1. «POSSIAMO CONTARE SOLTANTO SU NOI STESSI»
Americani sfiniti
da un articolo di Nahum Barnea
Giovedì scorso il presidente Bush, parlando alla Knesset, ha detto cose capaci di commuovere qualunque israeliano. Ha affermato, fra l'altro, che in caso di pericolo trecento milioni di americani sarebbero al fianco dei sette milioni di israeliani. Parole che, è stato detto, resteranno negli annali della tradizione diplomatica americana per le generazioni a venire. Speriamo che sia vero.
Purtroppo, però, la scorsa settimana si sono registrati degli eventi che inducono a riflessioni molto meno liete. Nell'arco di pochi giorni, praticamente senza vera resistenza, il Libano è caduto nelle mani di Hezbollah. La Francia, storica protettrice del Libano, ha borbottato qualcosa e poi se n'è stata zitta. Gli stati arabi sunniti, che vedono il governo di Fouad Siniora come un loro pupillo, hanno dato voce a qualche flebile protesta per poi mandare a Beirut una delegazione con la bandiera bianca.
E la grande, potente America, che attribuisce grande importanza all'indipendenza del Libano e che vanta d'averne cacciato le forze siriane quale unico vero successo della sua attuale politica in Medio Oriente, si è tenuta ai margini in silenzio. In altri tempi, gli americani avrebbero mandato la Sesta Flotta nel porto di Beirut o avrebbero bombardato le postazioni Hezbollah dal mare. Oggi no. L'America è stremata, sfibrata e lacerata al suo interno. Ai suoi protetti in Medio Oriente può offrire soltanto parole, il che ci riporta al toccante discorso tenuto da Bush alla Knesset.
Se il raid delle forze aeree israeliane dello scorso 6 settembre contro un reattore siriano voleva essere un messaggio inviato all'Iran per dire che nessuno può considerarsi immune da azioni militari, la paralisi che ha sopraffatto l'America e i suoi alleati di fronte alla "hezbollizzazione" del Libano ha mandato il messaggio esattamente contrario. La deterrenza è esaurita. Per paesi come Egitto e Giordania è una notizia molto preoccupante. Per Israele è drammatica.
La lezione da trarre è semplice, e risale ai tempi della nascita dello stato di Israele: non possiamo contare su altri che su noi stessi. I trecento milioni di americani saranno al nostro fianco solo se noi sapremo cavarcela da soli. Se fuggiremo di fronte alle responsabilità, scopriremo che gli americani, per non dire degli europei, fuggono più in fretta di noi.
Dunque, è giusto considerare l'America un prezioso alleato, un partner nel processo di pace e un sostegno in caso di guerra: ma non uno schermo dietro cui nascondersi quando viene il momento della verità.
(YnetNews, 20 maggio 2008 - da israele.net)
2. UNO STATO NON ANCORA ACCETTATO
I 60 anni d'Israele
di Giampaolo Valdevit
A 60 anni dalla nascita dello Stato di Israele, il 15 maggio 1948, esso non è ancora accettato da una parte della politica e della cultura italiana, come hanno platealmente dimostrato le tensioni sorte attorno alla Fiera del libro di Torino. Non si tratta di antisemitismo ma di antisionismo. Ma il dato non è allarmante perché lo stato di Israele è il prodotto dello sterminio degli ebrei, un fenomeno che appartiene alla nostra storia; non riconoscerlo quindi vuol dire cancellare il nostro passato. Senza voler indulgere alla storia fatta partendo con un se, mi sembra difficile negare che senza la Shoah assai più contrastata sarebbe stata la strada del sionismo in Palestina.
Gli unici che hanno avuto chiaro fin dall'inizio il nesso inestricabile fra lo sterminio degli ebrei e la creazione di quello che già prima si era chiamato il focolare ebraico in Palestina furono gli americani, e in particolare il presidente Truman. Per costoro l'unico risarcimento credibile era appunto la creazione dello stato di Israele e, pur di propiziarne la nascita, non temettero di scontrarsi duramente con il loro più fedele alleato da sempre, gli inglesi cioè. A dire il vero, il primo a riconoscere Israele fu l'Unione Sovietica: ma lo fece per ragioni ideologiche, perché sembrava che certe esperienze di collettivismo da parte dei coloni ebrei lo avrebbe spostato da quella parte.
