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«Amos, Amos, perché mi deridi?»
(1)


25 gennaio 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco   

Su quella croce


Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz   
ti scrivo come semplice lettore del tuo ultimo libro da poco uscito: "Giuda". Naturalmente tu non mi conosci, ma non ha importanza, anzi è bene, affinché quello che sento di dover esprimere, le valutazioni che desidero fare sul tuo libro, e a partire dal tuo libro, dipendano soltanto dal testo e non da fattori di altro genere, come potrebbe avvenire se ci conoscessimo personalmente.
  Erano diversi anni che non leggevo romanzi, anche se l'ho fatto molto in gioventù. In un certo periodo della mia vita mi sono dedicato in modo particolare ad una letteratura che certamente anche tu hai praticato e conosci: i classici russi dell'Ottocento. Qualcuno ha detto che tu sei il Dostoevskij del Medio Oriente, ed effettivamente mi è parso di ritrovare qualcosa del suo stile in certe tue introspezioni di personaggi enigmatici e un po' ambigui, nei loro tesi colloqui su questioni di fondo, anche se però gli scritti del romanziere russo, forse perché allora ero giovane, mi hanno impressionato ed appassionato molto di più. Certo, rispetto al celebre colloquio del fratelli Karamazov sul Grande Inquisitore di Siviglia, il soliloquio che tu fai fare a Giuda su Gesù in un intero capitolo mi è sembrato molto debole.
  Ma il motivo per cui mi sono deciso a leggere il tuo libro, e adesso a scriverne, è molto semplice: si trovano in esso due temi fondamentali di comune interesse: Gesù e Israele. In questo ordine, per me; in ordine inverso, immagino, per te.
  Prima però, a beneficio di chi eventualmente leggesse queste righe senza aver letto il libro, e per poter fare in seguito i dovuti riferimenti al testo nei commenti, vorrei riassumere in breve le vicende del tuo personaggio principale: Shemuel Asch.
Shemuel è uno studente dell'Università di Gerusalemme che nel periodo a cavallo tra il '59 e il '60 in cui si svolge la storia colleziona una tale serie di colpi di sfortuna, batoste, delusioni, inganni, autoinganni, insieme a sue personali ingenuità e balordaggini che, leggendole, non ho potuto fare a meno di pensare a un personaggio forse a te sconosciuto ma noi italiani ben noto: Fantozzi. Ma no, non voglio dire che il tuo Shemuel è un Fantozzi in salsa israeliana, ma forse qualcuno, certamente un po' superficiale, potrebbe ricavare questa impressione se si limita ad osservare il nudo e crudo succedersi dei fatti, senza scorgere in essi quegli elementi evocativi e parabolici che certamente sono presenti nelle tue intenzioni di autore, e con un po' di attenzione si possono anche riconoscere.

- MA ESAMINIAMO DAPPRIMA I FATTI NUDI E CRUDI
  Shemuel è un giovane di sinistra desideroso di rivoluzionare il mondo, e a questo scopo partecipa alle attività di un circolo dal nome significativo: "Rinnovamento socialista". Ma proprio in quei mesi accade che il mito staliniano crolla: il Ventesimo congresso del partito sovietico denuncia i crimini di Stalin. Le opinioni nella diaspora marxista si dividono, il circolo del Rinnovamento socialista si spacca, alcuni membri escono. Ideologicamente, Shemuel starebbe dalla parte della maggioranza, ma poiché tra i dissidenti ci sono le sole due ragazze del circolo, lui non vede alcun senso a restare e molla tutto.
  Fine dell'esperienza politica.
  Shemuel ha una ragazza di nome Yardena. Quello che di lui piace a Yardena è "la sua inermità e quel che lei stessa descriveva con l'immagine di un cane festoso ed esuberante, un cagnone che le stava sempre incollato per farsi coccolare e sbavare sulle gambe" (p.17). Alla fine però Yardena si stufa. Dopo aver ascoltato un altro dei suoi interminabili concioni politici sul partito laburista e affini, afferra Shemuel, lo trascina in una camera, lo violenta sessualmente e alla fine lo pianta. Andrà a sposare il "suo ex ragazzo, un idrologo diligente e taciturno [...] grande esperto di conservazione dell'acqua piovana" (p.17).
  Fine dell'esperienza amorosa.
  Shemuel sta quasi per terminare la sua promettente tesi di dottorato dal titolo "Gesù in una prospettiva ebraica": una ricerca che lo aveva elettrizzato per "la potenza dell'ardita intuizione balenata nel suo cervello" (p.18). Proprio in quei giorni viene a sapere che la sua geniale idea era già stata pubblicata prima che lui nascesse. Delusione e conseguente decisione: abbandona gli studi universitari.
  Fine dell'esperienza scientifica.
  Shemuel però può in parte consolarsi con il fatto che avrebbe dovuto comunque lasciare l'Università per un semplice motivo: i soldi. Pochi giorni prima suo padre aveva avuto un dissesto economico e quindi non solo non poteva più finanziare i suoi studi, ma proprio non poteva più mantenerlo.
  Fine di una vita libera e finanziariamente protetta.
  Adesso Shemuel deve inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario.

- E QUI COMINCIA UN'ALTRA SERIE DI GUAI
  Piantato in asso da Yardena, Shemuel casca quasi subito nelle grinfie di un'altra donna. E' una vedova di oltre quarant'anni che vive insieme al suocero in una casa un po' appartata di Gerusalemme dall'aria vagamente misteriosa. Il suocero, di nome Gershom, è un settantenne gravemente invalido che a stento riesce a muoversi ma possiede una grande cultura ed è intellettualmente molto vivace. Tra i suoi mali si potrebbe dire che c'è anche la logorrea, perché ha un bisogno quasi fisico di parlare, concionare, questionare con qualcuno, cosa che in parte gli riesce per telefono tormentando certi amici che non compaiono mai nel romanzo. Per risolvere i suoi problemi di menage domestico, e non solo, la vedova ha trovato un sistema ben congegnato: offre vitto e alloggio, insieme a un modesto stipendio mensile, a studenti universitari disposti a trascorrere cinque ore serali in compagnia del suocero. Sono ricercati studenti universitari per tre motivi: devono essere abbastanza istruiti da poter dialogare col ciarliero e colto suocero; devono essere abbastanza squattrinati da essere disposti ad accettare uno stipendio basso; devono essere abbastanza giovani da poter soddisfare, in misura moderata e controllata, i frustrati appetiti sessuali della vedova. Avendo circa il doppio degli anni degli studenti che passano per la sua casa, la vedova non può essere fisicamente attraente come le giovani ragazze, ma in compenso possiede una misteriosa forza di attrazione, che attraverso uno studiato gioco di nascondimenti e concessioni riesce prima o poi a far cadere nella rete il malcapitato studente che in quel momento si trova al suo servizio ed è in una posizione di debolezza finanziaria e psicologica. Se lo porta a letto due o tre volte e poi lo scarica, perché - dice - gli uomini per lei sono interessanti soltanto fino a che restano estranei. Poi basta. Una maliarda dunque, di prima categoria nel suo genere.
  La vedova si chiama Atalia, e qui mi chiedo se sia un nome dato a caso o se non faccia riferimento a un inquietante personaggio biblico. Nella Bibbia Atalia è una donna pagana che per sei anni è riuscita a dominare illegittimamente sul regno di Giuda dopo aver fatto uccidere tutti i suoi nipotini (tranne uno) per evitare che il regno potesse esserle tolto. Sua madre è la famigerata Iezebel, la diabolica figlia del re dei Sidoni, moglie del re Acab, la perfida regina pagana che sterminò i profeti dell'Eterno nel regno del Nord. Degna di lei è la figlia, la "scellerata Atalia" (עתליה המרשעת), come la indica la Bibbia (2Cronache 24:7): un'inquietante donna che con il suo solo nome getta un'ombra cupa sulla figura della vedova del romanzo.
  Naturalmente Shemuel, come previsto, cade nella rete della maliarda. Il vecchio Gershom, ormai assuefatto a quelle scene, l'aveva avvertito: «La nostra Atalia ti sta già conquistando. Senza muovere un dito lei riesce a incantare. So che ama tanto la propria singolarità. Gli uomini, ipnotizzati si avvicinano a lei e lei li allontana nel giro di poche settimane. A volte ne basta una» (p.84). E qui Gershom fa una citazione biblica: "Tre cose sono difficili per me e una quarta non comprendo ... più di tutto la traccia dell'uomo in una donna" (Proverbi 30:18). A me però sembra più adeguata un'altra citazione dei Proverbi: "Ella lo sedusse con le sue molte lusinghe, lo trascinò con la dolcezza delle sue labbra. Egli le andò dietro subito, come un bue va al macello, come uno stolto è condotto ai ceppi che lo castigheranno, come un uccello si affretta al laccio" (Proverbi 7:21-23).
  Shemuel segue poi, regolarmente, il destino che gli era stato preparato fin dal momento in cui era entrato in quella casa: dopo pochi mesi viene gentilmente accompagnato alla porta. Il tutto però senza cattiveria, senza malanimo, perché l'inoffensività disarmante del giovane universitario fa sì che alla fine le persone lo prendano in simpatia. Ma non oltre. Un tenero, amabile imbranato: così appare a chi gli sta vicino l'eroe del nostro romanzo.

- SI ARRIVA INFINE ALLA PARTE FINALE DELLA STORIA
  Shemuel decide di lasciare Gerusalemme e si avvia verso la stazione degli autobus con l'intenzione di prendere quello per Beer Sheva, perché ha letto sul giornale che stanno costruendo una nuova cittadina nel deserto, sul bordo del cratere di Ramon.
  Qui si direbbe che l'autore voglia far uscire di scena il protagonista con l'insistente sottolineatura della sua candida svagatezza.
  Shemuel si mette in coda per fare il biglietto, e dopo una decina di minuti s'accorge di stare nella fila sbagliata.
  Dopo aver fatto il biglietto, s'accorge che il suo autobus partirà soltanto un'ora dopo.
  Arrivato a Beer Sheva, va a vedere quando partirà l'autobus per la nuova cittadina sul bordo del cratere di Ramon e viene a sapere che l'ultimo autobus per Mitze Ramon è già partito e che il prossimo ci sarà soltanto il giorno dopo alle sei.
  Dovrà adattarsi a passare un'intera notte a Beer Sheva, una cittadina che lui non conosce e dove non c'è nessuno che conosce. Il quadro è desolante: tutte le persiane nella via che sta percorrendo sono chiuse. Ad un tratto però il suo cuore si apre alla speranza:
  «Alla finestra di un secondo piano comparve una giovane donna, bella, con un vestito leggero colorato: si sporse fuori con il busto, i seni vigorosi schiacciati contro il davanzale, i lunghi capelli sciolti, per stendere una camicia bagnata. Shemuel la guardò da sotto. Carina, gentile, cordiale e forse anche ben disposta, gli parve quella donna. Decise di rivolgersi a lei, di chiederle, per favore, se poteva consigliargli dove andare, cosa fare... Ma mentre cercava le parole adatte la donna finì di stendere, chiuse la finestra e sparì. Shemuel rimase dov'era, in mezzo alla via deserta» (p.326).
  Dopo poche righe il romanzo finisce.

   Ma non è certo questo finale fantozziano a dare la chiave interpretativa dell'opera. Qualcosa del genere si può trovare invece nella penultima esperienza di Shemuel, poco prima dell'ultima amara delusione.
  In uno dei cortili delle scarrupate case presso a cui passa senza sapere dove andare, "c'era un albero di fico un po' smunto e Shemuel, che amava i fichi, si fermò lì davanti in cerca di due o tre frutti primaticci. Che non c'erano né potevano esserci, perché nessun fico dà mai frutti al principio della primavera, prima che venga la festa di Pasqua." (p.326). Un'altra balordaggine di Shemuel - penserà qualcuno -, che non sa nemmeno in quale stagione si possono trovare fichi maturi. Ma non è così.
  Qui abbiamo invece una sfumata ma evidente allusione a un episodio della vita di Gesù raccontato nei Vangeli. Non è la prima volta che nel libro si accenna a questo episodio evangelico; ne aveva parlato in precedenza Giuda, nel suo lungo soliloquio su Gesù:
  "Qualche giorno fa, mentre stavamo venendo a Gerusalemme, scendendo da una di quelle colline gli è venuta improvvisamente fame. Si è fermato davanti a un fico, di quelli che si coprono di foglie molto prima che maturino i frutti. Noi ci siamo fermati con lui. Si è messo a cercare tra le foglie con tutte e due le mani, voleva un frutto da mangiare, e visto che non ha trovato nulla, ha maledetto il fico. In quel preciso istante tutte le foglie dell'albero sono cadute. Sono rimasti solo il tronco e i rami, nudi e morti. Perché l'ha maledetto? Che male gli aveva fatto? Non aveva nessun difetto, quel fico. Nessun fico dà mai i frutti, non può dare i frutti, prima della festa di Pasqua" (p.292).
  Ecco dunque il collegamento: l'esperienza di Shemuel rinvia a quella di Gesù: qualcosa di importante avviene prima del tempo. Proprio questa potrebbe essere la chiave di lettura del libro. Il lento svolgersi degli avvenimenti intorno al goffo Shemuel appare disseminato di allusioni storiche ed evocazioni paraboliche: tutto il romanzo può essere visto come un'unica parabola. Il suo nome potrebbe essere: "La parabola del buon citrullo".
  Ma di questo parleremo in una prossima occasione.
  Shalom,
  Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (2)

1 febbraio 2015
Caro Amos,
nella mia lettera precedente avevo scritto che il tuo libro potrebbe chiamarsi "La parabola del buon citrullo". Non è un titolo denigratorio, basti pensare che il famoso scrittore russo a cui sei stato paragonato e da cui certamente hai tratto ispirazioni, Fëdor Dostoevskij, quando in un suo romanzo volle rappresentare un uomo "positivamente buono" (cosa che per sua stessa ammissione non gli riuscì del tutto), scelse per la sua opera un titolo che certamente non suona molto bene: "L'idiota". Il citrullo del tuo romanzo, Shemuel Asch, e l'idiota di Dostoevskij, il principe Myskin, hanno una cosa in comune: alludono entrambi alla persona di Gesù, anche se in forma diversa; e in entrambi i casi i due personaggi non finiscono bene: escono di scena da sconfitti. ll russo Myskin ripiomba in uno stato di definitiva demenza e il tuo Shemel continua a permanere in uno stato di perpetuo dubbio.
  Espressiva è la frase monca con cui chiudi il romanzo: "E domandò a se stesso." Che si domandò Shemuel? Non si sa. Forse con questo hai voluto dire di non aver scritto un romanzo a tesi; di aver presentato diverse posizioni tutte degne di essere prese in considerazione. Può darsi. Forse. O forse il tuo è soltanto un artificio letterario per tenere sulla corda i lettori e assicurarti il loro interesse anche dopo che hanno finito di leggere il libro. Il dubbio resta. L'enigma pure. Si dice e non si dice. E a me, che da giovane avevo interesse non solo per la letteratura russa ma anche per i poeti romaneschi, è venuto subito in mente Trilussa: "Quann'uno ner parlà dice e nun dice finisce pe' fa' crede pure a quello che nemmanco je passa p'er cervello".
  Ma a parte questo, bisognerebbe dire che temi di importanza vitale come Gesù e Israele non sembrano adatti per fantasiose invenzioni artistico-letterarie, siano esse drammatiche o umoristiche.
  Dei due interessi che abbiamo in comune, di cui ho detto la volta scorsa, Gesù e Israele, è evidente che per te il primo in ordine di tempo e importanza è Israele, e più precisamente il sionismo. Cercherò allora di esprimere quello che ne ho capito leggendo il tuo libro.

