Israele perché popolo d'Israele è sinonimo di popolo ebraico.
Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora la sua Dichiarazione di Indipendenza deve essere annullata, perché parla della fondazione di uno stato per il popolo ebraico chiamato Israele.
Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora deve essere revocata la risoluzione Onu del 29 novembre 1947 che prevedeva la spartizione del Mandato Britannico in due stati, uno arabo e l'altro ebraico.
Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora deve essere abrogata non solo la Legge del Ritorno, ma anche la Legge Fondamentale su "Libertà e Dignità Umana" secondo la quale i valori di Israele si fondano sul fatto di essere uno stato "ebraico e democratico".
Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora bisogna trovare un altro inno nazionale al posto della Hatikva.
Se Israele non è uno stato ebraico, non sarà né uno stato cattolico né uno stato buddista: diventerà uno stato arabo-islamico, anche se questo risultato verrà conseguito attraverso la formula dello stato bi-nazionale. Se Israele non è lo stato del popolo ebraico, allora non vi saranno mai due stati per due popoli. Se Israele diventerà uno stato arabo-islamico, molto probabilmente non sarà uno stato democratico.
Se Israele diventerà tutto questo, i suoi intellettuali e i suoi giornalisti anti-sionisti e post-sionisti saranno i primi a scappare. Quelli che resteranno indietro saranno gli ebrei originari dei paesi del Medio Oriente. Tempo fa fuggirono da un regime arabo per andare a vivere in uno stato ebraico, ma quello stesso regime che li aveva umiliati e oppressi ora li avrà agguantati di nuovo, questa volta senza via di scampo.
Uno scenario da incubo, destinato a non avverarsi. Ma è fondamentale capire sin d'ora perché è così importante la rivendicazione che Israele venga definito e accettato come uno stato ebraico e democratico. E invece ci viene detto e ripetuto che la presenza di una cospicua minoranza di arabi all'interno di Israele significa che Israele non può essere definito in questo modo, perché definire un paese senza tener conto della minoranza sin dalla sua definizione non sarebbe democratico.
Ma quando le Nazioni Unite decretarono la creazione di uno stato ebraico, gli arabi costituivano una minoranza doppia di quella attuale, eppure l'Assemblea Generale dell'Onu non vide alcuna contraddizione tra questa realtà di fatto e la definizione di Israele come stato ebraico e democratico.
Gli antisionisti dicono che le cose sono cambiate, che il mondo è entrato in una fase di post-nazionalismo. Ma anche in questa epoca la maggior parte dei paesi d'Europa, anche quelli con cospicue minoranze nazionali al loro interno, rimangono quello che sono: stati-nazione.
La verità naturalmente è che non c'è nessun buon motivo per non riconoscere Israele come lo stato democratico del popolo ebraico. La Corte Sprema israeliana ha ripetutamente indicato quali sono le principali caratteristiche ebraiche dello stato: che l'ebraico è la sua lingua ufficiale principale (anche se non l'unica), che i giorni di festa corrispondono a quelli della tradizione ebraica (sebbene anche quelli delle altre tradizioni vengano rispettati), che la popolazione dello stato è a maggioranza ebraica (sebbene anche le minoranze godano di diritti politici, civili e religiosi).
Ci viene detto che definire Israele come stato ebraico suscita il sospetto che possa trasformarsi in una teocrazia (…). Ma non era certo una teocrazia quella che aveva in mente l'Assemblea Generale dell'Onu quando votò che Israele sarebbe stato ebraico e democratico, né aveva in mente una teocrazia David Ben Gurion quando scrisse la Dichiarazione di Indipendenza, né l'aveva in mente l'ex presidente della Corte Suprema israeliana Aharon Barak quando definì "ebraica" l'essenza di questo stato.
Che vantaggio si avrebbe a cambiare il nome di Israele? Forse che gli arabi palestinesi accetterebbero uno stato degli ebrei con un altro nome?
Israele non ha bisogno di essere ebraico in senso strettamente religioso. È almeno dai tempi dell'emancipazione ebraica, due secoli fa, che gli ebrei costituiscono un popolo: un singolo popolo dotato di importanti elementi di identità religiosa e che, come tanti altri popoli, è fortemente legato al suo passato religioso, quel passato che fu il trampolino da cui è decollata la sua moderna identità nazionale.
Israele è lo stato del popolo ebraico in tutte le sue parti, così come deve essere lo stato di tutti i suoi cittadini, anche non ebrei, compresa la cospicua minoranza di musulmani i cui leader si piccano di negare di appartenere allo stato.
Lo stato non può identificarsi in una parte soltanto del popolo ebraico. Deve essere la casa comune di tutti i suoi cittadini – ebrei e non ebrei, ortodossi, tradizionalisti e laici – senza discriminare nessuna delle componenti che lo costituiscono.
È vero, ci sono ancora gravi carenze nel sistema di governo di Israele, tra le quali spicca la mancanza di matrimonio civile. La subordinazione dei cittadini ai tribunali delle rispettive religioni per quanto concerne lo status personale cozza con l'essenza di Israele in quanto stato democratico. Ma questo non è un buon motivo perché la leadership araba e palestinese si opponga alla definizione di Israele come stato ebraico quando, anzi, sono proprio loro quelli che vorrebbero creare una loro teocrazia faziosa e antidemocratica al posto di Israele.
Si oppongono all'esistenza di uno stato ebraico e democratico in qualunque pezzo di questa parte del mondo. E il loro sogno è il nostro incubo.

