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Notizie su Israele 478 - 9 gennaio 2010

1. Una lotta che accomuna ebrei e musulmani
2. Arabi che vogliono inserirsi nella società israeliana
3. Nel paese dove si convive con l'«oggetto sospetto»
4. Le giovani musulmane di Hamas
5. Un contenzioso dalle radici profonde
6. L'ultimo ebreo di Kabul
7. Panorama messianico da Gerusalemme
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 50:11. I riscattati dall'Eterno torneranno, verranno con canti di gioia a Sion, e un'allegrezza eterna coronerà il loro capo; otterranno letizia, allegrezza, il dolore e il gemito fuggiranno.
1. UNA LOTTA CHE ACCOMUNA EBREI E MUSULMANI




Il rabbino antidroga vuole abbattere il muro dell'omertà e quello della diffidenza

Aryeh Sufrin combatte da quasi 20 anni le tossicodipendenze. E quando è arrivato un ragazzo in abiti tradizionali islamici alla sua porta per chiedere aiuto, ha fondato "Join the loop".

Aryeh Sufrin
LONDRA - Spacciatori e narcotrafficanti hanno un nemico particolarmente agguerrito a Londra: il suo nome è Aryeh Sufrin e di mestiere fa il rabbino, "il rabbino antidroga", lo chiamano dalle sue parti. Sufrin, che vive e lavora nell'East End della capitale inglese, è un tipo abituato ad abbattere molti muri: il muro d'omertà e di emarginazione che spesso circonda chi ha problemi di sostanze stupefacenti, purtroppo anche all'interno delle comunità ebraiche; ma anche il muro di diffidenza e odio che spesso divide ebrei e musulmani.
Il quartiere in cui opera, infatti, è popolato soprattutto da immigrati, di prima, seconda e terza generazione: inclusi molti ebrei ashkenaziti e musulmani provenienti dal Pakistan, dal Bangladesh e da altri Paesi dell'Asia meridionale.
Purtroppo anche le sostanze stupefacenti sono molto diffuse. Così, quasi vent'anni fa, Sufrin ha deciso di rimboccarsi le maniche e dare una mano ai giovani con problemi di droga e alcol, senza fare distinzioni: ebrei, cristiani e musulmani.
La sua lotta alla tossicodipendenza è conosciuta e apprezzata dalle autorità inglesi, tanto che lo scorso ottobre la regina Elisabetta in persona lo ha premiato con una medaglia al valore civico.
Ma è lo stretto legame del rabbino con i giovani e con le autorità musulmane a rendere il lavoro di Sufrin ancora più prezioso. Infatti, qualche anno fa, quando un ragazzo vestito in abiti tradizionali islamici si è presentato a chiedergli aiuto perché aveva paura del giudizio della sua stessa comunità, Sufrin ha capito che era giunto il momento di fare di più. Così ha lanciato un programma che coinvolge direttamente la Comunità ebraica londinese e quella musulmana: "Dobbiamo imparare ad affrontare apertamente i problemi di droga, senza vergognarci," ci racconta il rabbino. "E' una mitzvah."

- Come ha cominciato a occuparsi di droga?
- Ho cominciato a lavorare 19 anni fa con Drugsline (un numero verde di ascolto, gestito dalla Comunità ebraica londinese ma aperto a tutti), perché c'era un enorme mancanza di informazioni nella Comunità ebraica su come affrontare questo tipo di problemi. Purtroppo, non ci pensava nessuno. Ma dopo avere posto le prime basi, ho trovato sostegno e disponibilità da molte parti. Quindi ho deciso di operare il programma in modo pluri-confessionale, per potere offrire il sostegno a ragazzi di diverse comunità, e da allora andiamo avanti così. Credo sia una mitzvah aiutare le persone di ogni fede a capire i rischi che comportano tutte le sostanze chimiche, incluso l'alcol.

- Invece il lavoro insieme alla Comunità musulmana da dove è nato?
- Uno dei programmi offerti dalla Drugsline è stato chiamato "joining the loop" ed è un progetto gestito insieme dalla Comunità ebraica e da quella musulmana. E' un programma unico perché è iniziato quando un ragazzo musulmano si è presentato al centro Chabad per chiedere aiuto. Parlando con lui ho capito che non aveva nessun altro posto dove andare, per la vergogna e lo stigma sociale che è spesso associato all'abuso di sostanze chimiche. E come se non bastasse, la sua comunità non era attrezzata per affrontare il problema. Di conseguenza abbiamo addestrato alcuni volontari in quella comunità, dando a Drugsline la possibilità di offrire un servizio in sei lingue, incluse tre asiatiche.

