Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 1-15 agosto 2017


Libri di Art in Pills: il "fare memoria" del popolo ebreo

Il fare memoria autobiografico con “Partenza e ritorno”, György Konràd

di Viviana Filippini

Partenza e ritorno è un libro autobiografico di György Konràd, scrittore e intellettuale ungherese, pubblicato da Keller editore nel 2015. Di recente l'ho riletto, perché costituisce un altro importate tassello del cammino del "fare memoria", riguardante il popolo ebreo. Avrei potuto aspettare qualche ricorrenza precisa, ma credo che si possa e si debba "fare memoria" in qualsiasi momento dell'anno. Konràd, ebreo ungherese nato nel 1933 a Berettyóòjfalu, a est di Budapest, in questo piccolo libro ricostruisce la sua vita di ragazzino nell'Ungheria degli anni della Seconda Guerra mondiale. Il protagonista ricorda che lui e la sorella rimasero soli, perché i genitori vennero deportati. La famiglia fu costretta ad abbandonare la tanto amata casa blu, e Konràd e la sorella, al posto di attendere che qualcuno decidesse del loro destino, iniziarono a gestire la propria vita da soli. La giovinezza e la purezza bambina furono gli elementi che permisero ai fratelli di sopravvivere, di sfuggire alle persecuzioni e di attraversare l'Ungheria con la stella gialla sul petto fino al raggiungimento della casa di alcuni parenti di campagna. György Konràd ha uno stile di scrittura scorrevole che trascina il lettore in un' Europa sempre più frantumata e in completo sfaldamento, nella quale gli antichi imperi di un tempo lasciarono spazio a regimi autoritari come Nazismo, Fascismo e Comunismo. Accanto a questi sistemi di governo Konràd, come molti altri cittadini della Mitteleuropa, vide messa in grave pericolo la propria libertà di espressione e del vivere, ma nonostante le minacce continue e i pericoli incombenti non perse mai il coraggio. Partenza e ritorno è un libro di ricordi, di valori come la speranza, l'impegno civile e la resistenza che portarono molti cittadini europei a rimboccarsi le maniche con lo scopo di lottare e per costruire un nuovo domani e una nuova Europa.Traduzione dall'ungherese Andrea Rényi.
  György Konràd nasce nel 1933 e trascorre la sua infanzia a Berettyóòjfalu nell'Ungheria orientale. Si afferma con il romanzo Il visitatore, edito nel 1969 e tradotto in numerose lingue. Ben presto, nel 1974, conosce il controllo della polizia politica ungherese e gli viene impedito di fare lo scrittore ma, nonostante questo, diventa una delle voci più importanti dell'opposizione democratica interna. Nel 1990 viene eletto presidente dell'International PEN Club. Ha ottenuto onorificenze da Francia, Germania e Ungheria e nel 1991 anche il Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi.

(Cultora, 15 agosto 2017)


Una (inquietante) giornata nell'Area A, sotto Autorità Palestinese

Finché continua il circolo vizioso istigazione, terrorismo, glorificazione del terrorismo e stipendi ai terroristi, Gerusalemme e Ramallah continueranno a restare due mondi a parte

Nel quadro di un tour di lavoro, ho trascorso una giornata a Ramallah e d'intorni. Abbiamo visitato un campo profughi, incontrato un ministro di alto rango dell'Autorità Palestinese, parlato con studenti universitari e passeggiato nel centro della città. Agli israeliani è proibito recarsi a Ramallah e sono pochi anche i turisti stranieri che si avventurano nella capitale de facto palestinese. Con questo articolo e queste foto desidero condividere alcune delle nostre esperienze.
Sono solo 22 i chilometri tra Gerusalemme e Ramallah, ma le due città appartengono a due mondi diversi. Abbiamo lasciato il nostro hotel di Gerusalemme la mattina presto diretti verso nord. Dopo trenta minuti abbiamo superato i grandi cartelli rossi che dicono, in ebraico arabo e inglese: "L'ingresso nell'Area A sotto Autorità Palestinese è vietato ai cittadini israeliani: è pericoloso per le vostra vita e contrario alla legge israeliana"....

(israele.net, 15 agosto 2017)


Italia-Israele, partita ad alta tensione

I gruppi pro Palestina si mobiliteranno, incognita estrema destra. Possibili disordini. Presto un summit in prefettura.

di Alessandra Codeluppi

 
Lo Stadio Mapei di Reggio Emilia
REGGIO EMILIA - L'incontro Italia-Israele potrebbe rappresentare una sfida non soltanto dal punto di vista sportivo, ma anche dell'ordine pubblico per la nostra città. La partita di calcio, prevista il 5 settembre al Mapei, è un incontro della Nazionale valido per la qualificazione ai Mondiali di Russia 2018. L'arrivo dei giocatori di Israele nella nostra città porta con sé anche alcune incognite, che le massime autorità cittadine e i vertici delle forze dell'ordine si stanno preparando ad affrontare e che riguarda anche, ma non solo, l'allerta terrorismo scaturiti dai fatti internazionali degli ultimi mesi.
   In concomitanza con la settimana della partita di calcio, e anche il giorno stesso, alcuni gruppi di attivisti pro Palestina si stanno infatti mobilitando per fare alcune iniziative pubbliche, come incontri, un convegno e forse anche una manifestazione pubblica, che saranno precedute, da quanto apprendiamo, anche da un incontro con i giornalisti, per sensibilizzare sui problemi dei territori occupati. La rete che sta organizzando questi eventi include, tra gli altri, anche il gruppo Bds di Bologna - che sostiene la causa dei palestinesi - e che vede alcuni membri anche nella nostra città. Da quanto trapela, pare che gli organizzatori abbiano chiesto non solo a esponenti politici reggiani, ma anche ad alcune società sportive, di appoggiare la loro iniziativa pubblica, che vuole protestare contro una circostanza vissuta come un sopruso, cioè il fatto che le squadre di Israele delle più alte categorie giochino nei territori occupati.
   Ma il match sportivo potrebbe richiamare in città anche ultras e gruppi di estrema destra che potrebbero tenere per l'occasione comportamenti antisemiti, dal saluto romano fino ad altre forme di provocazione, come avvenuto in passato in altre città in occasione di eventi, sportivi o culturali, che vedevano gli israeliani come protagonisti.
   La partita di calcio potrebbe così essere accompagnata da un clima di tensione, oltretutto incrociata: sia per la presenza in città di gruppi pro Palestina - data per certa - sia per quella, eventuale, di quelli di estrema destra, entrambi schierati, seppur per motivi diversi, contro Israele. Non solo: tra i simpatizzanti della causa palestinese, tra cui molti esponenti della sinistra radicale, e quelli di ultradestra, potrebbero esserci frizioni nel caso in cui estremisti di entrambi gli schieramenti mettessero in atto comportamenti provocatori o violenti.
   Finora l'Italia ha affrontato in quattro occasioni la nazionale israeliana (tre successi e un pareggio) e giocherà per la seconda volta nella sua storia a Reggio: l'unico precedente risale al 15 novembre 1995, per un match valido per le qualificazioni al campionato europeo del 1996 chiuso con il risultato di quattro a zero grazie a una tripletta di Gianfranco Zola e a una rete di Alessandro Del Piero.
   I vertici delle forze dell'ordine si stanno già mobilitando sia per intercettare in anticipo l'eventuale arrivo di estremisti, sia per stroncare sul nascere possibili disordini. E, come sempre avviene in vista di partite di calcio delicate - come nei precedenti casi di Sassuolo-Stella Rossa Belgrado, giocata nell'agosto 2016, quando arrivò allo stadio il capo ultrà serbo Ivan Bogdanov e gli sbocchi su piazza Prampolini vennero chiusi mettendo di traverso i mezzi Iren, o come Reggiana-Parma nel dicembre 2016 - l'attenzione è alta.
   Presto si riunirà anche il comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, guidato dal nuovo prefetto Maria Forte, come conferma anche il questore Isabella Fusiello: «Il match con Israele - afferma il questore - è una partita 'sensibile'. Nei prossimi giorni ci riuniremo in prefettura, raccoglieremo tutte le informazioni e metteremo in atto i dispositivi necessari». Risulta al momento l'arrivo in città di soggetti pericolosi per l'ordine pubblico? «Per ora no - risponde il questore - ma se dovessero esserci ci attrezzeremo nel modo dovuto».

