“O Israele, se tu torni”, dice l'Eterno, “se tu torni a me, e se togli dalla mia presenza le tue abominazioni, se non vai più vagando qua e là e giuri per l'Eterno che vive, con verità, con rettitudine e con giustizia, allora le nazioni saranno benedette in lui e in lui si glorieranno”.
Geremia 3:1-2

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Predicazioni
Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Tira una brutta aria

di Niram Ferretti

L’annunciata prossima visita in Israele di Joe Biden, dopo che inizialmente Washington aveva dichiarato che non era in agenda, è un segnale, che insieme ad altri, induce a pensare che quello che potrebbe essere l’esito del conflitto aperto da Hamas contro Israele con l’eccidio, sabato 7 ottobre di 1400 cittadini israeliani, vada nella direzione di una possibile sconfitta dello Stato ebraico.
   Hamas, e va detto senza indugi, ha conseguito un successo militare rilevante. Ai propri occhi, e agli occhi dei nemici giurati di Israele, in primis l’Iran, l’eccidio perpetrato in Israele nel corso di poche ore ha consegnato al mondo l’immagine di uno Stato impreparato e debole, incrinando quell’immagine di potenza e capacità di deterrenza che sono da sempre suoi costitutivi.
   A seguito di quanto è accaduto, Israele ha iniziato a rispondere come d’abitudine e con una forza maggiore del solito, bombardando le postazioni militari di Hamas a Gaza, prassi in corso dal 2008. La novità è l’annuncio di una invasione di terra finalizzata a eliminare definitivamente Hamas dalla Striscia, corredata da dichiarazioni perentorie e bellicose.
   Tuttavia il tempo passa, e nonostante l’annuncio e il richiamo di 300,000 riservisti, e l’assedio di Gaza, per il momento, ad eccezione di un raid all’interno della Striscia, avvenuto pochi giorni fa, l’annunciata operazione militare di terra non ha ancora avuto luogo.
   La più ovvia delle considerazioni sotto il profilo militare è che essa vada preparata con estrema cura, soprattutto in vista di un terreno estremamente insidioso e sul quale, inevitabilmente, il nemico gode dell’ovvio vantaggio di conoscerlo alla perfezione. Ad essa si affianca la necessità di consentire al più alto numero possibile di civili di spostarsi da nord a sud. Inizialmente Israele aveva dato un preavviso di 24 ore, poi prolungato e che, ancora adesso, si sta ulteriormente prolungando.
   Nel mentre, intorno al conflitto in corso si sta agitando la diplomazia, con all’avanguardia quella americana, e proprio in merito ad essa inizia a prendere corpo uno scenario che, se si configurasse con chiarezza metterebbe Israele nella condizione di non vincere la guerra ma di uscirne da perdente, indebolendo ancora ulteriormente la propria immagine in Medio Oriente, con conseguenze devastanti.
   Ufficialmente l’amministrazione Biden appoggia Israele nella sua volontà di distruggere Hamas, ma già ieri, Biden ha espresso la sua contrarietà a che Israele possa occupare ancora Gaza. Di fatto, apparentemente semaforo verde per l’invasione, rosso per l’occupazione. La contraddizione mette in luce, in filigrana la realtà. Gli Stati Uniti, nonostante la solidarietà espressa per le vittime di Hamas, sono contrari all’invasione terrestre e preferirebbero un’altra soluzione, quale? Presto detto, che Israele possa giungere a un negoziato con Hamas, e che tipo di negoziato potrebbe essere con i carnefici che hanno perpetrato il maggior numero di morti di ebrei dalla fine della Shoah? Semplice, ottenere il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza ricevendo in cambio non il corrispettivo rilascio di migliaia di terroristi palestinesi, ma di non invadere la Striscia.
   In questo modo, Israele, sempre altamente sensibile al valore della vita dei suoi concittadini otterrebbe il ritorno a casa dei rapiti, e Hamas, depotenziato al momento, continuerebbe a dominare la Striscia indisturbato.
   Ieri, per la prima volta, Hamas ha mandato in onda sul suo canale il video di uno degli ostaggi, una giovane donna israeliana che viene mostrata mentre è assistita e che ha dichiarato di avere ricevuto cure mediche. Dopo l’assassinio sadico, la cura per gli ostaggi…
   Sarà questo l’esito?
   Una cosa è certa, la leadership di Israele è debole. Il gabinetto di guerra non ha, al suo interno, né Golda Meir, né Menachem Begin, né Ariel Sharon, ma un primo ministro che, relativamente a Hamas, da quindici anni a questa parte, ha impostato una linea di azione basata interamente sul suo contenimento, linea interamente condivisa dall’apparato militare e da quello della sicurezza, di cui ha fatto parte per anni Benny Gantz. A che cosa abbia portato, Israele lo ha sperimentato sulla propria pelle.
   Mai, come in questi ultimi anni, Israele sta subendo le ingerenze americane, sostanzialmente mettendosi in una posizione di supino vassallaggio.
   Un’altra cosa è certa. Se l’esito di questo conflitto sarà quello prospettato, ci si preparerà in fretta a un’altra guerra, molto più impegnativa e devastante, quella con Hezbollah. In Medio Oriente, diversamente che in Europa e negli Stati Uniti, ogni prova di debolezza è un inebriante viatico per convincersi che è giunto il momento di usare la forza in tutta la sua massima potenza.

(L'Informale, 17 ottobre 2023)
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Purtroppo, all'arrogante eccesso di sicurezza di Israele che ha portato alla rovinosa sconfitta dei giorni scorsi, è seguita un'altra forma di arroganza con terrificanti annunci di annientamento totale di Hamas. Era così difficile capire che un reboante annuncio di totale vittoria si trasforma in totale sconfitta se viene ottenuta soltanto in parte? Non si doveva immaginare che un piano preparato in due anni doveva necessariamente mettere in conto anche quello sarebbe successo immediatamente dopo, cioè il tentativo israeliano di invadere Gaza? Sì, adesso Israele è in una posizione davvero brutta. Si è affidato toto corde al campo occidentale guidato dagli USA, che fa i suoi interessi sostenendo l'Ucraina e contrattando con l'Iran. Gli USA sono per Israele come l'Egitto di una volta: "un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora" (Isaia 36:6).M.C.

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Spade di ferro - Giorno 10

Un piano dettagliatamente preparato
  Ancora dopo una settimana emergono prove del carattere premeditato della strage compiuta dai terroristi di Hamas e di altri gruppi terroristi all’alba di sabato 7 ottobre. Si sono ritrovate cartine dettagliate, istruzioni su come le diverse squadre dovessero muoversi, perfino una specie di dizionario di una decina di frasi in ebraico da usare contro le vittime come “vi uccidiamo tutti” o “siete nostri prigionieri”; sono usciti numerosi filmati delle esecuzioni pubblicati dagli stessi terroristi, si sono raccolte testimonianze di aggressori che parlavano in farsi (la lingua dell’Iran); vi sono interrogatori e interviste in cui gli aguzzini rivelano che il piano dell’eccidio era stato preparato e minuziosamente provato per due anni. Insomma non si tratta affatto di un atto terrorista improvvisato, ma di un progetto preciso e lungamente studiato. Il che fa pensare che anche le mosse successive siano state previste dalle centrali terroriste, ancor più che a Gaza a Teheran.

La situazione sul terreno
  L’esercito israeliano è ben consapevole di questo problema e prepara attentamente l’ingresso terrestre a Gaza, attendendo che l’azione dell’aviazione elimini almeno parte delle trappole predisposte dai terroristi. Per questa ragione anche ieri è stata una giornata di attesa per i soldati schierati intorno a Gaza e per tutti gli israeliani. Non ci sono stati, fino al momento in cui questo articolo è stato scritto, scontri terrestri di grandi dimensioni. La cronaca registra numerosi nuovi lanci di missili da Gaza su varie zone di Israele, eliminazione di terroristi infiltrati, pesanti bombardamenti dell’aviazione su tutti gli obiettivi militari dovunque era possibile farlo senza colpire la popolazione civile, che Hamas obbliga a fare gli scudi umani, anche chiudendo fisicamente le strade di fuga garantite da Israele e sequestrando chiavi delle automobili e documenti. Proprio per permettere ai civili di allontanarsi senza troppi disagi, le autorità militari israeliane hanno deciso di riaprire le condutture che portano rifornimento idrico a Gaza, anche se in realtà la Striscia al 90% usa acqua che proviene da pozzi locali. I responsabili confermano che l’azione di terra è imminente, ma nessuno può dire ancora quando il Gabinetto di Guerra le darà il via.

Cresce la tensione al nord
  Nel frattempo Hezbollah ha continuato con provocazioni limitate ma sanguinose: piccoli tentativi di sconfinamento, lanci di missili e di droni, bombardamenti che hanno provocato anche alcune vittime. L’esercito israeliano ha reagito puntualmente distruggendo istallazioni terroriste e anche dell’esercito libanese, che è controllato in sostanza da Hezbollah e neutralizzando alcuni terroristi. Progressivamente la tensione cresce, anche perché appare probabile che lo scopo di Hezbollah sia di mettere alla prova, saturare e danneggiare i sistemi di avvistamento israeliani, sulla linea di quel che è successo intorno a Gaza, per poi tentare un attacco massiccio. La differenza è che Hezbollah ha un numero di missili forse dieci volte più grande di quello di Hamas, parecchi dei quali hanno sistemi di guida avanzati; inoltre le milizie libanesi sono assai più forti e meglio addestrate di quelle di Gaza. Dunque un attacco terroristico dal Libano potrebbe essere ancora più grave dell’aggressione da Gaza. Anche se questa volta non prenderebbe di sorpresa Israele, avrebbe la massa bruta per saturare le difese antimissile e provocare notevoli danni. Vi sono peraltro notevoli riserve di uomini e mezzi pronti per contrastarla. Anche l’aviazione israeliana ha dichiarato di poter tenere i due fronti. Israele ha ammonito molte volte il governo libanese che nel caso di un’aggressione di Hezbollah il contrattacco devastante di Israele non potrebbe limitarsi alle singole postazioni terroriste, perché esse sono mimetizzate in mezzo alla popolazione civile e investirebbe tutto il Libano, che ne porterebbe comunque la responsabilità politica e giuridica. Ma Hezbollah è assai più forte delle forze armate del Libano e fa quel che vuole, o meglio quel che gli ordina l’Iran.

Internazionalizzazione del conflitto
  Il fatto più preoccupante, nelle scaramucce al confine col Libano, è il rischio di internazionalizzazione del conflitto. Non solo Hezbollah ha dichiarato che se Israele continua a combattere contro Hamas, il suo intervento è inevitabile. La stessa minaccia l’ha fatta l’Iran, che è il burattinaio di entrambi i movimenti terroristi. L’intervento dell’Iran che ha qualche forza militare in Siria, vicino al confine israeliano, ma le cui frontiere stanno a oltre 1000 chilometri dallo stato ebraico, avverrebbe probabilmente con l’uso di droni e missili, gli stessi che la Russia usa contro l’Ucraina. Israele dovrebbe rispondere colpendo il territorio metropolitano dell’Iran e nessuno può dire dove arriverebbe il conflitto, dato che l’Iran è appoggiato da Russia e Cina ed inoltre ha “quasi” un armamento atomico.

L’intervento americano
  Proprio per il timore di questa gravissima escalation, il presidente Biden ha fatto arrivare qualche giorno fa al largo delle coste israeliane un potente gruppo navale guidato da una portaerei. Ora è annunciato l’arrivo di un secondo gruppo con un’altra portaerei: una concentrazione di forze del tutto eccezionale che mostra la preoccupazione americana. Israele è in grado di difendersi da solo, ma le forze Usa dovrebbero fungere da deterrente nei confronti della possibile aggressione di una potenza imperialista molto abile tatticamente, ma altrettanto irresponsabile e fanatica, com’è l’Iran. Nel frattempo il ministro degli esteri dell’Iran ha fatto un giro di coordinamento incontrando i capi di Hamas (in Qatar) di Hezbollah, della Siria, del Qatar: insomma di tutti i nemici giurati di Israele. Anche Blinken, Segretario di Stato Usa, conduce un fitto giro di incontri nella regione, incontrando oltre a Israele, Egitto, Giordania, Arabia, Emirati. Insomma, l’allarme è grande. E anche questo rallenta l’operazione di terra su Gaza, che pure è necessaria e urgente. È probabile che Biden cerchi di costringere Israele a rinunciare.

(Shalom, 16 ottobre 2023)

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“L’antisemitismo esiste ancora e Hamas lo dimostra”

In occasione degli 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma parla Tatiana Bucci. Fu deportata da Fiume verso Birkenau il 18 marzo 1944

di Paolo Rodari

“Il 16 ottobre del ’43 eravamo ancora a Fiume. Nostra madre era ebrea. Cercava di proteggerci da tutto quanto stava accadendo intorno a noi. In famiglia in tutto eravamo in tredici ebrei. Alla fine della guerra ci salvammo soltanto in quattro. Ricordo i bombardamenti, le fughe nei rifugi. Ma anche le gite al mare, nonostante la guerra tutt’intorno. Poi arrivò il 28 marzo del ’44. Ci deportarono in otto a Birkenau. Gli altri vennero successivamente deportati a Bergen Belsen. Vennero i nazisti, ma anche due fascisti. È doveroso ricordarlo, perché è storia. Eravamo alleati e ci deportarono. Dovremmo imparare da quanto accaduto, invece troppo spesso non accade. L’antisemitismo è vivo ancora oggi, purtroppo, e il conflitto in Israele con bambini innocenti che perdono la vita è qui ancora a dircelo”.
   Tatiana Bucci vive a Bruxelles. In questi giorni è a Roma per partecipare alla marcia silenziosa per ricordare la deportazione romana avvenuta ottant’anni fa, il 16 ottobre del 1943, dal ghetto. Tatiana fu deportata poco dopo, da Fiume, assieme ai suoi famigliari, fra cui la sorella Andra, il cugino Sergio e le rispettive madri. Fu internata nella “baracca dei gemelli” perché il dottor Joseph Mengele notò che assomigliava alla sorella e le credeva gemelle.

- Come sopravvisse?
  “Arrivati al campo ci separarono dalle nostre madri. La capa della nostra baracca, che chiamavamo “blokowa”, forse perché ci aveva preso in simpatia ci disse che quando i nazisti ci avrebbero chiesto se avessimo voluto raggiungere i nostri genitori non avremmo dovuto rispondere ma rimanere ferme. Nostro cugino Sergio, purtroppo, non ci ascoltò, fece un paso in avanti e per lui fu la fine. Noi ci salvammo. Riuscimmo poi a resistere fino alla liberazione”.

- Quanti anni aveva quando arrivò a Birkenau?
  “Appena sei. Non ricordo tutto. Nel tempo ho poi ricostruito anche grazie al fatto che ho ritrovato mia madre viva per l’intercessione della Croce Rossa”.

- Quando sta accadendo in Israele quali sentimenti le suscita?
  “La morte dei bambini innocenti mi riporta alla memoria quanto avvenne allora. E ogni volta fatico anche a parlarne. Mio cugino venne deportato in un campo di Neuengammead, ad Amburgo, dove svolgevano alcuni esperimenti sulle ghiandole linfatiche e contro la tubercolosi. Era insieme ad altri diciannove bambini. Una volta effettuati gli esperimenti i bambini venivano sedati con la morfina e fatti morire. Coloro che non morivano, venivano appesi ai ganci dei macellai e fatti morire così. Vennero uccisi il 20 aprile 1945 a guerra quasi finita. Erano innocenti come lo sono i bambini morti in queste ore in Israele e come lo sono i bambini palestinesi che muoiono senza avere colpe. La storia si ripete e sembra che la lezione non venga mai appresa”.

- L’antisemitismo è vivo ancora oggi?
  “Purtroppo sì. Per Hamas, Israele non ha diritto di esistere. È un atteggiamento antisemita e nazista. Per colpa di alcuni fondamentalisti la popolazione innocente muore. Per questo parlo ancora, per questo cercherò anche io di far sì che a Trieste il nostro binario, da dove partivano i convogli per Auschwitz-Birkenau, diventi monumento nazionale come il binario 21 a Milano. La memoria non deve morire.”

- Il 16 ottobre 1943 dice anche del silenzio di papa Pio XII. Avrebbe potuto fare di più per gli ebrei?
  “Credo proprio di sì. Anche se gli archivi devono ancora essere studiati a fondo, credo che non abbia fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare”.

- Pensa che testimoniare possa aiutare?
  “È l’unica cosa che possiamo fare. Eravamo duecentomila bambini sotto i dieci anni ad essere stati deportati. Siamo tornati soltanto in una cinquantina. Lo dobbiamo a chi non ce l’ha fatta”.

(RSI.CH, 16 ottobre 2023)

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"Che stupidi e ingenui a sostenere quella che pensavamo fosse la causa palestinese"

Un giornalista arabo-israeliano fa mea culpa. “Tutto prova che non vogliono altro che la distruzione dello stato ebraico e degli ebrei” scrive Fred Maroun sul Times of Israel

"Siamo stati stupidi. Siamo stati stupidi e ingenui. Lo abbiamo fatto con cura e attenzione. Lo abbiamo fatto perché sentivamo che era la cosa moralmente corretta da fare. Abbiamo sostenuto la causa palestinese, o quella che pensavamo fosse la causa palestinese: la lotta per un proprio stato indipendente. Ma ogni ingenuità, ogni illusione si è dissipata dopo gli eventi degli ultimi due giorni”. Così Fred Maroun. “Non è solo il fatto che Hamas (per decenni sostenuto e nutrito da palestinesi e da attivisti filo-palestinesi) ha scatenato un orribile assassinio di massa di israeliani. Non è solo il fatto che questo gruppo terroristico è la fazione più popolare tra i palestinesi e che la maggior parte degli altri gruppi è altrettanto o quasi altrettanto criminale. E’ anche il fatto che gli orribili atti di Hamas sono, a detta di tutti, ampiamente sostenuti all’interno della comunità palestinese e della comunità filo-palestinese all’estero. Il presidente apparentemente moderato dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, si è rifiutato di condannare la strage perpetrata da Hamas. Sulla Edgware Road di Londra, soprannominata la Arab Street della capitale, le auto sfilavano drappeggiate con la bandiera palestinese e i clacson squillavano come per la vittoria in una partita di calcio”. In Canada, un grande sindacato filo-palestinese, la Canadian Union of Public Employees, ha twittato: “Oggi i palestinesi, abbattendo le barriere coloniali, danno nuova vita al sogno di una geografia aperta e liberata”.
   Come ha scritto Avi Benlolo sul canadese National Post, “la campagna per giustificare l’assassinio di massa di civili innocenti ad opera di Hamas è già avviata”. I palestinesi hanno avuto 75 anni e numerose occasioni per scegliere di avere uno stato accanto a Israele, ma hanno ripetutamente scelto il peggiore terrorismo. Con l’ecatombe di centinaia di israeliani e il tifo per quel massacro, e per i macellai che l’hanno perpetrato, hanno messo bene in chiaro qual è la loro scelta finale. Alcuni diranno che è colpa dei terroristi e non dei palestinesi. Non sarò fra costoro. Non possono esistere strutture terroristiche così potenti, estese e durature se non sono sostenute dalla loro gente. Prima di tutto questo, sembrava esserci ancora un barlume di speranza per uno stato palestinese in pace con Israele, ma ora ammetto che quelli di noi che coltivavano quella speranza erano ingenui. Oggi quella speranza è morta. Vedo molti attivisti per la pace che avevano opinioni articolate sul conflitto, e ora dichiarano sui social network il loro risoluto sostegno a Israele. Che scelta ci rimane? La cosiddetta causa palestinese sarà ora ricoperta per sempre dal sangue degli israeliani che Hamas ha massacrato mentre palestinesi e attivisti filo-palestinesi acclamavano e gioivano. Così, anche i palestinesi che non vogliono essere terroristi non avranno mai uno stato su quella terra. Nel frattempo, chiunque presti un minimo di attenzione a questo conflitto deve schierarsi con Israele. E’ il dovere di ogni persona civile al mondo. E’ l’unica scelta ragionevole rimasta”.

Il Foglio, 16 ottobre 2023)

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Ecco perché, da sinistra, sto con Israele

di Sandro Bartolomeo*

Per anni la sinistra ha avuto un complesso di colpa verso la causa palestinese : insieme al mondo cattolico ( che conserva nel suo inconscio un pregiudizio anti-giudaico secolare) ha sempre ritenuto Israele un oppressore che ha rubato uno stato alla Palestina . Quale Stato? Israele nasce nella coscienza del mondo occidentale dopo la tragedia della shoa . In un territorio desertico, senza alcuna infrastruttura, hanno realizzato una delle nazioni (per dirla alla Meloni ) più moderne e avanzate del mondo.
   Tra i paesi arabi, mai nessuno ha riconosciuto Israele: il mancato riconoscimento ha accentuato le politiche aggressive di questo stato che, lungi dal volerle in alcun modo giustificare, vanno valutate se si vuole comprendere l’attuale situazione .
   Oggi Hamas attua la stessa politica di sterminio dei nazisti: non li chiama israeliani, li definisce ebrei (ovviamente in senso dispregiativo) come fa l’Iran, il regime che li arma e li finanzia e rappresenta il più schifoso tra i paesi medio-orientali, che ammazza giovani che chiedono libertà .
   L’Iran e altri paesi arabi proteggono i terroristi di Hamas il cui unico obiettivo (dichiarato ) è quello di distruggere Israele, perché attraverso Israele vogliono colpire il mondo e la cultura occidentale, distruggere quella prodotta dagli ebrei che hanno permesso al mondo occidentale di fare giganteschi passi in avanti.
   Sono questi i motivi per i quali io sto con Israele senza alcun tentennamento .
   E mi auguro, allo stesso modo, che in Israele vadano al potere persone più capaci e moralmente integre di Bibi, come mostrano le continue manifestazioni di milioni di persone ogni settimana, che mostrano che esiste un altro Israele democratico, civile, dialogante. Non è semplice trovare in altri Paesi arabi la stessa condizione: ecco perché la convivenza sarà difficile pur essendo l’unica soluzione possibile.
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* Già sindaco di Formia

(Fatto a Latina, 15 ottobre 2023)

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Governo di coalizione sotto shock e trauma

Il governo israeliano è l'unico responsabile non solo del più grande fallimento nella storia dello Stato di Israele, ma anche di tutto ciò che deve ancora accadere.

di Aviel Schneider

Ministri e deputati durante la presentazione del nuovo governo di emergenza nella sala plenaria della Knesset, il 12 ottobre 2023.
GERUSALEMME - Quattro giorni e la coalizione al governo tace. Non solo, tutti gli uffici e le agenzie che avrebbero dovuto spiegare la realtà alla società israeliana davanti alle telecamere e fornire i servizi necessari come la logistica, l'esercito, la sicurezza, l'aiuto psicologico e molto altro ancora erano come scomparsi dalla faccia della terra durante i primi giorni di guerra. Era come se tutti avessero lasciato il Paese e fossero sotto shock.
Nei primi giorni nessuno si è rivolto direttamente al popolo di Israele per rassicurarlo. Nessuno è andato negli studi dei telegiornali per spiegare, esprimere solidarietà, assumersi la responsabilità, rispondere alle domande. Zero. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato così gentile da rilasciare un breve video in cui prometteva che avremmo vinto. Il giorno dopo è andato in onda per una breve dichiarazione e questo è quanto.
Nessuno ha parlato al pubblico, nessuno ha parlato ai feriti, nessuno ha incontrato i sopravvissuti e le famiglie. Intere famiglie sono state rapite e massacrate e i funzionari governativi non si sono fatti vedere. Erano paralizzati e scioccati. Poi si sono svegliati. E quando si sono svegliati, cosa hanno fatto? Si sono rivolti ai media.
Gli israeliani assistono a una dichiarazione di Benjamin Netanyahu sulla guerra in corso il 9 ottobre 2023.
Il primo a rivolgersi al mondo e ai media è stato l'ex ministro dell'Informazione israeliano Galit Distel-Atbaryan. Quella a cui è stato affidato un ministero ridondante, fatto su misura per lei, e che si è lamentata da quando è entrata in carica.
Mi dispiace, ma questo ministro si è reso ridicolo davanti alle telecamere. Sapeva esattamente chi era responsabile del fallimento strategico della sua coalizione di governo: Danny Kushmaro, il 55enne giornalista, conduttore di news e presentatore televisivo di N12. E perché? Kushmaro ha osato dire che c'erano problemi nell'aeronautica israeliana e che i piloti di caccia contrari alle riforme legali volevano rifiutare il servizio di riserva volontario. Kushmaro, ha detto, era responsabile del fiasco nel sud, non il suo governo, non Benjamin Netanyahu.
   E chi è stato il primo ministro a recarsi nel sud per parlare con i residenti, oltre al ministro della Difesa israeliano Yoav Galant, che ha incontrato le unità militari del sud? Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir è arrivato a Sderot solo mercoledì a mezzogiorno. Quattro giorni dopo il raid nel sud e gli attacchi missilistici, un ministro si è recato nel sud. Nessuno dei ministri ha avuto il coraggio di andare nella zona di fuoco. E cosa ci fa il ministro Ben-Gvir a Sderot? Accusa i media di diffondere fake news.
Superfluo: Il ministro Galit Distel-Atbaryan, che si è dimesso.
E quando qualcuno ha fatto notare a Ben-Gvir che questo non aveva senso, ha iniziato a gridare invece di esprimere compassione e pietà o di rivolgersi ai residenti preoccupati e ai cittadini traumatizzati. Ripetutamente, ha gridato contro chiunque lo criticasse davanti alla telecamera. Eppure Sderot è la roccaforte degli elettori del Likud di destra.
I primi due ministri ad andare davanti alle telecamere tre giorni fa e a scusarsi pubblicamente per il fallimento nel sud sono stati Yoav Kisch e Zachi HaNegbi. "Siamo responsabili della situazione del Paese. Dico a tutti noi che abbiamo commesso un'assurdità", ha dichiarato il ministro dell'Istruzione israeliano Yoav Kisch in un'intervista a Ynet. Questo lo rende il primo ministro della sua coalizione di governo che si è assunto  pubblicamente la responsabilità dopo l'attacco a sorpresa. "Nessuno si sottrarrà alla responsabilità. È successo nel nostro governo e ce ne assumeremo la responsabilità. Le famiglie possono dire quello che vogliono, io prometto loro una cosa: Hamas non esisterà dopo la guerra". Anche il presidente del Comitato di sicurezza nazionale e ministro Tzachi HaNegbi ha ammesso di essersi sbagliato nella sua valutazione  dell'organizzazione terroristica di Gaza che aveva espresso solo sei giorni prima dell'assassinio. Tutti gli altri sono rimasti in silenzio.
Tzachi Hanegbi, capo del Servizio di sicurezza nazionale, parla ai media nella base di HaKirya a Tel Aviv il 14 ottobre 2023
Il governo israeliano è l'unico responsabile non solo del più grande fallimento nella storia dello Stato di Israele, ma anche di quello che verrà. La coalizione di governo più grande e di destra di Israele è caduta in uno stato di shock, chiaramente visibile nei media. I ministri semplicemente non c'erano. Le uniche persone responsabili erano i cittadini stessi, quelli che si sono presi cura di loro stessi nelle prime ore di lotta e nei primi giorni di guerra. Chi poi si è dato da fare è stato l'esercito israeliano. Solo alla fine è venuto il governo. Il popolo non è arrabbiato solo con il suo governo, ma con l'intero parlamento israeliano. Continuo a sentire da tutte le parti della società israeliana che dopo la guerra e la vittoria l'intera leadership del popolo, la Knesset con i suoi 120 deputati, deve essere sostituita.

(Israel Heute, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Betsalel Smotrich: "Dobbiamo ammetterlo a testa bassa: abbiamo fallito".

Il Ministro delle Finanze Betsalel Smotrich ha tenuto una conferenza stampa questa sera (domenica). Non ha cercato di sottrarsi alla responsabilità del governo per i gravi fatti accaduti in Israele la scorsa settimana.

"Cittadini di Israele, oggi mi trovo davanti a voi e mi assumo la responsabilità, la responsabilità di ciò che è accaduto e di ciò che accadrà. Sono tempi molto difficili, tempi difficili per tutti i cittadini di Israele. Il massacro che ci ha colpito sabato scorso, nel bel mezzo della festa di Simhat Torah, è stato il più grave che lo Stato di Israele abbia mai vissuto. Dall'inizio del sionismo e del rinnovamento ebraico in terra d'Israele non abbiamo mai raggiunto un livello così doloroso di insopportabile barbarie che il mondo non vedeva da molti anni, dai tempi della Shoah. Dobbiamo riconoscerlo con franchezza, dolore e a testa bassa: abbiamo fallito, la leadership dello Stato, i servizi di sicurezza, nel garantire la sicurezza dei nostri cittadini. Non abbiamo rispettato il più importante contratto non scritto tra uno Stato e i suoi cittadini. Un contratto che è scritto nel sangue e che oggi è macchiato di sangue".
   E ha aggiunto: "Abbiamo il cuore spezzato pensando alle famiglie degli ostaggi e dei dispersi, e ci impegniamo ad agire per il loro bene e per il loro ritorno a casa. Il popolo di Israele sta soffrendo e piangendo, ma non illudetevi: con l'aiuto di Dio, vinceremo".
   Dopo essersi congratulato con i soldati, con i riservisti e con tutti i valorosi cittadini che si sono comportati in modo eroico, ha ricordato l'unità che ha attraversato il popolo.
   "Verrà il momento di regolare i conti, sugli accordi di Oslo, sul disimpegno da Gaza e fino alla fuga da Gaza con tutte le decisioni tattiche e strategiche, compresi gli errori e i fallimenti degli ultimi giorni, quando tutto ci è saltato in faccia. Ora è il momento dell'unità e della vittoria. L'intero Stato di Israele è unito dietro Tsahal, dietro la difesa che porterà alla vittoria, con l'aiuto di Dio".
   Il Ministro delle Finanze ha detto che sta lavorando duramente con tutte le sue squadre per garantire la sicurezza economica della società israeliana in questi tempi di guerra.
   "Ho chiesto al Ministero delle Finanze di finanziare immediatamente e completamente l'evacuazione, l'alloggio e la sistemazione delle centinaia di famiglie sopravvissute ai crudeli massacri. Inoltre, ho ordinato la distribuzione di una prima indennità immediata a tutti i residenti evacuati dalle loro case, pari a 1.000 shekel a persona e fino a 5.000 shekel per famiglia. La scorsa settimana ho trasferito 30 milioni di shekel per le esigenze speciali delle autorità locali".
Il Ministro ha affermato che i budget per Tsahal sono illimitati e che una dotazione sarà utilizzata per ricostruire i kibbutzim devastati dagli attacchi di Hamas. "Ve lo dico chiaro e tondo", ha insistito Smotrich, "il confine di Gaza sarà ripristinato e fiorirà ancora più di prima, ogni comunità, ogni famiglia, ogni persona sarà curata".
   Ha promesso sostegno al mercato e all'economia per i negozianti, i dipendenti, i lavoratori autonomi e l'intero mercato israeliano. "Prometto che nessun cittadino sarà lasciato solo. La burocrazia sarà ridotta al minimo".
   Il Ministro ha voluto rassicurare la popolazione israeliana che l'economia del Paese è sufficientemente solida per affrontare la guerra.
   Per il Ministro, tutti i bilanci, compresi quelli distribuiti ai partiti della coalizione, devono essere mobilitati per un unico obiettivo: la vittoria al fronte e dietro le linee del fronte.
  
(LPH, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Spade di ferro - Giorno 8

di Ugo Volli

In attesa dell’operazione di terra
  Israele e tutto il popolo ebraico attendono con il fiato sospeso. Tutto è pronto. La campagna potrebbe iniziare stanotte. Ma per stare ai fatti, bisogna dire che alla fine del sabato, otto giorni dopo le stragi, non è ancora cominciata la grande operazione militare di terra necessaria per eliminare i terroristi (ricordiamocelo, non solo Hamas, ma anche gli altri che hanno partecipato all’eccidio: la “Jihad islamica” che è un’invenzione iraniana e le “Brigate di Al Aqsa”, che sono il braccio militare del partito Fatah, il cui presidente è il dittatore dell’Autorità Palestinese, Mohamed Abbas detto Abu Mazen). Molti si chiedono la ragione di questo indugio.

Le ragioni per attendere
  Senza poter naturalmente sapere quali sono i calcoli del Gabinetto di Guerra e dello Stato Maggiore, possiamo supporre che ci sono tre ragioni: una diplomatica, una militare, una umanitaria. Sul piano diplomatico vi sono intense pressioni su Israele perché “mostri moderazione”, “eviti l’escalation” e così via. Più passa il tempo e persiste l’atteggiamento bellicoso dei terroristi e dei loro alleati (Hezbollah e Iran innanzitutto) e continuano i lanci di missili sul territorio israeliano, più chiara dovrebbe risultare a tutte le persone responsabili la necessità di un’operazione di terra per distruggere le operazioni terroriste. Sul piano militare Israele sa che Hamas ha previsto lo scontro terrestre e ha predisposto trappole, agguati, trabocchetti, bombe per uccidere i soldati. I bombardamenti prolungati servono anche per disattivare nei limiti del possibile questi strumenti di morte, per disarticolare le comunicazioni del nemico, per eliminare centri di comando e quadri militari, per esaurire materiali e risorse a sua disposizione, per permettere alle forze speciali, che hanno già cominciato a farlo, di esplorare a fondo il territorio. Più in generale, di fare pressione sui terroristi e non riceverne, di scegliere tempi e modi dell’intervento e non farseli imporre.

La questione umanitaria
  La terza ragione è che Israele aspetta che i civili che vivono nella zona che sarà investita dai combattimenti si allontanino. Questo è necessario perché le truppe dei terroristi non si trovano in trincee, fortificazioni, linee di difesa separate dalle case di abitazione, dalla scuole, dalle moschee e dagli ospedali, ma sono annidati in esse e spesso operano da gallerie scavate sotto i luoghi dove si radunano le folle che cercano protezione. Qualche anno fa perfino l’UNRWA, l’agenzia dell’Onu che si occupa esclusivamente di aiutare i palestinesi e funge quasi da loro ministero, protestò vivacemente quando fu messa di fronte al fatto che le sue scuole venivano usate come depositi di munizioni e nidi di cecchini. Si sa che il centro di comando principale di Hamas ha sede in gallerie sotterranee poste sotto il più grande ospedale di Gaza. Combattere i terroristi richiede di abbattere queste trappole. Israele ha rinunciato all’effetto sorpresa pur di avvertire i civili della zona dove si propone di operare che devono andarsene per non essere colpiti. Hamas, naturalmente, cerca di trattenerli come loro scudi umani, il che è un crimine di guerra. Lo sfollamento è lento e timoroso, ma Israele pazienta perché al contrario dei terroristi cerca in tutti i modi di non colpire i civili.

L’assedio
  La decisione israeliana di bloccare i rifornimenti elettrici, di carburante e di beni di consumo fra cui il cibo non contraddice questa scelta di evitare nei limiti del possibili di colpire i civili. Gli assedi hanno sempre fatto parte delle guerre, sono codificati dal diritto internazionale. Il loro senso è che in guerra le risorse che entrano in una località assediata sono usate innanzitutto per alimentare i combattimenti. Nessuno ha mai chiesto alla Gran Bretagna o agli Usa di rifornire Italia e Germania durante la seconda guerra mondiale. In una situazione di guerra tecnologica, elettricità che permette i collegamenti, carburante che alimenta i mezzi di trasporto, i collegamenti internet, ma anche l’acqua e il cibo sono strumenti di guerra come le armi. Bloccarle è essenziale. Chi come in questo momento l’Egitto e la Giordania preme per far entrare rifornimenti a Gaza, lavora per la continuazione della guerra.

Le azioni militari
  Nella giornata del sabato i combattimenti sono continuati come nei giorni precedenti. I terroristi hanno sparato i loro razzi, fra cui alcuni che sono arrivati al Nord fino a Haifa, quasi tutti fermati da Iron Dome. L’aviazione israeliana ha continuato a martellare le istallazioni terroriste e a colpire i quadri di Hamas, fra cui Ali Qadi, il comandante degli invasori di Israele di sabato scorso e dunque il primo responsabile delle atrocità. Vi sono stati degli scambi di colpi isolati al confine del Libano con Hezbollah e alcuni terroristi sono stati eliminati mentre tentavano di compiere attentati in Giudea e Samaria. La novità più significativa, come già accennato, è che alcune squadre speciali di incursori dell’esercito israeliano sono già entrati nella Striscia, recuperando alcune salme di israeliani rapiti ed uccisi e i loro oggetti e distruggendo le difese avanzate che hanno individuato.

(Shalom, 15 ottobre 2023)

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Tutti i kibbutz e i moshav del sud sono stati assaliti

Cosa è successo nei 20 kibbutzim e moshavim nella zona di confine con Gaza? Un riassunto degli eventi.

Un'immagine della distruzione nel kibbutz Be'eri dopo il mortale attacco di Hamas
Gli insediamenti ebraici e i kibbutzim intorno a Gaza hanno passato anni ad avvertire di un possibile attacco e di una catastrofe, ma i governi non hanno mai risposto, soprattutto negli ultimi mesi. Le forze di emergenza di tutti i kibbutzim e moshavim hanno chiesto armi e attrezzature, ma non è successo nulla. Quando è stato necessario, come la mattina di Shabbat, le truppe di emergenza erano sole e hanno combattuto come leoni per proteggere le loro famiglie. Ondate di terroristi hanno preso d'assalto i kibbutzim e queste truppe li hanno fermati finché le munizioni non sono finite o i soldati non sono arrivati sei ore dopo. Questi uomini e padri delle forze di emergenza sono caduti come eroi e nella storia dello Stato di Israele avranno un capitolo in più. Sono stati lo scudo tra i terroristi e le loro famiglie.
   Israel Heute ha preparato una raccolta di quello che è accaduto in quella mattina di Shabbat, lo Shabbat nero, intorno alla Striscia di Gaza e di come i 20 kibbutzim e moshavim hanno combattuto per la loro esistenza. Bisogna sapere che questi villaggi si trovano a soli 2000 metri dalla barriera di confine con Gaza. In jogging questa distanza può essere percorsa in 12 minuti. Con jeep e moto in pochi minuti. La barriera di confine è stata violata e aperta e così nelle prime ore dello Shabbat sono entrati non centinaia ma migliaia di terroristi, ma non solo questo. Palestinesi giovani e anziani sono corsi dietro ai terroristi come su un'autostrada aperta e hanno partecipato al massacro degli ebrei. A nord di Gaza, nel Kibbutz Zikim, e a sud nel Kibbutz Kerem Shalom, abbiamo fatto l’elenco di quello che le famiglie israeliane hanno vissuto la mattina presto dello scorso Shabbat.

  • Kibbuz Zikim – I terroristi hanno preso d'assalto Zikim con gli RPG ma sono stati fermati dalle forze di emergenza in uno scambio di fuoco. Due feriti tra le forze di emergenza.
  • Moschaw Nativ HaAsara – Terroristi hanno assaltato il moshav con deltaplani. Le truppe di emergenza li hanno attaccati e tre di loro sono stati uccisi. Numerosi israeliani sono stati uccisi.
  • Kibbuz Yad Mordechai – I terroristi sono stati scoperti in tempo la mattina di Shabbat. C'è stato uno scambio di fuoco intorno al kibbutz. Un membro del kibbutz è stato ucciso, ma il kibbutz è stato preservato
  • Kibbuz Eres – I terroristi sono stati scoperti in tempo la mattina di Shabbat. C'è stato uno scambio di fuoco intorno al kibbutz. Un membro del kibbutz è stato ucciso, ma il kibbutz è stato preservato.
  • Kibbuz Nir Am – terroristi hanno raggiunto l'ingresso del kibbutz, ma la forza di emergenza guidata da Inbal Libermann ha aperto il fuoco, uccidendo e cacciando i terroristi.
  • Kibbuz Miflasim – 30 terroristi hanno tentato di assaltare il kibbutz da tutte e tre le entrate, ma le forze di emergenza sono riuscite a uccidere e a scacciare i terroristi.
  • Moschaw Jachini – I terroristi sono entrati nel moshav e hanno ucciso quattro israeliani. La forza di emergenza è stata allertata, ma non disponeva di armi complete. L'unità speciale della polizia di Yamam e i soldati di Sayeret Matkal hanno fatto il lavoro e ucciso tutti i terroristi. /li>
  • Kibbuz Kefar Azza – L'intera forza di emergenza del kibbutz è stata colpita e circa 100 membri del kibbutz sono stati massacrati. Un terribile massacro.
  • Kibbuz Nachal Oz – Il comandante della forza di emergenza è disperso o rapito. Gli altri combattenti sono sopravvissuti al raid. Si sono lamentati di non aver ottenuto dall'esercito il permesso di avere in casa armi automatiche come le mitragliatrici. /li>
  • Kibbuz Alumin – I terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz e hanno ucciso 20 lavoratori ospiti provenienti dalla Thailandia e dal Nepal. Le forze di emergenza hanno combattuto i terroristi fino all'arrivo dell'esercito dopo sei ore.
  • Kibbuz Beeri – I terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz la mattina presto. Le forze di emergenza hanno combattuto senza sosta. Cinque uomini su dieci sono stati uccisi. In seguito, nel kibbutz si è verificato un massacro di oltre un centinaio di persone. Abbiamo visto immagini e video che non vi mostreremo mai. Non erano persone e nemmeno animali. Mostri!
  • Kibbuz Kissufim –Circa 70 terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz da tutti i lati. Scambi di fuoco con le forze di emergenza, di cui almeno quattro sono stati uccisi. Al momento si sa che 15 membri del kibbutz sono stati uccisi e quattro sono stati portati nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Reím – La forza di emergenza, che contava non più di sei uomini, ha combattuto per ore contro 100 terroristi fino all'arrivo dei soldati. Cinque membri sono stati uccisi e cinque sono stati rapiti nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Nirim – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz e hanno prima sparato a cinque israeliani nelle loro case, poi la forza di emergenza è intervenuta e ha fermato l'incursione. Cinque combattenti israeliani hanno perso la vita.
  • Kibbuz Ein HaSchloscha – 15 membri della forza di emergenza hanno tenuto a bada l'incursione dei terroristi nel kibbutz per sei ore, fino all'arrivo dei soldati a mezzogiorno. Il comandante della forza di emergenza è caduto.
  • Kibbuz Nir Oz – Tutti i membri della forza di emergenza sono dispersi. Oltre 35 membri del kibbutz sono stati uccisi.
  • Kibbuz Magen – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz, hanno distrutto la recinzione, ma sono stati fermati dalle forze di emergenza, e ne hanno ucciso uno.
  • Kibbuz Sofa – 12 terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz e le forze di emergenza hanno combattuto fino all'arrivo dei soldati intorno a mezzogiorno. Si contano tre morti nel kibbutz.
  • Kibbuz Nir Itzchak – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz. Le forze di emergenza hanno difeso il kibbutz, ma due di loro sono stati uccisi. Quattro combattenti della forza di emergenza sono dispersi e diversi membri del kibbutz sono stati rapiti e portati nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Kerem Schalom – Dieci membri della forza di emergenza hanno ucciso oltre 20 terroristi. Due membri della forza di emergenza sono stati uccisi.
(Israel Heute, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Voci e testimonianze da Tel Aviv e Gerusalemme nelle ore più buie

di Ilaria Ester Ramazzotti

A Jaffa, cuore antico della costa mediterranea dell’area di Tel Aviv, c’è un caffè ed enoteca normalmente molto affollato il giovedì sera, inizio del fine settimana israeliano. Si chiama Al Hambra Deli e si affaccia sul Jerusalem Boulevard, una delle arterie principali della città, proprio sul percorso della metropolitana leggera di Tel Aviv, recentemente inaugurata, e non lontano da uno stadio di calcio. Ma questa settimana le sue porte sono chiuse e un cartello affisso fuori recita così: “Amato quartiere, metà di noi è nell’esercito e l’altra metà sta proteggendo le sue case. Vi vogliamo bene e attendiamo di poter tornare. Lo staff”.
  La testimonianza è stata raccolta dalla Jewish Telegraphic Agency cinque giorni dopo l’attacco di Hamas che ha ucciso e ferito migliaia di persone nel sud del Paese. Da allora, nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme è calato un silenzio agghiacciante, interrotto solo dalle sirene che avvertono dell’arrivo di missili. Le scuole sono chiuse e i residenti si danno da fare per offrire aiuto in qualche modo, affrontando le conseguenze fisiche ed emotive del massacro e della guerra che Israele sta combattendo contro Hamas a Gaza.
  Nel frattempo, dall’inizio della settimana, gli scaffali dei supermercati si sono svuotati e le autorità hanno raccomandato agli israeliani di fare scorta di cibo per tre giorni. Shufersal, la più grande catena di negozi di alimentari, ha imposto limiti all’acquisto di pane, acqua in bottiglia, latte e uova. Soprattutto, continuano a emergere dettagli sulle atrocità commesse nel sud e 300.000 israeliani sono stati richiamati come riservisti nell’esercito. I razzi continuano a colpire le città israeliane e gli attacchi aerei israeliani colpiscono Gaza, mentre il Paese si prepara a quello che probabilmente sarà un conflitto prolungato.
  “Viviamo in uno stato di paura permanente – ha detto alla Jewish Telegraphic Agency Inès Forman, 29 anni, scrittrice franco-israeliana, descrivendo i giorni appena trascorsi a Tel Aviv -. Sento ansia e paura nel mio corpo ogni secondo in cui sono sveglia”. Forman si è impegnata a diffondere sui social media le notizie sul massacro del sabato precedente. Molti dei post di Instagram sul suo profilo riguardano l’arte o la letteratura, ma le immagini che ha condiviso nelle ultime 24 ore sono di tipo diverso: ha pubblicato i video ampiamente diffusi dei reporter che descrivono le scene viste nelle città al confine con Gaza, oltre a foto e video che condannano Hamas e i suoi sostenitori. “Stiamo lavorando per combattere le fake news... in pratica tutto il giorno”, spiega a proposito della sua nuova quotidianità, che prevede di svegliarsi alle cinque o alle sei del mattino e di lavorare fino a tarda notte. A parte lo scorso giovedì, quando ha partecipato al funerale della sorella minore di un’amica, Shira Eylon di 23 anni, che si credeva essere nelle mani dei rapitori fino al ritrovamento del suo corpo fra i morti del massacro del festival musicale vicino al Kibbutz Re’im. “Mia bella e pura fata, oggi hai ricevuto le ali. Ti amerò per sempre”, aveva scritto per lei la sorella maggiore su Instagram, annunciando la sua dipartita.
  “Non c’è nessuno che non abbia una persona cara che sia stata uccisa o qualcuno che conosce, un amico o una persona cara, che sia stato ferito o fatta prigioniero – ha sottolineato Melanie Landau, terapista australiana-israeliana di 50 anni che vive nel quartiere Baqa di Gerusalemme – Molte persone sono coinvolte in prima persona e sono in ansia per i loro cari”. Poi, ha aggiunto, ci sono anche momenti più “edificanti: la resilienza e la forza dello spirito umano sono state messe in luce durante questa settimana”. “Molte persone sono sovraesposte a molte immagini e credo che questo faccia parte della battaglia – ha evidenziato Landau -. Ma non dobbiamo perdere la fiducia nell’umanità e non dobbiamo farci trascinare da tutto questo”.
  A Tel Aviv, molti residenti hanno lasciato le loro case per recarsi all’estero o in un’area di Israele più lontana da Gaza, offrendo i loro appartamenti come alloggi per i rifugiati delle aree del nord e del sud del Paese che sono state evacuate. Diverse persone hanno descritto la città, normalmente affollata, come una “città fantasma”. Alcuni altri si sono invece trasferiti più all’interno della zona di Tel Aviv. Lotte Beilin, reporter trentenne britannico-israeliana, per esempio, alloggia nell’appartamento di un amico perché il suo palazzo è più vecchio e non ha un rifugio di sicurezza. “Le strade della città – riferisce sempre alla Jewish Telegraphic Agency, che ha raccolto tutte queste testimonianze – sono così silenziose che si sentirebbe cadere uno spillo”.
  In tutto il Paese sono inoltre in corso molte iniziative finalizzate a raccogliere i rifornimenti necessari alle centinaia di migliaia di soldati che sono arrivati alle loro basi privi di alcuni beni essenziali. Lee Mangoli, trentaduenne canadese-israeliana, insegnante di yoga a Tel Aviv, racconta: “Domenica scorsa ho iniziato a uscire dallo shock e ho capito che dovevo fare qualcosa per aiutare”. Così, con un’amica, ha iniziato a raccogliere cibo e altri prodotti di prima necessità, come shampoo e calze. Ben presto, il loro piccolo progetto “è esploso con l’arrivo di denaro dall’estero”. Sebbene non ci siano stati problemi nel raccogliere fondi, il suo gruppo ha incontrato difficoltà nel reperire le forniture. “Non riusciamo più a trovare la merce – evidenzia -. UPS e Fedex al momento non consegnano in Israele e alcuni articoli molto richiesti, come i coltelli multiuso Leatherman, sono quasi impossibili da reperire”.
  Per altri, come Becky Schneck, 36 anni, fisioterapista e madre di quattro figli piccoli, il peso della chiamata del marito come riservista nell’esercito, oltre alla chiusura delle scuole fino a nuovo avviso, è stato troppo schiacciante per permetterle di prendere in considerazione l’idea di offrirsi come volontaria. “Sono talmente impegnata da non poterci nemmeno pensare – svela -. Non ho la capacità emotiva per gestire tutto quello che sta succedendo a casa mia e anche quello che sta accadendo nel Paese”. I vicini della sua comunità di Tzur Hadassah, fuori Gerusalemme, si sono attivati per portare cibo alle famiglie come la sua.
  Non sempre è possibile portare avanti iniziative di volontariato, neppure per alcune organizzazioni. Masa Israel, un gruppo di riferimento per l’organizzazione di programmi di “anno sabbatico”, ha dichiarato poco dopo il massacro che nessuno dei suoi 5.700 borsisti è stato ferito, ma almeno uno dei suoi progetti è stato chiuso: si tratta del Yahel Social Change Fellowship, che impegna i suoi partecipanti in attività sociali e di volontariato in tutto Israele. “Con il cuore pesante, il consiglio e lo staff di Yahel hanno preso la difficile decisione di sospendere temporaneamente la Yahel Social Change Fellowship fino a quando la situazione non si sarà calmata”, ha dichiarato il direttore esecutivo Dana Talmi.
Altre e organizzazioni riescono invece ad andare avanti. All’Istituto di studi ebraici Pardes di Gerusalemme il personale “sta facendo del suo meglio per sostenere gli studenti per quanto umanamente possibile – ha detto il preside Meesh Hammer-Kossoy -. Nonostante la guerra, la Pardes è molto attiva. Ci riuniamo con determinazione per pregare regolarmente e cerchiamo di studiare nel miglior modo possibile”. Dei circa 80 studenti che studiano tutto l’anno, 18 hanno partecipato alle lezioni via Zoom dall’estero.

(Bet Magazine Mosaico, 15 ottobre 2023)

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Con Israele, il ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma e l’appello di Herbert Pagani: “mi difendo, dunque sono”

di Lidano Grassucci

Il 16 ottobre del 1943, 80 anni fa, a Roma nazisti e fascisti presero 1259 persone, era un sabato il giorno che gli ebrei dedicano al Signore. Dalle 5 del mattino alle due del pomeriggio. La ricordiamo come rastrellamento di Roma, furono truppe tedesche ad agire con l’ausilio di italiani:  689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine.
Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto o stranieri, 1 023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz.
Soltanto 16 di loro sopravvissero (15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino morta nel 2000, non tornò nessun bambino).
Questa accadeva qui, tra noi, questo facemmo noi occidentali. Quel tempo e quegli orchi che fecero questo uccisero la libertà di tutti. Perché la libertà del popolo di Israele misura la libertà del mondo.
Oggi Israele è sotto attacco, che è attacco alla libertà dell’occidente. Noi stiamo raccogliendo le firme a sostegno di Israele attaccato, siamo arrivati a 160 sottoscrittori, porteremo firme e la bandiera di Israele al sindaco di Latina. Un segno di vicinanza ai liberi e non ai satrapi (si può sottoscrivere nelle nostre pagine Fb, o scrivendo al giornale con nome e cognome e la scritta aderisco) .
Pubblico a corredo di questo articolo un testo di Herbert Pagani.
Herbert Pagani era un ebreo di Tripoli, era un cantautore di sinistra, ma era anche ebreo e sionista, morto nel 1988. Questa la sua arringa per la sua gente, bellissima e vera, uscì in francese Plaidoyer pour ma terre. La scrisse nel 1975 quando l’Onu con una sua risoluzione paragonò il sionismo al razzismo. Credo che vada letta con rigore, credo che sia il manifesto di noi ragazzi di sinistra, pochi, che abbiamo amato e amiamo Israele. Senza ipocrisie, ma parole per tutti.

    Di passaggio a Fiumicino sento due turisti dire, sfogliando un giornale:
    “Fra guerre e attentati non si parla che di ebrei, che scocciatori…”
    È vero, siamo dei rompiscatole, sono secoli che rompiamo le balle all’universo.
    Che volete. Fa parte della nostra natura.
    Ha cominciato Abramo col suo Dio unico, poi Mosè con le Tavole della Legge,
    poi Gesù con l’altra guancia sempre pronta per la seconda sberla,
    poi Freud, Marx, Einstein, tutti esseri imbarazzanti, rivoluzionari, nemici dell’ordine.
    Perché? Perché l’ordine, quale che fosse il secolo, non poteva soddisfarli,
    visto che era un ordine dal quale erano regolarmente esclusi;
    rimettere in discussione, cambiare il mondo per cambiare destino,
    questo è stato il destino dei miei antenati;
    per questo sono sempre stati odiati da tutti i paladini dell’ordine prestabilito.
    L’antisemita di destra rimprovera agli ebrei di aver fatto la rivoluzione bolscevica.
    È vero. C’erano molti ebrei nel 1917.
    L’antisemita di sinistra rimprovera agli ebrei di essere
    i proprietari di Manhattan, i gestori del capitalismo…
    È vero ci sono molti capitalisti ebrei.
    La ragione è semplice: la cultura, la religione, l’idea rivoluzionaria da una parte,
    i portafogli e le banche dall’altra sono stati gli unici valori mobili,
    le sole patrie possibili per quelli che non avevano una patria.
    Ora che una patria esiste, l’antisemitismo rinasce dalle sue ceneri,
    o meglio, scusate, dalle nostre, e si chiama antisionismo.
    Prima si applicava agli individui, adesso viene applicato a una nazione.
    Israele è un ghetto, Gerusalemme è Varsavia.
    Chi ci assedia non sono più i tedeschi ma gli arabi
    e se la loro mezzaluna si è talvolta mascherata da falce
    era per meglio fregare le sinistre del mondo intero.
    Io, ebreo di sinistra, me ne sbatto di una sinistra che vuole liberare
    gli uomini a spese di una minoranza, perché io faccio parte di questa minoranza.
    Se la sinistra ci tiene a contarmi fra i suoi non può eludere il mio problema.
    E il mio problema è che dopo le deportazioni in massa operate
    dai romani nel primo secolo dell’era volgare, noi siamo stati ovunque
    banditi, schiacciati, odiati, spogliati, inseguiti e convertiti a forza.
    Perché? …perché la nostra religione, cioè la nostra cultura, erano pericolose.
    Qualche esempio?
    Il giudaismo è stato il primo a creare il sabato, il giorno del Signore,
    giorno di riposo obbligatorio. Insomma il week-end.
    Immaginate la gioia dei faraoni, sempre in ritardo di una piramide.
    Il giudaismo proibisce la schiavitù.
    Immaginate la simpatia dei romani,
    i più grossi importatori di manodopera gratuita dell’antichità.
    Nella Bibbia è scritto: “La terra non appartiene all’uomo, ma a Dio”;
    da questa frase scaturisce una legge, quella della estinzione automatica
    dei diritti di proprietà ogni 49 anni.
    Vi immaginate la reazione dei papi del medioevo e degli imperatori del Rinascimento?
    Non bisognava che il popolo sapesse.
    Si cominciò quindi col proibire la lettura della Bibbia, che venne svalutata come Vecchio Testamento.
    Poi ci fu la maldicenza: muri di calunnie che divennero muri di pietra: i ghetti.
    Poi ci furono l’indice, l’inquisizione e più tardi le stelle gialle.
    Ma Auschwitz non è che un esempio industriale di genocidio.
    Di genocidi artigianali ce ne sono stati a migliaia.
    Mi ci vorrebbero dieci giorni solo per fare la lista
    di tutti i pogrom di Spagna, Russia, Polonia e Nord Africa.
    A forza di fuggire, di spostarsi, l’ebreo è andato dappertutto.
    Si estrapola il significato e eccoci giudicati gente di nessun posto.
    Noi siamo in mezzo ad altri popoli come gli orfani affidati al brefotrofio.
    Io non voglio più essere adottato, non voglio più che la mia vita
    dipenda dall’umore dei miei padroni di casa, non voglio più affittare una
    cittadinanza, ne ho abbastanza di bussare alle porte della storia
    e di aspettare che mi dicano: “Avanti!”.
    Stavolta entro e grido; mi sento a casa mia sulla terra e sulla terra ho la mia terra.
    Perché l’espressione terra promessa deve valere per tutti i popoli
    meno che per quello che l’ha inventata?
    Che cos’è il sionismo?
    …si riduce a una sola frase: l’anno prossimo a Gerusalemme.
    No, non è lo slogan di qualche club di vacanza;
    è scritto nella Bibbia, il libro più venduto e peggio letto del mondo.
    E questa preghiera è divenuta un grido, un grido che ha più di duemila anni,
    e i padri di Cristoforo Colombo, di Kafka, di Proust, di Chagall, di Marx,
    di Einstein, di Modigliani, e di Woody Allen l’hanno ripetuta, questa frase,
    almeno una volta all’anno: il giorno della Pasqua.
    Allora il sionismo è razzismo?
    Ma non fatemi ridere.
    Il sionismo è il nome di una lotta di liberazione
    e come ogni movimento democratico ha le sue destre e le sue sinistre.
    Nel mondo ciascuno ha i suoi ebrei.
    I francesi hanno i còrsi, i lavoratori algerini; gli italiani hanno i terroni e i terremotati;
    gli americani hanno i negri, i portoricani; gli uomini hanno le donne;
    la Società ha i ladri, gli omosessuali, gli handicappati.
    Noi siamo gli ebrei di tutti.
    A quelli che mi chiedono: “e i palestinesi?”
    Rispondo “io sono un palestinese di duemila anni fa,
    sono l’oppresso più vecchio del mondo,
    sono pronto a discutere con loro ma non a cedergli la terra che ho lavorato.
    Tanto più che laggiù c’è posto per due popoli e due nazioni”
    Le frontiere le dobbiamo disegnare insieme.
    Tutta la sinistra sionista cerca da trent’anni degli interlocutori palestinesi,
    ma l’OLP, incoraggiata dal capitale arabo e dalle sinistre europee,
    si è chiusa in un irredentismo che sta costando la vita a tutto un popolo,
    un popolo che mi è fratello, ma che vuole forgiare la sua indipendenza sulle mie ceneri.
    C’è scritto sulla carta dell’OLP:
    “Verranno accettati nella Palestina riunificata solo gli ebrei venuti prima del 1917”
    A questo punto devo essere solidale con la mia gente.
    Quando gli arabi mi riconosceranno, mi batterò insieme a loro contro i nostri comuni oppressori.
    Ma per oggi la famosa frase di Cartesio “penso, dunque sono” non ha nessun valore.
    Noi ebrei sono cinquemila anni che pensiamo e ci negano ancora il diritto di esistere.
    Oggi, anche se mi fa orrore, sono costretto a dire “mi difendo, dunque sono”.

(Fatto a Latina, 15 ottobre 2023)

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«Ho quattro figli e tre sono al fronte. Noi nel kibbutz aiutiamo i soldati»

Angelica: «Eravamo 450 siamo rimasti in 200. Mio marito si occupa della sicurezza. Fabbrichiamo giubbotti antiproiettile»

Il kibbutz Sasa sta a un chilometro soltanto dall’”altro” fronte: quello con il Libano. È conosciuto in tutta Israele per due “specialità”: la produzione di mele e la straordinaria attività di promozione del dialogo interculturale tra ebrei, musulmani, cristiani e drusi. Ora ne ha una terza: sopravvivere alla minaccia di Hezbollah. Da sabato 7 ottobre, quando è iniziato il feroce attacco di Hamas nelle aree sul confine con Gaza, anche le comunità del nord sono state messe in allerta. Le forze di difesa israeliane si stanno attrezzando per affrontare un eventuale attacco dal Libano. Alcuni miliziani di Hezbollah si sono già infiltrati, cercando di attaccare il kibbutz Adamit, nei pressi di Rosh Hanikra: 4 guerriglieri su 5 sono stati fermati dall’esercito.
  «Quel Kibbutz si trova a pochi chilometri dal nostro. Tutti sono stati bombardati a raffica lunedì – ci racconta Angelica Edna Calò, membro del Kibbutz Sasa dal 1975, docente al Teh Hai College di Kiriat Shmone e fondatrice del Teatro Arcobaleno, che promuovere il dialogo –. A ogni sospetto andiamo nella stanza antimissili. E siamo fortunati ad averne una, perché la nostra è una casa relativamente nuova, le altre non ce l’hanno». Sono i “veterani” come Angelica e suo marito a tenere le redini del kibbutz, perché le famiglie con bambini sono state evacuate: chi al kibbutz Sdot Yam, a metà strada tra Tel Aviv e Haifa, chi da amici e parenti che vivono nel centro del Paese. « Normalmente in questo kibbutz vivono 450 persone, ma al momento siamo rimasti solo 200, di cui una ventina, coordinati da mio marito che è il responsabile della sicurezza, si occupano della difesa interna. All’esterno, e in tutta la zona limitrofa, ci sono una cinquantina di soldati. Ci aiutiamo a vicenda. Noi gli portiamo da mangiare, vestiti pesanti e coperte per la notte. In questa situazione di emergenza l’esercito da solo non ce la fa. Loro proteggono le nostre vite e noi facciamo di tutto il possibile per loro». Gli altri grandi assenti nel kibbutz sono i ragazzi tra i 20 e i 40 anni, che sono stati richiamati come riservisti. Dei quattro figli di Angelica, tre ora si trovano al confine con Gaza, e non sanno ancora se e quando entreranno. Il quarto si sarebbe arruolato, ma non può perché ha superato i quaranta anni (limite di età per partecipare alla riserva). Tutti gli israeliani, compatti, stanno partecipando allo sforzo per difendere il Paese.
  Un’adesione senza precedenti, che comporta anche qualche difficoltà. « Nell’unità di nostro figlio Kfir mancano, per ora, i giubbotti antiproiettili», dice Angelica. Suo marito, come molti altri padri di famiglia, sta cercando una soluzione alternativa: hanno trovato una fabbrica che, vista l’emergenza, è disposta a produrli a un costo accessibile. È già cominciata la raccolta fondi, una delle tante attività di supporto all’esercito da parte del popolo israeliano. « Negli ultimi mesi il governo era troppo preso a occuparsi di sé stesso o dei coloni, è si è dimenticato di tutti coloro che vivono nei kibbutz, al nord e al sud, nei punti, da sempre, più sensibili del Paese. Ancora non ss ha una lista definitiva né dei morti, né degli ostaggi, né dei dispersi. Per riprendersi da questo doppio trauma, quello dell’attacco esterno e quello della frattura interna a Israele, ci vorranno anni».

(Avvenire, 11 ottobre 2023)


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Non c’è dialogo con chi vuole cancellarci

Angelica Edna Calò Livne spiega il sentimento che prova un intero popolo in guerra

Alle prime luci dell’alba ho sentito gli sguardi, ho capito che il cingolato era esploso, dovevo cercare mio fratello vivo o morto. Intorno c’era fumo e infuriava la battaglia, non sapevo cosa fare. Tornai dal Golan verso il mio Kibbuz- Nir Oz, arrivai distrutto, impolverato, ferito nell’anima, Adina, mia moglie mi abbracciò e capii subito… Sasson non c’era più. Come lo avremmo raccontato a mia madre?”
10 giorni fa, la sera di Kippur, dopo 50 anni, Said, ebreo di origine irakena, racconta la tragedia di suo fratello, ucciso nella guerra del 1973.
Qualche giorno dopo, a Simchat Torà 2023, alle sei del mattino, una banda di terroristi Hamas mascherati e armati fino ai denti, entrano in casa sua, al Kibbuz Nir Oz, lo massacrano di proiettili e portano via Adina a Gaza, su una motocicletta, e trascinano via centinaia di altri chaverim, bambini, neonati strappati alle culle del kibbuz in pieno sonno.
Yariv, membro del mio kibbuz Sasa, figlio di Sasson e nipote di Said, è un ragazzo introverso, aveva 2 anni e mezzo quando suo padre morì sulle alture del Golan.
“Ti prego, racconta questa storia, mostra la foto di zia Adina, forse la ritroveranno, soffre di cuore, deve prendere le sue medicine!” In questi giorni funesti sentiamo decine e centinaia di storie strazianti, vediamo immagini
raccapriccianti immortalate nelle reti arabe: bambini e ragazzine torturate e mostrate come veri e propri trofei, davanti a una massa di barbari che ride sguaiata. Una cara amica di Madrid mi ha scritto : “Ciò che sta accadendo è una sconfitta per il mondo intero. Come esseri umani stiamo facendo tanti passi indietro…”
Ecco, questo è ciò che sento: una massa terroristi barbari e indemoniati ci hanno catapultato migliaia di anni addietro quando si immolavano gli esseri umani in nome di un dio pagano.
Eh ma questo è quello che succede a chi cresce in un campo profughi”, mi dicono. E chi li ha chiusi nei campi profughi? E chi ha deciso di usare i miliardi di euro e dollari di fondi ricevuti per addestrare alla guerra invece di trasformare Gaza in una delle più fiorenti cittadine del Mediterraneo con tanto di spiaggia, hotel principeschi e perfino un Casinò? Mentre noi godevamo di una sospirata calma e ci cimentavamo in nuovi studi e nuove ricerche loro si allenavano a torturare, a saccheggiare, a decapitare e a violentare sotto la guida del grande mentore: l’Iran.
Si, siamo traumatizzati, massacrati, attoniti, colmi di rabbia ma nel corso della storia abbiamo sviluppato un nuovo gene, quello della resilienza. Stiamo già arrampicandoci faticosamente su per la salita ma insieme ci risolleveremo dalle macerie e dai cuori dilaniati. E il colpo inferito a chi ci ha colpiti sarà duro. Siamo buoni, abbiamo dei valori ma per noi il valore piu’ alto è la vita.
Non c’è dialogo con chi vuole cancellarci dalla faccia della terra.

(Riflessi Menorah, 14 ottobre 2023)

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Gesù ti pensa e si occupa di te!

di Ernst Kraft*

Cari amici, è meraviglioso sapere che il Signore Gesù non pensa in modo piatto e generale alla Sua chiesa, ma conosce personalmente ogni individuo che ne fa parte.

    «Chiama per nome le sue pecore e le conduce fuori» (Giovanni 10:3).

Non cura soltanto il gregge, ma ha un livello di attenzione su ognuno.

    «Come un pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto, condurrà le pecore che allattano» (Isaia 40:l1).

Un bambino non può sopportare tanto quanto un adulto. Ecco perché Gesù non ci mette tutti insieme facendo di tutt'erba un fascio. No, tutti sono trattati da Lui in modo personale. Conosceva, ad esempio, il peso interiore di Pietro e la sua sofferenza dopo il fallimento dovuto al suo rinnegamento. Gesù comprese Pietro, pensò a lui con compassione e rinnovò il suo coraggio (Giovanni 21:15-19).
   Il Salmo 115:12 dice:

    «L'Eterno si è ricordato di noi; egli benedirà, sì, benedirà la casa d'Israele, benedirà la casa d'Aaronne».

Il Signore, nell'amore e nella misericordia, provvede e pensa ai Suoi redenti. Ha pensieri di pace e non di sofferenza per noi.

    «Poiché io so i pensieri che medito per voi, dice l'Eterno: pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» (Geremia 29:11).

Inoltre, non lo fa di tanto in tanto, cioè non si ricorda di noi nello stesso modo in cui noi ci ricordiamo di Lui. A Pietro, il Signore disse, quando Satana desiderava vagliare lui e gli altri discepoli come il grano:

    «Ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Luca 22:32).

Gesù pensò a Pietro, pregò per lui. Se c'è qualcuno che può comprenderti, questo è Gesù Cristo. Lui si occupò anche del suo apostolo Tommaso, che aveva così tanti problemi con i suoi dubbi (Giovanni 20:24-27).
   Gesù pensa a te, specialmente quando sei nel bisogno e i tuoi problemi sembrano insormontabili. Facciamo una riflessione semplice: Non ci occupiamo in modo particolare dei nostri figli quando sono ammalati? Quindi, quando siamo nella necessità e ci sentiamo abbattuti Cristo si preoccupa di noi prendendosi cura dell'intero nostro essere.

    «Perché non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre infermità; ma ne abbiamo uno che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare» (Ebrei 4: 15).

Anche se Lui si occupa di noi in modo così amorevole e premuroso, spesso lo dimentichiamo nella nostra vita di tutti i giorni. Viviamo le nostre vite e ci ricordiamo di Lui solo quando le cose vanno male. I proverbi dicono:

    «Riconoscilo in tutte le tue vie, ed egli appianerà i tuoi sentieri» (Proverbi 3:6).

Dio ci ama immensamente e ci rinnova in Cristo ogni giorno.

    «Colui che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma l'ha dato per tutti noi, come non ci donerà egli anche tutte le cose con lui?» (Romani 8:32).

Gesù sta aspettando una risposta da noi. Quando guarì i dieci lebbrosi, solo uno tornò per ringraziarlo e il Signore chiese dove fossero gli altri nove (Luca 17:17). L’amore sincero e la bontà del nostro Signore dovrebbero condurci alla reazione di cui leggiamo nel Salmo 116:12-14:

    «Che potrò ricambiare al Signore per tutti i benefici che mi ha fatti? Io alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore. Scioglierò i miei voti al Signore e lo farò in presenza di tutto il suo popolo.»

La gentilezza di Gesù, la sua pazienza con me, il suo amore, tutto dovrebbe coinvolgermi completamente, mi rivolgo di nuovo a lui nonostante la mia indifferenza, rinuncio alla mia tiepidezza, la mia vita crescerà solo se cedo al mio Signore Gesù Cristo.

    «Oppure disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza e della sua costanza, non riconoscendo che la bontà di Dio ti spinge al ravvedimento?» (Romani 2:4).

Se apriamo i nostri cuori al Signore Gesù, allora, in comunione con Lui, conosceremo certamente il Suo amore, che supera ogni conoscenza. Possiamo vivere gioiosamente e felicemente la conoscenza: Gesù si occupa di me. Lui mi ama e anch'io voglio amare Lui. Il Signore promette:

    «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta le mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3:20).

Amiamolo, poiché Egli ci ha amati per primo (1 Giovanni 4:19). Maranatha, nostro Signore vieni!
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* Missionario a San Paolo, in Brasile

(Chiamata di Mezzanotte, gen/feb 2019)


 

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Tajani in Israele: “Hamas è come l’Isis, come le SS”

di Elisabetta Fiorito

Un viaggio lampo quello di Antonio Tajani a sostegno di Israele. Il ministro degli esteri parla in conferenza stampa a Tel Aviv dopo aver visitato i luoghi dei massacri e annuncia l’imminente operazione di terra. "C'è una grande concentrazione di truppe israeliane ai confini con la Striscia di Gaza. Ne ho visti tantissimi, centinaia di carri armati, quindi uomini pronti a intervenire. Ma l'evacuazione è in corso". Tajani spera che si possa fermare l’uccisione di vittime civili, ma diffida di Hamas. "Le iniziative per salvare vite umane ce ne sono tante, bisogna vedere se Hamas risponde positivamente: mi pare che abbia già risposto negativamente alla proposta egiziana e questa è la dimostrazione che Hamas vuole la guerra e vuole farsi scudo con il popolo palestinese per le sue attività criminali”. Il ministro non usa mezzi termini: “Hamas è come l'ISIS, come le SS, come la Gestapo, fanno le stesse cose, sono terroristi, degli assassini e stanno utilizzando come scudo il popolo palestinese, cosa che non è giusta, bisogna evitare che ci siano altri morti innocenti".
  Riguardo al fronte nord, per il ministro degli esteri è “giusto che Hezbollah rimanga dentro i confini del Libano, perché un attacco dal sud del Libano verso Israele sarebbe una terribile iniziativa destinata a infiammare il Medio Oriente e questo non lo vogliamo". E Tajani accoglie nel suo aereo quattro cittadini italiani che non erano ancora riusciti a partire.
  L’omologo israeliano Eli Cohen ringrazia Tajani. "L'Italia è uno stretto e importante alleato dello Stato di Israele. La visita qui oggi ne è un'ulteriore prova". Ringrazio per essere venuto al sud per mostrare al popolo di Israele, all'Italia e al mondo che l'Italia è con il popolo di Israele e sostiene il nostro diritto, senza riserve, di difendere i nostri cittadini contro l'organizzazione terroristica assassina Hamas".

(Shalom, 13 ottobre 2023)

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Il video dei bambini israeliani con i miliziani di Hamas. Un messaggio doppio e cinico

Mostrando i piccoli rapiti nei kibbutz i terroristi alzano il livello dell’odio

ROMA - Ringrazia Allah e bevi, bevi pure. Il bambino avrà 5 o 6 anni, i capelli spettinati, lo sguardo incerto. Abbozza una risposta e beve dal bicchiere che il terrorista di Hamas gli allunga. La pronuncia del bambino non è araba. É uno dei piccoli israeliani rapiti nei kibbutz vicini a Gaza, pare quello di Kholit, e portati nella Striscia. Il frame è una parte del video che Hamas ha diffuso sui suoi canali Telegram per mostrare i miliziani che “coccolano” i bambini ebrei rapiti. Uno dei terroristi addirittura culla un neonato muovendo la carrozzina dove il piccolo dorme. Sono sotto una veranda, forse ancora nel kibbutz dove sono state compiute le stragi, difficile identificare con certezza il luogo. Altri tengono i bambini in braccio, i piccoli zitti, spaventati, il terrorista con il volto coperto.
   In questi anni la propaganda degli estremisti islamici ci ha mostrato ogni efferatezza. Gole tagliate, attacchi sui civili, attentati, kamikaze con gli occhi sgranati. Ma mai prima di ora si erano usati i bambini del nemico. Un messaggio doppio e cinico. Li abbiamo noi, però li trattiamo bene… O questo vogliono fare credere. In un altro video postato dalla Striscia si vede un bimbo ebreo, avrà 3 o 4 anni, che piange e ripete ossessivo “mamma”. È circondato da ragazzini palestinesi, più o meno la stessa età. Lo deridono, uno lo colpisce con una verga. Ognuno di loro è una vittima. Tutti loro sono vittime dell’odio cresciuto più grande di loro, della propaganda che non accetta vie di pace, della violenza di un mondo di adulti che ha perso ogni ragione e ogni sensibilità. Le vittime di questa guerra sono bambini. Quelli ebrei uccisi nei kibbutz durante l’attacco di Hamas, quelli rapiti, quelli palestinesi in fuga sui carretti, senza futuro, o massacrati dagli attacchi su Gaza da parte di Israele. Quelli usati come scudi umani. Le bombe non lasciano scampo a nessuno in una guerra si fa mattanza, che allarga una ferita insanabile tra questi popoli. Cosa ci resta da fare? Il pericolo è abituarci all’orrore. All’uso dei bambini come arma. Spegnere i video non è la soluzione. Occorre saperli leggere, smontare, non cedere al loro intento propagandistico.  
VIDEO

(Quotidiano Nazionale, 14 ottobre 2023)

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Forze di Difesa Israeliane (IDF) esortano i civili a lasciare Gaza City

Hamas: «È propaganda. State a casa»

Come riporta The Times of Israel, l’ordine è arrivato all’alba del settimo giorno della guerra tra Israele e Gaza, con l’esercito che ha lanciato la sua diffusa offensiva aerea e un assedio totale sulla Striscia, che secondo le organizzazioni umanitarie internazionali l’ha lasciata sull’orlo di un disastro umanitario. Secondo le Nazioni Unite, 340.000 abitanti di Gaza sono stati sfollati da quando Israele ha iniziato la sua campagna, spinta dai terroristi guidati da Hamas che hanno imperversato nelle comunità del sud in un massacro che ha causato la morte di oltre 1.300 israeliani, e che si stima che altri 150-200 siano stati rapiti e portati nella Striscia.
   Come si legge nei comunicati di agenzia, in una notte segnata dalla tensione, le forze militari israeliane hanno portato a termine un’ampia operazione militare, prendendo di mira un totale di 750 obiettivi riconducibili al gruppo terroristico Hamas. Questo massiccio attacco ha interessato una varietà di bersagli, tra cui tunnel sotterranei, strutture militari, residenze utilizzate come centri di comando, depositi di armi e strutture di comunicazione. L’obiettivo principale è stato mettere sotto pressione i vertici di Hamas, ritenuti responsabili delle recenti tensioni nella regione.
   Come reazione a questa escalation, molte famiglie residenti a Gaza City hanno deciso di abbandonare le proprie abitazioni in preda al timore. L’esercito israeliano, come sopra indicato, aveva precedentemente emesso un avviso riguardante l’imminente inizio di operazioni militari nella parte settentrionale della Striscia di Gaza, spingendo i civili a cercare rifugio più a sud. Alcuni di loro sono stati costretti a intraprendere una marcia a piedi, portando con sé pochi effetti personali. Questa situazione ha messo a dura prova il sistema di soccorso, con il personale medico e i pazienti che si trovano nella zona a rischio a causa della mancanza di ambulanze e strutture di ricovero adeguate.
   L’invito dell’IDF alla popolazione civile di Gaza City a evacuare per garantire la loro sicurezza – nella sua dichiarazione di venerdì ha chiesto «l’evacuazione di tutti i civili di Gaza City dalle loro case verso sud per la loro sicurezza e protezione, e di spostarsi nell’area a sud di Wadi Gaza, come mostrato sulla mappa» – è stato accolto da diverse reazioni. L’IDF ha sottolineato la necessità di allontanarsi da Hamas, accusandoli di nascondersi sotto le abitazioni civili e negli edifici residenziali, mettendo così a rischio la vita della popolazione. Gli abitanti di Gaza City sono stati avvertiti che potranno farvi ritorno solo dopo un annuncio specifico che autorizzi il rientro.
   Nel frattempo, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, ha spostato il centro delle proprie operazioni nella parte meridionale della Striscia di Gaza, in risposta all’avviso dell’esercito israeliano. L’UNRWA ha sottolineato l’importanza del rispetto delle leggi internazionali da parte di Israele e della protezione dei civili che si trovano nelle strutture UNRWA, tra cui scuole e rifugi, attualmente ospitanti oltre 200.000 persone.
   Nel frattempo, Hamas ha invitato la popolazione a non abbandonare le proprie case, respingendo l’avvertimento dell’esercito israeliano come “propaganda”. La situazione nella regione rimane estremamente tesa, con le tensioni che non accennano a diminuire, mentre il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha fatto un paragone tra Hamas e l’ISIS durante una conversazione con il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken.

(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2023)

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Al venerdì di rabbia i palestinesi non hanno risposto a Hamas

Bombe e volantini, i raid dentro la Striscia di Gaza sono già cominciati. Le evacuazioni e l’ultimatum dell’invasione.

di Cecilia Sala

GERUSALEMME - A Gerusalemme c’è il silenzio, e questa quiete – per Hamas – è sinonimo di sconfitta. Il venerdì della preghiera non è stato il grande venerdì della rabbia. L’appello dei terroristi rivolto a tutti i palestinesi per incendiare la città e la Cisgiordania non ha attecchito e il messaggio è: i palestinesi non sono disposti a morire per Hamas, e Hamas non incarna la causa palestinese. Questa non è la nostra guerra. E’ un segnale vistoso che in realtà era già arrivato all’alba del massacro di sabato: i miliziani fondamentalisti avevano chiamato tutti a innescare scintille di ribellione e di morte ovunque, in nome di Dio. I palestinesi non lo avevano fatto, e lo stesso appello è stato respinto ieri. C’è stato un numero di scontri inferiore a quello di molti venerdì a Gerusalemme senza un conflitto in corso. 
   Ma ci si sono stati episodi di una tipologia di tragedie che ormai è diventata cronica: un colone israeliano armato ha sparato a bruciapelo a un civile palestinese nel villaggio di Masafer Yatta. La polizia e i soldati ne hanno uccisi altri che consideravano un potenziale pericolo. Alcuni estremisti israeliani sono andati in giro per i territori occupati mascherati e con le pistole in pugno. Su un ponte di Tel Aviv è comparso per poco tempo un cartello rosso con una scritta bianca in ebraico che recita: “Vittoria significa che Gaza avrà zero residenti”. Ma ieri sono arrivate anche le reazioni israeliane più strazianti alla strage di sabato, sono quelle dei famigliari dei pacifisti rapiti o giustiziati nei kibbutz, come il figlio dell’attivista Vivian Silver che dice: “I bambini morti non si possono curare con altri bambini morti”. Senza mettere in discussione che Hamas vada distrutto.
   Nel giorno dell’ultimatum a Gaza, la rivolta chiamata da Hamas non c’è stata e nel paese il gruppo sembra più solo di quanto non fosse prima di questa settimana di sangue. Non soltanto la Cisgiordania non risponde alla chiamata diretta dei terroristi, dal Libano Hezbollah è stato finora riluttante ad aprire davvero un altro fronte a nord e anche tanti abitanti di Gaza non rispettano l’ordine che Hamas ha impartito loro: non abbandonate le vostre case ad al Zahraa o a Gaza City, perché la minaccia di un’invasione è “soltanto propaganda israeliana”. Che significa: ci servite come scudi umani per proteggere con i vostri corpi i nostri tunnel e i nostri mucchietti di razzi. Hamas preferisce più morti palestinesi per poter poi uccidere più ebrei in futuro ai palestinesi vivi. 
   Ieri l’operatore di Reuters, Issam Abdullah, è morto sotto un colpo dell’artiglieria israeliana mentre lavorava nel sud del Libano. Prima dell’alba, la Difesa israeliana ha dato il suo ultimatum. Ha pubblicato un appello corredato di mappa e rivolto a tutti gli abitanti del nord della Striscia: lasciate le vostre case e scappate verso sud. Nella mappa è segnato il confine – che taglia in due la Striscia per il lato corto – di Wadi Gaza: sopra non si può restare e si deve fuggire subito sotto quella linea. Significa evacuare tutti i circa 750 mila residenti di Gaza City e gli altri 450 mila che vivono nell’area attorno alla città, entro ventiquattro ore. Il portavoce del ministero della Salute di Gaza ha parlato con l’inviata dell’Independent e le ha detto che è “impossibile” evacuare tutti i feriti a sud. “Non ci sono letti liberi in nessun ospedale in nessuno dei posti dove (gli israeliani) ci dicono di trasferirci. La maggior parte dei feriti non possono essere stabilizzati in tempi così rapidi: se li spostiamo muoiono durante il tragitto”. 
   Già ieri e il giorno prima ci sono stati alcuni piccoli raid dentro Gaza con le truppe e i carri armati per “ripulire l’area e localizzare gli ostaggi”. Il portavoce delle Forze armate, Daniel Hagari, ha spiegato che quei soldati hanno anche raccolto dei reperti “che potrebbero aiutare nello sforzo che stiamo facendo per trovare i cittadini dispersi” a Gaza. Le fonti militari israeliane secondo cui l’invasione “ora è davvero imminente” si moltiplicano. Ieri sera Roy Sharon dell’emittente Kann News ha previsto massicci attacchi aerei prima dell’incursione di terra a Gaza, dicendo che potrebbe cominciare questa mattina. Sarebbe simbolico entrare nella Striscia esattamente una settimana dopo l’invasione all’inverso di Hamas che ha spedito i suoi uomini nel sud di Israele per massacrare civili ebrei. Netanyahu ieri sera ha detto alla nazione: “La controffensiva è appena cominciata

Il Foglio, 14 ottobre 2023)

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Gerusalemme oggi. La città vecchia durante la guerra




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Una settimana impossibile

GERUSALEMME - Alcune riflessioni su questa settimana impossibile in cui la nostra realtà è completamente cambiata. Ma il nostro popolo è di nuovo unito. Peccato che prima ci sia sempre bisogno di una catastrofe.

di Dov Eilon

Buongiorno, cari amici!
È da un po' di tempo che sono seduto davanti al mio computer, chiedendomi come iniziare il mio testo. Oggi volevo condividere con voi qualcosa dei miei sentimenti personali riguardo alla situazione impossibile in cui ci troviamo dallo scorso Shabbat. È quasi incredibile la rapidità con cui tutti noi ci siamo in qualche modo abituati a questa nuova realtà. Con questo non intendo dire che l'accettiamo, non è possibile, ma abbiamo già imparato abbastanza rapidamente come affrontare questa situazione, per quanto crudele possa essere.
   Noi israeliani siamo noti per adattarci rapidamente a una nuova realtà. Perché la vita deve andare avanti. Sì, abbiamo un'enorme volontà di sopravvivenza. Siamo in grado di mettere da parte tutte le nostre differenze e controversie da un momento all'altro. Improvvisamente siamo di nuovo un unico popolo, unito. Ed è questo che ci rende così forti.

Un convoglio di carri armati israeliani al tramonto vicino al confine meridionale israeliano con Gaza, 12 ottobre 2023
Solo una settimana fa stavamo discutendo se agli ebrei dovesse essere permesso di sfilare con la Torah in piazza Dizengoff a Tel Aviv per la festa di Simchat Torah. Incredibile. Perché agli ebrei non dovrebbe essere permesso di praticare liberamente la loro fede nel loro Paese? Non è proprio questo il motivo per cui siamo tornati in questo Paese? Ero scioccato da questo odio verso gli ebrei osservanti da parte degli ebrei non religiosi.
E poi è arrivata la catastrofe. La mattina di Shabbat, alle 6.30. Da allora viviamo in un mondo diverso. Abbiamo subito un colpo terribile. Nella mia testa mi sorprendono i pensieri. È possibile che questa catastrofe sia una punizione? D'ora in poi ricorderemo questa tragedia a ogni festa di Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Per sempre questa festa sarà associata a questa tragedia.
Cosa staranno pensando ora gli oppositori non religiosi dell'ebraismo, anche loro ebrei. È terribile che ci siamo riuniti solo a causa di questa catastrofe. Se d'ora in poi saremo davvero un popolo unito, lo scopriremo probabilmente solo dopo questa guerra, che ci è stata imposta dai terroristi di Hamas.
   Al momento non ho idea di cosa succederà dopo. Sono stati mobilitati quasi mezzo milione di soldati, tra cui molti amici di mio figlio.
   Ogni giorno, la prima cosa che faccio è accendere la TV per aggiornarmi sugli ultimi eventi. Il numero degli assassinati e dei morti aumenta quasi ogni giorno di un altro centinaio di persone, incredibile. Oggi il numero è di almeno 1300 morti! Finora è stato identificato solo un terzo delle vittime civili.
Ieri abbiamo ricevuto la triste notizia che il fratello di un'amica d'infanzia di mia figlia è stato ucciso. Anche lui si trovava al festival musicale dove i terroristi hanno compiuto un massacro. Mentre fuggiva dai terroristi assassini, era ancora in grado di parlare al telefono con suo fratello. Stava fuggendo insieme a due ragazze e ha raggiunto un'auto con loro. Mentre scappava, è stato colpito da un proiettile allo stomaco, hanno raccontato le ragazze che erano con lui. Poi sono scappate, mentre Ofek è rimasto ferito nell'auto. Da allora è stato considerato disperso, fino a ieri.
Ofek Arbib aveva compiuto 21 anni. Era il fratello minore di una delle migliori amiche di mia figlia. Spesso stava a casa nostra insieme a sua sorella. Ofek è stato sepolto ieri sera nel cimitero militare della città di Holon. Che il suo ricordo sia in benedizione. Nei prossimi giorni faremo visita alla famiglia per porgere le nostre condoglianze durante la shiva.
   Oltre a questi tristi eventi, ci sono ora problemi quotidiani che in realtà sono del tutto irrilevanti. Dopo l'annuncio, forse un po' affrettato, dal fronte interno che ogni cittadino avrebbe dovuto fare scorte di cibo e acqua sufficienti per almeno 72 ore, i supermercati del Paese sono stati praticamente presi d'assalto. Mi sono recato al supermercato solo il giorno seguente per comprare alcune cose. Ma ero troppo in ritardo, il supermercato sembrava essere stato saccheggiato. Molti scaffali erano completamente vuoti. Non c'erano uova, né acqua minerale e soprattutto non c'era più carta igienica.
Come dopo un saccheggio.
Un supermercato a Gerusalemme.
“Ma cos’ha la gente con la carta igienica?" mi sono chiesto, ripensando ai tempi di Corona, quando uova e carta igienica erano i prodotti più ricercati. Poi sono riuscito ad accaparrarmi gli ultimi due pacchetti di carta igienica in una farmacia, naturalmente i più costosi: 100 shekel (l'equivalente di circa 25 euro) per un paio di rotoli. Ma non importa, abbiamo problemi più importanti.
   Da questo crudele Shabbat, in realtà, siamo stati solo a casa. Solo ieri, cinque giorni dopo l'inizio della guerra, nostro figlio è uscito di casa per andare a trovare un amico. Ieri sono andato brevemente al nostro centro commerciale per fare un po' di spesa e mi sono stupito di quanto fosse vuoto. La maggior parte dei negozi era chiusa, solo il piccolo supermercato era aperto. Non c'era nemmeno l'acqua minerale.
   Così la maggior parte del tempo siamo seduti a casa paralizzati davanti alla TV. Probabilmente dovremo fare i conti con questa catastrofe per molto tempo.
   Ma ora dobbiamo prima vincere questa guerra.
   Israele sta combattendo per la sua esistenza, anche 75 anni dopo la fondazione dello Stato. I terroristi devono essere sconfitti, o loro o noi.
   Nonostante tutto, vi auguro uno Shabbat benedetto. Sentitevi liberi di scrivere i vostri commenti qui sotto. E domani sera mi auguro di vedervi tutti alla nostra prossima riunione di Zoom. Fino ad allora, statemi bene!
   Shabbat Shalom!

(Israel Heute, 13 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Operazione Spade di ferro - Giorno 7

di Ugo Volli

Inizia la fase decisiva della guerra
  La guerra terrestre a Gaza ormai è prossima. Israele ha completato il richiamo dei riservisti e l’organizzazione dei contingenti che entreranno a Gaza. Ha anche avvertito in molti modi, con SMS, volantini, messaggi televisivi realizzati hackerando la tv di Gaza, perfino con telefonate personali, i civili della parte nord della Striscia, dove presumibilmente ci sarà il primo impatto dell’operazione, a lasciare il territorio e a rifugiarsi nella zona meridionale, a sud della città di Gaza. Va sottolineato come anche in questa circostanza estrema l’esercito israeliano segua le leggi internazionali e si sforzi di nuocere il meno possibile alla popolazione civile. D’altro canto questa guerra è necessaria: tutto il mondo ha capito che non è possibile più per Israele, che come tutti gli stati ha il compito primario di difendere la vita e l’incolumità dei suoi cittadini, convivere con un’organizzazione terrorista che ha fatto della strage di massa dei civili il suo metodo di “lotta”, macchiandosi di crimini mostruosi. Dopo aver pazientato per quasi vent’anni, sopportando perdite e lutti e limitandosi di fronte alle aggressioni più gravi a operazioni moderate di contenimento, Israele ha capito di dover eliminare completamente le organizzazioni terroriste da Gaza e lo farà.

Gli ostacoli
  Sarà una guerra lunga e difficile. I terroristi hanno trasformato l’intera striscia di Gaza in una fortezza, che ha al suo cuore una rete intricatissima di tunnel sotterranei che ospitano depositi di armi, centri di comando, piattaforme di lancio dei missili, caserme e residenze dei capi, ma anche carceri per gli ostaggi. Tutte le gallerie sono aperte al fuoco di armi istallate nelle pareti, minate, concepite per distruggere le truppe israeliane vi entreranno. Minati sono anche in superficie gli edifici e i rifugi, gli ingressi delle gallerie, ogni possibile punto di passaggio degli israeliani. Come si è visto nelle operazioni precedenti, i terroristi spareranno sui soldati israeliani da scuole, case d’abitazione, moschee, ospedali, sotto a cui tengono anche le loro risorse più preziose, perché le considerano più sicure per loro. Tutta la popolazione vi viene dunque usata come scudi umani da parte dei terroristi, che cercano così di impedire ai soldati di rispondere al fuoco per non colpire degli innocenti; oppure se lo fanno di poterli accusare di uccidere i civili. Questa è la ragione per cui Hamas cerca di impedire agli abitanti delle zone che saranno teatro dello scontro di rifugiarsi altrove: un calcolo cinico ai danni della propria stessa popolazione. La guerra di terra sarà dunque difficilissima, lunga, probabilmente sanguinosa da entrambe le parti: una terribile prova fisica ma anche psicologica per i soldati israeliani.

La guerra psicologica
  Per questa ragione i terroristi cercheranno e già cercano di condurre una guerra psicologica senza scrupoli. Essa si volge innanzitutto nei confronti della loro popolazione, invitata a ignorare gli avvisi di Israele. Poi si sviluppa nei confronti di Israele e degli ebrei, tentando di diffondere notizie false e di amplificare le minacce che pure esistono. Il lancio continuo di razzi e gli assalti ai confini (come oggi hanno tentato di fare i sostenitori del terrorismo dalla Giordania) fanno parte di questa operazione, che si estende nel resto del mondo con minacce e manifestazioni. Ma il lato più importante di questa guerra psicologica riguarda l’opinione pubblica degli altri stati e in particolare di quelli che hanno preso posizione per Israele in Europa e in America. I terroristi cercano di negare l’orribile evidenza dei massacri, testimoniata da mille filmati ed immagini, spesso riprese e diffuse in un primo momento da loro stessi. Si presentano come vittime, sottoposte alla violenza israeliana, non hanno paura di sostenere tesi contraddittorie, come non aver fatto male a donne e bambini e averli anzi spontaneamente rilasciati e accusare Israele di essere lui stesso responsabile con i bombardamenti delle loro istallazioni, della morte di numerosi ostaggi.

La retorica della moderazione
  Lo scopo di queste manovre è semplice. Dato che in prospettiva è chiaro che Israele prevarrà sul terreno, si tratta di paralizzarlo, di togliergli il tempo di condurre fino in fondo l’operazione per ripulire Gaza dal terrorismo. Hamas, l’Iran, la Russia, i loro alleati e difensori nei media e nella politica occidentale si sforzano dunque di costruire un fronte “per la pace” e “per la moderazione” che condanni e blocchi l’autodifesa israeliana in nome dei valori umanitari. Che gli assassini di vecchi e bambini invochino valori umanitari a propria difesa è un paradosso atroce, ma la retorica politica non è nuova a queste commedie. Si tratta di una campagna di guerra psicologica che è già iniziata oggi e certamente si rafforzerà quando inizieranno i combattimenti sul terreno.

(Shalom, 13 ottobre 2023)

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La grande solidarietà per Israele, davanti al Castello Sforzesco di Milano

di Michael Soncin

“Quando sentiamo parlare di miliziani, ecco, quelli non sono miliziani, sono terroristi. Hamas è dichiarato terrorista dall’Europa e dell’America. Io invito quindi i giornalisti a cambiare, a fare attenzione alle parole che usano. Quello che è successo in questi giorni è un vero Pogrom, non c’è altra parola”. A dirlo è stato Emanuele Segre Amar, membro della Comunità Ebraica di Torino, durante il suo ruolo di mediatore durante la giornata del 12 ottobre 2023 in via Beltrami a Milano, durante un presidio di solidarietà per Israele, in seguito al terribile attentato terrorista di matrice islamica perpetrato da Hamas.
  La serata ha visto una folta partecipazione di diversi esponenti dei partiti politici, destra e sinistra, tutti insieme, tutti uniti per Israele. Presenti anche dei giovani iraniani che hanno preso parola esprimendo fortemente il loro sentimento di vicinanza. L’evento è stato organizzato da Il Foglio assieme alla Comunità Ebraica di Milano con Azione – Italia Viva e +Europa.
  A rappresentare Il Foglio, quotidiano che senza tentennamenti è sempre stato dalla parte di Israele, c’era il Vicedirettore Claudio Cerasa. Il Senatore Claudio Borghi ha detto che “non si possono mettere sullo stesso piano dei terroristi, con uno stato democratico che in queste ore sta difendendo il diritto di quella popolazione, di poter convivere all’interno di uno stato che appartiene alla sua storia alla sua cultura”.
  Segre Amar ha poi fatto una puntualizzazione molto importante: “Io vorrei fare una richiesta a tutti i parlamentari che sono qui presenti: l’Inghilterra, la Germania, la Svezia, la Danimarca, la Francia, hanno proibito le manifestazioni dei palestinesi, non hanno permesso che ci siano le loro bandiere in giro. Facciamo la stessa richiesta al nostro governo. Di fronte a quanto è successo, un vero e proprio Pogrom, è il minimo di quanto possiamo fare. Dobbiamo distinguerci dalla Spagna, che invece ha rifiutato la decisione dell’Europa, continuando a mandare soldi ai palestinesi e sappiamo a cosa servono questi soldi”. Soldi che vanno a finanziare il terrorismo.
  Di forte impatto è stato il discorso del Presidente della Comunità Ebraica di Milano Walker Meghnagi: “È difficile parlare questa sera per me. È ora di dire basta, questi sono degli assassini. È una vergogna quello che hanno fatto. Episodi che ci fanno tornare indietro di 80 anni, quando cercavano gli ebrei per trucidarli. È quello che ha fatto Hamas. Noi non possiamo permettere questo. Io accuso l’Occidente, perché andavano fermati prima. Ci sono quasi 1500 morti, oltre 3000 feriti. All’asilo nido sono stati trovati 40 bambini uccisi con un colpo in testa, sgozzati, famiglia intere che si erano asserragliate nelle loro case. Hamas non rappresenta il popolo palestinese, non può rappresentarlo. Purtroppo, hanno trovato il corpo di mia nipote ieri, il corpo martoriato, insieme a lei hanno trovato anche il corpo di un ragazzo che ha studiato presso le nostre scuole. Ma sia chiaro, io parlo per tutti i morti. Chiediamo alle forze politiche di stare alleati con noi. Dobbiamo andare avanti, non finisce questa sera. Erano tutti ragazzi, erano tutti civili, non è una guerra. Erano lì a divertirsi”.
  La Senatrice Mariastella Gelmini di Azione ha calorosamente espresso la sua vicinanza e solidarietà ad Israele. “Abbiamo ancora tutti negli occhi l’immagine dell’orrore, di ciò che non avremo mai voluto vedere e che molto probabilmente rappresenterà l’abisso più profondo dell’orrore di questo secolo. Il 7 ottobre 2023 è stato per Israele un nuovo 11 settembre, è stato un altro Bataclan, con il doppio dei giovani morti, mentre erano insieme intenti a divertirsi. Ed è stato ed è il male assoluto. Ecco perché non c’è spazio per le ambiguità.
  La Senatrice Daniela Santanchè ha rivolto un messaggio al Sindaco di Milano Giuseppe Sala: “Si deve stare dalla parte di Israele, basta ambiguità. A Sala dico che si deve vergognare di mettere la bandiera della pace vicino a quella di Israele. Oggi la bandiera della pace è una sola, quella di Israele. Ma si deve vergognare di più perché oggi ha attaccato un membro della Comunità Ebraica di Milano, dicendo che il dottor Roberto Jarach, Presidente del Memoriale della Shoah, strumentalizza. Chi strumentalizza sono altri”.
  “Vista la terribile e pericolosa ignoranza vorrei leggervi due brani, per chi avesse dei dubbi sul movimento di Hamas”. A dirlo è stato il Senatore del Partico Democratico Emanuele Fiano, che ha menzionato alcune frasi dello statuto del movimento terroristico, sottolineando che “nessun altro movimento palestinese ha uno statuto del genere. È uno statuto antisemita, il cui scopo è l’eliminazione degli ebrei dalla faccia della terra. Coloro che si stupiscono oggi nel sentire quanto dico si stupiscono per ignoranza”.
  Alla fine della serata ha preso la parola il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano, Rav Arbib, il quale ha ringraziato tutti i presenti per la vicinanza. “Grazie a tutti. In questo momento abbiamo un gran bisogno di amicizia e solidarietà e stiamo oggi sentendo amicizia e solidarietà. Questo per noi è estremamente importante. Qualcuno prima ha detto che non abbiamo paura. Personalmente ho molto paura. Credo che tutti gli ebrei siano preoccupati e credo che tutta Israele sia molto preoccupata. Questo non significa che non siamo in capaci di reagire, di affrontare questa situazione, però è una situazione angosciante”.

(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2023)

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Parashà di Bereshìt: Perché Iddio creò l’uomo?

La prima parashà della Torà inizia con le parole ” All’inizio Iddio creò il cielo e la terra”.  

            R. Daniel Terni (Ancona, 1740-1814, Firenze) in Shem ‘Olàm, nel suo commento a questa parashà, cita i maestri in Pirkè Avòt (Massime dei padri, 5:1) che affermano che “Con dieci comandi (maamaròt) fu creato il mondo”. 
            R. Yoseph Colombo (Livorno, 1897-1975, Milano) in una nota alla sua traduzione dei Pirkè Avòt, scrive: “I dieci comandi a cui allude sono rappresentati dai seguenti passi: Genesi I, 1, 3, 6, 9, 11, 14, 20, 24, 29, e II,18, cioè dai nove vajomer del racconto biblico della creazione, più l’inizio dello stesso passo in cui i Rabbini dividono la prima parola bereshith in due bi rishith (Per me fu il principio). La possibilità cui si accenna che Dio avrebbe avuto di creare il mondo con un solo comando, allude alla creazione ex nihilo. Un importante concetto morale e metafisico è espresso in questo paragrafo. Gli uomini giusti con le loro azioni perfezionano il mondo; i peccatori lo mandano in rovina. Concezione idealistica: il mondo non è tutto fatto ma attende dall’uomo il suo compimento, il suo miglioramento. Ecco il fine elevato della vita umana sulla terra”.
            R. Terni cita lo Zòhar (Vaykrà, 11b) dove i maestri affermano che i dieci comandamenti sono paralleli ai dieci maamaròt con i quali fu creato il mondo. 
            Riguardo il primo dei dieci comandamenti r. Yehudà Halevi (Spagna, 1075-1141, Eretz Israel), autore del Kuzari, chiese a r. Abraham ibn ‘Ezra (Tudela, 1089-1164, Saragozza) il motivo per cui è scritto “Io sono l’Eterno tuo Dio che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto” (commento a Shemòt, 20:2) e non è invece scritto “Che ho fatto il cielo e la terra e ho fatto te”. R. Ibn ‘Ezra rispose che anche coloro che sono meno colti sanno che è stato il Signore che ci ha fatto uscire dall’Egitto, mentre una discussione sulla creazione del mondo è molto più difficile. 
            R. Terni cita anche r. Joseph ben r. Moshe di Przemysl il cui commento alla Haggadà di Pèsachintitolato Ketònet Passìm (stampata a Lublino nel 1685) contiene una derashà sulla festa di Shavu’ot (che inizia con le parole “kedè lehavìn”). In questa derashà vi è un’altra risposta alla domanda di r. Yehuda Halevi. Nel trattato ‘Eruvìn (13b) del Talmud babilonese è citata una discussione tra la scuola di Shammài e la scuola di Hillèl: È meglio che l’uomo sia stato creato, oppure sarebbe stato meglio che non fosse stato creato?  Alla fine conclusero: sarebbe stato meglio che l’uomo non fosse stato creato; ma ora che è stato creato esamini le sue azioni. Pertanto non era opportuno che la Torà scrivesse “Che ti ho creato” e per questo è stato scritto “Che ti ho fatto uscire”.         
            Se così, afferma r. Terni, perché Dio creò l’uomo? E risponde: le parole “Sia luce”, si riferiscono alle azioni degli uomini giusti. Questo significa che Dio creò l’uomo allo scopo che fosse giusto; e se è giusto certamente è meglio che sia creato piuttosto che non lo sia. E così è detto in Kohèlet (Ecclesiaste, 7:29): “Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi”.
 R. Terni offre anche una spiegazione alla posizione della scuola di Hillèl che afferma che è meglio che l’uomo sia stato creato. Il Santo Benedetto conta i buoni pensieri insieme con le susseguenti buone azioni, mentre non conta i cattivi pensieri insieme alle cattive azioni. E poiché contando anche i buoni pensieri vi sono più mitzvòt positive (248 moltiplicate per due cioè 496) di quelle negative (365),  la scuola di Hillèl sosteneva che vi era un vantaggio nella creazione dell’uomo.  

(Shalom, 13 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Bereshit (In principio)

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Attacco a Israele. P. Di Bitonto: “In coda per donare il sangue, ecco la forza di Israele”

di Daniele Rocchi1

Soldati, poliziotti, preti, donne, ultraortodossi, laici, cristiani, “tutti uniti”, in fila, per donare il sangue “in un momento decisivo che separa la vita dalla morte”. In Israele sotto attacco, a raccontare questa storia di solidarietà e amicizia è padre Benedetto Di Bitonto, sacerdote responsabile della comunità dei cattolici di lingua ebraica a Gerusalemme, che appartiene al Vicariato “San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica”, parte integrante del Patriarcato latino di Gerusalemme. Donare il sangue è “un atto di amore cristiano” afferma il sacerdote che spiega: “in questo momento difficile negli ospedali ci sono tanti feriti che hanno bisogno di sangue”.
   “Per questo motivo, lunedì 9 ottobre, siamo andati con padre Tiago, padre Michael ed Eliam nel centro di raccolta sito nella vicina Arena, nella zona di Malha, a pochi minuti di distanza dalla nostra casa di Simeone e Anna. Davanti a noi una fila lunghissima, silenziosa, che attendeva già sulla scalinata che conduce al cortile del Palazzetto dello Sport. Siamo rimasti lì in coda per nove ore e mezza”. Ma padre Benedetto non rimpiange “neanche un minuto di essere stato lì, è stata davvero un’esperienza unica, come non ne avevo vissute nei quasi 13 anni che vivo in Israele. È risaputo che gli israeliani e le file non sono molto amici, ma ieri non solo tutti sono rimasti pazienti e non hanno cercato di spingere, ma anche quando c’è stato l’allarme e siamo dovuti correre a ripararci all’interno, ognuno è ritornato al proprio posto con eccezionale rispetto e gentilezza”.
   Il tempo di attesa è trascorso con i volontari del Magen David Adom (la Croce Rossa israeliana) che offrivano acqua alle persone in attesa mentre, aggiunge padre Benedetto, “nelle prime ore del pomeriggio la gente ha iniziato spontaneamente a offrire cibo: panini, mele, ghiaccioli che tingono lingua e labbra di blu. Iniziative private di persone che hanno deciso di venire a rendere più facile per gli altri il lento cammino verso la donazione. Ad un certo punto è arrivato un musicista con chitarra e impianto di amplificazione e ha iniziato a suonare per noi canti di incoraggiamento”.
   Il tutto condito da “pioggia, vento e un allarme missilistico che ci ha costretti a correre dentro la cucina di una vicina panetteria con il proprietario che con velocità e forza ha spinto tutti quelli che erano fuori ad entrare”. Tante ore trascorse insieme in coda ha trasformato il tempo di attesa in tempo di conoscenza e di condivisione: “nell’arena già cominciavamo a sentirci una famiglia con i nostri compagni, mentre si avvicinava il nostro turno. Alla fine è toccato a noi e siamo entrati: tre preti cattolici, un Hasid Gur, un ultraortodosso della comunità Hasidica, e un ragazzo laico che hanno trascorso insieme il tempo, in attesa di donare il sangue. Ecco come dovrebbe essere sempre la realtà, questo è il potenziale d’Israele” dice convinto padre Benedetto che conclude: “Invitiamo tutti coloro che possono a donare il sangue. Non dimenticheremo questo giorno, ma speriamo di dimenticare l’orrore di questo periodo”.

(SIR, 12 ottobre 2023)

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Gaza, il piagnisteo pacifista e la gigantesca ipocrisia su Hamas

Si nascondono dietro al pacifismo gli antisemiti moderni, ma non sanno rispondere nemmeno a poche domande su Hamas e sulla popolazione di Gaza.

di Maurizia De Groot

Come era ampiamente prevedibile, appena un carro armato israeliano si è avvicinato al confine con la Striscia di Gaza è partito il piagnisteo pacifista.
   Oddio ci sono i civili. Santo cielo l’assedio no. Togliere l’acqua è un crimine di guerra. Ci vogliono corridoi umanitari. Ma la più bella è: la popolazione non c’entra niente con Hamas.
   Ma non è Hamas che governa la Striscia di Gaza? E a qualcuno risulta che vi siano almeno due (due di numero) dissidenti politici? Qualcuno finito in galera perché non era d’accordo con i macellai islamici?
   A qualcuno risulta una protesta della popolazione? Non dico qualcosa come in Iran, ma un gruppetto di persone che protestava contro Hamas? C’è mai stato?
   Come? Hamas non lo permette? Nemmeno gli Ayatollah iraniani lo permettono, eppure in Iran sono 13 mesi che protestano. Vengono uccisi, torturati, i più fortunati vanno in prigione, ma non si arrendono.
   Volete la verità vera? Da Gaza alla Cisgiordania, la stragrande maggioranza dei palestinesi sta con Hamas, condivide le idee di Hamas e quindi è complice di Hamas. Altro che “la popolazione non è Hamas”. La popolazione è Hamas.
   Sono stati sommersi di denaro, miliardi di dollari destinati alle infrastrutture della Striscia di Gaza. Avete visto niente? Nemmeno un misero sistema fognario sono riusciti a costruire. E come farebbero altrimenti a lamentarsi e continuare così ad alimentare l’assurdo afflusso di denaro con il quale “drogare” la popolazione, renderla dipendente dagli aiuti e nel frattempo comprare migliaia di missili o materiale per la loro costruzione?
   No, quando parlate della Striscia di Gaza dovete intenderla come una nazione a se stante, un reame dove tutti sono con il re, con Hamas.
   Gaza è piccola, così piccola che è difficilissimo nascondere qualcosa al vicino di casa. Vediamo in quanti si fanno avanti per segnalare la posizione degli ostaggi. Sono tanti, almeno qualcuno dovrebbe farsi avanti. Vediamo se è vero che la popolazione non è Hamas o se, al contrario, è proprio la popolazione ad essere Hamas.

(Rights Reporter, 12 ottobre 2023)

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Antisionismo come abito buono dell’antisemitismo

di Andrea Cangini

Cos’è che distingue lo Stato di Israele da tutti gli altri? Cosa distingue Israele da, poniamo, la Cina? Facile: la sua natura ebraica. Sarebbe intellettualmente onesto, allora, ammettere una volta per tutte, anche di fronte a noi stessi, che, non in tutti, ma nella maggior parte dei casi l’antisionismo è solo l’abito buono dell’antisemitismo.

Pur se in un culmine di orrore e di violenza senza precedenti, sulla questione arabo-israeliana i discorsi sono sempre gli stessi. Discorsi spesso ipocriti, immancabilmente prevedibili. È l’eterno ritorno del sempre uguale, per dirla con Nietzsche. Può, pertanto, avere una qualche utilità rileggere oggi un estratto del breve discorso che pronunciai nell’aula del Senato il 20 maggio del 2021 in occasione dell’informativa dell’allora ministro degli Esteri Luigi di Maio sulla sicurezza nel Mediterraneo.
   Il popolo curdo rispetto alla Turchia, gli armeni del Nagorno-Karabakh rispetto all’Azerbaigian e, di fatto, alla Turchia, le minoranze uiguri, tibetana e mongola, oltre ai cittadini di Hong Kong, rispetto alla Cina, la minoranza Harratin in Algeria, Marocco e Mauritania, il popolo Sahrawi in Marocco, le popolazioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia in Georgia e rispetto alla Russia, i Tamil nello Sri Lanka, la popolazione del Karen in Birmania…
   Potrei andare avanti a lungo, etnia per etnia, lingua per lingua, religione per religione, nell’elencare i popoli che si trovano oggi senza uno Stato, o i popoli che uno Stato lo hanno ma sono oppressi da un regime autoritario. E a questo triste e sterminato elenco potrei, anzi, dovrei aggiungere i cristiani. I cristiani perseguitati in Nigeria, in Congo, in Mozambico, in Camerun, in Burkina Faso, in Corea del Nord, in Somalia, in Pakistan, nelle isole Molucche… Ogni giorno, nel mondo, vengono uccisi dai 13 ai 18 cristiani e vengono uccisi in quanto cristiani.
   Eppure, le élite occidentali non sembrano occuparsene. Non vedo manifestazioni di piazza o raccolte di firme, non leggo vibranti editoriali, non assisto a ripetute e ferme prese di posizione da parte di leader politici, intellettuali, artisti, cantanti, attori, organismi internazionali e associazioni per i diritti umani in difesa dei cristiani perseguitati, o dei curdi, o degli armeni, o degli uiguri e via elencando.
   Reazioni del genere le vedo solo in un caso: il caso del popolo palestinese rispetto allo Stato di Israele, di cui Hamas nega il diritto di esistere. Il mainstream occidentale parteggia per i palestinesi, non c’è dubbio. E allora, se le cose hanno un senso, le possibilità sono due. Due sole: una particolare affinità delle élite occidentali e dei maitre à penser nei confronti del popolo palestinese, o una loro particolare avversità nei confronti dello Stato di Israele.
   Sbaglierò, ma non percepisco reali affinità. Il problema, dunque, è lo Stato di Israele in quanto tale. Ma cos’è che distingue lo Stato di Israele da tutti gli altri? Cosa distingue Israele da, poniamo, la Cina? Facile: la sua natura ebraica. Sarebbe intellettualmente onesto, allora, ammettere una volta per tutte, anche di fronte a noi stessi, che, non in tutti, ma nella maggior parte dei casi l’antisionismo è solo l’abito buono dell’antisemitismo.

(Formiche.net, 12 ottobre 2023)

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Così Sharon annunciò il ritiro dalla Striscia. La prova di speranza

Testo del discorso alla nazione fatto dal premier israeliano, Ariel Sharon, il 15 agosto 2005

Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me, si tratta di un momento particolarmente difficile. Il governo israeliano ha deciso di procedere al disimpegno a malincuore, e la Knesset non ha certo approvato tale decisione a cuor leggero. Non ho mai nascosto che, come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione.
  Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza. Ci siamo sforzati di raggiungere degli accordi con i palestinesi perché i due popoli potessero percorrere insieme il cammino della pace, ma si sono tutti infranti contro un muro fatto di odio e di fanatismo.
  Il piano di disimpegno unilaterale, che annunciai circa due anni fa, rappresenta la risposta israeliana a questa realtà. Il piano rientra nell’interesse di Israele, qualsiasi cosa possa succedere in futuro. Stiamo già riducendo gli scontri quotidiani e le relative vittime da entrambe le parti, e l’IDF (l’esercito israeliano, ndr) tornerà a dispiegarsi lungo le linee difensive dietro il muro di sicurezza. Coloro che continueranno a combattere contro di noi dovranno fare i conti con la risoluta risposta dell’IDF e delle forze di sicurezza.
  Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati.
  Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai. 
  Il disimpegno ci permetterà di rivolgere la nostra attenzione alla situazione interna: i nostri programmi nazionali cambieranno; nella nostra politica economica saremo liberi di colmare i divari sociali e di impegnarci in una vera lotta contro la povertà, miglioreremo il sistema scolastico e aumenteremo la sicurezza personale di ogni singolo cittadino del paese. I disaccordi emersi sul piano di disimpegno hanno provocato ferite profonde, inasprito l’odio tra fratelli e portato a dichiarazioni e azioni gravi. Io capisco tali sentimenti, il dolore e il pianto di chi è contrario. Tuttavia, rimaniamo una nazione sola anche quando ci combattiamo e affrontiamo.
  Residenti della Striscia di Gaza: finisce oggi un capitolo glorioso nella storia di Israele, e un capitolo fondamentale in quella delle vostre vite come pionieri, come gente che ha saputo realizzare un sogno e ha sostenuto l’onere della sicurezza e degli insediamenti per tutti noi. Il vostro dolore e le vostre lacrime costituiscono una parte indissolubile della storia del nostro paese. Qualsiasi disaccordo possiamo avere, non vi abbandoneremo, e a seguito dell’evacuazione faremo tutto quanto in nostro potere per ricostruire le vostre vite e le vostre comunità. Desidero dire ai soldati dell’IDF, ai funzionari della Polizia e della Polizia di frontiera israeliane quanto segue: la vostra missione è difficile, perché quelli che siete chiamati ad affrontare non sono nemici, ma fratelli e sorelle. Dovrete dare prova di grande sensibilità e pazienza: sono sicuro che ne sarete capaci. Voglio che sappiate che l’intera nazione vi sostiene ed è orgogliosa di voi.
  Israeliani, la responsabilità del futuro di Israele grava sulle mie spalle. Ho dato inizio al piano perché sono giunto alla conclusione che questo provvedimento sia vitale per Israele. Credetemi, il dolore che provo compiendo questo atto è pari soltanto all’incrollabile convinzione che fosse assolutamente necessario. Stiamo intraprendendo un nuovo cammino che presenta molti rischi, ma offre anche un raggio di speranza a tutti noi. Con l’aiuto di Dio, speriamo che sia un cammino di unità e non di divisione, di rispetto reciproco e non di animosità tra fratelli, di amore incondizionato e non di odio senza ragione. Da parte mia farò tutto il possibile perché sia così.
Ariel Sharon

Il Foglio, 12 ottobre 2023)

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Il 24 agosto 2005, a sgombero di Gaza ormai avvenuto, “Notizie su Israele” pubblicava la seguente riflessione.

La guerra continua

E' fatta! I territori "occupati" dagli insediamenti ebraici sono stati sgomberati. I "coloni" si sono lasciati "trasferire" più velocemente e più pacificamente del previsto. La comunità internazionale ha applaudito, i potenti della terra si sono congratulati con i capi d'Israele per la relativa calma con cui il tutto è avvenuto. «E' un avanzamento verso la pace», hanno detto, mentre in realtà è un arretramento del fronte in una situazione di guerra. Ed è una guerra feroce, quella che conducono gli arabi, simile a quella che Hitler scatenò contro la Russia. Una guerra in cui non è in gioco la terra, ma le persone. E' guerra contro un tipo umano, non contro una nazione. Proprio la calma in cui il "trasferimento" è avvenuto dovrebbe far riflettere e provocare forse qualche problema di coscienza, soprattutto negli spettatori internazionali che hanno guardato e applaudito lo spettacolo. I prepotenti "coloni" erano dunque gente tranquilla, a quel che sembra. Perché se ne sono dovuti andare? Perché il prodotto di anni di lavoro, case, aziende, piantagioni, tutti beni di cui anche altri avrebbero potuto godere, hanno dovuto essere distrutti? Si conosce la risposta: perché su quella terra deve nascere il futuro stato palestinese, il quale, dopo le dovute "prove di buona volontà" da parte dei vicini ebrei, vivrà in pace con l'attuale stato israeliano. E perché mai in uno stato arabo che vivrebbe in pace con lo stato ebraico non potrebbe vivere una piccola minoranza di ebrei, quando nel vicino stato ebraico vivono da anni centinaia di migliaia di arabi? Sembra che per far nascere uno stato palestinese sia assolutamente indispensabile che sulla sua terra non si trovi traccia di ebrei. E la cosa sembra ragionevole, anche a molti ebrei. Ma è questo il significato della parola "pace"? Vivere in pace per gli arabi significa non essere disturbati dalla presenza di ebrei? Si dirà che i "coloni" volevano il grande Israele, e che occupavano illegittimamente un territorio non loro. Potrebbe anche essere, ma quanto alle intenzioni, sarebbe stato sufficiente far sapere loro che erano desideri destinati ad essere vanificati; e quanto alla legittimità della loro presenza su quella terra, era una cosa che poteva e doveva essere verificata soltanto dopo avere costituito uno stato di diritto, e non prima. Su questo avrebbe dovuto esercitare la sorveglianza la comunità internazionale: avrebbe dovuto esigere che prima di tutto su quella terra si costituisca uno stato di diritto, in cui l'autorizzazione a vivere in certe zone sia stabilita dalla legge, e non dagli attentati terroristici. I capi delle nazioni avrebbero dovuto dire: «Nascerà uno stato palestinese soltanto quando gli arabi avranno dato prova di saper accettare sulla loro terra anche la presenza di ebrei, e non solo come turisti, ma anche come cittadini dello stato o come cittadini stranieri che hanno dei possedimenti in una nazione estera, come accade in tutte le parti del mondo.» Avrebbe dovuto essere questa la "prova di buona volontà" da richiedere ai palestinesi. Ma questo non è stato fatto. «Prima di tutto gli ebrei se ne devono andare, poi si potrà parlare», questa è la filosofia corrente. Nessuno s'illuda: la guerra continua.
Marcello Cicchese cfr
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Pochi mesi dopo il suo proclama agli israeliani, la sera del 4 gennaio 2006, nella sua fattoria di Havat Shikmim, nel nord del deserto del Negev, Ariel Sharon fu colpito da un ictus. Entrò in coma e vi rimase fino a che morì, l'11 gennaio 2014. E' un segno? In Israele i fatti politici che coinvolgono l'intera nazione hanno sempre un significato. Che inevitabilmente coinvolge Dio. Che con interesse sta a vedere come li interpretiamo. M.C.

(Notizie su Israele, 12 ottobre 2023)

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Così Hamas ha ingannato gli 007 di Israele. Come l’attacco è rimasto segreto

Quattro funzionari dell’intelligence israeliana hanno rivelato al New York Times tutto quello che è andato storto. Dall’eccessiva fiducia nei sistemi di sorveglianza al confine al depistaggio dei terroristi intercettati

Hamas il 7 ottobre ha colto di sorpresa Israele, scatenando una vera e propria mattanza. Ma come è potuto succedere? Come sono riusciti i terroristi palestinesi, partiti da Gaza, a sfondare così facilmente le difese di Gerusalemme? Come è stato possibile che gli 007 israeliani, ritenuti tra i più efficienti al mondo, non siano riusciti a capire cosa stava per succedere? Nei giorni scorsi, molti analisti hanno cercato di risolvere il mistero, ma nella stragrande maggioranza dei casi hanno offerto come spiegazioni mere speculazioni. Ronen Bergman e Patrick Kingsley del New York Times, invece, sono riusciti a parlare con quattro funzionari dell’intelligence israeliana. È il primo sguardo, dall’interno, sul fallimento dei servizi segreti israeliani. Un fallimento di cui si parlerà per decenni. Ma vediamo cosa non ha funzionato.

Intercettazioni
  Gli 007 israeliani non sono riusciti a monitorare i canali chiave utilizzati da Hamas per preparare l’attacco. Secondo un articolo di qualche giorno fa del Financial Times, i terroristi molto probabilmente hanno comunicato tra loro attraverso quelli che in gergo mafioso vengono definiti pizzini: messaggi in codice scritti su piccoli fogli.

Il depistaggio di Hamas
  E anche quando hanno intercettato le comunicazioni tra gli operativi di Hamas, i servizi israeliani non sono stati in grado di valutare correttamente il livello della minaccia. Tanto che Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, sei giorni prima dell’attacco aveva affermato: “Hamas in questo momento è molto moderata, ha capito le implicazioni che ci sarebbero in caso di una nuova sfida”. Anche perché l’organizzazione terroristica ha di fatto depistato gli 007 di Gerusalemme: sapendo di essere intercettati, gli operativi di Hamas nelle loro conversazioni telefoniche hanno dato l’impressione di voler evitare a tutti i costi un’altra guerra con Israele, visto il disastroso esito del conflitto del maggio 2021. Una trappola che ha portato Israele a sottovalutare la minaccia in arrivo da Gaza.

Troppa fiducia nella tecnologia
  Secondo i due reporter del New York Times, all’origine del fallimento di Shin Bet e Mossad, ci sarebbe anche un’eccessiva confidenza negli strumenti di sorveglianza dei confini, che è stato facilmente neutralizzato da Hamas. Due funzionari hanno spiegato che il sistema di controllo si basa quasi interamente su telecamere, sensori e mitragliatrici azionate a distanza. “I comandanti israeliani – spiega il quotidiano Usa - erano diventati eccessivamente fiduciosi riguardo l’inespugnabilità del sistema. Pensavano che la combinazione di sorveglianza remota e armi, barriere e un muro sotterraneo per impedire ad Hamas di scavare tunnel verso Israele rendesse improbabile un’infiltrazione di massa, riducendo la necessità di avere un numero significativo di soldati lungo la linea di confine”. Peccato che il sistema di controllo da remoto potesse essere distrutto… da remoto. Hamas ha infatti sfruttato questo punto debole, utilizzando droni per attaccare le torri di comunicazione che trasmettevano segnali da e verso il sistema di sorveglianza e mettendolo fuori uso nelle prime fasi dell’invasione. Tanto che la maggioranza dei soldati israeliani stava ancora dormendo quando si è trovata a dover fronteggiare l’attacco di Hamas.

La concentrazione dei comandanti
  Un altro errore strategico, da parte di Israele, è stato quello di concentrare tutti i comandanti dell’esercito in un’unica base lungo il confine. Quando questa è stata espugnata da Hamas, i leader militari di Israele sul campo sono stati uccisi, feriti o presi in ostaggio. Di fatto i soldati dell’Idf si sono ritrovati nel caos, senza nessuno in grado di dare ordini precisi per contenere l’attacco.

(Quotidiano Nazionale, 11 ottobre 2023)


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Anni di astuzia, una barriera neutralizzata: come Hamas ha sfondato le difese di Israele

Tsahal è stato ingannato dal gruppo terroristico e ha fatto eccessivo affidamento su sistemi di sorveglianza a distanza e armi facilmente disattivabili da droni e cecchini.

Per molto tempo, Israele ha pensato che la barriera di sicurezza high-tech che lo separa dalla Striscia di Gaza - irta di filo spinato, telecamere e sensori e fortificata da una base di cemento, a prova di tunnel e mitragliatrici telecomandate - fosse inespugnabile.
   Ma dopo il sanguinoso attacco a sorpresa di Hamas, che ha ucciso più di 1.200 persone - la maggior parte delle quali civili - alti militari israeliani hanno parlato a condizione di anonimato per testimoniare l'esistenza di gravi carenze operative e di intelligence che hanno permesso ai terroristi di sfondare facilmente la barriera.
   Inoltre, i soldati israeliani di guardia quel giorno hanno fornito dettagli edificanti su come i terroristi hanno condotto questa complessa operazione per violare il "muro di ferro" di Israele intorno all'enclave in diversi punti.
La recinzione di confine tra Israele e Gaza, aperta in seguito ai bombardamenti dei terroristi palestinesi
Mentre Israele si riprende dal peggior massacro di ebrei in un solo giorno dai tempi dell'Olocausto, rimangono ancora degli interrogativi su come i terroristi siano stati in grado di violare la barriera ben attrezzata e di devastare l'area circostante per ore, fino a quando le forze di sicurezza sono intervenute in forze per fermare l'assalto. I soldati che hanno testimoniato a condizione di anonimato ci hanno assicurato che queste domande saranno poste ed esaminate, ma che per il momento Tsahal si sta dedicando alla guerra.
   Il massiccio attacco, all'alba di sabato scorso, è iniziato con il lancio di missili contro le aree civili israeliane, seguito dal fuoco dei cecchini e dagli esplosivi lanciati dai droni sulle torri di guardia e di comunicazione, e infine dai bulldozer che hanno divelto la doppia barriera alta sei metri in una trentina di punti.
   Più di 1.500 terroristi si sono poi precipitati nei varchi a bordo di furgoni e motociclette, affiancati da uomini in alianti e motoscafi sul lato del mare, per lanciare attacchi con armi da fuoco contro le comunità vicine. Intere famiglie sono state massacrate, rintanate nelle loro case. In alcuni luoghi sono stati trovati corpi atrocemente mutilati. Durante un festival musicale all'aperto, 260 persone sono state uccise con armi da fuoco o granate.
   I terroristi hanno anche rapito circa 150 uomini, donne e bambini, tenendoli in ostaggio a Gaza.
   Secondo le informazioni fornite martedì dal New York Times, che cita le conclusioni iniziali di quattro alti funzionari della sicurezza israeliana, il fallimento operativo era già completo quando l'allarme dato sabato mattina presto dai servizi di intelligence, che riferiva di un improvviso aumento delle comunicazioni di Hamas, non è stato seguito dalle guardie di frontiera, che probabilmente non l'hanno capito o semplicemente non l'hanno letto.
  Ma il fallimento principale è stato l'eccessivo affidamento a dispositivi di protezione e difesa telecomandati non idonei, che hanno permesso ai droni di Hamas di bombardare e disattivare le torri di comunicazione, i centri di sorveglianza e le mitragliatrici telecomandate situate vicino alla barriera, nonché le telecamere di sicurezza, che sono state disattivate dal fuoco dei cecchini. Tutto questo ha lasciato immediatamente la barriera completamente priva di protezione.
  C'erano pochissimi soldati vicino alla barriera, in parte perché le forze si trovavano in Cisgiordania e in parte per la fiducia riposta nei sistemi di difesa automatizzati, che hanno portato le autorità a ritenere che non fosse più necessario presidiare fisicamente la barriera.
  Secondo la stessa fonte, un gran numero di comandanti era raggruppato in un'unica base militare vicino alla barriera. Quando questa base è stata presa d'assalto dai terroristi e i suoi comandanti sono stati uccisi, feriti o rapiti insieme a molti soldati, alcuni dei quali sono stati falciati nel sonno, non è stato possibile trasmettere immediatamente le informazioni al resto dell'esercito.
  Sono passate molte ore prima che l'esercito si rendesse conto di ciò che era successo nelle città di confine e inviasse forze sufficienti per combattere i terroristi.
  Ai fallimenti operativi si è aggiunto un ancor più grave fallimento dell'intelligence, a partire dal sotterfugio perpetrato per diversi anni da Hamas, che ha convinto Israele di non essere alla ricerca di un conflitto e che, al contrario, era disposto a mantenere la calma, pur mantenendo discretamente i contatti con Israele.
Il ministro della Difesa Benny Gantz fotografato accanto alla barriera appena completata sopra e sotto il confine con la Striscia di Gaza
Secondo il NYT, ciò ha portato a una mancanza di sorveglianza di alcuni canali di comunicazione chiave di Hamas, basata sulla fiducia iniziale riposta nei leader di Hamas che hanno ripetuto più e più volte - su canali che sapevano essere ascoltati dagli israeliani - di non volere un conflitto aperto. Fino al giorno dell'attacco, l'establishment della sicurezza israeliana era convinto che Hamas non avrebbe corso alcun rischio, quindi l'invasione è stata una sorpresa totale per le guardie di frontiera.
"Una trentina" di palestinesi armati hanno rapidamente preso il controllo della base militare, che hanno tenuto per sette ore, ha analizzato la soldatessa, identificata con l'iniziale ebraica del suo nome "Yud", per il Dodicesimo Canale.
  I razzi sono piovuti per un'ora e i soldati hanno cercato di nascondersi mentre i terroristi invadevano la base.
  "Sono corso a piedi nudi verso il rifugio antiaereo. Dopo un'ora abbiamo sentito delle voci che parlavano in arabo. A quel punto hanno iniziato a sparare dall'ingresso".
  I terroristi hanno lanciato granate contro i soldati riuniti", racconta Yud, che è riuscito a nascondersi in una piccola stanza con altri compagni.
  Fino a quando un'unità d'élite dell'esercito israeliano non ha preso il controllo della base, "per ore la base era diventata un campo di Hamas".
   Yud racconta che l'esercito si era preparato a vari scenari, come l'infiltrazione di una manciata di uomini armati, una ventina al massimo, ma "non avrei mai immaginato che un giorno avrebbero preso d'assalto una base militare".

• GLI ATTACCHI DEI CECCHINI
Palestinesi prendono il controllo di un carro armato israeliano dopo aver attraversato la barriera di confine con Israele
All'inizio dell'attacco, i cecchini hanno "sparato contro i posti di osservazione" sparsi lungo la barriera di 65 chilometri, ha dichiarato all'AFP un portavoce dell'esercito israeliano.
Un'altra soldatessa, di stanza in un posto di osservazione nella base di Kissufim, ha riferito che i palestinesi armati "hanno sparato contro... le telecamere di osservazione, privandoci delle immagini".
La soldatessa, identificata con il suo nome di battesimo, "Lamed", ha raccontato a Twelfth Channel che è stato allora che sono cominciate ad arrivare notizie di un'incursione di orde di terroristi, "qualcosa di folle".
  Mentre la sua base militare veniva attaccata, "ci è stato detto che la nostra unica possibilità di sopravvivenza era quella di... correre al riparo".

• UN CLAMOROSO FALLIMENTO
Terroristi palestinesi di ritorno nella Striscia di Gaza con il corpo di quello che sembra essere un soldato israeliano,
L’attacco che ne è seguito è stato il peggiore nei 75 anni di storia di Israele e ha portato alla rappresaglia su Gaza e a una guerra che potrebbe durare a lungo.
Hamas ha continuato a far piovere razzi sul sud e sul centro di Israele, uccidendo e ferendo più persone che mai.
l Ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, ha dichiarato che più di 950 persone sono state uccise nell'enclave palestinese durante le rappresaglie israeliane.
Israele sostiene di colpire le infrastrutture terroristiche e, più in generale, tutte le aree in cui Hamas opera o si nasconde.
  L'esercito israeliano ha anche affermato di aver ucciso circa 1.500 terroristi sul suo territorio dall'inizio dell'infiltrazione.
  Come altri funzionari israeliani, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha promesso che Hamas non sarà mai più in grado di attaccare Israele, aggiungendo che l'annientamento del gruppo terroristico è essenziale per il futuro del Paese. Come il presidente statunitense Joe Biden, Netanyahu ha paragonato le atrocità di sabato contro i civili israeliani alle azioni dello Stato Islamico.
  "Questo è un enorme fallimento del sistema di intelligence e dell'apparato militare del sud", ha dichiarato il generale in pensione Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale.
  I sopravvissuti agli attacchi alle comunità vicine alla barriera di sicurezza con Gaza sono molto scioccati dal fallimento degli accordi di sicurezza.
   Inbal Reich Alon, 58 anni, residente nel kibbutz Beeri, racconta che anni fa, "dopo l'installazione della recinzione, ci sentivamo al sicuro".
   Ma, dice, "era un'illusione".