- FANTASMI CHE SI AGGIRANO NEL SILENZIO DELLA CASA
  Il luogo arcano in cui entra il giovane Shemuel è una casa in cui si aggirano due fantasmi che prima l'abitavano in carne ed ossa: Shaltiel Abrabanel, padre di Atalia, e Micah Wald, figlio di Gershom e marito di Atalia. Il primo risulterà essere una vittima del sionismo universalista, il secondo del sionismo nazionalista. Carnefice di entrambi sarebbe Ben Gurion, presentato come unico responsabile della nascita dello Stato d'Israele.
   Abrabanel appare come controparte di Ben Gurion, perché avrebbe tentato in tutti i modi di convincere il comitato sionista a non proclamare lo Stato d'Israele, nella convinzione che questo li avrebbe condannati ad un'eterna guerra con gli arabi. Ma tutti - riferisce la figlia Atalia -, si ostinarono a seguire il "pifferaio magico" Ben Gurion. Così, con la creazione dello stato ebraico ebbe inizio un'interminabile, sanguinosa contesa degli ebrei contro tutti gli altri.
   Atalia era dalla parte del padre Shaltiel, mentre Gershom, convinto ormai che lo scontro con gli arabi fosse inevitabile, era dalla parte di Ben Gurion. Aveva quindi caldamente appoggiato la guerra, tanto caldamente che il figlio Micah ne rimase affascinato e decise di arruolarsi volontariamente nell'esercito, anche se per motivi di salute avrebbe potuto esserne esonerato. La moglie Atalia aveva tentato in tutti i modi di dissuaderlo, ma invano: Micah andò a combattere e fu ucciso; e anche in un modo barbaro e feroce, come si seppe in seguito. Dopo di che nella casa scese il silenzio: nessuno aveva più voglia di parlare dell'argomento.
  Qualche anno dopo Abrabanel si spense, abbandonato da tutti come traditore del popolo, e nella casa rimasero soltanto Atalia e Gershom, in un accordo di mutuo interesse, ma senza nessuna comunione di affetti e di pensieri.

- L'ARRIVO DI SHEMUEL FA RIAPRIRE IL DISCORSO
  Un giorno Gershom sente il bisogno di spiegare al giovane idealista i motivi per cui continua ad essere dalla parte di Ben Gurion:
   "Ben Gurion vede a volte cose che altri non vedono, o vedono solo dopo molti anni. Non mi annovero certo nella galassia di coloro che vogliono cambiare il mondo, ma quest'uomo non è un idealista, anzi, è un grande realista. E' l'unico che si è accorto per tempo di un piccolo spiraglio nella Storia ed è riuscito a farci passare al momento giusto per quello spiraglio. No. Non lui da solo. Certo che no. Se non fosse per mio figlio e i suoi compagni, saremmo tutti morti" (p.118).
  Replica di Shemuel: "Perché mai pensa che gli arabi non abbiano diritto di opporsi con tutte le forze a degli estranei arrivati improvvisamente qui come da un altro pianeta, che gli hanno preso la terra, campi e paesi e città, tombe dei loro avi e eredità dei loro figli? Noi ci raccontiamo che siamo venuti in terra d'Israele solo per costruire ed esseme costruiti, per ripristinare i nostri giorni, come dice la Bibbia, per riscattare l'eredità dei nostri progenitori ecc., ma me lo dica lei se c'è al mondo un popolo che avrebbe accolto a braccia aperte un'invasione repentina di centinaia di migliaia di sconosciuti, e poi anche milioni, piombati qui da lontano con la bizzarra pretesa che i loro testi sacri che si sono portati dietro così da lontano promettono a loro e solo a loro tutta la terra. Allora?" (p.119).
  Gershom insiste: "Shaltiel Abrabanel, il padre di Atalia, nel '48 cercò invano di convincere Ben Gurion che era ancora possibile arrivare a un accordo con gli arabi in merito alla cacciata degli inglesi e alla creazione di un'unica comunità per arabi ed ebrei, a condizione di rinunciare all'idea di uno stato ebraico. Ebbene. Per questo motivo fu cacciato dal Comitato esecutivo sionista e dalla direzione dell'Agenzia Ebraica, che in fondo era il governo ebraico non ufficiale alla fine del Mandato Britannico. Un giorno, se Atalia se la sente potrà raccontarti tutta questa storia. Quanto a me, non mi vergogno di ammettere che in questa disputa ero fermamente al fianco del crudele realismo di Ben Gurion e contro il pensiero radicale di Abrabanel". (p.119)
  Nuova replica di Shemuel: "Ben Gurion è stato forse da giovane un leader operaio, una specie di tribuno popolare, ma oggi come oggi è a capo di uno stato nazionalista e ipocrita e non fa che seminare intorno a sé una specie di vuota fraseologia biblica sul rinnovamento dei nostri giorni e la realizzazione dell'utopia profetica" (p.122).
  Come si può riconoscere da queste battute, in origine il tema discusso nella casa era la presenza del popolo ebraico sulla terra d'Israele: in sostanza, la natura stessa del sionismo.

- SIONISMO E NAZIONE
  Il sionismo nasce indubbiamente come movimento nazionale, non in senso aggressivo e colonialista, come dice qualcuno, ma, al contrario, come aspirazione a costruirsi una propria casa anche per togliere il disturbo dalle case altrui. Nel 1879, quindi ben prima dell'apparizione sulla scena di Theodor Herzl, l'ebreo lituano Eliezer Ben Yehuda pubblicò sulla rivista ebraica di Vienna "Hashahar" (L'alba) un articolo dal titolo "Una questione degna di nota". In esso si diceva:
    "Se è vero che tutti i singoli popoli hanno diritto di difendere la loro nazionalità e proteggersi dall'estinzione, allora anche noi, gli ebrei, dobbiamo avere lo stesso diritto. Perché il nostro destino dovrebbe essere più misero di quello di tutti gli altri? Perché dovremmo soffocare la speranza di un ritorno, la speranza di divenire una nazione nella nostra terra abbandonata, che ancora piange i suoi figli cacciati in terre remote duemila anni fa? Perché non dovremmo seguire l'esempio delle altre nazioni, grandi e piccole, e fare qualche cosa per proteggere il nostro popolo dallo sterminio? Perché non dovremmo sollevarci e guardare al futuro? Perché restiamo con le mani in mano e non facciamo nulla che possa gettare le basi su cui costruire la salvezza del nostro popolo? Se ci importa che il nome di Israele non si cancelli dalla faccia della terra, dobbiamo creare un centro per tutti gli israeliti: un cuore dal quale il sangue scorra lungo le arterie di tutto il corpo e lo richiami a nuova vita. Soltanto il ritorno a Eretz Israel può rispondere a questo scopo." ("Dio ha scelto Israele", p.53)
   Che questo centro avrebbe dovuto essere una nazione come tutte le altre, è ovvio: qualunque altra soluzione non avrebbe modificato la posizione di stranieri degli ebrei. Tralasciando qui tutte le questioni di legittimità giuridica internazionale, di cui anche su queste pagine si tratta, resta il fatto che in Eretz Israel dopo la costituzione dello Stato gli ebrei per non essere distrutti hanno dovuto combattere. E anche se alla guerra non erano più abituati ormai da secoli, la cosa straordinaria, imprevista da tutti, è che hanno vinto.
  Questo fatto ha cambiato radicalmente le cose, sia fuori che dentro il popolo ebraico. Fuori, perché molti hanno dovuto aggiornare il loro repertorio antiebraico, rivedendo alcuni elementi e aggiungendone degli altri; dentro, perché per difendersi gli ebrei, da una parte hanno dovuto decidersi ad uccidere e dall'altra hanno cominciato a subire uccisioni non più come effetto di sopraffazioni subite passivamente, ma come risposta ad azioni di guerra attivamente condotta.
   E' a questo punto che emerge la tensione tra le due anime del sionismo, quella universalista e quella nazionalista. "Se andiamo a Sion per vivere in pace e contribuire a portare armonia tra i popoli - dice l'universalista - e poi il risultato è che quando siamo lì non facciamo altro che scannarci a vicenda, che ci andiamo a fare?" "Certo - risponde il nazionalista -, tutti vorremmo poter vivere gli uni accanto agli altri in pace ed armonia, ma se gli altri al solo vederci si scagliano contro di noi e vogliono distruggerci, che facciamo? Lasciamo che per amor di pace ci scannino a loro piacimento? Prima pensiamo a sopravvivere come popolo e nazione, anche con le armi in pugno, poi vedremo se sarà possibile convivere in pace con i vicini."
   Di quest'ultimo parere era all'inizio anche Gershom Wald, ma le cose cambiarono un po' quando il suo unico figlio Micah non tornò più dalla guerra. I fatti personali spesso incidono sulle idee generali e le modificano; del resto è comprensibile: si può essere assolutamente convinti dell'inevitabilità di una guerra giusta, ma quando tra le proprie fila cominciano ad ammucchiarsi i morti, molti morti, più morti del previsto; e quando poi ci si rende conto che anche dall'altra parte ci sono molti morti, anche più dei propri, ecco che sopravviene la domanda: ma era proprio inevitabile questa guerra? Non si sarebbe potuto trovare un modo più pacifico per risolvere i contrasti? Qualcuno allora si lancia nell'estremismo del pensiero: pace assoluta, totale, pace adesso, senza se e senza ma.
   Tra questi c'era anche Shaltiel Abrabanel, l'anti Ben Gurion. Secondo Atalia, il padre "non apparteneva al nostro tempo" (p. 248). Compare qui lo stereotipo ricorrente nel libro del traditore, considerato tale perché vivendo anticipamente tempi ancora da venire si trova ad essere incompreso e disprezzato dai suoi contemporanei.
   "Lo chiamavano traditore," racconta Gershom a Shemuel "perché la remota possibilità che si era aperta a metà degli anni trenta per l'aspirazione a fondare uno stato ebraico indipendente, per quanto con un minuscolo pezzo di terra, questa remota possibilità aveva conquistato gli animi. Anche il mio. Abrabanel, dal canto suo, non credeva in nessuno stato: Neanche in uno stato binazionale. Neanche in uno stato comune a arabi ed ebrei. Era l'idea in sé di un mondo diviso in centinaia di stati con frontiere, filo spinato, passaporti, bandiere, eserciti e monete diverse, che trovava assurda, arcaica, primitiva, omicida, un'idea ormai superata, che doveva quanto prima estinguersi. Mi diceva: perché avete tanta fretta di fondare qui nel sangue e nel fuoco uno staterello lillipuziano, a prezzo di una guerra eterna, che tanto ben presto non ci saranno più stati al mondo e al loro posto ci saranno comunità di gente che parla lingue diverse vivranno le une accanto alle altre facendo a meno di quei nefasti giocattoli che sono i fucili e gli eserciti e le frontiere la vasta gamma di strumenti di distruzione?"
   
Gershom non riusciva ad essere d'accordo con Shaltiel, anche se forse avrebbe voluto, ma quanto alla speranza di poter vivere insieme in pace e amore, ormai era totalmente disincantato.
   "Io, mio caro, - dice a Shemuel - non credo nell'amore universale. L'amore esiste in dosi modiche. Si possono amare forse cinque fra uomini e donne, dieci magari, talvolta financo quindici. E anche questo solo assai di rado. Ma se uno arriva e mi dice che ama tutto il Terzo mondo, ama l'America Latina, o ama il sesso femminile, quello non è amore ma retorica. Pura demagogia. Slogan. Non siamo nati per amare più di una manciata di persone" (p.151).
    Ma il dolore per la morte di Micah non gli consentiva nemmeno di accettare con serenità l'idea che si dovesse andare a morire per la patria. Non gli sarebbe stato facile ripetere la famosa frase di Trumpeldor, l'eroe di Tel Hai: "E' bello morire per la patria!" La perdita del figlio aveva reso Gershom secco e amaro:
   "So che dei caduti nella guerra del '48 si usa dire che la loro morte non è stata invano. Del resto l'ho sempre detto anche io, lo dicevano tutti. Mah. Come avrei potuto non dirlo? Il poeta Nathan Alterman scrive: 'Forse una volta ogni mille anni la nostra morte ha un senso'. Ma faccio sempre più fatica a ripetere quelle parole. Il fantasma di Shaltiel mi sta piantato in gola. Shaltiel diceva che secondo lui chi muore in questo mondo, non solo i caduti di tutte le guerre, anche chi muore per un incidente o di malattia e financo di vecchiaia, tutti i morti sono uguali da sempre e per sempre, tutti muoiono assolutamente invano" (p.196).

- LA NOVITÀ DELL'USO DELLA FORZA
  Dal tempo della rivolta di Bar Kochba nel 135 fino alla fondazione dello Stato d'Israele il popolo ebraico aveva rinunciato all'uso della forza per uscire da situazioni difficili. Le vie usate per sopravvivere in mezzo a popolazioni ostili erano sostanzialmente due: l'adattamento o la fuga. Chi spingeva per forme di reazione violenta non era ben visto: l'esperienza aveva mostrato che in questo modo, alla resa dei conti, la situazione finiva sempre per peggiorare. L'unica eccezione potrebbe sembrare la rivolta del ghetto di Varsavia, ma quella non fu un'azione fatta per risolvere realisticamente un problema di sopravvivenza, ma come segno e memoria da lasciare agli uomini che sarebbero venuti dopo.
   L'inaspettata, miracolosa vittoria nella guerra del '48 fu un altro segno. Questa volta però non fu un segno lasciato agli uomini da altri uomini: fu un segno lasciato agli uomini da Dio. Un segno che annunciava un decreto di Dio: עם ישרעל חי! Il popolo d'Israele vive! Vive perché DEVE vivere, perché questa è la volontà di Colui che l'ha generato e ha detto a Gerusalemme: VIVI!
    "Io ti passai accanto, vidi che ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi (חיי, imperativo), tu che sei nel sangue! Ti ripetei: Vivi (חיי), tu che sei nel sangue!" (Ezechiele 16:6).
    Ma tu, Amos, credi in Dio? A nessuno dei tuoi personaggi, tutti ebrei, capita mai di usare un qualsiasi termine che faccia riferimento a Dio. Non è strano? Sì, dovrebbe essere strano, ma non lo è, se si guarda alla realtà dei fatti. Quindi, in un romanzo in cui nessuno crede in Dio non è strano che anche la questione della forza sia trattata etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Così fa l'idealista umanitario Shemuel:
   "Fino a un certo punto si può forse capire un popolo che per millenni ha ben conosciuto la forza dei libri, la forza della preghiera, la forza dei precetti, dello studio e della memorizzazione, la forza del fervore religioso, la forza della trattativa e della mediazione, ma che la forza della forza l'ha conosciuta solo a suon di percosse. E che ora a un tratto si ritrova con l'arma in pugno. Carriarmati e cannoni e aeroplani caccia. È appena appena naturale che si ubriachi di forza e tenda a credere che usando la forza si possa fare di tutto. E allora, secondo lei, che cosa non si può in alcun modo fare con l'uso della forza?" (p.122)
   
Gershom non lo sa, e allora Shemuel glielo spiega:
   "La verità è che tutta la forza del mondo non basta per trasformare l'odio in amore. Colui che odia lo si può trasformare in servo, ma non in uno che ama. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare il fanatico in illuminato. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare in amico chi ha sete di vendetta. Ed ecco, proprio queste sono le questioni esistenziali dello stato d'Israele: trasformare il nemico in sodale, il fanatico in moderato, il vendicatore in amico. Ho forse detto che non abbiamo bisogno della forza militare? Assolutamente no. Lungi da me il pensare una cosa così idiota. Esattamente come lei, so anche io che la nostra forza militare si frappone tra noi e la nostra morte, anche adesso che lei e io stiamo discutendo qui, fra noi due. La forza ha per intanto la capacità di impedire il nostro sterminio. A condizione di ricordare sempre, in ogni istante, che nel nostro caso la forza può solo impedire. Non definire né risolvere. Solo impedire la disgrazia, per un certo tempo" (p.122).
   E' assolutamente vero quello che dice Shemuel: "Tutta la forza del mondo non basta per trasformare l'odio in amore". Sarà questo riferimento all'amore a far entrare nella casa arcana, insieme al giovane idealista, anche il nome di Gesù. Quale Gesù?
   Ne parleremo in una prossima occasisone.
   Shalom,
   Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (3)

8 febbraio 2015
Caro Amos,
come ho scritto nella mia precedente lettera, nella casa arcana del tuo romanzo si aggirano due fantasmi, corrispondenti alle due anime del sionismo: quella nazionalista e quella universalista. Prima della venuta di Shemuel era questo il dibattito latente nella casa, anche se da molti anni non più espresso apertamente.
   Ma con la venuta del giovane studente universitario qualcosa cambia.