- Non sono molti i rabbini che lavorano con i tossicodipendenti...
- Purtroppo anche all'interno delle Comunità ebraiche non ci sono abbastanza rabbini o leader che si occupano di droga. Il mio obiettivo è sensibilizzare il rabbinato e i leader laici, insieme a coloro che lavorano a stretto contatto con i giovani, sui pericoli dell'abuso delle sostanze chimiche: mi auguro che tutti i segmenti della comunità diventino più informati.

- Lei lavora insieme a un imam, Haroon Patel. Come va la vostra collaborazione?
- In generale va molto bene e mi sta dando una grande soddisfazione. Parliamo spesso insieme: i loro valori sulla famiglia, sui figli e l'educazione sono molto simili ai nostri, così come la sfida di mantenere la religione, la fede e la tradizione in un mondo spesso lontano da questi valori. A volte parlare di politica è problematico, specie sul Medio Oriente. Per questo cerchiamo di evitare l'argomento e ci concentriamo sull'obiettivo di aiutare le nostre comunità.

- Che cosa si può fare per migliorare il rapporto tra ebrei e musulmani?
- Lavorare insieme e costruire relazioni per un bene comune è una buona cosa, che porta subito risultati. Dobbiamo capire che esistono molte differenze, ma che sono molte di più le cose che abbiamo in comune rispetto a quelle che ci dividono. a.m

(Pagine Ebraiche n.2, dicembre 2009)





2. ARABI CHE VOGLIONO INSERIRSI NELLA SOCIETÀ ISRAELIANA




Più arabi israeliani nel servizio civile

di E. Hausen

GERUSALEMME - Il numero degli arabi che prestano servizio civile in Israele è raddoppiato in un anno. E' stato comunicato dall'organizzazione "Schlomit", che ha la competenza sui volontari nel servizio nazionale.
    Secondo dati di "Schlomit", il 90% dei volontari che hanno prestato servizio civile nel 2009 proviene dal settore arabo. In totale sono stati registrati 1.100 arabi. Nel 2008 erano 580.
    La presidente di "Schlomit", Chaja Schmuel, vede diversi motivi per questo "trend" nel settore arabo. Anzitutto agli arabi è chiaro che la loro stessa comunità trae profitto dal lavoro di questi volontari, perché la maggior parte di loro svolge il suo servizio nel settore arabo.
    «Ciascuno di loro fa i suoi conti e capisce che non può che guadagnarci. Dicono esplicitamente che questo rappresenta la loro carta d'ingresso nella società israeliana», ha dichiarato Schmuel al giornale israeliano "Yediot Aharonot". Vogliono vivere nel paese, frequentano l'università e le scuole superiori. Questo è un credito importante. Sono sullo stesso piano degli altri volontari». Un altro fattore è l'età minima richiesta per molti corsi di formazione. Nel tempo intermedio anche i giovani arabi cercano un'occupazione.

«Alcuni mi hanno detto che sono un traditore»
Un diciottenne arabo che lavora nel servizio di pronto soccorso "Magen David Adom" e ha ancora un anno e mezzo di servizio civile davanti a sé ha dichiarato: «Alcuni mi hanno detto che sono un traditore. Non capisco perché dicano questo, ma non m'importa niente, perché io faccio quello che voglio». Anche in famiglia e tra gli amici ci sono riserve.
    Ma il giovane arabo è convinto di aver preso la decisione giusta: «Ho consigliato personalmente ad alcuni amici di cominciare con me il servizio civile. Credo che sia di grande aiuto. Dopo dodici anni di istruzione, sono due anni in cui ci sviluppiamo personalmente e impariamo ad inserirci nella società israeliana». Spera di poter essere attivo anche in futuro nel campo della medicina. La sua ambizione sarebbe di avere una formazione di infermiere e prendere anche una laurea.
    In Israele il normale servizio militare è obbligatorio soltanto per ebrei e drusi. Arabi, cristiani e beduini sono esclusi. Ma possono decidere di svolgere volontariamente un servizio civile.