A Mosca dovettero rapidamente ricredersi, perché è con gli Stati Uniti che Israele costruì un rapporto solido anche se non affatto idilliaco, come ancora si favoleggia. Più di uno fra i presidenti americani ha cercato di contenere l'attività delle lobby ebraiche, soprattutto quando queste hanno tentato di condizionare i comportamenti dell'amministrazione. Solo verso la metà degli anni sessanta a Washington si è definito Israele come un vantaggio strategico americano nel teatro del Medio Oriente. Dichiarazione assai impegnativa, questa, che fa di Israele un alleato, anche se non attraverso legami formali, con un peso del tutto a quello dei paesi dell'Europa occidentale; fra l'altro grazie a un impegno del genere Israele è stata aiutata a sviluppare tecnologia nucleare anche in campo militare ed è stato in seguito tollerato da parte americana la sua non adesione al trattato di non proliferazione nucleare, che pure ebbe negli Stati Uniti uno dei maggiori promotori.
Quanto agli europei la nascita di Israele come atto di risarcimento pressoché nessuno ha voluto intenderlo; tranne forse la Germania che negli anni sessanta il diritto al risarcimento lo riconobbe, ma lo concretò in termini piuttosto prosaici: in carri armati (attraverso una triangolazione con gli americani). Eppure oggi questo ritardo potrebbe essere definitivamente colmato da parte italiana e in generale europea col riconoscimento che nel Medio Oriente il primo nostro impegno dovrebbe essere volto a garantire la sicurezza di Israele, il diritto dei suoi cittadini a vivere entro confini sicuri: il che vuol dire confini che non si possano violare ogni volta che arrivano alla parte opposta congrui rifornimenti di missili. Per l'Italia in particolare un compito ancora spetterebbe: ridefinire il ruolo della missione militare in Libano, una missione alla quale non sono state dati neanche occhi per vedere, e che in tali condizioni nessuno capisce a cosa serva.
(Il Piccolo, 20 maggio 2008)
3. EBREI IN DIASPORA
"Noi ebrei, meglio lontano da Israele"
Intervista al newyorkese Jonathan Safran Foer
di Francesca Paci
GERUSALEMME - George W. Bush celebra il 60° compleanno d'Israele brindando al Binyanei Hauma, il grattacielo a vetri all'ingresso di Gerusalemme sede della conferenza internazionale «Facing Tomorrow». Jonathan Safran Foer preferisce l'understatement raffinato del quartiere Yemin Moshe che in questi giorni ospita l'International Writers Festival, la versione israeliana della Fiera del libro. L'enfant prodige della letteratura americana, che a trent'anni vanta già due bestseller come Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino, gioca sul prato con il figlio Sasha mentre la moglie, la scrittrice Nicole Krauss, firma autografi accanto ad Amos Oz. Prima di darle il cambio alla ribalta, Jonathan Safran Foer, Lacoste blu, jeans scuri e snikers come i suoi fan in attesa, racconta cosa significhi questo anniversario per lui, giovane ebreo di Brooklyn.
La festa, oggi, è qui. Si sente un po' padrone di casa o solo un ospite?
«È una sensazione forte, contrastante come i miei sentimenti verso questo Paese. Sono venuto per i libri e non per la bandiera, ma è una bella esperienza. Ho molti legami con Israele, sono ebreo, parte della mia famiglia abita qui, non sono un qualsiasi americano in gita. Vado fiero della mia identità mista anche se è complicata, un caos di emozioni contraddittorie».
Oltre il 50% degli ebrei vive all'estero. Secondo il columnist del quotidiano Yedioth Ahronoth, Sever Ploker, la diaspora si sta allontanando da Israele, quasi rimpiangesse, in fondo, l'identità ebraica debole ma cosmopolita precedente allo Stato nazionale. Cosa rappresenta per lei il mito della Terra Promessa?