- UN ALTRO FANTASMA ENTRA NELLA CASA
   E' il fantasma di Gesù, o più precisamente, di "Gesù in una prospettiva ebraica", come dice il titolo della tesi di dottorato di Shemuel. Alla contrapposizione tra universalismo e nazionalismo in Israele viene così accostata, a dire il vero in modo un po' artificiale e posticcio, una singolare discussione sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Di questi due discorsi paralleli che si svolgono all'interno del romanzo, tralascerò deliberatamente il primo, almeno in un primo momento, e mi concentrerò sul secondo: Gesù in una prospettiva ebraica.
   Per far trascorrere in qualche modo le cinque ore pomeridiane del suo servizio quotidiano, Shemuel decide di leggere a Gershom ogni tanto qualche brano del suo lavoro di tesi.
   "In tre punti diversi del Talmud babilonese - legge - compaiono in contesti diversi esplicite dichiarazioni di disprezzo nei confronti di Gesù, descritto come un discepolo sapiente deviato dalla retta via o come uno stregone dedito all'idolatria, o anche come un uomo dissoluto desideroso di un pentimento che non gli era stato concesso. Ma nel corso delle generazioni questi tre passi furono espunti da tutte le versioni a stampa del Talmud senza lasciare praticamente traccia, perché gli ebrei avevano 'una paura terribile delle possibili' conseguenze che avrebbero patito dai loro vicini cristiani, se costoro avessero letto quei brevi passi. Il poeta Yanay, vissuto in terra d'Israele nel V o forse VI secolo, compose un acrostico anticristiano che era una satira feroce 'di coloro che dicono ai perversi salva/ che scelgono l'idolo abominevole/... che si rivolgono al sospeso sino all'alba' e via di seguito" (p.56).
   Contrariamente a quello che forse ci si poteva aspettare, Gershom non sembra affatto interessato ad ascoltare simili denigrazioni di Gesù. "Basta, basta - risponde - queste cose abominevoli non si possono proprio sentire, del resto ti avevo solo chiesto di spiegarmi che cosa è Gesù per gli ebrei, non cosa è per gli stolti" (p.57).
   In uno dei giorni seguenti, dopo un'altra lettura dello stesso tipo, Gershom comincia a dare segni d'insofferenza, e a Shemuel che gli fa notare la conoscenza storica degli autori da lui citati, risponde:
   "Ma quale conoscenza, qui non c'è nessuna conoscenza, a parte forse qualche brutto stereotipo, roba da pescivendoli al mercato. II frasario di quegli ebrei che disprezzavano così Gesù e i suoi seguaci assomigliava in tutto e per tutto agli abominii di antisemiti d'ogni sorta quando infangano gli ebrei e l'ebraismo. Ma che senso ha discutere con Gesù il Nazareno? - concluse tristemente Wald -, l'uomo deve elevarsi un pochetto, non scendere nella fogna. Invero è lecito, certo che è lecito financo ragionevole, discutere con Gesù, ad esempio, sulla questione dell'amore universale: è davvero ammissibile questa cosa che tutti noi senza alcuna eccezione possiamo amare sempre tutti senza eccezione? Davvero Gesù stesso ha sempre amato tutti? Ha davvero amato, ad esempio, i cambiavalute alle porte del Tempio, mentre lo prendeva quella rabbia, saltava su e capovolgeva furiosamente i loro banchetti? O quando dichiara 'non sono venuto a portare la pace in terra ma la spada' - non è che in quel momento si era scordato il precetto dell'amore universale e quello di porgere l'altra guancia? O anche quando ordina ai suoi apostoli di essere 'astuti come serpenti e candidi come colombe'? E soprattutto laggiù, secondo Luca, quando ordina che i nemici che si sono rifiutati di accogliere il suo regno siano condotti al suo cospetto e uccisi sotto i suoi occhi? Dove era finito, in quel momento, il comandamento di amare anche - e soprattutto - i nostri nemici? Del resto, chi ama tutti non ama nessuno, in fondo. Già. Ecco, così sì che è lecito discutere con Gesù il Nazareno. Così e non con ingiurie da fogna" (p.80).
   Poi aggiunge: "Quegli ebrei lì, se solo avessero avuto la possibilità e il potere, di sicuro avrebbero perseguitato i seguaci di Gesù e li avrebbero tormentati non meno di quanto i cristiani nemici d'Israele abbiano fatto con gli ebrei" (p.80).
   Di qui si riconosce che Wald è un ebreo laico integrale: a lui non interessano le diatribe teologiche sulla divinità di Gesù, il suo concepimento virginale, la sua risurrezione dai morti e altri temi che fanno accanire i religiosi gli uni contro gli altri, ebrei o cristiani che siano, i quali alla fine dimostrano di essere soltanto avidi di potere. A lui interessa il sublime messaggio d'amore di Gesù, che però non manca di lasciargli aperti molti interrogativi. Alla fine arriva a dire a Shemuel: "Anche il tuo Gesù era un grande sognatore, forse il più grande sognatore di tutti i tempi" (p.153). La valutazione dunque è positiva, ma subito dopo aggiunge: "Ma i suoi discepoli no. Loro erano avidi di potere e hanno fatto la fine di tutti i loro simili del mondo: sono diventati dei macellai." Niente di originale dunque: come tanti altri laici illuminati, Gershom parla bene di Gesù e male dei suoi discepoli. Dal punto di vista morale soltanto, naturalmente, tutto il resto non conta.
  Wald però definisce meglio il suo pensiero con una precisazione aggiuntiva: "Ti dico anche che malgrado tutto quello che ho detto prima, beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti. I primi non ci salveranno di certo, né noi né i loro discepoli, ma senza sogni e senza sognatori la maledizione peserebbe mille volte di più. È per merito dei sognatori se anche noi, i disincantati, siamo un po' meno di pietra e disperati di quanto saremmo senza di loro" (p.153).
   Ecco dunque, secondo l'ebreo laico Gershom Wald, il ruolo positivo dei sognatori come Gesù: produrre palliativi ideologici che non liberano nessuno, non risolvono niente, ma servono almeno a lenire le sofferenze prodotte dalla dura realtà.
   
- PERCHÉ GLI EBREI HANNO RESPINTO GESÙ?
  Mentre a Gershom la figura di Gesù pone domande sulla possibilità dell'amore universale, gli interrogativi di Shemuel sono un po' diversi. Un giorno decide di parlarne ad Atalia.
   "Non ho difficoltà a capire come mai gli ebrei hanno respinto il cristianesimo
- spiega alla vedova. - Ma Gesù non era affatto un cristiano. Gesù è nato ebreo e da ebreo è morto. Non ha mai pensato di fondare una nuova religione. E' stato Paolo, cioè Shaul di Tarso, a inventare il cristianesimo. Gesù per parte sua ha esplicitamente detto: 'Non sono venuto per cambiare nulla della Torah'" (p.129).
  Anche qui niente di originale. Per alcuni, dire che è stato Saulo di Tarso a inventare la religione cristiana è come, per altri, dire che sono stati gli ebrei a provocare la Prima guerra mondiale: due cose evidenti, che non hanno alcun bisogno di dimostrazione. Shemuel però aggiunge qualcosa di più personale: "Se gli ebrei l'avessero accolto (Gesù), tutta la storia sarebbe stata completamente diversa. La chiesa non sarebbe mai esistita. E forse l'Europa intera avrebbe accolto una forma di ebraismo ammorbidito e distillato. E così ci saremmo risparmiati la Diaspora, le persecuzioni, i pogrom, l'Inquisizione, i massacri, le espulsioni e pure la Shoah" (p.129).
  L'interrogativo di Shemuel dunque è scottante, ma anche un po' imbarazzante per un ebreo, perché alla fine arriva a dire, anche lui, che tutti i mali dell'Europa, persecuzioni, pogrom, inquisizione, massacri, espulsioni, Shoah sono colpa degli ebrei, perché se avessero accolto Gesù, non come Dio, certo, e neppure come Figlio di Dio, ma come portatore del suo "messaggio dell'amore universale, del perdono e della pietà e della bontà" (p. 131), tutti questi guai non sarebbero piovuti addosso a loro. E neppure a noi.
  Shemuel però non pensa a questo; l'interrogativo che lo tormenta è sempre lo stesso: perché gli ebrei non hanno accolto Gesù? "È proprio questa la domanda che mi pongo - dice ad Atalia - , e ancora non ho trovato risposta. Visto in una prospettiva contemporanea, lui era una specie di ebreo riformato. O neanche riformato, piuttosto fondamentalista, non nel senso di fanatico, piuttosto in quello di ritorno alle radici pure, ai fondamentali. Aspirava a depurare la fede ebraica di tutte le ridondanze rituali che si erano accumulate, di tutte le scorie che il sacerdozio aveva prodotto e i farisei moltiplicato. È naturale che i sacerdoti abbiano visto in lui un nemico" (p.129).
  Qui si potrebbe pensare che Shemuel dia la risposta tradizionale, cioè che sacerdoti e farisei, impauriti dalle agitazioni di popolo e invidiosi del prestigio ottenuto da Gesù, decisero di fare fuori il molesto sovvertitore dell'ordine pubblico. Invece no. La tesi esplicativa di Shemuel è un'altra, davvero originale, mai sentito nulla di simile in vita mia.

- MA GLI EBREI NON HANNO RESPINTO GESÙ
   Anche Shemuel, come Gershom, ha una grande ammirazione per Gesù, per il suo "messaggio dell'amore universale, del perdono e della pietà e della bontà" (p.131), tanto che Atalia gli chiede: sei cristiano? "Sono ateo - risponde Shemuel - il piccolo Yossi Siton, tre anni e mezzo, investito e ucciso ieri mentre correva dietro alla sua palla verde, non lontano di qui, in via Gaza, è dimostrazione sufficiente del fatto che Dio non esiste. Non credo neanche lontanamente al fatto che Gesù fosse Dio o figlio di Dio. Ma lo amo" (p.131).
  E alla fine Shemuel, continuando a scrivere nel suo lavoro di tesi, arriva a spiegare, soprattutto a se stesso, come mai sia potuto accadere che Gesù è finito in croce.
  Le cose sono andate così.
  In quel tempo i sacerdoti e i farisei facevano ben attenzione a monitorare i movimenti dei fanatici che si presentavano come il Messia o come un suo annunciatore, e naturalmente avevano agito così anche nel caso di Gesù. Alla fine però si erano convinti che Gesù non era pericoloso e quindi non valeva la pena di stare a contrastarlo, tanto prima o poi il fuoco si sarebbe spento da solo, come in tanti altri casi.
  All'inizio, certo, avevano mandato qualcuno a spiarlo, perché così richiedeva il protocollo che si usava seguire in questi casi, ma il fatto singolare è che la spia da loro incaricata era proprio Giuda Iscariota, il quale quindi in un primo momento entra in gioco non come discepolo di Gesù, ma come inviato dell'establishement sacerdotale.
  Giuda comincia regolarmente il suo lavoro di spia per conto dei sacerdoti, ma poi accade un fatto del tutto inaspettato.
  "A questo punto si verifica una svolta sorprendente nel corso degli eventi. L'uomo che era stato mandato dai sacerdoti di Gerusalemme a spiare il visionario di Galilea, a smascherarlo, divenne un fervido adepto. La personalità di Gesù, l'amore caldo e travolgente che emanava intorno a sé, quel miscuglio di semplicità, umiltà, empatia, intimità con cui ogni essere umano,
la frase è monca, non sta in piedi
unito allo slancio morale, alla grandezza della visione, alla penetrante bellezza delle parabole che Gesù usava, e il fascino della sua strabiliante novella, tutto ciò trasforma quell'uomo razionale, lucido e scettico venuto dalla città di Keriot in un fervente seguace del Salvatore e del suo messaggio. Giuda Iscariota si trasforma così in un discepolo convinto fino alla morte del Nazareno [...]
  Giuda Iscariota è diventato Giuda il cristiano. Il più entusiasta degli apostoli. Di più: è stato il primo uomo al mondo ad aver creduto con un atto di fede alla divinità di Gesù. A credere nella sua onnipotenza. A credere nel fatto che presto tutti gli uomini da un capo all' altro del mondo avrebbero visto la luce e la redenzione sarebbe arrivata" [...]
  Per qualche ragione, Giuda, che era un uomo di mondo e se ne intendeva non poco in fatto di quelle che oggi si chiamano pubbliche relazioni e ripercussioni sociali, decise che Gesù doveva abbandonare la Galilea e salire a Gerusaleme. Che doveva conquistare la regina, cioè Gerusalemme. Di fronte a tutto il popolo e sotto gli occhi del mondo intero, doveva operare un prodigio quale non si era mai visto da che il Signore aveva creato il cielo e la terra. Gesù che aveva camminato sulle acque del mare di Galilea, Gesù che aveva resuscitato dalla morte la bambina e Lazzaro, Gesù che aveva trasformato l'acqua in vino e aveva cacciato i demoni e guarito i malati con il contatto della sua mano e dell'orlo della sua veste, doveva essere crocifisso sotto gli occhi di tutta Gerusalemme. E sotto gli occhi di tutta Gerusalemme si sarebbe liberato e sarebbe sceso vivo e vegeto dalla croce, presentandosi sano e salvo in piedi per terra, davanti alla croce. Tutto il mondo, dai sacerdoti ai più umili contadini, romani e idumei ed ellenizzanti, farisei e sadducei ed esseni, samaritani, ricchi e poveri, centinaia di migliaia di pellegrini saliti a Gerusalemme da tutto il paese e anche dai paesi vicini in occasione della festa di Pasqua: tutti sarebbero caduti in ginocchio, nella polvere. Con ciò sarebbe cominciato il Regno dei Cieli. A Gerusalemme. Di fronte al popolo e al mondo. E precisamente il venerdì prima della festa di Pasqua. In occasione del raduno più grande. Ma Gesù era molto incerto se seguire il consiglio di Giuda e salire a Gerusalemme. Nel profondo del suo cuore di bambino, da sempre il dubbio lo rodeva: sono proprio io l'uomo? Sono davvero io l'uomo? [...]
  "Giuda non si arrese: sei tu l'uomo. Tu sei il Salvatore. Tu sei figlio di Dio, tu sei Dio. Tu sei destinato a salvare l'umanità. Dal cielo ti è stato ordinato di andare a Gerusalemme e compiervi i tuoi miracoli, tu farai a Gerusalemme il miracolo più grande di tutti, scenderai vivo e vegeto dalla croce, e tutta Gerusalemme cadrà ai tuoi piedi. Roma stessa cadrà ai tuoi piedi. Il giorno della tua crocifissione sarà il giorno della redenzione universale. È l'ultima prova cui tuo padre che è nei cieli ti sottopone, tu la affronterai perché sei il nostro Salvatore. Dopo questa prova comincerà l'era del riscatto dell'umanità. Quel giorno stesso arriverà il Regno dei Cieli"
(p.165-167).
   I sacerdoti, scrive Shemuel nei suoi appunti, avevano capito che Gesù, come tanti altri prima di lui, non era pericoloso, e anche Pilato aveva ben poca voglia di fare un'altra crocifissione, ma alla fine per pigrizia si lasciò convincere, tanto una crocifissione in più o una in meno non faceva molta differenza. Non è a loro quindi che si deve la morte di Gesù. L'unico, vero ideatore della crocifissione è un altro, e alla fine Shemuel lo presenta.
  "Giuda Iscariota è l'ideatore, l'organizzatore, il regista e il produttore del dramma della crocifissione. In questo avevano ragione tutti coloro che in ogni tempo l'hanno disprezzato e vituperato. Forse avevano ancor più ragione di quanto non pensassero. Ma per tutto il tempo in cui Gesù agonizzò sulla croce fra i tormenti, ora dopo ora sotto il sole cocente, con il sangue che colava dalle ferite e le mosche che vi volavano sopra, anche quando gli diedero dell'aceto da bere, la fede di Giuda non vacillò nemmeno per un momento: ecco, ecco che viene. Ecco che Dio sorgerà dalla croce e scrollerà via i chiodi e scenderà dalla croce e dirà a tutto il popolo prostrato faccia a terra, attonito: amatevi gli uni con gli altri.
  "E Gesù? Mentre andava morendo sulla croce, nell'ora nona, l'ora in cui la gente lo prese in giro gridando Salva te stesso se puoi e scendi dalla croce (Marco 15,30), ancora lo rodeva il dubbio: sono io l'uomo? Ciononostante, tentò forse ancora, nei suoi ultimi istanti, di tener fede alla promessa di Giuda. Con le poche forze che gli restavano tirò le mani e i piedi inchiodati alla croce, tirò e si torturò, tirò e urlò di dolore, tirò e invocò suo Padre ch'è nei cieli, tirò e morì con sulle labbra le parole tratte dal libro dei Salmi, 'Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato' (22,1). Queste parole potevano affiorare solo alle labbra di un uomo morente che crede, o cerca di credere che Dio possa effettivamente aiutarlo a strappare via i chiodi, produrre un miracolo e scendere sano e salvo dalla croce. Con queste parole Gesù morì dissanguato come un uomo comune, come chi è fatto di carne e sangue.
  "E Giuda, il cui scopo e senso della vita si infransero sotto i suoi occhi sgomenti, Giuda che capì di aver causato con le proprie mani la morte dell'uomo che più amava e ammirava, se ne andò a impiccarsi. Così, così morì il primo cristiano. L'ultimo cristiano. L'unico cristiano
" (p.168-169).
  