(Jerusalem Post, 28 novembre 2007 - ripreso da israele.net)





5. LA BIBBIA AVEVA RAGIONE SUI RE D'ISRAELE




Gli scavi confermano la realtà storica della narrazione sacra

GERUSALEMME - Importanti scavi nel sito di Tel Megiddo (Israele), località nota dell'Antico Testamento come «Armageddon», stanno rivelando alcuni aspetti del regno dei re Davide e Salomone che confermerebbero la realtà storica degli eventi narrati nella Bibbia.
L'annuncio è stato dato dal professor Israel Finkelstein, direttore del Department of Archaeology and Ancient Near Eastern Cultures dell'Università di Tel Aviv, che sta dirigendo gli scavi a Tel Megiddo dal 1994. Secondo Finkelstein, reperti recentemente riportati alla luce (risalenti ai primi tre millenni a.C.) mostrerebbero interessanti paralleli con la narrazione biblica, in particolare con le vicende di re Salomone.
Teatro di alcune importanti battaglie dell'antichità in cui si fronteggiarono Egiziani, Mitanni, Assiri ed Ebrei, Megiddo fu abitata per sei millenni di seguito (circa 7.000-500 a.C.) e occupata sporadicamente per un altro millennio. Secondo una profezia contenuta nel Nuovo Testamento, a Megiddo avrà luogo la battaglia escatologica tra il bene e il male (Armageddon significa «la collina di Megiddo»).
Scopo degli scavi della missione diretta da Finkelstein è quello di studiare la stratificazione e la cronologia del sito dall'età del Bronzo a quella del Ferro e più specificatamente di chiarire l'identificazione dello strato che rappresenta la Megiddo dell'età di re Salomone.

(La Stampa, 3 dicembre 2007)





6. TERMINATA LA PIASTRA D'ORO DEL SOMMO SACERDOTE




L'Istituto del Tempio a Gerusalemme ha reso noto che è terminata la costruzione della piastra d'oro del Sommo Sacerdote, in ebraico detta "Zitz". E' pronta per il servizio nel Tempio. La fabbricazione della "Zitz" è durata più di un anno. E' di oro puro ed è opera degli artisti dell'Istituto. Adesso aspetta il prossimo Sommo Sacerdote, che la userà per il suo servizio nel Terzo Tempio. Sulla piastra sono incise, come si trova nell'originale biblico, le parole di Esodo 28:36: "Santo al Signore". Il rabbino Chaim Richman, direttore dell'Istituto del Tempio, ha detto che nel frattempo, fino a quando se ne farà un uso effettivo, la piatra sarà esposta nella Mostra permanente dell'Istituto, insieme ad altri attrezzi del Tempio e vesti sacerdotali già preparate.
La "Zitz"

(israel heute, 3 dicembre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





MUSICA E IMMAGINI




Jacob, Jacob and Son




INDIRIZZI INTERNET




Messianic Jewish Ministry

Israel Wonders




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