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Perché Dio ha creato il mondo?

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

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La terra, secondo una diffusa e popolare religiosità, è un luogo che si trova tra il paradiso e l’inferno. Il paradiso si trova in cielo, dove c’è Dio, l’inferno si trova in un profondo abisso, dove c’è il Diavolo. Gli uomini vivono sulla terra sotto lo sguardo indagatore di Dio; se si comportano bene, ricevono aiuto e sostegno durante la vita terrena, e alla fine, se superano l'esame, sono accolti in cielo dove c'è Dio. Se invece si comportano male, ricevono castighi e correzioni durante la vita terrena e alla fine, se non superano l'esame, sono gettati nell’inferno dove si trova il Diavolo.
  Le religioni si differenziano sulla descrizione dei luoghi di arrivo, paradiso e inferno, e sulle regole da osservare per salire in cielo e non essere gettati nell’abisso, ma lo schema essenziale rimane questo.
  In questa visione, la terra è vista come luogo temporaneo di transito e smistamento: la fine della storia è il giudizio universale, in cui si deciderà in modo irrevocabile la destinazione conclusiva di ogni uomo: o in paradiso o all’inferno. E la terra? Forse rimarrà vuota, o sarà distrutta, o sarà messa da qualche altra parte, ma in ogni caso non sarà più oggetto di attenzione.
  In questa visione popolare della religione, così come schematicamente presentata, si pone allora una domanda: ma è per questo che Dio ha creato il mondo? Come una enorme aula in cui svolgere un onnicomprensivo esame che stabilisca in modo definitivo chi saranno i promossi e chi i bocciati?
  Se le cose stanno così, se davvero si tratta di un esame, è chiaro che l’interesse di ogni esaminando sarà tutto rivolto a se stesso, a come dovrà osservare le norme richieste per poter alla fine superare l’esame.
  Anche la religione cristiana, almeno nel modo in cui è stata popolarmente vissuta, e in parte anche insegnata, ha assunto nella storia una forma simile a questa, I preti, in fondo, sono stati intesi come quella particolare classe di specialisti che devono insegnare alle persone normali come si fa ad andare in paradiso. Anzi, col passar del tempo e l’evolversi della dottrina, i preti sono diventati coloro a cui ci si deve rivolgere se si vuole ottenere il lasciapassare per entrare in cielo.
  La predicazione evangelica si presenta in modo indubbiamente diverso: le norme per ottenere l’ingresso in cielo sottolineano la gratuità della salvezza che viene offerta da Dio sulla base della semplice fede nell’opera di Cristo; ma per molti aspetti, almeno in certe presentazioni, non ha modificato il comune schema religioso: la cosa fondamentale per l’uomo che vive sulla terra è che riesca a evitare le fiamme dell’inferno e possa un giorno raggiungere Dio nel cielo. Per il singolo, per la sua sorte eterna, questo naturalmente è importantissimo, anzi è addirittura essenziale; ma sta proprio qui il centro del messaggio biblico? Dio ha creato il mondo al solo scopo di far sì che il massimo numero di persone lascino un giorno questa terra per raggiungerlo eternamente nella sua dimora in cielo?

Dove sta il paradiso?
  Nell’immaginazione popolare il paradiso è un luogo che sta in cielo e in cui si entra dopo morti se ci si è comportati bene sulla terra.
  Nell’immaginazione cristiana il paradiso originario sarebbe il biblico giardino di Eden preparato da Dio per l’uomo. In effetti è così, solo che questo biblico paradiso non si trova in cielo, ma sulla terra. Per questo viene anche chiamato “Paradiso terrestre”.
  L’Eden di cui parla la Bibbia si trovava dunque sulla terra, anzi, per quello che diremo in seguito si può addirittura dire che era il centro della terra. Gli intellettuali, che considerano il racconto della creazione come un'istruttiva favola, o un “mito” se si vuole usare un linguaggio più ricercato, possono essere a disagio quando trovano nella Bibbia una precisa individuazione geografica del luogo dove si trovava l’Eden, con l’indicazione dei fiumi che la circondavano (Genesi 2:10-14).

Se Adamo non avesse peccato
  Dunque Adamo, con la donna Eva tratta dalla sua costola, in origine viveva beato sulla terra. Dio lo mise alla prova con la tentazione del serpente e Adamo cadde nel peccato, trascinando con sé nel degrado l’intera creazione. Come conseguenza, ebbe inizio la storia della salvezza, che come sappiamo ha il suo punto culminante nella persona e nell’opera di Gesù. Alla fine di tutto, in questa schematica presentazione, chi avrà creduto in Gesù andrà in cielo e tutti gli altri andranno all’inferno.
  Si pone allora una domanda, ipotetica ma non inutile: che cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato? Il peccato non sarebbe entrato nel mondo, dunque non ci sarebbe stato bisogno di una storia della salvezza, e Adamo sarebbe rimasto dov’era, cioè sulla terra. Il premio della sua ubbidienza non sarebbe stato dunque l’andare in cielo, ma il rimanere sulla terra. Ed era effettivamente un premio perché, come sta scritto, al termine della creazione “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1:31). Adamo Dunque avrebbe potuto godere pienamente della bontà della creazione.
  In un approccio olistico alla Bibbia, cioè attento al senso totale della rivelazione di Dio, s’impone allora una domanda: perché Dio ha creato il mondo? Qual è il suo obiettivo? E’ una domanda che in un certo senso si deve fare, non per mettere Dio sotto processo sottoponendolo al nostro interrogatorio, ma per il desiderio di conoscerlo, verificando nella sua Parola se Dio stesso vuole darci una risposta. E si potrebbe anche dire: per il desiderio di amarlo. Perché si può amare veramente solo chi si conosce.
  L’obiettivo di Dio, che è sotteso nella Bibbia fin dall’inizio, è espresso in modo chiaro nei suoi due ultimi capitoli.

    «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più» (Apocalisse 21:1).

Il fatto di accostare la nuova creazione cielo-terra alla prima creazione cielo-terra fa capire che non si tratta di una contrapposizione tra il cielo dove c’è Dio, e la terra dove ci sono gli uomini. Il cielo di cui si parla nella prima e nella seconda creazione è una realtà creata, da non confondere con il cielo che in altri passi della Scrittura indica Dio stesso nella sua inaccessibilità. Volendo usare un linguaggio colorito ma efficace, si potrebbe dire che se nella prima creazione c'era il paradiso terrestre iniziale, nella nuova creazione ci sarà il paradiso terrestre finale, ottenuto attraverso l’intera, faticosissima storia della salvezza che ha in Gesù il suo punto centrale. Ciò che Dio farà alla fine è anche ciò che Egli si proponeva di fare fin dall’inizio, sia pure in altra forma se non ci fosse stata la caduta iniziale dell’uomo.

    «E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).

La radice del termine greco tradotto con “tabernacolo” (skene) è la stessa del verbo “abitare" (skenao). Una traduzione più efficace potrebbe dunque essere: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro». Con ciò si mette in evidenza che anche nell’Antico Testamento il senso profondo del tabernacolo era quello di esprimere il desiderio di Dio di abitare in mezzo agli uomini, nella forma allora indicata e tra gli uomini che rientravano in quel momento nel piano di salvezza di Dio.

Elementi fondamentali del processo creativo
  Nel progetto che il Creatore ha fatto per venire ad abitare fra le sue creatore in un rapporto d’amore compatibile con la sua giustizia sono presenti tre elementi: un habitat, una società e un santuario. Chiameremo mondo questo complesso di elementi, il che corrisponde anche al senso in cui viene usato nella Bibbia nella maggior parte dei casi, anche se non in tutti.
  Come habitat s’intende il contesto creativo della natura, che la Bibbia chiama i cieli e la terra. Qui viene indicato in questo modo per sottolineare che è stato formato con il preciso scopo di essere abitato dagli uomini.
  Come società s’intende l’insieme strutturato e armonico degli uomini che Dio vuole far abitare sulla terra.
  Come santuario s’intende il luogo concreto in cui il Creatore vuole vivere l’incontro con la società delle sue creature, in un rapporto d’amore che mantenga le giuste differenze tra Chi crea e coloro che sono creati.

L’habitat
  Sull’habitat naturale si può soltanto sottolineare che è l’espressione di una precisa volontà di Dio; per questo in origine era totalmente “buono”, senza nessuna ombra. Inoltre, essendo stato creato per primo, non è mai soltanto un palcoscenico per attori che potrebbero andare a recitare da qualche altra parte, ma entra a far parte integrante di tutto ciò che verrà dopo.

La società
  Per quanto riguarda la formazione della società che avrebbe dovuto popolare l’habitat, è fondamentale capire qual è il posto che Dio assegna al singolo uomo. Contro la tesi evoluzionistica, secondo cui la terra si sarebbe popolata di uomini e donne attraverso un graduale processo di trasformazione di sassi, radici e vermi (linguaggio volutamente approssimativo e poco scientifico), la Bibbia fa iniziare tutto da un preciso individuo: Adamo.
  A questo punto si pone la domanda: perché Dio si è arrestato ad Adamo? Perché, dopo essersi accorto che Adamo era solo, non ha impiantato un processo di produzione industriale di Adami con lo stesso metodo di insufflazione, chiamandoli magari Adamo 1, Adamo 2, Adamo 3, e così via, fino a raggiungere il numero necessario per popolare adeguatamente la terra? Avrebbe potuto dare a tutti le stesse istruzioni date al primo Adamo; chi le avesse trasgredite sarebbe morto sul colpo, di modo che in vita sarebbero rimasti soltanto gli ubbidienti. Ecco un sistema che a noi, cresciuti in una individualistica società liberal-democratica, sarebbe parso più ragionevole e giusto. Di fatto, le cose non sono andate così, ma immaginare come avrebbero potuto svolgersi, può far riflettere sulle ragioni profonde dell’agire del nostro Creatore.
  Cominciamo allora col ricordare come si sono svolte le cose secondo la Bibbia.
  Quando Dio creò l’uomo, all’inizio formò un individuo maschio: Adamo. Mentre era ancora solo, Adamo ricevette da Dio l’ordine di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 2:17). Poi Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”, e formò il nucleo della prima società costituita dalla coppia uomo-donna, da cui decise di partire per formare l’intera società che avrebbe riempito l’habitat prima creato:

    “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta»” (Genesi 1:27-28).

Si può notare di passaggio che l’immagine di Dio presente nell’uomo non è né il maschio né la femmina, ma la coppia maschio-femmina. Da questa coppia sarebbe discesa l’intera società che avrebbe “riempito” la terra. La produzione di esseri umani nel modo in cui è avvenuto per Adamo ed Eva non sarebbe stata ripetuta.
  Di nuovo una domanda: perché? Perché non ripetere la formazione di altre coppie, come avvenuto nel caso di Adamo ed Eva? In alternativa, i due avrebbero potuto restare l’unica coppia generatrice di altri esseri umani, che avrebbero popolato la terra e formato un'unica grande famiglia con due soli genitori. Ma più avanti il Signore precisa:

    “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” (Genesi 2:24).

Dio dunque voleva che la formazione dell'intera società umana avvenisse attraverso la costituzione di sottosocietà familiari composte da padre, madre e figli, ben distinte fra loro. Si può dire dunque che in origine, prima della caduta, la sola forma di sottosocietà prevista all’interno della società universale era la famiglia mononucleare composta da padre, madre e figli. Le famiglie patriarcali, come pure i single e le coppie senza figli, non erano previste. E neppure erano previste città e nazioni, entrambe da considerare come conseguenze del primo peccato, anche se, come vedremo, il Signore le userà poi per portare a compimento il suo piano di salvezza.
  Nei due tipi di società previsti da Dio, l’universale e la familiare, l’individuo non si annienta, ma non esiste al di fuori della società. In entrambi i casi la società non si sbriciola in una miriade di singole particelle “aventi pari diritti e pari doveri”, ma in ogni forma di società esiste sempre un individuo che la rappresenta e ne risponde. Per l’intera società umana il rappresentante è Adamo, per la società familiare il rappresentante è l’uomo, come marito e padre.

Il santuario
  Nella Bibbia il termine santuario è usato soprattutto nella storica opera di salvezza compiuta da Dio attraverso Israele, ma se come santuario s’intende il luogo fisico e concreto dove il Creatore incontra la società delle sue creature in un rapporto d’amore e giustizia, allora possiamo dire che il primo santuario è stato il giardino di Eden e l’ultimo santuario sarà la nuova Gerusalemme, secondo la citazione già fatta dell’Apocalisse:

    «E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).

Se il santuario è il luogo in cui Dio vuole incontrare la società delle sue creature, sarà interessante riflettere sul modo in cui è stato vissuto il primo incontro, secondo quanto riportato nella Bibbia.