(www.israelnetz.com, 5 gennaio 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





3. NEL PAESE DOVE SI CONVIVE CON L'«OGGETTO SOSPETTO»




Ecco come si vive con la paura dei kamikaze

di Fiamma Nirenstein

In un altro mondo, quello in cui il terrorismo è vita quotidiana, come accade in Israele, l'eventuale bomba si chiama semplicemente «hefez hashud», oggetto sospetto. Quando lo si scopre sotto l'apparenza di un pacco, di una valigia, di qualsiasi cosa, si avverte la polizia che viene con un piccolo robot a farla saltare. È un'unità molto occupata. Un «hefez hashud» non fa urlare di paura, non induce a fughe inconsulte, non spinge a investigare con occhi ansiosi dove sia il rifugio più vicino, mentre ti chiedi semmai come passare sopra la testa dell'anziana signora in piedi dietro di te. Dove il terrorismo delle bombe è uno slalom quotidiano, capita di fare tardi a un appuntamento. Sì, mi scusi tanto, c'era un «hefez hashud» sull'autostrada Tel Aviv-Gerusalemme. Sei fermo da un'oretta di fronte all'entrata di un ufficio, o di una scuola, di un grande magazzino dove hai lasciato un pacco e non puoi entrare finché non arriva il robot e danno il via libera? Pazienza, a volte capita, in una giornata puoi incontrarlo anche due volte. La radio annuncia con voce piatta durante le notizie sul traffico: «Rallentamenti sulla strada numero 6 per la presenza di un hefez hashud vicino a Bacha el Garbiya». Non lo dice mai durante le notizie. Ok, si sa, speriamo non ci siano altri contrattempi, altrimenti faccio tardi.
    Si può vivere con la minaccia costante del terrore; è un pensiero remoto, una serie di comportamenti che diventano regolari, familiari, uno sguardo circolare che si fa abitudine, una veloce occhiata dietro la schiena. Ma anche una maggiore fame di vita, un indicibile gusto di incontrare, di parlare, di prendere l'autobus, di godersi gli amici nei posti pubblici. Mi ricordo, quando ogni angolo di Gerusalemme scoppiava, come, in visita a Roma, mi piaceva prendere l'autobus per Largo Argentina, godermi la folla in piedi, le curve in cui ci si attacca alle maniglie, chiedermi alle fermate, guardando i passeggeri che salivano, se magari ci fosse, lusso di un pensiero un po' vano, un qualche ladro. Non dei terroristi. Che sollievo.
    Nel Paese dell'«hefez hashud» impari a farti automaticamente verificare la borsa a ogni ingresso in un locale pubblico, scuola o supermarket; persino sulla porta della clinica ti frugano, e hanno ragione, alcuni si sono fatti scoppiare dal dottore; impari la tenerezza verso quei ragazzi che siedono sul panchetto fuori del caffè e per due lire fanno da scudo col proprio corpo al prossimo terrorista. Impari a tornare al tuo caffè, al tuo tavolo preferito dopo che è già saltato per aria una volta facendo una strage; anzi, ti piace di più tornarci per sberleffo, e per tigna vuoi il tavolo nella prima fila dopo l'ingresso. E anche se la seconda Intifada è finita, quando entra qualcuno con una giacca troppo voluminosa lo guardi bene, lo segnali al cameriere, valuti se allontanarti.
    Durante l'Intifada chi poteva accompagnare a scuola i figli in macchina o a piedi evitava di prendere l'autobus, ma anche il contatto parafango a parafango in una città che è esplosa a ogni angolo ti fa ricordare che un tuo amico è rimasto ucciso nell'onda del fuoco quando è esploso l'autobus davanti al suo veicolo. Quando il terrorismo diviene parte della vita quotidiana, nel tuo mondo entrano feriti e famiglie orbate e che tali resteranno per sempre, perché il terrorismo comincia, non finisce con lo scoppio e resta con te per sempre.
    Diventano normali episodi incredibili in cui c'è chi ci resta preso due, tre volte nella stessa città, bambini rimangono senza genitori, genitori senza i loro bambini, qualcuno perché mangiava una pizza, qualcuno perché faceva la spesa... Questo è il terrorismo, la guerra peggiore del mondo, quella contro i soli civili innocenti. E tuttavia si disegna una mirabile compensazione psicologica, ogni cena fuori è preziosa, ogni film che vedi al cinema è un godimento, il senso di solidarietà e la forza d'animo che si disegna fra la gente è speciale. Ognuno resta attaccato con le unghie e con i denti alla propria normalità, e quella normalità, quella mancanza di paura, quel restare vivo e attivo è la sua vittoria.
    Una volta ho intervistato un cameriere del Café Cafit al Quartiere Tedesco, il quartiere bohémien di Gerusalemme: era uno studente bello e quieto che scoprì sul cancello del bar un terrorista carico di esplosivo, gli prese lo zaino e lo portò lontano dal pubblico.
    Quando gli chiesi se aveva avuto paura disse che gli avventori erano cinquanta, lui uno solo, il resto veniva da sé. Mi raccontò anche che quando arrivò a casa, la mamma che aveva sentito tutto alla radio non gli dette il tempo di salutarla: gli tirò uno schiaffone. Ho sentito mille di queste storie. Così si fa quando si vive in mezzo aglii hefez hashud: si cerca di essere eroi, e di restare persone normali.