(Times of Israël, 11 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Hamas uccide 40 bambini israeliani nel kibbutz di Kfar Aza, alcuni decapitati

di David Spagnoletto

Hamas ha deciso di identificarsi con il Male Assoluto, che ha preso forma e sostanza nel kibbutz di Kfar Aza, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza: 40 bambini uccisi a sangue freddo, alcuni dei quali, anche neonati, sono stati decapitati. Negare che la guerra sia il motore del mondo sarebbe un inutile esercizio di retorica e falso perbenismo. E soprattutto sarebbe inutile.
 Ma se l’uccisione fra eserciti nemici rientra nel campo dell’abitudine e della tollerabilità, lo stesso non può dirsi di quella indiscriminata di civili.
 Non possiamo e non dobbiamo farlo, perché perderemmo quel briciolo di umanità che ci è rimasta. Superare questo limite significherebbe non avere alcuna possibilità di ritorno o ritrattazione.
 Come ha sottolineato la premier Giorgia Meloni, andare casa per casa e deportare intere famiglie è un atto di puro odio. La rivendicazione territoriale è una giustificazione che ha solo note stonate, nonostante nei talkshow e approfondimenti sulle tv italiane si voglia far credere il contrario.
 I particolari del massacro del kibbutz di Kfar Aza erano circolati nelle chat di WhatsApp ieri mattina. Personalmente ero stato informato da un caro amico che vive a Tel Aviv. Mi diceva che aveva appena visto un video realizzato da un miliziano di Hamas mentre uccide un cane che era a spasso con una bambina. Alle parole “ti lascio immaginare cosa abbia fatto poi alla bambina”, ho chiesto di non proseguire il racconto.
 In questi giorni concitati e pieni di angoscia, avevamo deciso di soffermarci sui motivi per cui in Italia non si parlasse di questa atrocità nell’atrocità.
 Il tempo di andare a prendere mia figlia di tre anni all’asilo e tutto era cambiato. Le edizioni online dei nostri quotidiani raccontavano la barbara uccisione di 40 bambini da parte di Hamas nell’attacco nel kibbutz di Kfar Aza, alcuni dei quali decapitati, anche neonati.
 È sconvolgente dover scrivere che la vita di bambini e neonati non debba rientrare nei discorsi di rivendicazione politica, territoriale e religiosa.
 È sconvolgente dover scrivere e parlare della vita di un bambino, come fosse un capo di Stato, un leader politico o un generale.
 È sconvolgente che dopo le decapitazioni dei bambini e neonati, nonché l’uccisione di cani, ci siano ancora tante persone che appoggino l’azione di Hamas.
 La spiegazione possibile è solo una: volete la distruzione di Israele e di tutto il popolo ebraico.

(Progetto Dreyfus, 11 ottobre 2023)

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Sono 260 i giovani massacrati da Hamas al festival Nature Party e i familiari dei rapiti 

di Pietro Baragiola

Musica e danze hanno lasciato il posto a spari e tragedia la mattina di sabato 7 ottobre al Nature Party, il festival di musica elettronica nel deserto del Negev, vicino al kibbutz Re’im, non lontano dalla Striscia di Gaza.
   Il rave, iniziato la sera di venerdì e durato tutta la notte, era stato organizzato per celebrare la festività di Sukkot, una delle ricorrenze religiose più importanti nel mondo ebraico, e invece si è trasformato in un massacro: al sorgere dell’alba diversi terroristi di Hamas hanno usato parapendii a motore per infiltrarsi in Israele e massacrare a colpi di arma da fuoco i civili presenti.
   Gli organi di sicurezza hanno confermato che, durante questo attacco, hanno perso la vita almeno 260 persone mentre decine sono state catturate ed esposte in maniera crudele dai terroristi nei diversi video condivisi online.
   “Un bilancio di vittime che è destinato a crescere man mano che proseguono le ricerche” ha affermato un portavoce della organizzazione rabbinica ZAKA, responsabile del recupero dei cadaveri nelle aree colpite da attentati e altre calamità.
   Delle migliaia di partecipanti al festival sono ancora numerosi i dispersi e questo ha portato molti genitori e familiari a rivolgere un appello disperato agli organi di governo per avere delle risposte sul destino dei loro cari.

• LA STRAGE DI HAMAS
  Il rave di Sukkot o “Nature Party” quest’anno ha accolto oltre 3000 partecipanti tra i 20 e i 40 anni nel deserto. Il festival è iniziato venerdì 6 ottobre verso le 23, dando il via alle danze di migliaia di giovani strepitanti di celebrare la festa delle capanne, ballando tra i diversi gazebo montati apposta per l’evento.
   La gioia della festività è stata però interrotta bruscamente alle 6:30 di mattina, quando i partecipanti hanno sentito i boati di migliaia di razzi partiti da Gaza che sfrecciavano nel cielo sopra di loro (il festival si trovava a poco più di 3 chilometri dal confine). È scoppiato così il caos generale e, nonostante i tentativi dello speaker dell’evento di invitare i partecipanti a non andare in preda al panico, i giovani si sono lanciati di corsa verso le loro auto per scappare da quell’inferno.
   Il volo dei razzi è stato subito accompagnato dall’arrivo di decine di miliziani di Hamas che, senza la minima esitazione, hanno aperto il fuoco sulla folla in fuga. Molti giovani, non trovando un mezzo per scappare, sono fuggiti nel deserto dove diversi di loro sono stati uccisi o presi in ostaggio dai jihadisti.
   Il Nature Party è stato solo uno dei numerosi luoghi colpiti sabato mattina da quello che è stato considerato l’assalto più coordinato e letale della storia di Israele da parte dei terroristi di Hamas nelle comunità di confine: almeno 1000 persone sono state uccise in 22 località, tra cui comunità agricole e una città a 24 chilometri dalla frontiera.
   Alcuni dei civili dispersi sono stati ritrovati e soccorsi solo 30 ore dopo l’assalto e le loro testimonianze riportano scene di una brutalità inaudita.

• LE TESTIMONIANZE DEI SOPRAVVISSUTI
  “Non sapevamo dove nasconderci perché eravamo totalmente esposti, in mezzo al deserto” così racconta la sopravvissuta Tal Gibly all’emittente televisiva americana CNN. Un video girato dalla ragazza fa sentire i boati delle esplosioni che si avvicinano sempre di più all’area del festival mentre, ai primi spari, diverse persone iniziano a cadere a terra (non è chiaro se siano state colpite o se invece si siano buttate a terra nel tentativo di ripararsi dai proiettili). Gibly ha raccontato che, fortunatamente, è riuscita a salire su un’auto di passaggio ma le strade erano intasate perché, a meno di due miglia di distanza, i miliziani di Gaza avevano iniziato ad attaccare anche i carrarmati e i soldati israeliani.
   “È stato davvero terrificante. Non sapevamo dove andare per non incontrare quegli esseri spietati” ha spiegato Gibly, ancora terrorizzata dalla vicenda. “Ho molti amici che si sono persi nella foresta per diverse ore e sono stati colpiti come fossero bersagli al poligono”.
   In queste ultime ore i siti e i giornali di tutto il mondo stanno riportando le testimonianze agghiaccianti di chi è riuscito per miracolo a sfuggire al massacro del Nature Party.
   Molti giovani si sono nascosti nei frutteti, tra gli alberi o nei cespugli e c’è persino chi ha finto di essere morto. Esther Borochov ha raccontato alla rivista britannica Reuters che cinque uomini armati hanno iniziato a sparare contro la sua auto, costringendola a fuggire a piedi finché un altro automobilista non l’ha presa a bordo. Purtroppo, subito dopo, l’uomo è stato colpito a bruciapelo e il veicolo è finito in una buca. Così Esther e una sua amica si sono finte morte per due ore accanto al corpo del conducente per evitare di essere scoperte dai miliziani fino a quando non sono state portate in salvo dall’esercito israeliano.
   Anche Gili Yoskovich ha atteso immobile l’arrivo dei soccorsi, nascosta per tre ore in un frutteto mentre i miliziani di Hamas proseguivano con il loro massacro. “Passeggiavano da albero ad albero e sparavano. Vedevo gente morire ovunque ma sono rimasta in silenzio, non ho pianto e non mi sono mossa per tre ore intere”, ha raccontato Yoskovich alla rete britannica BBC.
   Secondo un rapporto del sito israeliano Ynet, i feriti sono stati evacuati in diversi ospedali del sud come il Barzilai Medical Center di Ashkelon. Sono ancora molti però i giovani che risultano dispersi e i video sui social mostrano la cattura di diversi di loro da parte dei miliziani di Hamas.

• L’APPELLO DELLE FAMIGLIE
  Un video diventato virale mostra una donna israeliana, Noa Argamani, e il suo fidanzato, Avinatan Or, mentre vengono rapiti. Nel filmato si vede Argamani che viene presa dai miliziani mentre cerca di rimanere aggrappata alla moto del compagno tra urla di disperazione e grida d’aiuto.
   Moshe Or, il fratello di Avinatan, ha rilasciato un’intervista alla CNN dopo aver visto il video: “Mio fratello è un ragazzo alto due metri, si allena quattro volte a settimana ed è molto forte ma neanche lui è riuscito a fermare quei criminali. Lo hanno trattenuto in quattro o cinque e hanno portato lui e Noa oltre la Striscia”.
   Sconvolgenti sono anche le immagini del rapimento di Shani Louk, la 30enne tatuatrice tedesca-israeliana, il cui corpo privo di sensi è stato trasportato dai terroristi come trofeo su un pick-up. Il video che la ritrae è di una violenza inaudita e mostra Shani seminuda, con le gambe spezzate mentre uno dei miliziani le sputa sulla testa e un altro le tiene i capelli urlando “Allahu Akbar (Dio è grande)”, in segno di vittoria.
   Diversi sostenitori di Hamas hanno falsamente affermato che il corpo martoriato appartiene ad un soldato israeliano ma quando la madre di Shani, Ricarda Louk, ha visto il filmato ha riconosciuto subito la figlia per via del tatuaggio su una delle sue gambe. Servendosi dei social, Ricarda, che vive a Israele, ha condiviso un video-appello nel quale mostra la foto della ragazza: “Mia figlia, Shani Nicole, cittadina tedesca è stata rapita da Hamas mentre partecipava con un gruppo di turisti a una festa nel sud di Israele. Mi è stato inviato un video dove ho potuto riconoscere mia figlia in un’automobile, priva di coscienza, mentre attraversava le strade di Gaza insieme a un gruppo di palestinesi. Vi chiedo di inviarci qualsiasi aiuto o notizia. Vi ringrazio molto”. Al momento non si hanno ancora notizie sulle condizioni di Shani e nessuno sa dove si trovi.
   Tra le vittime che si teme siano state rapite o uccise molte provengono da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Thailandia, Messico, Nepal e da altri paesi. Anche i genitori del 23enne americano-israeliano Hersh Goldberg-Polin stanno cercando disperatamente il figlio che, come dichiarato durante un’intervista al Jerusalem Post, è scomparso dopo aver mandato loro due brevi messaggi alle 8:11 di sabato mattina: “Vi amo” e “Mi dispiace”.
   I familiari delle persone scomparse hanno dichiarato di sentirsi abbandonati dalle autorità e molti non sono stati contattati dai funzionari neanche una volta. “È una situazione assurda. Chiediamo a questo governo di darci delle risposte anche se sappiamo che non saranno tutte risposte felici” ha dichiarato Uri David, le cui due figlie sono scomparse nell’attacco di sabato.
   Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno risposto a queste accusa dichiarando di aver creato una situation room per concentrarsi sulla raccolta di informazioni accurate riguardanti gli ostaggi israeliani che, secondo le dichiarazioni di Hamas e della Jihad islamica, sono più di 130.
   Il governo israeliano inoltre si è mobilitato scegliendo il generale di brigata Gal Hirsch come referente per risolvere la situazione dei cittadini scomparsi. Nelle ultime ore, l’IDF ha dichiarato che un’unità di comando navale d’élite ha catturato Muhammad Abu Ghali, il vice comandante della forza navale di Hamas a Gaza, che potrebbe essere usato come merce di scambio nelle trattative per il rilascio dei prigionieri. Al momento però sia Hamas che Israele negano la presenza di trattative di questo tipo.

(Bet Magazine Mosaico, 11 ottobre 2023)

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Una testimone racconta: “Gerusalemme è spaventata, ma c’è tanta solidarietà tra gli abitanti”

Gerusalemme, non abituata a essere colpita dagli attacchi palestinesi è spaventata, ma i suoi abitanti hanno annullato tutte le differenze sociali ed economiche e hanno messo in piedi una rete di solidarietà per aiutare chi ha bisogno di tutto, ma anche per consegnare il cibo ai negozi rimasti vuoti dopo che la manodopera araba non ha più potuto lavorare in seguito agli attacchi di Hamas di sabato scorso. A raccontarlo a Nova è Stefania, nome di fantasia, che ha chiesto di mantenere l’anonimato. “Vivo a Gerusalemme e ho tre figli, due sono in Israele e uno a Milano. Io sono venuta qui a trovarlo”. Dell’attacco Stefania è venuta a saperlo da “Red Alert”, una app per smartphone che segnala in tempo reale il lancio di missili verso il territorio israeliano con un allarme sonoro per ciascun razzo lanciato. “Sabato mattina mi sono svegliata con una pioggia di allarmi tale che ho pensato si fosse incantata l’applicazione, quindi ho preso il telefono, ho guardato le notizie e da quel momento è cambiato tutto: sono a casa con due cellulari, il computer, le notizie in Israele, le notizie da qua, perché è vero che qui sono a casa, ma la usa mio figlio non la sento più casa mia, vorrei tornare ad aiutare”.
  Il terribile “salto di qualità” da parte dei terroristi di Hamas è rappresentato non solo dalle incursioni nei Kibbutz, dalla quantità di persone sequestrate, dagli efferati omicidi di donne e bambini e dalla quantità di missili, ma anche da un obiettivo come Gerusalemme, in precedenza quasi sempre risparmiata dal lancio dei razzi palestinesi. Stefania racconta invece di avere “un’amica a Gerusalemme e uno dei missili che l’altro ieri è caduto le ha sventrato la casa. Di solito Gerusalemme non veniva mai colpita nelle occasioni precedenti e infatti tutti mi dicevano ‘tu sei a Gerusalemme, sei tranquilla perché lì non succede niente perché ci sono tanti arabi e moschee’. Qui però siamo su un livello che non si è mai visto, senza precedenti, dove, secondo me, non c’è il pensiero da parte loro su ‘colpire i miei o i tuoi’, colpiscono e basta”.
  Gerusalemme è particolarmente “spaventata i negozi sono chiusi, così come le scuole e le persone con cui parlo mi dicono che ci si affaccia alla finestra e c’è un silenzio di morte, si vedono solo ragazzi che escono da casa in divisa, riservisti che sono richiamati, non vedono altro”. I figli di Stefania non sono stati richiamati tra i riservisti per questioni di età, anche se sono giovani “ma per loro sono troppo vecchi”, però “tutti i miei amici hanno figli che sono stati richiamati e, comunque, anche quelli non richiamati, come i miei figli, hanno creato dei gruppi di sostegno per le popolazioni colpite. Gli sfollati hanno lasciato le loro case come si trovavano, molti in pigiama senza documenti, senza cibo, senza soldi e cambi di vestiti, per cui hanno bisogno di tutto, di cibo come di qualcuno che gli rifaccia la carta d’identità. Difatti mia figlia mi ha detto ieri che il ministero dell’interno ha fatto delle unità mobili che vanno da queste persone per rifare la carta d’identità, almeno per avere un documento”. Una rete di solidarietà che non parte solo dalle istituzioni, appunto, ma soprattutto dai cittadini: “Si è creata una rete di solidarietà pazzesca. Ogni volta che c’è un conflitto o una crisi in Israele c’è una grande solidarietà, non ci sono più destra e sinistra, poveri o ricchi religiosi o atei, si fa un momento ‘arimo’ che unisce tutti”.
  Passata l’emergenza tutti tornano a dividersi come prima. Divisioni che, però, non impediscono la convivenza tra ebrei e arabi. “Malgrado quello che qualcuno dice – sottolinea Stefania – la convivenza c’è, il problema è che quando succedono cose così chiudono i valichi, quindi i supermercati sono vuoti, ma non sono vuoti perché non c’è da mangiare, bisogna anche interpretare le cose. È vero gli scaffali ora sono vuoti, ma molta manodopera tipo magazzinieri e camionisti che lavorano per i supermercati sono arabi che, in questo momento non lavorano, non possono venire nelle città, quindi negozi e supermercati non hanno magazzinieri e non hanno autisti”. E infatti nella rete di solidarietà “ho sentito che ci sono anche ingegneri, avvocati e liberi professionisti che si sono tirati su le maniche e sono andati a fare i magazzinieri al supermercato piuttosto che gli autisti per portare il cibo”, conclude Stefania.

(Nova News, 11 ottobre 2023)

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“Nella mia enclave al confine col Libano. Tra poco la guerra arriverà anche qui”

Intervista a Luciano Assin. L’italiano vive nel kibbutz Sasa: “Hezbollah sta testando la pazienza di Israele”

di Fausto Biloslavo

Luciano Assin, milanese di nascita, 66 anni, vive nel kibbutz di Sasa, in Alta Galilea, a un passo dal confine con il Libano. I conflitti dal 1982 li ha visti tutti e risponde, via telefono al Giornale, con calma olimpica.

- Come vive la nuova guerra?
  «Questa è peggiore delle altre. Prima di tutto per le perdite. Se parliamo di 11 settembre israeliano abbiamo avuto più di mille vittime in un Paese di 10 milioni di abitanti. In proporzione sarebbero 10-12mila morti in un solo giorno in Italia».

- In uno dei kibbutz attaccati da Gaza hanno decapitato dei neonati. Immaginava tanto orrore?
  «Basta guardare i canali Telegram palestinesi per rendersi conto di questa realtà orrenda. È inconcepibile per il mondo occidentale, ma purtroppo fa parte del Medio Oriente. Non è molto diverso dalle nefandezze dell’Isis».

- Cosa si aspetta?
  «Questa è una manovra sicuramente coordinata. Teheran è il regista e gli attori sono Hamas ed Hezbollah. Vuol dire che esiste una seria possibilità che si apra un secondo fronte al nord, al confine con il Libano».

- Teme anche altri fronti?
  «In Siria vicino al confine con il Golan esiste una forza paramilitare addestrata da Hezbollah con l’arsenale che arriva direttamente dall’Iran».

- Negli ultimi due giorni ci sono stati lanci di razzi e infiltrazioni dal Libano. Peggiorerà?
  «Sono le prove generali. Serve a tastare la reazione israeliana. Scaramucce da cui Hezbollah prende le distanze dicendo che sono palestinesi, ma li fanno passare».

- I caschi blu non dovrebbero fare da cuscinetto?
  «Nel settore ovest, da dove sono arrivati i terroristi intercettati, ci sono proprio i caschi blu italiani. È una presenza di facciata. Anche se passasse davanti al naso una colonna piena di armi per Hezbollah non sarebbero in grado di fermarla e requisire tutto. Questa volta Hezbollah punterà a un’invasione. Da tempo hanno scavato gallerie per penetrare con forze di terra come dalla Striscia di Gaza. Israele, come deterrente, ha già chiarito che reagirà attaccando tutto il Libano».

- Come vi preparate al peggio?
  «Superata una determinata soglia di allarme scatta l’evacuazione di donne, bambini e anziani. In linea d’aria siamo ad un chilometro e mezzo dal confine. Abbiamo una forza di pronto intervento, ma ci si difende in attesa che arrivino i rinforzi dell’esercito».

- Con Gaza cosa bisogna fare?
  «L’opinione pubblica è convinta che bisogna arrivare al ko. Ovvero alla conquista completa della striscia di Gaza tagliando la testa del vertice di Hamas».

- E gli ostaggi israeliani?
  «Sono l’assicurazione sulla vita di Hamas. Forse ci sarà un accordo simbolico per uno scambio di donne e bambini con le recluse palestinesi. Ma non esiste alternativa all’operazione via terra».

(il Giornale, 11 ottobre 2023)

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Che cosa cambia nella strategia del Medio Oriente con l’aggressione di Hezbollah

Intervista a Danny Orbach

di Ugo Volli

Per avere uno sguardo approfondito e competente sulla situazione strategica di Israele Shalom ha sentito il prof. Danny Orbach, storico militare dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Orbach si è laureato in Storia presso l'Università di Tel Aviv e ha conseguito il Ph.D. in Storia a Harvard. Ha pubblicato lavori sulla storia tedesca, giapponese, cinese, israeliana e mediorientale, concentrandosi particolarmente sui temi legati alla resistenza militare, alla disobbedienza civile, alle ribellioni e agli omicidi politici. Presso Bollati Boringhieri è uscito Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer (2016).

Professor Orbach, come vede la situazione militare di Israele in questo momento?
  Bisogna partire dal fatto che il panorama del Medio Oriente è molto cambiato dopo il tentato genocidio compiuto nei giorni scorsi da Hamas. Bisogna chiamarlo proprio così, genocidio, perché questa è la sua natura. Ora Israele non può più pensare di convivere con Hamas, come si illudeva di poter fare. Non possiamo più avere a fianco un regime genocida, dobbiamo eliminarlo. Oggi il nostro compito è questo e Israele sta lavorando per questo scopo. Ma dobbiamo tener presente che non c’è solo la striscia di Gaza. Abbiamo a nord Hezbollah, che è meglio armato e organizzato di Hamas. Dobbiamo cercare di evitare che si apra un secondo fronte dal Libano e che altri israeliani siano massacrati. Sarebbe un altro shock intollerabile. E dobbiamo stare attenti alla Siria, alle organizzazioni terroristiche nei territori dell’Autorità Palestinese, alla possibilità di sommosse da parte degli estremisti fra gli Arabi Israeliani. Per fortuna per il momento non ci sono segnali di attività di questi possibili fronti. Si sono viste al contrario manifestazione di simpatia degli arabi israeliani nei confronti delle nostre forze armate, forse anche perché fra le vittime di Hamas vi sono diversi arabi. Il singolo fattore più importante però è stata la scelta del Presidente Biden di darci concretamente appoggio con una portaerei nelle nostre acque, che rende concreto il suo ammonimento a Siria e Hezbollah perché non si uniscano all’aggressione. Io credo che nei prossimi anni ci dovranno essere in Israele strade e piazze dedicate a Biden.

Torniamo allo scontro con Hamas. Che cosa farà ora Israele? Deve entrare a Gaza?
  Non possiamo convivere con Hamas, non possiamo permettere che l’organizzazione continui a controllare Gaza. Per ottenere questo scopo i bombardamenti non bastano. Dobbiamo entrare a Gaza e tenerla per un po’. Naturalmente chi ha programmato l’aggressione sapeva benissimo che avremmo dovuto reagire in questo modo e ha certamente preparato delle sorprese contro i nostri soldati. Non è mio compito dire come, ma io credo che noi dobbiamo entrare a Gaza evitando questa trappola, dobbiamo essere capaci di sorprenderli a nostra volta. Per ora è importantissimo l’assedio totale di Gaza che è stato proclamato. Non deve entrare a Gaza elettricità, carburante, cibo, acqua. Questo ci consente di fare su Hamas maggior pressione di quella che infligge a noi. Ci saranno forti pressioni per allentare il blocco, si invocheranno ragioni umanitarie. Hamas si riserva il diritto di ammazzare tutti i civili che trova, ma poi si nasconde dietro ai suoi civili e avanza ragioni umanitarie. Voglio dire ai lettori di Shalom, possibilmente a tutti gli italiani e agli europei che bisogna resistere a questi tentativi di sfruttare le ragioni umanitarie, bisogna tenere la pressione su Hamas. Questo è oggi il compito degli amici di Israele e di chi ha capito che cos’è accaduto.

Questo quadro mostra un rovesciamento della strategia israeliana nei confronti di Hamas?
  Sì. Per molto tempo noi abbiamo pensato che la presenza di Hamas a Gaza fosse un vantaggio, perché divideva il fronte palestinese e lo indeboliva. Ci siamo illusi che Hamas potesse essere un pericolo minore, con cui si poteva trattare e fare compromessi. Oggi questa strategia è crollata. Non possiamo più accettare l’esistenza di Hamas e distruggeremo l’organizzazione. Ciò comporta in prospettiva una riunificazione dei palestinesi, il che da un lato è una buona notizia per loro, dall’altro una cattiva, perché anche chi è moderato come me non potrà più accettare che i palestinesi abbiano autogoverno senza controllo e responsabilità. Dovremo impegnarci a rifondare una leadership accettabile per tutta la popolazione palestinese. Per farlo non dobbiamo farci prendere dal feticismo delle elezioni. Abbiamo visto che Hamas ha preso potere proprio dalle sole elezioni tenute dall’Autorità Palestinese, una ventina d’anni fa. Bisogna che nasca una leadership capace di garantire innanzitutto legge e ordine, la fine del terrorismo, una crescita economica e che vada verso la democrazia prendendo il tempo che ci vuole.

Ma l’Iran accetterà questi sviluppi? Non ha previsto di intervenire o almeno di coinvolgere Hezbollah?
  Non lo sappiamo. Secondo me il loro piano è costruito in modo da adattarsi alle circostanze. Se vedranno una possibilità di successo, se saremo deboli, interverranno. Se manterremo la nostra deterrenza resteranno fermi. Per questa ragione l’intervento americano è importantissimo.

Alcuni vedono dietro l’Iran la mano della Russia e parlano di una possibile guerra mondiale.
  Le guerre mondiali non nascono come tali. Quando nel 1939 la Germania nazista invase la Polonia e fu contrastata da Francia e Inghilterra quella era una guerra locale, europea. Nel 1941 il conflitto europeo si allargò a Est all’Unione Sovietica e si fuse con quello fra Usa e Giappone. Allora diventò mondiale. Oggi è lo stesso, abbiamo una guerra per ora fredda fra Cina e Taiwan, una calda con l’invasione russa dell’Ucraina e una a lungo controllata che è esplosa in questi giorni in Medio Oriente. Il rischio che si uniscano in una grande fiammata c’è. E l’elemento che può unificarle è l’Iran.

(Shalom, 11 ottobre 2023)

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Israele compatto: governo di unità nazionale. Il generale Hirsch alla ricerca di ostaggi

di Fiamma Nirenstein

Stamani alle 11,30 a Tel Aviv, al ministero della Difesa, verrà annunciato che Israele si rimbocca le maniche, forma un governo di coalizione con un gabinetto di guerra cui tutti partiti, salvo sorprese, parteciperanno. Netanyahu l'ha spiegato ieri sera con un drammatico comunicato denunciando non solo l'eccezionale gravità di quello che Israele ha attraversato, ma disegnando un vasto scenario di guerra in cui l'organizzazione terrorista deve essere annullata, e «ricorderà quel che ha fatto per molti anni». Ma ha accennato anche al riscaldamento del fronte con gli Hezbollah, e anche al fatto che gli Stati Uniti agiscono in queste ore con solidarietà armata verso Israele.
   È il segnale che questa che si sta combattendo è una battaglia per la sopravvivenza: non solo di Israele, ma di tutto il mondo civile come lo conosciamo. Israele affronta da 75 ani il suo difficile destino per garantire che nessuno possa mai più sognarsi di fare degli ebrei un popolo minacciato di morte; rappresenta la vittoria del mondo civile sul nazismo dopo la Shoah. Israele vive, per far sì che il popolo ebraico possa dopo secoli di oppressione usare la sua creatività, sviluppare scienza e cultura in pace, vivere. Non essere perseguitati, ammazzati. Tutto ciò è scosso alle fondamenta in queste ore: è la prima volta, dai tempi della Shoah, che in un solo giorno il popolo ebraico vede l'attacco, il pogrom, la deportazione, l'uccisione selvaggia, la mutilazione di tanti cittadini uno a uno, solo perché ebrei. Proprio come ai tempi delle persecuzioni nazifasciste.
   Anche alla sua fondazione Israele ebbe alcuni giorni di sconfitta: nel 1948 nel Gush Etzion, gli ebrei subirono una strage di 250 persone. Il veloce recupero ha consentito di fondare lo Stato. Adesso, come può recuperare Israele quasi mille morti e tremila feriti in un giorno? Come può restituire non solo sicurezza ai cittadini, ma anche dare al mondo la certezza che Israele è un investimento sicuro in stabilità, scienza, forza?
   Fra le lacrime la gente chiede dove erano gli elicotteri quando i terroristi giravano liberamente sui prati dei kibbutz. Perché non gli hanno sparato? Dove erano le forze militari e di polizia per i ragazzi in fuga dal party, decimati in ore di caccia mostruosa? Il numero dei morti e dei rapiti racconta una storia irraccontabile per lo Stato di Israele, Tzahal, le forze aeree e di sicurezza. E dall'altra parte, l'inestinguibile sete di sangue ebraico da parte dei vicini cui nel 2005 si è consegnata la Striscia, usata poi per costruire missili e attentati.
   «Ciò che è stato, non esisterà», ha detto Netnayahu. La strada evidente è distruggere Hamas, pagando il prezzo di un sempre esecrato ingresso di terra, sanguinoso e impopolare all'estero. Ma i rapiti? La disperazione delle famiglie è stata onorata con la nomina di un responsabile per la loro sorte di altissimo profilo come il brigadiere generale Gal Hirsch: ma è chiaro che l'importanza sempre attribuita da Israele a ogni ostaggio qui si scontra con una realtà che invoca una soluzione definitiva. Si dovranno chiudere i passaggi, distruggere le gallerie, i depositi di armi piazzati fra le case, i centri di Hamas. Israele deve fermare Hamas che ancora spara missili e manda terroristi. Da Nord Hezbollah si è fatto sentire forte: l'Iran è sullo sfondo e anche nel futuro di questa guerra, ancora decide se giocare tutta la partita.. Se Israele non esce da questa situazione con un messaggio che stabilisca la fine di Hamas e obliteri la trama con Iran e Hezbollah, avremo un fronte di guerra mondiale.
   Israele è cruciale come l'Ucraina. Al consiglio di sicurezza la Russia ha bloccato la condanna di Hamas. Tzahal non può che entrare a tutta forza, distruggere le strutture di comando di Hamas, insegnando al mondo che uccidere gli ebrei oggi non si può. Hamas deve essere obliterata prima che si aprano altri fronti. Il fronte interno si spaccherà sulla trattativa che in queste ore è in mano all'Egitto, ma è chiaro che il primo imperativo è spodestare Sinwar, Hanye, Deif. Al mondo, la grande sfida di ricordare la barbarie cui ha assistito e attribuirla alla sua propria malattia che gli è stata quasi mortale: l'antisemitismo.

(il Giornale, 10 ottobre 2023)

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Israele mobilita

Israele si prepara ad attaccare la Striscia di Gaza.
Trecentomila i riservisti richiamati anche dall'estero, la più grande mobilitazione dal 1948. "Il sangue dei miei fratelli è stato versato in un modo inumano, perché solo esseri non umani si comportano così. Ci siamo presentati in tanti, qui in Israele, e molti non avevano nemmeno l'obbligo di farlo. Ma siamo di fronte a un lutto enorme, un lutto profondo che non riguarda solo Israele ma l'intero popolo ebraico", dice al Corriere della Sera un giovane ebreo romano con doppia nazionalità.
Da Roma è in partenza anche la 22enne Noa Rakel Perugia, riservista in servizio attivo. “È mio dovere partire, anche se qui sono preoccupati e lo è la mia famiglia”, spiega al Messaggero. “Ho fatto il liceo scientifico a Roma, nella scuola ebraica Renzo Levi. Dormivo a casa dei miei genitori quando alle 5 del mattino di Shabbat, giorno di festa per noi, zia ci ha telefonato. Lei ha tre figli e il maschio è un ufficiale della fanteria, subito richiamato al fronte”. Due cittadini italo-israeliani, Lilach Clea Havron ed Eviatar Moshe Kisnis, risultano intanto dispersi. Si trovavano nel kibbutz Be'eri. "La nostra ambasciata, il nostro consolato e l'Unità di crisi della Farnesina sono al lavoro. Speriamo di ritrovarli, ma in questo momento non abbiamo altre notizie: è probabile che siano stati presi in ostaggio", ha dichiarato al Tg1 il ministero degli Esteri Antonio Tajani, che oggi riferirà in Parlamento.
Terribile la minaccia proferita da uno dei portavoce di Hamas: "A partire da questo momento, qualsiasi attacco contro il nostro popolo nella sicurezza delle proprie case, senza preavviso, sarà affrontato con l'esecuzione di uno degli ostaggi civili che abbiamo in custodia, che sarà trasmessa in video e audio".

(moked, 10 ottobre 2023)
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E' legittima "resistenza", quella di Hamas? C'è qualcuno che ripete il mantra Due stati per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza? M.C.

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Israele: i soccorsi di United Hatzalah sul campo di guerra

Intervista al referente Raphael Poch

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United Hatzalah è un'organizzazione no-profit israeliana che opera su basa volontaria come Servizio Medico di Emergenza (EMS) in tutto il Paese. Addestrata a muoversi in scenari critici, fornisce servizio di pronto soccorso e funge da collante con gli ospedali. Da sabato mattina lavora incessantemente per aiutare civili e soldati impegnati nella guerra che Hamas ha scatenato contro Israele.
   “La situazione è tesa e la gente in ansia, mentre il Paese cerca di fornire una risposta congiunta all’attacco - spiega a Shalom Raphael Poch, referente di United Hatzalah - I nostri soccorritori sono ai confini del Paese. Abbiamo allestito cliniche mediche e stiamo lavorando congiuntamente alle unità dell’esercito per trasportare i feriti negli Ospedali con ambulanze ed elicotteri”.
   I terroristi hanno assaltato villaggi e città con sparatorie e incursioni, mentre dal cielo piovevano continuamente i razzi che l’Iron Dome cercava di intercettare. Anche i residenti si mobilitano per aiutare, chi facendo la spesa e chi donando il sangue, ma anche alcuni di loro hanno bisogno di aiuti. “Cerchiamo di soccorrere tutti, portando cibo e acqua ai civili, ma soprattutto ai soldati. Andiamo porta a porta per assicurarci che le persone abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno”.
   Continui team di medici e infermieri sono schierati nelle zone rosse. L’allerta è scattata subito anche per United Hatzalah, che ha risposto al proprio dovere con tutti i rischi annessi. “Per salvare la vita di un poliziotto, un nostro volontario ha subito due ferite da arma da fuoco: una al ginocchio e una alla testa. È stato salvato, ma un altro nostro volontario non ce l’ha fatta”.
   Anche Raphael non ricorda un simile dramma dalla Guerra del Kippur. La violenza è inaudita e non conosce limiti. Si spara a donne, uomini, bambini, anziani e malati senza alcuna distinzione, persino ambulanze e soccorritori vengono presi di mira per rallentare il processo di soccorso e assistenza.
   “È qualcosa di nuovo. Siamo addestrati a questi scenari, ma è orribile vedere che uccidano qualsiasi persona senza remora alcuna. I nostri volontari corrono molti rischi, ma lavoriamo con tutte le precauzioni: giubbotti antiproiettile, protezioni e protocolli di sicurezza. Nella maggior parte dei casi sono efficaci, ma il numero di persone coinvolte è enorme e ci sono tante variabili”.
   Le risorse dispiegate in campo sono molteplici, altrettanto il bisogno di aiuto. Raphael si appella a chiunque voglia donare, affinché cure e mezzi possano giungere a chi in queste ore combatte la guerra per la libertà di Israele.

(Shalom, 10 ottobre 2023)

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Operazione Spade di ferro - giorno tre

di Ugo Volli

I tre compiti dei militari
  Nel discorso in cui proclamava lo stato di guerra, il primo ministro Netanyahu ha assegnato tre missioni immediate alle forze armate israeliane: eliminare le minacce all’interno di Israele; assicurare la sicurezza dei confini, in particolare al nord e all’est, con Libano e Siria; distruggere totalmente la potenza militare di Hamas. Sono compiti complessi, che implicano un uso coordinato di molti uomini e mezzi.

La sicurezza interna ad Israele
  L’aspetto più sconvolgente dell’aggressione di sabato mattina è stata l’irruzione di più di un migliaio di terroristi nel territorio israeliano, arrivati anche abbastanza lontano dal confine di Gaza. I terroristi hanno approfittato della notte, della vacanza in corso e della confusione probabilmente provocata da interferenze elettroniche sui sistemi di comunicazione per impadronirsi di diversi villaggi e kibbutz, della città di Sderot, del terreno dove si svolgeva una grande festa o rave, perfino di alcune basi militari. Qui hanno compiuto crimini orribili contro chiunque trovavano, sterminando più di 700 persone, rapendone forse 150, ferendone più di duemila, con crudeltà e efferatezza degna solo dei nazisti. Dopo la reazione dell’esercito, in alcuni luoghi si sono asserragliati con ostaggi, in altri casi hanno cercato di allontanarsi da Gaza per portare l’attacco più in là. Ripulire queste sacche di terrorismo, liberare gli ostaggi, soccorrere le vittime è stato un compito lungo e doloroso che più o meno è concluso. Si può dire che da stamattina non vi sono più luoghi occupati dai terroristi nel territorio israeliano, al massimo vi sono dei singoli individui che cercano di nascondersi e di fare danno. Ma sono ancora possibili nuove irruzioni, Per fortuna non vi sono state finora questa volta agitazioni da parte della popolazione arabo-israeliana, com’era accaduto per l’ultima operazione a Gaza, né vi è stata una vera ondata terrorista proveniente da Giudea e Samaria, nonostante gli appelli in questo senso di Hamas. Da Gaza partono ancora raffiche di missili in direzione di tutta Israele, ma i sistemi antimissile e i rifugi hanno contenuto finora i danni.

I confini
  La preoccupazione militare maggiore in questa fase è che Hezbollah, molto più forte e armato di Hamas, apra un secondo fronte dal Libano ed eventualmente dalla Siria, con una quantità di missili in grado di saturare le difese israeliane e dunque di fare gravi danni, e magari con un’invasione terrestre. Finora ciò non è accaduto: vi sono stati scambi di cannonate e incursioni di droni, e manifestazioni di qualche centinaia di persone che hanno cercato di sfondare la rete del confine; ma si è trattato per ora solo di episodi dimostrativi. L’esercito presidia la zona e da certe località israeliane la popolazione è stata precauzionalmente evacuata. Gli Stati Uniti hanno intimato alle potenze locali di non intervenire contro Israele e hanno schierato nel Mediterraneo sud-orientale un potente gruppo navale a dissuasione di ogni tentativo di nuova aggressione.

Distruggere la potenza militare di Hamas
  Il terzo compito è il più difficile. Gaza è per lo più costituita da zone urbane fittamente popolate, in mezzo a cui si annidano i terroristi. Israele deve colpirli cercando di non danneggiare inutilmente i civili, cui ha comunque ordinato di sgomberare la zona di guerra. Ma Hamas li usa come scudi umani. Scuole, moschee, ospedali ospitano depositi d’armi, punti di osservazione e di sparo, basi di lancio dei missili. Sarà impossibile eliminarle senza colpire anche gli schermi civili. Tutte queste istallazioni sono collegate da una rete sotterranea di tunnel, in cui hanno sede comandi, depositi caserme e dove certamente si sono rifugiati anche i capi di Hamas. Questi tunnel sono stati costruiti anche per essere trappole mortali per chi deve conquistarli: sono minati, con feritoie da cui i difensori possono sparare, possono essere fatti crollare, allagati o gasati. Vi sono porte segrete da cui possono partire agguati. Sono un enorme labirinto, come una seconda città sotto le case. Israele ha fatto il possibile per distruggerli coi bombardamenti, ma bisogna prevedere una guerra sotterranea estremamente difficile. L’aggressione iniziata sabato era stata minuziosamente preparata; non si può pensare che chi l’ha progettata non abbia previsto la reazione di Israele e il suo ingresso a Gaza; dunque anche questa battaglia dei tunnel dev’essere stata già organizzata dai terroristi e resa ancora più difficile.

Che succede ora
  Israele ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti in vista della battaglia di Gaza, che inizierà appena pronto lo schieramento, forse già oggi o domani. Bisogna prevedere un’avanzata lenta e difficile. Nel frattempo l’aviazione bombarda con grandissima intensità tutti i punti noti in cui vi siano presenze o apparati di Hamas e degli altri gruppi. Sono bombardamenti molto massicci, che però probabilmente erano previsti. La capacità dei terroristi di sparare i loro missili da rifugi sotterranei ancora sembra quasi intatta. Nel frattempo si dovrebbe compattare il fronte interno, con l’ingresso di rappresentanti dell’opposizione nel governo e la solidarietà internazionale si rafforza.

Gli ostaggi
  Nell’impresa non facile, lunga e sanguinosa di dare un colpo decisivo a Hamas, un’incognita assai delicata e dolorosa è quella degli ostaggi, forse cento forse più, compresa una quindicina di cittadini stranieri, che i terroristi hanno portato a Gaza e che probabilmente sono stati rinchiusi anche loro nei tunnel. Saranno certamente usati come scudi umani, possibile moneta di scambio nelle trattative, oggetto di ricatti raccapriccianti. Il caso Shalit ha mostrato la difficoltà di salvare chi sia stato catturato da Hamas. Ma Shalit era uno solo qui ci sono decine di esseri umani che potrebbero essere sacrificati dai terroristi per ottenere vantaggi, come già facevano i dirottatori aerei. Dobbiamo preparaci a giorni, settimane, forse mesi ancora difficilissimi.

(Shalom, 10 ottobre 2023)

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Le testimonianze dei giovani italiani da Israele

di David Di Segni

Sono ore di tensione in Israele, da sabato mattina è stata trascinata in guerra dai terroristi di Hamas. Le strade sono vuote, gli allarmi scandiscono il tempo di giornate che sembrano non passare mai. C’è tensione e paura, tutti sono chiamati alla solidarietà e anche chi non veste la divisa si adopera per aiutare. Tanti i giovani italiani che ci raccontano la loro testimonianza in questo senso.
   “Stamattina, assieme a dei ragazzi, abbiamo organizzato una colletta di 9.000 Shekel - ci racconta Aron, che vive in Israele - Li useremo per fare la spesa, che raduneremo a Dizengoff per spedirla ai soldati”. Anche Diana ci parla da Tel Aviv dove abita. Ieri mattina è stata svegliata presto dai genitori e rapidamente l’incomprensione ha lasciato spazio all’incredulità e poi al timore. “Non avevamo capito l’entità del problema - spiega a Shalom – essendomi trasferita dall’Italia, mi sono sentita più allarmata rispetto a chi è cresciuto qui e che è abituato ai missili. Quando però ho visto i miei conoscenti israeliani preoccupati ho capito la gravità della situazione”.
   L’attacco a sorpresa ha fatto vacillare la sicurezza interna del Paese. Fidarsi del prossimo è difficile e lo si fa con diffidenza, si esce per l’indispensabile e quando lo si fa ci si sbriga a tornare in casa. Tutto è sospettabile, dal prendere un taxi all’incontrare persone sconosciute. “Oggi abbiamo cucinato e fatto spesa per i soldati - prosegue Diana - Un volontario è partito da Ramat Gan con la macchina per raccogliere a Tel Aviv il cibo raccolto dai volontari. Gli abbiamo detto di venire, preferendo avvicinarci a lui senza dare troppe specifiche sulla nostra posizione”.
   Sono tanti gli ebrei italiani che hanno un parente o un conoscente coinvolto nel conflitto. “Una mia amica era alla festa nel deserto e ha fatto in tempo a scappare. Da lontano ha visto un ragazzo ferito a terra, è tornata in stato di choc. Un soldato di conoscenza indiretta, invece, ha perso compagni e fidanzata, non vuole più vivere” ci racconta Ghila, mentre tanti sono i giovani chiamati o richiamati al servizio di leva. Tamir è uno di loro. Dall’Italia si è trasferito in Israele, dove ha prestato servizio militare per poi iscriversi all’università. Ieri è stato richiamato come riservista, e ci scrive: “Mi sono svegliato con le sirene a Givatym. Essendo Shabbat non sapevo da dove provenissero gli attacchi, lo si aspettava più da Hezbollah che da Hamas. La situazione è degenerata in fretta, si sta consumando una strage. Un mio comandante è stato ucciso. Che il Signore protegga tutti, facendoli tornare a casa”.
   C’è rabbia e tensione. Ma non manca né l’unità né la solidarietà, scattata in tutte le città. Chi offre riparo nei bunker e chi corre per donare il sangue. “Andrò anche io” ci dicono i giovani intervistati, mentre il mondo osserva lo svilupparsi di queste ore tese e drammatiche.

(Shalom, 9 ottobre 2023)

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La calma prima della tempesta

Un reportage dal nord

di Judith Jeries

Punto di vista sul confine tra Israele e Libano, Israele settentrionale
Vivo in Galilea. Sappiamo cosa sta per accadere, si può letteralmente sentire la tensione, in molti luoghi si può quasi tagliare la pesantezza dell'aria con un coltello. La domanda non è se, ma quando. I nostri cuori si spezzano alla vista di ciò che sta accadendo nel sud del Paese. Ci sentiamo paralizzati. Finora, negli ultimi anni, siamo stati risparmiati dagli attacchi, a parte alcuni incidenti isolati come quello di aprile, che ha colpito solo alcune città della Galilea occidentale.
Conosco famiglie che sono state sorprese dall'attacco missilistico di aprile e i cui figli sono ancora oggi traumatizzati. Vivono vicino al confine con il Libano e sanno che presto pioveranno di nuovo razzi. Non sono solo i bambini ad avere paura. Gli adulti sono ben consapevoli della differenza: questa volta gli Hezbollah avrebbero il controllo, e l'esperienza insegna che non fanno le cose a metà. Molti hanno ancora nelle ossa la guerra del 2006, durata un mese.
L'UNIFIL ha già lasciato il Libano meridionale e i residenti delle città israeliane vicine al confine hanno ricevuto il messaggio di evacuare le loro case. Gli elicotteri dell'esercito volteggiano in lontananza, ma per il resto regna una calma inquietante. È la calma prima della tempesta. Come si affronta questa situazione?
Un posto di guardia delle Nazioni Unite al confine israelo-libanese, nel nord di Israele
Ci si mette in ginocchio. Sono situazioni come questa che ti avvicinano a Dio. Perché ti rendi conto di quanto sei piccolo e di quanto deve essere grande Dio, che ha tutto nelle sue mani, anche la situazione attuale. Lui conosce lo sfondo, sa perché sta succedendo, come continuerà e come sarà il nostro futuro.
Questa situazione di "tutto o niente", in cui è in gioco l'esistenza dello Stato di Israele, fa saltare i nervi. Perdere non è un'opzione, anche la maggior parte degli arabi israeliani preferirebbe vivere sotto il dominio ebraico piuttosto che sotto quello musulmano.
   Questa crisi esistenziale offre la possibilità di riavvicinarsi al Creatore del cielo e della terra. Se ce la caviamo troppo bene, la nostra natura peccaminosa non si allontana con noncuranza da Dio? E non corriamo forse tremanti tra le braccia di Dio quando siamo in difficoltà e ci troviamo di fronte a una situazione che ci opprime totalmente?
La risposta è la preghiera.

(Israel Heute, 9 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Riflessioni sulle forze di sicurezza israeliane dopo l’attacco di Hama

Mentre l’opinione pubblica e i vertici dell’Intelligence israeliana si interrogano sul livello di preparazione delle forze di sicurezza, l’attenzione si concentra ora su diverse sfide cruciali. In primo piano c’è la missione di salvataggio degli ostaggi, un compito che oscilla tra l’uso della forza armata e la negoziazione.
   Nel frattempo il confine meridionale di Israele si trova sotto un’ombra crescente, con l’infiltrazione sempre più audace dei militanti di Hamas. Questi hanno guadagnato il controllo in alcune comunità israeliane, poste strategicamente lungo la recinzione di confine, creando una crescente preoccupazione per la sicurezza nazionale. Un’altra priorità indiscussa è l’eliminazione dei siti di lancio dei razzi che minacciano Israele. Tuttavia, nonostante queste sfide imminenti, l’obiettivo principale rimane il sostegno alle vittime di recenti tragedie e atti di violenza inimmaginabili che hanno sconvolto la nazione.
   Mentre il mondo osserva con attenzione, i media israeliani pongono domande ai leader politici e militari su come tutto ciò sia potuto accadere, nel cinquantesimo anniversario di un altro attacco a sorpresa da parte dei nemici di Israele dell’epoca: la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973, quando le forze israeliane furono colte di sorpresa dalle colonne di carri armati siriani ed egiziani.
   Come riportato da Reuters , il generale in pensione Giora Eiland, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, ha osservato: «Sembra sorprendentemente simile a quella situazione». Nel corso di un briefing con i giornalisti, ha aggiunto: «Israele è stato completamente colto di sorpresa da un attacco incredibilmente ben coordinato».
   Così, mentre la nazione si concentra sulle sfide immediate, un portavoce dell’esercito ha dichiarato che le discussioni sulla preparazione dell’Intelligence verranno affrontate in un secondo momento, sottolineando che l’attenzione è ora incentrata sulla situazione sul campo. «Affronteremo questa discussione quando sarà il momento opportuno», ha dichiarato durante un briefing con i giornalisti.
   In breve, c’è un momento per l’azione, un momento per il silenzio e un momento per l’analisi e la riflessione. La questione di come gli uomini armati palestinesi siano riusciti a oltrepassare il pesantemente fortificato confine tra Israele e la Striscia di Gaza, mentre migliaia di razzi continuavano a piovere su Israele da Gaza, sarà oggetto di approfondimento.
   Un’indagine, che si preannuncia lunga e laboriosa, che si concentrerà sull’apparente mancanza di previsione degli sforzi combinati dello Shin Bet, l’Intelligence interna israeliana, del Mossad, l’agenzia di spionaggio esterna, e delle forze di difesa israeliane.

(Bet Magazine Mosaico, 8 ottobre 2023)

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Il quadro dell’attacco e le vie per uscirne

di Ugo Volli

Un’operazione militare micidiale di grande livello organizzativo
  Il terribile attacco che Israele ha subito dalla mattina di sabato non è un semplice attentato terrorista, anche se in scala enormemente accresciuta rispetto al solito. È un vero e proprio atto di guerra non solo per le dimensioni delle perdite (oltre seicento cinquanta morti, duemila feriti in ospedale, più di cento israeliani rapiti), ma soprattutto per il modo estremamente sofisticato in cui è stato progettato ed eseguito. Chi l’ha guidato ha saputo sfruttare le circostanze esterne favorevoli (la ricorrenza della festa di Simchat Torà, ma anche la presenza di centinaia di giovani a un rave a poca distanza dal confine), ha coordinato con micidiale tempismo attacchi dall’aria (parapendii a motore), dal mare, da terra con l’uso ben organizzato di esplosivi e bulldozer per sfondare la barriera di sicurezza e di moto e veicoli per dilatare l’arco di azione dei terroristi, e ha mostrato di aver studiato bene routine, posizioni e punti deboli operativi delle forze di sicurezza israeliane e di conoscere bene i luoghi in cui penetrare per uccidere e rapire gli israeliani. Di più, ha probabilmente usato tecniche molto avanzate di guerra elettronica per neutralizzare i numerosi sistemi cibernetici di sorveglianza installati intorno alla Striscia e forse anche impedito le comunicazioni militari, tanto da non incontrare quasi opposizione organizzata per le prime ore. Infine è riuscito, nonostante le grandi dimensione dell’operazione, a non mettere in allarme i servizi di sicurezza, che dovrebbero sorvegliare giorno e notte le basi terroristiche. Israele avrà tempo dopo la fine della guerra per capire le ragioni del fallimento degli apparati informativi umani ed elettronici e magari potrà riflettere sulla rigidità organizzativa che ha reso così vulnerabili le forze di difesa.

L’origine dell’attacco
  Tutto quel che si è detto mostra che l’attacco non può essere attribuito a Hamas e alle altre sigle terroristiche, ma deve essere stato direttamente progettato e coordinato dall’Iran. Non solo l’Iran è il principale beneficiario dell’operazione perché essa indebolisce l’immagine militare vincente di Israele e richiede una reazione di Israele su Gaza che si presterà a rinnovare la propaganda contro lo Stato ebraico, rendendo difficile e rallentando l’intesa con l’Arabia Saudita che è il solo modo di bloccare l’imperialismo iraniano. Inoltre l’impero persiano ha molti conti da saldare e molte vendette da prendere. Ma solo il regime di ayatollah ha nella regione i mezzi e la competenza su droni, hacking dei sistemi informatici, coordinamento interforze. Hamas ha fornito la manovalanza del terrore, ci ha aggiunto la crudeltà, il sadismo, la barbarie. Ma il piano nasce certamente a Teheran, come dicono anche i ringraziamenti immediatamente resi pubblici da Hamas.

Le difficoltà della guerra
  Da questa origine deriva la maggior difficoltà della posizione di Israele. Sia perché l’Iran controlla a nord di Israele il regime siriano e soprattutto Hezbollah in Libano, molto meglio armati di Hamas e già sul piede di guerra. L’intervento di Hezbollah potrebbe essere questione di ore e prenderebbe Israele fra due fuochi, con una densità missilistica certamente superiore al limite di saturazione delle difese israeliane, con altri danni enormi. Ma anche se ciò non accadesse, le migliori forze dell’esercito israeliano dovranno restare bloccate in Galilea per contrastare il rischio di una seconda invasione. Inoltre, se la reazione di Israele portasse le sue truppe dentro Gaza, com’è probabile, si può essere sicuri che gli esperti iraniani abbiano preparato nuove trappole e che il prezzo da pagare per riprendere anche provvisoriamente il controllo della Striscia rischia di essere molto alto. Israele avrà così di fronte il problema strategico che ha già incontrato a partire dal 2014 in circostanze analoghe: quanto penetrare nel territorio nemico? Quali sono i costi necessari per arrivare fino al centro di Gaza e magari per avventurarsi nella rete dei tunnel dove Hamas tiene armi, truppe e anche gli ostaggi? È possibile smantellare l’organizzazione e il potere dei terroristi senza usare mezzi tecnicamente possibili, come i bombardamenti a tappeto, ma che non sono politicamente accettabili perché colpirebbero pesantemente la popolazione civile? Ma se Hamas venisse solo danneggiato, per quanto pesantemente, e non distrutto, si può essere sicuri che l’Iran gli fornirà i mezzi per riarmarsi. E tutto ricomincerà da capo.

Schiacciare la testa del serpente?
  La soluzione sarebbe colpire il centro direzionale, la testa del serpente, cioè l’Iran. Il quale però, secondo fonti americane, è in possesso di tutto ciò che serve per allestire la bomba atomica e si è fermato a sole due settimane di lavoro dalla sua realizzazione. Inoltre è un alleato cruciale per la Russia e gode della benevolenza dell’amministrazione Biden (e prima di Obama), nonostante le sue provocazioni anti-americane. Israele potrebbe tentare di distruggere l’arsenale nucleare iraniano ma solo con un colpo decisivo e non ripetibile, che avrebbe bisogno dell’appoggio Usa. Il rischio di una mossa del genere è una guerra regionale aperta.

Che fare allora?
  Non ci sono soluzione miracolistiche. Israele ha bisogno di ridimensionare il potere dei terroristi a Gaza, anche a costo di perdite militari. È una guerra d’attrito di cui non si può prevedere il termine. Dovrà cercare di liberare gli ostaggi e questo sarà difficilissimo, senza cedere al ricatto di Hamas, che proverà a usarli per liberare i terroristi condannati. Sarà necessario rivedere il funzionamento degli apparati di sicurezza e anche le politiche tenute finora rispetto a Gaza sulla base dell’erronea condizione di un carattere “moderato” di Hamas. Bisognerà stringere le alleanze con l’Arabia Saudita innanzitutto e poi con chiunque si opponga all’asse Iran/Russia. Sarà necessario superare le divisioni interne che hanno contribuito a dare un’impressione di vulnerabilità e probabilmente innovare il sistema politico e amministrativo. Bisognerà avere la pazienza di Giobbe e continuare a prevenire il terrorismo, giorno dopo giorno, senza cadere in trappole come quella di questi giorni. Non sono compiti piccoli e non si risolveranno neppure nell’arco delle parecchie settimane che serviranno per l’operazione militare. Ma ne va della vita dello Stato ebraico. L’appoggio interno e anche di noi ebrei della diaspora è indispensabile.

(Shalom, 9 ottobre 2023)

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Il nazi-islamismo di Hamas

di Niram Ferrett

L’eccidio che ha avuto luogo in Israele per mano di Hamas rappresenta il maggiore sterminio di ebrei avvenuto per mano armata dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Solo i nazisti furono in grado di ucciderne in una volta sola, a mano armata, un numero così elevato. Al momento, il bilancio delle vittime è sgomentevole, settecento morti, ma è destinato drammaticamente ad aumentare nelle prossime ore.
   Davide Cavaliere e David Elber, hanno entrambi paragonato qui su l’Informale le modalità omicide di Hamas a quelle delle Einsatzgruppen, le unità sterminatrici mobili delle SS.
   Il paragone non solo è calzante per le modalità omicide, l’implacabilità delle uccisioni, vere e proprie esecuzioni sommarie di civili e militari, nelle strade, nelle abitazioni, in ogni spazio pubblico, ma perché Hamas, costola palestinese della Fratellanza musulmana, accorpa al jihadismo le simpatie naziste del fondatore della Fratellanza, Hassan al Banna.
   Nel suo seminale, “Il jihad e l’odio contro gli ebrei, l’islamismo, il nazismo e le radici dell’11 settembre”, Matthias Kuntzel, ricorda che i Fratelli Musulmani distribuirono nel 1938 in occasione di una Conferenza parlamentare per i paesi arabi e musulmani che si tenne al Cairo le versioni in arabo del Mein Kampf e dei Protocolli dei savi anziani di Sion, sottolineando come “la loro distribuzione del Mein Kampf non fu l’unica occasione in cui i Fratelli Musulmani si schierarono con i nazisti. Al Banna collaborò con gli agenti egiziani del Terzo Reich”.
   Lo Statuto di Hamas del 1988 è intessuto di un antisemitismo che è figliato direttamente dai Protocolli e si sposa con l’antisemitismo di matrice coranica, riassunto nel versetto del Corano citato all’interno del documento, in cui si invitano i fedeli ad uccidere gli ebrei che si nascondono dietro rocce e alberi.
   Nel 2017, durante la grande mobilitazione di Hamas a Gaza con tentativi di ingresso in Israele impediti allora dalla presenza massiccia dell’esercito israeliano, la svastica venne dipinta su bandiere e aquiloni incendiari.
   L’antisemitismo feroce di Hamas è, ad un tempo, il prodotto dell’avversione islamica per gli ebrei la cui radice si trova sia nel Corano che negli hadit, sia dell’antisemitismo cospirazionista europeo, che ha nei Protocolli il suo incunabolo, e che fu un testo recepito totalmente dal nazismo.
   Hamas considera Israele terra islamica da rendere completamente judenfrei, libera dalla presenza ebraica, in questo è il perfetto continuatore delle politiche eliminazioniste del Terzo Reich che ha messo in atto su scala massiccia appena gli è stato possibile farlo.

(L'informale, 8 ottobre 2023)

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Non può essere vero!

Nei prossimi giorni centinaia di israeliani saranno ricoverati e questo avrà il suo impatto sul morale della società israeliana.

di Aviel Schneider

Il luogo in cui gli israeliani sono stati uccisi dai militanti di Hamas su una strada principale vicino alla città meridionale di Sderot
A dire il vero, non so come iniziare la mia lettera di oggi. Ma non importa con chi ho parlato ieri, amici, ex compagni, giornalisti o vicini di casa, tutti abbiamo mormorato la stessa cosa. "Non può essere vero quello che è successo nel sud!".
   In tutta la storia dello Stato di Israele, mai negli ultimi 75 anni sono stati uccisi così tanti israeliani in un solo giorno in una guerra in Israele come ieri nel sud, oltre 500 tra civili e soldati. Non nella guerra del Libano del 1982, né nella guerra dello Yom Kippur del 1973, né nella guerra dei Sei Giorni del 1967, né nella guerra d'indipendenza del 1948. Quello che è successo ieri nel Paese è insondabile per tutti noi. La situazione della sicurezza nazionale di Israele ha raggiunto un punto basso nella storia dello Stato, dal quale Israele deve urgentemente uscire. Altrimenti, i nostri nemici si renderanno conto molto rapidamente della debolezza di Israele e attaccheranno anche da altri fronti. Mentre scrivo queste righe, tutte le finestre di casa mia tremano. Da lontano sento i bombardamenti nella Striscia di Gaza, eppure vivo a 51 chilometri a nord-est della Striscia in linea d'aria.
   La sera prima, Anat e io siamo stati invitati da mia sorella ortodossa Ruthi e dalla sua numerosa famiglia per la cena di Shabbat e la seconda festa di Sukkot nella sua Capanna. Tutti i suoi figli sono studenti ortodossi di Torah e nessuno dei suoi ragazzi ha prestato servizio nell'esercito. Che momenti tranquilli e sereni abbiamo trascorso insieme intorno alla tavola riccamente imbandita. E poi, sei ore dopo, la mattina dopo è scoppiata la guerra. Quando la famiglia di Ruthi ha saputo che i nostri tre figli Tomer, Moran, Elad e il nostro genero Ariel erano stati chiamati nelle riserve, ci hanno mandato un WhatsApp dopo la fine dello Shabbat:
"Buona nuova settimana. Preghiamo per i vostri figli e per la speranza. Tutta la famiglia Deri prega per voi affinché tutti tornino dalla guerra sani e in pace"
Questo è il loro compito nella nostra famiglia e non litighiamo più per questo. I loro figli pregano e i nostri figli combattono.
Il modo in cui le centinaia di terroristi palestinesi sono riusciti a entrare in Israele attraverso la barriera di confine la mattina presto dello Shabbat senza essere individuati in tempo deve essere iscritto nella storia di Israele come uno dei suoi più grandi fallimenti. Il sistema di sorveglianza del confine di Israele è stato probabilmente disattivato da un drone e da attacchi informatici iraniani prima che i terroristi palestinesi entrassero in Israele. Se ciò è vero, ed è stato ammesso dallo staff militare israeliano, questo spiega il successo palestinese e il fallimento strategico di Israele.
Non sono gli attacchi missilistici su Israele il problema della guerra, ma l'attacco a sorpresa e il libero passaggio da Gaza verso gli insediamenti e i kibbutzim israeliani nel sud vicino a Gaza. In una passeggiata i palestinesi hanno invaso il Paese con jeep, moto e a piedi e hanno conquistato il sud. Ma la cosa più grave è il rapimento di numerosi israeliani, intere famiglie con i loro figli, civili, nonne con le loro badanti filippine, giovani del Nova techno party di Reím, soldati vivi o morti. Sul canale Telegram abbiamo mostrato alcuni dei tanti video di israeliani che vengono spediti a Gaza, in massa. Si parla di 180 israeliani, ma non mi stupirei se il numero fosse più alto.
Palestinesi prendono il controllo di un carro armato israeliano dopo aver attraversato la recinzione di confine con Israele a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza
Sembrava che l'intero sud fosse privo di soldati. Zero sicurezza! Ci sono volute ore per vedere dei soldati israeliani. Il mio amico Amnon, nel sud, ha salvato sua figlia Ronnie dalla festa della natura ieri e mi ha detto che tutte le strade intorno a Gaza erano aperte. Nessun soldato, nessun posto di blocco, niente. Con la posizione di Ronnie su Google è riuscito a salvare sua figlia dal caos nei campi vuoti vicino alla recinzione di confine. Era arrabbiato con l'esercito e non faceva altro che inveire e imprecare. Nessun soldato, nessuna sicurezza, niente dell'Israele che pensavamo di conoscere.
   Questa mattina tutti i media mostrano i familiari che implorano i loro figli rapiti a Gaza. Non so come il governo affronterà la questione, ma non posso immaginare che queste persone e queste famiglie siano trattenute a Gaza per anni. Questo limita anche i bombardamenti dei caccia israeliani a Gaza, perché lì ci sono ostaggi israeliani. Non solo, nei prossimi giorni centinaia di israeliani saranno ricoverati e questo avrà il suo impatto sul morale della società israeliana. Sono numeri che Israele non ha mai visto in nessuna guerra di questa portata. E questi numeri non potranno che aumentare perché la guerra sta iniziando ora. Israele si sta preparando a una massiccia invasione di terra di Gaza. E anche questo avrà il suo peso quando avrà luogo. Nel frattempo, la gente si sta conoscendo di nuovo. I manifestanti contro le riforme legali che minacciavano di rifiutare il servizio sono tutti in uniforme e nel sud. Le avversità uniscono il popolo.
Riservisti militari israeliani arrivano in un'area di sosta vicino al confine con il Libano
Una cosa è certa: le vecchie regole non devono più valere. Israele deve intervenire in modo diverso questa volta per disarmare Hamas e tutti gli altri terroristi di Gaza una volta per tutte. Israele ha perso il primo round del combattimento di ieri, Israele deve vincere i prossimi round con un knockout ad ogni costo, altrimenti non abbiamo il diritto di esistere. Nel frattempo, Israele ha staccato l'elettricità a Gaza, perché la ricevono da Israele, anche se attaccano Israele con i razzi da quasi 20 anni. Non pagano comunque le tasse. L'importazione di benzina e diesel a Gaza è stata bloccata, così come tutti gli altri beni commerciali. Quello che ho detto ieri nella riunione di Zoom lo ripeto qui, questa volta Israele deve intervenire senza pietà a Gaza, zero considerazione! Israele è ancora sotto shock e apprenderà solo nei prossimi giorni quale catastrofe ha colpito la popolazione e il Paese.

(Israel Heute, 8 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una triste festa della gioia

Anche 24 ore dopo l'inizio dell'attacco a Israele, il Paese è sotto shock.

di Dov Elion

Detriti dopo che un razzo proveniente da Gaza ha colpito un edificio a Tel Aviv.
Ieri avremmo dovuto celebrare Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Ma si è rivelata una festa triste, la più triste che abbiamo mai vissuto.
La giornata è iniziata alle 6.30 del mattino. Il mio cellulare ha fatto un forte rumore. "Ma è Shabbat e un giorno festivo, non ho nemmeno messo la sveglia", mi sono chiesto mentre saltavo giù dal letto, spaventato. Il mio cellulare continuava a suonare. Era la mia applicazione "Red Alert", che mi avvertiva dei razzi provenienti da Gaza. Non riuscivo a tenere sotto controllo il telefono, questo sgradevole tono di avvertimento continuava a suonare. Ho acceso la radio per assicurarmi che l'app funzionasse correttamente. E  anche la radio trasmetteva ininterrottamente allarmi missilistici.
Poiché era ancora mattina presto, non c'erano ancora notizie al telegiornale. In TV, come sempre di Shabbat e nei giorni festivi, si ripetevano i programmi della festa.
Mentre lo schermo mostrava i luoghi in cui erano stati lanciati gli allarmi per i razzi, si cantava la canzone "Shabbat al mattino, un bel giorno...".
Non essendo ancora completamente sveglio, ero un po' confuso. "Perché non ci sono notizie sui razzi?", pensavo, quando all'improvviso ho sentito diversi forti boati che hanno fatto tremare le nostre finestre. Finalmente sveglio, sono andato rapidamente nella stanza di nostro figlio, che è anche la nostra stanza di sicurezza, per chiudere la porta di ferro della finestra.
Poi si è svegliata anche mia moglie, che all'inizio non capiva perché fossi così agitato.
Sinceramente, non ho parole per descrivere le mie impressioni sulle tante immagini orribili che ci sono state mostrate in televisione e soprattutto in rete. C'erano allarmi di razzi senza pause, lo schermo era costantemente arancione con tutti gli avvisi di razzi. Io e la mia famiglia eravamo senza parole.
Come è possibile che Israele sia stato colto di sorpresa in questo modo? Com'è possibile che decine di terroristi potessero circolare per le strade della città di Sderot senza ostacoli e sparare liberamente? Dov'erano l'esercito e la polizia?
Terroristi nelle strade di Sderot, ero scioccato.
Le telefonate sono state trasmesse in TV, con cittadini spaventati in località del sud che imploravano aiuto, mentre i terroristi passavano per le case alla ricerca dei residenti. Terribile.
Siamo rimasti seduti in salotto senza parole. Mia moglie ha ricordato la sorpresa di esattamente 50 anni e un giorno fa, quando era una bambina che giocava all'aperto e fu sorpresa dalle sirene dell'allarme aereo e poi portata rapidamente al rifugio dalla madre.
In effetti, la giornata di ieri ci ricorda lo scoppio della Guerra dello Yom Kippur, in cui Israele fu sorpreso dai suoi vicini arabi.
Come è possibile che anche questa volta siamo stati colti di sorpresa? Dov'era il servizio di intelligence? Credo che dovremo aspettare la fine di questa guerra contro Hamas, che è appena iniziata, per avere una risposta.
Non c'era più traccia di Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Eravamo ormai in una realtà completamente diversa. Solo un giorno prima, la Corte Suprema si era occupata della questione se fosse permesso tenere le gioiose processioni per la festa di Simchat Torah nella città di Tel Aviv. La città di Tel Aviv aveva detto che eventi come questo non avevano posto nello spazio pubblico, perché dopo tutto non volevano imporre la religione a nessuno.
Che controversia incredibile. Com'è possibile che a Tel Aviv, una città di Israele, si voglia vietare la pratica dell'ebraismo? Questa disputa è stata una continuazione di quanto accaduto durante lo Yom Kippur, quando attivisti non religiosi hanno interrotto la preghiera in piazza Dizengoff. Alla fine, il tribunale ha permesso le processioni della Torah a Tel Aviv il venerdì mattina, a patto che non passassero per piazza Dizengoff.
Poi sono arrivati i razzi. Le processioni festive sono state cancellate, ovviamente, per proteggere le vite umane. Israele è sotto attacco. Ora siamo di nuovo tutti insieme per difenderci dal nostro nemico.
Sembra che abbiamo bisogno di una crisi ogni tanto per riunirci di nuovo. L'organizzazione "Achim La Neshek", i Fratelli in Armi, che aveva invitato le persone a smettere di offrirsi come volontari per l'esercito a causa della controversa riforma giudiziaria, ha invitato i suoi membri a presentarsi alle loro unità per difendere il Paese. Grazie per questo.
Ma un obiettivo è stato raggiunto: le processioni con la Torah per le strade di Tel Aviv ieri non ci sono state.
Spero davvero che in questa crisi, forse la più grande della storia del nostro Paese, ci riuniremo di nuovo, e questa volta per il bene.

(Israel Heute, 8 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele dichiara formalmente guerra ad Hamas

Non è una formalità ma un chiaro messaggio al mondo che questa volta si fa sul serio e non si accetteranno critiche di sorta del tipo "risposta sproporzionata"

di Sarah G. Frankl

Domenica il governo israeliano ha formalmente dichiarato guerra ad Hamas, ponendo le basi per una risposta massiccia contro il gruppo terrorista islamico.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu aveva già detto sabato che il Paese era in guerra, ma la dichiarazione era retorica. La mossa di domenica da parte del gabinetto israeliano è una decisione ufficiale, per intenderci equivalente a una dichiarazione di guerra da parte del Congresso negli Stati Uniti.
La dichiarazione di guerra è stata presa in conformità con l’articolo 40 della Legge fondamentale di Israele, ha dichiarato l’ufficio stampa del governo israeliano. Israele non ha una costituzione scritta, ma le sue 13 leggi fondamentali hanno una funzione simile.
Prima della dichiarazione di domenica, Netanyahu aveva detto che Israele avrebbe “compiuto una potente vendetta” per l’attacco dei militanti palestinesi, mentre il più alto funzionario militare del Paese, responsabile delle attività nei territori palestinesi, aveva detto dopo gli attacchi che Hamas aveva “aperto le porte dell’inferno”. Israele ha bombardato Gaza con attacchi aerei che hanno ucciso più di 300 persone.

(Rights Reporter, 8 ottobre 2023)

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Tensioni anche a nord di Israele: Hezbollah colpisce tre siti israeliani

Come purtroppo si temeva, si sta muovendo anche il fronte nord

di Sarah G. Frankl

Hezbollah ha annunciato domenica di aver preso di mira tre postazioni israeliane nelle Fattorie di Shebaa, in un chiaro messaggio di solidarietà con i terroristi palestinesi di Hamas.
In un comunicato, Hezbollah Media Relations ha dichiarato che le Unità del Comandante martire Imad Mughniyeh hanno colpito tre postazioni israeliane nelle Fattorie di Shebaa.
“Sulla via della liberazione della parte rimanente della nostra terra libanese occupata e in solidarietà con la vittoriosa resistenza palestinese e il saldo popolo palestinese, i gruppi del comandante martire Hajj Imad Moghniyeh nella Resistenza islamica hanno effettuato un attacco questa domenica, 08 ottobre 2023, prendendo di mira 3 siti di occupazione sionista nella regione libanese occupata delle Fattorie Shebaa”, si legge nella dichiarazione, riportata da Al-Manar.
I tre siti sono stati nominati: Radar, Zibdin e Ruweissat Al-Alam. Nella dichiarazione si legge che i terroristi di Hezbollah hanno utilizzato un numero significativo di proiettili d’artiglieria e di missili guidati, che hanno colpito direttamente questi siti.

(Rights Reporter, 8 ottobre 2023)

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Il salmista ignoto (5)

di Marcello Cicchese

La serie di studi sul Salmo 119 presentata nei mesi scorsi ha come tesi che l'autore ignoto di questo salmo è una prefigurazione del Messia. La serie però si è interrotta "sul più bello", cioè quando sarebbe venuto il momento di trarne delle precise conseguenze da mettere in relazione col testo dei Vangeli, perché per un cristiano dire che l'autore del Salmo 119 è una prefigurazione del Messia è come dire che il salmista ignoto prefigura la persona di Gesù.
   Non è raro che i cristiani scorgano in certe parole dei salmi i tratti di Gesù, ma non mi è mai capitato di sentir fare un accostamento tra l'autore ignoto del Salmo 119 e la persona di Gesù. E anche per me non è facile sviluppare questo accostamento in tutta la sua portata, ma ne avverto l'importanza e una forte spinta a farne oggetto di ricerca e riflessione. Anche se in tarda età, mi sostiene quella secca parola di Gesù che da giovane mi ha portato alla fede: "Cercate e troverete" (Matteo 7:7).
   "Cercate Gesù dove lo si può trovare", si potrebbe dire a chi è in posizione di ricerca. Naturalmente il primo luogo in cui si può trovare Gesù è costituito dal complesso dei quattro Vangeli, seguito dal Nuovo Testamento in cui si trovano inseriti. Ma in questo caso più che di ricerca si deve parlare di disposizione all'accoglienza, perché la persona di Gesù si presenta in modo sufficientemente chiaro a coloro che odono la sua parola e la ritengono "in un cuore onesto e buono" (Luca 8:15). Ma anche chi ha incontrato Gesù nel Nuovo Testamento deve sentire il desiderio di ritrovarlo nelle pagine dell'Antico Testamento perché anche lì è presente, anche se non in forma manifesta, ma nascosta.
   Ma più che nascosta, si potrebbe dire allusiva, perché la Bibbia non è una letteratura misterica accessibile solo a pochi iniziati, ma richiede tuttavia una sincerità di fondo senza la quale essa si richiude, o  addirittura può inviare segnali devianti al lettore prevenuto.
   In questa ricerca di Gesù nell'Antico Testamento ho ritrovato ultimamente la registrazione di una mia predicazione di quindici anni fa. Era proprio sul Salmo 119, ma non si presentava in relazione a questo salmo perché come titolo aveva "L'afflizione". In quel tempo non pensavo a un accostamento tra il salmista e la persona di Gesù: infatti riascoltandola si riconosce che tratto il tema in modo "tradizionale", cioè ricerco e commento quei passaggi del salmo che istruiscono il credente e lo aiutano a vivere in  modo giusto i momenti di afflizione che  incontra nella sua vita.
   A un certo punto inserisco, come di sfuggita, una breve riflessione: "Questo salmo ricorda molto la persona del Signore Gesù Cristo e sono convinto che il Signore Gesù si è nutrito di questo salmo, che è particolarmente adatto alla sua persona". Considero questa riflessione come una informe intuizione di una convinzione che anni dopo ha preso a consolidarsi in modo più preciso. L'accostamento tra il salmista ignoto e la persona di Gesù  è ancora lungi dall'avere assunto forme ben delineate, ma una cosa certamente hanno in comune le due figure: la sofferenza.
   Sulla base dei racconti evangelici, la trattazione cristiana della sofferenza di Gesù ha sempre occupato un posto di primaria importanza, ma l'accento principale di solito è messo sulla sofferenza della morte in croce di Gesù, attraverso cui è avvenuta l'espiazione dei peccati e la riconciliazione dell'uomo con Dio. E naturalmente tutto questo non ha corrispondente nell'esperienza del salmista ignoto. La sofferenza legata alla morte di Gesù sulla croce ha fatto però trascurare la sofferenza legata alla vita di Gesù sulla terra. Gesù si è fatto "ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce" (Filippesi 2:8). L'ubbidienza di Gesù è arrivata fino alla morte perché è durata ininterrottamente tutta la vita, a cominciare dal momento della tentazione nel deserto. Da quel momento Gesù ha dovuto continuamente confermare la sua ubbidienza al Padre resistendo alle insidie di Satana e sopportando l'incomprensione del suo popolo. E questa ubbidienza continua è avvenuta in una sofferenza continua:

    "[Gesù] benché fosse figlio, imparò l'ubbidienza dalle cose che soffri" (Ebrei 5:28).

È la sofferenza ubbidiente di Gesù in tutta la sua vita sulla terra che si può vedere prefigurata nella sofferenza ubbidiente dell'autore ignoto del Salmo 119.

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Dalla Sacra Scrittura
    SALMO 119

    25   L'anima mia è avvilita nella polvere;
           ravvivami secondo la tua parola.
    40   Ecco, io desidero i tuoi precetti,
           ravvivami nella tua giustizia.
    28   L'anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime;
           dammi sollievo con la tua parola.
    83   Poiché io sono divenuto come un otre affumicato;
           ma non dimentico i tuoi statuti.
    107 Io sono molto afflitto;
           Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
    109 La mia vita è sempre in pericolo,
           ma io non dimentico la tua legge.
    123 Si spengono i miei occhi desiderando la tua salvezza
           e la parola della tua giustizia.
    141 Sono piccolo e disprezzato,
           ma non dimentico i tuoi precetti.
    143 Affanno e tribolazione mi hanno còlto,
           ma i tuoi comandamenti sono la mia gioia.
    153 Considera la mia afflizione e liberami;
           perché non ho dimenticato la tua legge.
    176 Io vado errando come pecora smarrita; cerca il tuo servo,
           perché io non dimentico i tuoi comandamenti.

    23   Quando i potenti si siedono a sparlare di me,
           il tuo servo medita i tuoi statuti.
    51   I superbi mi coprono di scherno,
           ma io non mi svio dalla tua legge.
    61   Le corde degli empi mi hanno avvinghiato,
           ma io non ho dimenticato la tua legge.
    69   I superbi inventano menzogne contro di me,
           ma io osservo i tuoi precetti con tutto il cuore.
    70   Il loro cuore è insensibile come il grasso,
           ma io mi diletto nella tua legge.
    78   Siano confusi i superbi, che mentendo mi opprimono;
           ma io medito sui tuoi precetti.
    87   Per poco non mi hanno eliminato dalla terra;
           ma io non ho abbandonato i tuoi precetti.
    95   Gli empi si sono appostati per farmi perire,
           ma io medito sulle tue testimonianze.
    109 La mia vita è sempre in pericolo,
           ma io non dimentico la tua legge.
    157 I miei persecutori e i miei avversari sono tanti,
           ma io non devio dalle tue testimonianze.

    71   È stato un bene per me l'afflizione subita,
           perché imparassi i tuoi statuti.
    75   Io so, Signore, che i tuoi giudizi sono giusti,
           e che mi hai afflitto nella tua fedeltà.
    92   Se la tua legge non fosse stata la mia gioia,
           sarei già perito nella mia afflizione.
    93   Mai dimenticherò i tuoi precetti,
           perché per mezzo di essi tu mi dai la vita.

PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
gennaio 2008


(Notizie su Israele, 8 ottobre 2023)

 

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7 ottobre 2023, Simchat Tora

Simchat Torah, la gioiosa festa della Torah, questa volta è una festa triste.

di Anat Schneider

Simchat Torah, una festa senza gioia
GERUSALEMME - Bum, bum, bum e ancora un Bum, sogno che i miei figli vanno in battaglia.
Un altro bum?
Sto sognando o lo sto solo immaginando? Apro gli occhi, sto per alzarmi dal letto e sento una voce:
"Buongiorno, c'è la guerra nel sud".
Il mio amato Aviel ha già il cellulare in mano e sta scoprendo cosa sta succedendo. Sogno e pensieri si mescolano in me, mi sveglio in una dura realtà,
E più apro gli occhi, più le notizie peggiorano. E più passa il tempo, più l'immagine peggiora.
Mi rifiuto di credere a quello che sento. Voglio tornare a dormire. Ma la realtà colpisce con forza. Anche se di solito evito di guardare i telegiornali, questa volta è sfuggito al mio controllo. Questa volta era fuori dal mio controllo.
Le voci, l'impotenza delle persone nel sud, intrappolate nelle loro case, nei rifugi dietro gli alberi. E la domanda angosciante: dov'è l'esercito? Le Forze di Difesa Israeliane non erano preparate, sono state colte totalmente di sorpresa.
Dov'è il governo?
Un governo così controverso. A quanto pare stanno ancora celebrando Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Quale gioia? Il Tempio viene abbattuto, il popolo viene schiacciato.
E non c'è una voce della ragione, nemmeno una. Una voce che dia speranza, che ci porti alla ragione. Ma non c'è voce, non c'è risposta.
E i telefoni e i Whatsapp continuano ad andare avanti.
"Come state ragazzi?"
"Abbiamo saputo che è scattato l'allarme al Bar Giura".
"E i ragazzi che sono stati reclutati?".
Nella nostra stanza di sicurezza
Sì, proprio così, un allarme ogni cinque minuti. Ma la situazione è la stessa in tutto il Paese. E penso a Eden, che non ha una stanza sicura. Ha una figlia piccola. La chiamo.
"Vieni qui, presto, almeno qui abbiamo una stanza sicura".
Almeno siamo insieme.
E i miei figli, uno a Be'er Sheva, uno ad Ashdod e uno a Modiin.
In televisione parlano di mobilitare le riserve. Ho paura di chiederglielo, ma non ho scelta.
Sei stata arruolata, le chiedo a bassa voce?
"Sì, mamma".
Moran è stato chiamato immediatamente. Si è unito a noi per cinque minuti per prendere le sue cose. Anche il suo amico Eden è stato arruolato immediatamente.
A Tomer e a Elad è stato detto di tenersi pronti e di essere disponibili.
Non c'è più una voce ragionevole. L'unica voce è quella del cuore L'unica voce è quella del cuore che grida così forte ..... Forse possiamo trovare una buona clinica di riabilitazione per riprenderci tutti insieme dopo combattimenti, battaglie, guerre e spargimenti di sangue.
E l'unica voce di speranza ragionevole che mi circonda in questo momento è la voce di un bambino di un anno che chiede cibo, che piange quando vuole dormire.
Piange anche senza motivo.
Vuole giocare.
Ride, cade, alza le mani per essere portato in braccio.
Questa è Michaela, la mia nipotina.
Mi è stato promesso alla nascita che questa sarebbe stata l'ultima guerra.
E cosa dovrei prometterle?
Feste felici non esistono più.

(Israel Heute, 7 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Come è potuto accadere? Come ha potuto Israele essere così sopraffatto?

Le immagini che vediamo oggi dal sud di Israele erano un tempo considerate impossibili. L'immagine di "Israele invincibile" è andata in frantumi.

di Ryan Jones

Palestinesi festeggiano su un carro armato dell'IDF catturato. Immagini del genere prima erano considerate impossibili.
GERUSALEMME - Israele non è inespugnabile? L'IDF non è di gran lunga la potenza militare più forte del Medio Oriente? Molto più forte, in ogni caso, di una gracile organizzazione terroristica confinata in una piccola e impoverita striscia costiera.
Eppure, sabato mattina, Israele è stato sorpreso e per il momento sconfitto.
Non c'è dubbio che l'IDF reagirà, riprenderà tutti i territori perduti e infliggerà un duro colpo ai nostri nemici.
Ma fino a ieri non c'erano dubbi che i nostri confini fossero al sicuro, almeno dall'invasione, se non dal lancio di razzi.
Questa mattina, centinaia di famiglie israeliane hanno scoperto che ci sbagliavamo quando si sono svegliate vedendo uomini armati di Hamas marciare per le loro strade.
Hamas ha effettivamente conquistato il territorio israeliano!
Questa mattina, i confini di Israele si sono spostati a favore del nemico per qualche ora!
Non importa che i guadagni del nemico siano stati di breve durata. Non sarebbe mai dovuto accadere. Eravamo tutti convinti che non fosse possibile. Il nemico non dovrebbe essere in grado di invadere e catturare gli israeliani nelle loro case. L'IDF era troppo forte, troppo avanzato, perché Hamas potesse infliggerci un tale colpo.
I filmati degli israeliani condotti per le strade di Gaza ci hanno subito mostrato quanto ci sbagliavamo.
Anche per quelli di noi che sanno da dove viene realmente la forza di Israele, l'arroganza israeliana è contagiosa. Come la maggior parte degli israeliani, si crede che lo Stato ebraico sia potente di per sé. Che Dio sia dalla sua parte è solo un bis.
Ma Dio non può essere preso in giro.
Come nella guerra dello Yom Kippur, iniziata 50 anni fa con un devastante attacco a sorpresa, oggi Israele ha sentito la verga del rimprovero.
Ci sono molte lezioni che possiamo imparare dai terribili eventi di oggi. Umiltà, consapevolezza, preparazione. Soprattutto, speriamo e preghiamo che a Israele venga ricordato che può continuare a fare affidamento sul Signore.

(Israel Heute, 7 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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"Quanto sta succedendo in Israele è di una gravità senza pari"

Riportiamo un post inserito sui social che l'autore ci ha comunicato per conoscenza.

Interrompo l’abituale silenzio shabbatico perché quanto sta succedendo in Israele è di una gravità senza pari; al momento, secondo notizie che arrivano direttamente dalla direzione ospedaliera, ci sono oltre 100 morti israeliani (in gran parte civili) e 900 feriti (ma saranno di più perché bisogna informare i familiari prima di renderli ufficiali), senza contare le persone che sono state rapite. Non intendo pubblicare qui le terribili scene che ho visto, con morti trucidati nelle loro auto in autostrada, anziani, donne e bambini presi prigionieri, israeliani che si nascondono nei bidoni della spazzatura, terroristi entrati nelle case private… (non aggiungo altro), e alcuni villaggi completamente nelle mani dei terroristi. È vero che alcuni terroristi sono già stati fatti prigionieri, ma su questo più sotto dirò il mio parere, ma prima che i riservisti siano arrivati nei posti di combattimento sarà terminata la prima giornata di GUERRA.
E allora permettetemi di dire il mio pensiero che coloro che mi seguono forse già immaginano. Non più tardi di giovedì sera ho scritto: “non vorrei che oggi, a distanza di 50 anni, Israele ricadesse nell’errore di sentirsi troppo sicuro, come il 6 ottobre del 1973”. Già, avevo visto giusto, ahimè, e la colpa ricade tutta, sugli alti gradi dei militari che, come i giudici della Corte Suprema, costituiscono una casta, e sui politici, anche Netanyahu, che sono sempre andati dietro alla loro volontà timorosi di ciò che il mondo direbbe se… Pochi mesi fa osservai in un post che non si può pensare che dei giovanissimi militari rimangano per ore ed ore (allora, sul confine egiziano, in turni di 12 ore) sempre vigili. Come spiegare altrimenti che i terroristi siano penetrati in massa in Israele, armati di tutto punto? Ci saranno le solite commissioni d’inchiesta, ma i colpevoli non si auto-accuseranno. Come è possibile che i carristi si facciano prendere prigionieri, estratti letteralmente dal loro carro armato? Evidentemente hanno ordini categorici di non sparare se… Mancano le guide in Israele all’altezza della situazione.
Scusate la durezza del mio sfogo, ma da tempo avevo capito che coloro che aprivano i miei occhi su questa realtà avevano ragione; essere con Israele è dire anche questo.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 7 ottobre 2023)

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La Guerra del Kippur e una lettera per Roma: ‘’I ragazzi arrivavano di corsa con il talled in mano’’

Per ricordare il cinquantesimo anniversario della Guerra del Kippur, riportiamo di seguito una lettera pubblicata su “Shalom” nell’ottobre del ‘73 che ci restituisce la cronaca di quei drammatici giorni. Miki racconta nella missiva ai genitori in Italia cosa accade: il repentino passaggio dai momenti di preghiera durante Kippur al campo di battaglia, la sorpresa dell’attacco, la mobilitazione della popolazione israeliana animata da un forte senso di appartenenza e solidarietà: i giovani che vanno al fronte, i civili preparano rifugi e donano il sangue e i bambini che aiutano come possono.  

Gmar Hatima Tovà, Carissimi.
Giorno 6. Sono stata così felice di avervi potuto parlare stasera nonostante tutte le difficoltà sopravvenute all'ultimo momento. Non so quando potrò spedirvi la presente ma vi prometto che la prima lettera a lasciare Israele sarà la vostra.
Sapevamo da una quindicina di giorni che qualcosa si stava preparando nel Golan e quando sono stata per il week-end a Mayashrim era evidente che lo scoppio era molto vicino ma tutti pensavamo ad una azione localizzata e non ad una guerra.
Ieri sera Dany che mi è molto amico è arrivato in licenza dal Sinai dove serve in una postazione radar, poi Alex è arrivato dal Golan, ma nello stesso istante una jeep militare è venuta a prelevarlo e Noemi ha fatto solo in tempo a dargli un po' di biancheria pulita prima che raggiungesse la sua compagnia sul Golan. Ma eravamo senza radio e senza notizie, tutto era chiuso per motivi religiosi da ieri alle 2 del pomeriggio. Ciononostante tutto sembrava calmo ma quando sono uscita stamane invece di trovare le strade deserte c'erano macchine dell'esercito che hanno incominciato a circolare, dei camion, degli autobus con dei grandi manifesti «Esercito, servizio di difesa ecc... » Poi una serie di doppi «bang» degli aerei e allora la gente ha capito che una tale infrazione alla legge del Kippur significava che qualcosa di grosso stesse avvenendo.
Poi sono stata chiamata ad un punto di prelevamento per soldati in caso di emergenza e ho passato lì tutta la mattinata. Vedevo arrivare soldati correndo da tutte le parti e con tutti i mezzi di locomozione disponibili per aspettare i camion militari che regolarmente si fermano per portarli sui fronti.
È stato uno spettacolo straziante dato che la maggior parte di questi ragazzi erano accompagnati dalle famiglie ed alcuni arrivavano ancora con il talled in mano (erano appena stati prelevati dal Tempio) e se lo levavano in attesa del camion. C'era un giovane ufficiale che aveva indossato la camicia dell'esercito su un paio di blue jeans e una signora anziana, la nonna, che cuciva velocemente un distintivo militare sul pantalone regolare; è arrivata in tempo a finire mentre arrivava il camion. Purtroppo lo stesso camion era già lontano quando è giunto trafelato e correndo con tutte le sue forze un ragazzino con un paio di stivaletti e una sacca militare. Egli ha talmente pianto che la signora anziana lo ha preso in braccio ed era talmente commossa che piangeva quanto lui; è stato a questo punto che non sono più riuscita a trattenere le mie lacrime.
Il mio vicino è appena sceso per salutarmi con il suo cane lupo; entrambi hanno già fatto la guerra dei 6 giorni. Sua moglie faceva eroici sforzi per sembrare calma e naturale.
L'allarme ha interrotto il silenzio nel quale eravamo immersi e allora la radio ha annunciato che eravamo in guerra e che la trasmissione avrebbe avuto carattere continuo.
Degli ordini sono stati dati per l'oscuramento e i ragazzi che ne sono responsabili sono scesi in tutti i palazzi al fine di preparare i rifugi, come glielo hanno insegnato a scuola con riserve di lumi, candele e acqua.
Giorno 8. Dany è stato ferito e non potrò mai dimenticare il viaggio che ho fatto in compagnia di sua madre per andare all'ospedale di Gerusalemme; questa povera donna, ignara di quanto era successo al figlio e che pregava Dio con fervore per ritrovarlo «intero». Per fortuna Dany non è grave, gli hanno tolto chili di piombo dalla schiena, dalle braccia, ma lui non si dà pace preoccupandosi soltanto del luogo dove sarà rimandato uscendo dall’ospedale, in quanto la sua postazione è stata rasa al suolo di sorpresa.
La popolazione si dimostra pari all'esercito e non è poco. Ci sono troppi volontari dappertutto e la radio ripete continuamente che le banche del sangue hanno una riserva massima e prega i donatori di non presentarsi più per non ingombrare i servizi.
I bambini hanno funzione di postini e si incaricano di togliere le immondizie. Le donne si sono presentate nelle fabbriche al posto dei mariti e il primo sforzo dell'Italia in questo conflitto è forse quello rappresentato dalla mia automobile con la quale faccio trasporti di truppa.
Ieri ho accompagnato il Generale in un ospedale militare. È stata una cosa atroce vedere in una camera dei giovani senza braccia, senza gambe, alcuni ciechi che pregavano le signore venute con regali di non farlo più versando ogni lira al Governo.
Abbiamo bisogno di denaro, ancora denaro, null'altro che denaro.
E tu, mamma cara, aiuta Aviva quanto puoi e cerca di fare quanto facesti durante la guerra dei 6 giorni raccogliendo il massimo che puoi.
I nostri ragazzi sono meravigliosi e il loro morale è alle stelle.
Lavoro giorno e notte con tutto il cuore, non siate preoccupati per me, siamo al sicuro e sono io che mi preoccupo sapendo quanto tremiate per me.
Mamma manda soldi, papà fai il massimo per questo Paese per il quale darei la mia vita.
Giorno 9. Ho appena saputo della morte di Dany; non ce la faccio più a scrivere.
Telefonerò stasera
Miki

(Shalom, 6 ottobre 2023)


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La Guerra del Kippur e i 100 chili d’oro: “Sarà per Israele il petrolio degli ebrei romani”

Fu per libera scelta e non per cedere a un ricatto che cinquant’anni fa gli ebrei romani si mobilitarono per raccogliere 100 chili d’oro da destinare ad Israele durante la Guerra del Kippur. Accadde proprio nella ricorrenza della razzia del 16 ottobre 1943: con un senso di rivalsa nei confronti della storia, memori di ciò che avevano fatto i loro genitori e nonni e della raccolta dei 50 chili d’oro estorti dai nazisti agli ebrei romani, un gruppo di persone ebbe l’idea “di rispondere al petrolio arabo con l'«oro di Roma», quello dei braccialettini delle donne, delle catenine dei figli” come ci racconta la cronaca riportata a caldo da “Shalom” dell’epoca. In quelle ore arrivarono in migliaia in comunità e chi aveva donava per aiutare Israele. C’erano anche i sopravvissuti ai campi di sterminio. Ad un certo punto arrivò Settimia Spizzichino… Ripercorriamo la vicenda della raccolta dei 100 chili d’oro attraverso le pagine di “Shalom” di ottobre – novembre 1973…

La raccolta dei 100 chili d’oro

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Nata fra molte polemiche e alcune incertezze, l'iniziativa di raccogliere l'oro nella ricorrenza del 16 ottobre, ha dimostrato nei fatti la sua validità. Già dalle prime ore della mattina un flusso ininterrotto di persone ha cominciato ad affollare la stretta scala che porta ai locali del centro sociale che erano stati disposti per la raccolta.
   Un'enorme e vitale confusione di donne, bambini, gente semplice che portava il proprio «oro» di famiglia. Alcuni si sfilavano la fede (che veniva però rifiutata) altri facevano offerte inconsuete: chi un terreno e, nel caso di una signora vedova e nemmeno troppo abbiente, l'appartamento, la propria unica rendita.
   Ad un certo punto è venuta Settimia Spizzichino, l'unica donna fra i deportati del 16 ottobre che sia tornata dai campi di sterminio. Aveva parlato poco prima alla radio sulla sua tragica esperienza nella rubrica «Il Gazzettino» e aveva concluso con espressioni di speranza per la pace. Quasi tutti l'avevano ascoltata e le donne vedendola si commuovevano «Settimia, mi ha fatto piangere».
   Qualcuno aveva già regalato il suo oro, qualcuno ancora no, la tendenza era di rimanere sul posto a discutere e commentare, e i dirigenti si dovevano sbracciare a pregare la gente di fare largo e di recarsi a parlare altrove. I sacchetti di carta si riempivano e andavano a riempire altri sacchi mentre gli incaricati della Keren Hayesod si affannavano a scrivere le ricevute. In serata la raccolta aveva già superato il termine prefissato di 100 kg. Si è prolungata ancora nella mattinata seguente.
   Oltre all'oro da fondere sono stati raccolti e messi da parte per la vendita un numero considerevole di oggetti di pregevole fattura e perciò non adatti allo squaglio.

Il petrolio degli ebrei di Roma

Pochi li conoscono con il loro vero nome, ma li chiamano come già chiamavano i loro padri, con soprannomi coloriti che hanno dietro chissà quali storie lontane: i personaggi caratterizzanti del vecchio ghetto di Roma, personaggi che non riflettono la composizione media dell'ebraismo italiaпо, professionisti, piccoli e medi borghesi, ma costituiscono proletariato ed in qualche caso sottoproletariato. In più sono tra i non molti autentici romani rimasti a Roma. È tra loro che ha trovato terreno l'idea-sfida di raccogliere in un giorno - nello stesso giorno in cui esattamente trenta anni prima i tedeschi razziavano il ghetto deportandone gli abitanti – il doppio dell'oro estorto dai nazisti alla fine di settembre del 1943 con la mendace promessa di lasciare salva la vita degli ebrei. 50 chili d'oro chiesero ed ebbero i nazisti, 100 chili si sono ripromessi di raccoglierne gli abitanti del ghetto, oggi. «Non possiamo sempre subire ha detto qualcuno di loro - quei tempi sono finiti e non lasceremo che ritornino». Così hanno deciso, forzando la mano dei dirigenti della Comunità, assai perplessi, di dare il via all'operazione di raccolta destinata a Israele.
   I rapporti tra questi ebrei romani e Israele sono improntati tutti al sentimento, ma dietro a questo sentimento c'è la consapevolezza che Israele rappresenta la salvaguardia non tanto della vita quanto della dignità ebraica: e qui a Roma la dignità ebraica è stata per troppi secoli calpestata dai Papi perché il ricordo non diventasse atavico e strutturale. Non sanno forse molte parole d'ebraico, nessuna forza al mondo li spingerebbe a lasciare la città in cui si perdono le loro origini, ma sono sordi agli eleganti «distinguo» dei comunisti sull'antisemitismo.
   Loro che sionisti non sono hanno avvertito che nella guerra contro Israele c'è qualcosa di più che un confronto politico e militare.
   La loro risposta alla quarta guerra mediorientale non è stata forse in un primo momento così emotivamente drammatica come nei giorni del giugno 1967 quando sembrava che Israele dovesse soccombere trascinando nella caduta tutto il popolo ebraico, ma via via che i particolari del potenziale bellico arabo sono venuti alla luce l'emozione di allora è tornata. Gli ebrei della «piazza» non hanno forse molte sottigliezze politiche, ma hanno sentito delle potenti batterie missilistiche fornite agli arabi dall'URSS insieme con i carri armati, le artiglierie, e tutte le armi sofisticate della guerra moderna. E soprattutto sanno di quanto denaro dispongono gli arabi.
   Da qui l'idea-sfida di rispondere al petrolio arabo con l'«oro di Roma», quello dei braccialettini delle donne, delle catenine dei figli.
   Il 16 ottobre 1973 sono affluiti a migliaia. Forse non avevano in tasca le 10.000 lire da lasciare, ma l'oro si, perché il popolo romano ha sempre amato i monili, quelli che si possono portare al Monte di Pietà nei momenti difficili e ritirare prima delle feste, delle nascite, dei matrimoni dei «bar-mizwà», le maggiorità religiose dei figli.
   Questa risposta popolare ha prima stupito i dirigenti comunitari, poi li ha sommersi nell'ondata emotiva.
   Il traguardo dei 100 chili d'oro è stato raggiunto. Sarà per Israele il petrolio degli ebrei romani. Ma un petrolio infinitamente più faticato.

(Shalom, 6 ottobre 2023)

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Fino al prossimo 8 ottobre, in Calabria i rabbini per la raccolta dei cedri

Il "frutto sacro" è utilizzato nella rievocazione del periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico, dopo l'Esodo biblico dall'Egitto, prima di raggiungere la Terra di Israele .

Decine di rabbini si sono dati appuntamento nelle ultime settimane a Santa Maria del Cedro, in provincia di Cosenza, per la raccolta a scopo rituale dei cedri destinati alla "Festa delle Capanne", che, iniziata il 29 settembre in tutte le comunità ebraiche sparse nel mondo, si concluderà domenica prossima, 8 ottobre.
   Il "frutto sacro" è utilizzato nella rievocazione del periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico, dopo l'Esodo biblico dall'Egitto, prima di raggiungere la Terra di Israele, promessa da Dio ai discendenti di Abramo.
   Nel tempo, a Santa Maria la coltivazione del cedro si è radicata sempre più, con la nascita di numerose aziende agricole specializzate. Il frutto, grazie all'attività di promozione svolta dall'omonimo consorzio, ha anche ottenuto a maggio scorso l'iscrizione nel registro delle Denominazioni d'origine protette, con il nome di "Cedro di Santa Maria del Cedro Dop".
   Le imprese cedricole destinano soltanto il 25-30% della produzione al settore alimentare, mentre la parte restante va alla ben più remunerativa vendita ai rabbini. L'acquisto da parte degli ebrei avviene per singolo frutto, con prezzi che variano dai 15 ai 40 euro, secondo gli accordi tra le parti e, soprattutto, in base alla qualità del prodotto, stabilita con canoni estetici riguardanti la forma (dritta e simmetrica) e la purezza (buccia priva di graffi, muffe e funghi, che renderebbero il cedro non adatto all'alimentazione degli ebrei.
   Durante la raccolta, tra agosto e settembre, i cedricoltori staccano dalle piante soltanto i frutti migliori indicati loro dai rabbini dopo un'attenta valutazione. Una seconda selezione viene fatta poi a tavola, con i rabbini che analizzano ogni singolo frutto servendosi anche di lenti di ingrandimento. I cedri, così scelti, vengono dunque acquistati, conservati con attenzione in apposite cassette dotate di imbottiture in spugna, caricati su camion e trasportati in aeroporto per poi volare oltreoceano, destinazione New York. Da qui, vengono venduti alle comunità ebraiche sparse nel mondo.
   L'attività delle aziende cedricole è fiorente. L'unico problema che devono affrontare è la mancanza di manodopera, sia fissa che stagionale

(TGR Calabria, 6 ottobre 2023)

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Ve-zot Ha-Berakhà: Non vi fu, ne vi sarà mai nessuno come Moshè

di Donato Grosser

Alla fine di questa parashà, l’ultima della Torà, è scritto: “Non è mai più sorto in Israele un profeta come Moshè, al quale l’Eterno si rivelò faccia a faccia, come evidenziato da tutti quei segni e miracoli che l’Eterno lo mandò a fare nel paese d’Egitto, al Faraone, a  tutti i suoi ministri e a tutto il suo paese; né simile a lui per quegli atti potenti e per tutte quelle gran cose, che Moshè fece alla presenza di tutto Israele” (Devarìm, 34: 10-12).
            Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel suo commento alla Mishnà (Sanhedrin, decimo capitolo) elenca i tredici principi basilari della Torà che impegnano ogni persona d’Israele. Questi principi sono riassunti nel piyùt (poesia) “Igdàl” che viene cantato il venerdì sera nelle sinagoghe alla fine della tefillà di ‘Arvìt. Il settimo principio afferma che non vi fu né vi sarà mai un profeta come Moshè.
            Il piyùt inizia con la parola “Igdàl” che significa “sia esaltato il Signore”. Con la parola “Nimtzà” viene  presentato il primo principio, quello dell’esistenza del Creatore. Con la parola “Echàd” che Egli è uno e unico. Con “En lo demùt ha-guf” che l’Eterno non è corporeo. Con “Kadmòn” che Egli è eterno. Con “Hinò adòn ‘olàm” che non si deve pregare altro che a Lui. Con “Shèfa’ nevuatò” che l’Eterno comunica con gli esseri umani tramite i profeti. Con “Lo kam be-Israel” che non vi fu mai profeta come Moshè. Con “Toràt emèt” che la Torà è tutta di origine divina. Con “Lo yachalìf” che la Torà è immutabile. Con “Tzofè ve -yodèa’” che l’Eterno è onnisciente. Con “Gomèl” che l’Eterno ricompensa i giusti e punisce i malvagi. Con “Yishlàkh” che alla fine dei giorni l’Eterno manderà  il Mashìach. Infine con “Metìm yechayè” che quando l’Eterno vorrà, avrà luogo la resurrezione dei morti. 
               Riguardo al settimo principio, il Maimonide scrive che bisogna sapere che Moshè è il supremo di tutti i profeti che lo hanno preceduto e di tutti quelli che lo hanno seguito. E tutti sono inferiori al suo livello. Ed egli è l’eccelso di tutto il genere umano, che comprese del Signore più di quanto comprese e comprenderà ogni altro essere umano esistito o che esisterà. E che Moshè giunse al limite dell’elevazione umana, al punto di raggiungere un livello angelico.  
            Le differenze tra la profezia di Moshè e di quelle degli altri profeti sono quattro: la prima differenza è che gli altri profeti non comunicano direttamente con l’Eterno ma con degli intermediari angelici. Moshè invece comunicava senza intermediari come è detto: “Faccia a faccia”. La seconda differenza è che la visione profetica agli altri profeti giunge  in sogno oppure di giorno quando il profeta è preso da una “trance”, va in estasi e perde il controllo dei sensi. A Moshè invece la profezia arrivava di giorno mentre era sveglio e si trovava nella tenda dell’assemblea. La terza differenza è che quando a un profeta arriva una visione profetica, anche se gli arriva tramite un angelo, perde le forze e cade terrorizzato come se fosse di fronte alla morte, come avvenne con Daniel (10: 8-16). A Moshè invece la parola divina arrivava nello stesso modo in cui due persone parlano l’uno con l’altro, senza alcun tremore, grazie alla capacità del suo intelletto di connettersi con il divino. La quarta differenza è che a tutti i profeti, la profezia non arrivava quando la desideravano, ma solo a seguito della volontà divina. Alcuni profeti attesero per anni di ricevere la profezia. Moshè invece poteva ricevere la profezia quando voleva. Questi sono i motivi per cui cantiamo: “Non sorse mai in Israele nessun profeta come Moshè”.

(Shalom, 6 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Vezot ha berachà (Questa è la benedizione)

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Non c’è Stato d’Israele democratico che non sia anche Stato ebraico

Il fervore messianico dell’estrema destra vorrebbe abbandonare il concetto di “democratico”, ma il fervore messianico dell’estrema sinistra vorrebbe cancellare il concetto di “ebraico” contraddicendo se stessa.

La Dichiarazione d’Indipendenza occupa un posto d’onore nelle celebrazioni israeliane. Benché non sia una Costituzione, si tratta di un documento fondativo, riconosciuto come tale nella Legge Fondamentale su Libertà e Dignità umana. Questa riconoscimento è basilare.
La frase “stato ebraico” compare più volte nella Dichiarazione d’Indipendenza. Non compare invece la parola “democratico”, ma il testo della Dichiarazione stabilisce che Israele “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura; salvaguarderà i Luoghi Santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Ciò mette in chiaro che Israele non è solo democratico, ma anche liberale nella sua essenza....

(israele.net, 6 ottobre 2023)

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Quando re Hussein avvertì Israele sulla Guerra del Kippur

50 anni dopo dagli archivi i dettagli sull'incontro con Golda Meir

TEL AVIV - Nell'imminenza della guerra del Kippur - lanciata simultaneamente dagli eserciti di Egitto e Siria nell'ottobre 1973 - Israele ricevette un avvertimento da re Hussein di Giordania.
   Era il 25 settembre quando Hussein incontrò a Tel Aviv la premier di Israele Golda Meir.
   "Le forze siriane - disse - hanno completato i preparativi, aviazione e missili inclusi. Devono avere la sembianza di esercitazioni, ma secondo le mie informazioni si apprestano a lanciarsi in avanti". La Meir gli chiese se i siriani avrebbero sferrato un attacco da soli, o assieme con l'Egitto. "Fra loro c'è piena collaborazione", rispose il sovrano hashemita. Al termine di quel drammatico incontro, il segretario della Meir Eli Mizrahi scrisse un documento che sarebbe stato poi affidato agli archivi di Stato. Da tempo il suo contenuto era di dominio pubblico: ossia che la Giordania aveva messo in guardia Israele della minaccia incombente.
   Adesso quel testo storico è reperibile sul web. Si è appreso così che nei messaggi segreti re Hussein era chiamato con il nome in codice 'Lift'. Nel 50esimo anniversario di quella guerra, il mese scorso gli archivi hanno infatti messo a disposizione del pubblico 3.500 dossier con centinaia di migliaia di pagine. Un evento che ha riattizzato aspre polemiche sulle responsabilità del governo Meir. Da questi documenti si apprende fra l'altro che da mesi Hussein avvertiva, con crescente insistenza, sia gli Stati Uniti sia Israele della tempesta in arrivo. In codice aveva anche un altro nominativo: 'Yanuka', poppante. Ciò perché era stato proclamato re a soli 17 anni. Il 12 giugno 1973 'poppante' incontrò a Washington l'ambasciatore d'Israele Simcha Dinitz e lo aggiornò sui tentativi di Siria ed Egitto di trascinare il suo Paese in un attacco contro Israele, per recuperare i territori perduti nel 1967 nella guerra dei Sei giorni. Il re disse che i progetti - a cui si opponeva - prevedevano lo schieramento in Giordania di forze egiziane e siriane, sotto comando egiziano. In extremis, il 25 settembre Hussein cercò ancora di avvertire Israele. Ma anche nei giorni seguenti l'intelligence militare stimava che fossero basse le probabilità di una guerra. Gli spostamenti sul fronte egiziano - fu assicurato alla Meir, secondo Eli Mizrahi - avevano "carattere difensivo". Dagli archivi risulta che all'alba del 5 ottobre il capo del Mossad Zvi Zamir volò all'estero e che poi la aggiornò nel cuore della notte. Aveva incontrato a Londra - secondo un libro pubblicato di recente dal Mossad - 'l'Angelo': il funzionario egiziano Ashraf Marwan, intimo del presidente Anwar Sadat. E 'Angelo' confermava l'imminenza della guerra. Seguirono ore convulse, con un richiamo parziale di riservisti. Poi alle ore 14 del 6 ottobre partì il blitz siro-egiziano sul Golan e nel Sinai che avrebbe spiazzato Israele, costringendolo ad affrontare la sfida militare più grave della sua storia.
   L'apertura degli archivi ha rispolverato vecchie ruggini fra i servizi di sicurezza. Al capo dell'intelligence militare Eli Zeira e al capo dell'aviazione Benny Peled viene attribuita da alcuni un'errata sicumera nell'analizzare le capacità offensive arabe. Altri, come il direttore di Haaretz Aluf Ben, accusano invece il governo Meir di miopia politica: di non aver cioè saputo (o voluto) verificare, già in una consultazione ministeriale del 18 aprile 1973, la disponibilità ad un accordo da parte del presidente egiziano Sadat.

(ANSAmed, 4 ottobre 2023)

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Pio XII. Il Papa anti-Cristo

Abbiamo ricevuto da Gerusalemme e pubblichiamo molto volentieri questo poderoso articolo di un nostro sincero e costante amico. NsI

di Fulvio Canetti

Come dimenticare quel Signore vestito da stregone e portato su di una sedia dorata, che dall’alto di questa inviava segnali con le mani alla folla raccolta nella basilica di San Pietro in Roma? È consuetudine vaticana quella di chiudere le porte della basilica quando il Papa si presenta alla folla dei fedeli, a cui impartisce le sue formule di benedizione. Avevo allora circa dieci anni quando insieme alla mia mamma (z.l.) eravamo in visita proprio nella basilica di San Pietro. Ricordo benissimo che, all’arrivo del Papa, le porte si chiusero, mentre io e la mamma, senza renderci conto di cosa stesse accadendo, venimmo a trovarci fuori dalla basilica. Eravamo gli unici due sul sagrato, dove non c’era anima viva. L’atmosfera che si respirava, sembrava quella delle favole, dove ogni cosa finisce bene. E la nostra storia grazie a D-o finì proprio bene perché ambedue fummo salvati da quelle formule magiche di benedizioni, in odore di idolatria. Ma chi era questo Eugenio Maria Giovanni Pacelli figlio di Filippo, un avvocato della Sacra Rota vaticana? Era il Papa Pio XII, salito al soglio pontificio nel marzo del 1939 A.D. con il benestare dei regimi totalitari nazi-fascisti e delle frange oltranziste della Curia di Roma. Fu un ottimo biglietto di presentazione da esibire nelle cancellerie d’Europa, nel momento in cui la Germania nazista si apprestava a dichiarare guerra al mondo, avendo già pronto nel cassetto il programma assassino dello sterminio del popolo ebraico (Shoà). È impensabile che un Papa come Pio XII non conoscesse la situazione drammatica del momento, come già accaduto con gli accordi di Monaco del 1938 firmati dal primo ministro britannico Chamberlain. È stata la capitolazione delle libertà europee, portata avanti da una società senza D-o, che potremmo definire anti-cristiana. Pio XII è stato definito dal giornalista britannico John Corwell ‘’Il Papa di Hitler’’, da David Kertzer ‘’Un Papa in guerra’’, ma sarebbe più giusto definirlo il Papa anti-Cristo, che, cavalcando la tigre del Nazismo, ha reciso completamente le radici ebraiche di Gesù, a favore di un paganesimo barbaro e violento, che ha portato l’Europa alla rovina morale. 
   Forti del loro potere assoluto i Signori della guerra, hanno cercato di emulare l’esempio di Babele, ma hanno fatti i conti senza l’oste cioè senza D-o, che ha ascoltato il grido di dolore del suo popolo, scendendo nel mondo per rendere giustizia ai figli prediletti. Pio XIIl’anti-Cristo ha avuto il coraggio di tacere sul genocidio di esseri umani, sperando nella vittoria delle tenebre sulla luce, ha avuto il coraggio di non condannare le leggi razziali del 1938 in sintonia con il re di Piemonte, ha avuto il vile coraggio di rapire bambini ebrei nascosti nei conventi durante la Shoà, privando costoro per sempre delle loro famiglie. Eppure è stata proposta per questo signor Papa una solenne beatificazione! Il coraggio della vergogna di certo non manca nei circoli del potere Pontificio, che si ammanta di una falsa umanità finalizzata unicamente al proprio interesse.
   Si stanno aprendo ora con notevole ritardo, gli archivi vaticani riguardanti il periodo del suo pontificato e si comincia a vedere da documenti finora inediti, che questa sua presunta ‘’santità’’ cede il passo alla ‘’leggenda nera’’ cioè a quella di un Papa animato da indifferenza se non da compiacimento verso la tragedia delle vittime. Sapeva tutto quello che c’era da sapere sui Lager di sterminio nazisti, come testimoniano le lettere private sfuggite alla distruzione, ma nessuna parola ‘’ pubblica’’ di condanna osò proferire: silenzio assordante. Non protestò contro la violenta occupazione nazista di Roma, ma per confondere le anime, bisognava mettere alle sue mancanze una facciata di moralità ‘’cristiana’’, offrendo rifugio nei conventi a ebrei e antifascisti. Di certo un rifiuto di aiuto sarebbe stata un’accusa manifesta nei confronti del Papa e la cornice di umanità sarebbe venuta a cadere, mettendo in luce la connivenza con le forze del male. Questa scelta politicamente ‘’obbligata’’ è diventata poi il cavallo di battaglia dei suoi difensori, per occultare le sue inadempienze morali verso il prossimo e verso D-o.  Pio XII nei fatti ha scelto la strada politica, tralasciando quella morale, un comportamento questo indegno e vergognoso per il principe della religione sedicente cristiana.

(Notizie su Israele, 6 ottobre 2023)

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L’Arabia si avvicina: tra Israele e i sauditi un accordo è possibile? Forse sì…

Incontri defilati e non ufficiali. Colloqui segreti che si sono moltiplicati in questi mesi. L’obiettivo? Un avvicinamento concreto tra sauditi e israeliani (a mediare ci pensano gli inviati della Casa Bianca). Molti i possibili vantaggi per tutte le parti. Ma gli ostacoli sono numerosi: primo fra tutti, la questione palestinese, su cui i sauditi chiedono concessioni tangibili da parte di Israele.

di Giovanni Panzeri

La svolta potrebbe essere epocale ma la tela su cui sono chini i tessitori è ancora lontana dall’essere terminata. Israele, Usa e Arabia Saudita: un accordo porterebbe grandi vantaggi ma la strada per ottenerlo è ancora irta di ostacoli. Secondo un report del New York Times, i recenti tentativi da parte della Casa Bianca di verificare l’interesse dei Sauditi verso un accordo che preveda, tra le altre cose, il riconoscimento diplomatico dello Stato d’Israele sarebbero andati incontro a un certo successo.
   Parlando ai suoi sostenitori il 28 Luglio il Presidente Joe Biden avrebbe affermato che “potrebbero esserci segni di avvicinamento tra le parti”, evitando di entrare nei dettagli. E il giorno prima, sempre secondo il New York Times, Jake Sullivan e Bret Mcgurk – rispettivamente il consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale e il coordinatore responsabile per il Medio Oriente della Casa Bianca – si sarebbero recati per la seconda volta a Jeddah, incontrando il principe ereditario Bin Salman ed altri delegati sauditi per discutere della possibilità di un accordo.
   Inoltre secondo un recente scoop della testata Axios, i due inviati americani avrebbero incontrato più volte in segreto il direttore del Mossad David Barnea, per discutere della stessa questione. I termini dell’accordo sono stati, inoltre, apertamente discussi nell’incontro tra il Segretario di stato americano Blinken e il Ministro per gli affari strategici del governo israeliano, Ron Dermer, come riporta il Times of Israel del 25 agosto.

• I vantaggi di un possibile accordo
  Le tre nazioni avrebbero diverse ragioni per stringere un simile accordo: per parte loro gli Stati Uniti vorrebbero limitare le crescenti relazioni tra i sauditi e la Cina, inoltre un accordo sponsorizzato dagli Usa tra Israele e Arabia Saudita ristabilirebbe il loro prestigio nella regione, soprattutto se corredato da concessioni ai palestinesi e dalla fine della guerra in Yemen. L’Arabia Saudita dal canto suo vorrebbe stringere una formale alleanza difensiva con gli Stati Uniti, avere mano libera nel perseguire lo sviluppo nucleare in campo civile (una questione che ha precedentemente incontrato l’opposizione sia degli Stati Uniti che di Israele), e acquistare nuovi sistemi d’arma dagli USA, come il sistema di difesa missilistico antibalistico THAAD. Infine, un eventuale accordo rappresenterebbe una vittoria significativa per Netanyahu, che cerca da anni di guadagnare il riconoscimento formale di Israele da parte degli altri stati mediorientali, e inoltre permetterebbe di collegare l’Arabia Saudita alla ferrovia ad alta velocità pianificata tra la città di Kiryat Shmona e Eilat, sul Mar Rosso.

• Ostacoli significativi
  Ad oggi, però, un effettivo accordo tra le parti rimane improbabile, e rimangono grossi ostacoli e punti da chiarire. I due nodi principali sono essenzialmente collegati e sono la questione palestinese e la complicata situazione della politica interna di Israele: in particolare, la composizione del governo israeliano rende praticamente impossibili significative concessioni ai palestinesi, mentre l’attuale polarizzazione della politica israeliana, dovuta alla controversa riforma giudiziaria, rende poco probabile la formazione di un governo alternativo.
   Altri fattori che potrebbero presentare problemi sono l’opposizione in seno al partito democratico americano, e gli interessi sauditi nell’evitare di sabotare le proprie relazioni con la Cina, nel caso di un nuovo inasprimento dei rapporti con l’Iran. In questo senso sono interessanti alcuni recenti sviluppi, come l’ormai prossima entrata dell’Arabia Saudita e dell’Iran nei BRICS, e l’apertura da parte dei sauditi alla partecipazione cinese nello sviluppo del suo programma nucleare civile, orientata, per ammissione degli stessi sauditi, a fare pressione sugli USA.

• Le condizioni palestinesi
  Sempre secondo il New York Times, i Sauditi sarebbero disposti a considerare un accordo dietro ad una sola, eventuale, promessa da parte di Bibi Netanyahu di non annettere la Cisgiordania e fermare i coloni (un’opzione ipotizzata dagli americani, non dal governo israeliano). Avrebbero anzi chiarito agli inviati americani, a seguito dell’intervento diretto di Re Salman, che un accordo con Israele sarebbe possibile solo dietro significative e concrete concessioni ai palestinesi. L’Autorità palestinese ha recentemente presentato ai sauditi e a Washington una lista di condizioni per dare il suo supporto a un eventuale normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele. Secondo il Times of Israel queste condizioni includono “il riconoscimento dello stato palestinese da parte degli USA, soprattutto nell’ambito delle Nazioni Unite, la riapertura di un consolato americano per i palestinesi a Gerusalemme, l’abrogazione della legislazione statunitense che dichiara la AP, Autorità Palestinese, un’organizzazione terroristica, il trasferimento della West Bank sotto il controllo palestinese, e la demolizione degli insediamenti illegali”.
   Gli Stati Uniti hanno dichiarato che la AP dovrebbe rivolgere le sue proposte a Gerusalemme, visto che parte di esse richiederebbero comunque l’approvazione israeliana, e ha invitato i palestinesi a moderare le proprie condizioni, sottolineando come “richiedere il passaggio di alcuni territori dell’area C, sotto completo controllo Israeliano, alle aree A o B” – dove alla AP è riconosciuta una limitata autonomia- “sarebbe più realistico”. Come riportato da Haaretz lo scorso 30 Agosto, inoltre, i sauditi avrebbero offerto alla AP il rinnovamento dei finanziamenti alle istituzioni palestinesi, accompagnati da “significativi passi verso la realizzazione dello stato palestinese” in un eventuale trattato tra Israele e l’Arabia Saudita, se la AP si fosse dimostrata in grado di “contenere” la violenza nella West Bank. Haaretz riporta anche che l’Autorità Palestinese sta tenendo una serie di incontri e consultazioni con Egitto e Giordania per creare un fronte unito e fare pressione affinché qualunque trattato che preveda la normalizzazione dei rapporti con Israele includa “passi concreti verso uno stato Palestinese”.

• La posizione israeliana
  La posizione e le recenti dichiarazioni da parte del governo israeliano sembrano mettere seriamente in questione la natura di queste discussioni. Mentre Israele è interessato a un accordo con l’Arabia Saudita, sembra che il governo stia scommettendo sul fatto che il sostegno saudita alla causa palestinese sia puramente formale, e che, alla fine, i sauditi si accontenteranno di qualche concessione superficiale, che consenta loro di salvare la faccia, accompagnata dal consenso israeliano allo sviluppo di un programma nucleare. Durante il recente incontro tra Blinken e Dermer, gli ufficiali USA hanno dichiarato che i corrispettivi israeliani “non si rendono conto della reale situazione” e che “significative concessioni ai Palestinesi” saranno necessarie per raggiungere un accordo. Le componenti ultra-ortodosse del governo di Netanyahu ribadiscono da tempo, tuttavia, che per loro si tratta di chalomot! sogni!, e che qualunque accordo che preveda concessioni ai palestinesi è inaccettabile. “Non faremo nessuna concessione ai Palestinesi – ha ribadito il ministro delle Finanze israeliano Smotrich – tutto questo è pura finzione”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 ottobre 2023)

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Azerbaijan. Nagorno Karabakh: l’intelligence francese riporta la collaborazione di Israele

di Giuseppe Gagliano

Secondo fonti dell’intelligence francese il comando militare dell’Azerbaigian ha avuto modo di rivolgere un sentito ringraziamento a Israele, nazione questa che ha dato un supporto militare ed di intelligence di grande rilevanza nel conflitto del Nagorno Karabakh. Il ministro della Difesa israeliano Eyal Zamir ha infatti avuto modo di recarsi a Baku sia per testimoniare la sua vicinanza e per assicurarsi della buona riuscita delle operazioni di supporto e sostegno a Baku.
   Baku ha avuto la fondamentale collaborazione sia del Mossad che dell’intelligence militare israeliana Aman’s Unit 8200. Inoltre Israele ha avuto modo di consegnare numerose armi e tra questi droni prodotti dalla Israel Aerospace Industries (IAI), dalla Rafael Advanced Defense Systems e dalla Israel Military Industries (IMI). Sempre secondo l’intelligence francese sono atterrati in Israele 15 aerei cargo azeri, per la precisione presso l’infrastruttura aerea militare di Ovda, nel deserto del Negev. Complessivamente negli ultimi sette anni sono atterrati presso questa infrastruttura aerea ben 92 aerei cargo azeri. Infine Israele avrebbe fornito anche supporto nel contesto della cyber warfare attraverso l’NSO Group.

(Notizie Geopolitiche, 5 ottobre 2023)

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Israele, 3,36 miliardi di dollari di investimenti nel settore della cybersicurezza nel 2022

di Silvia Valente

Le minacce senza confine «del nostro mondo interconnesso si vincono soltanto collaborando». E l’intensa cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza, a livello sia istituzionale che privato, ne è un esempio virtuoso. Ma restano ancora molte opportunità da sfruttare nella sinergia tra i due governi e tra i due mercati. Questa l’opinione di Alon Bar, Ambasciatore d’Israele in Italia, che ha inaugurato il Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersicurezza, organizzato in collaborazione con Leonardo e giunta alla sua quinta edizione.

Raggiunge quota 745 milioni il capitale investito
  In particolare, Israele continua a distinguersi per le sue eccellenze tecnologiche anche nel mondo della cybersecurity, come rileva il Report dello Start-Up Nation Central. Con 55 hub, 459 aziende e 69 investitori attivi nel settore, 26 cicli di investimenti conclusi tra il quarto trimestre del 2022 e i primi tre mesi del 2023, ma soprattutto con 745 milioni di dollari di capitale investito.
   Sebbene i livelli di investimenti in cyber siano in riduzione rispetto al picco assoluto del 2021 (con 7,86 miliardi), i 3,36 miliardi del 2022 e i 650 milioni del primo trimestre 2023 hanno pareggiato se non superato i valori registrati negli anni pre-pandemici.
   L’ambito della cloud security ha raccolto il maggior flusso di investimenti, raggiungendo quota 324 milioni di dollari. Seguono, con distacco e a pari merito tra loro, la application security e la identity security con i rispettivi 80 milioni, mentre la data security si è fermata a 65 milioni. Tale classifica si spiega chiaramente guardando ai più grandi investimenti del primo trimestre 2023 che vede dominare l’investimento da 300 milioni di tre operatori di mercato per la cloud security platform Wiz.

Meno M&A  
  Anche a livello di operazione di fusioni e acquisizioni il picco nel mercato cyber israeliano si è raggiunto nel 2021, con 29 M&A per un valore di 3,14 miliardi di dollari. Eppure il comparto ha goduto di un trimestre relativamente forte in termini di somma totale di operazioni eseguite, con circa la metà delle exit totali nel 2022, 2020 e 2019. È interessante notare che ciò è avvenuto in assenza di IPO nel settore per oltre un anno. 
   Il report sulle startup israeliane evidenzia inoltre come la maggioranza delle aziende del mondo della cybersicurezza (51%) ha già realizzato prodotti. Nondimeno la maggior parte delle azioni del settore (27%) hanno tra gli 11 e i 50 dipendenti.

(Milano Finanza, 5 ottobre 2023)

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Presto saranno introdotti voli diretti tra Israele e Messico

Miri Regev
Il Ministro dei Trasporti israeliano Miri Regev ha raggiunto un accordo con il suo omologo messicano Jorge Nuno Lara e con il suo vice ministro Rogelio Jimenez Pons, responsabile per l'aviazione, per istituire voli diretti tra Israele, Città del Messico e Cancún, ha annunciato giovedì il Ministero dei Trasporti israeliano. Queste nuove rotte aeree ridurranno in modo significativo i tempi di percorrenza, che attualmente richiedono scali che prolungano il viaggio tra le 18 e le 30 ore.
   Per il momento, gli israeliani che desiderano recarsi a Città del Messico o nella località balneare di Cancún devono intraprendere viaggi che prevedono più scali in Europa, Stati Uniti o Canada.
   "I voli diretti tra Israele e Messico faranno risparmiare ai passeggeri molte ore e molto denaro", ha dichiarato Miri Regev, esprimendo il suo entusiasmo per questa nuova iniziativa. Va notato che la compagnia aerea nazionale israeliana, El Al, non ha in programma di lanciare voli diretti. La compagnia messicana Aeroméxico potrebbe quindi essere l'unica opzione.
   Durante la sua visita in Messico, la signora Regev ha avuto modo di ispezionare gli aeroporti di Città del Messico, in particolare il nuovo aeroporto internazionale "Felipa Angeles" e l'aeroporto internazionale di Cancún. Ha inoltre incontrato il ministro dei Trasporti di Città del Messico, Andres Lajo, per discutere delle sfide comuni in materia di trasporti, come la gestione della congestione e le soluzioni di trasporto intelligenti.
   Inoltre, Jorge Nuno Lara e Rogelio Jimenez Pons hanno ricevuto un invito ufficiale a partecipare a una conferenza internazionale sui trasporti, incentrata sull'intelligenza artificiale, che si terrà in Israele a novembre.

(i24, 5 ottobre 2023)

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‘’Shades of Israel’’: tre mostre per un ponte culturale tra Puglia e Israele

di Michelle Zarfati

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Un rapporto davvero stretto quello tra la Puglia e Israele. Nato nel 2021, e consolidato sempre di più anche grazie alla collaborazione tra Pugliapromozione e il Museo Ebraico di Lecce nell’ambito del FESR, in occasione della stagione 2023-2024. Un progetto prestigioso che intensifica sempre di più il ponte culturale, commerciale e turistico tra Italia e Israele. E sarà proprio una mostra la prova di questo rapporto. Grazie ad un percorso di arte israeliana contemporanea itinerante, a cura di Fiammetta Martegani, città e musei pugliesi ospiteranno alcuni esempi di arte israeliana nel Bel Paese.
   Tre mostre, dislocate e collocate in tre luoghi diversi racconteranno questo interessante e ricco rapporto tra l’Italia e lo Stato Ebraico. Rispettivamente le opere degli artisti israeliani potranno esser visionate a Lecce, presso il Museo Ebraico. Lì sarà visitabile “My Altneuland”, collettiva di dieci artisti israeliani contemporanei rappresentanti le diverse voci, religioni e identità di Israele. A Trani, presso il Castello Svevo dove si può visitare “Ludmilla”, personale di Maria Saleh, un’artista dalle mille sfaccettature e nazionalità: arabo israeliana-ucraina, già vincitrice nel 2023 del premio Rapoport come miglior artista israeliana dell’anno. Ed infine a Polignano presso Fondazione Pino Pascali, dove i visitatori potranno ammirare “Terra Infirma”, personale di Tsibi Geva, considerato tra i più importanti artisti israeliani contemporanei. Geva ha già rappresentato Israele nel corso della Biennale di Venezia del 2015. Artisti talentuosi ed ecclettici che porteranno un po' d’Israele in Puglia, con voci e tecniche diverse.
   Tutte e tre le esposizioni prendono il via adesso, nel periodo di Sukkot - la Festività ebraica delle Capanne – una festa carica di significato, che sottolinea ancor di più le idee di unione, fratellanza e scambio culturale. Una ricorrenza simbolica che intensifica la metafora di come l’arte e la cultura in generale possano essere un importante mezzo culturale di scambio per poter dialogare con le diverse culture.

(Shalom, 5 ottobre 2023)

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A Gerusalemme il ponte sospeso sull' 'Inferno'

Una escursione con suggestioni storiche nella valle della Geenna

di Aldo Baquis

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TEL AVIV - Sulla carta, il nuovo ponte sospeso inaugurato di recente a Gerusalemme promette emozioni forti. Oltre ad essere il ponte sospeso più lungo in Israele è situato in un posto altamente evocativo: in una vallata chiamata 'Gay ben-Hinnom' da cui è scaturito poi il termine inquietante di 'Gehennom' ('Geenna', in italiano) che nella letteratura biblica è indicato come uno di tre ingressi all'Inferno.
   Più precisamente, l'accesso sarebbe dissimulato fra due palme situate appunto nella valle di Hinnom, da dove secondo le scritture si leva costantemente una colonna di fumo.
   La valle si trova in prossimità delle mura della Città Vecchia, ai piedi del Monte Sion. L'ambiente circostante è molto sereno.
   Prima occorre superare la 'Cinemateque' di Gerusalemme, poi scendere per un sentiero e quindi aggirare un villaggio bucolico dove per la gioia dei bambini è stato ricreato un panorama di sapore biblico, con piccoli appezzamenti di terra coltivati con sistemi di duemila anni fa, dove qualche cammello sonnecchia sotto a un tendone.
   In tempi remoti, secondo la letteratura, qua invece bambini venivano immolati al dio Moloch. Quel posto si chiamava allora 'Tofeth', la fornace. Da qui tremila anni fa - attraversando nel 'Gay ben Hinnom' il confine fra i terreni della tribù di Giuda e quella di Beniamino - passarono gli uomini di David, messisi in marcia con spade sguainate in un braccio di ferro con il re Saul. E sempre qui, a partire dal 1948, correva il confine fra Israele e lo stato di Giordania, che sarebbe stato cancellato nel 1967 con la guerra dei sei giorni.
   Ma come il Rubicone e come il fiume Giordano anche la valle di Hinnom è sul terreno poca cosa rispetto alla celebrità accumulata nei secoli e oggi può essere attraversata comodamente a piedi, anche senza ponti. Ciò nonostante col sostegno delle autorità è stato realizzato un ponte sospeso lungo 200 metri e largo 130 centimetri, costato secondo la stampa l'equivalente di cinque milioni di euro. Si parte da una sorta di rampa per raggiungere, pochi minuti dopo, la parte opposta, dove c'è un'altra rampa. In alto, ma difficile da raggiungere, il monte Sion. Scrutando in basso dal ponte sospeso, nessuna traccia delle due palme con la colonna di fumo né dell'altare al dio Moloch, se mai c'è stato. Tuttavia per il turista di passaggio potrebbe egualmente diventare una meta obbligata da dove mandare a casa una foto-ricordo davvero invidiabile: 'Tanti saluti dalla Geenna'.

