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Provocare a gelosia gli ebrei con una nazione senza intelligenza

di Johannes Gerloff

Johannes Gerloff
SCHEDA SULL'AUTORE - Johannes Gerloff vive e lavora a Gerusalemme come corrispondente del "Christlicher Medienverbund KEP", un'associazione evangelica tedesca di giornalisti, pubblicisti ed editori che intende far sentire la voce dei cristiani evangelici nella stampa e nel mondo dei media. Oltre ad essere giornalista, Gerloff ha una solida preparazione biblica che ha ottenuto studiando teologia a Tübingen, Vancouver e Praga. Da oltre vent'anni vive a Gerusalemme con la sua famiglia, composta da moglie e cinque figli, avvicinandosi in questo agli ebrei ortodossi con cui ha delle buone e fruttifere relazioni. Invia regolarmente notizie e riflessioni su Israele al sito in lingua tedesca israelnetz.com e torna frequentemente in Europa per tenere seminari e conferenze.
"Notizie su Israele" ha tradotto diversi articoli suoi e di sua moglie Krista. Ne segnaliamo in particolare due: uno su "Ebraismo e cristianesimo in Israele" e un altro sulla visita del Papa a Gerusalemme nel 2009, "Mea Shearim, i suoi falò e la visita di Papa Benedetto XVI".
Il presente articolo è tratto, con esplicito e amichevole consenso dell'autore, dal libro "Verflucht und von Christus getrennt" (Maledetto e separato da Cristo), un originale e profondo commentario ai capitoli 9-11 della lettera dell'apostolo Paolo ai Romani. M.C.


    Io dico dunque: Hanno essi così inciampato da cadere? Così non sia; ma per la loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili per provocare loro a gelosia (Romani 11:11).
Provocare Israele a gelosia è un compito di tutta la chiesa di Gesù. Non ci sono cristiani che non siano chiamati, che siano stati esonerati dal compito di rendere geloso il popolo ebraico. Stimolare Israele all'emulazione è l'incarico fondamentale della chiesa di Gesù verso Israele.
   Naturalmente ci si può chiedere che cosa significhi in concreto rendere geloso Israele. A questo riguardo Paolo non entra in maggiori particolari: si limita a dichiarare che questa è la funzione della chiesa cristiana gentile di Gesù. Stando al nostro testo dunque, non sono importanti i mezzi, ma il risultato.
   Voglio tuttavia dare qui qualche spunto di riflessione.


Essere autentici
    Allora dico: forse Israele non ha compreso? Mosè per primo dice: «Io vi renderò gelosi di un popolo che non è popolo; provocherò il vostro sdegno con una nazione senza intelligenza» (Romani 10:19).
Si può diventare gelosi soltanto di qualcosa che un altro veramente è, non di ciò che vorrebbe essere. Per questo è fondamentale essere «autentici». Simulare false realtà o desideri di sogno nel migliore dei casi fa soltanto ridere chi osserva. Presupposto decisivo per una testimonianza credibile a Israele è che la «confessione» sia veritiera, cioè che etichetta e contenuto, fede e vita concordino.
   Questo significa innanzitutto che dobbiamo riconoscere di essere, come Paolo afferma in questo passo, un «non-popolo», una «nazione senza intelligenza». Certo, il muro di separazione è stato rotto e noi siamo stati «avvicinati», per quanto riguarda l'«accesso al Padre» (Efesini 2:11-22); ma per quanto riguarda il nostro incarico verso Israele siamo un «non-popolo». Certo, per quel che riguarda la nostra relazione con il Dio vivente, Egli attraverso il suo Spirito ci ha rivelato «cose che occhio non vide, che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell'uomo» (1 Corinzi 2:9-10); ma per quel che riguarda la nostra relazione con Israele siamo una «nazione senza intelligenza».
   Se neghiamo questo, togliamo al Padre celeste la possibilità di parlare al suo popolo con il nostro essere. Se cerchiamo di mostrare a Israele quanto siamo intelligenti, ragionevoli e saggi, gli togliamo la possibilità di meravigliarsi del fatto che Dio si è manifestato a quelli che non chiedevano di Lui. Se con capriole teologiche cerchiamo di dimostrare che siamo noi «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la gente santa, il popolo acquistato» (1 Pietro 2:9), togliamo a Israele la chance di diventare geloso per «la ricchezza della gloria di questo mistero fra i Gentili, cioè Cristo in voi, speranza di gloria» (Colossesi 1:27).
   «Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei...» (Matteo 5:20). Non per niente Gesù ha fatto di queste parole una prova decisiva di salvezza per i suoi discepoli. Gesù non vuole che abbiamo più ragione, ma più giustizia; non un miglior sapere, ma un miglior essere.
   Come ammonimento per noi che ci chiamiamo cristiani, Dio ha dato in mano al suo popolo un infallibile metro con cui valutare tutti coloro che si avvicinano a Israele con una pretesa profetica. Per due volte sottolinea che i veri messaggeri sono riconoscibili non dalla loro dottrina, ma «dai loro frutti li riconoscerete!», per poi continuare con grande serietà: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7:15-23).
   Gli Israeliti hanno l'adozione (Romani 9:4). E hanno un fiuto molto fine per quello che proviene veramente dal Padre. Ogni «tattica missionaria», ogni «evangelizzazione amichevole», ogni girare al largo attraverso il lavoro sociale o il servizio d'amore è fuori luogo per il popolo ebraico. Dobbiamo giocare a carte scoperte: dire quello che ci muove e quello che pensiamo. Non abbiamo niente da nascondere. Perché nel rapporto col popolo ebraico non si richiede specialistica competenza, ma autentica umiltà, non brillantezza intellettuale, ma purezza di cuore. Non è decisivo quanto sembriamo essere teologicamente fondati o biblicamente preparati, ma quello che nel Messia Yeshua veramente siamo.