(il Resto del Carlino, 15 agosto 2017)


Hezbollah e Israele si urlano contro a distanza

di Emanuele Rossi

Domenica 13 agosto Hassan Nasrallah, il leader spirituale e materiale del gruppo politico/militare libanese Hezbollah, ha tenuto un discorso in occasione dell'undicesimo anniversario del cessate il fuoco della seconda guerra del Libano (combattuta da Hezbollah e milizie alleate contro l'esercito israeliano). Nasrallah ha usato i soliti toni propagandistici contro Israele e gli ebrei, stavolta ancora più duri perché rinvigorito da un sostegno costante (e storico) di un Iran riqualificato sulla scena diplomatica internazionale.
   Il leader è l'ispiratore della principale tra le milizie sciite che Teheran usa come proxy geopolitico: per esempio, i libanesi sono la più sostanziosa stampella che la Repubblica Islamica ha messo a disposizione del regime siriano — anche domenica Nasrallah ha ricordato alla Guida suprema Ali Khamenei di essere pronto a impegnarsi ovunque lui voglia, in Siria come in Iraq, in Yemen o in Afghanistan.
   Ha parlato con durezza anche perché sa che, complice il caos del conflitto siriano, la sua organizzazione ha acquisito maggiori capacità militari, "Hezbollah è più forte che nel 2006?. Una realtà: gli iraniani hanno passato a Hezbollah armi di vario genere, Gerusalemme tiene un costante tracciamento di queste consegne clandestine, ma il Mossad e lo Shin Bet sanno che qualcosa può essere sfuggito ai radar: "Il tempo in cui noi dovevamo essere minacciati da Israele sono finiti, ora loro devono essere minacciati da noi", ha detto Nasrallah. Le intelligence israeliane credono da almeno un paio d'anni che quando la Siria raggiungerà un qualche genere di stabilizzazione, gli Hezbollah torneranno ad occuparsi dei propri interessi reali: far la guerra a Gerusalemme, come lo stesso predicatore ha sottolineato.
   Lunedi lo stato ebraico ha risposto per bocca di Naftali Bennett, ministro dell'Educazione e leader del partito di destra La Casa Ebraica. Bennett ha dichiarato alla radio dell'esercito che qualsiasi genere di attacco operato da Hezbollah contro Israele sarà considerato "una dichiarazione di guerra da parte dello stato libanese". È una dichiarazione molto forte, che tocca diversi piani — per esempio il sostegno che gli americani, alleati storici israeliani, danno anche all'esercito regolare libanese, o quello speciale che stanno fornendo adesso in vista di un confronto con lo Stato islamico sul confine sito-libanese.
   Però d'altronde è stato lo stesso Nasrallah a ricordarne lo scenario. A proposito di una frase uscita dalla bocca del presidente americano, che durante una visita alla Casa Bianca ha ringraziato il capo del governo di Beirut per il lavoro di lotta al terrorismo svolto dal suo paese anche contro Hezbollah, Nasrallah ha detto domenica: "Trump dice che Stati Uniti e Libano sono partner nella lotta contro il terrore. Non sa nulla sulla politica libanese, noi siamo parte del governo qui".

(formiche.net, 15 agosto 2017)


Nuova sinagoga a Cagliari

"Rinasce la comunità ebraica, servono 50 mila euro: via alla raccolta fondi"

CAGLIARI - Al via la raccolta fondi per una sinagoga a Cagliari. L'Associazione Chenàbura-Sardos pro Israele, che fa parte della Federazione delle Associazioni Italia Israele, in sinergia con l'Associazione Aleph Iod, vuole riportare in città, nell'antica Juderia cagliaritana del quartiere di Castello, dove sorgeva l'ultima sinagoga sostituita dalla Chiesa di Santa Croce, una nuova sinagoga.
Secondo l'associazione: "È indispensabile aprire un Centro di aggregazione e attività degli Amici d'Israele e di Cultura ebraica nella città di Cagliari per implementare le adesioni e rispondere alla richieste di collaborazione che provengono da tutta la Sardegna". Perciò dopo oltre 500 anni dalla cacciata nel 1492 degli ebrei dalla Sardegna si sta ricostituendo a Cagliari una Comunità ebraica.
Per adesso la comunità si riunisce in case private o in locali presi occasionalmente in affitto o concessi da enti pubblici, ma a quanto pare, il numero crescente delle adesioni e gli interessi culturali, religiosi ed economici che si stanno sviluppando richiedono oltre a fondi superiori a quelli messi a disposizione dagli aderenti locali, cifre aggiuntive per aprire una sede.
Per contribuire alla nuova nascita di una sinagoga si può visitare la pagina Facebook e il gruppo 'Sardos pro Israele', e il sito internet .

(YouTG.net, 15 agosto 2017)


Il Gioco in più voga tra i bambini palestinesi? Spara al poliziotto israeliano

Bambini palestinesi che giocano a "sparare ai poliziotti israeliani" fomentati dagli adulti. Con queste premesse non si può parlare di pace, né adesso né in futuro

Il gioco più in voga tra i bambini palestinesi? Semplice, spara al poliziotto israeliano. Quando parliamo di incitamento all'odio sin da bambini non stiamo scherzando, quando parliamo di intere generazioni di bambini palestinesi cresciuti nell'odio contro gli israeliani e quindi della impossibilità di imbastire anche in futuro qualsiasi condizione di pace, non stiamo scherzando....

(Right Reporters, 15 agosto 2017)


Contro quelli che "voi siete fascisti" ma su Venezuela o Israele balbettano

Perché il fronte del "nuovo Olocausto" dei migranti non sa usare la stessa fermezza anche di fronte ai nuovi nazismi veri.

Da qualche tempo a questa parte il dibattito pubblico italiano, e in particolare il dibattito relativo alla questione della giusta politica da adottare per gestire nel modo più opportuno possibile il capitolo immigrazione, è caratterizzato da un salto logico e lessicale molto importante, che punta a trasformare in "negazionisti'' tutti coloro che non accettano un parallelismo che per una parte del paese oggi sembra essere diventato innegabile: i migranti che oggi tentano di sopravvivere spostandosi dall'Africa all'Europa sono paragonabili agli ebrei che negli anni Quaranta tentarono di sopravvivere ai campi di concentramento di Auschwitz. In virtù di questo impegnativo salto logico, chiunque osi negare l'assunto appena descritto diventa, a seconda del livello di retorica scelto, o un collaborazionista dei nuovi nazismi o un complice dello sterminio di massa. E grazie a questa raffinata operazione lessicale e culturale, dire che governare l'immigrazione corrisponda grosso modo a essere complici di un nuovo Olocausto è dire qualcosa che una buona parte dell'opinione pubblica italiana considera perfettamente di buon senso. Uno dei primi a descrivere come "un nuovo Olocausto" il passaggio dei migranti dall'Africa all'Europa è stato il regista italiano Gianfranco Rosi, autore di un commovente film sul tema, "Fuocoammare". Gli ultimi, tra gli altri, a imporre nella discussione pubblica la categoria del nuovo Olocausto, relativamente al dossier legato alla gestione dei migranti, sono stati una serie di intellettuali italiani che la scorsa settimana, come ha ricordato sabato sul Foglio Giulio Meotti, hanno firmato un appello, molto duro, per difendere il diritto delle organizzazioni non governative (in primis Medici senza frontiere) a dire di no alle norme previste dal codice di regolamentazione voluto dal governo Gentiloni e dal ministro Minniti. Le motivazioni sono le seguenti e vale la pena leggerle bene per capire cosa c'è in ballo. L'incipit è di per sé molto evocativo: "E' in corso un nuovo sterminio di massa". Poi: "Il nostro governo non è indifferente a questa carneficina ma complice: invia navi militari per impedire ai migranti di lasciare le coste dell'Africa; si accorda con i dittatori dei paesi che perseguitano i profughi per bloccare ai confini chi tenta la fuga; perseguita le ong che -senza alcun fine di lucro-salvano i migranti in mare; impone loro condizioni che rendono impossibile o vano l'intervento, come il divieto di trasbordare i profughi su imbarcazioni più grandi o l'obbligo della presenza sulle navi di ufficiali militari armati, inaccettabile per le associazioni umanitarie che operano in terre di conflitto solo grazie alla loro neutralità". Infine il colpo di biliardo: il paragone esplicito tra i professori universitari che 1'8 ottobre del 1931 non firmarono il giuramento di fedeltà al fascismo e gli intellettuali che oggi chiedono di non rispettare il codice di auto regolamentazione del governo italiano, evidentemente considerato non meno fascista del giuramento di fedeltà firmato Benito Mussolini. Il manifesto dei dodici professori ribelli venne rinominato "lo preferirei di no". Il manifesto degli intellettuali ribelli è stato chiamato allo stesso modo: "lo preferirei di no". Si dirà: e dov'è il problema? E' solo un artificio retorico, no? Che cosa c'è da lamentarsi? Il problema purtroppo c'è e il dramma del problema è che in molti fingono di non vederlo. La prima questione è semplice. Sostenere che chi cerca di governare i confini dell'Europa stia in realtà giocando a fare il nuovo Hitler non è solo un modo per delegittimare chiunque si occupi di ragionare sul fenomeno dell'immigrazione ma è un modo per affermare una verità che merita di essere esplicitata per quello che è: di fronte a un'ondata migratoria come quella che a poco a poco sta prendendo forma sulle coste africane, l'occidente non può fare altro che accogliere i fratelli che arrivano dall'Africa, senza mettersi a discutere troppo di dettagli inutili come, per esempio, la clandestinità, l'irregolarità, la differenza tra migrante in cerca di asilo politico o migrante in cerca di una migliore condizione economica.
   Ragionamento semplice ed elementare: chi non apre le sue porte a chi chiede aiuto non è una persona che vuole governare i confini di un paese ma è in definitiva un fascista, o forse addirittura un nazista. Questo ragionamento è però viziato da una verità che viene detta in modo implicito e che forse meriterebbe di essere esplicitata in modo più sincero. Il fronte che sostiene la presenza di un nuovo Olocausto non vuole che nelle acque che separano la Libia dall'Italia ci siano delle regole ben definite perché semplicemente crede che le migrazioni siano un fenomeno naturale e crede che una persona che vuole spostarsi da un continente all'altro non debba essere ostacolata ma debba essere semplicemente aiutata a farlo. Per questo prova ad alzare l'asticella del dibattito su un piano sul quale è impossibile discutere. Per questo prova a silenziare con il bollino dell'infamia chiunque sostenga che sia giusto che un paese accolga i migranti non seguendo le leggi del cuore ma seguendo la leggi della natura. Per questo prova una certa indignazione nel leggere dati come quelli che sono arrivati ieri, che segnalano come a luglio il numero dei migranti sbarcati in Italia attraverso il Mediterraneo centrale (10.160) sia calato del 57 per cento rispetto a giugno, ovvero il livello più basso per il mese di luglio dal 2014 a oggi. Governare l'immigrazione, secondo questa logica, non significa gestire i confini ma significa essere portatori di valori diversi, come ha onestamente riconosciuto sabato scorso sul Corriere della Sera il portavoce italiano di Medici senza frontiere, ammettendo forse in modo involontario che il problema vero del Mediterraneo non è soltanto salvare le vite in mare ma è incentivare quanto più possibile i migranti a cercare in qualsiasi modo la via di fuga dalle terre da cui vogliono scappare: "Gli stati europei e le autorità libiche stanno attuando congiuntamente un blocco alla possibilità delle persone di cercar sicurezza". La questione di fronte alla quale si trova ancora una volta l'opinione pubblica italiana è dunque quella di scegliere non se essere nazisti o non essere nazisti - se il fronte del nuovo Olocausto mostrasse la stessa sensibilità messa in campo contro i Fake Olocausto anche in riferimento ai veri nuovi nazismi, a tutti coloro che per esempio ogni giorno minacciano l'esistenza di Israele, avremmo certamente una classe dirigente migliore - e neppure se salvare o no le vite in mare. Si tratta di una questione più delicata e più sofisticata, sulla quale ci permettiamo di insistere e sulla quale sarebbe bello che anche il portavoce dell'Italia alternativa all'Italia che sta prendendo forma attorno al ministro Minniti (l'Italia dei Saviano) dicesse davvero cosa pensa rispetto a una domanda semplice: un buon governo deve incentivare o disincentivare l'immigrazione di massa? E infine, se un governo che disincentiva gli arrivi fa crollare le morti in mare, è un governo che ha agito bene o è un governo che ha agito male? Accanto a questo problema, infine, c'è un tema ulteriore che riguarda la difficoltà con cui la nostra opinione pubblica denuncia alcune truffe lessicali come quelle messe in campo dal fronte del "Nuovo Olocausto". E' un problema che abbiamo visto e osservato anche durante i mesi che hanno preceduto il voto sulla riforma costituzionale: l'abuso dell'allarme sul rischio di una deriva autoritaria. E non è un caso che molti dei firmatari che oggi paragonano al fascismo le formule del codice Minniti siano gli stessi ma proprio gli stessi che si erano ritrovati insieme un anno fa per denunciare il fascismo contenuto tra le righe della riforma Renzi-Boschi. Si potrebbe segnalare il paradosso che coloro che più o meno una volta al mese provano a delegittimare gli avversari con il bollino dell'infamia del fascismo sono gli stessi che spesso balbettano quando parlano di Venezuela, sono gli stessi che spesso balbettano quando parlano di Israele, sono gli stessi che spesso balbettano quando un qualche regime minaccia di cancellare Israele dalla mappa geografica, sono gli stessi che spesso balbettano quando un qualche politico dice esplicitamente di voler cancellare la democrazia rappresentativa per sostituirla con una democrazia diretta da un clown eterodiretto da un'azienda privata. Si potrebbe ricamare a lungo su tutto questo ma l'abuso della terminologia anti fascista è parte di un problema molto più grande ben affrontato in un bel libro firmato qualche mese fa da Mark Thompson, ceo del New York Times. Il libro si chiama "La fine del dibattito pubblico" e in un passaggio del saggio Thompson ricorda un episodio che se rievocato in questi giorni non può che far riflettere. "Nel libro terzo della sua Guerra del Peloponneso - ricorda Thompson - Tucidide sostiene che un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia è stato una mutazione nel linguaggio: la gente iniziava a definire le cose come le pareva, secondo l'autore, e andava perso 'il significato normale e accettato delle parole"'. Il ragionamento di Thompson è chiaro. Una classe dirigente che non si ribella alle parole usate in un modo assurdo è una classe dirigente pronta a farsi imbrogliare. Più che una deriva autoritaria, forse, l'unica deriva che andrebbe denunciata con forza è un'altra forma di dittatura: non quella dell'uomo solo al comando del paese ma quella del cialtronismo al comando della nostra opinione pubblica.