 
Nelle interviste che tu Amos hai rilasciato per illustrare il tuo libro, hai più volte ripetuto (e in questo hai ragione) che molti cristiani hanno fatto di Giuda il prototipo dell'ebreo infido e traditore. Sei andato anche oltre: hai detto addirittura che Giuda è la Cernobyl dell'antisemitismo. Secondo la tua schematizzazione, i cristiani in sostanza direbbero questo: Gesù è il primo cristiano che muore per il tradimento dell'ebreo Giuda; tu rovesci abilmente le cose e dici: Giuda è il primo cristiano che con la sua teologia provoca la morte dell'ebreo Gesù. Giuda è il vostro cristiano, Gesù è il nostro ebreo. Complimenti! Una mossa da maestro. Ma con questo restiamo nel campo di un gioco come quello degli scacchi, e non è certo il caso di continuare la partita.
  Il Gesù di Oz è una derisione del Gesù dei Vangeli.
  Ma non temere, non ti succederà nulla. Al massimo, se ti capitasse di passare dalle parti del Vaticano, potrebbe arrivarti un pugno. Niente di più. Ma da parte mia comunque non avresti nemmeno quello. Come tanti altri credenti in Cristo, quello che tu dici su Gesù non offende me, ma piuttosto mi rende dispiaciuto per te.
  Visto che hai letto i Vangeli, certamente saprai che lo scherno è parte integrante della sofferenza di Gesù: uno scherno che non è mai cessato di esserci e oggi anzi sta aumentando. Penso che avrai letto anche il libro degli Atti e avrai visto che cosa è capitato a Saulo di Tarso, quello che avrebbe inventato il cristianesimo:
    "Saulo, sempre spirante minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote, e gli chiese delle lettere per le sinagoghe di Damasco affinché, se avesse trovato dei seguaci della Via, uomini e donne, li potesse condurre legati a Gerusalemme. E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, d'improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. Àlzati, entra nella città e ti sarà detto quello che devi fare». (Atti 9:1-6)
  Il tuo libro comunque ha un merito: aver riportato al centro dell'attenzione, anche in un tema che sembra esserne lontano come il sionismo, la persona di Gesù.
  Varrà la pena di continuare a parlarne.
  Shalom,
  Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (4)

15 febbraio 2015
Caro Amos,
torniamo ai due spettri che si aggirano fin dall'inizio nella casa arcana del tuo romanzo. Sono tutti e due fantasmi, ma di tipo diverso: il fantasma nazionalista corrisponde a una figura realmente esistita: Ben Gurion, mentre il fantasma universalista, Shaltiel Abrabanel, non ha mai avuto un corpo: è pura immaginazione dell'autore. Già questo fatto produce una sgradevole commistione tra finzione e realtà, molto postmoderna, che rende nebulosi e flaccidi i successivi colloqui tra i personaggi del romanzo. Interviene poi un terzo fantasma, che chiamerò il Gesù di Oz, la cui consistenza è ancora più nebulosa, perché non si sa neppure se abbia un qualche riferimento a una persona realmente esistita, o sia pura invenzione. Tu dirai probabilmente che non hai scritto un trattato di teologia, né un saggio di storia, né un trattato di esegesi storico-critica; dirai che sei un romanziere, e i romanzieri, si sa, sono liberi creatori dei loro personaggi. Potresti anche dire che non sei tu ad esprimere quei giudizi su Gesù, ma il personaggio Shemuel, e quindi non è detto che dietro Shemuel Arsch ci sia Amos Oz. Non è detto, certo, ma potrebbe anche essere. Si dice e non si dice: il modo migliore per apparire profondi senza prendersi la responsabilità di dire chiaramente qualcosa. Ammettendo di essere un traditore, e dichiarandoti onorato di appartenere alla categoria dei traditori, hai detto di avere scritto un libro che farà arrabbiare diverse persone, tra cui i cristiani. Ma se quel Gesù è una tua pura invenzione, perché i cristiani dovrebbero arrabbiarsi?

- A PROPOSITO DI UMORISMO
  Un intervistatore una volta ti ha chiesto: come si fa a trasformare l'odio in amore? Con leggerezza ironica tu hai risposto che ci vorrebbe più senso di humour; e hai aggiunto sorridendo che avresti distribuito volentieri pastiglie di umorismo ai fanatici che diffondono odio. A dire il vero, a me non sembra che con il tuo romanzo tu sia riuscito a fare qualcosa del genere: personalmente non ho trovato quel libro né umoristico, né sconvolgente, ma solo un po' deprimente.
  Ti citerò invece un autore italiano che ha fatto davvero qualcosa di utile per la diffusione terapeutica dell'umorismo: Giovannino Guareschi. Negli stessi anni in cui nel tuo romanzo si svolge l'epica contrapposizione tra nazionalismo israeliano e universalismo cosmico, in Italia Guareschi si è trovato nel mezzo di una contrapposizione altrettanto epica tra cattolicesimo e comunismo. Da vero romanziere qual era, ha creato due personaggi che resteranno imperituri nella storia della letteratura mondiale: il prete don Camillo e il comunista Peppone. Due personaggi di pura invenzione e tuttavia agganciati alla realtà, con i quali Guareschi certamente ha contribuito in qualche misura alla distensione degli animi in un tempo di aspra contesa. L'autore del libro stava dichiaratamente dalla parte di don Camillo, ma ha potuto vantarsi, e a ragione, di essere stato l'unico scrittore a saper creare una figura di comunista che riusciva simpatica anche a quelli che vedevano il comunismo come il fumo negli occhi. Il fatto interessante è che anche lui, come te, ha fatto entrare Gesù nella contrapposizione: ha inventato un crocifisso parlante. Ogni tanto quindi nei suoi romanzi si sente intervenire la voce di Gesù. Si è irritato o scandalizzato qualcuno per questo? No, perché era evidente la forma favolistica della narrazione. L'ha sottolineato lo stesso Guareschi, che una volta ha scritto più o meno questo: se i comunisti non sono contenti del mio Peppone, possono darmi una martellata in testa, se i cattolici non sono contenti del mio don Camillo, possono tirarmi un incensiere, ma sul Cristo del crocifisso non accetto obiezioni: quella è roba mia. Ed effettivamente era così: il crocifisso parlante era la voce della sua coscienza, che Guareschi con vera abilità letteraria ha saputo esprimere in modo fabulatorio, meritandosi il rispetto di tutti, perché l'altrui coscienza va in ogni caso presa in seria considerazione.

- IL GESÙ DI OZ
  Il tuo Gesù invece è molto più sfuggente, viscido direi. E' interpretazione storica? allegoria? parabola? favola? Che cos'è? Nelle tue interviste hai ironizzato sui trenta denari dati da Giuda per il tradimento di Gesù, e hai chiesto al pubblico: ma vi sembra possibile la richiesta di una somma così misera da una persona ricca come Giuda? vi sembra possibile che i sacerdoti diano del denaro a qualcuno per riconoscere una persona nota a tutti, che non avrebbe quindi potuto essere confusa con un altro? E qui hai aggiunto una battuta per far ridere il pubblico: potrei forse io riuscire a farmi passare per Berlusconi? Con questi esempi presentati come fatti inverosimili hai posto una questione di verosimiglianza, cioè di riferimento convincente alla realtà dei fatti. Nessuno farebbe obiezioni di questo tipo alla favola di Cappuccetto Rosso. Allora, se si tratta di verosimiglianza, a te si potrebbe chiedere: ma ti sembra verosimile che un uomo si lasci inchiodare mani e piedi a una tavola soltanto perché un suo amico gli ha fatto credere che sarebbe stato miracolosamente liberato, non prima, ma dopo che i chiodi gli avevano trapassato il corpo? E' verosimile tutto questo? Potrebbe esserlo, se si aggiunge che quel crocifisso è un povero mentecatto, un citrullo integrale ipnotizzato da un fanatico invasato di nome Giuda, da te presentato come "cristiano" per antonomasia.
  E tutte queste cose tu le hai dette in una Sinagoga, in un luogo che fa esplicito riferimento al Dio di Israele, portando in testa un segno di sottomissione a Lui. Sei riuscito a fare una cosa che non credo sia molto usuale: fare il nome di Gesù in una Sinagoga. Hai voluto soltanto raccontare una favola ai presenti? Non credo. Eri infatti molto serio quando al pubblico che ti ascoltava attentamente hai dichiarato: "Giuda credeva in Gesù ancora più di quanto Gesù credeva in se stesso". Posso farti una domanda? Ma tu, come lo sai? Da che cosa l'hai capito? O è importuno fare simili domande a un romanziere di grido?
  Hai voluto insomma presentare, in una nebulosa forma romanzata, una tua interpretazione di Gesù. Un'altra, dopo tutte quelle che ci sono già state.

- L'ULTIMISSIMA INTERPRETAZIONE DI GESÙ
  Abbiamo avuto Gesù taumaturgo, Gesù esorcista, Gesù socialista, Gesù psicologo, Gesù pedagogo, Gesù ariano, Gesù rivoluzionario, Gesù superstar, adesso abbiamo un'ultimissima versione di provenienza ebraica: Gesù Peace Now. Poco prima di questa avevamo avuto un'altra versione, singolare anche quella, ma di provenienza araba: Gesù palestinese. Infatti, se è possibile trattare il Gesù dei Vangeli con la disinvolta leggerezza inventiva che usi tu, perché si dovrebbe biasimare Abu Mazen se mostra al Papa un cartellone raffigurante Gesù palestinese messo in croce dagli ebrei israeliani? Nel vangelo di Oz si vedono i cristiani, rappresentati da Giuda, uccidere il pacifico ebreo Gesù; e nel vangelo di Abu Mazen si vedono gli ebrei, rappresentati da Israele, uccidere il pacifico palestinese Gesù. In quanti modi si può uccidere Gesù!
  Per molti, per troppi, Gesù è soltanto un simbolo cucito su una bandiera, dove quello che conta non è la persona significata nel simbolo ma quello che la bandiera rappresenta: una causa, una nobile causa naturalmente, perché così viene sentita da chi vive o dice di vivere per essa. E si dice che Gesù è stato il primo, il più grande, il più alto esponente della causa per cui lavora il gruppo che regge la bandiera. Questa causa può assumere ed ha assunto di fatto diversi nomi nella storia del mondo occidentale: patria, giustizia, libertà, pace. Ideali nobili, belli, perseguiti dagli uomini migliori, quelli che non cercano interessi personali ma si adoperano per il bene di tutti. Per te forse Gesù è un nome cucito sulla bandiera di una delle cause più nobili che ci siano, forse la più nobile: l'amore universale. Tutti che vogliono bene a tutti. Non è forse questo il regno dei cieli sulla terra? Però, chi comincia a combattere sotto questa bandiera di solito prima o poi s'accorge che chi ne tiene il manico tende ad agitarlo sulla testa di quelli che non si lasciano convincere, per il loro bene naturalmente, o forse soltanto per il bene proprio, per difendersi, perché anche lasciarsi scannare da chi non segue i precetti dell'amore universale non è il massimo del bene universale. Chi vuol essere realista allora smette di aspettare dall'alto un regno dei cieli che scende sulla terra per portare amore assoluto tra gli uomini e comincia a lavorare alacremente intorno a un più realistico progetto dal suono scientifico: l'ottimizzazione della convivenza umana. Un simile progetto naturalmente dovrà essere ben fatto, ben architettato, bello sulla carta, perché anche se ci vorrà del tempo a realizzarlo, anche se non sarà possibile attuarlo pienamente, il solo fatto di averlo elaborato in modo intelligente dovrà renderlo capace di attrarre tutti e convincere tutti a collaborare per la sua attuazione. Dovrà essere insomma un bell'ideale umano.
  L'elaborazione di un simile progetto ideale è quello che in termini biblici si chiama "costruzione di un idolo". Non a caso i termini ideale e idolo hanno la stessa radice. Si legga con quale autentico senso di humour il profeta Isaia descrive la costruzione di un simile ideale-idolo (Isaia 44:12-17):
    Il fabbro lima il ferro,
    lo mette nel fuoco, forma l'idolo a colpi di martello,
    e lo lavora con braccio vigoroso;
    soffre perfino la fame, e la forza gli vien meno;
    non beve acqua, e si spossa.
    Il falegname stende la sua corda,
    disegna l'idolo con la matita,
    lo lavora con lo scalpello,
    lo misura col compasso,
    e ne fa una figura umana,
    una bella forma d'uomo,
    perché abiti una casa.
    Si tagliano dei cedri,
    si prendono degli elci, delle quercie,
    si fa la scelta fra gli alberi della foresta,
    si piantano dei pini che la pioggia fa crescere.
    Poi tutto questo serve all'uomo per far del fuoco,
    ed ei ne prende per riscaldarsi,
    ne accende anche il forno per cuocere il pane;
    e ne fa pure un dio e l'adora,
    ne scolpisce un'immagine,
    dinanzi alla quale si prostra.
    Ne brucia la metà nel fuoco,
    con l'altra metà allestisce la carne,
    ne cuoce l'arrosto, e si sazia.
    Ed anche si scalda e dice: 'Ah! mi riscaldo,
    godo a veder questa fiamma!'
    E con l'avanzo si fa un dio, il suo idolo,
    gli si prostra davanti, l'adora, lo prega
    e gli dice: 'Salvami, poiché tu sei il mio dio!'
  E il profeta conclude sconsolato: "Non sanno nulla, non capiscono nulla!"
  Il tuo buon citrullo Shemuel, che come te ha letto il vangelo a quindici anni, e ne ha tratto la conclusione che Gesù è colui che ha lanciato un "messaggio di amore universale, di perdono e di pietà, e di bontà" (p.131), ha letto male il vangelo. Gesù non è il latore di un sublime messaggio, Gesù è il messaggio; Gesù non propone una nobile causa agli uomini, Gesù propone se stesso agli uomini; Gesù non elabora possibili soluzioni ai problemi del mondo, Gesù è la soluzione al problema del mondo.
    «Si considerino i quattro Vangeli. Molti, anche tra gli atei, li trovano interessanti; i moralisti vi ricavano storielle istruttive, i credenti esempi edificanti, i teologi dottrine complicate. Ma leggendoli attentamente ci si accorge che i quattro Vangeli hanno un unico oggetto di interesse: la persona di Gesù. Sono stati scritti per rispondere a una precisa domanda: "Chi è Gesù?" E al lettore pongono a loro volta una precisa domanda: "E tu, chi dici che sia Gesù?" Dalla risposta a queste due domande dipendono tutte le dottrine e tutti gli insegnamenti pratici che se ne possono trarre. Non ha senso tirar fuori, qua e là, dai racconti evangelici, spunti di attualizzazione pratica senza prima prendere posizione sulla persona di Gesù. E non è possibile comprendere pienamente la persona di Gesù se non la si colloca nel suo contesto ebraico. Non è lecito, per esempio, fare del sermone sul monte (Matteo, capp. 5-7) un modello universale di condotta morale senza tener conto della persona che l'ha pronunciato e dell'ambiente storico e religioso in cui i fatti sono avvenuti»
Lo scopo principale dei racconti evangelici non è far conoscere le belle parole che Gesù ha detto o le edificanti opere che ha fatto, ma rivelare attraverso quei racconti chi è Gesù, e invitare chi legge a riceverne un beneficio eterno.
  "Or Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo (Messia), il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome" (Giovanni 20:30-31).
  Ne parleremo ancora.
  Shalom,
  Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (5)