(ANSAmed, 3 ottobre 2023)

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Gli israeliani laici sono molto arrabbiati

Deve essere stipulato un nuovo patto tra israeliani religiosi e laici. E presto.

di Benjamin Kerstein 

Israeliani laici protestano durante lo Yom Kippur a Tel Aviv contro quella che considerano una coercizione religiosa
Durante il mio primo anno in Israele, io e la mia ragazza siamo stati portati da una guida turistica a Mea She'arim, uno dei quartieri più religiosi di Gerusalemme. La mia ragazza era vestita con una gonna e maniche lunghe, ma i suoi avambracci erano parzialmente esposti. Mentre stavamo tornando verso il centro della città, un'auto si è fermata accanto a noi e un uomo Haredi è saltato fuori, ha spinto la mia ragazza per i polsi e ha gridato: "Cosa, non sei decente?".
Prima che riuscissi a capire cosa stesse succedendo, l'uomo è risalito in macchina ed è partito a tutta velocità.
   Ero inorridito. Quell'uomo aveva il diritto di fare obiezioni, ma non quello di mettere le mani addosso a una giovane donna (violando così la sua stessa etica) e poi fuggire come un topo spaventato. Se avesse sostenuto le sue ragioni e affrontato le conseguenze delle sue azioni, avrei potuto avere rispetto per lui, ma non fece così.
   La sera successiva, la mia ragazza ed io ci siamo ritrovati nella piazza davanti al Muro del Pianto e abbiamo visto migliaia di persone salutare il santo Yom Kippur. Il venerato Rabbi Ovadia Yosef, ormai novantenne, celebrava la funzione. Sussurrava una preghiera in un microfono, il responsabile della preghiera la ripeteva e le migliaia di persone rispondevano - un grande ronzio di voci che si levava nella fresca aria autunnale.
   In quel momento ho capito quanto sia particolare l'ebraismo israeliano. A differenza dei ristretti raduni che conoscevo negli Stati Uniti, i raduni qui erano epici, sia per le dimensioni che per la storia. Un raduno simile non sarebbe possibile in nessun altro luogo. Avvertivo che il mondo ebraico ruotava intorno a questo asse.
   Mi resi conto allora di amare questo ebraismo come in gioventù non l’avevo mai amato, e persino odiato. Provo quindi solo gratitudine.
   Racconto queste due esperienze, avvenute a distanza di 36 ore l'una dall'altra, per dare una misura dell'ambivalenza con cui io - e molti altri israeliani - affrontiamo l'immenso e sempre più ampio divario tra israeliani religiosi e laici.
   Questo divario si è manifestato in tutta la sua evidenza durante lo Yom Kippur di quest'anno, quando un gruppo di attivisti di sinistra ha impedito a un'organizzazione ortodossa di tenere un servizio di preghiera pubblico separato per genere in piazza Dizengoff a Tel Aviv. Ho assistito a una piccola parte dello scontro - ma non alla violenza che si è verificata alla vigilia della festa - e ho scritto poco dopo che il mio unico sentimento era la tristezza. Mi sembrava di vedere due tribù contrapposte - di un  nuovo regno di Israele e un nuovo regno di Giuda - con tutto ciò che ne consegue.
   La reazione all'incidente si è divisa, come l'incidente stesso. I religiosi e i loro alleati di destra hanno per lo più denunciato gli attivisti come violenti, oppressori e persino antisemiti. La sinistra ha difeso gli attivisti e ha attaccato quello che considera un crescente estremismo religioso che minaccia il liberalismo e la democrazia israeliana.
   Io sono una persona laica e ammetto che, pur non approvando la decisione degli attivisti di interrompere la funzione anziché limitarsi a protestare, capisco i loro sentimenti. Il motivo dovrebbe essere ovvio: so da questa spiacevole esperienza a Gerusalemme (e da altre) che molti israeliani religiosi sono decisi a imporre i loro valori e le loro usanze agli altri in modi decisamente brutti. Questi valori e costumi inoltre sono spesso del tutto illiberali e insensibili o addirittura ostili alla democrazia. Quando questi israeliani religiosi accusano gli israeliani laici di aver imposto agli altri i loro valori e costumi , si tratta di una palese ipocrisia.
   Immagino che i religiosi che si sono riuniti in piazza Dizengoff non appartengono agli  Haredim, molti di loro vivono a Tel Aviv e non volevano imporsi a nessuno. Questo è un controargomento legittimo, ma bisogna capire che non ha importanza per gli israeliani laici. La separazione dei sessi potrebbe essere  un simbolo che li ha offesi tanto quanto gli avambracci scoperti della mia ex ragazza avevano offeso quell’uomo. Come gli ebrei religiosi di piazza Dizengoff, anche lei non voleva offendere nessuno, ma è stata trattata come se lo avesse fatto, e per le stesse ragioni.
   Ma il problema va oltre. In poche parole, gli israeliani laici sono stufi. A torto o a ragione, sono arrabbiati e non ne possono più. Sentono che per decenni sono stati gravati da un onere ingiusto nel servizio militare e in altri settori della vita, mentre i soldi delle loro tasse vengono sottratti e dati a persone religiose che li odiano e li considerano falsi ebrei. Questo può essere vero o meno, ma è così che si sentono e deve essere affrontato.
   Fino ad ora è stato mantenuto un patto sociale scomodo ma stabile: gli israeliani laici avrebbero continuato a tollerare una situazione che a loro non piace; in cambio il governo avrebbe protetto le loro libertà fondamentali dall'invasione religiosa e preservato il carattere di Israele come democrazia liberale essenzialmente laica.
   Agli occhi degli israeliani laici, quel contratto si è rotto, e a romperlo sono stati i religiosi. Vedono la campagna del governo per la riforma giudiziaria come un tentativo di rompere l'ultima linea di difesa dell'Israele laico - la Corte Suprema - e di imporre loro una tirannia teocratica che non vogliono e non tollereranno. Il senso di tradimento è immenso e la reazione immediata è la rabbia. Di fronte a questo, le sfumature del servizio di preghiera di Dizengoff scompaiono.
   Anzi, tutte le sfumature scompaiono. È inutile sottolineare che la maggior parte degli israeliani religiosi presta servizio nell'esercito o in qualche altra forma di servizio; che loro e anche molti haredim lavorano e pagano la loro giusta quota di tasse; che gli israeliani religiosi sono socialmente impegnati e fanno opere di beneficenza che vanno a beneficio di tutti noi; che non c'è nulla di intrinsecamente sbagliato nel fatto che uno Stato ebraico riconosca che i grandi studiosi della Torah sono un tesoro nazionale che dovrebbe essere sostenuto dallo Stato; e così via.
   È inutile sottolineare tutto questo, perché è un fatto che va avanti da molto tempo. Si basa su risentimenti, che almeno in parte sono giustificati. Ora niente più si ferma. A meno che il governo non rinunci alla sua campagna di riforma giudiziaria e faccia qualche concessione alla popolazione laica. Ma non c'è alcun segno che questo possa accadere a breve.
   Considero questo una tragedia, come è giusto che sia. Sì, ho avuto brutte esperienze con la religione in Israele, ma ho anche avuto esperienze trascendenti, come quella notte al Muro del Pianto. Ce ne sono state anche altre: la meravigliosa anarchia della funzione sefardita dello Yom Kippur nella sinagoga a due passi dal mio condominio. La vista di centinaia di ebrei tradizionali vestiti di bianco che sfilavano per le strade di Beersheva dopo aver rotto il digiuno. La mia ammirazione per le menti straordinarie di uomini come Yosef, che era un genio riconosciuto della Torah prima ancora di essere un adolescente. Quante volte ho appoggiato la fronte al muro, ho messo le mani sulla testa per bloccare i suoni e le immagini e sono entrato in un altro mondo. Tutto questo significa molto per me.
   Ma se vogliamo che continui a significare qualcosa, la destra israeliana deve mettere da parte i propri risentimenti e accettare quello che sta accadendo. Sono al governo, sono al potere, è una loro responsabilità. Il ruolo pubblico dell'ebraismo deve essere mantenuto, ma devono essere fatte anche delle concessioni. Le riforme giudiziarie devono essere abbandonate o modificate in modo sostanziale. Occorre trovare una soluzione al problema della coscrizione per gli haredim, che sia il servizio nazionale o qualcosa di simile. Una parte dei fondi che attualmente sovvenzionano le yeshivas e gli insediamenti dovrebbe essere dirottata per sovvenzionare gli alloggi, l'istruzione, le cure mediche e l'alimentazione di base per tutti gli israeliani. Già solo questo contribuirebbe a sanare le nostre ferite.
   Spero, ma non sono ingenuo. Non credo che il divario religioso-secolare possa mai essere completamente colmato. Le credenze e i valori delle due comunità sono semplicemente troppo diversi. Ma un consenso che permetta a  tutti di convivere è possibile. Per molto tempo l'Israele laico è stato disposto a tollerare il vecchio accordo, ma ora non è più disposto a farlo. Può essere in parte giusto e in parte sbagliato. Può essere giusto o ingiusto. Non importa. È necessario creare un nuovo accordo, ed è responsabilità di chi è al potere il farlo.
   Lo scontro di piazza Dizengoff dovrebbe essere il campanello d'allarme di cui hanno bisogno: è ora di cominciare.

(Israel Heute, 4 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gli studenti della scuola ebraica ricevono il loro primo siddur

di Michelle Zarfati

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Radici, identità ebraica e tanto entusiasmo è quello che contraddistingue gli studenti della scuola elementare ‘Vittorio Polacco’, che proprio ieri hanno ricevuto il loro primo siddur (libro di preghiera).
   Gli studenti delle classi seconde, assieme ai loro genitori, hanno preso parte all’ormai consolidata cerimonia di consegna dei libri alla presenza del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, del Presidente della Comunità Ebraica Victor Fadlun, dell’Assessore alla scuola Daniela Debach e all’Assessore alle politiche giovanili Ruben Benigno.
   Un momento speciale, il preludio di un percorso scolastico all’insegna dell’ebraismo e del rispetto per la propria identità culturale. “Ogni anno ci mettiamo sotto il talled e benediciamo i nostri bambini, eppure in realtà sono loro che benedicono loro” ha detto durante la cerimonia Rav Roberto Colombo.
   “Questi ragazzi sono il nostro bene più prezioso, sono orgoglioso della scuola” ha aggiunto il Presidente della Comunità Ebraica Victor Fadlun.
   Durante la cerimonia gli studenti hanno intonato un medley di canzoni ebraiche e dopo la berachà generale assieme a tutti i presenti la mattinata si è conclusa con lo Shemà cantato all’unisono sul nuovo siddur regalato agli studenti. Una tappa fondamentale non solo nel curriculum scolastico dei ragazzi ma anche per il loro bagaglio religioso e culturale.

(Shalom, 4 ottobre 2023)

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Alla CyberTech Europe 2023 Israele presenta le sue soluzioni cyber all’Italia ed all’Europa

L’Ambasciatore d’Israele in Italia, Alon Bar, ha presenziato alla cerimonia di inaugurazione del Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersicurezza, organizzato in collaborazione con Leonardo.

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Giunta alla sua quinta edizione e ospitata presso il centro congressi “La Nuvola” di Roma, la conferenza si svolge il 3 e 4 ottobre ed ha visto ieri la presenza, tra gli altri, del Ministro italiano della Difesa, Guido Crosetto, del Vice Presidente della Commissione Europea, Margaritis Schinas, del CEO di Leonardo, Roberto Cingolani, e del Direttore Generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi.
  Israele, Paese leader nel settore, è rappresentato da numerose e aziende consolidate e startups innovative. Queste ultime – AimBetter, Cinten, ItsMine, Orchestra Group, Perception Point, Rescana, Seraphic Security, Sling e Symmetrium- sono ospitate nel Padiglione Nazionale Israeliano, mentre le grandi aziende -Checkpoint, CyberArk, Cybergym, SentinelOne,Terafence, XM Cyber- sono visitabili presso boots dedicati.
  “La cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza è intensa, sia a livello istituzionale che privato, e va rafforzandosi sempre più“, ha esordito l’Ambasciatore Bar. “Israele, paese leader nel settore, è lieto di poter condividere la sua esperienza e le sue soluzioni più all’avanguardia con l’Italia, perché le minacce senza confine del nostro mondo interconnesso si vincono soltanto collaborando“.
  “La sinergia tra l’ecosistema Israeliano e l’Italia è notevole. Ci sono molte opportunità di collaborazione tra i due governi, e tra i due mercati” ha dichiarato Amir Rapaport, fondatore di CyberTech.
  “La quinta edizione del Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023 sta andando alla grande: ad ora, le nostre 10 startup hanno già tenuto oltre 100 meeting con realtà italiane, tra cui aziende, infrastrutture critiche, enti nel settore della sanità e molto altro ancora“, ha sottolineato Ophri Zohar Hadar, Capo dei Settore Cyber, Fintech and Insurtech presso l’Israel Export Institute.
  Hanno fatto visita al Padiglione Israeliano l’On. Giorgio Mulè, Vice Presidente della Camera dei Deputati, l’On. Lorenzo Guerini, Presidente del Copasir, l’On. Giovanni Donzelli Vice Presidente del Copasir, la Senatrice Licia Ronzulli, l’On. Marco Osnato, Presidente Commissione Finanze della Camera, e il Generale Del Col, in rappresentanza del Consiglio Supremo di Difesa presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.

(Ares Osservatorio Difesa, 4 ottobre 2023)

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Il ruolo dei conventi e monasteri durante la Shoah, fra aperture e invito alla chiusura

di Ilaria Myr

“Nel periodo delicato fra il settembre e il novembre del 1943, dopo l’ingresso dei nazisti in Italia, gli ebrei capirono che non potevano tenere in funzione le organizzazioni di assistenza ai correligionari, come la Delasem e le varie attività delle diverse comunità. E prima di farsi travolgere completamente dagli eventi alcuni responsabili ebrei si attivarono per continuare a dare assistenza, mettendosi in contatto con un rappresentante ecclesiastico locale. Questo dimostra che gli ebrei non furono passivi davanti alla sorte avversa, ma che ci fu una presa di responsabilità attiva». Parola dello storico Michele Sarfatti, autore di un articolo appena uscito sul fascicolo 98 del luglio 2023 della rivista Quaderni di storia, diretta da Luciano Canfora, che rivela il ruolo attivo di alcune comunità ebraiche in quel periodo e che arricchisce di contenuti il dibattito oggi in corso sul ruolo della Chiesa nel salvataggio degli ebrei, alla luce dei nuovi documenti resi consultabili negli Archivi Vaticani.

• Cosa avvenne a Genova, Firenze e Roma
  Nella sua ricerca lo storico ha indagato ciò che è avvenuto a Genova, Firenze e Roma, scoprendo fatti fino a oggi non conosciuti. Ripercorrendo la storia dell’Italia dal 25 luglio 1938 all’8 settembre 1943, Sarfatti ricorda l’opera di assistenza del mondo ebraico attiva già da poco dopo l’emanazione della legislazione antiebraica.
   “Nel 1939 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (UCII), presieduta da Dante Almansi, aveva istituito al proprio interno, con la necessaria autorizzazione del governo, un dipartimento avente il compito di facilitare l’uscita dall’Italia degli ebrei stranieri e di assisterli in attesa della partenza: la Delegazione per l’assistenza agli emigranti – Delasem, diretta da Lelio Vittorio Valobra, vicepresidente dell’UCII3 (nella foto a Genova con un gruppo dell’associazione) – scrive nell’articolo -. La Delasem aveva sede a Genova (la città ove abitava Valobra) ed era in contatto con le varie Comunità ebraiche e con i principali campi di internamento e comuni di residenza forzata, istituiti dall’Italia dopo l’ingresso in guerra nel giugno 19404. Nel 1941 Valobra estese la rete ai territori ex-jugoslavi annessi o occupati; invece il soccorso nei territori occupati in Francia sudorientale fu gestito da comitati locali”.
    Nel settembre 1943, fu proprio Valobra a chiedere di incontrare a Genova il cardinale Pietro Boetto arcivescovo della città, o forse il suo segretario, don Francesco Repetto (a destra nella foto). “Repetto ha ricordato che Valobra, “in maniera riguardosa e pure in uno slancio di fiducia, venne a tastare il terreno per conoscere se il Cardinale avrebbe accettato di assumere l’assistenza agli ebrei, specialmente stranieri, in Italia, svolto [recte: svolta] fino allora dalla Delasem”, che egli riferì il colloquio a Boetto chiedendo “se si doveva accettare la domanda della Delasem, oppure declinarla”, che il cardinale rispose di accettarla" – continua Sarfatti nell’articolo -. In sostanza, Valobra propose e Boetto accettò la gestione dell’opera di distribuzione del soccorso ebraico agli ebrei. Fu un patto di fiducia e di impegno. L’arcivescovo incaricò del lavoro il proprio segretario”.
   Valobra passò i fondi della Delasem e gli indirizzi delle persone assistite a Repetto, che costituì una rete collegandosi a tutte le curie d’Italia e sollecitando l’aiuto di tutti nel salvare gli ebrei.
   «È assolutamente doveroso riconoscere la generosità e la risposta pronta di curie, conventi e monasteri, ma è anche importante riconoscere che gli ebrei non furono imbelli e passivi», commenta a Bet Magazine-Mosaico lo storico.
   Una vicenda simile accade a Firenze, dove, subito dopo l’occupazione tedesca, si era costituito un gruppo di persone generose (fra cui il rabbino capo Nathan Cassutto), che forniva assistenza ai profughi ebrei. Fu questo gruppo ad attivarsi per trovare alloggi ai fuggiaschi. “Mancava la possibilità di ospitare i fuggiaschi nei locali della Comunità; con la mirabile attività dei singoli componenti del Comitato, con l’aiuto della Autorità ecclesiastica e dei generosi privati, furono trovati alloggi temporanei o anche stabili per decine di persone; fu mantenuta una mensa; furono dati biglietti ferroviari a molti – scrive Sarfatti -. Padre Cipriano Ricotti, del convento domenicano di San Marco, ha ricordato che il 20 settembre, o poco prima, fu convocato dal cardinale Elia Dalla Costa, che, alla presenza del suo segretario Giacomo Meneghello, (che aveva incaricato di coordinare questa nuova attività), chiese “se me la sentivo di dedicarmi all’assistenza degli Ebrei. Subito mi consegnò una lettera di presentazione, scritta di suo pugno, perché più autorevolmente potessi bussare alle porte dei conventi””.
   Infine Sarfatti ricostruisce quello che accadde a Roma, dove due frati cappuccini – Marie Benoit, detto Benedetto (a sinistra nella foto), e Giovanni da San Giovanni in Persiceto – si attivarono in modo importante dopo essere entrati in contatto con rappresentanti della comunità ebraica locale, sia prima che dopo la retata del 16 ottobre.
   Nei tre casi, emerge il ruolo attivo della comunità ebraica e la risposta altrettanto pronta e reattiva delle realtà ecclesiastiche locali.

• Quando la Curia chiese di allontanare i rifugiati dai conventi
  Di fronte a queste prove di assistenza da parte del mondo cattolico, cercato e voluto dal mondo ebraico, suscita dunque perplessità la scoperta fatta da Sarfatti sfogliando i giornali del periodo della Repubblica Sociale Italiana. «Mentre facevo le ricerche mi sono imbattuto in un articolo, pubblicato da qualche quotidiano il 10 gennaio 1944 – fra cui il Corriere della Sera, che titolaDivieto di ospitare estranei nei monasteri e nei conventi’ -, che in breve parlavano di una disposizione della Curia vaticana per fare uscire dai conventi persone che vi erano ospitati – spiega a Bet Magazine -. Non mi è ancora dato sapere chi fossero le persone che dovevano essere allontanate dai conventi, la mia sensazione è che ci si riferisse principalmente ai militari italiani che si erano nascosti. Quello che però è certo èche la disposizione allarmò il mondo ebraico, tanto che Valobra, rifugiatosi in Svizzera, comunicò il contenuto al Joint Committee a New York. È anche molto probabile che leggendo la disposizione, qualche ebreo avesse deciso di non cercare rifugio nelle strutture cattoliche. A oggi non ci sono noti allontanamenti di ebrei dalle strutture ecclesiastiche, ma la ricerca è ancora in corso».
   La scoperta di Sarfatti, che per primo ha posto l’attenzione su questa direttiva della Santa Sede, fa dunque riflettere sul fatto che non solo non ci fu – almeno per quanto se ne sa al momento – una direttiva del Pontefice per l’accoglienza dei fuggitivi, inclusi gli ebrei, ma che anzi ci fu una direttiva che chiedeva invece l’allontanamento e l’espulsione.

• La Chiesa durante la Shoah: un convegno alla Pontificia Università Gregoriana
  Le rivelazioni dell’articolo di Sarfatti vengono pubblicate a pochi giorni dal convegno internazionale alla Pontificia Università Gregoriana sul ruolo della Chiesa durante la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, alla luce dei nuovi documenti consultabili solo da poco. Il convegno si terrà dal 9 all’11 ottobre ed è intitolato New Documents from the Pontificate of Pope Pius XII and their Meaning for Jewish-Christian Relations: A Dialogue between Historians and Theologians (“I nuovi documenti del Pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane: un dialogo tra storici e teologi”).
   Il convegno, che si svolgerà sia in italiano che in inglese nell’Aula Magna dell’ateneo, è suddiviso in sette sessioni per tre giorni: la prima sessione, che si terrà lunedì 9 ottobre, affronterà le politiche adottate da Pio XII nei confronti del fascismo, del nazismo e del comunismo.
   La seconda sessione, martedì 10 ottobre, esplorerà la visione del mondo del Vaticano in generale e sulla Shoah in particolare, con riferimenti ai punti di vista che plasmarono le decisioni dei funzionari, prelati e laici facenti parte della cerchia del Papa. Nella terza sessione verranno trattate la teorizzazione e la messa in atto delle leggi razziali, prima in Germania e poi in altre nazioni europee, tra cui l’Italia. La quarta sessione sarà dedicata al salvataggio degli ebrei, con particolare attenzione all’80° anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma.
   Mercoledì 11 ottobre si terranno la quinta, sesta e settima sessione. Innanzitutto verranno illustrate le reazioni dei diplomatici papali di fronte alla crisi dei rifugiati e agli orrori della Shoah. In seguito verranno raccontati episodi in cui il Vaticano aiutò criminali di guerra nazisti condannati in tribunali militari internazionali. Infine, verrà ripercorso il graduale cambiamento interno alla Chiesa che portò alla dichiarazione Nostra Aetate del 1965, quando il Concilio Vaticano II pose fine all’impostazione antisemita che per secoli ne ha segnato i rapporti con il mondo ebraico.
   Tra gli ospiti, figurano Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma; Iael Nidam-Orvieto, Direttrice dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme; Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma; e gli storici della Fondazione CDEC di Milano Liliana Picciotto e Michele Sarfatti. Mentre al termine dei lavori, i discorsi conclusivi saranno tenuti dalla Presidente UCEI Noemi Di Segni e da Raphael Schulz, Ambasciatore israeliano presso la Santa Sede.

(Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2023)

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Netanyahu: "Agiremo contro le intimidazioni ai fedeli"

"Condanno con fermezza tutti i tentativi di intimidire i fedeli e adotterò azioni immediate e decise contro tutto questo". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu riferendosi agli sputi da parte di alcuni ebrei ortodossi contro pellegrini cristiani in processione con la croce sulle spalle in Città Vecchia a Gerusalemme. "Israele - ha aggiunto su X - è impegnato a salvaguardare il sacro diritto di culto e di pellegrinaggio ai luoghi santi di tutte le fedi. Un comportamento offensivo verso i fedeli è sacrilego e inaccettabile. Non sarà tollerata ogni forma di ostilità verso chiunque impegnato in riti religiosi".
   Vari esponenti del governo e religiosi hanno condannato gli sputi per terra che alcuni ebrei ortodossi diretti al Muro del Pianto per la festa di Sukkot hanno indirizzato ieri, nei pressi della Porta dei Leoni in Città Vecchia a Gerusalemme, a pellegrini cristiani in processione con una croce in spalla. Il ministro degli Esteri Eli Cohen - che ha condannato su X quanto accaduto - ha denunciato che "questo atto non rappresenta i valori dell'ebraismo. La libertà di religione e di culto sono valori fondamentali in Israele". "Centinaia di migliaia di turisti cristiani - ha proseguito - vengono in Israele a visitare i loro e i nostri luoghi santi. Invito tutti i cittadini di Israele a rispettare la tradizione".
   Anche uno dei due rabbini capo di Israele, l'askenazita David Lau, ha detto di "condannare fermamente il fatto di danneggiare qualsiasi persona o leader religioso". Poi ha aggiunto che questi comportamenti "ripugnanti non devono, ovviamente, essere associati in alcun modo alla Halachà". Il ministro degli Affari religiosi Michael Malkieli dopo aver condannato gli sputi ha sottolineato che "questa non è la strada della Torah" e che "non c'è un singolo rabbino a sostegno e legittimazione di un atto così spregevole". Il ministro del Turismo Haim Katz ha quindi attaccato Elisha Yered, un colono israeliano sospettato - hanno ricordato i media - di essere coinvolto nell'uccisione di un adolescente palestinese, secondo cui sputare ai cristiani è "un antico costume ebraico". "Sostenere che lo sputare ai cristiani sia un antico e anche accettabile costume è orribile. Queste azioni di un pugno di estremisti - ha detto Katz - fanno odiare l'ebraismo, danneggiano l'immagine di Israele e il turismo".

(ANSAmed, 3 ottobre 2023)

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Deserto del Negev: un vigneto tra presente, passato e futuro

di Jacqueline Sermoneta

Archeologia, enologia e innovativa ricerca genetica camminano di pari passo in un progetto israeliano unico nel suo genere: la rinascita nel sito archeologico di Avdat, nel deserto del Negev, di due varietà di vite autoctone risalenti a 1.500 anni fa, reimpiantate nello stesso vigneto in cui venivano coltivate anticamente.
   Lo studio è guidato dai ricercatori dell’Università di Haifa e dell’Università di Tel Aviv, in collaborazione con l’Autorità israeliana per le antichità (IAA),
   La storia inizia nel 2017, quando gli archeologi dell’IAA scoprirono alcuni semi durante i lavori di scavo effettuati nell’antica città di Avdat. Grazie all’innovativa ricerca sul DNA, è stato possibile identificare l’appartenenza dei semi a due note varietà di vite millenaria: Sariki e Beer.
   Il 13 settembre scorso è avvenuto il reimpianto delle viti, alla presenza del ministro israeliano per la Protezione ambientale, Idit Silman, nella città di Avdat, oggi parco nazionale, dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità da parte dell’UNESCO. "Questa è la storia della bellissima Terra di Israele. – ha detto Silman - Il fatto che un milione di litri di vino all'anno venisse prodotto nel deserto ed esportato nel continente europeo 1.500 anni fa, è emozionante e allo stesso tempo stimolante. Oggi disponiamo della capacità tecnologica di piantare viti antiche, utilizzando metodi antichi e moderni nel deserto, e la sua importanza è sottolineata in un periodo di cambiamenti climatici. Le conoscenze, l’esperienza e l’innovazione israeliane possono essere un esempio per molti Paesi che devono affrontare le sfide climatiche”.
   Storicamente, la città, fondata nel III secolo a.e.v. dai Nabatei, era considerata un importante centro di produzione ed esportazione di vino nel Mediterraneo. Dal IV al VII secolo, la fama di questo vino si diffuse in tutto l’Impero Bizantino e oltre.
   Il vigneto appena reintrodotto lungo il “Sentiero dei torchi” del parco archeologico, segue la stessa struttura storica-agricola degli impianti realizzati tra il I-VII secolo , rispecchiando i principi di sostenibilità che caratterizzano un vigneto desertico. Il progetto prevede, inoltre, di integrare queste due varietà a quelle già coltivate in condizioni climatiche estreme come Chardonnay, Chenin Blanc, Sauvignon Blanc, Malbec, Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot. Attualmente il Consorzio del vino del Negev, guidato dalla Merage Israel Foundation, comprende oltre 40 aziende agricole distribuite tra il Negev settentrionale ed Eilat.
   “Lo Stato di Israele è un pioniere su scala mondiale nello studio del deserto. – ha affermato Guy Bar Oz dell’Università di Haifa - Questo vigneto, reimpiantato anche per la ricerca, unisce passato, presente e futuro. Inoltre, incarna, in modo tangibile, il peso specifico inerente allo sviluppo agricolo sostenibile e il suo effetto sui prodotti locali. Con l’impianto di queste varietà di vite storiche e con una coltivazione attenta all’ambiente, il vigneto contribuirà a far comprendere le condizioni degli antichi sistemi agricoli, esalterà il potenziale dell’intraprendenza umana alla luce dei limiti di una regione arida e il contributo unico del deserto alle caratteristiche dell’uva da vino del Negev”.

(Shalom, 3 ottobre 2023)

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Sudafrica: una comunità ebraica viva e vibrante… Nel ricordo di Nelson Mandela

Corruzione, crisi energetica, instabilità politica e un forte antisionismo nel governo. Eppure la società civile del Sudafrica non conosce antisemitismo, dicono i 60 mila ebrei (quasi tutti ashkenaziti), orgogliosi della vivacità della propria comunità, ma preoccupati per il suo calo numerico. In attesa delle elezioni del 2024

di Ilaria Myr

«Forse l’immagine è un po’ scura: sa, qui in Sud Africa l’elettricità manca ormai da 15 anni per almeno 12 ore al giorno, e se non si ha un generatore privato si sta al buio… Disservizi di questo tipo, che impattano profondamente sulla vita quotidiana, insieme a una diffusa corruzione dei governanti fanno sì che molti ebrei sud-africani emigrino all’estero, per dare ai figli un futuro più certo e migliore». Ci parla da una stanza semibuia illuminata solo da una lampada Howard Sackstein, imprenditore ebreo di Johannesburg molto attivo nella vita comunitaria della città e del Paese: è stato un membro fondatore del Jewish anti-apartheid movement, che lottò attivamente contro il regime discriminatorio, ed è attualmente presidente del giornale ebraico SA Jewish Report. È quindi sicuramente una persona molto adatta per aiutarci a conoscere più da vicino la comunità ebraica sudafricana, che oggi conta circa 60.000 membri, situati principalmente a Johannesburg (circa 30.000) e a Cape Town (13.000), con piccole comunità a Durban, Pretoria e qualche gruppo sparuto a Port Elizabeth.

• Una storia recente
  Una piccola premessa storica. Le sue origini risalgono ai primi decenni del XIX secolo, quando un piccolo numero di immigrati ebrei, principalmente dal Regno Unito e dalla Germania, inizi a stabilirsi in quelle che oggi sono le province del Capo Occidentale e del Capo Orientale del Sudafrica. Nel 1880, la popolazione ebraica complessiva era stimata in 4000 persone. Successivamente, un enorme afflusso di immigrati ebrei dall’Europa orientale – principalmente dalla Lituania e dintorni – vide la comunità crescere drammaticamente nel mezzo secolo successivo, prima che nuove leggi specificamente mirate a limitare l’ulteriore immigrazione ebraica fossero approvate nel 1930 e nel 1937. La maggior parte degli ebrei sudafricani oggi fa risalire le proprie origini all’arrivo degli immigrati dell’Europa orientale. Negli anni Trenta si verificò un ulteriore afflusso dalla Germania a seguito della persecuzione nazista e alla vigilia della Seconda guerra mondiale la popolazione ebraica contava poco più di 90.000 persone. Negli anni successivi ci furono molte immigrazioni – da Israele e da alcuni stati dell’Africa meridionale, tra cui Zimbabwe, Zambia e Namibia – tanto che nel 1970 si contavano 118.000 membri, e si moltiplicarono le istituzioni e organizzazioni ebraiche.
   Durante il periodo dell’Apartheid molti furono gli ebrei che lasciarono il Paese per protesta e altri si impegnarono nelle attività anti-apartheid. Ma è vero che non mancarono quelli che, come altri bianchi, si arricchirono e prosperarono, così come è noto che Israele vendeva armi al regime.

• Un presente fervido e attivo
  Oggi la comunità ebraica sudafricana è una realtà vibrante e attiva, molto organizzata al suo interno, molto coesa pur nella sua varietà, che nel tempo non ha perso in vitalità, nonostante le diverse ondate migratorie; oltre che negli anni dell’Apartheid, infatti, molti ebrei sono partiti – in Israele, ma anche negli altri Paesi anglofoni – durante il periodo della transizione alla democrazia, nei primi anni Novanta, non sapendo che cosa sarebbe diventato il Paese. A Johannesbourg e Cape Town ci sono molte scuole ebraiche con orientamenti diversi e movimenti giovanili e moltissime sono le associazioni operative. «Siamo una comunità molto vivace, che organizza continuamente attività di tutti i tipi: ricreative, di intrattenimento, di volontariato, si potrebbe occupare il proprio tempo libero solo con le iniziative della comunità! – spiega orgoglioso Howard -. Durante il Covid, poi, il SA Jewish Report ha creato una vera e propria comunità digitale, con webinar dedicati ai più svariati temi: da quelli sanitari, tenuti da medici, a quelli più estetici, con parrucchieri che spiegavano come farsi la tinta, e molto altro. Ci hanno seguito milioni di persone da tutto il mondo, ebrei e non ebrei, ed è stato un vero successo. E ancora oggi, finita l’emergenza, continuiamo a mantenere queste attività in vita». Sempre durante la pandemia, era in funzione il servizio ebraico di assistenza Hatzolah, che forniva a domicilio infermieri, bombole di ossigeno, termometri e saturimetri e l’ambulanza nei casi più urgenti.
   A causa delle migrazioni, però, quella sudafricana è una comunità anziana, con un ‘buco’ nella fascia 40-60 anni, e ancora oggi fa i conti con le partenze di giovani famiglie che vedono nel Paese un futuro troppo difficile. Corruzione, crimine e caos caratterizzano ormai da anni la vita quotidiana, come è evidente anche dalla mancanza di elettricità menzionata all’inizio dell’articolo. «L’African national Congress, che ha portato il Paese alla liberazione dall’Apartheid, ha fallito nella sua missione – commenta amaro Howard -. Tutte le aziende controllate dallo Stato sono fallite, e ai cittadini non viene fornito nessuno di quei servizi che normalmente dovrebbe ricevere dalle amministrazioni, come elettricità, sicurezza, salute. Ognuno deve pagare di tasca propria, ma gli stipendi qui non sono alti, e anche per chi, come un giornalista, guadagna bene, cioè 1500 dollari al mese, comprare un generatore autonomo di elettricità a 80.000 dollari o affittarlo a 3.000 all’anno è oneroso. Per questo molti giovani decidono di andare via».

• Antisionismo e antisemitismo
  Se si parla di Sud Africa, però, non si può non menzionare il forte antisionismo del governo e delle istituzioni, a cominciare dalle università. Nel marzo di quest’anno, ad esempio, l’Università di Cape Town ha invitato in video-conferenza due membri dei gruppi terroristici islamici Hamas e PIJ (Palestinian Islamic Jihad) – noti per inneggiare alla morte di tutti gli ebrei -, a rivolgersi agli studenti. Scoppiano le polemiche contro l’ateneo, che però non prende posizione: “Non siamo responsabili di quali relatori vengano invitati agli eventi ospitati da associazioni studentesche, le quali sono autonome”. E questo è solo uno dei numerosi episodi di odio e ostilità nei confronti di Israele che – spesso senza una conoscenza diretta della complessa realtà israeliana – viene visto come nazione che applica nei confronti dei palestinesi il regime di apartheid. «C’è una storica amicizia fra il partito più potente al governo, l’African National Congress, e il movimento palestinese, ed essendo l’Anc da molti anni al potere, ha permesso al movimento di boicottaggio di Israele BDS di essere sempre più rappresentato al suo interno – spiega a Bet Magazine Karen Milner, chairman del Southafrican Jewish Board of Deputies, l’organismo che rappresenta le istanze ebraiche presso il mondo politico e opera per la sicurezza dell’ebraismo locale -. Eppure all’inizio Nelson Mandela sosteneva Israele e la legittimità del sionismo ed era convinto che per avere la pace nella regione fosse fondamentale garantire la sicurezza a Israele: lui stesso vi si recò in visita nel 1999. Ma con il tempo il partito ha abbandonato queste posizioni di apertura».
   Un esempio della politica di oggi dell’Anc è il downgrade dell’ambasciata sudafricana in Israele, che, pur non chiudendo, non ha più un diplomatico operativo, con conseguenti problemi per i sudafricani che ci abitano. Non si deve poi dimenticare che il Sud Africa è uno dei BRICS, quei Paesi con economia emergente che si propongono di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati sul dollaro. Ne fanno parte anche Brasile, Russia, India e Cina, e dal gennaio 2024 anche Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia Saudita: tutti Paesi, questi, accomunati da una politica antioccidentale, in cui rientra anche l’odio per Israele perché, come spiega Howard Sackstein, «Israele è visto come una creatura coloniale dell’Occidente, ed è quindi un nemico».
   Questi sentimenti antisionisti, però, sono in contraddizione con quelli della società civile, che anzi in molti casi nutre una simpatia nei confronti di Israele, o non ha alcun interesse per la questione. Senza dubbio una parte del merito va al Jewish Board che fa in modo che le attività contro Israele non impattino sulla vita degli ebrei. «Il nostro obiettivo non è necessariamente di difendere Israele ma di difendere gli ebrei nel Paese – spiega Milner -; quindi se c’è un boicottaggio all’università pensiamo che possa avere un impatto sugli studenti ebrei e quindi cerchiamo di fare in modo possano continuare a vivere in libertà senza alcun problema, anche grazie alla collaborazione degli atenei. E anche quando il BDS ha cercato di agire nei confronti dei business di israeliani ed ebrei, abbiamo agito anche in modo duro, anche legalmente se necessario».
   Per tutti questi motivi, si può dire che l’antisemitismo in Sud Africa sia praticamente inesistente, con soglie molto inferiori rispetto all’Europa: sopravvivono gli stereotipi dell’ebreo ricco e potente – più forti fra la popolazione nera, essendo gli ebrei bianchi -, ma in generale c’è simpatia e rispetto, anche grazie all’impegno della comunità ebraica nei confronti dei bisogni della società, tramite organizzazioni come Afrika Tikkun, che lavora sui giovani e la povertà, e The Angel Network, che fornisce cibo alle zone più povere del Paese.

• La sfida del futuro
  Mantenere una comunità vibrante e attiva come lo è oggi, a fronte di una diminuzione dei suoi membri: è questo il challenge più grande per la comunità sudafricana, che deve fare i conti con emigrazioni sempre più frequenti. «Molto dipenderà anche dal risultato delle elezioni del 2024, che saranno determinanti per tutti nel Paese – commenta Milner -. Se l’Anc perderà la sua posizione dominante, non è detto che sarà un bene… ».

(Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2023)

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L’Iran sconvolto dalla possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita

Il presidente dell’Iran, Ebrahim Raisí, ha attaccato una possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, e ha affermato che la “liberazione” di Gerusalemme è la questione “più importante” nel mondo musulmano.
   Raisí ha attribuito il possibile instaurarsi di relazioni diplomatiche tra Riad e Gerusalemme “alla volontà delle potenze esterne alla regione”, alludendo agli Stati Uniti, paese che media tra i due rivali mediorientali.
   “Il modo per combattere il nemico non è la resa o il compromesso, ma piuttosto il confronto e la resistenza che costringono il nemico a ritirarsi”, ha detto Raisí.
   Il leader islamico, noto come il “macellaio di Teheran” per le sue azioni contro i prigionieri politici durante il suo mandato come procuratore di quella città, ha sostenuto che “la liberazione di Gerusalemme e della Palestina” è “la questione più importante” nel mondo musulmano.
   L’Iran sostiene le organizzazioni terroristiche palestinesi a Gaza e guida il cosiddetto Asse di resistenza contro lo Stato ebraico, che comprende Hamas, il gruppo terroristico sciita libanese Hezbollah e la Siria.
   Israele e Arabia Saudita si stanno avvicinando alla firma di un accordo per stabilire relazioni diplomatiche, mediato dagli Stati Uniti, che potrebbe vedere Riyadh rinunciare alla sua richiesta di lunga data di uno Stato palestinese prima della normalizzazione.
   I negoziati, mediati dagli Stati Uniti, sono andati avanti negli ultimi mesi e sono stati affrontati anche dallo stesso Bin Salmán durante il suo discorso alle Nazioni Unite la settimana scorsa.
   Iran e Arabia Saudita hanno concordato a marzo con la mediazione cinese di normalizzare le loro relazioni diplomatiche, interrotte dal 2016.

(IT ES Euro, 3 ottobre 2023)

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Israele e Palestina, c’è un unico modo per raggiungere la pace

Mancano le forze soltanto per iniziare un commento a un articolo così intriso di melensi buoni sentimenti, errate valutazioni e minacciose previsioni. Ma val la pena di leggerlo tutto per poi chiedersi: mi ha convinto? Se la risposta è sì, la cosa è preoccupante. Per chi legge, ma anche per Israele, se i sì sono molti. E forse potrebbero essere molti fra i democratici a tutto tondo, fra gli ammiratori del “grande scrittore israeliano Abraham B. Joshua”, per il quale la democrazia è la stessa ragion d’essere di Israele. Dichiara infatti l’articolista: “Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico”, e poi: “Se smette di essere un paese democratico non merita di esistere”. Capita la conclusione? E’ nel nome della democrazia che viene rimesso in gioco il diritto di Israele ad esistere. Il risalto in colore è aggiunto. M.C.

di Giorgio Pagano

Il frastuono delle armi è in tutto il mondo, non solo in Ucraina. In Palestina è assordante da molti anni. Dal 2022 la tensione si aggrava sempre più. Centinaia di giovani palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano, nel tentativo di arginare la rinascita della resistenza armata palestinese all’occupazione. Anche cittadini israeliani vengono uccisi da ragazzi disperati, che hanno conosciuto solo la vita nei campi profughi, gli insediamenti dei coloni, la violenza loro e quella dei militari. Hanno torto, ma non basta perorare “negoziati di pace” per convincerli. Bisogna andare alla radice: l’occupazione della Palestina da parte di Israele, la colonizzazione.
   Il grande scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua lo ha spiegato nel suo testamento, la breve novella “Il Terzo Tempio”. Il Terzo Tempio è il nuovo santuario che gli ebrei vogliono costruire dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme a opera dei babilonesi e poi dei romani. Ma, dice Yehoshua, non può avvenire a scapito dei luoghi santi costruiti dalle altre religioni: altrimenti la conseguenza sarà “incendiare il mondo con una terribile guerra”.
   La chiave di volta del futuro di Israele sta nel rapporto con i palestinesi. Senza questo rapporto Israele si nega al futuro. Ce lo conferma il sanguinoso conflitto in atto.
   Questa convinzione sta crescendo negli stessi ebrei. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra non sembrano più in grado di contenere la mobilitazione popolare. I manifestanti criticano la riforma della giustizia approvata dal governo, perché – ha sostenuto Gali Baharv-Miara, procuratrice generale di Israele – porterebbe a “un colpo fatale al sistema democratico”. A una dittatura: controllo del potere giudiziario, dei media e delle forze armate, privazione di ogni diritto per i palestinesi. Tamir Pardo, dal 2011 al 2016 direttore del Mossad, i servizi segreti di Israele, ha denunciato: “Netanyahu vuole trasformarci in una teocrazia. Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico. Se rimane ebreo, ma diventa teocratico, non sarà più democratico. Se smette di essere un paese democratico non merita di esistere”.
   Ma l’opposizione al governo non si limita a questa critica. Molti ebrei mettono in dubbio ormai il carattere realmente democratico di uno Stato che ha occupato e colonizzato, per mezzo secolo, la terra di un altro popolo, attuando un sistema di apartheid. Uno Stato ebreo e democratico non può essere grande: perché deve riconoscere l’esistenza di un altro Stato confinante, quello palestinese. L’ex generale Amiram Levin ha dichiarato: “Non c’è mai stata democrazia in Cisgiordania da cinquantasette anni. C’è un’apartheid totale”.
   A distanza di trent’anni dagli accordi di Oslo Unione europea e Stati Uniti non possono non prendere definitivamente atto che l’idea dei “negoziati di pace” è rimasta sulla carta, e che ha permesso a Israele di proseguire indisturbata nel suo obiettivo di espansione delle colonie.
   Numerosi documenti delle Nazioni Unite e di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, sono giunti a questa conclusione: il superamento dei “negoziati di pace” a favore della decolonizzazione e dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Bisogna affrontare le cause alla radice, altrimenti il regime coloniale andrà avanti, e la Cisgiordania diventerà una prigione come Gaza. Con il rischio di “incendiare il mondo”.
   O l’Occidente saprà cogliere questa priorità, anche sulla spinta dell’altro Israele, o non ci sarà una soluzione duratura fondata sulla pace, la sicurezza umana, la giustizia non solo per i palestinesi ma anche per gli israeliani.
   Anche la città della Spezia deve tornare a svolgere un ruolo di pace. Nel protocollo d’intesa, in vista del gemellaggio, sottoscritto nel 2005 dai tre sindaci di Jenin (Palestina), Haifa (Israele) e La Spezia era scritto che l’obiettivo di fondo era “rendere possibile l’esistenza di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, liberi, sovrani e capaci di vivere in sicurezza, democrazia e pace”. La pace tra palestinesi e israeliani deve essere obiettivo strategico della città di Exodus, da realizzarsi facilitando il dialogo tra persone, associazioni della società civile, governi locali.
   Fin dai primi anni dei miei viaggi in Palestina e in Israele ho conosciuto l’esperienza dei “Parents Circle”, un’organizzazione di base di palestinesi e israeliani che hanno perso parenti stretti, soprattutto figli, nel conflitto, e che si battono per la riconciliazione e la pace. “Apeirogon” è un grande romanzo di Colum McCann, che racconta l’epica storia vera di due uomini divisi dal conflitto e riuniti dal dolore della perdita: Bassam Aramin, che ha perso la figlia Abir, e Rami Elhanan, che ha perso la figlia Smadar. Per Bassam e Rami il nemico comune è l’occupazione.
   Dice Bassam:
    “L’Occupazione agisce in ogni aspetto della tua vita, ti sfinisce, ti amareggia in un modo che nessuno da fuori riesce davvero a capire. Ti sottrae il domani. Ti impedisce di andare al mercato, all’ospedale, alla spiaggia, al mare. Non puoi camminare, non puoi guidare, non puoi raccogliere un’oliva dal tuo stesso albero che si trova dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno alzare lo sguardo al cielo. Lassù hanno i loro aeroplani. Possiedono l’aria che sta sopra e il suolo che sta sotto. Per seminare la tua terra devi avere il permesso. […] La maggior parte degli israeliani nemmeno lo sa che succedono queste cose. Non che siano ciechi. É che non sanno quello che viene fatto in loro nome. Non viene permesso loro di vedere. I loro giornali, le loro televisioni queste cose non gliele dicono. Non possono entrare in Cisgiordania. Non hanno alcuna idea di come viviamo. Ma questo succede ogni giorno. Ogni singolo giorno. Non lo accetteremo mai. Nemmeno tra mille anni, lo accetteremo. […] Porre fine all’Occupazione è la nostra sola speranza per la sicurezza di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei, musulmani, drusi, beduini, non importa”.
Dice Rami:
    “Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’Occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato sulla faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera. L’aeroporto è lì a due passi. Non abbiamo alcun accesso all’effetto che fa vivere in Cisgiordania o a Gaza. Nessuno ne parla. Non ti è permesso mettere piede a Betlemme, a meno che tu non sia un soldato. Guidiamo lungo le nostre strade percorribili solo dagli israeliani. Scansiamo i villaggi arabi. Costruiamo strade sopra e sotto di loro, ma solo per farne gente senza volto. Forse la Cisgiordania una volta l’abbiamo vista, durante il servizio militare, o magari la vediamo di tanto in tanto in tv, il nostro cuore sanguina per una mezz’ora, ma non sappiamo quello che succede là veramente. Finché non accade il peggio. E a quel punto ti si capovolge il mondo.
    La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile”.
Le testimonianze di Bassam Aramin e di Rami Elhanan sono la conferma, incarnata nelle forme concrete della vita, del discorso giuridico e politico che è diventato più che mai necessario: de-occupazione, de-colonizzazione, diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

(Città della Spezia, 3 ottobre 2023)
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Giorgio Pagano mente quando scrive che La Spezia sarebbe la città di Exodus (Portovenere fu in realtà la città di Exodus); se non conosce i fatti della propria città, come può pretendere di conoscere quelli di una terra lontana? Emanuel Segre Amar

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La pace con i sauditi è facile: vogliono solo il Monte del Tempio

Come può il cambio di un padrone di casa musulmano con un altro promuovere la restaurazione di Israele?

di Ryan Jones

GERUSALEMME - Per quanto sacro possa essere il Monte del Tempio per il popolo ebraico, Israele non ha problemi a contrattare su di esso se spera di ottenere un vantaggio politico. Dopo aver liberato l'altopiano sacro dal dominio ostile dei musulmani nel 1967, Israele lo ha prontamente riconsegnato a un ente musulmano ostile, il Waqf giordano.
   Ora i sauditi affermano che per loro la cosa più importante in un accordo di pace con Israele è una maggiore influenza sul Monte del Tempio e garanzie per i "diritti" dei musulmani nel sito.
   I media israeliani hanno riportato questa settimana un recente sondaggio del Washington Institute su ciò che i sauditi, in media, sperano di più da una normalizzazione delle relazioni con Israele.
   Molti potrebbero supporre, e i palestinesi certamente speravano, che uno Stato palestinese fosse in cima alla lista dei sauditi. Ma non è così.
   Secondo il sondaggio, ciò che i sauditi desiderano di più da un accordo di pace con Israele (46% degli intervistati) è vedere "garantiti i diritti dei musulmani alla Moschea di Al-Aqsa" (cioè il Monte del Tempio).
   I progressi verso uno Stato palestinese è la priorità assoluta solo per il 36% dei sauditi intervistati dal Washington Institute.
   L'elenco delle priorità è completato dagli aiuti militari americani (18%) e dalla cooperazione con gli Stati Uniti nello sviluppo dell'energia nucleare saudita (16%).
   Da un lato, i sentimenti sauditi facilitano il raggiungimento di un accordo di normalizzazione, ha osservato l'esperto israeliano Asher Fredman, ricercatore senior presso il Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy.
   Freeman ha dichiarato a Israel Hayom che i risultati mostrano che per soddisfare l'opinione pubblica saudita, Israele deve solo fare ciò che sta già facendo, ovvero mantenere il libero esercizio della religione per i musulmani sul Monte del Tempio.
   Riyadh cerca da tempo di avere una maggiore influenza sul Monte del Tempio, anche se molti sauditi affermano che il sito non è così importante per l'Islam.
   L'Arabia Saudita controlla già il primo e il secondo luogo sacro dell'Islam, quindi perché non il terzo? Anche questo è un aspetto che Israele probabilmente preferirebbe. È molto meglio lavorare con un regime saudita amichevole che con il velenoso Waqf giordano influenzato dai palestinesi.
   Ma questo solleva ancora una volta la questione: Israele è davvero sovrano nella sua terra, e soprattutto nella Città Santa di Gerusalemme, se non controlla il Monte del Tempio, se gli ebrei non possono ancora pregare nel luogo più sacro dell'ebraismo?
   Cos'è Gerusalemme senza il Monte del Tempio, il luogo in cui Dio ha inciso il suo nome?
   E cos'è Israele senza Gerusalemme?
   L'anno scorso, quando il Ramadan coincideva con la Pasqua e il Monte del Tempio era teatro di forti tensioni, un sondaggio dell'Israel Democracy Institute ha rivelato che la maggior parte degli ebrei israeliani era stanca di dover continuamente trattare per il loro luogo più sacro e chiedeva una vera sovranità. La metà degli intervistati ha dichiarato che gli ebrei dovrebbero almeno essere autorizzati a pregare sul Monte del Tempio.
   Scambiare un padrone di casa musulmano con un altro, anche se migliore sotto ogni aspetto, fa forse progredire la ricostruzione di Israele?

(Israel Heute, 2 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele è in guerra, sempre sotto attacco. Ma l'Occidente condanna solo la risposta contro i terroristi

di Paolo Salom

Israele è in guerra. Ormai da mesi. Il lontano Occidente finge di non accorgersene, di non vedere. Le rare volte che un attacco palestinese a israeliani inermi arriva sui giornali, in fondo all'articolo si fa il "bilancio" generale dei morti dell'una e dell'altra parte, senza ovviamente fare distinzioni. Così, a un lettore distratto (o poco edotto sulla questione: quasi tutti), appare con chiarezza una sproporzione tra le vittime: quelle di parte arabo-palestinese sono sempre più numerose. Dunque, a ben vedere, la situazione è sempre la stessa: Israele è lo Stato più forte e aggressivo, i palestinesi, poverini, sotto occupazione, si difendono come possono ma subiscono le perdite più ingenti, spesso giovanissimi se non addirittura "bambini".
  Questa è la narrativa nel lontano Occidente. Pochi arrivano - e non sempre per loro pigrizia - a scavare nelle notizie per capire cosa davvero sia successo. Che più o meno è sempre questo: un gruppo di terroristi (o anche un aggressore solitario) prendono di mira una vettura di civili israeliani, o semplici passanti, sparano, accoltellano, uccidono senza riguardo dell'età dei loro "obiettivi", che sono quasi sempre esseri umani inermi, raramente soldati (perché in grado di difendersi visto che sono armati). Dopo l'attentato, scatta la caccia all'uomo, proprio come accadrebbe in qualunque altro Paese del mondo. Quando i responsabili dell'attentato sono individuati, nascosti nelle città rifugio della cosiddetta Cisgiordania (ovvero Giudea e Samaria, gli unici nomi reali di quelle regioni), vengono arrestati o, più spesso, eliminati dal momento che l'intervento di Tsahal suscita una battaglia con l'uso di armi, pietre e persino bombe piazzate lungo le strade.
   Gli attacchi in verità hanno proprio quello scopo: istigare un'azione dell'esercito di Israele nei territori così da provocare la regolare indignazione del lontano Occidente, lesto nel condannare "l'eccessivo uso della forza". E qui arriviamo al punto. Israele, da decenni, lotta contro un nemico irriducibile, sostenuto da Paesi vicini e lontani che hanno tutto l'interesse nel creare queste continue crisi. E lo fa con una mano legata dietro la schiena. Non c'è dubbio che, volendo, Israele sarebbe in grado di distruggere i suoi avversari. Il prezzo da pagare sarebbe alto, certo: molti soldati, e molti civili arabi, potrebbero rimanere uccisi o feriti. Questa è la logica spaventosa della guerra. E basta dare uno sguardo ai fatti del mondo per rendersi conto che, altrove, certi scrupoli umanitari non sono nemmeno considerati.
   Israele invece pone sempre e comunque la protezione della vita umana - qualunque vita umana: persino quella dei nemici - al di sopra di ogni altra valutazione. Il minimo che il lontano Occidente potrebbe fare è riconoscerlo e dire con chiarezza, a coloro che ispirano e organizzano le violenze, che non avranno più il sostegno necessario alla vita di tutti i giorni, la protezione politica. Invece, il silenzio a questo proposito è assordante. Mentre le condanne dell'operato di Tsahal - o del governo di Gerusalemme - non si contano. È questo il punto, ed è questo che per noi non è accettabile: Israele è un faro per l'umanità. È il nostro rifugio. Va protetto. A qualunque costo.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2023)

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Papa Pio XII, le relazioni ebraico-cristiane e la storia

Un convegno internazionale all’Università Pontificia Gregoriana per parlare del Vaticano durante l’Olocausto e delle relazioni tra Chiesa e ebrei in Italia e in Europa, grazie a nuovi documenti che emergono dagli archivi.

di Laura Forti

Avrà luogo nel mese di ottobre, dal 9 all’11, nell’Aula Magna dell’Università Pontificia Gregoriana un convegno importante dal titolo “Nuovi documenti dal Pontificato di Pio XII e loro significato per le relazioni ebraico-cristiane”. Si tratterà di un dialogo tra storici e teorici di massimo livello internazionale. L’obbiettivo è gettare una nuova luce sul controverso pontificato di Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli, insignito papa nel 1939, l’anno successivo alle leggi razziali, considerato a volte un papa amico degli ebrei e inviso al nazismo, che considerava un’eresia, altre invece un papa connivente che conosceva la realtà di Auschwitz ma non cercò di fermare lo sterminio e la persecuzione.
  Ma la conferenza cercherà di andare oltre il cliché, i due estremi da tifoseria da stadio, ovvero la «leggenda rosa» (Pio XII Defensor civitatis, non solo amico ma difensore e protettore dell’ebraismo) alla «leggenda nera» (il «Papa di Hitler», animato da indifferenza, se non addirittura compiacimento verso la tragedia).
  Il convegno dovrebbe offrire quindi spazio semmai per un ragionamento complessivo su alcuni aspetti dell’azione della Santa Sede nell’«età dei totalitarismi», come già aveva tentato di fare la bella lettura critica offerta da David Bidussa nel suo importante saggio La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948 (Solferino, Milano 2020) nel quale l’autore ragionava sul rifiuto da parte di Pacelli e della Chiesa dell’«ateismo materialista»  tra gli anni Trenta e Quaranta e poneva all’interno di questo contesto anche la «questione ebraica», intesa come radice del «disordine», fantasma introiettato della definitiva rottura dei vecchi schemi.
  Il personaggio Pio XII in effetti è estremamente controverso.  Uno dei suoi primi atti appena salito al pontificato fu, nell’aprile del 1939, quello di togliere dall’Indice i libri di Charles Maurras, animatore del gruppo politico di estrema destra Action française, che aveva molti simpatizzanti cattolici anche se alcuni storici tendono a leggere questo episodio non tanto in chiave antisemita quanto anticomunista, dato che è avvenuto in un periodo storico in cui anche l’Italia incominciava a dar concreta applicazione alle leggi per la difesa della razza.
  Nella sua prima enciclica “Summi Pontificatus” del 20 ottobre 1939, Pio XII, senza nominare espressamente fascismo e nazismo, lamentò le conseguenze dell’attuale crisi spirituale e la diffusione delle «ideologie anticristiane» e di un «paganesimo corrotto e corruttore». Tra le righe Pio XII condannava ogni discriminazione razziale, affermando la «comune origine in Dio» di tutto il genere umano; introdusse il concetto di convivenza pacifica e, soprattutto, elevò il suo straziante lamento per la Polonia, nazione fedele alla Chiesa.
  Durante la guerra, vari e ripetuti furono gli appelli del Papa in favore della pace. Va ricordato in particolare il radiomessaggio natalizio del 1942, in cui Pacelli a dire il vero denunciò anche lo sterminio delle persone su base razziale. Mussolini commentò  con sarcasmo: «Il Vicario di Dio non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole. Questo è un discorso di luoghi comuni che potrebbe agevolmente essere fatto anche dal parroco di Predappio»
  D’altra parte dopo l’8 settembre e la fuga dei Savoia dalla capitale, Pio XII rimase a Roma, all’interno del Vaticano. Non elevò alcuna protesta per la cruenta occupazione nazista della città, che causò la morte di alcune centinaia di difensori, tra militari e civili.
  Durante il corso della guerra, nonostante le numerose informazioni ricevute, non condannò mai ufficialmente né si impegnò pubblicamente per fermare le deportazioni. Offrì però rifugio presso la Santa Sede a molti ebrei e a esponenti politici antifascisti tra cui Alcide De Gasperi e Pietro Nenni; non sempre però i tedeschi rispettarono l’extra-territorialità di alcune altre aree a Roma di pertinenza della Santa Sede: nel 1943 ad esempio fecero irruzione nella basilica di San Paolo fuori le mura e vi presero alcuni prigionieri.
  Diversi autori hanno espresso forti critiche verso il comportamento tenuto dalla Santa Sede dopo l’attentato di via Rasella e l’Eccidio delle Fosse Ardeatine (23 – 24 marzo 1944). Si è speculato che, almeno cinque ore prima dall’uccisione della prima vittima della rappresaglia tedesca, la segreteria di Stato vaticana fosse in possesso di informazioni e avrebbe potuto intervenire.
  Ma l’argomento inquadrato dal Convegno è ancora più vasto e trascende la figura di Pio XII  perché ci si propone di analizzare un quadro ancora più ampio e complesso, quello del Vaticano durante l’Olocausto, nonché esplorare le relazioni tra Chiesa e ebrei, in Italia e in Europa, grazie a nuovi documenti che emergono dagli archivi – rimasti chiusi per anni e anche recentemente causa Covid – grazie a una collaborazione nuova ed inedita tra istituzioni e ricercatori.
  Si comincerà con l’affrontare le motivazioni e le decisioni di Pio XII durante il fascismo, ma anche il suo atteggiamento verso il comunismo e il nazismo, cercando di comprendere a pieno il suo ruolo come capo della Santa sede. Se sapeva perché non parlò, perché non prese una posizione chiara? Come venne gestita dal Vaticano l’applicazione delle leggi razziali, nate dalla Germania nazista e presto divulgate in tutta Europa? Chi salvò veramente gli ebrei e perché? Forse questi nuovi documenti ce lo diranno. Come sarà interessante esplorare il dopo guerra, quando il Vaticano fu chiamato ad aver un ruolo nei processi ai criminali nei tribunali militari e dovette schierarsi; fino a ripercorrere il cammino che ha condotto alla formulazione della dichiarazione “Nostra Aetate” nel 1965 quando, a venti anni dalla Shoah, il Secondo Concilio Vaticano ha respinto l’antisemitismo e sottolineato una profonda connessione tra mondo cristiano ed ebraico; o su come il periodo della Shoah abbia influito su successivi processi di dialogo.
  La caratteristica interessante sarà proprio vedere riuniti studiosi laici e teologi, provenienti dalla chiesa, uniti a cercare punti di contatto e ad analizzare scientificamente contraddizioni, in un intento comune, quello di arrivare a una verità. Uno spazio aperto quindi per studio e discussione. Un’occasione che Liliana Picciotto, definisce “un punto di svolta nella storia delle relazioni ebraico-cristiane del nostro tempo”.
  Non solo. “L’apertura degli archivi vaticani nel marzo 2020 ha rappresentato un nuovo capitolo, un segnale di apertura e trasparenza da parte di Roma” afferma la dottoressa Suzanne Brown-Fleming, direttrice del programma Accademico internazionale al Jack, Joseph and Morton Mandel Center for Advanced Holocaust Studies. L’attesa di poter visionare questi materiali è durata decenni ed avere finalmente accesso ai documenti è non solo importante dal punto di vista dello studio e della ricerca, ma rende anche giustizia morale alla memoria dei sopravvissuti e alle loro famiglie.

(JoiMag, 2 ottobre 2023)

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Il fascino dell'antica sinagoga tunisina di Kélibia svelato al MAHJ di Parigi

di Claudia De Benedetti

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A Kélibia, città costiera nel nord-est della Tunisia, uno scavo archeologico ha portato alla luce i resti di un'antica sinagoga ai piedi dell'antica fortezza romana. Al MAHJ, Museo di Arte e Storia Ebraica di Parigi, Mounir Fantar, esperto dell’Istituto nazionale del patrimonio tunisino, ha tenuto la scorsa settimana una conferenza nell’ambito del ciclo di incontri intitolato ‘Arte e archeologia dell’ebraismo’ in cui ha spiegato le caratteristiche salienti dell’importante scoperta.
   I lavori stradali effettuati nella zona del porto della località balneare costituiscono la prima prova di un'antica presenza dell'ebraismo nella regione di Cap Bon. Il ritrovamento di un mosaico in perfetto stato di conservazione ha condotto gli archeologi a sostenere che vi sia stato un insediamento ebraico risalente al V secolo. La decorazione è stata successivamente attribuita al pavimento di un edificio, verosimilmente una sinagoga, in cui è di notevole fascino la presenza di dodici candelabri a sette braccia, alcuni dei quali affiancati da cedri, palme e da una iscrizione latina che attesta il carattere ebraico del luogo. Menorah e iconografia legata alla festa di Sukkot sono quindi oggetto di studio in un’area geografica di grande interesse dal punto di vista storico e archeologico.
   Il piccolo porto di Kélibia deve il proprio nome al porto fenicio di Clupea, che sorgeva nella zona in cui anche romani e bizantini hanno lasciato traccia del loro passaggio. La cittadina, oltre a essere caratterizzata da alcune tra più belle e incontaminate spiagge della Tunisia, ha importanti monumenti, a testimonianza del suo antico e affascinante passato. La fortezza, perfettamente conservata, fu edificata per proteggere la costa e consentire di avvistare le navi provenienti dal Mediterraneo. Domina un’altura di oltre cento metri, vi sono vestigia di edifici romani e di una cappella verosimilmente di origini bizantine, all’interno della quali sono esposti documenti storici e manoscritti. Dal faro, situato nell’area a sud del forte, nei giorni di cielo limpido, è possibile osservare il del litorale di Capo Bon e l’isola di Pantelleria che dista poco meno di 70 chilometri dalla costa tunisina. Nei pressi del forte si trovano anche le vestigia di un’antica villa romana con mosaici che rappresentano scene di caccia. Kélibia e l’area di Capo Bon sono infine note per le vaste coltivazioni di viti, tabacco e legumi.

(Shalom, 2 ottobre 2023)

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Gli Usa annunciano progressi sulla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita

La Casa Bianca ha annunciato che Israele e l’Arabia Saudita stanno avanzando verso la definizione di un accordo storico di normalizzazione delle relazioni, con la mediazione degli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nutre l’auspicio di trasformare il Medio Oriente e ottenere una vittoria diplomatica in un anno elettorale cruciale, cercando il riconoscimento dello Stato ebraico da parte dell’Arabia Saudita, custode dei due luoghi più sacri dell’Islam. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, John Kirby, ha dichiarato ai giornalisti: “Tutte le parti hanno elaborato, credo, un quadro di base per ciò che potremmo essere in grado di raggiungere”. Tuttavia, egli ha sottolineato che, come in ogni accordo complesso, sarà necessario che tutte le parti facciano delle concessioni.
   Gli Stati Uniti hanno incoraggiato i loro alleati nel Medio Oriente, Israele e l’Arabia Saudita, a normalizzare le relazioni diplomatiche, dopo che lo Stato ebraico ha stabilito legami normali con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco nel 2020. In precedenza, Israele aveva già siglato accordi diplomatici con Egitto e Giordania. Durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 22 settembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele si trova “in procinto” di stringere un accordo di pace rivoluzionario con l’Arabia Saudita. Netanyahu ha affermato che una tale pace forgerà un “Nuovo Medio Oriente”, avrà un impatto significativo sulla risoluzione del conflitto arabo-israeliano e incentiverà altri stati arabi a normalizzare i loro rapporti con Israele, migliorando così le prospettive di pace con i palestinesi e favorendo una più ampia riconciliazione tra ebraismo e islam, tra Gerusalemme e La Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele.
   Tuttavia, la questione palestinese rimane un ostacolo nelle trattative. L’amministrazione Biden ha esortato Israele a fare concessioni ai palestinesi come parte di un possibile accordo, ma Netanyahu è limitato dalle posizioni dei suoi partner di coalizione di estrema destra, contrari a qualsiasi passo verso la creazione di uno stato palestinese. L’Autorità nazionale palestinese ha presentato agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita un elenco di potenziali misure che vorrebbe vedere attuate nell’ambito dei colloqui di normalizzazione. Il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha dichiarato a “Fox News” all’inizio di questo mese che “ogni giorno ci avviciniamo” alla normalizzazione dei rapporti con Israele, sottolineando, tuttavia, che la questione palestinese rimane una componente “molto importante” del processo. Inoltre, l’Arabia Saudita ha cercato garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti, tra cui, secondo quanto riferito, la possibilità di un trattato di difesa, in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele.

(Nova News, 30 settembre 2023)


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Per Gerusalemme e Riad gli accordi del 2002 non funzionano

L’ipotesi del diplomatico che ha visitato i Territori palestinesi nei giorni scorsi, di tornare alla pace panaraba potrebbe non funzionare tra Gerusalemme e Riad.

di Ferruccio Michelin 

Quando 26 settembre, un diplomatico saudita ha suggerito che la normalizzazione delle relazioni con Israele sarebbe stata presa in considerazione nel quadro della proposta di pace panaraba del 2002 sponsorizzata da Riad, ha confermato quanto l’avvicinamento tra i giganti regionali sia una tettonica ormai innescata è quasi irreversibile. Nayef al Sudairi, che ha recentemente assunto il ruolo di ambasciatore saudita non residente in Palestina, è stato in visita inaugurale a Ramallah.
   L’iniziativa di pace araba, proposta originariamente nel 2002, offriva il riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi in cambio di un ritiro completo dai territori conquistati durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, compresa Gerusalemme est.
   Durante la sua visita, al Sudairi ha anche fornito ai palestinesi delle credenziali che descrivevano il suo doppio ruolo di “console generale a Gerusalemme”, un gesto che riconosce la loro sfida alla sovranità di Israele sulla sua capitale. Tuttavia, non era previsto che si recasse a Gerusalemme durante il suo soggiorno di due giorni.
   “La proposta saudita del 2002 è rimasta lettera morta, e non solo perché Israele stava combattendo un’ondata di terrorismo suicida palestinese”, spiega Mark Dubowitz, ceo e fondatore della Foundation for Defense of Democracies (Fdd).Ci sono ampie indicazioni che Riad, che era sotto esame da parte degli Stati Uniti per la composizione a maggioranza saudita dei dirottatori dell’11 settembre, stesse cercando di spostare l’attenzione sulla presunta recalcitranza diplomatica di Israele. Pertanto, l’invocazione della proposta ora, a distanza di una generazione, è strana. Israele dovrà fare concessioni sulle questioni palestinesi per ottenere un accordo, ma non si baserà su una proposta vecchia di due decenni che minaccerebbe la sicurezza di Israele”.
   “Qualsiasi impegno dei sauditi nell’arena israelo-palestinese dovrebbe essere visto come uno sviluppo positivo in questo momento. Ma con il progredire delle discussioni, sarà importante vedere i sauditi mettersi d’accordo con gli israeliani”, aggiunge Jonathan Schanzer, vicepresidente della Fdd. “La normalizzazione non può concretizzarsi pienamente senza una chiara comprensione di ciò che è possibile, sia a breve che a lungo termine, per i palestinesi e del loro desiderio di realizzare le proprie aspirazioni nazionali. Ci sono sfide significative a questo proposito a causa della mancanza di leadership palestinese. I sauditi, in particolare, devono iniziare a confrontarsi con questo problema”.
   “Visitando le alture del Golan il 9 agosto, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto che l’altopiano strategico ‘sarà per sempre sotto la sovranità israeliana’. Gli americani non avevano certo bisogno di ricordarlo: nel 2019, l’allora presidente Trump ha riconosciuto il Golan come israeliano. Ma Washington potrebbe voler inviare nuovamente quel promemoria ai sauditi: La loro proposta di pace del 2002, ora riproposta, restituirebbe il Golan alla Siria di Bashar Al-Assad e verrebbe usato come base iraniana per minacciare Israele”, chiude Enia Krivine, direttrice senior del Programma Israele e della Rete per la sicurezza nazionale di Fdd.

(Formiche.net, 30 settembre 2023)


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Anp
Anp significa Autorità Nazionale Palestinese, ma il "Nazionale" è stato aggiunto dai palestinesi. Il termine originario è "Autorità Palestinese" (AP)

tra pressioni Usa e il tentativo di recuperare consensi


Punto di vista filopalestinese. NsI

di Michele Giorgio

La Muqata, il quartier generale dell'Anp a Ramallah
GERUSALEMME - Alla fine, Muhammad Shtayyeh, ha avuto i suoi due silos per il grano. Giovedì il premier dell’Autorità nazionale palestinese ha posto la prima pietra di quello che sorgerà a Burham, a nord di Ramallah. L’altro sarà costruito nella zona di Hebron. 45-50 milioni di dollari il costo dei due depositi che avranno una capacità di stoccaggio di 80mila tonnellate di grano, sufficienti a rifornire in caso di necessità per tre mesi per il mercato locale. L’Anp ha puntato con forza sul progetto sfidando lo scetticismo di economisti ed esperti delle Nazioni unite poco convinti che questa riserva di grano sia utile al raggiungimento della «sicurezza alimentare» che, ha spiegato Shttayeh, è al centro della strategia del suo governo. Tra gli applausi di imprenditori e uomini d’affari locali, il primo ministro ha spiegato che il suo governo sta investendo sull’agricoltura, tornata a crescere in percentuale nel Pil palestinese.
   Magari qualche contadino è tornato a sorridere grazie agli «investimenti» dell’Anp ma, solo per citare il caso più grave, la sanità soffre e non poco. I giornali locali qualche giorno fa riferivano di un giovane che si è presentato al Ramallah Medical Complex per sottoporsi a un intervento chirurgico fissato da tempo: quando ormai era sul tavolo operatorio, i medici l’hanno rimandato a casa per la mancanza di ferri chirurgici. Scarsi fondi, macchinari e personale medico specializzato sono i problemi che attanagliano la sanità pubblica palestinese mentre quella privata fiorisce. A Gaza sotto blocco israeliano e governata da Hamas, le cose vanno persino peggio. 1100 palestinesi con insufficienza renale, tra cui 38 bambini, rischiano di rimanere senza dialisi per la mancanza di pezzi di ricambio per i macchinari.
   La corruzione è sempre un tema sempre di attualità nei caffè di Ramallah e di altre città. Per questo, come spesso avviene intorno alle mosse dell’Anp, anche sui silos di Shttayeh non mancano voci e polemiche. Nel migliore dei casi il progetto viene descritto come «finalizzato a lucidare l’immagine opaca» del governo e del premier che, a quanto pare, rischia di dover lasciare presto la sua poltrona all’ex ministro ed economista Mohammed Mustafa, anche lui un ultraliberista. Nel peggiore, i silos sono giudicati «inutili» e destinati a favorire solo i profitti delle imprese private dietro il progetto.
   Il presidente 88enne Abu Mazen si è lanciato negli ultimi mesi in una operazione di maquillage della sua leadership, debole e con scarso consenso. Ha visitato Jenin, la «città resistente», per la prima volta dal 2011 dopo il raid distruttivo di Israele del 3 e 4 luglio, ha mandato a casa una dozzina di governatori e sta decidendo se nominare subito un nuovo governo o procedere a un semplice rimpasto. È anche intervenuto nella riforma delle pensioni emendando in profondità, con un decreto, il testo della legge duramente contestata dai sindacati nel 2018-19. La riforma prevedeva una contribuzione al Fondo di previdenza sociale che i lavoratori salariati non hanno modo di soddisfare in ragione dei redditi bassi e del crescente costo della vita. Ora è stato ridotto il peso della riforma sui salari. Abu Mazen però non fa le poche cose che potrebbero restituirgli qualche consenso. Interrompere la collaborazione tra l’intelligence dell’Anp e quella di Israele. La popolazione palestinese lo chiede invano da anni. E ridurre la spesa per le forze di sicurezza che assorbe circa il 30% del budget governativo. Gli arresti di giovani combattenti a Jenin e Nablus compiuti dai reparti speciali dell’Anp negli ultimi due mesi sono stati accolti con rabbia e sgomento dalla maggior parte dei palestinesi.
   L’analista Hani Masri invita a considerare le manovre di attori internazionali nella scelta del nuovo premier dell’Anp. Washington con i suoi dirigenti politici e i suoi commentatori, spiega Masri, «non considera le responsabilità di Israele nella fine del processo di pace e i crimini dell’occupazione. L’obiettivo dell’amministrazione Biden è solo normalizzare i rapporti tra Arabia saudita e Israele». E, conclude l’analista, in cambio di un generoso sostegno economico, si attende «l’approvazione da parte dell’Anp del deal che porterà all’egemonia israeliana sulla regione, all’apertura delle porte dei paesi arabi e islamici ai governanti di Tel Aviv e ad allontanare l’Arabia saudita da Cina, Russia e Iran». I palestinesi, scriveva la Reuters a metà settimana, otterranno ben poco. Riyadh ha deciso che la «pace» con Israele la farà anche senza concessioni ai palestinesi da parte del premier Netanyahu.

(il manifesto, 30 settembre 2023)

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E nel mezzo, Gesù

di Norbert Lieth

Quando il Signore Gesù fu crocifisso, furono «crocifissi con lui due ladroni, uno a destra e l'altro a sinistra» (Matteo 27:38). Questi due uomini, descritti nei Vangeli come ladroni, possono essere considerati un simbolo dell'umanità, divisa in due parti. Entrambi sono nati da un padre e una madre e hanno vissuto un'infanzia simile a quella di tutti gli altri bambini. Tuttavia, a causa delle compagnie sbagliate e delle decisioni errate che hanno preso, hanno intrapreso un percorso di vita criminale, governato dal peccato. Pur essendo stati ripetutamente avvertiti di non seguire questa strada, entrambi hanno continuato ad agire in modo sbagliato e hanno pagato il prezzo più alto: la vita. In questo modo, la storia di questi due uomini può essere vista come una rappresentazione della lotta dell'umanità tra il bene e il male, e dell'importanza di fare scelte giuste nella vita.
   Con il senno di poi, la vita di questi due uomini sembrava vana e condotta verso un baratro che ne vanificava l'esistenza: erano destinati a morire. Avevano vissuto senza speranza, rimanendo a mani vuote, e avevano causato tragedie nelle rispettive famiglie. Convinti di essere stati traditi dalla vita, si trovavano ad affrontare la morte senza speranza. Entrambi avevano ricevuto la stessa condanna infamante, dovendo sopportare la colpa delle loro azioni. I loro ideali, per cui avevano combattuto con entusiasmo, li avevano portati a guadagnarsi solo vergogna e morte. Inoltre, entrambi avevano vissuto senza la presenza di Dio e avevano schernito Gesù con lo stesso atteggiamento sprezzante. Nessuno dei due avrebbe potuto pagare il prezzo della propria colpa con i propri sforzi, poiché erano giunti al capolinea: la morte era l'unica prospettiva possibile e nulla avrebbe potuto cambiare le loro sorti (Matteo 27,44).
   Entrambi morirono contemporaneamente, soffrendo una dolorosa agonia simile. Erano entrambi al fianco di Gesù e quindi vicini a Lui, potendo guardarlo e osservarlo attentamente. Inoltre, entrambi avevano la possibilità di ascoltare ciò che gli altri dicevano di Gesù.

    «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23:34);
    «Questo è il re dei Giudei» (Luca 23:38);
    «…ha detto: «Io sono Figlio di Dio» (Matteo 27:43).

Entrambi potevano rivolgersi a Lui e parlargli. Entrambi erano equidistanti dalla porta del paradiso. Entrambi erano ugualmente vicini alle porte dell'inferno. Entrambi furono crocifissi con Gesù e Gesù fu crocifisso per entrambi. Hanno provocato la morte di altre persone ma Gesù, colui che dà la vita, era lì accanto a loro. Entrambi avevano un'ultima possibilità per decidere del loro futuro.

    Lo crocifissero assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di là, e Gesù nel mezzo (Giovanni 19:18).

Al centro di tutto si trova Gesù. Egli è venuto in mezzo a noi e ha creato un bivio, un punto di svolta nella nostra vita e nei nostri cammini. La sua croce rappresenta la misura della nostra vita e valuta il nostro conto aperto, agendo come una chiave inglese nelle opere di Dio. Attraverso la valutazione del nostro peccato e della nostra colpa, Egli ci apre la strada alla redenzione: «È compiuto». - In greco: tetélestai, che significa qualcosa come «tutto pagato». La cambiale viene stralciata (Colossesi 2:14).
   Ma Gesù non solo rappresenta una fonte di redenzione, ma divide anche la società. Alcune persone sono state rovinate a causa di Lui, mentre altre sono cresciute grazie a Lui.

    Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi» (Luca 23:39).

Questo malfattore era solo alla ricerca di una salvezza terrena. Ha cercato sollievo dal tormento in modo da poter continuare a vivere la sua vita senza pentimento. L'altro ci ripensò e cambiò idea. E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» (Luca 23:42). Non si trattava più di ottenere un perdono terreno, ma di uno celeste. Ha finalmente compreso il valore vero della vita e l'ha donata a Gesù. Voleva andare dove Gesù sarebbe andato.
   Il primo imprecò e Gesù tacque. L'altro chiese e Gesù disse:

    «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Luca 23:43).

Uno ha indurito il proprio cuore e il cielo si è chiuso su di lui, mentre l'altro ha aperto il proprio cuore e il cielo gli si è spalancato, portandolo fino alle porte del paradiso, anche se prima si trovava sull'orlo dell'inferno. La verità è che tutto dipende dalle nostre decisioni.

(Chiamata di Mezzanotte, marzo/aprile 2023)


 

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Ecco i piani di Arabia Saudita e Israele per rivoluzionare il Medio Oriente

di Marco Orioles

Segnatevi questi nomi, perché potrebbero entrare nella storia. Il principe saudita Mohammed bin Salman, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente Usa Joe Biden stanno conducendo trattative non più così segrete in vista di un grande patto che disegna un nuovo Medio Oriente in cui dialogo politico e cooperazione economica metteranno a tacere gli antichi odi. Ma sarà davvero così? Ecco cosa scrive l’Economist in un approfondimento uscito nell’ultimo numero.

• Accordo in fieri?
  Si moltiplicano, scrive il settimanale britannico, i segnali diretti e indiretti di un accordo in fieri tra due Paesi ex nemici come Arabia Saudita e Israele.
   In una rara intervista televisiva andata in onda lo scorso 20 settembre, il primo ministro saudita nonché erede al trono Mohammed bin Salman (Mbs) ha riconosciuto che un’intesa è alle porte: “ogni giorno ci avviciniamo di più. Sembra che per la prima volta sia vero, serio” ha dichiarato.
   Due giorni dopo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato che le due nazioni sono prossime a un accordo che, ha sottolineato, rappresenterebbe “un salto quantico” verso un nuovo Medio Oriente.

• Marcia di avvicinamento
  È da tempo che procede la marcia di avvicinamento. Sebbene nessuno lo abbia confermato, pare proprio che Mbs e Netanyahu si siano incontrati almeno una volta. Ad avvicinare i due Paesi è, tra le altre cose, il nemico comune iraniano, minaccia strategica per entrambi.
   È anche per questo motivo che nel 2020, quando furono firmati i primi accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e alcuni paesi arabi, furono in molti a pensare che fosse arrivato il momento del disgelo tra Gerusalemme e Riad.
   Così non è stato, anche se oggi gli incentivi per un accordo sono ancora maggiori. Con esso i sauditi otterrebbero ciò che più desiderano, ossia forgiare una nuova alleanza strategica con quegli Usa accusati di disimpegnarsi dalla regione e di tendere all’appeasement con gli ayatollah.
   Lo spettro del nucleare iraniano spinge così il regno a cercare un vero e proprio patto di difesa con l’America formalizzato e sigillato.

• Nucleare saudita?
  Già si vocifera che Washington, in vista di questo patto, voglia venire incontro ai sauditi autorizzando questi ultimi a sviluppare un programma nucleare anche se, come ha rivelato il Wall Street Journal, con impianti gestiti dagli americani su suolo saudita.
   Sebbene il programma sarebbe solo per scopi civili, la clausola non scritta è che, se l’Iran si doterà della bomba, il Regno farà altrettanto. Come Mbs ha ammesso nella già; citata intervista televisiva, “se loro ne ottengono una, noi dobbiamo averne una”.

• Effetti sulla campagna elettorale Usa 2024
  Una nuova architettura della sicurezza in Medio Oriente in cui Arabia Saudita e Israele collaborano da partner e gli Usa fungono da garante esterno sarebbe per Joe Biden uno straordinario risultato da sbandierare nella stagione elettorale che si è ormai aperta in America.
   E sarebbe proprio un bel paradosso per un presidente che nella precedente campagna elettorale aveva promesso di trattare i sauditi “da paria quali sono” a causa del brutale omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi ordinato, a quanto pare, da Mbs.
   Ma il clamore per quel fatto di sangue ha ormai lasciato il posto a una Realpolitik che indica come meta a portata di mano un grande patto con cui gli Usa, incatenando a sé per i decenni avvenire i Paesi del Medio Oriente, otterrebbero tre risultati: prevenire  una della regione caduta nella sfera d’influenza cinese, calmare i mercati dell’energia ed esercitare la massima deterrenza nei confronti dell’Iran.

• E i palestinesi?
  Ma prima di urlare bingo, avverte l’Economist, bisogna considerare alcuni ostacoli. Nonostante si tratti di una monarchia assoluta, anche l’Arabia Saudita deve tener conto di un’opinione pubblica in cui solo il 2% delle fasce giovanili si dice a favore della normalizzazione delle relazioni con Israele, contro rispettivamente il 75 e il 73% di quelle di due Paesi che riconoscono già lo Stato ebraico come Emirati Arabi Uniti ed Egitto.
   È anche per questo motivo che i sauditi hanno ripreso a battere con insistenza l’antico tasto della questione palestinese. Negli ultimi mesi, segnala la rivista, alcuni funzionari palestinesi hanno fatto la spola con la capitale saudita con cadenza quasi settimanale, a segnalare il rinnovato interesse saudita per una causa che fa ancora battere i cuori arabi.
   Tuttavia nell’intervista televisiva Mbs non ha menzionato il piano di pace saudita del 2002 che prevedeva l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i corollari, ma ha fatto solo vaghi riferimenti alla necessità di assicurare “una buona vita” al popolo palestinese.

• Il vincolo interno di Netanyahu
  La vaghezza di Mbs si spiega, secondo l’Economist, con i vincoli interni di Netanyahu, leader di una coalizione che include quei partiti religiosi dei coloni ebrei della West Bank che sono contrari a qualsiasi concessione ai Palestinesi.
   Anche il Presidente palestinese Abbas sembra aver capito che i sauditi non spingeranno più per la costituzione di uno Stato palestinese quale precondizione per il riconoscimento di Israele.
   Visto l’oltranzismo dei coloni e dei loro potenti rappresentanti di cui Netanyahu è di fatto ostaggio, l’unico obiettivo davvero a portata di mano è fermare ogni nuovo insediamento e strappare maggiore autonomia per la Cisgiordania.

• L’opportunità
  Ma siccome anche questo modesto progresso rischia di far saltare la maggioranza su cui poggia il governo Netanyahu, ecco profilarsi la succulenta contropartita di un accordo storico con l’Arabia Saudita che convincerebbe i partiti centristi finora rifiutatisi di entrare nell’esecutivo a unirsi a Bibi.

• Un nuovo Medio Oriente
  Gli astri insomma sembrano allinearsi e la prospettiva di un rinascimento mediorientale che archivi i passati odi per schiudere le porte a una nuova stagione di dialogo e cooperazione non è mai stata così concreta come oggi.

(START Magazine, 30 settembre 2023)z

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La Germania formalizza con Israele l’acquisto del sistema di difesa antimissile Arrow 3

I Ministri della Difesa Tedesco ed Israeliano hanno sottoscritto un accordo di collaborazione per l’immissione in servizio del sistema di difesa antimissile Arrow 3 nelle fila della Bundeswehr. 

di Aurelio Giansiracusa

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La Germania, a seguito della guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, ha varato tutta una serie di programmi tesi ad ammodernare e potenziare le Forze Armate Tedesche in alcuni casi gravemente lacunose.
   La difesa antiaerea ed antimissile è divenuta una delle principali aree di intervento del Governo e della Bundeswehr alla luce dei gravi accadimenti in Ucraina e Russia.
   A tal fine sono stati finanziati ed attivati diversi programmi per coprire le esigenze di difesa aerea ed antimissile tattica e strategica, avviando l’acquisto delle batterie IRIS-T SLM, ammodernando e potenziando i sistemi Patriot e selezionando il sistema israelo-statunitense Arrow 3 come perno della difesa anti missili balistici a medio e lungo raggio.
   Il Governo di Berlino ha avviato colloqui esplorativi con gli omologhi israeliano e statunitense, ed avendo ottenuto il via libera da Washington, ha serrato le trattative con Israele per chiudere la trattativa.
   Grazie a questo accordo di collaborazione, il sistema Arrow tedesco sarà rapidamente disponibile e si prevede di raggiungere la capacità operativa iniziale già alla fine del 2025. Tra Berlino e Tel Aviv si stringe un’importantissima collaborazione militare e politica; per Israele la vendita del sistema Arrow 3 rappresenta il successo di vendita più importante fin qui registrato dal suo comparto industriale e militare e la collaborazione con la Germania apre altre possibilità di partnership e di vendite in ambito europeo e NATO, aree nella quali la presenza israeliana negli ultimi anni è divenuta fortissima.
   Dal punto di vista politico è un successo di dimensioni epocali per il Governo di Tel Aviv perché ad un sistema progettato e prodotto in Israele (e Stati Uniti) è affidato il delicatissimo compito di difendere il cuore dell’Europa e della NATO dalla minaccia missilistica balistica.
   L’Arrow 3 servirà a proteggere le infrastrutture critiche e sarà integrato nello scudo protettivo della NATO. ed anche nell’iniziativa europea Sky Shield (ESSI) di cui costituirà uno dei principali bastioni difensivi.
   Allo stato attuale, l’Arrow 3 è l’unico sistema occidentale in grado di intercettare i missili balistici al di fuori dell’atmosfera terrestre. Il sistema d’arma è costituito da un posto di comando, sensori radar, lanciatori con quattro missili guidati ciascuno ed altri dispositivi periferici. È sviluppato e prodotto congiuntamente dalla Israel Missile Defense Organization (IMDO) e dalla United States Missile Defense Agency ( MDA).
   Il sistema sarà gestito dalla Luftwaffe come avviene per i Patriot ed avverrà a breve per le batterie da difesa aerea a corto raggio IRIS-T SLM.
   Il missile guidato Arrow-3 può intercettare una testata in arrivo (veicolo di rientro) con un colpo diretto, il cosiddetto principio “hit- to- kill”. Il missile nemico non è distrutto da un’esplosione, ma dall’energia cinetica d’impatto di un colpo diretto grazie al sofisticato sistema di guida che permette al Arrow-3 di intercettare il bersaglio con estrema precisione.

(Ares Osservatorio Difesa, 30 settembre 2023)

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Quegli ebrei salvati dai Di Giorgio: "Livorno non dimentica il coraggio"

L’avvocato Luciano Barsotti guida la Fondazione che nel prossimo gennaio ospiterà la personale del pittore "Importantissimo anche il lavoro svolto a Viareggio a favore delle persone diversamente abili".

di Maria Nudi

VIAREGGIO - Avvocato. Presidente della Fondazione Livorno dal 2020, al secondo mandato. Livornese, appassionato d’arte nel senso più ampio del termine, appassionato di cultura. Luciano Barsotti ha reso la sede della Fondazione Livorno, nel palazzo ex Cassa di Risparmio una galleria d’arte. Una parte del terzo e il quarto piano ospita opere di grande pregio, un’autentica collezione declinata in forma diverse: pitture, sculture, disegni, incisioni e stampe antiche. È nel fascino artistico di quei locali che saranno esposte le opere del pittore Giorgio Di Giorgio e tre del nonno Ettore.

- Qual è la missione della Fondazione?
  "La Fondazione ha sempre creato e valorizzato l’arte. Nel tempo ha creato una progettazione artistica ospitando mostre e partecipando alla cultura della città in collaborazione con l’amministrazione comunale allestite in luoghi loro stessi simbolo di cultura come Villa Mimbelli e il Museo della Città. Inoltre ha assunto un ruolo maggiore di promozione dell’arte: ricordo i seminari con studenti degli atenei di Pisa e Firenze che hanno approfondito lo studio della nostra collezione, in particolare quello divisionista e novecentesco con i post-macchiaioli".

- Come si inserisce in questo percorso la mostra di Giorgio Di Giorgio?
  "Mi permetta di ringraziare la redazione de La Nazione di Viareggio che ha segnalato la mostra che il pittore per altro del Novecento ha fatto con gran successo a Pietrasanta che è stata sostenuta anche dalla Fondazione Banca del Monte di Lucca. Abbiamo accolto il progetto di portare una parte dei quadri del pittore a Livorno. Grazie anche alla famiglia. Di Giorgio ha legami con Livorno: penso al tema del mare inteso come risorsa, come luogo di lavoro, quindi la portualità, ma penso anche al mare nella declinazione più moderna che è rappresentata dai migranti".

- Mare, pinete, accoglienza e inclusione sono temi dell’artista?
  "Certo faccio riferimento al periodo che la famiglia del pittore ha vissuto a Livorno, alle visite di Di Giorgio a Villa Mimbelli. Penso anche all’accoglienza che la famiglia ha fatto a alcune famiglie ebree. Di fatto salvandole. E penso al lavoro che il pittore ha fatto a Viareggio per le persone con disabilità. Altro particolare Di Giorgio con una lettura personale appartiene al ’900".

(LA NAZIONE, 30 settembre 2023)

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Il sindaco di Gerusalemme invita a visitare la Capanna più grande del mondo

Le capanne di foglie dominano la scena stradale in Israele in questi giorni. Un esemplare insolitamente grande è messo a disposizione dal sindaco di Gerusalemme.

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La città di Gerusalemme sostiene di aver costruito la Capanna più grande del mondo. L'ospite è il sindaco Moshe Lion (Yerushalayim Shelanu). Durante la settimana della Festa delle Capanne (Sukkot), sono previsti eventi festivi e culturali. È previsto anche un programma per le famiglie. L'ingresso è gratuito.
   La sukkah in piazza Safra, vicino all'angolo nord-occidentale della Città Vecchia, copre una superficie di 800 metri quadrati. 650 ospiti possono essere presenti contemporaneamente, scrive il sito di notizie "News1". Sulle pareti ci sono versetti biblici su Gerusalemme e immagini della città. Negli anni precedenti, il Comune aveva già messo a disposizione una grande capanna di foglie.
   La festa di Sukkot inizia il 15° giorno del mese di Tishrei, due settimane dopo Rosh HaShanah, il nuovo anno. Quest'anno l'inizio cade di venerdì sera.

Ricordo della peregrinazione nel deserto
  Sukkot commemora il fatto che, secondo la Bibbia, il popolo d'Israele visse in tende per 40 anni durante la migrazione nel deserto dopo l'esodo dall'Egitto. Per questo motivo, gli ebrei trascorrono per una settimana il maggior tempo possibile in capanne, che costruiscono e decorano con fantasia a questo scopo.
   Utilizzando un vecchio modo di contare i mesi, la Bibbia dice:

    "Il quindicesimo giorno di questo settimo mese è la festa delle Capanne per il Signore, lunga sette giorni. Il primo giorno ci sarà una santa convocazione; non farete alcun lavoro di servizio. Per sette giorni offrirete sacrifici al fuoco al Signore. L'ottavo giorno avrete di nuovo una convocazione sacra e offrirete al Signore sacrifici fatti col fuoco. È un'assemblea festiva; non farete alcun lavoro di servizio" (Deuteronomio 23:34-36).

Gioia dopo i giorni di pentimento
  Sukkot segue direttamente i dieci "giorni terribili” di pentimento che iniziano l'anno ebraico - cinque giorni dopo il Grande Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur. L'attenzione è concentrata sulla gioia. Ad esempio, Deuteronomio 16:14 dice:

    "Gioirete alla vostra festa, voi e vostro figlio, vostra figlia, il vostro servo, la vostra serva, il levita, lo straniero, l'orfano e la vedova che sono nella vostra città".
Per questo motivo è comune anche l'espressione "Sman Simchateinu" (tempo della nostra gioia). Il collegamento con il tempo del pentimento dimostra che nell'ebraismo il timore di Dio e la gioia si completano a vicenda.
   Inoltre, Sukkot è una festa di ringraziamento per il raccolto di frutta e la vendemmia. Un altro nome è "Festa della raccolta". Per questo Dio comanda in Esodo 23:39:
    "Il quindicesimo giorno del settimo mese, quando raccoglierete i frutti della terra, farete una festa al Signore per sette giorni. Il primo giorno è un giorno di riposo e anche l'ottavo giorno è un giorno di riposo".

Bouquet della festa con "quattro specie"
  Un'importante usanza di Sukkot è quella delle "quattro specie". Ogni uomo deve legare un ramo di palma, tre rami di mirto e due rami di salice di ruscello in un bouquet festivo. La quarta specie è l'etrog, un agrume. Ogni giorno, tranne lo Shabbat, gli ebrei pronunciano una benedizione su di esso: "Lode a Te, Eterno, nostro Dio, Re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi comandamenti e ci hai ordinato di prendere il bouquet festivo!".
   L'usanza può essere fatta risalire a questo passo biblico:

    "Il primo giorno prenderai frutti da alberi belli, fronde di palma e rami di alberi decidui e salici di ruscello, e ti rallegrerai davanti al SIGNORE tuo Dio per sette giorni, e farai la festa al SIGNORE ogni anno per sette giorni. Questa sarà un'ordinanza perpetua tra i vostri discendenti, che celebreranno così nel settimo mese".
Questo è ciò che dice Esodo 23:40-41 a proposito della festa delle Capanne.
   All'epoca dei due Templi di Gerusalemme, Sukkot era la terza grande festa di pellegrinaggio dopo la Pasqua e la Festa delle Settimane di Shavuot. Per tutta la settimana della festa, gli ebrei includono la preghiera dell'Hallel, il grande inno di lode, nella preghiera del mattino. In sinagoga si svolge ogni giorno una processione intorno al leggio (bima) con il bouquet festivo e l'etrog, e l'ultimo giorno si svolge per sette volte.

Le stelle devono essere visibili
  Chi costruisce una capanna  osserva alcune regole: Deve avere almeno tre pareti. Il tetto deve essere fatto di rami. Nella sukkah deve esserci più ombra che sole e le stelle devono essere visibili. Molte case in Israele hanno balconi sfalsati perché la sukkah non può essere costruita sotto un unico tetto.
   Nei climi freddi, è sufficiente consumare i pasti nella capanna di foglie, a meno che non ci siano condizioni climatiche molto difficili. Chi intraprende un viaggio e non ha a disposizione una sukkah è esonerato da questo obbligo. Le donne non sono tenute a sedersi nella capanna, ma possono, come gli uomini, pronunciare la benedizione appropriata quando dicono: "Lode a Te, Eterno, nostro Dio, Re del mondo, che ci hai santificato con i suoi comandamenti e ci hai ordinato di abitare nella capanna”.
   Secondo le istruzioni bibliche, nello Stato ebraico di Israele il primo giorno della festa è un giorno festivo. In seguito, ci sono dei semi-festivi. Gli scolari sono in vacanza, i negozi sono aperti per un periodo più breve rispetto ai normali giorni lavorativi. L'ottavo giorno - quest'anno il 17 ottobre - è la festa finale, Shemini Atzeret. In Israele coincide con Simchat Torah, la festa del giubilo per la Torah. È anche una festa di Stato. Gli ebrei della diaspora celebrano Simchat Torah un giorno dopo Shemini Atzeret.

Inizia la preghiera per la pioggia
  Un altro nome di Sukkot è "Festa dell'acqua". Secondo la tradizione ebraica, l'ultimo giorno della Festa delle Capanne, Dio decide finalmente la quantità di pioggia per la prossima stagione delle piogge. In questo giorno, gli ebrei iniziano a pregare quotidianamente per la pioggia. Per tutta l'estate chiedono a Dio la rugiada.
   Fino alla distruzione del Secondo Tempio, veniva fatta un'offerta di acqua. Gesù riprende questa tradizione quando visita il Tempio di Gerusalemme per la Festa delle Capanne:

    "Ma nell'ultimo giorno, il più alto della festa, Gesù si alzò e gridò: 'Se qualcuno ha sete, venga a me e beva! Chi crede in me, dal suo corpo, come dice la Scrittura, sgorgheranno fiumi di acqua viva". Ma questo lo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che credevano in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora arrivato, perché Gesù non era ancora glorificato" (Giovanni 7:37-29).

(Israelnetz, 29 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Presentata al Museo Ebraico “La cucina della dolcezza nella tradizione giudaico romanesca”

di Luca Spizzichino

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La tradizione giudaico-romanesca di nuovo protagonista della vita culturale della città di Roma con "La cucina della dolcezza nella tradizione giudaico romanesca", presentata ieri al Museo Ebraico di Roma. Il progetto, a cura di Ariela Piattelli, Raffaella Spizzichino e Marco Panella, è il frutto della collaborazione tra la Comunità Ebraica di Roma con ARSIAL (l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio) che da oltre un decennio assieme dedicano un focus alla promozione della cultura e alle diverse tradizioni della cucina degli ebrei di Roma. Quest’anno l’attenzione si è concentrata sulla storia e la preparazione dei dolci tradizionali di origine ebraico romana e tripolina.
   Hanno partecipato tra gli altri il presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, il Rabbino Capo Riccardo di Segni, il ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida, l’Assessore all’Agricoltura della Regione Lazio Giancarlo Righini, il commissario ARSIAL Massimiliano Raffa, Luciano Ciocchetti, vice presidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, Massimiliano Maselli, Assessore ai Servizi Sociali della Regione.
   Dopo la presentazione del progetto da parte dei curatori, che hanno illustrato anche i contenuti di una guida che comprende ricette di dolci tipici giudaico romaneschi e tripolini, oltre che un testo di Sandro Di Castro ove vi si ricostruisce la straordinaria storia di alcuni piatti tipici basandosi su testi antichi, è intervenuto il Presidente Fadlun, che ha sottolineato l’importanza del patrimonio e della collezione del Museo Ebraico di Roma: “Il Museo Ebraico rappresenta l’orgoglio della nostra Comunità - ha detto Fadlun, - racconta la storia della nostra città, che per gli ebrei era aperta, nonostante fossero chiusi all’interno del Ghetto. Il museo custodisce oggetti speciali, perché testimoni degli influssi sefarditi e ashkenaziti che si sono amalgamati con l’arte romana, e che qui trovano un punto d’incontro”.
   “Il cibo è un punto di incontro straordinario - ha sottolineato l’assessore all’Agricoltura della Regione Lazio Righini -. La tradizione giudaico-romanesca appartiene alla storia della nostra nazione”.
   “La grande virtù della cucina giudaico-romanesca è stata quella di aver trasformato piatti essenziali in qualcosa di eccezionale e che oggi fanno parte del patrimonio della cucina romana” ha affermato il ministro Lollobrigida. “Abbiamo voluto proporre la cucina italiana coma patrimonio immateriale dell’UNESCO, perché la nostra cucina racconta non solo il prodotto, ma racconta l’identità, la ricerca e la contaminazione tra culture differenti che in Italia si sono incontrate in un crogiolo positivo”, ha concluso il ministro che ha conferito infine una targa al progetto.

(Shalom, 29 settembre 2023)

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Israele: nuovo braccio di ferro Corte Suprema - governo Netanyahu

I giudici esaminano la legge sulla rimozione di un premier 'incapacitato'

TEL AVIV - In un nuovo sviluppo del confronto in corso da mesi fra il governo israeliano e il potere giudiziario, 11 giudici della Corte Suprema sono impegnati oggi a esaminare i ricorsi contro un emendamento a una legge fondamentale che riguarda le modalità con cui sarebbe possibile dichiarare "incapacitato" un primo ministro.
   L'emendamento - approvato a marzo alla Knesset - rileva che in passato c'era in merito una lacuna e stabilisce che una eventuale dichiarazione di "incapacità" potrebbe essere collegata soltanto a ragioni gravi di salute.
   Anche allora la rimozione di un premier in carica necessiterebbe l'assenso di tre quarti dei ministri e di due terzi dei deputati.
   Ma nei ricorsi presentati alla Corte Suprema è stato sostenuto che quell'emendamento sarebbe stato "confezionato su misura" per proteggere Benyamin Netanyahu, che è sotto processo per corruzione e frode. "Si tratta di una legge di carattere personale - ha sostenuto l'ex ministro Avigdor Lieberman nel presentare uno dei ricorsi - che va annullata, o quanto meno rinviata alla prossima legislatura". Di parere opposto un avvocato di fiducia del premier secondo cui i giudici "non hanno il potere di annullare una legge fondamentale" e nemmeno quello di rinviarne la applicazione.
   Due settimane fa 15 giudici della Corte Suprema erano stati convocati per discutere lo stesso principio, esaminando i ricorsi contro la abolizione di fatto della cosiddetta "clausola di ragionevolezza", cosa che limiterebbe le prerogative del potere giudiziario.
   Il ministro della giustizia Yariv Levin (Likud), principale teorico della riforma giudiziaria intrapresa dal governo Netanyahu, ha scritto su X (ex twitter) che la udienza odierna alla Corte Suprema "significa di fatto una discussione sull'annullamento dell'esito delle elezioni. Coloro i quali hanno presentato ricorsi vogliono estromettere Netanyahu per por fine al governo di destra". "La Corte Suprema pretende di interferire su una Legge fondamentale senza averne alcuna autorità. Si pone così sopra il governo, sopra il parlamento, sopra il popolo e sopra la legge. Questa - ha concluso Levin - non è democrazia". Furiosa la reazione del movimento di protesta 'Forza Kaplan' che ha accusato a sua volta Levin di condurre "un putsch giudiziario".
   Il dibattito alla Corte Suprema è trasmesso interamente in diretta dalle emittenti nazionali. La sentenza dei giudici sarà pubblicata entro gennaio.

(ANSAmed, 29 settembre 2023)

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Israele: il 37% pronto ad emigrare per la riforma giudiziaria imposta dal governo Netany

Secondo un recentissimo sondaggio condotto dal Jewish People Policy Institute (JPPI) circa il 37% degli israeliani attualmente possiede o intende acquisire un passaporto straniero con l’intenzione di emigrare a seguito della grave crisi in cui è piombato il paese da quando la coalizione di estrema destra, guidata da Benjamin Netanyahu, ha deciso di modificare l’assetto giudiziario limitando i poteri di controllo della Corte suprema.
  Ma oltre questa questione, altri motivi di profonda divisione sono anche quelli relativi ai rapporti tra religione e stato e ai gravi motivi di tensione nati tra i diversi gruppi di immigrati ebrei provenienti da diverse parte del mondo. Inoltre, influiscono anche il disagio sociale di cui parla oramai il 32% degli intervistati. E questo disagio è indicato anche da una discreta parte dei sostenitori di Netanyahu che danno segno di una crescente insoddisfazione.
  The Jerusalem Post ricorda poi i risultati di un altro sondaggio condotto tra gli ebrei americani dal quale emerge uno “stato d’ansia” in relazione alla crisi politica e sociale di Israele.

(politicainsieme.com, 29 settembre 2023)

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Attenzione, cristiani! Il sindaco prende di mira i "missionari”

Il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King avverte in un video che il "sionismo cristiano" è un lupo travestito da agnello.

di Ryan Jones

Per decenni, migliaia di amici cristiani di Israele hanno partecipato alla Marcia di Gerusalemme, che si svolge ogni anno durante la biblica Festa delle Capanne, Sukkot.
   Lo fanno in previsione di Zaccaria 14:16, che afferma:

    "E avverrà che tutti i superstiti di tutte le nazioni che sono venute contro Gerusalemme saliranno di anno in anno per adorare il Re, il Signore degli eserciti, e per celebrare la Festa delle Capanne“.

Cristiani alla marcia di Gerusalemme durante la biblica Festa delle Capanne
Lo fanno anche nel rifiuto della teologia della sostituzione e di secoli di maltrattamento cristiano del popolo ebraico, e come parte di un più ampio ritorno alle radici ebraiche della loro fede.
   Ma laddove la maggior parte degli israeliani oggi vede con gratitudine un alleato naturale, se non un compagno di fede, il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King vede il pericolo mortale in una nuova e sofisticata camuffamento.
   In un post su Facebook, ieri King ha esortato i residenti ebrei di Gerusalemme a non lasciare che i loro figli partecipino o vaghino senza controllo intorno alla marcia prevista per mercoledì prossimo.
   King ha scritto:

    "Tra le decine di migliaia di marciatori ci saranno diverse centinaia e forse anche più di missionari cristiani che vengono con l'esplicito scopo di contattare gli ebrei per diffondere la loro religione".
    "Per senso di responsabilità nei confronti di ciascuno dei miei fratelli ebrei, vi avverto di non mandare i vostri figli alla marcia da soli. Non cadete nella trappola al miele usata dai missionari [come p.es.  gli aiuti a Israele].
    "Devo anche sottolineare che ci saranno molti cristiani che marceranno senza intenzioni missionarie e senza intenzioni negative, quindi non prendete come una cosa negativa il contatto con i non ebrei durante la marcia. Ma per quanto riguarda le partecipanti organizzazioni missionarie, vi preghiamo di stare attenti e di aguzzare la vista. Useranno qualsiasi mezzo per contattare ebrei volenterosi e raccogliere da loro informazioni personali, con cui poi cercheranno di stabilire un rapporto personale che potrà portare a un pericoloso scivolamento”.

Come già detto, molti israeliani, se non la maggior parte, oggi considerano i cristiani evangelici (che costituiscono la maggior parte dei partecipanti alla marcia) come amici e alleati. Pertanto, King ha incoraggiato i suoi seguaci a guardare un breve video (in ebraico) che spiega perché i cosiddetti "sionisti cristiani" dovrebbero in realtà essere considerati lupi travestiti da agnelli.
   Nel video, una voce femminile chiede:

    "A Rosh Hashanah ci siamo alzati e abbiamo proclamato il Santo come Re su di noi e sul mondo intero. Ora, due settimane dopo, possiamo vedere i cristiani che proclamano Gesù come Re, e dalla nostra città santa di Gerusalemme?".

Nel video, l'autrice insiste che la risposta è "no" e che è dovere di tutti gli ebrei "informati" agire per proteggere la massa di ebrei "ingenui" che parteciperanno fianco a fianco con i cristiani alla marcia di Gerusalemme.
   Come "prova" del fatto che i cristiani sionisti rappresenterebbero una minaccia per il popolo ebraico, il video ricorda un incidente avvenuto alla fine di Shavuot (Pentecoste) sulla scalinata sud del Monte del Tempio a Gerusalemme.
   In quell'occasione, un gruppo di attivisti religiosi ebrei, composto da diverse centinaia di persone, ha protestato contro i turisti evangelici che si erano recati sul Monte del Tempio per una grande funzione cristiana. Ne seguirono vere e proprie molestie.
   Anche Aryeh King è stato coinvolto in questa azione.
   "Questa è una protesta contro coloro che hanno permesso ai missionari cristiani di tenere una cerimonia di culto cristiano in preparazione di un lavoro missionario diretto contro gli israeliani, e contro i missionari", ha detto King. "Per quanto mi riguarda, voglio che tutti i missionari sappiano che non sono i benvenuti nella terra di Israele".
   La protesta ha coinciso con la fine del periodo di 21 giorni di preghiera e digiuno "Isaia 62" tenuto dai cristiani di tutto il mondo per Israele.
   Alcuni gruppi religiosi ebraici si sono arrabbiati perché gli organizzatori del digiuno “Isaia 62” lo hanno definito come una campagna "per l'aumento delle promesse di salvezza e dei piani di Dio per Gerusalemme e Israele". L'hanno interpretato come un tentativo "missionario" di "convertire" gli ebrei.
   Il deputato dell'opposizione ed ex ministro degli Affari religiosi, Matan Kahana, si è poi scusato in una dichiarazione pubblicata da All Israel News: "Alcuni giorni fa, alcuni estremisti hanno gridato contro un gruppo di visitatori dei luoghi santi. Vorrei sottolineare che è controproducente gridare contro persone che sono grandi sostenitori di Israele. Vorrei cogliere l'occasione per scusarmi a nome della Knesset per questo comportamento".
   Kahana, che è un ebreo religioso, aveva precedentemente parlato ai media israeliani dei suoi incontri con i cristiani evangelici e dell'importanza di queste relazioni per Israele. "Ho avuto un incontro molto importante con i cristiani e gli evangelici che sostengono Israele", ha detto in un'intervista all'emittente pubblica israeliana Kan mentre si trovava negli Stati Uniti a maggio. "Si tratta di una relazione strategica molto importante per lo Stato di Israele - 70 milioni di entusiasti sostenitori del Paese".

(Israel Heute, 29 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il 90 per cento degli studenti ebrei in Francia vittima di attacchi. Numeri da esilio

di Giulio Meotti

ROMA - Nove studenti su dieci in Francia sono stati vittime dell’antisemitismo. Secondo un sondaggio Ifop pubblicato su Le Parisien, il 91 per cento degli studenti ebrei in Francia è già stato vittima di un atto antisemita durante il percorso scolastico. Il sette per cento di un’aggressione fisica. Un altro fenomeno attira particolarmente l’attenzione. Gli studenti intervistati affermano di temere “atti e violenze da parte dell’estrema sinistra” (83 per cento). Accusano direttamente Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra radicale, “di non lottare contro questo flagello, senza dubbio per clientelismo elettorale”. Per Frédéric Dabi, dell’Ifop, c’è “una rottura storica nella percezione della minaccia avvertita dagli ebrei di Francia. Prima le preoccupazioni provenivano da Jean-Marie Le Pen. Oggi da Mélenchon”. Poi c’è l’islamismo. A Bondy, due studenti che indossavano la kippah sono stati picchiati con bastoni e sbarre di metallo. A Marsiglia, un insegnante ebreo è stato aggredito a colpi di machete da uno studente del liceo che diceva di voler “decapitare un ebreo”. L’uomo si è protetto con la Torah che teneva in mano.
   Su Le Figaro, lo storico Georges Bensoussan racconta quanto sta accadendo agli ebrei di Francia: “Per motivi di sicurezza, i bambini ebrei hanno abbandonato massicciamente l’istruzione pubblica. Nei quartieri c’è un clima che ricorda le peggiori memorie del Maghreb ebraico. E’ una sconfitta francese e non una sconfitta ebraica, perché l’intera società francese è minacciata da ciò che minaccia oggi gli ebrei. Per i discendenti di ebrei che hanno lasciato il mondo arabo, l’antisemitismo delle banlieue è ancora una volta un incubo. Così, la Seine-Saint-Denis ha perso l’80 per cento della sua popolazione ebraica in venti anni”. Il rabbino capo di Francia Haïm Korsia ha rivelato: “Non c’è quasi più nessun ebreo nelle scuole pubbliche di Seine-Saint-Denis”.
   Ma non è soltanto un male francese. Quando, in una scuola secondaria di Bruxelles, Sarah non si è più presentata, non ci sono state manifestazioni o petizioni per conoscere i motivi della sua assenza. Era l’ultima allieva ebrea dell’Atheneum Emile Bockstael. Una bambina ebrea di seconda elementare della scuola Paul Simmel, nel quartiere Tempelhof-Schöneberg di Berlino, è stata aggredita perché “non crede in Allah”. “Sconsigliamo vivamente di passeggiare con una kippah in testa o una stella di David visibile”, ha detto Jan Hansen, il direttore della Carolina di Copenaghen, una scuola ebraica. Stessi scenari ovunque in Europa.
   In vent’anni, più del 20 per cento degli ebrei francesi ha lasciato il paese. Secondo un sondaggio, il 40 per cento di chi resta vuole andarsene. Nel 1977 in Francia c’erano 700 mila ebrei. Da allora si sono dimezzati. Negli ultimi dieci anni, “60 mila dei 350 mila ebrei hanno lasciato l’Ile-de-France”, ha denunciato Sammy Ghozlan, presidente del Bureau national de vigilance contre l’antisémitisme. Ghozlan oggi vive a Netanya, sulla costa israeliana, nota anche come la “riviera francese”.

Il Foglio, 29 settembre 2023)

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Sabato primo giorno di Sukkòt: puliti dai peccati

di Donato Grosser

Le mitzvòt delle feste ebraiche appaiono nella parashà di Emòr nel terzo libro della Torà. In questa parashà  la sezione che tratta delle feste inizia con la festa di Pèsach, prosegue con Shavu’ot e poi continua con Rosh Ha-Shanà e Kippur. La festa di Sukkòt nella Torà è considerata l’ultima festa dell’anno poiché gli anni del popolo d’Israele venivano contati dal mese di Nissàn, quando uscirono dall’Egitto. 
            Nella Torà è scritto: “L’Eterno parlò a Moshè, dicendo: Parla ai figliuoli d’Israele, e dì loro: Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne, durante sette giorni, in onore dell’Eterno. Il primo giorno vi sarà una santa convocazione; non farete alcuna opera servile” (Vaykrà, 23: 33-35). Qualche versetto più avanti sono descritte le mitzvòt specifiche alla festa di Sukkòt: “Il primo giorno prenderete un frutto dell’albero del cedro (etròg); rami di palma (lulàv), rami dell’albero della mortella (hadàs) e rami di salice (‘arvè nàchal) e vi rallegrerete dinanzi all’Eterno, vostro Dio per sette giorni” (ibid., 40). E anche: “Risiederete nelle capanne per sette giorni; ogni cittadino d’Israele risieda nelle capanne, affinché i vostri discendenti sappiano che io feci dimorare in capanne i figliuoli d’Israele, quando li trassi fuori dal paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, vostro Dio” (ibid., 42-43).
            Se il primo giorno di Sukkòt cade di sabato, non si prende il lulàv e le altre tre specie perché, come insegnato nel Talmud babilonese (Rosh Ha-Shanà, 29b), i Maestri istituirono la proibizione per evitare che qualche ebreo poco colto, si dimenticasse che di Shabbàt è proibito trasportare qualunque cosa nel dominio pubblico e trasgredisse una mitzvà della Torà trasportandolo per la strada. Meglio quindi sospendere la mitzvà per evitare che il popolo commetta trasgressioni. La mitzvà  di risiedere nella sukkà invece non presenta questo rischio è vale per tutti i sette giorni della festa, anche di sabato. 
            R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 455) si sofferma sulle parole “Il primo giorno prenderete” e cita il Midràsh Tanchumà (Emòr, 22) nel quale i Maestri osservano che è strano che la Torà usi le parole “primo giorno”, quando in effetti la festa di Sukkòt cade nel quindicesimo giorno del mese di Tishrì. Qual è quindi il significato di questo “primo giorno”? Dicono i Maestri: è il primo giorno nel nuovo conto dei peccati. Infatti a Kippur i peccati degli israeliti sono stati espiati e cancellati. E nei quattro giorni tra Kippur e Sukkòt si è occupati nella preparazione delle mitzvòt del lulàv e delle altre specie e nella costruzione della sukkà. Non c’è quindi tempo per commettere trasgressioni! 
            In un altro Midràsh (Yalkùt Shim’onìEmòr, 653) i Maestri spiegano perché la mitzvà di risiedere nella sukkà avviene dopo il giorno di Kippur. Se il verdetto divino è stato che gli israeliti devono lasciare le loro case e andare in esilio, questa punizione viene soddisfatta andando “in esilio” dalla propria casa e andando ad abitare nella sukkà.  
            Riguardo alla festa di Sukkòt è scritto:  “e vi rallegrerete dinanzi all’Eterno, vostro Dio per sette giorni”. R. Elyashiv spiega che la principale felicità (simchà) della festa di Sukkòt deriva dal giorno di Kippur. I nostri antichi sapevano il significato del peccato e come i peccati sono come “una cortina di ferra” tra di noi e il Creatore. Non c’è quindi maggiore “simchà” che quella di sentirsi “puliti”dai peccati. 

(Shalom, 29 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Emor (Parla)

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Da Gerusalemme a Riad

C’è un viavai interessante tra Israele e Arabia saudita. Biden spinge ma c’è chi conta gli ostacoli.

di Fabiana Magrì

GERUSALEMME - A meno di una settimana dal passaggio di testimone su Fox News tra Mohammed bin Salman e Benjamin Netanyahu, per due interviste in cui entrambi i leader hanno espresso grande fiducia nel futuro delle relazioni tra i rispettivi paesi, due delegazioni ufficiali – una saudita e una israeliana – sono entrate, nello stesso giorno, l’una nel paese dell’altra. Viavai che rafforzano l’ottimismo sull’approssimarsi della normalizzazione dei rapporti tra Arabia saudita e Israele, con la determinante e determinata negoziazione degli Stati Uniti di Joe Biden. Martedì l’ingresso in Israele attraverso il valico di Allenby dell’inviato saudita per la Giordania e Gerusalemme est, Nayef al Sadiri, per raggiungere Ramallah e incontrare il presidente Abu Mazen è stato storico, una prima volta dagli Accordi di Oslo, 30 anni fa, con la nascita dell’Anp.
  Sadiri ha presentato le sue credenziali ufficiali alla Muqata’a come “ambasciatore non residente presso lo stato di Palestina e console generale nella città di Gerusalemme”. Ha anche voluto rassicurare Abu Mazen e i palestinesi, mettendo l’accento sul passaggio della rara intervista del principe ereditario saudita alla tv americana in cui Mbs ha sì affermato che “ogni giorno ci avviciniamo” alla normalizzazione dei legami con Israele ma ha anche aggiunto che la questione palestinese resta una parte “molto importante” per una svolta decisiva. L’atteggiamento di Ramallah nei confronti della possibilità di relazioni ufficiali tra Riad e Israele si è ammorbidito negli ultimi mesi, da quando il presidente palestinese ha maturato la consapevolezza che ergersi a ostacolo porta con sé il rischio di vedersi rimosso. Mentre diventare il nodo cruciale nei colloqui – almeno uno dei più spinosi, politicamente – può riservare vantaggi. Proprio parlando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite Abu Mazen ha dichiarato che “chi pensa che la pace possa affermarsi in medio oriente senza che i palestinesi abbiano uno stato, rimarrà deluso”, facendo di fatto un concreto riferimento alla possibilità di un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele.
  Contemporaneamente il titolare del dicastero del turismo, Haim Katz, è stato il primo ministro israeliano a guidare una delegazione ufficiale sul suolo saudita, per partecipare a una conferenza ospitata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per il turismo a Riad. La missione di due giorni è stata annunciata con una nota il cui il ministro ha dichiarato che “il turismo è un ponte tra le nazioni” e che “la cooperazione nel campo del turismo ha il potenziale per unire i cuori e favorire il progresso economico”. Il premier Netanyahu, a New York venerdì scorso, ha detto che Israele è “al culmine” di un accordo storico con l’Arabia Saudita, regno con cui già condivide affari e la preoccupazione per un rivale comune, l’Iran. A indicare una finestra temporale piuttosto imminente, nell’intervista a Fox News Netanyahu ha fornito ulteriori coordinate: “Penso che quando ci sono tre leader e tre paesi che vogliono avidamente un risultato – gli Stati Uniti sotto il presidente Biden, l’Arabia Saudita sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman e Israele sotto il mio premierato –ciò aumenta davvero la possibilità di riuscita”. Ma il triangolo diplomatico non vive in una bolla e le sfide da superare sono a tante latitudini così come dentro casa. Biden rincorre un risultato importante in politica estera in vista delle elezioni presidenziali del 2024 e l’accordo israelo-saudita si inserisce in una competizione globale strategica tra Stati Uniti e Cina, di cui fa parte anche il progetto da lui annunciato a inizio settembre al G20 indiano: l’asse di collegamento infrastrutturale e logistico, marittimo e ferroviario, tra India ed Europa attraverso il medio oriente (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Israele). A Bibi, che dal pulpito di New York ha annoverato questa impresa tra le speranze per il futuro, resta un miracolo da compiere. Conciliare, cioè, le posizioni della destra alla sua destra nella coalizione di governo – che si oppone a qualsiasi concessione ai palestinesi e non molla sulla riforma del sistema giudiziario che continua ad alimentare la spaccatura sociale in patria – e le aspettative dei partner internazionali, gli Stati Uniti in primis, che vedrebbero di buon occhio una coalizione con l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz al posto dei nazionalisti religiosi Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

Il Foglio, 28 settembre 2023)

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Gli israeliani potranno andare negli Stati Uniti senza visto

L’amministrazione Biden ha annunciato mercoledì che consentirà ai viaggiatori israeliani di recarsi negli Stati Uniti senza visto, uno status ambito che è stato concesso in cambio dell’abolizione, da parte del governo israeliano, delle restrizioni di viaggio imposte da tempo ai palestinesi americani e ad altri americani di origine araba e musulmana.
   L’ingresso di Israele nel Visa Waiver Program è stata una priorità assoluta per il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e per il suo predecessore, Naftali Bennett. Il Paese non aveva mai ottenuto l’accesso perché rifiutava l’ingresso a molti palestinesi americani all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, costringendoli a volare in Giordania e poi a viaggiare via terra in Cisgiordania.
   L’amministrazione Biden ha cercato di porre fine a questo trattamento e ha considerato l’accordo sui visti come un banco di prova per uno sforzo molto più grande per mediare un accordo tra Arabia Saudita e Israele che potrebbe essere una pietra miliare nella geopolitica del Medio Oriente. A luglio, Israele ha accettato di aprire l’aeroporto Ben Gurion a tutti gli americani, a prescindere dalla loro origine, nel tentativo di dimostrare che si è impegnato a rispettare la sua parte dell’accordo.
   Da allora, secondo i funzionari statunitensi, decine di migliaia di palestinesi americani sono volati in Israele con successo, ottenendo visti e l’accesso a muoversi nel territorio israeliano come non hanno potuto fare per decenni.
   La politica israeliana “ha spesso sottoposto i cittadini statunitensi di origine palestinese o araba o di fede musulmana a notevoli difficoltà e a un trattamento diseguale”, ha dichiarato un funzionario statunitense ai giornalisti. “Dal 20 luglio, quando Israele ha inizialmente pubblicato le sue indicazioni di viaggio aggiornate, oltre 100.000 cittadini statunitensi, tra cui decine di migliaia di americani palestinesi, sono entrati con successo in Israele senza visto”.

(Rights Reporter, 28 settembre 2023)

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Francia: 9 studenti universitari ebrei su 10 vittima di antisemitismo

Una lezione alla Sorbonne di Parigi
In Francia, durante la loro vita studentesca, il 91% dei giovani ebrei è già stato vittima di un atto antisemita, rivela uno studio Ifop pubblicato giovedì 28 settembre, commissionato dall’Unione degli studenti ebrei di Francia (UEJF). Si va dalle battute antisemite all’aggressione. “L’antisemitismo è la vita quotidiana degli studenti ebrei”, avverte l’UEJF su X (ex Twitter).
   Secondo questo sondaggio, il 7% degli studenti ebrei è già stato vittima di aggressioni fisiche di carattere antisemita, di cui il 3% in più occasioni. Il 43% dichiara di aver già subito un attacco legato a Israele (aggressione fisica, minacce verbali). Poco meno della metà degli studenti ebrei (45%) è stato vittima almeno una volta di un insulto antisemita. Molto spesso, gli studenti ebrei affermano di essere vittime di battute o commenti antisemiti: una battuta “da scolaretto” sulla Shoah o sugli ebrei (80%), un’osservazione che trasmette stereotipi sugli ebrei (89%). Questi atti antisemiti avvengono nei locali dell’università o della scuola (67%), sui social network (32%), nell’ambito di un corso (27%) o anche durante una serata studentesca (24%).

Gli stereotipi persistono
   Gli stereotipi sembrano duri a morire all’università. Così, secondo l’Ifop, il 19% degli studenti ritiene che gli studenti ebrei abbiano più facilità degli altri a pagare le tasse universitarie. Secondo il 18% degli studenti, sarebbe anche più facile lavorare nel settore finanziario o nei media.
   Più della metà degli studenti ebrei (53%) afferma inoltre di osservare un aumento della violenza da parte dell’estrema destra nelle università francesi e l’84% afferma di assistere a un aumento della violenza da parte dell’estrema sinistra nelle università. L’83% degli studenti ebrei ritiene che questa violenza da parte dell’estrema sinistra rappresenti una minaccia significativa per gli studenti ebrei, rispetto al 63% per quanto riguarda la violenza dell’estrema destra.

Più di un terzo nasconde di essere ebreo
   Di fronte a questa constatazione, il 36% degli studenti ebrei intervistati afferma di aver già nascosto il fatto di essere ebreo per paura dell’antisemitismo e il 33% afferma di aver cambiato comportamento dopo essersi confrontato con l’antisemitismo.
   Il 65% degli studenti ebrei ritiene inoltre di non avere informazioni sui mezzi adottati nella propria università o scuola per combattere il razzismo, l’antisemitismo e la discriminazione. Il 73% ritiene addirittura di non avere informazioni sufficienti sulle procedure disciplinari aperte in caso di aggressione razzista o antisemita.
   L’UEJF esprime la sua preoccupazione per questa deriva. Il 77% degli studenti di fede o cultura ebraica ritiene che l’antisemitismo sia diffuso nelle università e nelle principali scuole francesi, il 91% degli studenti ebrei ritiene che l’odio verso Israele sia diffuso anche tra i banchi delle facoltà, davanti al razzismo (67%), al sessismo (59%) e omofobia (54%). Una sensazione che non è condivisa da tutti gli studenti. Secondo l’indagine, il 28% di loro ritiene che l’antisemitismo e l’odio verso Israele siano fenomeni diffusi nelle università e nei college, dietro in particolare il sessismo (63%).

Il portavoce del governo: “Ci sono studenti che hanno paura di andare all’università”
   «La Francia non è antisemita, ma dietro queste cifre universitarie, invece, bisogna sapere che ci sono studenti che hanno paura di andare all’università. […] Ci stiamo attivando, c’è già un piano che è operativo in università […]. Formiamo consulenti in tutte le università, facciamo prevenzione e prestiamo attenzione anche al parlare in pubblico”, spiega Olivier Véran, portavoce del governo, ospite di “4 Vérités” su France 2, giovedì 28 settembre. “Ci sono studenti che hanno paura di andare all’università”, riconosce tuttavia Olivier Véran.
   «Questa sensazione di essere presi di mira è semplicemente intollerabile. Su questi punti – razzismo, antisemitismo e più in generale discriminazione – c’è tolleranza zero”, ha affermato a France Culture il Ministro dell’Istruzione Superiore Sylvie Retailleau. “Abbiamo gli strumenti per agire poiché abbiamo in tutte le istituzioni dei referenti contro il razzismo, l’antisemitismo e la discriminazione. Il Ministero gestisce questa rete di referenti. Quindi è strutturato.”
   Secondo lei, questo studio commissionato dall’Unione degli Studenti Ebrei di Francia “aiuterà a ridare visibilità a questa rete” di referenti nelle università. Tuttavia, “per avere qualche informazione in più, oggettivazione”, il ministro dell’Istruzione superiore sta valutando “un’indagine” basata su questo “Osservatorio indipendente o sui referenti”. Nel frattempo “le azioni intraprese contro questa piaga esistono e devono essere rafforzate”. Sylvie Retailleau ritiene che questo studio permetterà al Ministero dell’Istruzione Superiore “di accelerare queste azioni molto forti presso i referenti”.

Metodologia del sondaggio Ifop
   L’Ifop ha condotto questa indagine su un campione di 237 studenti di fede o cultura ebraica tramite un questionario online autosomministrato dal 14 giugno al 5 settembre 2023. È stata inoltre condotta un’indagine su un campione di 802 persone rappresentativo della popolazione studentesca francese attraverso un questionario autosomministrato dal 1 all’8 giugno 2023.

(Bet Magazine Mosaico, 28 settembre 2023)

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L’inganno palestinese a Oslo: altre testimonianze

Esponenti vicini ad Arafat confermano concordi che per il capo dell'Olp la “soluzione a due stati” era solo la prima fase del piano per eliminare Israele.

In occasione del 30esimo anniversario della firma dei primi Accordi di Oslo (13 settembre 1993), Palestine Media Watch è in grado di rivelare altre fonti palestinesi che ammettono, o più correttamente vantano, il fatto che l’allora capo dell’Olp Yasser Arafat riuscì a ingannare la leadership israeliana inducendola a firmare un accordo di pace che lui non aveva alcuna intenzione di rispettare....

(israele.net, 28 settembre 2023)

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Il ritorno dello yiddish

In America aumentano i casi di antisemitismo, le comunità ebraiche (e non solo) li combattono con lo studio della lingua. Non basta andare in sinagoga: i modi alternativi dei più giovani per preservare l’eredità culturale.