(Il Foglio, 15 agosto 2017)


Hotel svizzero obbliga clienti ebrei a fare la doccia prima della piscina

Israele chiede le scuse ufficiali al governo elvetico. Ma l'avviso, affisso «per i clienti ebrei» sembrerebbe più una richiesta stupida e maleducata che un attacco antisemita.

di Luca Zanini

 
L'avviso dell'albergo. Un cliente ha aggiunto in alto un foglietto
"Io non sono un ospite ebreo e penso che sia molto razzista"
Un albergo svizzero ha provocato un incidente diplomatico tra la Confederazione Elvetica e Israele, per una serie di cartelli che chiedevano «alla clientela ebraica» di «voler cortesemente fare la doccia prima di entrare in piscina». I manifesti sono stati fotografati da un cliente e postati su un social network, scrive France Soir, innescando un tumulto. Il vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely ha chiesto le scuse ufficiali della Svizzera per «questo atto antisemita della peggior specie». Ieri la risposta del suo omologo svizzero: «Abbiamo ribadito all'ambasciatore di Israele che la Svizzera condanna il razzismo, l'antisemitismo e la discriminazione».

 «Avviso scritto ingenuamente»
  In realtà, immediate, erano giunte le scuse della direttrice dell'hotel Aparthaus Paradies, situato nel villaggio di Arosa nelle Alpi svizzere: un albergo che da molti anni ha una consolidata clientela di ebrei provenienti da Regno Unito, Stati Uniti o Israele . «Abbiamo subito rimosso gli avvisi — ha detto la donna al quotidiano della svizzera tedesca Blick — ma non c'era alcun intento antisemita». Il caso è scoppiato per gli avvisi che la stessa direzione aveva affisso all'ingresso dell'area benessere: «Al momento abbiamo molti clienti ebrei e avevamo notato che alcuni non fanno la doccia prima del nuoto — ha spiegato la direttrice —. Perciò, dato che gli altri clienti mi avevano chiesto di fare qualcosa, e ho scritto un po' ingenuamente quell'avviso».

 «Saremo costretti ad escludervi»
  L'avviso recitava: «Ai nostri clienti ebrei, donne, uomini e bambini, Vi chiediamo di fare la doccia prima e dopo il bagno. Se non seguite questa regola, saremo costretti ad escludervi dalla piscina. Grazie per la vostra comprensione». E adesso la direttrice ammette: «Avrei fatto meglio a rivolgere questa richiesta a tutti gli ospiti dell'hotel». Ma altri clienti hanno raccontato al Times of Israel che c'era un cartello simile anche nella zona cucine: appeso ad un frigorifero, si riferiva ancora una volta ai clienti ebrei che vi conservavano i loro alimenti kosher. «Ai nostri clienti ebrei: è possibile accedere al congelatore nelle fasce orarie 10 -11.00 e 16.30-17.30. Speriamo comprendiate che il nostro team non ama essere disturbato continuamente».

 «Chiudete l'hotel dell'odio»
  Certo, se non antisemita, il tono degli avvisi denotava un'estrema rigidità e scortesia. Comunque sia, alla clientela ebrea non è piaciuto. Il Centro Simon Wiesenthal ha chiesto al ministro della Giustizia svizzero di «chiudere l'hotel dell'odio» e punirne i manager. E ha invitato il sito di prenotazione Booking.com «a ritirare Aparthaus Paradies» dall'elenco dei suoi hotel in Svizzera.

(Corriere della Sera, 15 agosto 2017)


Tel Aviv, la città della dolce vita in un teatro di guerra

Dalle spiagge ai locali, dai palazzi agli atelier, nella metropoli israeliana tutto cambia velocemente. L'abitudine al conflitto non impedisce la convivenza di diverse culture.

di Fabiana Magrì

L'umidità implacabile di agosto trasforma il corpo in una spugna intrisa d'acqua. Nemmeno il mare offre conforto quando la sua temperatura media oscilla tra i 27,7 e i 29,3 gradi centigradi. L'estate a Tel Aviv è terribilmente calda e umida. In una città dove i grattacieli ti spuntano sotto il naso da un giorno all'altro e il negozietto all'angolo passa dal vender fiori a cellulari o attrezzi per giocoleria in meno di sei mesi, questa, in fin dei conti, è una certezza.

 Habima square punto di partenza
  Per riscoprire Tel Aviv - protezione solare, cappello in testa e bottiglia d'acqua in mano - non c'è migliore punto di partenza di Habima Square. Non tanto per gli edifici a vocazione culturale raccolti intorno alla piazza: il teatro nazionale Habima ("Il palco"), l'Auditorium Charles Bronfman (sede dell'Orchestra filarmonica d'Israele), il Padiglione d'arte contemporanea Helena Rubinstein (succursale del Tel Aviv Museum of Art, che ha il suo quartier generale non distante da lì). E nemmeno per la scultura Hitromemut ("elevazione") di Menashe Kadishman, quei tre grandi cerchi in metallo arrugginito, connessi in diagonale a sfidare la forza di gravità, a cui ogni anno il Comune mette la maschera per Purim (il Carnevale ebraico che festeggia la salvezza del popolo dalle trame di Hamàn, consigliere del re persiano).