22 febbraio 2015
Caro Amos,
quello che mi ha spinto a leggere il tuo ultimo romanzo è stato proprio il riferimento alla persona di Giuda, e dunque a quella di Gesù. Il motivo per cui hai voluto far intervenire i Vangeli in un intreccio romanzesco che poteva benissimo farne a meno, ancora non mi è chiaro. Ai personaggi del tuo libro, e probabilmente anche a te, le antiche e sempre attuali questioni dottrinali sulla persona di Gesù non interessano nulla. Dispute sulla sua nascita, se sia avvenuta per l'opera dello Spirito Santo o di un soldato romano; sulla sua morte, se sia da imputare al Sinedrio ebraico o al Governatore romano; sulla sua risurrezione, se sia davvero avvenuta o sia una menzogna inventata in seguito dai suoi discepoli, sono fatti su cui non pensi che valga la pena discutere.
  Tuttavia sono questioni che hanno a che vedere con la verità: pongono domande del tipo "è vero? è falso?" A te però questo non sembra che interessi. Tu non sei, né vuoi essere, uno scienziato: sei un romanziere, un artista, e in quanto tale non fai ricerche su qualcosa di oggettivo: tu crei. La tua creazione però non è da considerare opera di pura fantasia, perché la netta distinzione tra immaginazione e realtà oggi non è più attuale. Nella nostra diffusa cultura postmoderna non si ricerca la verità (al singolare), ma si creano tante verità (al plurale) da mettere a confronto le une con le altre in modo educato e pacifico. Ti sei creato dunque il tuo Gesù con spezzoni di documenti raccolti un po' qua un po' là, tenuti insieme da un collante di fantasia molto debole, con un risultato che è una mezza favola in cui si vedono ectoplasmi muoversi in una sudicia semioscurità.
  Ma fino a qui rimaniamo nella legittima e opinabilissima critica del valore letterario di un'opera. Quello che a me interessa invece è l'uso della Bibbia che fanno i tuoi personaggi, anche perché non si può escludere che qualche tuo lettore sappia di Gesù poco di più di quello che legge nel tuo libro.
  Evidentemente a te interessa presentare un Gesù che non soltanto non è Dio, né ha mai preteso di esserlo, ma non ha niente a che fare neppure con i cristiani: il tuo Gesù è un vero ebreo, un puro ebreo, ligio osservatore della legge di Mosè, anche se senza le durezze e i fanatismi di certi scribi e farisei di quel tempo.
  Trovi allora che servano ai tuoi scopi alcune citazioni tratte dal Vangelo di Matteo: "'Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutto quello che vi dicono" (Matteo 23,2-3). E aggiungi: "Se ne deduce che Gesù riconosce non soltanto la Torah scritta ma (anche) la Torah orale: 'Non sono venuto per abolire la legge ma per adempierla' (Matteo 5, 17). E ancora: 'Fino a quando non passeranno il cielo e la terra, nulla passerà dalla legge' (5,18)".
  
Capisco che tu abbia voluto costruirti un Gesù su misura per renderlo adatto alle esigenze letterarie del tuo romanzo, ma perché torcere a questo scopo i testi biblici, inserendo nel racconto elementi non solo fantastici, ma anche falsi?
  Nel suo famoso Sermone sul Monte Gesù ripete più volte con forza: "Voi avete udito che fu detto agli antichi... (Torah orale), ma io vi dico". Chi avrebbe oggi il coraggio di contrastare in modo così netto l'autorità degli antichi saggi e contrapporre ad essa un perentorio e indiscutibile: "Ma io vi dico!"? Si possono già immaginare le risposte: "E tu chi sei? sei forse il nostro Papa?" Ed è più che comprensibile: anch'io direi la stessa cosa, perché il Papa effettivamente si è assunto, senza averne alcun diritto, un'autorità che appartiene soltanto a Gesù, e non ad altri.
  Molto usata, anche dai cristiani di una certa corrente, è poi un'altra frase di Gesù che riporti nel tuo libro: "Non sono venuto per abolire la legge ma per adempierla". Secondo alcuni, questo significa che Gesù ha voluto soltanto umanizzare la Torah, ammorbidirla, privarla di quegli elementi formalisti che aveva ai suoi giorni, ma non certo eliminarla. Evidentemente hai voluto mantenere Gesù nel campo prettamente ebraico, impedendone il rapimento da parte dei cristiani. A loro hai lasciato Giuda. Molto volentieri. "Visto in una prospettiva contemporanea - dice infatti il tuo Shemuel -, lui era una specie di ebreo riformato. O neanche riformato, piuttosto fondamentalista, non nel senso di fanatico, piuttosto in quello di ritorno alle radici pure, ai fondamentali. Aspirava a depurare la fede ebraica di tutte le ridondanze rituali che si erano accumulate, di tutte le scorie che il sacerdozio aveva prodotto e i farisei moltiplicato" (p.128).
  E' vero che Gesù ha denunciato e anche ridicolizzato certi modi puntigliosi e ipocriti di osservare i precetti della legge, ma certamente nel suo insegnamento sulla legge non ha fatto sconti; in nessun modo Gesù può essere paragonato a un ebreo riformato dei nostri giorni. La differenza sta nella risposta a questa domanda: "Per quale motivo e a quale scopo devono essere osservati i precetti della Torah?" Che cosa risponde l'ebreo riformato? Che cosa risponde Gesù?
  I precetti sono un imperativo, e come ogni imperativo richiedono il sostegno di un indicativo. Non è filosofia, è qualcosa che si trova nella Bibbia, patrimonio del tuo popolo. Le dieci parole pronunciate da Dio sul monte Sinai sono ordini secchi, imperativi che non ammettono obiezioni, ma sono preceduti da una proposizione indicativa che ne sta a fondamento e senza la quale tutto il resto non avrebbe senso: "Io sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù" (Esodo 20:2). Se non si crede a questo indicativo che manifesta l'opera di Dio nel passato, che senso ha sottomettersi a una moltitudine di imperativi imposti da qualcuno in cui non si crede? Ma prima ancora di un indicativo che ricorda il passato, Dio aveva dato a Mosè un indicativo riguardante il futuro: "'Or dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa'" (Esodo 19:5-6). I precetti della prima versione delle tavole della legge dunque sono inseriti tra un'azione liberatoria di Dio nel passato e un progetto di cammino con Dio nel futuro.
  L'opera di Gesù si svolge in un sottofondo biblico dello stesso tipo. Gesù non comincia facendo nobili esortazioni morali, dando buoni consigli, dicendo a tutti: "Mi raccomando, siate buoni, non vi azzuffate, vogliatevi bene". Il Gesù dei Vangeli non ha niente a che vedere con i predicatori dell'amore universale tra gli uomini, con i sognatori che buttano sugli altri il peso dei loro sogni, facendoli diventare incubi sulle spalle altrui, ossessioni che rendono ancora più difficile sopportare le misere angustie del presente. Gesù comincia il suo ministero "sanando ogni malattia ed ogni infermità fra il popolo" (Matteo 4:23). Prima ancora di parlare, Gesù opera. E le sue sono opere di amore: un amore che libera, guarisce.
  Gesù però non ha risolto completamente il problema della malattia in Israele: di malati sicuramente ce n'erano ancora molti. D'altra parte, neanche Dio ha risolto completamente i problemi del popolo ebraico liberandolo dalla schiavitù d'Egitto. Che significato hanno allora le opere potenti fatte da Gesù? Sono espressioni d'amore, risponderà qualcuno. Sì, certo, ma non basta. A un malato io posso esprimere il mio amore sincero, ma questo non lo farà guarire. Del resto, non sono state forse espressioni d'amore gli interventi di Dio verso il suo popolo in Egitto? Certamente, e la Scrittura lo mette bene in evidenza: "L'Eterno disse: Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi angariatori; perché conosco i suoi affanni" (Esodo 3:7). E dopo aver visto, che ha fatto? Se fosse stato uno come noi, starebbe ancora lì a piangere, ad affliggersi con gli afflitti, esprimendo in questo modo il suo grande amore, certo, ma senza poter fare niente di concreto per cambiare realmente le cose.
  Ma che poteva fare Mose, l'incaricato di Dio? Aveva davanti a sé il Faraone, la più grande potenza mondiale del tempo, che non era affatto disposta a lasciar cambiare la situazione dei disprezzati ebrei. Dio non si presenta di persona al Faraone, cosa che certamente avrebbe chiuso subito il caso, ma incarica Mosè di portare un suo ordine al sovrano: "Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto" (Esodo 5:1). Si può ben capire la sorpresa e l'irritazione del potente Faraone, che avrà pensato: "Dunque questi cenciosi ebrei hanno anche loro un dio? un dio che si permette di dare ordini a me? e chi è questo dio?" "Il Faraone rispose: Chi è l'Eterno ch'io debba ubbidire alla sua voce e lasciar andare Israele? Io non conosco l'Eterno, e non lascerò affatto andare Israele" (Esodo 5:2). Così il Signore è stato costretto a presentarsi. E l’ha fatto in modo discreto, non direttamente, ma attraverso dei segni. Segni della sua autorità: le dieci piaghe. Il Dio d'Israele non è il protettore degli ebrei come Sant'Uberto è il patrono dei cacciatori (così almeno vuole la tradizione popolare cattolica): non c'è autorità superiore alla sua. Quindi, quando si parla di Dio, si stia attenti a non porre con arroganza la domanda: "Chi è? io non so chi è; io non lo conosco". Perché Dio potrebbe presentarsi, anzi, prima o poi certamente lo farà. E allora saranno guai.
  Come si vede, la domanda: chi è? riferita a Dio, si è posta fin dall'inizio della storia del popolo ebraico. E la domanda: chi è? riferita a Gesù, si è posta fin dall'inizio del suo ministero. E continua a porsi ancora oggi.
  Con le sue potenti opere liberatorie, Gesù ha cominciato a dare elementi per rispondere a questa domanda: i suoi sono segni messianici di autorità. Un'autorità d'amore, salvifica, liberatrice, ma un'autorità totale, di provenienza divina, come quella usata da Mosè.
  Dopo aver mostrato la sua fattuale autorità di liberatore dalla schiavitù del male, Gesù è salito sul monte per mostrare con la bocca la sua autorità di governatore. Vale dunque anche qui quello che si era visto al tempo di Mosè: Colui che ha il potere di liberare, ha anche il diritto di comandare. L'Eterno, che udendo i gemiti del suo popolo scende a liberarlo, durante il viaggio verso la Terra Promessa scende ancora una volta per dare ordini.
  Gli ordini dati da Dio al popolo però non devono essere visti come una specie di pagamento per la liberazione ricevuta, come il rovescio della medaglia. Si parla infatti di dono della legge. Ma anche questo termine ha bisogno di essere chiarito, perché qualcuno potrebbe immaginarsi un Dio che al suo popolo dice più o meno questo: "Vi ho fatto un dono prezioso, l'ho fatto soltanto a voi e quindi questo vi mette in una posizione di privilegio e responsabilità. Abbiatene cura, parlatene fra di voi, discutete, litigate, praticatelo nel modo che vi sembra migliore, ma non venitemi a disturbare con le vostre domande e nessuno vada in giro a dire che ha saputo da me qual è l'interpretazione autentica da dare ai miei ordini, perché non sarebbe vero. D'ora in poi ve la dovete sbrigare fra di voi. Shalom".
  Ecco, qui comincia il disagio provocato da Gesù tra le autorità religiose di quel tempo, e non solo. Non sono stati certi particolari, stranissimi precetti introdotti da Gesù a creare il malessere fra gli scribi e i farisei, perché molti studiosi hanno dimostrato che l'insegnamento morale di Gesù non si discosta di molto da quello rabbinico, e tuttavia questo non fa di Gesù soltanto uno dei molti rabbini. Alla fine del suo Sermone sul Monte le folle non dicono: "Ma che bel discorso, che belle parole, che insegnamenti edificanti!". L'elemento sottolineato dall'evangelista è un altro: la sorpresa. Sorpresa non per le sue parole, ma per lui. Gesù parlava con autorità; un'autorità che non avevano mai avvertito prima di quel momento. "Ora, quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle stupivano del suo insegnamento, perché egli le ammaestrava come uno che ha autorità e non come gli scribi." (Matteo 7:28-29).
  Ma di questo sermone, o meglio, di Colui che l'ha pronunciato, varrà la pena di continuare a parlare.
  Shalom,
  Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (6)