Confessare la colpa

«Ricòrdati di quello che ti fece Amalek durante il viaggio, quando uscisti dall'Egitto.... cancellerai la memoria di Amalek sotto al cielo: non te ne scordare!» (Deuteronomio 25:17,19).

Non è facile per un tedesco aver a che fare con ebrei. E' «tipicamente tedesco» il comportamento di quei tedeschi in Israele che si rallegrano di non essere «tipici tedeschi». E' «tipicamente cristiano» prendere le distanze dalla colpa del cristianesimo verso il popolo ebraico. Se gli americani e gli olandesi sottolineano che sono i tedeschi ad avere la maggior colpa nei riguardi degli ebrei, i tedeschi a loro volta sottolineano che non bisogna mettere nello stesso calderone «tedeschi» e «nazisti».
   Secondo i «cristiani nati di nuovo» i rappresentanti cristiani dell'antisemitismo erano soltanto «cristiani nominali». I protestanti sottolineano che i crociati e gli inquisitori erano «cattolici». E il capo della chiesa cattolica nella sua visita in Israele si limita a confessare soltanto la colpa di alcuni membri della sua chiesa verso il popolo ebraico. Quelli che accusano il popolo ebraico di non avere riconosciuto il peccato, dimostrano di essere maestri nell'arte di tirarsi fuori dalla responsabilità che nasce dai loro peccati e dalla loro colpa.
   Fa parte dell'«essere autentici» riconoscere da dove si proviene e ciò a cui si appartiene. Rimaniamo non credibili fintanto che cerchiamo di sfuggire alla realtà del fatto che in nessun altro nome sono arrivate al popolo ebraico tante sciagure come nel nome di Gesù di Nazaret. Se oggi gli ebrei guardano indietro a duemila anni di relazioni cristiano-ebraiche, non è illogico concludere che la «Germania» è «Amalek», cioè il popolo che ha investito tutta la sua energia e la sua esistenza per sterminare spiritualmente e fisicamente il popolo ebraico.
   Haman, un discendente dell'ultimo re Amalekita Agag, dal libro di Ester, sembra essere fin troppo chiaramente un prototipo di Adolf Hitler. L'ex Rabbino Capo del Regno Britannico, Joseph Hertz, nel suo commentario al libro dell'Esodo ha scritto: «Amalek è sparito, ma il suo spirito aleggia ancora sulla terra». Già l'indovino pagano Balaam sapeva dire di Amalek che da una parte è «la prima delle nazioni» e che dall'altra «il suo avvenire va in rovina» (Numeri 4:20).
   Per i miei amici ortodossi non è facile accettare il fatto che sono tedesco e cristiano. Viviamo insieme in Israele, parliamo ebraico tra di noi, i nostri figli crescono insieme e vanno nella stessa scuola. Ci capiamo bene. Lavoriamo insieme, e qualche volta con lo stesso obiettivo. Per questo qualcuno cerca nel mio passato la «nonna ebrea»; qualcun altro pensa di vedermi presto tra i convertiti e di accogliermi come parte del popolo ebraico. Un'amicizia stretta con un «autentico tedesco» e un «cristiano confessante» sembra impensabile. Duemila anni di cristianesimo avrebbero dimostrato che Gesù non può essere il Messia d'Israele. Ma proprio qui si trovano, strettamente vicine l'una all'altra, la sfida e la chance.