 Metafora dello sviluppo israeliano
 
  I simboli della rinnovata Habima Square sono tre. Lo specchio d'acqua che riflette la facciata dell'auditorium e le luci del teatro. Il sicomoro solitario che fa ombra alla panchina che ne circonda il tronco, sulla cima di un cono di prato. L'aiuola interrata, proprio al centro della piazza, con le quattro vasche unite tra loro da passerelle di legno che contengono in sequenza: sabbia, cactus, un prato con alberi e fiori coloratissimi, metafora dello sviluppo di Israele.
Ricordo la prima volta che mi sedetti sulla gradinata di legno che circonda l'oasi e invito chiunque a fare questa esperienza. Mentre guardavo i bambini giocare nella sabbia, gattonare sul prato e rincorrersi tra i fiori mi sono accorta del sottofondo musicale. Tra le mie gambe - e lungo tutto il perimetro - casse audio diffondevano musica classica. Dopo lo stupore, l'emozione. Habima Square e la sua aiuola riescono a toccare corde profondissime.

 Da apprezzare in bicicletta o a piedi
  Il modo migliore per visitare Tel Aviv è in sella alle bici verdi del bike sharing pubblico, servizio che migliora e si aggiorna di anno in anno. L'alternativa è percorrerla a piedi perché poche città sanno farsi apprezzare a passo d'uomo come Tel Aviv.

 Stabilimenti balneari rivoluzionati
  Il primo richiamo è quello del mare e della Tayelet (il lungomare), sette chilometri di spiaggia quasi ininterrotta, pista ciclabile, torrette dei bagnini e promenade. Negli ultimi tre anni, a iniziare dal lungomare Nord, ogni stabilimento balneare è stato demolito e ricostruito - mancano solo i quattro più a Sud - per dare alla Tayelet un aspetto omogeneo, aggiungere gradinate e arredi urbani dal design più contemporaneo, ricreare oasi con palme nelle spiagge libere e aggiungere palestre gratuite all'aperto.

 Costa ideale per kite e windsurf
  La costa è interrotta dal porticciolo turistico della Marina di Tel Aviv e riprende a Gordon, attrezzata con campi da beach volley e utilizzata per lezioni di sup, surf e windsurf. A seguire ci sono Frishman, la spiaggia preferita dagli italiani, e Bograshov, quella dei francesi, perché certe tradizioni non si scardinano. La lunga e ventosa Jerusalem Beach è ideale per il kitesurf. Gli stabilimenti Tzfon, Banana e Drum Beach (dove ogni venerdì, prima che entri Shabbat, una comunità di amanti delle percussioni si ritrova per suonare e ballare) devono ancora essere rinnovati.

 Manta ray, istituzione culinaria
  La costa si interrompe di nuovo all'altezza del Dolphinarium, la discoteca fatta saltare in aria nel 2001 da un terrorista di Hamas. Ne resta in piedi l'impalcatura, in attesa che la città decida come intervenire su questa profonda cicatrice. L'Alma Beach è l'ultimo stabilimento prima degli scogli di Giaffa: sulla spiaggia si affaccia l'elegante Manta Ray, il ristorante che può vantare la miglior posizione sul mare e una delle poche istituzioni consolidate di Tel Aviv in ambito culinario.
Ritrovare a distanza di anni lo stesso locale qui è cosa assai rara. Non dipende necessariamente dal successo del posto. Ad alti livelli può essere una strategia o un retaggio da start-up nation. Un esempio è il percorso dello chef Meir Adoni, imprenditore, volto televisivo, autore di libri, sviluppatore di app e docente di cucina. Catit, il suo primo ristorante, ha aperto nel 2002 diventando subito un punto di riferimento nel panorama locale. Nel 2011 ha inaugurato Mizlala, un bistrot moderno che ruotava intorno a un grande bar e a un'atmosfera scanzonata.

 Chiusure nonostante i successi
  Nel 2013 Adoni ha puntato sulla cucina d'avanguardia ma kosher aprendo il ristorante "di latte" Blue Sky sul roof del Carlton Hotel. L'anno successivo, nello stesso hotel, ha aperto Lumina, un moderno bistrot "di carne". Oggi, nonostante i successi, Catit e Mizlala hanno chiuso i battenti per lasciare allo chef più tempo per dedicarsi a una nuova creatura newyorkese.

 Situazioni d'ispirazione europea
  In compenso, ogni volta che un quartiere è oggetto di rinnovamento, accanto ai servizi di prima necessità aprono subito caffè e ristoranti, sempre più spesso sotto forma di food market: non più i tradizionali mercati come i mediorientali Shuk Ha'Carmel e Shuk HaTikva, che restano punti di riferimento tanto per i turisti quanto per i locali, ma situazioni d'ispirazione europea, luoghi dove fare shopping di prodotti biologici e gustare un piatto al volo, di grande qualità o semplicemente di gran moda. È successo al porto di Tel Aviv con Shuk HaNamal, nella ex colonia "templare" tedesca con il Sarona Market e nel nuovissimo centro commerciale dedicato al lusso, il Gindi Fashion Mall, con la sua street food court.

 Vecchio chiosco fra i grattacieli: ce n'è uno a ogni incrocio
  Se c'è invece un simbolo intramontabile della Tel Aviv che vive all'aperto, fin dagli anni della sua fondazione, questo è il chiosco. Se ne trovano a ogni incrocio nei maggiori viali alberati, soprattutto lungo i Boulevard Rothschild e Ben Gurion. Il Cafe Habima, all'ombra degli enormi fichi bengalesi di Ben Zion Boulevard all'angolo con Habima Square, è un esempio non raro di come la tradizione si sia evoluta in chiave gourmet e chic.

 Movida su Rothschild Boulevard
  La vita e la movida all'aria aperta si consumano su Rothschild Boulevard, all'ombra dei Delonix regia (gli "alberi di fuoco"), per guardare i giocatori di pétanque (variante provenzale delle bocce) e ammirare alcuni tra i più begli edifici storici della città. All'angolo con Herzl Street c'è una casa, costruita nel 1909 da una delle 60 famiglie fondatrici di Tel Aviv, che nel 2007 è stata acquistata e restaurata dall'Istituto culturale francese.

 Mega edifici appoggiati a villette
  L'Independence Hall, la sala museo dove fu pronunciata la dichiarazione d'indipendenza di Israele, fu costruita, sempre nel 1909, dal primo sindaco di Tel Aviv Meir Dizengoff. Molti edifici nella zona sono in stile Bauhaus e costituiscono il nucleo della Città Bianca, dichiarato patrimonio mondiale dall'Unesco nel 2003. Negli ultimi anni, accanto alle villette, spesso letteralmente appoggiati muro contro muro, sono spuntati grattacieli firmati da archistar internazionali, come il Meier on Rothschild: una costruzione di 42 piani iniziata nel 2007 e completata nel 2015; tutti i lussuosi appartamenti erano già stati venduti due anni prima della fine dei lavori.

 Quartiere d'élite dopo l'abbandono
  Rothschild Boulevard ha la sua prosecuzione naturale in Neve Tzedek, il primo quartiere ebraico nato accanto al vecchio porto di Giaffa, nucleo originario della moderna Tel Aviv. Preservato nell'aspetto, l'atmosfera è molto cambiata nel corso degli anni. Abbandonato a se stesso fino agli Anni 80, dopo una lunga fase bohémienne oggi è un quartiere d'élite, a netta prevalenza francese.

 Il Sud della città: hipster e mediorientale
  Spostandosi a sud il panorama urbano cambia e lascia il posto alle officine e alle falegnamerie di Florentin, rumoroso e operoso di giorno, luogo franco per street artist e quartiere hipster al calare delle attività grazie ai tantissimi localini e gallerie specializzate in affordable art (ovvero a prezzo contenuto) e nella promozione dei talenti emergenti locali.

 Polmone verde per gli sportivi
  Non è che nella parte settentrionale di Tel Aviv manchino le attrazioni. Lo Yarkon Park, con le distese di prati e il fiume, è un polmone importante con tante anime: gli sportivi lo percorrono in bici, di corsa, in canoa e si arrampicano sulla parete attrezzata; tutti lo frequentano per i concertoni all'aperto; le coppie di innamorati haredim (ultraortodossi) ci vanno a passeggio per conoscersi meglio; le famiglie approfittano dei grandi spazi verdi per le feste di compleanno dei bambini.

 Stile, design e anima trendy
  Eppure la Tel Aviv pulsante, quella che cambia più rapidamente, è rivolta verso sud e insiste su Giaffa. Per le stradine di Shuk HaPishpishim ("mercatino delle pulci") - accanto alle botteghe di tappeti persiani, anticaglie, abiti di seconda mano e ceramiche - stilisti e designer freschi di accademia hanno aperto i loro atelier e studi. Negli ultimi anni Giaffa ha tirato fuori un'anima trendy e israeliana che ha saputo armonizzare con quella più mediorientale e araba.

 Gru e cantieri per hotel di lusso
  Ne è un recentissimo esempio Beit Kandinoff, un gioiello architettonico ottomano trasformato in locale polifunzionale che ruota tutto intorno all'arte, luogo di collaborazione e ispirazione creativa. Il concept è una combinazione di spazio espositivo e galleria d'arte, scuola di pittura, fotografia, ceramica e altre discipline, cocktail bar e chef restaurant con i cui proventi si finanziano residenze artistiche. Tutto intorno ai vicoli della Vecchia Giaffa, immutati nei secoli, spuntano gru e cantieri per la costruzione di nuovi residence e hotel di lusso, come nel resto della città. Perché Tel Aviv è la Non Stop City.
- Articolo è tratto dal nuovo numero "speciale estate" di pagina99, "cosa c'è di nuovo nel mondo".