1 marzo 2015
Caro Amos,
chi legge queste righe potrebbe dire: "In fondo il libro di Oz è soltanto un romanzo, non ha senso quindi voler analizzare, commentare, contestare quello che viene detto su Gesù". Le cose però non sono così semplici e chiare: tutt'altro. L'ambiguità allusiva in cui si svolge l'intreccio rende le affermazioni che vi si fanno sfuggenti e infide, quindi ancora peggiori di esplicite dichiarazioni teologiche. Inoltre, per confermare l'ambiguità, tu hai presentato il tuo libro con la kippà in testa, in un luogo in cui fare il nome di Gesù non è come parlare di Annibale il Cartaginese. Hai fatto anche riferimenti personali alla tua lettura dei Vangeli, dicendo di non riuscire a credere a quello che vi si dice. Hai accennato a un libro scientifico di un tuo prozio in cui sarebbe dimostrato che Gesù è nato e morto ebreo. Su questo non posso che essere d'accordo, ma spero che il tuo parente abbia ottenuto qualche altro risultato un po' più importante di questo, perché fino a qui non mi sembra che ci voglia molto per arrivarci. Dici anche, giustamente, che Gesù non ha mai voluto creare una nuova religione. Poi aggiungi, come per darne una dimostrazione, che Gesù non si è mai fatto il segno della croce, non è mai entrato in una chiesa, perché allora non ce n'erano. E anche questa non sembra un'osservazione molto acuta. Dici invece che Gesù è entrato nelle sinagoghe e ha fatto scandali; e ai presenti che ti ascoltavano in sinagoga hai detto poi che Gesù era un ebreo non conformista, un ebreo ribelle. Qui bisogna notare una cosa strana: nei sottotitoli in italiano del video che riporta la tua conferenza in sinagoga compare esattamente il contrario: "Gesù ... non aveva nessuna conflittualità con gli ebrei. Non era un ebreo ribelle". Si tratta evidentemente di un errore di comprensione del traduttore, ma certi errori sarebbe meglio non farli.
  Presentandomi come cristiano professante, probabilmente per te dovrei appartanere a quella religione con chiese e segni di croce di cui hai parlato. Mi vedo quindi costretto, prima di continuare a parlare di Gesù, e contro le mie abitudini e il mio temperamento, a dire qualcosa di personale, come del resto hai fatto anche tu nelle tue interviste. Quello che di te hai detto pubblicamente mi dà anzi la possibilità di fare qualche interessante confronto fra i nostri due percorsi di vita.
  Abbiamo più o meno la stessa età, ma per la precisione posso dire che quando tu sei venuto al mondo io c'ero già. Tu sei nato a Gerusalemme, capitale dell'ebraismo; io sono nato a Roma, capitale del cattolicesimo. A dodici anni tu hai perso la madre; alla stessa età l'ho persa anch'io, anche se in forma naturale, non drammatica. Nell'adolescenza tu ti sei staccato interiormente dall'ambiente in cui sei cresciuto, diventando un "traditore" di tuo padre (uso il tuo linguaggio): hai lasciato un ambiente intellettuale di destra per inserti in un ambiente lavoratore di sinistra. Una cosa di questo tipo ho fatto anch'io: intorno ai quindici anni ho abbandonato interiormente l'ambiente cattolico in cui sono stato allevato, ma con la differenza che non l'ho fatto per entrare in un'altro ambiente che avevo già in mente ed era pronto ad accogliermi: ho lasciato una casa spirituale senza averne una già pronta in cui andare.
  Proprio di questo vorrei parlare, non per smanie esibizionistiche, cosa che come dicevo è abbastanza contraria al mio carattere, ma per due motivi. Per prima cosa, vorrei contrastare con qualche informazione il gusto diffuso della dietrologia: disciplina praticata da chi ha l'abitudine, ogni volta che sente dire qualcosa da qualcuno, di non prendere in seria considerazione quello che dice, ma di chiedersi che tipo è quello che parla, se dietro a lui ci sono interessi particolari, appoggiati magari da qualcun altro. Per seconda cosa, vorrei far conoscere, riferendo qualche fatto che mi riguarda, esperienze con Dio che nella loro sostanza sono comuni a migliaia di credenti nel mondo, anche in Israele, anche tra gli ebrei.
  Diciamo allora che sono nato in una famiglia di veri cattolici italiani: cioè cattolici tiepidi. Non si pensi infatti che i veri cattolici siano quelli tutti casa e chiesa, che non perdono una messa e fanno collezione di santini: quelli sono una minoranza, che spesso dà anche un po' noia all'istituzione ecclesiastica. Se poi qualcuno pensa che a Roma, essendoci il Papa, i cattolici siano almeno un po' più seri e ferventi, dovrà cambiare idea: è vero il contrario. Come dice il detto: "A Roma si fa la fede e altrove ci si crede". I romani autentici di vecchia data hanno un'esperienza secolare in fatto di dissacrazione: basta leggere i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli per rendersene conto. Ma quella romana è un'opposizione bonaria, accomodante, perché profondamente scettica. Al prete, si pensa, si deve lasciar fare il suo mestiere, ma bisogna solo stare un po' attenti quando vuole uscirne. In fatto di soldi, per esempio, è bene fare attenzione, perché, come dice Leo Longanesi in uno dei suoi memorabili aforismi: "al prete, in punto di morte, si può affidare tranquillamente la propria anima; ma vivi, e in buona salute, non c'è prete a cui si affidino i propri quattrini alla leggera". Anche in fatto di vicinanze personali extra ecclesiastiche bisogna essere cauti, come avvisa il Belli in uno dei suoi icastici sonetti: "Sora Terresa mia, sora Terresa, / io ve vorrebbe vede appersuasa / de nun favve ggirà ffrati pe ccasa / ché li frati so rrobba pe la cchiesa".
  In questo clima di normale, ovvia cattolicità sono cresciuto fin da piccolo.
  La persona in famiglia forse un po' più fervente delle altre era la mia nonna paterna: una pia donna proveniente dalla campagna marsicana, che non perdeva una funzione di quelle comandate, ma che, essendosi portata a Roma le galline che aveva in campagna, e allevandole sul terrazzo di casa sua, quando si trattava di tirare il collo a qualcuna di loro non aveva il minimo accenno di esitazione, facendo così inorridire mia zia che viveva con lei e che, essendo sempre stata cittadina, non ne aveva il coraggio. E della madre diceva: "Cià 'n core nero..." Nonna Susanna, che ricordo sempre con tenerezza, avrebbe voluto avere un prete in famiglia e aveva messo gli occhi su di me. Mi dispiace di averle dato una delusione, ma alla fine credo che mi abbia perdonato.
  Mio padre invece era un normale cattolico maschio di quei tempi: un po' di religione - pensava - fa bene alla famiglia, ma senza esagerare. I momenti forti della vita familiare, come nascita, battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio, funerale avvenivano quindi, ovviamente, nell'usuale cornice ecclesiastica. Sono stato quindi anch'io regolarmente battezzato da piccolo, cosa di cui ovviamente non ho alcun ricordo. Mi ricordo invece abbastanza bene della cresima, che potrebbe essere vista come il corrispondente, o forse l'imitazione, del Bar Mitzvà ebraico. Ricordo ancora lo schiaffetto con cui il vescovo mi ha arruolato come "soldato di Cristo" nell'esercito della chiesa.
  Alla cresima si arrivava (parlo al passato perché per il presente non sono informato) dopo aver fatto la prima comunione; e prima ancora bisognava frequentare un corso di istruzione in cui si doveva imparare un certo numero di preghiere a memoria, naturalmente in latino, perché quella era la lingua sacra con cui ci si rivolgeva a Dio. All'età di otto anni dunque ho imparato a memoria preghiere in latino, una lingua che ovviamente nessuno in famiglia praticava o conosceva, come del resto è avvenuto per secoli agli ebrei in diaspora rispetto alla lingua ebraica. Solo in seguito ho capito che la scelta del latino come lingua sacra per rivolgersi a Dio è un altro aspetto della teologia della sostituzione.
  Posso dire, comunque, che quelle preghiere in latino le ricordo ancora quasi tutte, e potrei recitarne qualcuna a memoria, come per esempio il Pater noster.
Pater noster


  Quanto a mio padre, la "società cristiana" intorno a lui, non certo l'insegnamento esplicito della chiesa cattolica, gli chiedeva di avere una religiosità da uomo: quindi rispetto per chi vuol fare pratiche religiose, ma niente atteggiamenti da pia donnetta. Bisogna dire che mio padre si è adeguato bene al cliché richiestogli dalla società, perché è rimasto sempre il classico cattolico di Natale e Pasqua, un po' come gli ebrei di Yom Kippur.
  Ha voluto però che, per quanto possibile, i suoi figli frequentassero delle scuole religiose. E così è stato anche per me. Gli ultimi anni delle elementari e gli anni della media li ho fatti in un istituto religioso della "zona bene" di Roma: i Parioli. Lì, oltre alle preghiere in latino, durante la messa ci facevano cantare in gregoriano. Era ancora lontano il tempo delle messe beat; al Signore bisognava rivolgersi nell'unica lingua veramente sacra: il latino, e si doveva usare una musica che non si appoggia sulla carnalità dei sensi, ma ha un carattere di spiritualità che conduce verso l'alto. E questo, appunto, è il gregoriano. Ricordo ancora musica e testo del Tantum Ergo Sacramentum, di cui solo in seguito ho saputo che è un inno liturgico estratto da una composizione di Tommaso d'Aquino. A quel tempo, invece, di quello che cantavo non capivo assolutamente niente, senza che nessuno si preoccupasse di spiegarmelo e senza che io mi preoccupassi di chiederlo. La religione era quella: punto e basta. La religione si fa, non si discute. E tuttavia, quell'inno imparato da bambino lo ricordo ancora bene: saprei cantarne anche adesso almeno la prima strofa, come una volta. Più tardi, molto più tardi ho anche capito che in quelle poche parole è già contenuto il nocciolo della teologia della sostituzione: "antiquum documentum novo cedat ritui", l'antico documento ceda il posto al nuovo rito.
  Ho voluto raccontare tutto questo per dare un'idea del clima religioso e familiare in cui ho trascorso i primi anni della mia vita: un clima a questo riguardo tutto sommato tranquillo, senza tormenti interiori o contrasti laceranti.
  E tuttavia, all'età di circa quindici anni ho interiormente lasciato questo ambiente familiare, almeno per tutto quello che aveva a che fare con Dio. Ma non sono uscito sbattendo la porta, non sono rimasto scandalizzato da comportamenti indecenti di preti o affascinato da una religione di amore universale o da un'ideologia di lotta continua: semplicemente, esaminando con onestà i miei pensieri, ho preso atto di non essere affatto convinto di tutto quello che mi era stato insegnato. E per coerenza ho smesso di considerarmi un cristiano.
  In pratica all'inizio non è cambiato niente. Non essendoci più mia madre, e con un padre che doveva pensare a come mantenere sei figli prima di chiedersi quello che poteva passare per la testa di uno di loro, sono andato avanti senza che nessuno notasse qualcosa di particolare. Quanto a me, dato il mio carattere, mi guardavo bene dal comunicare in famiglia i miei pensieri: erano fatti miei, che c'entravano gli altri?
  Come vedi, in questa mia uscita dal cristianesimo di famiglia non c'è niente di drammatico, niente che si presti a colorite ricostruzioni romanzate. Vorrei soltanto sottolineare una non piccola differenza tra la mia esperienza e la tua. Quando un ebreo come te, cresciuto in una famiglia di normale religiosità ebraica, si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato da piccolo, non cessa di considerarsi ebreo, e quindi spiritualmente non esce di casa: passa soltanto da una stanza all'altra. Quando invece un gentile come me, cresciuto in una famiglia di normale religiosità cattolica, si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato da piccolo, esce spiritualmente del tutto dalla casa. E può accadere che non ne trovi un'altra. Che resti per strada. Senza usare toni drammatizzanti, posso dire che quella è stata la mia esperienza di quegli anni. Ero solo. Non c'era un "noi" che potessi dire con convinzione, tanto meno con fierezza o consolazione. Non avrei potuto trovare conforto cantando il vostro inno sionista "HaTikvà" (la speranza), perché allora non lo sapevo, ma adesso so che ero nella posizione in cui si trovano per natura tutti i gentili: ero senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:12).
  Ma da questa posizione Dio mi ha fatto uscire, come ha fatto con tanti altri gentili che oggi possono appropriarsi con fiducia di parole come queste:
    Benedetto sia l'Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo,
    il quale nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere,
    mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti,
    ad una speranza viva
    in vista di un'eredità incorruttibile, immacolata ed immarcescibile,
    conservata nei cieli per voi,
    che dalla potenza di Dio, mediante la fede,
    siete custoditi per la salvezza
    che sta per essere rivelata negli ultimi tempi.
    (1 Pietro 1:3-5)
  Ma di questo, se Dio vuole, potremo parlare ancora una prossima volta.
  Shalom,
  Marcello

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«Amos, Amos, perché mi deridi?» (7)

8 marzo 2015
Caro Amos,
riguardando i video delle conferenze con cui hai presentato il tuo ultimo libro, rimango ogni volta stupito nel vedere con quanta naturalezza passi dalle finzioni del romanzo alle tue dichiarate convinzioni sulla realtà dei fatti. Non si sa mai se il Gesù di cui parli appartenga al protagonista Shemuel o all'autore Amos. Ho avuto allora la vaga impressione che nel tuo dire alla fine tu non arrivi più a distinguere tra invenzione e realtà, né che tu senta il bisogno di doverlo fare: finzione e realtà diventano per te una stessa cosa.

- IMMAGINAZIONE E POLITICA
  Ti chiedo allora: è con un atteggiamento di questo tipo che prendi in considerazione e giudichi i gravi fatti politici che riguardano il tuo paese? E' con il tuo immaginifico talento che riesci a crearti una tua realtà su cui poi ti senti in obbligo di prendere concrete posizioni politiche, che spesso contribuiscono a causare altrettanto concreti disastri sulla nuda realtà dei fatti? Che cos'è il tuo Peace Now se non la creazione di una realtà che esiste soltanto nella forza immaginativa di chi l'ha inventata? E se questa bella invenzione fosse soltanto una chimera che si lascia continuamente inseguire al solo scopo di far cadere nel baratro chi la insegue, insieme a tanti altri? Ti è mai venuto il dubbio che i disastri nel mondo possano essere causati non solo da decisi e duri "salvatori" del mondo, ma anche da comprensivi e teneri "sognatori" che creano nella loro mente un mondo già salvato in cui cercano di far entrare tutti con le buone maniere? Hai mai riflettuto sul fatto che dopo vent'anni di quel Peace Now che ha partorito gli Accordi di Oslo i rapporti fra le persone che vivono su quella martoriata terra oggi sono di gran lunga peggiori di prima?
  Che ruolo gioca la capacità di immaginazione nella formazione di giudizi politici su fatti tremendamente concreti? E' un caso che tra i personaggi ebrei più noti in Italia e più decisamente schierati a favore della "pace" ci siano tre rinomati romanzieri e un fascinoso affabulatore? Tutti artisti creativi, tutti geniali costruttori di realtà fittizie. Non si capisce però la ragione per cui questi geniali creatori di mondi fantastici sentano poi l'irrefrenabile desiderio di esprimere pubblicamente il loro parere su concrete realtà politiche come se ne avessero titoli di particolare valore. Si capisce bene invece il motivo per cui altri vanno a chiedere continuamente il loro parere in merito; il motivo è semplice: perché conoscono già quello che pensano, e sanno che l'esposizione ripetuta delle loro opinioni contribuisce a gettare fango su Israele, e per conseguenza indiretta, ma inevitabile, anche sugli ebrei.

- NON CERCAVO UN CONFORTEVOLE RIFUGIO
  Questa piccola digressione politica, apparentemente staccata da quanto detto finora, mi serve invece per dire qualcosa sulla posizione interiore in cui mi trovavo dopo essere uscito dalla "casa" spirituale del cattolicesimo di famiglia.
  Per quanto riguarda il rapporto con Dio (supposto che ci fosse, come allora dubitavo), ero tutt'altro che ben disposto verso i sognatori che ti sanno presentare belle e attraenti realtà spirituali in cui ti attirano perché loro vi si trovano bene: non ero alla ricerca di un rifugio in cui stare al calduccio e trovare un po' di conforto. Se fosse stato così, tutto sommato avrei potuto rimanere dov'ero. La vita è dura, certo, anche per un giovane che ha davanti a sé tutta la vita aperta, ma credo che se si vuole trovare soltanto un po' di sollievo alle proprie pene, si può decidere di coltivare qualche interesse gradevole, come la musica, il teatro, le lingue straniere, i viaggi, il calcio, il biliardo, le bocce, ma scegliere a questo scopo una religione, di solito quella più a portata di mano, e fingere con se stesso e con gli altri di crederci perché così "ci si sente meglio", era una cosa che mi sembrava del tutto stupida. Il mio discorso era semplice: se un Dio davvero esiste, non si può prenderlo in giro con queste messe in scena; né si può pensare che Lui si faccia davvero prendere in giro in questo modo. Ripeto: non ero affatto sicuro che Dio ci fosse, ma in qualche modo avevo già deciso che se Dio c'è, è una persona seria. E non mi sbagliavo.
  Continuai dunque a fare quello che facevo prima, sentendomi semplicemente libero da obblighi religiosi di qualunque tipo. Mi piaceva leggere, e continuai a farlo con maggiore intensità, non per colmare vuoti che non avvertivo, ma per desiderio di conoscere e imparare. E' proprio in quel periodo che feci la conoscenza della letteratura russa, cominciando da un romanzo che mi piacque moltissimo: "Guerra e pace" di Tolstoi. Sulla spinta di quella lettura volli leggere altri romanzi dello stesso autore, per passare poi ad altri scrittori russi dello stesso periodo.
  Fu in un modo apparentemente casuale che le cose cominciarono a cambiare.