(il Giornale, 31 dicembre 2009)





4. LE GIOVANI MUSULMANE DI HAMAS




Hamas incoraggia le donne a indossare lo Hijab da codice Islamico

di Simone Ricci

Non sono poche le donne e ragazze di Gaza che desiderano ricevere veli e abiti per rispettare in maniera totale il Progetto Islamico del velo di Hamas, la nota organizzazione politica e paramilitare che guida la Palestina. Di cosa si tratta precisamente? Hamas ha promosso di recente un progetto, in cooperazione con l'Associazione delle Giovani Donne Musulmane, volto ad assegnare un'importante quantità gratuita di vestiti alle ragazze che frequentano le scuole secondarie in base alle loro zone di residenza. Ora che il movimento islamico ha preso il potere, all'interno della Striscia di Gaza, da oltre due anni e mezzo, l'obiettivo principale di Hamas è quello di cercare di implementare nella maniera più corretta la legge Islamica nel territorio palestinese, soprattutto nelle scuole, nelle principali istituzioni e nei tribunali, puntando in particolare sull'imposizione dell'abbigliamento islamico femminile, vale a dire il cosiddetto 'Hijab'. I primi quartieri che sono stati interessati da questo progetto sono quelli di al-Tuffah e Sheja'eya, nella parte orientale di Gaza City, zone in cui si è provveduto a riunire tutte le ragazze, in modo da impartire i primi rudimenti circa la necessità di indossare lo Hijab per nascondere il loro corpo.
    L'afflusso è stato imponente e sorprendente: le giovani sono giunte accompagnate dalle loro madri per ricevere tutto l'abbigliamento che era stato promesso da Hamas. Quali obiettivi si pone il progetto in questione? Safaa Shallah, membro della Young Muslim Association, ha spiegato l'intento del programma: L'obiettivo di questo progetto è quello di diffondere il più possibile il codice di condotta Islamico per quel che riguarda il modo di vestirsi, al fine di evitare atteggiamenti troppo eccessivi. La prima fase dell'intervento di Hamas è cominciata proprio questa settimana e dovrebbe includere la distribuzione di oltre 600 uniformi nei due quartieri sopracitati, mentre per la prossima è prevista la distribuzione di altri 600 capi di vestiario nel quartiere di al-Daraj, nella parte più centrale di Gaza City, procedendo così alla seconda fase del progetto.
    L'iniziativa, comunque, suscita polemiche, visto che l'atteggiamento di Hamas viene visto come un tentativo di costringere gli abitanti di Gaza ad accettare esclusivamente la legge musulmana, un'accusa immediatamente rispedita al mittente dal governo. Esistono, in proposito, molte voci fuori dal coro, come quella di Asmaa al-Ghoul, attivista per i diritti delle donne palestinesi, la quale è convinta che gli esseri umani debbano sempre avere la libertà di esprimere opinioni e credo propri.
    La al-Ghoul è nota per aver avuto alcuni problemi con gli ufficiali di sicurezza di Hamas quando, la scorsa estate, si è recata sulla spiaggia di Gaza senza coprire la propria testa con un foulard, comportamento da lei motivato con la volontà di superare le restrizioni della religione Islamica.
    Sarebbe forse interessante sapere cosa ne pensano quelle ragazze a cui viene imposto un abbigliamento conforme alla loro religione: sono molte le donne che accettano di buon grado queste imposizioni, ma bisogna tenere conto anche delle opinioni contrarie, visto che perfino questi temi possono contribuire alla democratizzazione e allo sviluppo di Gaza.