(Lettera43, 15 agosto 2017)


Il valico di Rafah aperto fino al 17 agosto per consentire il pellegrinaggio alla Mecca

IL CAIRO - Il valico di Rafah, tra Egitto e Striscia di Gaza, resterà aperto da oggi al 17 agosto per consentire il transito dei pellegrini musulmani che vogliono effettuare il pellegrinaggio (Hajj) alla Mecca. Lo hanno stabilito le autorità egiziane, secondo quanto riferito dal quotidiano egiziano "el Masry el Youm". L'apertura del valico di Rafah per quattro giorni consentirà di far transitare circa 6.700 musulmani che, attraverso l'Egitto, si recheranno in Arabia Saudita per il Hajj, previsto tra la fine di agosto e l'inizio di settembre. Da circa cinque mesi il valico non veniva aperto, secondo la Organizzazione non governativa israeliana Gisha. L'Ong evidenzia che, a causa della chiusura prolungata del valico di Rafah, i palestinesi di Gaza hanno potuto utilizzare soltanto il valico di Eretz, controllato dalle autorità israeliane. Il valico di Rafah viene aperto saltuariamente dopo che nell'ottobre del 2014 si è verificato un attacco contro un posto di blocco a Karm al Qwadis, nel Sinai.

(Agenzia Nova, 14 agosto 2017)


Roma - Portico d' Ottavia, via al restyling. Pagano residenti e commercianti

Scompariranno i marciapiedi, rifatta la pavimentazione. Arrivano le panchine. Associazione ad hoc, creata appositamente, ha preparato il progetto per migliorare la zona pedonale.

Roma, via del Portico d'Ottavia
ROMA - Disposti a pagare di tasca propria, residenti e negozianti del Ghetto vogliono rendere più bello il loro rione. Hanno appena fondato l'«Associazione Portico d'Ottavia» e hanno preparato un progetto di riqualificazione per questa parte pedonale, già presentato alla presidente del 1 Municipio Sabrina Alfonsi e al soprintendente Francesco Prosperetti.
   È così iniziata una collaborazione con le istituzioni che sta andando avanti in gran velocità: «I frutti si dovrebbero vedere molto presto», sostiene uno dei soci, Angelo Di Porto. «Vogliamo far partire i lavori entro l'anno». Consisteranno nel rifare completamente la pavimentazione in sampietrini in via del Portico d'Ottavia dalla punta all'incrocio con via Arenula: per riprendere le caratteristiche antiche della via spariranno i marciapiedi. E lungo la passeggiata nuovi elementi di arredo comprese panchine anche «vis a vis», per premettere agli abitanti e a ai turisti che si vogliono riposare di parlare facilmente. Si sta inoltre cercando un accordo con l'Ama - gli incontri sono già iniziati - perché vi sia un punto di raccolta (anche un camioncino) per !'immondizia in ore ben precise della giornata.
   Arredi tutti dello stesso colore in armonia con il luogo e «si pensa anche a promuovere un riordino degli spazi esterni dei locali», afferma l'avvocato dell'associazione Massimo Cecili, che si era già occupato di via del Babuino. «il Ghetto è e deve essere un vanto della città», sostiene Di Porto. «Qui ha abitato la più antica comunità ebraica del mondo, fin dai tempi dell'imperatore Tito. Quest'area è un "unicum" nel suo genere, ed è un concentrato di folclore e storia, e tutti noi, sia chi vi abita che chi vi lavora, a nostre spese, vogliamo renderla più bella».
   I primi lavori di riqualificazione per questa strada risalgono a meno di dieci anni fa sotto l'amministrazione di Walter Veltroni, quando nel rifare la pavimentazione fu posto all'incrocio con piazza delle Cinque Scole un segno a terra che riprende il disegno della fontana del Della Porta oggi «storicizzata» proprio su quella piazza. Oggi però i sampietrini sono di nuovo in gran parte sconnessi: passeggiando Di Porto fa notare le voragini, le pietre divelte e perfino un buco in mezzo a un marciapiede. E «abbiamo assolutamente bisogno di una raccolta dei rifiuti mirata a rispettare la differenziata e il decoro», aggiunge. «Per questo vogliamo un'area di raccolta ad hoc. Perché qui dalle 11 di sera è il regno dei gabbiani. Stiamo studiando diverse soluzioni».
   Ancora si va alla ricerca di due parcheggi strutturati perché non vi sia più il caos che, ormai, c'anche la sera, oltre che ad ogni ora della mattinata e del pomeriggio. «Ora che è finalmente nata quest'Associazione il cui presidente è Alberto Ouazana - spiega Di Porto - sono molto fiducioso: il dialogo con i vertici dell'apparato amministrativo è proficuo e ben avviato anche con i vigili urbani e il Questore per salvaguardare la sicurezza. Autoambulanze e macchine della polizia dovranno, infatti, continuare a poter passare», osserva, ricordando come la sicurezza sia comunque una priorità.
   Solo due anni fa, infatti, in occasione del Giubileo della Misericordia e per l'allarme terrorismo, alcune strade del Ghetto - come via del Tempio e via Catalana - sono state sbarrate con dissuasori mobili a scomparsa, che probabilmente rimarranno al loro posto. «Noi vogliamo restituire a quest'area il lustro che merita - è la conclusione. Roma deve andare fiera del Portico d'Ottavia». Dove, del resto, è già iniziata l'ultima fase dei lavori di restauro a cura della Sovrintendenza capitolina che prevedono il consolidamento e la sistemazione dell'area archeologica.
   
(Corriere della Sera, 14 agosto 2017)


L'Iran avanza verso il Mediterraneo

Il ministro israeliano Bennett spiega i timori di Gerusalemme

Scrive il Wall Street Journal (8/8)

Hezbollah ha annunciato il mese scorso di aver sottratto alle forze dello Stato islamico la zona di confine siriano-libanese di Juroud Arsal. Lungi dall'essere uno sviluppo minore in una regione violenta e instabile, questo segna un altro successo dell'Iran nella sua ricerca di potere e dominio in tutto il medio oriente". Così scrive il ministro dell'Educazione israeliano Naftali Bennett. "Dalla sua rivoluzione del 1979, l'Iran ha cercato di diventare una potenza mondiale dominante capace di imporre la legge islamica su più persone possibile. Il regime iraniano finanzia e sostiene milizie armate in altri paesi ed è il primo esportatore di terrorismo del mondo. Centinaia se non migliaia di americani sono morti per mano delle proxy terroriste dell'Iran. Una parte essenziale della grande strategia di Teheran è controllare un corridoio di terra dall'Iran al Mediterraneo. Sotto la copertura della sanguinosa guerra civile della Siria, Hezbollah lo sta aiutando a costruire una tale autostrada. Hezbollah, addestrato e sostenuto da Teheran, è classificato come un gruppo terroristico da Stati Uniti, Francia e Lega araba. Il suo sforzo mette in pericolo l'intero mondo occidentale. Con il controllo di questo corridoio, l'Iran potrebbe collegarsi direttamente con i suoi proxy in Siria e in Libano, e potrebbe trasferire armi avanzate a buon mercato e rapidamente. L'autostrada permetterebbe all'Iran di costruire la sua presenza militare sul Mediterraneo, portando gran parte d'Europa al tiro dei suoi missili. L'Iran potrebbe anche costruire delle fabbriche di armi al di fuori dei suoi confini. L'Isis deve essere fermato, ma l'Iran è un problema molto più grande a lungo termine.
   Teheran non dovrebbe essere scambiato per una parte della soluzione. Mentre la Siria si disintegrava nella guerra civile, l'Iran agiva rapidamente. Ha violato il diritto internazionale, ha espulso con forza la popolazione sunnita e l'ha sostituita con gli sciiti. Questo ha cambiato la demografia locale per sostenere il corridoio pianificato di Teheran attraverso la Siria e l'Iraq. Hezbollah si è effettivamente trasformato da gruppo terroristico in una divisione dell'esercito iraniano, lavorando per Teheran non solo in Libano e in Siria ma anche in Yemen e in Iraq. Io e altri siamo preoccupati dal cessate il fuoco nella Siria meridionale mediato dagli Stati Uniti, dalla Russia e dalla Giordania. Con le forze americane e alleate presenti nel nord, l'Iran ha concentrato i suoi sforzi verso il sud. La fine della violenza in quella regione dà solo un altro territorio a Teheran per la costruzione di un'autostrada verso la costa. Ci vorrà tempo e pazienza per fermare l'Iran. La comunità internazionale ha bisogno di sconfiggere Teheran ovunque le sue forze avanzino: nel cyberspazio, nei campi di battaglia dello Yemen e in Iraq e nei laboratori delle armi avanzate. Questo sforzo sarà palese e nascosto, economico e tecnologico. Se si verifica un confronto militare diretto, i nemici dell'Iran devono essere pronti a vincere anche lì. I leader di Teheran devono sapere che ogni violazione dell'accordo nucleare innescherà forti sanzioni. Ci sono molti possibili percorsi d'azione contro l'Iran. Eppure il mondo libero guidato dagli Stati Uniti deve ancora prendere il primo e più importante passo: dichiarare che non può sopportare un impero iraniano dal Golfo Persico al Mediterraneo".

(Il Foglio, 14 agosto 2017)


Israele nella tela del ragno iraniano
      Articolo OTTIMO!