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Il primo santuario
   Dio aveva dato ad Adamo ed Eva l’ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra: gli uomini dunque avrebbero dovuto spargersi su tutta la terra. Ma prima ancora che fosse formata Eva, Dio aveva assegnato ad Adamo un “giardino”, cioè un particolare territorio che Adamo avrebbe dovuto lavorare e custodire: il giardino di Eden. Sarebbe stato questo il centro del mondo, il luogo a cui avrebbe dovuto riferirsi l’intera umanità che sarebbe discesa dalla prima coppia; lì Dio si sarebbe incontrato con gli uomini, riconoscendo ad Adamo, come primo uomo creato, la posizione di legittimo rappresentante di tutta la società umana da lui discesa.
  Il giardino di Eden sarebbe stato dunque il luogo dell’incontro fisicamente avvertibile fra Dio, nella sua santità d'amore, e l’uomo, nella sua natura di creatura ubbidiente. Con un linguaggio usato in seguito nella Bibbia, si potrebbe dire che il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il luogo in cui la creatura veniva ad adorare il suo Creatore. Cioè un santuario.
  Sappiamo bene che cosa è successo poi in quel santuario su istigazione del serpente; ma non è su questo che ora vogliamo soffermarci, ma piuttosto su quello che accadde in seguito:

    “E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Iddio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?” (Genesi 3:8-9).

La presentazione di un Dio che cammina nel giardino e chiede all’uomo di dirgli dov’è, come se non fosse capace di saperlo da solo, induce al sorriso: “ecco la presentazione in forma infantile di una profonda realtà spirituale che non si può esprimere in altro modo”, pensa l’uomo evoluto di oggi nella sua protervia intellettuale, questa sì davvero infantile agli occhi di Dio.
  Le cose invece sono andate proprio così, come dice la Bibbia. E tutto fa pensare che non fosse la prima volta che Dio si presentava ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden in forma corporalmente riconoscibile da loro. L’amorevole incontro tra Dio e la sua creatura era concreto, corporale, e dunque non continuo. Continua sarebbe stata la comunione d’amore, che in certi momenti sarebbe stata vissuta in forma di una particolare vicinanza fisica, come avviene in un matrimonio ben riuscito.

Ma le cose non sono andate così
  Sta scritto che nel giardino affidato all’uomo l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e il cui frutto era buono da mangiare” (Genesi 2:9). Al centro di questo giardino, dunque proprio nel mezzo del primo santuario, Dio fece spuntare due piante speciali: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
  Il frutto del primo albero sarebbe stato per l’uomo il nutrimento che gli avrebbe permesso di proseguire in una vita senza limite, mantenendo così in eterno quel rapporto d’amore che Dio voleva instaurare con la sua creatura.
  Quanto al secondo albero, è quasi sicuro che per Adamo rappresentò un enigma: “conoscenza del bene e del male”, che significa? Adamo era nato e cresciuto in un avvolgente bene totale: in lui e intorno a lui tutto era buono. Che cosa poteva significare per lui la parola “male”? Che cos’è il male? Ma se anche non poteva capire il significato di quella parola, poteva ben capire che cosa voleva Dio da lui con l’ordine che gli aveva dato riguardo al frutto di quell'albero: “Non ne mangiare”, aveva detto. E perché? mi chiedo subito io. Non è detto però che se lo sia chiesto anche Adamo, perché lui non era ancora immerso nel peccato, come invece sono io, insieme a tutti gli altri uomini mortali. Per Adamo tutto era buono: sia il permesso di mangiare, sia l’ordine di non mangiare. Se l’ha detto Dio, che c’è da discutere?

Qualcosa è andato storto.
  Conosciamo tutti la storia del “peccato originale”. Quello che di solito si sottolinea è la disubbidienza della creatura rispetto all’ordine del Creatore, e la parte che ha giocato il serpente nell’indurre l’uomo alla trasgressione.
  Qui invece vogliamo riflettere sulla parte del Creatore, e chiederci come mai il progetto di Dio non ha funzionato. Eppure, alla fine del suo lavoro Dio aveva detto che tutto era “molto buono”. Come mai allora da quella meravigliosa opera creativa sono scaturite conseguenze così disastrose: guerre, morti, calamità, disgrazie? Non ci sarà stato qualche errore di progettazione? Perché Dio ha fatto spuntare nel giardino quel pericoloso albero della conoscenza del bene e del male? Perché, dopo averlo messo proprio al centro del giardino, bene in vista, ha imposto all’uomo di non mangiarne il frutto? Perché, pur conoscendo la pericolosità del serpente, ha permesso che entrasse liberamente nel giardino e prendesse la parola? Perché, dopo che con la sua menzognera arte seduttiva aveva cominciato a parlare, non ha inviato qualche angelo a esporre l’interpretazione autentica delle parole di Dio?
  Sono domande legittime, di cui si può cercare risposte nella Bibbia, tenendo presente però che vale il principio secondo cui “nella Bibbia o si capisce il tutto o non si capisce niente”. E’ uno slogan, ma può servire ad abbozzare quello che s’intende per “approccio olistico alla Bibbia”.

Partiamo dunque dall’inizio
  “Dio è amore”, sta scritto nella prima lettera dell’apostolo Giovanni (4:8,16), ed è un’affermazione che dev’essere vista al principio di tutta l’opera di creazione. Dio ha voluto formare un mondo abitato da una società di uomini in cui Egli potesse esprimere la sua natura d'amore. E l’amore, per essere pienamente compiuto, deve essere contraccambiato; e per essere contraccambiato, chi riceve l’offerta d’amore deve essere libero di rispondere sì o no. In altre parole, la libertà è il terreno basilare su cui può avvenire lo scambio d’amore.
  Ma lo scambio d’amore fra Dio e l’uomo non può essere simmetrico. L’amore di Dio è attivo, e l’amore dell’uomo è reattivo. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Giovanni 4:19), dice la Bibbia. L’amore attivo di Dio ha un dono e una parola, perché l’amore è collegato alla verità e la verità è collegata alla parola. Dio aveva detto ad Adamo:

    «Mangia pure (dono) da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (parola di verità)» (Genesi 2:16-17).

In sostanza, all’uomo è stata offerta la possibilità di vivere una relazione d’amore in una posizione di libera e fiduciosa sottomissione a Dio; il serpente invece è riuscito a far credere all’uomo che la sua relazione d’amore con Dio sarebbe stata piena soltanto se vissuta in posizione di parità: “… sarete come Dio” (Genesi 3:5). Ma questo non è possibile: chi ci prova, muore.
  Con la loro pretesa di autonomia, Adamo ed Eva hanno rotto il legame spirituale che li collegava al Datore della vita. Non sono morti sul colpo, subito dopo aver preso il frutto dell’albero, ma è come se avessero contratto immediatamente una malattia mortale. Dovevano fisicamente morire, era inevitabile, perché Dio l’aveva chiaramente detto, ma tra il compimento del “reato” e le sue annunciate conseguenze, il Creatore si è riservato uno spazio di tempo per prendere le sue decisioni.
  Esamineremo più avanti la nuova formulazione che Dio volle dare al suo progetto dopo la fatale scelta di Adamo ed Eva, ma ora vogliamo provare ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se Adamo ed Eva non avessero dato ascolto alle parole del serpente e avessero deciso di attenersi strettamente all’ordine di Dio.

L’ipotetica conseguenza di una “ubbidienza originale” a Dio
  La presenza del serpente nel giardino di Eden fa capire che la creazione è avvenuta sotto gli sguardi di Satana, capo di una ribellione angelica che ha prodotto una caduta precedente a quella dell’uomo. Al ribelle Satana Dio ha concesso di entrare nel giardino e rivolgere all’uomo una parola che avrebbe costituito per lui il decisivo test d’esame: Sì o No alla parola d’amore di Dio. Una “prova d’amore” dunque, espressa in parole, come fece Gesù con Pietro presso il mar di Tiberiade: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21:1-9). Se Adamo, insieme a Eva, avesse risposto Sì a Dio, come poi fece Pietro con Gesù: la comunione d’amore che genera vita sarebbe fruttuosamente proseguita: la coppia avrebbe potuto accedere all’albero della vita, da cui avrebbero ricevuto entrambi vita eterna fisica, senza altri test aggiuntivi. E’ normale dire questo, perché come è bastato un unico No per provocare la caduta di tutto il programma di Dio, così sarebbe bastato un unico Sì per il mantenimento del programma originario nella forma prevista. Lo spirito che il Signore aveva soffiato nelle narici di Adamo per farlo vivere, sarebbe passato anche ai suoi discendenti di generazione in generazione. Come adesso diciamo che ogni bambino è malvagio fin dalla nascita, in quel caso si sarebbe detto che ogni uomo è buono fin dalla nascita, perché porta i segni della fedeltà a Dio dei suoi progenitori. E come oggi diciamo che anche se tutti nascono originariamente “cattivi”, non per questo tutti saranno dannati, così per il fatto che tutti sarebbero nati originariamente “buoni”, non per questo tutti sarebbero stati “salvati”, cioè mantenuti in eterna comunione con Dio.
  Se Adamo avesse risposto Sì a Dio, Satana avrebbe indubbiamente perso una battaglia, ma questo non sarebbe stata la sua definitiva sconfitta nella guerra con Dio. Sarebbe avvenuto il contrario di ciò che avviene al presente dopo la caduta. Oggi ogni uomo nasce malvagio, ma Dio gli concede, rivolgendogli la parola adatta nel momento opportuno, la possibilità di dire Sì a Lui ed essere salvato. Nel mondo scaturito dall’ubbidienza di Adamo a Dio, ogni uomo sarebbe nato buono, ma Satana avrebbe avuto la possibilità di rivolgersi all’uomo divenuto adulto e mettere in dubbio la verità della Parola di Dio ricevuta attraverso i suoi genitori: sarebbe stato dunque sottoposto a un test simile a quello per cui era passato Adamo. Se l’avesse superato, sarebbe stato mantenuto nella “santa società” in cui Dio dimora; in caso contrario sarebbe stato gettato fuori e consegnato nella mani di Satana, di cui aveva seguito il consiglio.
  La società voluta da Dio sarebbe stata dunque sempre costituita da tutti e soli santi; e quando fosse stato raggiunto il numero stabilito dal programma, Dio avrebbe condannato definitivamente Satana, in forme che non sappiamo e non dobbiamo immaginare.
  Alla fine di tutto si sarebbe realizzato l'obiettivo contenuto nel progetto originario di Dio, come espresso nelle parole dell’Apocalisse:

    «Ecco l’abitazione di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:3).

Quanto sopra immaginato, come puro esercizio letterario, può essere convincente o no, ma ha il solo scopo di far riflettere, per differenza, su ciò che poi si è effettivamente verificato nella storia biblica.

Ma Adamo ha detto No
  Adamo si è lasciato convincere dal serpente e ha detto No a Dio. In quel momento, avendo rotto la comunione vitale col suo Creatore, è spiritualmente morto. Avrebbe potuto continuare a vivere fisicamente, ma questo per lui avrebbe significato entrare definitivamente nella schiera di Satana, condividendone il destino eterno preparato da Dio. Per questo il Signore ha impedito ad Adamo di prendere del frutto dell’albero della vita: affinché non entrasse a far parte dell’esercito dei demoni, condividendone la sorte eterna.
  La morte fisica di Adamo è stata dunque una condanna preannunciata, ma nella forma in cui Dio l’ha eseguita è stata una grazia, perché Dio non ha voluto che l’uomo entrasse a far parte dell'esercito di Satana e il progetto creazionale dovesse essere definitivamente abbandonato.
  E’ da questo momento che si possono cominciare ad applicare le ben note parole del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Sì, perché Dio ha cominciato ad amare il mondo fin da quando l’ha pensato e progettato; e chi ama davvero, non si rassegna facilmente ad accettare che l’oggetto del suo amore si rovini con le sue mani, dicendo che “tanto è colpa sua, peggio per lui”; chi profondamente ama cerca in tutti i modi di salvare l’oggetto del suo amore, nel desiderio di poterlo riottenere, sia pure in condizioni diverse.
  Così ha fatto il Signore: ha tanto amato il mondo (in senso pieno: habitat-società-santuario) che per riaverlo ha “faticato” molto più di quanto avesse fatto nella prima creazione. Ma invece di riaverlo in forma rattoppata, alla fine lo riotterrà in una forma molto più gloriosa di quella originaria.
  Questo però a Dio è costato molto. Davvero molto:

    ‘Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Il chiunque di questo versetto sottolinea che ogni uomo può essere salvato, senza distinzione di qualsiasi tipo, ma non bisogna trascurare, tenendo presente l’intero messaggio biblico, che avere la vita eterna significa ottenere la grazia di entrare a far parte viva del glorioso progetto salvifico di Dio. Ed è appunto su questo che nel seguito vogliamo riflettere.