(Periodico italiano, 5 gennaio 2010)



5. UN CONTENZIOSO DALLE RADICI PROFONDE




La sfida dei rabbini a Israele

di Avraham B. Yehoshua

Nelle ultime settimane i rabbini appartenenti alla corrente religiosa nazionalista, e soprattutto quelli a capo delle colonie e delle accademie talmudiche della Giudea e della Samaria (i territori occupati palestinesi), si sono schierati in prima linea



nell'opposizione alla decisione del governo israeliano di congelare le colonie per dieci mesi.
    Alcuni di loro hanno diramato appelli ai soldati, ex studenti delle accademie talmudiche, perché rifiutino di eseguire l'eventuale ordine di evacuare gli insediamenti, sfidando così le decisioni del governo relative alla possibilità di riprendere il negoziato di pace con i palestinesi in vista di una creazione di un loro Stato. Tra i rabbini stessi, apparsi di frequente sugli schermi televisivi sia in gruppo sia singolarmente, vi sono dissensi sul modo di esprimere la loro protesta e quella dei loro allievi. Ma sia gli estremisti che i moderati sono uniti nell'impegno religioso di mantenere la sovranità ebraica su tutto il territorio dell'Israele biblico.
    Io guardo questi rabbini - energici, determinati, esperti di norme di condotta religiosa e di interpretazioni di testi sacri - e mi domando dove fossero nei secoli passati i loro predecessori che di certo conoscevano bene la Halakha, la legge rabbinica, e i versetti relativi alla sacralità e all'importanza della terra di Israele. In altre parole, perché il pensiero religioso, tanto saldo per quanto concerne la santità della terra dei padri e il rifiuto di rinunciare alla benché minima parte di essa, non ha spinto gli ebrei a giungere a questa terra in passato, quando era scarsamente popolata e per lo più desolata? Perché ebrei siriani, iracheni, egiziani, greci e dell'impero ottomano - del quale la terra di Israele era parte - e i loro confratelli osservanti d'Europa - molti dei quali erravano da un Paese all'altro - non vennero a stabilirsi nella tanto preziosa terra santa in forza di un comandamento religioso?
    Dico questo in quanto la mia personale biografia comprova che l'emigrazione dalla diaspora alla terra di Israele era possibile. Il mio bis bisnonno, rabbino di Praga, lasciò a metà del diciannovesimo secolo la sua città per stabilirsi a Gerusalemme. E lo stesso fecero altri rabbini miei antenati, di un diverso ramo della famiglia, più o meno nello stesso periodo: abbandonarono la città di Salonicco, all'epoca sotto dominio turco, per trasferirsi a Gerusalemme. Ma si trattava di pochissimi, ashkenaziti e sefarditi. La classica eccezione che conferma la regola. Insomma, prima che l'antisemitismo spingesse gli ebrei a svegliarsi e a concepire uno Stato esisteva la possibilità di arrivare in terra di Israele e di compiere un precetto religioso importante anche per i rabbini.
    Ma c'è di più. Nei secoli antecedenti la comparsa del sionismo la stragrande maggioranza dei rabbini e dei loro discepoli non solo non incoraggiarono le comunità ebraiche a emigrare in terra di Israele bensì, al contrario, le dissuasero dal farlo. Sappiamo dell'opposizione al sionismo delle comunità hassidiche dell'Europa dell'Est. Ma anche nei lunghi secoli precedenti la comparsa dell'ideologia sionista la teologia ebraica, in tutte le sue varianti, creò una struttura religiosa che, benché accettasse l'insediamento in terra d'Israele come precetto attivo e necessario, lo riteneva un sogno messianico, una redenzione celeste attuabile solo in forza di un potere divino. E ancora oggi comunità religiose della diaspora e d'Israele guardano con sospetto la sovranità ebraica in terra di Israele e la ritengono un male necessario piuttosto che la concretizzazione di un'importante prescrizione religiosa.
    Come risolvere allora questa contraddizione: l'indifferenza e l'alienazione degli ebrei osservanti nei confronti della terra santa per centinaia di anni da un lato e l'attuale concezione che il territorio sia il più importante centro di culto religioso per il quale si può e si deve persino ribellarsi al governo laico e democratico dall'altro? Ritengo che alla base della questione sia il seguente enunciato: Israele non esiste senza la Torah. Chi lo accetta considera il governo nazionale - legittimato da decisioni democratiche - vuoto di significato perché solo la Torah e la Halakha possono dare un senso al concetto di nazionalità e gli unici autorizzati a interpretare tale concetto e a stabilire le norme che lo regolano sono i rabbini.
    L'intenso attaccamento religioso al territorio non è che un pretesto, un elemento della sfida a un governo democratico nazionale. Una sfida antica che è alla base dell'identità ebraica e che si è acutizzata negli ultimi anni con il forte aumento di ebrei osservanti in Israele. Ed è una sfida che ogni governo democratico israeliano dovrà affrontare se vorrà ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e arrivare a una pace con i palestinesi.