- UN COMPAGNO DI SCUOLA PREPARATO E ANTICLERICALE
  Nella nostra classe di liceo c'era un ragazzo - che in seguito chiamerò Lorenzo - molto preparato in fatto di storia e attualità politica. Ce n'eravamo accorti perché ogni tanto si metteva a questionare con il professore di filosofia, contrastando vivacemente le sue affermazioni. Quel professore era una persona liberale di squisita educazione: si rivolgeva a noi dandoci del lei, lasciava che noi stessi decidessimo quando volevamo essere interrogati, accettava il dibattito con noi, che spesso non sapevamo dire nient'altro che sciocchezze. Ogni tanto ci accadeva di dover assistere a lunghe e animate discussioni tra lui e Lorenzo. A noi studenti in fondo la cosa non dispiaceva, anzi, qualche volta eravamo noi stessi a chiedere a Lorenzo di provocare il professore in qualche acceso dibattito, in modo da poterci fare tranquillamente i fatti nostri durante il tempo della lezione.
  Lorenzo era un anticlericale. La cosa divenne chiara quando una volta, essendogli stato chiesto di leggere in classe un testo di storia in cui a un certo punto si trovava scritto "S.S. Pio XII...", lui lesse ad alta voce: "Esse Esse Pio XII...", facendo naturalmente ridere tutta la classe.
  Essendo venuto a sapere che non mi consideravo più cattolico, una volta mi propose di andare ad ascoltare una conferenza nella Chiesa Evangelica Valdese di Piazza Cavour. Vi andai, non perché fossi alla ricerca di qualcosa di sostitutivo della religione cattolica, ma per semplice curiosità e desiderio di ampliare le mie conoscenze. L'oratore parlò di Lutero. Non ricordo niente di quello che disse, e sono convinto che anche allora ne capii ben poco: non era un tema che fino a quel momento rientrava nei miei interessi. L'unica cosa che notai, ed era per me nuova, fu che di Lutero l'oratore parlò bene. Per me, per come l'avevo sempre sentito nominare in ambito cattolico, il nome di Lutero non si distingueva molto da quello di Lucifero.
  Presi dunque coscienza diretta che esistevano anche cristiani non cattolici. Lo sapevo, certo, dai libri di scuola, ma fino a quel momento questi strani esseri erano rimasti soltanto un paragrafo di storia da imparare per doveri scolastici. La cosa comunque non mi aveva molto impressionato: per me tutto restava come prima.
  Lorenzo però, anche se non mi sembrava che fosse un protestante molto assiduo e convinto, mi prese sotto la sua tutela e si propose di farmi conoscere meglio l'ambiente degli evangelici.
  Mi portò quindi non più ad ascoltare una conferenza, ma ad assistere a un vero e proprio culto religioso in una Chiesa Evangelica Metodista. Qui posso dire che ricordo qualcosa di più: il predicatore parlò sulla parabola dei talenti. Lorenzo disse però che la predica non valeva molto, ed io non saprei riportarne le ragioni. Ricordavo ancora le preghiere in latino imparate da piccolo, ma i racconti evangelici non facevano parte del mio bagaglio di conoscenze, tanto meno di riflessione.

- IL PACCHETTO-CHIESA
  Le cose dunque continuavano come prima, né c'era motivo perché cambiassero. Avevo conosciuto altre chiese cristiane, un po' diverse da quella cattolica, ma non vedevo in quale modo questa esperienza, abbastanza interessante sì ma non troppo, avrebbe dovuto modificare le mie considerazioni su Dio. Ero abituato fin da bambino a vedere Dio come un elemento inseparabile del pacchetto-chiesa: avendo gettato via il pacchetto cattolico, era ovvio che per me anche Dio facesse la stessa fine. Mi erano stati proposti altri pacchetti, presentati come migliori, certo, ma non potevano riuscire a farmi cambiare il mio modo di porre il problema di Dio.
  Lorenzo però non voleva demordere. Mi portò allora da un missionario evangelico di sua conoscenza. L'esperienza questa volta fu diversa: non entrai nell'edificio austero di una chiesa, né vidi un officiante vestito in abiti solenni far piovere dall'alto sacre parole da prendere o lasciare. Entrai invece in un ufficio come tanti altri, pieno di libri, carte, attrezzi, e vi trovai un giovanotto sui trent'anni, vestito come tutti, con il quale Lorenzo mi propose di entrare in discussione. Discutere mi piaceva, quindi accettai. Non ricordo come si svolse quella prima chiacchierata, ma il risultato fu che alla fine accettai di avere altri scambi ed ebbe inizio una serie di incontri in cui Lorenzo riuscì ad invitare anche altri giovani, tra cui qualche nostro compagno di classe.
  La prima cosa che il missionario cercò di farmi capire, con qualche fatica da parte mia perché quel modo di pensare mi era del tutto estraneo, era che il rapporto dell'uomo con Dio non ha come elemento primario la chiesa, ma la persona di Gesù. La chiesa non è quella bella indispensabile confezione in cui si trova contenuto Gesù; non è il pacchetto offerto agli uomini perché possano trovarvi dentro il Salvatore; la chiesa - cercava di farmi capire il missionario - è l'insieme di coloro che hanno conosciuto e accolto personalmente Gesù risuscitato. Anche se le esperienze personali possono apparire diverse, nel rapporto con Dio la successione vera è questa: si entra nella chiesa perché si è creduto in Gesù, non si crede in Gesù come conseguenza del fatto che si è entrati nella chiesa.
  Adesso queste cose so spiegarle, ma quanta fatica facevo allora per capirle! Per me Gesù era sempre stato uno degli elementi dell'insegnamento cattolico; un elemento importante, certo, anzi fondamentale, ma sempre e soltanto una parte della struttura della chiesa. Ed è per questo motivo che in questo insegnamento l'istituzione ecclesiastica risulta essere la prima in ordine di importanza: "Extra Ecclesiam nulla salus", al di fuori della chiesa non c'è salvezza. Questo veniva insegnato nei fatti, anche se non sempre lo si ripeteva in termini così chiari e netti.
  La mia domanda allora in quel tempo era questa: "Ma se non sono obbligato a passare attraverso la chiesa per conoscere Gesù, in che modo posso conoscerlo?" "Attraverso la lettura delle Sacre Scritture", fu la risposta del missionario. Questa fu per me la seconda cosa assolutamente nuova. Ero preparato a fare molte domande e obiezioni sul pacchetto cattolico contenente Gesù, ma se adesso mi dicevano che il vero Gesù è soltanto quello presentato nella Bibbia, mi trovavo davanti a una sfida: se volevo continuare a discutere di Gesù con quel missionario non avevo altra scelta: dovevo leggere la Bibbia. Era una cosa che non mi aspettavo e a cui non ero preparato.
  Mi regalarono un Nuovo Testamento. Naturalmente non l'avevo mai letto; cosa normale per i cattolici di quel tempo. Non si dimentichi che allora la Bibbia era un libro proibito ai laici. Qualche racconto dei Vangeli lo conoscevo, e forse l'avevo anche letto in qualche pubblicazione religiosa per ragazzi, ma che oltre ai Vangeli esistesse anche un Nuovo Testamento, non credo proprio che a quel tempo lo sapessi. A dire il vero, nella biblioteca di mio padre una Bibbia c'era: una bella Bibbia del Martini in due grossi volumi con le preziose illustrazioni del Dorè. E sempre con le illustrazioni del Dorè c'era anche una Divina Commedia in tre volumi. A entrambe le opere avevo dedicato la medesima cura: non ne avevo letto neanche una pagina.
  E' a questo punto che mi sembra naturale fare un accostamento fra la tua esperienza e la mia. Tu ed io, quando da giovani ci siamo accostati per la prima volta ai Vangeli, eravamo in una posizione simile: eravamo due ignoranti che per arrivare a capire il Gesù presentato in quelle pagine non eravamo affatto avvantaggiati dall'avere il retroterra in cui eravamo cresciuti, anzi, al contrario, l'insegnamento ricevuto era stato certamente un impedimento, un ostacolo per la comprensione del senso profondo di quelle parole. Tu potresti dire che per me sarebbe stato più facile che per te arrivare a comprendere i Vangeli, perché sono cresciuto in un ambiente cristiano. Io dico esattamente il contrario: per te, ebreo cresciuto nella terra d'Israele, dove Gesù ha vissuto, sarebbe stato molto più facile che per me, cresciuto nella cristiano-pagana Roma, inserirti in quel mondo ebraico dei Vangeli in cui si parla di scribi, farisei, sadducei, tempio, Gerusalemme, Messia. Se dunque sui Vangeli tu ed io non diciamo le stesse cose, non è perché tu appartieni alla società ebraica e io appartengo alla società cristiana, ma perché tu ed io, individualmente, ci poniamo in modo diverso davanti alla persona di Gesù, così come si presenta nei Vangeli.
  Ma di questo, a Dio piacendo, continueremo a parlare.
  Shalom,
  Marcello

- 8 -



«Amos, Amos, perché mi deridi?» (8)

15 marzo 2015
Caro Amos,
nella mia precedente lettera eravamo rimasti al momento in cui qualcuno mi dona un Nuovo Testamento, parte dell'intera Bibbia, dicendomi che soltanto a partire da lì si può trovare la verità. Avevo ricevuto il libro non da un'organizzazione religiosa a scopo di proselitismo, ma come invito ad esaminare personalmente un testo che - mi si diceva - è ispirato da Dio, ma non è patrimonio esclusivo di nessuna chiesa. Su questa base, che mi lasciava in ogni caso libertà di giudizio, promisi di leggere il libro ricevuto.

- UN LIBRO PER ME DIFFICILE DA CAPIRE
  Cominciai dunque a leggere, con impegno e attenzione, come del resto ero abituato a fare anche con altri testi, ma l'educazione cattolica ricevuta non mi aiutava affatto a capire quello che leggevo. Tutto per me era nuovo, o se l'avevo già sentito prima, adesso lo vedevo presentato in modo diverso, in qualche caso addirittura opposto. Quasi ad ogni pagina mi veniva spontaneo di porre domande su domande, a cui naturalmente quasi mai trovavo risposte. Ponevo interrogativi che mi sembravano logici, intelligenti, come tutti quelli che si compiacciono di aver trovato nel testo una contraddizione; e pensano che ad altri sia sfuggita. Un po' come hai fatto tu nelle tue conferenze, quando hai detto che, dopo aver letto e riletto i Vangeli, ne hai trovato un punto debole: i trenta denari offerti a Giuda. Hai detto che ti sembrano pochi, e che non è possibile, e che ci dev'essere un'altra spiegazione. E l'hai proposta tu, una spiegazione, e ti consiglierei di andarla a leggere e rileggere, come hai fatto con i Vangeli, e di chiederti se è mai possibile che qualcuno possa prenderla sul serio.
  Ponevo dunque domande su domande e non trovavo risposte soddisfacenti. Ne parlavo con il missionario quando ci incontravamo, e lui mi dava delle spiegazioni, che però non mi convincevano. Infatti non hanno lasciato tracce nella mia memoria. Ricordo soltanto una volta, quando con grande fatica cercò di spiegarmi che cos'è secondo la Bibbia la giustificazione per grazia mediante la fede. A me venne quasi il mal di testa nello sforzo di capire quello che diceva. Alla fine mi sembrava d'aver capito, senza tuttavia esserne convinto, e glielo dissi. Poi aggiunsi: "Ma come fa una persona semplice a capire una dottrina così complicata? Io ho fatto molta fatica a seguire la sua spiegazione, eppure sono uno che ha studiato". "Forse è proprio per questo che fai tanta fatica - mi rispose il missionario - un altro ne avrebbe fatta molto meno".
  Nonostante questa indisponente risposta, continuai a leggere, perché i Vangeli, anche quando sembrano strani e forse anche oscuri a chi li legge la prima volta, hanno una singolarità che attrae e non permette di distaccarsene con facilità.

- IL TIMORE CHE POSSA ESSERE VERO
  Un fatto strano che quasi sempre accade a chi legge i Vangeli è questo: ti avvicini al testo con la ferma intenzione di esaminare con severità le sue parole e improvvisamente ti accorgi con imbarazzo che sei tu ad essere esaminato. Leggi: "Chiunque s'innalzerà sarà abbassato", e immediatamente pensi: non è il caso mio, io non m'innalzo. Poi magari ti viene qualche dubbio, ma passi oltre. Leggi: "Ravvedetevi, poiché il Regno dei cieli è vicino", e ti chiedi: ma che cos'è questo regno dei cieli? Io non lo so. So però che cosa significa la parola "ravvedetevi". Questo allora vuol dire che se un giorno arriverò a capire che cos'è il regno dei cieli, saprò anche che cosa devo fare: ravvedermi. E' a questo punto che qualcuno comincia a temere che quello che legge sia proprio vero. E magari abbandona la lettura, adducendo qualche seria ragione intellettuale.
  Io invece continuai a leggere, ma con la ferma intenzione di non modificare l'atteggiamento che avevo deciso di tenere con ogni organizzazione religiosa che mi proponesse la sua verità. Se mi dicevano che soltanto nei Vangeli si può trovare il vero Gesù, allora le parole di Gesù che stavo leggendo dovevano riuscire a convincermi. Supposto che un Dio esista, non avrebbe potuto rimproverarmi per non aver accolto parole che non riuscivo a capire. La mia linea di difesa davanti a un eventuale tribunale divino sarebbe stata questa: non ho rifiutato la tua parola, perché per rifiutare una parola bisogna capirla, e io non l'ho capita. Il parlare di Gesù mi è parso strano, lacunoso, incomprensibile. E naturalmente attribuivo la responsabilità di tutto questo a chi parla, non a chi ascolta.
  La Bibbia però è un libro difficile da controllare: quando ti sembra di averlo debitamente inquadrato, ti scappa fuori da qualche parte che non t'aspetti e non riesci più a rimetterlo in carreggiata. Se una cosa così capita anche a chi legge la Bibbia da oltre cinquant'anni, figuriamoci se poteva non capitare a me dopo qualche settimana. Continuando dunque nella lettura, scoprii con sorpresa che il Dio della Bibbia non parla soltanto per farsi capire, ma in qualche caso anche quando sa fin dall'inizio che non sarà capito, e addirittura con l'intenzione esplicita di non farsi capire. Certe parole di Gesù mi arrivarono addosso come macigni:
  "Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. E si adempie in loro la profezia d'Isaia che dice: "Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete." (Matteo 13:10-14).

- IL PROBLEMA CON DIO CAMBIA FORMA
  Se le cose stanno così - cominciai a pensare - il mio non capire non potrà essere un argomento a mia discolpa; al contrario, mi potrebbe essere chiesto: "Perché non hai capito? Perché non sei stato reputato degno di ricevere la possibilità di capire?" Questo mi fece perdere un po' della mia baldanzosa sicurezza. Se davvero esiste un'autorità di questo tipo - pensavo -, le mie obiezioni logiche non hanno alcun peso.
  A questo punto il problema con Dio per me si poneva in modo diverso da prima, e poteva essere formulato così: supposto che il Dio della Bibbia esista, non sono io che decido se le sue parole mi risultano convincenti, ma è Dio che decide se io sono degno di comprendere e accogliere le sue parole. Stando così le cose, le obiezioni che sapevo fare al testo non riuscivano più a rendermi compiaciuto della mia finezza logica: in me prevaleva piuttosto il timore di essere tagliato fuori dalla possibilità di capire. Credo proprio che sia stata questa la prima rivelazione che ho ricevuto dal Signore, senza che ovviamente me ne rendessi conto.
  Continuai a leggere, e con maggiore impegno, perché la parola di Gesù in qualche modo mi attirava e volevo capire se era vera. In poche parole: ero alla ricerca della verità. Nient'altro che la piena certezza della verità avrebbe potuto soddisfarmi. Se questo non fosse stato possibile, sarei rimasto nella mia posizione di agnosticismo. Però, dopo tutto quello che avevo letto e capito, anche questa posizione non era più tanto comoda. E' una caratteristica dei Vangeli: dopo averli letti con attenzione e serietà o si sta meglio o si sta peggio.
  Non ricordo di preciso come mi sentivo in quel tempo, ma sicuramente certe parole di Gesù avevano lasciato il segno:
  "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero"
(Matteo 11:28-30).
  Tuttavia, per quanto attraente potesse apparire l'invito a credere, le mie domande rimanevano senza risposta e quindi, per quella veracità interna che ritenevo e ritengo ancora essenziale per poter accogliere la verità, non ero disposto a chiudere gli occhi, a mentire a me stesso, ad agire "come se" la cosa fosse vera anche senza esserne del tutto convinto perché in questo modo "si vive meglio".
  La mia rigorosa impostazione logica non mi venne minimamente in aiuto, almeno in un primo momento. Di nessuna cosa in questo mondo si può essere certi al cento per cento, ma al fine di muoversi, di prendere una decisione, il grado di certezza deve essere tanto maggiore quanto è più grande la gravità della scelta da fare. Posso uscire di casa senza ombrello anche se, secondo le previsioni, la probabilità della pioggia è data al cinquanta per cento; ma se devo mangiare un cibo che secondo qualcuno potrebbe essere avvelenato, prima di farlo non mi accontenterei neanche del novanta per cento di certezza. Considerando allora l'«oggetto Dio» - pensavo - esso è di una gravità infinita; ne discende che per arrivare a dire "credo in Dio" è assolutamente necessario avere una fede al cento per cento. Se alla mia fede concedo anche soltanto uno 0,01 per cento di possibilità negativa, cioè che non sia vero quello che credo, allora in realtà io non credo affatto.
  So bene che non tutti, o forse ben pochi, arrivano alla fede con problemi di questo tipo, ma per me è stato così.