«La diaspora ebraica e gli ebrei d'Israele sono mondi lontani ed è vero che la distanza sta aumentando. È come portare due esemplari dello stesso animale in montagna e nel deserto, alla lunga diverranno animali diversi. In Israele respiri l'ansia della vittoria, la rivalsa, l'agonismo. Io, ebreo newyorkese, sono una minoranza negli Stati Uniti e ne traggo forza, ispirazione. Essere maggioranza assoluta è assai meno eccitante. Appena arrivo qui mi sento a casa, ma subito prevale il disagio. Credo che i veri eredi dell'umorismo ebraico e del senso della tragedia non siano in Israele ma in America. È come se nascendo, Israele avesse perduto qualcosa, come se il nazionalismo avesse prevalso sull'ebraismo. Un Paese costretto alla guerra perenne può produrre arte? Direi di no. Ho l'impressione che gli ebrei si coprano di gloria quando sono sparsi nel mondo: metterli tutti insieme nella stessa terra non è necessariamente una buona cosa».
Ha passato due mesi a scrivere a Gerusalemme. Verrebbe a viverci?
«Un anno forse, per sempre no. Non mi sento americano ma a New York c'è il mio mondo. L'idea di uno Stato ebraico mi piace, sarei pronto a costruirne uno con altri ebrei, ma non qui. Israele è troppo corrotto dalla storia: vorrei un Paese meno romantico, meno politico, più ordinario».
Che ne sarebbe delle radici in un altrove diverso da Israele?
«Le radici bibliche, certo. All'alba dei suoi 60 anni Israele deve scegliere tra il bello e il necessario, se essere un museo o un attore della storia reale. C'è un'altra via a questa trincea, accettare i compromessi, l'assimilazione, l'incontro con l'altro».
Una qualità e un difetto d'Israele.
«Amo la speranza di questa terra, l'unica al mondo che fa i conti ogni giorno con la minaccia d'essere annientata. Ma l'eccesso di speranza ha prodotto il suo opposto, un misto di malinconia e disperazione per quanto si è perso costruendo».
Israeliani e palestinesi paiono condividere la mancanza di una visione. Gliene dia una: cosa accadrà domani?
«Non credo che da queste parti manchi una visione: ce ne sono troppe. L'immagine del passato, il mito e la rivendicazione incombono sul futuro. Una pace che renda tutti felici è impossibile, il massimo sarebbe rendere tutti ugualmente infelici. Dovessi immaginare una storia qui, sarebbe interamente al presente».
(La Stampa, 15 maggio 2008)
4. ANTISEMITISMO IN RETE
L'odio corre sul web anche grazie al 2.0
di Emanuela Di Pasqua
Il Centro Simon Wiesenthal fa un censimento dei siti della rete che richiamano all'odio: sono tanti, troppi, crescono e trovano, inevitabilmente, un prezioso alleato nel social networking. Che però non va criminalizzato.
"Hate in the Information Age", ovvero l'odio nell'era informatica: così si intitolava il congresso tenutosi recentemente negli Stati Uniti nel corso del quale è stato presentato l'ultimo report, promosso da Centro Simon Wiesenthal (SWC), sul rapporto tra internet, antisemitismo e razzismo. Il percorso iniziato da Simon Wiesenthal, sopravvissuto all'Olocausto che ha trascorso la vita a combattere una battaglia personale mondiale contro l'odio razziale e l'antisemitismo, non si ferma dunque alla sua morte.
Il centro creato da Wiesenthal promuove tutti gli anni uno studio che setaccia tutti i siti della rete che inneggiano all'odio o al razzismo, proponendo vari tipi di soluzioni per arginare l'odio razziale. I risultati dell'analisi annuale non sono confortanti, come spiega il blog del New York Times. Il gruppo ha individuato infatti 8 mila siti problematici negli ultimi 12 mesi, con un incremento del 30 per cento rispetto allo scorso anno. Un aumento a cui hanno contribuito anche siti come Facebook e MySpace, perché il cosiddetto web 2.0 facilita l'inserimento di contenuti dal basso e di video.