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L’agire di Dio
  Si dice talvolta che nell’evangelizzazione il credente deve saper esporre “il piano della salvezza”, dove con ciò s’intende la presentazione di quello che Dio ha fatto in Gesù Cristo per offrire all’uomo il perdono dei peccati, e il successivo invito ad accettare tale offerta e ottenere così una sicura salvezza eterna. Un annuncio del Vangelo presentato in questo modo è stato decisivo in molti casi per portare qualcuno alla conversione, ma è chiaro che non esprime “tutto il consiglio di Dio” (Atti 20:27).
  Una chiave di lettura fondamentale dell’approccio olistico alla Bibbia che si vorrebbe fare in questo studio può essere espresso con una semplice formulazione: il personaggio principale della Bibbia è Dio. E’ da Lui che si deve sempre cominciare. Ovvio? Banale? Se ne riparlerà nel seguito, ma un primo accenno si può fare accostando i termini salvezza e consiglio usati poco sopra: la salvezza di cui si parla si riferisce all’uomo, mentre il consiglio si riferisce a Dio. Che cosa viene prima? la salvezza o il consiglio?
  Per fare un veloce sguardo sul messaggio biblico nella sua totalità, si possono leggere i primi due capitoli della Bibbia (Genesi 1-2) e saltare subito dopo agli ultimi due (Apocalisse 21-22), e chiedersi: che cosa è avvenuto tra l’inizio e la fine di questo racconto? In entrambi i casi si parla di Dio e di uomini, ma mentre Dio agisce in sovrana libertà, gli uomini reagiscono nella circoscritta libertà loro concessa, e ne subiscono le inevitabili conseguenze. Nel seguito, questo schema di rapporti si ripete in continuazione, anche se in forme diverse, e va da sé che per capire i fatti che poi accadono, la riflessione non può che cominciare da ciò che sta all’inizio: cioè da Dio che agisce.

I due progetti
  Abbiamo già visto che l’originario progetto di Dio prevedeva la creazione di un habitat perfetto, popolato da una società di giusti, al cui centro si trova un santuario in cui Dio abita in mezzo agli uomini. L’esercizio che Adamo, capostipite dell’umanità, ha fatto della libertà a lui concessa, ha compromesso la forma originaria del progetto, facendo penetrare in tutta la creazione il virus di una fatale malattia che la Bibbia chiama “morte”:

    “Come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per mezzo del peccato la morte, così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12).

I segni di questa malattia mortale sono presenti dappertutto, nella forma di una corruzione presente in tutti i campi. Il Signore comunque ha consentito al suo progetto creativo di andare avanti, preparando un’opera di recupero salvifico che, anche se avrà bisogno di secoli, sarà comunque portata a compimento: il tempo è un problema per noi, non per Dio. Dal quarto capitolo della Genesi in poi, la Bibbia è interamente dedicata alla presentazione di questo progetto di recupero.
  Nel seguito chiameremo “primo progetto”, o “progetto creativo”, o più semplicemente “creazione”, l’originario piano di Dio, e “secondo progetto”, o “progetto redentivo”, o semplicemente “redenzione”, il piano di salvezza elaborato da Dio dopo la caduta dell’uomo. Quando il progetto è in esecuzione, useremo anche il termine “programma”.
  E’ chiaro che a noi interessa soprattutto il progetto redentivo, perché è quello che ci riguarda in questo tempo; e poi… siamo uomini, e come uomini pensiamo soprattutto ai nostri interessi personali. Ma se, oltre allo star bene adesso e in eterno, qui in terra e su nel cielo, e oltre al progetto di salvezza in cui siamo inseriti, dirigiamo la nostra attenzione sul progettista che l’ha ideato; se siamo interessati a conoscerlo meglio; se siamo stati afferrati da quella parola di Gesù che dice: “'Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la mente tua” (Matteo 22:37), allora forse saremo interessati anche a conoscere più a fondo chi è davvero Colui che ci ama, e ora noi vogliamo amare; e forse cercheremo di sondare, nei limiti del possibile e del lecito, quali sono i pensieri e i sentimenti che spinsero il Creatore a formulare quel grandioso programma di creazione prima che l’uomo lo facesse deviare. Perché è lì, all’origine di tutte le cose, che Egli ha cominciato a esprimere Se stesso, per darne poi conoscenza alle sue creature.
  Per il momento ci limiteremo a notare soltanto le differenze più evidenti tra i due progetti.
  Il progetto creativo parte con un inizio in cui tutto è molto buono. Nell’ordine compare dapprima l’habitat, costituito da “i cieli e la terra” dell’incipit biblico, poi la società, potenzialmente presente nella coppia Adamo-Eva, poi il santuario, costituito dal Giardino di Eden.
  Il primo Adamo è stato tratto dal primo habitat, cioè dalla terra “molto buona” che Dio aveva creato fino a quel momento. Attraverso il soffio di Dio nelle sue narici, l’uomo è diventato un’anima vivente (1Corinzi 15:45). Nell’immaginaria ipotesi di ciò che sarebbe avvenuto se la prima coppia non avesse peccato, l’habitat sarebbe rimasto perfetto in ogni sua parte; la società sarebbe rimasta anch’essa perfetta perché i ribelli sarebbero stati immediatamente distrutti; il santuario sarebbe rimasto a disposizione degli uomini come centro della terra e luogo d’incontro nella relazione d’amore tra il Creatore e la creatura.
  Il progetto redentivo opera invece su un mondo contaminato dal male in ogni sua parte, e tuttavia mantenuto in piedi dalla provvidenza di Dio, perché su quella terra maledetta è destinato a cadere un giorno il seme di vita che porterà guarigione eterna al mondo, cioè la salvezza nel senso pieno della parola.
  Quello che l’apostolo Paolo chiama ultimo Adamo è spirito vivificante (1Corinzi 15:45), è stato formato (non creato) con il soffio dello Spirito di Dio non più nella terra inerte, ma nel corpo vivente di una giovane donna ebrea. Tra i due Adami ci sono dunque differenze, ma sono confrontabili, perché in entrambi i casi sono espressione di “Colui che opera ogni cosa secondo il consiglio della propria volontà” (Efesini 1:11).
  Con questo abbiamo appena toccato il tema che dottrinalmente si chiama “incarnazione”, ma qui vogliamo soltanto limitarci a sottolineare che in Gesù Dio è venuto a compiere quello che fin dall’inizio è stato il suo proposito: venire ad abitare in mezzo agli uomini:

    “E la Parola si è fatta carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Giovanni :1:14).

L’habitat finale del secondo progetto è costituito dal “nuovo cielo e nuova terra” dell’Apocalisse (cap. 21). Esso appare per ultimo, e solo allora sarà perfetto in ogni sua parte, perché sarà liberato dalla vanità a cui ora è sottoposto a causa del peccato dell'uomo (Romani 8:18-25).
  La società finale che lo popolerà, secondo le poche cose che si dicono negli ultimi due capitoli della Bibbia, sarà una società di tutti giusti, perché giustificati dall’opera di Cristo, e in essa ci saranno popoli, nazioni e re della terra (Apocalisse 21:24-26). Sarà il Regno eterno di Dio che Gesù consegnerà nelle mani del Padre “dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza” (1 Corinzi 15:24). Esso sarà preceduto dal Regno messianico milleniale promesso a Israele nell'Antico Testamento, che si svolgerà in un habitat e con una società non ancora totalmente redenti.
  Il santuario finale sarà costituito dalla nuova Gerusalemme, in cui non ci sarà alcun tempio dove incontrare il Signore, perché “l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio” (Apocalisse 21:22).
  Abbiamo messo a confronto diretto, in modo schematico e necessariamente approssimativo, l’inizio e la fine dell'intero programma di Dio, accostando i primi due capitoli della Genesi con gli ultimi due dell’Apocalisse, anche per sottolineare che il corretto esame di tutto quello che si trova in mezzo deve essere fatto seguendo lo svolgersi del discorso lungo le linee di azione di Dio, dall’inizio alla fine, senza saltellare di qua e di là con occasionali e arbitrarie interpretazioni di singoli passi, staccati non solo dal contesto linguistico, ma in certi casi anche dal centro del messaggio biblico.

Chi saranno i cittadini della nuova società?
  Detto in poche parole: chi saranno i salvati? La domanda è seria, perché se il nuovo mondo sarà realizzato soltanto alla fine della storia, i suoi abitanti proverranno tutti da quello che è stato il vecchio mondo, così come si svolge dalla creazione in poi. Abbiamo detto che se Adamo non avesse peccato, nel progetto creativo i cittadini della società voluta da Dio sarebbero stati soltanto coloro che avrebbero superato il test a cui il Signore li avrebbe sottoposti; qualcosa del genere è previsto anche nel progetto redentivo: gli abitanti della finale società saranno soltanto coloro che hanno risposto Sì al Signore, anche se la chiamata di Dio potrà arrivare al singolo in modi diversi a seconda del momento storico in cui vive. Anche se è vero che tutti gli uomini sono peccatori fin dalla nascita, perché partecipi di un mondo in cui è entrata la corruzione della morte, non per questo Dio li vede tutti allo stesso modo: il racconto di Caino e Abele fa capire che Dio osserva e valuta l’atteggiamento di ogni uomo rispetto a Lui in base a quello che egli ha ricevuto, sa e decide.
  E’ chiaro comunque che in ogni caso la salvezza sarà donata da Dio al peccatore soltanto in virtù dell’opera giustificante di Gesù sulla croce, perché “in nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12). E’ quello che in termini teologici si esprime dicendo che la salvezza si ottiene per grazia mediante la fede, sempre e in ogni caso.
  Può sorprendere, a proposito di salvezza personale, che l’Antico Testamento sembri poco interessato a indicare in modo chiaro chi sarà eternamente salvato e chi no. Non potremmo dirlo con certezza neppure per Adamo ed Eva. Fino all’arrivo di Gesù, la Bibbia non dice quello che gli uomini devono fare per poter salire un giorno dalla terra e andare in cielo, ma piuttosto informa su quello che Dio ha fatto, e in seguito farà, per avvicinarsi dal cielo agli uomini che vivono sulla terra. Se ne dovrà riparlare.


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Un Dio che agisce
   Abbiamo detto che il personaggio principale della Bibbia è Dio; e abbiamo sottolineato che ogni riflessione sugli scritti biblici deve sempre cominciare da ciò che sta all’inizio, cioè da Dio che agisce. Per capirlo basta aprire la Bibbia alla prima pagina: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra”. Il racconto non comincia con una profonda riflessione sul problema del bene e del male, dell’amore e dell’odio, della gioia e del dolore, e così via filosofando, ma il quadro si apre facendoci vedere un Dio che agisce. Dio disse, Dio fece, Dio vide, Dio creò. E così fu. Sei giorni di duro lavoro, ma ne valeva la pena, perché alla fine il giudizio che ne dà lo stesso Operatore è ottimo: “Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco, era molto buono”.
  Ai sei giorni di lavoro attivo se ne aggiunse un settimo, che indubbiamente si distingue dai precedenti:

    “Il settimo giorno, Dio compì l'opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l'opera che aveva fatta. E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso si riposò da tutta l'opera che aveva creata e fatta(Genesi 2:2-3).

Dio giudica perfetta l’opera che aveva creata e fatta nei primi sei giorni e la completa con un settimo giorno che ha come centro di attenzione non le varie cose create, ma la persona stessa del Creatore. Se le descrizioni degli atti creativi sono viste come fotografie, si può dire che nell’ultimo giorno il Signore si è fatto un selfie. Nelle altre foto si vedono oggetti creati, mentre in quest’ultima si vede il Creatore che riposa. “Riposo di Dio ”potrebbe essere la scritta in calce alla foto, che è la più importante di tutte, perché dà senso a tutte le altre.
  Nel seguito Dio stesso parlerà del mio riposo in cui alcuni non entreranno (Salmo 95, Ebrei 4), e questo accenna al fatto che Dio connette il suo riposo di Creatore con quello che si svolge sulla terra tra le sue creature. E il fatto che Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò sottolinea ancora una volta il fatto che nella creazione, e in tutto ciò che ne consegue, al centro della scena c'è il Creatore. Il termine astratto “creazione” non si trova mai nell’Antico Testamento, e attira l’interesse più sulle cose fatte che su Chi le fa.

Un Dio che pensa
   Abbiamo visto che “nel principio” Dio si presenta come un operatore che agisce, lavora e ottiene un risultato più che soddisfacente.
  Ma prima di lavorare, Dio che cosa faceva? “Preparava una verga con cui frustare quelli che fanno domande come questa”, fu la fulminea risposta che diede una volta Lutero. Ma forse il riformatore in questo non aveva ragione: dipende dallo spirito con cui si fa la domanda. Potrebbe esprimere il desiderio di conoscere più a fondo l’Operatore che ha compiuto un’opera così grandiosa, attratti dall’ammirazione per la persona, prima ancora che per gli oggetti da lui creati.
  Una risposta alla domanda fatta potrebbe essere: Dio pensava. Sì, pensava al lavoro che avrebbe fatto in quei primordiali sei giorni, perché la creazione, prima di apparire nella sua concretezza, è esistita nella mente di Dio come progetto. Ed è proprio nel progetto, prima ancora che nella sua messa in opera, che si manifesta la personalità del Creatore nella sua infinita sapienza:

    “Con la sapienza l’Eterno fondò la terra, e con l’intelligenza rese stabili i cieli” (Proverbi 3:19).

Dalla sapienza di Dio è scaturita la creazione. E se la creazione ha avuto un inizio, la sapienza di Dio no. Il Progettista ha preceduto in tempo e importanza l’Operatore.
  Tra tutti gli esseri creati, l’uomo ha ricevuto la capacità di indagare le opere create da Dio, e anche di provare a risalire nel tempo fino a tentare di arrivare alle origini dell’opera, ma oltre questo non può andare. Alla mente del Progettista l’uomo non ci arriva. Neppure con le sue più sofisticate tecniche filosofico-scientifiche. E quando si arrischia a farlo, scivola fatalmente su un piano di stoltezza che può farlo arrivare fino alla follia:

    Chi ha preso le dimensioni dello Spirito dell'Eterno o chi è stato il suo consigliere per insegnargli qualcosa? (Isaia 40:13).