Il Ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, è un genio. Con la scusa dell'ISIS è riuscito a ingannare la comunità internazionale e a tessere una pericolosa tela intorno a Israele.

di Franco Londei

Devo fare un confessione che a molti apparirà strana viste le mie posizioni su Israele: ammiro la politica iraniana in Medio Oriente. Ammiro l'arguzia di Mohammad Javad Zarif, il Ministro degli Esteri iraniano che con una tranquillità impressionante sta prendendo per i fondelli mezzo mondo e senza battere ciglio da anni tesse la sua tela di ragno attorno al piccolo Israele usando lo spauracchio dell'ISIS per conquistare terreno.
   Ieri il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, durante una cerimonia ad Ashdod è tornato sugli allarmi lanciati dal Mossad in merito al fatto che l'Iran sta prendendo il posto di ISIS in Siria e in Iraq. «L'ISIS esce, l'Iran entra» ha sintetizzato Netanyahu ricordando come l'Iran e il suo proxy Hezbollah stiano progressivamente occupando il territorio lasciato libero dallo Stato Islamico. Quella denunciata dal Mossad e da ieri da Netanyahu è la sintesi della politica iraniana in Medio Oriente, una politica guidata sapientemente da Mohammad Javad Zarif il quale mentre tutti vedevano nello Stato Islamico una minaccia per il mondo, non solo per il Medio Oriente, vedeva nei terroristi islamici dell'ISIS una opportunità irripetibile per espandere e rafforzare la presenza militare iraniana in Medio Oriente, una opportunità che gli ha permesso di portare le truppe iraniane a pochi Km dal confine con Israele. L'Iran ha permesso a ISIS di espandersi fino al punto in cui un intervento iraniano in Siria sarebbe apparso inevitabile e giustificabile. Un vero capolavoro perché oltre a portare l'esercito iraniano ai confini con Israele fa passare il messaggio che l'Iran e i terroristi di Hezbollah combattono lo Stato Islamico salvando gli innocenti siriani. Non occupanti quindi, ma salvatori. Come si fa a non ammirare una simile genialità?...

(Right Reporters, 14 agosto 2017)


La Bibbia aveva ragione: le prove dell'incendio di Gerusalemme e del saccheggio babilonese

Incendio Gerusalemme, il racconto della Bibbia è vero: archeologi israeliani hanno scoperto le prove del rogo e della distruzione babilonese. Le ultime notizie sugli importanti ritrovamenti

di Silvana Palazzo

 
Due recenti scoperte dimostrano che ciò che è scritto nella Bibbia è realmente accaduto. Gli archeologi dell'Israel Antiquites Authority con gli scavi nella Città di David, il primo storico insediamento di Gerusalemme, hanno scoperto che quanto si legge nei versetti in merito all'incendio della capitale israeliana di cui parla l'Antico Testamento ha una validità dal punto di vista scientifico. La prova che a Gerusalemme ci fu un grande rogo che distrusse gran parte della città è arrivata dagli ultimi scavi, che hanno portato alla luce reperti e artefatti bruciati e ricoperti di cenere. Secondo il capo archeologo Joe Uziel, sono caratteristici del periodo di costruzione del Primo Tempio. Il ritrovamento più importante, decisivo per la datazione, è stato quello delle anfore, perché su questo era impresso un sigillo appartenente proprio al periodo di costruzione del Primo Tempio. Questo vuol dire che la Città di David avrebbe subito l'incendio devastante nello stesso periodo indicato nella Bibbia.

 Le prove sul rogo di Gerusalemme e sull'invasione babilonese
  Le recenti scoperte non confermano solo l'incendio di Gerusalemme, ma anche che venne invasa dai Babilonesi. Il riferimento si trova nel libro di Geremia (52:12-13), dove si cita proprio un incendio. «Nel quinto mese, il dieci del mese, essendo l'anno decimonono del Regno di Nabucodònosor re di Babilonia, Nabuzaradàn, capo delle guardie, che prestava servizio alla presenza del re di Babilonia, entrò a Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme, diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili». Ed è andata proprio così. La Bibbia, dunque, non è uno dei testi più importanti della storia dell'umanità perché è il libro, secondo ebrei e cristiani, ispirato a Dio e da Dio, ma anche perché ha un'attendibilità storica. La conferma in tal senso è arrivata dai nuovi recentissimi studi.

(ilsussidiario.net, 13 agosto 2017)


Crolla una giostra in un parco divertimenti di Ramallah: 21 bambini feriti

L'attrazione è collassata su se stessa. Il West Bank Park è stato temporaneamente chiuso

Ventuno bambini sono rimasti feriti dopo che una giostra è collassata al West Bank Park di Ramallah, in Palestina. Il governatore ha fatto sapere che i responsabili dell'incidente saranno perseguiti e il parco divertimenti è stato momentaneamente chiuso. La polizia palestinese ha fatto sapere che le vittime dell'incidente sono state portate in ospedale e medicate. Fortunatamente, nessuno è rimasto gravemente ferito.
In un video, che gira sul web, si vede la giostra che crolla all'improvviso su se stessa a tutta velocità sotto gli occhi spaventati dei genitori. Il governatore della città, Laila Ghannam, ha disposto l'apertura di un'indagine e ha fatto sapere che saranno prese tutte le misure necessarie per garantire che un tale incidente non si verifichi nuovamente. Non è la prima volta che accade un episodio di questo tipo in quel parco divertimenti.

(TGCOM24, 13 agosto 2017)


Israele denuncia: "L'Iran vuole 'usurpare' territori lasciati dall'Isis"

Netanyahu: "Lavoriamo con determinazione e con vari mezzi per proteggere il nostro Paese dalle minacce"

di Daniele Vice

"L'Iran, sia in maniera diretta sia attraverso organizzazioni affiliate in Siria, Libano, Iraq e Yemen, si sta muovendo per 'usurpare' ogni territorio lasciato dall'Isis". E' la denuncia fatta dal capo del Mossad, i servizi segreti israeliani, Yossi Cohen, che oggi ha aggiornato i Ministri durante la riunione di governo a Gerusalemme. Secondo Cohen, Teheran "non ha rinunciato alle sue ambizioni di diventare uno stato 'nucleare' e l'accordo firmato nel 2015 con le potenze occidentali ha rafforzato il suo obiettivo di raggiungere questo risultato ed accresciuto la sua bellicosità nella regione". Come riportano media locali, nella stessa riunione, il premier Benyamin Netanyahu ha osservato che Israele non ha nessun obbligo in seguito ad accordi internazionali con l'Iran e che lo stato ebraico continuerà "a lavorare con determinazione e con vari mezzi per proteggere se stesso dalle minacce"

 Meir Ben-Shabbat nuovo capo della sicurezza
  Durante l'incontro di governo, il primo ministro ha annunciato la nomina di Meir Ben-Shabbat a capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Ben-Shabbat (che assumerà in pieno le sue funzioni entro due giorni) ha cominciato la sua carriera nello Shin Bet, la Sicurezza interna dello stato ebraico, e si è concentrato in particolare su Hamas e sulla Striscia di Gaza dirigendo in questo settore gran parte delle attività dell'agenzia negli ultimi 20 anni. Il vertice del Consiglio di Sicurezza Nazionale era vacante dal 2015: il suo ultimo capo, Yossi Cohen, è l'attuale direttore del Mossad.

 La missione Usa in Israele
  Inoltre, il premier Netanyahu ha salutato il prossimo arrivo in Israele di una delegazione Usa con l'obiettivo di rilanciare il processo di pace. "Trump - ha detto Netanyahu nella consueta riunione domenicale del governo - invierà presto i suoi rappresentanti, Jared Kushner e Jason Greenblatt, per colloqui nella regione, inclusa Gerusalemme, nello sforzo di far avanzare il processo di pace. Ovviamente diamo loro il nostro benvenuto, come sempre". La delegazione, guidata da Kushner, avrà incontri anche a Ramallah con il presidente Abu Mazen. Oggi tuttavia rappresentanti dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), citati dai media israeliani, non hanno espresso particolare "eccitazione" per la missione Usa: l'ultima, negli scorsi mesi, ha visto un colloquio definito piuttosto brusco proprio tra Kushner ed Abu Mazen. Le stesse fonti, hanno ribadito che l'Anp persegue la visione dei 2 stati, mentre teme che questa possa essere oscurata da un accordo tra Israele e i paesi arabi. La delegazione di Kushner sarà anche in Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Giordania ed Egitto.

(In Terris, 13 agosto 2017)


Italia in Israele, al via l'incarico del nuovo ambasciatore Benedetti

Il neo ambasciatore in visita allo stand di Pagine Ebraiche all'ultimo Salone del Libro di Torino
Inizia in queste ore il proprio mandato di nuovo ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti. Romano, 58 anni, Benedetti succede a Francesco Maria Talò.
Dopo una laurea in Giurisprudenza all'Università La Sapienza, Benedetti inizia la carriera diplomatica nel 1985. Fino al 1987 è alla Direzione Affari Economici della Farnesina. Quindi due incarichi all'estero: prima all'ambasciata italiana a Tokyo come consigliere economico-commerciale, quindi a quella di Washington dove ricopre prima l'incarico di vicedirettore dell'Ufficio commerciale e poi di capo dell'ufficio dell'ambasciatore per i rapporti con gli organismi finanziari.
Dal 1995 al 1997, a Roma, lavora invece nell'ufficio del ministro per i rapporti con il Parlamento e poi come assistente del Segretario generale. Quindi, un incarico alla Nato e di nuovo alla rappresentanza diplomatica a Washington come consigliere politico.
Di nuovo in Italia, dal 2001 al 2005 Benedetti è assistente del Ministro degli esteri, capo della commissione interministeriale per la comunicazione web durante la presidenza italiana del'Ue, capo della direzione generale. Diversi inoltre gli incarichi alla Segreteria generale del Maeci fino al 2006, quando diventa consigliere diplomatico del Ministro per la pubblica amministrazione.
Dal 2012 e fino a pochi mesi fa è stato consigliere diplomatico al Ministero dell'istruzione, l'Università e la Ricerca.
Al neo ambasciatore Benedetti un caloroso mazal tov per questa nuova avventura.