Per il SWC, i gruppi razzisti non fanno più proselitismo in maniera classica ma utilizzano la rete e soprattutto i siti di seconda generazione. Un terzo dell'incremento di odio che circola sul web è infatti da addebitarsi, secondo il rabbino Abraham Cooper, proprio ai blog, ai siti di social networking e a tutti quei forum che supportano il terrorismo. Basta bollettini e manifesti, manifestazioni o cortei, i metodi tradizionali sono ormai superati, a favore di un'internet utilizzata anche per diffondere l'anti cultura dell'odio. I gruppi estremisti investono molto sul cyberspazio, e il Centro Wiesenthal da tempo propone l'adozione di legislazioni che proibiscano l'iconografia nazista.
Ma ormai non si tratta nemmeno più solo di antisemitismo. O meglio, sui siti monitorati definiti problematici il 40 per cento ha un'ispirazione antisionista, il 20 per cento si scaglia invece contro i neri e il 15 per cento contro gli immigrati in senso generico.
(VisionPost, 22 maggio 2008)
5. UN EBREO ITALIANO SI RACCONTA
Tanta nostalgia per gli ebrei che vivevano nel silenzio del loro profondissimo spirito ebraico, che non necessariamente si traduceva né in militanza, né in osservanza.
Piccolo mondo antico
di Luciano Bassani
Sono nato in una famiglia di ebrei italiani sia di padre che di madre.
La famiglia paterna Bassani /Limentani,di origini venete, si stabilì a Ferrara dove partecipò alla formazione di quell'ambiente intellettuale illuminato di inizio 900 a cui molti ebrei dell'epoca presero parte; il padre di mio padre professore di lettere, tutti i fratelli della madre di mio padre medici, filosofi, letterati.
Erano italiani, erano illuminati e avevano un grande senso di umanità,
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di filantropismo, di libertà e di tolleranza che rappresentava il loro modo di vivere un profondo senso di appartenza all'ebraismo che seppure non praticato non rinnegavano.
Essere ebrei era per loro un' intima manifestazione del loro io più profondo che non sbandieravano ai quattro venti nè imponevano a chi li circondava in modo acritico e coercitivo
Quegli anni del primo novecento erano anni difficili, anni di transizione, di cambiamento, anni in cui già si intravvedevano nuvole nere all'orizzonte ma erano anche anni in cui queste grandi famiglie ebree, da non molto sdoganate dai ghetti e riammesse nella società italiana, potevano dare sfogo a quella brama di uguaglianza da tempo sognata, buttandosi a capofitto nei mestieri e nelle professioni liberali con intelligenza ed operosità.
Così scriveva mia nonna paterna vissuta fino all'età di cento anni:
"Per i miei figli e nipoti desidero che i miei funerali siano quanto possibile modesti e puramente civili:
"sono ebrea per ininterrotta ascendenza paterna e materna, sono ebrea per un insopprimibile legame di affetti e di pensiero [.........] della religione ebraica ammiro gli altissimi concetti, le nobili tradizioni, se spogli d'intransigenza, se animati da caldo spirito di fraternità per tutta l'umanità [.........] e per onorarmi ricordardatevi degli alberi in Israele [.........] ancora un tenero saluto e un caldo abbraccio da chi tanto vi ha sempre amato"
La famiglia materna Luzzati/ Momigliano di origini piemontesi, da Trino vercellese, prima città dove si insediò in arrivo dalla Spagna, si stabilì poi ad Asti a metà dell'800.
Se la famiglia paterna aveva più una connotazione intellettuale, la famiglia materna aveva più connotazioni rurali, dove le professioni più in auge erano legate alla compravendita di terreni, all'edilizia, al commercio seppure anche in questa casa non sono mancati artisti, critici e letterati importanti, lo zio Attilio Momigliano, il cugino Emanuele Luzzati.
In questa realtà rurale italiana, si viveva di rapporti di buon vicinato con le gente del posto da cui si era benvoluti e stimati e dove il fenomeno dell'integrazione nelle realtà locali conviveva con un ebraismo antico fatto di tradizioni, festività e specialmente di unità famigliare.
Era una vita ebraica semplice, fatta di gesti, di ricorrenze, di gioia di trovarsi e ritrovarsi; si era uniti a baluardo di una società apparentemente benevola e tollerante ma sempre infarcita di antichi pregiudizi che seppur sopiti potevano riaffacciarsi in qualunque momento.