CORAL SPRINGS, Florida - Le scene sono state sconvolgenti, come previsto, e destinate a provocare paura: neonazisti che sfilavano davanti a Disney World e affollavano un ponte dell’autostrada a Orlando, gridando insulti antisemiti, sventolando bandiere con svastiche, inneggiando a Hitler. Avi Hoffman ha un modo tutto suo di contrastare questo odio. Armato di un computer portatile, nel suo sobborgo di Miami, insegna lo yiddish, una lingua che ritiene intrinseca all’eredità ebraica e che offre i benefici lenitivi di una ciotola di zuppa di pollo della nonna. “Verter zol men vegn un nit tseyln”, dice Hoffman, un attore che ha co-fondato l’associazione culturale no profit Yiddishkayt Initiative, recitando lentamente il proverbio che si traduce in “Le parole vanno pesate, non contate”. I suoi studenti ripetono dopo di lui da varie parti del paese, addentrandosi in un mondo che hanno conosciuto solo per sommi capi quando sono cresciuti e che ora considerano centrale per la loro identità.
  In un momento in cui l’antisemitismo è in aumento a livello nazionale in America, lo yiddish – un tempo quasi cancellato dall’Olocausto e dalle pressioni sull’assimilazione – sta tornando in auge. L’interesse si riflette in programmi televisivi popolari, produzioni teatrali, podcast e una serie di applicazioni per l’apprendimento e l’istruzione online che sono cresciute durante la pandemia. Le tendenze non sono direttamente collegate, dicono coloro che incoraggiano il rinnovato interesse per la lingua e per altri aspetti della vita ebraica. Ma per alcuni la sua crescente popolarità, al di là di termini tradizionali come “schlep” e “klutz”, è diventata una sorta di sfida contro la sensazione di essere perennemente sotto assedio. “Dobbiamo resistere perché, sapete una cosa? Abbiamo già visto questo film”, dice Hoffman, alludendo ai pregiudizi dell’inizio del Ventesimo secolo che hanno portato all’Olocausto nazista e alla morte di sei milioni di ebrei. L’orgoglio per la cultura ebraica si sta espandendo anche in altri modi, in particolare tra gli ebrei della Generazione X e dei Millennial che ricordano con affetto i blintz e i knish che un tempo servivano le loro nonne.
  A New York, uno chef di Brooklyn gestisce il sito web “Gefilteria” che offre la vendita di pesce gefilte artigianale, oltre a corsi di cucina e catering che offrono nuove interpretazioni di altri prodotti tipici dell’Europa orientale. Nel nord il Borscht Belt Museum celebra l’epoca d’oro delle Catskills tra l’inizio e la metà del Ventesimo secolo, quando milioni di famiglie ebree in vacanza si trasferivano durante l’estate in quel mosaico molto più fresco di località turistiche e terreni agricoli a 90 miglia a nord di New York City, che divenne noto come “le Alpi ebraiche”. In quel periodo, celebrato dal film “Dirty Dancing” e dalla commedia drammatica televisiva “The Marvelous Mrs. Maisel”, l’antisemitismo era così dilagante che gli ebrei erano banditi dalla maggior parte degli hotel. I resort erano un rifugio da quel bigottismo e sono diventati una culla per la musica dal vivo e la stand-up comedy che hanno lasciato un’impronta profonda nella cultura americana. Le recenti ondate di antisemitismo hanno coinciso con un aumento delle donazioni, secondo il giornalista Andrew Jacobs, che sta guidando l’iniziativa del museo nel villaggio di Ellenville. I suoi progetti includono un festival cinematografico e corsi su come preparare i babka al cioccolato. “Credo che alcuni ebrei ora si sentano davvero motivati a mostrare e celebrare la nostra cultura”, ha detto. “Odio sembrare banale, ma è più difficile odiare le persone quando si ride delle loro battute”.
  Tuttavia combattere l’odio e persino la violenza può sembrare sempre più scoraggiante. L’anno scorso negli Stati Uniti sono stati denunciati quasi 3.700 episodi di antisemitismo, con un aumento del 36 per cento rispetto al 2021 e dell’82 per cento rispetto al 2020, secondo il Center on Extremism dell’Anti-Defamation League. Alcuni gruppi “hanno interi podcast in cui riproducono tutte le loro attività e le monetizzano”, ha dichiarato Carla Hall, direttore senior della ricerca investigativa del centro. “E’ questo l’aspetto più preoccupante. Quando si fa questa forma di intrattenimento – odio per l’intrattenimento – fino a che punto bisogna spingersi per continuare a costruire quel seguito e a farli divertire?”.
  La Florida è stata una zona calda, con quasi 40 manifestazioni neonaziste dal gennaio 2022 e più di cento casi di volantini antisemiti lasciati sulle porte di casa dei residenti. Gli incidenti si sono intromessi nella campagna presidenziale del governatore repubblicano Ron DeSantis, che è stato criticato per non averli condannati con più forza. Durante una tappa della campagna nel New Hampshire, il mese scorso, gli è stato chiesto di un manifesto di Ron DeSantis 2024 avvistato tra bandiere con svastiche e striscioni antisemiti in una delle manifestazioni fuori da Disney World. “Quelli non sono miei veri sostenitori”, ha risposto. “Questa è un’operazione per cercare di collegarmi a qualcosa in modo da infangarmi”. La rabbina Rachael Jackson, che guida la Congregazione dell’ebraismo riformato a Orlando, cerca di rassicurare le famiglie ricordando loro che molti funzionari eletti e forze dell’ordine hanno denunciato queste orribili manifestazioni. “Abbiamo dovuto essere pastorali e rassicuranti sul fatto che non siamo lì. Non siamo nella Germania degli anni Trenta”, dice Jackson. Allo stesso tempo, la realtà è che la sua sinagoga e molte altre hanno posizionato guardie di sicurezza fuori dai loro edifici durante le funzioni di Rosh Hashanah lo scorso fine settimana e lo faranno di nuovo per lo Yom Kippur. “Dobbiamo essere consapevoli che l’odio è in aumento e che non ce lo stiamo inventando”. La rabbina vede il rinnovato interesse per lo yiddish come una sorta di balsamo, che offre “appartenenza al popolo” e orgoglio ebraico a chi ne ha bisogno. “Si possono trovare video su TikTok, persone su Instagram e gruppi su Facebook che stanno creando questa comunità”, ha detto. “E’ sicuramente qualcosa di cui abbiamo bisogno, ed è un modo di combattere l’antisemitismo che non si limita all’andare in sinagoga e parlare di Dio”.
  Dall’altra parte del paese, un centro culturale “Yiddishland” a San Diego sta raccogliendo fondi per ricreare uno shtetl, o villaggio, dell’Europa orientale, che fungerà anche da albergo immersivo per gli ospiti, con colazioni a tema yiddish e una sede per matrimoni yiddish. Il centro, che è stato aperto due anni fa, offre già lezioni di yiddish, un’accademia di teatro yiddish, spettacoli di musica klezmer e una galleria con manufatti e dipinti su temi ebraici realizzati da artisti di lingua yiddish. La direttrice Jana Mazurkiewicz Meisarosh ha detto di aver creato Yiddishland principalmente per un senso di nostalgia per una lingua che sua nonna parlava ma che lei non capiva mentre cresceva in Polonia, un’esperienza comune ai discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto. Lo yiddish è stato in gran parte abbandonato dopo la Seconda guerra mondiale – molti lo hanno associato al vittimismo e alla sconfitta – soprattutto con l’adozione da parte di Israele dell’ebraico come lingua nazionale ufficiale. Circa 250 mila ebrei negli Stati Uniti parlano yiddish; la maggior parte sono ortodossi e considerano l’ebraico troppo sacro per l’uso quotidiano. “Ho iniziato a pormi delle domande: ‘Perché non siamo stati introdotti a questa lingua e cultura? Perché a scuola ci è stato insegnato solo l’ebraico?’”. Ha detto Mazurkiewicz Meisarosh. “Vorrei che lo yiddish sopravvivesse. Se non lo fa la nostra generazione, chi lo farà?”.
  Col tempo ha notato che anche i non ebrei visitavano il centro, compresi i compagni di scuola afroamericani e asiatici di sua figlia di sei anni. Si è resa conto del valore di Yiddishland come strumento per contrastare l’antisemitismo. “Le persone hanno paura di ciò che non conoscono”, ha detto. “Se possono venire qui e imparare, è un’arma potente. Deve diventare parte della cultura di massa”. Alcuni vocaboli yiddish sono già radicati in questa cultura più ampia: parole come chutzpah (che significa coraggio), mensch (una persona buona e rispettabile) e oy (che spesso trasmette esasperazione). Ma la lingua millenaria è infinitamente ricca, persino stravagante. Molti dei 15 studenti che si sono uniti a un recente corso introduttivo di “Yiddish Lite” online hanno riso delle espressioni condivise dall’insegnante Alan Davis. “Menschen trakht aun Got lakht”, ha spiegato, significa “L’uomo pianifica, Dio ride”, mentre “a shanda aun a kharpa” si traduce in “una vergogna e un disonore”, pronunciato di solito quando accade qualcosa di spiacevole. “Mia madre me lo diceva sempre e io non capivo mai cosa stesse dicendo”, ha detto Davis ai suoi studenti dalla sua casa nel nord del New Jersey. “E’ bello saperlo. Oy, vey. A shanda aun a kharpa! Cosa stai facendo?”. Da bambino, Davis ha iniziato a imparare da solo lo yiddish per capire le battute fuori luogo di suo padre. Il suo corso, offerto dalla Federazione dei circoli ebraici maschili, ha lo scopo di invitare i principianti attraverso canzoni e storie.
  Le discussioni non affrontano le preoccupazioni della giornata. Piuttosto, approfondiscono le tradizioni e le parole che gli studenti hanno imparato crescendo negli anni Cinquanta e Sessanta. “Si aggrappano a qualcosa di ebraico nelle canzoni, nelle storie, nelle espressioni, in certe parole yiddish. E questo gli dà un legame con la loro eredità”, ha detto. Molti degli studenti che hanno partecipato alla lezione di questo mese hanno confermato questa motivazione, ammettendo una certa frustrazione per il fatto che i loro genitori o nonni non gli abbiano insegnato la lingua. “Vedo ragazzi in età da scuola superiore che magari parlano spagnolo, coreano o cinese a casa, e lo fanno fluentemente”, ha detto Howard Kaye, che vive nella Virginia settentrionale. “Ma i ragazzi ebrei non parlavano yiddish quando andavano al liceo”. Renata Lantos era una bambina quando la sua famiglia fuggì dall’Europa durante l’Olocausto. Si iscrive al corso di yiddish che segue dalla sua casa nel Connecticut per ascoltare di nuovo le voci dei suoi genitori. “E’ stata la mia prima lingua”, dice Lantos. “Se non facciamo qualcosa per preservarla, scomparirà”.

Il Foglio, 28 settembre 2023)

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Israele-Arabia Saudita, il ministro Haim Katz in visita a Riad: «Il turismo è un ponte tra i Paesi»

L’occasione della visita di Haim Katz, ministro per il Turismo, è una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite. Nelle stesse ore l’inviato di Riad è arrivato a Ramallah, in Cisgiordania, per ribadire che il regno del Golfo «lavora alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale»+

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Rotte di volo che si incrociano. Ma obiettivi diplomatici così lontani che sembra difficile possano viaggiare insieme. Haim Katz, ministro per il Turismo, è il primo rappresentante di un governo israeliano a visitare ufficialmente l’Arabia Saudita per partecipare a una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite: «Il turismo è un ponte tra i Paesi», proclama. Nelle stesse ore l’inviato di Riad è arrivato a Ramallah, in Cisgiordania, per ribadire che il regno del Golfo «lavora alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale».
  Quel ponte che Joe Biden, il presidente americano, sta cercando di gettare tra Gerusalemme e Riad deve ancora essere rafforzato. Gli alleati di Benjamin Netanyahu nella coalizione di estrema destra hanno già chiarito che non permetteranno «regali» ai palestinesi. In cambio della normalizzazione delle relazioni – «una svolta storica imminente» ha promesso il primo ministro israeliano – i Sauditi otterrebbero «solo» il via libera al programma nucleare civile. È difficile - dopo l’incontro con il raìs Abu Mazen e la conferma del sostegno «alla causa palestinese» promesso dall’ambasciatore del principe ereditario Mohammed Bin Salman – che la petro-monarchia si possa tirare indietro davanti a tutto il mondo arabo.
  A Riad tre anni fa Netanyahu era già atterrato, una visita segreta – e resa pubblica dal premier per l’irritazione del principe – accompagnato da Yossi Cohen, allora capo del Mossad, con Mike Pompeo, segretario di Stato per Donald Trump, a far da mediatore. Biden e i suoi consiglieri restano sospettosi: il primo ministro potrebbe prendere tempo e aspettare che alla Casa Bianca ritorni l’amico Donald, di sicuro meno preoccupato per le proteste che vanno avanti da quasi dieci mesi contro il piano giustizia portato avanti dal governo israeliano, considerato un pericolo per la democrazia dagli oppositori.

(Corriere della Sera, 27 settembre 2023)

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Il nuovo Beth Midrash di Monteverde: un faro di conoscenza e comunità

di Michal Colafranceschi

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Nel Tempio Beth Michael, a Monteverde, sorge un nuovo e promettente centro di studio e spiritualità ebraica, il Beth Midrash, in collaborazione con l’acclamato Tiferet Chaim. Questa sinergia rappresenta un nuovo capitolo nell’approccio all’ebraismo contemporaneo, che mira a rispondere alle domande e alle sfide che affrontano i giovani che desiderano esplorare la propria identità ebraica.
   Per comprendere appieno l’importanza del nuovo Beth Midrash è fondamentale riconoscere il notevole successo di Tiferet Chaim. Questo centro ha catturato l’attenzione e il cuore di numerosi giovani, offrendo un ambiente inclusivo e stimolante per esplorare l’ebraismo e di come quest’ultimo può essere affascinante e rilevante nella vita di ogni giorno. Inoltre, il successo di Tiferet Chaim ha generato domande profonde tra i partecipanti. Molti si sono domandati quale sia il prossimo passo nel nostro percorso di apprendimento e crescita spirituale, come si possa approfondire ancor di più la comprensione dell’ebraismo.
   Il nuovo Beth Midrash si pone l’obiettivo di rispondere a queste domande. Questo centro di studio offrirà una vasta gamma di programmi e risorse per aiutare i giovani a continuare il loro viaggio di scoperta ebraica. Sarà un luogo in cui i ragazzi e le ragazze potranno immergersi nella religione ebraica, esplorare testi sacri, approfondire la loro conoscenza e connettersi tra loro. Il promotore di questo nuovo progetto è il Maskil Eitan Della Rocca, il quale evidenzia quale sarà l’assetto e il lavoro che svolgerà questo nuovo centro di studi: “L’idea è quella di provare a dare alla gente gli strumenti e il metodo, così da poter studiare in coppie, come una yeshivà”. L’importanza dello studio in gruppo nell’ebraismo, inoltre, sembra essere essenziale all’interno della Torah. In particolare, nel libro di Pirkei Avot (Etica dei Padri), c’è un insegnamento di Rabbi Shimon ben Gamliel che afferma: “Senza studio, non c’è timore di Dio; senza timore di Dio, non c’è studio”. Questo passo sottolinea che lo studio dell’ebraismo non è un impegno solitario, ma un processo collettivo: attraverso lo studio in gruppo le persone possono sviluppare una comprensione più profonda della loro fede e una connessione più forte alla comunità ebraica. Il Beth Midrash abbraccia questa filosofia e offre un ambiente in cui lo studio condiviso è incoraggiato e valorizzato, grazie all’impegno di numerosi rabbanim e delle morot, che mattina e pomeriggio offrono lezioni di Torah. In particolare, al Beth Midrash insegnano Rav Roberto Colombo, Rav Roberto Della Rocca e Rav Shalom Ber Hazan; per il corso di sole donne, Morà Chani Hazan, Morà Anna Arbib, Morà Micol Nahon; infine, per i giovani, Eitan Della Rocca, Federico Spizzichino ed Eithan Naman.
   Il Beth Midrash è più di un semplice luogo di studio; è un faro di speranza per un futuro più ricco e ispirato. Questa nuova opportunità di studio promette di avvicinare un numero crescente di giovani alla bellezza e alla profondità dell’ebraismo. Con il tempo diventerà il loro punto di riferimento, un luogo in cui le menti curiose possono trovare risposte alle loro domande più profonde.
   Su quest’onda il futuro sarà plasmato da questi giovani che abbracciano la loro eredità ebraica, imparando insieme e costruendo legami duraturi. E in questo futuro luminoso, la conoscenza e la comunità si fonderanno, creando un ambiente in cui ogni individuo può trovare il proprio significato e appartenenza.

(Shalom, 27 settembre 2023)

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Israele: giovane di Gaza riceve un nuovo pacemaker innovativo

di Nathan Greppi

In Israele, per la prima volta è stato effettuato ad una giovane un trapianto innovativo di pacemaker, identico a quello fatto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu a luglio. Con modalità inedite, il trapianto è stato effettuato attraverso il collo anziché attraverso l’inguine, come avviene solitamente.
   Come riporta il Times of Israel, a ricevere questo nuovo trapianto è stata Shahad, 18enne palestinese di Gaza, che attraverso l’organizzazione israeliana Save a Child’s Heart è stata ricoverata al Centro Medico Wolfson nella città israeliana di Holon. Alla faccia di chi parla di apartheid in Israele…
   Il nuovo pacemaker si chiama Micra, ed è stato prodotto dall’azienda Medtronic. Piccolo come una pastiglia di vitamine, rispetto a pacemaker tradizionali non richiede di essere inserito tramite incisioni chirurgiche che lasciano cicatrici. Inoltre, la sua batteria dura almeno vent’anni, molto di più di altri mezzi analoghi.
   “Ci prendiamo cura di Shahad sin da quando era una bambina piccola. Il suo cuore presenta una complessa malformazione. Tutte le parti più importanti del cuore sono girate al contrario”, ha spiegato Sagi Assa, capo dell’Unità di Cardiologia Pediatrica al Centro Medico Wolfson. Già in passato la ragazza dovette farsi impiantare un pacemaker, ma purtroppo continuarono a formarsi delle infezioni attorno ad esso.
   “Abbiamo rimpiazzato il suo pacemaker diverse volte nel corso degli anni, ma il suo corpo ha continuato a rigettarli. Lei ha anche sviluppato delle infiammazioni alla cicatrice nel punto sul petto dove è stato fatto l’impianto. Non importa quanto cercassimo di curarla con antibiotici e altri trattamenti, il problema tornava di continuo”, ha spiegato Assa. La nuova tecnologia ha offerto loro un’occasione per stabilizzare la sua condizione e impedire il ritorno di complicazioni.
   Dopo l’operazione con il Micra, Shahad è stata dimessa ed è tornata da sua madre, la quale ha ringraziato Save a Child’s Heart per le cure. A causa delle sue condizioni di salute precarie e l’essere stata ripetutamente ricoverata in ospedale negli anni, la giovane ha perso gli anni del liceo. E nonostante ciò, è riuscita a recuperare gli studi in modo da finire gli ultimi esami e diplomarsi. Ha iniziato da poco a studiare graphic design all’Università di Gaza.
   Fondata nel 1995 e con sede proprio al Wolfson, Save a Child’s Heart si occupa di prestare soccorso nei paesi poveri in cui le cure pediatriche scarseggiano, soprattutto per i bambini con problemi cardiaci. In quasi trent’anni di attività, l’organizzazione ha salvato le vite di circa 7.000 bambini in 70 paesi, e ha fatto venire in Israele per attività di formazione e apprendimento oltre 150 lavoratori del settore sanitario.

(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2023)

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Festa ebraica di Sukkot: rabbini da tutto il mondo in Calabria alla ricerca del «cedro perfetto»

Da tutto il mondo i rabbini delle comunità ebraiche arrivano in Calabria per individuare il «cedro perfetto» con cui celebrare la Festa delle Capanne , Sukkot, che quest’anno cade tra il 28 settembre e l’8 ottobre.

di Laura Aldorisio

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Angelo Adduci lascia affiorare un ricordo: seduto a tavola con la sua famiglia c’è il Rabbino Moshe Lazar, che li ha raggiunti nella loro campagna di Santa Maria del Cedro alla ricerca del frutto perfetto. Poi si alza e inginocchiato vicino alle piante sceglie i cedri uno a uno con la lente di ingrandimento. Oggi Angelo Adduci è presidente del Consorzio del Cedro di Calabria, il consorzio che tutela quella fascia di terra italiana che, da luglio a settembre, ogni anno attira i rabbini di tutto il mondo. Arrivano alla ricerca del cedro senza macchia per la Festa ebraica della Capanne, il Sukkot*, che quest’anno si celebra dal 29 settembre all’8 ottobre.
   «Il cedro non è un prodotto autoctono, sono state proprio le comunità ebraiche nella loro peregrinazione ad averlo portato in Calabria, dove ha trovato un microclima unico, per la corrente calda del mare e la corrente fredda della montagna, che ha generato la varietà considerata la migliore, la “liscia diamante”». I rabbini, inginocchiati vicino alle piante, selezionano i cedri dalle migliori caratteristiche organolettiche ed estetiche, con la giusta forma allungata e immacolata. Una variante molto delicata, che teme il freddo, come è accaduto nel 2017 quando una gelata ha distrutto tutte le piantagioni, ma i produttori non si sono abbattuti, fino a rimettere sul mercato oggi 20mila quintali di cedri. Un numero impressionante, anche se ben lontano dai 160mila quintali degli Anni Sessanta, quando il 99% di questi frutti veniva trasportato al Nord per essere trasformato in cedro candito. «Ora non è più così. La storia ci ha fatto passare fasi diverse: un campanello di allarme è scattato nel 1982 quando si è rischiato che il cedro sparisse, con i soli 2mila quintali prodotti. Ci siamo interrogati fino a costituire l’Accademia internazionale del cedro e il Consorzio del cedro di Calabria». Oggi ci sono una miriade di aziende, tutte piccolissime, che trasformano questo frutto, invertendo la tendenza delle lavorazioni fuori dalla regione. Quest’anno poi il cedro è stato riconosciuto come prodotto Dop, un grande traguardo. Ma non è solo questo. Lo testimonia il Festival del cedro che in questi giorni ha attraversato le strade e le campagne di Santa Maria del Cedro ed è stato aperto proprio con una marcia della pace. «Il cedro è considerato un simbolo di dialogo e pace tra religioni e culture, un punto di incontro tra uomini che diventano persone di famiglia, seduti intorno alla stessa tavola, come il mio ricordo da piccolo».

(Corriere della Sera, 26 settembre 2023)

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Prima prendiamo Gerusalemme, poi Tel Aviv

Una preghiera pubblica a Tel Aviv la sera dello Yom Kippur ha suscitato polemiche nel giorno più sacro dell'ebraismo.

di Aviel Schneider

Israeliani laici protestano contro ebrei ortodossi che celebrano una funzione per lo Yom Kippur a Tel Aviv
Domenica sera, a Tel Aviv, ci sono state controversie per le preghiere pubbliche in piazza Dizengoff durante lo Yom Kippur, il giorno dell'espiazione e il giorno più sacro dell'ebraismo. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato il comportamento degli "estremisti di sinistra", mentre Yair Lapid e Benny Gantz hanno cercato di incolpare gli ebrei religiosi e hanno accusato Netanyahu di incitare alla violenza tra la gente solo per motivi politici. Dietro le lotte e l'ostilità a Tel Aviv non c'è solo l'odio verso gli ebrei religiosi e il fatto di pregare separatamente durante lo Yom Kippur. Le persone in paese temono che, dopo Gerusalemme, anche Tel Aviv venga conquistata. Lo sento dire dai residenti della città costiera. Mi ricorda la canzone di Leonard Cohen "Prima prendiamo Manhattan, poi prendiamo Berlino".
   Domenica sera in piazza Dizengoff gli ebrei religiosi hanno cercato di erigere muri divisori per separare uomini e donne durante la preghiera del Kol Nidrei. Questo però era stato precedentemente proibito dal Comune di Tel Aviv e dalla Corte Suprema, in quanto si trattava di una piazza pubblica. L'annuncio spontaneo degli ebrei religiosi di tenere le funzioni separate per sesso, come in tutte le sinagoghe, ha provocato disordini tra la popolazione di Tel Aviv nel giorno più sacro dell'anno, tanto da richiedere l'intervento della polizia israeliana. Alcuni gruppi hanno presentato una petizione ai tribunali di Tel Aviv per revocare il divieto di segregazione di genere, ma la Corte Suprema ha respinto le petizioni.
  "Dobbiamo imparare la lezione e capire che il conflitto interno è la minaccia più acuta e pericolosa per il nostro popolo", ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog nel suo discorso per il 50° anniversario della guerra dello Yom Kippur. "Proprio ieri, in questo giorno sacro, abbiamo assistito a un esempio scioccante e doloroso di come la lotta interna al nostro popolo si inasprisca e si intensifichi".
  Il leader del governo israeliano Benjamin Netanyahu ha criticato aspramente il comportamento della sinistra: "Con nostra sorpresa, nella nazione ebraica, nel giorno più sacro degli ebrei, ci sono stati disordini da parte di dimostranti di sinistra contro gli ebrei mentre pregavano. Sembra che per gli estremisti di sinistra non ci siano limiti, norme o eccezioni all'odio. Io, come la maggior parte dei cittadini israeliani, lo rifiuto. Non c'è posto per un comportamento così violento tra di noi".
  Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha twittato: "Durante lo Yom Kippur abbiamo visto gli odiatori cercare di bandire l'ebraismo dallo spazio pubblico. Israele è una nazione ebraica e democratica. Giovedì terrò una funzione serale in piazza. Invito tutti a partecipare".
  Altri hanno condannato l'incidente come un attacco antisemita agli ebrei religiosi.
  Mentre Netanyahu ha attaccato i manifestanti della sinistra radicale, il leader dell'opposizione Yair Lapid ha denunciato i gruppi religiosi nazionali che vogliono stabilire un cosiddetto ebraismo messianico a Tel Aviv. "Il nucleo ultranazionalista ortodosso che è arrivato a Tel Aviv ha deciso di condurre una guerra", ha detto Lapid, riferendosi ai gruppi religiosi nazionalisti che appaiono nelle città laiche e arabe e pretendono di promuovere i valori ebraici. "Cercano di spiegarci che esiste una sola versione dell'ebraismo, la loro versione. Pretendono che in nome della tolleranza decidano anche nel nostro quartiere cosa è permesso e cosa no".  Lapid ha fatto notare che lui stesso va in sinagoga nello Yom Kippur e che questo giorno è un esempio che l'ebraismo non deve essere imposto.
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La disputa sulla separazione tra uomini e donne è stata solo una causa scatenante. Capisco i timori dei cittadini di sinistra di Tel Aviv che si oppongono a pregare separatamente a Yom Kippur, ma non il loro comportamento. Come persona cresciuta a Gerusalemme, vedo come Gerusalemme sia cambiata negli ultimi cinque decenni. I quartieri residenziali laici si sono trasformati nel corso degli anni in quartieri residenziali religiosi e ortodossi, come Rehavia, Bakaa, Givat Mordechai, la lunga Usiel Street a Ramat Sharet, Pisgat Zeev e molti altri quartieri della capitale di Israele. Tutto è iniziato in piccolo, con una o due famiglie e una sinagoga, poi una mikvah, e questo ha gradualmente attirato sempre più ebrei religiosi nei quartieri residenziali originariamente laici. Per gli ebrei non religiosi, la vita in un ambiente del genere diventa spesso sgradevole: loro si allontanano e al loro posto si trasferiscono nuovi residenti, ebrei religiosi o ortodossi. È così che Gerusalemme è cambiata nel corso dei decenni, e ogni abitante di Gerusalemme lo potrà confermare. Non ci si deve quindi stupire se gli ebrei laici lasciano la città e Gerusalemme diventa sempre più una città ortodossa.
  Gli ebrei ortodossi e religiosi non possono scendere a compromessi con i loro divieti e comandamenti, gli ebrei laici sì. Gli stessi ebrei ortodossi lo ammettono. Non solo, ammettono anche di voler trasformare lentamente la città santa di Gerusalemme in una città religiosa. Quante volte ho sentito gli ebrei ortodossi dire che vogliono conquistare Gerusalemme. Anche l'insediamento ebraico di Zur Hadassah, sulle colline occidentali di Gerusalemme, è stato fondamentalmente fondato come comunità laica. Ma negli ultimi dieci anni vi si sono insediati sempre più ebrei religiosi e sono state costruite due sinagoghe e una mikvah. I pionieri erano contrari, ma lo slancio della comunità sta andando in una direzione diversa. So quanta rabbia ha provocato in questo villaggio, perché vivo a soli due chilometri di distanza.
  Gli ebrei laici non si trasferiscono in quartieri religiosi o ortodossi come Mea Shearim a Gerusalemme o altre città ortodosse come Beitar Illit, ma accade il contrario. Nei quartieri e nelle città ortodosse, gli appartamenti disponibili non vengono venduti agli ebrei secolari. Non solo, nei quartieri e nelle città ortodosse spesso gli appartamenti non vengono venduti o affittati a ebrei sefarditi se in quel quartiere o in quella città è presente una comunità ashkenazita. È il caso di Beitar Elit, ad esempio, dove ho conosciuto due ebrei marocchini ortodossi a cui non è stato affittato un appartamento a Beitar Illit perché erano ebrei sefarditi.
  Per evitare l'afflusso di ebrei ortodossi religiosi in città o quartieri considerati non religiosi, in Israele sono state create città ebraiche ortodosse, come Beitar Illit, Elad o Modiin Illit. In questo modo si intendeva risolvere il problema: gli ebrei ortodossi dovevano poter vivere secondo la loro fede senza limitare gli altri. Solo di recente è stata annunciata la costruzione di un'altra città ebraica ortodossa nel Negev. La città di "Tila" dovrebbe ospitare un giorno 80.000 ebrei ortodossi. Ma la realtà è diversa.
  Una parte della popolazione di Tel Aviv ha paura di questo. Temono che le preghiere pubbliche provochino una dichiarazione con la quale gli ebrei religiosi vogliano lentamente conquistare anche Tel Aviv. Ma interferire con la preghiera degli ebrei religiosi nel giorno sacro dello Yom Kippur e impedirla non è, a mio avviso, giustificato. Se i musulmani avessero pregato nel centro di Tel Aviv, gli stessi ebrei di sinistra non si sarebbero certo opposti. Non quelli di sinistra, ma in questo caso posso ben immaginare che gli ebrei religiosi si sarebbero arrabbiati.
  Il Paese sta cambiando e questo è un fatto con cui la gente del Paese deve fare i conti. Entrambe le parti devono trovare una via di mezzo per vivere pacificamente fianco a fianco, preferibilmente in modo separato. Purtroppo, la coesistenza spesso non funziona. Ed è per questo che alcune persone si sono spaventate durante lo Yom Kippur. È un peccato, ma in questo caso gli estremisti di entrambe le parti devono essere arginati per reinventare la coesistenza in questo tempo folle.

(Israel Heute, 26 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Manifestanti disturbano la funzione dello Yom Kippur a Tel Aviv

Netanyahu: "Con nostro sgomento, proprio nello Stato ebraico, nel giorno più sacro del popolo ebraico, manifestanti di sinistra si sono scagliati contro gli ebrei durante le loro preghiere"

Domenica sono scoppiati dei disordini durante una funzione dello Yom Kippur in una piazza centrale di Tel Aviv, dopo che gli organizzatori hanno usato bandiere israeliane per erigere una barriera improvvisata per separare i fedeli di sesso maschile da quelli di sesso femminile, sfidando un'ordinanza della Corte Suprema.
Circa 200 manifestanti sono arrivati in piazza Dizengoff e si sono scontrati con gli organizzatori della funzione. Un manifestante ha persino abbattuto l’improvvisata barriera. È stato arrestato dalla polizia e rilasciato poco dopo.
   A causa degli scontri la funzione è stata interrotta e i fedeli hanno continuato a pregare nelle sinagoghe vicine.
   Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aspramente criticato i manifestanti:

    "Con nostro sgomento, proprio nello Stato ebraico, nel giorno più sacro del popolo ebraico, manifestanti di sinistra hanno incitato contro gli ebrei durante le loro preghiere. Sembra che non ci siano confini, standard e limiti all'odio degli estremisti di sinistra. Come la maggior parte dei cittadini israeliani, rifiuto tutto questo. Un comportamento così violento non ha posto nel nostro Paese". 

Mentre Netanyahu ha condannato i manifestanti, il leader dell'opposizione Yair Lapid ha accusato il settore religioso di imporre l'osservanza delle festività alla laica Tel Aviv e ha detto:

    "Si preoccupano di spiegarci che esiste una sola versione dell'ebraismo - la loro versione. In nome della tolleranza pretendono di decidere anche nel nostro quartiere cosa è permesso e cosa no".

Il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha promesso di proteggere il "carattere" di Tel Aviv, dichiarando:

    "Voglio chiarire che non permetterò che il carattere della nostra città venga cambiato. Non c'è posto per la segregazione di genere negli spazi pubblici di Tel Aviv. Coloro che non rispettano le istruzioni del Comune e la legge non riceveranno i permessi per le loro attività negli spazi pubblici della città".

Venerdì scorso la Corte Suprema aveva respinto la richiesta di autorizzazione a tenere una funzione religiosa separata per sesso in piazza Dizengoff, dando ragione al Comune di Tel Aviv, che aveva vietato la segregazione.

(Israel Heute, 26 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Ex-Ministro sudafricano e attivista difende Israele: “Non è un regime di apartheid”

di Nathan Greppi

Una delle accuse che, negli ultimi decenni, è stata mossa più spesso nei confronti di Israele è di attuare nei confronti dei palestinesi una politica paragonabile a quella che in Sudafrica veniva attuata verso i neri ai tempi dell’apartheid. Ma proprio un ex-ministro sudafricano e attivista contro l’apartheid, Mosiuoa Lekota, ha recentemente preso le difese dello Stato Ebraico, opponendosi a certi paragoni.
   Come spiega il Jerusalem Post Lekota, 75 anni, da giovane è stato attivo nei movimenti di protesta contro la segregazione razziale, motivo per cui negli anni ’70 e ‘80 è stato anche imprigionato a Robben Island, nella stessa prigione in cui per molti anni fu rinchiuso Nelson Mandela. Dopo la fine dell’apartheid, ha fatto carriera politica, diventando Ministro della Difesa dal 1999 al 2008 con il partito di Mandela, l’ANC (African National Congress). Nel 2008 ha lasciato l’ANC per fondare un suo partito di centrosinistra, il Congresso del Popolo, del quale è tuttora il Presidente.

• L’INTERVISTA

Il 6 settembre, è stato intervistato da Bafana Modise, Portavoce dell’associazione South African Friends of Israel. “Ci sono stato in Israele, fratello”, ha raccontato all’intervistatore. “In Israele, non trovi le stesse divisioni tra ebrei e non ebrei a cui eravamo abituati durante l’apartheid. Non vi è segregazione negli autobus sulla base dei gruppi etnici, come ebrei e arabi. In Israele, tutti si siedono negli stessi bus, viaggiano dove gli serve, e scendono dove vogliono. Non vi è apartheid in Israele, nemmeno nelle scuole”.
Lekota ha ammesso che “un tempo ero convinto, come tutti in Sudafrica, che la maggior parte degli ebrei appoggiasse l’apartheid”. Tuttavia, dopo aver visitato Israele, è rimasto sorpreso nel constatare che “in Parlamento, ci sono arabi che servono come parlamentari, e tutti si siedono insieme”.
   Ha espresso anche la sua posizione su come dovrebbero essere le relazioni tra i due paesi: “Sotto Nelson Mandela”, ha spiegato, “abbiamo deciso di mantenere relazioni diplomatiche con entrambi gli Stati (Israele e Territori Palestinesi, ndr), e credo che sia la strada giusta da seguire”. Ha aggiunto che “non mi convincerò mai che per questo paese sia meglio favorire una delle due parti rispetto all’altra”. Secondo lui, “il nostro ruolo come sudafricani è di far capire che abbiamo superato le nostre divisioni interne. Siamo un’unica nazione, e puntiamo a sostenere entrambe le parti in causa nella loro ricerca di obiettivi comuni”.

(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2023)

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L'omaggio a Ottawa dopo il discorso di Zelensky. Ira delle associazioni ebraiche

di Irene Cosul Cuffaro

Imbarazzo e polemica tra i liberal canadesi dopo la visita di Volodymyr Zelensky, venerdì scorso, a Ottawa. Dopo il discorso al Parlamento del presidente ucraino, infatti, il presidente della Camera, Anthony Rota, ha voluto omaggiare Yaroslav Hunka, un immigrato ucraino presente in Aula: «Oggi abbiamo qui un veterano della Seconda guerra mondiale che ha combattuto per l'indipendenza dell'Ucraìna contro i russi e continua a sostenere le truppe anche oggi all'età di 98 anni. È un eroe ucraino e canadese, e lo ringraziamo per l servizi resi», ha detto lo speaker, seguito da un applauso di quattro minuti da parte dei presenti, premier Justin Trudeau compreso, al veterano commosso. Il quale, certo, ha combattuto. Ma con chi? Ebbene, con la prima divisione dell'esercito nazionale ucraino. Ovvero, la quattordicesima Divisione Waffen Grenadier delle Ss, un'unità militare nazista, composta prevalentemente da volontari militari ucraini, che giurò fedeltà al Reich.
   A far subito presente quale fosse il vero passato di Hunka è stato il Centro amici di Simon Wiesenthal, (il celebre cacciatore di nazisti), che in un comunicato ha segnalato come le osservazioni di Rota ignorino «il fatto orribile che Hunka ha servito nella quattordicesima Divisione delle Ss, i cui crimini contro l'umanità durante l'Olocausto sono ben documentati». L'associazione della comunità ebraica ha inoltre preteso le scuse per la standing ovation in Parlamento, definita «scioccante» e «incredibilmente inquietante». L'amministratore delegato di B'nai Brith Canada, Michael Mostyn, ha dichiarato che il riconoscimento di Hunka da parte del Parlamento è stato «più che oltraggioso». Oltre che da diverse organizzazioni ebraiche, l'ovazione per il veterano è stata condannata anche dall'ambasciatore polacco in Canada, Witold Dzielski: «Quella famigerata formazione militare è responsabile dell'omicidio di migliaia di polacchi ed ebrei. La Polonia non sarà mai d'accordo con lo "sbiancamento' di quei criminali. Attendo delle scuse", ha scritto sui social.
   Il caso, nel frattempo, ha fatto il giro del mondo ed è costato attacchi dall'opposizione anche a Trudeau, dichiaratosi, dal canto suo, completamente estraneo all'accaduto. «Sono l'unico responsabile di questa iniziativa e mi assumo la piena responsabilità delle azioni», ha invece fatto sapere Rota, che ha aggiunto: «Dopo il discorso del presidente dell'Ucraìna, ho salutato una persona in tribuna e poi ho appreso nuove informazioni che mi fanno pentire di averlo fatto. Vorrei offrire le mie più sincere scuse alle comunità ebraiche in Canada e nel mondo». Scuse apprezzate dal Centro amici di Simon Wiesenthal, che ha però sottolineato anche come «un adeguato controllo è indispensabile per garantire che un incidente così inaccettabile non si ripeta».

(La Verità, 26 settembre 2023)

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In Israele delle viti di 1500 anni fa sono state rese nuovamente produttive

In Israele sono state piantate e rese disponibili alla produzione delle viti di due antiche varietà del deserto di Negev.

di Luca Venturino

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Tranquilli: se amate definirvi appassionati o più coraggiosamente amanti del vino e non avete mai sentito parlare delle varietà Sariki e Beer del deserto del Negev, Israele, non verremo a casa vostra a sequestrarvi il tastevin. D’altro canto, come potremmo biasimarvi? Si tratta di due varietà che potremmo definire ampiamente estinte e che hanno raggiunto l’apice (e che apice, come vedremo più avanti) della loro popolarità nel primo millennio dopo Cristo, quando con ogni probabilità l’Ais ancora non esisteva.
   Presto, tuttavia, potreste non avere più la comoda scusa del “è passato troppo tempo” dietro cui nascondervi: nel Parco Nazionale di Avdat, sempre in Israele, sono infatti state piantate delle viti di queste due antichissime varietà recuperate da alcuni semi trovati durante una serie di scavi archeologici e tuttora resi disponibili alla produzione grazie a una innovativa ricerca sul DNA.

• Israele e le viti di 1500 anni fa
  Gli artefici di questo piccolo miracolo di archeo-enologia sono il Professore Guy Bar-Oz dell’Università di Haifa e il Dottor Meriv Meiri dell’Università di Tel Aviv, che come accennato hanno fondamentalmente riesumato delle viti vecchie di oltre un millennio proprio nello stesso punto in cui venivano coltivate 1500 anni fa. Un’impresa affascinante e per certi versi anche romantica, che soprattutto rafforza l’identità di questo particolare angolo di Israele come regione vinicola di matrice desertica, forte di profonde radici storiche e con una tradizione – è il caso di dirlo, che in questo caso è letterale come non mai – millenaria.
   Al di là dei sopracitati e più ovvi aspetti affascinanti dell’operazione, è per di più bene notare che la rimessa a dimora di queste viti può rappresentare una importante lezione anche alla viticoltura contemporanea, che a oggi è sempre più sovente chiamata a doversi confrontare con le temperature in aumento e la scarsità delle risorse idriche.
   L’impianto in questione è stato realizzato secondo la struttura tradizionale comune tra gli agricoltori di Israele durante i periodi della Mishna e del Talmud (I-VII secolo d. C.), declinato secondo il sistema emerso dagli studi effettuati sul luogo. Il vigneto racchiude, come già accennato, la storia dei vini del deserto del Negev: stando a quanto scoperto dagli storici impegnati sul caso, nel periodo compreso tra il IV e il VII secolo dopo Cristo la regione era di fatto nota come fonte di vino di qualità per tutto l’Impero Bizantino – un periodo storico segnato anche dalla consacrazione del cristianesimo a religione ufficiale dell’impero.

(dissapore, 26 settembre 2023)

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Lea Voghera Fubini ricorda il fratello Marco, ebreo italiano ucciso nella guerra del Kippur

A cinquant’anni dalla guerra del Kippur, Lea Voghera Fubini non dimentica e non potrà mai dimenticare le ore, i giorni e i mesi che le hanno portato via per sempre il fratello Marco.

Marco Voghera era nato a Padova il 5 maggio 1942, in un periodo certo non facile per il popolo ebraico. Fu “una felicità immensa - scrive la sua mamma Bruna - negli ‘Studi in memoria di Marco Voghera pubblicati a vent’anni dalla guerra del Kippur’. Poche righe oltre aggiunge che “L’ebraismo è stato sempre al di sopra di ogni tuo pensiero, e hai dato a me, a tutti noi, la gioia di decidere di vivere in Terra d’Israele.” Era nel fortino di Firdan a difesa del Canale di Suez, quando è stato ucciso: era il secondo giorno della guerra di Kippur, l’8 ottobre 1973.
   Lea Voghera Fubini racconta a Shalom la vita di Marco, il suo impegno politico, i suoi ideali.

- Quale fu il suo primo pensiero quel giorno di Kippur 5734?
  Appresi la notizia dello scoppio della guerra al tempio di Torino, durante le preghiere vespertine. Avevo la certezza che mio fratello fosse lì sul Canale, era un riservista, richiamato da qualche giorno.

- Cosa accadde i giorni successivi?
  Silenzio e angoscia per la sua sorte. Non ricevemmo nessuna notizia, non sapevamo nulla, potevamo solo sperare che Marco fosse stato catturato dagli egiziani e fosse ancora vivo e prigioniero. Dalla Croce Rossa giunsero nelle settimane e nei mesi successivi filmati di soldati prigionieri, guardavamo ad uno ad uno i loro volti, nella speranza di riconoscere il suo. Lui non c’era mai. Passarono mesi senza che ricevessimo notizie. Era considerato disperso. Solo dopo otto interminabili mesi, la moglie Miriam fu informata che il corpo di Marco era stato trovato ed era possibile dargli sepoltura.

- Può tratteggiare la vita di suo fratello prima dell’aliyà?
  Laura, mia sorella maggiore, Marco e io, la minore dei tre, eravamo molto affiatati e uniti. Avevamo un rapporto intenso, ci capivamo, scherzavamo, certo litigavamo anche. Partecipò giovanissimo alle attività del Centro Giovanile ebraico di Venezia e della FGEI. Era un ebreo tradizionalista, apprese a 19 anni, da Uberto Tedeschi, dell'esistenza dello Shenat Sherut, dell’anno di servizio in Israele. Decise che sarebbe stata una buona opportunità per conoscere il Paese.

- Come furono i primi anni in Israele?
  Svolse un mese preparatorio in una fabbrica in Inghilterra con un gruppo di giovani, da lì partì direttamente per Israele; trascorse 9 mesi al Kibbutz HaSolelim. Decise di andare a Gerusalemme, all'Università Ebraica a studiare storia e letteratura italiana. Era uno studente brillante, incontrò Miriam, la sua futura moglie, si sposarono nel marzo 1966.

- Furono gli anni dell’impegno politico con Reshimat Shalom?
  Con Miriam, Marco partecipava attivamente alla vita politica israeliana, era un pacifista, una colomba, partecipò nel 1969 alla fondazione del partito di sinistra Reshimat Shalom. Trovò lavoro nel settore assicurativo.

- Quando entrò nell’esercito israeliano?
  A fine ottobre 1968, Marco fu chiamato nella Zavà, fino ad allora era stato considerato residente temporaneo e studente. Svolse il servizio militare nei riservisti per 3 mesi, completando l'addestramento di base. Si trasferì poi per un tirocinio lavorativo all’estero. Nel dicembre 1972 tornò in Israele,a Ramat haSharon e iniziò a lavorare alla Migdal. Fu richiamato nei miluim e fece parte della Brigata Gerusalemme in uno dei battaglioni di stanza fin da prima della guerra nella roccaforte Hazion sulla riva del Canale di Suez.

- Avete potuto ricostruire successivamente come avvenne l’uccisione di Marco?
  La battaglia intorno a Hazion durò 3 giorni: 24 soldati resistettero agli imponenti attacchi egiziani. Marco era tra i 13 soldati che caddero in battaglia, gli altri furono fatti prigionieri.

- La sua mamma a vent’anni dalla morte scrisse un ricordo. Desidera riproporlo?
  “C’è in casa una cassetta colma di lettere che negli oltre dieci anni della tua assenza arrivavano regolarmente a portare tra noi il soffio della tua vita con le notizie sempre attese con ansia. Dal Kippur del 1973 sono passati vent’anni, e ogni anno io apro quella cassetta e tocco sempre alcuni di quei fogli ancora ben conservati e leggo cercando di rivivere tanti avvenimenti famigliari, ma soprattutto di riascoltare le parole di amore del mio Marco. Nel grande, fiorito, ridente cimitero di Kiriath Shaul migliaia di giovani vite sono diventate altrettante lapidi con un nome e un numero: sulla tua c’è il 31. Gli anni che il Signore ci ha concesso di vivere con te”.
   Shabbat 23 settembre 2023 si è tenuto un limmud in ricordo di Marco a Venezia; come ogni anno a Kippur, a Venezia, a Padova, a Torino la sua famiglia ha ricordato il giovane italiano ucciso nella guerra di Kippur che scelse di difendere lo Stato d’Israele e perse la giovane vita..

(Shalom, 26 settembre 2023)

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Per il digiuno del Kippur, Israele chiude i valichi con i Territori

In occasione del digiuno del Kippur, che inizia stasera, Israele ha chiuso i valichi con la Cisgiordania e con Gaza, mentre i servizi di sicurezza avvertono della possibile imminenza di numerosi attentati palestinesi. Da oltre una settimana lungo linea di demarcazione con la striscia di Gaza si sono moltiplicati gli incidenti - con centinaia di dimostranti palestinesi impegnati a lanciare ordigni e palloni incendiari - mentre oggi in Cisgiordania miliziani palestinesi hanno condotto, secondo l'esercito, tre attacchi armati alcune ore dopo una complessa operazione anti-terrorismo nel campo profughi di Nur Shams vicino a Tulkarem.
   Da Gaza, Hamas ha anticipato che le dimostrazioni sulla linea di demarcazione si svolgeranno anche oggi mentre da Beirut i dirigenti di Hamas, della Jihad islamica e del Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno preannunciato un inasprimento della lotta armata nei Territori.
   Tensione molto elevata, in occasione del Kippur, anche a Gerusalemme dove la polizia ha schierato migliaia di agenti e ha consigliato ai fedeli di avere almeno una persona armata in ogni sinagoga. Negli ultimi giorni folle di fedeli ebrei hanno invaso fra severe misure di sicurezza la spianata antistante il Muro del Pianto per i riti che precedono il digiuno.
   L'esercito ha fatto sapere che i valichi con i Territori saranno riaperti nella notte di domani se la giornata del Kippur non sarà turbata da violenze.

(ANSA, 25 settembre 2023)

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L’abbraccio della pace: la pronipote del comandante nazista incontra la figlia di una superstite

Ottant’anni fa sul lago Maggiore a Meina la strage di sedici ebrei.

di Valentina Sarmenghi

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MEINA (Novara) - «La mia speranza è che ricordando insieme si possa rompere il silenzio, in un processo grazie al quale i discendenti dei carnefici come me possano liberarsi interiormente e i famigliari delle vittime possano arrivare a una qualche forma di sollievo psicologico»: sono le parole pronunciate ieri in italiano da Maite Billerbeck, pronipote di Hans Roehwer, il nazista principale responsabile del massacro di ebrei del lago Maggiore, nel corso dell’incontro che si è svolto a Meina in provincia di Novara. Un incontro speciale inserito nel programma di commemorazione delle 16 persone uccise dalle SS in paese tra il 22 e il 23 settembre 1943.
   Accanto a Billerbeck, c’era Rossana Ottolenghi, figlia di Becky Behar, sopravvissuta a quella strage e come la madre impegnata a mantenere viva la memoria della Shoah in particolare tra le giovani generazioni. L’incontro, in una sala strapiena nel centro culturale del paese, è stato introdotto dal sindaco Fabrizio Barbieri e condotto dal giornalista Mario Calabresi. «Ancora prima che venissi a sapere che un membro della mia famiglia si era macchiato di gravi crimini, ho sempre provato un senso di colpa solo per il fatto di essere tedesca - ha detto ancora Billerbeck - quando ho conosciuto la verità, questo sentimento si è intensificato e ho sentito una grave vergogna. Ho preso le distanze da ciò che ha fatto il fratello di mia nonna ma volevo trasformare questi sentimenti in qualcosa di più fruttuoso». Maite si è quindi documentata su quanto accaduto e da Berlino, dove vive, è tornata sul lago Maggiore, dove era già stata in vacanza, per rivedere con occhi nuovi i luoghi dei misfatti ad opera del battaglione comandato dal suo prozio. La sua volontà è quella di ricordare, cambiare il rapporto con i discendenti delle vittime per arrivare alla riconciliazione. In questo processo si inserisce l’incontro con Ottolenghi questa estate, per poi arrivare al dialogo pubblico avvenuto ieri. «Sono psicologa e con il mio compagno Andreas, che fa il musicista abbiamo fondato un’associazione per la promozione della cultura del ricordo per commemorare gli ebrei assassinati - ha continuato - vogliamo organizzare eventi per sensibilizzare su questo tema e avere un futuro dove possano prevalere i diritti umani e la democrazia. Nei nostri progetti includiamo i giovani perché pensiamo che in questo processo abbiano un ruolo molto importante. La prima iniziativa si svolgerà l’8 ottobre a Berlino e unisce aspetti storici, psicologici, artistici e musicali. Vi sono grata di essermi potuta unire a voi oggi per commemorare le vittime con umiltà».
   Dopo un lungo abbraccio, Ottolenghi, anche lei psicologa, ha voluto sottolineare come le due donne siano accomunate da un grosso peso da portare sulle spalle: «I discendenti delle vittime si sentono in colpa per essere sopravvissuti - ha detto - quelli dei carnefici perché sono stati responsabili di atti atroci. Io e Maite siamo unite nella volontà di rompere il silenzio come unico modo per costruire e proseguire il cammino. Lei ha ben presente quali siano le colpe e non le ho mai sentito dire “Ma erano pazzi”, “erano malati”, “era un’altra epoca”, nessuna dichiarazione di autoassoluzione come purtroppo se ne sentono ancora oggi, nessuna minimizzazione».
   Rossana Ottolenghi ha poi parlato del fatto che l’ebraismo non riconosce la possibilità di perdonare per interposta persona e le persone uccise non possono chiaramente farlo: «Il perdono si trasforma però in un dialogo di riscatto per raccontare, fare memoria. Un altro concetto importante dell’ebraismo è il rammendo del mondo: ogni ebreo deve farsi carico come può di riparare i buchi nella storia e io penso sia possibile attraverso il dialogo». Maite ha consegnato a Ottolenghi un regalo: alcune formelle create da lei assieme alle due figlie Elina e Annika con sopra scritti i nomi di vittime della strage del lago Maggiore e frasi dei testi sacri dell’ebraismo.
   Sono seguiti altri interventi come quello di Luciano Belli Paci, figlio della senatrice Liliana Segre che ha letto un messaggio della madre sopravvissuta al campo di Auschwitz, e di Maria Plastira docente universitaria di Salonicco, città da cui provenivano gli ebrei che avevano trovato alloggio all’hotel Vittoria a Meina. Erano venuti in Italia pensando di riuscire a salvarsi e invece trovarono la morte. Oggi l’albergo sul lungolago non c’è più: al suo posto sorge il Parco della Memoria dove trovano posto le pietre d’inciampo con i nomi delle vittime e la grande scultura dell’artista israeliano Ofer Lellouche «Head of Meina».

(La Stampa, 25 settembre 2023)

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Un nuovo ponte sospeso collega i luoghi sacri di Gerusalemme: è il più lungo d’Israele

FOTO 1
FOTO 2
Gerusalemme ha inaugurato il ponte sospeso più lungo di Israele.
Questa imponente struttura, che si estende per 202 metri, collega il Monte Sion alla pittoresca Valle di Ben Hinnom a sud, offre un'esperienza straordinaria per pellegrini e turisti provenienti da tutto il mondo.
Il ponte offre un accesso facilitato a importanti luoghi storici come la Tomba del Re Davide, la Sala dell'Ultima Cena e la Camera della Shoah, consentendo ai visitatori di immergersi appieno nel passato di Gerusalemme.
Una volta attraversato il ponte, i visitatori si troveranno immediatamente all'interno delle antiche mura della Città Vecchia, passando attraverso la suggestiva Porta di Sion.
Da qui, potranno facilmente raggiungere il Parco Nazionale della Città di David, un luogo che testimonia la storia millenaria di Gerusalemme, la vivace Sultan's Pool e il complesso di negozi e ristoranti della First Station.
Oltre a offrire una vista spettacolare, il ponte è stato progettato per migliorare l'esperienza turistica dell'intera zona.

• Orari di apertura
Il ponte è aperto tutti i giorni dalle 6:00 alle 23:00 e sarà accessibile solo a piedi, offrendo ai visitatori l'opportunità di apprezzare appieno la bellezza e la storia di Gerusalemme in un'atmosfera tranquilla e suggestiva.
Il prestigioso progetto, del valore di 20 milioni di shekel (circa 5,4 milioni di dollari), è stato finanziato congiuntamente dal Ministero della Tradizione di Gerusalemme e Israele, dal Ministero del Turismo e dal Comune di Gerusalemme, in collaborazione con la Jerusalem Development Authority e la Moriah Company.
Questo nuovo ponte sospeso rappresenta un simbolo di connessione tra il passato e il presente di Gerusalemme, offrendo ai visitatori un'esperienza indimenticabile e l'opportunità di esplorare i luoghi sacri di questa città ricca di storia e spiritualità.

(Travel, 25 settembre 2023)

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Ebrei, nemici di Israele?

di Charles Rojzman *

Come spiegare la violenta posizione anti-israeliana - e non parlo di critiche ai governi israeliani - di noti ebrei come Rony Brauman, Shlomo Sand, Noam Chomsky, Norman Finkelstein, Edgar Morin, Charles Enderlin, molti ebrei democratici americani e israeliani di estrema sinistra?
   Odio verso se stessi? Questa spiegazione, spesso avanzata dai loro nemici, non mi convince. Credo piuttosto che questi ebrei, come i loro compagni di viaggio della sinistra cristiana e i radicali dell'estrema sinistra, abbiano una visione di un mondo diviso esclusivamente tra poveri e ricchi, dominanti e dominati, occidentali e popoli colonizzati.
   Questa visione manichea si riflette anche nelle domande sul passato dell'Europa, sul pentimento per la colonizzazione, sulle periferie, sull'Islam, sulla criminalità di strada, sul razzismo, ecc.
   Per questi ebrei, inoltre, la paura secolare della persecuzione ha creato un'empatia sconsiderata per tutti gli oppressi, veri o finti.
   Questa visione del mondo è diventata un'ideologia che, come ogni ideologia, pretende di definire la realtà in modo che si conformi alla sua visione, a volte fuorviante, a volte tronca, a volte sincera e in buona fede, ma accecata e manipolata dalla propaganda, tanto più che questa ideologia permette di ottenere vantaggi significativi come il potere, il riconoscimento e, soprattutto, la certezza di appartenere al campo del Bene e dell'Altro.
   Se si è ebrei, si possono evitare le accuse di nazionalismo e militarismo rivolte a Israele, e soprattutto sperare di sfuggire al persistente antisemitismo che ha sempre demonizzato gli ebrei e ora demonizza lo Stato ebraico.
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* Il saggista Charles Rojzman è il fondatore dell'approccio e della scuola di psicologia politica clinica "Terapia sociale", praticata in Francia e in molti altri Paesi come mezzo per prevenire o conciliare la violenza individuale e collettiva.

(Tribune Juive, 25 settembre 2023)

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Milano - “Beethoven in Vermont” al Teatro Lirico Giorgio Gaber

Una storia di musica, fuga dal nazismo e fratellanza

di Marina Gersony

Il 27 settembre, al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano, andrà in scena Beethoven in Vermont, uno spettacolo imperdibile scritto e diretto Maria Letizia Compatangelo per il Trio Metamorphosi Mauro Loguercio violino, Francesco Pepicelli, violoncello e Angelo Pepicelli, pianoforte); uno spettacolo che – come annota il critico Pierluigi Pietricola – «Al di là della bravura esecutiva del Trio Metamorphosi, dell’intensità dei vari brani interpretati, quello che ha stupito è stata la capacità di proiezione della potenza contenuta in un microcosmo che ha letteralmente investito il pubblico. E lo ha fatto con una discrezione e una dolcezza davvero uniche».

• LA STORIA
  Nell’estate del 1951, poco dopo il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, tre grandi musicisti, fuggiti dall’oppressione del regime nazista in Germania, si trovano di fronte a un’importante decisione: definire il programma del concerto inaugurale del prestigioso Marlboro Festival. Questa scelta incarna le loro storie di coraggio e resilienza, dalle loro audaci fuggite dal nazismo all’esilio volontario negli Stati Uniti. I protagonisti di questa storia appassionante sono i fratelli Adolf e Hermann Busch, violinista e violoncellista, e l’amico pianista Rudolf Serkin. Hanno rispettivamente 48, 42 e 36 anni, impersonati nello spettacolo rispettivamente dai talentuosi Mauro Loguercio, Francesco Pepicelli e Angelo Pepicelli.
   In pochi anni, il Marlboro Festival diventò un faro nella scena musicale mondiale, attraendo musicisti di talento da ogni angolo del pianeta e rinomati direttori d’orchestra; fu qualcosa di mai visto, in cui sperimentare un nuovo modo di comunicare esperienze, tecniche e sapienza musicale. Tuttavia, in quel lontano pomeriggio del 1951, l’idea rivoluzionaria del festival fu solo un germoglio nella mente dei suoi coraggiosi promotori. Era un momento cruciale in cui dovettero trasformare il loro sogno in realtà: per la prima volta, nella pace della campagna, lontano da luoghi istituzionali quali accademie, conservatori o auditorium, caddero le barriere e le distanze tra insegnanti e allievi che insieme iniziarono a condividere e collaborare fianco a fianco.
   Lo spettacolo al Teatro Lirico Giorgio Gaber ci porta in questo delicato momento, nell’era postbellica in cui le ferite della guerra sono ancora profonde e palpabili nella memoria e nei corpi delle persone. I tre artisti europei, radicati nella cultura tedesca, si trovano di fronte a giovani musicisti americani, creando un contrasto culturale ed emotivo. Tra esecuzioni musicali, disaccordi e conflitti che svelano verità nascoste, Adolf, Rudolf e Hermann lavorano instancabilmente per preparare il loro concerto inaugurale.
   E alla fine, nel momento culminante di una serie di spettacoli che si protrarrà per decenni, prendono una decisione audace: Beethoven sarà il compositore che unirà il loro talento e la loro passione, portando avanti gli ideali di fratellanza tra i popoli: una storia di coraggio, di forza interiore e di dedizione alla musica che ha il potere di oltrepassare ogni confine.

• TRE MUSICISTI STRAORDINARI
  Chi erano questi tre straordinari artisti che, con il loro talento e la loro passione per la musica, hanno sfidato le avversità storiche e politiche del loro tempo per creare un legame indelebile tra la loro arte e il pubblico di tutto il mondo?
   Tutto ebbe inizio con Rudolf Serkin, nato a Cheb nel 1903 da una famiglia ebraica di origine russa. Fin da giovane, mostrò un talento straordinario per il pianoforte. A soli 9 anni, si stabilì a Vienna e debuttò con l’Orchestra Filarmonica di Vienna nel 1915, dimostrando di essere un enfant prodige. Nonostante le sue radici ebraiche, Serkin era profondamente influenzato dalla tradizione musicale viennese. La sua vita prese una svolta destinata a influenzare il corso della storia della musica quando, a 17 anni, a Berlino, conobbe Adolf Busch, un violinista e compositore di straordinario talento. Nacque un legame profondo tra loro, sia umano che artistico, che portò alla creazione del celebre Quartetto Busch, un quartetto d’archi di fama internazionale.
   La storia d’amore tra Rudolf Serkin e la figlia di Busch, Irene, si sviluppò nel corso di 15 anni e si trasformò in un matrimonio che avrebbe unito le loro vite per sempre.
   Ma la storia di Serkin prese una svolta oscura quando, nel 1933, Hermann Göring offrì a Serkin un trattamento privilegiato nonostante il divieto imposto agli artisti ebrei di esibirsi in pubblico. Serkin rifiutò con fermezza questa offerta e scelse invece l’esilio volontario a Basilea, in Svizzera, insieme a Adolf Busch, nonostante quest’ultimo non fosse ebreo ma si opponesse apertamente al nazismo.
   Nel 1939, Serkin si stabilì definitivamente negli Stati Uniti, dove il suo talento fuori dal comune e la sua passione per la musica da camera si fecero strada nella cultura musicale americana. I critici descrivevano il suo tocco al pianoforte come «cristallino, potente, delicato e puro». Ma Rudolf Serkin non si limitò solo a esibirsi, si dedicò anche alla Marlboro Music School and Festival, in collaborazione con Adolf Busch, con l’obiettivo di promuovere la musica da camera e ispirare le nuove generazioni con la stessa passione che li aveva uniti: il suo carisma e la sua capacità investigativa musicale hanno lasciato un’eredità singolare e di vasta portata che ha avuto un impatto su ogni area del campo della musica classica.
   La storia di Adolf Busch e di suo fratello Hermann, parallela a quella di Serkin, è altrettanto affascinante. Nato in Germania nel 1891, Adolf Busch era un virtuoso del violino e un compositore di talento. Tuttavia, con l’ascesa di Adolf Hitler al potere, lo stesso Busch rifiutò di compromettersi con il regime nazista e, nel 1933, rinunciò alla sua cittadinanza tedesca. Successivamente, nel 1938, boicottò anche l’Italia fascista.
   La sua opposizione al nazismo lo portò a emigrare in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove divenne uno dei fondatori della Marlboro Music School and Festival, lavorando a stretto contatto con Rudolf Serkin. Il Quartetto Busch, guidato da Adolf Busch, divenne famoso per le sue interpretazioni di compositori come Brahms, Schubert e Beethoven.
   La loro storia è un tributo alla forza della musica e all’umanità che può emergere in tempi di grande turbolenza. Rudolf Serkin, Adolf Busch e Hermann Busch, con la loro passione condivisa e il loro impegno per l’arte, hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica, dimostrando che la musica può unire le persone al di là delle barriere culturali e politiche. La loro eredità vive ancora oggi attraverso le generazioni di musicisti che hanno ispirato.
   «Adolf, Rudolf e Hermann – spiega Maria Letizia Compatangelo – cercano di realizzare, in un concerto inaugurale simbolico, una visione del mondo improntata alla fratellanza e alla collaborazione tra i popoli, nel segno unificante dell’arte, ma anche capace di evidenziare il valore della musica da camera come veicolo di condivisione. Occasione per dialogare con gli altri in musica e attraverso la musica, in un costante mettersi in gioco e nello scambio di idee ed esperienze».
   «Proprio adesso che la nostra impresa beethoveniana è compiuta – hanno dichiarato a loro volta i musicisti del Trio – stiamo vivendo un momento letteralmente esaltante di vera metamorfosi, di profonda trasformazione, grazie all’immenso lavoro fatto da un anno e mezzo a questa parte sotto la guida accogliente e stimolante di Maria Letizia. Una vera e propria scuola di teatro, in cui fondere recitazione e musica in un’unica vita, in cui entrare nei meandri più reconditi della comunicazione dentro di noi, fra di noi e con i fratelli Busch e Serkin, tre grandi musicisti e uomini straordinari che ci onoriamo di portare in scena nel nome di Beethoven».

(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2023)

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Il suono dello shofar, momento culminante della giornata di Kippur

Intervista a Rav Alberto Funaro

di Sarah Tagliacozzo

Ogni anno a Yom Kippur, così come in altre occasioni, in ogni sinagoga si ascolta il suono dello shofar. Uno strumento dalle origini antiche e che rappresenta un simbolo dell’ebraismo. Per scoprirne significati e tradizioni, Shalom ha intervistato Rav Alberto Funaro, che ne è un grande conoscitore e suonatore.

• Perché si suona lo shofar?
  Il suono dello shofar alla conclusione di Kippur è il culmine di una giornata che noi trascorriamo a digiunare e a pregare per un dolce anno nuovo. Ci sono una serie di ragioni per cui si suona lo shofar in momento così solenne. Tra queste, ad esempio, la commemorazione dell’anno giubilare: quando ancora si celebrava l’anno del Giubileo ai tempi del Bet HaMikdash, per inaugurare il cinquantesimo anno, il giubileo appunto, si suonava lo shofar durante lo Yom Kippur. Il suono dello shofar sarebbe stato per tutti gli schiavi il segnale della libertà, mentre tutte le proprietà sarebbero tornate ai proprietari originari. Ora non c’è più il Giubileo, ma suoniamo ancora lo Shofar ogni Yom Kippur per ricordare ciò che era una volta e per esprimere le nostre speranze per il futuro. Inoltre il suono dello shofar significa anche che ora, alla conclusione dello Yom Kippur, le nostre anime sono liberate dai loro peccati.

• Ci sono anche altri motivi?
  Quando Yom Kippur volge al termine, siamo certi che ci è stato concesso un anno dolce, come i soldati che tornano trionfanti in battaglia, suoniamo lo shofar per celebrare la nostra vittoria sull’angelo accusatore, sul satan, satana. Nella ghematrià il valore numerico del satan è 364, mentre i giorni dell’anno sono 365. Quel giorno che rimane fuori è proprio Kippur, l’unico giorno in cui il satan non può avere alcuna ragione sul popolo di Israele che è riunito in digiuno, nella preghiera e nella riflessione verso se stesso, verso Dio e verso tutti quelli che lo circondano. Quando Dio ci diede la Torah, la presenza divina si posò sulla montagna e fu annunciata dal suono dello shofar. Questo riflette ciò che è scritto nei Salmi, quando si afferma che “Dio ascende, sale con una teruah, il suono dello shofar”. Allo stesso modo, in seguito, alla vicinanza con Dio che abbiamo sperimentato durante Kippur, il suono dello shofar simboleggia l’ascesa della presenza divina che si è posata durante tutto il giorno. Ed è quindi ora di celebrare un po’ di libertà. È stata un’esperienza ultraterrena e ora siamo usciti dall’altra parte. Il suono dello shofar pubblicizza a tutti che la sera successiva allo Yom Kippur è una festa; segna dunque il momento di celebrare una vicinanza che abbiamo raggiunto e il perdono che ci siamo assicurati durante questo giorno.

• Qual è il significato della parola shofar?
  La parola shofar, secondo alcuni, deriverebbe dalla radice leshaper, che significa aggiustare, accomodare, come se in un certo senso, ascoltando il suono dello shofar noi in qualche modo rimettessimo in ordine tutto quello che abbiamo dentro di noi e che aveva bisogno di essere riordinato nei rapporti con Dio, nei rapporti con il prossimo e nei rapporti con tutti quelli che ci circondano.

• A Roma dove si può imparare a suonare lo shofar?
  Lo shofar si può imparare a suonare frequentando anche un corso al collegio rabbinico, oppure chiedendo ad uno dei maestri che suonano lo shofar di spiegare come funziona e quali sono le regole.

• Il suono romano è particolarmente solenne e diverso dagli altri?
  Il suono romano è simile ai suoni di altre comunità, però è un suono antico, di cui sono rimasti meravigliati anche alcuni rabbanim in Eretz Israel. Non si sa in che epoca si possa collocare la sua origine.

• Perché durante il suono dello shofar si usa coprirsi il volto o gli occhi in segno di raccoglimento?
  Non c’è un motivo preciso, è un momento spontaneo di concentrazione, ma non è assolutamente un’azione vincolante. Aiuta a concentrarsi, è un atto di rispetto, ma senza particolare rilevanza dal punto di vista rituale.

• Oltre allo shofar, vi sono altri strumenti simbolo dell’ebraismo?
  Attualmente è l’unico strumento antico che noi troviamo descritto anche nella Torah. Ma basta leggere i salmi ed i libri del Tanach per scoprire come nel Bet HaMikdash venissero suonati diversi strumenti accompagnati anche dai canti dei leviti.

(Shalom, 24 settembre 2023)

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16 ottobre e Guerra del Kippur: anniversari, memoria e calendario ebraico

di Rav Riccardo Di Segni

L’anno 5784 si apre con due importanti anniversari a cifra tonda. Quello che ricorda un avvenimento relativamente più recente (ma sono già 50 anni, mezzo secolo!) è la guerra del Kippùr. Dopo la cocente sconfitta del 1967, le nazioni arabe cercarono una rivincita e dopo sei anni scatenarono un’offensiva travolgendo le linee israeliane che si erano attestate nella riva occidentale del canale di Suez. A nord i siriani attaccarono sul Golan. Gli egiziani approfittarono del giorno di Kippùr per scatenare l’attacco, che fu inizialmente vincente. Ci vollero diversi giorni perché gli israeliani prendessero in mano e capovolgessero le sorti del conflitto, che fu sanguinoso e mise in crisi un sistema precario di certezze. La guerra portò a un capovolgimento politico in Israele e gettò le basi per la pace con gli egiziani di qualche anno dopo. La guerra prese il nome dal giorno in cui era iniziata, Kippùr, e fu anche un modo per far conoscere al mondo non ebraico l’esistenza e l’importanza di quel giorno per gli ebrei. Come succede per avvenimenti storici importanti e decisivi, molti conservano il ricordo di come appresero la notizia, dove stavano e come reagirono. Per moltissimi ebrei nella diaspora la notizia li raggiunse a metà giornata del Kippùr, spesso dentro le sinagoghe affollate, aggiungendo una vivissima preoccupazione alla solennità di quelle ore, con la mente che andava da altre parti. In Israele è rimasta nella memoria l’incredibile situazione del Kippùr con i riservisti richiamati di corsa, delle sirene, delle radio accese per le notizie allarmanti.
   La guerra del Kippùr porta il nome di una ricorrenza ebraica ed è rimasta a questa strettamente legata. Se pensiamo all’altro anniversario che ricorderemo in questi giorni, l’ottantesimo del 16 ottobre del 1943, che ha interessato gli ebrei romani, vediamo subito uno scenario differente: che la data è civile, che non c’è nessun riferimento a tradizioni ebraiche, come se tutto si svolgesse in un’atmosfera che riguardava le persone e non la loro religione. Eppure gli avvenimenti romani di quei due primi mesi di occupazione nazista si incrociarono con il calendario ebraico in forma drammatica e sembra che solo in tempi più recenti queste circostanze siano state citate. Propongo questo schema, che dubito sia mai stato presentato:

I livelli di osservanza delle tradizioni erano in quegli anni a Roma molto differenti da quelli attuali, ma la partecipazione alle funzioni sinagogali festive non era calata, anzi da alcune testimonianze sembra fosse aumentata dai tempi delle leggi razziali. Per motivi prudenziali le funzioni del Tempio maggiore furono sospese poco dopo l’arrivo dei nazisti a Roma ed erano i giorni delle selichòt. La taglia dell’oro fu consegnata il pomeriggio del giorno precedente Rosh hashanà e questo forse dette a molti un senso di sicurezza e di scampato pericolo alla vigilia dell’anno nuovo. Non ci furono funzioni pubbliche né a Rosh hashanà né a Kippur al Tempio maggiore, e la capienza dello Spagnolo, nei sotterranei, e del Tempio dell'Isola era molto limitata. Il saccheggio delle biblioteche avvenne il primo giorno di Sukkòt. Il rastrellamento degli ebrei romani ci fu due giorni dopo, di sabato (“il sabato nero”) terzo giorno di Sukkòt. Non ci sono notizie, ma è verosimile che la tradizionale sukkà nel cortile del Tempio maggiore non fosse stata costruita.
   Tutta la vicenda della deportazione, la partenza del treno e il suo viaggio si svolse nei giorni di Sukkòt. I vagoni piombati arrivati a Birkenau vennero aperti la mattina dello Shabbàt successivo, che era Shabbat Bereshit e la gassazione di circa 800 deportati avvenne più tardi in quello stesso giorno. Gli anniversari si dovrebbero ricordare nella data della morte delle persone, quindi il 24 di tishrì, il giorno dopo Simchàt Torà, che qualche volta, come nel 1943, coincide con Shabbàt Bereshit, ma questo non sembra sia stato fatto almeno a livello collettivo. È vero che la notizia precisa della data la si è saputa solo dopo anni, ma non risulta l’istituzione di una cerimonia, di un izkòr in quel giorno; a differenza di quanto si fa per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, che viene ricordato civilmente il 24 marzo, ma celebrato anche in data ebraica, nell’ultimo giorno di Adàr.
   Gli eventi dell’occupazione nazista furono un’offesa all’umanità ma anche all’ebraismo e alle sue tradizioni. La prima circostanza è stata ed è rimasta al centro dei ricordi e delle dovute celebrazioni. La seconda è stata quasi cancellata. C’è da chiedersi il perché di questo meccanismo tanto selettivo della memoria.

(Shalom, 24 settembre 2023)

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Ho partecipato alla Guerra dello Yom Kippur. Un’esperienza personale (1)

La guerra dello Yom Kippur non fu solo uno scioccante attacco a sorpresa. Fu un'esperienza umiliante che riportò l'orgoglioso Israele alla realtà.

di Gershon Nerel

Mezzo secolo fa. Lo Shabbat del 6 ottobre 1973 era anche il giorno di digiuno di Yom Kippur. L'intero Israele era molto tranquillo e immobile nelle ore del mattino, come è tipico di quel giorno. A quel tempo ero in congedo dallo Zahal, le Forze di Difesa Israeliane (IDF), dopo tre estenuanti anni di servizio militare, la maggior parte dei quali passate nel deserto del Sinai.
   Ero in attesa di iniziare i miei studi di storia, che volevo affiancare alle relazioni internazionali all'Università Ebraica di Gerusalemme. Vivevo in una minuscola stanza in affitto nel seminterrato della Chiesa dell'Alleanza Americana (Christian & Missionary Alliance - C&MA) al 55 di via dei Profeti. Anche se questa stanza non aveva un bagno proprio, dopo aver dormito in una minuscola tenda per quasi tre anni, mi sembrava una reggia.
   L'aspettativa di essere presto congedato dall'esercito dopo il servizio militare obbligatorio era come la realizzazione di un lungo sogno. Purtroppo, però, un evento drammatico e improvviso, intorno alle 14.00, ha cambiato l'atmosfera tranquilla della giornata e le mie aspettative personali.

• NEL SINAI
  Come medico da combattimento, ho svolto la maggior parte del mio servizio militare tra le dune gialle della penisola del Sinai, vicino al Canale di Suez. Ero responsabile dell'assistenza medica di base quotidiana di circa 400 soldati, ufficiali e altri. Il reggimento n. 601 era specializzato in operazioni tecniche, tra cui minamento e sminamento, la costruzione di fortificazioni e recinzioni e la posa di nuove strade e sentieri.
   L'unità medica del mio reggimento era composta da un medico, diversi altri medici da combattimento, un'ambulanza, medicinali e le attrezzature necessarie per un'assistenza medica di primo soccorso. La nostra squadra medica e i rifornimenti di emergenza erano posizionati al Passo di Jiddi, non lontano dal "paralizzato" Canale di Suez, in un massiccio bunker fatto di cemento e pietre raggruppate in grandi "cesti" di reti metalliche. Questo rifugio/bunker rinforzato faceva parte di una catena di piccoli forti israeliani costruiti lungo la sponda orientale del Canale di Suez allora in disuso, nota come Linea Bar Lev.
   Quando a metà settembre del '73 lasciai la mia unità medica nel Sinai e mi trasferii a Gerusalemme per iniziare la mia vita da studente, non avevo la minima idea che sarei tornato lì molto presto, ancor prima di iniziare gli studi. Ero assolutamente sicuro che all'inizio di novembre del '73 sarei stato finalmente un libero civile. Non avevo dubbi che raramente sarei stato chiamato per il servizio di riserva perché, pensavo, “i vicini eserciti arabi non oseranno sfidare Israele".

• TOTALE SORPRESA
  Il silenzio totale nelle strade di Gerusalemme fu rotto in modo scioccante quando le strade cominciarono a riempirsi di veicoli militari e di altro tipo. Quella mattina ho partecipato alla regolare funzione dello Shabbat presso la Comunità Messianica Israeliana al numero 56 di Via dei Profeti, a pochi minuti a piedi dal mio appartamento. Dopo essere tornato nel mio appartamento, che ospitava anche alcuni amici studenti, tra cui Efraim (Fred) Goldstein, iniziò il balagan (totale caos).
   Poco dopo le 14, il Primo Ministro Golda Meir annunciò alla radio che l'Egitto a sud e la Siria a nord avevano attaccato congiuntamente Israele. Pochi minuti dopo, i miei genitori mi chiamarono da Beer-Sheva per dirmi che avevano ricevuto una telefonata urgente dal mio reggimento nel Sinai che mi chiedeva di tornare immediatamente.
   Ho preparato velocemente alcune cose essenziali in una piccola borsa e mi sono detto: "Se l'ultima grande guerra del 1967 è durata solo sei giorni e Israele ha ottenuto una vittoria fenomenale, la battaglia attuale certamente non durerà più di tre o quattro giorni...".
   Ben presto mi resi conto di quanto mi fossi sbagliato. Dovevo tornare alla mia unità nel Sinai, ma i pesanti bombardamenti egiziani intorno al Canale di Suez bloccarono il mio accesso in sicurezza. Dovetti quindi aspettare diversi giorni al quartier generale medico di Refidim (ex Bir-Gafgafa in arabo) e solo in seguito trovai un camion di rifornimenti che poteva riportarmi dai miei compagni.

• IN AFRICA

Gershon Nerel, al centro, su un carro armato egiziano incendiato.
Sinai, novembre 1973
Il nostro intero reggimento attraversò il Canale di Suez in Egitto su un ponte mobile che era stato eretto dal Genio Militare. Nella Terra di Goshen, come la chiamavamo allora, ci accampammo in territorio egiziano vicino al cartello stradale "KM 101", a soli 101 chilometri dal Cairo. I soldati tecnici professionisti si concentravano sulla posa di mine anticarro e di altre mine.
   A me fu chiesto di unirmi a una piccola squadra di pattuglie mobili come medico, viaggiando all'aperto con il nostro vecchio veicolo di comando per individuare e avvertire le attività nemiche impreviste e fornire qualsiasi informazione vitale.
   Rimanemmo in Africa per diverse settimane, anche dopo la fine delle ostilità tra le parti. Nessuno si aspettava che sarebbe durata così a lungo. Per rimanere in allerta, non ci toglievamo le scarpe per molte ore. Avevamo a malapena calzini e biancheria in più con cui cambiarci. In particolare, trovare calzini puliti era una grande sfida. Nelle lettere ai miei genitori, così come agli altri soldati, chiedevo di inviare queste cose il prima possibile. Lentamente, anche il tempo cambiò e si avvicinò l'inverno.

• IL GRANDE SHOCK
  Per noi soldati al fronte e per i civili israeliani in patria, la Guerra dello Yom Kippur del 1973 fu l'opposto della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Improvvisamente ci fu un profondo senso di imbarazzo, persino forti sentimenti di rabbia contro la leadership ufficiale dello Stato, sia politica che militare. Gli israeliani erano profondamente frustrati perché erano stati colti completamente di sorpresa dal sofisticato attacco dei nostri nemici, che aveva colto le nostre forze impreparate. Questo aveva gravemente colpito la nostra coscienza e la nostra immagine di sé.
   Lo stato d'animo generale nell'autunno del '73 rasentava la depressione nazionale. Il generale Moshe Dayan, ministro della Difesa, espresse addirittura il timore che la "Terza Casa (Tempio)", cioè o Stato di Israele, rischiasse di essere distrutta. La gente sentiva che l'intero Paese era stato colto "con i pantaloni abbassati".
   Ricordo bene di essere stato coinvolto nell'euforia generale che seguì la miracolosa vittoria dell'IDF nella Guerra dei Sei Giorni, quando vaste aree di Giudea e Samaria, Gaza e la Penisola del Sinai passarono sotto il dominio israeliano.
   Da quando sono stato arruolato nell'ID, nel novembre 1970, la maggior parte del personale dell'esercito era dominata dalla sensazione di essere superiore agli arabi e che Israele fosse invincibile. L'orgoglio politico e l'arroganza militare permeavano tutte le aree del Paese.
   Ricordo personalmente l'arroganza dei nostri ufficiali dopo la Guerra dei Sei Giorni. Tutti gli ufficiali e i generali dell'esercito furono idolatrati dalla stampa nazionale e glorificati in numerosi album di vittorie. Vicino al Canale di Suez, solo pochi soldati presidiavano le minuscole basi militari, convinti che l'esercito egiziano non avesse il coraggio e le capacità per traversare l’acqua e venire dalla nostra parte.
   Poi, nell'ottobre del '73, arrivò il grande shock nazionale e militare. Gli inaspettati attacchi egiziani e siriani contro Israele durante lo Yom Kippur elettrizzarono l'intero Paese. Israele dovette riorganizzare in fretta le sue forze e chiese agli Stati Uniti rapidi convogli di munizioni, armi, vestiti, ecc. soprattutto per i soldati in prima linea.

(continua)


(Israel Heute, 24 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il discorso integrale di Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite

Signore e signori,
più di tre millenni fa, il nostro grande condottiero Mosè si rivolse al popolo di Israele mentre stava per entrare nella terra promessa. Disse che avrebbero trovato i due monti uno di fronte all’altro. Il monte Gerizim, luogo in cui sarebbe stata proclamata una grande benedizione, e il monte Ebal, luogo di una grande maledizione.
Mosè disse che il destino del popolo sarebbe stato determinato dalla scelta tra la benedizione e la maledizione. Questa stessa scelta è riecheggiata nei secoli, non solo per il popolo d’Israele. Ma per tutta l’umanità. Oggi ci troviamo di fronte a una scelta del genere. Essa determinerà se godremo delle benedizioni di una pace storica, di una prosperità e di una speranza sconfinate, o se subiremo la maledizione di una guerra orribile di terrorismo e di disperazione.
L’ultima volta che ho parlato su questo podio, cinque anni fa, ho messo in guardia dai tiranni di Teheran. Non sono stati altro che una maledizione, una maledizione per il loro stesso popolo, per la nostra regione, per il mondo intero. Ma allora parlai anche di una grande benedizione che vedevo all’orizzonte.
Ecco cosa dissi: “La minaccia comune dell’Iran ha avvicinato Israele e molti Stati arabi come mai prima d’ora, in un’amicizia che non ho mai visto in vita mia”.
Ho detto che: “Arriverà presto il giorno in cui Israele sarà in grado di espandere la pace oltre l’Egitto e la Giordania ad altri vicini arabi”.
Ora, in innumerevoli incontri con i leader mondiali, ho sostenuto che Israele e gli Stati arabi condividono molti interessi comuni e che ritengo che questi interessi comuni possano facilitare una svolta per una pace più ampia nella nostra regione.
APPLAUSI
Grazie. Bene, ora applaudite. All’epoca, però, molti liquidarono il mio ottimismo come velleitario. Il loro pessimismo si basava su un quarto di secolo di buone intenzioni e di fallimenti della pacificazione. E perché? Perché queste buone intenzioni? Perché sono sempre fallite? Perché si basavano sulla falsa idea che, se prima non avessimo concluso un accordo di pace con i palestinesi, nessun altro Stato arabo avrebbe normalizzato le proprie relazioni con Israele.
Da tempo cerco di fare la pace con i palestinesi. Ma credo anche che non dobbiamo dare ai palestinesi un veto sui nuovi trattati di pace con gli Stati arabi. I palestinesi potrebbero trarre grandi benefici da una pace più ampia. Dovrebbero far parte di questo processo, ma non dovrebbero avere un veto su di esso.
Inoltre, credo che la pace con un maggior numero di Stati arabi aumenterebbe le prospettive di pace tra Israele e i palestinesi. I palestinesi sono solo il 2% del mondo arabo. Finché crederanno che il restante 90% rimarrà in uno stato di guerra con Israele, quella massa più grande, quel mondo arabo più grande potrebbe alla fine distruggere lo Stato ebraico.
Quindi, quando i palestinesi vedranno che la maggior parte del mondo arabo si è riconciliato con lo Stato ebraico, anche loro saranno più propensi ad abbandonare la fantasia di distruggere Israele e ad abbracciare finalmente un percorso di pace autentica con esso.
Per anni il mio approccio alla pace è stato rifiutato dai cosiddetti esperti. Ebbene, si sbagliavano. Con il loro approccio, per un quarto di secolo non abbiamo concluso un solo trattato di pace. Eppure, nel 2020, con l’approccio da me sostenuto, abbiamo provato qualcosa di diverso. E in men che non si dica, abbiamo raggiunto un risultato straordinario. In collaborazione con gli Stati Uniti, Israele ha concluso quattro trattati di pace in quattro mesi con quattro Paesi arabi: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.
Gli accordi di Abramo sono stati un punto di snodo della storia. E oggi, tutti noi vediamo i benefici di quegli accordi. Il commercio e gli investimenti con i nostri nuovi partner di pace sono in piena espansione. Le nostre nazioni cooperano nel commercio, nell’energia, nell’acqua, nell’agricoltura, nella medicina, nel clima e in molti altri campi. Negli ultimi tre anni, quasi un milione di israeliani ha visitato gli Emirati Arabi Uniti. Ogni giorno, gli israeliani risparmiano tempo e denaro facendo qualcosa che non hanno potuto fare per 70 anni: sorvolano la penisola arabica per raggiungere destinazioni nel Golfo, in India, in Estremo Oriente e in Australia.
Gli Accordi di Abramo hanno dato il via a un altro clamoroso cambiamento. Ha avvicinato arabi ed ebrei. Lo vediamo nei frequenti matrimoni ebraici a Dubai, nella dedica di una scuola di Torah in una sinagoga di Bahran. Nei visitatori che affollano il Museo dell’ebraismo marocchino e Casablanca. Lo vediamo nelle lezioni sull’Olocausto impartite agli studenti arabi negli Emirati Arabi Uniti.
Non c’è dubbio. Gli accordi di Abramo hanno annunciato l’alba di una nuova era di pace.
Ma credo che siamo alla vigilia di una svolta ancora più drammatica: una pace storica tra Israele e Arabia Saudita. Una pace di questo tipo contribuirà a porre fine al conflitto arabo-israeliano. Incoraggerà altri Stati arabi a normalizzare le loro relazioni con Israele. Migliorerà le prospettive di pace con i palestinesi. Incoraggerà una più ampia riconciliazione tra ebraismo e Islam, tra Gerusalemme e La Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele. Tutte queste sono enormi benedizioni.
Due settimane fa, abbiamo visto un’altra benedizione già in vista. Durante la conferenza del G20, il Presidente Biden, il Primo Ministro Modi e i leader europei e arabi hanno annunciato i piani per un corridoio visionario che si estenderà attraverso la penisola arabica e Israele. Collegherà l’India all’Europa con collegamenti marittimi, ferroviari, oleodotti e cavi in fibra ottica.
Questo corridoio bypasserà i posti di blocco marittimi, o meglio i punti di strozzatura, e ridurrà drasticamente il costo delle merci, delle comunicazioni e dell’energia per oltre 2 miliardi di persone.
Un cambiamento storico per il mio Paese. Vedete, la terra di Israele è situata al crocevia tra Africa, Asia ed Europa. Per secoli, il mio Paese è stato ripetutamente invaso dagli imperi che lo attraversavano nelle loro campagne di saccheggio e di conquista. Ma oggi, abbattendo i muri dell’inimicizia, Israele può diventare un ponte di pace e prosperità tra questi continenti.
La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà davvero un nuovo Medio Oriente.
Per comprendere la portata della trasformazione che cerchiamo di portare avanti, permettetemi di mostrarvi una mappa del Medio Oriente nel 1948, anno di fondazione di Israele. Ecco Israele nel 1948. È un Paese minuscolo, isolato, circondato da un mondo arabo ostile.
Nei primi sette anni abbiamo fatto pace con l’Egitto e la Giordania. Poi, nel 2020, abbiamo stipulato gli accordi di Abramo – pace con altri quattro Stati arabi. Ora guardate cosa succede quando facciamo la pace tra Arabia Saudita e Israele. L’intero Medio Oriente cambia. Abbattiamo i muri dell’inimicizia. Portiamo la possibilità di prosperità e pace all’intera regione. Ma facciamo anche qualcos’altro.
Qualche anno fa, mi trovavo qui con un pennarello rosso per indicare la maledizione, una grande maledizione, la maledizione di un Iran nucleare. Ma oggi, oggi, porto questo pennarello per mostrare una grande benedizione, la benedizione di un nuovo Medio Oriente, tra Israele, Arabia Saudita e gli altri nostri vicini.
Non solo abbatteremo le barriere tra Israele e i nostri vicini, ma costruiremo un nuovo corridoio di pace e prosperità che collegherà l’Asia, attraverso gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele, all’Europa. Si tratta di un cambiamento straordinario, un cambiamento monumentale. Un altro punto di snodo della storia.
Ora, mentre il cerchio della pace si allarga, credo che si possa finalmente realizzare un vero percorso verso una pace autentica con i nostri vicini palestinesi. Ma c’è un’avvertenza. Va detto qui, con forza. La pace può essere raggiunta solo se si basa sulla verità. Non può basarsi sulla menzogna. Non può basarsi sul vilipendio infinito del popolo ebraico.
Il leader palestinese Mahmoud Abbas deve smettere di diffondere le orribili cospirazioni antisemite contro il popolo ebraico nello Stato ebraico. Voglio dire, recentemente ha detto che Hitler non era un antisemita – non si può inventare. Ma l’ha fatto. L’ha detto.
E l’Autorità Palestinese deve smettere di glorificare i terroristi, deve interrompere la sua macabra politica di dare soldi ai terroristi palestinesi per l’omicidio di ebrei. Tutto questo è oltraggioso e deve cessare per far prevalere la pace.
E l’antisemitismo deve essere respinto ovunque appaia, sia a destra che a sinistra, sia nelle aule delle università che in quelle delle Nazioni Unite. Affinché la pace prevalga, i palestinesi devono smettere di sputare odio contro gli ebrei e riconciliarsi finalmente con lo Stato ebraico. Con questo non intendo solo l’esistenza dello Stato ebraico, ma il diritto del popolo ebraico ad avere uno Stato proprio nella sua patria storica, la terra di Israele.
E lasciatemi dire che il popolo d’Israele anela a questa pace. Io desidero questa pace. Da giovane soldato, più di mezzo secolo fa, io e i miei commilitoni delle forze speciali israeliane abbiamo affrontato pericoli mortali su molti fronti e su molti campi di battaglia, dalle calde acque del Canale di Suez alle pendici ghiacciate del Monte Hermon, dalle sponde del fiume Giordano all’asfalto dell’aeroporto di Beirut.
Queste e altre esperienze mi hanno insegnato il costo della guerra. Un compagno è stato ucciso accanto a me e un altro è morto tra le mie braccia. Ho seppellito mio fratello maggiore. Chi ha sofferto personalmente la maledizione della guerra può apprezzare meglio le benedizioni della pace.
Ora, ci sono molti ostacoli sulla strada della pace. Ci sono molti ostacoli sulla straordinaria via della pace che ho appena descritto. Ma mi impegno a fare tutto il possibile per superare questi ostacoli, per forgiare un futuro migliore per Israele e per tutti i nostri popoli, tutti i popoli della nostra regione.
Due giorni fa ho discusso questa visione di pace con il Presidente Biden. Condividiamo lo stesso ottimismo per ciò che può essere raggiunto. E apprezzo profondamente il suo impegno a cogliere questa opportunità storica. Gli Stati Uniti d’America sono indispensabili in questo sforzo. E proprio come abbiamo raggiunto gli accordi di Abraham, con la guida del Presidente Trump, credo che possiamo raggiungere la pace con l’Arabia Saudita, con la guida del Presidente Biden.
Lavorando insieme alla leadership del principe ereditario Mohammed bin Salman, possiamo dare forma a un futuro di grande prosperità per tutti i nostri popoli.
Ora, signore e signori, sapete che c’è una mosca in questa faccenda. Perché, statene certi, i fanatici che governano l’Iran faranno di tutto per ostacolare questa pace storica. L’Iran continua a spendere miliardi per armare i suoi proxy del terrore. Continua a estendere i suoi tentacoli di terrore in Medio Oriente, Europa, Asia, Sud America e persino in Nord America.
Hanno persino tentato di assassinare il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Hanno persino tentato di assassinare il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Questo dice tutto quello che c’è da sapere sulle intenzioni omicide dell’Iran e sulla sua natura omicida.
L’Iran continua a minacciare le rotte di navigazione internazionali, a tenere in ostaggio cittadini stranieri e a ricattare con il nucleare. Nell’ultimo anno, i suoi demoni assassini hanno ucciso centinaia di persone e arrestato migliaia di coraggiosi cittadini iraniani.
I droni e il programma missilistico iraniano minacciano Israele e i nostri vicini arabi e i droni iraniani hanno portato e portano morte e distruzione a persone innocenti in Ucraina.
Eppure, l’aggressione del regime è in gran parte accolta dall’indifferenza della comunità internazionale. Otto anni fa, le potenze occidentali avevano promesso che se l’Iran avesse violato l’accordo sul nucleare, le sanzioni sarebbero state ripristinate. Ebbene, l’Iran sta violando l’accordo. Ma le sanzioni non sono state ripristinate.
Per fermare le ambizioni nucleari dell’Iran. Questa politica deve cambiare. Le sanzioni devono essere ripristinate. E soprattutto, soprattutto, l’Iran deve affrontare una minaccia nucleare credibile. Finché sarò Primo Ministro di Israele, farò tutto ciò che è in mio potere per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari.
Allo stesso modo, dovremmo sostenere le donne e gli uomini coraggiosi dell’Iran che disprezzano il regime, che anelano alla libertà. Che si sono alzati coraggiosamente sui marciapiedi di Teheran e delle altre città iraniane per affrontare la morte. È il popolo iraniano, non i suoi oppressori, il nostro vero partner per un futuro migliore.
Signore e signori, se il nostro futuro si rivelerà una benedizione o una maledizione dipenderà anche da come affronteremo lo sviluppo forse più importante del nostro tempo. L’ascesa dell’intelligenza artificiale.
La rivoluzione dell’intelligenza artificiale procede alla velocità della luce. Ci sono voluti secoli perché l’umanità si adattasse alla rivoluzione agricola. Ci sono voluti decenni per adattarsi alla rivoluzione industriale. Potremmo avere solo pochi anni per adattarci alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
I pericoli sono grandi e sono davanti a noi. L’interruzione della democrazia, la manipolazione delle menti, la decimazione dei posti di lavoro, la proliferazione del crimine e la violazione di tutti i sistemi che facilitano la vita moderna. Ma ancora più inquietante è il potenziale scoppio di guerre guidate dall’IA che potrebbero raggiungere una scala inimmaginabile.
E dietro a tutto ciò si profila forse una minaccia ancora più grande, un tempo di fantascienza, ovvero che le macchine autodidatte possano finire per controllare gli esseri umani, anziché il contrario. Le nazioni leader del mondo, per quanto competitive, devono affrontare questi pericoli. Dobbiamo farlo in fretta. E dobbiamo farlo insieme. Dobbiamo fare in modo che la promessa di un’utopia dell’IA non si trasformi in una distopia dell’IA.
Abbiamo così tanto da guadagnare. Immaginate la fortuna di poter finalmente decifrare il codice genetico, allungare la vita umana di decenni e ridurre drasticamente i danni della vecchiaia. Immaginate un’assistenza sanitaria su misura per la composizione genetica di ogni individuo e una medicina predittiva che prevenga le malattie molto prima che si manifestino. Immaginate i robot che aiutano a prendersi cura degli anziani. Immaginate la fine degli ingorghi, con veicoli a guida autonoma a terra, sotto terra e in aria. Immaginate un’istruzione personalizzata che coltivi il pieno potenziale di ogni persona per tutta la vita.
Immaginate un mondo con energia pulita illimitata e risorse naturali per tutte le nazioni. Immaginate un’agricoltura di precisione e fabbriche automatizzate che producano cibo e beni in un’abbondanza tale da porre fine alla fame e al bisogno.
So che sembra una canzone di John Lennon. Ma tutto questo potrebbe accadere.
Immaginate, immaginate di poter raggiungere la fine della penuria (povertà). Qualcosa che è sfuggito all’umanità per tutta la storia. È tutto a portata di mano. Ed ecco un’altra cosa alla nostra portata. Con l’intelligenza artificiale possiamo esplorare i cieli come mai prima d’ora ed estendere l’umanità oltre il nostro pianeta blu.
Nel bene e nel male, gli sviluppi dell’IA saranno guidati da una manciata di nazioni, e il mio Paese, Israele, è già tra queste. Proprio come la rivoluzione tecnologica di Israele ha fornito al mondo innovazioni mozzafiato, sono fiducioso che l’IA sviluppata da Israele aiuterà ancora una volta tutta l’umanità.
Invito i leader mondiali a riunirsi per dare forma ai grandi cambiamenti che ci attendono. Ma a farlo in modo responsabile ed etico. Il nostro obiettivo deve essere quello di garantire che l’IA porti più libertà e non meno, che prevenga le guerre invece di iniziarle e che garantisca alle persone una vita più lunga, più sana, più produttiva e pacifica. È alla nostra portata.
E mentre sfruttiamo i poteri dell’IA, ricordiamo sempre il valore insostituibile dell’intuizione e della saggezza umana. Dobbiamo custodire e preservare la capacità umana di empatia, che nessuna macchina può sostituire.
Migliaia di anni fa, Mosè presentò ai figli di Israele una scelta universale e senza tempo. Ecco, oggi ho detto davanti a voi una benedizione e una maledizione. Possiamo scegliere con saggezza tra la maledizione e la benedizione che ci stanno davanti oggi. Sfruttiamo la nostra risolutezza e il nostro coraggio per fermare la maledizione di un Iran nucleare e per far regredire il suo fanatismo e la sua aggressività.
Facciamo nascere la benedizione di un nuovo Medio Oriente che trasformerà le terre un tempo segnate dal conflitto e dal caos in campi di prosperità e di pace. E che possiamo evitare i pericoli dell’IA combinando le forze dell’intelligenza umana e di quella meccanica, per inaugurare un futuro brillante per il nostro mondo nel nostro tempo e per tutti i tempi. Grazie.

(Rights Reporter, 24 settembre 2023)

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Salmo 1

Dalla Sacra Scrittura

SALMO 1

  1. Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma nella via dei peccatori; né si siede in compagnia degli schernitori;
  2. ma il cui diletto è nella legge del Signore, e su quella legge medita giorno e notte.
  3. Egli sarà come un albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo frutto nella sua stagione, e il cui fogliame non appassisce; e tutto quello che fa, prospererà.
  4. Non così gli empi, anzi sono come pula che il vento disperde.
  5. Perciò gli empi non reggeranno davanti al giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
  6. Poiché il Signore conosce la via dei giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.


GENESI 39

  1. Giuseppe fu portato in Egitto; e Potifar, ufficiale del faraone, capitano delle guardie, un Egiziano, lo comprò da quegli Ismaeliti che ce l'avevano condotto.
  2. Il Signore era con Giuseppe: a lui riusciva bene ogni cosa e stava in casa del suo padrone egiziano.
  3. Il suo padrone vide che il Signore era con lui e che il Signore gli faceva prosperare nelle mani tutto ciò che intraprendeva.

  1. E il Signore fu con Giuseppe, gli mostrò il suo favore e gli fece trovare grazia agli occhi del governatore della prigione.
  2. Così il governatore della prigione affidò alla sorveglianza di Giuseppe tutti i detenuti che erano nel carcere; e nulla si faceva senza di lui.
  3. Il governatore della prigione non rivedeva niente di quello che era affidato a lui, perché il Signore era con lui, e il Signore faceva prosperare tutto quello che egli intraprendeva.


GIOSUÈ 1

  1. Nessuno potrà resistere di fronte a te tutti i giorni della tua vita; come sono stato con Mosè, così sarò con te; io non ti lascerò e non ti abbandonerò.
  2. Sii forte e coraggioso, perché tu metterai questo popolo in possesso del paese che giurai ai loro padri di dar loro.
  3. Solo sii molto forte e coraggioso; abbi cura di mettere in pratica tutta la legge che Mosè, mio servo, ti ha data; non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai.
  4. Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai.
  5. Non te l'ho io comandato? Sii forte e coraggioso; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché il Signore, il tuo Dio, sarà con te dovunque andrai».

PREDICAZIONE
di Gabriele Monacis

Gabriele Monacis
luglio 2023




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Netanyahu: “La pace con l’Arabia Saudita creerà un nuovo Medio Oriente”

Nell’intervento all’Assemblea generale dell’Onu, il premier israeliano conferma l’intesa sui negoziati per la normalizzazione con Riad dopo che il principe bin Salman aveva definito i due Paesi “sempre più vicini”.

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK - «Non c’è dubbio che gli Accordi di Abramo abbiano segnato l’alba di una nuova era di pace. Ma credo che siamo sull’orlo di una svolta ancora più sensazionale, una pace storica tra Israele e Arabia Saudita. Questa pace creerà davvero un nuovo Medio Oriente». Così ha parlato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, intervenendo all’Assemblea Generale dell’Onu, due giorni dopo il suo bilaterale con il presidente americano Biden. La conferma dunque che il negoziato procede, nonostante la prudenza e le riserve avanzate nei giorni scorsi da Riad.
   L’intesa per normalizzare le relazioni tra l’Arabia e lo Stato ebraico, per quanto è trapelato finora, si basa sulle garanzie di sicurezza che gli Stati Uniti dovrebbero dare ai sauditi, in particolare per proteggerli da eventuali attacchi dell’Iran, più la tecnologia per sviluppare un piano nucleare a scopi civili. In cambio però Riad chiede anche concessioni a favore dei palestinesi, finora non chiarite in pubblico. Questo è uno degli ostacoli per concludere l’accordo, in particolare perché alcuni alleati di governo del premier non sarebbero favorevoli a restituire i territori necessari a far nascere uno stato arabo nelle zone contese. Inoltre vanno definiti i dettagli delle garanzie militari fornite dagli Usa, non al livello della Nato, ma abbastanza stringenti, e della tecnologia atomica da trasferire, affinché non possa essere utilizzata allo scopo di costruire armi.
   Netanyahu però ha espresso ottimismo dal podio dell’Onu, dicendo che l’accordo è a portata di mano. Ha aggiunto che «i palestinesi potrebbero beneficiarsi enormemente di una pace più ampia. Dovrebbero essere parte del processo, ma senza avere un potere di veto».
   Il suo intervento ha provocato anche polemiche, perché ha mostrato una cartina geografica in cui i territori occupati risultano parte di Israele.
   Poi ha detto che per contenere il regime degli ayatollah, «l’Iran deve fronteggiare una credibile minaccia nucleare». Poco dopo l’ambasciatore all’Onu Gilad Erdan è intervenuto per correggere, chiarendo che il premier intendeva «minaccia militare», come è sempre stata la politica dello Stato ebraico.
   Netanyahu non è entrato nei dettagli delle questioni ancora irrisolte, ma anche il principe saudita Mohammed bin Salman ha detto in un’intervista con la Fox News che «ogni giorno ci avviciniamo alla normalizzazione». Poi però ha aggiunto: «Per noi, la questione palestinese è molto importante. Abbiamo bisogno di risolvere questa parte».

(la Repubblica, 23 settembre 2023)


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Arabia-Israele - “L’intesa che fa comodo agli Usa ancora non esiste, ecco perché”

L’ Israele-Arabia Saudita non esiste: restano i nodi del nucleare e dei palestinesi. Gli Usa lo vogliono per dedicarsi all’Indo-Pacifico

di Paolo Rossetti

L’accordo di per sé sarebbe storico: lo stesso premier israeliano Netanyahu all’Onu lo ha dato per vicino. Israele e Arabia Saudita sono due attori che nello scenario mediorientale sono da sempre su posizioni opposte. E la possibilità di un accordo di pace, di una normalizzazione delle loro relazioni sarebbe, per tutta l’area, ma anche a livello globale, un contributo notevole alla distensione. Quell’intesa che secondo alcuni è a un passo, però, si gioca su temi così complessi che prima di cantare vittoria è meglio essere prudenti.
   Anche Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa per il Cesi (Centro studi internazionali), ritiene che l’accordo, promosso e sollecitato dall’amministrazione Biden, sia ancora complicato da definire. L’avvio di un programma nucleare per l’Arabia e la questione palestinese non sono argomenti su cui le parti possano trovare così facilmente un punto di incontro. Il confronto, comunque, prosegue e la storia insegna che a volte anche due Stati che sono stati acerrimi nemici possono trovare un terreno comune su cui incontrarsi.

- L’accordo Israele-Arabia Saudita è veramente a un passo, come sostiene Mohamed Bin Salman?
  L’intesa non esiste ancora. È evidente che le leadership spingono per un accordo, ma mentre il principe ereditario Mohamed Bin Salman diceva a Fox news che è praticamente fatto, c’è stato un comunicato abbastanza duro del ministero degli Esteri di Riad in cui si condannava l’ultima azione israeliana nei confronti dei palestinesi. È su questo punto che c’è la divisione maggiore. Questa imminenza dell’accordo, quindi, è presumibile dire che non ci sia. Ci sono diversi segnali che spingerebbero le parti a ricercare un’intesa.

- Che vantaggi porterebbe l’intesa alle parti in causa?
  Per Biden sarebbe un grande risultato da poter rivendere in ottica elettorale, in vista delle presidenziali del prossimo anno. Dal punto di vista strategico potrebbe avere un impatto notevole anche sulla stabilità e sulla rimodulazione del Medio Oriente, anche in un’ottica anti-cinese e anti-russa. Pochi mesi fa la Cina, anche grazie all’azione di altri attori regionali, si era resa protagonista di un’azione distensiva tra Iran e Arabia Saudita e tutti hanno parlato della creazione di un nuovo Medio Oriente. In realtà entrambe le situazioni stanno contribuendo a dare una nuova forma alla regione, nella quale ci sono più attori interni ed esterni interessati a costruire un’area geopolitica in termini nuovi e gli attori regionali sono sempre più rilevanti anche per gli attori esterni. Penso alle grandi potenze: Usa, Russia o Cina. L’intesa, comunque, se mai ci sarà, dovrà avere diversi passaggi prima di ottenere una forma definitiva.

- Dove stanno le maggior complicazioni?
  Sia nell’ottica saudita che in quella israeliana questo accordo deve comprendere alcuni elementi. Per i sauditi non c’è solo la componente palestinese, che è importante soprattutto dal punto di vista della legittimità popolare araba, che dà importanza a questo dossier più delle proprie leadership. Occorre soddisfare la loro richiesta di riconoscimento del nucleare. In Medio Oriente l’unico Paese dotato di un ordigno nucleare è Israele e questo garantisce un vantaggio strategico notevole. Rafforzare un Paese che potrebbe divenire partner può avere delle conseguenze notevoli dal punto di vista delle scelte di politica estera. L’accordo deve passare da un confronto interno alla stessa leadership israeliana.

- Gli americani hanno così bisogno di riprendere quota in Medio Oriente da essere disposti anche a concedere il nucleare ai sauditi?
  Non dobbiamo pensare che gli Usa siano un attore così in uscita dal Medio Oriente: in realtà se guardiamo al rapporto con l’Arabia Saudita, pur essendoci grandi frizioni, il livello di profondità delle relazioni non è neanche lontanamente paragonabile a quello che Riad ha con Cina e Russia. Gli Usa hanno bisogno di questa intesa per sfilarsi sempre di più dalle sabbie mobili mediorientali. Hanno le necessità di demandare gran parte del loro coinvolgimento politico e militare a questi attori locali, che si professano potenze in grado di poter gestire un’area come questa. L’intesa serve agli americani per sganciarsi, minimamente o in buona parte, dal Medio Oriente per poi ritarare la loro azione nell’Indo-Pacifico in funzione anti-cinese e anti-russa.

- Le posizioni di Israele e Arabia Saudita sulla questione palestinese sono molto lontane, come faranno a trovare un accordo?
  È molto difficile ma non impossibile, se si vuole. Per far incastrare tutti i tasselli, comunque, ce ne vuole. Tuttavia, come disse Trump in occasione del suo piano di pace per il Medio Oriente, questo sarebbe l’accordo del secolo. Allo stato attuale vedo troppe difficoltà perché possa andare in porto.

- Perché Israele dovrebbe firmare un accordo del genere, quali vantaggi ne trarrebbe?
  Israele ha interesse a stabilizzare le sue relazioni con il più grande Paese arabo musulmano, con un’economia importante, con un mercato che fa gola, ma la vera questione è se questa intesa convenga più a Riad che a Gerusalemme. Gli israeliani non hanno mai nascosto la loro disponibilità all’intesa, il punto è che non sono disposti a cedere sulla questione palestinese.

- Il governo Netanyahu deve fare i conti con una forte opposizione interna contraria alla sua riforma della giustizia. Ha la forza per far accettare un accordo con l’Arabia alle sue componenti più estremiste?
  - Anche per gli accordi di Oslo, di cui ricorrono i trent’anni, c’erano grandi aspettative e sappiamo come è andata a finire: a volte le firme possono nascondere diversi tranelli. Vedo molto difficile che Netanyahu faccia delle aperture, la parte fondamentale della sua coalizione di Governo è costituita dalla destra estrema e questo lo condanna a rispondere in primis ai loro interessi. Parlo di una destra che è divisiva, astiosa nei confronti dei palestinesi, che non accetta un certo tipo di Stato in senso liberale. Per questo vedo molto complicata un’apertura, allo stato attuale, sulla questione palestinese, a meno che venga poi del tutto disillusa, anche in un momento successivo all’intesa. Le parti potrebbero firmare per dare seguito a quello che interessa loro nell’accordo, salvo poi far finta per altri versi che non sia mai esistito se la situazione dovesse precipitare. Non sarebbe neanche la prima volta e soprattutto non sarebbe così impossibile, considerando il personaggio Netanyahu.

(ilsussidiario.net, 23 settembre 2023)


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Netanyahu: «Palestinesi irrilevanti, non hanno diritto di veto su accordi tra Israele e arabi»

La valutazione politica di un giornalista notoriamente anti-israeliano. NsI

di Michele Giorgio,

GERUSALEMME - Ieri nel momento in cui l’esercito israeliano cannoneggiava Gaza, da dove erano stati lanciati palloncini incendiari, e poco dopo l’uccisione a Jenin di un altro giovane palestinese, Benyamin Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale dell’Onu per chiedere che venga negato ai palestinesi dei Territori, sotto occupazione israeliana da 56 anni, la facoltà di condizionare la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico alla realizzazione del loro diritto alla libertà e all’indipendenza. I palestinesi sono il 2% degli arabi quindi, ha detto il premier israeliano,  «non dobbiamo dargli il diritto di veto». A giudizio di Netanyahu, gli Accordi di Abramo del 2020 – tra Israele e quattro paesi arabi – hanno «annunciato l’alba di un nuovo Medio oriente». E ora, ha proseguito, «all’alba di una pace storica con l’Arabia saudita, altri Stati arabi seguiranno e rafforzeranno la possibilità di pace con gli israeliani, forgiando legami tra ebrei e musulmani».
   Quanto sia stato ingigantito da Netanyahu lo stato (presunto) avanzato della trattativa indiretta con i sauditi – condotta dagli Usa – e con esso la normalizzazione imminente tra Riyadh e Tel Aviv, è difficile stimarlo. Il governo israeliano brama l’ingresso dei Saud negli Accordi di Abramo. Sarebbe un risultato enorme per Netanyahu e ne ha bisogno Joe Biden per aiutare, con un successo diplomatico, la futura campagna per le presidenziali. Da Riyadh però arrivano segnali ambigui. Qualche giorno fa, l’Arabia saudita ha ribadito che viene prima lo Stato di Palestina. Poco dopo l’erede al trono Mohammed bin Salman ha ridimensionato il peso dei diritti palestinesi.Altrettanto importanti le accuse che Netanyahu ha rivolto ieri all’Iran, condite da frasi inquietanti: Teheran, ha detto, «deve affrontare una minaccia nucleare credibile».

(il manifesto, 23 settembre 2023)


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L’Arabia Saudita verso la “normalizzazione” dei suoi rapporti con Israele

L’Arabia Saudita e Israele si stanno “avvicinando” a un accordo per normalizzare le loro relazioni, ha detto mercoledì il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Israele ha già normalizzato le relazioni con cinque paesi arabi, ma un simile accordo sarebbe storico, dato il peso del regno nella regione.
   “Ci avviciniamo ogni giorno di più”, ha detto Mohammed bin Salman in un’intervista al canale Fox News, mentre il presidente americano Joe Biden ha incontrato a New York il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
   “Per noi la questione palestinese è molto importante. Dobbiamo risolverla”, ha tuttavia sottolineato, parlando in inglese in modo rilassato, in questa intervista realizzata in Arabia Saudita. Secondo lui “finora i negoziati stanno procedendo bene”.
   “Speriamo che portino a un risultato che renda la vita più facile ai palestinesi e permetta a Israele di svolgere un ruolo in Medio Oriente”, ha aggiunto MBS.
   Il leader saudita ha quindi smentito le notizie di stampa che parlavano di una “sospensione” dei colloqui con Israele.
   Un riavvicinamento riuscito tra Arabia Saudita e Israele avrebbe un profondo impatto in Medio Oriente, ha commentato mercoledì il capo della diplomazia americana Antony Blinken in un’intervista alla ABC. Ciò avrebbe un “effetto potente sulla stabilizzazione della regione, sull’integrazione della regione, sull’avvicinamento delle persone”, ha affermato.

“Tradimento” della Palestina
  Questa possibile normalizzazione potrebbe implicare garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti per la monarchia petrolifera. Interrogato su questo argomento, Mohammed bin Salman ha ricordato che i legami tra Riyadh e Washington risalgono a ottant’anni fa e che un possibile accordo di sicurezza tra le due nazioni “rafforzerebbe” la loro cooperazione militare ed economica, senza ulteriori dettagli.
   Il presidente iraniano Ebrahim Raïssi ha reagito mercoledì sera, dichiarando che un’eventuale normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita costituirebbe un tradimento della causa palestinese.
   “Crediamo che un rapporto tra i paesi della regione e il regime sionista sarebbe un colpo alle spalle del popolo palestinese e della resistenza palestinese”, ha detto in una conferenza stampa a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.

Diplomazia molto attiva nella regione
  Israele ha già normalizzato le relazioni con cinque paesi arabi: Bahrein, Egitto, Giordania, Marocco ed Emirati Arabi Uniti.
   Tuttavia, il presidente iraniano ha anche accolto con favore lo “sviluppo” delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita. Le due storiche potenze rivali del Medio Oriente (la monarchia saudita sunnita e la Repubblica islamica iraniana sciita) hanno avviato una normalizzazione a sorpresa la scorsa primavera, sotto l’egida della Cina.

(dayFRitalian, 22 settembre 2023)

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Una festa speciale per Israele

Il Giorno dell'Espiazione Yom Kippur è considerato lo Shabbat per eccellenza. In questo giorno gli ebrei digiunano dal tramonto al tramonto. In Israele la vita pubblica si ferma.

di Elisabeth Hausen

I bambini usano lo Yom Kippur per scorrazzare sulle strade
Il 10° giorno dell'anno, gli ebrei celebrano il Grande Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur. Quest'anno inizia la sera del 24 settembre.
Gli ebrei trascorrono la maggior parte della giornata in preghiera. Yom Kippur è l'unico giorno in cui si recitano le cinque preghiere prescritte. La preghiera della sera (Aravit o Ma'ariv), quella del mattino (Shacharit) e quella del pomeriggio (Mincha) sono comunque consuete.
   Come in altri giorni di festa, ci sono preghiere speciali aggiuntive che vengono raggruppate sotto il termine "Mussaf". La preghiera Ne'ila, che viene recitata dopo la preghiera del pomeriggio, è unica nel suo genere. Tra le altre cose, chiarisce che l'uomo può scegliere di vivere secondo i comandamenti di Dio.
   Esodo 23:26-32 dice:
    "Il Signore parlò a Mosè dicendo: "Il decimo giorno di questo settimo mese è il giorno dell'espiazione. Farete una santa convocazione, digiunerete e offrirete sacrifici di fuoco all'Eterno; e non farete alcun lavoro in quel giorno, perché è il giorno dell'espiazione, per fare l'espiazione per voi davanti all'Eterno, il vostro Dio. Perché chi non digiunerà in quel giorno sarà eliminato dal suo popolo. E chiunque farà un lavoro in quel giorno, lo eliminerò dal suo popolo. Perciò non farete alcun lavoro. Questa sarà un'ordinanza perpetua tra i vostri discendenti, ovunque abitiate. Sarà per voi un sabato solenne e digiunerete. Il nono giorno del mese, la sera, osserverete questo giorno di riposo, dalla sera alla sera".
Anche gli ebrei laici digiunano
  Come comandato dalla Bibbia, la vita pubblica in Israele si ferma in questo giorno. Molto più che in un normale Shabbat, gli ebrei si astengono dal guidare se non in caso di emergenza. Le strade aperte sono popolate da bambini in bicicletta, skateboard e pattini a rotelle.
   I giornali laici online dicono che riprenderanno la loro copertura dopo la fine del digiuno. Anche molti ebrei che si definiscono laici si recano in sinagoga e digiunano durante lo Yom Kippur. In sinagoga si legge il Libro di Giona. Il profeta biblico resistette all'ordine di Dio di predicare un sermone di pentimento al popolo di Ninive. Si imbarcò invece su una nave che lo avrebbe portato il più lontano possibile nella direzione opposta, verso ovest, a Tarsis, in Spagna. Ma Dio lo portò al pentimento, predicò il giudizio agli abitanti di Ninive ed essi desistettero dalle loro vie malvagie. La città nell'attuale Iraq non fu distrutta perché Dio rispose con grazia alla volontà di pentimento degli abitanti.

• Diverse sfaccettature del "perdono
  In ebraico ci sono tre parole per "perdono": slicha, mechila e kappara. Nella vita quotidiana in Israele, "slicha" si sente spesso quando qualcuno chiede scusa per aver urtato accidentalmente qualcuno nella folla.
   Oltre a perdonare, la parola "mechila" può anche significare scavare un tunnel, ad esempio quando i prigionieri scappano da una prigione in questo modo. Tradotto, significa che chi perdona una persona la ferita che ha subito si libera del fardello ad essa associato.
   L'espressione "kappara", a sua volta, è legata a "kippur". L'accento è posto sulla purificazione. Grazie al perdono, è come se l'atto non fosse mai avvenuto. Questo rende possibile la riconciliazione.
   Alcune persone macellano un gallo durante lo Yom Kippur. Questo gallo va incontro alla morte per conto della persona. La cerimonia si chiama "Kapparot".

• La grazia del Creatore al centro
  L'enciclopedia ebraica "Mo'adei Jissrael" (Le feste di Israele), a cura di Joel Rappel, dice: "L'idea centrale all'origine di questo giorno speciale è la grazia del Creatore dell'uomo, che lo chiama al pentimento ed è pronto a espiare i peccati di chi si purifica davanti a Lui".
   Già nei giorni e nelle settimane che precedono lo Yom Kippur, la ricerca del pentimento e le preghiere Slichot dominano la vita ebraica. Molti si riuniscono di notte al Muro del Pianto e nelle sinagoghe per chiedere il perdono di Dio per le loro trasgressioni.
   Il tradizionale corno di montone, lo shofar, annuncia la fine della festa. Secondo la credenza ebraica, in questo momento Dio suggella il suo giudizio sul prosieguo della vita dei fedeli. Come per lo Shabbat, la preghiera Havdala, che separa il sacro dal profano, segna l'inizio della routine quotidiana. Ora i digiunanti ricominciano a mangiare e a bere. Alcuni iniziano già a costruire la capanna per l'imminente festa di Sukkot.

• La guerra dello Yom Kippur 50 anni fa: Attacco a sorpresa nel giorno del digiuno
  50 anni fa, il 6 ottobre 1973, le truppe arabe attaccarono Israele durante la festività. Nonostante la sorpresa, gli israeliani riuscirono a vincere la guerra appena tre settimane dopo, anche se con gravi perdite. Passò alla storia come la Guerra dello Yom Kippur. Gli arabi la chiamano "guerra d'ottobre".

(Israelnetz, 22 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il presidente della Lituania rende omaggio a chi salvò i libri del Ghetto di Vilna durante la Shoah

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L'Istituto YIVO per la Ricerca Ebraica, organizzazione che ha il compito di preservare, studiare e condividere la conoscenza della storia e della cultura degli ebrei dell'Europa orientale in tutto il mondo, ha accolto lunedì scorso per l’affissione di due targhe il presidente della Lituania, Gitanas Nausėda. L’evento, ha riportato il canale israeliano Arutz 7, si è tenuto presso la Strashun Rare Book Room dell’Istituto YIVO, che si trova a Manhattan.
   Il Capo di Stato lituano ha reso omaggio alla “Paper Brigade”, il gruppo di ebrei guidato da Avrom Sutzkever e Shmerke Kaczerginski, che tra il 1942 e il 1943 contrabbandarono centinaia di migliaia di libri, documenti e manufatti ebraici dalla furia nazista, e Antanas Ulpis, l’allora direttore della Camera nazionale del libro lituana, che nel 1948 salvò e nascose questi materiali nella chiesa di San Giorgio dai sovietici, che intendevano distruggere ogni memoria della cultura ebraica.
   La cerimonia di lunedì, oltre ad onorare l'eroismo di coloro che hanno salvato questi preziosi documenti, ha segnato anche il decimo anniversario della cooperazione tra l’Istituto YIVO e la Lituania. Grazie al contributo dell'attuale direttore esecutivo e CEO, Jonathan Brent, a partire dal 2011 l’istituto ha ristabilito la sua presenza in Lituania, nello specifico a Vilnius, dove si trovava l’antico Ghetto. Nel 2015 invece, l’organizzazione ebraica e gli Archivi centrali di Stato lituani hanno avviato un progetto congiunto per digitalizzare i documenti archiviati, che è stato completato l’anno scorso.
   “Sono lieto di onorare gli atti eroici e coraggiosi di Antanas Ulpis e della Paper Brigade nel salvare gran parte dell'archivio prebellico di YIVO dalla distruzione. - , ha affermato il presidente lituano Nausėda. - Le loro azioni hanno consentito la perpetuazione dell’eredità storica, culturale e intellettuale degli ebrei lituani”.
   “Senza i membri della Paper Brigade e di Antanas Ulpis, questi materiali sarebbero perduti per sempre. - ha aggiunto il CEO dell’Istituto YIVO Jonathan Brent - Siamo onorati di poter riconoscere, insieme al presidente lituano, lo straordinario coraggio di questi individui e il loro contributo alla preservazione della storia e della cultura ebraica”.
   I documenti salvati da queste persone durante la Shoah costituiscono il cuore della collezione dell’Istituto YIVO, fondata nel 1925 grazie al sostegno di importanti intellettuali e studiosi, tra cui Albert Einstein e Sigmund Freud. La collezione è composta da circa 24 milioni di oggetti, ed è la raccolta più ampia e completa di materiali provenienti dalle comunità ebraiche dell'Europa orientale. L’organizzazione ebraica custodisce inoltre la più grande collezione di libri, opuscoli e giornali in lingua yiddish al mondo.

(Shalom, 22 settembre 2023)

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Una nuova iniziativa del Chelsea per combattere l’antisemitismo nella tifoseria

di Jacqueline Sermoneta

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Il Chelsea Football Club, storica società calcistica londinese, ha lanciato ufficialmente un nuovo gruppo di tifosi ebrei. L’annuncio è avvenuto proprio in occasione della vigilia del nuovo anno ebraico. “Per celebrare Rosh Ha-Shana, siamo lieti di lanciare il gruppo di supporter ebrei del Chelsea FC, le iscrizioni ora sono aperte” ha affermato il club in una nota. Lo riporta la Jewish Telegraphic Agency.
   La decisione segue quella dell’Arsenal, altra famosa squadra londinese, che ad aprile scorso aveva creato il gruppo “Jewish Gooners”.
   Negli ultimi anni entrambe le squadre hanno affrontato episodi di antisemitismo nelle tifoserie. In precedenza, sotto la guida dell’ex proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, è stata promossa una campagna di sensibilizzazione contro l’antisemitismo e sono state incrementate le iniziative, in collaborazione anche con l’Anti-Defamation League. Inoltre, è stato realizzato un murale commemorativo dei calciatori ebrei deportati ad Auschwitz, fuori allo stadio Stamford Bridge. Tra le decisioni del club, c'è stata quella di bandire per sempre dallo stadio i supporter colpevoli di comportamento razzista e antisemita o di farli partecipare ad attività rieducative, che prevedono, tra le altre, la visita al campo di sterminio di Auschwitz.
   "Come tifoso del Chelsea, da sempre, sono impressionato e orgoglioso del lavoro svolto dal club per combattere l'antisemitismo e la discriminazione - ha affermato Stephen Nelken, fondatore del nuovo gruppo di tifosi - L'obiettivo del gruppo è quello di celebrare l'identità ebraica, sostenere l'eccellente lavoro che il club sta svolgendo e incoraggiare i tifosi che la pensano allo stesso modo a unirsi per sostenere il Chelsea".
   Lord John Mann, consulente per l’antisemitismo del Governo britannico, ha applaudito alla decisione, esortando le altre squadre di calcio a seguire l’esempio.
   "Sono così felice di vedere la creazione del primo gruppo di tifosi ebrei del Chelsea FC. - ha detto Mann, come riporta la nota del club - Il gruppo offrirà una brillante opportunità ai tifosi ebrei di celebrare la loro cultura mentre si divertono seguendo lo sport che amano. Il Chelsea è stato pioniere nei suoi sforzi e nella sua dedizione per sradicare l’antisemitismo dal calcio e dalla società, e la creazione di questo gruppo ne è un altro esempio”.
   Il nuovo gruppo terrà il suo primo evento il prossimo 11 dicembre durante la festa ebraica di Chanukkà.

(Shalom, 22 settembre 2023)

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Biden a Zelensky: “Vi armiamo ancora”. Ma i repubblicani aprono la fronda

22 Settembre 2023

NEW YORK — Niente missili a lungo raggio, almeno per ora, nonostante un nuovo pacchetto di forniture militari da 325 milioni di dollari, e niente discorso alle Camere in seduta congiunta, perché i repubblicani restano scettici su durata e dimensioni dell’impegno americano al fianco dell’Ucraina invasa dalla Russia. La missione di ieri a Washington del presidente Volodymyr Zelensky è stata importante, perché gli ha consentito di fare nuove pressioni sugli Usa, avvertendoli che «se non riceveremo i vostri aiuti perderemo la guerra». Però ha anche messo in evidenza tutti i problemi che minacciano di deragliare la resistenza all’aggressione ordinata da Putin, mentre la controffensiva fatica a raggiungere i suoi obiettivi, alimentando le discussioni sulla necessità di rilanciare le iniziative per trovare una soluzione diplomatica.
   Reduce dalla visita all’Onu, per l’intervento all’Assemblea Generale e la sfida in Consiglio di Sicurezza contro il ministro degli Esteri russo Lavrov, ieri Zelensky è volato a Washington per andare al Congresso, al Pentagono e alla Casa Bianca. Dunque un’accoglienza al massimo livello, per confermare il sostegno degli Stati Uniti, ricevere nuovi aiuti e discutere lo stato della guerra per aggiornare la strategia. Il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan ha anticipato ai giornalisti che il nuovo pacchetto da 325 milioni di dollari contiene «significative difese aeree», per proteggere le città e aiutare la controffensiva. Oltre alle munizioni da 155 millimetri per gli obici Howitzer, ci sono bombe a grappolo, difese aeree a corto raggio Avenger, armi anti carro Tow e AT4, Javelin, razzi Gmlrs e Himars. Mancano però gli Atacms, ossia i missili a lungo raggio che Kiev chiede da tempo per colpire le retrovie russe, i centri logistici, e le basi in Crimea. Sullivan ha detto che la possibilità di fornirli resta sul tavolo, ma non ora, perché Washington teme ancora che vengano usati per attaccare il territorio di Mosca.
   Al Congresso Zelensky ha ricevuto appoggio pieno al Senato, ma alla Camera lo Speaker McCarthy ha le mani legate dalla fronda dei deputati più estremisti che lo ricattano per tagliare le spese, inclusi gli aiuti all’Ucraina, seguendo le indicazioni di Trump. Il Gop è spaccato, non trova l’accordo sulla legge di bilancio generale per evitare lo shutdown delle attività statali, e quindi McCarthy è costretto a dire che non firmerà assegni in bianco, avvertendo che i 24 miliardi di assistenza a Kiev chiesti da Biden dovranno essere approvati separatamente e in base al loro merito. Al Pentagono invece Zelensky ha fatto il punto sull’andamento della guerra e come accelerare i risultati della controffensiva.
   Alla Casa Bianca poi ha fatto un bilancio complessivo, ma il presidente gli ha chiesto di discutere anche gli scenari per mettere fine alla guerra con una soluzione diplomatica.

(la Repubblica, 22 settembre 2023)
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Irlanda: aperto primo ristorante kasher da decenni

di Nathan Greppi

A marzo ha aperto a Dublino, presso la sede locale del movimento Chabad-Lubavitch, il primo ristorante kasher d’Irlanda dagli anni ‘60: il Deli 613, situato nella zona sud della città, e che in questi sei mesi dall’inaugurazione ha ottenuto un riscontro largamente positivo sia da parte della comunità ebraica locale, che tra la popolazione nel suo complesso.
   Come riporta il Times of Israel, il ristorante offre un’ampia scelta tra piatti tipici irlandesi kasher, quali panini di roast beef salato e aringhe a fette, e quelli della cucina israeliana, come la pita con shawarma e i falafel. A maggio, il quotidiano Irish Times gli ha dato un’ottima recensione, con un punteggio di 4 stelle e mezzo su 5.
   “Abbiamo un banco pieno di cibo, scaffali e un intero frigorifero con prodotti da asporto come panini e insalate”, ha spiegato Rifky Lent, che gestisce il ristorante assieme al marito Rav Zalman, rabbino ed emissario Chabad che vive in Irlanda dal 2000. “Abbiamo anche prodotti tipici, come il hummus, la tahina, fegato a fette e aringhe, che prepariamo in casa”.
   La Lent ha dichiarato che “abbiamo deciso di assumere un ottimo chef con molta esperienza nel mercato culinario irlandese, che non è ebreo. È stato molto entusiasta all’idea di provare qualcosa di nuovo e diverso”, aggiungendo che per la kashrut è stato affiancato da un cuoco ebreo che lavora in cucina part-time.
   Oltre ad una popolazione ebraica con un’età media elevata, a Dublino negli ultimi anni si sono trasferiti diversi israeliani, essendo la capitale irlandese un’importante centro per le start-up e le aziende high-tech. Secondo il World Jewish Congress, la popolazione ebraica in Irlanda era di circa 2.500 persone nel 2018, concentrate quasi tutte a Dublino.
   I Lent si sono impegnati nel garantire a tutta la comunità forniture di cibo kasher: prima della Brexit, gli ebrei irlandesi erano abituati a rifornirsi attraverso il Regno Unito, ma da quando quest’ultimo è uscito dall’UE sono aumentati sia i costi di spedizione che i problemi burocratici, quali i moduli da compilare. Per ovviare al problema, anche la sinagoga di Dublino ha aperto un banco di prodotti kasher, ma si tratta solo di una soluzione a breve termine.

(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2023)

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Israele, l’ONU e le leggende

Il diritto giuridico di Israele ad occupare la sua terra è l'aspetto più tenacemente contestato dagli anti-israeliani e altrettanto poco difeso, anche per scarsa conoscenza, dagli israeliani. NsI

di David Elber

Tra gli innumerevoli danni provocati dal falso mito della Risoluzione 181, bisogna annoverare anche quello relativo alla sua iniziale accettazione da parte del Consiglio provvisorio del neo nato Stato di Israele. Questo fatto, per molti detrattori di Israele, costituirebbe un obbligo legale “mai venuto meno”.
   Cercheremo qui di fornire tutti gli elementi per fare comprendere come tale tesi sia, al pari di molte altre relative alla 181, un mito privo della benché minima valenza legale.  
Innanzitutto è opportuno descrivere come si presentava la situazione nell’imminenza della dichiarazione di indipendenza di Israele e quali fossero le priorità della dirigenza ebraica. 
   La prima cosa da sottolineare è la completa ostilità del mondo arabo, sia della locale popolazione araba che, già a partire dai primi mesi del 1947, aveva avviato una guerra civile a bassa intensità che si inasprì subito dopo l’approvazione della Risoluzione 181, sia da parte degli Stati arabi già esistenti che dichiararono l’intenzione di annichilire il futuro Stato ebraico. 
  A questa ostilità va aggiunta quella della Gran Bretagna, che, in qualità di Potenza mandataria, aveva invece dei precisi obblighi nei confronti del popolo ebraico. In pratica, tuttavia, fin dal 1922 i diversi governi inglesi attuarono una politica che era l’esatto opposto di quanto previsto dal Mandato, ovvero lo smantellamento sistematico delle vincolanti disposizioni mandatarie atte alla realizzazione di uno Stato per il popolo ebraico. Questa politica fu attuata principalmente tramite i dettami dei libri bianchi del 1922, 1930 e soprattutto del 1939. A ciò si deve aggiungere la totale ostilità verso gli ebrei dovuta a ragioni politiche, e, di conseguenza, il pieno appoggio alla causa araba, che si manifestò appieno a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Questi ne furono i passi principali: creazione della Lega araba (1945); chiusura del territorio mandatario anche ai sopravvissuti della Shoah (1945-1947), astensione in occasione della votazione della Risoluzione 181 (1947) e questo, di fatto, equivaleva ad un voto contrario, addestramento, armamento e conduzione con ufficiali britannici della Legione araba, astensione alla richiesta di Israele per essere ammesso all’ONU (1949).
   All’elenco va aggiunta l’aperta ostilità del Dipartimento di Stato americano verso l’ipotesi di indipendenza dello Stato di Israele che si fece feroce a partire dal marzo  del 1948. 
   La dirigenza ebraica si trovò “costretta” ad accettare la proposta ONU di spartizione del territorio, già assegnato al popolo ebraico dalla Società delle Nazioni, pur di aver un minimo appoggio politico internazionale (che sperava potesse essere anche militare in caso di attacco arabo) e soprattutto per potere liberamente accogliere le centinaia di migliaia di sopravvissuti della Shoah che erano detenuti nei campi di concentramento inglesi a Cipro, in Germania, in Austria e nelle colonie africane e asiatiche. Questa era la più grande priorità. 

• LA RISOLUZIONE 181
  È cosa risaputa che, mentre gli arabi (e i britannici come vedremo) non accettarono la proposta dell’ONU, la dirigenza ebraica la accettò nonostante fosse molto penalizzante per il popolo ebraico. È cosa meno risaputa, che tale accettazione sia stata formalizzata dai padri costituenti nella Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele e precisamente in tre differenti passaggi, che si riportano in inglese (la Dichiarazione fu redatta in ebraico). Il primo dei tre lo si trova nel preambolo: 

    “…On the 29th November, 1947, the United Nations General Assembly passed a resolution calling for the establishment of a Jewish State in Eretz-Israel; the General Assembly required the inhabitants of Eretz-Israel to take such steps as were necessary on their part for the implementation of that resolution. This recognition by the United Nations of the right of the Jewish people to establish their State is irrevocable…”. 

Poi, successivamente, il secondo lo si trova in un paragrafo relativo alla parte operativa della Dichiarazione vera e propria:  

    “…BY VIRTUE OF OUR NATURAL AND HISTORIC RIGHT AND ON THE STRENGTH OF THE RESOLUTION OF THE UNITED NATIONS GENERAL ASSEMBLY, ...” 

Infine, il terzo lo si trova in un altro paragrafo della Dichiarazione:  

    “…THE STATE OF ISRAEL is prepared to cooperate with the agencies and representatives of the United Nations in implementing the resolution of the General Assembly of the 29th November, 1947, and will take steps to bring about the economic union of the whole of Eretz-Israel.”. 

Come si può ben vedere l’accettazione da parte ebraica fu chiara e formale.  
   Proveremo a fare alcune considerazioni in merito a questi passaggi presenti nella Dichiarazione di indipendenza e poi cercheremo di capire, se essi siano vincolanti in aeternum per Israele.  
   Il primo passaggio relativo alla Risoluzione 181, è una semplice menzione della stessa nella quale si ribadisce che a Israele è richiesto di implementarla, quindi nulla di vincolante se non per il fatto che, essendo essa citata, viene vista come “fonte di diritto” per la costituzione di Israele, cosa del tutto errata per il diritto internazionale. Di fatto, l’Assemblea Generale, per stesso statuto dell’ONU, non ha il potere di creare gli Stati ma ha solo quello di ammetterli – una volta costituiti – in seno all’organizzazione stessa. Allo stesso modo risulta essere errata la parte finale del medesimo paragrafo: “This recognition by the United Nations of the right of the Jewish people to establish their State is irrevocable”. Questa frase è più un auspicio che una determinazione legale visto che, tra le altre cose, le risoluzioni dell’Assemblea Generale sono revocabili (si pensi ad esempio alla Risoluzione 3379 del novembre 1975 con la quale si equiparava il sionismo al razzismo che fu poi revocata nel 1991 con la Risoluzione 46/86). 
   La poca dimestichezza dei padri fondatori con il diritto la si evince appieno nella seconda frase presa in esame: 

    “… By virtue of our natural and historic right and on the strength of the resolution of the United Nations General Assembly, …”. 