Il pensiero di Dio non si raggiunge per opere, ma solo per rivelazione. Con le nostre umane capacità possiamo esaminare gli oggetti creati, conoscerli, manipolarli, trasformarli, ma con quali strumenti potremo arrivare a conoscere il pensiero di Dio? Il “come” delle cose fatte possiamo capirlo, ma il “perché” sono state fatte così, chi è in grado di spiegarlo?

    L'uomo stende la mano sul granito, rovescia dalle radici le montagne. Pratica trafori dentro le rocce, e il suo occhio scorge quanto vi è di prezioso. Frena le acque perché non fuoriescano e trae fuori alla luce le cose nascoste. Ma la sapienza, dove trovarla? Dov'è il luogo dell'intelligenza?  L'uomo non ne conosce la via, non la si trova sulla terra dei viventi (Giobbe 28:9-13).

C’è un passo nella Bibbia che allude a ciò che è prima della creazione:

    L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche (Proverbi 8:22)

Di chi si tratta? E’ detto poco sopra: “Io, la sapienza, sto con l'accorgimento e trovo la scienza della riflessione” (Proverbi 8:2). Dunque si tratta di Dio stesso nella veste del sapiente che riflette, e non solo.
  Il passo intero continua così:

    22 L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche. 23 Fui stabilita fin dall'eternità, dal principio, prima che la terra fosse. 24 Fui generata quando non vi erano ancora abissi, quando ancora non vi erano sorgenti straripanti di acqua. 25 Fui generata prima che i monti fossero fondati, prima che esistessero le colline, 26 quando egli ancora non aveva fatto né la terra né i campi né le prime zolle della terra coltivabile. 27 Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso, 28 quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso, 29 quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra, 30 io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto; 31 mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:22-31).

Per sei giorni Dio si è mosso in veste di operatore, affaticandosi nella costruzione del complesso edificio del creato, ottenendo alla fine un risultato che Egli stesso, in veste di esaminatore, ha giudicato molto buono. Ma l’opera è risultata molto buona perché il progetto era stato pensato molto bene. Prima che come operatore, Dio ha agito come progettista; prima di formare il creato, ha elaborato un progetto a cui ha messo mano con una sapienza che possedeva fin da prima dell'inizio dei lavori.
  Nel versetto 22, dove si dice che “L’Eterno mi ebbe con sé”, il verbo qanah usato nell’originale ha un significato generico di possesso con molte sfumature. Dopo il parto di Caino, Eva dice: “Ho acquistato (qanah) un uomo con l'aiuto dell'Eterno” (Genesi 4:1). Si può allora usare questo verbo italiano anche nel versetto 22 e tradurre, con riferimento alla sapienza: “l’Eterno mi acquistò all’inizio dei suoi atti”. E’ come se al momento opportuno Dio avesse "acquistato" un valido progettista, associandolo a Sé col compito di dare forma al progetto e seguire i lavori fin dall’inizio, passo dopo passo, cosa che poi il progettista-architetto ha puntualmente eseguito, confermando una sapienza che non gli proveniva dall’esperienza ma che aveva “fin dall’eternità” (v. 23).
  Il nostro brano sposta dunque l’attenzione dall’opera della creazione al pensiero da cui è scaturita, e più precisamente all’ideatore che l’ha pensata. Non è forse sempre da grandi idee che si producono nel mondo tutte le grandi opere umane? E se con un’attenta indagine tecnica e storica dei documenti che riguardano una grande opera, come per esempio la torre di Pisa, si potrebbe arrivare a conoscere chi ne è stato il progettista e quale ne sia stata l’idea originaria, chi può risalire dall’esame degli oggetti creati al pensiero originario del Creatore? Chi ha consultato l’Eterno prima che desse il via alla creazione? C’è qualcuno che sa rispondere?

    “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie! Poiché: “Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato per primo, e gli sarà contraccambiato?” Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen” (Romani 11:33-36).

Un Dio che ama
   Continuando a fissare la nostra attenzione sul personaggio principale della Bibbia, possiamo chiederci: qual è la parola che esprime al meglio l’aspetto essenziale della personalità di Dio? La prima risposta che forse viene in mente è “amore”. Ed è quella giusta.
  “Dio è amore”, scrive due volte l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera (1 Giovanni 4:8,16). Nell’Antico Testamento non si trova una formulazione come questa, ma resta il fatto che Israele, come popolo e nazione, ha la priorità in fatto di esperienza dell’amore di Dio, perché Israele è l’unica nazione a cui Dio abbia fatto un’esplicita “dichiarazione d’amore”:

    “Ma ora così parla l'Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio! Quando passerai per le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà. Poiché io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore; io ho dato l'Egitto come tuo riscatto, l'Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua progenie dall'oriente e ti raccoglierò dall'occidente. Dirò al settentrione: 'Da'!' e al mezzogiorno: 'Non trattenere; fa' venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra, tutti quelli cioè che portano il mio nome, che io ho creato per la mia gloria, che ho formato, che ho fatto'” (Isaia 43:1-7).

E inoltre:

    “Così parla l'Eterno: ‘Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io sto per dare riposo a Israele’. Da tempi lontani l'Eterno mi è apparso. ‘Sì, io ti amo di un amore eterno; perciò ti prolungo la mia bontà’” (Geremia 31:2-3).

In queste citazioni l’amore di Dio si manifesta come un’opera che pone rimedio al male: Israele viene ricondotto in patria da tutti i luoghi dove si trova in esilio e trova grazia nel deserto scampando dalla spada del nemico.
  Anche per il credente in Cristo, la prima esperienza che fa dell’amore di Dio consiste nel perdono dei peccati, che fa scampare dal male della perdizione eterna. Poi è vissuta anche come benedizione per il presente e promessa di salvezza eterna per il futuro.
  Si pone allora una domanda: esiste la possibilità di parlare di amore senza nominare il male? Per noi uomini, per quanto buoni e santi possiamo essere, la risposta è “no”. Solo Dio può farlo. L’uomo ha ottenuto quello che non avrebbe dovuto ricercare: la conoscenza del bene e del male (Genesi 3:22), e come conseguenza il male gli si è irreparabilmente appiccicato addosso, quali che siano le forme in cui parla del bene, soprattutto quando nomina implicitamente Dio parlando con disinvoltura di “amore”.
  Seguiamo ora Dio in azione nella sua opera creativa.
  Quando si fermò ad esaminare il risultato ottenuto, era il sesto giorno, e fino a quel momento nessun male era stato compiuto o nominato. Il giorno dopo Dio “si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta” (Genesi 2:1-3), e qualunque sia la spiegazione che si voglia dare del fatto, nei giorni successivi il male fece la sua apparizione negli atti compiuti dall’uomo. E se ne dovette parlare.
  Qualcuno allora forse si chiederà se sia stato proprio quell’aggiuntivo giorno di riposo che Dio si è concesso ad essere l’inizio di tutti i mali venuti dopo. Potrebbe essere questo l’errore di progettazione di Dio? Non è così. Quel settimo giorno faceva parte del progetto: era il “fattore di rischio” messo in programma affinché si realizzasse un autentico rapporto d’amore fra il Creatore e le creature. Messo davanti a una proposta alternativa, l’uomo aveva la possibilità di credere o no alla parola d’amore ricevuta da Dio. Poiché un autentico rapporto d’amore si fonda sulla fiducia, l’uomo dimostrò di voler dare più fiducia al serpente che a Dio. E con ciò si collegò al serpente, o per meglio dire al suo mandante.
  Tutto questo disturbò il riposo di Dio. Il settimo giorno, che nell’opera attiva della creazione è stato l’ultimo, doveva essere il primo di un “eterno riposo” di Dio. E’ significativo che l’espressione “eterno riposo”, che per noi mortali ha un suono che richiama sì l’eternità, ma un’eternità di morte, nel piano di Dio intendeva un’eternità di vita, in un rapporto d’amore tra Creatore e creature. Ed è un pensiero che Dio ha avuto prima della creazione, quando elaborava un progetto che per l’uomo prevedeva, in caso di una sua risposta positiva, un ambiente in cui il male sarebbe stato soltanto un cartello attaccato a una porta che non si sarebbe mai aperta e non avrebbe creato alcun desiderio di aprirla.
  Possiamo rileggere allora gli ultimi due versetti del testo citato sopra:

    … ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza; mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini(Proverbi 8:30-31).

Qui il soggetto è Dio che agisce assistito dalla sua eterna sapienza, che non solo gli fornisce elementi per compiere un’opera creativa tecnicamente perfetta, ma anche lo allieta col pensiero di quando potrà rallegrarsi nella parte abitabile della sua terra e trovare gioia tra i figli degli uomini. E’ da qui che deve cominciare la riflessione sull’amore.
 La presentazione della sapienza di Dio che qui fa la Bibbia non è la personificazione di astratti concetti umani di giustizia, pace, libertà, ma pura e gratuita rivelazione che Dio fa di Sé agli uomini come destinatari del suo progetto creativo di amore. Un amore che è fonte di gioia: Dio si rallegra nell’esecuzione di ciò che è nella sua mente; si rallegra fin dall’inizio, giorno dopo giorno. E pensa al compimento finale del suo progetto, quando troverà la sua piena gioia tra i figli degli uomini.
  Il tentativo ci fu. La parte abitabile della sua terra fu in origine il giardino di Eden, dove il Signore andava ad incontrare Adamo ed Eva. Ma quella volta non li vide. Non si mise a cercarli, non mandò angeli a scovarli. Usò la voce, quella stessa voce con cui aveva detto ad Adamo: “Del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare”. E pacatamente chiese: “Adamo, dove sei?” Adamo si fece vedere e rispose. Fu quell’atto, non certo le sue penose parole di autogiustificazione, a far sì che la storia d’amore di Dio per l’uomo potesse proseguire, anche se in modo molto, molto diverso.
  Il riposo di Dio si era interrotto. Dio avrebbe dovuto ricominciare a lavorare.


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Sofferenza d'amore
  Sul far della sera (Genesi 3:8), quando il sole volge al tramonto, l’Eterno Dio decise di andare a trovare Adamo ed Eva nella parte abitabile della terra (Proverbi 8:31), che era il giardino di Eden, creato appositamente per l’uomo affinché lo lavorasse e lo custodisse (Genesi 2:15). Non andava lì per sorvegliare gli abitanti del giardino, come fanno le guardie municipali che quando scende il buio si sparpagliano per le strade del comune a tener d’occhio quelli che hanno comportamenti sospetti. No, Dio andava lì per trovare la sua gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:31) in un rapporto d’amore con le sue creature. Voleva godersi il suo riposo (Genesi 2:2), dopo il duro lavoro della creazione.
   Ma non fu possibile. Quando i due si accorsero che stavano per ricevere una visita, non si fecero trovare in casa. Li raggiunse però la voce. Tremenda, quella voce. Faceva paura. Eppure Dio non voleva far paura. Al contrario, era lì per comunicare e ricevere gioia, come accade quando s’incontrano due che si amano. Forse si aspettava che gli corressero incontro, invece no. Non c’erano.
   Fu lì che Dio provò la prima delle sue sofferenze d’amore dopo il compimento della creazione. La domanda “Adamo, dove sei?” non è indagatrice, ma accorata. Ne sottintende un’altra: “Adamo, perché non ci sei?” L’incontro nel giardino di Eden avrebbe dovuto significare il pieno avvolgimento della creatura in ciò che è l’essenza del Creatore: l’amore. E’ per questo che Dio aveva concesso ad Adamo spazio d’azione e autorità: affinché l’uomo potesse far giungere a Dio una risposta d’amore da una posizione di piena libertà e dignità.
   Ma la risposta non arrivò. La gioia, quella particolare gioia in mezzo agli uomini che Dio aveva pregustato durante la creazione, non ci fu. Dio continuò ad essere nella sua essenza amore, ma la forma in cui questo si manifestò nel seguito fu necessariamente diversa: nell’amore di Dio per la creazione e le creature era entrata la sofferenza, in forma di delusione e gelosia. Delusione, perché Adamo aveva fatto un uso improprio della libertà ricevuta; gelosia, perché Adamo aveva stabilito un rapporto di fiducia con il serpente, invece che con Dio.
   A questo punto qualcuno forse penserà che questo modo di leggere i racconti biblici è puramente soggettivo e fantasioso; e che si fa un uso illecito di antropomorfismi per descrivere una realtà divina che trascende infinitamente quella umana; e qualcun altro dirà, come il teologo protestante Karl Barth, che si può parlare di Dio soltanto come il “Totalmente Altro”, cioè come Colui che è totalmente al di là e al di sopra di ogni possibile rappresentazione umana. Diciamo subito che approcci di questo tipo sono decisamente da respingere: affrontare temi biblici con categorie intellettuali astratte è un modo “umano, troppo umano” di parlare di Dio. Invece del “Totalmente Altro”, si arriva a parlare di “qualcosa d'altro”, non del Dio che ha fatto i cieli e la terra e si rivela nei fatti della storia riportati nella Bibbia.
   L’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Da questo consegue che la maggior parte delle espressioni con cui usiamo parlare di cose importanti del nostro essere umani, come amore, pace, libertà, giustizia e altre ancora, sono a ben vedere dei teomorfismi che esprimono modi di pensare, sentire e agire che appartengono originariamente a Dio e si sono trasferiti a noi nei nostri rapporti tra uomini.
   Si può prendere ad esempio la gelosia, di cui si è parlato sopra. Il sentimento di gelosia che si prova nei rapporti d’amore fra uomini è la trasposizione di un sentimento che prova Dio nel suo rapporto d’amore con gli uomini. La gelosia è un carattere di Dio:

    “Tu non adorerai altro dio, perché l'Eterno, che si chiama: ‘il Geloso’, è un Dio geloso” (Esodo 34:14).
    “Non ti prostrare davanti a tali cose e non le servire, perché io, l'Eterno, il tuo Dio, sono un Dio geloso che punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano” (Esodo 20:15).
    “Pensate che la Scrittura dichiari invano che lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi ci brama fino alla gelosia?” (Giacomo 4:5)

Dunque è del tutto accettabile, in un rapporto rispettoso con la Bibbia, immaginare che dopo il “peccato originale” l’amore di Dio abbia perso un po’ di quella “esuberante gioia” (Proverbi 8:30) che Dio aveva quando la creazione era “in corso d’opera”, e abbia assunto un aspetto di sofferenza in forma di gelosia.
   Ma anche se è gelosia, sempre di amore si tratta. Dunque le decisioni prese da Dio dopo il fattaccio del frutto proibito (Genesi 3:14-24) non vanno intese come punizioni inferte da un giudice inflessibile ai trasgressori, ma come atti d’amore di un Dio che lascia il suo riposo per mettersi a lavorare intorno a un progetto di recupero di quel creato nella cui elaborazione e preparazione aveva infuso tanta sapienza, speranza e amore.
   Tra le decisioni di Dio presentate nel capitolo 3 della Genesi, ne indichiamo due:
      1) La terra fu maledetta;
      2) Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino di Eden.
   La prima decisione indica che la morte corporale di Adamo ed Eva fu provocata dalla maledizione del materiale terreno con cui erano stati costruiti: “… tornerai nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai”.
   Con la seconda decisione il Creatore chiude ogni possibilità di incontro ravvicinato tra Dio e l’uomo: il luogo adibito a questo scopo era stato fissato nel giardino di Eden, ed esso è stato irrevocabilmente sigillato. Si può dire che è come se un marito geloso, dopo aver accertato l’infedeltà della moglie, la cacci di casa e cambi la serratura della porta. Non si entra più. Forse in seguito si potrà ancora comunicare, ma per lettera, o per telefono, o per l’interposizione di un amico, ma sempre e soltanto a distanza.
   Ma Dio è amore. E continua ad amare la sua creatura. Che fare? Dio riprende a pensare e ad agire. E dà il via al suo secondo progetto: quello redentivo. Ed è proprio di questo che parla l’intera Bibbia, dal quarto capitolo della Genesi in poi.
   Essendo frutto dell’amore di Dio, anche il progetto di recupero doveva prevedere uno spazio di libertà dell’uomo. Ma essendo l’uomo una creatura, lo spazio di libertà a lui concessa può aprirsi soltanto in conseguenza di un suo SÌ di risposta alla parola rivoltagli dal Creatore. In momenti opportuni, Dio cercherà sempre qualcuno a cui rivolgere la parola adatta, nel desiderio di ricevere in risposta un SÌ, che a differenza del NO ricevuto da Adamo possa permettere la prosecuzione del programma.
   Cerchiamo allora di seguire il Signore nel suo nuovo e decisivo lavoro d’amore.

Anarchia
  Dopo il peccato di Adamo, si direbbe che il Signore abbia deciso di stare un po’ a vedere come sarebbero andate avanti le cose. Si propone di osservare quello che avrebbero fatto i discendenti di Adamo lasciati a loro stessi. Lascia che Caino uccida il fratello ed emette quella “ordinanza” che tanto piace ai pacifisti: “chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui” (Genesi 4:15). Lascia fare dunque: nessuna regola, ciascuno può agire secondo coscienza, cioè fare quello che vuole. Massima libertà? Così potrebbe pensare qualcuno, dimenticando però che dopo il peccato l’uomo non è affatto libero, ma è sottoposto al dominio di Satana, che ha pieno diritto su di lui dal momento che il primo uomo, da cui tutti gli altri discendono, ha creduto alla sua parola, non a quella di Dio. Così, sotto l’impulso di Satana e dei suoi angeli - che arrivarono perfino ad unirsi in legami carnali con le donne (Genesi 6:1-2) - la terra divenne un tale porcile da costituire, dopo la delusione d’amore di Adamo ed Eva, un altro momento di sofferenza per il Signore:

    “E l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra, e che tutti i disegni del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E l'Eterno disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti” (Genesi 6:5-7).

Dio dunque aveva deciso di distruggere tutto ciò che vive sulla faccia della terra, ma prima di dar corso al suo proposito cercò tra gli uomini qualcuno che, a differenza di Adamo, avrebbe creduto alla sua parola e l’avrebbe messa in pratica. E lo trovò in Noè, che come sta scritto “trovò grazia agli occhi dell’Eterno” (Genesi 6:8), e poté sopravvivere con la sua famiglia all’immane tragedia del diluvio.
   All’uscita della famiglia di Noè dall’arca, avviene un momento bellissimo nella storia del rapporto d’amore tra Dio e l’uomo: un elemento importante per il proseguimento del progetto redentivo. E’ Noè che prende l’iniziativa:

    E Noè costruì un altare all'Eterno; prese di ogni specie di animali puri e di ogni specie di uccelli puri, e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8:20).

Questa costruzione di Noè è in assoluto il primo altare della storia eretto in adorazione a Dio. Non è l’esecuzione di un ordine dall’Alto: è la spontanea decisione di un uomo sopravvissuto al giudizio che in piena libertà esprime a Dio la sua riconoscenza per la salvezza ricevuta. E lo fa eseguendo, su quell’altare improvvisato, alcuni sacrifici che sapeva essere graditi a Dio. E’ un gesto d’amore, che costituisce per Dio il primo momento di quella gioia in mezzo agli uomini che Egli avrebbe voluto provare già nel giardino di Eden:

    “E l'Eterno sentì un odore soave; e l'Eterno disse in cuor suo: “Io non maledirò più la terra a motivo dell'uomo, poiché i disegni del cuore dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8:22-24).

Nella gioia per quel soave odore che gli arriva dal basso, Dio s’impegna in cuor suo a non colpire più la terra come aveva fatto prima, ma a conservarla “a tempo indeterminato”, cioè fino al compimento del suo progetto redentivo, che come ora sappiamo, ha come obiettivo la creazione di “un nuovo cielo e una nuova terra” (Apocalisse 21:1).

Un patto che mette ordine
  Abbandonata l’idea di sbarazzarsi definitivamente della razza umana, Dio si muove ora nella direzione opposta: decide di coinvolgersi personalmente nella storia degli uomini. E stabilisce con Noè il primo patto Dio-uomo della storia dopo la caduta.
   E’ un patto che conserva il creato e limita il male, senza tuttavia estirparlo. In un certo senso, si può dire che è il primo patto di “salvezza per grazia mediante la fede”: la grazia si manifesta nell’offerta di Dio all’uomo di una possibilità di salvare se stesso e il genere umano, e la fede nella decisione di Noè di credere alla promessa di Dio, anche se appariva inverosimile e ridicola ad occhi umani.
   Ma dopo l’esperienza fatta con la concessione all’uomo della massima “libertà”, bisognava porre un limite alla malvagità umana, al fine di difendere la vita stessa della società. Dio allora cambia le regole di comportamento tra gli uomini e il loro rapporto con la natura. La parola “nessuno tocchi Caino", tanto cara ai pacifisti, è sostituita da “il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo” (Genesi 9:6). Da quel momento infatti Dio dà all’uomo l’autorità di usare la forza punitiva anche mettendo a morte il colpevole. Per dirla in termini sintetici e attuali: introdusse la pena di morte. In questo modo si propone di difendere la società strutturata, non l’individuo nei suoi “inalienabili diritti umani”, come diremmo noi oggi.
   All’uomo è ripetuto l’ordine di crescere, moltiplicarsi, spandersi sulla terra e riempirla (Genesi 9:1-7), ma non gli è chiesto di sottometterla. La caduta aveva fatto perdere all’uomo la sua autorità, passata ora nelle mani di Satana, che per questo motivo nella Bibbia è indicato come il principe di questo mondo (Giovanni 12:31).

L’uomo cerca un suo “ordine”
  Dopo il patto con Noè, la popolazione sulla terra riprende a crescere, e a differenza di prima del diluvio, quando regnava anarchia, malvagità e disordine, gli uomini adesso vivono tutti insieme, parlano la stessa lingua e si capiscono. Ma invece di osservare l’ordine di Dio e spandersi sulla terra, si muovono “d’amore e d’accordo” verso oriente. Arrivati nella pianura di Scinear, li coglie la paura di tornare a disperdersi e perdere così quella meravigliosa unità mondiale che avevano raggiunto. E hanno un’idea. Un’idea che fino a quel momento era venuta solo a Caino: costruirsi una città (Genesi 4:17). Ma avrebbe dovuto essere una città speciale, unica, destinata a diventare il centro del mondo, con una torre alta, molto alta, tanto alta da arrivare fino al cielo. E con il cielo a portata di mano, il possesso della terra sarebbe stato garantito: chi mai avrebbe potuto disperderli sulla faccia della terra? Chi avrebbe tolto loro quel suolo e quella meravigliosa, produttiva unità? Le premesse sono più che promettenti. Gli uomini della pianura di Scinear hanno una tecnologia avanzata: usano bitume invece di calcina, mattoni cotti al sole invece di semplici pietre. E in più, non sono dei pelandroni, ma gente attiva, laboriosa, pronta ad impegnarsi.
   "Orsù - si dicono l'un l'altro - edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, affinché non siamo più dispersi sulla faccia di tutta la terra" (Genesi 11:4). Da notare che gli uomini della pianura di Scinear non parlano mai di Dio, neppure per negarlo: ciò che a loro interessa è il progetto, l'opera delle loro mani. Che c’è di male? In fondo, loro vogliono lavorare per un affratellamento degli uomini intorno a un progetto comune. Se c'è un Dio, perché mai dovrebbe avere qualcosa da dire?
   E invece Dio ha qualcosa da dire. Come un solerte operaio si mette anche Lui al lavoro e dice a Sé stesso: "Orsù, scendiamo". E sappiamo come va a finire: gli uomini non si capiscono più fra di loro, smettono di edificare la città e sono costretti a disperdersi sulla faccia della terra, proprio come Dio voleva.
   Rimase però in loro quell’anelito globalista all’unità sociale universale che li aveva mossi all’inizio, e cercarono di soddisfarlo almeno in parte con la fondazione di quelle innovative sottosocietà che costituirono le “nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la propria lingua” (Genesi 10:5).
   Ma di queste sottosocietà nazionali non si trova traccia nel progetto creativo originario di Dio.


- 6 -

Si conclude la parte passiva del piano redentivo
  Passato il diluvio, concluso il patto di Dio con Noè, andato in fumo il tentativo globalista della torre di Babele e iniziata l’era delle nazioni, si conclude la parte “passiva” del piano redentivo di Dio, cioè quella puramente contenitiva del male.
   Ma prima di passare alla parte “attiva”, cioè introduttiva del bene sulla terra, conviene fare alcune osservazioni sull’operato di Dio fino a questo momento.
   Ci sono due azioni con cui Dio evita che l’uomo peggiori la situazione con il suo stolido agire:
   1. Impedisce che l’uomo mangi del frutto dell’albero della vita;
   2. Impedisce che l’uomo riesca a costruire la torre di Babele.
   Nel primo caso Dio impedisce che l’uomo entri in eterno nel regno di Satana e abbia fine il progetto originario della creazione.
   Nel secondo caso impedisce che in una creazione corrotta dal male l’uomo riesca a costituire sulla terra un governo unitario mondiale con cui sperare di ottenere, in splendida autonomia umana, quella “pace nel mondo” che oggi tanto si ricerca. Un simile governo, elaborato in aperta ribellione a Dio che aveva ordinato di disperdersi sulla faccia della terra, sarebbe diventato presto un prezioso strumento di Satana per sottomettersi il mondo. E anche in questo caso il Signore manifesta il suo amore per la creatura e la creazione facendo silenziosamente fallire questo piano. Ma di questo amore gli uomini di allora non si accorsero, come del resto accade anche oggi. L’amore di Dio non è chiassoso.