Si viveva però in armonia con la gente con cui si lavorava e che in genere condivideva con gli ebrei italiani molte occasioni sia di lavoro che di festa.
In particolare il rapporto con le famiglie contadine era solido e talora quasi parentale. Essi trovavano nelle famiglie ebraiche un calore, una rettezza morale, una disponibilità all' aiuto che li affascinava e che creava in loro un grande senso di stima e di rispetto.
Tutto questo avrebbe dato poi i suoi frutti di umanità e solidarietà che molte famiglie di ebrei avrebbero sperimenato durante le leggi razziali quando da queste stesse famiglie contadine furono salvati.
Sono dunque un ebreo italiano, figlio del dopoguerra, essendo io nato nell'aprile del 1954.
Ho passato un infanzia serena nel boom degli anni 60.
Mio padre, uomo d'ingegno e gran lavoratore, amante del bello, curioso per natura, sempre alla ricerca di nuove sfide e di nuovi obbiettivi, trovò nella medicina la via per superare gli anni di sofferenza e aiutare i bisognosi secondo un etica ebraica tramandata nei secoli.
Mia madre, donna buona e fragile, passò da una vita ebraica di provincia coi suoi ritmi e le sue antiche regole ad un mondo milanese più complesso e specialmente si scontrò o meglio fu investita dalla famiglia ebraica, intellettuale di suo marito, dove esistevano delle ferree regole matriarcali a cui bisognava sottostare.
Mia sorella ed io non frequentammo la scuola ebraica, forse perché non si confaceva al pensiero illuminato di certo ebraismo italiano, ma frequentammo la scuola steineriana a quei tempi più consona al pensiero social chic della buona borghesia milanese.
Poi la scuola pubblica, in cui il proprio ebraismo ritornava nelle ore di esonero dalla religione e nella ricorrenza delle festività importanti.
Il primo contatto con Israele arriva con la guerra dei 6 giorni. Ricordo mia madre e mio padre attaccati alla radio, attanagliati dalla paura della fine imminente di quel piccolo paese apparentemente così fragile e indifeso.
Ricordo scarne immagini in bianco e nero di carri armati, ricordo i soldati israeliani trionfanti. Forse è li che nacque la mia passione e il mio amore per Israele, rinforzato da un successivo viaggio con l'ADEI nel 1968 che confermò questi miei sentimenti.
Gli anni passarono, mio fratello più piccolo approdò alla scuola ebraica, e questo portò in casa un vento nuovo e antico allo stesso tempo, un incontro con un ebraismo diverso ma complementare.
Cambiarono un po' le frequentazioni o se ne aggiunsero di nuove; una nuova realtà ebraica mi si spalancò davanti, con nuove problematiche, nuove situazioni ma specialmente giovani che in parte condividevano con me una storia antica e problemi moderni.
La FGEI (federazione giovanile ebraica italiana) coi suoi campeggi, i nuovi amici e una bionda ragazza ebrea che non avrei più perduto di vista.
Questo nuovo mondo portò con se nuove realtà, la condivisione di tradizioni ebraiche differenti, portò un matrimonio ebraico e la grande passione per Israele.
Oggi che vivo una mia vita ebraica profonda, oggi che conosco di più la realtà comunitaria, oggi che sono coinvolto in tante attività ebraiche interessanti e per me irrinunciabili, qualche domanda incomincio a pormela nei confronti di questo ebraismo così variegato, multiculturale e iperconflittuale che mi circonda.
Infatti se la Comunità di Milano è uno spaccato della società italiana, se la composizione multietnica della comunità è simile alla multietnia della società italiana, perché assistere impassibili al manifestarsi di un integralismo e di un separatismo esasperato da parte di taluni che distruggono in un attimo quelle regole di solidarietà, di umanità, di "zedacà"cioè giustizia che da sempre hanno contraddistinto l'ebraismo.
Perché entrare in certi ambienti ebraici ispira un sentimento di lontananza, di incomprensione, di distanza per il solo motivo che un certo modello di ebraismo non coincide con un altro?
Ma chi sono questi personaggi che si arrogano il diritto di giudicare una tradizione antica, un retaggio fatto di gente, di onestà e di cultura che ha partecipato a traghettatare nel bene e nel male l'ebraismo fino ad oggi?