Qui la confusione tra diritto e politica è totale. Per il diritto internazionale non esiste un “diritto naturale” né tanto meno un “diritto storico”, di questo concetto ne abbiamo già parlato qui su ’L'Informale ma esiste solamente il concetto di “storica connessione”, concetto peraltro ripreso in un’altra parte della Dichiarazione. La stessa cosa vale in merito alla “forza” della risoluzione dell’assemblea Generale che è un mero atto politico e non legale e di conseguenza non può avere “forza” legale ma solo politica. Per questa ragione anche qui è chiaro che Israele non può essere minimamente vincolato in eterno, per giunta ad un atto che non ha nulla di legale ma è solo politico e che, tra l’altro, non è stato mai rispettato da nessuna parte interessata (arabi, Gran Bretagna e Consiglio di Sicurezza). 
   Il terzo passaggio, come abbiamo visto, si riferisce al fatto che il nascente Stato di Israele si impegna a cooperare con “le agenzie ONU e i suoi rappresentanti” per implementare quanto previsto dalla Risoluzione 181. Si può, anche in questo caso, parlare di “vincolo eterno” relativo, unicamente a Israele per implementare una risoluzione che è rimasta fin da subito lettera morta, mentre le “agenzie ONU e i suoi rappresentanti” non hanno mai fatto nulla per implementarla? No, anche in questo caso, Israele non ha nessun tipo di obbligo né legale né morale. 
   Come si può vedere, le frasi in oggetto, hanno tutte un carattere politico e non legale. Avrebbero potuto assumere un carattere legale, nel momento in cui anche tutti gli altri attori (arabi, Gran Bretagna, Consiglio di Sicurezza) avessero accettato e implementato la raccomandazione dell’Assemblea Generale secondo il principio legale del pacta sunt servanda. Inoltre, bisogna osservare che, la Gran Bretagna non ha mai permesso ai funzionari ONU di entrare nel territorio mandatario per iniziare l’implementazione, sul terreno, della Risoluzione per la forte pressione esercitata dai paesi arabi. Essa era, in qualità di mandatario, l’unico soggetto autorizzato a farlo. Quindi è chiaro che non è la Risoluzione 181 che ha un potere vincolante in quanto tale, ma è la sua accettazione da parte di tutti i soggetti coinvolti che ne l’avrebbe resa tale. Siccome, di tutti i soggetti coinvolti, il solo Israele ne accettò le proposte mentre tutti gli altri non le accettarono, esse, di conseguenza, non possono essere considerate ex post vincolanti per Israele in quanto rimasero lettera morta. Tale conclusione la si evince anche dai successivi sviluppi della nascita di Israele. 
   Il primo è più importante passo conseguente alla creazione di Israele fu la sua ammissione all’ONU nel 1949 nella veste di cinquantanovesimo Stato membro. Anche in questo caso i detrattori di Israele sottolineano il riferimento alla Risoluzione 181 presente nella Risoluzione 273 con la quale l’Assemblea Generale ratificava la decisione già presa dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 69. Va ricordato che la procedura di ammissione di uno Stato all’ONU passa prima dal Consiglio di Sicurezza e poi viene ratificata dall’Assemblea Generale e solo dopo questo doppio passaggio si diventa membri dell’ONU a pieno titolo. 
   Vediamo cosa dice la parte di testo più controversa della Risoluzione 273: 

    “Recalling its resolutions of 29 November 1947 and 11 December 1948 and taking note of the declarations and explanations made by the representative of the Government of Israel before the Ad Hoc Political Committee in respect of the implementation of the said resolutions.” 

Questo paragrafo si trova nel preambolo della Risoluzione la quale, poi, si conclude, nella sua parte operativa, con l’ammissione di Israele all’ONU. 
   Il fatto che la Risoluzione 273 richiami la Risoluzione 181 è di per se vincolante per Israele? No nel modo più assoluto. Questo perché nel paragrafo dove è presente il richiamo alla Risoluzione 181 si trovano anche le indicazioni relative alle “dichiarazioni” e le “spiegazioni” del rappresentante israeliano (Abba Eban) davanti alla Commissione politica ad hoc incaricata di sentire il parere di Israele. In questa occasione, come si può leggere dai verbali degli incontri, il rappresentante israeliano è stato chiaro: Israele accettava solo le raccomandazioni relative ai luoghi sacri di Gerusalemme mentre tutto il resto veniva rifiutato a causa dell’aggressione araba e del disimpegno ONU verso quest’ultima. La Commissione ad hoc diede il suo parere positivo all’Assemblea Generale che di conseguenza dava il suo assenso all’ingresso di Israele all’ONU. Infatti, nella parte operativa della Risoluzione, l’Assemblea Generale “decide” di ammettere Israele in seno all’ONU, come si evince dal testo della Risoluzione: 

  1. “Decides that Israel is a peace loving State which accepts the obligations contained in the Charter and is able and willing to carry out those obligations;  
  2. Decides to admit Israel to membership in the United Nations.” 

Non vi è alcuna menzione alla Risoluzione 181 ma solamente l’accettazione, da parte di Israele, degli obblighi contenuti nello Statuto dell’ONU. Anche qui non ci possono essere dubbi interpretativi. 
   Ora vediamo l’ultimo capitolo della vicenda. 
   Nel novembre del 1949 la Commissione politica dell’ONU tornò a riunirsi in merito alla questione dell’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’idea era quella di studiare e poi di proporre una risoluzione da far approvare all’Assemblea Generale con la quale dichiarare Gerusalemme città internazionale. Tutta la questione però non teneva minimamente conto di quello che era successo durante l’ultimo anno e mezzo: aggressione araba del neonato Stato di Israele, occupazione illegale di Giudea, Samaria e di metà Gerusalemme, violazione sistematica da parte dei giordani delle disposizione del cessate il fuoco del 1949 (a tutti gli ebrei oltre che agli israeliani era vietato recarsi nella città vecchia, sistematica distruzione delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici). Così, come se nulla fosse successo, all’ONU si iniziò a dibattere sulla internazionalizzazione della città di Gerusalemme senza neanche accennare alla condanna dell’aggressione operata dagli Stati arabi: in pratica per l’ONU non c’è mai stata aggressione ai danni di Israele né occupazione illegale di parte del suo territorio. A questo punto, il Primo ministro Ben-Gurion formalmente ricusò la Risoluzione 181 il 5 dicembre 1949, in un discorso alla Knesset. Tale dichiarazione fu poi approvata formalmente dalla stessa camera. Israele nuovamente ribadiva il suo rifiuto a qualsiasi risoluzione che proponeva lo scorporo di parte del suo territorio e soprattutto sottraeva alla sovranità israeliana la sua capitale. 
   In conclusione, chi sostiene che Israele debba attenersi alla Risoluzione 181 per  la determinazione dei suoi confini o per lo statuto di Gerusalemme dice il falso per ignoranza e/o per malafede. 

(L'informale, 22 settembre 2023)
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L'esame della Risoluzione 181 dell'Onu è stato fatto in diverse occasioni su NsI. Ripetiamo qui un articolo già presente sul sito.


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Idee sbagliate sul fondamento giuridico di Israele nel diritto internazionale

di Howard Grief

Il libro da cui è tratto l'articolo
E' molto diffusa, anche tra i leader del governo di Israele e tra i media, l'idea errata che lo Stato di Israele derivi la sua esistenza giuridica dalla Risoluzione 181 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, popolarmente nota come Risoluzione di spartizione. Questo fraintendimento è così radicato nel pensiero ufficiale e popolare che è estremamente difficile riuscire a cambiarlo, nonostante le prove schiaccianti del contrario.
   Uno dei motivi principali di questo fatto è che l'autonoma Dichiarazione di Indipendenza di Israele perpetua l'errata nozione che è "in forza della Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite" che i membri del "Consiglio del Popolo", hanno dichiarato la costituzione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948. Un'altra motivazione citata nella Dichiarazione è la frase: "il nostro diritto naturale e storico." Si dice inoltre che "lo Stato di Israele collaborerà con le Nazioni Unite per l'attuazione della Risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947, e adotterà le misure necessarie per realizzare l'unione economica di tutta Eretz Israel".
   L'errata affermazione, presente nella Dichiarazione di Indipendenza, che lo Stato di Israele basa la sua fondazione "in forza" della Risoluzione di spartizione nasconde, e alla fine cancella, il fatto che il fondamento legale di Israele secondo il diritto internazionale non deriva dalla Risoluzione di spartizione del 1947, che è stata semplicemente una raccomandazione non vincolante senza forza di legge, ma piuttosto dalla Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920. Quest'ultima ha ricevuto forza di legge quando è stata incorporata nel Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 e poi nei primi tre commi del preambolo del Mandato per la Palestina, ed è stata confermata nel 1922 da 52 Stati, tutti i membri della Società delle Nazioni, e separatamente dagli Stati Uniti nel 1924 in un trattato con il Regno Unito.
   La Dichiarazione d'Indipendenza menziona la Dichiarazione Balfour e il Mandato per la Palestina per quanto riguarda la sua parte storica, ma nel giustificare la fondazione dello Stato ebraico nella sua parte operativa trascura questi due documenti, o ne accenna solo indirettamente quando parla di "diritti storici." La Dichiarazione non fa nemmeno riferimento al più importante documento che ha gettato le basi giuridiche dello Stato ebraico: la Risoluzione di Sanremo, che nel 1920 ha trasformato la Dichiarazione Balfour del 1917 da un atto di politica britannica in un atto riconosciuto e giuridicamente vincolante di diritto internazionale.
   Questo mostra che anche i leader di Israele che hanno redatto la Dichiarazione d'Indipendenza - di cui i principali autori sono stati David Ben Gurion e Moshe Sharett - erano stranamente inconsapevoli dell'enorme importanza della Risoluzione di Sanremo, perché altrimenti l'avrebbero sicuramente citata come l'autentico documento di fondazione nella proclamazione dello Stato di Israele, invece della Risoluzione di spartizione.
   Qualsiasi seria analisi di queste due Risoluzioni dimostrerà che la Risoluzione di spartizione in realtà contraddice la lettera e lo spirito della Risoluzione di Sanremo, in quanto la prima destina illegalmente una parte sostanziale della Palestina occidentale alla creazione di uno stato arabo, territorio che la Risoluzione di Sanremo aveva destinato alla sede nazionale ebraica e futuro Stato ebraico indipendente, basandosi, per la determinazione dei confini della Palestina, sulla formula storico-biblica. Inoltre, nella stessa Risoluzione di Sanremo viene generosamente concessa agli arabi tutta la terra di cui avevano bisogno per il proprio stato, o per più stati, nella parte restante del Medio Oriente.
   Tenuto conto di questo, l'accettazione sionista della Risoluzione di spartizione fu poco saggia, in quanto quel documento negava i diritti nazionali ebraici e politici già riconosciuti in quella parte della Terra d'Israele che fu assegnata al nuovo stato arabo. Tuttavia, come circostanza attenuante si deve notare che nelle condizioni esistenti nel 1948 c'era un urgente bisogno della immediata dichiarazione di uno Stato ebraico per poter assorbire e sistemare le centinaia di migliaia di rifugiati ebrei senza tetto che continuavano a languire in Europa nei campi profughi di Germania e Polonia dopo la fine della seconda guerra mondiale. La decisione dell'Agenzia Ebraica di accettare l'illegale Risoluzione di spartizione era dunque un atto di disperazione preso sotto costrizione, una condizione che legalmente ne invalidava l'accettazione.
   In ogni caso, il rifiuto arabo della Risoluzione di spartizione e la guerra di aggressione scatenata dagli arabi contro il nascente Stato ebraico ha contribuito a invalidare l'accettazione ebraica, cosa che avrebbe permesso a Ben-Gurion di considerare nulla e vuota la Risoluzione di spartizione fin dall'agosto 1948, quando decise di annettere allo Stato ebraico la zona occidentale di Gerusalemme e i suoi dintorni. Fece poi la stessa cosa per tutte le altre zone di Eretz Israel giacenti al di là delle linee di spartizione delle Nazioni Unite conquistate dall'esercito israeliano, o che sarebbero state conquistate in seguito nella guerra d'Indipendenza.
   Per attuare la sua decisione Ben-Gurion si basò su una normativa emanata dal Consiglio di Stato provvisorio, che aveva come obiettivo di includere nello Stato di Israele tutte le zone della Terra d'Israele di cui l'esercito era venuto in possesso. Il che fa capire che per Ben-Gurion, cioè, per Israele, la Risoluzione di spartizione era già lettera morta, a causa del rifiuto arabo e della guerra di aggressione.
   Non era soltanto la Dichiarazione di indipendenza di Israele a non menzionare la Risoluzione di Sanremo. La stessa cosa era vera per la stessa Risoluzione di spartizione e per il precedente Rapporto per l'Assemblea Generale preparato dal Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (United Nations Special Committee on Palestine, UNSCOP), e consegnato il 31 agosto 1947. Il Rapporto UNSCOP, che fa riferimento alla Risoluzione di Sanremo quando parla della Palestina sotto il Mandato, dice che "il 25 aprile 1920 il Consiglio Supremo delle Potenze Alleate ha deciso di assegnare il Mandato per la Palestina alla Gran Bretagna con lo scopo di dare effetto alla Dichiarazione Balfour".
   Questo riferimento non presenta in modo chiaro il significato della Risoluzione di Sanremo come ragion d'essere di un ri-costituito Stato ebraico in Palestina sotto l'egida della Potenza Mandataria. La mancanza di un riferimento specifico alla Risoluzione di Sanremo sia nella Risoluzione di spartizione sia nel rapporto UNSCOP può essere vista come la prova evidente che la comunità internazionale ha voluto dimenticare questo fondamentale documento che, sotto la forma di un accordo inter-alleato tra Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, ha assegnato al popolo ebraico una Palestina indivisa per la costituzione della sua sede nazionale. Se gli autori dei documenti delle Nazioni Unite del 1947 avessero compreso che la storia diplomatica e legale della Palestina era incapsulata nella Risoluzione di Sanremo, avrebbero esitato a raccomandare che la Palestina occidentale fosse divisa in uno stato ebreo e in uno arabo, perché questa raccomandazione viola non solo la Risoluzione di Sanremo, ma anche l'articolo 5 del Mandato per la Palestina (allora ancora del tutto in vigore), il quale vieta espressamente la spartizione del paese, nonché l'articolo 80 della Carta delle Nazioni Unite 1945, che salvaguarda tutti i diritti ebraici nazionali e politici in Palestina, con l'esclusione di ogni rivendicazione araba sulla terra.
   Un'altra diffusa idea sbagliata sulla Risoluzione di spartizione è che essa costituisca un "ordine" delle Nazioni Unite a dividere la Palestina, un'ingiunzione che avrebbe dovuto essere soddisfatta da entrambe le parti, arabi ed ebrei. Questo equivoco è venuto recentemente a galla, ancora una volta, in un editoriale di prima pagina del Jerusalem Post (7 giugno 2010), il quale erroneamente afferma che "lo Stato di Israele è stato fondato 62 anni fa per ordine della comunità internazionale, come la patria della nazione ebraica ..." (corsivo aggiunto).
   L'"ordine", come il Jerusalem Post l'ha chiamato, era presumibilmente un riferimento alla Risoluzione di spartizione. Tuttavia, come osservato in precedenza, questa Risoluzione non ha "ordinato", ma solo "raccomandato" la creazione di uno Stato ebraico in una piccola parte dell'originale sede nazionale ebraica. Contrariamente alle affermazioni del quotidiano, lo Stato di Israele non è stato fondato per ordine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma piuttosto dall'atto legislativo compiuto da quelli che erano gli organi rappresentativi e responsabili del popolo ebraico nel 1948, e precisamente l'Agenzia Ebraica per la Palestina e l'Organizzazione Sionista Mondiale. Lavorando insieme, questi hanno scelto i membri del Consiglio del Popolo, che hanno proclamato lo Stato di Israele e poi hanno trasformato se stessi nel Consiglio di Stato provvisorio, l'organo legislativo del nuovo Stato. E' da notare che la proclamazione del Consiglio ha seguito diverse direttive raccomandate nella Risoluzione di spartizione per il governo del futuro Stato ebraico.
   Ci vorrà un enorme sforzo di ri-educazione per ricordare sia ai leader del governo di Israele, sia al mondo in generale che i diritti legali ebrei in Palestina e in Terra d'Israele non derivano dalla Risoluzione di spartizione del 1947, ma dalla Risoluzione di Sanremo del 1920, la Magna Carta del popolo ebraico. La Risoluzione di Sanremo è infatti la Carta della Libertà ebraica cercata da Theodor Herzl, il quale invano aveva chiesto al Sultano turco di appoggiare la sua visione di un restaurato Stato ebraico in Palestina e Terra di Israele.

(Mideast Outpost, 20 luglio 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“L’elefante” delle responsabilità palestinesi che non si vuole mai vedere

Perché si dà ogni colpa a Israele quando i capi palestinesi rifiutano la pace e causano morte e rovina a entrambi i popoli?

C’è un mistero che andrebbe risolto e, dopo più di due decenni di sconcerto, penso che dovrei poterlo sbrogliare. Il mistero ruota attorno a una domanda: perché così tante persone che commentano il conflitto israelo-palestinese incolpano sempre e solo Israele, ignorando i danni micidiali continuamente causati dai dirigenti palestinesi?...

(israele.net, 22 settembre 2023)

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Finalmente l’incontro fra Netanyahu e Biden

In un albergo, ma quel che conta è che si sono visti

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Dopo un’anticamera record di otto mesi e ventidue giorni, finalmente il primo ministro del trentaseiesimo governo di Israele ieri ha ricevuto udienza dal presidente dello stato che è il più suo stretto alleato. Che si tratti di Bibi Netanyahu e di Joe Biden, i quali si conoscono almeno dagli Anni Ottanta, quando il primo era il rappresentante israeliano all’Onu e il secondo era un senatore americano già importante e appassionato di politica estera, rende questo ritardo ancora più significativo. Che poi l’incontro si sia svolto non alla Casa Bianca a Washington (dove è stato annunciato ieri che Netanyahu sarà invitato entro la fine dell’anno), ma in una sala di un grande albergo di New York, l’Hotel InterContinental a una decina di isolati dall’edificio delle Nazioni Unite, ha reso la situazione ancora più inedita. Bisogna aggiungere che l’albergo era circondato da israeliani all’estero che contestavano non il principale nemico del loro paese, il presidente iraniano Raissi, che anzi in quel momento riceveva una delegazione della setta “ultraortodossa” antisionista dei Naturei Karta, ma il primo ministro del loro paese, che in quel momento stava cercando di difendere gli interessi del loro stesso Stato.

Questioni internazionali, ma di politica interna
  La ragione di questa situazione così inconsueta è che, secondo un vecchio adagio, tutta la politica è sempre politica interna, soprattutto in democrazia, perché quel che conta sono i voti. Biden fra un anno ha le elezioni e nei sondaggi è sfavorito rispetto a Trump. Deve cercare di mobilitare il suo partito, sempre più estremista, la cui ala sinistra si rifiuta di condannare l’Iran per la repressione, anche quella delle donne che sono state uccise per aver rifiutato il velo, come Masha Amini, mentre non perde occasione per attaccare Israele che si difende dal terrorismo. Quindi, al di là dei suoi sentimenti personali, non può mostrarsi vicino al governo israeliano. Netanyahu non ha elezioni in vista, ma sta cercando di spostare il dibattito interno in Israele su temi più concreti e aperti al futuro delle divisioni attuali, che ormai non si incentrano più sulla riforma della giustizia ma sull’odio rivolto a gruppi e persone. È fondamentale per lui, oggi più di sempre, ottenere dei risultati significativi sul piano economico e politico nelle relazioni internazionali. Per questa ragione Biden ha parlato della necessità di far ripartire il progetto dei due Stati (che in realtà oggi nessuno vuole davvero, soprattutto i palestinesi) e Netanyahu ha insistito sull’accordo con l’Arabia e sull’asse di trasporto e collaborazione fra l’India e l’Occidente passando per il Medio Oriente e in particolare per Israele chiamato I2U2, su cui oggi è prevista una dichiarazione comune fra India, Usa e Israele.

Che cosa ha detto Biden
  “Settantacinque anni fa, il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, dopo aver dichiarato l’indipendenza, usò una frase che ho citato molto spesso. Ha detto che il mondo sta dalla parte di Israele affinché il sogno di generazioni si realizzi. Israele e gli Stati Uniti lavorano insieme da molto tempo per rendere quel sogno una realtà. Mi avete sentito dire, molte volte, che se non ci fosse Israele dovremmo inventarlo. Penso che senza Israele non ci sia un ebreo al mondo che sia sicuro. Penso che Israele sia essenziale.” Poi però, entrando nei termini della politica concreta e dei rapporti fra i due stati, ha detto cose meno gradevoli: “Oggi discuteremo alcune delle questioni difficili. Cioè, sostenere i valori democratici che sono al centro del nostro partenariato, compresi controlli ed equilibri nei nostri sistemi, e preservare il percorso verso una soluzione negoziata a due Stati, e garantire che l’Iran non acquisisca mai, mai, un’arma nucleare. Perché anche se ci sono delle divergenze, il mio impegno nei confronti di Israele, come sapete, è ferreo”.

E che cosa ha dichiarato Netanyahu
  "Penso che sotto la sua guida, signor Presidente, possiamo realizzare una pace storica tra Israele e Arabia Saudita, e penso che una tale pace farebbe molto, in primo luogo, per far avanzare la fine del conflitto arabo-israeliano, raggiungere riconciliazione tra il mondo islamico e lo Stato ebraico e promozione di una vera pace tra Israele e palestinesi. Questo è alla nostra portata. Credo che lavorando insieme possiamo scrivere la storia e creare un futuro migliore per la regione e oltre. Inoltre, lavorando insieme, possiamo affrontare quelle forze che minacciano quel futuro, soprattutto l’Iran. Apprezzo, signor Presidente, il suo continuo impegno per impedire all’Iran di acquisire capacità di armi nucleari. Penso che sia fondamentale. E questo nostro obiettivo condiviso può essere raggiunto al meglio con una minaccia militare credibile, sanzioni paralizzanti e sostegno agli uomini e alle donne coraggiosi dell’Iran che disprezzano quel regime e che sono i nostri veri partner per un futuro migliore”.

(Shalom, 21 settembre 2023)

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L’eredità di Biden passa anche dall’accordo Israele e Arabia Saudita. Per questo si farà

di Emanuele Rossi

Ogni giorno che passa, Israele e Arabia Saudita sono più vicini alla normalizzazione dei rapporti. Lo ha detto così, esplicito, il primo ministro saudita, l’erede al trono Mohammed bin Salman, durante un’intervista con Bret Baier, capo del grande desk politico di Fox News. Bin Salman era negli Stati Uniti per la riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a latere della quale il primo ministro israeliano, Benajamin Netanyahu, ha incontrato Joe Biden per la prima volta da quando è presidente degli Stati Uniti. Molto scorre, con bin Salman che richiama al ruolo della questione palestinese, gli apparati israeliani che si muovono contro i gruppi a Jenin e Gaza, gli americani che cercano la quadra pragmatica ma narrativamente efficace.
   Biden e Netanyahu, alla stregua di Biden e bin Salman, non hanno un rapporto personale eccezionale, ma il presidente statunitense si sta prodigando in prima persona — e attraverso una fitta serie di assistenti di alto livello — per costruire l’intesa sulla normalizzazione. Bin Salman ha mandato un messaggio di carattere globale usando il canale dei conservatori americani, quelli che sembrano meno interessati a far pesare i limiti sui diritti umani del suo Paese (più volte sollevati dall’amministrazione Biden) e più inclini a un approccio utilitaristico alla politica internazionale. Ma se il pensiero di bin Salman riguarda un ipotetico futuro post Usa2024 — quando il colore dell’amministrazione potrebbe cambiare — intanto c’è da registrare la fortissima volontà dell’attuale presidenza per arrivare a un’intesa.

• L’eredità di JB sul nuovo ordine globale
  Per il democratico alla Casa Bianca ci sono da superare alcuni scogli, tra questi le considerazioni di ampie parti del suo partito sul rispetto di principi e valori basilari (diritti umani, democraticità, equalitarismo) sia nei confronti di bin Salman sia di Netanyahu. Ma quello che c’è sul piatto impone un approccio pragmatico. La normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele che Biden sta cercando di mediare sarebbe infatti un successo formidabile da imprimere sulla propria eredità politica. Attorno ad essa ruotano progetti straordinari come il corridoio Imec, la possibilità di scrivere una pagina storica (visto il peso saudita) nei rapporti tra ebrei e mondo arabo, la competizione tra potenze. Interessi concreti si fondono con la volontà di affermazione personale anche sul piano diplomatico (oltre a quello economico) dopo che per anni ha rappresentato il mondo Dem nel quadro delle relazioni internazionali, prima da senatore e poi da vice e presidente.
   Facendosi catalizzatori di un’intesa — il cui formato sarà probabilmente trilaterale e nuovo rispetto alle istituzioni di dialogo esistenti, come gli Accordi di Abramo o il Forum del Negev — gli Stati Uniti affermerebbero la loro ancora unica capacità da potenza globale. Davanti all’intesa Gerusalemme-Riad, quella irano-saudita — su cui Pechino ha messo il cappello dopo anni di mediazioni occidentali e regionali — verrebbe minimizzata. Perché in ballo ci sono dimensioni altamente futuribili: il Golfo a guida saudita è cruciale per una serie di sviluppi che riguardano la transizione energetica, e dunque economica, e dunque culturale, non solo della regione.
   Il Medio Oriente potrebbe per esempio tornare hub nevralgico delle nuove tecnologie energetiche (come l’idrogeno). Ma considerando la capacità di investimento dimostrata, in primis proprio dai sauditi, e data l’entità del contratto sociale esistente in quelle monarchie, potrebbe essere il centro di sviluppo e applicazione di molte altre nuove tecnologie. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar sono all’avanguardia in settori come l’uso delle intelligenze artificiali, per fare un altro esempio. Fintech, agricoltura robotizzata, alimenti sintetici, cyber persona, smart city, sono settori di investimento di regni come quello saudita, usati come componente che accompagna in termini pratici le evoluzioni socio-culturali rivendicate all’interno delle varie “Vision”, ossia i grandi piani di transizione e sviluppo che bin Salman e altri regnanti teorizzano per i loro Paesi. Settori in cui Israele è attore leader globale (hub di dozzine di start up futuristiche) e su cui si muove la competizione tra potenze.
   Ed è qui l’elemento di fondo. Materie come l’intelligenza artificiale sono parte della sfida per il futuro. In questi giorni per esempio è stata spesso citata nei discorsi dei leader mondiali riuniti all’Unga. “Dobbiamo garantire l’applicazione pratica del concetto di algorethics, cioè etica per gli algoritmi”, ha per esempio detto la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni. Tenere integrati nel sistema americo-centrico medie potenze in crescita come Arabia Saudita e Israele può permettere di discutere anche con loro i nuovi standard. Fattori che determineranno più di ogni altra cosa il perimetro di un nuovo ordine mondiale in cui fisico e digitale saranno una sovrapposizione di realtà e metaversi.

• La sfida per Biden e l’America
  Il rischio è che altrimenti a dettare le regole del gioco siano attori rivali, come la Cina. Partita non banale scalzare Pechino da una missione già avviata con la diffusione di reti infrastrutturali fisiche e digitali che una decina di anni fa si dichiaravano altamente innovative – su tutte il sistema geopolitico noto come Belt & Road Initiative, a cui aderiscono diversi regni del Golfo. È questo un senso di Imec per esempio, il corridoio per collegare India (altra super potenza da tenere nel loop del nuovo ordine) e Medio Oriente e — tramite il territorio saudita e i porti israeliani — all’Europa. Gerusalemme e Riad sono componenti determinanti del concetto di Indo Mediterraneo abramitico che vede anche l’Italia protagonista (ragion per cui Roma dovrebbe sperare, e lavorare per quanto possibile, per la normalizzazione).
   La sfida per gli Stati Uniti è ricreare il legame di fiducia che si è rotto ai tempi dell’amministrazione Obama, quando Washington sponsorizzava il disordine delle Primavere arabe sotto l’ottica strategica della rivendicazione delle Democrazie. E poi di andare oltre al rapporto famigliare e quasi clientelare costruito da Donald Trump e il suo clan, altrettanto disordinato per protocollo e obiettivi. Biden in questo momento ha un’occasione straordinaria che pare assolutamente interessato a sfruttare. Dimostrarsi attore d’ordine di un nuovo mondo multi-allineato e multi-dimensionale, in cui Paesi come Israele e Arabia Saudita avranno posti in prima fila.
   La strada è avviata, basta pensare a come la regione abbia reagito all’arrivo del presiedente democratico alla Casa Bianca, innescando una serie di distensioni che hanno portato per esempio i turchi a riaprire i canali confidenziali con gli emiratini, gli israeliani e gli egiziani; le potenze del Golfo alla riconciliazione con il Qatar; Israele a mostrarsi disponibile nel dialogo con i Paesi arabi; l’Iran ad avviare un complicato isolamento delle fazioni reazionarie più estremiste (per quanto esse rimangano attive). Un processo che ha innescato una generale détente nel Mediterraneo allargato, ormai in corso da tre anni. Ma attenzione: all’interno di questa distensione permangono preoccupanti hotspot, perché se Pechino ha provato a inserirsi per dare al processo caratteristiche cinesi, Mosca ha dispiegato le proprietà putiniane per muovere destabilizzazioni. E nei singoli Paesi ci sono componenti di apparato che remano per l’instabilità come vettore di consenso e propulsore di interessi.

(Formiche.net, 21 settembre 2023)

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Marcia della vita in Lituania" per l'80° anniversario della liquidazione del ghetto di Vilnius

Presente anche Dani Dayan, presidente di Yad Vashem

Pianta dell'antico ghetto di Vilnius
Il Primo ministro lituano Ingrida Šimonytė
Giovedì in Lituania si è tenuta una "Marcia della Vita" per commemorare l'80° anniversario della liquidazione del ghetto di Vilnius durante l'Olocausto. Il Primo Ministro Ingrida Šimonytė ha partecipato all'evento, organizzato congiuntamente dalle autorità e dalla comunità ebraica del Paese. Era presente anche Dani Dayan, presidente di Yad Vashem. Parlando in mattinata al parlamento del Paese in occasione di un altro evento commemorativo, Dayan ha elogiato gli sforzi della Lituania, ma ha affermato che c'è ancora molto da fare per combattere l'antisemitismo e l'odio. Anche se gli atteggiamenti espressi da molti leader del vostro Paese sono una fonte di speranza, così come alcune delle sue politiche, c'è ancora molto da fare", ha detto ai deputati.
   La marcia, iniziata nel sito dell'ex ghetto di Vilnius, si concluderà presso la grande fossa comune di Ponary, dove furono uccisi e sepolti 70.000 ebrei.
   “Il massacro di Ponary è stato uno dei più crudeli della Shoah e la nostra marcia di ogni anno verso la fossa comune dove sono stati sepolti più di 70.000 ebrei è un atto di memoria per tutte le persone che vivevano qui e le cui vite sono state brutalmente stroncate. È anche un promemoria per ricordare che l'antisemitismo e l'odio sono ancora molto vivi e che dobbiamo dire chiaramente "mai più".
   Prima della Shoah, la comunità ebraica lituana contava circa 200.000 persone. Tuttavia, quasi tutti furono sterminati dai nazisti.

(i24, 21 settembre 2023)

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Il mistero del tank israeliano da 65 tonnellate sparito nel nulla e ritrovato in un posto impensabile

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Le autorità israeliane stanno cercando di capire come un carro armato pesantemente corazzato, ma disarmato, sia stato rubato da una zona di addestramento militare dopo averlo trovato abbandonato in un deposito di rottami. Il carro armato israeliano Merkava 2 è scomparso da un'area vicino alla città costiera di Haifa, nel nord di Israele, ha dichiarato mercoledì l'esercito israeliano. La zona di addestramento è chiusa al pubblico quando è in uso, ma è altrimenti accessibile ai passanti. La polizia ha detto che il carro armato di 65 tonnellate è stato trovato abbandonato in un deposito di rottami vicino a una base militare. Nel video diffuso dalle forze israeliane, il carro armato verde dell'esercito giace accanto a rottami di metallo arrugginiti e ad altri rifiuti industriali. L'esercito ha dichiarato che il Merkava 2 era stato dismesso anni fa ed era disarmato, ma di recente era stato utilizzato come "veicolo stazionario per le esercitazioni dei soldati".

(La Stampa, 21 settembre 2023)

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Per il presidente tunisino Saied, l’uragano Daniel è “sionista”

di Nathan Greppi

Hanno fatto discutere le esternazioni del Presidente della Tunisia Kais Saied, il quale la sera di lunedì 18 settembre ha sostenuto che ci sarebbe una presunta cospirazione sionista dietro all’uragano Daniel, abbattutosi con violenza nelle ultime settimane sulla Libia e altre aree del Mediterraneo (in Libia ha causato delle inondazioni che hanno provocato oltre 3.000 morti e 10.000 dispersi).
   “Per quanto riguarda l’uragano Daniel, non si sono nemmeno presi la briga di mettere in discussione l’origine di questo nome. Chi è Daniel? È un profeta ebreo”, ha detto nel corso di un incontro con il Primo Ministro Ahmed Hachani e altri membri del governo. “Perché è stato scelto il nome Daniel? Perché il movimento sionista si è infiltrato, lasciando le menti e tutti i pensieri in un coma intellettuale totale”. In realtà, come spiega il sito Open, si tratta di una bufala, dal momento che a scegliere il nome è stato il Servizio Meteorologico Ellenico.
   Saied si è recentemente opposto a qualunque tentativo di aprire relazioni diplomatiche ufficiali con Israele: “La normalizzazione di cui parlano non esiste nemmeno come parola per me. Equivale ad alto tradimento contro il popolo palestinese e i suoi diritti in Palestina, in tutta la Palestina”. Negli anni ’90 vennero aperti degli uffici di rappresentanza tra i due paesi a Tel Aviv e a Tunisi, chiusi nell’ottobre 2000 dall’allora Presidente tunisino Ben Ali, interrompendo le relazioni diplomatiche.
   Questa non è la prima volta che Saied è al centro di polemiche antisemite: nel 2021, stava discutendo delle proteste scoppiate a Mnihla, un sobborgo della capitale Tunisi, a causa della situazione economica nel paese. Da ciò che emerse in un video pubblicato sul profilo ufficiale della Presidenza tunisina, sembrò che in quell’occasione abbia accusato gli ebrei di essere i responsabili dell’instabilità nel paese. Lui tuttavia respinse le accuse, definite “una calunnia”.

(Bet Magazine Mosaico, 21 settembre 2023)

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Tel Aviv: un rabbino estremista attaccato da manifestanti di sinistra

Yigal Levinstein
Le immagini dell'incidente sono state diffuse sui social network dal giornalista israeliano Yinon Magal. "Decine di manifestanti hanno cercato di attaccarci fisicamente con bastoni e con le mani. Se la polizia non avesse protetto il rabbino con i loro corpi, sarebbe finita male", ha detto una persona che era con il rabbino Yigal Levinstein in quel momento. Altri manifestanti hanno gridato: "Andatevene, fascisti. Tornate negli insediamenti, qui non avete nulla da fare", secondo quanto riportato da Channel 12.
   Levinstein, un rabbino controverso e membro dell'accademia pre-militare Bnei David situata nell'insediamento di Eli, era venuto a Tel Aviv per tenere una conferenza a Rosh Yehudi, una ONG religiosa sionista che mira a promuovere l'identità ebraica e che è diretta da Zaria. Nel 2018, Levinstein ha scritto che l'omosessualità dovrebbe essere sradicata come l'AIDS ed è stato un fervente sostenitore della terapia di conversione per gli omosessuali.
   Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e capo del Partito Sionista Religioso, ha criticato l'incidente e il silenzio dell'opposizione. "Questo è uno spettacolo che appartiene alle ore più buie della storia ebraica", ha scritto sui social network. Da parte sua, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha dichiarato: "La politica stabilita per la polizia israeliana è di non tollerare alcun grave atto di violenza".
   Al contrario, alcuni membri dell'opposizione, come il deputato di Unità Nazionale Ze'ev Elkin, hanno criticato l'incidente, e la leader del Partito Laburista, Merav Michaeli, ha difeso i manifestanti. A una conferenza ha detto: "Quando viene a Tel Aviv, le manifestazioni contro di lui sono legittime. Sta facendo il lavaggio del cervello ai suoi studenti della yeshiva. È un bene che abbiano protestato contro di lui, perché sta lavorando per distruggere lo Stato di Israele".

(i24, 20 settembre 2023)

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“Carro armato di quinta generazione”: Israele ha presentato il Merkava Barak MBT

Il Ministero della Difesa israeliano ha presentato ufficialmente il nuovo Merkava Barak MBT, che si posiziona come un “carro armato di quinta generazione”.
Secondo il dipartimento militare, le prime unità furono consegnate al 52° battaglione corazzato della 401a brigata dopo cinque anni di sviluppo.
Il carro armato Barak è il risultato di uno sforzo congiunto tra diverse società di difesa israeliane, come Elbit Systems, Rafael ed Elta, una filiale delle Israel Aerospace Industries. Il serbatoio è dotato di sensori che forniscono il rilevamento del bersaglio e fanno parte di un sistema integrato che consente lo scambio di informazioni di intelligence in tempo reale tra un carro armato e altre unità militari, annunciando quella che l’IDF definisce “una vera rivoluzione sul campo di battaglia”.
   Il Barak è un ulteriore aggiornamento del Merkava IV che sfrutta i progressi nella protezione delle armature e nella guerra digitale. In termini di design, la nuova modifica ripete in gran parte il suo predecessore: il sedile del conducente si trova sul lato sinistro dello scafo, la torretta è nella parte posteriore e il motore è nella parte anteriore. Il carro armato è controllato da un equipaggio di 4 persone, che comprende un autista, un comandante, un artigliere e un caricatore.
   In termini di potenza di fuoco, il Merkava V mantiene la stessa configurazione d'arma del Merkava IV: un cannone a canna liscia da 120 mm delle Israel Military Industries con la capacità di sparare a una distanza massima di 4 km con proiettili ad alta penetrazione e munizioni guidate. L'armamento aggiuntivo include una mitragliatrice coassiale da 7,62 mm, un'altra mitragliatrice da 7,62 mm montata sul lato destro della torretta e un mortaio da 60 mm con culatta interna.
   Una delle caratteristiche del carro armato Barak è un casco ad alta tecnologia sviluppato da Elbit Systems e chiamato IronVision. Fornisce una visione a 360 gradi del campo di battaglia per il comandante del carro armato con riconoscimento assistito dall'intelligenza artificiale e marcatura digitale dei bersagli.
   Il carro armato Barak è inoltre dotato dell'avanzato sistema di difesa missilistica Windbreaker sviluppato da Rafael. Questo sistema è in grado di rilevare gli ATGM in arrivo e di farli esplodere lontano dal carro armato. Anche la potenza di fuoco degli MBT è stata migliorata. Il sistema di controllo del fuoco, anch'esso sviluppato da Elbit, consente "attacchi precisi al minimo e in movimento" sia di giorno che di notte.
   Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha sottolineato la data simbolica della presentazione del carro armato: Israele celebra i 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur del 1973. Ha affermato che il carro armato Barak rappresenta uno "straordinario balzo in avanti" nelle capacità dei corpi corazzati e "garantirà costantemente il vantaggio qualitativo dell'IDF, sia difensivo che offensivo".

(Top War, 20 settembre 2023)

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Musk e la parola di troppo

Netanyahu chiede al patron di X di fermare l’antisemitismo sul social

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto a Elon Musk, il proprietario di X, precedentemente Twitter, di adottare misure per frenare l’antisemitismo sulla piattaforma. Musk all’inizio di questo mese ha minacciato di citare in giudizio l’Anti Defamation League, accusando l’organizzazione di “tentare di uccidere” X dopo che il gruppo aveva segnalato un picco di incitamento all’odio sulla piattaforma in seguito al ripristino di account bannati.
   Nell’incontro, Netanyahu ha elogiato Musk per quello che ha definito il suo sostegno alla libertà di parola e ha detto di sapere che il proprietario di X è contrario all’antisemitismo. “Spero che troverete, entro i confini del Primo emendamento, la capacità di fermare l’antisemitismo o di reprimerlo nel miglior modo possibile, ma anche qualsiasi forma di odio collettivo verso un popolo come quello che l’antisemitismo rappresenta, vi esorto e vi incoraggio a trovare un equilibrio”, ha detto Netanyahu. “Sono contro l’antisemitismo e contro tutto ciò che promuove l’odio e il conflitto”, ha risposto il patron di Tesla. Tuttavia, Musk ha sottolineato che “la libertà di parola a volte significa che qualcuno che non ti piace dice qualcosa che non ti piace”. Qui Musk dovrà trovare la quadra: garantire la libertà di parola, ma evitando che X diventi il ricettacolo di liquami antisemiti. Musk ha aggiunto che ci sono tra i 100 e i 200 milioni di post al giorno su X e “alcuni di questi saranno pessimi”. Netanyahu ha risposto che ciò non dovrebbe impedire a Musk di condannare l’antisemitismo.
   Netanyahu ha suggerito a Musk che un modo per combattere l’antisemitismo è impedire l’uso dei robot. “Bibi” ha poi definito Musk “l’Edison del nostro tempo” e il “presidente non ufficiale degli Stati Uniti”. Per questo Musk ha una responsabilità maggiore nell’evitare che l’agorà digitale sia usata da chi non dovrebbe neanche starci.

Il Foglio, 20 settembre 2023)

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La comunità ebraica marocchina rende omaggio alle vittime del terremoto

In un clima di contemplazione e solidarietà, diversi membri della comunità ebraica marocchina hanno reso omaggio alle vittime del terremoto di Al Haouz, durante le celebrazioni della festa di Rosh Hashanah che segna l’inizio del nuovo anno ebraico.

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Organizzata presso la sinagoga Névé Shalom, la cerimonia è stata caratterizzata dalla presenza di diversi giovani musulmani marocchini che hanno presentato ai loro connazionali ebrei gli auguri di buon anno “Shana Tova”.
Celebrato sabato e domenica dalla comunità ebraica attraverso la preghiera, il Capodanno ebraico, 5784 del calendario ebraico, è scandito il terzo giorno dall’osservazione di un digiuno. In questa occasione, i membri di "Marocains Pluriels" e "Salam Lekoulam", le associazioni che hanno organizzato la cerimonia, hanno consegnato ai loro concittadini ebrei due cesti di cibo con mele, melograni, banane, frutta secca, dolci... in segno di fratellanza.
   Il rabbino della sinagoga Névé Shalom, Jacky Sebag, è stato felice di vedere “i nostri fratelli musulmani che vengono ad augurarci un felice anno nuovo”dicendo a se stesso “orgogliosi di questo rapporto di fraternità e di preziosa convivenza che distingue il Marocco nel mondo”.
   Questa fratellanza tra tutti i marocchini “indipendentemente dalla loro religione, si è naturalmente manifestata attraverso l’effusione nazionale di solidarietà con le vittime del terremoto di Al Haouz”, ha detto.

(DayFR Italian, 20 settembre 2023)

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‘’Il silenzio di Pio XII sulla Shoah lasciò soli gli ebrei’’

Intervista allo storico Michele Sarfatti

di Luca spizzichino

Papa Pio XII era a conoscenza dello sterminio degli ebrei. È quanto emerso da una lettera scoperta da Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano, pubblicata da La lettura. In questa lettera, datata 14 dicembre 1942, un gesuita tedesco antinazista, Lothar König, parla esplicitamente a padre Robert Leiber, segretario di Pio XII, dell’uccisione di massa degli ebrei da parte dei nazisti.
Per approfondire quanto emerso dal documento scoperto da Coco e capire quali furono i motivi del silenzio del pontefice durante sulla Shoah, Shalom ha intervistato il professor Michele Sarfatti, storico e autore di numerosi saggi sulle persecuzioni antiebraiche e sugli ebrei nell’Italia del XX secolo.

- Professore, perché è importante la scoperta di questa lettera?
  La lettera trovata da Giovanni Coco è importante perché si tratta di una seconda missiva. Nel documento originale di König, scritto in tedesco, si legge che “le ultime informazioni su "Rawa Ruska" con il suo altoforno delle SS, dove ogni giorno fino a 6.000 persone, per lo più polacchi ed ebrei vengono uccisi, hanno trovato conferma anche da altre fonti. Anche il racconto di Oschwitz (Auschwitz) a Katowice è corretto”. Queste frasi ci lasciano intendere che non è la prima volta che Leiber riceveva messaggi dal gesuita tedesco. Io sospetto che nel primo rapporto ci fossero ancora più dettagli, perché qui ne dà pochi. Quanto a Rawa Ruska, lì non c’erano campi di sterminio, quindi per me l’autore si riferiva al vicino campo di Belzec, distante una ventina di chilometri.
Inoltre, più avanti, König utilizza il termine “ausgerottet”, ossia “sterminio”, per quanto sta accadendo agli ebrei e ai polacchi, facendo riferimento a un discorso di Hitler in cui si legge: “Non avranno più tempo per sorridere”. König, citando il discorso di Hitler, mette in relazione Belzec e Auschwitz con l'annientamento. Una cosa di questo tipo non era ancora stata scoperta. Per la prima volta, con questo riferimento, si parla di Auschwitz e di Belzec come luoghi dello sterminio degli ebrei.

- Quindi questa lettera dimostra quelle che sono state le varie ipotesi fatte fino ad ora…
  È un'ulteriore conferma, perché sappiamo che in Vaticano arrivavano un'infinità di notizie. Inoltre, bisogna tenere da conto il fatto che ci fosse una rete di controinformazione che raccoglieva le notizie che arrivavano dai territori sotto il dominio nazista, le centralizzava, le elencava e le mandava a Roma, affinché si sapesse cosa stesse accadendo. La particolarità di questo documento sta nel fatto che fosse conservata fra le carte del Pontefice. Il Papa però non fece nulla.

- Perché Papa Pio XII non intervenne? Perché scelse di tacere?
  Il Papa non sapeva rapportarsi a questa situazione. Noi non possiamo assolutamente dire che fosse favorevole in qualche modo. E probabilmente era anche consapevole che avrebbe dovuto fare di più, ma non ci riuscì. Vista con gli occhi di oggi è una autodichiarazione di inadeguatezza impressionante.
Se avesse detto qualcosa sullo sterminio degli ebrei, Hitler avrebbe continuato comunque il suo progetto, ma in qualche modo chi si opponeva avrebbe avuto un motivo in più, un sostegno morale. Però con il suo silenzio il Papa ha lasciato soli gli ebrei e ha lasciato soli anche i cattolici che erano solidali con loro. Questo è l'aspetto più grave secondo me.

- Qual è il motivo di questa “inadeguatezza”?
  Papa Pio XII fu prigioniero della tradizione antiebraica del cattolicesimo. Lui era avviluppato in questi pregiudizi e non è stato in grado di uscirne. 
L'antisemitismo razzista, e poi sterminatore, è prosperato dentro l'antiebraismo cristiano assumendo poi questo aspetto omicida. La Chiesa non è stata in grado di dire che esiste un limite. Non è stata in grado di elaborare, tra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento, una barriera di difesa e un argine all’odio antisemita.
La Chiesa avrebbe dovuto superare in una settimana 1800 anni di pregiudizi. Non è facile, perché sono radicati nel profondo, però avrebbe dovuto farlo lo stesso e non l’ha fatto. 

- Esistono quindi altri documenti oltre a quelli di König?
  Al convegno che ci sarà a ottobre 2023, presso la Pontificia Università Gregoriana, parlerò delle notizie arrivate in Vaticano nel corso del 1942. In quel periodo arrivarono anche informazioni sulle camere a gas, una novità sconvolgente per noi oggi a ottant'anni di distanza, figuriamoci a metà degli anni 40. Non capivano bene cosa fossero ovviamente all'epoca, ma arrivarono notizie a riguardo.
Considerando tutti i rapporti ricevuti in quel periodo, il 9 settembre del 1943 la Santa Sede avrebbe potuto convocare tutte le personalità ebraiche di Roma, avvertire di mettersi in salvo e cercare di aiutarli. Tuttavia, ciò è mancato, gli ebrei rimasero soli. Pio XII aveva delle chiavi in mano che non ha utilizzato. 

- Come giudica questa volontà del Vaticano di aprire e condividere i suoi archivi?
  Credo sia un segno di enorme apertura e del desiderio di uscire dalla fase della polemica e di consegnare alla Storia ciò che accadde durante la Seconda Guerra Mondiale.

(Shalom, 20 settembre 2023)

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«Nessun documento dice che la fondazione di Serrastretta sia stata opera di famiglie di ebrei»

Il sindaco del centro nel Catanzarese Muraca interviene con riferimento a quanto riferito dalla Aiello.

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SERRASTRETTA - «La necessità di tutelare la verità storica e la memoria collettiva mi spinge a rappresentare alcune considerazioni, di natura esclusivamente storica, su quanto dichiarato dalla Rabbina». Lo afferma il sindaco di Serrastretta Antonio Muraca in una lettera alla redazione con riferimento all’articolo "Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria"“Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria”, pubblicato il 18 settembre 2023 dal Corriere della Calabria. «Premetto – dice Muraca – che la Rabbina Barbara Aiello – protagonista dell’articolo e concittadina da anni accolta e stimata dall’intera comunità serrastrettese, me compreso – è persona alla quale sono legato da ottimi rapporti personali e istituzionali, fondati sul rispetto umano, culturale e religioso. Tali presupposti ci hanno portato, in diverse occasioni, a scegliere di vivere momenti di condivisione e collaborazione pubblica.
   Ciò premesso, la necessità di tutelare la verità storica e la memoria collettiva mi spinge a rappresentare alcune considerazioni, di natura esclusivamente storica, su quanto dichiarato dalla Rabbina nell’articolo citato. L’obiettivo è evitare che i lettori siano esposti a una ricostruzione priva di fondamenti storiografici, che potrebbe finire per diventare un falso storico amplificato dai canali online. In particolare, desidero chiarire un passaggio dell’intervista riportata. La Rabbina Aiello ha affermato, riguardo alle origini del Comune, che esso è nato “quando cinque famiglie di ebrei perseguitati, in fuga da Scigliano (che dista circa 35 km) arrivarono fin qui e fondarono quello che all’epoca era solo un villaggio”. Pur non essendoci nulla di male se ciò fosse stato vero e rappresentasse un dato storico certo e comprovato, circostanza che lo renderebbe parte del nostro patrimonio identitario da tutelare e valorizzare, ritengo, però, necessario sottolineare – solo per dovere di precisione e senza qualsivoglia spirito polemico – che quanto affermato è privo di alcun fondamento storico e storiografico. L’unico riferimento a questa notizia sulle cinque famiglie di Scigliano – sostiene il sindaco di Serrastretta –  si trova nel libro “Storia di Serrastretta dalle origini al 1938” dello storico Filippo BRUNI. Tuttavia, in tale testo non si fa menzione dell’origine ebraica di tali famiglie. Non esistono, d’altro canto, ulteriori fonti o documenti che confermano o accennano alla possibilità che la fondazione di Serrastretta sia stata opera di famiglie di ebrei.
   Si deve pertanto rilevare che la ricostruzione storica avanzata da Barbara Aiello è un’ipotesi prettamente personale, priva di dati storiografici a supporto e non suffragata da alcuna ricerca storica sull’argomento. Le famiglie in questione furono probabilmente spinte a lasciare Scigliano e insediarsi nel nostro territorio per motivi familiari o economici. Tuttavia, quale che sia stata la motivazione della loro partenza, l’origine delle famiglie e il loro credo religioso, è necessario fornire una narrazione storica accurata. Se questo è l’intento, la sola affermazione possibile – ossia l’unica supportata da dati – è che Serrastretta è stata fondata da cinque famiglie provenienti da Scigliano, i cui cognomi sono: Bruni, Mancuso, Fazio, Talarico e Scalise. Altro non si può aggiungere. Approfitto dell’occasione – conclude Muraca – per confermare la stima e il rispetto per il lavoro che la Rabbina Barbara Aiello svolge nel nostro paese da anni, unitamente all’affetto e alla simpatia per il suo essere una persona affabile, cortese e gentile con tutti».

(Corriere della Calabria, 20 settembre 2023)

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Il gasdotto turco-israeliano che probabilmente non si farà

Da più di un anno funzionari turchi e israeliani discutono del potenziale corridoio energetico per collegare il giacimento di gas Leviathan all’Europa. Il progetto di gasdotto, vecchio di un decennio, è stato rispolverato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, quando l’Unione Europea cercava di sostituire le forniture di gas russo. Ma la politica regionale, l’imprevedibilità della domanda di mercato e le alternative emergenti stanno facendo di nuovo accantonare il progetto.
   Ankara, che aspira a diventare un hub regionale del gas, ha proposto nel 2022 la costruzione di un gasdotto di 500 Km (costo previsto 1,5 miliardi di dollari) dal Leviatano alla Turchia. I rapporti fra Israele e la Turchia erano tesi da anni, ma a febbraio 2022 una delegazione turca di alto livello ha visitato Israele per rompere il ghiaccio, definendo la cooperazione energetica come la chiave per un’ulteriore collaborazione politica, economica e di sicurezza. Il mese successivo il presidente israeliano si è recato ad Ankara, a maggio il Ministro degli Esteri turco si è recato a Gerusalemme e ad agosto le due parti hanno concordato di ripristinare le relazioni diplomatiche. Ma gli ostacoli alla collaborazione non sono svaniti.
   In primo luogo il gasdotto attraverserebbe la ZEE di Cipro, ma il governo turco non riconosce il governo greco-cipriota. Inoltre la Grecia, principale sostenitore del governo greco-cipriota, ambisce anch’essa ad essere hub di transito del gas. Grecia, Cipro e Israele sono tutti membri del Forum del gas del Mediterraneo orientale e spesso conducono esercitazioni militari insieme, quindi è improbabile che Israele proceda con il progetto del gasdotto senza il loro sostegno. Poi il gasdotto attraverserebbe la ZEE della Siria, nemico regionale di Israele e longa manus dell’Iran nella regione. 
   Un progetto alternativo potrebbe prendere forma, parte del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), che comprende Israele ma non la Turchia. Composto da ferrovie, porti, collegamenti elettrici e digitali e persino infrastrutture per produrre e spedire idrogeno verde, l’IMEC è un formidabile rivale degli interessi turchi. Gode del sostegno di India, Stati Uniti, UE e Stati arabi del Golfo. Sebbene Israele non abbia firmato il memorandum d’intesa per l’IMEC, Benjamin Netanyahu ha espresso sostegno all’accordo. Per realizzare IMEC Israele e gli stati arabi del Golfo dovrebbero raggiungere la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Sarebbe un esito estremamente positivo per l’equilibrio regionale.

(Associazione Camis De Fonseca, 19 settembre 2023)

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L'Unesco regala Gerico ai palestinesi. Per punire Israele smentita la Bibbia

di Fiamma Nirenstein

Anche chi di Bibbia ne sa poco, non ignora che «Giosuè ha combattuto la battaglia di Gerico». Il profeta guerriero incaricato da Mosè di portare gli ebrei a Canaan nella terra che sarà Israele fece cadere le potenti mura al suono dello Shofar, il solenne corno che anche in questi giorni si suona per il capodanno ebraico. Gerico fu la prima città che gli ebrei videro quando si accamparono nella piana di Moab di là dal Giordano. È la prima della 57 volte in cui è citata nella Bibbia. Certo, siamo in tempi di revisione woke della storia, della religione, dei ruoli, ma ci vorrebbe po' di pudore da parte dell'Unesco quando cancella la Bibbia. Ma ormai da decenni non si occupa d'altro che di cercare di delegittimare la storia degli ebrei e di consegnarla ai palestinesi. Così ha fatto domenica dichiarando la parte archeologica più importante di Gerico «Patrimonio Mondiale di Palestina», ovvero di uno Stato che non esiste. Peggio, che nelle sue incarnazioni presenti si disegna con le parole di Abu Mazen, che nega con un'uscita antisemita sanzionata in tutto il mondo il rapporto fra popolo ebraico e Israele e che giustifica lo sterminio di Hitler; e con il raddoppio dei salari pagati ai terroristi in galera.
   Gerico ha svariate location archeologiche, essendo una delle più antiche città del mondo, con più di 8mila anni di storia. Ma nella Bibbia e anche oltre la sua storia ebraica è universalmente nota. Eugene Kontorovich, giurista israeliano, ne è certo: si tratta di un'ennesima pulizia etnica tentata a danno degli ebrei, proprio mentre domenica celebravano il capodanno. E l'Unesco insiste: ha definito l'antica Gerusalemme retaggio palestinese e ne ha addirittura condannato «l'occupazione»; così ha fatto per Hebron, dove si trova la tomba dei patriarchi di Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe, l'intero albero genealogico dell'ebraismo. Gerico, governata dall'Autonomia Palestinese, ha visto saccheggi e distruzioni del retaggio archeologico, un danno per tutta l'umanità. E anche Gesù che era ebreo, e che a Gerico compì il miracolo di sanare due cechi e di portare la salvezza al pubblicano Zaccheo sarebbe stupefatto di apprendere che Gerusalemme, Gerico e Hebron non sono parte della cultura ebraica. Ma l'Unesco ha di nuovo compiuto il suo agguato.
   Per complicare le cose Netanyahu prima di partire per l'assemblea dell'Onu, dov'è atteso da un incontro fondamentale con Biden sulla sicurezza di fronte all'aggressività iraniana, ha detto che è insopportabile vedere i dimostranti israeliani allineati con i nemici di Israele come Iran e Olp. Alla reazione che si è subito fatta sentire, il premier ha risposto cercando di rimediare: si riferiva ai dimostranti che si troveranno fuori del Palazzo dell'Onu e verranno confusi, per sbaglio, con i nemici d'Israele. Ma i dimostranti si ritengono offesi e promettono una rinnovata foga nel portare il loro dissenso in piazza. Adesso, è una gara fra la credibilità di Bibi e la determinazione dei suoi detrattori, che si giocano tutto su un suo insuccesso. Strano, o invece evidente, che non capiscano che si tratta di un pericolo mortale per lo stato ebraico.

(il Giornale, 19 settembre 2023)

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I silenzi di Pio XII e gli ebrei battezzati

Intervista allo storico David Kertzer

di Ariela Piattelli

Con l’apertura degli archivi vaticani su Pio XII, lo storico e studioso David Kertzer ha studiato migliaia di documenti sul comportamento della chiesa e del pontefice nel periodo delle persecuzioni nazifasciste. Dal suo lungo e approfondito studio è nato il libro “Un Papa in guerra. La storia segreta di Mussolini, Hitler e Pio XII”, una fitta cronaca di eventi e avvenimenti che arricchisce con documenti sino ad ora sconosciuti o quasi, quanto sapevamo sulla politica della chiesa di quegli anni. In particolare Kertzer si è soffermato più volte nella ricostruzione di ciò che avvenne con le deportazioni e ciò che la chiesa scelse di fare, o di non fare, dall’alba del 16 ottobre 1943. Shalom lo ha intervistato.

- Professor Kertzer, con l’apertura degli archivi vaticani su Pio XII, lei ha studiato centinaia e centinaia di pagine di documenti. Quali sono le novità rilevanti degli ultimi anni rispetto alla deportazione degli ebrei romani e al 16 ottobre 1943?
  A questo punto posso dire che ho già letto decine di migliaia di pagine dei documenti dagli archivi di Pio XII per gli anni che vanno dal 1939 al 1945, con un focus specifico sulle leggi razziali e poi sulla guerra e la Shoah. Per quanto riguarda il 16 ottobre 1943 ci sono delle novità in senso stretto, ma anche alcune puntualizzazioni circa avvenimenti già noti che favoriscono una migliore comprensione del contesto dei rapporti fra Pio XII e gli occupanti tedeschi a Roma e che ci aiutano a capire meglio la sua (in)azione in quei terribili giorni dal 16 al 18 ottobre quando il treno con oltre mille ebrei romani è partito per Auschwitz.  
   Sapevamo già dai documenti pubblicati dal Vaticano anni fa, per incarico di Papa Paolo VI Montini, da una commissione di quattro gesuiti (Actes et Documents du Saint-Siège pendant la Seconde Guerre Mondiale) dell’incontro il pomeriggio del 16 ottobre fra il Segretario di Stato del Vaticano, Cardinale Luigi Maglione, e l’ambasciatore tedesco alla Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. Il cardinale aveva convocato l’ambasciatore per dire che “È doloroso per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma… siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata”. Nel rispondere l’ambasciatore aveva detto che durante tutti gli anni della guerra aveva ammirato l’abilità della Santa Sede di mantenere sempre “un perfetto equilibrio”, e aveva poi aggiunto che l’ordine per la razzia era arrivato “da altissimo luogo”, cioè direttamente da Hitler. Poi ha chiesto se il cardinale gli voleva comunicare una protesta al suo governo. Il cardinale Segretario di Stato aveva allora risposto di no, dicendo (e questo risulta dal resoconto scritto dal cardinale) “Volevo ricordargli che la Santa Sede è stata, come egli stesso ha rilevato, tanto prudente per non dare al popolo germanico l’impressione di aver fatto o voler fare contro la Germania la minima cosa durante una guerra terribile”.
   Sappiamo che il Papa fu informato della razzia molto presto quella stessa mattina del 16 ottobre e sappiamo anche che Pio XII non poteva non conoscere il destino che attendeva gli ebrei rastrellati. Scopriamo ora dagli archivi del pontificato pacelliano di recente apertura che il 17 ottobre, quando gli ebrei catturati erano ancora prigionieri nel Collegio Militare, nei pressi proprio del Vaticano, il Papa aveva ricevuto una lettera urgente inviata da un gruppo di ebrei romani che erano sfuggiti alla cattura e che lo pregavano di intervenire.
   Il pontefice ricevette poi anche un’altra lettera quel giorno da parte di un’anziana donna ebrea prigioniera proprio nel Collegio Militare che, in circostanze non chiare, era riuscita a spedirgliela: anche lei supplicava disperatamente il suo intervento.
   Ma quello che risulta chiaro dagli archivi vaticani oggi è che, nonostante queste e numerose altre informazioni analoghe, l’azione della Santa Sede in quelle ore cruciali si focalizzò sulla notizia che fra gli ebrei catturati c’erano molti ebrei battezzati e su costoro si concentrarono tutti gli sforzi del Vaticano per ottenerne la liberazione.

- Spesso si parla degli sforzi della chiesa di salvare gli ebrei dalle deportazioni. I canali ufficiali del Vaticano si mobilitarono in questo senso? Se si, per chi lo fecero?
  La deportazione degli ebrei italiani continuò per tutto il tempo che i militari tedeschi rimasero nel paese, in stretta collaborazione con le forze della Repubblica Sociale Italiana, cioè con forze italiane. Sappiamo anche che senza la partecipazione degli italiani, non avrebbe avuto il “successo” che ebbe. Un momento chiave, oltre il 16 ottobre, fu sei settimane dopo, il 30 novembre, quando il governo di Mussolini promulgò l’ordine di arrestare tutti gli ebrei presenti in Italia e spedirli in campi di concentramento, da cui sarebbero poi deportati verso i campi di sterminio. Sappiamo dai documenti trovati negli archivi vaticani che un consigliere importante del Papa aveva suggerito una protesta all’ambasciatore tedesco ma che poi questo suggerimento era stato, come da prassi, inviato, per un parere, al prelato che in Segreteria di Stato era considerato da tempo il consigliere chiave per tutte le questioni che riguardavano gli ebrei. Questo prelato era mons. Angelo Dell’Acqua, futuro cardinale vicario di Roma. Nel suo promemoria, pieno di linguaggio antisemitico, ha criticato il consiglio dato e ha detto che non si doveva protestare il rastrellamento degli ebrei al governo tedesco. Questo documento, che ritengo fondamentale, non è stato pubblicato nelle migliaia di pagine che compongono i citati Actes et Documents. E questo non è l’unico caso di omissione, parziale o integrale, di documentazione centrale soprattutto per la comprensione dell’atteggiamento della Santa Sede in merito alla questione ebraica: è quindi chiaro, dall’analisi delle carte degli archivi vaticani del pontificato di Pio XII che la famosa commissione dei gesuiti che preparò gli Actes e Documents operò una significativa censura rispetto agli originali che si trovò a maneggiare. E dai confronti che sto facendo in questi anni di ricerca, mi sembra anche questa sia una notizia importante, di cui occorre necessariamente tenere conto.

- Dal Collegio Militare, prima della deportazione verso Auschwitz, furono salvate alcune persone. Chi erano e perché furono salvate?
  Questo è infatti un aspetto di questa triste storia che si capisce meglio proprio grazie all’apertura degli archivi vaticani. Il 16 ottobre i tedeschi catturarono circa 1259 persone, portate poi al Collegio Militare. Ma sappiamo che solo poco più di mille furono messe sul treno per Auschwitz due giorni dopo. Chi erano quelle quasi 250 persone rilasciate? Sembra dalla documentazione vaticana che si tratti in buona parte di ebrei battezzati e anche ebrei sposati con donne cattoliche che avevano bambini battezzati. Descrivo qualche caso di questo tipo nel mio libro recente, Un Papa in guerra. E aggiungo che il 17 ottobre Monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI, ma in quell’epoca Sostituto nella Segreteria di Stato) poté spedire un suo assistente al Collegio Militare. Nel suo rapporto sulla triste condizione dei confinati aveva scritto: “Sembra…che vi si trovano anche persone già battezzate, cresimate e unite con matrimonio canonico”. Il Vaticano fece tutto ciò che poté per informare i tedeschi di questi casi. Quelli confinati che potevano, anche con l’aiuto del Vaticano, confermare il loro status di convertiti o di sposati canonicamente con cattoliche furono liberati. A testimonianza di questi sforzi, nei giorni successivi molte lettere di ringraziamento arrivarono al Vaticano da queste persone.

- Come dimostrano alcuni suoi interessanti scritti, in Europa ci furono casi di conversioni di bambini anche durante la Shoah. Cosa sappiamo di questo fenomeno in Italia?
  Per quanto riguarda la conversione di bambini che hanno trovato rifugio presso istituti cattolici, sappiamo che c’erano molte conversioni, ma non sappiamo ancora quante furono.  Anche negli archivi vaticani si legge di gruppi interi di fratelli battezzati nei conventi di Roma. Poi, come ho documentato in un saggio già pubblicato, c’è il caso famoso dei due orfani francesi della Shoah, i fratelli Finaly, nascosti per vari anni dopo la guerra, spediti da un convento ad un altro per evitare il ritorno alla famiglia ebraica. Grazie all’apertura degli archivi vaticani per il periodo del pontificato di Pio XII (che, come sappiamo, arrivò fino al 1958) possiamo finalmente verificare il ruolo fondamentale giocato dal Vaticano in questa vicenda e come nella sua gestione venne seguito il medesimo principio adottato nel celebre caso ottocentesco di Edgardo Mortara, ovvero che gli ebrei battezzati non potessero tornare alle famiglie d’origine.

- La domanda che ci si pone da 80 anni è la seguente: il Papa avrebbe potuto fare di più per salvare o aiutare gli ebrei?
  Ho scritto Il Papa in guerra in parte per spiegare perché il pontefice agì come sappiamo durante la guerra. Non si può capire la Shoah senza inserirla nel suo corretto contesto storico. In questo senso occorre avere presente che negli anni Trenta molti paesi d’Europa, compresa l’Italia, promulgarono leggi contro gli ebrei, e su questo in genere le Chiese cattoliche nazionali offrirono il loro sostegno. Non solo: anche in Italia per giustificare la persecuzione antiebraica, i governi richiamavano continuamente l’esempio recente del potere temporale della Chiesa nella gestione delle minoranze ebraiche, escluse, relegate in ghetti, private di diritti fondamentali e continuamente perseguitate per il loro stigma di deicidi, perfidi e corruttori, tollerati solo in virtù di una loro possibile e ricercata conversione alla vera fede, attraverso il battesimo. Il secolare pregiudizio antiebraico permeava la società cattolica a vari livelli (curia, clero, fedeli), come testimonierà, negli anni subito successivi alla fine della guerra, sulla questione della preghiera del Venerdì Santo e sulla "giudaica perfidia". Inoltre, non dimentichiamo che coloro che materialmente sterminarono i sei milioni di ebrei non si consideravano, se non in minima parte, pagani: si consideravano, e a tutti gli effetti erano, cristiani. Per me, è questo il contesto in cui bisogna capire il significato del silenzio del Papa durante la Shoah.
   Per quanto riguarda la Shoah in Italia e, nello specifico, il rastrellamento del 16 ottobre 1943, il fatto che il Papa non protestò contro l’arresto, la deportazione e il massacro dei mille ebrei romani mi sembra davvero scioccante. Nessuna protesta da parte del Papa nemmeno nei mesi successivi, quando nuovi rastrellamenti portarono alla cattura di un altro migliaio di ebrei, deportati anch’essi da Roma. E non va dimenticato che la riuscita del lavoro dei tedeschi di individuazione degli ebrei nascosti nell’Italia occupata dipendeva dalla collaborazione attiva degli italiani cattolici: anche in questo caso, silenzio da parte del Papa. Inoltre, sempre per comprendere adeguatamente il contesto storico, bisogna anche tenere a mente che, fino alla caduta di Mussolini nel luglio 1943, con lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, la Chiesa italiana diede il suo pieno sostegno alla guerra dell’Asse, come ho scritto nel mio ultimo libro e in un saggio successivo scritto con Alessandro Visani (David I. Kertzer and Roberto Benedetti, “Italian Catholic Press Support for the Axis War,” Journal of Modern Italian Studies 25:5:469-507, 2020). Per me questa rimane una responsabilità non solo del Papa e del Vaticano, ma anche della Chiesa italiana più in generale e a vari livelli: una responsabilità molto pesante e un’eredità con la quale ancora oggi è difficile fare pienamente i conti.

- Da una lettera del ‘42 recentemente trovata da Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano e pubblicata da La lettura, sembra che Pio XII fosse a conoscenza dello sterminio in atto. In questa missiva il gesuita Lothar König scrive a Robert Leiber, segretario di Pio XII, dell’uccisione di massa degli ebrei e dei polacchi per mano nazista. Cosa ne pensa? Si tratta davvero di una rivelazione?
  Il ritrovamento della lettera scritta dal gesuita tedesco, spedita al segretario, anch’esso tedesco e gesuita, di Pio XII nel dicembre 1942, mi sembra una notizia importante, ma non clamorosa.  Sapevamo già dagli archivi vaticani aperti tre anni fa che il papa ha ricevuto vari rapporti da fonti affidabili della Chiesa sul tentativo da parte dei nazisti di sterminare gli ebrei di Europa.  Sappiamo anche che quando, nell’autunno del 1942, il Presidente Roosevelt ha chiesto al papa se avesse ricevuto rapporti che potevano confermare quelli da loro ricevuti sulla campagna nazista, ha risposto di no, anche sapendo che non era così.  Per me, le novità di questa lettera sono due:  1) È un’indicazione che già nel 1942 Pio XII sapeva dei crematori nei campi di sterminio 2) Il fatto che questo documento è stato presentato da un archivista dell’Archivio Apostolico Vaticano, mi sembra un buon segno che ci sia nel Vaticano una volontà di confrontarsi in modo franco con questa storia difficile del papa e la Shoah.

(Shalom, 19 settembre 2023)

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Si può affidare agli israeliani la democrazia?

Solo ad alcuni a quanto pare, secondo il padre della "rivoluzione costituzionale" di Israele.

di Ryan Jones

Aharon Barak, ex presidente della Corte Suprema israeliana, ha promulgato una "rivoluzione costituzionale" descritta come atto di pirateria.
Ebraico o democratico? O entrambi? Da 75 anni Israele è una democrazia ebraica, ma è un cammino difficile. I cittadini "illuminati" di Israele hanno a lungo temuto che diventare ebrei avrebbe significato non essere più democratici. E hanno creduto che solo loro fossero in grado di mantenere il "giusto" equilibrio tra le due cose.
   È così che lo ha spiegato niente meno che l'ex presidente della Corte Suprema di Israele, Aharon Barak, quando ha giustificato la sua "Rivoluzione Costituzionale" all'inizio degli anni Novanta.
   Questo termine - Rivoluzione Costituzionale - proviene da Barak. L'ha coniato lui. Questo smentisce gli slogan attuali che definiscono la riforma giudiziaria del governo Netanyahu una "rivoluzione". In realtà, la rivoluzione è già avvenuta, come riconosce Barak. Il governo di Netanyahu sta cercando di invertire la rivoluzione e di riportare Israele al modo in cui funzionava prima degli anni Novanta.
   Se questa sia la strada giusta è discutibile. Ma non dobbiamo ignorare la storia e quindi disegnare un quadro falso.
   Torniamo al concetto di democrazia.
   La rivoluzione portata avanti da Barak si basava sull'idea che un Israele pienamente democratico sarebbe diventato troppo "ebraico" e quindi non democratico, dal momento che l'elettorato religioso conservatore avrebbe iniziato a superare quello laico liberale.
   Quindi Barak ha compiuto un passo antidemocratico preventivo concedendo alla Corte di Giustizia nuovi poteri che le avrebbero permesso di annullare le decisioni "irragionevoli" della Knesset eletta.
   Questo e altri evidenti difetti del sistema giuridico israeliano sono stati aspramente criticati dai principali studiosi di diritto statunitensi dell'epoca.
   Il giurista Richard Posner ha descritto Aharon Barak come un "despota illuminato" e ha definito la sua acquisizione del potere giudiziario un atto di "pirateria". Nel suo libro del 2003 Coercing Virtue, l'ex procuratore generale degli Stati Uniti Robert Bork è rimasto sconvolto dall'autoritarismo della Corte Suprema israeliana sotto Barak e i suoi successori.
   "Immaginate una Corte Suprema che ha il potere di scegliere i propri membri, che annulla le leggi e le azioni dell'esecutivo in caso di disaccordo sulla politica, che cambia il significato delle leggi promulgate, che proibisce l'azione del governo in certi momenti e la ordina in altri, e che rivendica ed esercita l'autorità di annullare le misure di difesa nazionale", ha scritto Bork. "Immaginate una Corte suprema che ha creato un diritto costituzionale quando non esiste affatto una Costituzione".
   Da non credere, ha concluso Bork, "non è necessario alcun atto di immaginazione: la Corte Suprema di Israele li ha realizzati tutti".
   Ma Israele non è l'America, e quindi questa critica è rimbalzata su Aharon Barak come l'acqua sulla schiena di un'anatra. Israele è molto piccolo e molto frammentato, e Barak ha concluso che solo una certa parte della società israeliana, che lui chiamava "pubblico illuminato", poteva essere affidabile per mantenere la nazione in carreggiata.
   Non ci si poteva fidare della crescente marmaglia di destra per mantenere Israele progressista, liberale e "libero".
   Con questo approccio Barak ha limitato le libertà democratiche degli israeliani religiosi conservatori e degli ebrei ultraortodossi, molti dei quali, se non la maggior parte, vogliono una forma di governo diversa.
   La domanda è questa: Gli israeliani, tutti gli israeliani, possono godere di pieni diritti democratici? O hanno bisogno (o almeno alcuni di loro) di un tutore, o meglio, di una supervisione giudiziaria superiore?
   Il fatto è che gli stessi israeliani non sono mai stati in grado di rispondere a questa domanda.
   Aharon Barak e la sua cerchia di "illuminati" hanno deciso per loro.

(Israel Heute, 19 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Non ci si poteva fidare della crescente marmaglia di destra per mantenere Israele progressista, liberale e "libero"». In questo Israele non è all'avanguardia, altre nazioni l'hanno preceduto, tra cui i superdemocratici Stati Uniti, capofila di stati trascinati, come l'Italia, nell'ondata dei dem, democratici doc. M.C.

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I grandi progetti come Imec procedono nonostante le difficoltà tra Riad e Gerusalemme

di Emanuele Rossi

“Il ministero degli Affari Esteri esprime la condanna e la denuncia del Regno dell’Arabia Saudita per l’assalto alla moschea di Al-Aqsa da parte di un gruppo di estremisti sotto la protezione delle forze di occupazione israeliane”, così scrive su X il governo di Riad, guidato dall’erede al trono Mohammed bin Salman, che per la prima volta nella storia del regno è anche primo ministro. La posizione è dovuta e al limite simbolica, il Paese protettore dei luoghi sacri dell’Islam non può non prendere le difese palestinesi per i fatti avvenuti domenica mattina, quando le forze israeliane hanno aggredito violentemente i palestinesi vicino a uno dei cancelli della moschea (tra questi c’erano persone anziane, spinte a terra, ferite dai soldati del governo Netanyahu).

• La normalizzazione e i suoi problemi
  Tutto va inserito in un contesto più ampio, che riguarda la gestione dura che l’esecutivo israeliano ha deciso di tenere nei confronti dei palestinesi (quella di domenica è una vicenda che segue un trend). Aspetto per cui il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato contestato anche al suo arrivo a New York, per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Unga), con i manifestanti accusati di “allinearsi con l’Iran”. Ma soprattutto tutto va inserito nel quadro ampio e altamente strategico dei negoziati per costruire un accordo di normalizzazione — mediato dagli Stati Uniti — tra Israele e Arabia Saudita.
   C’è molto rumore attorno al dossier, e il fatto che Netanyahu a New York avrà una breve chiacchierata con Joe Biden a latere dell’Unga alimenta i rumors e il gossip diplomatico. L’ultima notizia dice che Riad avrebbe deciso di interrompere i colloqui per la normalizzazione dei legami con Israele. La decisione, secondo Elaph (media arabo indipendente basato a Londra), sarebbe stata comunicata agli israeliani dagli Stati Uniti, citando le preoccupazioni per il governo di destra israeliano e proprio la sua posizione “estremista” sulla questione palestinese. I funzionari statunitensi hanno negato l’interruzione delle discussioni. I funzionari israeliani hanno contestato l’idea che la questione palestinese sia un ostacolo alla pace, ma viene tirata fuori quasi a orologeria nei momenti che contano, ricordando quanto costoso e problematico sarà la normalizzazione con Israele senza una componente palestinese quanto meno affrontata.
   Eppure quella normalizzazione è un dossier altamente strategico che può riordinare una regione come quella mediorientale costantemente caotica e caoticizzata, e dare impeto fondamentale a progetti cruciali come quello del corridoio Imec, infrastrutture geopolitica che apre praticamente al concetto di Indo Mediterraneo e sarebbe un propulsore per un nuovo ruolo globale dell’Europa – e dell’Italia.

• Imec, Israele e Arabia Saudita
  Nei giorni scorsi, il governo saudita ha sottolineato il suo ruolo nella creazione del corridoio economico che collegherà l’India, il Medio Oriente e l’Europa grazie alla sua posizione geografica strategica e all’affidabilità energetica. Il gabinetto ha discusso un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti per creare corridoi di transito verdi intercontinentali che passino attraverso la penisola araba, facilitando il trasporto di elettricità rinnovabile, idrogeno pulito e altro. Re Salman ha guidato il meeting del gabinetto di governo riunitosi a Neom, la città-corridoio che (quando sarà ultimata nel 2025) scorrerà per 170 chilometri lungo le coste del Mar Rosso, opera che simboleggia la narrazione strategica globale del Paese. Da Neom, l’Imec è stato osannato come uno degli elementi che rende l’Arabia Saudita una potenza a capacità globale.
   Per il progetto Imec il territorio Saudita è cruciale, perché fa da ponte tra l’India (via Emirati) e l’Europa, a cui si connetterà tramite un passaggio (ferroviario) sul suolo giordano e poi il porto israeliano di Haifa. La posta in gioco è molto alta, e difficilmente Riad rinuncerà a una visione pragmatica impedendo la connessione con Israele anche se non dovesse formalizzarsi una effettiva normalizzazione — d’altronde qualcosa di simile c’è già dal punto di vista dei collegamenti aerei e di informale nel dialogo tra intelligence davanti alle minacce comuni (come terrorismo e Iran, che spesso si sovrappongo) o i contatti più ufficiali all’Unesco.
   “Per avere successo, i partecipanti di Imec dovranno anche garantire che il progetto si materializzi e sia abbastanza allettante da incentivare in modo significativo gli attori regionali”, spiegano Cinzia Bianco e Julien Barnes-Dacey dell’Ecfr. “Il progetto costerà decine di miliardi di dollari e affronterà enormi sfide logistiche, che richiederanno un significativo impegno occidentale”, scrivono in un’analisi approfondita sul sito del think tank paneuropeo. “Se perseguito con serio impegno, sostenuto da aspettative realistiche e legato a una visione di integrazione economica regionale inclusiva, l’Imec potrebbe svolgere un ruolo significativo nell’affermare la rilevanza geo-economica dell’Europa nella regione del Golfo”.
   L’analisi dà il senso della prospettiva comune israelo-saudita: Imec vale molto più del progetto in sé, è un piano di integrazione che si muove assieme alla normalizzazione Gerusalemme-Riad e coinvolge potenze come India, Stati Uniti e Unione Europea, anche in ottica alternativa alla Belt & Road Initiative cinese. Per questo gli americani stanno lavorando a un accordo “trasformativo” (parola del segretario Antony Blinken) tra Israele e Arabia Saudita, perché dal punto di vista strategico la normalizzazione e la successiva integrazione non possono essere bloccati. D’altronde, la questione palestinese è stata parzialmente marginalizzata anche per permettere il procedere degli Accordi di Abramo, il quadro con cui Israele ha riaperto le relazioni diplomatiche con altri Paesi arabi, tra cui gli Emirati. Anche in quel caso, nell’intesa si parlava dei diritti dei palestinesi e si richiamava la soluzione a due stati come simbolo e necessità del rapporto con Israele.

(Formiche.net, 19 settembre 2023)

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La Memoria del Campo A: nuova visita da Israele a Boffalora Sopra Ticino in memoria dell’Aliaah Bet

di Anpi Magenta

Dopo l’evento inaugurativo della stele alla Memoria del Campo A per l’Aliyah Bet 1945-’48, di Boffalora Sopra Ticino (noto come “di Magenta”), dell’11 settembre 2022, iniziative a tema sono seguite, da parte del gruppo Percorso della Memoria Diffusa (ANPI Prov. Milano, Raggr. Divisioni Patrioti Alfredo Di Dio – FIVL, Ecoistituto della Valle del Ticino), promotore della stele e di una serie di altri pannelli-memoriali della storia di Resistenza locale, dalla grafica uniforme, alcuni già posati, alcuni in programma, in svariati Comuni del Castanese e del Magentino. Fra queste iniziative, due importanti visite da Israele, la più recente, domenica 10 settembre 2023.
   L’Aliyah Bet del dopoguerra – è noto – fu un’operazione militare sionista di accoglienza e aiuto all’emigrazione degli ebrei europei sopravvissuti alla Shoah, verso la Palestina sotto mandato britannico. L’operazione era clandestina, in quanto gli amministratori inglesi avevano chiuso le porte della Palestina agli ebrei fin dal 1939, per evitare problemi col mondo arabo. Il Campo A, lo dice il nome stesso, fu il principale dell’Aliyah Bet del dopoguerra dall’Italia, il più importante sul piano dirigenziale e funzionale. Era infatti diretto da Yehuda Arazi (capo dell’intera operazione sul nostro suolo nazionale) e da Ada Ascarelli Sereni, sua principale collaboratrice.
   Nella mattinata di domenica 10 settembre 2023, dunque, presso Villa La Fagiana (il sito-memoriale), è avvenuto un nuovo incontro (che fa seguito al recentissimo, del 6 giugno) con un folto gruppo di visitatori da Israele, accompagnati in Italia per un “Viaggio della Memoria” dalla Signora Orli Bach, nipote di Yehuda Arazi (dirigente del Campo A), già ospite d’onore del gruppo Percorso della Memoria Diffusa, nel 2022, per l’inaugurazione della stele.
   Le tappe di questo viaggio sono state il Memoriale della Shoah di Milano, Sciesopoli Ebraica di Selvino, Villa La Fagiana di Boffalora Sopra Ticino, la Sinagoga di Casale Monferrato e infine la Liguria, regione da cui partirono molte navi dell’Aliyah Bet.
   L’incontro a Villa La Fagiana, condotto dalla sezione ANPI di Magenta, referente nel gruppo Percorso della Memoria Diffusa per l’organizzazione di questa iniziativa, è stato, come sempre, aperto al pubblico, con invito ai patrocinanti la stele e a varie personalità. Ha avuto inoltre la collaborazione di Marco Cavallarin, referente per la Memoria di Sciesopoli Ebraica, accompagnatore dei visitatori sia al Memoriale della Shoah che a Selvino.
   La cerimonia semplice e informale, ma di grande significato, è stata coronata dall’esecuzione corale (da parte degli ospiti e del pubblico) di canti ebraici e italiani della Resistenza.
   Anche in quest’occasione, come in giugno, è stata donata ad ogni presente una copia dell’opuscolo Il Ponte (a cura della sezione ANPI di Magenta, in versione inglese per gli ospiti da Israele), che riassume la storia di quel sito.
   “La data di oggi, 10 settembre 2023” – ha detto Elisabetta Bozzi, Vicepresidente dell’ANPI di Magenta – “per una straordinaria coincidenza è la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Mi piace pensare che, seppur non ufficialmente, il nostro evento si inserisca perfettamente in questo contesto, percorso di Memoria che sostiene e celebra quello culturale, e che ne è parte integrante”.

(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2023)

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Papa Pio XII sapeva dello sterminio degli ebrei. La prova in una lettera ritrovata

di Luca Spizzichino

Papa Pio XII sapeva quanto stava accadendo nei campi di sterminio nazisti, in particolare ad Auschwitz e Dachau. Lo ha rivelato Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano, sull’inserto “La lettura” del Corriere della Sera. Il ricercatore ha scoperto una lettera del 1942 in cui un gesuita tedesco antinazista, Lothar König, parla esplicitamente a padre Robert Leiber, il segretario di Pio XII, che riceveva le lettere per suo conto, dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, descrivendo nel dettaglio quanti ebrei venissero uccisi nei campi ogni giorno.
   Questo documento è la più importante prova scoperta fino a oggi del fatto che papa Pio XII fosse a conoscenza dello sterminio degli ebrei in corso nei campi nazisti.
   König, ha spiegato Coco nell’intervista, durante la guerra fu l’uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, l’antinazista Michael von Faulhaber e il Vaticano. Secondo Coco dalla lettera si capisce che tra König e padre Robert Leiber, c’era una certa familiarità e che certamente quella corrispondenza andava avanti da diverso tempo.
   «Il nome di Dachau era già noto da molto tempo e dal gennaio 1941 era divenuto il campo di detenzione per il clero. E in realtà anche il nome di Auschwitz era conosciuto in Vaticano sin dal 1941» ha sottolineato il ricercatore nell’intervista.
   «La novità e l'importanza di questo documento derivano da un dato di fatto: sull'Olocausto, stavolta si ha la certezza che dalla chiesa cattolica tedesca arrivavano a Pio XII notizie esatte e dettagliate sui crimini che si stavano perpetrando contro gli ebrei» ha aggiunto.
   La lettera scoperta da Coco dimostra non solo che papa Pio XII sapesse ciò che stava avvenendo, ma che riceveva notizie di prima mano sui campi di sterminio. «In Vaticano inizialmente i lager erano noti come luoghi di detenzione di massa, soprattutto per polacchi e per ebrei, dove si moriva per le sevizie ricevute».
   Perché allora Pio XII scelse di tacere? Secondo Coco furono molteplici i fattori: in primo luogo la possibilità di rappresaglie naziste contro i cattolici polacchi, e poi, in larga parte il fatto che in Vaticano ristagnasse un pregiudizio contro gli ebrei non solo sul piano religioso, ma talvolta anche antisemita. Monsignor Angelo Dell'Acqua, a cui fu affidato il dossier degli ebrei, fu determinante nella scelta del pontefice, rivela Coco.
   Diversi storici hanno commentato la lettera ritrovata nell’Archivio Apostolico Vaticano. Michele Sarfatti, intervistato dal Corriere della Sera, ha definito «impressionante» il documento. «È evidente che König era a conoscenza dello sterminio e intendeva metterne al corrente il Papa» ha affermato. «Pio XII era prigioniero. - ha sottolineato lo storico - Non dei fascisti o dei nazisti, ma del passato suo e della Chiesa cattolica, secoli di pregiudizi nei riguardi del popolo ebraico».
   «In un intervento del 2 giugno 1943, - ha proseguito - Pacelli commisera le persone assoggettate a "costrizioni sterminatrici" e in un passo successivo ricorda la tragica sorte del popolo polacco. Degli ebrei invece non fa menzione. Nei suoi discorsi il vocabolo "ebreo" non esiste, è come una sorta di buco nero».
   «Pio XII non poteva fermare la strage. E credo che fosse molto addolorato per quanto avveniva. Ma rimase avviluppato nella ragnatela di una tradizione avversa agli ebrei. - ha sottolineato - Nel frattempo l'antisemitismo razziale, diverso da quello religioso cattolico che mirava alla conversione, si era spinto fino alla strage di massa. La storia era andata più veloce rispetto alla capacità della Chiesa di comprendere quanto avveniva».

(Shalom, 18 settembre 2023)


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All’Università Gregoriana, una conferenza su Pio XII e gli ebrei

di Nathan Greppi

Ha suscitato scalpore, negli ultimi giorni, la notizia del ritrovamento di una lettera del 12 dicembre 1942, dalla quale si evince come Papa Pio XII fosse al corrente già allora di ciò che avveniva nei campi di concentramento nazisti.
   Più in generale, dagli Archivi Vaticani sono emersi in tempi recenti dei nuovi documenti che gettano una nuova luce sul ruolo del Vaticano durante la Shoah, resi fruibili per la prima volta nel marzo 2020 da Papa Francesco. Il loro contenuto verrà presentato al pubblico e ai giornalisti da lunedì 9 a mercoledì 11 ottobre nel corso di un convegno alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, intitolato New Documents from the Pontificate of Pope Pius XII and their Meaning for Jewish-Christian Relations: A Dialogue between Historians and Theologians (“I nuovi documenti del Pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane: un dialogo tra storici e teologi”).
   Il convegno, che si svolgerà sia in italiano che in inglese nell’Aula Magna dell’ateneo, è suddiviso in sette sessioni per tre giorni: la prima sessione, che si terrà lunedì 9 ottobre, affronterà le politiche adottate da Pio XII nei confronti del fascismo, del nazismo e del comunismo.
   La seconda sessione, martedì 10 ottobre, esplorerà la visione del mondo del Vaticano in generale e sulla Shoah in particolare, con riferimenti ai punti di vista che plasmarono le decisioni dei funzionari, prelati e laici facenti parte della cerchia del Papa. Nella terza sessione verranno trattate la teorizzazione e la messa in atto delle leggi razziali, prima in Germania e poi in altre nazioni europee, tra cui l’Italia. La quarta sessione sarà dedicata al salvataggio degli ebrei, con particolare attenzione all’80° anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma.
   Mercoledì 11 ottobre si terranno la quinta, sesta e settima sessione. Innanzitutto verranno illustrate le reazioni dei diplomatici papali di fronte alla crisi dei rifugiati e agli orrori della Shoah. In seguito verranno raccontati episodi in cui il Vaticano aiutò criminali di guerra nazisti condannati in tribunali militari internazionali. Infine, verrà ripercorso il graduale cambiamento interno alla Chiesa che portò alla dichiarazione Nostra Aetate del 1965, quando il Concilio Vaticano II pose fine all’impostazione antisemita che per secoli ne ha segnato i rapporti con il mondo ebraico.
   Tra gli ospiti, figurano Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma; Iael Nidam-Orvieto, Direttrice dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme; Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma; e gli storici della Fondazione CDEC di Milano Liliana Picciotto e Michele Sarfatti. Mentre al termine dei lavori, i discorsi conclusivi saranno tenuti dalla Presidente UCEI Noemi Di Segni e da Raphael Schulz, Ambasciatore israeliano presso la Santa Sede.

(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2023)

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Ucraina, le bombe russe a Uman non fermano gli ebrei in festa per capodanno

Nella città dove è sepolto il rabbino Nachman 40mila ortodossi da tutto il mondo. Un pellegrinaggio bloccato dal Covid, non dalla guerra.

di Paolo Brera

Ebrei ortodossi a Uman per celebrare la festa di Rosh Hashanah
UMAN — Li fermò il Coronavirus, ma la guerra no. Sono qui da tutto il mondo, almeno 40mila ebrei ortodossi chassidici coi riccioloni lungo le tempie, in testa lo shtreiml di martora e «shana tova umetuka!», ti auguro un anno buono e dolce. Cantano pregando e ringraziando Dio per il profumo dei sacchetti di cannella, per l’effluvio delizioso della salvia e della menta che annusano attorcigliate in mazzetti. Sciamano in processione verso il santuario dello tzaddik Nachman, “il giusto” morto qui a Uman nel 1810 e sepolto in questa sinagoga squinternata in cui oggi entrano solo i maschi.
  Parlava con Dio, rabbi Nachman, «come si parla con un amico», e in questo mondo che ha creduto nel secolarismo e si è ritrovato in decadenza e in guerra il suo messaggio arriva alle anime dei pellegrini. Risalgono il loro fiume costi quel che costi, come i salmoni sui ruscelli gelidi del Canada tra le zampate degli orsi. L’allarme areo? «Non importa. È qui che devi essere — dice Avraham Nahman, 32enne israeliano del Golan — e vengo da 26 anni». Dicono che il rabbino Nachman, venerato come santo, chiedesse di raggiungerlo almeno una volta nella vita; loro tornano come metronomi per il capodanno, Rosh Hashanah, che cambia come la nostra Pasqua ed è finito ieri. Inizia l’anno 5784. «Vieni alla festa, stanotte, ti divertirai. Balleremo, ci sarà musica, sarà fantastico», dice Bernie di New York.
  Sono arrivati a Uman, a mezza via tra Odessa e Kiev, come si va a Lourdes o alla Mecca, in pellegrinaggio nel luogo in cui ogni ortodosso chassidico — corrente slava nata nel XVIII secolo tra gli ashkenaziti — sogna di essere. Qui è la tomba del rabbino, non hanno paura di entrare in un paese in guerra da 19 mesi coi cappelli neri e le Kippah a zuccotto, le tuniche bianche tallit katan e i cappotti neri anche se c’è il sole, col nastro bianco e blu del ptil tekhelet, «azzurro come il cielo e bianco come lana di pecora», dice Israel, elettricista 24enne di Gerusalemme.
A Uman ebrei ortodossi danzano durante la festa di Rosh Hashanah
E allora eccoli nella città sventrata da un missile russo il 28 aprile: si mangiò i piani alti di un condominio, 23 morti. Ti danno tre minuti per capirli, tra sorrisi e strette di mano; poi via sulla loro strada, la Puskin che ora si chiama “via del Turismo” perché in Ucraina quello che era russo non c’è più. «Spendo tremila dollari di affitto, siamo dieci per 4 giorni e venti anni fa pagavo 7 dollari», dice Eial, preside in Israele. È una tale invasione che gli ucraini hanno imparato a fare la cresta: «Quanto costa l’avocado?» chiede il giornalista ucraino alla commessa. «Prezzo ucraino o per gli ebrei?», replica. «Quasi tutto il quartiere è stato comprato — dice Naomi Leibi, 53enne di origini marocchine, occhi verdi «e 14 figli», «40 nipotini» e una vita un po’ in Israele e un po’ qui. «Ogni volta affittiamo lo stesso appartamento dalla stessa signora che vive in Italia. Sono venuta 35 anni fa, ogni anno torniamo cinque o sei volte nelle feste religiose. Io resto in casa per non stare tra gli uomini, ma ero stanca del balcone e sono scesa. Ho finito ora di cucinare per tutti».
  Si mangia ogni dieci metri, stufato di patate o carne grigliata, pastasciutta e vassoi di frutta. Ecco la parete delle bibite coi rubinetti che erogano tè caldo e caffè, latte e zucchero e qui c’è il cesto dei biscotti. Non si paga nulla, a sinistra è «riservato per gli uomini, le donne di fronte» ma le donne mica ci sono. «Le cose cambiano ma ci vuole tempo — dice ancora Bernie — vengo quasi sempre con mia moglie. Ci siamo trasferiti con tre figli due settimane fa da New York a Israele, un sogno. La prima volta venni per divertirmi, avrai sentito le voci che si beve e ci sono droghe... mi ha cambiato dentro, mi sono disintossicato».
A Uman ebrei ortodossi pregano durante la festa di Rosh Hashanah
Lì una sinagoga di stracci, una enorme è un moncone di edificio col tetto di lamiera; sono strutture temporanee, affollatissime, banchi con le torah e preghiere, «puoi entrare anche se non sei ebreo, non ti preoccupare». Crocicchi di ebrei dondolano con la torah in mano, recitando chissà cosa rivolti a un muro. Nel parking riadattato ci sono tavolate con cento sedie, si mangia e si prega e si canta. Aron suona lo shofar, il corno d’ariete, tra ragazzi e bambini, ispirato come alla Carnagie Hall anche se sono suoni ripetitivi, disarmonici.
  Al santuario del rabbi Nachman c’è uno striscione: «Preghiamo per la pace in Ucraina». «Siamo venuti in preghiera, non per la politica», dice Itshak quando gli chiediamo un commento. «Paura delle bombe? Ma no, la guerra è lontana e poi Putin farà attenzione», dice monsieur Tal, 59 anni, di Antibes. Dorme all’albergo Domit, vicino alla sinagoga francese, con più di 400 francesi. «Questo è un altro mondo. Se ascolti le parole del rabbino sarai così affascinato che vorrai entrarci dentro. È la pillola rossa del film Matrix, ti fa vedere la realtà dentro la nostra anima. Fossimo tutti lì dentro, non ci sarebbero mica le guerre».

(la Repubblica, 18 settembre 2023)

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Nostalgia e ironia: scrivere contro l’oblio

A seguito dell’incontro che si è tenuto a Torino al Circolo dei lettori il 12 settembre, a vent’anni dalla scomparsa di Sion Segre Amar, e a cui hanno partecipato tra gli altri, Carlo Ginzburg e David Meghnagi pubblichiamo l’intervento di Davide Cavaliere.

Tra i relatori presenti sono, forse, l’unico a non aver conosciuto personalmente Sion Segre Amar. Il mio unico contatto con lui mi viene dai suoi libri, ma ritengo che questo non sia un limite, non di rado, infatti, i narratori si rivelano maggiormente nelle loro opere che non nella vita quotidiana. Dirò subito che Sion Segre Amar è stato un meraviglioso scrittore di racconti, di quelli che non si scrivono più, involontario maestro di quello che, personalmente, considero uno dei più difficili generi letterari, nel quale si sono cimentati con profitto solo pochi grandi. I suoi ritratti della vita ebraica torinese degli anni Venti e Trenta non hanno nulla da invidiare ai racconti di Bernard Malamud o Philip Roth sulle comunità ebraiche della provincia americana. Sono scritti in un linguaggio brillante e coinvolgente, autenticamente elegante, ossia capace di tenere insieme bellezza e semplicità. Vi prego di considerare questo breve brano: 

 E così, quel giorno che ti proposi di studiare insieme nel grande giardino botanico all’ombra della catalpa dagli stigmi eccitabili – eccitabili come me; e che caldo, che sudata! – la lezione era finita più presto del consueto, a casa non ci aspettavano, e accettasti. Bene; quella volta andavo sul sicuro: il bacio non me lo avresti negato. Non me lo negasti infatti. Ed era di quelli che conoscevo io: inesperti, passivi, concessi e non ricercati. Quelli che credevo riunissero già in sé tutti i godimenti del paradiso, le impurezze dell’inferno, le vergogne dell’impudicizia, i segreti dell’amore”. 

Queste poche righe, per quanto mi riguarda, condensano lo stile di Sion Segre Amar: inquieto e riflessivo, talvolta malizioso, costantemente pervaso da un’ironia ora pungente ora difensiva, che mi ha ricordato un altro grande dimenticato della letteratura italiana: Augusto Monti. Possiede il carisma dell’ironia; il suo atteggiamento è distaccato e divertito. Come pochi è capace di porre una corretta distanza tra sé stesso e i fatti della vita, di ridere amaramente dei propri difetti come degli eventi tragici, cito dal racconto “Dell’utilità di chiamarsi Sion”: 

  Vado al Municipio, all’Ufficio Razza, per i documenti del passaporto. Non mi chiedono neanche se sono ariano. Basta il nome […] Segre Amar Sion, di razza ebraica. Bollato per l’eternità. Dal cognome, dal nome, dalla primogenitura. Neppure bisogna chiedermi se uno almeno dei quattro nonni fosse ebreo, secondo le leggi di Norimberga”. 

Fatte le dovute considerazioni stilistiche, passerei ora a quelli che mi sono sembrati essere i temi principali dei suoi lavori. Primo fra tutti, la nostalgia dell’ebraismo piemontese. Dico piemontese e non italiano perché qua, in questa regione, si era realizzata una curiosa sintesi ebraico-piemontese, soprattutto linguistica, a cui anche Primo Levi accenna nel primo racconto de “Il sistema periodico”, intitolato “Argon”. Gli ebrei del Piemonte hanno un forte senso della loro identità, la loro comunità, come scrive il nostro autore, è fiera di essere “la più vicina, non solo geograficamente, alla Francia dei sacri principi dell’89”. Si è a lungo, e giustamente, pianto sulla disintegrazione della cultura yiddish dell’Europa orientale, ma la barbarie nazista ha cancellato anche questo singolare universo ebraico. 
  Gli ebrei torinesi della giovinezza di Sion, e qui arrivo al secondo tema, la nostalgia per il “mondo di ieri” della civiltà borghese e liberale, a cui gli ebrei partecipavano con speranza. In tal senso reputo significativo quanto descritto nel racconto intitolato “Il nostro amatissimo sovrano”, dove Sion Segre riferisce della benedizione che, ogni sabato, gli ebrei torinesi pronunciavano in favore del Re, a porte aperte, affinché “l’ignaro goi di passaggio, col berretto in mano in segno di chiesastico rispetto, accanto al sibilante portone”, possa comprendere “quali fedeli sudditi” siano i suoi connazionali israeliti. La fiducia in questa “età dell’oro della sicurezza” non è incrinata da nessuno di quei piccoli episodi di antisemitismo che costellano l’infanzia e la prima giovinezza del giovane Sion, la cui madre soleva affermare con decisione che “adesso gli uomini sono buoni e noi ebrei siamo diventati come gli altri”. Una tolleranza che ben s’incarna nella soffusa e tiepida immagine di una vetrina di via Roma, dove sono esposte “le stelle di Davide mescolate alle madonne, le mezuzot alternate ai cuori di corallo”. Altro simbolo di questa civiltà tollerante e progressista, è il padre di Sion Segre, un proprietario terriero illuminato, fiducioso nella tecnica, sionista, lettore persino dell’”Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, perché convinto che tutte le idee vadano ascoltate. Poi, sarebbero arrivate, con prepotenza, le ideologie che avrebbero non solo definitivamente cancellato questo mondo liberale, ma anche inquinato la futura storia repubblicana. Credo che meriti di essere citato il racconto “Saluto al Duce”. All’età di quindici anni Sion si reca al funerale di un professore, la cui bara, calata nella fossa, viene salutata con un vigoroso, quanto fuori luogo, “Saluto al Duce”. Anni dopo, il feretro di un amico di famiglia sarà omaggiato dai pugni chiusi sollevati. 
  Sion Segre Amar ha, come Primo Levi, la consapevolezza di aver vissuto anni unici, certamente oscuri, ma anche avventurosi. Scrive perché sente di doverli salvare dall’oblio e dal dubbio che sopraggiunge col tempo. I racconti, infatti, sono una continua rielaborazione del passato; uno stesso episodio viene letto da prospettive e angolature differenti. Credo di poter affermare che tutta l’opera di Sion Segre Amar sia un confrontarsi con la storia e con il proprio ruolo in essa, oltre che con la Shoah, dalla quale, per sua definizione “è stato risparmiato seppur toccato in cari affetti” e “segnato nella personalità”. 
  I primi due libri di Sion Segre Amar, “Sette storie del Numero 1” (1979) e “Cento storie di amore impossibile” (1983) affrontano di sfuggita il tema della persecuzione antisemita, sono libri tutto sommato sereni, persino l’ascesa del fascismo è osservata con sguardo ironico (seppur con crescente disagio); penso al modo in cui racconta l’epidemia di cimici, non il fastidioso insetto, ma la spilla del partito fascista appuntata all’occhiello. Con “Il mio ghetto” (1987) “Lettera al Duce” (1994), invece, affronta direttamente i momenti più difficili della sua vita: l’antisemitismo, l’arresto presso Ponte Tresa per propaganda antifascista, il carcere, l’amicizia con Leone Ginzburg, ricordato non solo nella veste di compagno di cella a Regina Coeli e di energico intellettuale, ma anche in quella, inconsueta, di uomo di mondo, capace di stappare la bottiglia di champagne “senza fare lo scoppio” e riempire le coppe “senza che ne debordi la schiuma”. Sion e Leone si troveranno in cella insieme a dispetto del regolamento carcerario, che vietava la coabitazione di soli due detenuti per scoraggiare atti omoerotici. Consapevole della situazione anormale, Leone scherzosamente dirà che si è fatta una deroga in virtù della sua “bruttezza”, sollevando così il morale di un Sion incupito dal carcere. 
  Vorrei concentrarmi un attimo sulla “Lettera al Duce”. Spinto solo da una necessità interiore, l’autore confessa di aver scritto una lettera, seppur confusa, a Mussolini nel tentativo di ottenere la grazia in seguito all’arresto. Si tratta della lettera di un giovane disperato, picchiato dalla polizia, interrogato nonostante gli avessero rotto il naso con un pugno, a cui sono impediti i contatti con l’esterno, orfano di entrambi i genitori. Certo, è una lettera che vorrebbe essere ambigua, che si presti a una duplice lettura, un pentimento strumentale, ma comunque una “lettera al Duce”. Ho l’impressione che Sion Segre Amar abbia scritto questo libro per essere ascoltato, non giustificato, per svestirsi dei panni dell’eroe antifascista, per passione antiretorica e umiltà. Il libro termina così: “1925: Nella sezione A della prima classe del Liceo Massimo D’Azeglio siamo una trentina di allievi. Almeno tre di noi, il 10 per cento, scriverà una lettera al duce. 1933: Quanti correi, che oggi tacciono per morte naturale o civile, abbiamo avuto nel ventennio?”. Vi vedo qui una sottile polemica contro un certo antifascismo di maniera, manicheo, usato come trampolino di lancio per rispettabili carriere o patente di prestigio. Non eravamo eroi senza macchia né paura, sembra dire l’autore, ma semplici uomini, non privi di debolezze (lui fu assai meno debole di altri, ma era troppo severo con sé stesso per ammetterlo). Sion Segre Amar nutrirà sempre un sospetto verso la retorica antifascista, soprattutto di quella espressa “a posteriori”. Una convinzione che gli deriva dalla convivenza carceraria con Leone Ginzburg: “Mi insegna anche che l’antifascismo non esiste: esistono il socialismo, il comunismo, il liberalismo. Quella parola, oggi di moda, resterà così bandita dal mio vocabolario”. Sion Segre Amar ha subito il destino di tutti gli uomini politicamente “laici” nell’Italia delle Chiese parallele: l’oblio. 
  Vorrei concludere questo intervento prendendo in esame il suo ultimo, breve, racconto, intitolato “Amico mio e non della ventura”, ispirato da “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman. E’ il racconto di un’amicizia, quella tra l’autore e Guido, spezzata a un certo punto dall’apparente indifferenza di quest’ultimo alla carcerazione dell’amico e dal rifiuto di Sion Segre di ascoltare le sue ragioni. I due si ritroveranno al termine della guerra, riprendendo il filo di una conversazione interrotta anni prima. Una foto li ritrae, a braccetto e sorridenti, in una via di Roma. Siamo in presenza di un libro gioioso, intendendo con questo aggettivo non una euforia acefala, bensì il sentimento di serenità di colui che conosce gli aspetti crudeli del mondo, li attraversa e li assolve. E’ un ritrovarsi, per l’appunto, gioioso, definitivo, purificato dalle reciproche incomprensioni. Credo che, con questo piccolo libro, Sion Segre si sia fatto la sua “pace separata”, conciliandosi una volta per tutto col suo passato e con quello di questa nazione, con i suoi momenti di coraggio e di codardia. In questo Paese senza memoria, ha fatto i conti con la storia e quando un uomo come Sion Segre tira le somme, è come se lo facesse anche un po’ per noi. 

(L'informale, 16 settembre 2023)
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Dopo le ottime recensioni che Davide Cavaliere aveva scritto di alcuni libri di mio Padre pensai che nessuno meglio di lui avrebbe potuto parlare della sua attività di scrittore in occasione del Convegno organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino a 20 anni dalla sua scomparsa. Credo che il risultato mi abbia dato ragione. Emanuel Segre Amar

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Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria

La storia di Rabbi Barbara Aiello, prima donna rabbina liberale in Italia, fondatrice dell’unica sinagoga attiva in Calabria

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SERRASTRETTA - I pomodori sulle canne sono grandi e perfetti, ma ancora verdi. Nel giardino della sinagoga di Serrastretta l’estate tarda ad andare via e la natura rallenta, promette nuovi frutti laddove ci si dovrebbe solo preparare all’autunno. Del resto per gli ebrei il Capodanno è a settembre, Rosh Hashanah: è questo il tempo di un nuovo inizio. Un gatto grigio si sdraia pancia in su ad ogni gradino, si rotola tra i piedi, obbliga a procedere con lentezza, a guardarsi intorno, annusare l’aria pulita, l’eco del rosmarino steso ad essiccare al sole, a notare i dettagli, come la piccola stella a cinque punte tra i vasi delle piante grasse. La figura esile di Rabbi Barbara Aiello appare davanti alla porta a vetro per dare il benvenuto nel suo accento americano, impermeabile a oltre vent’anni trascorsi nella Sila catanzarese. E questo è solo uno dei suoi talenti: prima donna rabbina liberale in Italia, fondatrice dell’unica sinagoga attiva in Calabria, Ner Tamid del Sud – la luce eterna del Sud – che si trova proprio in questo minuscolo borgo che in pochi conoscono, isolato e protetto dall’abbraccio delle montagne.

• Dagli Stati Uniti in Italia

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Sono tornata per ritrovare le mie radici» è la sua risposta alla più impellente delle curiosità sulla sua vita: che ci fai in Calabria? Nata a Pittsburgh, in Pennsylvania da una famiglia ebrea italiana, è stata ordinata Rabbi al Rabbinical Seminary International di New York nel 2004, all’età di 51 anni, e poi ha deciso di trasferirsi in Italia, nella terra dove i suoi genitori sono nati, per mantenere una promessa molto importante fatta proprio a suo padre. Serrastretta è un borgo ricco di peculiarità: è il paese delle sedie impagliate, delle fontane, delle salite e delle discese come in un quadro di Esher. Qui sono nati i genitori di Dalida, la cantante di “Ciao amore ciao” e a lei è dedicata una casa museo. È un paese di partenze – quelle degli emigranti – e di arrivi: il più importante risale a quattrocento anni fa, quando cinque famiglie di ebrei perseguitati, in fuga da Scigliano (che dista circa 35 km) arrivarono fin qui e fondarono quello che all’epoca era solo un villaggio. Ecco da dove nasce il legame così forte tra questo territorio e l’ebraismo. «Fin da bambina tornavo con la mia famiglia ogni estate – racconta Rabbi Barbara Aiello – l’ho sempre considerato il mio posto nel mondo. Non so se ne avessi bene consapevolezza, ma mi dicevo: è qui che voglio vivere».

Lo studio della Torah
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Il suo tempo di guida spirituale di una piccola comunità di circa ottanta fedeli (molti arrivano da fuori regione) è scandito dalla preghiera e dallo studio sulle carte consumate della Torah ma anche sulla rete, perché tiene on line le sue lezioni con i giovani allievi che dall’altra parte del mondo – «da Ottawa, Ontario, Vancouver, Los Angeles, Texas, New York» racconta – con lei imparano su Zoom a leggere in ebraico in attesa del Bar Mitzvah, il loro ingresso ufficiale nell’età adulta e che la stessa Rabbi officerà. Tra un viaggio e un altro è lei ad occuparsi dei “tour” in Calabria, proponendo dei pacchetti all inclusive alle famiglie di ebrei che vengono a scoprire luoghi simbolo come la Giudecca di Bova e il campo di Ferramonti. «Il calendario è fitto, anche ottobre sarà un mese impegnativo. Verranno piccoli gruppi, da 6 a 12 persone per volta – spiega – anche da molto lontano: da Israele, dal Canada e dagli Stati Uniti». I fedeli atterrano a Lamezia Terme, alloggiano in un hotel nei pressi dell’aeroporto e in autobus raggiungono la sinagoga di Serrastretta dove partecipano alle funzioni dello Shabbat, alle feste, alle commemorazioni e qui, dopo il pranzo, si passeggia, si intonano i canti e si studia la Torah all’aperto, nel giardino della sinagoga. «La mia attività contribuisce a portare visitatori a Serrastretta – chiarisce la rabbina – anche se mi dispiace che ancora non ci siano strutture ricettive che possano garantirgli anche il pernottamento».

Il legame con Serrastretta

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Barbara Aiello ha un legame forte con il paese e lavora in sintonia con la parrocchia e con il sacerdote, «come ha detto il Papa, cristiani ed ebrei sono cugini: la sinagoga fa molto per la comunità – spiega – con i soldi che vengono donati abbiamo fatto restaurare una antica fontana e ogni anno regaliamo una scatola di pennarelli ai bambini che iniziano la scuola. Tutti qui sono i benvenuti: il mio impegno è quello di aprire la porta, senza chiedere documenti. Non mi interessa sapere a quale credo appartengano».
Nelle parole della rabbina è ricorrente il ricordo di suo padre. «È lui» dice indicando una bellissima foto in bianco e nero incorniciata sul tavolo. «È stato un partigiano, ha partecipato alla liberazione del campo di concentramento di Buchenwald, in Germania. Un uomo dai grandi ideali, profondamente innamorato dell’Italia e della sua terra. Quando tornava, ogni estate, adorava tutto di Serrastretta: l’aria, l’acqua, il silenzio. Ma soprattutto – aggiunge – sognava di aiutare la comunità a ritrovare le radici ebraiche». Per questo a sua figlia ha strappato una promessa: «Devi tornare e riportare l’ebraismo e le tradizioni che sono andate perse» le ha detto. E lei è tornata.
Rimangono i cognomi a testimoniare quel legame ormai perso, di cui però ci sono tracce in abitudini tramandate inconsapevolmente. «In questi anni mi è capitato di parlare con tante persone che non sanno di essere ebree, eppure coprono gli specchi con un lenzuolo bianco quando muore un loro caro, accendono candele votive il venerdì sera e in quello stesso giorno evitano di mangiare la carne di maiale. Tutte tradizioni ebraiche».
  Rabbi Barbara si muove negli spazi della sinagoga, mostra i suoi shofar, i corni che vengono suonati per chiedere perdono) e la ricchissima collezione di Chanukkiyah, il candelabro a nove bracci utilizzato durante la festa di Hannukkah: da quelli più rari e pregiati a quelli più eccentrici, sono tutti doni dei fedeli, il più bizzarro arriva dal Giappone e ha la forma di un sushi. Dopo aver indossato il Talled, il tipico scialle entra nell’area dove si celebrano le funzioni: «È un luogo piccolo, ai fedeli che arrivano dalle grandi città e frequentano maestose sinagoghe, dimostriamo che non è facile, ma si può praticare anche tra tante difficoltà». La voce bassa e le parole misurate, Rabbi Barbara ha sempre una risposta chiara, nonostante l’italiano zoppicante e la propensione a dialogare in inglese. «Mi sento una pioniera, ho portato in questo paese che era ebraico in un tempo antico, la bellezza della religione: l’ebraismo è gioia e bisogna diffondere questa idea». Ruolo non facile il suo, soprattutto per una donna che appartiene ad una corrente liberale e moderna. «Sì, a volte mi sono sentita discriminata come rabbina. Gli ebrei ortodossi non riconoscono il nostro lavoro, siamo per loro come la Coca Cola light – sorride – ad esempio non ho nessun contatto con i rabbini che arrivano in Calabria per selezionare i cedri, non accettano che una donna possa ricoprire il ruolo di rabbina, per loro una donna non può toccare né leggere la Torah». Il tempo a nostra disposizione è scaduto, c’è tanto da fare in vista delle trasferte e dell’arrivo di nuovi gruppi di fedeli.
  Resta solo una domanda sospesa: cosa ti spinge a rimanere qui? «L’amore della gente, l’altruismo, l’amicizia vera: uso sempre il termine aiutevole, so che non è corretto ma rende l’idea. Quando qualcuno ha bisogno qui in questa piccola comunità c’è sempre qualcun altro pronto a mettersi a disposizione, a darsi da fare. Io mi sento profondamente calabrese – sorride e i suoi occhi chiari si accendono – orgogliosa di esserlo. Se penso a qualcosa che mi rende felice penso a una banda che suona per me Calabrisella».

(Corriere della Calabria, 18 settembre 2023)

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Guerra spirituale e infiltrazione

     Nel suo ultimo libro, The Great Evangelical Disaster, di cui la settimana scorsa abbiamo riportato alcuni capitoli, Francis A. Schaeffer registra il cambiamento di paradigma culturale avvenuto dagli anni '20 nella società americana, che già negli anni '80 aveva abbandonato l'ethos biblico con cui si era formata per assumere i caratteri di un umanesimo assoluto e privo di limiti.   
Questo "spirito del mondo" - sostiene l'autore - si è infiltrato gradualmente anche nelle chiese evangeliche, negando di fatto, nei pensieri e nelle azioni, quella comprensione dell'autorità della Bibbia che ne aveva costituito le basi.
Il mondo si è infiltrato nella chiesa - osserva Schaeffer - non solo e non tanto per la via diretta di una negazione dottrinale, quanto e più ancora per la via indiretta di una silenziosa infiltrazione di degradati costumi morali sostenuti da pensieri e motivazioni ideologiche che proclamano il diritto alla felicità e fanno perno sulla libertà illimitata dell'uomo.   
Riportiamo di seguito altri capitoli del libro di Schaeffer nella speranza che possano servire di stimolo alla riflessione e portare a chiedersi in quale misura lo spirito del mondo è riuscito a infiltrarsi anche nella cristianità evangelica italiana. M.C.

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• Edonismo
  Oggi viviamo in una società in cui tutte le cose sono relative e il valore decisivo è quello per cui l'individuo o la società è "felice" o si sente bene al momento. Non si tratta solo del giovane edonista che fa quello che gli piace, ma della società nel suo complesso. Le sfaccettature sono molte, ma unica è la rottura di ogni stabilità nella società. Non c'è nulla di fisso, non ci sono standard definitivi; conta soltanto quello che rende "felici". Questo vale anche per la vita umana. Il numero dell'11 gennaio 1982 di Newsweek riporta una storia di copertina di circa cinque o sei pagine che dimostra in modo sicuro che la vita umana inizia al momento del concepimento. Tutti gli studenti di biologia dovrebbero saperlo da sempre. Poi si gira pagina e l'articolo successivo è intitolato "Ma è una persona?" La conclusione di quella pagina è: "Il problema non è determinare quando inizia la vita umana vera e propria, ma quando il valore di quella vita inizia a prevalere su altre considerazioni, come la salute o addirittura la felicità della madre". La frase terrificante è: "o addirittura la felicità". Così, anche una vita umana riconosciuta come tale può essere interrotta per la felicità di qualcun altro. Se non ci sono valori prestabiliti, tutto quello che conta è la mia felicità o quella della società in quel momento.
   E' sempre più accettato come naturale il pensiero che se un neonato rende infelice la famiglia o la società, deve essere lasciato morire. Basta guardare i programmi televisivi: sembra sempre di più un'alluvione. È con una visione come questa che Stalin e Mao permisero (e sto usando una parola molto gentile quando dico "permisero") che milioni di persone morissero per quello che consideravano il bene della società.
   Questo è l'orrore che circonda oggi la chiesa. La felicità dell'individuo o della società ha priorità assoluta persino sulla vita umana. Dobbiamo renderci conto che rischiamo di essere infiltrati da amorali forme di pensiero diffuse nella nostra cultura, perché in effetti siamo circondati da una società priva di norme fisse, secondo cui per ogni cosa "non c'è mai colpa". Tutto viene psicologicamente accantonato o spiegato in modo che non ci sia mai una scelta tra giusto e sbagliato. Come la "felicità" della madre ha la precedenza sulla vita, così tutto ciò che può interferire con la "felicità" dell'individuo o della società viene rimosso.

• Torcere la Bibbia
  È l'ubbidienza alle Scritture il vero spartiacque. Possiamo dire che la Bibbia è priva di errori e tuttavia calpestarla con la nostra vita se torciamo le Scritture in modo da adattarle a questa cultura, invece di giudicare la cultura in base alle Scritture. E oggi vediamo che questo accade sempre più spesso, come nel caso del divorzio agile e del nuovo matrimonio. Le leggi sul divorzio senza colpa in molti dei nostri Stati non sono basate su umanitarismo o comprensione: si basano sull'idea che non esiste giusto e sbagliato. Quindi tutto è relativo, il che significa che la società e l'individuo agiscono in base a ciò che sembra dare loro felicità al momento. Non dobbiamo forse riconoscere che anche gran parte delle chiese evangeliche che sostengono di credere nella Bibbia priva di errori hanno forzato le Scritture sul tema del divorzio per conformarsi alla cultura, invece di lasciare che siano le Scritture a giudicare gli attuali punti di vista di una cultura decadente?
   Non dobbiamo forse riconoscere che sull’argomento divorzio e nuovo matrimonio c'è stata una mancanza di insegnamento biblico e disciplina anche tra gli evangelici? Se io, in opposizione alle Scritture, rivendico il mio diritto di insidiare la famiglia - non la famiglia in generale, ma di attaccare e distruggere proprio la mia famiglia - non è forse come se una madre rivendicasse il diritto di uccidere il proprio bambino per la sua "felicità"? Mi è difficile dirlo, ma qui c'è un'infiltrazione della società che per le Scritture è distruttiva come lo è un attacco dottrinale. Entrambi sono una tragedia; entrambi falsificano le Scritture per conformarsi alla cultura circostante.

• Il segno del nostro tempo
  A che serve che l'evangelicalismo si espanda sempre di più se un discreto numero di coloro che si dicono evangelici non si attengono più a ciò che rende l'evangelicalismo evangelico? Continuando così, noi non siamo fedeli a quello che la Bibbia dice di essere e non siamo fedeli a quello che Gesù Cristo dice che siano le Scritture. Ma anche - non dimentichiamolo mai - se continuiamo così noi e i nostri figli non saremo preparati a sostenere i giorni difficili che ci aspettano.
   Se ci conformiamo non potremo essere il sale per la nostra cultura - una cultura in cui oggi la morale è soltanto una questione di orientamento, di medie statistiche. Perché è questo il segno distintivo, il marchio della nostra epoca. E se portiamo l'impronta dello stesso marchio, come potremo essere il sale per la generazione frammentata e disgregata in cui viviamo?
   Ecco allora lo spartiacque del mondo evangelico. Dobbiamo dire, con amore ma con chiarezza, che l'evangelicalismo non è coerentemente evangelico se non c'è una linea di demarcazione tra coloro che hanno una visione totale delle Scritture e coloro che non la hanno. E si noti che non stiamo parlando di una dottrina teologica astratta. Alla fine non fa molta differenza se la Scrittura è compromessa da un'infiltrazione dottrinale o da un'infiltrazione morale della cultura circostante. È l’ubbidienza alle Scritture che fa da spartiacque: ubbidienza sia nella dottrina sia nel modo in cui viviamo nell'arco intero della nostra vita.

• Confronto
  Ma se davvero crediamo questo, dobbiamo allora considerare una cosa: la verità implica il confronto. La verità esige il confronto; un confronto amorevole, ma pur sempre un confronto. Se la nostra reazione ci spinge sempre all’adattamento, indipendentemente dalla centralità che occupa la verità nella questione, c'è qualcosa che non va. Come diciamo che la santità senza amore non è il tipo di santità di Dio, così dobbiamo dire che l’amore senza santità (che in certi casi include il confronto), non è il tipo di amore di Dio. Dio è santo, e Dio è amore.
   In preghiera dobbiamo dire no all'attacco dottrinale alla Scrittura. E dobbiamo dirlo con chiarezza, amore e forza. Ma dobbiamo dire no anche all'attacco alla Scrittura che proviene dall'infiltrazione nella nostra vita dell'attuale visione del mondo con la sua nozione di non colpevolezza nelle questioni morali. Dobbiamo dire no a queste cose nella stessa maniera.
   Il mondo dei nostri giorni non ha valori e standard fissi, quindi ciò che le persone concepiscono come felicità personale o sociale ricopre tutto. Noi non siamo in questa posizione. Abbiamo l’inerrante Scrittura.
   Guardando a Cristo per ricevere forza contro una pressione tremenda - perché tutta la nostra cultura oggi è contro di noi - dobbiamo respingere allo stesso modo l'infiltrazione della cultura mondana sia nella dottrina sia nella vita. In entrambi i settori dobbiamo dichiarare l'inerranza della Scrittura e poi vivere in base ad essa nella nostra vita personale e sociale. Nessuno di noi lo fa in modo perfetto, ma deve appartenere al "settaggio” del nostro pensiero e della nostra vita. E quando manchiamo, dobbiamo chiedere perdono a Dio.
   La Parola di Dio non passerà mai, ma guardando indietro all'Antico Testamento e al tempo di Cristo, dobbiamo dire con lacrime che per mancanza di forza d'animo e fedeltà, molte volte il popolo di Dio ha piegato la Scrittura per conformarsi alla cultura passeggera e mutevole del momento, invece di rimanere fermo nella inerrante Parola di Dio che giudica lo spirito del mondo e la cultura di ogni tempo.
   Nel nome del Signore Gesù Cristo: che i nostri figli e nipoti non abbiano a dover dire un giorno che una cosa del genere si può dire anche di noi.

(da "The Great Evangelical Disaster" di Francis A. Schaeffer - trad. www.ilvangelo-israele.it)

(Notizie su Israele, 17 settembre 2023)


 

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Pio XII sapeva della Shoah: la prova in una lettera scritta nel 1942 da un gesuita tedesco

L’intervista di Massimo Franco all’archivista vaticano Giovanni Coco che ha scoperto il messaggio di Lothar König al segretario del Papa.

di Antonio Carioti

Una lettera ingiallita, datata 14 dicembre 1942, conferma che il pontefice Pio XII era a conoscenza dei crimini compiuti dai nazisti nei campi di sterminio. L’ha scoperta l’archivista vaticano Giovanni Coco, che ne parla su «la Lettura» del 17 settembre intervistato da Massimo Franco. In quel messaggio, inviato dal gesuita tedesco antinazista Lothar König al segretario particolare del Papa, il tedesco Robert Leiber, si cita il forno crematorio delle SS nel lager di Bełzec, situato nella Polonia occupata dai tedeschi, e viene menzionato anche il campo di Auschwitz, oggetto di un altro rapporto che purtroppo per il momento non è stato reperito. Ci troviamo dunque nel cuore di tenebra della soluzione finale voluta da Adolf Hitler per annientare completamente l’ebraismo europeo.
   Va sottolineato peraltro che questa lettera, dichiara Coco a Franco, «rappresenta la sola testimonianza di una corrispondenza che doveva essere nutrita e prolungata nel tempo». Si tratta dunque di una prova fondamentale circa l’esistenza di un flusso di notizie sui delitti nazisti che giungeva alla Santa Sede in contemporanea con l’attuazione del genocidio.
   Se in precedenza in Vaticano si poteva ritenere che i lager fossero «soltanto» campi di concentramento, le notizie fornite da König andavano ben oltre, poiché nella lettera si legge che nell’«altoforno» presso Rava Rus’ka, cioè a Bełzec, «ogni giorno muoiono fino a 6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei». La macchina della morte ne risulta descritta in tutto il suo indicibile orrore.
   Com’è noto, il silenzio di Pio XII di fronte ai crimini di massa del Terzo Reich è oggetto da lungo tempo di discussioni accese tra i critici e i difensori di papa Eugenio Pacelli: in ballo c’è anche il suo processo di beatificazione, avviato nel 1967 e assai controverso all’interno stesso della Chiesa cattolica.
   Una svolta importante si è verificata il 2 marzo 2020, con l’apertura degli archivi da lungo tempo auspicata: oggi sono consultabili tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, che durò dal 1939 al 1958. La disponibilità di quel vastissimo materiale ha ovviamente permesso agli studiosi di intensificare il lavoro per chiarire meglio le vicende relative al comportamento del Pontefice.
   Le ricerche di Coco, confluite nel volume Le «Carte» di Pio XII oltre il mito, in uscita il 18 settembre per l’Archivio apostolico vaticano, sono una tappa assai rilevante dell’opera di ricostruzione storiografica in corso. E un’occasione per mettere a confronto i diversi punti di vista sarà offerta dal convegno internazionale in programma a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana dal 9 all’11 ottobre: I nuovi documenti dal pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane.
   A questo punto è comunque indubbio che durante la Seconda guerra mondiale, mentre in Vaticano giungevano notizie sempre più numerose e dettagliate sulle atrocità compiute dai nazisti, Pio XII preferì tacere, o al massimo esprimere in termini generici la sua pena. Significativo a tal riguardo è un rapido passaggio del lungo discorso natalizio tenuto da papa Pacelli il 24 dicembre 1942, in cui si riferiva alle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento». Si può persino ipotizzare che il Papa abbia pronunciato quelle parole anche sulla scia delle rivelazioni appena giunte da König sui lager nazisti. Ma una condanna esplicita del Terzo Reich e del suo regime non venne mai formulata dalla Santa Sede, né mai Pio XII indicò chiaramente gli ebrei come vittime dello sterminio in corso. Ben più deciso nel manifestare la sua ostilità verso l’ideologia razzista e neopagana del regime hitleriano si era dimostrato il suo predecessore Achille Ratti, Pio XI.
   Probabilmente il Pontefice temeva che una sua netta presa di posizione avrebbe peggiorato la situazione, rendendo più difficile l’importante opera di soccorso ai perseguitati che la Chiesa andava conducendo in quei giorni bui. E naturalmente tutto divenne più complicato dopo l’occupazione tedesca di Roma, nel settembre 1943. Si possono trovare diverse spiegazioni per la condotta prudente del Vaticano: certamente la diplomazia della Santa Sede si preoccupava di mantenere la propria «imparzialità» rispetto alle parti in guerra. Forse ebbe un peso anche la pesante eredità della millenaria avversione cristiana verso gli ebrei.
   Di sicuro però, con gli ulteriori elementi forniti da Coco nell’intervista a Franco, diventa impossibile sostenere che Pio XII non fosse sufficientemente informato circa il trattamento disumano che i nazisti riservavano alle loro vittime. Non solo fonti polacche o comunque riconducibili allo schieramento in lotta contro la Germania, ma anche un gesuita tedesco aveva fornito al Vaticano solidi elementi per comprendere quale orrore si andasse perpetrando nel cuore dell’Europa.

(Corriere della Sera, 16 settembre 2023)


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Pio XII sapeva dei lager, spunta una lettera

CITTÀ DELVATICANO – Pio XII venne informato di quanto accadeva nei campi di concentramento. Esiste una lettera che testimonia questo, datata 14 dicembre 1942. A pubblicarla è l’inserto ‘la Lettura’ del Corriere della Sera. La lettera è scritta dal gesuita tedesco Lothar König, uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, nemico del nazismo, e il Vaticano. La riceve padre Robert Leiber, segretario del Papa. Si parla di Dachau e Auschwitz e dello sterminio quotidiano. L’ha trovata Giovanni Coco, archivista e ricercatore presso l’Archivio Vaticano, che a Massimo Franco rivela: “È un caso unico, ha un valore enorme”.
   Il clima di minaccia che si respirava in Vaticano negli anni della seconda guerra mondiale a causa dei nazisti è testimoniato anche da un pugnale con la svastica delle SS che fu trovato nell’appartamento di Pio XII. A trovarlo era stato Giovanni XXIII che chiese spiegazioni all’allora sostituto della Segreteria di Stato monsignor Angelo Dell’Acqua che non sapendo nulla dell’oggetto “si rivolse a suor Pascalina Lenhert, l’oracolo di Pio XII, la sua governante. E suor Pascalina rivelò che il pugnale era stato portato in udienza da un membro delle SS che lo doveva usare contro Pio XII. Ma il soldato si era ravveduto e ne aveva fatto dono al Papa”, rivela lo stesso Coco sottolineando: “Noi cerchiamo di fare chiarezza, anche per comprendere la stagione terribile in cui Pacelli guidò la Chiesa”.

(ANSA, 16 settembre 2023)
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Per mantenersi in piedi l'istituzione papale, in quel momento rappresentata dalla persona di Eugenio Pacelli, ha dovuto platealmente mentire. E ha continuato a farlo negli anni successivi. Questa è un'altra prova che il papato, e non soltanto Pio XII, sta in piedi sul fondamento della menzogna, come tante volte si è visto nella sua storia. Era destinato a crollare, e questo sta avvenendo oggi davanti ai nostri occhi in modo sempre più evidente. I sinceri credenti cattolici nel vero Gesù che si trova nei Vangeli farebbero bene a prenderne le distanze in modo chiaro e netto. M.C.

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“Una famiglia ebraica nella Shoah si salva in Svizzera”

Articolo che Paola Fargion ha scritto di ritorno dal percorso di Memoria in Svizzera 10-12 settembre 2023. Scrittrice di narrativa ebraica, è da anni impegnata sul tema della Memoria e della Shoah a livello nazionale e internazionale. Paola Fargion è la fondatrice del progetto “Il Ricordo e la Vita”.

di Paola Fargion

• Svizzera, salvezza e Albero della Riconoscenza
  Il Notaio Raoul Luzzani era un uomo giusto. Elegante ma sobrio, colto e di profilo discreto, fu Presidente nel Novecento di molte istituzioni pubbliche e private in tutto il territorio comasco: dall’Ospedale Sant’Anna al Collegio Notarile e l’Opera Pia di Ossuccio, sempre in provincia di Como.
  Era nato nel 1878 e tutta la sua famiglia proveniva da Pognana Lario, un paesino affacciato sul lago che guarda la Svizzera, un luogo dove tutti lo conoscevano e lo stimavano. Me lo immagino: alto e magro, con l’incedere calmo del gentiluomo d’altri tempi, in doppiopetto gessato, intento a passeggiare sul lungolago di domenica dopo la Messa in Duomo. Fedele ai suoi principi, il Notaio Luzzani era antifascista e tra i pochi Notai che il territorio di Como e Varese annoverasse.
  Forse (ma non posso garantirlo) l’unico ad essere dichiaratamente contro il regime. Frequentava persone che la pensavano come lui e sicuramente avrà tremato all’arrivo delle truppe naziste in città, chiuso nel suo appartamento dove aveva anche lo studio, in Corso Vittorio Emanuele a Como.
  Di certo non accettava la politica razzista ed antisemita che il governo fascista aveva imposto agli italiani di origine ebraica dal 1938. E certamente non avrebbe tollerato i propositi di sterminio ebraico che, dopo l’8 settembre 1943, i nazisti con l’appoggio del governo della Repubblica di Salò si preparavano ad attuare. E così, quando gli si presentò l’occasione, il Notaio Luzzani agì convocando due testimoni.
  Redasse dunque un documento cruciale per la salvezza di un’intera famiglia ebraica: i Pardo di Bologna. In realtà l’idea di chiedere aiuto al Notaio era stata di Gemma Volli, intraprendente ed acuta insegnante triestina, zia del piccolo Lucio Pardo in fuga alla ricerca di salvezza con mamma Iris, papà Ferruccio e la piccola sorellina Ariella di appena tre anni. Tutti approdati a Como dopo una drammatica fuga da Bologna nella speranza di raggiungere la Svizzera. Gemma Volli sapeva che nessuno di loro sarebbe mai stato accolto come richiedente asilo presentando documenti falsi.