Il primo peccatore
   Da notare il comportamento di Dio con Caino, che è il primo peccatore al mondo, il primo omicida, il primo seguace di colui che “è stato omicida fin dal principio” (Giovanni 8:44). Nella Bibbia non è detto il motivo esplicito per cui Dio gradì l’offerta di Abele e non quella di Caino (Genesi 4:3-5). Non ci sta bene? Attenzione, perché corriamo il rischio di reagire come Caino, cioè essere irritati contro il Dio della Bibbia. Perché è lì che Dio si rivela. E per avere risposte convincenti dalla Bibbia occorre conoscerla in tutta la sua totalità (approccio olistico); chi ha fretta e non vuole leggere o ascoltare, eviti di chiedere. La Sacra Scrittura è un organismo vivo che non sopporta di essere squartato per estrarne un pezzo da esaminare al microscopio.
   Il peccato di Caino non sta in quello che ha fatto prima del giudizio che Dio ne ha dato, ma in quello che ha fatto dopo. Con la sua irritazione ha fatto capire a Dio di “non essere d’accordo” con Lui. E il Signore è stato molto paziente con questo autentico “figlio degli uomini” - generato per primo da una donna con il seme di un uomo -, e gli ha rivolto buone parole di esortazione e ammonimento. Ma queste hanno finito per aumentare la sua irritazione, al punto che non potendo colpire Dio si è scagliato contro chi ai suoi occhi lo rappresentava: Abele.
   Qui entra in gioco la terra:

    “L’Eterno disse: ‘Che hai fatto? la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra’” (Genesi 4:10).

La terra era stata maledetta, e tuttavia l’uomo poteva ancora trarne il frutto, anche se con affanno (Genesi 3:17), ma il sangue di quell’uomo ucciso grida a Dio e la maledizione che aveva subito la terra raggiunge ora anche l’uccisore, che non riceverà più alcun frutto dalla terra bagnata da quel sangue. Conseguenza:

    Ora tu sarai maledetto, condannato a vagare lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra” (Genesi 4:11-12).

La pena inflitta è davvero pesante.

    “E Caino disse all'Eterno: “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare.  Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo, e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà” (Genesi 4:13-14).

Sì, sarà vagabondo, perché dovrà sempre cercare una terra che gli dia frutto, e “fuggiasco”, perché dovrà continuamente scappare davanti a chi vuole ucciderlo.
   Il Signore ascolta il lamento di Caino e stabilisce una protezione:

    “E l'Eterno gli disse: ‘Perciò, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui’. E l'Eterno mise un segno su Caino, affinché nessuno, trovandolo, l'uccidesse” (Genesi 4:15).

A Caino però il segno di Dio non basta. Non volendo continuare a fuggire davanti agli uomini, riprende a fuggire davanti a Dio. Per non passare tutta la vita da eterno migrante, fa una cosa non prevista dal “piano regolatore” di Dio per il terreno: fonda una città. Sarà tutta sua. Gli darà il nome di suo figlio (Enoc) e ne diventerà il primo cittadino. Non il segno di Dio, ma le mura costruite dai cittadini saranno una difesa contro chi volesse ucciderlo.
   E Dio “abbozza”. Permette al vagabondo e fuggiasco per la terra di diventare l’onorato abitante di una stabile città. Se questo non è amore…

Città e nazioni
  Si può tracciare un parallelo tra Caino e gli uomini della pianura di Scinear.
   Il primo non vuole più essere “vagabondo e fuggiasco per la terra”; i secondi non vogliono diventare dispersi sulla faccia di tutta la terra”.
   Dal primo nasce la città, e di conseguenza si forma una nuova sottosocietà costituita da cittadini; dai secondi nascono le nazioni, costituenti anch’esse delle nuove sottosocietà all’interno dell’universale società di tutti gli uomini.
   In entrambi i casi queste nuove costruzioni sociali, non previste nell’originario piano creativo, nascono come tentativi di umana autonomia rispetto a Dio. E in entrambi i casi Dio non le reprime, ma anzi al momento opportuno le userà come modelli di formazione sociale per costituire, nell’ordine storico da Lui voluto, quelle che saranno la sua nazione e la sua città.
   A questo punto si sarà capito che si tratta di Israele e Gerusalemme. Il progetto redentivo di Dio si va delineando in itinere.

Inizia la parte attiva del piano redentivo
  Prendiamo in considerazione questi due passi biblici:

  1. Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: “Sia la luce!”, e la luce fu (Genesi 1:1-3).
  2. L'Eterno disse ad Abramo: ‘Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò: e io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra’ (Genesi 12:1-3).

Il primo passo sta all’inizio del programma creativo di Dio; il secondo sta all’inizio del programma redentivo di Dio.

Analogie tra i due casi.

  1. Chi muove tutto è Dio
  2. L’azione di Dio riguarda la terra;
  3. La terra esce da una situazione penosa;
  4. L’azione di Dio comincia con un’opera di separazione.

Spiegazione.
     a1) E Dio disse
      a2) L’Eterno disse
Tutto ciò che accade nella realtà dei fatti è effetto di una decisione di Dio che si esprime con una sua parola.
      b1) La terra era informe e vuota.
      b2) In te saranno benedette tutte le famiglie della terra.
In entrambi i programmi l’azione di Dio riguarda ciò che accade sulla terra, sia nella natura, sia nei rapporti umani.
      c1) La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso.
      c2) L’Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra (Genesi 6:5).
All’inizio della creazione la terra era ciò che rimaneva dopo il cataclisma provocato dalla caduta angelica; al momento della chiamata di Abramo la terra abitata subiva le conseguenze fisiche e morali del cataclisma provocato dalla caduta umana, cioè dal peccato di Adamo ed Eva.
      d1) Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4).
      d2) Io farò di te una grande nazione.
Il programma creativo di Dio comincia con successive separazioni; il programma redentivo comincia con il separare dalle nazioni, che sono conseguenza di peccato, una precisa nazione che Egli stesso decide di formare per il compimento del suo programma redentivo.

Tutto comincia con Abramo
   Abbiamo visto che dopo il peccato originale la malvagità degli uomini era talmente aumentata che in un primo tempo al Signore era venuta l’idea di sterminare tutto dalla faccia della terra, uomini e bestie. L’atteggiamento fiducioso di Noè gli fece cambiare idea e stabilì che la terra poteva continuare ad esserci, ma si doveva operare un totale rinnovamento della popolazione. E sappiamo come questo avvenne.
   Però, dopo che la terra ebbe cominciato a ripopolarsi con i discendenti della famiglia di Noè, la situazione morale degli uomini era sì un po’ migliorata, ma non che fosse proprio irreprensibile. Noè e famiglia, che dopo il diluvio apparivano come i progenitori della stirpe umana, potevano dare qualche pensiero a Dio in fatto di moralità… con il capostipite Noè che si ubriaca e si spoglia in mezzo alla tenda, e quei figli e nipoti che non promettevano nulla di buono. Poteva venire un dubbio: e se le cose tornassero allo stato antidiluviano, con gli uomini che si rotolano moralmente nel fango come prima, che si dovrà fare? L’idea di mandare un altro diluvio fu subito scartata dal Signore: l’aveva promesso (Genesi 8:21-22).
   È a questo punto che Dio mette gli occhi su Abramo. Lo chiama, gli dà un ordine, vi aggiunge una promessa, e lui parte. Incredibile: “Partì senza sapere dove andava” (Ebrei 11:8). Ma gli sarà pur stato detto che cosa andava a fare, là dove stava andando, osserverà qualcuno. Qual è il compito affidato ad Abramo per lo svolgimento della sua missione?
   Sul modello dei propugnatori di pace in stile papale, Dio avrebbe potuto fare ad Abramo un discorsetto di questo tipo: Abramo, tra gli uomini c’è molta cattiveria, ma tu hai dimostrato di essere diverso perché hai creduto alla mia parola e mi hai ubbidito.Ti mando allora nel mondo come predicatore di giustizia ed esempio di amore, affinché si possa giungere a quella pace universale a cui tutti gli uomini di buona volontà anelano.
   Oppure, in stile più evangelico, avrebbe potuto dirgli: Abramo, tutti gli uomini sono peccatori davanti a me e anche tu lo sei. Tu però hai creduto alla mia parola e hai ubbidito a quello che ti ho ordinato di fare, quindi io ti perdono e adesso ti mando nel mondo ad invitare tutti gli uomini a credere alla mia parola per ottenere così il perdono, come è avvenuto a te.
   Sono immagini caricaturali di come si potrebbe immaginare uno svolgimento diverso dei fatti, affinché si rifletta seriamente su come invece si sono realmente svolti. Ciò che sorprende allora è che Dio non dà ad Abramo alcun compito. Abramo deve soltanto lasciare i suoi parenti, partire, cominciare a camminare, e aspettare che gli arrivino strada facendo nuove comunicazioni.
   In quei primi tre versetti di Genesi 12 non è detto che cosa Abramo avrebbe dovuto fare dopo la sua partenza, ma soltanto quello che Dio farà. Ad Abramo, che secondo la Bibbia e la tradizione ebraica era una persona ricca e stimata in Caran, dove viveva con tutta la sua famiglia, il Signore fa un’offerta “commerciale” interessante: lascia tutto, luogo e famiglia, segui le mie istruzioni e Io ti darò molto di più.
   Non è importante indagare per ora che cosa in realtà Dio aveva promesso ad Abramo, perché di questo parla tutto il resto della Bibbia. Per ora è importante osservare il tipo di relazione che si stabilisce fra Dio e Abramo con il patto concluso. L’unica clausola che obbliga Abramo suona così:

    Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò.

Nel versetto che segue di Genesi 12:4 si dice:

    E Abramo se ne andò, come l'Eterno gli aveva detto.

Dopo essere partito, Abramo arrivò nel paese che Dio aveva promesso di mostrargli:

    E l'Eterno disse ad Abramo, dopo che Lot si fu separato da lui: “Alza ora i tuoi occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua progenie, per sempre. E farò in modo che la tua progenie sia come la polvere della terra; in modo che, se alcuno può contare la polvere della terra, anche la tua progenie si potrà contare. Alzati, percorri il paese in tutta la sua lunghezza e in tutta la sua larghezza, poiché io te lo darò” (Genesi 13:14-18).

Dunque a questo punto Abramo ha mantenuto tutti gli impegni che si era assunto nel contratto: da questo momento spetta a Dio mantenere i suoi. Cioè: formare la grande nazione, rendere grande il suo nome, benedire lui e renderlo fonte di benedizione.
   Si noti che l'adempimento di questi impegni da parte di Dio non dipende da come si sarebbe comportato Abramo. Non è che Dio gli abbia detto: se sei bravo e ti comporti bene, io ti darò questo e quest’altro. Il Signore si è impegnato, di sua propria volontà, a spargere benedizione fra gli uomini, dunque a introdurre il bene sulla terra, in osservanza a un patto stabilito con un uomo che aveva avuto il solo “merito” davanti a Lui di credere alla Sua parola e di dimostrarlo coi fatti. Se questo non è amore…


- 7 -

Formazione di una nazione speciale
  Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino di Eden, i rapporti ravvicinati tra Dio e gli uomini si sono interrotti, e dopo la sparizione dell’Eden per effetto del diluvio, il mondo, che nell’originario progetto creativo era costituito da habitat, società e santuario, è rimasto senza santuario. La terra è stata maledetta, dunque Dio non può discendere fisicamente in essa senza distruggerla con la sua santità. Da quel momento il Creatore si collega alla creatura mediante rapporti a distanza, rivolgendo la parola ad alcuni uomini o, in certi casi, apparendo a loro in visione. Noè ed Abramo hanno avuto l’immenso privilegio di udire direttamente da Dio una parola che non era soltanto un’assicurazione di immediata salvezza personale dal giudizio, ma, soprattutto nel caso di Abramo, una promessa di redenzione del mondo nel futuro attraverso la formazione di una grande nazione discendente da lui.
   Le solenni parole di Dio: “Io farò di te una grande nazione”, costituiscono l’atto costitutivo della nuova nazione. Invece di un’Assemblea Costituente, come avviene oggi nei paesi cosiddetti democratici, qui agisce un “Dio Costituente”, le cui delibere non possono essere impugnate. In questo modo Dio lega la costituenda grande nazione alla persona di Abramo, a cui è stato chiesto di apporre la sua firma di accettazione ottemperando alla richiesta iniziale: “'Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò” (Genesi 12:1), cosa che Abramo ha eseguito scrupolosamente: “E Abramo se ne andò, come l’Eterno gli aveva detto” (Genesi 12:4).
   A questo punto l’atto giuridico è completo: Dio figura come esecutore: “Io farò…” e Abramo come beneficiario: “… di te”.
   Il beneficiario però non deve aspettarsi che l’esecutore gli prepari da qualche parte una nazione già pronta, con tutto ciò che occorre: terra, popolo, struttura amministrativa, in cui a lavoro finito egli entrerà con tutti gli onori e sarà riconosciuto come primo cittadino. La nazione - avverte il Signore - nascerà personalmente da te, e si svilupperà come risultato del lavoro che Io farò su di te e a partire da te.
   Paragonando la costituenda nazione a un’opera d’arte in terracotta, si può dire che Dio è il modellatore e Abramo l’argilla. La nazione, che pure esiste fin dall’atto costitutivo, prenderà forma attraverso un lungo lavoro di creativa manipolazione da parte di Dio. Si parla di manipolazione, ma il materiale su cui si fa il lavoro è l’uomo, a cui Dio ha riservato fin dall’inizio il margine di libertà che gli compete come creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
   L’artista operante dunque è Dio, e il materiale su cui agisce è un oggetto vivo, desideroso di ascoltare, oppure no, pronto ad ubbidire, oppure no, capace di ringraziare, ma anche di lamentarsi, pronto a rispondere all’amore, ma anche ad essere infedele; e così via in un’altalena di su e giù che metteranno a dura prova l’Artista che s’affatica al suo lavoro. Ma Dio lo sapeva già, e l’ha messo in conto.
   La manipolazione di Dio sulla parte umana dell’opera sarà di due tipi: genetico e storico.