(La Stampa, 31 dicembre 2009)





6. L'ULTIMO EBREO DI KABUL




Whisky, Torà e ricordi

Ultimo superstite della comunità ebraica di Kabul, vive nella sinagoga. Fu sospettato di avere avvelenato il «penultimo» ebreo.

di Lorenzo Cremonesi

Zebulon Simentov
KABUL — Una versione ebraica della classica storiella del naufrago sull'isola deserta racconta di un rabbino particolarmente intraprendente. È solo, in mezzo al mare. Ma presto si organizza per pescare, raccogliere acqua piovana, coltiva persino la terra. Alla fine costruisce due sinagoghe. «Come mai due», gli chiederanno incuriositi i salvatori, anni dopo. Risposta: «Perché nella seconda io non metterò mai piede».
    A Kabul la sinagoga è solo una. Si trova in una via del centro, la cosiddetta Flowers Street. Un edificio fatiscente, il cortile invaso da macerie, i muri percorsi da crepe profonde, le finestre rotte. La sinagoga sta al secondo piano e nella stanzetta sul ballatoio vive Zebulon Simentov. «L'ultimo ebreo di Kabul», lo definiscono i giornalisti locali e stranieri che occasionalmente vengono a trovarlo. La storiella del naufrago gli calza a pennello per il solo fatto che con Isaac Levy, fino alla sua morte nel 2005 il penultimo ebreo di Kabul, litigavano come cane e gatto. «Levy non era neppure ebreo, negli ultimi anni si era convertito all'Islam», farfuglia adesso Simentov, a testimonianza dei vecchi livori. Un personaggio che sembra uscito da un classico di Dostoevskij, compresa la parodia degli stereotipi antisemiti. A chi lo va a intervistare chiede subito dollari in contanti, «non moneta afghana che non vale nulla», e come minimo due bottiglie di whisky. «Ma di marca, se possibile Johnnie Walker, lo trovi agli spacci della Nato», insiste. E aggiunge con tutti i reporter: «Tu guadagni da questa intervista. Perché non ci posso ricavare anch'io qualche cosa».
    Ama provocare, è sospettoso della sua ombra. Anche per visitare la sinagoga polverosa, con pochi e vecchi libri di preghiera ebraici accatastati in un armadio a muro, occorre promettere un'offerta. Ma non è difficile capire che Simentov recita una parte. Gli piace essere la macchietta di se stesso, sino a risultare simpatico. Barba incolta, pochi capelli unti e biancastri sotto la kippà nera, camicia coperta di macchie, ciabatte sfondate, passa i pomeriggi con gli amici afghani musulmani del periodo comunista a bere superalcolici e sgranocchiare pistacchi. Dice di osservare rigorosamente i dettami della Kasherut. «Uccido io stesso gli animali che mangio, soprattutto polli e rispetto le regole della macellazione religiosa», dice, indicando un coltellaccio sporco di sangue. Non sa l'ebraico, se non poche sbiascicate parole delle preghiere. Parla in dari. Su una finestrella ha appese alcune pagine di un giornale della comunità Lubavitch di New York. «Ogni tanto mi aiutano. Inviano qualche soldo e a volte scatole di matzot (il pane azzimo per celebrare le feste, ndr.). In cambio prego per loro».