   «Tu sei dei nostri», mi sussurra sbrigativamente la moglie di un rabbino quando le esprimo il mio ringraziamento per essere così amorevolmente accolto da loro, nonostante sia un «discendente di Amalek». Da bambina, alla frontiera svizzera era stata attaccata da cani tedeschi. Suo marito ritiene che il mio «certificato di arianità» sia tutt'altro che affidabile.
   Per me però non si tratta di albero genealogico, ma del Dio d'Israele. Certo, sarebbe un miracolo se la mia discendenza ebraica fosse stata sepolta dalle vicende della storia e il Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe fosse rimasto fedele alla sua elezione. Ma non è forse un miracolo ancora più grande il fatto che il Padre celeste d'Israele abbia saputo talmente modificare un «discendente di Amalek» da far sì che degli ebrei dicano: «Tu sei dei nostri!»?
   Cominciamo a riflettere. E allora scopriamo che il Talmud babilonese (Trattato Sanhedrin 96b) già migliaia di anni fa aveva detto che «i discendenti di Haman studieranno la Torah a Bnei Brak». Nonostante le proteste degli angeli - così raccontano i rabbini - «il Santo, sia Egli benedetto, ha trovato una via per condurre perfino dei discendenti di questo uomo malvagio sotto le ali della Shekinah».
   La sera prima del Giorno della Memoria dell'Olocausto ricevo una telefonata dall'insegnante di classe del mio figlio più grande. Il giorno dopo lei dovrà raccontare ai suoi alunni quello che i tedeschi hanno fatto al suo popolo mezzo secolo fa. Ma tra i suoi scolari si trova anche un ragazzo tedesco a cui lei vuole molto bene. «Ma come farete a liberarvi di questo passato?» mi chiede sconsolata.
   Devo confessarle che non ci sono ancora riuscito, e che neppure so in che modo potrò riuscirci. E tuttavia ho la libertà di guardare in faccia il mio passato e portare anche i miei figli sotto questo peso. Perché? Perché duemila anni fa un «Rabbi» ebreo ha preso su di sé non solo la mia colpa personale, ma anche quella di Amalek.
   Se fossi sfuggito non sarei mai arrivato a questa conclusione. Se avessi potuto tracciare un rigo di cancellazione sopra le penose vicende della recente storia della Germania, non avrei mai potuto vedere la luce del perdono. Dobbiamo inoltrarci fino in fondo nel vicolo cieco della questione dell'Olocausto, patire anche noi l'ineluttabilità di questa esperienza ancor oggi così bruciante per il popolo ebraico. Ogni precipitoso «sì, però», ogni teologica spiegazione della colpa della cristianità rende la grazia a buon mercato.
   Qui diventa improvvisamente chiaro quanto siano lontane le nostre discussioni sulla colpa collettiva dall'atteggiamento di un Mosè, di un Geremia, di un Paolo e di un Gesù. Il cuore di Geremia certamente non aveva alcuna colpa nella dimenticanza di Dio del suo popolo, e tuttavia non prende freddamente le distanze. In nessun modo il profeta giustifica sé stesso, ma davanti a Dio confessa: «O Eterno, se le nostre iniquità testimoniano contro di noi, opera per amore del tuo nome; poiché le nostre infedeltà sono molte; noi abbiamo peccato contro di te» (Geremia 14:7).

(Notizie su Israele, 28 marzo 2012 - trad. www.ilvangelo-israele.it)