Aspetti genetici e storici nella formazione della nazione
  Se l’intera popolazione umana sopravvissuta al diluvio nasce e si forma come progenie di Noè, il popolo della nazione voluta da Dio nasce e si forma come progenie di Abramo. L’aspetto genetico nell’opera di formazione della speciale nazione abramitica emerge nella storia dall’importanza che hanno sempre avuto in Israele le genealogie. Esse esprimono la precisa volontà di Dio di accrescere numericamente il popolo e interferire nella sua storia attraverso la generazione di uomini, prima ancora che per il susseguirsi di fatti storici.
   Non è forse “manipolazione genetica” quella che Dio opera nel popolo in formazione dando ad ognuno dei tre patriarchi Abramo Isacco e Giacobbe una moglie sterile, per poi farla diventare feconda al momento opportuno? Si prenda ad esempio l’ultima delle tre matriarche:

    Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l'esaudì e la rese fertile; concepì e partorì un figlio, e disse: “Dio ha tolto la mia vergogna”. E lo chiamò Giuseppe, dicendo: “L'Eterno mi aggiunga un altro figlio” (Genesi 30:22-24).

Rachele chiede un figlio, ma è Dio che “si ricorda” di lei e interviene nel suo corpo donandole Giuseppe.
   Questo frutto di manipolazione genetica viene poi usato per operare una grandiosa manipolazione storica nella politica della più grande potenza mondiale del momento:

    “Il Faraone disse a Giuseppe: ‘Vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d'Egitto’. E il Faraone si tolse l'anello di mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino, e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece montare sul suo secondo carro, e davanti a lui si gridava: ’In ginocchio!’. Così Faraone lo costituì su tutto il paese d'Egitto. Poi il Faraone disse a Giuseppe: “Io sono il Faraone! e senza te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto” (Genesi 41:44).

Tutto questo poté avvenire a Giuseppe per il semplice motivo che “L’Eterno era con lui (Genesi 39:3, 23). Stando alla Bibbia, Giuseppe non ebbe mai una visione di Dio, né mai ricevette da Lui una parola. Ebbe soltanto dei sogni e la capacità di interpretarli. Ma l’Eterno era con lui, senza che Giuseppe forse neppure lo avvertisse. Dio dunque era disceso con Giuseppe in Egitto, e attraverso di lui aveva preso il governo della più grande potenza mondiale del momento.
   Non si dica ora che Dio non aveva bisogno di Giuseppe per governare una nazione perché Dio può tutto e comanda su tutti. Certo, Dio può tutto quello che vuole, ma non vuole tutto. Avrebbe potuto far pervenire al Faraone l’ordine di nominare Giuseppe Primo Ministro di Egitto, un po’ come farà in seguito con il “re che non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8), ma non ha voluto agire così. Ha voluto invece che il re della più forte nazione al mondo lo facesse “spontaneamente”, dopo aver visto quello che era capace di fare un rappresentante significativo di una particolarissima nazione che ancora non compariva nella storia, ma che il Creatore dei cieli e della terra stava formando con pazienza e perseveranza.
   Questo è il primo atto di politica internazionale che Dio compie nella storia attraverso la sua nazione in fieri. Ed è una politica vincente.

In marcia verso la nazione
  Avevamo detto che dopo il peccato di Adamo ed Eva Dio ha interrotto il suo riposo e si è rimesso a lavorare. Il primo lavoro che Dio si è impegnato a fare è la costruzione di una grande nazione. Ma come si fa a formare ex novo una nazione? Dopo il costitutivo patto con Abramo, la nazione esiste già de jure, ma nella realtà effettuale una nazione è composta di tre elementi: un proprio popolo, una propria terra, un proprio governo. Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è interamente dedicato a descrivere il procedimento seguito da Dio per generare il popolo della nazione,
   Dopo la stesura del patto di Dio con Abramo, un passo avanti nella formazione della nazione si ha con Giacobbe, che mentre era in viaggio verso Paddan Aram in cerca di moglie fa un’esperienza stranissima:

    Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Caran. Capitò in un certo luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose come suo capezzale e si coricò lì. Fece un sogno: una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. L'Eterno stava al di sopra di essa, e gli disse: “Io sono l'Eterno, l'Iddio di Abraamo tuo padre e l'Iddio di Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a meridione; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie. Ed ecco, io sono con te, e ti guarderò ovunque tu andrai, e ti riporterò in questo paese; poiché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto”. Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”. Allora Giacobbe si alzò la mattina di buon'ora, prese la pietra che aveva posta come suo capezzale, la eresse come pietra commemorativa e vi versò dell'olio sulla cima. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora, il nome della città era Luz. Poi Giacobbe fece un voto, dicendo: “Se Dio è con me, se mi guarda durante questo viaggio che faccio, se mi dà pane da mangiare e vesti per coprirmi, e se ritorno sano e salvo a casa di mio padre, l'Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima” (Genesi 28;10-22)

L’espressione "la sua cima raggiungeva il cielo" ricorda subito quella usata dagli uomini di Scinear che volevano costruire una torre "la cui cima raggiunga il cielo". Indubbiamente la scala apparsa a Giacobbe è la risposta di Dio alla torre di Babele. Non si raggiunge il cielo con una laboriosa e abile opera umana, perché soltanto Dio può stabilire un contatto non distruttivo ma vivificante tra il cielo e la terra.
   Il preannuncio che il Signore ha voluto dare a Giacobbe con questo sogno mette in evidenza che il progetto redentivo di Dio non si conclude con la generazione dei patriarchi, ma si estende fino a un lontano futuro che non arriverà prima di quattrocento anni, come Dio aveva rivelato ad Abramo in una terribile notte (Genesi 15:7-21).
   Come ad Abramo e ad Isacco, Dio annuncia a Giacobbe il suo progetto, che si estende nel futuro a occidente e a oriente e contiene due elementi essenziali: la terra e la progenie. Quanto alla terra, anche a Giacobbe Dio ripete: "Io la darò a te e alla tua progenie"; dunque non solo alla progenie, ma anche a te personalmente, il che esprime in forma indiretta che Giacobbe risusciterà e vedrà il compimento di queste parole.
   Inoltre, la terra su cui si appoggia la scala è indubbiamente terra d'Israele. Si capisce allora il feroce antisionismo di oggi, perché se nel passato gli uomini fallirono nel loro tentativo di innalzarsi verso il cielo con una torre che poggiava sulla terra di Scinear, oggi gli uomini cercano di impedire che il cielo faccia scendere sul mondo la benedizione su una scala che poggia sulla terra d’Israele. Anche Gesù, molti secoli dopo, ha fatto riferimento a un traffico di angeli tra la terra e il cielo: “Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (Giovanni 1:51)
   La progenie di Giacobbe che sarà come la polvere della terra è certamente il popolo etnico d'Israele, dal quale Dio un giorno farà scaturire il "germoglio di giustizia" che costituisce la vera scala che congiunge in modo salvifico il cielo e la terra. Sta scritto infatti:

    “In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese" (Geremia 33:15).
Ma c’è un altro fatto importante in questo racconto:

    “E come Giacobbe si fu svegliato dal suo sonno, disse: ‘Certo, l'Eterno è in questo luogo ed io non lo sapevo!' Ed ebbe paura, e disse: 'Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!’” (Genesi 28:16-17).

Per la prima volta nella Bibbia compare qui l’espressione casa di Dio, che in seguito si userà per indicare il tabernacolo prima e il tempio poi. In quel luogo dunque è stato presente per breve tempo il santuario di Dio. Che è stato anche la porta del cielo, cioè il passaggio attraverso cui gli uomini possono avvicinarsi a Dio e rimanere in sua presenza.
   Nulla di questo è entrato in funzione nell’esperienza di Giacobbe, ma Dio in quell’occasione ha voluto rivelare qualcosa di Se stesso e del suo piano al suo servitore, il quale naturalmente è stato preso da paura, perché l’uomo peccatore non può avvertire la vicinanza di Dio senza provare spavento, come è avvenuto fin dall’inizio ad Adamo.
   Nel viaggio di ritorno da Paddan Aram, sulle rive dello Iabbok, Giacobbe ha una lotta notturna con "un uomo" .

    Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all'apparire dell'alba. E quando quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la giuntura dell'anca; e la giuntura dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. L'uomo disse: “Lasciami andare, perché spunta l'alba”. E Giacobbe: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!”. E l'altro gli disse: “Qual è il tuo nome?”, egli rispose: “Giacobbe”. E quello disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto”. Giacobbe allora gli disse: “Ti prego, palesami il tuo nome”. E quello rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse lì. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole sorgeva appena egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall'anca. Per questo, fino a oggi, gli Israeliti non mangiano il nervo della coscia che passa per la giuntura dell'anca, perché quell'uomo aveva toccato la giuntura dell'anca di Giacobbe, al punto del nervo della coscia (Genesi 32:24-32).

Alla fine dello scontro Giacobbe dice: "Ho visto Dio faccia a faccia". Questo è un altro passo avanti nei rapporti fra il Creatore e la creatura: non c’è qui soltanto comunicazione verbale, o apparizione, o vicinanza di luogo come a Betel, ma visione faccia a faccia e contatto fisico, sia pure in forma temporanea e altamente enigmatica.
   Perché questa lotta? Sembrerebbe che a cominciare lo scontro sia stato l’uomo sconosciuto, e che Giacobbe abbia cercato in un primo momento di difendersi come da un’aggressione. Ma poi comincia ad avere il sopravvento, e allora l’uomo cerca di sfuggire alla presa e mostra di voler scappare. A questo punto Giacobbe capisce che contro di lui è Dio stesso che combatte, e allora con tutte le sue forze cerca di impedire che l’uomo riesca a divincolarsi e scappare. Vuol essere benedetto, perché avverte che senza quella benedizione per lui sarebbe la fine. La benedizione che aveva strappato al fratello con il traffico commerciale, adesso vuole ottenerla con la forza. E ci riesce. L’uomo misterioso capisce di star soccombendo in quel tipo di lotta con Giacobbe e allora manifesta la sua forza assestandogli un colpo speciale sulla commessura dell'anca, e manifesta la sua autorità cambiandogli il nome. E per la prima volta nella Bibbia compare qui il nome "Israele", applicato prima al patriarca Giacobbe e poi esteso a tutta la nazione da lui discesa.