(moked, 13 agosto 2017)


Per Almagro Israele è una democrazia e rispetta i diritti umani, Il Venezuela No

Durante il suo primo viaggio a Gerusalemme, il segretario generale dell'OAS, Luis Almagro, ha elogiato l'impegno di Israele per la democrazia ed i diritti umani. In America Latina, invece, secondo Almagro, la "tentazione del totalitarismo sta prendendo corpo". Ogni riferimento al Venezuela non è affatto casuale.

"Come amici, Israele e l'America condividono i valori fondamentali come la democrazia ed i diritti umani, abbiamo l'opportunità di imparare gli uni dagli altri", ha dichiarato il segretario generale dell'Organizzazione degli Stati Americani (OAS) Luis Almagro in una riunione con i membri del Parlamento del regime israeliano a Gerusalemme.
   Luis Almagro ha anche affermato che gli israeliani sono un partner essenziale nel Medio Oriente per l'America Latina per 'il loro impegno per la democrazia e i diritti umani".
   Nel corso di un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano 'Haaretz', Almagro ha sostenuto che Israele è uno stato democratico dove le istituzioni funzionano. "Funzionalità delle istituzioni ed equilibrio dei poteri sono essenziali per noi e sono il paradigma della salute di una democrazia", ha aggiunto.
   Almagro ha lodato quella che considera la democrazia in Israele, mentre le autorità del regime di Tel Aviv affrontano critiche di routine anche dall'ONU per il suo disprezzo per gli standard dei diritti umani, in particolare nel trattamento discriminatorio dei palestinesi
   Inoltre, Almagro ha fatto riferimento alla situazione in Venezuela dicendo che la comunità internazionale deve continuare a fare pressione sul governo di Maduro al fine di cambiarlo. "Il Venezuela ha bisogno di un governo legittimo", ha precisato.
   Per quanto riguarda il futuro del presidente Nicolas Maduro, ha detto che "tutti devono affrontare la giustizia e farsi carico degli atti che ha commesso, sono crimini contro l'umanità, sono violazioni dei diritti umani, corruzione o reati, come ad esempio il traffico di droga."
   Da quando è diventato segretario generale dell'OSA, Almagro è diventato uno dei massimi se non il principale sostenitore dell'opposizione venezuelana, con l'emissione di decine di tweets contro il governo bolivariano, accompagnate da richieste di intervento straniero nel Paese. L.M.

(Ancora Fischia Il Vento, 13 agosto 2017)


Israele - Irgun Ole Italia, Corcos il nuovo presidente

 
ۨÈ Alberto Corcos il nuovo presidente dell'Irgun Ole Italia, l'organizzazione che si occupa degli emigrati ebrei italiani in Israele. Al fianco di Corcos, che vive a Herzliya, nel direttivo in carica per il biennio 2017-2018 anche Dario Di Cori (Netanya), che assume il ruolo di vicepresidente e tesoriere e Orly Benny Davis (Rehovot) come segretaria. A rappresentare il movimento giovanile Giovane Kehilà sarà invece Dario Sanchez, che si occuperà della Comunicazione istituzionale.
Diversi gli appuntamenti che sono già stati definiti per il prossimo futuro. Nel lasciare l'incarico, il presidente uscente Vito Anav (cui è andato un caloroso ringraziamento da parte del Consiglio) si è messo a disposizione per assicurare la continuità operativa dell'associazione.

(moked, 13 agosto 2017)


L'Iran prossimo fronte nella partita nucleare

di Fiamma Nirenstein

Molte fatali regole del gioco nucleare sono state rotte in questi giorni, e fra queste una cui Israele è stata in tutti questi decenni, dal 1967, molto fedele: la discrezione, il silenzio, la sua specifica «deliberate nuclear ambiguity» scelta e perseguita senza defezioni su quelle che si dice sia la forza di Dimona: 200 bombe pronte all'uso. In generale, l'ambiguità segue una regola del silenzio: Kim Jong un l'ha rotta con le sue minacce poi seguite dal duro monito di Trump: nel mondo della bomba si parla il meno possibile se non per condannarla, per paventarne le terribili conseguenze. Nessuna delle potenze nucleari, neppure il Pakistan, si è mai messa a strombettarne il possesso dopo la bomba sul Giappone al fine di concludere la guerra mondiale nel 1945 e il rischio sfiorato con la crisi russo-americana del 1962. Israele se ne dotò per decisione di David Ben Gurion e con il lavoro diplomatico di Shimon Peres (due socialisti!), e poi Dimona ha sempre lavorato in silenzio, anche per la preoccupazione che sventolare un drappo nucleare irriti il toro islamico e non solo. Ma adesso, con la crisi coreana, il rischio nucleare riguarda da vicino Israele di nuovo. L'Iran, ha detto il professore Dore Gold che è stato ambasciatore di Israele all'Onu e dirige il think tank Jerusalem Center for Public Affairs, guarda agli USA di fronte alla minaccia Nord Coreana per capire, eventualmente, il suo proprio destino: «Quello che faranno avrà enormi influenze sulle decisioni che gli ayatollah prenderanno sulle future scelte circa il programma nucleare e anche sul disegno egemonico di conquista del Medio Oriente». Non solo: la prospettiva di attacchi nucleari, il realismo senza precedenti con cui si configurano nella realtà contemporanea, suscitano ambizioni jihadiste, progetti di acquisti e di furti. Inoltre se Kim Jong un, che si dice abbia già rifornito gli iraniani di pezzi per la costruzione del nucleare, sta scegliendo alleati per un eventuale conflitto, di certo l'Iran è il primo della lista. Inoltre un attacco eventuale a Israele, da qualsiasi parte venga, ha sempre la caratteristica di un attacco per interposta persona agli Stati Uniti, un esperimento per vedere fin dove si può arrivare. L'unica arma è la deterrenza, che certo Israele non può praticare senza uscire dalla «ambiguità»: per farlo, non deve semplicemente vantarsi della sua forza, dice l'esperto Luis Renè Beres, ma saper gestire un inedito programma di eventuale difesa nucleare contro avversari irrazionali. Una guerra sconosciuta. Gli esperti disegnano anche il solito scenario che più la cultura occidentale disegna e desidera: che il Dibbuk torni nelle viscere della terra, e che la vita torni a sorridere. Un sogno molto pericoloso da cui si rischia di svegliarsi di soprassalto.

(il Giornale, 13 agosto 2017)


Agi Mishol. In volo

di Francesca Ruina

 
Agi Mishol
«La scrittura è la più tortuosa delle vie / per ricevere amore», è farsi spazio tra le rovine del passato, farsi strada, vicolo, sentiero, «è chinarsi sulle parole / finché non si trasformano in porta / e allora farvi irruzione».
  Agi Mishol è una delle più note poetesse israeliane, autrice di sedici raccolte tradotte in molte lingue e vincitrice di diversi premi, tra cui, nel 2014, l'italianissimo Lerici Pea alla Carriera. Nello stesso anno le è stato assegnato un dottorato onorario (Dottore Philosophiae Honoris Causa) dall'università di Tel Aviv "in riconoscimento della sua posizione come uno dei più importanti e amati poeti di Israele [e] del suo immenso contributo all'arricchimento della cultura israeliana". Dal 2011 insegna presso la Scuola di Poesia Helicon a Tel Aviv, dove tiene anche laboratori di scrittura creativa.
Nata a Cehu Silvaniei, in Transilvania, «da una fossetta della morte», da una madre sopravvissuta ad Auschwitz e un padre scampato ai campi di lavoro, Mishol fu la prima bambina della sua città venuta al mondo dopo la Shoah, simbolo di una resistenza, di una vita possibile anche dopo l'orrore, di un nuovo inizio da scrivere.
  Da scrivere in una lingua madre - titolo di una delle poesie che compongono la raccolta "Ricami su ferro", uscita a maggio 2017 per Giuntina ed unico testo dell'autrice ad oggi tradotto in lingua italiana - diversa da quella della madre, che era l'ungherese, mentre quella di Mishol è l'ebraico. Il suo primo vagito nel venire alla luce, scrive, fu «la alef con il kamatz», ovvero fu in ebraico, lingua che la recise dall'utero materno, ma dalla quale partorì la propria madre-poesia.
  Lingua d'identità, lingua di terra, di passi verso casa. Tanakh, lingua sacra, sì, ma anche lingua di commistioni, da inzuppare nel panorama culturale occidentale, tra la Yourcenar, Rilke e Kavafis, tra Pessoa e Saramago, stretti in un abbraccio sulla libreria di Mishol, là, in Israele. Una testimonianza di come la scrittura - e la poesia, in particolare - riesca a travalicare i confini geografici e politici, creando un'altra lingua, una sorta di fil rouge universale che resiste al silenzio e agli scoppi delle bombe.
Le poesie di Mishol camminano a passo d'uomo, nel terriccio fresco delle campagne, tra gli alberi e gli animali. Hanno l'odore dell'alba e il sapore delle more non ancora mature. Animano la casa e «la soffitta degli oggetti respinti». Ma sono anche piene dei rumori della televisione, fotografano lucciole che brillano tra termini slang e vibratori viola, tra inglesismi e nani da giardino.
  Poesie ancorate nella realtà e nel quotidiano, ma sempre accompagnate da un battito d'ali in potenza, sempre sul punto di levarsi in volo. I versi di Mishol pullulano di pavoni, cicogne, aironi, di ascese al cielo in cui «vedere un uccello / dimenticare che tu sei tu / e trasformarti in volo».
Lei, «lasciata cadere […] all'ombra di una piantagione di cachi / sotto il percorso di migrazione degli uccelli», con lo sguardo rivolto all'insù, come a cercare «riposo nelle fini piume delle nuvole», come a voler ricomporre un alfabeto perso tra stormi di volatili, sillabe incagliate nelle loro penne, parole che solcano le loro planate.
 