• Una situazione paradossale
  Che situazione paradossale: essere fuggiti con carte d’identità false e ritrovarsi poi al confine svizzero con la richiesta di un documento che attestasse l’identità ebraica… Per essere salvi, titolari del diritto all’asilo… Per sfuggire così alla deportazione e allo sterminio. Gemma Volli era consapevole di tutto ciò e – accertato che la sua famiglia stava per raggiungerla a Como – era stata aiutata da una rete di conoscenti che l’avevano condotta dal coraggioso Notaio antifascista.
  Raoul Luzzani sapeva che la stesura di un simile documento avrebbe rappresentato la sua morte se i Pardo-Volli fossero stati catturati, ma avrebbe altresì rappresentato la Vita per il piccolo Lucio e la sua famiglia davanti alle Autorità svizzere. E non vacillò di fronte alla scelta.
  Da Solzago dov’era rifugiato, il gruppetto di ebrei scese a lago, lo attraversò ed accompagnato da un paio di contrabbandieri iniziò la faticosa e pericolosa ascesa del Monte Bisbino fino all’agognata frontiera, segnalata da una rete metallica i cui campanelli trillavano ad ogni tenue soffio di vento. I Pardo e zia Gemma Volli ce la fecero e la oltrepassarono, con in tasca il prezioso lasciapassare per la salvezza. E una volta in territorio elvetico furono accolti e protetti fino alla fine della guerra.
  Il Notaio Raoul Luzzani non fu mai scoperto e continuò a lavorare fino al 1971, data della sua morte. Quel documento fu determinante per agevolare l’ingresso in Svizzera e salvare così cinque vite umane. E se è vero che ”Chi salva una vita salva il mondo intero”, allora il Notaio Raoul Luzzani ha contribuito a salvare un universo!

• Il coraggio del notaio Luzzani
  Il 13 febbraio 2023 l’Ente Villa Carlotta, a Tremezzina sul lago di Como, ha voluto onorare il coraggio di un uomo, prima che Notaio, Revisore dell’Ente, Presidente del Collegio Notarile e molto altro. Un uomo la cui voce interiore ha contrastato la barbarie con una firma che ha portato la Vita. Il Notaio Luzzani ha saputo scegliere il Bene.
  L’Ente Villa Carlotta ha ospitato un evento commemorativo importante culminato con la dedica di uno degli alberi secolari presenti nel giardino: un meraviglioso leccio antico, possente e proteso verso il lago e l’orizzonte, ben radicato nella sua terra e con la chioma frondosa che tocca il cielo.
  Il “leccio Luzzani” affonda le radici nella concretezza e protende i rami verso l’infinito, proprio come il coraggioso Notaio comasco a cui si sono aggiunti i tre Alberi della Riconoscenza piantumati in Svizzera: a Bruzella il 10 settembre 2023 sulla Piazza della Chiesa; a Chiasso nel giardino delle Scuole Elementari e medie il giorno 11 e a Trevano il 12 settembre nei giardini del Centro Professionale Tecnico, tre sentinelle piantumate per vegliare sulla Memoria che deve continuare a camminare, accompagnate da tre targhe commemorative con qr code per scaricare tutta la storia della famiglia Pardo-Volli e i contenuti sempre in aggiornamento del Progetto “Il Ricordo e la Vita”

• Gli incontri a Bruzella, Chiasso e Trevano
  I tre incontri sono stati diversi ma tutti molto emozionanti: a Bruzella era una domenica pomeriggio in cui faceva molto caldo e il pubblico cercava refrigerio nella scarsa ombra disponibile tra gli angoli e i portici della piazza, ma nonostante tutto ha mantenuto l’attenzione, stimolato dalle parole di Alberto Nessi che invitavano a riflettere su accoglienza, respingimenti ed eroismo; dalla toccante testimonianza del protagonista ormai ottantasettenne Lucio Pardo, l’allora bambino arrivato stremato a Bruzella in un giorno di fine novembre con la famiglia dopo momenti di interminabile paura, freddo e fame; ed arricchito dalle nozioni storiche di Adriano Bazzocco che hanno migliorato la conoscenza di quel drammatico momento nel territorio circostante e nell’ intera Europa. Generosa l’accoglienza del Sindaco Stefano Coduri e altrettanto generoso e ricco il buffet con cui il primo cittadino e l’amministrazione comunale hanno voluto onorare i partecipanti all’ evento.
  A Chiasso invece siamo stati accolti in Aula Magna da un attento pubblico di studenti delle Scuole Elementari e Medie coordinati dal loro esuberante ed entusiasta Direttore, il Professor Marco Calò, fiero dei suoi “capolavori”, termine con cui indica i suoi allievi.

• Il Console italiano Meucci e il Sindaco di Chiasso Arrigoni
  Significativi sono stati gli interventi di Gabriele Meucci, Console Generale d’Italia a Lugano con il suo richiamo alla vigilanza, e quello di Bruno Arrigoni, Sindaco di Chiasso con il suo appello a non dimenticare. Anche qui le parole di Lucio Pardo hanno lasciato il segno e molte erano le mani alzate per fare domande e gli occhi puntati su di lui in attesa di saperne di più. In quest’occasione ho avuto il privilegio di conoscere una persona davvero speciale: Paola Reggiani Mauric, una delle insegnanti della Scuola, che con la sua fattiva presenza e nel breve ma incisivo intervento ha dimostrato a tutti noi cosa significhi essere insegnanti attraverso l’umiltà, il servizio verso gli altri, il senso del dovere e la passione.
  Dall’ 11 settembre 2023 so di avere un’amica in più. Ha colpito poi molto gli studenti la serie di fotografie che lo storico Adriano Bazzocco e noi abbiamo proiettato: foto della famiglia Pardo, volti di rifugiati, foto di Chiasso a quei tempi e della propaganda antisemita in Europa e Italia. Foto e simboli che aiuteranno i giovani a non dimenticare. E infine l’ultimo giorno a Trevano, nell’ Auditorium del Centro Professionale Tecnico, sorto sul luogo dove c’era – poi demolito – l’imponente Castello che tra il 1944 e 1945 rappresentò il luogo di studio e lavoro per migliaia di profughi ebrei europei.
  Il Castello di Trevano segnò l’ultima tappa in Svizzera per la famiglia Pardo e il luogo in cui tornò finalmente a riunirsi dopo spostamenti anche a Balerna, Rovio e addirittura nella Svizzera interna. A Trevano Ferruccio Pardo tornò a lavorare nel ruolo che aveva a Bologna – quello di Preside – il piccolo Lucio riprese a studiare e Ariella rivide finalmente la sua mamma dopo mesi di distacco. Nel suo messaggio supportato dalla proiezione di splendide foto di fiori del Giardino Botanico e preziosi interni della Villa, Maria Angela Previtera, Direttrice dell’Ente Villa Carlotta, ha ricongiunto i fili di questo cammino di Memoria e Riconoscenza partito proprio da Villa Carlotta, voluto dalla famiglia Pardo-Volli per ringraziare la Svizzera di averla accolta.
  E da perfetta padrona di casa, rassicurante e autorevole, sempre con il sorriso sulle labbra Cecilia Beti, la Direttrice del Centro Professionale Tecnico, ci ha accolti dando la giusta importanza al messaggio e ai valori in esso contenuti. Cecilia ha organizzato questo memorabile evento in modo perfetto e a lei va il mio più sentito ringraziamento.

• La testimonianza di Ariello Pardo Segre
  Abbiamo tutti ascoltato la voce di Ariella Pardo Segre, la piccola rifugiata ora mamma e nonna che da anni vive in Brasile e che non ha potuto essere in collegamento con noi per via del fuso orario. Le sue parole di testimonianza e ringraziamento hanno tagliato l’aria e l’assoluto silenzio calato sulla platea: la forza della Riconoscenza è riuscita a commuovere lasciando un’orma indelebile nell’ anima di ciascuno di noi.
  E infine, fedelmente accompagnata dalla sua tenera cagnolina ci ha seguiti in ogni tappa Micaela Goren Monti, Presidente della Goren Monti Ferrari Foundation di Lugano che da subito ha creduto in me e nel progetto “Il Ricordo e la Vita”, mettendosi a disposizione per donare i tre Alberi della Riconoscenza, sostenere e valorizzare questo importante percorso. Perché fondamentale è la “Memoria della Salvezza”, ma ancora di più è e deve essere fondamentale la “Salvezza della Memoria”, specie in un momento storico come quello che stiamo attraversando in cui nel guardare troppo in avanti rischiamo di perdere di vista da dove proveniamo. E nel dimenticare errori ed orrori del passato pericolosamente potremo ripeterli.

(italoBlogger, 15 settembre 2023)

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La comunità ebraica lancia la raccolta fondi per la sinagoga di Siena e riceve un’ondata di messaggi antisemiti: scatta la denuncia

Poche ore dopo il lancio della raccolta fondi per restaurare e mettere in sicurezza la Sinagoga di Siena è partita un’ondata di commenti e messaggi antisemiti.
   I commenti antisemiti includevano l’uso di termini dispregiativi come “giudei” per descrivere gli ebrei e suggerivano che gli sforzi di raccolta fondi della comunità ebraica mirassero ad appropriarsi di fondi “immeritati” dipingendo gli ebrei come avidi e ricchi, promulgando stereotipi legati al denaro.
   La Comunità ebraica di Firenze e Siena ha segnalato i commenti antisemiti all’Osservatorio sull’antisemitismo della Fondazione Cdec che monitora gli episodi di antisemitismo e discorsi antisemiti in tutta Italia e all’Ucei, l’unione delle comunità ebraiche italiane.
   “È abbastanza doloroso – commenta Enrico Fink, presidente della Comunità Ebraica di Firenze e Siena – vedere riemergere messaggi del genere in seguito ad una richiesta di aiuto per difendere un monumento e un pezzo di storia, della città di Siena, che è di tutti. Abbiamo letto commenti infarciti di luoghi comuni ed errori anche piuttosto grossolani, per fortuna non sono tutti così e ci sono stati anche messaggi di sostegno oltre alle donazioni che stanno continuando, ad arrivare. C’è solo da augurarci che prima o poi spariscano questi pregiudizi e vengano spazzate via offese e frasi antisemite che non appartengono a città come Siena e Firenze che hanno sempre mostrato vicinanza e sostegno nei confronti della Comunità ebraica”.
   Domenica 10 settembre la Comunità ebraica di Firenze e Siena, in occasione della XXIV Giornata Europea  della Cultura Ebraica, alla presenza del Sindaco di Siena Nicoletta Fabio, del Presidente della FMPS Carlo Rossi  e dei rappresentanti della Soprintendenza di Siena aveva annunciato la campagna di restauro e  fundraising a  favore della Sinagoga di Siena  la cui aula di preghiera è stata chiusa per motivi di sicurezza in seguito agli eventi sismici dello scorso 8 febbraio.
   Servono oltre 300mila euro per restaurare la Sinagoga di Siena. È questa la cifra stimata dall’Associazione Opera del Tempio ebraico di Firenze, fondata nel 1996 da Enzo Tayar, oggi guidata dal suo presidente, l’architetto Renzo Funaro, che si occupa fin dalla sua costituzione della conservazione dei beni ebraici in Toscana. La Sinagoga, alle spalle di piazza del Campo, presenta dissesti alla copertura e alla volta interna con lesioni sia verticali alla muratura che orizzontali alla volta. Anche la volta con il tetto rifatto negli anni ’70 presenta delle lesioni passanti.
   Al momento le funzioni religiose sono state temporaneamente trasferite nel matroneo, mentre resta la possibilità di effettuare visite guidate e visitare il Museo Ebraico. La tutela della Sinagoga di Siena è alla base degli sforzi che la Comunità Ebraica di Firenze e Siena ha iniziato a mettere in campo nei mesi scorsi, con l’obiettivo di avviare un progetto di restauro e una campagna di fundraising internazionale finalizzata a coprire i costi del progetto.  Oggi la Comunità  è fiera di annunciare che i primi aiuti arriveranno dalla prestigiosa David Berg Foundation, fondazione americana che sostiene interventi di restauro di sinagoghe in tutto il mondo, tramite il World Monuments Fund, organizzazione che opera con le comunità locali di tutto il mondo per salvaguardare siti culturali di inestimabile valore, dalla Società Israelitica di Misericordia di Siena, organizzazione che opera a livello locale a sostegno di progetti che promuovono la tutela dei siti ebraici nella città di Siena, e da parte della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia. Questi primi tre importanti finanziamenti che verranno utilizzati per la stabilizzazione della volta danneggiata  serviranno a coprire  insieme  solo i  costi della prima fase del progetto  pari a un terzo  della spesa prevista. Urge quindi  reperire i fondi necessari per completare la seconda fase del progetto finalizzati alla  sostituzione della copertura esistente per eliminare il pericoloso effetto di spinta sui muri perimetrali e per prevenire danni da futuri eventi sismici. 
   Per dare il via alla seconda fase di interventi verrà offerto ai primi 30 donatori, a fronte di una donazione di almeno 1.500 euro, un guest pass Vip per visitare i luoghi più rappresentativi della Siena ebraica. Grazie alla collaborazione con Cantina Terra di Seta, storica casa di vini kasher senesi conosciuta in tutto il mondo, sponsor  dell’iniziativa e Opera Laboratori, società leader in Italia nella gestione museale, già partner della Comunità Ebraica di Firenze e Siena e gestore del Museo Ebraico di Siena, sarà possibile offrire ai donatori  una visita gratuita con tour della Cantina Terra di Seta con degustazione per due persone e una visita guidata privata della magnifica Sinagoga di Siena in via delle Scotte con uno storico dell’arte della Comunità Ebraica. Il voucher rappresenta un dono per ringraziare chi deciderà di sostenere questa importante campagna per preservare uno dei gioielli del patrimonio ebraico italiano.
   La Sinagoga è da sempre il cuore della vita ebraica a Siena. Qui la Comunità Ebraica si ritrova per celebrare le proprie feste assieme anche ai tanti visitatori ebrei di passaggio a Siena, provenienti da tutto il mondo.
   Il Tempio con il suo piccolo museo è anche uno spazio che accoglie scuole, gruppi, studenti di ogni ordine e grado. Un luogo teso a promuovere il patrimonio ebraico come parte integrante della storia della città.
   La Sinagoga di Siena, frutto di una consistente opera di ampliamento e rinnovamento degli originali spazi sinagogali a opera dall’architetto fiorentino Zanobi del Rosso, fu inaugurata nel maggio 1786. La semplice facciata esterna, contrapposta all’elegante ambiente interno riccamente decorato, sono elementi tipici delle sinagoghe costruite prima dell’Emancipazione, prive di segni distintivi all’esterno ma sontuosamente decorate all’interno. Ospita pezzi di grande valore tra cui la sedia del profeta Elia, o sedia della cerimonia della circoncisione, in legno intagliato e intarsiato, donata dal rabbino Nissim nel 1860.

(Canale 3 Toscana, 15 settembre 2023)

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Presentato da Israel Aerospace Industries il drone kamikaze Rotem Alpha, in grado di distruggere carri armati, missili e lanciatori

Israel Aerospace Industries (IAI) ha aggiunto alla sua gamma un drone in grado di distruggere i carri armati. Il quadricottero si chiama Rotem Alpha.

di Maksim Panasovskyi

FOTO
IAI ha presentato il nuovo drone alla fiera DSEI-2023 nel Regno Unito. Si tratta di un drone kamikaze con decollo e atterraggio verticale. Le specifiche dettagliate del Rotem Alpha non sono ancora note, ma IAI afferma che è in grado di distruggere i carri armati nemici.
   Il punto di forza del drone è la sua grande resistenza. Il quadricottero israeliano può volare per 1 ora. Un'altra caratteristica è la capacità di librarsi in aria e condurre ricognizioni indipendentemente dalle condizioni meteorologiche.
   Non ci sono ancora informazioni sulla velocità. L'altitudine massima di volo è di oltre 240 metri. Il Rotem Alpha può trasportare una testata a carica sagomata o a frammentazione. Il peso della testata non è specificato, ma l'intero sistema pesa 28 kg.
   Oltre ai carri armati, gli obiettivi del quadricottero kamikaze sono missili, lanciatori e sistemi di artiglieria. Una serie di sensori avanzati permette al drone di trovare autonomamente gli obiettivi da attaccare. Il Rotem Alpha impiega meno di due minuti per essere dispiegato.

(Gagadget.com, 15 settembre 2023)

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A poche ore dal Capodanno ebraico, il presidente israeliano Herzog ribadisce il suo appello all’unità

Herzog annuncia la creazione dell’iniziativa “Kol Ha’Am – Voice of the People” per favorire il dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo

di Paula Trend

Con l’avvicinarsi di Rosh Hashanah, il Capodanno ebraico, il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog si è rivolto alle comunità ebraiche di tutto il mondo attraverso un video pubblicato su YouTube. Il presidente israeliano chiede un maggiore impegno in un dialogo “inclusivo, dinamico e responsabilizzante”. Nel suo messaggio, Herzog sottolinea l’importanza di creare un dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo per superare le sfide dell’ultimo anno, compreso l’aumento della retorica e dei crimini antisemiti.
   “Non è un segreto che quest’anno ci abbia sfidato in modi molto reali. Per molti, quel momento di riflessione assume nuovi significati quest’anno, poiché abbiamo visto Israele alle prese con grandi domande che mettono in luce la portata delle differenze tra noi, ” ha detto il presidente, riferendosi molto probabilmente ai disordini che scuotono la società israeliana a margine della controversa riforma giudiziaria avviata dal governo; e le manifestazioni senza precedenti che ne sono derivate per otto mesi.
   “Ma anche se le nostre differenze possono essere dolorose, evidenziano anche una verità confortante: abbiamo tutti profondamente a cuore il nostro popolo ebraico e il nostro amato Stato ebraico e democratico di Israele. Va bene avere differenze. In effetti, avere differenze ed essere in grado di esprimerli è un segno di forza: la forza della nostra democrazia e la forza del nostro popolo. Le nostre differenze sono la nostra più grande risorsa.” Herzog ha annunciato che, in collaborazione con l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, il suo ufficio ha lanciato l’iniziativa “Kol Ha’Am – La Voce del Popolo” per favorire il dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo. “Vi invito a creare un dialogo globale che sia inclusivo, dinamico, responsabilizzante e che abbia un impatto anche sullo stato-nazione del popolo ebraico – per il bene del nostro futuro comune, per il bene del nostro presente comune”.

(dayFRitalian, 15 settembre 2023)

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La Teshuvà: avere il coraggio di cambiare vita (e strada)

Ognuno di noi può crescere e migliorarsi: basta che lo voglia intensamente. Uno degli ultimi messaggi per Yom Kippur

di rav Jonathan Sacks

Ricordo vividamente la sorpresa e la gioia che provai quando lessi per la prima volta Emma di Jane Austen. Era la prima volta che leggevo un romanzo in cui si vede un personaggio cambiare nel tempo. Emma è una giovane donna intelligente che crede di capire le altre persone meglio di loro. Così si mette a sistemare le loro vite – è una shadchan (sensale di matrimoni, ndr) inglese – con conseguenze disastrose, perché non solo non capisce gli altri; non capisce nemmeno se stessa. Alla fine del romanzo, però, è una persona diversa: più anziana, più saggia e più umile. Ovviamente, poiché questa è una storia di Jane Austen, finisce con un “e vissero per sempre felici e contenti”.
   Negli oltre quarant’anni trascorsi da quando ho letto il libro, una domanda mi ha affascinato. Dove ha preso la civiltà occidentale l’idea che le persone possono cambiare? Non è un’idea ovvia. Molte grandi culture non hanno riflettuto in questi termini. I Greci, ad esempio, credevano che siamo ciò che siamo e che non possiamo cambiare. Credevano che il nostro carattere fosse il nostro destino, il carattere come qualcosa di immutabile, con cui nasciamo, che rende necessario un grande coraggio per realizzare il nostro potenziale. Eroi si nasce, non si diventa. Platone credeva che alcuni esseri umani fossero d’oro, altri d’argento e altri di bronzo. Aristotele credeva che alcuni fossero nati per governare e altri per essere governati. Prima della nascita di Edipo, il suo destino e quello di suo padre, Laio, furono predetti dall’Oracolo di Delfi, e niente avrebbero potuto fare per evitarlo.
   Questo è esattamente l’opposto della frase chiave che diciamo nelle feste di Rosh Hashanah e Yom Kippur, cioè Teshuvà, Tefillà e Tzedakà evitano il decreto malvagio. Così è accaduto agli abitanti di Ninive nella storia che leggiamo a Mincha a Yom Kippur. C’era un decreto divino già scritto: “Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta”. Ma il popolo di Ninive si pente e la decisione divina viene annullata. Non c’è un destino definitivo, nessuna diagnosi senza una seconda opinione: metà delle barzellette ebraiche si basano su questa idea.
   Più studiavo e facevo ricerca, più mi rendevo conto che l’ebraismo era il primo sistema di pensiero al mondo a sviluppare un chiaro senso del libero arbitrio umano. Come disse argutamente Isaac Bashevis Singer, “Dobbiamo essere liberi; non abbiamo scelta”.
   Questa è l’idea alla base della teshuvà. Non solo ammettere il male fatto, non solo confessione, non solo dire Al chet shechatanu (per il peccato che abbiamo commesso, ndr). Non è solo rimorso o pentimento: Ashamnu (siamo stati colpevoli, ndr). È la determinazione a cambiare, la decisione che imparerò dai miei errori, che agirò diversamente in futuro, purché abbia deciso di diventare migliore, di modificarmi, di essere un diverso tipo di persona. Per parafrasare rav Soloveitchik, essere un ebreo significa essere creativi, e la nostra più grande creazione è noi stessi. Di conseguenza, più di 3000 anni prima di Jane Austen, vediamo nella Torah e nel Tanakh un processo in cui le persone cambiano.
   Per fare un esempio ovvio: Mosè, Moshe Rabbenu. Lo vediamo all’inizio della sua missione come un uomo che balbetta, che non può parlare facilmente o fluentemente. “Non sono un uomo di parole.” “Sono lento nel parlare e nella lingua.” Ma alla fine è il più eloquente e visionario di tutti i profeti. Mosè è cambiato, è un altro.
   Uno dei contrasti più affascinanti è tra due personaggi biblici che spesso si crede si somiglino, anzi a volte vengono identificai come la stessa persona in due incarnazioni: Pinchas ed Elia. Entrambi erano fanatici, estremisti.
   Ma Pinchas accetta di cambiare. Dio gli affida un patto di pace ed egli diventa un uomo di pace.
   Lo vediamo in età avanzata (in Giosuè 22) condurre un negoziato di pace tra il resto degli Israeliti e le tribù di Ruben e Gad che si erano stabilite dall’altra parte del Giordano: una missione compiuta con successo.
   Anche Elia non è meno fanatico di Pinchas. Eppure c’è una scena significativa che accade qualche tempo dopo il suo grande confronto con i profeti di Baal sul Monte Carmelo. Elia si trovava sul monte Horeb. Dio gli chiede: “Che cosa ci fai qui, Elia?”. Elia risponde: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”.
   Dio quindi manda un turbine, scuotendo la montagna e frantumando le rocce, ma Dio non è nel vento. Poi Dio manda un terremoto, ma Dio non è nel terremoto. Allora Dio manda il fuoco, ma Dio non è nel fuoco. Poi Dio parla in un kol demamah dakah, una voce di sottile silenzio, una voce dolce e sommessa. Ripete di nuovo a Elia la stessa domanda: “Che cosa ci fai qui, Elia?” ed Elia risponde esattamente con le stesse parole che aveva detto prima: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”. A quel punto Dio dice a Elia di nominare Eliseo come suo successore (1 Re 19).
   Elia non era cambiato. Non aveva capito che Dio voleva che esercitasse un diverso tipo di leadership, difendendo Israele e non criticandola (Rashi). L’Onnipotente stava chiedendo a Elia di operare una trasformazione simile a quella che fece Pinchas quando divenne un uomo di pace, ma Elia, a differenza di Pinchas, non cambiò. Anche le sue parole non cambiarono, nonostante la visione epocale. Era diventato troppo santo e disincarnato per questo mondo, quindi Dio lo innalzò nei cieli su un carro di fuoco.
   È stato l’ebraismo, attraverso il concetto di Teshuvà, a portare nel mondo l’idea che possiamo cambiare. Non siamo predestinati a continuare ad essere ciò che siamo. Ancora oggi, questa rimane un’idea radicale. Molti biologi e neuroscienziati credono che il nostro carattere e le nostre azioni siano interamente determinati dai nostri geni, dal nostro DNA. La scelta, il cambiamento di carattere e il libero arbitrio sono – dicono – illusioni. Si sbagliano. Una delle grandi scoperte degli ultimi anni è la dimostrazione scientifica della plasticità del cervello.
   L’esempio più drammatico di ciò è il caso di una donna, Jill Bolte Taylor. Nel 1996, all’età di 37 anni, subì un grave ictus che distrusse completamente il funzionamento dell’emisfero sinistro del suo cervello. Non poteva camminare, parlare, leggere, scrivere o persino ricordare i dettagli della sua vita. Era una neuroscienziata di Harvard. Di conseguenza, è stata in grado di comprendere esattamente ciò che le era accaduto.
   Per otto anni lavorò ogni giorno, insieme a sua madre, per esercitare il suo cervello. Alla fine aveva recuperato tutte le sue facoltà, usando l’emisfero destro, per sviluppare le abilità normalmente esercitate dal cervello sinistro. Potete leggere la storia nel suo libro, My Stroke of Insight, o vederla parlare in una conferenza TED sull’argomento. Taylor è solo l’esempio più drammatico di ciò che diventa ogni anno più chiaro per le neuroscienze: che con uno sforzo di volontà possiamo cambiare non solo il nostro comportamento, non solo le nostre emozioni, e nemmeno solo il nostro carattere, ma la stessa struttura e architettura del nostro cervello. Raramente c’è stata una conferma scientifica più drammatica della grande intuizione ebraica, che possiamo cambiare. Questa è la sfida della Teshuvà.
   Ci sono due tipi di problemi nella vita: tecnici e adattivi. Quando affronti il primo, vai da un esperto per la soluzione. Ti senti male, vai dal dottore, lui diagnostica la malattia e ti prescrive una pillola. Questo è un problema tecnico. Il secondo tipo è quando noi stessi siamo il problema. Andiamo dal dottore, lui ascolta attentamente, fa vari esami e poi dice: “Posso prescriverti una pillola, ma a lungo termine non servirà a nulla. Sei sovrappeso, poco allenato e sovraccaricato. Se non cambi il tuo stile di vita, tutte le pillole del mondo non ti aiuteranno”. Questo è un problema adattivo. I problemi di adattamento richiedono Teshuvà, e la Teshuvà stessa si basa sulla proposizione che possiamo cambiare. Troppo spesso ci diciamo che è impossibile che non possiamo modificarci. Siamo troppo vecchi, troppo radicati nei nostri modi e abitudini. È troppo disturbo. Ma così ci priviamo del più grande dono: la capacità di cambiare. Questa è stata una delle più grandi intuizioni dell’ebraismo, un regalo alla civiltà occidentale.
   È anche la chiamata di Dio, per noi, nello Yom Kippur. Questo è il momento in cui ci chiediamo: dove abbiamo sbagliato? Dove abbiamo fallito? Quando ci diamo la risposta, è allora che abbiamo bisogno del coraggio di cambiare. Se crediamo di non poterlo fare, non lo faremo. Se crediamo di poterlo fare, lo faremo.
   La grande domanda che Yom Kippur ci pone è: cresceremo nel nostro ebraismo, nella nostra maturità emotiva, nella nostra conoscenza, nella nostra sensibilità o rimarremo quello che eravamo? Non credete mai di non poter essere diversi, più grandi, più fiduciosi, più generosi, più comprensivi e indulgenti di quanto eravamo.
   Possa così quest’anno essere l’inizio di una nuova vita per ognuno di noi, avendo il coraggio di crescere.

(a cura di Lidia Calò)



Dieci piccole-grandi idee per Rosh HaShanà e Yom Kippur

Mentre ci avviciniamo a Rosh Hashana,  Yom Kippur e all’inizio dell’anno ebraico, ecco dieci brevi idee che potrebbero aiutarci a focalizzare il nostro pensiero e assicurarvi un’esperienza significativa e trasformante.

1 La vita è breve
Per quanto l’aspettativa di vita sia aumentata, non saremo in grado, in una sola vita, di ottenere tutto ciò che vorremmo ottenere. Questa vita è tutto ciò che abbiamo. Quindi la domanda è: come possiamo usarla bene?

2 Ogni nostro respiro è dono di Dio
La vita non è qualcosa che possiamo dare per scontata. Se lo facciamo, non riusciremo a celebrarla. Sì, crediamo nella vita dopo la morte, ma è nella vita prima della morte che troviamo veramente la grandezza umana.

3 Siamo liberi
L’ebraismo è la religione dell’essere umano libero che risponde liberamente al Dio della libertà. Non viviamo stretti nella morsa del peccato. Il fatto stesso che possiamo fare teshuva, che possiamo agire in modo diverso domani rispetto a ieri, ci dice che siamo liberi.

4 La vita ha un significato
Non siamo semplici incidenti della materia, generati da un universo che è nato senza motivo e che un giorno, senza motivo, cesserà di esistere. Siamo qui perché c’è qualcosa che dobbiamo fare; essere partner di Dio nell’opera della creazione, avvicinando il mondo che è al mondo come dovrebbe essere.

5 La vita non è facile
L’ebraismo non vede il mondo attraverso lenti rosate. Il mondo in cui viviamo non è il mondo come dovrebbe essere. Ecco perché, nonostante ogni tentazione, l’ebraismo non ha mai potuto dire che l’era messianica è arrivata, anche se l’attendiamo quotidianamente.

6 La vita può essere dura, ma può ancora essere dolce
Gli ebrei non hanno mai avuto bisogno della ricchezza per essere ricchi, o del potere per essere forti. Essere ebreo è vivere per le cose semplici: l’amore, la famiglia, la comunità. La vita è dolce quando viene toccata dal Divino.

7 La nostra vita è la più grande opera d’arte che potremo mai realizzare
Nei Yamim Noraim, nei “giorni terribili”, facciamo un passo indietro dalla nostra vita come un artista che si allontana dalla sua tela, vedendo cosa deve cambiare affinché il dipinto sia completo.

8 Siamo ciò che siamo grazie a coloro  che ci hanno preceduto
Ognuno di noi è una lettera nel libro della vita di Dio. Non iniziamo con niente. Abbiamo ereditato la ricchezza, non materiale ma spirituale. Siamo eredi della grandezza dei nostri antenati.

9 Siamo eredi anche di un altro tipo di grandezza: quello della Torah e dello stile di vita ebraico
L’ebraismo ci chiede grandi cose e così facendo ci rende grandi. Camminiamo alti quanto gli ideali per i quali viviamo, e anche se possiamo fallire ripetutamente, gli Yamim Noraim – i giorni terribili – ci permettono di ricominciare da capo e di guardare ai nostri errori.

10 Il suono della preghiera sincera
Insieme al suono penetrante dello shofar, la preghiera ci dice che tutta la vita è un semplice respiro, ma il respiro non è altro che lo spirito di Dio dentro di noi. Siamo polvere della terra, ma dentro di noi c’è il respiro di Dio.

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Ecco, se riuscissimo a ricordare soltanto qualcuno di queste idee, o anche solo una, potremmo forse vivere un’esperienza forte e significativa a Rosh Hashana e Yom Kippur.



(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2023)

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Prima volta per una delegazione israeliana a Riad. Passi avanti verso la normalizzazione?

Questa settimana la riunione Unesco ha offerto l’occasione di un ulteriore passo avanti dopo quello di un anno fa sui cieli aperti. Diplomazie al lavoro, anche sul format.

di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

Lunedì è atterrata in Arabia Saudita la prima delegazione ufficiale del governo israeliano. L’occasione è un incontro a Riad del Comitato per il patrimonio mondiale dell’Unesco. L’anno scorso era circolata l’idea di una partecipazione di Eli Cohen e Yoav Kisch, ministri rispettivamente degli Esteri e dell’Educazione, ma secondo i media israeliani gli Stati Uniti avrebbero suggerito prudenza in quell’occasione.
   Le cose sono cambiate abbastanza in fretta, e quest’anno la partecipazione sembra rappresentare un ulteriore passo verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita, su cui gli Stati Uniti puntano parte delle rimodulate policy mediorientali.
   Un esempio di come le cose stiano procedendo in senso ampio attorno a questa scommessa di normalizzazione è la presentazione, guidata dal presidente americano Joe Biden, del Corridoio economico India-Medioriente-Europa, che ha proprio nei due Paesi mediorientali due snodi fondamentali. Il Corridoio, presentato a margine del recente summit G20 di Nuova Delhi e a cui partecipano altri Paesi alleati e partner (tra questi l’Italia), si basa sul concetto geostrategico noto come “costrutto indo-abramitico”, dove Riad e Gerusalemme sono i cardini — teoricamente con Roma — di quel contesto socio-culturale abramitico che connette al fondo l’Indo Mediterraneo.
   La prima volta di una delegazione ufficiale del governo israeliano in visita in Arabia Saudita per l’evento Unesco fa il paio con la decisione di un anno fa da parte di Riad di consentire a tutti i voli commerciali da e per Israele di utilizzare lo spazio aereo del Regno. Ulteriore dimostrazione di come questi collegamenti fisici/infrastrutturali siano parte dello schema di normalizzazione e connessione politico-culturale dalla dimensione storica. Chiaramente l’Unesco è uno spazio perfetto per proseguire il processo, che è complicato proprio dal peso storico e da divisioni ideologiche e per questo non può essere troppo violento. D’altra parte comunque ci sono tutti gli interessi a farlo procedere.
   Le diplomazie e gli altri canali di contatto tra Gerusalemme e Riad sono attivi. Nessuno si spinge a ipotizzare una data ma tutti guardano con attenzione all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti fissate per il 5 novembre dell’anno prossimo. Il peso e le ambizioni politiche dell’Arabia Saudita suggeriscono che alla fine la strada scelta sarà quella di un formato bilaterale, o al massimo trilaterale con gli Stati Uniti, piuttosto che un formato Negev (che coinvolge che Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Marocco) o gli Accordi di Abramo (negoziati dagli Stati Uniti e firmati da Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Israele, Marocco e Sudan).
   Il punto sta nel gioco di equilibri attorno ai tre attori principali. L’amministrazione Biden ha un rapporto controverso con Riad (il presidente in campagna elettorale aveva definito “un paria” il factotum del regno, l’erede al trono e primo ministro Mohammed bin Salman addossandogli di fatto la responsabilità della macabra vicenda Kashoggi) e con Gerusalemme. Non è una novità che il democratico alla Casa Bianca non abbia un rapporto personale eccellente con il leader che ha segnato la storia recente israeliana, Benjamin Netanyahu, e a maggior ragione adesso che il governo israeliano è su posizioni sioniste radicali (tanto per dare la misura, Netanyahu non è mai stato ospitato alla Casa Bianca dalla presidenza e sembra che avrà il primo bilaterale con il presidente a latere dell’Assemblea generale Onu, programmata per fine mese a New York).
   Tuttavia, per primo Washington tanto quanto Riad e Gerusalemme, sembrano propensi a superare le divergenze visto l’ottica strategica della normalizzazione. Rimodellare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita — senza eccessivamente tralasciare la questione palestinese — serve a creare un precedente storico-culturale che potrebbe smuovere altre parti del mondo arabo sulla stessa direzione. Inoltre diventa un imperativo funzionale a programmazioni di lunga gittata, come appunto il corridoio indo-mediterraneo su cui si muovono direttamente altre potenze come l’India e indirettamente ne tocca altre come la Cina (perché il piano rappresenta un’alternativa all’infrastruttura geopolitica Obor/Bri).

(Formiche.net, 15 settembre 2023)

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Israele intercetta 16 tonnellate di materiale per razzi diretti a Gaza

di Sarah G. Frankl

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Israele ha sventato un tentativo di contrabbando di 16 tonnellate di sostanze chimiche che potrebbero essere utilizzate per la fabbricazione di combustibile per razzi, nascoste in un carico proveniente dalla Turchia e diretto alla Striscia di Gaza. Lo hanno annunciato giovedì le autorità doganali israeliane.
   Tra i container arrivati al porto di Ashdod nel mese di luglio ce n’erano alcuni contenenti 54 tonnellate di gesso per l’edilizia a Gaza.
   In questi container, gli ispettori hanno trovato 16 tonnellate di cloruro di ammonio, una sostanza chimica a doppio uso che Israele vieta di portare a Gaza a causa del suo potenziale utilizzo per la costruzione di razzi, ha dichiarato la Direzione delle dogane.
   Negli ultimi anni, i gruppi terroristici della Striscia governata da Hamas hanno lanciato decine di migliaia di razzi contro Israele.
   All’inizio del mese, Israele ha temporaneamente bloccato le esportazioni da Gaza in seguito a quello che ha dichiarato essere un tentativo di contrabbando di esplosivi dall’enclave costiera.
   L’esercito aveva ordinato di fermare per diversi giorni le consegne commerciali da Gaza a Israele dopo che diversi chilogrammi di materiale esplosivo “di alta qualità” erano stati trovati nascosti in una spedizione di vestiti.
   Il Ministero della Difesa ha dichiarato che, secondo le prime valutazioni, gli esplosivi erano destinati ad essere utilizzati per attività terroristiche in Cisgiordania.
   “La Difesa non permetterà ai terroristi di approfittare del canale civile e umanitario nella Striscia di Gaza per accumulare materiale da usare per atti di terrore”, hanno dichiarato il Ministero e il Coordinatore delle attività governative nei Territori.
   La Striscia di Gaza è sottoposta a un blocco guidato da Israele da quando il gruppo terroristico di Hamas ha preso il potere dall’Autorità Palestinese con un sanguinoso colpo di stato nel 2007. Israele sostiene che il blocco, applicato anche dal vicino Egitto, è necessario per impedire al gruppo terroristico, che cerca apertamente la distruzione di Israele, di armarsi.

(Rights Reporter, 15 settembre 2023)

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La Comunità Palestinese si divide: Fatah critica la dichiarazione degli intellettuali palestinesi contro il discorso antisemita di Abbas

Proseguono le controversie e si intensificano le polemiche in seguito alle dichiarazioni rilasciate alla fine di agosto da Mahmūd Abbās (noto anche come Abū Māzen) durante il Comitato Rivoluzionario di al-Fatah. Il presidente palestinese aveva sostenuto per l’occasione che Hitler perseguì gli ebrei europei non a causa della loro religione, ma piuttosto per il loro coinvolgimento in attività finanziarie come l’usura e il commercio monetario; dichiarazioni talmente inammissibili da indurre la sindaca di Parigi, Madame Hidalgo, a revocargli la Medaille Grand Vermeil, prestigiosissimo riconoscimento francese.
   Nel frattempo  – come scrive La Presse  – oltre 200 figure di spicco nella comunità palestinese hanno criticato aspramente Abbās per i suoi commenti, considerati appunto «inaccettabili». In una lettera aperta disponibile online, queste personalità condannano fermamente le parole moralmente e politicamente discutibili di Abbas. Tra i firmatari figurano Rashida Tlaib, membro democratico del Congresso degli Stati Uniti, lo storico Rashid Khalidi e l’avvocato Noura Erakat, tre figure americane di origine palestinese notoriamente critiche nei confronti di Israele.
   Nella lettera, essi affermano con decisione: «Respingiamo categoricamente qualsiasi tentativo di minimizzare, distorcere o giustificare l’antisemitismo, i crimini nazisti contro l’umanità o la revisione storica dell’Olocausto».
   Queste prese di posizione sono seguite alla diffusione di un video, il 6 settembre, in cui Mahmūd Abbās ha dichiarato durante una riunione del suo partito, Fatah, a Ramallah in Cisgiordania: «Si dice che Hitler abbia ucciso gli ebrei perché erano ebrei e che l’Europa odiava gli ebrei perché erano ebrei. Ma questa non è la verità… Era spiegato molto chiaramente: gli europei hanno attaccato gli ebrei a causa del loro ruolo sociale e non a causa della loro religione; a causa dell’usura e del denaro», ha aggiunto nel suo discorso.
   Queste dichiarazioni hanno ricevuto una forte condanna da parte di Israele, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Uno dei firmatari della lettera ha dichiarato all’AFP che Abbas «non ha legittimità nel rappresentarci… non è compito suo impartire lezioni di storia» e ha considerato le affermazioni di Abbās come inopportune.
   Tuttavia – come riporta i24news –  Fatah ha difeso il proprio leader, definendo la lettera «una dichiarazione vergognosa» attraverso i comunicati stampa dell’agenzia ufficiale palestinese Wafa. Il Consiglio Nazionale Palestinese, un organo legislativo, ha qualificato la lettera come terrorismo politico e intellettuale contro il nostro popolo»; una dichiarazione, quella degli intellettuali palestinesi «in linea con il discorso sionista e i suoi firmatari danno credito ai nemici del popolo palestinese».
   Il Ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese, Atef Abou Saïf, ha descritto la lettera aperta come «una dichiarazione vergognosa» e ha sottolineato che le dichiarazioni di Abbās riflettono una certa interpretazione della storia attuale presente nella letteratura e negli scritti storici. Abbās, che ha 87 anni ed è al potere da oltre 18 anni, non è nuovo a certe dichiarazioni che relativizzano la Shoah con i suoi sei milioni di ebrei sterminati dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2023)


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I frutti di Abramo

L’intervento dell’ambasciatore israeliano in Italia per i tre anni degli Accordi: “Hanno portato prosperità nella regione”.

di Alon Bar

Caro Direttore, questa settimana si celebra una pietra miliare molto importante per il Medio Oriente e il Nord Africa: tre anni dalla firma degli Accordi di Abramo tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) e il Bahrein, sotto gli auspici del governo statunitense. Tre mesi dopo, nel dicembre 2020, il Marocco si è unito al processo, firmando un accordo di normalizzazione con Israele.
   Il catalizzatore che ha permesso questi accordi storici è stata la consapevole decisione delle parti di promuovere un futuro stabile e prospero per il Medio Oriente. Gli accordi hanno inaugurato una nuova era di normalizzazione e di pace che non solo collega i governi, ma unisce anche le persone, nonostante le differenze di lingua, di credo religioso, di cultura e altro ancora.
   Finora, gli Accordi di Abramo hanno offerto solo un assaggio del pieno potenziale racchiuso nella cooperazione regionale. Ma già così, il volume del commercio tra Israele e altri Paesi del Medio Oriente è aumentato del 74%, tra il 2021 e il 2022. Un altro esempio è il turismo, per lo più inesistente in passato, che è salito alle stelle. Nel 2021, le visite da Israele agli Emirati Arabi Uniti sono aumentate del 172%. Al contempo, il numero di israeliani che volano in Bahrein da quando sono stati istituiti i voli diretti è aumentato in modo esponenziale.
   Gli accordi hanno anche avuto un’influenza significativa sul rafforzamento delle relazioni di Israele con i Paesi vicini, migliorando così la stabilità regionale. Ad esempio, l’accordo Prosperity Green & Blue tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Giordania ha stabilito che in Giordania sia istallato un campo solare per la fornitura di 600 megawatt di elettricità verde a Israele, mentre, in cambio, un impianto di desalinizzazione in Israele fornirà 200 milioni di metri cubi d’acqua alla Giordania.
   In una regione in cui il 65% della popolazione ha meno di 30 anni, offrire opportunità alle giovani generazioni è un fattore chiave per prevenire l’instabilità. A tal fine, sono state avviate delegazioni di giovani che incoraggiano i legami tra i leader di domani e gettano le basi per la cooperazione nei decenni a venire. Le delegazioni in cui i giovani influenti sperimentano le rispettive culture e visitano importanti siti religiosi e storici, concentrandosi sulla costruzione di una comunità, sono uno strumento efficace per rafforzare i legami.
   È importante notare che i giovani dei Paesi interessati hanno aderito con convinzione ai principi di accettazione, cooperazione e pace evidenziati negli accordi, trasmettendo alla regione il chiaro messaggio che questi ideali sono le fondamenta del futuro.
   Gli Accordi di Abramo incoraggiano la cooperazione e l’istruzione. Nell’estate del 2022 l’Università Ben-Gurion ha accolto alcuni studenti provenienti dal Marocco. Inoltre, alcuni studenti emiratini si sono iscritti alle università israeliane. Anche il Bahrein ha accolto le prospettive di attività educative condivise e ha firmato una serie di accordi con Israele, per promuovere lo scambio di studenti e professori.
   In un esempio significativo di come queste iniziative possano favorire la comprensione reciproca, dopo che il ministro degli Esteri emiratino, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ha visitato il Centro per la Memoria dell’Olocausto di Yad Vashem a Gerusalemme, gli Emirati Arabi Uniti hanno inserito la didattica sulla Shoah nei programmi scolastici come materia obbligatoria, a testimonianza della capacità degli Accordi di Abramo di promuovere la coesistenza e la tolleranza religiosa.
   Gli Accordi di Abramo dimostrano che, quando sia i leader sia i cittadini comuni danno priorità alla pace e alla cooperazione, è possibile un futuro di gran lunga migliore per il Medio Oriente.
   Israele auspica che molti altri Paesi si uniscano a questo sforzo, creando un domani più luminoso per il bene di tutti i nostri figli.
   Tutti i Paesi firmatari hanno delle relazioni eccellenti con l’Italia, e siamo lieti di vedere che l’Italia sostiene questi accordi di normalizzazione e che è disponibile a contribuire ad incoraggiarne degli altri.

(la Repubblica, 15 settembre 2023)

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Al Ministero dell’Istruzione una targa e una mostra in memoria degli ebrei espulsi dalla scuola nel 1938

di Daniele Toscano

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Un gesto simbolico importante in un momento particolarmente significativo: al Ministero dell’Istruzione e del Merito è stata inaugurata una targa in memoria degli espulsi dalla scuola italiana “vittime della persecuzione antiebraica e dell’applicazione delle leggi razziali adottate dal regime fascista. Affinché non si perda mai la memoria di quanto accaduto”.
La targa, che si trova nella sala antistante la Biblioteca, è stata scoperta in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico e a pochi giorni dal triste anniversario del 18 settembre 1938, quando Mussolini a Trieste proclamò le leggi razziali, primo passo delle discriminazioni e delle persecuzioni degli ebrei in Italia. Prime vittime di queste norme furono gli studenti e, con loro, il personale scolastico e universitario, tra docenti e dipendenti del Ministero. Proprio a loro è andato il pensiero in occasione della scopertura della targa.
   In occasione dell’evento è stata anche inaugurata presso la Biblioteca del MIM la mostra dal titolo “La scuola negata”, che ripercorre la storia dei libri di testo che, con la circolare 33 del 30 settembre 1938 del Ministro dell’Educazione Nazionale, furono eliminati dalle scuole perché gli autori erano ebrei: intellettuali come il matematico Vito Volterra, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, il geografo Roberto Almagià non solo furono allontanati dalle loro funzioni, ma l’intera società fu privata delle loro competenze e del loro sapere. Questa esposizione sarà aperta al personale e al pubblico e saranno organizzati laboratori e visite per le scuole.
   Oltre al Ministro Giuseppe Valditara, erano presenti numerosi esponenti dell’ebraismo italiano: Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che ha collaborato all’organizzazione; il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun; la professoressa Tiziana Della Rocca dell'Associazione Docenti Italiani per la Memoria nelle Scuole, che ha proposto l’iniziativa; l'Ambasciatore d'Israele in Italia Alon Bar; l'ex alunno Ugo Foà, che ha subito gli effetti delle leggi razziali e che da anni è impegnato in progetti di testimonianza nelle scuole; diversi consiglieri dell’UCEI e della CER, tra cui gli Assessori CER ai Rapporti Istituzionali Alessandro Luzon, alle Scuole Daniela Debach e alla Memoria Daniele Regard; il Coordinatore Nazionale per la Lotta contro l'antisemitismo Giuseppe Pecoraro; il Capo delegazione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) Luigi Maccotta. Presente anche una delegazione di studenti delle scuole ebraiche di Roma "Angelo Sacerdoti" e "Renzo Levi" accompagnate dai rispettivi docenti, in rappresentanza di quelle categorie colpite dalla discriminazione 85 anni fa.
   “Combattiamo l’antisemitismo e il razzismo non solo oggi, ma tutto l’anno”, ha affermato il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che ha sottolineato come questo sia il primo Ministero a compiere un gesto di questo tipo. Il Ministro Valditara si è soffermato sulla firma indelebile del regime fascista sulle leggi razziali e sull’importanza del ricordo come parte della cultura del rispetto verso l’altro. “La memoria è l’irrinunciabile strumento per la promozione della libertà e della democrazia, i valori fondanti della nostra scuola. Non possiamo dimenticare che 85 anni fa le infami leggi razziali, approvate dal regime fascista, hanno violato diritti fondamentali che costituiscono oggi il pilastro della Costituzione italiana. La scuola repubblicana non esclude, e non discrimina, ma pone al centro la persona, che deve avere la piena possibilità di esprimere i suoi talenti. Ricordare è l’atto più importante che dobbiamo compiere per contrastare l’indifferenza e l’odio”.
   Il Presidente della Comunità di Roma Victor Fadlun è stato visibilmente coinvolto dall’iniziativa. “Nel settembre 1938 fu ordinato a tutti gli studenti ebrei e agli impiegati della scuola di lasciare il proprio posto – ha sottolineato Fadlun – Tra quei bambini c'era anche mio padre, nato nel 1931 a Tripoli. Lui parlava con vergogna del fatto di essere stato istruito a casa”. Fadlun ha citato alcune storie, come quella di Lidia Dell’Ariccia, che inviò una lettera al re Vittorio Emanuele II per pregarlo di restituirle il posto da insegnante, senza che ovviamente la sua richiesta fosse accolta. Ha posto poi attenzione al compiacimento di quegli italiani che videro in questa esclusione un'opportunità, senza tenere conto del fatto che gli ebrei con questa discriminazione perdevano il diritto di sentirsi parte del genere umano. “Il gesto del Ministro Valditara è molto importante – ha concluso Fadlun – tanto più che avviene dopo l’inaugurazione dell’anno scolastico alla scuola elementare ebraica: ho ancora nella mente il canto dei bambini di 6 anni”, una melodia carica di speranza contrapposta a questa dolorosa pagina storica.

(Shalom, 14 settembre 2023)

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Oslo si è rivelato un tragico errore. Il problema è che nessuno ha idee migliori

Gli artefici israeliani di quell’accordo detestavano l’occupazione e credevano sinceramente di fare la cosa giusta, ma l’idea di affidare a terroristi il controllo su aree vitali per la sicurezza d’Israele era improbabile che finisse bene

di Benjamin Kerstein

È sempre difficile sapere esattamente cosa pensare quando ci si trova davanti a un disastro totale, soprattutto quando è il risultato delle migliori intenzioni. E’ il caso di coloro che sostennero la guerra in Iraq del 2003 e degli artefici del recente miserevole ritiro dall’Afghanistan. Per gli israeliani, un caso di questo tipo si presenta in questi giorni, in occasione del 30esimo anniversario degli Accordi di Oslo. Tre decenni dopo l’accordo tra Israele e Olp firmato in pompa magna sul prato della Casa Bianca, e due decenni dopo che i palestinesi lo demolirono con una guerra terroristica fatta di stragi di civili, nessuno sa bene cosa fare con gli Accordi di Oslo. Su una cosa, tuttavia, c’è un accordo quasi universale: si trattò di un errore disastroso. Più o meno tutti i commenti che ho letto nelle ultime settimane vanno in questa direzione.
   Impossibile respingere il verdetto dei critici. È chiaro da tempo che il capo dell’Olp Yasser Arafat non ha mai avuto la minima intenzione di onorare la sua solenne promessa di rinunciare al terrorismo. Era un razzista autentico e convinto, che riteneva fosse suo dovere e destino annientare lo stato ebraico. Era un bugiardo ingegnoso, abile nel manipolare gli altri, soprattutto gli ingenui occidentali, inducendoli a credere il contrario. Eppure, non ha mai deviato per un solo istante dal suo obiettivo finale. Quando gli apparve chiaro che non poteva mettere in ginocchio Israele con mezzi diplomatici e politici, si lanciò in un’orrenda campagna di crimini di guerra che in pochi anni fece strage di più di mille israeliani. Il frutto degli inganni di Arafat sopravvive ancora oggi, giacché l’entità creata dagli Accordi e consegnata nelle mani di Arafat – l’Autorità Palestinese – rimane come una spina nel fianco di Israele, sostenuta solo perché le alternative sono verosimilmente assai peggiori.
   Impossibile non concludere che, nella mal riposta speranza di porre fine al conflitto con i palestinesi attraverso rischiose concessioni, Israele ha finito col compromettere seriamente la propria sicurezza e si è condannato a trent’anni di guerre grandi e piccole.
   Una certa misura di pace è arrivata, ma solo con vari stati arabi e musulmani alla periferia di Israele, che hanno normalizzato le relazioni non a causa di visioni messianiche di un “nuovo Medio Oriente”, ma di considerazioni pragmatiche economiche, politiche e di sicurezza. Gli idealisti sono caduti con Oslo, i realisti hanno trionfato con gli Accordi di Abramo.
   Tuttavia dobbiamo trattare con equità gli architetti di Oslo. Non erano traditori della patria o ebrei che odiano se stessi (come amano sostenere gli estremisti dell’opposta sponda ndr). Erano israeliani che detestavano l’occupazione in Giudea e Samaria e i compromessi morali che essa comporta. La prima intifada (1988-93) li aveva convinti che stavano governando dispoticamente su un altro popolo che ha lo stesso diritto degli ebrei all’indipendenza e all’autodeterminazione. Credevano sinceramente che il futuro di Israele e la stabilità dell’intera regione dipendessero dalla pace con i palestinesi, cosa che sarebbe stata impossibile senza l’Olp. In altre parole, erano convinti di fare la cosa giusta.
   In senso morale, forse lo era. In senso pratico e strategico, tuttavia, non stavano facendo solo un errore, ma un errore disastroso. Non sapevano, o preferirono non sapere, che l’ideologia dell’Olp non ammette l’esistenza di uno stato ebraico in alcuna forma ed entro alcun confine, che Arafat era un assassino di massa che aveva sempre usato la violenza più barbara (anche contro altri palestinesi ndr) per ottenere ciò che voleva, e che l’idea di affidare a un gruppo terroristico il controllo su aree vitali per la sicurezza di Israele era, a dir poco, improbabile che finisse bene.
   Ma gli israeliani artefici di Oslo hanno pagato per il loro errore. Personalmente Arafat non è mai diventato uno shahid (“martire”), ma si è rivelato un terrorista suicida sul piano diplomatico e ha trascinato con sé gli architetti israeliani di Oslo. Con la carriera e la reputazione a brandelli, ognuno di loro si è ritirato dalla vita pubblica e oggi il loro principale vettore, il partito laburista, è moribondo.
   Ciononostante la logica alla base di Oslo rimane in qualche modo robusta perché, detta in parole povere, nessuno ha idee migliori. È possibile vedere tutto quello che c’era di sbagliato in Oslo, ma è impossibile vedere un’alternativa. Né tutte le critiche che ho letto in questo periodo ne propongono una. L’unica cosa che ho sentito che assomiglia vagamente a un’alternativa è “gestire il problema”. Il che solleva, tuttavia, la questione di cosa dovremmo fare quando il problema diventa ingestibile. A quel punto le indicazioni diventano improvvisamente vaghe, e forse alcune è meglio non enunciarle. In ogni caso, non sono particolarmente realistiche.
   I critici di Oslo avevano e hanno ragione. La storia almeno questo lo ha chiaramente dimostrato. Ma è anche chiaro che limitarsi a biasimare Oslo non basta, perché non ci porta da nessuna parte. In realtà non conosciamo una via d’uscita da Oslo, e questo è il vero dilemma con cui oggi dobbiamo fare i conti.
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(da: jns.org, 12.9.23)

(Israele.net, 14 settembre 2023)
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«Non sapevano, o preferirono non sapere, che l’ideologia dell’Olp non ammette l’esistenza di uno stato ebraico in alcuna forma ed entro alcun confine, che Arafat era un assassino di massa». In poche parole, non avevano capito. Si ha così un'altra conferma: in guerra, chi non capisce soccombe. Resta sempre la domanda: perché non avevano capito? A quale falsa ideologia si erano consacrati? Quali verità avevano trascurato per cadere vittime della menzogna? M.C.


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Il cadavere di Oslo

di Niram Ferretti

Terra in cambio di pace. Era questo il presupposto con il quale il trio composto da Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yossi Beilin confezionò il 13 settembre di trent’anni fa la polpetta avvelenata degli Accordi di Oslo.
   “Ventitré anni dopo il suo euforico varo sul prato della Casa Bianca, il ‘processo di pace’ di Oslo, tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si staglia come una delle peggiori calamità che abbiano afflitto il conflitto israeliano-palestinese”. scriveva nel 2016, Efraim Karsh in un suo articolo apparso sul “Middle East Quarterly”, dal titolo eloquente Why the Oslo Process Doomed Peace. 
   Nell’articolo, lo storico israeliano, professore emerito al Kings College di Londra, scandiva implacabilmente le funeste modalità di questa calamità, dal costo pagato in vite umane da Israele (1600 cittadini, più 9000 feriti), al rebranding di Yasser Arafat, (all’epoca ridotto a poco meno di un reietto e confinato a Tunisi), come nation builder, all’installazione nel cuore di Israele di una organizzazione terrorista tra le più sanguinarie del pianeta.
   A rincalzo di Karsh, cinque anni fa, in una intervista esclusiva per l’Informale, Martin Sherman, tra i più acuti analisti politici israeliani, specificava:
   “Il processo di Oslo è stato un fallimento previsto. Chiunque possedesse una conoscenza minima di elementi base di scienza politica o di discipline connesse come relazioni internazionali o teoria dello Stato nazione, sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare. Negli anni Novanta si poteva finire in carcere per sostenere una soluzione politica sulla linea di Oslo, era considerato tradimento. Quello che sono stati capaci di fare è stato di acquisire una posizione che non solo era marginalizzata ma era anche illegale e trasformarla nel principale paradigma politico non solo a livello internazionale ma anche qui in Israele. Dunque non posso che essere d’accordo con Karsh nel giudicare Oslo un disastro. Posso solo sperare che si sbagli quando dice che è un disastro inestirpabile, in altre parole, irrevocabile”.
   Gli Accordi nascevano dalla folle scommessa che un terrorista musulmano cacciato progressivamente da buona parte del Medioriente, dall’Egitto, dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania e dal Kuwait, e riparato a Tunisi dove sarebbe stato condannato all’irrilevanza, avrebbe potuto trasformarsi in un partner per la pace.
   Sotto l’egida degli Stati Uniti, che avevano riconosciuto l’OLP come interlocutore nel 1988, quando Ronald Reagan era allo scadere del suo secondo mandato, Arafat venne ripescato dal cono d’ombra e di discredito in cui si era cacciato.
   Shimon Peres, il principale promotore degli Accordi, sognava ad occhi aperti un Medioriente in cui si sarebbe inverata laicamente la profezia escatologica di Isaia.
   “Un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari…un Medio Oriente che non è un campo di sterminio ma un campo di creatività e crescita“.
   L’utopia di Peres, non era quella che animava Rabin, più circospetto ad abbracciare come partner per la pace Arafat, ma alla fine diventò anche lui parte sostanziale in causa nel sostenere gli Accordi, e continuò a farlo nonostante tutte le circostanze in cui il padre e padrone dell’OLP confermava la sua vera natura di lupo travestito da agnello.
   C’era forse solo un punto effettivo sul quale i due principali fautori degli Accordi di Oslo convergevano, ed era la contrarietà alla nascita di un vero e proprio Stato palestinese autonomo. Per Rabin, avrebbe dovuto essere un’entità poco meno di uno Stato, mentre per Peres l’idea era che al suo posto nascesse una confederazione giordana-palestinese. Ciò non ha impedito che la formula dello Stato autonomo, sulle colline della Cisgiordania, sia rimasta in auge per trent’anni, come l’unico paradigma contemplabile, l’unica soluzione sulla strada della pace.
   Sempre Martin Sherman ha elencato, in un articolo del 2018, alcune delle conseguenze nefaste prodotte dagli Accordi:
   “Senza Oslo non ci sarebbe stata la seconda Intifada, non ci sarebbe stato il Disimpegno israeliano, non ci sarebbe stato lo sradicamento delle comunità ebraiche a Gush Katif, non ci sarebbe stata l’acquisizione di Gaza da parte di Hamas, non ci sarebbero stati i tunnel del terrore, né gli arsenali con i temibili razzi lanciati in direzione delle città e dei villaggi israeliani molto distanti da Gaza”.
   Sarebbe ora, a trent’anni dalla sua decomposizione, di seppellirne il cadavere definitivamente.
   Mi congratulo con il generale di brigata in pensione Yossi Kuperwasser, per la sua  analisi accurata e perspicace. Detto questo, credo che il suo piano renda in fieri Hamas più pericoloso, e non meno insidioso, per Israele.
   Kuperwasser auspica che Israele ponga fine alla minaccia di Hamas “disarmandolo, proibendone il riarmo e dimostrando in maniera inconfutabile che minacciare Israele è indiscutibilmente contro i suoi interessi”. Ciò lascerà Hamas “indebolito e scoraggiato nei confronti di Israele, ma abbastanza forte da governare Gaza”. Se il governo israeliano dovesse attuare il piano di Kuperwasser, Hamas non potrà più tormentare gli israeliani lanciando razzi verso le città vicine, come Sderot, né potrà dare fuoco ai terreni agricoli con aquiloni e con palloni incendiari, con preservativi gonfiati con l’elio, e non potrà nemmeno lanciare razzi per fermare una manifestazione a Gerusalemme. Ciò esercita un’evidente attrazione su una popolazione israeliana che è sotto assedio, ma che teme di tornare a Gaza dopo il ritiro unilaterale del 2005.
   Al che rispondo, fermare gli aquiloni, i razzi e i missili è, ovviamente, un vantaggio per Israele. Ma un Hamas privato di munizioni aeree pur avendo ancora il controllo di Gaza diventa più o meno l’equivalente islamico dell’Autorità Palestinese (AP). Ciò offre ad Hamas una grande opportunità. Il governo israeliano ha permesso all’Autorità Palestinese, nel corso dei suoi quasi trent’anni di esistenza, di aggredire il Paese principalmente in due modi: attraverso la violenza e mediante la delegittimazione. Non importa in che modo orribile agisca l’AP in questi due ambiti, il sistema di sicurezza israeliano la protegge e il primo ministro la finanzia.
   La violenza: Sempre che valga il precedente dell’Autorità Palestinese, Hamas può liberamente incitare, finanziare e armare una serie di attacchi di basso livello contro gli israeliani, tra cui lapidazioni, accoltellamenti, linciaggi, speronamenti con auto, sparatorie, attentati, incendi dolosi e intifada su vasta scala. Dovrebbero essere presi in considerazione anche i tunnel e i droni suicidi. In breve, “disarmare” Hamas è un’illusione. La violenza continuerà e potrebbe addirittura peggiorare.
   La delegittimazione: Prendendo atto di ciò che dice l’Autorità Palestinese riguardo al suo “partner per la pace”, Hamas dovrebbe essere libero di urlare qualsiasi diffamazione desideri: che gli ebrei discendono dai maiali e dalle scimmie; che il sionismo rappresenta un movimento imperialista di suprematisti bianchi che sottomettono un popolo indigeno; che Israele opprime, sfrutta e massacra una popolazione vittima come lo fu Cristo. Inoltre, possono ritrarre Benjamin Netanyahu come il nuovo Hitler, Gaza come un campo di concentramento e i palestinesi come vittime di cinquanta Shoah.
   Potrei fermarmi qui, dopo aver sostenuto la mia tesi a favore dei limitati benefici del piano di Kuperwasser, il quale risolverebbe un problema, ma ne lascia intatti altri due. Ma l’attuazione di questo piano potrebbe rendere Hamas ancora più pericoloso per Israele. Ecco la mia argomentazione.
   Sebbene l’antisionismo palestinese esista da oltre un secolo (1920: “La Palestina è la nostra terra e gli ebrei sono i nostri cani”), è decollato negli anni Novanta quando la Sinistra si è rivoltata contro Israele. Gli Accordi di Oslo del 1993 firmati nientemeno che sul prato della Casa Bianca hanno creato l’Autorità Palestinese, che ha convinto i buoni e i grandi del mondo di aver in tal modo accettato l’esistenza dello Stato ebraico, cosa che ha così reso l’AP la beniamina della politica mondiale. Naturalmente, l’Autorità Palestinese non ha fatto nulla del genere, ma ora potrebbe diffondere il messaggio antisionista sopra sintetizzato in modo molto più efficace di prima.
   La Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la correlata intolleranza, tenutasi a Durban nel 2001, ha simboleggiato questa versione palestinese, che ha assunto un’importanza senza precedenti e da allora è aumentata. Essendo quella palestinese, la causa rivoluzionaria preferita al mondo, i palestinesi possono fare appello alle simpatie e alle risorse di una rete di sostegno esclusiva che annovera dittatori, esponenti dell’estrema Sinistra, estremisti di Destra, le Nazioni Unite, altre organizzazioni internazionali e legioni di islamisti, giornalisti, attivisti, educatori, artisti, preti e benefattori assortiti.
   L’antisionismo ha di recente raggiunto livelli finora inimmaginabili, tra cui la presidenza del Cile, il premierato in Scozia, il leader dell’opposizione nel Regno Unito e la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Le tendenze attuali stanno a indicare che il Palazzo dell’Eliseo, il numero 10 di Downing Street (la residenza ufficiale del primo ministro britannico di turno, N.d.T.) e la Casa Bianca sono facilmente raggiungibili. Ciò rappresenta un pericolo molto maggiore per Israele rispetto agli attacchi cinetici.
   In altre parole, mentre la violenza palestinese non rappresenta una minaccia esistenziale per Israele, non è così per la delegittimazione palestinese. In questo caso, le parole sono più pericolose degli esplosivi. (Il contrario vale per Hezbollah e per l’Iran.)
   Fino ad ora, e a differenza dell’Autorità Palestinese, Hamas continua ad essere ampiamente ostracizzata come organizzazione terroristica, e in gran parte a causa di quegli aquiloni, dei razzi e dei missili. Se Hamas perdesse la capacità di lanciare razzi, i suoi leader potrebbero voler emulare il percorso dell’AP e firmare tardivamente gli Accordi di Oslo (magari di nuovo sul prato della Casa Bianca?). Se così fosse il movimento palestinese porrebbe automaticamente fine alla sua denominazione terroristica e si trasformerebbe anch’esso in un beniamino della comunità internazionale. In tal modo, si aggiungerebbe un messaggio islamista di delegittimazione a quello nazionalista dell’Autorità Palestinese, accelerando e rafforzando notevolmente la portata dell’antisionismo palestinese.
   Gli israeliani, abituati a una vita di oltraggi, tendono a ignorare la delegittimazione come un dato di fatto. L’invettiva è diventata un lamentoso rumore di fondo. I palestinesi figurano a malapena nella politica israeliana. Lo stratega israeliano Efraim Inbar li definisce in modo pittoresco “un fastidio strategico”.
   Da outsider, ritengo che gli israeliani sottovalutano il crescente impatto del veleno palestinese. Sì, è vero, i prodotti israeliani – le armi, l’alta tecnologia, le attrezzature mediche, i metodi agricoli, la tecnologia idrica – hanno trovato un mercato globale. Certo, il suo esercito non ha rivali regionali. Ma questi punti di forza non liberano gli israeliani dalla questione in sospeso di ottenere l’accettazione palestinese. Fino ad allora, la delegittimazione palestinese minaccerà Israele non meno delle armi nucleari iraniane.
   In questo modo il piano Kuperwasser aumenta potenzialmente il pericolo che Hamas rappresenta per Israele, scambiando un nemico più violento ma meno influente con un nemico meno violento ma più influente. Un Hamas disarmato che continua a governare Gaza è una cura peggiore della malattia.

(L'Informale, 13 settembre 2023)

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Riforma Giudiziaria: la Corte Suprema Israeliana si riunisce per discutere l’abrogazione della legge sul principio di “ragionevolezza

di Giovanni Panzeri

Sono stati diversi i momenti di tensione durante un’udienza di oltre 13 ore tenuta dalla Corte Suprema nella giornata di martedì 12 settembre, alla presenza di tutti e 15 i giudici, fatto senza precedenti nella storia israeliana.
   La Corte si è riunita per ascoltare gli argomenti pro e contro l’eventuale abolizione della legge sul principio di ragionevolezza recentemente approvata dalla Knesset, un emendamento alle leggi fondamentali d’Israele, che limiterebbe nettamente la possibilità delle istituzioni giudiziarie di abrogare decisioni governative.
   Come riportato dal Times of Israel la discussione si è sviluppata principalmente su due punti: “Se la Corte Suprema possieda il diritto d’intervenire sulle leggi fondamentali israeliane, e se la legge sul principio di ragionevolezza ponga una minaccia così grave alla democrazia da giustificare un intervento della Corte”.
   “Un gran numero di giudici, esclusi i più conservatori,” continua il ToI “ ha indicato tramite domande e commenti che sono fondamentalmente in disaccordo con l’affermazione del governo secondo cui la Corte non avrebbe il diritto di intervenire sulle leggi fondamentali, e che sarebbe grave se la Knesset avesse il diritto di approvare leggi chiaramente anti-democratiche senza possibilità d’intervento giuridico”, sul secondo punto invece la Corte è sembrata più indecisa e molti giudici, compresi quelli con tendenze più moderate o liberali, hanno espresso dubbi riguardo al fatto che la legge sulla ragionevolezza ponga una minaccia tale alla democrazia da dover richiedere un intervento tanto drastico.
   “Non possiamo decidere di abrogare una legge fondamentale come se niente fosse” ha dichiarato la presidente della Corte Hester Hayut “Possiamo farlo solo se rappresenta un pericolo mortale per le fondamenta democratiche del nostro stato”

• La dichiarazione d’indipendenza
  Durante la discussione diversi giudici hanno asserito che il diritto della Corte di intervenire sulle leggi fondamentali deriva dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, che definisce Israele uno stato “ebraico e democratico”, e quindi darebbe ai giudici la responsabilità di salvaguardare la democraticità d’Israele contro eventuali decisioni della Knesset.
   In risposta il rappresentante del governo, Ilan Bombach, ha negato la validità della Dichiarazione come documento legale: “Perché le firme di 37 persone non elette su un documento incompleto e redatto frettolosamente dovrebbero condizionare le generazioni future? ”
   Il commento, che ha ricevuto l’approvazione del giudice conservatore David Mintz, ha generato in aula parecchio scalpore e il rappresentante del governo ha incalzato affermando che il potere della Knesset, al contrario, deriva dalla risoluzione di Harari nel 1950, che decretò come la ‘costituzione’ di Israele sarebbe stata costituita da una serie di leggi fondamentali, stipulate nel corso del tempo da un comitato specifico e approvate dalla Knesset, invece che da un singolo documento. “Lo Stato d’Israele non è stato costituito dalla provvisione Harari del 1950” ha ribattuto il giudice Alex Stein “è stato costituito tramite la Dichiarazione d’Indipendenza”.

• Il dibattito sul principio di ragionevolezza
   Nonostante le remore verso l’abrogazione unilaterale di una legge fondamentale, diversi giudici si sono espressi contro il provvedimento del governo.
   “L’obiettivo della legge è liberare il governo da ogni tipo di supervisione giudiziaria- ha affermato il giudice Vogelman -: questa è la verità”.
   Il giudice Amit ha espresso invece la convinzione che, più che la legge sulla ragionevolezza in se, ad essere un pericolo mortale per la democrazia è la riforma giudiziaria nel suo insieme. “La democrazia” ha affermato “sta morendo in una serie di piccoli passi”.
   Il punto più alto di tensione si è tuttavia raggiunto durante il discorso tenuto da Simcha Rothman, parlamentare di maggioranza e uno dei principali architetti della riforma. Come riportato dal ToI, il parlamentare “ha definito la Corte un’élite privilegiata e un regime oligarchico interessato esclusivamente a proteggere se stesso”.
“Quale sarebbe la giustificazione di negare la possibilità del popolo di esprimere la propria opinione e cambiare la legge, tramite libere elezioni?” ha chiesto.
   I giudici hanno accusato Rothman di sfruttare l’occasione per fare propaganda politica.
   “Che dovrebbe succedere se la Knesset improvvisamente decidesse che le elezioni si tengano ogni 10 anni,” ha ribattuto il giudice Anat Baron  “o di togliere agli Arabi il diritto di voto, o di proibire il viaggio durante lo Shabbat?”
   A questo Rothman ha risposto che, a differenza della Corte, se non piace un governo può essere sostituito tramite elezioni.
   La seduta non è risolutiva, e una decisione della Corte Suprema, se ci sarà, potrebbe richiedere ancora diversi mesi, ma ha fatto emergere con chiarezza spaccature e divergenze nella politica Israeliana che non riguardano solo contingenze contemporanee.

(Bet Magazine Mosaico, 13 settembre 2023)

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Lite tra Netanyahu e Ben-Gvir

"Tu, hai promesso al popolo di non cedere ai terroristi e hai promesso a me che attueremo questa politica!".

di Aviel Schneider 

Nella riunione del gabinetto di sicurezza di ieri c'è stato un altro botta e risposta tra il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Un battibecco intorno al tavolo del governo che incarna lo stato d'animo generale della popolazione. Il disaccordo inizia ai vertici del governo, soprattutto sulla questione della sicurezza.
  Ben-Gvir chiede che le restrizioni ordinate sui prigionieri palestinesi vengano applicate immediatamente. Questo contraddice i capi dell'establishment della difesa, che hanno tutti avvertito che le restrizioni richieste da Ben-Gvir porteranno a una pericolosa escalation durante le festività. Netanyahu ha dovuto decidere a chi dare ascolto. Ha deciso che le linee guida del ministro sarebbero state rinviate alla prossima riunione dopo le festività, cosa che ha indignato assolutamente Ben-Gvir. Quello che è successo nel gabinetto di sicurezza non riguarda solo la sicurezza durante le festività ebraiche di Rosh Hashanah, Yom Kippur e la festa dei Tabernacoli Sukkot. Simboleggia la profonda divisione tra il governo eletto e l'apparato di sicurezza israeliano. Due strategie e visioni del mondo diverse che non riescono ad accordarsi sul concetto di Israele, di sicurezza e di carattere.
  "Sono entrato in carica dopo che lei, signor Primo Ministro, mi ha promesso che la situazione dei prigionieri sarebbe cambiata", ha detto Ben-Gvir a Netanyahu. "Con tutto il rispetto per tutti i partiti professionali presenti, siamo stati eletti dal popolo per attuare le nostre politiche di destra". Tuttavia, Netanyahu ha insistito sul fatto che la questione sarebbe stata discussa dopo le festività. "Il problema è che anche dopo le feste, i capi della sicurezza professionale diranno la stessa cosa, che non è il momento giusto", si è lamentato Ben-Gvir in risposta. "Non c'è mai un momento giusto". Testimoni oculari hanno riferito che durante l'incontro si è gridato a profusione.
  Ben-Gvir ha detto a Netanyahu che non ha senso che i familiari possano visitare i terroristi arrestati nelle carceri israeliane. "Stiamo solo cedendo e non stiamo ottenendo più pace in cambio. Significa anche che non c'è deterrenza nelle carceri israeliane. Significa che non si può continuare così. Sono stato eletto per attuare una certa politica. Lei, Primo Ministro, ha promesso al popolo che non avrebbe ceduto ai terroristi nelle carceri, e mi ha promesso che avremmo attuato quella politica". Netanyahu ha ribadito: "No, la questione sarà discussa dopo le festività, non ora". "Signor Primo Ministro, basta con le scuse. Se non vuole attuare la politica che abbiamo promesso, allora venga a dirlo molto chiaramente. È sempre dopo le feste e dopo le prossime feste... e poi sta arrivando anche Hanukkah. Siamo arrivati a un punto in cui dobbiamo prendere una decisione". In seguito, il partito Otzma Yehudit ha avvertito che si sarebbe riunito oggi per valutare ulteriori passi del partito in risposta al rifiuto di Netanyahu.
  Ammettiamolo, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha in parte ragione. La strategia di sicurezza di Israele è rimasta bloccata nello stesso concetto dagli anni di Oslo. Israele non ha fatto alcun progresso effettivo di fronte al terrorismo palestinese e agli attacchi missilistici, anche dal sud del Libano. Secondo Ben-Gvir, Israele risponde solo con azioni di rappresaglia che non portano maggiore sicurezza. Ben-Gvir e i suoi partner della coalizione nazionalista di destra, tra cui Benjamin Netanyahu, hanno promesso ai loro elettori prima delle elezioni una strategia aggressiva e completa contro gli attacchi missilistici e il terrorismo. Ben-Gvir insiste su questo punto, ma Netanyahu neutralizza la politica di sicurezza di destra di Ben-Gvir perché il corpo di sicurezza di Israele ha un atteggiamento molto diverso da quest'ultimo. I capi della sicurezza temono che il ministro della sicurezza nazionale stia deliberatamente cercando di incendiare il Medio Oriente con ogni sorta di "idee folli", soprattutto durante le festività ebraiche.
  Per uscire da questa situazione di stallo, occorre rimescolare le carte nella regione e per questo, purtroppo spesso è necessaria una guerra sanguinosa. Ma l'attuale governo non ha il tempo o l'energia per farlo a causa di tutto il caos che regna nel Paese. Il popolo è totalmente diviso sulla controversa riforma legale e, da quello che abbiamo letto nei titoli dei giornali negli ultimi mesi, l'establishment della sicurezza non è molto contento del governo eletto. Per i nemici di Israele, ovviamente, Israele adesso è nella posizione migliore per essere  per attaccata.
  Nella situazione attuale, con la riforma giudiziaria e la divisione tra i cittadini, tutto è diventato ancora più difficile. Sebbene la coalizione al governo abbia una maggioranza completa di 64 voti in parlamento, non è in grado di attuare le sue politiche di destra. E questo fa infuriare il Ministro della Sicurezza Nazionale. La colpa è del suo primo ministro. Benjamin Netanyahu è noto per ritardare spesso tutto e non rispettare gli accordi promessi ai partner della coalizione. Quando la coalizione è stata formata quasi un anno fa, abbiamo continuato a dire che Benjamin Netanyahu è l'ala sinistra in questa coalizione ortodossa di destra, e questo continua a venire fuori. Il problema di tutta la faccenda è che, a causa del suo DNA, l'esercito di difesa israeliano non può agire come di solito si fa in ambito arabo. L'esercito israeliano è un esercito troppo umano rispetto agli eserciti arabi e il Ministro della Sicurezza Nazionale vuole cambiare un po' le cose. Ma il comitato di sicurezza israeliano si oppone. E questo ci riporta allo stesso punto su quali siano le vere riforme di legge da fare. Due schieramenti stanno lottando sul carattere di Israele e vedono la vita nel Paese in modo diverso. E questo viene fuori in continuazione - anche nelle varie riunioni di governo.

(Israel Heute, 13 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Oslo è stato un fallimento per Israele, ma un successo per l’Olp

Per i capi palestinesi, gli accordi di pace dovevano servire per rilanciare e rafforzare il terrorismo e l’hanno sempre detto apertamente: bisognava solo ascoltarli

di Itamar Marcus

Dalla firma, trent’anni fa, degli accordi di Oslo tra Israele e Olp, annunciati da leader israeliani e di tutto il mondo come una svolta epocale e l’inizio di un processo di pace, più di 2.000 israeliani sono stati assassinati in attentati terroristici palestinesi: in media, più di 60 ogni anno (a partire da Yigal Vaknin, pugnalato a morte in un frutteto accanto alla roulotte dove viveva, nei pressi del moshav Batzra, nel centro di Israele).
  Nei cinque anni successivi alla firma degli accordi di Oslo vennero uccisi da terroristi palestinesi più israeliani che nei 15 anni precedenti l’accordo: 279 uomini, donne e bambini tra il 1993 e il 1998 contro i 254 dei 15 anni precedenti. (Jerusalem Post, 8.9.23)
  Gli accordi di Oslo si sono tradotti in un trentennio di ininterrotto, spietato terrorismo palestinese sotto la guida della neo-formata Autorità Palestinese. Gli accordi resero possibili attentati suicidi, attentati con armi da fuoco, accoltellamenti, deliberati attacchi con veicoli ecc. Molti rimpiangono la pace perduta che pensavano fosse a portata di mano, e si domandano cosa abbia causato il fallimento del processo di pace di Oslo.
  La risposta è che, dal punto di vista palestinese, non fu affatto un fallimento. Negli accordi internazionali può accadere che la stessa cosa che una parte vede come un fallimento, sia vista dall’altra come un successo. Mentre il terrorismo reso possibile da Oslo ha trasformato quegli accordi in un tragico e totale fallimento agli occhi degli israeliani, per l’Olp quello stesso terrorismo è ciò che ne ha decretato il successo, perché quel terrorismo era esattamente uno degli obiettivi che si era prefissata la dirigenza palestinese al momento della firma.
  Non si tratta di una semplice congettura a posteriori. In realtà, sin dall’inizio i dirigenti dell’Autorità Palestinese hanno sempre dichiarato i loro obiettivi terroristici nel processo di Oslo. Ma i leader israeliani (e del resto del mondo) decisero sorprendentemente di credere a ciò che i capi dell’Autorità Palestinese dicevano loro in privato, anziché a ciò che proclamavano al loro popolo in pubblico.
  Una delle dichiarazioni più chiare secondo cui lo scopo di Oslo era quello di facilitare il terrorismo venne riportata da Palestine Media Watch pochi mesi prima che Arafat lanciasse l’intifada stragista del 2000, ed era stata enunciata da un ministro del governo dell’Autorità Palestinese. “Il popolo palestinese – disse Abd Al-Aziz Shahin, ministro per gli approvvigionamenti dell’Autorità Palestinese, riportato da Al-Ayyam il 30 maggio 2000 – ha accettato gli Accordi di Oslo come un primo passo, e non come una soluzione permanente, in base alla premessa che la guerra e la lotta sul territorio sono più efficaci di una lotta condotta da una terra lontana [la Tunisia]. Il popolo palestinese continuerà la rivoluzione finché non raggiungerà gli obiettivi della rivoluzione del ’65 [= la distruzione di Israele]”. Il ministro Shahin non avrebbe potuto essere più esplicito riguardo all’obiettivo di Oslo di incrementare e rafforzare il terrorismo. L’Olp incontrava difficoltà a dirigere il terrorismo dalla Tunisia (dove era allora relegata) e firmò gli accordi di Oslo col preciso intento di condurre il terrorismo contro gli israeliani “sul territorio”. Tutto ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni è racchiuso in quelle parole. Ma Israele e il mondo hanno preferito ignorarle.
  La promessa di ricorrere al terrorismo era stata espressa ripetutamente, anche nelle prime fasi del processo, dai massimi vertici dell’Autorità Palestinese. Già nel 1996 Nabil Sha’ath, capo negoziatore dell’Olp per gli accordi di Oslo, aveva garantito ai palestinesi che le armi fornite da Israele alla polizia dell’Autorità Palestinese sarebbero state puntate contro gli israeliani se questi non avessero ceduto a ogni singola richiesta palestinese. Una registrazione di Sha’ath che discuteva di strategia durante un incontro a porte chiuse venne divulgata da Palestine Media Watch il 15 gennaio 1996. “Questa è la strategia – diceva Sha’ath – Se e quando Israele dirà ‘basta’, vale a dire ‘non discuteremo di Gerusalemme, non faremo ritornare i profughi, non smantelleremo gli insediamenti, non ci ritireremo sulle frontiere [del 1967], allora torneremo alla violenza. Ma questa volta sarà con 30.000 soldati palestinesi armati e in una terra con elementi di libertà. Sono il primo a invocarla. Se arriveremo a una situazione di stallo, torneremo a combattere e lottare come abbiamo combattuto per quarant’anni e più”.
  Il fatto che l’obiettivo non fosse quello di raggiungere la pace con Israele venne esplicitamente affermato dallo stesso presidente dell’Olp Yassar Arafat pochi mesi dopo aver firmato gli accordi di Oslo, e poi ripetutamente da altri nell’arco di trent’anni. Arafat paragonò gli accordi di Oslo al noto trattato di pace di dieci anni di Hudaybiyyah che Maometto firmò con la tribù dei Quraish della Mecca quando era troppo debole per conquistarli. Due anni dopo, calpestò l’accordo e conquistò la Mecca. “Questo accordo [di Oslo] – disse Arafat in un discorso a Johannesburg del 10 maggio 1994 – non lo considero di più dell’accordo che venne firmato tra il nostro profeta Maometto e i Quraish”.
  Come mai Israele non ha voluto cogliere questi e numerosi altri segnali di allarme che venivano continuamente rivelati durante gli anni del processo di Oslo? Come mai i negoziatori israeliani presero per buone le promesse verbali dell’Olp senza esigere alcun passo concreto che ne dimostrasse la sincerità, pur sapendo che nel corso della storia l’inganno è stata spesso una strategia basilare per indebolire i nemici e attirarli in trappola? L’intramontabile forza del mito del cavallo di Troia basterebbe per ricordare quante volte nel corso della storia l’inganno di un falso gesto di pace è stato la chiave per prevalere in una guerra. Tuttavia, l’inganno di solito comporta creatività, strategia e pianificazione. Guardando ai trent’anni di incessante terrorismo promosso, glorificato e ricompensato dall’Autorità Palestinese, ciò che è scioccante nell’inganno di Oslo è che l’Olp, nel 1993 ancora considerata un’organizzazione terroristica, non ha avuto bisogno di fare nulla per ingannare gli entusiasti israeliani: non ha dovuto far altro che sedersi a un tavolo e firmare un pezzo di carta. Non c’è stato bisogno di nessun cavallo di Troia o false fughe di notizie o altre diavolerie per convincere gli israeliani che i terroristi dell’Olp erano cambiati. Non c’è stato un periodo di prova. Non c’è stato alcun tentativo di attendere che a un’intera generazione di giovani palestinesi, cresciuta nell’odio verso gli ebrei e Israele, venissero insegnati i valori della convivenza e della pace. Gli israeliani e i loro politici erano divorati dal desiderio di credere davvero che l’Olp non voleva più distruggere Israele. Il cavallo di Troia di Oslo ha avuto successo perché c’erano negoziatori e leader israeliani così bramosi di arrivare a un accordo di pace che hanno ignorato ogni cautela e si sono lasciati ingannare.
  Ciò che è scioccante è che c’erano tutte le prove che gli accordi di Oslo erano un inganno. Già nel 1996 Palestine Media Watch segnalava i messaggi di impegno verso il terrorismo rivolti dall’Autorità Palestinese alla propria popolazione. Nel 1997, Palestine Media Watch denunciava la promozione del terrorismo e del martirio dei minorenni da parte dell’Autorità Palestinese. Nel 1998, Palestine Media Watch documentava l’opera di indottrinamento all’odio e alla violenza attraverso i libri scolastici dell’Autorità Palestinese. L’Autorità Palestinese ripeteva alla sua gente che Haifa e Giaffa sono città palestinesi da liberare in più fasi, e si compiaceva apertamente all’idea che la polizia palestinese finisse per volgere le sue armi contro gli israeliani. In quegli anni, gli attentatori suicidi palestinesi stavano già compiendo stragi di innocenti sugli autobus e nei centri commerciali delle città israeliane. I governi israeliani avevano tutte le informazioni, ma si comportarono come giocatori d’azzardo che continuano a gettare più soldi nel piatto, rifiutandosi di ammettere l’errore e accettare la responsabilità d’aver trascinato Israele nella trappola mortale di Oslo.
  Quindi Oslo è stato un fallimento? Secondo i capi palestinesi, nient’affatto. Per lo stesso motivo per cui gli israeliani vedono Oslo come un fallimento – vale a dire, la continuazione incessante del terrorismo palestinese – i capi palestinesi vedono Oslo come un successo. Lo ha spiegato bene Ziyad Abu Ein, già vice ministro dell’Autorità Palestinese per gli affari dei prigionieri: “Oslo – ha detto alla tv iraniana Al-Alam il 6 luglio 2006 – è la serra efficace e potente che ha sostenuto la resistenza palestinese. Senza Oslo, non ci sarebbe mai stata resistenza. In tutti i territori occupati non potevamo spostare una sola pistola da un posto all’altro. Senza Oslo, e senza essere armati meditante Oslo, non saremmo stati in grado di creare questa grande intifada palestinese”.
  Gli ha fatto eco un altro dirigente, Sultan Abu Al-Einein, il membro del Comitato Centrale di Fatah noto per aver detto “Ovunque trovate un israeliano, tagliategli la gola”. Il 6 aprile 2009 Abu Al-Einein ha affermato alla tv Al-Quds: “Le armi usate contro il nemico israeliano a Gaza e in altri luoghi furono portate [dentro l’Autorità Palestinese] in conformità con gli Accordi [di Oslo]. Quando parliamo degli aspetti negativi degli Accordi di Oslo, dobbiamo considerare anche questi altri aspetti”.
  In sintesi, si può dire che gli accordi di Oslo sono stati un grande successo per l’Olp e un tragico fallimento per Israele. Ma c’è una verità ancora più profonda: il processo di pace immaginato e sognato dagli israeliani non è fallito, semplicemente non è mai esistito.
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(da Jerusalem Post, 7.9.23)

(Israele.net, 12 settembre 2023)


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Trent’anni fa gli accordi di Oslo e la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat: accese la speranza di pace in Medio Oriente

Il 13 settembre 1993 i leader israeliano e palestinese si fecero fotografare davanti alla Casa Bianca e l’immagine con Bill Clinton è una delle più iconiche del Novecento. La ricostruzione dei passi avanti. E di cosa è rimasto fermo.

di Enrico Franceschini

LONDRA – È una delle immagini che hanno segnato la storia del Ventesimo secolo: la stretta di mano fra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca, il 13 settembre 1993. Oggi, trent’anni più tardi, quel simbolico gesto di pace e di speranza non ha mantenuto le promesse: i palestinesi non hanno ancora uno Stato, il negoziato fra le due parti è sospeso, attacchi terroristici e pesanti risposte militari proseguono. Eppure, il Medio Oriente è profondamente cambiato da allora, il dialogo fra ebrei ed arabi si è moltiplicato e adesso una nuova mediazione americana resuscita speranze di un grande accordo. L’anniversario della stretta di mano fra Rabin e Arafat offre l’occasione per riesaminare le occasioni mancate, i conflitti nel frattempo intercorsi e gli scenari per il futuro. Ecco i capitoli più significativi.

• Gli antefatti
  Nel 1948 una risoluzione approvata dall’Onu propone di risolvere la guerra civile in corso da decenni fra arabi ed ebrei nella Palestina a lungo parte dell’Impero ottomano, diventata dopo la Prima guerra mondiale un protettorato dell’Impero britannico. Il piano prevede la creazione di due Stati, uno per i palestinesi, l’altro per gli ebrei, dividendo grosso modo a metà la Palestina britannica. Invece scatena una guerra: gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei, ma sono questi ultimi a prevalere. Nasce così lo Stato di Israele, in circa metà del territorio della Palestina britannica. Per i successivi vent’anni, l’altra metà diventa parte del regno di Giordania e dell’Egitto, che prendono rispettivamente il controllo di Cisgiordania e striscia di Gaza. Con la guerra dei Sei giorni, lanciata nel 1967 per prevenire un altro attacco congiunto arabo, Israele conquista anche Cisgiordania e Gaza, oltre all’intera Gerusalemme, alla penisola egiziana del Sinai e alle alture siriane del Golan.

• Il primo accordo
  Dopo la guerra del 1973, anch’essa lanciata dagli arabi e vinta da Israele, nel 1979 lo Stato ebraico e l’Egitto firmano un accordo di pace che restituisce la penisola del Sinai all’Egitto. Sospinti dalla mediazione del presidente americano Jimmy Carter, il premier israeliano Menachem Begin e il presidente egiziano Anwar el-Sadat si stringono la mano a Camp David, la residenza di campagna del capo della Casa Bianca. L’accordo comprende l’impegno israeliano ad aprire una trattativa per dare “un’autonomia” ai palestinesi. Ma nel 1981 Sadat viene assassinato al Cairo da un estremista egiziano contrario alla pace con gli ebrei e il negoziato si interrompe.

• Il “processo di Oslo”
  Nel 1991, dieci anni dopo l’assassinio di Sadat, il presidente repubblicano George H. Bush annuncia che è “ora di mettere fine al conflitto israeliano-palestinese”, uno dei maggiori motivi di tensione internazionale, contrassegnato da frequenti attentati terroristici, da raid militari e dal 1987 in poi dalla Prima Intifada, detta anche “la rivolta delle pietre”, un’insurrezione di giovani palestinesi contro l’esercito israeliano nei Territori Occupati. A tale fine Bush convoca una conferenza di pace a Madrid che non ha alcun esito concreto, ma dalla quale si sviluppa, due anni dopo, sotto la presidenza del democratico Bill Clinton, un negoziato segreto fra emissari delle due parti e mediatori americani. La trattativa si svolge in Norvegia per tenerla lontana da occhi indiscreti e per questo verrà poi soprannominata “il processo di Oslo”. Annunciata nel ’93 a Washington, l’intesa prevede la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, di fatto un governo palestinese presieduto da Arafat, con poteri amministrativi sui territori autonomi da esso controllati in Cisgiordania e a Gaza, dotato di una forza di sicurezza armata che collaborerà con Israele per combattere il terrorismo. Israele mantiene il controllo di ampia parte della Cisgiordania e di Gaza attraverso gli insediamenti ebraici che vi sono stati costruiti dalla vittoria nella guerra del ’67 in avanti e le postazioni dell’esercito erette per proteggere i coloni ebraici. L’obiettivo è creare entro 5 anni uno Stato palestinese, con modalità e confini da stabilire.

• La stretta di mano
  “Niente baci, mi raccomando”, dice il 13 settembre ’93 Rabin a Clinton, consapevole dell’abitudine di Arafat di baciare i suoi interlocutori. L’ex-generale, ex-comandante supremo delle forze israeliane ed eroe di molte guerre contro gli arabi, è riluttante a stringere la mano al leader palestinese, fino ad allora considerato il mandante di innumerevoli attacchi terroristici contro civili israeliani e contro obiettivi ebraici in tutto il mondo. Sul prato della Casa Bianca, Clinton, in mezzo ai due ospiti, allarga le braccia come per sospingerli a quel gesto così atteso, e le due mani si stringono. “Basta lacrime e sangue”, dice Rabin nel suo discorso. “La pace”, aggiunge come per giustificarsi davanti a coloro che sono contrari nel suo Paese, “si fa tra nemici, non tra amici”. Rabin, Arafat e il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, uno dei più convinti artefici dell’accordo, vincono il Nobel per la pace, come era successo a Begin e Sadat dopo la pace del ’79. E anche la Giordania firma un trattato di pace con Israele, secondo Paese arabo a riconoscere lo Stato ebraico dopo l’Egitto: a differenza dell’egiziano Sadat, il suo leader re Hussein non verrà assassinato per questo.

• L’assassinio di Rabin
  Ma il tempo degli assassini non è finito. Nel 1995, Rabin viene assassinato a Tel Aviv durante un comizio da un estremista israeliano che si oppone alla pace con i palestinesi: la stessa sorte toccata quattordici anni prima a Sadat sul fronte opposto. Alle successive elezioni diventa per la prima volta primo ministro il suo avversario politico, Benjamin Netanyahu. Il negoziato rallenta, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania aumentano, il terrorismo riprende con una lunga serie di attacchi suicidi, kamikaze palestinesi che si fanno esplodere in mezzo a una folla di civili ebrei. Si intensificano anche le rappresaglie israeliane che, pur con l’obiettivo dichiarato di colpire obiettivi militari, uccidono anche civili palestinesi.

• Gli accordi di Netanyahu
  Ciononostante, il dialogo non si ferma del tutto. Nel 1997 e nel 1998 Netanyahu firma con Arafat due accordi, per il ritiro israeliano da Hebron, la città della tomba di Abramo in Cisgiordania, sacra alle tre religioni monoteiste, e per l’adempimento di impegni presi da Rabin in precedenza, lasciando la porta aperta ad altri accordi. Fra scandali e passi falsi, come il tentato assassinio ad Amman, in Giordania, di un leader di Hamas, l’organizzazione fondamentalista palestinese, Netanyahu perde le elezioni e sembra intenzionato a lasciare la politica. Non sarà così.

• La nuova Camp David
  Nel 2000, quasi allo scadere del suo secondo mandato, Clinton prova a concludere il negoziato avviato nel ’93 da Rabin e Arafat con la storica stretta di mano alla Casa Bianca: il presidente invita un nuovo premier israeliano, Ehud Barak, laburista, ex-generale e pluridecorato eroe di guerra come Rabin, e Arafat, sempre presidente dell’Autorità Palestinese, a Camp David, luogo degli accordi del ’79 fra Begin e Sadat, per una maratona negoziale finale che dovrebbe risolvere tutte le dispute. In effetti le risolve quasi tutte: Barak è disposto a concedere ai palestinesi uno Stato nella quasi totalità della Cisgiordania e di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale e un controllo congiunto sui luoghi santi della Città Vecchia. Ma Arafat si impunta sul “diritto al ritorno”, la possibilità per tutti i profughi palestinesi ancora sparsi per il Medio Oriente fuggiti o espulsi da Israele nel 1948 (o per i loro discendenti) di tornare a vivere non nel nascente Stato palestinese bensì nello Stato ebraico, in teoria riprendendosi le case abbandonate mezzo secolo prima. Una concessione che Barak non può fare. “Accetti questo accordo”, dice ad Arafat l’ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington alla conclusione delle trattative, “o rimpiangerà per sempre di averlo rifiutato”. Arafat rifiuta. Barak perde le successive elezioni e scoppia la Seconda Intifada, a base di attentati suicidi non più di pietre: la scintilla che la accende è una provocatoria “passeggiata” alla Spianata delle Moschee, nella Città Vecchia di Gerusalemme, compiuta da Ariel Sharon, leader del Likud, il partito della destra israeliana. E di nuovo il negoziato si blocca.

• Trattative, guerre e accordi
  Proprio Sharon vince le elezioni e diventa il nuovo primo ministro israeliano. E’ un ex-generale decorato al valore nella guerra del 1973, poi giudicato moralmente responsabile delle stragi nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila a Beirut durante l’invasione del Libano nel 1981. Ma compie anche lui qualche mossa verso la pace. Ordina il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, smantellando tutti gli insediamenti ebraici. Prepara proposte per fare altrettanto in Cisgiordania, sia pure offrendo ad Arafat meno di quello che gli avrebbe offerto Barak. Poi però Sharon è colpito da un ictus ed esce di scena. Un suo successore, Ehud Olmert, prova a sua volta a negoziare con i palestinesi, con un piano molto simile a quello di Barak, secondo alcuni perfino più generoso: ma Olmert viene fermato da accuse di corruzione, che lo costringono a dimettersi. Intanto, dopo l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan e poi l’Iraq. Nel 2004 muore Arafat, sostituito da Mahmoud Abbas detto anche Abu Mazen, nuovo presidente dell’Autorità Palestinese. Cresce la minaccia di un Iran nucleare. La guerra in Iraq produce una nuova minaccia in Medio Oriente, l’Isis. Il conflitto israeliano-palestinese non ha più la preminenza nella diplomazia internazionale. Le iniziative degli Usa durante la presidenza di Barack Obama non fanno passi avanti. E in Israele torna al potere Netanyahu, avviato a diventare il premier più longevo nella storia del suo Paese, sospendendo del tutto il dialogo con i palestinesi, ora divisi tra la leadership laica di Abu Mazen in Cisgiordania, in linea di principio aperta al negoziato con Israele, e quella fondamentalista islamica di Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza e ufficialmente rifiuta di trattare con lo Stato ebraico.

• Gli accordi di Abramo
  È il presidente Trump a rilanciare la trattativa di pace, nel 2020, con un colpo sensazionale: dopo l’Egitto nel ’79 e la Giordania nel ’93, altri tre Paesi arabi firmano la pace con Israele. Sono gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco (a cui si aggiunge brevemente anche il Sudan, poi sconvolto dalla guerra civile). La posizione della maggioranza del mondo arabo nei confronti dello Stato ebraico era che prima Israele deve dare uno Stato ai palestinesi, poi eventualmente i Paesi arabi riconosceranno Israele. Donald Trump riesce a rovesciare il concetto: tre Paesi arabi fanno la pace con Israele, nella speranza che serva a spingere Israele a dare uno Stato ai palestinesi. Ma è una speranza che rimane vana, anzi viene messa in crisi dalle ripetute “guerre di Gaza”, come vengono chiamati i raid militari israeliani contro la Striscia, in risposta a lanci di razzi da parte di Hamas sul territorio israeliano.

• Il negoziato fra Israele e sauditi
  E a completare, anzi ad allargare, gli accordi di Abramo c’è ora sul tavolo il piano di Biden per la pace fra Israele e Arabia Saudita, il più potente Paese sunnita del Medio Oriente, simbolo dell’intero Islam con la Mecca. In cambio di aiuti americani a Riad, i sauditi riconoscerebbero Israele, che a sua volta dovrebbe fare concessioni ai palestinesi e riaprire il negoziato di pace con Abu Mazen. È un Grande Gioco, con un potenziale premio anche per Biden, che avrebbe un risultato internazionale di enorme prestigio da mostrare in vista delle presidenziali del novembre 2024. Ma se ci sono possibili vantaggi per tutti, ci sono anche colossali ostacoli, a cominciare dall’opposizione al piano dei ministri di estrema destra del governo Netanyahu. Qualche commentatore ipotizza che il premier israeliano sarebbe pronto a far cadere il proprio governo e provare a formare una diversa coalizione, in cambio di quella che lui stesso, il mese scorso, alludendo alla pace con l’Arabia Saudita, ha definito “una svolta storica”. Ma sono appunto ipotesi. Di certo c’è che il negoziato è in corso. Trent’anni dopo la stretta di mano fra Rabin e Arafat, israeliani e palestinesi aspettano di vedere dove porterà.

(la Repubblica, 13 settembre 2023)
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Questo articolo, che riportiamo per pura cronaca, è una ricostruzione faziosamente approssimata e falsificante dei passaggi che hanno portato all'attuale situazione di Israele in Medio Oriente. Invitiamo a consultare i Sette Punti elencati nel nostro sito e a prendere in considerazione l'articolo che precede di Itamar Marcus e l'articolo che segue di Ugo Volli.


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I trent’anni degli accordi di Oslo. Un ricordo che ancora oggi divide Israele

di Ugo Volli

La stagione degli accordi e la sua fine
  Esattamente trent’anni fa, il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca di Washington, fu firmato l’accordo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Erano presenti il presidente americano Bill Clinton, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il leader dell’OLP Yasser Arafat e il ministro degli Esteri russo Andrey Kozirev. L’accordo (in realtà una dichiarazione di principio che sarebbe stata poi concretizzata da tre successivi documenti nei due anni che seguirono) era stato negoziato segretamente a Oslo per Israele da un gruppo guidato da Shimon Peres (Rabin fu informato tardi e rimase a lungo perplesso) e venne approvato alla Knesset il 23 settembre con un voto di fiducia che raggiunse una maggioranza risicatissima: 61 voti su 120. Il centrodestra laico e la maggior parte dei religiosi si opposero alla ratifica di questo e degli accordi successivi firmati nel 1995 e approvati in un quadro parlamentare molto confuso, caratterizzato da scissioni, forzature e accuse di corruzioni. Ma vi era da parte della sinistra la convinzione di poter ottenere con quegli accordi il risultato storico della pace col mondo arabo: erano avanzate anche le trattative con Assad per una rinuncia israeliana al Golan in cambio di un trattato con la Siria.
   Questo momento di apertura negoziale si chiuse rapidamente, ma non tanto come si usa dire per l’omicidio di Rabin avvenuto il 4 novembre 1995 (giacché Rabin continuava ad avere forti perplessità sulla volontà araba di pace, come dichiarò nel suo ultimo discorso parlamentare) quanto per il fatto che il terrorismo palestinese non era affatto cessato con gli accordi, ma anzi era entrato in una nuova violentissima fase di omicidi di massa, come furono per esempio la strage della stazione degli autobus di Afula (6 aprile 1994, 8 vittime e 55 feriti), quella di Hedera una settimana dopo (6 uccisi e 30 feriti), di Via Dizenghof nel centro di Tel Aviv (19 ottobre 1994, 32 morti), l’attentato di Beit Lid (22 gennaio 1995, 22 assassinati) e tanti altri episodi omicidi a partire dai giorni stessi della ratifica di Oslo.
   Al pubblico israeliano quei crimini non bloccati né denunciati dalla dirigenza palestinese apparvero prove evidenti del doppio gioco dell’OLP, o almeno del fatto che la strategia della cessione di “territori in cambio di pace” non funzionava. E infatti nelle elezioni del 29 maggio 1996, nonostante il cordoglio per Rabin, Bibi Netanyahu sconfisse Shimon Peres che era stato il vero architetto degli accordi e proponeva di continuarli.
   Dopo d’allora, nonostante l’appoggio americano ed europeo, e alcuni lunghi cicli di trattative, i palestinesi non hanno fatto più passi verso la pace e si sono resi in sostanza protagonisti solo di svariate ondate terroriste; Israele ha invece negli ultimi anni costruito rapporti fruttuosi con diversi paesi arabi e musulmani, rompendo così e non con le trattative con i palestinesi, l’isolamento regionale di un tempo.

Attualità
  Vale la pena di ricordare questo anniversario non solo perché si tratta del più importante e controverso atto di politica internazionale mai intrapreso da Israele, ma anche perché esso costituisce una svolta nella politica israeliana che oggi è tornata in discussione. Alcuni dei protagonisti sono ancora presenti, Netanyahu innanzitutto ma anche Ehud Barak, che allora era capo di stato maggiore delle forze armate israeliane ed era come lui contrario agli accordi di Oslo, ma oggi è fra i principali ispiratori delle proteste contro Bibi; e c’è anche Aryeh Deri, allora come oggi a capo di Shaas, il partito religioso sefardita. Il presidente attuale di Israele, Yitzhak Herzog è il figlio di Chaim Herzog, che era presidente allora; Yair Lapid, leader dell’opposizione, è figlio di Tommy Lapid, che negli anni ‘90 era un personaggio televisivo importante e aderì al movimento laico Shinui, al tempo strettamente alleato di Meretz, il partito di sinistra che più di tutti appoggiava gli accordi.

Un momento politicamente decisivo
  Ma la ragione principale dell’attualità di questo anniversario è politica. Il governo Rabin/Peres fu l’ultimo momento di vera forza dello schieramento sociale basato sull’alleanza (quasi un’identità) fra il movimento di kibbutz, la centrale sindacale unica Histadrut e il movimento laburista, che aveva fondato e retto Israele fino agli anni Settanta. Questo schieramento. già messo in crisi alla fine degli anni 70 dalla problematica gestione della guerra del Kippur e dal fallimento della sua politica economica socialista, che aveva provocato una durissima iperinflazione, aveva scelto allora di caratterizzarsi progressivamente come “il campo della pace”, subendo però il freno dell’alternanza di governo con la destra. Oslo fu la grande scommessa di questa nuova identità della sinistra israeliana.
   Contemporaneamente a livello giuridico si sviluppava l’attivismo della Corte Suprema che con la presidenza di Aharon Barak si prese il compito di garantire anche contro le scelte dell’elettorato lo spirito originario, cioè laburista del paese, dandosi anche senza base legislativa alcuna il diritto di intervenire nelle scelte parlamentari e governative, per esempio annullando leggi, nomine e regolamenti che trovava “irragionevoli”.
   Dopo quel momento per trent’anni non vi è più stata più una maggioranza politica di sinistra nel Paese, anche se Ehud Barak nel 1999 divenne primo ministro di un governo molto composito in cui erano determinanti i partiti religiosi, che durò solo un anno e mezzo, cadendo anch’esso sul fallimento dei negoziati con i palestinesi. Oggi per la prima volta il blocco sociale che scommise la propria identità e perse trent’anni fa a Oslo, appare in grado di riproporre un’egemonia. Al di là delle etichette, non si tratta più di un movimento socialista: come in tutto il mondo anche in Israele i ceti popolari sono piuttosto orientati a destra e nel movimento antigovernativo confluiscono piuttosto le élites economiche e professionali; ma esso si caratterizza innanzitutto come la difesa di quel nucleo giudiziario e burocratico guidato dalla corte suprema che conserva le posizioni ideologiche del passato. È poi prevalentemente askenazita, laico e spesso violentemente antireligioso, fortemente influenzato da quel che resta del “campo della pace”, opposto quindi tanto ai sionisti religiosi che ai charedim, ardentemente voglioso di rivincita contro quel Bibi Netanyahu che sconfisse la sinistra nel ‘96 ed è stato poi la guida del blocco di centrodestra (aperto a religiosi, nazionalisti, liberisti) che ha guidato Israele con grande successo negli ultimi vent’anni e più.
   Ricordare Oslo e i conflitti che provocò allora può dunque anche servire a capire meglio quel che accade in Israele in questi mesi.

(Shalom, 13 settembre 2023)

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Israele autorizza trasferimenti di armi all'Autorità Palestinese: "Fake news", secondo Netanyahu

Le parole del Primo Ministro arrivano dopo una grande controversia all'interno del governo su un presunto trasferimento di armi dagli Stati Uniti all'AP.

È scoppiata una grande polemica all'interno del governo sulla presunta approvazione da parte di Israele di un trasferimento di armi alle forze dell'Autorità Palestinese, tra cui armi letali, blindati e apparecchiature di cyberspionaggio. Il dibattito è scoppiato sul gruppo Whatsapp dei ministri mercoledì mattina, con alcuni di loro che hanno denunciato l'iniziativa come suicida per il Paese.
   "Non date loro armi che potrebbero rivoltarsi contro di noi", ha scritto il ministro Orit Struck, membro del Sionismo religioso. Il ministro del Likud Amichai Shikli ha deplorato "la mancanza di discussione all'interno del gabinetto prima dell'approvazione di tali misure". Mentre il capo di gabinetto del Primo Ministro, Yossi Fuchs, ha reagito scrivendo che "tali questioni sono di esclusiva responsabilità del gabinetto e non del gruppo WhatsApp", il ministro Amichai Eliyahu di Forza Ebraica ha replicato: "Questa questione non è solo una questione di gabinetto. Riguarda anche il modo in cui tutti noi dormiremo la notte".
   Anche il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha reagito prontamente, sostenendo che questo trasferimento di armi sta preparando la strada per una futura coalizione con Benny Gantz, descritta come "Oslo II" dal leader di Forza ebraica. "Se intendete combattere per un governo Oslo II, informate il vostro ministro e l'opinione pubblica e noi agiremo di conseguenza", ha dichiarato Itamar Ben Gvir.
   Queste reazioni hanno spinto il Primo Ministro e il Ministro della Difesa a prendere la parola per smentire l'esistenza di un tale accordo sul trasferimento di armi, sostenendo che non si trattava altro che di voci e "fake news". "Non c'è limite alle fake news, quindi ecco i fatti: da quando questo governo si è insediato, non ha trasferito una sola arma, nemmeno una, all'Autorità Palestinese. Quello che abbiamo fatto è stato attuare una decisione presa dal ministro della Difesa Benny Gantz durante il governo Bennett-Lapid nel gennaio 2022 di trasferire un certo numero di veicoli blindati per sostituirne altri diventati obsoleti. Nessun veicolo blindato, carro armato o kalashnikov sarà fornito all'AP. Bisogna saper smascherare le bugie", ha dichiarato Benjamin Netanyahu in un video.
   La polemica è scoppiata il giorno dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato il trasferimento di una dozzina di veicoli blindati alle forze di sicurezza palestinesi con l'approvazione di Israele, e in seguito alle affermazioni di un corrispondente della radio militare israeliana secondo cui la spedizione americana conteneva anche 1.500 armi, tra cui fucili M-16, puntatori laser e fucili Kalashnikov.

(i24, 13 settembre 2023)

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Israele scommette sull’autunno per tornare ai numeri del 2019

Con la prospettiva di concludere il 2023 allineati con i numeri pre-pandemia Israele accende i riflettori sulle attrattive della stagione autunnale, «periodo quanto mai ideale per visitare la destinazione» sottolinea Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano per il turismo in Italia.
   Proprio in vista dei mesi di ottobre e novembre «la domanda dall’Italia si conferma elevata, ben prima quindi del tradizionale periodo di punta di Natale. Ed è anche più conveniente, sia per il clima meno caldo sia per la media dei prezzi. E i collegamenti aerei tra i due Paesi sono sempre numerosi, circa un centinaio alla settimana».
   L’Italia si conferma «il sesto mercato più importante a livello mondiale per Israele e contiamo di tornare presto ai numeri del 2019 quando i visitatori italiani erano stati circa 190.000».
   Intanto, non mancano le novità: «A Tel Aviv è operativa la prima linea della metro, una novità assoluta per la città e il Paese, che consente di raggiungere il centro dall’aeroporto in soli 15 minuti; e poi arriva direttamente al mare di Jaffa. Spostandoci a Gerusalemme, spicca la riapertura del Museo della Torre di Davide, totalmente rinnovato nella parte delle esposizioni permanenti e accessibile a tutti
   Prossimo appuntamento con il trade «che incoraggio una volta di vedere questa destinazione così ricca di esperienze e possibilità», sarà in fiera Rimini il prossimo ottobre: «Al Ttg saremo presenti con uno stand di cui ho curato personalmente il design, insieme a dieci co-espositori tra cui sette dmc, due catene alberghiere e naturalmente El Al».

(Travel Quotidiano, 13 settembre 2023)

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"Il Messia nelle Scritture" - 18° Raduno Nazionale di Edipi

Dopo l'interruzione di tre anni dovuta al coronavirus, i Raduni Nazionali di Evangelici d'Italia per Israele riprendono quest'anno in Aversa (Caserta) nei giorni 6-8 ottobre 2023.
Locandina

(Edipi, 13 settembre 2023)

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Florida: neonazisti in marcia davanti a Disney World

La stretta all’antisemitismo del governatore DeSantis

di Pietro Baragiola

Sabato 2 settembre, un gruppo composto da neonazisti e suprematisti bianchi ha manifestato davanti al parco di Disney World in Florida. L’ADL (Anti-Defamation League) ha riconosciuto nella manifestazione diversi membri delle organizzazioni Order of the Black Sun ed Aryan Freedom Network che hanno marciato sventolando bandiere e simboli antisemiti. Nonostante la manifestazione sia stata condannata aspramente dagli ufficiali di polizia locali, non è stato effettuato alcun arresto per non violare il diritto di manifestare riconosciuto dal Primo Emendamento.
   L’America ha visto una crescita esponenziale degli incidenti legati all’antisemitismo ma tutt’ora le sue leggi sono risultate inefficaci per combattere adeguatamente il problema. Per questo motivo il governatore della Florida, Ron DeSantis (nella foto in alto), ha appena firmato una legislazione mirata a proibire ogni tipo di azione legata ai crimini d’odio.
   “È la più forte legge sull’antisemitismo degli Stati Uniti” ha dichiarato il deputato Randy Fine al settimanale The Algemeiner, spiegando che questa nuova riforma sarà indispensabile in Florida, dove vive una consistente parte della comunità ebraica americana e gli episodi di antisemitismo sono aumentati del 300% dal 2012.

• L’antisemitismo negli Stati Uniti
   Negli ultimi anni, in America, i crimini d’odio hanno raggiunto numeri estremamente preoccupanti. Secondo un report registrato dall’ADL, il 2022 è stato l’anno con il numero più alto di attività antisemite da quando l’organizzazione ebraica ha iniziato a registrarle nel 1979: 3697 incidenti rispetto ai 2717 del 2021. La maggior parte di queste attività (circa 2.300) erano molestie, più di 1200 erano atti di vandalismo e 111 aggressioni fisiche.
   Tra gli episodi più agghiaccianti: la storia di Juniper Russo costretta a togliere la figlia ebrea da una scuola del Tennessee avendo scoperto che l’insegnante usava frasi ignobili sugli ebrei per avvicinare al cristianesimo gli studenti di altre religioni; episodi di molotov lanciate contro una sinagoga nel New Jersey; minacce di morte rivolte al sindaco ebreo di Surfside, in Florida.

(Bet Magazine Mosaico, 13 settembre 2023)

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Israele - La Corte suprema esamina i ricorsi contro la riforma giudiziaria

La nuova Legge Fondamentale approvata nelle scorse settimane della Knesset riduce il potere proprio dei massimi giudici di far ricorso alla «clausola di ragionevolezza» sui provvedimenti e le nomine del governo.

di Michele Giorgio

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GERUSALEMME - Giornata decisiva oggi in Israele per il ruolo della Corte suprema e per il progetto di riforma giudiziaria avviato dal governo. Tutti e 15 massimi giudici israeliani prenderanno in esame i ricorsi contro la nuova Legge Fondamentale approvata dalla Knesset nelle scorse settimane che riduce la facoltà proprio della Corte suprema di far ricorso alla «clausola di ragionevolezza» riguardo a provvedimenti dei governi che favoriscono corruzione, nepotismo e la scelta di persone con gravi precedenti penali per l’incarico di ministro.
In sostanza, la Corte dovrà decidere se è legittimo ridurre i suoi poteri di controllo. I media locali parlano dello scontro più «catastrofico» a livello istituzionale mai visto nella storia del paese. In aula ci saranno da un lato i rappresentanti di organismi di controllo e di organizzazioni della società civile intenzionati a fermare quello che definiscono «un danno mortale alla democrazia israeliana».
Dall’altro lato il governo che sostiene che la Corte non abbia diritto di veto sulle modifiche alle Leggi Fondamentali. Il «Movimento per un governo di qualità», che ha presentato uno dei ricorsi, sostiene che la nuova legge sulla ragionevolezza conferisce al governo un «potere illimitato».

(il manifesto, 12 settembre 2023)


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Netanyahu vs Corte Suprema: in discussione l'assalto alla democrazia

SI esamineranno i ricorsi presentati contro la controversa riforma giudiziaria del governo di Netanyahu.

Si riunirà a breve a Gerusalemme la Corte Suprema israeliana in una seduta storica per affrontare uno dei punti maggiori della controversa riforma giudiziaria del governo di destra di Benyamin Netanyahu.
   I 15 giudici togati - diretti dalla presidente Esther Hayut - dovranno esaminare i ricorsi presentati contro la legge che ha modificato la cosiddetta "clausola di ragionevolezza", ovvero la facoltà della stessa Corte nel respingere, in base a quel principio, atti della Knesset, del premier, dei ministri.
   Ad esempio la Corte costrinse Netanyahu a ritirare la nomina del leader religioso Aryeh Deri - alleato chiave del premier - a ministro degli interni in quanto ne giudicò "irragionevole" la designazione a causa delle ripetute condanne per reati fiscali. La legge - che ha intaccato il potere della Corte - è considerata dagli oppositori della riforma uno dei punti chiave dell'assalto alla democrazia israeliana.
   La Corte non diffonderà subito la sua decisione che potrebbe essere annunciata tra settimane o anche mesi ma l'andamento della seduta potrà rivelare verso quale scelta andrà l'Assise. In questi ultimi giorni si sono susseguite - sotto l'egida del presidente dello stato Isaac Herzog - le riunioni tra maggioranza e opposizione per arrivare ad una mediazione che smini il contrasto mentre da 8 mesi vede manifestazioni di protesta in piazza contro la riforma e la spaccatura della società israeliana. Il ministro della giustizia Yariv Levin - uno degli architetti della riforma giudiziaria - ha attaccato la seduta della Corte definendola "uno schiaffo alla democrazia". Chi difende il provvedimento ritiene infatti che quella votata dalla Knesset sia una "legge di base" che la Corte non può sindacare. Opposto invece il giudizio di chi contrasta l'operato del Governo.

(tio.ch, 12 settembre 2023)

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Continuità criminosa

di David Elber

La recente andata di omicidi che ha colpito le comunità arabe di Israele ha causato nel solo 2023 (dati aggiornati ai primi di settembre) oltre 170 morti.
  Questa ondata di omicidi legata alla criminalità organizzata, alle faide familiari e claniche, ai “delitti d’onore”, ha raggiunto un punto tale da allarmare l’opinione pubblica e i mass media israeliani. Se confrontiamo le cifre, fornite dalla ONG Abraham Initiatives, dell’anno in corso (171 morti) con quelle degli anni passati: 2022 (116 morti); 2021 (126); 2020 (96); 2019 (89); 2018 (71), si può notare un notevole incremento di vittime nel corso di questi ultimi anni. 
  Purtroppo uno studio serio e articolato su questo fenomeno è difficile da reperire nei mass media, che preferiscono – come troppo spesso accade – strumentalizzare questo fenomeno per attaccare il governo di turno, accusandolo di non fare abbastanza per le comunità arabe giudicate sempre afflitte da endemica povertà, marginalizzazione e poca considerazione all’interno della società israeliana. Oppure si assiste ad autentici deliri antisemiti come quelli espressi nei media dell’Autorità Palestinese. Così si può leggere, come riportato in un articolo di Stephen M. Flatow apparso su JNS che per il quotidiano dell’Autorità Palestinese AlHayat AlJadida, l’ondata di omicidi è stata causata dal governo israeliano che ha deliberatamente “spostato le organizzazioni criminali fuori dalle città ebraiche e le ha impiantate nella società araba” come parte di un complotto volto a “sottomettere la forza di volontà araba a questa politica”.
  Sullo stesso quotidiano, riporta ancora Flatow, l’editorialista Omar Hilmi al-Ghoul (già alto consigliere del primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad) ha sostenuto che “le uccisioni di arabi israeliani, sono collegate al fatto che lo Stato di Israele è stato istituito allo scopo di trucidare e distruggere indiscriminatamente i membri del popolo arabo palestinese al fine di derubare la terra, la storia e la narrativa araba palestinese”.
  La prima considerazione da fare, a proposito di questo conato di antisemitismo, è che nessuno al Dipartimento di Stato americano, che finanzia lautamente la banda di cleptocrati antisemiti palestinesi, ha protestato o chiesto spiegazioni, così come non l’ha fatto il governo di Israele o l’opposizione.
  Proveremo, qui, in estrema sintesi, a capire se il fenomeno delle uccisioni nelle comunità arabe è causato, come sostiene Omar Hilmi al-Ghoul, “dallo Stato di Israele allo scopo di trucidare e distruggere indiscriminatamente i membri del popolo arabo palestinese” oppure è un fenomeno ben radicato nella società tribale e clanica degli arabi. Per questa brevissima indagine partiremo dal 1800, in pieno periodo di dominio ottomano – quando la presenza ebraica era ancora estremamente minoritaria – e quando le fonti a disposizione erano già numerose e affidabili.   
  Nel suo ricchissimo testo The Claim of Dispossession, il ricercatore Arie Avneri, ci fornisce dati e circostanze che hanno portato l’area, che oggi è Israele e nell’800 era una provincia ottomana, ad essere quasi spopolata proprio a causa delle lotte, delle razzie e degli omicidi tra i clan arabi sia nomadi che stanziali. Così viene riportato, ad esempio, che le lotte tra i villaggi delle famiglie Qais e Yaman andavano avanti da così tanti secoli che nessun componente delle due famiglie si ricordava il perché delle faide. Però questo modus vivendi perdurava da secoli ed era il vero ostacolo ad ogni possibilità di sviluppo. Nell’area attorno a Nablus le famiglie Ab del-Hadi (pro-egiziana) e Tuqan (pro-turca) diedero vita a scontri e saccheggi che durarono decenni e provocarono numerose decine di vittime da ambo le parti. Queste, e numerose altre faide ogni tanto venivano contrastate dalle autorità turche che cercavano di ripristinare un minimo di ordine. Un funzionario britannico, Stewart Macalister, nel riportare al proprio governo le azioni dei turchi volte al ripristino dell’ordine pubblico, riferì che furono consegnate al governatore turco, in una sola circostanza, “una pila composta da 350 teste, numerosissime mani e orecchie mozzate” per ottenere la ricompensa promessa dal funzionario turco e porre fine all’illegalità e alla violenza così diffuse. Sempre Macalister, nel riferire della faida in corso tra i Qais e gli Yaman, scrive che un esponente della famiglia Qais gli riferì dell’uccisione di 295 membri della famiglia rivale in una sola grande battaglia.
  Anche se si considera questo numero come un’esagerazione, sicuramente i morti furono parecchi e le battaglie tra le due famiglie numerose. Tenendo conto che la popolazione araba era meno di un di un quinto di quella attuale si può comprendere l’entità degli scontri e delle uccisioni che furono enormemente superiori a quelle attuali. Appare interessante un resoconto fornito dal Console britannico, James Finn, che nel 1853 di ritorno a Gerusalemme da Nazareth, passò dal villaggio di Huwara (lo stesso dei recenti episodi di criminalità dove sono morti anche dei civili israeliani) e si imbatté in una autentica battaglia tra clan di diversi villaggi per il controllo di quella importante strada della Samaria. Come si può notare oltre alle dinamiche anche i villaggi, ora come allora, sono gli stessi.
  Più avanti nel suo testo, Avneri scrive delle guerre tra villaggi sul monte Carmelo che, nel corso dell’800, furono così cruente  da fare sì che l’intera area risultasse praticamente priva di popolazione per decenni. Nel 1840 si contavano ancora 40 villaggi mentre nel censimento del 1863 risultavano abitati solo due villaggi drusi: Isfiya e Daliat el-Carmel.
  A queste faide tra villaggi vanno aggiunte le razzie e gli omicidi compiuti dalle popolazioni nomadi beduine che scorrazzavano in lungo e il largo dal Neghev alla Galilea senza che le autorità turche riuscissero a porvi rimedio. Questi scontri tra villaggi e razzie compiute dai beduini oltre che causare morti e feriti furono la causa del mancato sviluppo di intere aree agricole, in quanto causavano la distruzione sistematica degli alberi di ulivo, delle viti, dei campi coltivati e il furto di tutto quanto poteva essere trasportato (bestiame e i pochi mezzi agricoli). Solo raramente le autorità turche intervenivano e ponevano fine a questi conflitti endemici. La stessa “modalità” fu utilizzata, dagli arabi, nei confronti dei villaggi e degli insediamenti ebraici sparsi per il territorio. L’arrivo della Prima guerra mondiale portò un decremento delle ruberie e degli omicidi a causa della massiccia presenza di truppe turche e inglesi.
  La situazione in generale migliorò con l’instaurazione dell’amministrazione britannica che assunse il controllo del territorio mandatario. Nonostante il grande sviluppo economico e civile avvenuto con l’insediamento dell’amministrazione britannica, l’antico problema delle faide tribali non scomparve ma si ripresentò nel corso dei decenni in maniera più o meno intensa in diverse aree del paese. Benché la presenza dell’amministrazione britannica e soprattutto dell’esercito fosse molto più capillare sul territorio rispetto a quella turca, il fenomeno della criminalità e delle faide tribali tra le comunità arabe non fu mai fermato ma continuò per tutta la durata del mandato britannico. In particolare si fece molto acceso durante la rivolta araba del 1936-39.
  Durante questi anni alla criminalità organizzata e alle lotte familiari si aggiunsero bande armate di arabi che provenivano dalla Transgiordania e dalla Siria per combattere “ufficialmente” contro gli inglesi ma di fatto iniziarono a taglieggiare, depredare e uccidere, in molte occasioni, arabi locali poco inclini a subire le vessazioni imposte da queste bande armate provenienti dai paesi limitrofi.  
  La situazione migliorò con la nascita dello Stato di Israele a partire dal 1948, per due ragioni, per il forte decremento della popolazione araba causato dalla guerra civile e per il controllo più capillare operato dalla forze di sicurezza israeliane nei primi anni di vita dello Stato ebraico. Le cose mutarono dopo la guerra del ’67 e la riconquista di Giudea e Samaria con il conseguente incremento della popolazione araba. La stipula degli Accordi di Oslo nel 1993 non ha migliorato la situazione, anzi, nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese sono peggiorati drasticamente soprattutto per la popolazione arabo-cristiana ormai ridotta al lumicino a causa di soprusi e taglieggiamenti.  
  Come si può ben intuire da quanto sopra riportato, il problema degli omicidi e della criminalità clanica è sempre stato ben diffuso e radicato nelle comunità arabe presenti sul territorio. Gli omicidi sono solo la punta dell’iceberg là dove taglieggiamenti, intimidazioni, soprusi e omertà sono la parte più consistente del problema.
  Con la nascita dello Stato di Israele questo fenomeno è stato per decenni contenuto, ora è riemerso semplicemente perché c’è una maggiore possibilità di acquistare illegalmente delle armi (soprattutto nelle aree amministrate dall’Autorità Palestinese in Samaria). Il governo di Israele su questo aspetto, oltre che sugli enormi patrimoni “sospetti” di numerosi capi clan, può e deve intervenire più radicalmente, mentre pensare ad un repentino cambiamento di mentalità e di costumi è illusorio, trattandosi di un lungo e difficile processo che richiederà generazioni. 

(L'informale, 12 settembre 2023)

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A Berlino si apre una mostra sugli ebrei nella DDR

di Marina Gersony

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Il Jüdisches Museum Berlin, il Museo Ebraico di Berlino, ha inaugurato una mostra temporanea intitolata Ein anderes Land (Un altro paese)) che offre una prospettiva inedita sulle esperienze degli ebrei nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Questa mostra rappresenta un notevole traguardo nella storia e nella cultura, poiché conduce il visitatore in un affascinante viaggio di ricerca documentaria attraverso un capitolo poco esplorato della storia ebraico-tedesca. Questa esperienza unica fonde abilmente le arti visive, il cinema, la letteratura e varie biografie, offrendo inedite esposizioni che catturano l’essenza di questa narrazione.
   Dall’8 settembre al 14 gennaio, la mostra racconterà l’esperienza ebraica nella regione tedesca attraverso oggetti personali di testimoni contemporanei e dei loro discendenti. Questi oggetti narrano le loro storie, permettendo così di comprendere le molteplici prospettive individuali degli ebrei in DDR.
   La realizzazione dell’evento è stata preceduta da un appello affinché il Museo Ebraico ricevesse oggetti personali e memorie legate alla DDR, fondata nel 1949. Il team di curatori, noto per la sua precedente grande mostra permanente sul dopoguerra, ha scoperto che c’erano lacune nella narrazione storica ebraica. Dopo la Seconda guerra mondiale, nella zona di occupazione sovietica vivevano circa 3.500 ebrei. Alcuni di loro vedevano la Germania solo come una tappa verso la Palestina o gli Stati Uniti, mentre molti altri sceglievano consapevolmente di tornare in Germania con l’obiettivo di contribuire alla creazione di una nuova società.
   Tamar Lewinsky, una delle curatrici, ha sottolineato che questa mostra adotta un approccio estremamente soggettivo, mettendo in primo piano le voci dei protagonisti. L’obiettivo è creare una prospettiva multipla e mostrare come le diverse generazioni abbiano interpretato gli eventi nella DDR.
   La domanda fondamentale che attraversa l’iniziativa è: cosa significava essere ebreo ai tempi della DDR? Quali motivazioni spingevano gli ebrei a tornare? Come si sviluppava il loro rapporto con l’ordine statale?
   Hetty Berg, la direttrice del museo, ha sottolineato che le storie raccontate in questa mostra offrono molteplici prospettive sulla vita degli ebrei in DDR. Alcuni erano fuggiti dalla Germania nazista e tornavano nella zona sovietica dopo la guerra, mentre altri erano sopravvissuti ai campi di concentramento o all’era nazista nascondendosi. Molti di loro avevano sperato di costruire uno Stato libero e antifascista con la DDR dopo lo shock della guerra. Nella DDR, le attività religiose erano generalmente indesiderate e viste con sospetto, e la sicurezza dell’ebraismo aveva luogo altrove sotto il socialismo.
   La mostra esplora anche eventi storici e politici come l’agitazione anti-israeliana durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’espatrio del cantautore Wolf Biermann nel 1976, eventi che hanno richiesto reazioni da parte degli ebrei.
   Un servizio online offre dodici brevi interviste che mostrano le diverse prospettive ebraiche sulla vita e sul sistema politico nella DDR. In conclusione, questa mostra unica e affascinante offre un’opportunità unica e straordinaria per esplorare la complessità dell’esperienza ebraica nella DDR e le molteplici sfaccettature di questa storia poco conosciuta.

(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2023)


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Disapprovati ed emarginati: gli ebrei nella DDR

di Annette Leo

La storia degli ebrei nella DDR non inizia con la fondazione dello Stato, il 7 ottobre 1949, ma già nel maggio 1945 si delineano le tappe della successiva divisione in Est e Ovest, della guerra fredda, delle purghe staliniane e delle condizioni di vita degli ebrei nell'Est. Allo stesso tempo, in questi anni ci sono stati gli inizi di un diverso corso della storia, altre possibilità che non si sono realizzate.

• Dopo la Seconda guerra mondiale e la Shoah
  Un gruppo estremamente eterogeneo di ebrei sopravvissuti si riunì dopo la fine della guerra e delle persecuzioni sia in territorio sovietico che nelle altre tre zone di occupazione del Paese distruttore e smembrato. Erano stati liberati dai campi di sterminio, avevano combattuto negli eserciti degli Alleati o erano tornati dall'esilio, erano sopravvissuti in clandestinità o erano stati protetti dai loro coniugi non ebrei. Alcuni di loro in un primo tempo consideravano il loro soggiorno in Germania solo come una tappa nel loro viaggio verso la Palestina o gli Stati Uniti. Molti altri sono tornati in Germania deliberatamente perché speravano di contribuire alla formazione di una nuova società.
   Un’importante destinazione e un punto di snodo per il ritorno e l'afflusso di sopravvissuti e migranti fu Berlino, amministrata dalle quattro potenze occupanti. La Comunità ebraica di Berlino, appena costituita, aveva sede nel settore sovietico di Oranienburger Straße. Il suo primo presidente provvisorio, Erich Nelhans, apparteneva al gruppo in quel tempo dominante all'interno della comunità, che non considerava più possibile la vita ebraica in Germania dopo la Shoah e sosteneva il trasferimento in Palestina e la creazione di uno Stato ebraico.
   Nelhans si occupò anche dei sopravvissuti all'Olocausto provenienti dall'Europa orientale, decine di migliaia dei quali si rifugiarono in Occidente per sfuggire all'antisemitismo polacco del dopoguerra. Molti di loro si presentarono alla comunità ebraica nel settore sovietico di Berlino, da dove venivano inoltrati ai settori americano e francese, dove erano stati allestiti campi per sfollati. Nelhans fu preso di mira dai servizi segreti sovietici dopo aver aiutato i soldati ebrei dell'Armata Rossa a fuggire in Occidente. Fu arrestato nel suo appartamento di Berlino Est nel marzo 1948 e condannato da un tribunale militare sovietico a 25 anni di lager. Morì a DubrawLag nel 1950.
   Già nell'estate e nell'autunno del 1945 si formarono comunità ebraiche in molte altre città della Zona di occupazione sovietica (SBZ). La maggior parte di esse fu avviata da ebrei che erano stati salvati dalla deportazione dai loro coniugi non ebrei. Nelle settimane e nei mesi successivi si aggiunsero i sopravvissuti dei campi e dei ghetti, i rifugiati dell'Europa orientale e coloro che erano usciti dalla clandestinità. Il numero di membri di queste prime congregazioni a Lipsia e Zwickau, Dresda, Chemnitz, Erfurt e Magdeburgo crebbe rapidamente all'inizio, e a un ritmo simile diminuì più tardi dal 1949. Le congregazioni più piccole, come Plauen, Mühlhausen, Eisenach e Jena, si sciolsero tra il 1948 e il 1953.