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Gli strani racconti del libro della Genesi
   Poi Giuseppe morì, in età di centodieci anni; e fu imbalsamato
   e posto in una bara in Egitto
(Genesi 50:26).
Con queste parole termina il primo libro della Bibbia. Essendo posto all’inizio di quella che ebrei e cristiani considerano rivelazione di Dio, è lecito chiedersi dov’è la sua importanza. Se si esclude che sia pura favola, oppure semplice “mito fondativo”, come anche molti ebrei credono, e si ritiene invece che sia resoconto di fatti realmente avvenuti e riportati in modo adatto sotto il controllo di Dio stesso, qualcuno si potrebbe chiedere qual è l’interesse di venire a conoscere i complicati rapporti e gli strani avvenimenti di una tribù familiare di beduini mediorientali di millenni fa. Un ebreo non vi trova agganci diretti con precise indicazioni della Torà; un cristiano non vi trova particolari spunti esortativi per la sua vita spirituale. Al contrario, oltre alla stranezza dei costumi usuali di quel tempo, con quelle intricate vicende di poligamia e concubinaggio che mettono in imbarazzo i lettori di oggi, anche in fatto di moralità universalmente accettata non si può proprio dire che i personaggi di quella storia avessero un comportamento esemplare.
   Partiamo dal capostipite Abramo. Dopo aver ricevuto direttamente da Dio una solenne investitura, con la promessa di fare di lui una grande nazione, e di rendere grande il suo nome, e di benedirlo, e di farlo essere fonte di benedizione per tutte le famiglie della terra, ci saremmo aspettati da lui un inizio di carriera che desse un segnale di nobiltà e grandezza d’animo. Abramo invece si comporta da normalissimo uomo di buon senso pratico.
   In Canaan arriva la carestia, e se continua così - pensa Abramo - si rischia di morire di fame. Da uomo pratico cerca una soluzione e la trova: trasloca in Egitto per soggiornarvi (Genesi 12:10), dunque per rimanerci in forma stabile. Ma non aveva detto il Signore che a lui e alla sua progenie avrebbe dato il paese di Canaan? Dunque era Canaan la terra che gli era stata promessa, non l’Egitto. Abramo certamente lo sapeva, ma in mancanza di precise indicazioni in merito, prende la decisione che gli sembra in quel momento più adatta ai suoi interessi familiari: va dove si può non morire di fame. Abramo aveva già costruito due altari in onore dell’Eterno : uno a Sichem e uno a Betel, ma bisogna pur vivere. E in Egitto si sopravvive, in Canaan invece no.
   Abramo dunque scende in Egitto. Una volta arrivati, si rende conto che per sopravvivere non basta non morire di fame, bisogna anche non morire uccisi. Ed è quello che potrebbe capitargli a causa della moglie Sarai, che è straordinariamente bella. Gli abitanti del luogo se ne sarebbero certamente accorti, e allora, per impadronirsene, il modo più semplice per loro poteva essere, secondo i costumi del luogo, quello di uccidere il marito. Cioè lui, Abramo. Decide allora di far dire alla moglie che lui è suo fratello, dunque di sua proprietà, sotto la sua custodia; in questo modo gli eventuali pretendenti della “sorella” avrebbero dovuto contrattare con lui il prezzo della cessione. La trattativa avrebbe potuto essere tirata in lungo, a tempo indefinito, cercando nel frattempo una soluzione.
   Per sua sventura però accade che su Sarai mettono gli occhi anche i notabili del Faraone, probabilmente attraverso uomini sguinzagliati alla ricerca di belle donne da aggiungere all’harem. E con le autorità non si contratta: bisogna ubbidire e basta. Abramo deve cedere Sarai al Faraone, che è talmente contento di questa new entry nel suo harem da ricolmare Abramo di “pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli” (Genesi 12:15-16).
   A questo punto bisogna spostare l’attenzione su Dio. Abramo si era messo nei guai, costringendo così il Signore a entrare direttamente in scena. Il suo intervento non è pedagogicamente rivolto ad Abramo, ma politicamente rivolto al Faraone: gli fa capire che Sarai è la moglie di Abramo con un metodo efficace: lo colpisce con una tale quantità di piaghe da convincerlo a restituire subito Sarai al marito. Dopo di che, come per liberarsi di uno scomodo intruso, il Faraone spinge Abramo fuori dall’Egitto, lasciandogli anche tutti i beni che gli aveva donato in cambio di Sarai. Così Abramo, che era venuto in Egitto per soggiornarvi, è “ripescato” dal Signore e riportato “in patria” insieme a sua moglie.
   La cosa si ripete, in forma moralmente ancora più grave, con Abimelec, re di Gherar (Genesi 20: 1-18). Questa volta è lo stesso Abraamo (nuovo nome datogli da Dio) a mentire dicendo a tutti che Sara (nuovo nome datole da Dio) è sua sorella. Così quando il re manda a prenderla, Dio deve immediatamente intervenire. E lo fa con decisione: rende sterili tutte le donne della casa di Abimelec e costringe il re sotto minaccia a restituire Sara ad Abraamo “perché è profeta”, dice il Signore. E poiché è profeta, sarà proprio Abraamo, il mentitore, a ricevere l’incarico di pregare Dio per la guarigione della casa reale.
   Quale generico insegnamento morale si potrebbe trarre da episodi come questi? Si potrebbe trarne forse l’esortazione a non dire bugie, e sottolineare che ci possono essere conseguenze sgradevoli. Ma Abraamo, che è l’uomo scelto da Dio per benedire le genti, non avrebbe dovuto essere lui a dire a tutti, e in modo particolare alle autorità di governo, che non si deve mentire? Avviene invece il contrario: è il re pagano che chiama da parte il profeta e gli fa una bella ramanzina:

    “Poi Abimelec chiamò Abraamo e gli disse: “Che ci hai fatto? E in cosa ti ho io offeso, che tu abbia fatto venire su di me e sul mio regno un peccato così grande? Tu mi hai fatto cose che non si devono fare. Poi Abimelec disse ancora ad Abraamo: “A che miravi, facendo questo?” (Genesi 20:9-10).

“Tu mi hai fatto cose che non si devono fare”, dice il re pagano, mostrando così di avere una concezione morale dei rapporti tra uomini più alta di quella di Abraamo. Quasi umoristica appare la risposta:

    “E Abraamo rispose: “L'ho fatto, perché dicevo fra me: 'Certo, in questo luogo non c'è timore di Dio; e mi uccideranno a causa di mia moglie'“ (Genesi 20:11).

Si può immaginare il commento derisorio di qualcuno: il prescelto da Dio riceve una lezione di morale da chi era considerato privo di timor di Dio. Ma la cosa più sconcertante è proprio l’atteggiamento di Dio, che non punisce il mentitore, ma anzi lo innalza agli occhi di chi crede alla sua menzogna, il quale viene punito per averci creduto e averne voluto trarre un “onesto” vantaggio personale.
   Ho detto “sconcertante”, ma appare così soltanto a chi cerca nella totalità del testo biblico quello che non c’è e non sa vedere quello che c’è.

Quello che non c’è
   Nel libro della Genesi manca del tutto la componente dell’istruzione morale, sia per i personaggi dei racconti, sia per i lettori del testo. In termini colti, è assente la categoria teologica della legge, sia in senso ebraico, sia in senso cristiano. Non c’è un Dio che parla affinché gli uomini ubbidiscano; c’è un Dio che parla agli uomini affinché dei fatti avvengano. E in questi fatti sono coinvolti uomini normali che vivono nel loro stato di umana carnalità, ma che Dio non rimprovera, né minaccia, né tanto meno punisce. Dio li ha scelti come strumenti per il suo servizio, e sapeva bene di che pasta sono fatti. E l’ha messo in conto. Sta proprio in questo l’abilità bellica del Signore: portare avanti un’azione di recupero del creato servendosi di uomini che sono ancora sotto il dominio del Nemico, ma ai quali Egli fa arrivare la sua parola con l’indicazione delle mosse da fare per portare avanti la guerra. Appare in visione o rivolge la parola ai patriarchi e a Mosè, ma sono istruzioni di lavoro per il proseguimento dell’opera, non ordinamenti sociali o precetti morali di comportamento personale: da questi capitoli infatti non si potrebbe trarre nessuna universale regola di condotta valida per tutti i tempi e tutti gli uomini. Gli ebrei direbbero che questa non è halachah (normativa religiosa), ma pura haggadah (racconto).
   Vana sarebbe dunque la ricerca di esempi halachici, o spiritualmente edificanti, in senso sia positivo che negativo. I personaggi che compaiono nei coloriti racconti del libro sfuggono all’inquadramento in precise categorie morali. Accade così che spesso personaggi storicamente trasmessi come “buoni” risultano a chi legge meno simpatici di quelli cattivi, come nel caso di Giacobbe rispetto a Esaù, che appare essere un tipo gagliardo, esperto nella caccia, buona forchetta e anche generoso, non vendicativo: dunque certamente più simpatico di Giacobbe sul piano umano. E’ imbarazzante, per esempio, la scena della riconciliazione tra i due fratelli (Genesi 32:1-21): Giacobbe vi fa una pessima figura.
   Anche nel racconto di Abele e Caino, non è facile mettersi subito dalla parte del personaggio “buono”. Viene in mente un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, in cui un popolano della Roma ottocentesca esprime comprensione per il povero Caino:

    Nun difenno Caino io, sor dottore,
    ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino:
    dico pe ddí che cquarche vvorta er vino
    pò accecà l’omo e sbarattajje er core.

    Capisch’io puro che agguantà un tortore
    e accoppacce un fratello piccinino,
    pare una bbonagrazia da bburrino,
    un carciofarzo de cattiv’odore.

    Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
    e a le su’ rape je sputava addosso,
    e nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,

    a un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
    aveva assai da inacidijje er fiele:
    e allora, amico mio, tajja ch’è rosso.

Qualcuno dirà forse che bisogna stare attenti a presentare le cose in questo modo, perché si rischia di mettere Dio in cattiva luce. Ma questo avviene proprio quando cerchiamo di capire Dio illuminandolo con la nostra lampada, invece di essere noi a porci sotto la luce della lampada di Dio, così come essa si presenta letteralmente nella totalità della Sacra Scrittura.

Quello che c’è
  Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è il racconto di come Dio inizia ad adempiere la promessa fatta ad Abraamo: “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione”. Detto in altro modo, e attenendoci alle sole parole del testo, è la descrizione del procedimento seguito da Dio per generare la progenie di Abraamo con cui inizierà a formare il popolo della nazione attraverso cui avrebbe benedetto tutte le famiglie della terra.
   Alcuni passaggi possono confermare questa lettura.

    “L’Eterno disse: “Nasconderò io ad Abraamo quello che sto per fare, dato che Abraamo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?” (Genesi 18:17).

Davanti al dubbio se distruggere o no le città corrotte di Sodoma e Gomorra, il Signore si ricorda del suo impegno a far diventare Abraamo una nazione, ed è da questo che fa dipendere la sua scelta operativa di quel momento.

    Dio apparve ancora a Giacobbe, quando questi veniva da Paddan-Aram; e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe; tu non sarai più chiamato Giacobbe, ma il tuo nome sarà Israele”. E lo chiamò Israele. Poi Dio gli disse: “Io sono l'Iddio Onnipotente; sii fertile e moltiplicati; una nazione, anzi una moltitudine di nazioni discenderà da te, e dei re usciranno dai tuoi lombi;  e darò a te e alla tua progenie dopo di te il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco” (Genesi 35:9-12).

A Giacobbe, progenie di Abraamo, Dio conferma che da lui discenderà una nazione e, inoltre, una moltitudine di nazioni, dunque con una distinzione tra i due casi. Quell’una nazione è quella che poi prenderà il nome di Israele. E’ per questa nazione che Dio rivolge a Giacobbe l’invito: sii fertile e moltiplicati, che ha la stessa forma dell’invito fatto a Noè: “Crescete, moltiplicatevi, e riempite la terra” (Genesi 9:1). In questo caso, invece della terra c’è da “riempire” il popolo che dovrà formarsi.
   Dio inoltre conferma che a quella nazione darà “il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco”, cioè la terra su cui si trova ora Giacobbe quando Dio gli appare.
   Molto più avanti negli anni, Dio appare un’altra volta a Giacobbe:

    Dio parlò a Israele in visioni notturne, e disse: “Giacobbe, Giacobbe!”. Ed egli rispose: “Eccomi!”. E Dio disse: “Io sono Dio, l'Iddio di tuo padre; non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione.  Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi” (Genesi 46:2-3).

Contrariamente a quella volta in cui Dio aveva “ripescato” Abraamo, che per paura di morire di fame in Canaan si era trasferito in Egitto, questa volta è Dio stesso che invita Giacobbe a scendere in Egitto, promettendogli che là lo avrebbe fatto diventare una grande nazione.
   Ma per formare una nazione ci vuole un popolo, e la famiglia allargata di Abraamo non è un popolo. Che fare? È un problema. Ma è un problema di Dio. E’ Lui che aveva detto ad Abraamo: farò di te una grande nazione”, dunque è Lui che deve darsi da fare. E avendo detto di te, con questo s'intendeva che la nazione sarebbe cresciuta geneticamente come progenie di Abraamo. Nel libro della Genesi si vede infatti come questa progenie si allarga gradualmente fino a diventare una tribù familiare.
   Ma lo sviluppo della progenie in questa forma per generazioni e generazioni avrebbe inevitabilmente portato a una totale dispersione nel mondo della discendenza di Abraamo, senza poter più recuperare l’originaria unità, e quindi senza poter formare una nazione.
   Ecco allora la soluzione: la progenie di Abraamo crescerà e si manterrà unita nel grembo della più potente nazione del mondo di quel tempo: l’Egitto. E’ lì infatti che i 70 componenti della tribù familiare di Abraamo di quel momento scendono (Genesi 46:27) e si moltiplicano, per arrivare a trasformarsi, nell’arco di quattrocento anni (!), nel popolo di una nuova nazione.
   Ripercorrendo allora i passaggi temporali, si vede Dio che scende di persona in Egitto, prima con Giuseppe (Genesi 39:3, 21), poi con Giacobbe (Genesi 46:2-3), per curare “da vicino” lo svolgimento del programma di formazione della nazione. Questo prevedeva non soltanto la sopravvivenza della famiglia di Abraamo, ma anche la sua crescita fino a diventare un “popolo numeroso”. Questo può essere confermato dalle parole con cui Giuseppe rassicura i fratelli che temono la sua vendetta dopo la morte di Giacobbe:

    “E Giuseppe disse loro: 'Non temete; poiché sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me; ma Dio ha pensato di convertirlo in bene, per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso'” (Genesi 46:3-4).

Sapendo come poi sono proseguite le cose, non si può che ammirare la sapienza di Dio, che ha usato prima un Faraone per accogliere la famiglia di Abraamo e farla crescere in Egitto fino a farla diventare un popolo; e ha usato poi un altro Faraone per costringerlo a far uscire quel popolo, affinché andasse formare una vera nazione, con la sua propria terra: la terra di Canaan, come Dio aveva promesso ad Abraamo.
   Del resto, Dio l’aveva detto chiaramente a Giacobbe: “Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire”. Cosa che Giacobbe ha personalmente sperimentato, anche se soltanto da morto. Ma nella risalita dall’Egitto del corpo di Giacobbe è preannunciata la risalita della nazione di Israele dall’Egitto in direzione di Canaan.

(continua)   

(Notizie su Israele, maggio-luglio 2025)

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