Ebbene credo di poter dire che, specialmente oggi che viviamo in un mondo globalizzato e appiattente, specialmente oggi che i valori della cultura e della libertà sono con troppa facilità messi in discussione, tutti gli ebrei, di qualunque origine, ceto sociale o credo politico, sia quelli più osservanti le mizvot sia quelli meno osservanti, dovrebbero cercare rispetto reciproco, dovrebbero dare alla società che li circonda un immagine migliore di quella che spesso viene fornita.
Siamo un popolo antico, siamo un popolo unito da tradizioni tramandate di padre in figlio, ognuno di noi ha però dei retaggi culturali unici e particolari che dovrebbero essere salvaguardati e consegnati ai propri fratelli che a loro volta dovrebbero consegnare i loro; sarà solo così che tutto quello per cui per secoli si è lottato, quella fiaccola che nonostante tutto e tutti è ancora accesa, potrà continuare ad ardere.
Shalom lecol ha Kehilà
(Newsletter di Morasha.it, 18 maggio 2008)
6. TECNOLOGIA ISRAELIANA
In Israele capire l'abbaiare dei cani aiuta a sorvegliare le carceri
E' in uso un software di riconoscimento vocale in grado di distinguere il significato dei latrati dei cani da guardia.
di Emanuela Di Pasqua
ISRAELE Il linguaggio canino sfugge certamente al codice umano, ma secondo gli esperti esiste un modo di spiegare e interpretare le varie declinazioni dell'abbaiare.
E l'idea, già convertita in un software, è proprio quella di decifrare le diversità dei versi di questi animali, utilizzandole a fini di sicurezza.
NELLE CARCERI - Noam Tavor, capo dell'Israel Prisons Service, spiega che spesso le guardie sono sviate dagli allarmi dei cani, talvolta interpretati come pericoli quando invece sono semplici guaiti di dolore, fame, amore, entusiasmo o solitudine. Insomma, bisogna saper tradurre un semplice bau e laddove non c'è questa sensibilità umana interviene una piattaforma tecnologica, appositamente studiata nelle prigioni per lanciare tempestivamente i segnali di pericolo.
IL SOFTWARE In buona sostanza vengono raccolti e registrati, attraverso speciali microfoni, solo alcuni latrati, ovvero quelli considerati significativi in termini di sicurezza. Una volta individuati i latrati rivelatori di aggressività, si attivano speciali telecamere e megafoni in corrispondenza delle zone calde della prigione.
TANTO RUMORE PER NULLA Gli anglosassoni lo chiamano il fenomeno del "boy who cried wolf" (il ragazzo che grida al lupo) e identifica l'atteggiamento tipico di lanciare l'allarme per nulla (un concetto molto simile a quello della favola di Pierino e il lupo). Spesso i cani hanno creato difficoltà alle guardie carcerarie anziché essere d'aiuto, proprio per la difficoltà di riconoscere il segnale giusto. Da qui nasce in Israele, nazione notoriamente all'avanguardia in tema di difesa e sicurezza, una partnership tra il Prisons Service di Tel Aviv e una start up concittadina, Bio-Sense, incaricata di sviluppare una sorta di sensore in grado di percepire il livello di stress contenuto nel verso canino. Grazie al sensore i latrati di emergenza vengono prontamente raccolti e scatta un sistema di allarme. La tecnologia è stata sviluppata nel 2005 e da allora la giovane azienda israeliana sostiene di aver avuto più di 100 clienti (compresi gli agricoltori che vogliono difendersi dai ladri), tutti rigorosamente israeliani.
(Corriere della Sera, 21 maggio 2008)
7. UN PROGETTO DI PACE BASATO SU INDUSTRIA E COMMERCIO
Un kibboutz capitalista come ricetta per la pace
Steff Wertheimer, che si dichiara «combattente per la pace», non ha mezzi termini nell'esprimersi su come raggiungere la tanto sperata pace in Medio Oriente. Dialoga con i politici di tutto il mondo. Ma quali sono le sue vere intenzioni?