    Dovrebbe essere nato nel 1959. Cinquant'anni portati decisamente male. Ma aiuta dirgli che sta benissimo e sembra più giovane. Se lo si mette di buon umore il suo racconto diventa uno spaccato affascinante della storia della comunità ebraica afghana. Si narra sia antica di oltre 2.500 anni, che risalga ai tempi del primo esilio babilonese. «Allora i miei avi erano più di 40.000, tanti a Ghazni e nelle provincie occidentali. Me lo dicevano anche i nostri vecchi che custodivano il cimitero ebraico di Herat, vicino alla casa dove sono nato», ricorda. Nel 1951, tre anni dopo la nascita di Israele, la maggioranza dei circa 5.000 ebrei locali emigra. Nel 1969 sono rimasti meno di 300, per lo più a Kabul, dove ormai vive anche Simentov. L'ultimo esodo arriva 10 anni dopo, con l'invasione sovietica. «Nel 1992, con l'inasprirsi della guerra civile tra milizie, eravamo rimasti in 10», continua.
    Lui possedeva un negozio di tappeti. «Commerciavo con tutto il mondo, ne vendevo tanti anche a Milano. È stato il mio ultimo vero lavoro», dice con nostalgia e senza nascondere le sue simpatie per il governo filocomunista del presidente Najibullah, più tardi castrato e ucciso dalle squadracce talebane, che ne appesero il cadavere insanguinato ad un palo nel centro di Kabul. Lui comunque fugge in Tajikistan, dove sposa Leah, una ragazza della comunità ebraica locale. Hanno due figlie: Shoshanna e Rachel.
    La scelta di trasferirsi con la famiglia in Israele arriva nel 1998. Sembrerebbe il punto di arrivo, la fine delle sue peregrinazioni tra i capitoli più cruenti della storia dell'Afghanistan contemporaneo. Ma non è così. Simentov non si trova bene nella patria del sionismo realizzato. «Problemi personali. Mi mancava Kabul», si limita a commentare abbassando lo sguardo. Così, dopo solo due mesi, lascia la famiglia e torna in Afghanistan. Solo? Non proprio. Il titolo di «ultimo ebreo di Kabul» se lo contende con Levy. I due non si possono letteralmente vedere. Litigano per la custodia di un volume della Torà e altri testi antichi centinaia d'anni. Si accusano a vicenda di essere «blasfemi e convertiti», di voler vendere in segreto lo stabile della sinagoga. Spesso i vicini devono intervenire per dividerli.
    È il periodo della folle dittatura teocratica talebana in nome dell'Islam più oltranzista. Per i due ebrei sarebbe meglio mantenere il profilo più basso possibile. Invece i loro alterchi sono di dominio pubblico. Sino a che Levy va dai talebani per denunciare il correligionario di voler «rubare la Torà». In un attimo intervengono le «squadre contro il vizio per la moralità». Li arrestano entrambi, li picchiano, li tengono in cella a pane ed acqua per un paio di settimane. Soprattutto sequestrano la Torà assieme a diversi altri libri. Non saranno mai più resi. «Conosco il ladro. Al momento si trova ancora nelle celle di Guantànamo», dice oggi Simentov, senza rivelarne il nome. In ogni caso, neppure questo servirà a calmare il loro odio reciproco. Tanto che nel 2005, quando Levy ormai ottantenne muore a Kabul ed è sepolto in Israele, Simentov viene per qualche tempo sospettato dalla polizia di averlo avvelenato. Oggi è stato totalmente scagionato. «L'autopsia ha appurato che quello là è morto per problemi di circolazione», sottolinea.
    I suoi timori sono invece per il futuro. «Guai se tornassero i talebani. Sono cattivi, fanatici. Sarebbe un male per tutti», afferma con un lampo di paura negli occhi. E che devono fare le forze Nato ? «Restare. Combattere i talebani. Se partissero qui scoppierebbe subito la guerra civile e le milizie del Mullah Omar sarebbero a Kabul in poche ore. Ma soprattutto aiutino la crescita delle nostre forze di sicurezza nazionali. Ci vuole un forte esercito afghano e 80.000 poliziotti sono troppo pochi».