• Nuovo inizio
  Il tentativo di riavviare un nuovo inizio di vita ebraica avvenne in condizioni contraddittorie. L'amministrazione militare sovietica e la maggior parte dei governi regionali appoggiarono la ricostituzione delle comunità e si adoperarono per fornire ai rimpatriati e agli immigrati sopravvissuti i beni di prima necessità (un tetto sopra la testa, vestiti, assistenza sanitaria e razioni alimentari supplementari), mentre l'antisemitismo rimase virulento nella popolazione e nelle autorità locali.
   Per gestire il sostegno ai loro membri, i rappresentanti delle comunità lavorarono a stretto contatto con i Comitati locali per le vittime del fascismo (OdF). Nei comitati OdF, la maggior parte dei quali era stata fondata da prigionieri politici liberati dal carcere, nell'estate del 1945 c'era stata inizialmente una certa resistenza a riconoscere i sopravvissuti all'Olocausto come "vittime del fascismo", con la motivazione che essi avevano sì "sofferto delle difficoltà, ma non avevano combattuto”. Solo pochi mesi dopo, nell'ottobre del 1945, questo atteggiamento fu corretto alla riunione di Lipsia dei comitati OdF di tutte le parti della SBZ. Il cambiamento di opinione fu dovuto principalmente all'impegno di Julius Meyer e Heinz Galinski, che fondarono il dipartimento "Vittime della legislazione di Norimberga" nel Comitato principale dell'OdF di Berlino. Un aiuto urgente per i sopravvissuti venne anche dal "Joint Distribution Committee" (chiamato Joint in breve), un'organizzazione ebraico-americana di aiuti le cui donazioni alimentari e gli aiuti furono distribuiti attraverso le comunità ebraiche, dal 1947 anche nella SBZ.
   Nel 1947/48, in tutte e quattro le zone di occupazione fu fondata la VVN (Vereinigung der Verfolgten des Nazi­regimes  - Associazione dei perseguitati del regime nazista), che inizialmente si considerava un rappresentante apartitico degli interessi di tutti i perseguitati. Gli ebrei vittime della persecuzione nazista costituivano un gruppo numeroso tra i membri dell'associazione, e a Berlino erano addirittura la maggioranza. Anche se la distinzione tra "combattenti" e "vittime" rimase un punto di contesa all'interno della VVN, la cooperazione tra la VVN e le comunità ebraiche inizialmente funzionò bene, non da ultimo perché i principali rappresentanti delle comunità ebraiche spesso ricoprivano anche incarichi nell'associazione.

• Guerra fredda
  Già nel 1948, la possibilità di un'azione congiunta delle quattro potenze occupanti in Germania per superare l'eredità nazionalsocialista era visibilmente passata. La guerra fredda e la fondazione della BRD e della DDR stabilirono nuove priorità nella politica delle potenze, che fecero crollare le già fragili alleanze antifasciste.
   Mentre la VVN nella Repubblica Federale fu classificata nel 1950 come "organizzazione radicale"  e controllata dall'Ufficio per la protezione della Costituzione, l'organizzazione nella DDR ebbe un grande peso politico e morale fino al suo scioglimento forzato nel 1953: la VVN orientale forniva membri al Parlamento, manteneva centri di cura, pubblicava diverse riviste e aveva una casa editrice di libri. Tra le altre cose, influenzò la stesura di una legge sul risarcimento. Questa conteneva clausole per un regime pensionistico speciale, assistenza sanitaria preferenziale, fornitura preferenziale di alloggi e spazi commerciali, beni domestici e beni di consumo scarsi, ma nessuna clausola per la restituzione delle proprietà saccheggiate o per un risarcimento materiale.
   L'inizialmente presupposta apartiticità della VVN rimase presto solo sulla carta. A partire dal 1948, la SED acquisì gradualmente il controllo degli organi direttivi dell'associazione e iniziò a subordinare le sue attività al nuovo pensiero amico-nemico della Guerra Fredda.

• Il processo Slánský e le sue conseguenze
  Al più tardi dalla fine del 1952, con il processo staliniano a Rudolf Slánský a Praga, che aveva una chiara sfumatura antisemita, gli ebrei della DDR erano sottoposti a una doppia pressione: da un lato, dovevano difendersi dalla continua e persino crescente ostilità di ampi settori della popolazione; dall'altro, erano esposti all'antisemitismo staliniano proveniente dall'Unione Sovietica.
   Dopo che nel 1953 Julius Meyer, membro della SED e presidente dell'Associazione delle comunità ebraiche della DDR, fu invitato a consegnare, nel corso di interrogatori davanti alla Commissione di controllo sovietica e alla Commissione di controllo della SED, gli elenchi dei destinatari dei pacchi comuni e a convincere l'organizzazione ombrello a prendere pubblicamente le distanze dai comuni e a condannare il sionismo, Meyer si recò a Lipsia, Dresda ed Erfurt per avvertire i principali rappresentanti delle comunità della DDR delle imminenti persecuzioni. Günter Singer, Helmut Salo Looser, Leo Löwenkopf, Fritz Grunsfeld e Leo Eisenstädt fuggirono a Berlino Ovest lo stesso giorno. Altri membri della comunità li seguirono. In un'atmosfera di agitazione antisemita nei media e sotto l'impressione di perquisizioni della polizia negli uffici della comunità e di misure arbitrarie da parte delle autorità locali contro le vittime riconosciute della persecuzione, l'ondata di fughe continuò nell'autunno del 1953.
   Anche i funzionari di partito e di Stato di origine ebraica che non avevano contatti con la comunità furono colpiti dai sospetti e dalle persecuzioni.

• Disintegrazione delle comunità
  Gli eventi dal 1948 al 1953 e le loro conseguenze condizionarono la vita degli ebrei nella DDR fino al 1989. La maggior parte delle congregazioni aveva perso i propri leader e mancava di rabbini, cantori e guide della preghiera. Il numero dei loro membri era diminuito drasticamente, non solo a causa dei movimenti di fuga. Molti membri della SED avevano lasciato la comunità religiosa per paura di rappresaglie. A Berlino, la comunità si è infine divisa in una parte orientale e una occidentale. Dopo la morte di Stalin, non ci furono più persecuzioni antisemite mirate, ma le accuse e i sospetti espressi non furono mai ufficialmente ritirati e continuarono a vivere in modo subliminale, come paura da un lato e risentimento dall'altro.
   Con lo scioglimento forzato dell'Associazione dei perseguitati del regime nazista, al cui posto il Comitato centrale della SED insediò un "Comitato dei combattenti della resistenza antifascista", gli ebrei sopravvissuti, come molti altri gruppi perseguitati, non avevano più una voce politica. Le comunità ebraiche non erano in grado di colmare questa lacuna; erano essenzialmente limitate alla pratica del culto religioso.
   A causa del numero esiguo dei loro membri, ma soprattutto a causa del fallimento dei risarcimenti, le comunità ebraiche erano completamente dipendenti finanziariamente dai fondi statali.

• La memoria politica nella DDR
  Fino a circa la metà degli anni '80, il tema della persecuzione e dell'assassinio degli ebrei ha avuto un ruolo minore nelle cerimonie ufficiali di commemorazione; la resistenza comunista era al centro della politica commemorativa dello Stato. Tuttavia, i crimini nazionalsocialisti nei campi di concentramento e di sterminio non erano un argomento tabù. Nei libri di testo scolastici comparivano foto delle pile di cadaveri di Bergen-Belsen, si nominavano gli omicidi di massa nelle camere a gas, ma in gran parte senza affrontare il contesto antisemita. Le vittime venivano generalmente indicate come "prigionieri di tutti i Paesi d'Europa" o venivano attribuite in modo altrettanto generalizzato alla resistenza.

(Jüdisches Museum Berlin, 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Dal Tevere a Ostia, alla scoperta di un’altra Roma ebraica

di Daniele Toscano

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La presenza degli ebrei a Roma si riconduce solitamente alle due sponde del Tevere che si trovano nei pressi dell’Isola Tiberina: l’area del Portico d’Ottavia, dove tra il 1555 e il 1870 gli ebrei furono rinchiusi nel ghetto e dove tutt’ora sorge il Tempio Maggiore, e il quartiere di Trastevere, dove sono accertati stanziamenti precedenti, almeno dal Medioevo. Ma la bimillenaria presenza degli ebrei nella Capitale si lega anche a tante altre aree della città: proprio per ampliare questi orizzonti, in occasione della 24esima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, la Comunità di Roma ha realizzato una serie di iniziative, come quella che ha portato un centinaio di persone a Ostia antica, punto di riferimento culturale e commerciale in epoca romana dove gli ebrei erano presenti e pienamente integrati.
   Per arrivare al cosiddetto “mare di Roma” è stato proposto un mezzo particolare, un battello sul Tevere, che dall’imbarco di Ponte Marconi ha navigato per 40 km di fiume fino al parco archeologico ostiense. Una scelta non casuale: il Tevere, infatti, come ha spiegato Gabriella Yael Franzone dell’Archivio Storico della Comunità, ha rappresentato nei secoli la principale rotta su cui viaggiavano le merci destinate al commercio ed è stato crocevia strategico per le comunicazioni, divenendo punto di riferimento anche per la componente ebraica presente in città dal II secolo a.e.v.
   La gita ha permesso sin dalle sue prime fasi di scoprire una Roma diversa, vista dal livello del fiume. Sono stati così apprezzati flora e fauna che caratterizzano tutto il percorso, con anguille, cefali, aironi cenerini, tartarughe, cormorani. Ma è stato possibile anche scoprire il ruolo del Tevere nella storia, con gli antichi romani che lo risalivano con le chiatte trainate dai buoi in un percorso che dal porto di Ostia a quello di Ripa Grande (a Porta Portese) durava tre giorni.
   Poi l’arrivo al Parco Archeologico di Ostia antica, con alcuni rappresentati della Comunità pronti ad accogliere i visitatori d’eccezione.
   “La Giornata della Cultura ci permette di valorizzare concetti come la bellezza e la conoscenza, che rappresentano strumenti fondamentali per combattere l’ignoranza, il pregiudizio, l’antisemitismo, e ci consentono di mostrare al mondo la cultura e le tradizioni ebraiche e di raccontare il contributo fondamentale che l'ebraismo ha dato all'Italia” ha sottolineato l’Assessore alla Memoria Daniele Regard.
   Il significato della tappa ad Ostia antica è stato spiegato da Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità. “Ostia antica con la sua sinagoga rappresenta il centro dell’ebraismo che si rifonda dopo la fine del Tempio di Gerusalemme, distrutto dall’imperatore Tito nel 70”.
   “Quella di Ostia antica è la più antica sinagoga del Mediterraneo occidentale – ha illustrato Alessandro D’Alessio, Direttore del Parco Archeologico – Non è l’unica testimonianza di questa presenza: vi è infatti anche un ricco patrimonio epigrafico della comunità ostiense, che arricchisce di dettagli e testimonia con forza la più antica presenza ebraica in Italia”.
   Il folto gruppo è dunque partito nel peculiare tour, contraddistinto dalle spiegazioni della storica dell’arte Sara Procaccia alternate alle performance di attori e cantanti del Teatro Mobile. Tra i canti di Evelina Meghnagi e le letture di passi biblici e di storici come Giuseppe Flavio, è così stato possibile scoprire come a Ostia per secoli si sia costituito un ebraismo integrato, forte, libero, legato alle dinamiche socioeconomiche della città ma deciso nel preservare il proprio culto e le proprie tradizioni. Da questa volontà infatti sorse la sinagoga, costruita nella prima metà del I secolo d.e.v., poi modificata e ampliata fino al III-IV secolo: un edificio complesso, dove vi erano anche sale di studio, bagno rituale, forno per le azzime di Pesach che oggi possono ancora essere identificati. Significativo anche il fatto che sorgesse in un punto strategico, nei pressi di dove in passato arrivava il mare e quindi le principali rotte commerciali, ma anche nel cuore dello stesso parco archeologico, non lontano dalle varie corporazioni.
   Girando tra ruderi e reperti si respira il carattere di Ostia antica, dove vi sono anche i resti di diversi luoghi di culto: la dimostrazione del melting pot che caratterizzava la cittadina.
   Al termine di questa lunga passeggiata si può tornare sul battello e ripercorrere il Tevere in direzione della sorgente: c’è un po’ di fatica per il caldo estivo della giornata, ma soprattutto un grande entusiasmo per la consapevolezza di una storia ebraico-romana più ampia di quanto si pensasse e con ancora altre potenzialità da esplorare.

(Shalom, 12 settembre 2023)

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Netanyahu: Dio non ha sempre protetto gli Ebrei in Ucraina

di Mauro W. Giannini

Ha suscitato scalpore in Israele l'affermazione di Benjamin Netanyahu secondo cui Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Ucraina.
   "Dio non ci ha sempre protetto, soprattutto in Europa", ha detto domenica il primo ministro mettendo in guardia gli ebrei dal rischio per la sicurezza derivante dal pellegrinaggio annuale alle tombe dei rabbini chassidici durante Rosh Hashanah, il capodanno ebraico.
   Il primo ministro, rivolgendosi a coloro che intendono fare un pellegrinaggio a Uman, in Ucraina, per Rosh Hashanah, ha cercato di sottolineare i potenziali pericoli del viaggio. "I cittadini israeliani che viaggiano in Ucraina devono assumersi la responsabilità personale. Non ci sono garanzie lì", ha affermato.
   Ha poi espresso la parte controversa delle sue osservazioni, "Storicamente, Dio non ci ha sempre protetto, soprattutto in Europa e Ucraina", che ha scatenato una reazione significativa da parte delle comunità religiose in Israele. Queste hanno affermato che Dio ha invece sempre protetto il popolo ebraico.
   Quello che tuttavia interessa altri osservatori è il richiamo alle persecuzioni ebraiche in Ucraina durante il nazismo. Infatti fra il 1941 e il 1944 in Ucraina l'Olocausto consistette nello sterminio di massa di circa 1,6 milioni di ebrei che vivevano in Unione Sovietica ad opera della Germania nazista e con la forte partecipazione dei collaborazionisti ucraini. La maggior parte degli ebrei sovietici prima della seconda guerra mondiale viveva nella cosiddetta "Zona di residenza", di cui l'Ucraina era la parte più grande.
   Il più famigerato massacro di ebrei in Ucraina avvenne nel burrone di Babi Yar nei pressi di Kiev, dove 33.771 ebrei furono uccisi in un'unica operazione il 29 e 30 settembre 1941. Nelle settimane successive furono uccisi anche da 100 000 a 150 000 cittadini sovietici.
   I nazionalisti dell'Esercito insurrezionale ucraino (UPA) si offrirono volontari per assistere la Wehrmacht. In totale, i tedeschi arruolarono 250.000 nativi ucraini. Entro la fine del 1942, solo nel Reichskommissariat Ukraine, le SS impiegavano 238 000 ucraini e solo 15 000 tedeschi, un rapporto da 1 a 16. Quindi il contributo attivo ucraino all'olocausto fu innegabile.
   Questi riferimenti storici sono importanti in un momento in cui, causa la guerra in Ucraina e l'origine ebraica di Zelensky, Israele ha preso posizioni controverse a riguardo di Kiev. La dichiarazione di Netanyahu costringe anche l'Occidente a ricordare un passato che si vuole cancellato per convenienza politica e che invece non è estraneo a quello che sta accadendo oggi.

(Osservatorio sulla legalita' e sui diritti, 11 settembre 2023)

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"Bibi è stato scortese con Dio"

"I tedeschi sono stati fermati nel loro tentativo di conquistare la terra dai miracoli di Dio e non dai sionisti".

di Aviel Schneider 

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La tempesta sulla protezione di Dio continua a tuonare. Quando ieri il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito gli ebrei religiosi di non recarsi in Ucraina, sottolineando che "Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Europa", ha irritato i suoi partner di coalizione ebrei ultraortodossi. Il leader della fazione ultraortodossa United Torah Party, Israel Eichler, ha risposto all'avvertimento di Netanyahu incolpando gli ebrei laici e sionisti del popolo. "Sono stati questi ebrei a far deragliare i piani di salvataggio degli ebrei europei durante l'Olocausto e a umiliare gli ebrei nei ghetti". Nei media, tutto scoppia tra politica, Dio e Israele. Quando si mette in discussione il potere di Dio, si tratta di blasfemia o di maleducazione? I media mainstream israeliani, di sinistra, di destra e sionisti, in questo caso si oppongono alle parole e alla posizione degli ebrei ultraortodossi del Paese.
   Secondo Eichler, gli ebrei della diaspora hanno sempre vissuto in relativa pace e tranquillità e solo in Israele il sangue ebraico viene versato come acqua. A ciò si aggiunge l'assimilazione del regime laico. Il vicepresidente della Knesset ha aggiunto: "Per più di un secolo, il Dio di Israele ha salvato la terra di Israele dagli idoli del potere e della cattiva cultura, nonché dall'assimilazione dei governi secolari". Con questo, ovviamente, Eichler intende i governi laici e sionisti del Paese, che non avevano una vera rappresentanza in Parlamento, soprattutto negli anni pionieristici della politica. "Non sono stati i sionisti e i partigiani a impedire l'Olocausto in Israele, ma l'Onnipotente", ha sottolineato Eichler. "I tedeschi sono stati fermati sulla via della conquista della terra dai miracoli di Dio e non dai sionisti".
   Le sue parole hanno scatenato le ire dei parlamentari della Knesset di entrambi gli schieramenti politici. "Un'assurdità antisionista. Un testo malato e razzista. Ci vergogniamo di quello che ha scritto". Anche all'interno della coalizione, il ministro dell'Istruzione Yoav Kish ha criticato Eichler in un tweet, dicendo: "Come nipote del brigadiere Kish, che ha combattuto contro i nazisti, come sionista, come ebreo e come soldato delle Forze di Difesa di Israele che ha combattuto contro il nostro nemico, mi vergogno delle cose che hai scritto".
   Aryeh Ehrlich, editore della popolare rivista ortodossa Mishpacha (Famiglia), ha twittato: "Ogni volta che il capo del campo religioso apre la bocca per parlare contro queste eresie oltraggiose, e questa volta contro una dichiarazione ufficiale del Primo Ministro, l'intera teoria del dolce Israele crolla come un castello di carte. Non dovremmo rispettare Bibi quando parla in modo così sacrilego, vile e maleducato contro Dio", ha aggiunto Ehrlich in tutta onestà.
   In un altro tweet, Ehrlich ha affermato che il messaggio degli ultraortodossi è chiaro: "La fedeltà a Dio è più forte dell'adorazione di Bibi. Netanyahu? Bibi non è un idolo". Un altro giornalista ortodosso, Yossi Elituv, ha twittato:
   "Benjamin Netanyahu, non c'è vergogna nel chiedere scusa. Tra l'altro, un ebreo che indossa di tanto in tanto i tefillin (cinturini da preghiera ebraici) non sarebbe caduto in una simile eresia. Può ancora pentirsi".
   Il punto è sempre lo stesso: fino a che punto l'attività di Dio è visibile nella politica di Israele? Se Dio fa tutto, qual è il ruolo dei politici israeliani nel parlamento di Gerusalemme? In questo caso, possono stare seduti passivamente sulle loro sedie in plenaria, girandosi i pollici, conservando le energie e semplicemente non facendo nulla. Dio ha il controllo. Questo è il modo in cui gli ebrei ortodossi del Paese la vedono per la maggior parte. Quante discussioni ho avuto al riguardo con amici e colleghi ortodossi, persino nella mia famiglia allargata. La fiducia in Dio è enorme, ma sempre passiva. Questa è la differenza tra due visioni del mondo tra il popolo ebraico. Coloro che hanno praticamente attuato la promessa di Dio nella Bibbia sono stati gli ebrei laici e sionisti, che spesso non credevano in Dio come Israel Eichler. Ma erano attivi e attuavano la fede, mentre gli ebrei ortodossi come Eichler hanno sempre creduto che lo Stato ebraico di Israele sarebbe apparso con la venuta del Messia e dal cielo. Per questo motivo erano passivi e lo sono ancora oggi, pensando che tutto si risolverà da solo, sia in politica che in prima linea e nelle guerre di Israele. Nella prossima rivista affronteremo questo tema, perché è la questione che riguarda il popolo d'Israele e che è sempre stata una pietra d'inciampo per il popolo ebraico.
   Dio è sempre presente, ma per vedere la sua potenza il suo popolo deve credere attivamente in lui. C'è un pericolo reale nel volare a Uman in Ucraina in questo momento solo perché la gente è abituata a farlo ogni anno. I partner ortodossi della coalizione di Netanyahu insistono affinché a migliaia di persone sia permesso di volare lì durante il capodanno ebraico di Rosh Hashanah, a prescindere dal rischio. Ciò che Bibi ha detto ai suoi colleghi della coalizione è semplice e in altre parole ha semplicemente detto: "Non tenterete Dio". Questo ha fatto arrabbiare i fratelli e le sorelle ortodossi del popolo e ha sollevato nuovamente la questione di chi sia il portavoce di Dio. Cosa è più vero, le parole di Bibi "Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Europa" o le parole di Ehrlich, "Non dovremmo rispettare Bibi quando parla in modo così sacrilego, vile e maleducato contro Dio"?
   È attorno a questo asse che ruota, in un certo senso, l'intera disputa sulla riforma giudiziaria nel Paese. Due visioni del mondo che vedono l'opera di Dio nella terra in modo diverso e che hanno sempre impegnato il popolo d'Israele in ogni generazione. Non è facile per il popolo, ma forse questo è uno dei modi o dei trucchi con cui Dio continua a far sì che il popolo non si dimentichi di Lui. In quale altra nazione sulla terra Dio gioca così spesso un ruolo nella politica? Questo tema coinvolge il popolo della nazione e lo fa riflettere sempre di nuovo sull'opera di Dio nella nostra vita, e questa è la cosa più importante.

(Israel Heute, 11 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele ha un ruolo chiave nel corridoio Indo Mediterraneo. L’analisi della Fdd

Il ruolo di Israele è centrale nel progetto Indo Mediterraneo dell’Imec. La Foundation for Defense of Democracies analizza come i processi di normalizzazione Gerusalemme-Riad, i rapporti Modi-Biden, e la stabilità mediorientale pesano sull’iniziativa lanciata al G20

di Ferruccio Michelin

Il 9 settembre, i leader mondiali hanno svelato gli ambiziosi piani per una rotta ferroviaria e marittima che si estenderebbe dall’India attraverso la penisola arabica fino a Israele. L’iniziativa, nota come “Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa”, che su Formiche.net definiamo “Indo Mediterraneo”, è stata presentata durante il vertice del G20 ospitato a Nuova Delhi e ha ricevuto l’approvazione dell’amministrazione Biden. I suoi obiettivi principali includono la razionalizzazione degli scambi commerciali, la facilitazione del trasporto di risorse energetiche e il potenziamento della connettività digitale.
   Sebbene l’attuazione del progetto sia ancora lontana nel tempo, esso rappresenta un’alternativa via terra al trasporto marittimo attraverso il Golfo e il Canale di Suez. Il piano prevede una rete ferroviaria completa che trasporterà le merci dall’Asia, passando per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Giordania, fino a raggiungere Israele. I porti israeliani del Mediterraneo svolgeranno poi un ruolo centrale nell’inoltro di queste merci verso l’Europa. Sul progetto sarebbe un valore aggiunto la normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e Riad — ma potrebbero essere anche le opere stesse, vettore di collegamenti, a dare il loro contributo nel favorire il processo.
   “Il presidente Joe Biden è saggio a collaborare con il primo ministro Narendra Modi per sfruttare l’ondata di crescita economica indiana a vantaggio dei Paesi del Medio Oriente allineati con gli interessi degli Stati Uniti. In un periodo di crescenti sabotaggi orchestrati dall’Iran contro le navi del Golfo, di crescente influenza regionale cinese e di occasionali ma costosi incidenti nel Canale di Suez, questo piano dimostra che le potenze mondiali stanno pensando ad alternative”,’spiega Mark Dubowitz, ceo della Foundation for Defense of Democracies (Fdd).
   “Basta con la ‘One Belt One Road’ (uno dei nomi con cui viene chiamata la Nuova Via della Seta, ndr) Questa importante iniziativa prende spunto dal manuale cinese, ma rafforza anche gli importanti progressi compiuti dai Paesi del Medio Oriente verso la normalizzazione. Israele sarà un importante punto di snodo per questo vasto progetto con gli Stati arabi della regione. Ma non meno importante è la partecipazione dell’India, un Paese che si rivelerà indispensabile nella competizione americana con la Cina, aggiunge Jonathan Schanzer, vicepresidente senior di Fdd.
   Il think tank neocon americano ha sempre un occhio di riguardo alle attività israeliane, e in effetti in questo caso il ruolo di Gerusalemme è cruciale. Senza il porto di Haifa integrato nel progetto sarebbe impossibile ricongiungere la porzione di corridoio India-Medio Oriente con quella verso l’Europa (dove l’Italia gioca la sua partita per farsi ricettore degli scali).
   “Un accordo a tre tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele sarebbe fondamentale per la regione e per la sicurezza americana. Sarebbe un importante contrasto all’influenza cinese e iraniana in Medio Oriente. Ma non dovrebbe avere il prezzo di dare il via libera alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, come ha fatto un precedente accordo dell’amministrazione Obama con l’accordo nucleare iraniano del 2015”, commenta Richard Goldberg, consulente senior della Fdd.

(Formiche.net, 11 settembre 2023)

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La terra trema ancora e Israele invia soccorsi in Marocco

di Michelle Zarfati

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Dopo il devastante terremoto che venerdì ha colpito il Marocco uccidendo oltre duemila persone, Israele ha deciso di inviare una delegazione di aiuti dell'esercito. Il terremoto di magnitudo 6.8, il più grande a colpire il Paese nordafricano negli ultimi 120 anni, ha spinto moltissime persone a fuggire dalle loro case nel terrore. La potente scossa sismica ha abbattuto muri fatti di pietra, coprendo intere comunità di macerie e lasciando i residenti in condizioni molto difficili. Il Marocco ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.
   Il ministero degli Esteri ha inoltre inviato una squadra a Rabat per aiutare gli israeliani che necessitavano di assistenza dopo la forte scossa sismica: è infatti emerso che 479 cittadini israeliani si trovassero in quel momento nel Paese. Sebbene non ci siano state segnalazioni di vittime israeliane durante il terremoto, Israele ha assicurato piena disponibilità per un sostegno umanitario nelle zone terremotate. Il console israeliano a Rabat, Dorit Avidani, sabato sera si è subito recato verso l'area di Marrakech, fortemente colpita, per avere un quadro completo della situazione.
   La ONG di emergenza israeliana IsraAID ha rivelato sabato di essere pronta a unirsi agli sforzi di soccorso in Marocco e ha pianificato di inviare una delegazione con aiuti a Marrakech e nell'area.
   Nella giornata di sabato, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato a "tutti i ministeri e le forze di fornire assistenza necessaria al popolo marocchino, compresa la pianificazione di inviare una delegazione di aiuti nella zona", ha scritto il Premier in una dichiarazione. Che proseguiva dicendo “Il popolo di Israele tende le mani ai nostri amici, il popolo del Marocco, in questo momento difficile e prega per il loro benessere. Aiuteremo in ogni modo possibile.”
   Israele è leader mondiale nelle operazioni di ricerca e soccorso e nel corso degli anni ha spesso inviato delegazioni di assistenza durante i terremoti, anche in Turchia, Messico e Haiti.
   Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dialogato con la sua controparte marocchina Abdellatif Loudiyi. “Una parte significativa degli accordi di Abramo prevede il nostro impegno a stare accanto ai Paesi amici durante le crisi nazionali. Lo Stato di Israele è pronto ad assistere il Marocco in questo momento difficile", ha detto Gallant in una dichiarazione.
   Nel frattempo, il Ministero della Salute ha inviato una delegazione di medici e infermieri, che porteranno in Marocco le attrezzature sanitarie necessarie. In una serie di post in ebraico, francese e inglese, anche il presidente Isaac Herzog ha espresso la sua vicinanza al Marocco. "I nostri cuori sono con il popolo marocchino", ha scritto su Twitter.

(Shalom, 11 settembre 2023)

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Capo del Mossad: Siamo preoccupati che la Russia possa fornire all’Iran armi contro Israele

Sullo sfondo dei crescenti legami militari ed economici tra Mosca e Teheran, il capo dell’intelligence israeliana, il Mossad, ha espresso serie preoccupazioni circa le potenziali spedizioni di armi avanzate dalla Russia all’Iran.
"Siamo venuti a conoscenza dei piani di Teheran di esportare missili a corto e lungo raggio. Siamo profondamente preoccupati per la possibilità che la Federazione Russa possa fornire all'Iran soluzioni tecnologiche e armi che diventerebbero una vera minaccia per la sicurezza di Israele"., ha detto il capo del Mossad.
Queste dichiarazioni si inseriscono nel contesto di una crescente cooperazione tra Russia e Iran in vari campi, compresa la cooperazione tecnico-militare. Per Israele, che da tempo vede nell’Iran uno dei suoi principali oppositori nella regione, tali azioni destano particolare preoccupazione.

(AVIA.PRO, 11 settembre 2023)

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La cultura ebraica ha donato all’Italia la bellezza

La lettera del ministro della Cultura a Repubblica

di Gennaro Sangiuliano

Il ministro Sangiuliano alla sinagoga di Firenze per la Giornata della Cultura Ebraica
Caro direttore, ieri a Firenze, nello splendido contesto della Sinagoga, e in altre cento città italiane, abbiamo celebrato la Giornata europea della cultura ebraica. È stata l’occasione per riflettere sullo straordinario concorso che la tradizione ebraica ha dato all’intera cultura italiana. L’Ebraismo, con la sua ricchezza, non solo è parte fondante della nostra cultura, ma ne aiuta a definire il carattere.
Quest’anno per la Giornata organizzata dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, è stato scelto un tema ambizioso e denso, quello della Bellezza, una nozione ampia e articolata che assume soprattutto una dimensione spirituale e tocca il cuore e l’intelligenza delle persone. Nel definire una nozione di bellezza, bisogna fare i conti con Gerusalemme, perché è alla cultura ebraica e alla sua sapienza millenaria che dobbiamo rivolgerci per aprire la nostra anima alla trascendenza.
   Nella tradizione ebraica, la bellezza è una costante di tutti i comportamenti religiosi e della vita ordinaria; l’opera d’arte è la vita stessa in cui ogni relazione, con Dio e con il prossimo, ha una sua estetica, un peculiare senso del bello non fine a se stesso, ma sempre abitato da questa relazione fondamentale con Dio e la sua presenza: nel culto e nella cura degli oggetti liturgici, negli abiti sacerdotali e nelle architetture delle sinagoghe, nella cura del corpo e della sua salute, nella preghiera e nel canto, nelle relazioni di amore e di amicizia, nella morale privata e pubblica.
   Nell’Ebraismo è molto presente il concetto di “abbellire il precetto”, l’“hiddur mitzvah”, l’adempiere a un precetto in un modo bello, in modo estetico. È una idea che si basa su un passo del Talmud del trattato di Shabbat (133b), in cui si discute su un versetto dell’Esodo (15, 2): «È stato insegnato: “Questo è il mio Dio e io lo abbellirò”». Sempre nel Talmud troviamo: «Renditi bello di fronte a Lui quando esegui i precetti: fai una bella capanna, fai un bello shofar, un bel talleth, un bel Sefer Torà, scrivilo con un bell’inchiostro, con una bella penna, fallo scrivere da uno scriba esperto e rivestilo con bella seta».
   È questo lo spirito che pervade la cultura ebraica e che in Italia ha trovato un patrimonio culturale in cui sentirsi a casa e del quale essere parte integrante, con i propri riti, la propria religione e la propria storia. Il contributo ebraico al patrimonio culturale italiano è enorme e per questo, come ministro della Cultura, ritengo mio preciso compito lavorare alla sua tutela e valorizzazione.
   Vi è, innanzitutto, un dovere della memoria dell’Olocausto, per il quale il governo ha proposto e finanziato l’istituzione del museo della Shoah a Roma (il ddl è stato approvato, per ora, al Senato all’unanimità), e ha realizzato, in poche settimane, raccogliendo l’invito della Senatrice Liliana Segre, una segnaletica storica al Binario 21 della stazione di Milano.
   Ma credo sia anche necessario proteggere e riportare al loro splendore originale i segni della millenaria presenza ebraica in Italia. Stiamo, perciò, intervenendo per la riqualificazione della Sinagoga di Milano e per il completamento del restauro delle sinagoghe di Venezia. E, ancora, intendiamo sostenere il recupero, nel Mezzogiorno d’Italia, del patrimonio ebraico, ricchissimo e ingiustamente dimenticato.
   L’identità di un popolo e di una nazione sono decisivi: più si è saldi nella propria identità meglio si può dialogare pacificamente con gli altri. L’identità italiana è la risultante di tanti affluenti dal mondo greco-romano in poi, tra questi l’Ebraismo, che ha dato un contributo importantissimo. Per questo la Giornata della cultura ebraica deve essere giornata di tutti.
   È infatti una occasione per condividere i valori della convivenza plurale, nel segno del dialogo culturale e interreligioso e nella comune lotta a qualsiasi forma di antisemitismo e di discriminazione.

(la Repubblica, 11 settembre 2023)

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Scoperti altri gradini della Piscina di Siloah

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GERUSALEMME - Gli archeologi di Gerusalemme hanno scoperto altri otto gradini della Piscina di Siloah, che compare nella Bibbia. Non si vedevano da quasi 2.000 anni, ha riferito giovedì l'emittente statunitense "Fox News".
Se'ev Orenstein è direttore degli affari internazionali della Fondazione David City. Ha dichiarato a "Fox News Digital" che il progetto di scavo ha fatto progressi nelle ultime settimane. Gli scavi nel sito storico della Gerusalemme biblica; - in particolare la Piscina di Siloah e la Via dei Pellegrini - "sono una delle più grandi conferme di questo patrimonio e dei legami millenari che ebrei e cristiani hanno con Gerusalemme".
La Piscina di Siloah fu scavata circa 2.700 anni fa. Faceva parte dell'approvvigionamento idrico di Gerusalemme. Secondo la tradizione del Nuovo Testamento, un uomo nato cieco vi si lavò per ordine di Gesù e riuscì a vedere (Giovanni 9).
Nel 2004, l'azienda idrica ha effettuato dei lavori nell'area intorno al laghetto. Nel corso di questi lavori sono state portate alla luce diverse fasi dell'antica costruzione.

(Israelnetz, 11 settembre 2023)

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Incapaci di capire

"Non siate disavveduti, ma intendete bene quale sia la volontà del Signore" (Efesini 5:17)

"Incapaci di una corretta valutazione della situazione politica". Questo hanno scritto, come confessione di colpa, gli evangelici tedeschi di cui abbiamo trattato la settimana scorsa in relazione ai fatti avvenuti durante il nazismo. Per "corretta valutazione politica" qui si intende una valutazione spirituale di ciò che in quel momento gli evangelici stavano vivendo come cristiani all'interno della loro nazione. Confessare - come hanno scritto - di non aver saputo "riconoscere la vera natura della persona del Führer, della ideologia e dello Stato nazionalsocialista come forze antidivine e inumane", non sul piano strettamente personale ma in accordo di pensiero con la maggioranza dei cristiani evangelici di quel tempo e di quella nazione, è di una gravità spirituale collettiva che non può essere inquadrabile come riprovevole debolezza carnale, ma deve essere riconosciuta come grave e inquietante cecità spirituale. Non è che hanno agito male, il fatto grave è che non hanno capito.
   Si sottolinea questo non per puntare il dito contro chi si è trovato in quel momento in una situazione altamente problematica, ma per porsi seriamente la domanda: "Come è potuto avvenire?" Per porsene subito dopo un'altra: "Potrebbe accadere qualcosa di simile anche a noi?" O più incisivamente: "Sta forse già accadendo qualcosa di simile anche a noi?"
   Il "noi" di questa domanda non può essere ristretto alla propria chiesa locale o alla propria denominazione, ma comprende la collettività di coloro che oggi professano pubblicamente la fede cristiana nella particolare forma variamente intesa di "cristiani evangelici". Di quale natura spirituale è il nostro rapporto concreto col mondo reale in cui viviamo? Che il Maligno ha ricevuto potere sul mondo, questo lo sappiamo bene, ma sappiamo anche individuarne le mosse? Al tempo di Hitler gli evangelici tedeschi non hanno saputo farlo. E noi, italiani di oggi, lo sappiamo fare? Certo, sappiamo ancora vedere il mondo nei suoi sempre più immorali costumi (anche se il livello di assuefazione al male si è alzato in modo preoccupante), ma sappiamo vederlo anche e soprattutto come un mondo ideologicamente invasivo che esige adeguamento e sottomissione, nei pensieri prima ancora che nelle azioni? Sappiamo riconoscerne la natura seduttrice, manipolatrice e aggressiva? Ne avvertiamo i concreti effetti che ha su di noi? O amiamo anche noi rifugiarci in Romani 13 per non doverci porre fastidiosi problemi di coscienza? Attenzione, non si risolve tutto con l'impegno evangelistico, perché l'Avversario sta facendo a sua volta una contro-evangelizzazione devastante per chi non la sa riconoscere. E' una guerra. E come in ogni guerra, soprattutto quelle moderne, l'elemento decisivo è l'intelligence. Chi non capisce, soccombe.
   Quello che qui segue è la traduzione di alcuni tra i primi capitoli di un libro di Francis A. Schaeffer (1912-1984), un teologo evangelico americano che nei suoi libri ha sempre voluto mettere in relazione la fede cristiana evangelica con la realtà del mondo così come si presenta nelle sue varie facce sociali, politiche e ideologiche. Agendo come sentinella, ha istruito e segnalato pericoli per la fede; e ha dovuto anche registrare "evangeliche sconfitte".
   Il libro da cui è tratta la traduzione ha un titolo eloquente: "The Great Evangelical Disaster" (Il grande disastro evangelico). E' l'ultimo dei suoi ventitré libri. La prefazione, da lui stesso firmata, porta la data di febbraio 1984. Nel maggio dello stesso anno Schaeffer è morto.
   Nel testo qui riportato l'autore riflette sul cambiamento epocale avvenuto nella società nordamericana quando ha abbandonato il suo legame con l'«ethos biblico». E' stato scritto quarant'anni fa, e alcune considerazioni possono apparire inattuali, ma nella sostanza spirituale il testo è tutt'altro che inattuale: anche qui si tratta di cristiani evangelici che sono stati incapaci di capire. M.C.

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Nel 1983, in occasione del suo sessantesimo anniversario, la rivista Time pubblicò un'edizione speciale dal titolo "The Most Amazing 60 Years".
Nel ricordare il mondo in cui il Time è nato, il numero speciale inizia con queste parole: "L'atomo non era diviso. Così come la maggior parte dei matrimoni". In questo caso vengono opportunamente accostate due cose che si sono verificate nella nostra epoca: una, l'esplosione tecnologico-scientifica; l'altra, la disgregazione morale. Non è un caso che queste due cose siano accadute contemporaneamente. C'è qualcosa che sta alla base di entrambi i fenomeni, e nel riconoscerlo il Time ha davvero dimostrato una sorprendente comprensione.

La ricerca di autonomia
  Negli ultimi sessant'anni (1920-1980) è successo qualcosa che ha tolto le fondamenta morali alla nostra cultura. Sono accadute cose devastanti in ogni ambito della cultura, sia che si tratti di legge o di governo, sia che si tratti di scuole, comunità locali o famiglie.
   La nostra cultura è stata dilapidata e dispersa, e in gran parte buttata via. In effetti, definirlo crollo morale è un eufemismo. La moralità stessa è stata stravolta e ogni forma di perversione morale è stata elogiata e glorificata dai media e dal mondo dello spettacolo.
   Come possiamo dare un senso a quello che è successo? Nella sua edizione speciale il Time presenta una spiegazione. L’articolo intitolato “Di che cosa si trattava in realtà?” suggerisce una risposta: “Per determinare cosa sia veramente importante in tutto questo rimescolamento sembra necessario individuare un senso che vada oltre i particolari". Secondo il Time, dobbiamo scoprire "l'idea che caratterizza questa epoca".
   Il Time ha pienamente ragione su questo. Per dare un senso a questi ultimi sessant'anni, e allo stesso tempo capire il presente e il modo in cui noi cristiani dobbiamo vivere oggi, bisogna comprendere l'idea che sta alla base della nostra epoca, o quello che potremmo chiamare lo “spirito del tempo” che ha trasformato la nostra cultura in modo così radicale a partire dagli anni Venti. Questa idea, questo spirito, dice il Time, è stata l'idea di "libertà”: non solo la libertà come ideale astratto, o nel senso di essere liberati dall'ingiustizia, ma la libertà in senso assoluto:
   L'idea fondamentale che l'America ha rappresentato corrispondeva ai valori di quel tempo. L'America non si considerava semplicemente libera: si era liberata, svincolata. L'immagine esprime l'idea di una forza che una volta era stata sotto controllo ma ora si muove in una forma esplosiva di particelle casuali di energia, e in questo modo acquista potere e prospera. Essere liberi significava essere moderni; essere moderni significava correre dei rischi. Il secolo americano sarebbe stato il secolo della rottura, della liberazione (unleashing, ndt), dapprima dal XIX secolo (con leader come Freud, Proust, Einstein e altri), e alla fine da qualsiasi vincolo.
   Più avanti, nello stesso saggio, il Time commenta: "Dietro la maggior parte di questi eventi c'era l'assunto, quasi un imperativo morale, che ciò che non era ancora libero doveva essere liberato, che i limiti erano intrinsecamente malvagi, e che la scienza doveva andare dove voleva in uno spirito di "sicura autonomia (self-confident autonomy, ndt)". "Ma - conclude il Time - quando le persone o le idee sono sciolte da legami, sono svincolate sì, ma non ancora libere".

Ordine e libertà
  Nel saggio il problema degli anni 1920-1980 è ben delineato come tentativo di avere una libertà assoluta, di essere totalmente autonomi rispetto a qualsiasi limite intrinseco. È il tentativo di liberarsi di tutto ciò che potrebbe limitare la propria personale autonomia. Ma è soprattutto una ribellione diretta e deliberata contro Dio e la sua legge.
   Il tema espresso dal Time in effetti è centrale: è il problema di ordine e libertà. È un problema che ogni cultura, fin dall'inizio della storia, ha dovuto affrontare.
   Il problema si può esprimere così: se non c'è un giusto equilibrio tra ordine e libertà, la società si sposta inevitabilmente verso uno dei due estremi. La libertà, senza un giusto equilibrio di ordine, porta al caos e al crollo totale della società. L’ordine, senza un corretto equilibrio di libertà, porta all'autoritarismo e alla distruzione della libertà individuale e sociale.
   Ma nessuna società può continuare ad esistere in uno stato di caos. Ogni volta che ha regnato il caos, anche soltanto per un breve periodo, come conseguenza si è avuta poco dopo l'imposizione di un governo tirannico.
   Nel nostro paese (Stati Uniti) abbiamo goduto di una grandissima libertà umana, ma questa libertà era fondata su forme di governo, legge, cultura e moralità sociale che hanno dato stabilità alla vita individuale e sociale e hanno impedito che le nostre libertà sfociassero nel caos. C'è un equilibrio tra ordine e libertà che siamo arrivati a considerare come fosse una cosa naturale nel mondo. Ma non è naturale. E siamo completamente stolti se non riconosciamo che quell’equilibrio unico che abbiamo ereditato dalle forme di pensiero della Riforma non è automatico in un mondo decaduto. […]
   La Riforma non ha portato soltanto una chiara predicazione del Vangelo, ma ha anche dato forma alla società nel suo complesso, compreso il governo; ha plasmato il modo in cui le persone guardano il mondo e l'intero spettro della cultura. Nell'Europa del Nord e in paesi come gli Stati Uniti, che sono estensioni dell'Europa del Nord, la Riforma ha portato con sé un enorme aumento della conoscenza della Bibbia, che si è diffusa a tutti i livelli della società. Questo non significa che la Riforma sia mai stata una "età dell'oro" o che tutti nei paesi della Riforma fossero veri cristiani. Ma attraverso la Riforma molti furono portati a Cristo e gli assoluti della Bibbia si sono largamente diffusi nella cultura in generale. Le libertà che ne scaturirono furono enormi; e tuttavia non portarono al caos, perché gli ordinamenti erano fondati su un ethos biblico.
   Ma negli ultimi sessant'anni è accaduto qualcosa. La libertà che un tempo era fondata su un consenso biblico e un ethos cristiano, ora è diventata una libertà autonoma, sciolta da ogni vincolo. Ed ecco lo spirito del mondo della nostra epoca: l'uomo autonomo che si erge a Dio, in sfida alla verità morale e spirituale che Dio ha dato. Ecco la causa del crollo morale in ogni ambito della vita. Le enormi libertà di cui godevamo un tempo sono state slegate dai loro vincoli cristiani e stanno diventando una forza distruttrice che conduce al caos. E quando questo accade, ci sono davvero poche alternative. Ogni morale diventa relativa, la legge diventa arbitraria e la società si avvia verso la disintegrazione. Nella vita personale e sociale, la solidarietà viene sommersa dall’egoismo. Quando svanisce la memoria dell’ethos cristiano che ci ha dato la libertà in forma biblica, un autoritarismo manipolatore tenderà a riempire il vuoto. A questo punto le parole "destra" e "sinistra" fanno poca differenza. Sono solo due strade che portano allo stesso fine: il risultato è lo stesso. Un'élite, un autoritarismo in quanto tale, imporrà gradualmente un ordine alla società per evitare che vada nel caos. E la maggior parte delle persone lo accetterà.

La battaglia in cui siamo coinvolti
  Come cristiani evangelici, come credenti nella Bibbia, non siamo stati capaci di capire tutto questo. Lo spirito del mondo della nostra epoca continua ad avanzare pretendendo di essere autonomo e schiaccia nel suo cammino tutto ciò che ci sta a cuore . Sessant'anni fa avremmo immaginato che i bambini non nati sarebbero stati uccisi a milioni qui nei nostri paesi? O che non avremmo avuto libertà di parola quando si trattava di parlare di Dio e della verità biblica nelle nostre scuole pubbliche? O che ogni forma di perversione sessuale sarebbe stata promossa negli intrattenimenti dei media? O che il matrimonio, l'educazione dei figli e la vita familiare sarebbero stati oggetto di attacco? Purtroppo dobbiamo dire che pochissimi cristiani hanno capito la battaglia in cui ci troviamo. Pochi hanno preso una posizione forte e coraggiosa contro lo spirito del mondo di quest'epoca che distrugge la cultura e l'etica cristiana che un tempo hanno plasmato il nostro paese.
   Le Scritture ci dicono che noi, come cristiani credenti nella Bibbia, siamo impegnati in una battaglia di proporzioni cosmiche. È una lotta cruciale nelle menti e nelle anime degli uomini per la vita nell’eternità, ma è anche una lotta cruciale per la vita su questa terra.
   A un certo livello è una battaglia spirituale che si combatte nei cieli. La lettera di Paolo agli Efesini ci presenta la frase classica:

    "Il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti (Efesini 6:12).

Siamo davvero convinti di essere impegnati in questa battaglia cosmica? Crediamo davvero che ci siano "dominatori di questo mondo di tenebre" che governano la nostra epoca? Crediamo davvero, come dice l'apostolo Giovanni, che "tutto il mondo è sotto il potere del maligno" (1 Giovanni 5:19)? Se non crediamo a queste cose (e dobbiamo dire che gran parte del mondo evangelico si comporta come se non ci credesse), non possiamo certo aspettarci di avere molto successo nel combattere questa battaglia. Perché l'ethos cristiano nella nostra cultura si è dissolto? Perché abbiamo così poco impatto sul mondo di oggi? Non è forse perché non abbiamo preso sul serio la battaglia primaria?
   E se non abbiamo preso sul serio questa battaglia è perché non abbiamo usato le armi che il Signore ci ha fornito. Come scrive l'apostolo Paolo:

    Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo, poiché il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e, dopo aver compiuto tutto il vostro dovere, restare in piedi. State dunque saldi, avendo preso la verità a cintura dei fianchi, essendovi rivestiti della corazza della giustizia e calzati i piedi della prontezza che dà l'Evangelo della pace;  prendendo oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. Prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio, pregando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e suppliche; a questo vegliando con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi  e anche per me, affinché mi sia dato di parlare apertamente per far conoscere con franchezza il mistero dell'Evangelo (Efesini 6:10-18)

Si noti che in questo elenco non c'è nulla che il mondo accetti come metodo di lavoro, ma non c'è altro modo di combattere la battaglia spirituale nei cieli. E se non usiamo queste armi, non abbiamo speranza di vincere.
   La battaglia primaria in cui ci troviamo è una battaglia spirituale che avviene nei cieli, ma questo non significa che è ultraterrena o al di fuori della storia umana. È una vera e propria battaglia spirituale, ma è anche una battaglia qui sulla terra, nel nostro paese, nelle nostre comunità, nei nostri luoghi di lavoro e nelle nostre scuole, e persino nelle nostre case. La battaglia spirituale ha la sua controparte nel mondo visibile, nelle menti di uomini e donne, e in ogni ambito della cultura umana. Nella dimensione dello spazio e del tempo la battaglia celeste si combatte sul terreno della storia umana.
   Ma per vincere la battaglia sul terreno della storia umana, ci vuole un prioritario impegno a combattere la battaglia spirituale con le uniche armi efficaci. Ci vuole una vita impegnata in Cristo, fondata sulla verità, vissuta nella rettitudine e fondata sul Vangelo.
   È interessante notare che tutte le armi elencate da Paolo fino a questo punto sono difensive. L'unica arma offensiva menzionata è "la spada dello Spirito, che è la parola di Dio". Mentre le altre ci aiutano a difenderci dagli attacchi di Satana, la Bibbia è l'arma che ci permette di unirci al nostro Signore nell'offensiva per sconfiggere le schiere spirituali della malvagità. Ma deve essere la Bibbia, come Parola di Dio in tutto ciò che insegna in materia di salvezza, ma anche quando parla di storia, scienza e morale. Se falliamo in uno di questi ambiti, come purtroppo avviene oggi tra molti che si definiscono evangelici, annulliamo la potenza della Parola e ci mettiamo nelle mani del nemico. Infine ci vuole una vita di preghiera: "pregate nello spirito in ogni occasione".
   Come sul piano celeste, anche sul piano della storia umana la battaglia è altrettanto importante. Anche qui è in atto un conflitto fondamentale che è la controparte terrena della battaglia celeste. Questo conflitto assume due forme. La prima riguarda il nostro modo di pensare, le idee che abbiamo e il modo in cui vediamo il mondo. La seconda ha a che fare con il modo in cui viviamo e agiamo. Entrambi questi conflitti - nel campo delle idee e in quello delle azioni - sono importanti; e in entrambi i campi i cristiani credenti nella Bibbia si trovano a combattere con la cultura circostante del nostro tempo.

La sapienza del mondo
  La battaglia nel campo delle idee è messa particolarmente in evidenza nelle lettere dell'apostolo Paolo.Qui vediamo che c'è un conflitto mentale fondamentale tra "la sapienza di questo mondo" e "la sapienza di Dio". Così scrive Paolo:

    Dov'è il sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è il contestatore di questo secolo? Dio non ha forse resa pazza la sapienza di questo mondo? Poiché, visto che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la pazzia della predicazione (1 Corinzi 1:20, 21).

E di nuovo:

    Nessuno s'inganni. Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio, perché la sapienza di questo mondo è pazzia davanti a Dio (1 Corinzi 3:18,19).

Bisogna subito chiarire che Paolo non dice che la conoscenza e l'istruzione non hanno valore. Paolo stesso era tra le persone più istruite del suo tempo. Paolo parla di una sapienza mondana che pretende di essere autosufficiente, a prescindere da Dio e dalla sua rivelazione. È un tipo di sapienza mondana che lascia fuori Dio e la sua rivelazione e finisce per avere una concezione completamente distorta della realtà. Questo si può vedere con maggior chiarezza nel primo capitolo della lettera ai Romani, dove Paolo scrive:

    Essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l'hanno glorificato, né l'hanno ringraziato come Dio, ma si sono dati a vani ragionamenti e l'insensato loro cuore si è ottenebrato. Dicendosi sapienti, sono diventati stolti e hanno mutato la gloria dell'incorruttibile Dio in immagini simili a quelle dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
    Per questo Dio li ha abbandonati all'impurità, secondo le concupiscenze del loro cuore, perché disonorassero fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore
    (Romani 1:21-25).

Quello che qui è in gioco è il modo di pensare degli uomini, il processo di ragionamento, di pensiero e di comprensione. Così "il loro pensiero è diventato vano e i loro cuori stolti si sono oscurati. Pur pretendendo di essere saggi, sono diventati stolti". Quando la Scrittura parla di uomo stolto, non significa che questi sia tale solo dal punto di vista religioso. Significa piuttosto che ha accettato una posizione stolta sul piano intellettuale, non solo rispetto a ciò che dice la Bibbia, ma anche rispetto a ciò che esiste, alla forma dell'universo e a ciò che significa essere umani. Allontanandosi da Dio e dalla verità che Egli ha rivelato, l'uomo è diventato stolto rispetto a ciò che è l'uomo e a ciò che è l'universo. L'uomo si ritrova allora in una posizione in cui non riesce a vivere, ed è preso in una moltitudine di tensioni intellettuali e personali.
   La Scrittura ci dice perché l'uomo è arrivato a trovarsi in questa situazione: perché "pur conoscendo Dio, non l’hanno glorificato come Dio e non l'hanno ringraziato"; perciò sono diventati stolti nei loro ragionamenti, nei loro giudizi e nella loro vita. Questo passo si riferisce alla caduta originale, ma non parla solo di questo: si riferisce a qualsiasi periodo in cui gli uomini hanno conosciuto la verità e se ne sono deliberatamente allontanati. [...]
   Noi che viviamo nel Nord America abbiamo visto realizzarsi questo versetto nella nostra generazione con una violenza spaventosa. Gli uomini del nostro tempo hanno conosciuto la verità e tuttavia se ne sono allontanati. Si sono allontanati non solo dalla verità biblica, ma anche dalle molte benedizioni che questa portava con sé in ogni ambito della cultura, compreso l'equilibrio di ordine e libertà che un tempo avevamo. [...]

Adattamento
  E ora dobbiamo chiederci dove eravamo, come evangelici, nella battaglia per la verità e la moralità nella nostra cultura? Siamo stati in prima linea, come evangelici, a difendere la fede e ad affrontare il crollo morale negli ultimi quaranta o sessant'anni? Siamo consapevoli del fatto che è in corso una battaglia, non solo celeste, ma di vita e di morte per quello che accadrà a uomini, donne e bambini in questa e nell'altra vita? Se la verità della fede cristiana è davvero verità, allora è in antitesi con le idee e l'immoralità della nostra epoca, dunque deve essere praticata sia nell'insegnamento che nell'azione pratica. La verità richiede un confronto. Deve essere un confronto amorevole, ma in ogni caso deve esserci.
   Purtroppo dobbiamo dire che questo è accaduto molto raramente. La maggior parte degli evangelici non è stata attiva nella battaglia, né è stata in grado di capire che siamo in una battaglia. Quando si è trattato di argomenti del giorno, il mondo evangelico il più delle volte non ha detto nulla o, peggio ancora, non ha detto nulla di diverso da quello che il mondo dice.
   Qui sta il grande disastro evangelico: il fallimento del mondo evangelico nel sostenere la verità come verità. C'è una sola parola per dire questo: adattamento (accomodation, ndr). La cristianità evangelica si è adattata allo spirito mondano dell'epoca. In primo luogo, c'è stato un adattamento sulle Scritture, perché molti di coloro che si definiscono evangelici oggi hanno una visione fiacca della Bibbia e non sostengono più la verità di tutto quello che la Bibbia insegna: verità non solo in campo religioso, ma anche in campo scientifico, storico e morale. In questo contesto, molti evangelici accettano metodi di alta critica nello studio della Bibbia. Ricordiamo che sono stati questi stessi metodi a distruggere l'autorità della Bibbia per la cristianità protestante in Germania nel secolo scorso, e per i liberali nel nostro Paese a partire dall'inizio di questo secolo. In secondo luogo, gli evangelici si sono talmente conformati al mondo su questioni di rilevanza attuale da non prendere mai una posizione chiara nemmeno su questioni di vita o di morte.
   Questo accomodamento è costato caro, in primo luogo perché ha distrutto la potenza delle Scritture nel confronto con lo spirito della nostra epoca; in secondo luogo perché ha agevolato un ulteriore scivolamento della nostra cultura. Dobbiamo perciò dire, con lacrime, che è proprio l'adattamento evangelico allo spirito del mondo, alla saggezza di questa epoca, ciò che toglie agli evangelici la possibilità di opporsi all'ulteriore disgregazione della nostra cultura. E' mia ferma convinzione che quando ci troveremo davanti a Gesù Cristo, scopriremo che è stata la debolezza e il conformismo della parte evangelica sulle questioni del giorno a essere in gran parte responsabile della perdita di ethos cristiano che si è verificata in ambito culturale nel nostro Paese negli ultimi quaranta o sessant'anni.
   Dobbiamo renderci conto che l'assecondare lo spirito del mondo in questa epoca non è altro che la forma più grossolana di mondanità, nel letterale significato di questa parola. E insieme a questa corretta definizione di mondanità, dobbiamo dire con lacrime che salvo eccezioni la cristianità evangelica è mondana e non fedele al Cristo vivente.

Cos'è che conta?
  Vorrei porre infine una domanda: “Cos’è che conta davvero?” Cos'è che conta così tanto nella mia e nella vostra vita da stabilire le priorità di tutto quello che facciamo? Al nostro Signore Gesù fu posta essenzialmente la stessa domanda e la sua risposta fu:

    "Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Questo è il primo e più grande comandamento. E il secondo è simile: "Ama il tuo prossimo come te stesso". Tutta la Legge e i Profeti si basano su questi due comandamenti" (Matteo 22:37-40).

Ecco ciò che conta davvero: amare il Signore nostro Dio, amare il suo Figlio e conoscerlo personalmente come nostro Salvatore. E se lo amiamo, fare le cose che gli piacciono; mostrare il suo carattere di santità e amore nella nostra vita; essere fedeli alla sua verità; camminare giorno per giorno con il Cristo vivente; vivere una vita di preghiera.
   E l'altra metà di ciò che conta davvero è amare il prossimo come noi stessi. Le due cose vanno insieme, non si possono separare. "Su questi due comandamenti poggiano tutta la Legge e i Profeti". Se amiamo il Signore Gesù Cristo e lo conosciamo personalmente come nostro Salvatore, dobbiamo, con la forza della grazia di Dio, amare il nostro prossimo come noi stessi. E se amiamo il nostro prossimo come Cristo vuole che lo amiamo, vorremo certamente condividere con lui il Vangelo; e oltre a questo vorremo mostrare l'amore di Dio in tutti i nostri rapporti con il prossimo.
   Ma non ci si ferma qui. L'evangelizzazione è primaria, ma non è la fine del nostro lavoro, e non può essere separata dal resto della vita cristiana. Dobbiamo conoscere e poi agire in base al fatto che se Cristo è il nostro Salvatore, è anche il nostro Signore in tutta la vita. Egli è il nostro Signore non solo nelle cose religiose e non solo in quelle culturali, come le arti e la musica, ma anche nella nostra vita intellettuale, negli affari, nel nostro rapporto con la società e nel nostro atteggiamento nei confronti del degrado morale della nostra cultura. Riconoscere la Signoria di Cristo e porci sotto l'insegnamento di tutta la Bibbia significa anche pensare e agire come si addice a seri cittadini in relazione al nostro governo e alle sue leggi. Fare di Cristo il Signore della nostra vita significa anche prendere posizione in modi molto diretti e pratici contro lo spirito del mondo del nostro tempo che avanza pretendendo di essere autonomo e schiaccia sotto di sé ogni cosa.
   Se amiamo veramente il nostro Signore e se amiamo veramente il nostro prossimo, soffriremo di compassione per l'umanità di oggi nel nostro Paese e nel mondo. Dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare le persone a vedere la verità della fede cristiana e ad accettare Cristo come Salvatore. Non dobbiamo permettere che la Bibbia sia indebolita da alcun compromesso sulla sua autorità, per quanto sottili possano essere i metodi usati. Questo vale tanto più per coloro che si definiscono "evangelici”. Ma dobbiamo anche opporci allo spirito della nostra epoca, al crollo della moralità e alla terribile perdita di umanità che ha portato. Questo significa anzitutto difendere la vita umana e dimostrare con le nostre azioni che ogni vita è sacra e preziosa in sé, non solo per noi come esseri umani, ma anche per Dio. Vale la pena lottare per ogni persona, indipendentemente dal fatto che sia giovane o vecchia, malata o in salute, bambina o adulta, nata o non nata, bruna, rossa, gialla, nera o bianca.
   È la potenza trasformante di Dio che può toccare ogni individuo, il quale poi ha la responsabilità di influenzare il mondo intorno a sé con gli assoluti che si trovano nella Bibbia. In conclusione, dobbiamo renderci conto che lo spirito del tempo - con tutta la sua perdita di verità e bellezza, e con la perdita di compassione e umanità che ha portato - non è una malattia soltanto culturale. È una malattia spirituale, che soltanto con la verità rivelata della Bibbia e in Cristo può essere guarita.

(da "The Great Evangelical Disaster" di Francis A. Schaeffer - trad. www.ilvangelo-israele.it)

(Notizie su Israele, 10 settembre 2023)


 

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La scommessa di Biden: un nuovo corridoio India-Medio Oriente per stoppare la Via della Seta

Stati Uniti in pressing su Riad per il maxi collegamento via treno e nave che porterebbe il grano di Delhi nella regione attraverso il regno saudita e Israele. Un passo avanti nella normalizzazione tra Riad e Gerusalemme.

di Daniele Raineri

L’Amministrazione Biden spera di annunciare oggi al G20 un accordo molto ambizioso con Emirati Arabi Uniti, India e – soprattutto – con l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman. È un accordo a tre strati: il primo strato, quello superficiale, riguarda una rotta commerciale nuova e sarebbe già interessante dal punto di vista dell’economia globale. Ma sotto ci sono altri due strati di densa politica internazionale: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e l’Arabia Saudita (sarebbe un successo enorme per Biden) e la lotta contro la Cina.
   Andiamo con ordine. La Casa Bianca vuole ufficializzare l’esistenza di un progetto ferroviario che collegherebbe tra loro i Paesi arabi del Golfo e altri Paesi arabi nel Medio oriente. Il progetto sarebbe anche connesso via nave ai porti dell’India, che già adesso trasporta una quantità enorme di merci in quella direzione e aspira a diventare il granaio della regione mediorientale – quindi il primo e più importante fornitore di cibo.
   La merce partirebbe da Mumbai via mare, arriverebbe agli Emirati, da qui proseguirebbe via treno attraverso l’Arabia Saudita e poi al resto dell’area. L’idea americana si spinge più in là: dalle ferrovie saudite le merci potrebbero passare a quelle giordane e poi entrare in Israele, sempre su binari, e arrivare al porto di Haifa sul Mediterraneo. Da lì potrebbero essere imbarcate di nuovo su navi e mandate al porto del Pireo, in Grecia. E quindi a tutta l’Europa.
   Questa rotta offre vantaggi commerciali, perché le merci hanno bisogno di diciassette giorni di viaggio su nave per andare dall’India alla Grecia attraverso lo Stretto di Suez e invece con questa nuova rotta mista – nave più treno più nave – ci metterebbero dieci giorni. Per funzionare, però, il nuovo sistema avrebbe bisogno di molta collaborazione fra tutti i territori attraversati e quindi anche fra israeliani e sauditi. Sarebbe un altro passo verso la normalizzazione tra i due Paesi. L’Arabia Saudita ha un ruolo dominante fra gli arabi per le sue dimensioni, le ricchezze e il prestigio e quindi se dopo decenni di silenzio normalizzasse le sue relazioni con Israele spingerebbe molti altri a fare lo stesso.
   Per ora l’Amministrazione americana non commenta e nemmeno i sauditi. Se il principe Bin Salman dicesse sì all’accordo ferroviario e lo annunciasse questo fine settimana guadagnerebbe un incontro bilaterale con Biden durante il G20 – dopo essere stato trattato per alcuni mesi come un reietto dal presidente americano, all’inizio del suo mandato nel 2021. Bin Salman è accusato di essere il mandante nel 2018 dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, attirato in trappola dentro l’ambasciata saudita di Istanbul in Turchia, assassinato e fatto a pezzi.
   L’Amministrazione da mesi negozia con il saudita la normalizzazione con Israele e in cambio è pronta a offrire un programma di collaborazione nella costruzione di centrali nucleari per uso civile. In questo modo Biden porterebbe a conclusione un processo storico cominciato durante il mandato di Trump. Israele dovrebbe rispondere con aperture sostanziose alle richieste palestinesi, ma per ora non sembra pronto e mantiene il silenzio.
   Se l’accordo ferroviario di oggi andasse in porto sarebbe anche uno smacco – dal punto di vista generale – per la Cina, che tenta di rimpiazzare l’influenza americana in Medio Oriente. La rotta intermodale – quindi: nave più aereo – dall’India fino alla Grecia e oltre sarebbe un progetto alternativo alla cosiddetta Belt and Road Initiative, il grande piano cinese per connettere i Paesi dai propri confini fino all’Europa e creare una rotta commerciale unica sotto il proprio controllo.
   A maggio il consigliere americano per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, durante il forum I2U2 che riunisce Stati Uniti, Israele, Emirati e India tratteneva a stento l’eccitazione e aveva dichiarato: «Se dovete ricordarvi una sola cosa di quello dico oggi, ricordatevi I2U2 perché ne sentirete parlare sempre di più: una partnership per connettere l’Asia al Medio Oriente in modi che avvantaggino la nostra tecnologia, la nostra economia e la diplomazia. Ci sono svolte interessanti che aspettiamo nei prossimi mesi». È un caso di scuola della cosiddetta “diplomazia delle ferrovie”, che crea nuove connessioni – materiali e non – tra i Paesi. 

(la Repubblica, 9 settembre 2023)

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Medio Oriente, scenari. Israele aggiorna le proprie strategie nel pieno dell’escalation della tensione

L’opinione diffusa, ripresa in un’articolata analisi da Yaakov Lappin per JNS, è quella che «le provocazioni di Hezbollah e la capacità di Hamas di operare su più fronti potrebbero scatenare una guerra anche involontariamente»

Ad avviso di Yaakov Lappin – giornalista e ricercatore associato presso l’Alma Research and Education Center, il Begin-Sadat Center for Strategic Studies e l’Università Bar-Ilan, -, alla luce delle minacce lanciate dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e delle crescenti tensioni al confine settentrionale di Israele, il gabinetto del primo ministro Benjamin Netanyahu dovrebbe occuparsi del possibile scenario di guerra che si prospetta, valutandone i possibili risvolti nei termini di un esteso conflitto, quello che intanto stanno facendo le Forze di Difesa (IDF). È l’opinione del professor Eyal Zisser (vicerettore dell’Università di Tel Aviv), che ritiene molto probabile un deterioramento incontrollato dove tutti sarebbero in grado di contribuire a porre fuori controllo la situazione, «un’escalation non pianificata e non desiderata alimentata dall’errata o fraintesa lettura delle azioni e reazioni dell’avversario».

• UNA GUERRA SU PIÙ FRONTI
  Allo specifico riguardo lo stato maggiore israeliano ha elaborato diversi potenziali scenari, tutti riconducibili a uno scontro con la milizia sciita libanese filo-iraniana. Una ipotesi è quella relativa a una guerra combattuta su più fronti, che coinvolgerebbe Libano, striscia di Gaza e Siria, che potrebbe caratterizzarsi per gli attacchi portati con armi a lungo raggio ed elevata potenzialità unitamente a guerriglia all’interno di città israeliane miste arabo-ebraiche. I nemici dello Stato ebraico ritengono che quest’ultimo attraversi una fase di marcata debolezza a causa della marcata polarizzazione politica in atto nel Paese, quindi le leadership di Hezbollah (principalmente), ma anche Hamas, potrebbero venire indotte ad approfittarne e ad attaccare.

• TENSIONI AL CONFINE CON IL LIBANO
  In questo momento, dunque, la risposta di Israele fa leva sull’immagine della preparazione allo scontro in funzione deterrente, anche attraverso una efficace narrativa, facendo un appropriato ricorso alla comunicazione e ai media, secondo il citato Zisser «anche e soprattutto relativamente alla discussione su questo specifico argomento». Ritiene il professor Ely Karmon (ricercatore senior presso l’Istituto internazionale per l’antiterrorismo (ICT) e attualmente presso la Reichman University, entrambe di Herzliya) che la decisione di rilasciare informazioni sulle ultime valutazioni di natura strategica potrebbe essere parte di una manovra per preparare l’opinione pubblica israeliana. «Non c’è dubbio – prosegue Karmon – che le provocazioni di Hezbollah nel nord (nell’alta Galilea, n.d.r.) sono state incrementate e che in qualsiasi momento potrebbe innescarsi un conflitto, tuttavia al momento, anche dopo una lunga serie di atti provocatori, non vedo nessuno che abbia intenzione di impegnarsi in una guerra di dimensioni più ampie».

• IL PERICOLO DALLA STRISCIA DI GAZA
  «Per quanto concerne Gaza – ha aggiunto Karmon -, con le manifestazioni di massa alla recinzione di frontiera  e il lancio di razzi in mare, forse per lanciare un segnale di migliore capacità e precisione delle proprie armi, Hamas è divenuta una minaccia più grande di quanto non fosse in precedenza». Egli si è soffermato anche sull’incremento delle attività dei gruppi armati islamisti in Cisgiordania, in buona parte riconducibile a Salah al-Arouri, numero due di Hamas che attualmente ha la sua sede a Beirut, in Libano. «Ma – sostiene Karmon -, se i servizi segreti israeliani eliminassero un agente di Hamas del calibro al-Arouri, ad esempio in Libano, il quesito da porsi sarebbe dunque quello di un’eventuale risposta dell’Iran». Ed ecco uno degli inneschi più probabili di un più ampio conflitto.

• I PROBLEMI DI NETANYAHU
  Il governo Netanyahu ha bisogno di dimostrare all’opinione pubblica di aver raggiunto dei risultati ed eliminare un catalizzatore della la violenza in Cisgiordania come Hamas potrebbe scoraggiare altre organizzazioni armate anche a Gaza, che temerebbero di venire prese di mira. Zisser dubita che Hamas voglia «combattere per Hezbollah», tuttavia, «potrebbe operare dal Libano come probabilmente ha fatto in passato, mentre Israele risponderebbe colpendo la striscia Gaza, una dinamica che farebbe scivolare dentro un conflitto su due fronti». Lo scenario più probabile, conclude Zisser, è quello delle provocazioni e dello scontro a bassa intensità, «ma va tenuto ben presente che la situazione potrebbe peggiorare a seguito della perdita del controllo».

• LA SOLUZIONE PASSA DAI PALESTINESI
  Per Karmon oggi la priorità principale dovrebbe essere l’arena palestinese, perché essa influenza immediatamente il resto del Medio Oriente. «Va fatto tutto il possibile per sostenere l’Autorità palestinese affinché sopravviva, poiché non esiste soluzione al conflitto israelo-palestinese senza un elemento moderato». Il ricercatore di Herzliya si è espresso in questi termini nel corso di una recente lunga e approfondita conversazione con lo stesso Lappin -, nel corso della quale ha ribadito che senza il controllo di Gaza non è pensabile un concreto accordo di pace. «A mio parere – ha egli dichiarato – finché Hamas controllerà la striscia di Gaza non si potrà giungere alla soluzione dei “due Stati” e neppure a un vero compromesso tra Israele e i palestinesi».

ANP: l’INTERLOCUTORE NECESSARIO PER ISRAELE
  Conclude Karmon che «pertanto, sono due i problemi su questo versante: dobbiamo fare tutto il possibile sul fronte politico, economico e anche militare per sostenere l’Anp, ma con molta attenzione e tenendo conto dei vincoli posti da questo tipo di rafforzamento di questa componente palestinese, che per il momento è nostra partner nella questione di Hamas. Se non verrà distrutta la struttura militare di Hamas… attenzione!, non la sua organizzazione politica e religiosa, poiché questo non possiamo farlo, ma quella militare sì, non sarà possibile trovare una soluzione». Nell’intervista sono stati affrontati anche gli argomenti relativi alle responsabilità ascritte agli iraniani per le attività compiute da Hezbollah e le priorità strategiche di Israele in questa fase senza precedenti di crisi interna.

(Insidertrend, 9 settembre 2023)

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"Non calpestate il nostro voto: i sostenitori della riforma giudiziaria manifestano davanti alla Corte Suprema

I manifestanti criticano l'interferenza della Corte Suprema nella legislazione sulla riforma giudiziaria.

Israeliani manifestano davanti alla Corte Suprema a sostegno della riforma giudiziaria
Decine di migliaia di israeliani si sono riuniti giovedì sera nei pressi della Corte Suprema di Gerusalemme per manifestare a sostegno della riforma giudiziaria.
I manifestanti protestavano contro la decisione della Corte di interferire nella legislazione relativa alla riforma giudiziaria, una mossa che secondo loro minaccia di ignorare la volontà degli elettori.
Hanno portato cartelli con slogan come "Corte suprema, non mi deporrai", "Non siamo cittadini di seconda classe: il popolo ha votato per la riforma giudiziaria" e "Corte suprema, non distruggere la democrazia".
I cartelli che precedevano la manifestazione recitavano: "Manifestazione per la libertà. Non ci ruberanno il voto".
Uno degli organizzatori della manifestazione, l'attivista politico Berale Crombie, che aveva organizzato anche la prima grande manifestazione per la riforma il 27 aprile, aveva twittato poco prima della protesta di giovedì: "Non lasciate che la Corte Suprema ci calpesti".
I manifestanti erano particolarmente arrabbiati per la decisione della Corte di interferire con la Costituzione. Secondo la sua stessa teoria, la Corte deriva il suo potere di scavalcare le leggi regolari dalla Legge fondamentale. I critici sostengono che questo è come se la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarasse "incostituzionale" un emendamento costituzionale.
Il deputato del Likud alla Knesset Avihai Boaron, uno degli organizzatori della manifestazione, ha gridato alla folla: "La questione non è se rispetteremo la decisione della Corte Suprema, ma se la Corte Suprema accetterà l'opinione del popolo".
"Se la Corte respinge la Legge fondamentale, sarà responsabile e colpevole dell'anarchia che ne deriverà. Da qui lanciamo un appello alla Corte Suprema: non fateci precipitare nel caos. Non distruggete l'unità di Israele. Non calpestate la maggioranza di Israele", ha dichiarato.
Il Ministro degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, Orit Strock del Partito del Sionismo Religioso, ha dichiarato: "Vi devo chiedere perdono. Avete votato per la Knesset come ci si aspetta da un Paese democratico. Ogni scheda elettorale che avete espresso diceva chiaramente 'riforma giudiziaria'. Non dovreste essere qui, dovreste essere a casa vostra.
"Ma ci sono persone qui che non sono in grado di accettare la decisione della maggioranza. Gridano "democrazia" ma in realtà vogliono una dittatura. Vi prometto che rispetteremo il vostro voto, la vostra decisione. Rispetteremo la democrazia. Faremo ciò che ci avete chiesto di fare", ha aggiunto Strock. Il 12 settembre, i giudici della Corte Suprema ascolteranno le petizioni che chiedono di abrogare la "legge sull'adeguatezza".
Tutti i 64 membri della coalizione, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno approvato la legge, un emendamento alla Legge fondamentale, che esclude la "ragionevolezza" come pretesto legale per annullare le decisioni del gabinetto, dei ministri e di alcuni funzionari eletti.
I manifestanti protestavano anche contro la decisione della Corte Suprema di tenere un'udienza sulla cosiddetta legge di ricusazione (recusal law) il 28 settembre.
A marzo, la Knesset ha approvato una legge che limita le circostanze in cui un primo ministro in carica può essere rimosso dall'incarico.
Secondo questa legge, solo il Gabinetto, e non la Corte Suprema o il Procuratore Generale, ha il potere di dichiarare un Primo Ministro in carica non idoneo al servizio, e solo in caso di inidoneità fisica o mentale.

(Israel Heute, 8 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Modifica regolamento Oms: “Stanno negoziando a porte chiuse, questo è l’aspetto più rischioso”

L’avv. Renate Holzeisen ha parlato della modifica del regolamento sanitario internazionale. “Allo stato stanno negoziando dietro porte chiuse, bisogna insistere avvicinando persone che fanno parte di questi gruppi di negoziazione per avere bozze per capire quello che sta succedendo. Questo è di fatto l’aspetto più rischioso, quello che ci preoccupa al momento di più”, ha detto al convegno Deontologia medica tra passato e futuro, organizzato dal Gruppo Coscienza e Medicina Trento il 14 luglio 2023.
  “Faccio parte di un gruppo di avvocati che da mesi si sta dedicando a livello internazionale per capire che cosa sta succedendo in queste camere dove negoziano queste modifiche e cerchiamo e riusciamo a farlo con qualche esponente di qualche paese un po’ più aperto, certo non l’Italia. Per i singoli Paesi ci sono i responsabili che partecipano alle trattative e da quello che noi vediamo, le stesse persone che per i singoli Paesi membri stanno trattando, in realtà non si rendono conto di quello che stanno facendo. È allucinante in quali mani il nostro destino e il destino dei nostri figli si trova”.
  Se passa il nuovo regolamento “il capo dell’Oms oppure il successore, perché molto presto sarà sostituito, vedremo da chi, avrà il potere insieme con un piccolo gruppo di esperti, come un comitato appunto costituito sempre a loro discrezione, di proclamare questa FAIC, Public Health Emergency of International Concern,  cioè l’emergenza sanitaria di rilevanza internazionale, ma non solo, poi saranno loro a decidere che cosa si dovrà fare: le raccomandazioni che una volta, le raccomandazioni dell’OMS che allo stato ancora sono non vincolanti, secondo il piano che stanno per mettere in piedi saranno vincolanti, cioè quello che deciderà attualmente un Tedros con un piccolo gruppo di esperti e ci possiamo immaginare da chi verranno nominati, saranno quegli esperti che escono direttamente da Bill e Melinda Gates Foundation e da Big Pharma, decideranno di, che cosa decideranno?
  Degli obblighi vaccinali perché va tutto in quella direzione. L’OMS in futuro avrà un potere di fatto di governo mondiale perché colui che ha in mano il potere di chiudere attività economiche, imponendo lockdown, di imporre trattamenti anche sperimentali e adesso ci arriviamo, di poter minacciare la popolazione nel senso di dire o ti fai inoculare questa sostanza o altrimenti rimani a casa, non lavori, sei escluso completamente dalla vita sociale, di fatto è il governatore, decide tutto.
  Abbiamo appunto poi questo ampliamento del potere di proclamare un’emergenza sanitaria non soltanto per quelli di rilevanza locale, cioè l’OMS deciderà che cosa bisogna fare se abbiamo un problema soltanto in Italia. Non sarà il Ministero della Salute insieme con, così almeno dovrebbe essere l’organo di consulenza, l’Istituto Superiore della Sanità, no, sarà l’OMS, il Direttore Generale con quel piccolo gruppetto a dire che cosa dovrà fare l’Italia, a meno che l’Italia dica no, grazie, noi questo non lo vogliamo.
  Quali sono le conseguenze per noi cittadini dell’Unione Europea che ci troviamo particolarmente in una situazione molto molto grave? Li vediamo già adesso.
  Abbiamo appunto un regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 novembre del 2022 dove appunto leggiamo che l’Unione Europea, dunque anche il nostro governo, anche la Repubblica Italiana in realtà hanno già previsto che si va in quella direzione.
  One Health, questo è uno slogan che hanno appunto invitato la salute in tutte le politiche, avremo appunto in futuro una politica calata dall’alto, ma non soltanto dall’Unione Europea, dall’OMS, cioè da un’organizzazione che è nelle mani di fatto di quei poteri di interesse che con noi sono in un grave conflitto di interesse
  Una volta recepito il nuovo regolamento è previsto nell’ambito della modifica del regolamento sanitario internazionale è prevista la censura totale. Deciderà il direttore dell’OMS con questo piccolo gruppetto di esperti, quale è la verità scientifica e dunque tutti, inclusi i medici, non potranno più valutare insieme al paziente il da farsi. Dunque non avremo più soltanto le linee guida, che già adesso sono una cosa aberrante, dietro cui si trincerano quei medici, che hanno paura di incorrere in responsabilità come qualcosa che li solleva dalla responsabilità. Sbagliando perché hanno dimenticato il loro ruolo fondamentale.
  Se dovesse andare in porto quello che stanno preparando allora saremo a un livello totalmente diverso. Allora sì che davanti alle corti giudiziari, nelle procure, non potremo più andare perché che cosa diranno? Lo dicono già adesso. L’OMS ha deciso che c’è una pandemia, cioè non è stato messo in discussione nulla. Se sarà consacrato che l’Italia praticamente rinuncia alla sua sovranità di decidere la politica sanitaria, allora che cosa dovrebbero fare i giudici?”

(Presskit, 9 settembre 2023)

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Tutto il bello della Roma ebraica in una giornata. Intervista ad Antonella Di Castro

di Luca Spizzichino

Antonella Di Castro
Domenica 10 settembre torna la Giornata Europea della Cultura Ebraica, manifestazione nella quale Sinagoghe, musei e altri siti ebraici si apriranno alla cittadinanza, coinvolgendo in Italia ben 101 località, distribuite in sedici regioni, con Firenze città capofila. Coordinata e promossa nel nostro Paese dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - UCEI, il tema scelto per questa edizione è “La bellezza”. 
   All’iniziativa partecipa con numerose attività disseminate nell’intero arco della giornata e in varie aree della città anche la Comunità Ebraica di Roma, con un programma all’interno del quale si declina il tema scelto per questa edizione. Per capire l’importanza di questa giornata e scoprire quali sono le iniziative più importanti, Shalom ha intervistato l’avvocato Antonella Di Castro, vicepresidente e Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Roma.

- Roma Ebraica è un patrimonio culturale vivo tutto l'anno: cosa può aggiungere un'iniziativa come la Giornata Europea della cultura ebraica?
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica, manifestazione che ha ricevuto quest’anno la Medaglia del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, raggiunge con questa del 10 settembre la 24ª edizione. Iniziative come questa sono un modo per offrire al pubblico tutto, quindi alla società civile nella quale viviamo e nella quale siamo integrati, lo spunto per conoscerci, per conoscere il popolo ebraico e per conoscere come la cultura ebraica sia da un lato viva e vibrante e dall'altra integrata nelle tradizioni dei vari luoghi. Perché dobbiamo sottolineare che la cultura ebraica, che è una cultura trasversale, comprende tutto il popolo ebraico ovunque viva, si declina poi integrandosi nei vari Paesi, ha quindi in ogni luogo delle peculiarità. La nostra è ebraico-romana, con dei riti e delle modalità di espressione che sono tipiche del nostro linguaggio.

- Il tema di quest'anno è la bellezza: come viene declinato? Quali sono le iniziative di punta di quest'anno a Roma?
  A Roma il tema della bellezza verrà declinato in ogni singolo ambito. La cultura e la bellezza verranno presentate in varie forme, come possono essere il teatro, la musica, gli scritti, la psicologia e la fotografia e molto altro.
   Nella mattinata ai Giardini del Tempio verrà inaugurata la giornata e verranno presentati due libri. Abbiamo Yarona Pinhas che presenterà il suo libro “Visioni del Cuore”, e quindi abbiamo la bellezza nella scrittura, e a seguire ci sarà la presentazione del volume “Italia Ebraica. Le storie ritrovate”, che raccoglie una serie di scritti molto interessanti dei musei ebraici nel nostro Paese. La Galleria d'Arte moderna invece ospiterà un'esposizione fotografica su Tel Aviv. Nel pomeriggio invece, sempre ai Giardini del Tempio, ospiteremo vari talk. Il primo sulla bellezza dal punto di vista psicologico, con lo psicoterapeuta Gianni Yoav Dattilo, e dal punto di vista medico chirurgico, con il chirurgo Micol Finzi. Successivamente, nel panel con il rabbino capo Riccardo Di Segni, il presidente del Benè Berith Sandro Di Castro e la filosofa Fiorella Bassan, si parlerà della bellezza esteriore e dell'introspezione di questa. Proprio riguardo a questo tema, al Museo Ebraico ci sarà l'esposizione di un volume del XVII secolo e di un documento del XVIII secolo in cui si parla proprio di quali siano le regole delle donne ebree nell'età dei ghetti e dell'importanza della bellezza della donna, non solo dal punto di vista estetico, ma anche della purezza e della santità in relazione ad alcuni momenti della vita ebraica, come nel caso dello Shabbat.
   Durante tutto l’arco della giornata inoltre ci saranno visite guidate in tutta l'area dell'ex ghetto e l'apertura del Centro di Cultura per le iscrizioni ai corsi di ebraico. Un’altra iniziativa molto interessante è “La scoperta della bellezza dell'antica Ostia ebraica”, un tour che partirà da Roma con un battello che raggiungerà Ostia Antica e il Parco Archeologico, dove ci sarà una visita guidata ai resti della sinagoga in maniera immersiva con le performance del Teatro Mobile, con musiche e monologhi. A chiudere questa giornata ricca di iniziative, ci sarà una “performance danzata” del coreografo Mario Piazza.

- Questa è la prima iniziativa del mandato da Assessore alla Cultura: quali sono i propositi per i prossimi 4 anni in questo ambito?
  I propositi sono ovviamente molteplici, in particolare quello di incrementare e diversificare la già numerosissima offerta culturale del Centro di Cultura, dell’Archivio Storico e del Museo Ebraico. Credo fermamente nel potere della conoscenza e che sia più facile per le persone avvicinarsi alla nostra cultura “riconoscendo” quelle che sono le similitudini con il proprio modo di vivere. La cultura ebraica, che noi stiamo diffondendo con questo progetto verso la popolazione dei non iscritti alla Comunità, è la cultura millenaria del nostro popolo, che offre spunti di riflessione in ogni campo e aiuta a combattere con la conoscenza il pregiudizio. Per quanto attiene invece al pubblico comunitario, c'è un interesse sempre maggiore alle nostre attività: come le mostre, le presentazioni di libri e molto altro. È importante avvicinare a questi temi i giovani, offrendo loro una varietà di proposte  culturali. Auguro a tutti di godere di questa straordinaria giornata della “bellezza” della cultura ebraica.

(Shalom, 8 settembre 2023)

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Abu Mazen choc sugli ebrei. E Parigi gli ritira la medaglia

di Mauro Indelicato

Arrivano le prime conseguenze politiche alle parole pronunciate nei giorni scorsi dal presidente palestinese Abu Mazen. Il comune di Parigi, così come annunciato nelle scorse ore dal primo cittadino Anne Hidalgo, ha deciso di revocare al leader dell'Anp la Grand Vermeil. Ossia la più alta onorificenza che la capitale parigina assegna alle persone che si distinguono in ambito politico, culturale o sociale.
   Abu Mazen, secondo Hidalgo, non può più essere annoverato nella lista di coloro che in passato hanno ricevuto il più importante riconoscimento concesso dalla capitale francese. A pesare per l'appunto sono state le frasi del presidente palestinese, secondo cui l'Olocausto non è stato figlio dell'antisemitismo ma, al contrario, una reazione al ruolo sociale degli ebrei. Per Hidalgo, un'espressione del genere è "contraria ai nostri valori universali".

• La decisione del comune di Parigi
  Il sindaco della capitale francese ha affidato le motivazioni della sua scelta a una lettera rivolta allo stesso Abu Mazen. "Le frasi da lei pronunciate - si legge - sono contrarie ai nostri valori universali e alla verità storica della Shoah". Nella missiva, Anne Hidalgo ha voluto sottolineare la portata storica dell'olocausto sia in Europa che nella stessa Parigi.
   "Lei ha giustificato lo sterminio degli ebrei d'Europa nella Seconda guerra mondiale - si legge ancora nella lettera indirizzata al leader dell'Anp - con una manifesta volontà di negare il genocidio di cui furono vittima le popolazioni ebree d'Europa da parte del regime nazista e dei suoi alleati. La Shoah fa parte anche della storia di Parigi".
   "Nella nostra città - conclude Hidalgo- durante la Seconda guerra mondiale, decine di migliaia di bambini, donne e uomini di confessione ebraica hanno subito retate, sono stati deportati e poi sterminati nei campi della morte". La decisione del sindaco di Parigi è stata subito commentata positivamente da diverse personalità ebraiche della capitale francese. A partire dal rabbino capo di Francia, Haim Korsia, il quale ha ringraziato pubblicamente su X/Twitter Anne Hidalgo per la decisione presa.Analoga posizione è stata presa anche dal presidente del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Yonathan Arfi. "Questa importante decisione onora Parigi - ha scritto sempre su X il numero uno del Crif - e il costante impegno della città contro l'antisemitismo".

• Le possibili conseguenze delle parole di Abu Mazen
  Le frasi "incriminate" sono state pronunciate da Abu Mazen lo scorso 26 agosto durante un Comitato rivoluzionario di Al Fatah, il partito fondato dal suo predecessore Yasser Arafat. In particolare, il leader palestinese ha negato l'origine semita degli ebrei in Europa e quindi, di conseguenza, l'esistenza di un'ideologia antisemita da parte di Adolf Hitler.

    "Tutti sanno che nella Prima guerra mondiale Hitler era un sergente - ha dichiarato nel raduno del comitato del partito - Combatteva gli ebrei perché si occupavano di usura e di traffici monetari. A suo parere erano impegnati in sabotaggi, e perciò li odiava. Ma un punto deve essere chiaro: non aveva a che vedere con semitismo o antisemitismo".

Il gesto del comune di Parigi ha carattere simbolico, ma con delle potenziali conseguenze politiche. La scelta di Hidalgo potrebbe infatti essere emulata anche da altri enti nel Vecchio Continente e da alcuni governi. Lo spettro per Abu Mazen è adesso legato a un possibile progressivo isolamento politico. Da Ramallah, sede dell'Autorità Nazionale Palestinese, per il momento non sono emersi commenti né alle scelta del comune di Parigi e né alle varie reazioni registrate in Europa dopo le parole di Abu Mazen.

(il Giornale, 8 settembre 2023)

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Lia Levi: “Il mio nome nell'elenco degli ebrei salvati. Così a 11 anni scampai al rastrellamento”

L’intervista alla scrittrice e testimone

di Viola Giannoli

«C’ero anch’io in uno di quei conventi, così mi sono salvata». Lia Levi, 91 anni, nel ‘43 era una bambina e basta, come il titolo di quel suo libro in cui cinquant’anni dopo ha deciso di raccontare la sua storia di scampata alle retate nazifasciste.

- Lia, c’è anche il suo nome nell’elenco degli ebrei ospitati negli istituti religiosi di Roma?
  «Il mio, delle mie sorelle Gabriella e Vera e di mia madre Leontina».

- Cosa accadde?
  «Avevo 11 anni, la mia famiglia capì il pericolo quando ci fu la richiesta dell’oro, mia madre ci accompagnò nel collegio di San Giuseppe al Casaletto diretto dalle suore di San Giuseppe di Chambery. Ci accolsero a un patto: dire di essere cattoliche, recitare le preghiere e cambiare nome. Io sono stata prima Lia Lenti e poi Maria Cristina Cataldi con i documenti di una bambina del Sud rimasta lontana perché l’Italia, dopo l’8 settembre, era divisa a metà».

- Quanti ebrei furono ospitati lì?
  «All’inizio eravamo cinque. Dopo il rastrellamento del 16 ottobre fecero una camerata di sole ebree, eravamo più di trenta».

- Cosa facevate in collegio?
  «La sveglia, la scuola, i compiti, i disegni, la pittura, il rosario in corridoio in latino, la cena e moltissime preghiere. A mia madre, prima che ci lasciasse, dissi “ma io sono ebrea, le preghiere non le so”. Mamma disse solo “imparerete in fretta, dovete farlo”. Io non provavo nulla, non capivo bene cosa accadeva, cercavo solo di apprendere cosa fare. Ma quando la situazione è grave, i bimbi obbediscono».

- Sapeva che sarebbe restata lì a lungo?
  «No, credevo durasse pochi giorni, siamo rimaste 10 mesi. Dopo il 16 ottobre anche mia madre riuscì a farsi ospitare nel pensionato delle stesse suore. Venne a bussare, attese un giorno, poi la fecero entrare. Tutte le sere andavamo a trovarla nella stanza e dividevamo l’uovo che aveva comprato, un cucchiaino a testa».

- Ha mai avuto paura?
  «Due volte i tedeschi provarono a fare irruzione, due volte le suore li fermarono».

- Perché per molto tempo non ha raccontato la sua storia?
  «Perché, come dice quell’elenco ritrovato, noi eravamo i salvati. Quando sono stata liberata avevo 12 anni, sapevo solo che c’era stato un pericolo dei tedeschi e avevo capito che se qualcuno ti dà la caccia devi scappare o nasconderti. Solo più tardi ho saputo della deportazione e dello sterminio. E di fronte a questa tragedia non me la sentivo di raccontare una storia drammatica, ma non tragica».

- Poi cos’è cambiato?
  «Negli anni ‘90, qualcuno dice dopo la caduta del Muro, si è riaperto per tanti quel cassetto della storia e quell’infanzia è divenuta raccontabile, nei libri, nelle scuole. Ed è subentrata un’indignazione per quell’Italia che aveva cercato di schierarsi tra le vittime e invece era tra i colpevoli».

- Ora il ritrovamento di questo elenco aggiunge una tessera a questa storia.
  «Serve a mettere ordine nella Memoria, che non è il ricordo che dopo un mese passa, ma il lavoro che si fa sul ricordo. E serve ad avvicinare i giovani che cercano di proteggersi dal dolore ma possono approcciarsi all’Olocausto a partire da una storia come la mia, come la nostra, che è una storia di salvati».

(la Repubblica, 8 settembre 2023)

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Gli "antichi segreti" della biblica strada principale di Israele

Un documentario prodotto da ex diplomatici americani di alto livello e da TBN porta gli spettatori lungo la Highway 60 in Israele

La Highway 60 in Israele
I successi politici in Medio Oriente di due dei più influenti diplomatici americani, l'ex Segretario di Stato Mike Pompeo e l'ex Ambasciatore in Israele David Friedman, erano radicati nella loro forte fede in Dio e nei valori contenuti nelle mistiche storie della Bibbia.
Ora che entrambi si sono ritirati dalla politica, il duo diplomatico si è riunito nuovamente per documentare alcuni dei loro più importanti trionfi geopolitici e le motivazioni religiose che li hanno guidati, filmando un tour dei siti più sacri di Israele.
"Route 60: Israel's Biblical Highway" è un viaggio lungo la strada che attraversa il centro del moderno Israele. L'autostrada, lunga 146 chilometri, collega diverse città fondamentali sia per l'ebraismo che per il cristianesimo, tra cui Gerusalemme, Hebron, Beit El, Shiloh, Beersheva, Betlemme e Nazareth.
Il tour è stato girato in quattro giorni da Friedman, ebreo religioso, e Pompeo, cristiano devoto. Come dice Friedman nell'introduzione del film:
"La Route 60 collega molti siti sacri ed eventi biblici in quella che potrebbe essere definita la Bible Belt originale. Ci sono pietre miliari, umane e divine, che commemorano atti di celebrazione, sofferenza e redenzione intessuti nella storia di Israele".
La maggior parte dei siti visitati si trova nelle province bibliche di Giudea e Samaria, che molti nel mondo chiamano Cisgiordania. Mentre molti conoscono la provincia per il suo millenario significato biblico, molti altri oggi vedono il territorio conteso solo attraverso il prisma del decennale conflitto israelo-palestinese.
“Vorrei che le persone si interessino alla Giudea e alla Samaria", ha detto Friedman al JNS. Vorrei che smettano di pensare alla Giudea e alla Samaria come a una parte del mondo lontana e senza importanza, che è solo un pezzo di terra soggetto a violenze, dispute e rivendicazioni di legalità o illegalità".
"C'è molta indifferenza e molta ignoranza su molti di questi luoghi", ha aggiunto.
Mike Pompeo e
David Friedman
Nel film, ad esempio, Friedman chiede a Pompeo: "Quanto pensi che sia grande l'intera Città Vecchia di Gerusalemme?" e aggiunge: "Un chilometro quadrato. Tutto qui".
Al che Pompeo risponde: C’è “un sacco di storia in questo piccolo spazio". A metro quadrato, qui c'è la più grande storia del mondo.
Per la maggior parte dei turisti, molti dei luoghi visitati da Friedman e Pompeo sono raramente visitabili o off-limits. Ad esempio, per visitare l'Altare di Giosuè originale e intatto è necessario un permesso militare. Per gli spettatori, "Route 60" offrirà probabilmente una prima visione esclusiva dei siti di cui si legge nella Bibbia.
"L'idea era che se le persone non possono andare a visitare, possiamo fare un film e mostrare quello che c'è da vedere", ha spiegato Friedman. "Volevo che le persone capissero che, sebbene Israele sia comunemente indicato come la terra della Bibbia, la maggior parte delle storie della Bibbia sono ambientate in Giudea e Samaria. Un luogo in cui la maggior parte delle persone nel mondo non crede che Israele abbia il diritto di stare".
“La possibilità di vivere veramente questi siti in modo pacifico e stimolante è il risultato della politica del governo israeliano dal 1948; soltanto Israele ha reso possibile che tutti questi luoghi sacri siano accessibili a ebrei, cristiani e musulmani.
"Non era così prima del 1948, e credo che Israele sia giustamente molto orgoglioso di aver fatto un buon lavoro nel preservare i luoghi santi di tutte e tre le principali religioni".
Sebbene gran parte del film riguardi i siti dell'area più contesa del mondo, Friedman e Pompeo cercano di evitare in larga misura gli argomenti controversi.
"Il film non è politico. Non sostiene alcuna soluzione particolare al conflitto israelo-palestinese", ha detto Friedman. “E’ su quella strada che si svolgono gli eventi della Bibbia . E sono pronto a scommettere che quando la gente capirà meglio questo, supereremo l'apatia e la gente si interesserà di più. E se si interesseranno di più, sono molto più fiducioso che otterremo il giusto risultato per affrontare il problema di questo territorio a lungo termine", ha aggiunto.
Nel film, Pompeo racconta gli eventi chiave del suo mandato come Segretario di Stato, tra cui il rilascio degli ostaggi americani in Corea del Nord e l'abbandono di una politica americana vecchia di decenni che considerava gli insediamenti ebraici alla periferia della città come intrinsecamente illegali. Il film racconta la storia del trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e la firma dello storico accordo di Abramo, mediato dagli Stati Uniti, tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
Parte dell'unicità del film deriva dal fatto che il tour non è sceneggiato e quindi a volte diventa molto personale. Entrambi non solo spiegano la storia e il significato profondo di ogni luogo per milioni di persone in tutto il mondo, ma condividono anche storie molto personali. Per esempio, Friedman racconta del legame tra la tomba di Rachele a Betlemme e il fidanzato di sua cugina, ucciso insieme al padre in un attacco terroristico a Gerusalemme alla vigilia del loro matrimonio. Il suo abito da sposa non indossato è stato ritagliato in una tenda che copre parte della tomba.
Quando una delle due guide turistiche raccontava una storia, l'altra era subito pronta ad accrescere l'emozione con una propria storia.
"È stato molto stimolante per me, e spero anche per Mike, perché credo che abbiamo avuto l'opportunità di sperimentare in prima persona le reazioni degli altri a questi luoghi. Veniamo da prospettive teologiche diverse, ma credo che queste differenze siano state molto fluide. Penso che entrambi abbiamo apprezzato il grande significato storico", ha detto Friedman. "Eravamo entrambi molto entusiasti ed emozionati. E credo che questo si veda anche nella telecamera".
Matt Crouch, presidente di Trinity Broadcasting Network (TBN) e produttore esecutivo del documentario, ha dichiarato a JNS che il film è nato solo perché David e Mike si sono trovati così bene davanti alla telecamera e ciascuno ha completato l'energia dell’altro.
"La storia è raccontata da due uomini che possono fornire un resoconto biblico e geopolitico di questi luoghi migliore di chiunque altro", ha aggiunto Crouch. Crouch ha sottolineato che mentre è stato in Israele "100 volte o più", in questo viaggio ha potuto visitare "otto o dieci luoghi in cui non ero mai stato prima".
"Senza viaggiare, gli spettatori hanno la possibilità di vedere l'antico sentiero percorso da Abramo e da altri eroi biblici", ha aggiunto.
Anche se il lungometraggio dura 90 minuti, Crouch ha aggiunto che ci sono quasi cinque ore di filmati che andranno in onda come serie in quattro parti su TBN nei mesi successivi all'uscita nelle sale.
Il film sarà proiettato in oltre 1.000 sale cinematografiche degli Stati Uniti il 18 e 19 settembre.
Friedman ha spiegato: "La TBN - le risorse che ha messo a disposizione, la qualità dei registi, le persone che hanno fatto il montaggio, il numero di telecamere. ... a ogni fermata lungo il percorso c'era un gruppo diverso di operatori di attrezzature e professionisti coinvolti nelle riprese. Dunque un mucchio di risorse. La TBN voleva davvero fare le cose per bene e ci ha messo tutto quello che aveva".
In quanto ebreo ortodosso, Friedman ha dichiarato a JNS di non aver avuto problemi a visitare siti che sono sacri ai cristiani, potendo quindi realizzare un documentario che probabilmente sarà visto da molti più cristiani che ebrei.
“Durante il lavoro a questo film e parlando con molte persone di fede cristiana che conosco, sono stato molto incoraggiato dal vedere quanto tengano all'integrità biblica dello Stato di Israele. Questo mi ha dato molta forza", ha detto Friedman.
"Se il risultato del film sarà che i cristiani saranno entusiasti di collegarsi con i siti cristiani, allora penso che il film sarà un grande successo. Vorrei proprio che i cristiani trovino nel film, e naturalmente nei siti descritti nel film, lo stesso significato e scopo e valore che un ebreo troverebbe nelle parti che contano per un ebreo", ha aggiunto. "Permettetemi di sottolineare ancora una volta che per i cristiani, che attribuiscono una grande santità all'Antico Testamento e ai profeti, praticamente tutto quello che qui ho sperimentato come ebreo è per loro altrettanto rilevante e stimolante".
Alla fine del film, Pompeo osserva: "Quando sono entrato in contatto con questo progetto, ho pensato: "Sarà difficile; questi luoghi sono difficili da raggiungere, bisogna ottenere diversi permessi dal governo". E ora, quando guardo indietro a questo progetto e vedo la sua bellezza e il glorioso lavoro che abbiamo fatto, dico che ne è valsa la pena".
"È stato un lavoro d'amore e prego che questo documentario aiuti altri proprio come ha aiutato me a conoscere la Bibbia come fatto reale e fondamentale. L'ho toccata. Sono stato lì. Ho camminato su quella via. Lei è concreta, come è concreta la Bibbia scritta. E tutto questo lavoro è valso la pena, se si può condividere con gli altri".

(Israel Heute, 8 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Abigail Windberg: dalla Cina in Israele per arruolarsi nell'IDF

di Michelle Zarfati

Abigail Windberg
Abigail Windberg, 24 anni, originaria della Cina e studentessa di una midrashà in Israele, ha deciso di unirsi all'IDF. Cinque anni fa, la ragazza si è trovata casualmente sulla scena di un attacco terroristico in Cisgiordania: fu proprio quel momento a convincerla a compiere questo importante passo. "Ho sentito degli spari e mi sono messa al riparo. A tutti è stato detto di non uscire. Quando alla fine sono uscita, ho visto del sangue sulla strada", racconta Windberg durante un'intervista a Ynet. "Era la prima volta nella mia vita che sentivo di essere in pericolo. Solo allora ho capito veramente la realtà della situazione in Israele". Fu proprio questo incidente a innescare un punto di svolta nella vita di Abigail, convincendola ad arruolarsi nell'IDF e servire come soldato combattente. Oggi è un'operatrice nella 215a Brigata di artiglieria e la sua unità conduce esercitazioni di addestramento sulle alture del Golan. "Mi sono resa conto che la situazione della sicurezza nel Paese era una priorità, ed io volevo fare qualcosa per lo Stato d'Israele".
   Dopo un anno di studi presso l'Università di Washington a Seattle, Windberg ha sentito il bisogno di cambiare direzione. "Alla fine dell'anno, mi sentivo come se non sapessi cosa volessi fare della mia vita. Sono tornata in Cina per valutare le opzioni. Un'amica di mia madre mi ha parlato delle opportunità di volontariato in Israele, così ho fatto volontariato in un asilo nel Kibbutz Ein Gev, vicino al Mar di Galilea" ha raccontato Windberg, che è successivamente arrivata in Israele attraverso l'organizzazione KPC (Kibbutz Volunteers Program Center). Il piano originale era di fare volontariato nel kibbutz per un anno. "All'inizio pensavo che tutta Israele fosse come un kibbutz. Ho amato la vita lì, la tranquillità, la semplicità. Ero a Ein Gev per Pesach, ed ho vissuto per la prima volta un seder davvero speciale. Gli abitanti del kibbutz mi invitavano a casa per le cene di Shabbat e ci ritrovavamo insieme nella sinagoga. Ad un certo punto ho capito che volevo avvicinarmi all'ebraismo sempre di più".
   All'inizio ha soldatessa ha studiato al Midreshet Nishmat a Gerusalemme, e successivamente al Midreshet B'erot Bat Ayin in Cisgiordania. Proprio in quel luogo e causa dell'attentato Windberg ha preso la sua importante decisione.
   Una scelta di vita che la soldatessa ha affrontato in autonomia per dimostrare il suo attaccamento allo Stato ebraico. "Mia madre pensa che io sia pazza. Entrambi i miei genitori lo pensano, non comprendono la mia scelta. Mia madre vive in Cina e mio padre negli Stati Uniti. Io credo fermamente nell'idea del sionismo e sento che è importante per ogni ebreo aiutare lo Stato d'Israele in ogni modo" ha detto Windberg.

(Shalom, 8 settembre 2023)

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Parashot Nitzavim e Vayelech. Il rinnovamento personale e nazionale, l’ultima eredità data da D-o a Mosè

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Il momento era arrivato. Mosè stava per morire. Aveva visto morire prima di lui sua sorella Miriam e il fratello Aaron. Aveva pregato Dio – non di vivere per sempre, nemmeno di vivere più a lungo, ma semplicemente: “Lasciami andare e vedere il buon paese oltre il Giordano” (Deuteronomio 3:25). Lasciami completare il viaggio. Lasciami raggiungere la destinazione. Ma Dio disse di no: “Basta”, disse il Signore. “Non parlarmi più di questa faccenda”. (Deuteronomio 3:26) Dio, che aveva acconsentito a quasi ogni altra preghiera fatta da Mosè, tuttavia questa gliela rifiutò.
Cosa ha fatto allora Mosè in questi ultimi giorni della sua vita? Emanò due comandi, tra questi l’ultimo dei 613 precetti, che avrebbero avuto conseguenze significative per il futuro dell’ebraismo e del popolo ebraico.
Il primo è noto come Hakhel, l’indicazione secondo la quale il re avrebbe dovuto convocare il popolo a riunirsi durante Succot dopo il settimo anno di Shemittah: “Alla fine di ogni ciclo di sette anni, nell’anno della cancellazione dei debiti, durante la festa delle Capanne, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto, leggerai questo ultimo libro della Torà davanti a loro così che giunga alle loro orecchie. Raduna il popolo, uomini, donne, bambini e stranieri che abitano nelle tue città, perché ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio e a mettere in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli, che non la conoscono, la ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio finché vivrete nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano». (Deuteronomio 31:10-13)
Non c’è alcun riferimento specifico a questo precetto negli ultimi libri di Tanach, ma ci sono resoconti di raduni molto simili: cerimonie di rinnovamento del patto, in cui il re o un suo equivalente riuniva la nazione, leggendo la Torà o ricordando al popolo la sua storia, e invitandoli a riaffermare i termini del loro destino di popolo in alleanza con Dio.
Questo, è ciò che Mosè aveva fatto nell’ultimo mese della sua vita. Il libro del Deuteronomio nel suo insieme è una riaffermazione del patto, quasi quarant’anni dopo, a una generazione successiva al patto originale del Monte Sinai. C’è un altro esempio in proposito nell’ultimo capitolo del libro di Giosuè (vedi capitolo 24), dopo che aveva adempiuto al suo mandato come successore di Mosè, portando il popolo oltre il Giordano, guidandolo nelle battaglie e insediandosi nella terra promessa.
Un altro episodio analogo accadde molti secoli dopo, durante il regno del re Giosia. Suo nonno, Menasse, che regnò per cinquantacinque anni, fu uno dei peggiori re di Giuda, introdusse varie forme di idolatria, compreso il sacrificio di bambini. Giosia cercò di riportare la nazione alla sua fede, ordinando tra le altre cose la purificazione e la ristrutturazione del Tempio. Fu nel corso di questo restauro che fu scoperta una copia della Torà, sigillata in un nascondiglio, per evitare che venisse distrutta durante i molti decenni in cui fiorì l’idolatria e la Torà fu quasi dimenticata. Il re, profondamente colpito da questa scoperta, convocò un’assemblea nazionale sul modello di Hakhel: “Allora il re convocò tutti gli anziani di Giuda e di Gerusalemme. Salì al Tempio del Signore con il popolo di Giuda, gli abitanti di Gerusalemme, i sacerdoti e i profeti, tutto il popolo dal più piccolo al più grande. Lesse alle loro orecchie tutte le parole del libro dell’Alleanza, che era stato trovato. Il re si fermò presso la colonna e rinnovò l’alleanza alla presenza del Signore: seguite il Signore e osservate i suoi precetti, statuti e decreti con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, confermando così le parole dell’Alleanza scritte in questo libro. Allora tutto il popolo si impegnò a rispettarle”. (2 Re 23:1-3)
La cerimonia più famosa di Hakhel fu il raduno nazionale convocato da Ezrà e Neemia dopo la seconda ondata di rimpatriati dalla Babilonia (Neemia 8-10). In piedi su una piattaforma vicino a una delle porte del Tempio, Ezrà lesse la Torà all’assemblea, dopo aver posizionato i Leviti in mezzo alla folla in modo che potessero spiegare al popolo cosa veniva detto. La cerimonia, iniziata a Rosh HaShanà, culminò dopo Succot quando il popolo collettivamente “si impegnò, con un’ammonizione e un giuramento, a seguire la Legge di Dio data attraverso Mosè servo di Dio ad obbedire scrupolosamente tutti i precetti, regolamenti e decreti del Signore nostro Dio”. (Neemia 10:29)
L’altro comando – l’ultimo che Mosè diede al popolo – era contenuto nelle parole: “Ora scrivi questo cantico e insegnalo agli Israeliti”, inteso dalla tradizione rabbinica come l’ordine di scrivere, o almeno prendere parte alla scrittura, un Sefer Torà.
Perché proprio questi due comandi, in questo momento?
Qui si stava svolgendo una profonda transazione. Ricordiamo che Dio era sembrato brusco nel respingere la richiesta di Mosè di poter attraversare il Giordano. “Basta così… Non parlarmi più di questa faccenda”. È questa la Torà, è questa la sua ricompensa? È così che Dio ha ripagato il più grande dei profeti? Sicuramente no.
Con i due ultimi comandamenti Dio insegnò a Mosè, e attraverso di lui agli ebrei nel corso dei secoli, cos’è l’immortalità – sulla terra, non solo in cielo. Siamo mortali perché siamo fisici e nessun organismo fisico vive per sempre. Cresciamo, invecchiamo, diventiamo fragili, moriamo. Ma non siamo solo fisici. Siamo anche spirituali. In questi ultimi due precetti ci viene insegnato cosa significa far parte di uno spirito che non è morto da quattromila anni e non morirà finché ci saranno il sole, la luna e le stelle.
Dio ha mostrato a Mosè, e attraverso lui a noi, come entrare a far parte di una civiltà che non invecchia mai. Rimane giovane perché si rinnova continuamente. Gli ultimi due comandamenti della Torà riguardano il rinnovamento: prima collettivo, poi individuale.
Hakhel, la cerimonia di rinnovo del patto ogni sette anni, assicurava che la nazione si dedicasse regolarmente alla propria missione. Ho spesso sostenuto che esiste un luogo al mondo in cui questa cerimonia di rinnovamento dell’Alleanza ha ancora luogo: gli Stati Uniti d’America.
Il concetto di patto giocò un ruolo decisivo nella politica europea del XVI e XVII secolo, soprattutto nella Ginevra di Calvino e in Scozia, Olanda e Inghilterra. Il suo impatto più duraturo, però, si ebbe sull’America, dove fu deputato con i primi coloni puritani e rimane parte della sua cultura politica fino ad oggi. Quasi ogni discorso inaugurale presidenziale – ogni quattro anni dal 1789 – è stato, esplicitamente o implicitamente, una cerimonia di rinnovamento del patto, una forma contemporanea di Hakhel. Nel 1987, parlando alla celebrazione del bicentenario della Costituzione americana, il presidente Ronald Reagan descrisse la costituzione come una sorta di “patto che abbiamo stretto non solo con noi stessi ma con tutta l’umanità… È un patto umano; sì, e oltre a ciò, un patto con l’Essere Supremo al quale i nostri padri fondatori chiedevano costantemente assistenza”. Il dovere dell’America, è “rinnovare costantemente il proprio patto con l’umanità… per completare l’opera iniziata 200 anni fa, quella grande e nobile opera che è la vocazione particolare dell’America: il trionfo della libertà umana sotto Dio”.
Se Hakhel è il rinnovamento nazionale, il precetto secondo cui ciascuno di noi dovrebbe prendere parte alla stesura di un nuovo Sefer Torà è il rinnovamento personale. Era il modo di Mosè di dire a tutti: non vi basta dire, ho ricevuto la Torà dai miei genitori (o nonni o bisnonni). Bisogna prenderla e renderla nuova in ogni generazione.
Una delle caratteristiche più sorprendenti della vita ebraica è che, da Israele a Palo Alto, gli ebrei sono tra gli utenti più entusiasti della tecnologia informatica al mondo e hanno contribuito in modo sproporzionato al suo sviluppo (Google, Facebook, Waze). Ma scriviamo ancora la Torà esattamente come si faceva migliaia di anni fa: a mano, con una penna, su un rotolo di pergamena. Questo non è un paradosso; è una verità profonda. Le persone che portano con sé il proprio passato, possono costruire il futuro senza paura.
Il rinnovamento è una delle imprese umane più difficili. Alcuni anni fa sedevo con l’uomo che stava per diventare Primo Ministro britannico. Nel corso della nostra conversazione disse: “Ciò che prego di più è che quando arriveremo lì (intendeva, 10 Downing Street), non dimenticherò mai il motivo per cui volevo arrivarci”. Sospetto che avesse in mente le famose parole di Harold Macmillan, primo ministro britannico tra il 1957 e il 1963, che, quando gli fu chiesto cosa temesse di più in politica, rispose: “Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi”.
Le cose accadono. Veniamo trascinati da venti passeggeri, coinvolti in problemi che talvolta non sono nostri e andiamo alla deriva. Quando ciò accade, che si tratti di individui, istituzioni o nazioni, invecchiamo. Dimentichiamo chi siamo e perché. Alla fine veniamo superati da persone (o organizzazioni o culture) che sono più giovani, più desiderose o più motivate di noi.
L’unico modo per rimanere giovani, desiderosi e motivati è attraverso il rinnovamento periodico, ricordando a noi stessi da dove veniamo, dove stiamo andando e perché. A quali ideali siamo legati? Quale cammino siamo chiamati a continuare? Di quale storia facciamo parte?
Con quanta precisione, quindi, e quanta bellezza, proprio nel momento in cui il più grande dei profeti affrontò la propria mortalità, Dio diede a lui, e a noi, il segreto dell’immortalità – non solo in cielo, ma quaggiù sulla terra. Poiché quando ci atteniamo ai termini dell’alleanza e la rinnoviamo nella nostra vita, continuiamo a vivere in coloro che verranno dopo di noi, sia attraverso i nostri figli, o i nostri discepoli, o coloro che abbiamo aiutato o influenzato. “Rinnoviamo i nostri giorni come nei tempi antichi” (Lamentazioni 5:21). Mosè morì, ma ciò che insegnò e ciò che cercò sopravvive ancora.
di Rav Jonathan Sacks

(Bet Magazine Mosaico, 8 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Nitzavim (State tutti davanti)

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Alta tensione tra Israele e Libano

di Filippo Merli

La lettera parla di «escalation violenta». Il mittente è il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che l'ha inviata al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per metterlo al corrente della crescente tensione lungo il confine tra Israele e Libano. «Israele è il paese più vicino a lanciare un'offensiva militare in Libano dalla guerra del 2006», ha avvertito il delegato permanente di Tel Aviv all'Onu, Gilad Erdano, facendo riferimento alle «crescenti violazioni» di Hezbollah, l'organizzazione paramilitare islamista sciita libanese. «Israele non tollererà minacce alla sicurezza dei suoi cittadini e agirà come richiesto in loro difesa», ha sottolineato Gallant.
   Il confine israelo-libanese è stato testimone di tensioni negli ultimi mesi tra accuse reciproche di infrazione e attraversamento. Lo scorso giugno Hezbollah ha montato alcune tende nelle fattorie di Shebaa e sulle colline di Kfar Shouba, vicino alla frontiera, dove negli ultimi mesi si sono verificati picchi di violenza con razzi lanciati contro Israele come rappresaglia agli attacchi israeliani sui palestinesi.
   Beirut insiste sul fatto che l'area di Shebaa Farms, che è sotto occupazione israeliana dal 1967, sia territorio libanese. Nel 2006 Israele e Hezbollah hanno combattuto una guerra durata 34 giorni in cui sono stati uccisi 1.200 libanesi, per lo più civili, e 160 israeliani, in maggioranza soldati.
   Secondo il consigliere della Casa Bianca, Amos Hochstein, gli Stati Uniti potrebbero assumere il ruolo di mediatori per porre fine alla disputa transfrontaliera. La scorsa settimana, al termine di una visita di due giorni in Libano, Hochstein ha dichiarato che è «naturale» risolvere la questione, basandosi sulla delineazione del confine marittimo tra i due paesi.
   Il diplomatico americano ha affermato di aver visitato il Libano meridionale «per comprendere e imparare di più su ciò che è necessario per poter potenzialmente ottenere un risultato». La delineazione del confine marittimo ha portato il Libano ad avviare attività di esplorazione offshore. La linea di demarcazione terrestre tra Israele e Libano, invece, è conosciuta come Linea blu.
   Un confine che le Nazioni Unite hanno segnato quando le forze israeliane si ritirarono dal Libano meridionale nel 2000 dopo un'occupazione iniziata durante la guerra civile libanese nel 1982. Israele ha presentato una denuncia all'Onu per l'accampamento militare che Hezbollah ha installato vicino a Ghajar. Il ministro degli Esteri a interim del Libano, Abdallah Bou Habib, ha detto che risolvere la disputa sui confini potrebbe allentare le tensioni. La forza di pace delle Nazioni Unite, Unifil, istituita nel 1978 per garantire il ritiro di Israele dal Libano, ha organizzato incontri tra Tel Aviv e Beirut per allentare le tensioni e scongiurare una possibile escalation alla quale faceva riferimento Gallant nella lettera inviata a Guterres. Durante una riunione del consiglio di Unifil il rappresentante russo all'Onu, Vasily Nebenzya, ha invitato il comando unificato delle forze di mantenimento della pace a continuare a coordinarsi attivamente col governo libanese. Già. È strano sentire la Russia parlare di pace.

(ItaliaOggi, 7 settembre 2023)

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Israele, Cipro e Grecia valutano i patti energetici - Athens News

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Il presidente cipriota Nikos Christodoulidis, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis hanno ribadito il loro impegno a rafforzare la cooperazione nel campo energetico a seguito dei colloqui trilaterali svoltisi lunedì al Palazzo presidenziale.
“Abbiamo convenuto che il settore energetico, in particolare il gas naturale, l’elettricità e le energie rinnovabili, costituisce una solida base per la cooperazione nella regione, basata sul diritto internazionale, compreso il diritto del mare e sul rispetto da parte di tutti gli Stati del diritto di esercitare i propri diritti nelle rispettive zone economiche esclusive (ZEE) e sulla piattaforma continentale”, – si legge nella dichiarazione congiunta a seguito dei risultati del 9° vertice trilaterale.
Intervenendo in una conferenza stampa, Christodoulides lo ha chiamato “un’alleanza strategica chiaramente dinamica tra partner che condividono valori democratici, obiettivi comuni e investono in una visione condivisa di stabilità, prosperità e sicurezza nella nostra regione e oltre.”
Ha aggiunto: “Alla luce della crescente necessità di diversificazione e interconnessione delle risorse energetiche determinata dagli sviluppi geopolitici, abbiamo riaffermato il nostro comune interesse nel promuovere le prospettive per un corridoio energetico sicuro dal bacino del Mediterraneo orientale all’Europa”.
Christodoulidis, Netanyahu e Mitsotakis hanno discusso dell’importanza di andare avanti con progetti come l’Interconnettore Eurasiatico e possibili futuri gasdotti per gas naturale e idrogeno.
Nel suo discorso in una conferenza stampa, il leader israeliano ha confermato l’interesse del suo Paese a partecipare al progetto della linea di trasmissione elettrica sottomarina EuroAsia. “Per quanto riguarda il cavo elettrico… Sia Israele che Cipro sono isole. Anche Creta, che fa parte della Grecia, è un’isola, ha detto Netanyahu. – Attualmente si sta organizzando una linea di comunicazione elettrica tra la Grecia continentale, Creta e Cipro. Vorremmo che fosse collegato ovviamente con Israele e possibilmente con l’est di Israele così da poter ottimizzare l’uso dell’energia elettrica. Siamo molto interessati a questo. E abbiamo discusso il meccanismo con cui ciò può essere fatto.”
Netanyahu ha espresso un senso di urgenza riguardo ai piani di Israele di esportare il suo gas naturale in Europa, tramite un gasdotto verso Cipro o un impianto GNL qui, o entrambi.
“Per quanto riguarda il gas, stiamo discutendo della possibilità che nel prossimo futuro dovremo prendere una decisione su come Israele esporterà il suo gas, e Cipro dovrebbe prendere le stesse decisioni. E stiamo considerando la possibilità di una cooperazione in questa materia , queste decisioni verranno prese, credo, nei prossimi tre-sei mesi, forse più vicino ai tre mesi.”
Secondo una dichiarazione congiunta, i capi dei tre Stati hanno sottolineato anche l’importanza del formato 3+1 con gli Stati Uniti. “che può offrire risultati tangibili nei settori dell’energia, dell’economia, dell’azione per il clima, della preparazione alle emergenze e della lotta al terrorismo.” È stato raggiunto un accordo per lavorare insieme per tenere una riunione ministeriale nel formato 3+1 entro la fine dell’anno.”
Allo stesso tempo, Netanyahu ha annunciato l’intenzione di espandere il formato “3 + 1” al di fuori degli Stati Uniti e possibilmente collegare ad esso l’India. “C’è qualcos’altro che può svilupparsi e ne abbiamo discusso in modo molto dettagliato”ha commentato il leader israeliano.
“Ora c’è la possibilità di espandere gli Accordi di Abraham per normalizzare le relazioni con l’Arabia Saudita. Tutti e tre i paesi vedono questa come una grande opportunità, ma vedono anche che può portare alla creazione di legami tra India, Penisola Arabica, Israele, Cipro, la Grecia, l’Europa. Esiste una connessione geografica naturale, ma può anche essere qualcosa che si tradurrà in molteplici benefici per i nostri popoli e i nostri paesi.”
È stata discussa la possibilità di invitare il Primo Ministro indiano al prossimo incontro trilaterale.
Allo stesso tempo, Christodoulides ha dichiarato di aver confermato “forte impegno con gli Stati Uniti per il formato 3+1 e concordato sull’importanza di intensificare la cooperazione 3+1 con risultati concreti anche con altri paesi, e ha parlato in particolare dell’India.”
Inoltre, a causa dei recenti devastanti incendi boschivi in Grecia, i leader dei tre paesi hanno riaffermato la loro reciproca disponibilità ad aiutarsi a vicenda nella risposta alle emergenze, compreso l’uso di sistemi di intelligenza artificiale per la rilevazione tempestiva degli incendi.
Mitsotakis e Netanyahu hanno inoltre informato Christodoulidis sugli ultimi sviluppi sulla questione di Cipro e hanno accolto con favore la sua iniziativa di includere un ruolo più forte Unione Europea nel tentativo di riprendere i negoziati.
Infine, Christodoulides, Netanyahu e Mitsotakis hanno concordato che il prossimo vertice tripartito si terrà la prossima primavera in Grecia o Israele.
Nel corso degli anni si sono stabiliti forti legami tra i tre paesi e Netanyahu ha osservato che uno degli esempi più diretti di legami economici è il cibo. “Amiamo il tuo cibo”lo interruppe quando Mitsotakis ebbe finito di parlare. “Ci piacciono i tuoi latticini. Ci piace il tuo yogurt.” Netanyahu ha affermato che le autorità presto “apriranno” il mercato lattiero-caseario del Paese, che attualmente protegge la produzione locale con elevati dazi di importazione. “Intendiamo aprire molto presto il mercato lattiero-caseario ai greci, ai ciprioti e ad altri paesi”.
PS Ora aspettiamo la reazione della Turchia, che interverrà sicuramente su questo argomento…

(Athens News, 7 settembre 2023)

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Ritrovate a Ein Gedi quattro spade di epoca romana

di Michelle Zarfati

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Un team di ricercatori israeliani ha recentemente rivelato una rara scoperta del lontano passato nel deserto della Giudea. Si tratta di quattro spade di 1.900 anni fa e una punta di lancia della rivolta di Bar Kokhba contro l'Impero Romano.
   I rivoltosi ebrei lasciarono quattro spade e la punta di una lancia in una grotta nella Riserva Naturale di Ein Gedi. Per molti anni, le spade sono rimaste nascoste nella grotta fino a quando non sono state recentemente ritrovate dai ricercatori dell'Università di Ariel, dell'Università Ebraica e dell'Autorità Israeliana per le Antichità (IAA).
   Si ritiene che le armi fossero un bottino di guerra sottratto all'esercito romano. "Trovare una spada del genere è raro, ma quattro? È un sogno. Abbiamo dovuto stropicciarci gli occhi per crederci", hanno detto mercoledì i ricercatori durante la presentazione delle armi in una conferenza stampa a Gerusalemme.
   L'IAA ha spiegato che le armi sono state scoperte in una grotta isolata e di difficile accesso a nord di Ein Gedi, situata all'interno della riserva naturale gestita dall'Autorità israeliana per la natura e i parchi. Circa 50 anni fa in questa grotta furono scoperti anche frammenti di scrittura ebraica. Il testo è stato scritto con inchiostro su un frammento, nell'antica scrittura ebraica tipica del periodo del Primo Tempio.
   Recentemente, la grotta è stata visitata dal dottor Asaf Gayer del Dipartimento di Studi e Archeologia sulla Terra d'Israele dell'Università di Ariel, dal geologo Boaz Langford dell'Istituto di Scienze della Terra e dal Centro di ricerca sulle caverne dell'Università Ebraica di Gerusalemme e dal fotografo IAA Shai Halevi. Il trio ha deciso di catturare l'iscrizione ebraica sul frammento utilizzando l'imaging multispettrale, una tecnica che consente di decifrare parti del testo che non sono visibili a occhio nudo.
   Durante l'esplorazione del livello superiore della grotta, il dottor Gayer ha scoperto una punta di lancia eccezionalmente ben conservata all'interno di una cavità stretta e profonda. In una zona vicina sono stati rinvenuti anche pezzi di legno lavorato che furono poi identificati come parti di una guaina.
   L'IAA sta attualmente conducendo un'indagine completa delle grotte nel deserto della Giudea, documentando centinaia di reperti trovati nell'area negli ultimi sei anni, e sono stati effettuati 24 scavi archeologici in altre grotte selezionate in Israele. Lo scopo di questi sforzi è preservare i resti archeologici trovati nel deserto della Giudea e proteggerli dai saccheggi.
   La squadra di ricerca, insieme al dottor Gayer e Langford, è tornata alla grotta per la seconda volta per condurre un'indagine meticolosa di ogni sua fessura, trovando un'ulteriore camera al livello superiore e nascosto della grotta. All'interno di una fessura stretta e profonda tra due stalattiti, i ricercatori sono rimasti stupiti nello scoprire uno straordinario deposito di quattro spade romane.
   L'IAA ha sottolineato che le spade erano straordinariamente ben conservate; tre di loro avevano ancora le lame di ferro racchiuse in foderi di legno. Sono stati inoltre trovati anche frammenti di cinghie di cuoio e altri oggetti di metallo e legno, che facevano parte dell'assemblaggio della spada. La lunghezza della lama di tre spade è di circa 60-65 cm, caratteristica che le identifica come “Spathae romane”. Un'altra spada più corta, con una lama lunga circa 45 cm, è stata identificata come una spada con pomello ad anello.
   Le spade sono state accuratamente estratte dalla fessura e rapidamente trasferite per il trattamento e la conservazione in condizioni climatiche controllate nei laboratori IAA. Un primo esame della collezione suggerisce che si tratti di spade standard utilizzate dai soldati di stanza in Terra d'Israele durante il periodo romano.

(Shalom, 7 settembre 2023)

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Jared Kushner chiede a Trump di appoggiare l’accordo Saudita-Israele mediato da Biden

Il senatore repubblicano Lindsey Graham e l’ex consigliere anziano della Casa Bianca Jared Kushner hanno chiesto all’ex presidente Donald Trump di sostenere lo sforzo del suo successore Joe Biden di mediare un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita.
Il tipo di patto di difesa che Riyadh chiede di firmare con gli Stati Uniti in cambio della normalizzazione dei legami con Israele richiederà probabilmente l’approvazione del Congresso e avrà bisogno del sostegno di almeno alcuni repubblicani in un Congresso profondamente diviso.
Di conseguenza, l’opposizione intransigente di Trump potrebbe danneggiare le possibilità di Biden di ottenere il sostegno bipartisan di cui ha bisogno – particolarmente cruciale data l’avversione per il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman tra i democratici progressisti a causa della situazione dei diritti umani del regno del Golf
Considerando un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita come un interesse nazionale che trascende la politica, Graham e Kushner hanno cercato di raccogliere il sostegno dell’ex presidente.
“Ho detto al Presidente Trump… questa è la naturale estensione degli accordi di Abramo e se possiamo farlo, facciamolo. Non importa come si farà, né a chi spetterà farlo. Sarebbe una buona cosa per la stabilità del Medio Oriente e per la nostra sicurezza nazionale e il Presidente Trump merita la sua parte di merito”, ha dichiarato Graham al sito di notizie Axios.
Facendo ulteriore appello all’ego dell’ex presidente, il veterano parlamentare repubblicano ha raccontato di avergli anche detto che Biden che lavora per espandere gli accordi di normalizzazione degli accordi di Abramo tra Israele e i suoi vicini arabi che sono stati mediati da Trump è “il più alto segno di adulazione”.
Kushner, che è stato il principale artefice degli accordi di Abraham, ha trasmesso questo messaggio al suocero, dicendogli che un accordo tra Arabia Saudita e Israele rappresenterebbe una rivendicazione della sua politica mediorientale da parte di Biden.
Graham è sembrato confermare questo resoconto, dicendo ad Axios: “Jared Kushner è stato molto utile. Ha avuto alcune idee per la componente palestinese dell’accordo di normalizzazione. So che si è offerto di aiutare, credo che la Casa Bianca lo consideri utile”.
Il Fondo pubblico di investimento dell’Arabia Saudita ha investito 2 miliardi di dollari nel fondo di private equity Affinity di Kushner.
Non è chiaro come Trump abbia risposto alle richieste di Kushner e Graham e un portavoce dell’ex presidente ha rifiutato di commentare.
Graham è stato uno dei repubblicani più attivi nel sostenere l’iniziativa di Biden e il mese prossimo si recherà per la seconda volta quest’anno in Arabia Saudita e in Israele per cercare di portare avanti l’iniziativa.

(Rights Reporter, 7 settembre 2023)

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Un antico frammento è stato trovato a Gerusalemme: sopra riporta una strana incisione

A Gerusalemme emerge un'altra preziosa testimonianza del passato: si tratta del frammento di un'antica brocca che riporta una strana (e misteriosa) incisione.

di Giulia Sbaffi

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Gerusalemme, l’affascinante Città Santa, continua ad essere foriera di sorprese: non è solamente uno dei siti archeologici più famosi e visitati al mondo, ma anche crocevia di religioni e culture, sia nel passato che ancora oggi. E di questo delicato intreccio ci sono testimonianze incredibili. Una è forse quella appena riemersa da sotto terra, un piccolo frammento che sembra rivestire grandissima importanza.

• Trovato il frammento di un’antica brocca
  Israele è uno dei Paesi più ricchi dal punto di vista archeologico, e il suo fiore all’occhiello non può che essere Gerusalemme, la cui Città Vecchia – intrisa di splendide architetture e spiritualità – è patrimonio UNESCO. Stiamo parlando di uno degli insediamenti più antichi al mondo, luogo in cui, nel corso dei secoli, si sono incontrate ben tre religioni. Fondata circa 3mila anni fa da Re David, che ne fece la capitale del suo regno ebraico, venne poi conquistata dai romani e successivamente annessa all’Impero bizantino, diventando così uno dei principali luoghi della cristianità. È a quest’epoca che risale, tra l’altro, la costruzione della Basilica del Santo Sepolcro.
   La conquista da parte degli arabi, infine, fece di Gerusalemme il terzo luogo sacro dell’islamismo, dopo la Mecca e Medina. Insomma, la storia di questa città è stata sempre molto travagliata, e le scoperte archeologiche fatte sul suo territorio non sono sempre facili da decifrare. È proprio il caso dell’ultimo ritrovamento effettuato da parte dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA): nel corso di uno scavo, nel cuore di Gerusalemme, gli archeologi hanno portato alla luce il frammento del manico di un’antica brocca, risalente probabilmente a 1.500 anni fa, all’epoca della dominazione bizantina. Su di esso, sono state evidenziate delle strane incisioni.