Steff Wertheimer invita alcuni giornalisti a visitare Tefen, nel nord di Israele, e mette a loro disposizione un elicottero e distribuisce loro della documentazione stampata su carta patinata. Ha già illustrato le proprie idee al Congresso americano, e ha degli ottimi rapporti con il governo tedesco.
Quest'anno riceverà la medaglia Buber-Rosenzweig come riconoscimento per il proprio impegno politico. Il suo progetto per la pace si basa sui suoi cinque complessi industriali, che sono poi la sua fortuna dal punto di vista professionale in quanto imprenditore. Nel maggio del 2006 Wertheimer ha venduto 1'80 % delle quote della sua azienda metallurgica «!scar» al multimiliardario Warren Buffet, per una cifra che si aggira attorno ai 4 miliardi di dollari. Si tratta della cifra più alta mai pagata per la vendita di un'azienda israeliana. L'idea per la pace di Wertheimer si basa su una serie di proposte molto concrete: creare industrie e attività commerciali, posti di lavoro e dare alle persone una speranza per il proprio futuro. «Il denaro ricavato dal commercio del petrolio giova solo ai ricchi e ai potenti, che se ne servono poi solo per acquistare armi e li sperperano per i loro giochi politici», ha dichiarato. Sulle sue carte geografiche particolari, tutte colorate, i Paesi produttori di petrolio come l'Arabia Saudita e l'Irak figurano nel gruppo dei paesi poveri, come la Giordania e l'Egitto. Il pericolo sta nella percentuale molto alta di giovani al di sotto dei 14 anni e di un forte tasso di disoccupazione; il dovere dell'economia è quello di ripartire equamente la ricchezza e il benessere, sostiene il manager israeliano. Un mezzo per aiutare i Paesi del Medio Oriente è quello di impiantarvi imprese e aziende che facciano esportazione.
«Dopo la seconda guerra mondiale il Piano Marshall ha aiutato l'Europa a riprendersi e a rialzarsi; se ciò è stato possibile, è stato perché gli aiuti economici non sono stati fatti passare attraverso i governi». Tutti hanno beneficiato di quella iniziativa storica: sia tra i tedeschi della Germania distrutta dalla guerra che le imprese americane; l'economia occidentale, diventata florida, ha trasformato il paesaggio politico mondiale. Wertheimer, nato nel 1926 a Kippheim in Germania, è fuggito in Palestina con la propria famiglia nel 1936, e deve il suo successo al presidente francese Charles De Gaulle.
Quando la Francia nel 1968 ha decretato un embargo sulle armi contro Israele, Wertheimer ha iniziato a fabbricare pezzi di ricambio per aerei; oggi, la sua azienda produce pezzi di ricambio per un valore di 1,2 miliardi di euro e principalmente destinati all'esportazione.
Questo corrisponde al 10% della produzione totale nello Stato di Israele. Wertheimer presenta il suo progetto di «kibboutz capitalista», mediante il quale egli vorrebbe portare grandi benefici in Turchia e in Giordania, e un domani anche in Libano e nei territori palestinesi. Il suo esempio di riferimento è il complesso industriale di Tefen che egli ha realizzato nel nord di Israele. All'interno dell'enorme struttura possiamo trovare delle cose particolari come statue e sculture di arte contemporanea. «Le moderne aziende devono dare una grande importanza all'ecologia e avere delle procedure che rispettano le norme ambientali per potersi installare da noi». Wertheimer ha costruito dei veri e propri musei nei reparti di produzione poiché, ha dichiarato, «l'arte per me è espressione della creatività. E credo che la creatività sia uno dei motivi del successo di un'azienda».
In alcune sale sono esposte delle vecchie automobili, che danno un aspetto veramente particolare ad un luogo che normalmente non sarebbe utilizzato come museo. Wertheimer ha anche un altro interessante primato: ha realizzato il primo museo dedicato agli «Jekkes», gli ebrei tedeschi che si sono stabiliti in Israele.
E' bello soffermarsi anche sulla mensa aziendale, che sembra un vero e proprio ristorante: belle tovaglie, tendaggi, servizio di alto livello. «Il nostro è un kibboutz capitalista e vogliamo che qui regni la pace». U.S.
(Chiamata di Mezzanotte, anno IV- n.4, 2008)
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