- IL PALLEGGIO DELLE RESPONSABILITÀ
  La situazione dunque si presentava abbastanza disperata, perché, essendo per natura piuttosto critico e assolutamente non incline alla ricerca di drogati mondi immaginari, la probabilità che davo alla possibilità per me di arrivare a una fede in Dio al cento per cento era pari allo zero per cento.
  A questo punto però il Signore, nella sua paziente e intelligente misericordia, mi venne in soccorso proprio attraverso quell'impostazione logica che mi aveva dato fin dalla nascita.
  Ero partito col dire che non credo in Dio perché sinceramente non sono convinto della sua esistenza, e quindi non posso essere di questo incolpato. Ma leggendo i Vangeli avevo capito che il Dio di cui lì si parla non è obbligato a farsi trovare da chiunque gli ponga domande a modo suo ed esiga da lui risposte precise a quello che chiede. Dio c'è, ma può decidere di non farsi trovare; Dio parla, ma può decidere di non farsi capire. Dipende da come Dio valuta l'interlocutore che gli sta davanti. Che in questo caso ero io. Ero messo alle strette. Per usare termini del linguaggio politico, dovevo prendere atto che nel gioco delle responsabilità fra Dio e me, la palla mi era rimasta fra le mani. Dovevo ributtarla dall'altra parte. Per via logica capii che avevo una sola possibilità.
  In un momento che non avevo preparato, in un luogo che non era casa mia, in mezzo a persone che non conoscevo e non mi conoscevano, improvvisamente mi decisi a fare, con una certa fatica, una cosa che non avevo mai fatto in vita mia: rivolgere la parola a qualcuno che non sapevo nemmeno se c'è. Non ricordo se con le labbra o soltanto nella mente, rivolsi "al dio sconosciuto" (Atti:17:23) questa brevissima preghiera: "O Dio, se esisti, rivelati a me". La palla adesso era tornata nelle sue mani. Se nulla fosse accaduto, per me la colpa era sua. La colpa di non esistere, o di non volersi far trovare.
  Per un po' di tempo, in realtà, non accadde nulla; e poiché non gli avevo posto scadenze temporali, continuai tranquillamente a leggere i Vangeli e a vivere come prima.
Alla fine però qualcosa di nuovo effettivamente accadde.
Piacendo a Dio, ne riparleremo la prossima volta.
  Shalom,
  Marcello

- 9 -



«Amos, Amos, perché mi deridi?» (9)

22 marzo 2015
Caro Amos,
se mi dilungo a riferire quello che ha preceduto il mio arrivo alla fede in Gesù, non è perché ci sia in questo qualcosa di particolarmente strano e unico, ma, al contrario, perché negli aspetti spiritualmente essenziali è simile a esperienze che migliaia di altre persone, di tutti i tipi e in tutti i tempi, hanno fatto nella loro vita. Il descriverlo dunque può servire a mettere in evidenza alcuni tratti fondamentali del modo in cui il Dio della Bibbia, che è l'unico vero Dio, si pone oggi in relazione con gli uomini.

- IMPORTANZA DEL TESTO BIBLICO
  Del mio percorso di avvicinamento a Dio vorrei mettere anzitutto in risalto un aspetto fondamentale che è stato la chiave che mi ha aperto la porta della fede: il valore insostituibile del testo biblico. Questo elemento non era parte del patrimonio religioso ricevuto con la mia educazione cattolica, ma è entrato a far parte della mia riflessione quando sono venuto in contatto con ambienti evangelici. So che oggi ci sono evangelici di tutti i tipi (come ci sono ebrei di tutti i tipi), ma uno degli elementi fondamentali (anche se non l'unico) per continuare a dirsi tali è il riconoscimento dell'ispirazione divina della Scrittura e del suo carattere di ultima, decisiva autorità. La possibilità di diverse interpretazioni resta aperta, perché al contrario di quello che ha insegnato per secoli la chiesa cattolica non esiste un'autorità umana a cui spetta l'ultima parola, ma di ogni interpretazione o applicazione che si voglia dare, ciascuno è tenuto a fornire un convincente riferimento al testo biblico e ad assumersene la responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini.
  Avendo capito quello che mi veniva presentato, e avendolo accettato come strumento della mia ricerca, il mio problema con Dio aveva ormai preso la forma di un confronto con il testo biblico.

- CONTINUAI A LEGGERE
   Continuai dunque a leggere, e per capire l'importanza che davo alla cosa, dico qualcosa sul particolare momento di vita in cui allora mi trovavo. Ero alla fine dell'ultimo anno di liceo e mi stava davanti lo spettro angosciante dell'esame di diploma degli anni cinquanta: prove scritte e orali in tutte le materie, senza nessuna distinzione fra importanti e meno importanti, senza nessuna pietà per i poveri studenti, il cui cammino di sofferenza cominciava i primi di giugno e terminava quasi alla fine di luglio. Ero indietro con la preparazione, quindi nel mese di maggio avevo preso a studiare molto più di quello che mi veniva richiesto a lezione. Nonostante ciò, avevo deciso di leggere regolarmente il Nuovo Testamento, e per poterlo fare senza modificare il mio programma di studio mi alzavo presto la mattina, e prima di andare a scuola, nel silenzio della casa che ancora dormiva, leggevo lo strano libro che mi avevano messo fra le mani.
  Avevo ormai capito che il Dio della Bibbia non si sente obbligato a sottoporsi a interrogatori umani e può anche decidere di non farsi trovare da chi avanza pretese inaccettabili. Mi adattai allora alla situazione, e decisi di chiedere cortesemente a Dio che, nel caso esistesse, trovasse il modo di farmelo sapere. Non avevo la minima idea di come questo sarebbe potuto accadere, e neppure ero nella trepida attesa di qualcosa di sensazionale da un momento all'altro. In fondo - pensavo - è un problema suo. Dopo aver fatto la mia semplice, diretta richiesta, feci quello che mi sembrava la cosa più naturale: continuai a leggere.
  Avvenne così che una mattina, quando ero già arrivato abbastanza avanti nella mia lettura del Nuovo Testamento, per motivi che non saprei dire decisi di tornare a leggere un passo che avevo già letto: i capitoli 5,6,7 del Vangelo di Matteo: il famoso Sermone sul Monte di Gesù. Torno a dire: l'avevo già letto, ma la mia prima lettura non aveva attratto il mio interesse, non vi avevo trovato niente di particolare.

- LA RISPOSTA
  Questa volta invece fu diverso. E' difficile, forse impossibile, rendere la diversità. Si può provare a fare un'analogia. E' come se nel passato tu avessi già visto un personaggio muoversi in un vecchio film muto e avessi cercato di capire quello che fa, quello che dice, ma con scarsi risultati. Dopo qualche tempo vai a rivedere il filmato sperando di capirne qualcosa di più e a un tratto, inaspettatamente, senti che il personaggio parla. Sei stupefatto, non solo perché odi una voce che prima non sentivi, ma anche per le parole che senti uscire da quella bocca. "Gesù, vedendo le folle, salì sul monte; e postosi a sedere, i suoi discepoli si accostarono a lui. Ed egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo..." Ecco, sì, è proprio come se Dio a un tratto avesse messo il sonoro: adesso sentivo la sua voce. Prima, no. E questo dipendeva da Lui, non da me. Andai avanti nella lettura e il suono di quella voce, il susseguirsi di quelle parole, mi faceva avvertire quasi fisicamente il peso di una grandezza infinita che le rendeva incomparabili con quelle di chiunque altro: avevano il peso della verità. Alla fine della lettura ero certo: queste non sono parole di un uomo. Di chi allora? La risposta non poteva che essere una sola: di Dio.
  Dalla lettura fatta in quel momento non sarei stato capace di trarre nessuna delle numerose applicazioni morali o dottrinali che si trovano scritte nei libri; una sola cosa si era impressa in modo ormai indelebile nella mia mente e nella mia coscienza: l'autorità della persona di Gesù. Un'autorità su tutti e su tutto, universale dunque, ma anche personale. Me ne accorsi proprio durante la lettura, quando fui colpito dalla risposta precisa che ricevetti alla richiesta che avevo fatta giorni prima. Mentre ascoltavo Gesù parlare, sempre più avvinto da quel discorso che pareva farsi sempre più incalzante, quasi alla fine del sermone fui come folgorato da parole che sentii rivolte personalmente a me: "Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia". Era la risposta alla mia richiesta: Dio si era rivelato a me. Non avevo più dubbi, era impossibile dubitare: certezza al cento per cento.

- UNA VERITÀ D'AMORE
  Avevo ormai la piena certezza della verità, ma non di una verità astratta, teoretica, perché fin dall'inizio avvertii che è una verità d'amore. Il discorso di Gesù infatti continua così: "Qual è l'uomo fra voi, il quale, se il figlio gli chiede un pane gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente? Se dunque voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!" Gli avevo chiesto una cosa buona, Dio me l'aveva data. Che cosa ci può essere infatti di più buono di un Dio onnipotente che ti ama?
  Un'esperienza del tutto personale - penserà qualcuno - che in ogni caso non obbliga altri a credere alle stesse cose e nello stesso modo. E' assolutamente vero: era quello che pensavo anch'io a quel tempo e continuo a pensare ancora oggi. Ed è conforme al dato biblico: nessuno oggi può, né deve, imporre la fede con la forza, né fisica, né morale. Quello che Dio vuole dai suoi discepoli è che siano testimoni. Di che cosa? Della risurrezione di Gesù. "Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni" (Atti 2:32). "Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù" (Atti 4:33).

- TESTIMONI DI GESÙ
  
I primi testimoni di Gesù sono i testimoni oculari: coloro che hanno incontrato Gesù dopo la sua risurrezione dai morti e prima che fosse assunto in cielo. Sono secondi testimoni di Gesù tutti coloro che lo hanno incontrato nella sua Parola, riportata nel testo scritto e sostenuta dallo Spirito Santo.
  La fede cristiana è in primo luogo ed essenzialmente fede in Gesù risuscitato dai morti. Chi vuole porsi contro questa fede non ha bisogno di fare lunghi discorsi storici, politici, sociologici, teologici; è sufficiente che dica: la risurrezione di Gesù non è mai avvenuta, quindi il credervi è una sciocchezza. Chi sostiene questo dovrebbe essere poi tanto onesto e coerente da aggiungere che è una sciocchezza anche il cercare di difendere la figura di Gesù pur dicendo che non è risuscitato dai morti. Un sano modo di pensare deve portare a dire che se Gesù non è veramente risuscitato, allora quella persona è un impostore o un pazzo mitomane. Non c'è alternativa. “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione, e vana pure è la vostra fede” (1 Corinzi 15:14).
  Con il racconto di alcuni fatti della mia vita ho voluto soltanto "rendere testimonianza di Gesù", secondo l'indicazione biblica (Apocalisse 1:9, 12:17, 19:10), cioè dichiarare che Gesù è risuscitato dai morti, portando come testimonianza il racconto del mio incontro con Lui. Questo non ha niente di eccezionale, perché dirsi cristiani significa innanzi tutto essere testimoni, per esperienza personale, di Gesù risuscitato. Chi pensa di non poter fare questo, sarebbe bene che evitasse di dirsi cristiano.

- UN DIO CHE PERDONA
  Torniamo allora al tuo romanzo e diciamo qualcosa sul titolo che ho dato alle mie lettere di commento. Come sono certo che Gesù ha udito la mia preghiera: "O Dio, se esisti, rivelati a me", così sono certo che Gesù ha udito le parole che tu gli fai dire sulla croce: "mamma, mamma". Se a Saulo di Tarso Gesù risuscitato ha chiesto con forza e autorità: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?", potrebbe un giorno dire a te: "Amos, Amos, perché mi deridi?" Gesù però non ha fulminato Saulo; e non ha neanche fulminato te; né oggi vuole farlo. Certamente, anzi, come ha fatto con Saulo, vorrebbe fermarti nel tuo cammino sulla via della stoltezza, perché in questo tempo e fino al momento del suo ritorno in gloria Gesù ha il compito di perdonare, non di condannare. E se sulla croce ha detto: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23:34), oggi potrebbe dire: "Padre, perdona Amos, perché non sa quello che dice".
  Questo mi dà lo spunto per aggiungere un altro tassello al racconto della mia conversione. La prima cosa che ho riconosciuto nel Gesù presentato nei Vangeli è la sua divina autorità: di questo avevo assolutamente bisogno per andare avanti nel mio cammino di fede, perché a nessuna persona o chiesa o organizzazione religiosa ero disposto a concedere piena fiducia a questo riguardo. Subito dopo ho capito che Gesù è un'autorità d'amore, e me ne sono sentito attratto. Ho desiderato dunque conoscerlo sempre meglio, e ho capito che questo era possibile soltanto continuando a camminare sulla via per la quale l'avevo incontrato: nella Sacra Scrittura, che ho quasi subito accettato come lo strumento della sua Parola. Non sono quindi ritornato nella mia "casa" d'origine, la chiesa cattolica, ma ho cercato altri fratelli in fede che avessero lo stesso tipo di rapporto con Dio e con la sua Parola.

- GIUSTIFICATI PER FEDE
  Ripresi a leggere, ma adesso tutto era diverso, tutto aveva un'altra naturalezza, tutto era diventato più chiaro; anche quando non riuscivo a capire qualcosa, l'incomprensione era uno stimolo all'approfondimento, non un intoppo che bloccava. Un'esperienza di questo tipo fecero all'inizio anche i discepoli, quando con loro sorpresa incontrarono Gesù risuscitato: "Allora [Gesù] aprì loro la mente per intendere le Scritture e disse loro: «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni»" (Luca 24:45-49).
  Andando avanti nella lettura, consapevole adesso dell'autorità che quelle parole avevano su di me, feci la "scoperta" di una cosa che in qualche modo già sapevo, ma a cui come tutti non avevo dato molto peso: scoprii di essere un peccatore. Nessuno pensi al riconoscimento di qualche orrendo crimine fino ad allora tenuto nascosto agli uomini; no, ero quel che si dice "un bravo ragazzo", secondo gli usuali standard. Che però non sono quelli di Dio. I suoi standard, li trovai nella sua Parola: è in essa che si trova infatti, oltre a una diagnosi spietata della malattia spirituale di cui ogni uomo soffre, il decisivo rimedio: la morte espiatoria di Gesù sulla croce. "Noi crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Romani 4:25-25).
  Accettai la diagnosi del mio male e il rimedio che mi era offerto.
  E oggi, a tanti anni di distanza dai fatti che qui ho narrato, posso dire di continuare ad essere fra coloro che dicono con convinzione: "Giustificati per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio" (Romani 5:1-2).
    Il mio desiderio sincero è che anche tu, un giorno, possa fare tue queste parole. Senza per questo cessare di essere ebreo.
  Shalom,
  Marcello

Heyu Tovim


FINE