(Corriere della Sera, 13 ottobre 2009)





7. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME




Il Nuovo Testamento in una conferenza internazionale sulla lingua ebraica

«Il tribuno glielo permise e Paolo, stando in piedi sulla gradinata, fece cenno con la mano al popolo e, fattosi un gran silenzio, parlò loro in ebraico» (Atti 21:40)

di Gershon Nerel

Dal 17 al 28 luglio 2009 l'Istituto per la lingua ebraica, nella Rothberg International School dell'Università ebraica, ha organizzato una conferenza internazionale sul tema «La lingua ebraica nella ricerca e nell'insegnamento». Tra gli oratori erano presenti scienziati provenienti da Israele, Usa, Canada, Russia, Svezia e Germania. Tra i molti interessanti temi trattati in questa manifestazione vorrei citarne soltanto alcuni. Gli oratori hanno tenuto conferenze sul Cambridge Biblical Hebrew Workbook e su temi come «Ci sono due lingue: il giudaico e l'ebraico israeliano?», «L'ebraico in Cina: corsi di ebraico nell'Università di Pechino», «Ebraico per le classi elementari nelle scuole nordamericane» e «L'ebraico reso facile per gli Olim (nuovi immigrati) dalla Russia».
    Mi ha particolarmente interessato la conferenza sul «Cambio di significato di parole ebraiche», cioè su concetti biblici che nel corso della storia si presentano in forme diverse e possono assumere vari significati. Illustrerò questo con un esempio.
    La parola elef sta a significare il numero 1000, ma viene usata anche per una parte di una tribù, forse per per 1000 famiglie, all'interno di una stirpe: «Ahi! Signor mio; con che salverei io Israele? ecco, il mio migliaio (elef) è il più misero di Manasse, ed io sono il minimo della casa di mio padre» (Giudici 6:15, vers. Diodati). Dalla medesima radice proviene il concetto biblico di aluf, che equivale a qualcosa come «capotribù» (cfr. Esodo 15:15). Da questo termine proviene l'uso di aluf con il significato di «eccellenza», un titolo d'onore conferito nel Medioevo a prestigiosi insegnanti della Torà nelle accademie religiose degli ebrei. Da qui c'è solo un piccolo passo per arrivare alla parola ebraica moderna aluf usata per il grado di generale nell'esercito israeliano. Da questa radice discende anche il verbo he'elif con il significato di «moltiplicare per mille». Un esempio biblico lo troviamo nel Salmo 144:13: «Le nostre greggi moltiplichino a migliaia e a decine di migliaia...». Per questo nell'ebraico moderno abbiamo anche l'espressione «berachot ma'alifot», che tradotto letteralmente significa «mille benedizioni».
    Nella mia relazione ho parlato su «Traduzioni ebraiche del Nuovo Testamento; la lingua della Bibbia/MIshna a confronto con l'uso linguistico moderno». La mia tesi più importante è stata che le diverse edizioni ebraiche del Nuovo Testamento, sia nella «classica» lingua della Bibbia o della Mishna (del tempo post-esilico), sia nello stile moderno, sono straordinari aiuti per l'apprendimento e l'insegnamento della lingua ebraica. Il Nuovo Testamento ebraico quindi non serve soltanto come strumento di comunicazione di un particolare messaggio per credenti ebrei in Yeshua (questo naturalmente va da sè), ma può essere utile anche a molti altri, soprattutto agli studiosi di storia e di lingua, ai ricercatori, alle guide turistiche e a tutti coloro che si interessano di cultura classica ed educazione.
    Ho spiegato inoltre che per i discepoli ebrei di Gesù in Israele il Nuovo Testamento non è soltanto un normale libro, ma un testo sacro e un essenziale elemento costitutivo della Bibbia, perché è prosecuzione e compimento dell'Antico Testamento. Dopo la fondazione dello Stato, avvenuta nel 1948, sono immigrati in Israele migliaia di ebrei messianici, negli ultimi anni soprattutto di lingua russa e amarica. Tutti studiano il Nuovo Testamento in lingua ebraica, o privatamente, nel loro tempo di meditazione, o pubblicamente, in decine comunità o circoli familiari. Per la ricchezza dei significati e per i retroterra storici, ogni traduzione ebraica del Nuovo Testamento costituisce quindi un importante strumento per la dimestichezza con la lingua del posto in Israele e per la personale vita di fede.
    Ho riferito anche che nelle diverse edizioni ebraiche del Nuovo Testamento si possono individuare tre obiettivi principali: anzitutto il desiderio di mantenere per quanto possibile la lingua del Tanach (Antico Testamento) per avere una continuità e un'unità linguistica dalla Genesi all'Apocalisse, anche se per questo si deve ricorrere a concetti provenienti da fonti rabbiniche nella Mishna (una raccolta post-esilica di precetti ebraici); in secondo luogo, il tentativo di favorire la leggibilità del testo ebraico servendosi di stili e costruzioni della frase provenienti dalla lingua parlata in Israele; in terzo luogo, il desiderio di evitare anacronismi linguistici adattando determinati vocaboli al loro significato attuale. Un esempio: in alcune traduzioni ebraiche del Nuovo Testamento la parola greca «hegemon» (governatore) è trascritta semplicemente con lettere ebraiche, come in Luca 3:1 («quando Ponzio Pilato era governatore della Giudea»). Ma nell'ebraico moderno la parola hegemon è usata normalmente (e qualche volta perfino esclusivamente) per indicare il vescovo di una chiesa cristiana... Oggi nessuno in Israele indica un governatore o un'autorità con il termine hegemon.
    Dopo la mia presentazione alcuni partecipanti alla conferenza hanno ammesso, rammaricandosene, di non sapere praticamente niente sul Nuovo Testamento in lingua ebraica. Ma questo tema gioca effettivamente un ruolo importante anche nell'ebraismo moderno, perché costituisce una parte essenziale dell'eredità ebraica.

(Nachrichten aus Israel n.10, ottobre 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





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