• Il mistero dell’incisione
  “Sul frammento del manico è visibile un’incisione, composta da una linea fiancheggiata da tre linee diagonali su ciascun lato” – ha affermato Benjamin Storchan, direttore degli scavi per l’IAA. Si tratta di un simbolo piuttosto strano, che farebbe pensare – almeno a prima vista – ad una menorah. Quest’ultima è una lampada ad olio a sette bracci, che veniva accesa all’interno del Tempio di Gerusalemme, ed è diventata uno dei simboli principali della religione ebraica. Secondo la tradizione, rappresenterebbe l’arbusto bruciante in cui la voce di Dio si manifestò a Mosè.
   La menorah, come simbolo, viene disegnata proprio con una linea verticale centrale e altre sei linee (tre per lato) che ne divergono obliquamente. Ma l’incisione ritrovata sul frammento della brocca non è chiara: “I rami non terminano alla stessa altezza, rendendo così impossibile accertare definitivamente il simbolo raffigurato. Queste variazioni di altezza sollevano la questione della sua vera natura” – ha dichiarato Storchan. Anche perché all’epoca della realizzazione della brocca, a Gerusalemme la maggioranza delle persone era di fede cristiana, sebbene vi fossero dei quartieri ebrei.
   È possibile, dunque, che il segno inciso sia la “firma” del vasaio che ha prodotto la brocca: potrebbe rappresentare una palma, che è molto comune in Israele. Anche alcuni rabbini, secondo il Talmud, utilizzavano dei simboli come segni di identificazione personalizzati. Rimane tuttavia poco probabile che la brocca sia un manufatto dalle radici ebree, vista la predominanza del cristianesimo durante l’epoca bizantina.

(Libero Tecnologia, 7 settembre 2023)

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Vaccinazione da promuovere su tutto l’arco di vita. Fip: ecco il contributo dei farmacisti

Si legga attentamente questo articolo. Si va verso la vaccinazione universale a vita. Sta scritto nell'Agenda 2030. Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI

L’immunizzazione data dalle vaccinazioni è importante non solo in ambito pediatrico, ma durante tutta la vita e in età avanzata, come processo continuo di prevenzione delle malattie e di promozione della salute ed è essenziale che i pazienti possano accedere facilmente alla vaccinazione anche durante la vita adulta grazie al supporto dei farmacisti di comunità. Per questo la FIP (Federazione farmaceutica internazionale) ha recentemente pubblicato un documento sul tema dal titolo “Supporting life-course immunisation through pharmacy-based vaccination: enabling equity, access and sustainability – a toolkit for pharmacist”, evidenziando le best practice applicate in vari Paesi del mondo.  
  
• Farmacisti fondamentali nella promozione e distribuzione dei vaccini
  Nell’Agenda di immunizzazione 2030 dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), si raccomanda a tutti gli Stati membri di adottare un approccio all’immunizzazione lungo tutto l’arco della vita e la cui visione centrale è un mondo in cui tutti, ovunque, a ogni età, traggono pieno beneficio dai vaccini per migliorare salute e benessere.  
E in questo scenario, i farmacisti e le farmacie locali hanno un grande potere nella promozione e nella distribuzione dei vaccini fondamentale per implementare l’approccio alla salute (riducendo il rischio di diffusione della malattia ad esempio) e alla vaccinazione durante tutto l’arco della vita e possono contribuire a diversificare e semplificare i percorsi di vaccinazione, soprattutto per i lavoratori e gli anziani.  
  
• Strategie di comunicazione per ogni fascia di età
  Per affrontare il tema dell’immunizzazione in età adulta e avanzata è necessario avere una strategia di comunicazione personalizzata per ogni fascia di età. Nella maggior parte dei paesi, le informazioni sui vaccini si trovano solitamente online, ad esempio sui siti Web ufficiali e sui social media. Sebbene l’accesso a queste informazioni sia generalmente facile per i giovani, può essere più difficile per gli anziani, che spesso hanno bisogno di parlare di persona con un operatore sanitario. È qui che le farmacie e i farmacisti di comunità possono essere la soluzione per raggiungere ogni membro della società, affrontando l’esitazione nei confronti dei vaccini e aumentando l’alfabetizzazione sanitaria.  

• Ecco tre aree in cui i farmacisti possono contribuire alle strategie di vaccinazione:

  • Dare priorità alla prevenzione e all'immunizzazione nel corso della vita come pilastro fondamentale delle strategie di prevenzione e componente centrale della copertura sanitaria universale.
  • Garantire l'accesso a tutti rimuovendo le barriere per un'adeguata vaccinazione durante tutta la vita per garantire che tutte le persone siano protette e che nessuno venga lasciato indietro.
  • Ridurre le disuguaglianze nell'accesso tempestivo, appropriato e conveniente alle vaccinazioni per tutta la vita.    
Nel documento è possibile leggere anche un riassunto dei fattori favorevoli e delle sfide comuni che i farmacisti, nei Paesi presi in esame, incontrano.
Per quanto riguarda la regolamentazione dei vaccini e la prescrizione in farmacia, ecco alcuni dei punti menzionati:  
  • Sfruttare l’accettazione da parte del pubblico della vaccinazione in farmacia come mezzo accessibile per aumentare i tassi di immunizzazione
  • Riconoscere il ruolo dei farmacisti nel sostenere la vaccinazione e affrontare l’esitazione vaccinale affrontando le ambiguità nella prescrizione e somministrazione dei vaccini
  • Migliorare i programmi di formazione all’università e in farmacia per formare sulla vaccinazione
  • Diventare attori chiave nelle politiche nazionali di vaccinazione in modo da includere i farmacisti nelle linee guida vaccinali esistenti
  • Comunicare e coordinare tra le parti interessate, tra cui i farmacisti, coinvolte nei servizi di vaccinazione
Per quanto riguarda i fattori chiave per modelli retributivi di successo per i servizi di vaccinazione in farmacia, ecco cosa hanno evidenziato gli esperti:  
  • Sviluppare un registro elettronico per le vaccinazioni per aiutare a monitorarne l’impatto in farmacia dei tassi di immunizzazione aiutando a dimostrare perché i farmacisti dovrebbero essere remunerati per la loro partecipazione a questi servizi di grande impatto
  • Ampliare il ruolo dei farmacisti nella fornitura di vari servizi, tra cui la gestione della terapia farmacologica e la cessazione del fumo
  • Sottolineare l’importanza della condivisione delle competenze e di un approccio collaborativo tra gli operatori sanitari, in particolare per quanto riguarda la vaccinazione, per migliorare la copertura sanitaria e, infine, l’equità sanitaria  
Infine, sono stati identificati i punti riguardanti l’accesso ai dati dei pazienti e ai registri delle vaccinazioni, che includono:
  • Accedere alle cartelle cliniche complete dei pazienti per consultazioni complete
  • Utilizzare sondaggi per raccogliere feedback sul contributo dei farmacisti agli sforzi di immunizzazione e utilizzarli come prova per cui è vantaggioso che i farmacisti accedano alle informazioni dei pazienti
  • Imparare dalle esperienze di altri Paesi per implementazione sistemi simili
  • Considerare la capacità dei farmacisti di adattarsi alla trasformazione digitale e di fornire più servizi sanitari
  • Comunicare più efficacemente tra le parti coinvolte nella vaccinazione, in particolare tra il settore pubblico e quello privato.

(Redazione Farmacista33, 7 settembre 2023)
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L'inciso "i farmacisti dovrebbero essere remunerati per la loro partecipazione" spiega bene l'interesse della FIP per la nostra salute. Oltre ai medici, dovranno pur esserci anche i farmacisti a dividersi il bottino vaccinale. M.C.

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Apertura dell'ambasciata della Papua Nuova Guinea a Gerusalemme

Con una giustificazione religiosa, il capo del governo della Papua Nuova Guinea, Mapare, inaugura l'ambasciata a Gerusalemme. Questo porta a cinque i Paesi con missione diplomatica nella capitale israeliana.

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GERUSALEMME - La Papua Nuova Guinea ha aperto martedì sera la sua ambasciata a Gerusalemme. Il primo ministro James Marape (Partito Pangu) ha giustificato la scelta della sede con motivi religiosi. Lo Stato insulare dell'Oceania non aveva finora un'ambasciata in Israele.
   Secondo il quotidiano online Times of Israel, Marape ha dichiarato: "Oggi è una pietra miliare per il mio Paese, la Papua Nuova Guinea. Siamo qui per portare il più profondo rispetto al popolo di Israele". L'ambasciata si trova a Gerusalemme "a causa del nostro patrimonio comune e della nostra fede in un unico Dio Creatore" - il Dio di Israele, Isacco e Abramo.
   Molti Paesi hanno scelto di non aprire le loro ambasciate a Gerusalemme, ha aggiunto Marape. Ma il governo della Papua Nuova Guinea ha preso questa decisione consapevolmente, ha detto. "Il fatto che ci definiamo cristiani, che portiamo rispetto a Dio, non sarà completo senza il riconoscimento che Gerusalemme è la capitale universale del popolo e della nazione di Israele".

Netanyahu: fonte di molte preghiere a Gerusalemme
  Il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) ha dichiarato, secondo un comunicato del suo ufficio, "Mi sono commosso quando ho sentito il vostro inno. Ho sentito le parole 'preghiera' e 'speranza'. La fonte della maggior parte di queste preghiere è questa città. Come avete giustamente sottolineato, è stata la nostra capitale per 3.000 anni". La Papua Nuova Guinea è il primo Stato della regione Asia e Oceania ad avere un'ambasciata a Gerusalemme.
   Il Ministro degli Esteri Eli Cohen (Likud) ha affermato che la decisione approfondirà le relazioni tra i due Stati. A febbraio aveva parlato con il suo omologo Justin Tkachenko (Pangu). Successivamente, il Ministero degli Esteri israeliano ha annunciato la mossa.

Il premier è avventista
  Il premier Marape è figlio di un pastore avventista del settimo giorno ed è egli stesso membro della Chiesa libera. In Papua Nuova Guinea, oltre il 95% della popolazione è cristiana. I cattolici sono la confessione più numerosa.
   Durante la sua visita a Gerusalemme, Marape ha chiesto a Israele di aprire un'ambasciata a Port Moresby. Le relazioni con la nazione insulare esistono dal 1978 e sono state mantenute attraverso l'ambasciata israeliana in Australia.
   L'ambasciata si trova nel Jerusalem Technology Park, nel sud della città. Vi si trovano anche le ambasciate del Guatemala e dell'Honduras. Inoltre, gli Stati Uniti e il Kosovo hanno ambasciate nella capitale israeliana. Paraguay e Sierra Leone hanno annunciato un trasferimento simile per quest'anno.

(Israelnetz, 6 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’ex capo del Mossad: “Energia nucleare e questione palestinese. Ecco gli ostacoli all’accordo tra Israele e Arabia Saudita”

Tamir Pardo, a capo del servizio segreto israeliano dal 2011 al 2016, oggi è tra i leader del movimento di protesta contro il governo Netanyahu: “Lui e i suoi alleati vogliono trasformare il mio Paese in una teocrazia”.

di Yossi Melman

Tamir Pardo, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, sottolinea la complessità degli sforzi americani per migliorare le relazioni con l’Arabia Saudita.
   Pardo, oggi settantenne, individua due ostacoli principali. Il primo e più significativo è la richiesta che i sauditi rivolgono agli Stati Uniti: vogliono aiuto per strutturare un programma nucleare civile che comprenda il diritto di arricchire uranio su suolo saudita. “I sauditi vogliono un ciclo del nucleare completo, arricchimento dell’uranio compreso,” ha dichiarato Pardo in questa intervista a Repubblica. “Io, sulla base della mia esperienza e delle mie conoscenze, sono contrario. Ma dobbiamo capire che in questi scenari Israele gioca un ruolo minoritario. Non credo che abbia voce in capitolo sulla questione dell’arricchimento dell’uranio. Ma prevedo che, se i negoziati non si concluderanno entro febbraio o marzo del 2024, ci saranno ben poche possibilità di arrivare a un accordo quando gli Stati Uniti saranno nel pieno della campagna elettorale.”
   Il secondo ostacolo è la questione palestinese, che l’amministrazione Biden cerca di tenere collegata all’accordo sul nucleare fra Washington e Riad. “La questione palestinese complica i tentativi di normalizzare i rapporti fra Israele e Arabia Saudita e di creare una relazione diplomatica fra i due paesi.”
   L’Arabia Saudita, che al momento non ha relazioni diplomatiche con Israele, per Pardo non è del tutto sconosciuta. Lui non parla di quando era al vertice del Mossad ma un anno fa scrissi che nel 2014, quando ancora era in carica, è volato in segreto a Gedda per incontrare la sua controparte, il principe Bandar Bin Sultan, capo dell’intelligence saudita. Scopo dell’incontro era cercare di mettere fine alla nuova fase di ostilità fra Israele e Hamas a Gaza e favorire un accordo fra Israele e Palestina sotto l’egida dell’Arabia Saudita e della Lega Araba. “Avevamo contatti riservati con l’Arabia Saudita che derivavano da interessi di sicurezza comuni,” spiega riferendosi alla preoccupazione dei due Paesi per il programma nucleare iraniano e per il sostegno fornito dall’Iran al terrorismo, “ma per incrementare le relazioni israelo-saudite serve qualcosa di più significativo, e sfortunatamente Israele non è pronto”.

Mi può spiegare meglio?
  “Nell’area compresa fra il Mediterraneo e il fiume Giordano vivono quindici milioni di persone: ebrei, e arabi, divisi fra musulmani – la maggioranza – e cristiani. C’è lo stato di Israele, che non ha mai definito i propri limiti territoriali, l’enclave palestinese di Gaza, controllata da Hamas, e i palestinesi che vivono in Cisgiordania sotto l’occupazione israeliana. Il conflitto dev’essere risolto in modo da assicurare il rispetto reciproco.”

Che al momento manca del tutto. Ci sono odio e terrorismo.
  “È vero. Mi duole constatare che gli attacchi terroristici palestinesi sono aumentati. Come qualunque altro popolo, i palestinesi vogliono essere liberi. L’opposizione all’occupazione israeliana suscita violenza e atti terroristici da parte di una piccola minoranza di ebrei radicali ed estremisti. La situazione dev’essere risolta con la diplomazia e la politica, non con la forza. Sfortunatamente, il nostro governo è convinto di poter sconfiggere il terrorismo aumentando la forza militare.”

Cosa pensa della Wagner, dissolta dal presidente russo Vladimir Putin?
  “La Wagner è il miglior indicatore della debolezza dell’esercito russo e della scarsa efficacia della sua catena di comando. È inaudito schierare una forza mercenaria lungo i propri confini. Posso capire che abbia senso mandarla a curare gli interessi della Russia in vari paesi dell’Africa o del Medio Oriente. Ma mandarli sul confine russo e in Ucraina è assurdo. È la ragione per cui alla fine, dopo la ribellione (del capo della Wagner, Evgenij Prigozhin, ucciso il mese scorso in un misterioso incidente aereo, ndr), Putin ha deciso di scioglierla.”

Il presidente ucraino Zelensky dice che la sua nazione si prepara a una lunga guerra di logoramento e indica Israele come esempio di un paese che vive sotto la minaccia di guerre costanti.
  “Una guerra di logoramento nella configurazione attuale sarebbe sfavorevole per l’Ucraina. La Russia è un paese gigantesco che ha sempre sconfitto gli invasori sul proprio territorio. Non so quanta coesione ci sia oggi in Russia, quanto la popolazione sia resiliente e se sia pronta a fare dei sacrifici. Credo però che alla fine gli ucraini ne usciranno estenuati.”

Quindi pensa che l’Ucraina dovrebbe trovare un accordo con l’aggressore russo?
  “La Russia è in grado di continuare la guerra malgrado i fallimenti e le perdite sul campo. L’Ucraina ha mostrato coraggio e determinazione e beneficiato del sostegno dell’Occidente. Deve però tenere conto del fatto che prima o poi gli Stati uniti e l’Occidente potrebbero smettere di sostenerla o non fare ciò che si aspetta. Deve approfittare dei risultati raggiunti finora, provare a ottenere ancora un successo militare significativo e poi cercare una soluzione diplomatica e un accordo.”

Tamir Pardo è nato in Israele da una famiglia italiana, livornese, le cui origini risalgono fino al XV secolo. Durante l’Impero Ottomano, suo nonno possedeva un’azienda farmaceutica che aveva una sede in Turchia. Da lì, nel Novecento, la famiglia si è trasferita in Israele.
   Pardo è stato membro di un’unità delle forze speciali e in Uganda, nel 1976, ha preso parte alla coraggiosa operazione di salvataggio di un aereo di linea Air France dirottato da terroristi tedeschi e palestinesi. Durante quell’operazione venne ucciso il tenente colonnello Yoni Netanyahu, fratello maggiore di Benjamin. Quello è stato il primo contatto di Pardo con il futuro primo ministro israeliano.
   Nel 1980 è entrato nel Mossad, all’interno del quale ha servito in diverse unità operative fino a quando, nel 2011, non ne è diventato il capo. Nel corso della sua lunga carriera ha partecipato o guidato operazioni che hanno portato alla distruzione del reattore nucleare siriano e a sabotaggi o rallentamenti del programma nucleare iraniano. “Se l’Iran riuscisse a produrre armi nucleari, rappresenterebbe un grave pericolo non solo per Israele e il Medio Oriente, ma per il mondo intero,” aggiunge. “Un Iran nucleare controllerebbe anche le enormi quantità di petrolio e gas dei vicini che affacciano sul golfo Persico, come Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il mondo deve rendersene conto e tenere d’occhio l’Iran.”

Tutte le operazioni di intelligence segrete attribuite al Mossad e alla Cia non sono bastate? L’Iran continua la sua corsa verso l’atomica?
  “L’Iran aveva già provato negli anni ’90 a dotarsi di ordigni nucleari. Sta di fatto però che oggi, trent’anni dopo, ancora non li possiede. Israele da solo non può impedirlo, abbiamo bisogno dell’aiuto del resto del mondo.”

Pensa che l’Iran voglia le armi nucleari?
  “Stando alle dichiarazioni ufficiali no, ma a giudicare da quello che fanno, la risposta è sì.”

Ed è per questo che l’Arabia Saudita vuole un programma nucleare?
  “Senza dubbio, se l’Iran continuerà a fare progressi, ci saranno sempre più stati mediorientali desiderosi di dotarsi di armi nucleari e tutta la regione si troverà coinvolta in una corsa al nucleare che potrebbe portare alla distruzione del mondo.”
   Tuttavia, nonostante la minaccia che l’Iran e gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah rappresentano per il suo paese, oggi la maggiore preoccupazione di Pardo è che Israele smetta di essere una democrazia. Pardo è uno dei leader del movimento di protesta contro il governo di destra e clericale guidato da Benjamin Netanyahu.
   Secondo lui, non c’è in gioco solo il tentativo del governo di controllare il potere giudiziario. Sono molti i cambiamenti che Netanyahu – attualmente sotto processo per corruzione – vorrebbe introdurre. Vuole fare in modo che i suoi ministri controllino i media, nominare suoi fedelissimi in ruoli chiave dell’esercito e dei servizi di sicurezza, introdurre leggi religiose e imporle ai cittadini laici, privare i palestinesi dei diritti umani fondamentali ed espellerli verso stati arabi, in sostanza vuole creare un regime più autoritario.
   Di recente Pardo ha paragonato certi gruppi israeliani al Ku Klux Klan. “Nel governo ci sono partiti razzisti e fascisti. Paragonandoli al KKK gli ho fatto un complimento,” aggiunge con un sorriso che lascia intendere che secondo lui sono anche peggio.

Si riferisce al ministro per la Sicurezza interna Itamar Ben Gvir e al ministro delle Finanze Betzalel Smotrich?
  “Sì, e a tutti i loro sostenitori.”

Netanyahu è uno di loro?
  “Netanyahu è il vero problema. È lui il primo ministro, e in quanto tale ha la responsabilità ultima. Lo conosco da molti anni, prima non era così, è cambiato, dal momento che dà loro del lavoro e siede assieme a loro nello stesso governo. Anche se non sei fascista né razzista, se ti siedi attorno a un tavolo e collabori con loro, sei come loro.”

Cosa prevede per il futuro?
  “Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico. Se rimane ebreo ma diventa teocratico, non sarà più democratico. Se smette di essere un Paese democratico non merita di esistere.”

Lei è un pessimista?
   “Quando ero a capo del Mossad dovevo essere ottimista. Questo movimento di protesta, in cui milioni di israeliani descritti come edonisti, viziati e apatici si sono mostrati all’altezza della situazione e hanno deciso di opporsi ai piani del governo, mi ha ispirato. Ho servito il mio paese per 43 anni e ora ne ho 70. Ho figli e nipoti. Israele combatte per la propria anima. Non ho scelta, devo essere ottimista.”

(la Repubblica, 6 settembre 2023)
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Dispiace, ma purtroppo non stupisce, vedere che anche persone che hanno occupato posti pubblici importanti per la sicurezza di Israele oggi si esprimono in questo modo.
- È vero che i limiti territoriali di Israele non sono stati definiti definitivamente, ma Pardo dimentica che, dopo Oslo, che aveva messo le basi per la loro definizione, Arafat e poi Abu Mazen hanno sempre rifiutato tutte le offerte, anche le più generose, fatte da Barak e da Olmert.
- Non è legalmente corretto parlare di “occupazione israeliana”, e i palestinesi si lamentano, prima di tutto, del giogo imposto loro dai governanti palestinesi (anche a Gaza), e gli “atti terroristici” non sono commessi da una “minoranza di ebrei radicali ed ebrei estremisti”, ma sono commessi da singoli individui regolarmente processati in Israele, o, eventualmente, sono reazioni agli attacchi dei palestinesi praticamente quotidiani contro i villaggi ebraici.
- Come esperto dei rapporti con gli arabi Pardo dovrebbe sapere, e non stupirsene, che purtroppo in quell’area geografica esiste, da secoli, il rispetto solo per il più forte, e quindi i governi israeliani sono obbligati a mostrare sempre la forza militare.
- molto gravi, infine, certe affermazioni basate sulla vulgata dell’opposizione al governo democraticamente eletto, secondo le quali al governo siederebbero personaggi peggiori del KKK con le quali Netanyahu, e la maggioranza del Parlamento, non dovrebbe nemmeno sedersi attorno ad un tavolo.
Emanuel Segre Amar

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Il New York Times di nuovo al centro delle polemiche: "L’ebraico simboleggia il militarismo israeliano di estrema destra"

Israele risponde

di Luca Spizzichino

New York Times di nuovo al centro delle polemiche dopo che sabato scorso ha pubblicato un editoriale in cui si legge che la lingua ebraica "simboleggia il militarismo israeliano di estrema destra". La frase, che non tiene conto della storia plurimillenaria della lingua ebraica, è diventata immediatamente virale sui social, in particolare su X (Twitter), dove l’account ufficiale dello Stato Ebraico ha risposto in maniera tagliente ed ironica.
Infatti, l’Ufficio per la diplomazia digitale presso il Ministero degli Esteri israeliano, che gestisce il profilo, ha definito “assurdo” e “ridicolo” l’editoriale scritto da Ilan Stavans – consulente dell’Oxford English Dictionary e co-editore di “How Yiddish Changed America and How America Changed Yiddish” – dove viene definito l’ebraico “la lingua nazionale di Israele nel 1948, parlata da circa nove milioni di persone nel mondo” e “per alcuni rappresenta il militarismo israeliano di estrema destra”.
"Non ci sono abbastanza parole in lingua inglese per descrivere quanto sia assurdo questo pezzo del New York Times " si legge nel tweet di Israele, che ironicamente aggiunge: “Per fortuna abbiamo sia l'ebraico che lo yiddish: Fakakta [non funziona bene],  "maguchach" [ridicolo] e Meshuggeneh [pazzo].
Il gruppo di controllo dei media HonestReporting ha accusato il NYTimes di odio verso gli ebrei.
"Individuare e diffamare la lingua dell'unico stato ebraico al mondo è antisemita", ha accusato l'organizzazione in un post su X.
“Quando [il New York Times ] è diventato un veleno antiebraico?” ha affermato la giornalista israeliana ed editorialista del Jewish News Syndicate Caroline Glick su X. “Voglio dire, sono sempre stati cattivi. Nascosero la Shoah, umiliarono gli immigrati ebrei negli Stati Uniti e sono sempre anti-israeliani. Ma quando hanno iniziato una politica volta a inventare e diffondere calunnie incredibilmente odiose?” si domanda Glick.

(Shalom, 6 settembre 2023)

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Israele: una meta all’avanguardia sempre più amata dagli italiani

Israele rappresenta una presenza storica di BIT. Con la sua proposta turistica ampia, ha una speciale connessione con l’Italia, i cui flussi di viaggiatori verso il “Paese giovane” sono sempre più in crescita.

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Tra i partecipanti a BIT, Israele rappresenta una presenza storica, un Paese affezionato alla fiera sin sua prima edizione del 1980. Il legame di Israele con la manifestazione ha registrato nel corso degli anni un’evoluzione sempre positiva, arrivando, nell’edizione 2023, ad avere ben 12 co-espositori in mostra, il doppio rispetto all’anno precedente.
   Questa stretta connessione del Paese “giovane” con BIT non è certo un caso: l’expo milanese rappresenta, infatti, un’importante opportunità per gli Enti aderenti di promuovere il turismo locale e le bellezze culturali del proprio territorio. Questa, insieme a campagne promozionali mirate, ha contribuito a creare nel tempo un considerevole interesse dei viaggiatori italiani verso le località israeliane.
   Infatti, come evidenziato da Kalanit Goren, Direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, durante BIT2023, “la penisola a forma di stivale occupa la quinta posizione per il paese israeliano nella classifica del turismo internazionale e dunque è divenuto cruciale ampliare il legame con gli operator italiani in tutti i brand del turismo”.
   I dati 2022-2023 sembrano confermare questo stretto rapporto: a gennaio 2023 sono stati registrati 257.400 ingressi turistici dall’Italia in Israele e solo nel primo mese di quest’anno ben 11,7 mila italiani hanno deciso di visitare il Paese, contro gli 8 mila dello scorso anno, stesso mese.
   L’impennata è agevolata sia dall’aumento dei collegamenti aerei (117 voli settimanali) che da una politica di valorizzazione del territorio condotta dall’Ente del Turismo Israeliano, che promuove Israele quale Paese giovane per giovani.
   Del resto, come afferma la CBS, il 28% della popolazione del Paese ha un’età compresa tra 0 e 14 anni e solo il 12% ha oltre 65 anni. Inoltre, essendo strutturato e concepito intorno ad architetture e proposte d’avanguardia, attente alla tutela dell’ambiente e al rispetto delle risorse, si presenta a tutti gli effetti come uno Stato moderno, cosmopolita, bacino di differenti popolazioni e culture: una Start up Nation, impegnata quotidianamente in ricerca e sviluppo, dall’ambito medico a quello della sostenibilità.
   La partecipazione di Israele alla BIT apre le porte alla scoperta di un territorio affascinante, ricco di luoghi storici di grande importanza, paesaggi mozzafiato e un'atmosfera accogliente e calorosa. E’ un’opportunità preziosa che permette a tutti i visitatori di ampliare l'orizzonte delle scelte turistiche, attraverso una vasta proposta di esperienze indimenticabili tra i luoghi sacri di Gerusalemme, i paesaggi desertici del Negev ed affascinanti città, come l’attualissima Tel Aviv o Haifa, la città dei giardini pensili di Bahai.
   L’intento di BIT è quello di creare un ponte tra culture diverse, che condividono una storia di scambi, conoscenze e tradizioni. Intende favorire maggior dialogo e collaborazione in ottica sia culturale che economica: il mercato italiano rappresenta infatti uno snodo centrale e strategico per il turismo israeliano e questa sinergia può favorire scambi commerciali, investimenti e nuove opportunità di business.
   L’appuntamento con Israele è a BIT2024 a fieramilanocity da domenica 4 a martedì 6 febbraio 2024.

(BIT Milano, 6 settembre 2023)

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EastMed e India, cosa ha deciso il trilaterale Israele-Grecia-Cipro

di Francesco De Palo

Il gasdotto EastMed e la costruzione di un terminale di liquefazione del gas naturale a Cipro, accanto all’intenzione di includere l’India nel prossimo trilaterale. Questi i due macro temi al centro del vertice tra Israele, Cipro e Grecia svoltosi a Nicosia alla presenza dei tre leader. Netanyahu, Chistodoulides e Mitsotakis hanno messo nero su bianco le prospettive economiche e geopolitiche in una macro area in cui gli interessi specifici si accostano a settori strategici come l’Indo Pacifico.

• TRILATERALE
  Punto di partenza la convinzione che il gas naturale e le fonti energetiche rinnovabili sono un pilastro primario della cooperazione nella regione, in particolare alla luce dei recenti sviluppi geopolitici e dell’insicurezza energetica, elementi che “impongono la necessità di diversificazione energetica e di maggiore interconnettività”, come spiegato in premessa dal Presidente della Repubblica di Cipro. Accanto a ciò impatta l’elemento ellenico, con la Grecia che sta progressivamente passando da produttore a punto di ingresso nel mercato europeo. “C’è grande interesse nel vedere come il gas israeliano e cipriota possa essere esportato nell’Ue a beneficio dei Paesi. Abbiamo già sostenuto l’interconnessione elettrica dei nostri Paesi”, ha affermato il premier greco, sottolineando che il sistema tripartito in quanto aperto alla cooperazione con altri Paesi si sta espandendo nei settori della difesa e della sicurezza, aree in cui Israele è leader mondiale.

• EASTMED
  Sulla questione del gas, Netanyahu ha sottolineato che “presto dovremmo decidere come Israele esporterà il suo gas e le decisioni stesse spetteranno a Cipro, stiamo esaminando la possibilità di lavorare insieme su questo”. Entro i prossimi sei mesi quindi si conoscerà il destino del gasdotto East-Med e della costruzione di un terminale di liquefazione del gas naturale a Cipro. Per avere un’idea della portata geopolitica dell’area incastonata tra Cipro e Israele va ricordato che i circa 200 miliardi di m³ di Glavkos nella Zee cipriota, accanto ai 200 di Calypso e ai 140 di Afrodite rendono la regione centro nevralgico mondiale alla voce gas. I giacimenti ciprioti e israeliani dunque sarebbero sufficienti da soli ad alimentare il gasdotto EastMed, progetto ideato da Depa e dall’italiana Poseidon per un fabbisogno minimo assoluto di 15 miliardi di m³ di gas naturale all’anno, ma le difficoltà politiche con la Turchia ne hanno rallentato la realizzazione (tema di cui hanno discusso a Roma mesi fa Meloni e Netanyahu)

• IL PROBLEMA DI CIPRO
  Proprio sulla soluzione del problema di Cipro si sono concentrati i propositi futuri dei tre leader: in questo senso l’energia è questione di interesse comune anche al fine di progettare con lungimiranza i destini del Mediterraneo di domani. Per cui la ripresa dei colloqui sulla questione di Cipro nel contesto delle risoluzioni dell’Onu si intreccia con le relazioni greco-turche. Per questa ragione Mitsotakis ha sottolineato che Grecia, Cipro e Israele sono perni di stabilità nel Mediterraneo orientale, “un accordo tripartito che ha resistito alla prova del tempo” e che ha dimostrato la sua utilità sia politicamente che economicamente. Nelle prossime ore il ministro degli Esteri greco si recherà in Turchia per colloqui con il suo omologo turco.

• DAL MEDITERRANEO ALL’INDOPACIFICO
  Che il “dialogo” strutturato tra i Paesi mediterranei e l’India abbia subito una oggettiva e proficua accelerazione è ormai un fatto acclarato, come dimostra una volta di più l’attenzione al global south riservato dal governo italiano e, recentemente, anche da quello greco. Il premier Modi per la prima volta da 40 anni a questa parte ha visitato la Grecia non più tardi di una settimana fa, sia per rafforzare la partnership in chiave Indo Pacifico, sia per utilizzare il porto del Pireo come porta di ingresso per il proprio commercio nel Vecchio continente. Il partenariato strategico tra Atene e Nuova Delhi segue non solo l’idea di “pareggiare” l’invasività cinese al Pireo, ma anche l’esigenza indiana che, dopo la Brexit, è alla ricerca di rotte alternative verso l’Europa, con Roma capofila.

(Formiche.net, 4 settembre 2023)

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Verso la conclusione di un accordo di libero scambio tra Israele e Bahrein

di Abdel Raouf Arnaout

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GERUSALEMME - Lunedì il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha discusso con il principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamad al Khalifa la conclusione di un accordo di libero scambio tra i due paesi.
Questo è quanto emerge da un incontro congiunto a margine della visita di due giorni che Cohen ha iniziato domenica in Bahrein.
Si tratta infatti della prima visita del ministro degli Esteri israeliano in uno dei Paesi degli Accordi di Abraham (Bahrein, Emirati e Marocco).
Sulla piattaforma ‘X’, Cohen ha scritto: “Durante il mio incontro con il principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad al Khalifa, abbiamo discusso di varie sfide regionali, dell’impegno dei nostri due Paesi nella lotta al terrorismo e dell’importanza di sostenere l'accordo di libero commercio”.
E per aggiungere: “Ho ringraziato il principe ereditario per il suo sostegno agli Accordi di Abraham, che hanno cambiato il volto del Medio Oriente e hanno contribuito alla stabilità e alla prosperità dei popoli della regione” .
Cohen ha anche indicato che nel menu dell’incontro c’erano “discussioni sui progetti di cooperazione tra i giovani di Israele e del Bahrein” e l’aspirazione di Tel Aviv ad “allargare il cerchio di pace e normalizzazione con tutti i paesi della regione”.
La pagina ufficiale della Corte del Principe ereditario del Bahrein sulla piattaforma “X” ha pubblicato le foto dell’incontro.
Da parte sua, il sito “Israele in arabo” affiliato al Ministero degli Affari Esteri israeliano ha rivelato che Cohen ha inaugurato oggi la sede permanente dell’ambasciata del suo Paese nella capitale del Bahrein, Manama, alla presenza del Ministro degli Affari Esteri israeliano e del suo ministro bahreinita. controparte, Abd al-Latif al-Zayani. All’ingresso dell’ambasciata israeliana è stata posta una Mezuzah, secondo le tradizioni ebraiche seguite durante l’inaugurazione di residenze e istituzioni ufficiali. La Mezuzah è un piccolo rotolo di pergamena attaccato agli stipiti delle case e delle istituzioni ebraiche. Cohen è arrivato in Bahrein, accompagnato da una delegazione comprendente importanti figure politiche ed economiche israeliane, con l’obiettivo di promuovere le relazioni tra i due paesi.
Nel 2020, Israele e Bahrein hanno raggiunto un accordo per normalizzare le loro relazioni. Ricordiamo che gli Emirati Arabi Uniti sono stati il primo paese arabo a concludere un accordo di libero scambio con Israele, a metà del 2022.

(dayFRitalian, 5 settembre 2023)

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Turchia e Israele discutono opportunità di cooperazione nel settore energetico

Il Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali della Turchia, Alparslan Bayraktar, ha recentemente avuto una conversazione telefonica con il suo omologo israeliano, Israel Katz, per discutere opportunità di cooperazione bilaterale e regionale nel campo dell’energia, concentrandosi in particolare sul gas naturale. Secondo Bayraktar, è stata anche considerata la possibilità di rinnovare la loro collaborazione nel settore energetico.
   Entrambi i ministri hanno espresso interesse nell’espandere la loro cooperazione nel settore energetico e hanno concordato di esplorare opportunità di collaborazione. Di conseguenza, Bayraktar ha annunciato di accettare l’invito di Katz a visitare Israele nel più breve tempo possibile.
   In un post sui social media, Katz ha indicato che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, pianifica di visitare la Turchia a breve per incontrare il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, il che suggerisce che è un momento promettente per la cooperazione regionale.
   La visita pianificata di Netanyahu in Turchia a luglio è stata posticipata a causa di problemi di salute. Lo scopo della visita era discutere una valutazione approfondita delle relazioni bilaterali tra Ankara e Tel Aviv, che comprende vari argomenti.
   La recente conversazione tra i ministri turchi e israeliani dell’energia dimostra la volontà di entrambi i paesi di trovare punti in comune ed esplorare opportunità di collaborazione nel settore energetico. Questo progresso positivo potrebbe portare a una maggiore cooperazione in futuro, beneficiando entrambe le nazioni.

(ZBR TV ONLINE, 5 settembre 2023)

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Pugno duro contro i manifestanti eritrei in Israele

di Andrea Spinelli Barrile

Lo scorso fine settimana in Israele sono scoppiati sanguinosi scontri tra polizia ed immigrati eritrei – in gran parte richiedenti asilo fuggiti dal Paese del Corno d’Africa e oppositori del regime di Isaias Afewerki – che volevano impedire lo svolgimento di un evento dell’ambasciata di Asmara. Ora il Governo di Tel Aviv sta valutando pene severe nei confronti dei manifestanti eritrei che si sono resi protagonisti dei tumulti.
   Israele sta prendendo in considerazione diverse opzioni, anche molto dure come l’immediata deportazione, per i richiedenti asilo eritrei coinvolti nei durissimi scontri di sabato a Tel Aviv. Lo riportano i media locali.
   Circa 170 persone sono rimaste ferite in seguito ai violenti scontri con la polizia e tra eritrei quando i gruppi di sostenitori e oppositori del regime eritreo si sono incontrati. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che “la linea rossa” è stata superata e ha ordinato un nuovo piano per allontanare tutti i migranti africani che ha descritto come “infiltrati illegali”.
   I disordini di sabato, che i media israeliani definiscono “senza precedenti”, sono scoppiati dopo che attivisti anti-regime hanno chiesto alle autorità israeliane di impedire un evento organizzato dall’ambasciata eritrea in Israele, che tuttavia si è tenuto ugualmente. Gli oppositori al regime hanno sfondato una barricata della polizia intorno alla sede dell’ambasciata, che è stata poi vandalizzata. La polizia, in tenuta antisommossa, ha sparato gas lacrimogeni, granate assordanti e proiettili veri mentre gli agenti a cavallo cercavano di respingere i manifestanti.
   È stata aperta un’indagine per verificare se l’uso di armi da fuoco da parte della polizia fosse o meno conforme alla legge.
   Ci sono stati poi altri drammatici scontri in strada, tra grandi folle di eritrei armati di pezzi di legno, metallo e rocce. Oltre ad attaccarsi a vicenda, hanno fracassato vetrine e automobili.
   Le rivolte di sabato hanno riportato la questione controversa della presenza di migranti africani nell’agenda politica israeliana, in un momento in cui il Paese è già diviso sul controverso piano di revisione giudiziaria del governo. Netanyahu e altri membri del suo gabinetto hanno accusato la Corte Suprema di aver bloccato un precedente tentativo di cacciare i migranti da Israele: “Adesso rimane un problema serio con gli infiltrati illegali nel sud di Tel Aviv e altrove”, ha detto il primo ministro durante la riunione straordinaria del governo di domenica. “Vogliamo misure dure contro i rivoltosi, inclusa l’immediata deportazione” di coloro che hanno preso parte agli scontri e ha chiesto che i ministri gli presentino piani “per l’eliminazione di tutti gli altri infiltrati illegali”.
   Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir intende proporre un disegno di legge che annullerebbe parte della legge fondamentale di Israele relativamente alla tutela della dignità umana e della libertà, per portare avanti un piano di deportazione di massa dei migranti entrati illegalmente nel Paese. Si stima che ci siano circa 18.000 richiedenti asilo provenienti dall’Eritrea in Israele, la maggior parte dei quali sono arrivati illegalmente anni fa attraversando la penisola egiziana del Sinai. Dicono di essere fuggiti dal pericolo, dalla persecuzione e dalla coscrizione militare obbligatoria in uno dei Paesi più repressivi del mondo, l’Eritrea. Fino ad ora le autorità israeliane non hanno fatto distinzioni tra i richiedenti asilo in base alla loro affiliazione politica.
   L’episodio degli scontri in Israele non è isolato. Eventi simili sono avvenuti a più riprese in altri Paesi, dalla Norvegia al Canada, fino alla Germania, dove schiere di profughi o oppositori eritrei hanno violentemente manifestato il loro dissenso contro manifestazioni culturali promosse dalle ambasciate di Asmara. Lo scorso 4 agosto, per esempio, una protesta pacifica si è trasformata in una vera e propria guerriglia nella periferia di Stoccolma, durante la prima giornata del «Festival Scandinavo della Cultura Eritrea». Una manifestazione che si tiene annualmente dal 1990. L’evento è stato spesso travolto da critiche e percepito come uno strumento di propaganda per il repressivo governo eritreo.
   La diaspora eritrea nel mondo è divisa, lacerata, tra i sostenitori del regime di Isaias Afewerki e chi scappa dalla sua dittatura che nega le libertà individuali e perseguita gli oppositori. La contrapposizione tra i vecchi simpatizzanti del presidente e i giovani dissidenti crea frequenti frizioni e talvolta violenti tumulti. In molte nazioni si sono registrati scontri interni alla comunità eritrea. In Italia è viva la memoria delle polemiche che accompagnarono i funerali delle vittime della tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 – di cui tra un mese ricorrerà il decimo anniversario – quando esponenti dell’ambasciata eritrea di Roma volevano identificare morti e superstiti, suscitando vibranti proteste da parte dei tanti eritrei fuggiti dal piccolo Paese del Corno d’Africa.

(AFRICA, 5 settembre 2023)

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I confini di Israele

La Torah, i Saggi e i politici moderni si sono confrontati con la questione dei confini di Israele.

di Uri Pilichowski

Naftali Bennett discute sui pericoli di un ulteriore restringimento dei confini di Israele per consentire la creazione di uno Stato palestinese.
"Rabbino, quali sono i veri confini di Israele?" Questa era una domanda fondamentale per un educatore e rabbino sionista. La Torah elenca i confini di Israele in diversi punti, i nostri Saggi hanno discusso le implicazioni legali di questa domanda e i primi sionisti stamparono mappe che mostravano chiaramente i confini. Ma mi sono reso conto di non avere una risposta chiara a questa domanda.
   In discorsi, rubriche e interviste, l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha parlato ripetutamente dei confini di Israele. "Una nazione adulta decide da sola cosa è meglio per i suoi cittadini", ha detto. "Rispettate voi stessi e il vostro diritto - direi il vostro sacro dovere - di determinare il giusto limite per lo Stato ebraico. Questo è ciò che rende una nazione adulta".
   “Alcuni diranno che è il fiume Giordano, altri che è la linea armistiziale del 1949, altri ancora che sono i blocchi di insediamento, qualunque cosa significhi, più una striscia lungo il fiume per la difesa nazionale", ha aggiunto Friedman.
   Friedman ha sottolineato che dopo 75 anni, Israele non ha ancora confini fissi.
   Nella Bibbia, i confini della Terra d'Israele sono menzionati tre volte. Nel primo libro della Genesi, Dio promette ad Abramo una vasta terra che sembra estendersi dal Mar Mediterraneo a una località dell'Iraq occidentale. Questi confini sono spesso indicati come "Grande Israele". Nel quarto libro di Mosè, vengono descritti confini più limitati che assomigliano ai confini odierni di Israele. Nel quinto libro di Mosè, si promette che i limitati confini saranno alla fine ampliati.
   Questi confini sono importanti non solo per il loro significato religioso. Sono i confini che hanno orientato gli ebrei nella creazione degli antichi Stati ebraici e del moderno Israele.
   Nella Mishnah, nel Talmud e nelle opere degli studiosi medievali, i confini di Israele sono discussi in dettaglio. Vengono sollevate questioni che vanno dal ruolo dei cohanim alla possibilità di lasciare la terra, dall'obbligo di pagare la decima per la frutta alle differenze tra i confini stabiliti da coloro che lasciarono l'Egitto e quelli stabiliti da coloro che tornarono dall'esilio babilonese.
   Secondo l'opinione unanime degli studiosi rabbinici, i confini d'Israele saranno tracciati in modo ristretto fino all'era messianica. Solo nell'epoca messianica, quando il popolo ebraico meriterà una terra più vasta, i confini di Israele si allargheranno fino a quelli menzionati nel primo libro di Mosè.
   Dopo la distruzione delle prime due comunità ebraiche, non furono tracciati i confini di quella che sarebbe poi diventata la Palestina. Solo quando i vincitori della Prima guerra mondiale si riunirono per elaborare un nuovo ordine mondiale, la determinazione dei confini della Palestina divenne un problema. All'inizio, il Mandato britannico per la Palestina comprendeva il territorio degli attuali Israele e Giordania. Solo nel 1923, con la creazione della Giordania, la Palestina fu limitata all'area compresa tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
   I primi leader sionisti non attribuirono importanza alla definizione dei confini di Israele. Prima della fondazione dello Stato, sionisti revisionisti come Ze'ev Jabotinsky e Menachem Begin pubblicarono mappe che includevano l'attuale Giordania e la chiamavano "Grande Israele". Quando il piano di spartizione delle Nazioni Unite fu presentato ai leader sionisti nel 1947, essi rimasero delusi dalla piccola percentuale di terra che il popolo ebraico avrebbe ricevuto, ma non abbandonarono la speranza di un Israele più grande.
   In un discorso tenuto nel 1937, David Ben-Gurion disse: "L'accettazione della spartizione non ci obbliga a rinunciare alla Transgiordania: Non si può chiedere a nessuno di rinunciare alla sua visione. Accetteremo uno Stato entro i confini stabiliti oggi, ma i limiti delle aspirazioni sioniste sono una questione che riguarda il popolo ebraico e nessun fattore esterno potrà limitarli".
   In un discorso al gabinetto israeliano dopo la fondazione dello Stato, dichiarò: "Perché dovremmo impegnarci ad accettare confini che gli arabi non accetteranno comunque?".
   In una lettera al figlio, Ben-Gurion scrisse: "Presumo (ed è per questo che sono un ardente sostenitore di uno Stato, anche se ora comporta una spartizione) che uno Stato ebraico solo su una parte della terra non sia la fine ma l'inizio".
   Nella guerra d'indipendenza del 1948, Israele conquistò circa il 20% di terra in più rispetto a quella che il piano di spartizione aveva assegnato agli ebrei. Quando i vicini arabi di Israele attaccarono di nuovo nel 1967, Israele vinse la guerra e quadruplicò le sue dimensioni, prendendo il controllo del Sinai, di Gaza, della Giudea e Samaria e delle alture del Golan. All'inizio degli anni '80 Israele ha rinunciato al Sinai, negli anni '90 al controllo di alcune città della Giudea e Samaria e nel 2005 si è ritirato completamente da Gaza.
   Oggi non ci sono partiti o movimenti politici israeliani di rilievo che cerchino di espandere i confini di Israele nel prossimo futuro. I nemici di Israele sostengono spesso che Israele aspira a una Grande Israele che si estenda in profondità nel Medio Oriente arabo. Purtroppo, molte persone in tutto il mondo credono a questo falso racconto.
   Come ha detto l'ambasciatore Friedman, i confini di Israele, soprattutto sul fianco orientale, non sono ancora stati determinati. Sebbene i confini siano in ultima analisi una decisione politica lasciata alla leadership del Paese, potrebbe essere meglio lasciare i confini di Israele poco chiari per ora e mantenere lo status quo. Solo il tempo potrà dirlo.

(Israel Heute, 5 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Studiosi da tutto il mondo contro il governo israeliano: “Tenta di mettere sotto controllo il Memoriale della Shoah Yad Vashem”

Il ministro dell’Istruzione Yoav Kisch vorrebbe sostituire Dani Dayan, al vertice del museo dopo aver lasciato il Likud. Intellettuali e partner internazionali dell’istituzione firmano una lettera aperta al premier Netanyahu: “Una minaccia per la memoria”.

di Rossella Tercatin

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GERUSALEMME – Una minaccia contro la memoria di sei milioni di vittime della Shoah. Hanno avuto parole durissime contro il governo israeliano i firmatari di una lettera aperta indirizzata al primo ministro Benjamin Netanyahu, studiosi da tutto il mondo che hanno espresso grande preoccupazione per il rischio di politicizzazione di Yad Vashem.
   Negli ultimi giorni infatti si sono rincorse voci della volontà del ministro dell’Istruzione Yoav Kisch di sostituire l’attuale direttore Dani Dayan. Giovedì il Canale 12 ha svelato come Kisch abbia inviato una lettera a Dayan accusandolo di irregolarità nella gestione del museo – lettera poi confermata dallo stesso ministro. Oggetto del contendere, presunti vizi nelle procedure di nomina di tre degli attuali membri del consiglio di amministrazione dell’istituto, che renderebbero illegittime le decisioni prese dal Consiglio stesso. 
   I media israeliani però sottolineano come il vero nodo alla base dello scontro sia politico. Yad Vashem rappresenta non solo un fondamentale centro di ricerca sulla storia degli anni più bui dell’Europa del XX secolo, ma anche il baluardo della memoria degli ebrei sterminati, il luogo visitato da ogni capo di Stato o rappresentante diplomatico in visita in Israele, l’archivio in cui si lavora incessantemente per restituire un’identità a ogni singola vittima.
   Sessantasette anni, Dayan viene da una lunga carriera politica nella destra israeliana, per decenni uno dei leader più influenti del movimento degli insediamenti in Cisgiordania, oltre ad avere all’attivo l’incarico di console generale israeliano a New York, nominato nel 2016 dallo stesso Netanyahu.
   E tuttavia, nel 2021 Dayan scelse di candidarsi alle elezioni con il partito Nuova Speranza guidato da Gideon Sa’ar, un fuoriuscito dal Likud, che aveva lasciato il partito in polemica con Netanyahu. Rimasto fuori dalla Knesset, Dayan fu nominato direttore di Yad Vashem pochi mesi dopo, dal governo guidato da Naftali Bennett, il primo esecutivo senza Netanyahu dal 2009.
   Secondo quanto riportato dalla stampa locale, Kisch ha cercato a lungo un appiglio per disfarsene, non trovando di meglio che appellarsi a irregolarità formali, con l’intenzione di sostituirlo con Keren Barak, una ex parlamentare del Likud (compagine di Kisch e Netanyahu).
   La presenza dei tre consiglieri di amministrazione alle riunioni, ha affermato il ministro, “è un suo grave fallimento come presidente di Yad Vashem, e mette in dubbio la legalità di tutte le decisioni prese”.
   “Le affermazioni di Kisch sono in parte infondate, in parte deliranti e in parte semplicemente false,” la risposta di Dayan affidata al Canale 12.
   Ricostruzioni della stampa israeliana hanno puntato il dito anche contro la moglie di Netanyahu, Sara, che non avrebbe gradito la scelta di affidare le musiche della cerimonia del Giorno della Memoria a una cantante, Keren Peles, che aveva espresso il suo supporto alle proteste anti-governative. Ricostruzioni che la donna oggi ha smentito mentre con il marito si accingeva a decollare per una visita di Stato a Cipro.
   Nel frattempo, la controversia ha suscitato una levata di scudi dentro e fuori dai confini di Israele.
   A firmare la missiva sono stati professori di spicco, tra cui Jan Grabowski, Jan T. Gross, Yehuda Bauer, Alvin Rosenfeld, Havi Dreifuss e Barbara Engelking, oltre al dottor Efraim Zuroff del Centro Simon Wiesenthal.
   Dayan, hanno sottolineato gli studiosi, “ha servito la sua istituzione con grande distinzione, permettendo a Yad Vashem di mantenere e rafforzare il suo carattere indipendente e imparziale”.
   “Oggi, con la memoria della Shoah sempre più sotto pressione, con varie istituzioni e governi implicati nella sua distorsione e negazione, l’indipendenza di Yad Vashem è più cruciale che mai,” si legge nella lettera.
   “Ogni tentativo di ottenere il controllo politico su Yad Vashem è una chiara minaccia alla memoria di sei milioni di vittime della Shoah e una sfida alla legittimità di un’istituzione che gode di un enorme e meritato prestigio in tutto il mondo,” prosegue il documento. “Chiediamo al ministro dell’Istruzione e al governo israeliano di assicurarsi che al presidente Dani Dayan e allo Yad Vashem sia consentito di continuare la loro missione senza ostacoli".
   A difendere Dayan sono state anche la rappresentante dell’amministrazione Biden per la lotta contro l’antisemitismo Deborah Lipstadt e quella per le questioni relative all'Olocausto Ellen German.
   “Da anni apprezzo il lavoro di istituzioni come Yad Vashem,” ha twittato Lipstadt. “La sua scrupolosa e inestimabile opera di ricerca è in gran parte dovuta alla sua professionalità e indipendenza”.
   Anche Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’Unione Europea per la lotta all’antisemitismo, si è unita alle voci di protesta. “Yad Vashem è un partner chiave per l’Unione Europea in tema di ricerca sulla Shoah” ha dichiarato. “La sua competenza e l’indipendenza della sua leadership sono essenziali in tempi di distorsione della Shoah e di tentativi di politicizzarne la memoria”.
   Negli scorsi mesi, Kisch aveva già tentato di sostituire il rettore della Biblioteca Nazionale israeliana, rinunciando al piano dopo le proteste che aveva suscitato, in particolare tra i filantropi che sostengono l’istituzione, i quali secondo quanto riportato dalla stampa israeliana avevano minacciato di ritirare il proprio supporto, costringendo il governo a cedere.

(la Repubblica, 4 settembre 2023)

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Smascherata: 30 anni fa, la sinistra israeliana istituì illegalmente uno Stato palestinese con gli Accordi di Oslo

di David Israel

Il 13 settembre, ricorreranno i 30 anni dalla firma, sul prato della Casa Bianca, degli accordi di Oslo. Amit Segal ha notato, su News12, che solo un anno prima, l’allora primo ministro Yitzhak Rabin aveva approvato l’ultimo assassinio di un alto funzionario dell’OLP. In effetti, l’OLP era considerata defunta dopo la sua espulsione da Beirut al termine della guerra del Libano.
   Durante la prima guerra in Iraq (1990-91), il leader dell’OLP Yasser Arafat si schierò con Saddam Hussein e subì l’isolamento internazionale quando Hussein fu umiliato dagli eserciti della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Poi, il 7 aprile 1992, Arafat sfuggì per poco alla morte quando un aereo su cui si trovava precipitò nel deserto libico, uccidendo entrambi i piloti e un ingegnere. 

• ARAFAT E L’OLP ERANO SPACCIATI. 
   Ma poi, alla fine del 1992 e nel corso del 1993, il viceministro degli Esteri Yossi Beilin, che in seguito avrebbe lasciato il Partito Laburista per guidare Meretz – un’improbabile coalizione di liberali borghesi ed ex comunisti – avviò colloqui segreti diretti, prima a Londra e poi a Oslo, con la leadership dell’OLP. 
   Si trattava non solo di un allontanamento dalla politica ufficiale israeliana, che accettava contatti con politici “palestinesi” locali, ma escludeva completamente i contatti con i rappresentanti dell’OLP – ma di un atto contrario alla legge. 
   Man mano che i colloqui procedevano, Beilin ne riferiva al Ministro degli Esteri Shimon Peres e infine a Rabin, che ordinò a Peres di interromperli immediatamente. Poco tempo dopo, però, Rabin cambiò idea e accettò i colloqui con i rappresentanti dell’OLP, per ragioni che sono sfuggite agli storici per tre decenni. Tutto ciò che abbiamo sono speculazioni sul rapporto, particolarmente sgradevole, tra Rabin e Peres e sulla perpetua paura del primo di perdere contro l’uomo che tanto detestava. 

• LA RIUNIONE 
   Il 30 agosto 1993, 30 anni fa, si tenne una riunione segreta di gabinetto. Potete leggere il protocollo qui (https://img.mako.co.il//2023/08/29/OSLO.pdf?Partner=interlink) Vi parteciparono Rabin, Peres, diversi ministri laburisti, Shulamit Aloni e Yossi Sarid di Meretz, che aveva raggiunto l’apice nelle elezioni del 1992, con 12 deputati. Inoltre, vi era un nuovo arrivato di talento, proveniente da un partito religioso sefardita: Aryeh Deri. 
   Deri, in seguito, ha ricordato: “Alle 18 ricevetti un messaggio che diceva che c’era una riunione del governo alle 20 e che dovevo venire se volevo vedere gli Accordi di Oslo, che allora nessuno conosceva”. 
   Secondo Haim Ramon, che deteneva il portafoglio dei Servizi sanitari nel governo di Rabin, non solo i cittadini israeliani ne furono scioccati, ma anche l’esercito. “Questo accordo è stato fatto alle spalle dell’esercito”, disse Ramon. “Il personale militare non è stato coinvolto in questo accordo, a differenza di quanto avvenuto fino ad allora e da allora. Hanno letto l’accordo quasi contemporaneamente ai ministri”. 
   Deri ha inoltre ricordato: “Ehud Barak, che all’epoca era il Capo di Stato Maggiore, si sedette accanto a me e per tutta la durata dell’incontro mi disse a bassa voce che l’accordo era pericoloso, che c’erano buchi più grandi di quelli del formaggio svizzero e che avrebbe danneggiato la sicurezza dello Stato”. 
   Alcune delle veementi obiezioni di Barak sono state omesse dal protocollo in quanto “top secret” – esso sarà reso pubblico tra 90 anni, 60 da oggi. Anche i commenti di Binyamin “Fuad” Ben-Eliezer, che era ministro degli Alloggi nel governo di Rabin, ma aveva ricoperto il ruolo di coordinatore delle attività governative nei territori, sono stati censurati per 90 anni. 
   I commenti di Barak che non sono stati rimossi includevano un’astuta osservazione su quanto sarebbe stato difficile per l’IDF prevenire l’aumento dell’infrastruttura terroristica in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza se la cooperazione con l’OLP non fosse stata così buona come Rabin si aspettava. 
   “Quando abbiamo informazioni su persone ricercate a Jabaliya o sulla preparazione di un attentato che si svolge all’interno di uno dei campi profughi, non sarà facile intraprendere un’azione efficace contro di essi”, disse il Capo di Stato Maggiore Barak alla riunione. “C’è sempre il rischio che qualcosa trapeli dai ranghi della polizia palestinese o che ci siano infiltrati provenienti dagli autori dell’attacco”. 
   È ironico che le persone che lo non lo hanno preso in considerazione durante l’incontro, cioè i membri di Meretz, sarebbero poi diventati i suoi più grandi partner nel tentativo di fare cadere il governo Netanyahu attraverso il sabotaggio e la violenza di strada. 
   Rabin aprì l‘incontro dicendo che non si trattava di un semplice accordo, ma di una delle due alternative che il suo governo aveva di fronte: il ritiro dai territori “siriani” del Golan o dalla “Cisgiordania”. Tra le due, l’opzione “palestinese” era più probabile, soprattutto da quando la Casa Bianca di Clinton l’aveva ripresa con vigore, al punto che gli americani erano diventati il tramite per entrambe le parti. 
   Rabin dichiarò di sostenere l’opzione “palestinese” perché i siriani chiedevano un ritiro completo, mentre l’OLP si sarebbe accontentata di una restituzione parziale delle terre “occupate”. Rabin chiarì che non vedeva alcun valore di sicurezza negli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria. Per lui si trattava di realtà politiche e quindi la loro utilità doveva essere misurata in base al valore politico  che aveva all’epoca, che comprendeva la loro rimozione totale o parziale. 
   Per Rabin, tutto dipendeva dalla capacità del presidente dell’OLP Arafat di garantire la sicurezza all’interno dell’Autorità Palestinese, in particolare dalla sua capacità di controllare Hamas nella Striscia di Gaza. 
   Il Ministro degli Esteri Peres  condivise la sua sorpresa che l’OLP non avesse insistito per lo sradicamento degli insediamenti. Tentare di farlo avrebbe rappresentato una soluzione impossibile, sia moralmente che fisicamente. Sostenne che, in quel contesto, fosse stato un bene che i colloqui di pace con la Siria non si fossero conclusi, perché i siriani avrebbero chiesto la restituzione di tutto, e quindi i “palestinesi” avrebbero insistito sulla medesima richiesta. 

• NON SI POTEVA FARE SENZA MERETZ 
   Il partito con una dozzina di mandati che spinse Rabin agli accordi di Oslo celebrò quella che all’epoca venne vista come una vittoria storica sulla destra. “Se non difendiamo questo accordo, non sono sicuro che ci saranno molti altri che si offriranno volontari per difenderlo”, dichiarò il ministro dell’Ambiente Yossi Sarid. “Certo, i problemi posti qui sono legittimi e forse anche necessari, ma sappiamo per esperienza che anche se non emergono cose precise, l’atmosfera sarà comunque chiara, e se questo accordo crolla, non vedo più prospettive di pace”. 
   Nella stessa riunione di gabinetto, Sarid si rivolse al capo di gabinetto Barak e lo  rimproverò: “Non si può tenere il bastone da entrambe le parti. Da un lato, è un risultato che nessuno degli insediamenti sia stato sradicato, mentre avrebbero potuto essere sradicati, forse a Gaza, e dall’altro, non puoi dire in seguito che gli insediamenti stanno complicando la situazione”. 

• SEMBRAVA CHE TUTTI AVESSERO UN QUALCHE POTERE PROFETICO 
   Non tutti. Il ministro dell’Istruzione Shulamit Aloni dichiarò, non vi prendo in giro: “Le preoccupazioni per la sicurezza hanno avuto la massima risposta nell’accordo così come è stato presentato qui, e penso che siano state garantite da tutte le parti e che non dovrebbero suscitare la sensazione che stiamo rischiando qui più di quella che sarebbe l’alternativa”. 
   Gli israeliani avrebbero presto affrontato un nuovo concetto: “Le Vittime della Pace” (alias Sacrifici per la Pace). Il termine descriveva le migliaia di persone che hanno perso la vita nei fiumi di sangue che hanno attraversato il Paese a seguito degli Accordi di Oslo. Il termine era già stato coniato in precedenza, ma fu Shimon Peres ad avere il privilegio di assegnarlo agli israeliani morti a causa di tali accordi. L’11 ottobre 1993, all’apertura della seconda sessione della Knesset, dopo l’assassinio degli escursionisti israeliani a Wadi Kelt, Shimon Peres disse delle vittime che “erano cadute nella campagna per la pace”. 

(L'informale, 3 settembre 2023)

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Libia-Israele: l’ombra degli “Accordi di Abramo” aleggia su Roma

di Fabio Marco Fabbri

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La Tripolitania, non la Libia, soffre di una precaria stabilità, minata da continue crisi socio-politiche. È governata da Abdul Hamid Dbeibeh, capo del Governo di unità nazionale con sede a Tripoli, che rappresenta la parte politica meno spontanea di questo strategico Paese nordafricano. Infatti, le tre grandi regioni libiche – Tripolitania, Cirenaica, Fezzan – hanno dei connotati politici diversi. Così, l’Esecutivo della Tripolitania, che impropriamente viene generalizzato come “Governo libico”, resta l’espressione di una volontà internazionale, tanto per non scendere nei dettagli; la Cirenaica è saldamente nelle mani di un potente leader riconosciuto dal popolo, il maresciallo Khalifa Haftar; il Fezzan, ben delineato a livello tribale, preferisce strizzare l’occhio al potente Governo cirenaico, piuttosto che a quello imposto dall’Occidente in Tripolitania.
   L’incontro del 27 agosto tra il ministro degli Esteri libico – più esatto sarebbe definirlo della Tripolitania – Najla El Mangoush e il suo omologo israeliano, Eli Cohen, oltre ad avere provocato reazioni estreme all’interno del Governo di Tripoli, ha sottolineato le debolezze di un Esecutivo condizionato dalle pressioni internazionali, al quale si contrappone la volontà popolare e di una parte della politica, che faticano a riconoscere l’autorità di Dbeibeh. Pertanto, dopo la notizia dell’incontro di Roma tra “una libica e un israeliano”, il Consiglio presidenziale tripolino ha chiesto “chiarimenti” su questo vertice al capo del Governo di unità nazionale, ricordando che l’azione intrapresa dal responsabile della diplomazia di Tripoli non rappresenta la traccia della politica estera dello Stato libico (della Tripolitania), non tratteggia le consuetudini nazionali libiche ed è considerata una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la “normalizzazione dei rapporti” con l’entità sionista. Tutto ciò che fa riferimento alla Libia deve essere declinato in Tripolitania.
   Najla El Mangoush si è affrettata a definire l’incontro di Roma “casuale e non ufficiale” – durante il quale ha anche incontrato Antonio Tajani, il suo omologo italiano – e che il tavolo tra i capi delle rispettive diplomazie non ha sortito nessun documento ufficiale. Tuttavia, l’imbarazzo del “Governo della Tripolitania, telecomandato dall’Occidente”, è forte. Infatti, nessuna giustificazione è servita a placare il dissenso popolare, che ha portato la folla dei manifestanti davanti alla sede del Governo di Tripoli per chiedere la caduta dell’Esecutivo. Inoltre, altri manifestanti hanno appiccato il fuoco alla residenza del primo ministro Dbeibeh, ubicata a est della capitale. Anche in altre città della Tripolitania come Tadjourah e Zaouïa, a est e a ovest di Tripoli, si sono verificate sommosse popolari contro il Governo. Dbeibeh ha dovuto sospendere dall’incarico la ministra Najla El Mangoush, assicurando che sarà attivata una commissione che dovrà verificare, tramite un’indagine amministrativa, se la ministra abbia superato i limiti delle sue competenze. Intanto, lunedì scorso il primo ministro, sotto forte pressione politica, ha dovuto formalizzare il “licenziamento” di El Mangoush, ufficializzato nel corso di una tesa riunione all’interno dall’ambasciata palestinese di Tripoli, struttura diplomatica mantenuta totalmente con le risorse del Paese accogliente, come è generalmente di prassi negli Stati arabo-musulmani. L’ormai ex ministro Najla El Mangoush si è rifugiata in Turchia, Paese raggiunto con un aereo governativo.
   La rappresentante della diplomazia di Tripoli, probabilmente, ha agito non valutando coscientemente le conseguenze di avere cercato di imboccare una strada che altri Stati arabi hanno recentemente già percorso, cioè quella della “normalizzazione dei rapporti” con Israele. Certamente, il primo ministro era a conoscenza dell’incontro; infatti, risulta che alcuni funzionari di Tripoli, in assoluto anonimato, hanno comunicato all’Associated Press che la visita a Roma era nota. Ma è anche noto che ‏Dbeibeh aveva già dato dei segnali chiari sulla volontà di aprire una strada di dialogo con Israele: una fase “embrionale” degli Accordi di Abramo.
   Va ricordato, in un quadro più ampio, che El Mangoush ha rivelato di essersi rifiutata di incontrare qualsiasi partito che potesse rappresentare l’entità israeliana e che il Governo di Tripoli è stato ufficialmente chiaro nel mantenere la sua posizione rispetto alla “causa palestinese”. In più, Tripoli ha denunciato una strumentalizzazione da parte dei media ebraici e internazionali di quanto avvenuto a Roma, presentando il vertice come un incontro con dialoghi costruttivi. Il ministro israeliano Eli Cohen ha altresì dichiarato di aver avuto con la sua omologa tripolina la garanzia che il patrimonio culturale dell’ebraismo libico sarà preservato, attraverso anche il restauro delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici presenti in questa regione. Aggiungendo, poi, che la posizione strategica della Libia offre enormi opportunità allo Stato di Israele.
   Si tratta di un primo passo nelle relazioni tra Israele e Libia, o meglio tra Israele e la Tripolitania? Intanto gli Accordi di Abramo, sotto l’egida degli Stati Uniti, hanno visto Israele stabilire rapporti formali e utili con il Marocco, gli Emirati Arabi, il Bahrain e il Sudan, aprendo grandi spazi di dialogo con l’Arabia Saudita. Tuttavia, l’attuale politica del Governo di Benjamin Netanyahu è criticata da molti Paesi arabi, che lamentano l’ondata di violenza nella Cisgiordania occupata e la continua colonizzazione di parte di questo territorio.
   Ma sugli Accordi di Abramo piange la Palestina, che vede vacillare la sua esclusiva posizione di “vittima” anche agli occhi di molti Stati del mondo arabo. In attesa che la Cirenaica di Khalifa Haftar avvii colloqui con Israele, che probabilmente potrebbero sortire interessanti sviluppi.

(l'Opinione, 4 settembre 2023)

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Attesa una delegazione Usa a Riad per discutere della normalizzazione con Israele

Secondo un media locale, l'Autorità nazionale palestinese starebbe cercando passi “irreversibili” che facciano avanzare la sua richiesta di creare uno Stato palestinese nel contesto dei negoziati per un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita

Una delegazione di alto profilo degli Stati Uniti è attesa questa settimana a Riad per discutere con le controparti saudite della potenziale normalizzazione delle relazioni tra il regno del Golfo e Israele. Lo riferisce in esclusiva il quotidiano israeliano “The Times of Israel”, citando funzionari statunitensi e palestinesi.
   Nello specifico, dovrebbero recarsi a Riad il responsabile per il Medio Oriente della Casa Bianca, Brett McGurk, e la vice segretaria di Stato per il Vicino Oriente, Barbara Leaf. Se confermata, la visita si inserisce sulla scia di quelle del capo della diplomazia Usa, Antony Blinken, e del consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, avvenute rispettivamente a giugno e luglio scorsi, con l’obiettivo di raggiungere un accordo tra lo Stato ebraico e il regno del Golfo. La presenza di McGurk e Leaf a Riad avverrà in concomitanza con la visita di una delegazione di Ramallah, capeggiata dal segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Hussein al Sheikh, destinata a discutere delle aspettative palestinesi nel caso si raggiunga un accordo israelo-saudita, hanno spiegato le fonti a “The Times of Israel”. Al momento non ci sono commenti né da Washington né da Riad.
   L’Arabia Saudita “sarebbe pronta a rinunciare alla sua posizione pubblica, da tempo mantenuta, contraria alla normalizzazione con Israele in assenza di una soluzione a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ma non è plausibile che Riad accetti un accordo con Gerusalemme che non includa un significativo progresso verso la sovranità palestinese”, secondo funzionari che hanno familiarità con la questione citati da “The Times of Israel”.
   La settimana scorsa, altre fonti del quotidiano hanno dichiarato che l’Autorità nazionale palestinese starebbe cercando passi “irreversibili” che facciano avanzare la sua richiesta di creare uno Stato palestinese nel contesto dei negoziati per un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Le misure proposte includono il sostegno degli Stati Uniti al riconoscimento dello Stato palestinese presso le Nazioni Unite, la riapertura del consolato statunitense a Gerusalemme che storicamente serviva i palestinesi, l’abolizione della legislazione del Congresso che caratterizza l’Autorità nazionale palestinese come organizzazione terroristica, il trasferimento del territorio della Cisgiordania da parte israeliana al controllo palestinese e alla distruzione degli insediamenti illegali in Cisgiordania.
   Tuttavia, prosegue il quotidiano israeliano, “i gesti più importanti nei confronti dei palestinesi quasi sicuramente saranno contrastati da alcuni membri del governo intransigente di Benjamin Netanyahu“. La scorsa settimana il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha dichiarato che l’idea che Israele faccia delle concessioni ai palestinesi come parte di un accordo di normalizzazione è una “finzione”. Sebbene l’accordo dovrebbe includere una componente palestinese, la maggior parte delle richieste saudite sono dirette agli Stati Uniti, e queste sono state finora al centro dei negoziati tra l’amministrazione Biden e il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Riad sta cercando un trattato di sicurezza reciproca simile alla Nato che obblighi gli Stati Uniti a difendere l’Arabia Saudita nel caso quest’ultima venga attaccata, un programma nucleare civile sostenuto dagli Stati Uniti in Arabia Saudita e la possibilità di acquistare armi più avanzate da Washington. In cambio, gli Stati Uniti chiedono che Riad riduca significativamente i suoi legami economici e militari con Cina e Russia e rafforzi la tregua che ha posto fine alla guerra civile nello Yemen.

(Nova News, 4 settembre 2023)

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Il presidente del senato del Marocco visiterà per la prima volta la Knesset

di Luca Spizzichino

Enaam Mayara
Il capo del Senato del Marocco, Enaam Mayara, visiterà il parlamento israeliano questo giovedì, lo ha annunciato il portavoce della Knesset. Si tratta della prima visita di un leader marocchino e una delle visite di più alto livello per un politico musulmano straniero alla Knesset.
   Il presidente Amir Ohana, che ha invitato formalmente Mayara, ha affermato che il viaggio rappresenta “l’inizio di una nuova era” nelle relazioni tra Israele e Marocco.
   Ohana, figlio di immigrati ebrei dal Marocco, ha detto che la visita di Mayara rappresenta una “realtà piena di speranza, che ci insegna le possibilità di espandere i circoli di pace in Medio Oriente”.
   Mayara è anche il presidente dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, un'organizzazione ombrello che rappresenta le legislature regionali. Un certo numero di parlamentari lo accompagneranno in una visita regionale e incontreranno anche Ohana.
   La visita del capo del Senato marocchino fa seguito alle iniziative intraprese da Israele negli ultimi mesi nella costruzione di relazioni reciproche. A giugno il presidente della Knesset ha visitato il parlamento del Marocco e una delegazione di parlamentari israeliani ha visitato il Regno quest'estate, come parte di un più ampio forum parlamentare. Inoltre a luglio, Israele ha riconosciuto la sovranità del Marocco sul territorio conteso del Sahara Occidentale.

(Shalom, 4 settembre 2023)

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Tra USA e Cina, tra il Dragone e i cow-boy, dove sta Israele? Nel mezzo

I tentativi di incrementare le relazioni economiche con l’accordo di libero scambio si scontrano con il veto americano: gli Stati Uniti temono la cessione di tecnologie militari

di Giovanni Panzeri

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Cina e Mediterraneo, il nuovo celeste impero e il Medioriente, Israele e il Dragone. E il profumo del fior di loto che si espande sulle coste, da Rosh HaNikrà a Ashkelon. Esiste una penetrazione degli interessi economici cinesi nello Stato Ebraico? «Costruire infrastrutture di alta qualità, resistenti, sostenibili e a prezzi ragionevoli permetterà a tutte le nazioni di sfruttare al meglio le proprie risorse integrandosi in un modello di sviluppo comune. (…) La Cina collaborerà con tutti i partner disponibili a creare un network comune di ferrovie, porti, oleodotti…», ha dichiarato nel 2019 il presidente cinese Xi Jinping, descrivendo quella che viene definita la “nuova via della seta” cinese (Belt and Road Initiative in inglese).
   Adottata dal governo cinese nel 2013, la Belt and Road Initiative (BRI) è un’iniziativa geopolitica di ampio respiro orientata a espandere l’influenza cinese a livello globale, dapprima finanziando la costruzione di infrastrutture funzionali a rendere più fluido il commercio tra i vari continenti per poi focalizzarsi su accordi bilaterali e investimenti nei settori, ad esempio, dell’hi-tech, della cultura e della sicurezza domestica e internazionale. Israele non è, ad oggi, un sottoscrittore ufficiale della BRI, ma nel corso dell’ultimo decennio è stato oggetto di investimenti e azioni diplomatiche e commerciali che possono essere inserite nel contesto di questa iniziativa. Il netto miglioramento delle transazioni commerciali, diplomatiche ed economiche tra Cina e Israele, avvenuto tra il 2013 e il 2019, è stato seguito da un parziale raffreddamento nel corso degli ultimi quattro anni, causato da pressioni statunitensi e altri fattori.
   Questa dinamica descrive la complicata situazione diplomatica dello Stato ebraico. Israele sta cercando di seguire una strategia pragmatica che gli permetta da una parte di mantenere una “relazione speciale” con Washington perseguendo i propri obiettivi strategici (come nel caso del conflitto con l’Iran, suo principale rivale nella regione, apertamente sostenuto dalla Cina), dall’altra di portare avanti il più possibile i propri interessi economici aprendosi ai finanziamenti e ai mercati cinesi. Il tutto in una situazione di crescente polarizzazione internazionale tra le due potenze, che rischia di danneggiare le prospettive di settori d’avanguardia dell’economia israeliana, come l’hi-tech, e si va a sommare a una crescente instabilità politica interna.

Relazioni Sino-Israeliane, un riassunto

In realtà i rapporti tra Israele e Cina hanno una storia lunga e sono iniziati nel corso degli anni ‘80 quando Israele cominciò a vendere segretamente armi e tecnologie militari alla Cina, incoraggiato dagli Usa in chiave anti-sovietica, almeno secondo il professore di scienze politiche e studi dell’Asia Orientale dell’Università di Haifa Yitzak Schichor.
In seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e all’apertura formale delle relazioni diplomatiche tra la Cina e lo Stato ebraico, nel 1992, l’atteggiamento statunitense verso questi scambi cambiò radicalmente, nel timore che la Cina si appropriasse di sistemi d’arma e tecnologie, magari sviluppate in cooperazione dagli Usa e Israele, che le potessero fornire un vantaggio nell’eventualità di un conflitto con gli americani.
  In particolare la rottura dell’accordo tra Israele e Cina sul PHALCON del 2000 e di quello sui droni HARPY nel 2005, su pressione statunitense, costrinsero Israele a sottoporre ogni futuro accordo sulla vendita di armi alla revisione di Washington. Questo comportò lo spostamento delle relazioni Sino-Israeliane su un piano prettamente economico, che conobbe un forte sviluppo a partire dal 2013, l’anno in cui, pochi mesi dopo il lancio della BRI da parte cinese, il primo ministro israeliano Netanyahu decise di fare delle relazioni con la Cina una delle priorità del suo terzo mandato di governo. Gli anni successivi avrebbero visto una spiccata crescita negli scambi commerciali tra le due nazioni, accompagnati da massici investimenti cinesi nel settore hi-tech dell’industria israeliana e nella costruzione di alcune infrastrutture critiche.

Per un accordo di libero scambio
  Le relazioni commerciali tra Cina e Israele sono tuttora in costante crescita: ad oggi la Cina è il primo partner commerciale di Israele in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale.
  Il commercio, almeno per quanto riguarda l’export cinese, è l’unico tra i tre settori chiave delle relazioni Sino-Israeliane a non avere subito battute d’arresto a causa di pressioni americane o altri fattori, e consiste principalmente nello scambio di merci (il commercio in servizi alle imprese, di solito un elemento importante dell’export israeliano, è trascurabile). Secondo i dati raccolti dall’Institute for National Security Studies (INSS), gli scambi commerciali tra le due nazioni sono aumentati del 50% tra il 2020 e il 2022, raggiungendo un valore totale di circa 17 miliardi e consistono prevalentemente in esportazioni cinesi, mentre l’aumento di esportazioni israeliane in Cina è molto più contenuto. L’enorme aumento delle esportazioni cinesi è stato condizionato anche dalla pandemia ed è dovuto principalmente a tre fattori: l’aumento di prodotti ordinati da siti cinesi, considerati meno costosi e quindi più adatti a fronteggiare il salire del carovita; l’aumento degli ordini di apparecchiature elettroniche, adatte allo smart-working, anche attraverso rivenditori israeliani; la notevole diffusione nello Stato ebraico di veicoli cinesi, in particolare macchine elettriche. Dal canto suo Israele esporta in Cina soprattutto componenti elettroniche, ma l’export in quel campo è stato pesantemente limitato dalle pressioni statunitensi. Gli anni del Covid hanno tuttavia visto un parziale aumento nelle esportazioni israeliane di materiale medico e sostanze chimiche. Il progressivo miglioramento delle relazioni commerciali è stato accompagnato dal lancio, nel 2016, di trattative per arrivare a un vero e proprio accordo di libero scambio. L’accordo dovrebbe prevedere l’aprirsi dei mercati cinesi alla tecnologia agricola israeliana, in cambio dell’abbattimento dei dazi sui veicoli esportati dalla Cina nello Stato ebraico.
  È significativo che le trattative siano riprese proprio quest’anno (l’ultimo incontro risale al 2019), in un momento che potrebbe essere descritto come di relativo raffreddamento delle relazioni Sino-Israeliane, dovuto alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per limitare gli investimenti cinesi nel settore hi-tech e nel settore delle infrastrutture.

Il settore hi-tech
  La possibilità di accedere alle conoscenze e ai prodotti hi-tech israeliani è sicuramente una delle principali ragioni che hanno spinto la Cina a tentare di coinvolgere Israele nella BRI, mentre d’altra parte l’accesso all’enorme mercato tecnologico cinese rappresenta un’opportunità per le industrie israeliane.
  Secondo i dati raccolti dall’INSS, gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano fino al 2020 rappresentano la gran parte degli investimenti cinesi nello Stato ebraico. In particolare, tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 19 miliardi di dollari nelle imprese israeliane, dei quali 9 destinati al settore hi-tech. La maggior parte degli investimenti nel settore hi-tech proviene da aziende private, che agiscono comunque secondo le direttive nazionali del governo cinese, tra le quali Huawei, Alibaba, Baidu, Haier e Qihoo 360. Sempre secondo i dati raccolti dall’INSS è evidente come gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano hanno raggiunto il picco nel 2018 per poi iniziare a calare nel 2019, a seguito degli effetti delle pressioni statunitensi sul governo di Israele.

Infrastrutture
  Tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 6 miliardi di dollari nel mercato delle infrastrutture israeliane, in particolare nel settore dei trasporti e dell’energia, e ha partecipato a decine di appalti per la costruzione e la gestione di infrastrutture critiche. Tra questi progetti i più noti alla cronaca sono la costruzione della prima linea della metropolitana di Tel Aviv e la costruzione e la gestione di un nuovo terminale commerciale nel porto di Haifa, considerato dalla Cina, assieme al più piccolo porto di Ashdod, un importante snodo nel Mediterraneo nel contesto dell’espansione marittima della BRI.

Pressioni americane, rischio sicurezza
  Gli Stati Uniti non hanno mai visto di buon occhio lo sviluppo delle relazioni tra Israele e Cina e sia l’amministrazione Trump sia quella di Biden hanno sempre fatto pressione sul governo israeliano affinché aumentasse i controlli sugli investimenti dall’estero, sulla partecipazione di imprese straniere ad appalti e sull’esportazione di tecnologia israeliana in Cina.
  Dopo anni di resistenza, come riportato dal Times of Israel, il governo israeliano ha infine ceduto alle richieste instituendo nel 2019 l’Advisory Board for Evaluating National Security Aspects of Foreign Investments entrato poi in funzione l’anno dopo. Il comitato ha teoricamente solo una funzione consultiva, ma di fatto dispone di un enorme potere indiretto, come spiega il report dell’INSS sugli investimenti cinesi nelle infrastrutture israeliane: “Il declino degli appalti destinati a imprese cinesi è un effetto dell’azione del comitato (…) le materie discusse dal comitato impattano direttamente la società israeliana attraverso la stampa, limitando di fatto le opzioni dei legislatori”.
  La creazione del comitato in realtà non è dovuta solo alle pressioni statunitensi, ma anche ai contrasti in seno alla società israeliana, creati dalla prospettiva di un aumento dell’influenza cinese, ovvero di un Paese che comunque sostiene attivamente fazioni apertamente ostili allo Stato ebraico, sulla politica israeliana a livello domestico e internazionale. Un Paese che viene sospettato, tra l’altro, di ingaggiare strategie commerciali basate su pratiche sleali, come furti di licenze e attacchi hacker. Infatti, se da una parte le autorità israeliane considerano generalmente le aziende cinesi in modo positivo, visto che svolgono lavori “rapidi, di qualità e a basso costo”, dall’altra queste ultime incontrarono l’opposizione e la critica di diversi esperti di sicurezza, preoccupati per le possibili ingerenze del governo cinese, e quella di organizzazioni di settore come la Israel Builder Association, che ha accusato le imprese cinesi di essere di fatto le estensioni di un governo “che compete slealmente nel mercato delle infrastrutture mettendo a rischio centinaia di aziende israeliane, che impiegano migliaia di dipendenti”.

Sviluppi recenti
  Nonostante il recente raffreddamento delle relazioni, Israele continua a cercare di mantenere un atteggiamento aperto verso la nazione che ormai è diventata una dei suoi principali partner commerciali, come testimoniano la recente scelta di Netanyahu di recarsi in Cina in visita ufficiale e la ripresa delle trattative per un accordo di libero scambio. Del resto è assolutamente vero, come sostiene Paolo Salom nel suo recente pezzo su Mosaico, che se Israele non può permettersi di rinunciare alla sua alleanza con gli USA, associandosi a uno Stato che ha sempre supportato concretamente i propri rivali strategici, non può neanche, per ragioni storiche, confidare nel fatto che l’Occidente lo supporterà in eterno. È quindi una strategia sensata per Israele mantenere i migliori rapporti possibili con chiunque sia disponibile, a maggior ragione con la Cina, una nazione che sta diventando sempre più influente nel quadro mediorientale.

(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2023)

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Perché gli Haredim vanno al lavoro

Un lento ma duraturo aumento dell'occupazione sta avendo un permanente impatto culturale.

di Shimon Sherman

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Diverse nuove statistiche mostrano tendenze positive nell'integrazione degli ultraortodossi nel mondo del lavoro israeliano.
L'occupazione haredi ha raggiunto il livello più alto di sempre (55,8%), secondo uno studio dell'Ufficio centrale di statistica pubblicato il mese scorso.
   "Si tratta di uno sviluppo incoraggiante e se si confrontano questi numeri con quelli di 20 anni fa, la crescita è stata davvero notevole", ha dichiarato a JNS Eliezer Hayun, esperto di sociologia presso il Jerusalem Institute for Policy Research.
   Tuttavia, c'è ancora un grande divario tra il tasso di integrazione sul posto di lavoro degli haredi e quello degli ebrei in generale, pari all'87%. Inoltre, c'è ancora molto lavoro da fare prima di raggiungere l'obiettivo governativo fissato nel 2020 di un'integrazione del 63% entro il 2025.
   "I miglioramenti ci sono, ma è importante capire che non rappresentano una trasformazione fondamentale della comunità haredi, ma piuttosto un cambiamento incrementale", ha detto Hayun. "C'è stata una crescita lenta per molti anni e quello che stiamo vedendo ora è la continuazione di questo processo".
   Una recente statistica del Ministero del Lavoro ha fatto luce sulla tempistica dell'integrazione degli ultraortodossi. Secondo il rapporto, l'epidemia di coronavirus ha portato a un calo previsto e importante dell'occupazione Haredi nel 2020. Tuttavia, secondo l'indagine, entro il 2022 questi numeri sono tornati ai livelli precedenti la pandemia. Inoltre, nel 2023 i tassi di occupazione Haredi erano più alti di 3,5 punti percentuali rispetto a prima dell'epidemia di coronavirus e di 2,5 punti percentuali rispetto al 2022.
   "Si tratta di sviluppi significativi e non vediamo alcuna ragione per aspettarci che la tendenza si inverta", ha dichiarato a JNS un rappresentante del Ministero del Lavoro.
   Il rapporto mostra anche che nel 2023 il 25,5% degli uomini ultraortodossi occupati lavora nel settore pubblico. contro il 27,8% del 2021.
   La fascia di età compresa tra i 55 e i 66 anni è stata la principale forza trainante di questa tendenza al cambiamento, rappresentando oltre la metà dell'aumento dell'occupazione. Nel frattempo, la fascia di età compresa tra i 18 e i 35 anni ha rappresentato solo l'8% dell'aumento della forza lavoro.

• IL FATTORE ECONOMICO
  Eitan Regev, vice direttore della ricerca presso l'Istituto Haredi per gli Affari Pubblici, attribuisce l'aumento dell'occupazione a fattori economici. Secondo Regev, la comunità ultraortodossa vive in un ambiente economico molto instabile e fattori apparentemente piccoli, come l'aumento delle tasse su oggetti domestici come le bevande dolci o il taglio di programmi di welfare minori, possono facilmente portare le famiglie al limite e costringere i genitori a lavorare.
   Regev ha indicato l'aumento dei tassi di interesse come un fattore importante che può aggiungere centinaia di shekel al mutuo mensile di una famiglia. Ha aggiunto, tuttavia, che un'inversione di tendenza del mercato non porterà probabilmente a un calo dell'occupazione, a causa dell'impatto culturale permanente che una maggiore popolazione attiva ha portato nella comunità. "Non c'è dubbio che la tendenza continuerà, l'unica domanda è quanto velocemente".
   Hayun ha detto a JNS: "Certamente la questione economica è un fattore, ma nella nostra ricerca abbiamo scoperto che la maggior parte degli Haredi con cui abbiamo parlato ha detto che la ragione principale per cui sono andati a lavorare è che non si sono 'trovati' nel mondo della Torah. Molti hanno detto che anche lo stipendio era importante, ma il fattore psicologico di sentirsi insoddisfatti dallo studio esclusivo della Torah ha giocato un ruolo centrale".
   Il Ministro del Lavoro Yoav Ben-Tzur (Shas) ha attribuito questi sviluppi al "frutto degli sforzi del governo e grazie agli investimenti diffusi in questa iniziativa". Itzik Krombi, autore del libro in lingua ebraica When Haredim Become the Majority (Quando gli haredim diventano la maggioranza), concorda in linea di principio con il ministro, affermando che il gran numero di programmi di sostegno governativi e privati è ciò che ha permesso agli haredim di entrare nella forza lavoro in numero maggiore.
   "Il Consiglio per l'istruzione superiore ha aperto nuovi corsi, il Ministero del Lavoro ha aperto più centri di orientamento e il programma MeGo per l'integrazione degli haredi nell'hi-tech si è ampliato; ovviamente, stanno lavorando di più", ha detto Krombi.
   Ha elogiato in particolare gli sforzi del Consiglio per l'istruzione superiore per migliorare l'istruzione secolare haredi, indicando le statistiche che mostrano un aumento del 25% degli ultraortodossi che ricevono lauree e un aumento del 45% dei master e dei dottorati nel 2021-2022.
   Krombi ha anche sottolineato l'influenza sociale dell'ingresso di un maggior numero di ultraortodossi nel mondo del lavoro.
   "I giovani padri e mariti vedono i loro amici che sono andati a lavorare e sono rimasti haredim, e questo dà loro la fiducia di poter fare la stessa cosa. Anche i rabbini vedono i loro studenti lasciare il kollel [istituto per lo studio della Torah a tempo pieno] ma rimanere uomini di Torah proprio come lo erano prima".
   Hayun ha fatto eco a questo sentimento, spiegando: "Abbiamo visto attraverso le interviste che l'ingresso nel mondo del lavoro non ha un effetto profondo sulla religiosità. Semmai sono più impegnati a mantenere la loro comunità e la loro tradizione. Per loro è molto importante andare al lavoro vestiti da haredim e mandare i figli in yeshivot adeguate".

(JNS, 4 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«Incapaci di una corretta valutazione della situazione politica»

Una pubblica confessione di colpa

Quando nel 1933 Hitler arrivò al potere in Germania, molto presto si preoccupò di fare in modo che tutte le realtà religiose diventassero istituzionalmente riconoscibili. Pretese quindi che tutti i gruppi religiosi si costituissero in regolari organizzazioni, con precisi statuti e responsabili riconosciuti approvati dalle autorità. Gli statuti dovevano poi contenere espressioni di perfetta adesione alla concezione nazista dello Stato.
   Quasi tutti i cristiani evangelici delle chiese libere si adeguarono senza tanti problemi. Una parte però trovò grandi difficoltà, non per obiezioni politiche o ideologiche, ma per motivi di identità: fu un movimento che si autodefiniva come Christliche Versammlung (Assemblea Cristiana), identificabile come il ramo esclusivista del movimento poi conosciuto come Assemblee dei Fratelli, avente analogie e corrispondenze con un simile movimento presente in Italia fin dalla metà dell'Ottocento
   Fermamente convinti che la chiesa sia una realtà di natura puramente celeste, i credenti della Christliche Versammlung rifiutavano per principio ogni tipo di sistematica organizzazione e ogni rapporto giuridico con lo Stato. Non chiesero dunque alcun riconoscimento, e per un po’ di tempo continuarono tranquillamente ad andare avanti come prima. Furono bruscamente riportati alla realtà nel 1937, quando il governo di Hitler dichiarò sciolto il loro movimento, chiuse le loro sale e proibì loro di continuare a riunirsi in quel modo. Per quei credenti fu un colpo tremendo: non se l’aspettavano. "Wie ein Blitz aus heiterem Himmel", come un fulmine a ciel sereno, era questa l’espressione usata, anche per iscritto, in reazione a quei fatti. Furono gettati in una profonda costernazione, anche perché erano quasi tutti ben disposti verso il governo hitleriano e non accettavano di essere considerati come nemici della nazione.
   Poterono abbastanza presto riaprire le loro sale, ma questo fu loro concesso solo a condizione che il movimento in quanto tale fosse considerato definitivamente sciolto e al suo posto nascesse una nuova organizzazione pienamente rispondente alle richieste governative. Cosa che poi avvenne perché se ne fece garante e responsabile un membro della Christliche Versammlung noto alle autorità come apertamente filonazista. Dovettero dunque accettare di organizzarsi in un’associazione che nel suo statuto conteneva dichiarazioni di fedeltà allo Stato nazionalsocialista: il Bund freikirchlicher Christen ("Unione di cristiani appartenenti a chiese libere"). Di fatto avevano rinunciato a una delle loro più caratteristiche convinzioni identitarie, e l’avevano fatto sotto ricatto del governo nazista.
Nell’aprile del 1995, in occasione dell’anniversario della caduta del regime nazista, alcuni Fratelli tedeschi avvertirono in modo particolarmente acuto il peso di questa vergognosa situazione del passato e presero la decisione di diffondere una pubblica dichiarazione (dopo cinquant’anni!). La dichiarazione porta la firma di due autorevoli responsabili delle Assemblee dei Fratelli che operavano in quel momento nel Bund Evangelisch-Freikirchlicher Gemeinden. Poiché i sottoscrittori volevano che alla Dichiarazione fosse data la massima diffusione, si adoperarono affinché fosse tradotta e pubblicata anche su giornali evangelici di altri paesi. In Italia comparve a suo tempo sul mensile Il Cristiano.
   La riportiamo qui sotto, insieme a un'importante premessa fatta degli stessi autori.
   Il risalto in colore è stato aggiunto. M.C.


Premessa

Nel 1995 si compiono 50 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla caduta del regime nazista. Poche sono, tra le persone che hanno partecipato a quegli avvenimenti, quelle rimaste ancora in vita; per questo alcuni considerano chiuso questo capitolo.
Dobbiamo però interrogarci sul modo in cui i nostri padri si sono comportati e su quello che ci hanno lasciato. Possiamo trovare, nella tradizione delle nostre chiese, esempi per la generazione attuale che ci aiutino a restare saldi in situazioni simili?
Gli strumenti di informazione hanno pubblicato in questi mesi una quantità di documentazioni, prese di posizione, confessioni di colpa, testimonianze di amore per il prossimo e di resistenza verbale da parte cristiana. Siamo presi da tremore e commozione, e siamo spinti a riflettere e a prendere posizione.
Dalle Assemblee dei Fratelli non è ancora uscita alcuna presa di posizione pubblica sul loro comportamento durante il regime nazista. Crediamo quindi che sia urgentemente necessario rivolgerci all’opinione pubblica con un’aperta dichiarazione. Questo potrà aiutarci a riconoscere la nostra colpa davanti a Dio e davanti agli uomini, e spingerci al pentimento, per ottenere il perdono di Dio ed essere liberati dal peso di quel passato.
La documentazione potrà anche essere un aiuto per la comprensione di quei tempi confusi. Non si vogliono attribuire delle colpe, ma si vuole capire e imparare, e anche imitare degli esempi di fede. La testimonianza della resistenza opposta da singoli uomini e donne delle nostre assemblee non deve essere ignorata.
Dobbiamo imparare ad avere una giusta valutazione della nostra storia passata e futura; dobbiamo crescere nella capacità di riconoscere il male, nella prontezza a manifestare “coraggio civile” e a resistere fino al possibile martirio, avendo fiducia e speranza nel vivente Dio della storia.

DICHIARAZIONE

Il periodo del Terzo Reich

Il periodo del regime nazista trovò le Assemblee dei Fratelli in Germania impreparate. Alcune convinzioni teologiche, come l’interpretazione di Romani 13, che conduceva ad un acritico consenso al proprio Stato, il rifiuto di ogni responsabilità politica, e un atteggiamento nazionalistico, che dal tempo del Kaiser era diffuso in tutti gli ambienti dei credenti, aveva reso i Fratelli, come la maggior parte dei cristiani, incapaci di una corretta valutazione della situazione politica.
Il grande errore fu di non riconoscere la vera natura della persona del “Führer”, della ideologia e dello Stato nazionalsocialista come forze antidivine e inumane. L’errore iniziale si trasformò in colpa quando il progressivo sviluppo del male rese sempre più evidente l’ingiusta struttura dello Stato. Il boicottaggio degli Ebrei, le leggi razziali, la notte dei “pogrom”, i campi di concentramento, il feroce trattamento degli avversari politici e di tutti coloro che volevano proteggere gli Ebrei, e infine anche il tentativo di uniformare tutta la chiesa evangelica ai Cristiano-Tedeschi, avrebbero dovuto aprire gli occhi e spingere quanto meno ad una resistenza interiore, se si avvertiva che il parlare e l’agire contro l’evidente ingiustizia veniva impedito dalla brutalità del regime e dal conseguente rischio per la propria vita. D’altra parte, ci sono stati uomini e donne che, come discepoli di Cristo, hanno coraggiosamente parlato, agito e sofferto.
Ma, a parte alcuni singoli casi, le chiese nel loro complesso si adattarono alle richieste dello Stato, con i loro conduttori, che non si sentirono responsabili della condotta politica dei loro membri e non seppero dare quindi alcun aiuto e alcuna indicazione. I singoli credenti furono lasciati a sé stessi e dovettero decidere da soli in situazioni critiche come: l’invito dello Stato ad iscriversi al Partito Nazionalsocialista o alle SS, la constatazione della pubblica violenza, le intimidazioni, i rapporti con gli Ebrei e gli Ebrei-Cristiani. Ci fu invece entusiasmo per il “Führer”, per i suoi successi politici e militari, per l’ideologia nazionalsocialista e per i suoi slogan acriticamente accettati; o ci fu soltanto silenzio per ignoranza o per paura, e mancanza di amore per le persone perseguitate. In questo modo, i cristiani che amano la Parola di Dio si resero colpevoli.

Il periodo successivo al crollo

Purtroppo, dopo il crollo del 1945 non ci fu alcuna ammissione pubblica di errore con relativa confessione di colpa per quanto avvenuto sotto il regime nazista. E’ vero che alcune persone regolarono il loro passato davanti Dio e in parte anche nelle chiese, ma poiché nella maggior parte dei casi questo non avvenne in forma pubblica, il loro esempio non poté stimolare coloro che non erano disposti a esaminare il loro passato né davanti a sé stessi né davanti agli uomini. In questo modo non fu possibile arrivare ad una piena confessione di colpa per il generale fallimento sotto la dittatura di Hitler. Ci furono, invece, diversi tentativi di giustificazione, e qualcuno espresse addirittura la sua indignazione davanti al desiderio di richiamare le persone alla loro colpa. Il fatto che le autorità naziste, dopo la fusione organizzativa dei Fratelli nel Bund freikirchlicher Christen, avessero tolto il divieto di riunione e avessero consentito l’evangelizzazione, fu portato come giustificazione per la mancata presa di distanza dall’ingiusto sistema.

Noi confessiamo

Indicibili sofferenze sono venute su milioni di persone per la seconda guerra mondiale e per la persecuzione degli Ebrei. Una grande colpa pesa dunque sul nostro popolo tedesco. Anche noi, cristiani delle Assemblee dei Fratelli, abbiamo parte in questa colpa, perché ci siamo in gran parte adattati all’ideologia antidivina e piena di odio del Nazionalsocialismo, perché abbiamo servito questo Stato ingiusto e ci siamo resi colpevoli verso altri uomini, soprattutto verso i nostri concittadini ebrei.
Non sta a noi, uomini di oggi, giudicare persone che in tempi e in circostanze molto diverse si sono resi colpevoli, ma poniamo noi stessi sotto il peso di questa colpa e la confessiamo davanti a Dio e davanti agli uomini, nella consapevolezza che anche noi possiamo, in circostanze simili, renderci colpevoli.
Chiediamo a Dio, nel nome di Gesù Cristo, di perdonarci questo peccato, di liberarci dal peso di questo passato e di essere misericordioso con il nostro popolo tedesco.

Aprile 1995

Per il “Bruderrat der Arbeitsgemeinschaft der Brüdergemeinden”

Michael Zimmermann
Dr. Ulrich Brockhaus


Evangelici tedeschi di ieri: incapaci di una corretta valutazione della situazione politica.
Evangelici italiani  di oggi: incapaci di una corretta valutazione della situazione politica?

(Notizie su Israele, 3 settembre 2023)

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Germania evangelica anni '30: «Un moderato, equilibrato, "evangelico" antisemitismo»


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Il ministro degli Esteri iraniano in Libano per consolidare le alleanze

Teheran cerca di porre fine alla crisi politica del Libano, attualmente senza presidente

Hossein Amir-Abdollahian
Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha effettuato venerdì un'importante visita in Libano, concentrandosi sul rafforzamento dei legami con diversi gruppi, tra cui Hezbollah. La visita segue un viaggio in Siria, dove Amir-Abdollahian ha incoraggiato il presidente siriano Bashir al-Assad ad aumentare la pressione sugli Stati Uniti affinché si ritirino dal Paese. Secondo Tasnim News, un giornale filo-iraniano, durante i colloqui a Damasco il capo della diplomazia iraniana ha attribuito l'instabilità della Siria a Israele e ad altri "nemici".
Al-Mayadeen, un media vicino a Hezbollah, riferisce che Amir-Abdollahian ha incontrato a Beirut anche i leader di Hamas e della Jihad islamica palestinese. Durante questi colloqui a porte chiuse, il ministro iraniano ha ribadito l'impegno di Teheran per la causa palestinese.
Hossein Amir-Abdollahian e Hassan Nasrallah
Il capo della diplomazia iraniana ha incontrato anche Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, con il quale ha discusso della situazione geopolitica in Libano e della crescente influenza del gruppo terroristico. Nasrallah ha avvertito Israele di non commettere "errori di calcolo", sottolineando l'ascesa dei gruppi sostenuti dall'Iran nella regione.
Uno degli obiettivi della visita di Amir-Abdollahian è quello di contribuire a porre fine alla crisi politica in Libano, attualmente senza presidente. Amir-Abdollahian ha avuto colloqui con Nabih Berri, presidente del Parlamento libanese, sul sostegno economico dell'Iran al Libano, in particolare nel settore dell'elettricità.
La visita del ministro iraniano arriva un giorno dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato l'intenzione di esplorare le modalità di risoluzione della disputa sui confini tra Libano e Israele. Amos Hochstein, consigliere senior della Casa Bianca, ha trascorso due giorni in Libano, visitando il sud del Paese per valutare le condizioni necessarie per un potenziale accordo.

(i24, 2 settembre 2023)

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Rinnovato il mandato all’Unifil, con l’articolo 16 contestato da Hezbollah

Libano/Israele - Il movimento sciita chiedeva di limitare la libertà di movimento ai caschi blu dell'Onu senza l'autorizzazione dell'esercito libanese. Per Israele è una mezza vittoria. Rinnovato il mandato all’Unifil, con l’articolo 16 contestato da Hezbollah.

di Michele Giorgio

Con 13 voti favorevoli e due astensioni – Russia e Cina – giovedì sera il Consiglio di Sicurezza (CdS) dell’Onu ha approvato la risoluzione 2695, rinnovando per un altro anno il mandato del contingente peacekeeping Unifil lungo il confine tra Libano e Israele ma all’interno del territorio del paese arabo. L’esito del voto, accolto con soddisfazione dal governo israeliano e dagli Usa, differisce dal rinnovo dello scorso anno. Nel 2022 i membri del Consiglio di Sicurezza votarono all’unanimità per continuare la missione di circa 10mila caschi blu (1100 dei quali italiani) di 49 paesi, che in numero maggiore rispetto a quelli della Unifil originaria nata nel 1978, furono dispiegati sulla Linea Blu tracciata dall’Onu al termine dell’invasione israeliana del Libano del sud nell’estate del 2006. L’attacco di Israele – che dal 12 luglio al 14 agosto bombardò massicciamente il Libano facendo circa 1300 morti tra i libanesi (tra cui numerosi civili) e 165 tra gli israeliani (in prevalenza soldati) – scattò dopo l’uccisione sul confine di otto soldati dello Stato ebraico e la cattura di altri due da parte dell’ala militare di Hezbollah.
   Con la loro astensione, Russia e Cina hanno voluto segnalare la loro vicinanza al Libano che aveva chiesto di eliminare l’articolo 16 dal testo del mandato, relativo alla libera circolazione di mezzi e soldati dell’Unifil senza il permesso dell’esercito del paese dei cedri. Il voto è avvenuto in un contesto di forti tensioni sul confine. Da mesi si parla di una nuova guerra tra Israele ed Hezbollah, una sorta di «rivincita» dopo la sconfitta che secondo il movimento sciita e alcuni osservatori Israele avrebbe subito nel 2006.
   Con il voto di due giorni fa, l’Unifil può continuare a «condurre le proprie operazioni in modo indipendente». Dovrà «coordinarsi con il governo» di Beirut ma non con l’esercito libanese. Per evidenti ragioni diplomatiche, il primo ministro ad interim Najib Mikati si è detto abbastanza soddisfatto per il «coordinamento» tra il suo governo e l’Unifil. In casa Hezbollah l’umore è ben diverso. Il testo infatti afferma che tutte le parti dovranno consentire ai caschi blu di condurre «pattuglie annunciate e non annunciate» senza «alcuna restrizione e ostacolo al movimento del personale Unifil». Non siamo all’Unifil come forza armata incaricata di dare la caccia alle armi di Hezbollah come vorrebbe Israele, però l’articolo 16 del mandato è duro da digerire dalla leadership sciita. Ora si attende il prossimo discorso in diretta tv del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, però il partito sciita ha già fatto sapere che il testo del mandato resterà «inchiostro su carta» se l’Unifil non si coordinerà con l’esercito libanese e rispetterà la sovranità del paese. «Non importa come sia formulata la risoluzione, non cambierà nulla sul terreno», ha sentenziato l’opinionista Yahiya Dabouq sul quotidiano di sinistra al-Akhbar (pro-Hezbollah).
   Nasrallah intanto incassa il sostegno che il Libano ha avuto all’Onu da Cina e Russia, frutto anche, spiega qualcuno, dello scontro in atto con Washington e l’Occidente. «La Cina si rammarica della mancanza di rispetto per la sovranità libanese» e di considerazione per «le violazioni lungo il confine», ha detto il rappresentante di Pechino riferendosi a recenti azioni dell’esercito israeliano. Da notare il voto a favore del rinnovo senza emendamenti da parte degli Emirati, alleato di ferro di Israele nel Golfo. L’ambasciatrice Lana Nusseibeh ha accusato Hezbollah «di essersi fatto beffe della risoluzione Onu 1701 (del 2006) e di non aver consentito libertà di movimento all’Unifil».

(il manifesto, 2 settembre 2023)


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ONU: problemi in Consiglio di sicurezza, Russia e Cina contro

di Aurora Gatti

Il voto in Consiglio di sicurezza sul rinnovo della missione ONU in Libano ha fatto emergere una serie di problematiche e conseguenti polemiche all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

Mentre Russia e Cina si sono astenute, hanno votato a favore del rinnovo della missione in Libano per un anno 13 paesi, compresi gli Emirati Arabi Uniti, che hanno svolto un ruolo significativo nello spingere per l’adozione di un “linguaggio più forte” riguardo alla “libertà di movimento” dell’UNIFIL. Il mandato approvato prevede che alla forza sia consentito effettuare "pattuglie annunciate e non annunciate" senza previa approvazione da parte di alcuna autorità, compreso l'esercito libanese, ma le sue attività richiederanno "il coordinamento con il governo libanese".
  Uno dei punti controversi è che l'inviato israeliano presso l'ONU è riuscito a persuadere il rappresentante degli Emirati Arabi Uniti a votare a favore dell'estensione della presenza dell'UNIFIL in Libano secondo una bozza che si allinea con gli interessi di "Tel Aviv", hanno riferito i media israeliani. Secondo il corrispondente politico dell'emittente Kan, le opinioni sul testo proposto sono rimaste al centro della questione tra diversi paesi fino all'ultimo momento della sessione, poco prima della votazione.
  "Ci sono state differenze di opinioni" che hanno causato l'estremo ritardo, ha detto Gili Cohen, aggiungendo che un certo numero di partiti "ha fatto ogni tentativo per influenzare la missione dell'UNIFIL" e i parametri operativi. Cohen ha spiegato che questo è stato "il risultato degli sforzi diplomatici intrapresi dall'ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, quando è riuscito a ottenere il voto degli Emirati Arabi Uniti" a favore della formula più adatta all'entità.
  Dal canto suo, Mosca è preoccupata per la tendenza dei rappresentanti di USA, Regno Unito e Francia "ad abusare dei loro poteri nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite", anche per quanto riguarda gli sforzi di mantenimento della pace. Lo ha detto il ministero degli Esteri russo dopo che il Consiglio ha adottato una risoluzione per estendere il mandato della Forza provvisoria delle Nazioni Unite in Libano.
  "Per la prima volta il documento non è stato adottato all'unanimità poiché Russia e Cina si sono astenute dal votare la proposta preparata dalla Francia, garante informale del dossier", ha precisato il ministero in una nota. "Questa decisione è stata dettata dal fatto che il documento finale non è riuscito a riflettere un compromesso che avrebbe tenuto conto della posizione e dell'opinione del Libano come paese che ospita la forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sul suo territorio".
  "In genere, la tendenza generale dei rappresentanti della troika occidentale nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia e Regno Unito) ad abusare dei loro poteri di supervisori informali del dossier al fine di promuovere le proprie opinioni politiche, anche nel campo del mantenimento della pace, è motivo di preoccupazione", si legge nella nota.

(Osservatorio sulla legalita' e sui diritti, 2 settembre 2023)

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Le responsabilità del giornalismo (anche) italiano nel perpetuare stereotipi e odio contro Israele

di Paolo Salom

Un anno si chiude, uno nuovo si apre. Il mondo continua a girare inseguendo fantasmi. Vi faccio un esempio. Da gennaio si sono moltiplicati gli attentati contro civili israeliani, in Giudea e Samaria come a Gerusalemme e Tel Aviv. Accoltellamenti, sparatorie, auto lanciate contro inermi passanti. Decine di famiglie sono state gettate nel dolore e nell’angoscia. Spesso, se non sempre, gli autori – arabi palestinesi celebrati come eroi nelle strade delle loro città – sono stati arrestati o uccisi. Ci sono stati scontri armati tra l’esercito di Israele e i gruppi terroristici responsabili di questi atti codardi e inumani: perché assassinare un inerme all’improvviso non è altro che un gesto bestiale. Dunque, nel provare a reprimere questa ondata di attentati, i morti tra i nemici sono stati numericamente più alti. Qualche volta, nonostante tutte le precauzioni dei soldati israeliani, loro sì veri eroi, qualche civile incolpevole ci è andato di mezzo. Questo è quanto è successo: gli arabi palestinesi hanno compiuto attentati mortali e gli israeliani hanno risposto con precisione e responsabilità.
  Nulla di diverso da quello che è accaduto per decenni e che accadrà, ahimè, ancora a lungo. Perché ve lo racconto? Perché riportando uno di questi episodi, il Tg3, ovvero un telegiornale finanziato con i soldi di tutti gli italiani, almeno di quelli che pagano il canone, ha spiegato che un “attentato avvenuto a Tel Aviv, dove un palestinese si è lanciato con la sua auto contro una fermata dell’autobus e poi è sceso brandendo un coltello per finire le persone che aveva investito, è stata una risposta all’operazione dell’esercito a Jenin”. Sì, avete letto bene, la giornalista – di cui fortunatamente non ricordo il nome – ha detto proprio queste esatte parole: un attentato contro civili inermi, in una strada di Tel Aviv, il coltello brandito contro persone che badavano ai propri affari, è stato messo sullo stesso piano di un’operazione dell’esercito contro miliziani armati responsabili di azioni atroci. È come se qualcuno, evidentemente in preda ad allucinazioni, spiegasse che la strage perpetrata in una scuola negli Stati Uniti “è una risposta alle azioni dell’esercito americano” in qualche oscura regione del mondo. Paragone forzato? Forse. Ma in quale altro universo si può mettere sullo stesso piano chi uccide esseri inermi e chi li protegge? L’odio nei confronti di Israele è qualcosa che ormai ha valicato ogni confine di decenza. Capisco che Al Jazeera, la tv satellitare pagata dal governo del Qatar, abbia dei pregiudizi e racconti gli eventi sempre in maniera distorta: è il loro mestiere. Ma per quale ragione su un canale della televisione di Stato italiana, un servizio pubblico ancorché viziato dalla politica, si arriva a distorcere i fatti con tanta spregiudicatezza? In Israele c’è un conflitto. È chiaro ed evidente a tutti. Ma non è certamente con queste parole vergognose che si può aiutare il pubblico a capire. Così si perpetuano gli stereotipi, i pregiudizi e l’odio antico quanto questa cosiddetta civiltà. Non mi stancherò mai di ripeterlo.
Shanà tovà a tutti voi.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2023)

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Scoperte due misteriose strutture nel complesso archeologico della Città di David

di Luca Spizzichino

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Due strutture uniche, risalenti al periodo del Primo Tempio, sono state portate alla luce dagli archeologi nel sito della Città di David, lo ha annunciato mercoledì l'Autorità israeliana per le antichità (IAA). Lo scavo è stato effettuato da ricercatori dell'IAA e dell'Università di Tel Aviv, finanziati dalla Fondazione Elad.
  Secondo i ricercatori, le strutture potrebbero far parte dell'area commerciale della città, vista la loro vicinanza al palazzo reale e al Tempio. I ricercatori hanno faticato a individuarne l’uso preciso poiché nessun sito del genere è mai stato trovato in Israele.
  “Gli escavatori hanno scoperto la prima installazione all’estremità nord-orientale dello scavo del Parcheggio Givati, che comprende una serie di almeno nove canali. In cima alla scogliera rocciosa, che racchiude l’installazione a sud, si possono trovare sette tubi di drenaggio, che trasportavano i liquidi dalla cima della scogliera all’installazione del canale”, ha detto l’IAA nella sua descrizione del sito archeologico. Il secondo sito invece comprende cinque canali.
  Il dottor Yiftah Shalev, ricercatore senior presso l'IAA, ha affermato che gli sforzi per identificare lo scopo esatto del sito sono stati infruttuosi. “Abbiamo portato sul posto diversi esperti per vedere se c'erano residui nel terreno o nella roccia non visibili a occhio nudo e per aiutarci a capire cosa scorresse o ci fosse nei canali. - ha spiegato al Times of Israel - Volevamo verificare se c'erano resti organici o tracce di sangue; quindi, abbiamo anche chiesto l'aiuto dell'unità forense della polizia e di altri ricercatori in tutto il mondo, ma finora senza alcun risultato".
  Secondo Shalev un possibile utilizzo dei due siti potrebbe essere stato quello di immergere prodotti, come il lino per la produzione di biancheria. "Un'altra possibilità è che i canali contenessero datteri che venivano lasciati fuori per essere riscaldati dal sole allo scopo di produrre silan (miele di datteri)” ha ipotizzato, spiegando come installazioni simili siano state scoperte in luoghi lontani come Oman, Bahrein e Iran.
  Il professor Yuval Gadot, del dipartimento di Archeologia e Civiltà del Vicino Oriente antico dell'Università di Tel Aviv, ha affermato che il sito era in uso fino ai giorni dell'ottavo e del nono re della Giudea, Joash e Amaziah. "Questa è un'epoca in cui sappiamo che Gerusalemme copriva un'area che comprendeva la Città di Davide e il Monte del Tempio, che fungeva da cuore di Gerusalemme", ha detto Gadot. "La posizione centrale dei canali, vicino alle zone più importanti della città, ci indica che il prodotto realizzato utilizzandoli era collegato all'economia del Tempio o del palazzo".
  “Di tanto in tanto ci imbattiamo in reperti sorprendenti ed enigmatici che ci sfidano e suscitano l’interesse della ricerca. - ha sottolineato il direttore dell'IAA Eli Escusido - Con la collaborazione con altre istituzioni risolviamo questi misteri e facciamo avanzare la nostra conoscenza delle società del passato”.
   Il sito sarà aperto al pubblico la prossima settimana come parte del 24° evento “City of David Studies of Ancient Jerusalem”.

(Shalom, 1 settembre 2023)

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il volo diretto a Tel Aviv atterra in Arabia Saudita

Un problema tecnico che segna la storia

di Sofia Tranchina

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Un problema tecnico che segna la Storia: martedì pomeriggio un Airbus 320 di Air Seychelles, decollato dall’arcipelago africano e diretto a Tel Aviv, ha dovuto effettuare un atterraggio di emergenza in Arabia Saudita con 128 passeggeri israeliani a bordo.
   Un problema elettrico ha fatto improvvisamente piombare nel buio una parte del velivolo, costringendolo alla manovra.
   «Quando sul volo hanno annunciato che saremmo atterrati in Arabia Saudita, è stato davvero spaventoso», ha detto la passeggera Sharon Licht Patren a Kan, l’emittente radiotelevisiva pubblica israeliana. «Non era chiaro cosa sarebbe successo».
   Dopo l’atterraggio, i passeggeri non hanno ottenuto subito l’autorizzazione di scendere dal mezzo, rimanendo così bloccati a bordo per tre ore in attesa di indicazioni, senza elettricità né servizi igienici.
   Per gestire l’incidente e occuparsi della sicurezza dei passeggeri, il direttore generale del Dipartimento per gli Israeliani all’Estero ha dovuto valutare la situazione con i funzionari competenti e le autorità. 
   Benché dal 2020 l’Arabia Saudita sia un possibile candidato per l’espansione degli Accordi di Abramo, agli israeliani rimane ufficialmente vietato viaggiare in Arabia Saudita. Un anno fa la monarchia islamica saudita ha dato il via libera per aprire il proprio spazio aereo ai voli da e per Israele, designando Gedda come scalo alternativo di emergenza, ma questa è la prima volta che un aereo pieno di israeliani atterra nel Paese.
   Una volta deciso che i passeggeri avrebbero passato la notte in un albergo vicino all’aeroporto, i locali li hanno accolti con calore, organizzando al meglio il loro soggiorno.
   Per ringraziare per la collaborazione, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato una nota: «apprezzo molto il trattamento caloroso delle autorità saudite nei confronti dei passeggeri israeliani il cui aereo è stato costretto a effettuare un atterraggio di emergenza a Gedda. Sono felice che tutti stiano tornando a casa. Apprezzo molto il buon vicinato».
   La mattina del giorno seguente un velivolo è arrivato da Dubai per portare i passeggeri in Israele, segnando così il primo volo diretto dall’Arabia Saudita a Israele.
   All’inizio di quest’anno, le due nazioni stavano discutendo per consentire voli diretti per la Mecca.
   Il ministro degli Esteri Eli Cohen, durante un incontro nel Negev con i beduini, ha detto di voler raggiungere entro il prossimo marzo un accordo per permettere agli arabi israeliani (che costituiscono il 20% della popolazione) di compiere facilmente l’annuale pellegrinaggio ḥajj: «noi non siamo i loro nemici, siamo i loro partner. Il loro nemico è l’Iran» ha detto Kan.
   Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha anche affermato che sarebbe «molto felice di vedere milioni di turisti dal mondo arabo venire in Israele».
   Ma l’accordo non è ancora andato in porto.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2023)

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«Hamas progetta di rapire israeliani all'estero»

Avvertimento del Consiglio di Sicurezza Nazionale

Il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Israele ha emesso giovedì un avvertimento aggiornato sui viaggi all'estero in vista delle festività di Tishri.
   Il Consiglio avverte della notevole probabilità che sia Hamas che la Jihad islamica cerchino di rapire israeliani o ebrei all'estero come merce di scambio con Israele.
   Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha dichiarato pubblicamente che "Hamas non rifiuta l'opzione del rapimento. Abbiamo quattro prigionieri nelle nostre mani e se questo non è sufficiente a convincere Israele a fare uno scambio, allora cattureremo altri israeliani attraverso le nostre filiali in tutto il mondo".
   Queste minacce sono quindi prese molto sul serio.
   Il Consiglio di sicurezza nazionale ritiene inoltre che il rischio di attacchi contro obiettivi israeliani sia molto alto nei Paesi confinanti con l'Iran, come la Georgia e l'Azerbaigian, ma anche più ampiamente in Turchia e in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Gli avvertimenti riguardano anche i Paesi dell'America Latina.
   Un avviso speciale è stato emesso per la Danimarca e la Svezia, che di recente sono entrate a far parte dell'elenco dei Paesi con un'accresciuta minaccia terroristica potenziale a causa di manifestazioni durante le quali sono state bruciate copie del Corano.
   Il Consiglio di sicurezza nazionale sottolinea che agli israeliani è vietato per legge recarsi in Paesi nemici come Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran. Questa regola si applica anche ai cittadini con doppia cittadinanza.
   Il Consiglio di Sicurezza Nazionale esorta i viaggiatori israeliani a consultare le raccomandazioni per le varie destinazioni prima di prendere il biglietto.

(LPH, 1 settembre 2023)z

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Tel Aviv, in servizio la prima metropolitana di Israele

La linea della metropolitana, chiamata  “Linea Rossa”, sarà in grado di alleggerire il traffico a Tel Aviv. I treni passeranno ogni 6 minuti.

Sarà decisamente più facile spostarsi a Tel Aviv. La vivace città, cuore economico di Israele, ha inaugurato la sua prima metropolitana denominata “Linea Rossa”.
   Il nuovo sistema di trasporto servirà una popolazione di oltre un milione di abitanti, inclusi quelli che abitano nei sobborghi periferici circostanti.

LA LINEA DELLA METROPOLITANA

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La rete ferroviaria, che conta ben 34 stazioni di cui 10 sotterranee, collegherà il sobborgo nord-orientale di Petah Tikva con Bat Yam a sud, per una tratta lunga circa 24 chilometri. Un modo rapido piuttosto semplice di muoversi. E anche economico: i biglietti costeranno l’equivalente di 1,20 €.
   Il progetto di costruire una metropolitana a Tel Aviv, la prima nel Paese, risale al 2013. L’obiettivo, dopo imponenti lavori, è stato finalmente raggiunto e permetterà ai cittadini e ai turisti di spostarsi da un punto ad un altro del centro urbano in poco tempo, evitando code sulle strade.  

LA FREQUENZA DEI TRENI

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I primi tre treni hanno ufficialmente iniziato il servizio lungo la “Linea Rossa” il 18 agosto scorso. Un giorno che inevitabilmente segna una svolta per la città e i suoi abitanti.
I treni passeranno ogni 6 minuti: ciò garantirà una connessione fluida ed efficiente, riducendo il traffico stradale e alleggerendo il carico che grava su altri mezzi pubblici.
   Anche per questo l’inaugurazione della “Linea Rossa” era molto attesa dai cittadini che, interessati e incuriositi dalla novità, hanno iniziato ad affollare le stazioni. Un modo, questo, per sperimentare di persona il nuovo sistema di trasporti.

LA SODDISFAZIONE DI KALANIT GOREN

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Kalanit Goren, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano, ha sottolineato l’importanza della “Linea Rossa” “nell’evitare il traffico e nell’immergersi nell’innovazione tecnologica che la metropolitana rappresenta. Questa opera di ingegneria non solo migliorerà la mobilità dei cittadini, ma avrà anche un ruolo fondamentale nel plasmare il volto di Tel Aviv da un punto di vista urbanistico”.
   La stessa Goren ha anche aggiunto che non bisogna dimenticare la grande comodità di potersi spostare da una “sponda all’altra della città” in libertà ed autonomia per vivere una vacanza indimenticabile”.

(Latitudes Life, 1 settembre 2023)

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Cambiar nome a Brundageplatz

Non volle onorare gli 11 atleti israeliani uccisi a Monaco

di Roberto Giardina

Il presidente del CIO Avery Brundage pronuncia la frase: "The games must go on"
Continua la campagna per cambiare nome a strade e piazze, e abbattere monumenti, che onorano personaggi della storia poco degni. Spesso si esagera, e si vuole cancellare il passato, ma a Monaco non hanno torto quanti si sdegnano per la Brundageplatz, la piazza innanzi al parco e al villaggio olimpico, quelli dei giochi del 1972. La città deve a Avery Brundage (1887-1975) le Olimpiadi, ma era un razzista e un antisemita. Dopo l'attacco dei palestinesi di Settembre Nero al villaggio, e la morte di undici atleti israeliani, pronunciò la retorica frase «The games must go on», i giochi continuano, con i corpi delle vittime ancora all'obitorio, lo spettacolo conta più della tragedia. Brundage viene ricordato e onorato, ma solo di recente è stato eretto un monumento a Monaco per ricordare le vittime. I parenti degli atleti hanno ottenuto un risarcimento, quasi simbolico, solo perché rifiutavano di presenziare alle celebrazioni del 2022 per ricordare i 50 anni dei giochi.
   Bisognerebbe giudicare in rapporto ai tempi, altrimenti poco resterebbe della nostra storia, è ridicolo censurare Dante o Shakespeare, o cancellare Napoleone e Giulio Cesare perché feroci condottieri, ma c'è un limite. Il presidente dello Ioc, il Comitato olimpico internazionale, si battè perché i giochi fossero assegnati a Monaco, e le Olimpiadi tornarono in Germania dopo quelle assegnate a Berlino nel 1936, quelle di Hitler. Brundage era un ammiratore del Führer, di cui condivideva le idee. Si era opposto nel '34 al movimento che chiedeva di togliere i giochi al Reich, per lui era un complotto sionista, e dichiarò che il desiderio di Hitler di escludere gli atleti ebrei era accettabile: «Anche nel mio club a Chicago non sono ammessi».
   Per tragico paradosso, furono gli ebrei, americani e tedeschi, durante la Repubblica di Weimar, a battersi per la candidatura di Berlino, ma si sarebbe potuta cancellare la decisione dopo il '33. Sulle Olimpiadi sventolò la croce uncinata, furono un successo, e il mondo ammirò Hitler. La colpa di Brundage sarebbe stata relativa, difficile annullare quel che era stato deciso, ma cercò di esaudire i desideri di Hitler, con cui era d'accordo sulla supremazia ariana e condivideva il giudizio sugli ebrei.
   Non poté escludere, o non volle, gli atleti americani di colore, altrimenti avrebbe dovuto rinunciare a molte medaglie quasi sicure per gli Stati Uniti. Jesse Owens vinse quattro medaglie d'oro davanti a Hitler, che evitò di stringergli la mano. Ma evitò che fossero selezionati campioni e campionesse ebrei, imitando il III Reich. A Monaco, i contestatori ricordano che non gli diedero fastidio le svastiche, ma si scandalizzò nel 1968, quando a Città del Messico gli americani di colore, Tommie Smith e Juan Carlos, primo e terzo nei 200 metri, alzarono il pugno chiuso per protesta contro le discriminazioni razziali in Usa. Brundage ottenne la loro espulsione dal villaggio olimpico: «È un odioso gesto di un paio di negri che oltraggia la bandiera americana». Anche l'australiano Peter Norman, giunto secondo, rimase sul podio pur non alzando il pugno, e fu escluso dalla squadra olimpica nel 1972.
   «La piazza è un affronto a Israele e agli ebrei. Non è assolutamente accettabile», dichiara Christian Springer, uno degli iniziatori della protesta. «Abbiamo fatto uno sbaglio, e dobbiamo correggerlo», conclude. È appoggiato da Carmela Shamir, console di Israele a Monaco. Ludwig Spaenle, cristiano sociale, responsabile del governo regionale per l'antisemitismo, dichiara: «Con le sue parole, lo spettacolo continua, Brundage ha cancellato l'attentato e le vittime. Cambiare nome alla piazza è una seria richiesta». La decisione verrà presa in autunno. Negli Usa, un busto di Brundage è stato rimosso dall'Asian Art Museum di San Francisco. Willi Daume, presidente del comitato olimpico tedesco nel 1972, ricorda: «Era un nazista, orgoglioso di essere abbonato a tutti i giornali antisemitici». Brundage dopo i giochi rimase in Baviera, e nel '73 sposò la principessa Marianne von Reuss, che aveva quasi mezzo secolo meno di lui, era nata nel 1936, l'anno delle Olimpiadi di Berlino. Un matrimonio breve, Brundage morì a Garmisch nel 1975.

(ItaliaOggi, 1 settembre 2023)

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Da Israele i formaggi (in stile francese) che nascono nel deserto

La storia di Yotam e della sua fattoria di famiglia (con annesso ristorante) nel Negev, a metà strada tra Tel Aviv ed Eilat. I suoi prodotti li troverete a Cheese 2023.

di Maria Cristina Crucitti

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In Israele la terra è una faccenda seria. Lo è sotto innumerevoli profili storico-politico-culturali e lo è anche sotto il profilo agricolo. Tanto che avviare un’azienda agricola da zero può rivelarsi una vera e propria impresa. Come è accaduto ad Anat e Daniel che, neolaureati in agraria, negli anni ’90 erano in cerca di un luogo per stabilirsi e produrre formaggi con le loro 17 capre, ricevute come retribuzione di un tirocinio. Yotam, il figlio maggiore ventottenne, mi racconta che ci vollero circa 4 anni per trovare una soluzione: la terra in Israele è di proprietà dello Stato e viene concessa in usufrutto ai privati attraverso appositi contratti centenari tramandati di padre in figlio. L’accesso ai terreni agricoli è di conseguenza molto burocratizzato e vincolato.
  È così che l’idea iniziale della famiglia Kornmehl di stabilirsi nei boschi vicino a Gerusalemme ha finito per concretizzarsi solo nel 1997 in un appezzamento nel bel mezzo del deserto del Negev, grazie a un progetto dell’amministrazione locale, che ne concedeva l’uso per un periodo iniziale di 2 anni. Da allora l’azienda è cresciuta: oggi sono 99 le capre in lattazione e l’intera produzione casearia viene venduta nel negozio e nel piccolo ristorantino aziendale, aperti nel 2007 con l’idea di divulgare cultura del formaggio, cosa che può apparire strana nel deserto. Mi spiega Yotam che in realtà l’azienda è situata esattamente a metà strada sulla direttrice che porta da Tel Aviv a Eilat, sul Mar Rosso, luogo di vacanza e divertimento. Considerando anche i turisti che esplorano le bellezze del deserto, e gli appassionati dei formaggi di impronta francese di Daniel, gli avventori non mancano.
  Quando qualche anno fa Yotam espresse la volontà di lavorare in azienda, i genitori gli dissero che avrebbe potuto farlo a 2 condizioni: girare prima il mondo e studiare qualcosa. La sua scelta è caduta sull’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Frequenta al momento l'ultimo anno del corso triennale e ha in mente di scrivere una tesi sull’economia circolare per migliorare l’approvvigionamento di foraggi nella sua zona. Nonostante le capre di razza 1 Anglo-Nubiana si adattino bene all’ambiente del deserto, hanno bisogno di una razione completa di fieno e cereali per la lattazione, tutto chiaramente acquistato altrove da fornitori selezionati, così come farine, ortaggi e altri ingredienti necessari per la cucina del ristorante. L’acqua invece non è un problema, grazie al sistema di distribuzione idrica israeliano e a quello di riciclo aziendale utile per irrigare.
  Il deserto non è così male, mi dice Yotam. È remoto, ma comunque a 2 ore da Tel Aviv; ci sono meno servizi ma si vive meglio, liberi. Fa caldo, ma non troppo e al pomeriggio c’è la brezza che viene dal mare. Mi racconta anche che i problemi del Conflitto lì non arrivano. L’unico vero importante neo dell’isolamento dell’azienda è che la mette al di fuori delle dinamiche normative abituali. Solitamente i produttori agricoli sono organizzati in villaggi, i quali beneficiano di contratti di usufrutto dei terreni a lungo termine. Il loro caso è un’eccezione e da 26 anni la famiglia kornmehl vive in un’abitazione amovibile, ancora in attesa di un contratto che gli garantisca la sicurezza di poter restare. Yotam è un ragazzo intraprendente e pieno di progetti: in futuro si vede a condurre la fattoria di famiglia nel Negev e a creare una rete di aziende agricole virtuose della zona, terra permettendo. Se vi va, lo potete incontrare a Cheese 2023, in degustazione in un laboratorio, dove in un ottimo italiano ci farà assaggiare i formaggi del deserto della Kornmehl farm.

(la Repubblica, 1 settembre 2023)

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Parashà di Ki Tavò: Dove sono oggi i leviti?

di Donato Grosser

Questa parashà inizia con la mitzvà di portare di anno in anno le primizie al Bet Ha-Mikdàsh a Gerusalemme (Devarìm, 26: 1-2) e prosegue con la mitzvà  di dare la decima ai poveri, orfani e vedove, nel terzo anno e nel sesto anno del ciclo di sette anni. 
     Ogni anno vi era la mitzvà di dare la terumà (in media un cinquantesimo del raccolto) al kohèn e poi la prima decima al levita. Una seconda decima del raccolto doveva venire consumata a Gerusalemme dal padrone del podere o da altri. Nel terzo e nel sesto anno, questa seconda decima doveva essere sostituita da una decima destinata ai poveri. Il settimo anno era l’anno di shemità (di remissione) e il raccolto doveva essere messo a disposizione di tutti e pertanto non vi era l’obbligo delle decime. Nella Torà il terzo e il sesto anno sono chiamati “shenàt ha-ma’asèr”, l’anno della decima. 
    R. Naftali Tzvi Yehudà Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nel suo commento Ha’amèk Davàr (ibid., 26:12) spiega che il terzo anno viene chiamato “anno della decima” anche se la prima decima viene data al levita ogni anno, perché la prima decima data al levita non era una donazione come la decima data ai poveri. La decima data al levita era a lui dovuta in cambio del fatto che la tribù di Levi era stata destinata al servizio nel tabernacolo e poi del Bet Ha-Mikdàsh a Gerusalemme. Per questo motivo la tribù di Levi non aveva ricevuto un territorio proprio e abitava dispersa nelle città delle altre tribù.
    Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Sèfer Zera’im, Hilkhòt Shemità ve-Yovèl, cap. 12:12) spiega qual era il ruolo della tribù di Levi: “Perché [la tribù di] Levi  non ricevette una parte di Eretz Yisrael e del bottino di guerra come i loro fratelli? Perché fu destinata al servizio di Dio, a servirLo e a insegnare al pubblico i comportamenti da seguire e le Sue giuste leggi, come è detto: «Insegneranno i tuoi statuti a Ya’akòv e la tua Torà a Israele» (Devarìm, 33:10). Pertanto furono separati dalla vita mondana. Non fanno la guerra come il resto del popolo ebraico, né ricevono proprietà terriera o acquisiscono con la forza. Sono invece l’esercito di Dio...”. 
     Ed oggi allora, che non abbiamo più i leviti che istruiscono il popolo, chi coltiva lo studio della Torà per insegnarlo a Israele? 
     La risposta viene dal Maimonide stesso che alla fine del capitolo (par. 13) aggiunge: “Non solo la tribù di Levi, ma qualunque abitante del mondo il cui spirito generoso e la mente hanno fatto sì che desideri separarsi [dalle cose mondane] e servire l’Eterno per conoscerne gli insegnamenti, procedendo con rettitudine come Dio lo ha creato, rimuovendo da sé il giogo dei molti artifici che le persone cercano,  si è distinto con grande kedushà. Dio sarà la sua porzione ed eredità per sempre e fornirà ciò che è sufficiente per lui in questo mondo, come Egli provvede i sacerdoti e i leviti.... 
     Chi sono quindi oggi coloro che hanno assunto su di sé il compito della tribù di Levi di studiare gli insegnamenti dell’Eterno e di insegnarli al pubblico? Sono coloro che a Gerusalemme, a Benè Beràk, a Har Etziòn e nella Diaspora vivono senza lussi e si dedicano allo studio della Torà, mantenendo lo spirito ebraico e assicurando così il futuro del popolo d’Israele. 

(Shalom, 1 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Ki Tavò (Quando sarai entrato)

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