  Dietro quelle «spalle così nostalgiche di un volo» ci sono le ali della poesia. La scrittura è per Mishol quell'altrove, irraggiungibile e materico al tempo stesso, meta e rifugio della sua migrazione poetica. «Scrivo da una nostalgia / che è il punto G dell'amore». Scrive per «fare l'amore sulle bianche lenzuola di carta del blocco». Amore e scrittura, indissolubilmente uniti a fare Uno con la propria impossibilità.
Noi, i poeti - scrive - «conficchiamo la puntuazione nelle lettere perché non volino / dalla carta / assetati di ogni congiunzione e tuttavia / sanguinanti da ogni trattino». Di nuovo un taccuino su cui fare l'amore, avvinghiati alle parole, tracce, orme, solchi di corpi destinati ad andarsene. «Svegli come un uccello nella notte / rimasto senza albero», poeti fluttuanti, in volo, appoggiati solo a qualche consonante dispersa nell'aria. Segni da tracciare piano, con la matita, cancellando e soffiando via i resti di parole dimenticate, mentre una formica cammina tra le righe, mentre il mondo scorre sulla pagina.
La scrittura come spazio difeso - titolo di una delle poesie della raccolta - un rifugio nella lingua santa, «nelle fessure delle vocali lunghe / nelle segrete di quelle brevissime», un nascondiglio di lettere e parole da cui guardare il mondo. Ma anche scrittura come estrema nudità, come - forse unica - possibilità di donarsi all'altro amato, di mostrare le proprie viscere: «mi spoglio per te sino alla calligrafia / sino a che mi si vedono le gutturali / le enfatiche / le matres lectionis».
  I versi di Mishol sono davvero dei "ricami su ferro": non incisioni definitive, solchi abrasivi che scavano nella carne, ma ricami, appunto, parole in volo, che salgono leggere anche quando sotto c'è il ferro, l'inevitabile pesantezza della storia. «Io, Agi Mishol, seconda generazione / accendo torce di poesie / che non sono neppure un'arma deterrente», scrive in un testo intitolato "Shoah, ricordo, indipendenza". Non armi, ma parole, fari, luci che illuminano il buio in cui ha annaspato il popolo ebraico e, con esso, la famiglia dell'autrice. Torce che rischiarano anche il viaggio della sorella di Mishol, "salita al cielo in fumo", dispersa chissà dove, tra quelle nuvole verso le quali gli occhi della poetessa non smettono di rivolgersi.
  Leggere le poesie di Agi Mishol è come tenere stretta tra le dita la cordicella di un palloncino, poi schiuderle piano e lasciare che lo spago solletichi via. Alzare la testa verso il cielo e vedere quella piccola sfera colorata salire in alto, con un volo tutto suo, sospinta da chissà quale vento, e diventare sempre più piccola, veloce, lontana.

(doppiozero.com, 12 agosto 2017)


Israele e Gaza: un mondo di barriere

Israele sta costruendo una barriera sotterranea lungo il confine con la striscia di Gaza. La struttura, del valore di 3 miliardi di NIS (nuovo siclo israeliano), dovrebbe essere completata entro due anni e si estenderà fino al mar Mediterraneo. La barriera sarà dotata di un sistema avanzato di sensori e di strumenti di monitoraggio.
L'obiettivo di questa costruzione è impedire l'infiltrazione degli uomini di Hamas in Israele sia attraverso la creazione di tunnel sotterranei sia via mare.
La notizia giunge dopo che, nella serata di martedì 8 agosto, un missile, proveniente dalla striscia Gaza, è caduto vicino alla città di Ascalona, nel sud di Israele. Nonostante il razzo non abbia causato danni, le forze israeliane hanno risposto, all'alba di mercoledì 9 agosto, bombardando le postazioni della sicurezza di Hamas, vicino alla Città di Gaza, causando ingenti danni agli edifici.
Secondo quanto riportato dal giornale israeliano Jerusalem Post, Hamas continuerebbe a investire manodopera e soldi nella costruzione di tunnel che permettano ai propri uomini di raggiungere Israele. Nel 2014, durante il secondo cessate il fuoco, le Forze di Difesa israeliane hanno riferito di aver distrutto 32 tunnel.
Israele teme che la costruzione della barriera possa causare l'intensificarsi degli attacchi da parte di Hamas. Il capo del Comando meridionale israeliano, il maggiore generale Eyal Zamir, ha affermato che "il muro potrebbe portare a un'escalation pericolosa", nonostante il fatto che la barriera si estenda esclusivamente nel territorio israeliano. Secondo Zamir, molti tunnel passerebbero sotto le case dei civili nella striscia di Gaza, mettendo continuamente a rischio la loro vita. Il maggiore generale ha affermato "ogni civile che rimane in questi edifici mette a rischio la propria vita e quella della propria famiglia. È Hamas che li mette in pericolo, ma ogni edificio situato sopra un tunnel è un obiettivo militare legittimo".
Secondo Zamir "parte della strategia di combattimento di Hamas consiste nel coinvolgere le aree dei civili in modo da rendere più difficile per le Forze di Difesa israeliane localizzare, attaccare e distruggere le infrastrutture del gruppo militare". In questo modo, Hamas mirerebbe a delegittimare Israele e le Forze di Difesa israeliane.
Dal 2008 ad oggi, Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre. L'ultima, meglio nota come "Operazione Margine di protezione", si è conclusa il 26 agosto 2014, con il raggiungimento di una tregua tra le due parti. L'intento dichiarato dell'operazione israeliana era quello di fermare il lancio di missili dalla striscia di Gaza verso il proprio territorio.
- Traduzione dall'inglese e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 12 agosto 2017)


Israele, scoperta una "bottega" di vasellame in pietra

Reperti in pietra trovati nello scavo di Reina
Un raro centro per la produzione di vasellame in pietra, datato al periodo romano, è attualmente in corso di scavo presso Reina, nella bassa Galilea. Gli scavi hanno permesso di rintracciare una piccola grotta nella quale gli archeologi hanno trovato diversi scarti di produzione tra i quali frammenti in pietra di tazze e ciotole nelle varie fasi della loro produzione. Il sito è emerso durante i lavori di costruzione di un centro sportivo comunale. Si tratta del quarto centro di produzione scoperto in Israele. Un altro è attualmente in corso di scavo ad un chilometro di distanza da quello appena scoperto, gli altri due sono stati individuati decenni fa molto più a sud, verso Gerusalemme.
   "Nei tempi antichi la maggior parte delle stoviglie, pentole e vasi per lo stoccaggio degli alimenti erano fatti in ceramica. Nel I secolo d.C., però, gli Ebrei della Giudea e della Galilea utilizzavano anche vasellame e stoviglie ricavate dalla morbida pietra calcarea locale", ha detto il Dottor Yonatan Adler, Direttore degli scavi per conto della Israel Antiquities Authority. Furono motivi religiosi, secondo Adler, a indurre gli Ebrei a servirsi di questo materiale.
   "Secondo l'antica legge rituale ebraica, i vasi in ceramica sono impuri dopo il loro uso e devono essere frantumati", ha spiegato Adler. "Del resto la pietra è un materiale che non è soggetto facilmente ad impurità, pertanto gli antichi Ebrei hanno cominciato a produrre alcuni oggetti di vita quotidiana servendosi proprio della pietra".
 
Lo scavo nella grotta artificiale di Reina
   Gli scavi hanno rivelato una grotta artificiale scavata dagli antichi operai che estraevano la pietra per ricavarne vasellame. Sono visibili i segni dello scalpello sulle pareti della grotta, sul soffitto e sul pavimento. All'interno della grotta e nelle vicinanze sono sparsi migliaia di scarti di produzione, antichi rifiuti industriali di tazze in pietra e ciotole. Sono stati trovati anche centinaia di vasi in pietra incompiuti perché danneggiati durante il processo di produzione e scartati in loco.
   "Gli scarti di produzione indicano che questo antico laboratorio si è specializzato nella produzione di tazze e ciotole di varie dimensioni", ha detto Adler. "I prodotti finiti, poi, sono stati commercializzati in tutta la Galilea. Quanto abbiamo trovato ci fornisce la prova che gli Ebrei erano estremamente scrupolosi per quel che riguarda le leggi sulla purezza. Queste leggi erano diffuse non solo a Gerusalemme ma in tutta la Giudea e la Galilea, almeno fino alla fine della rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C.".
   "Nel corso degli anni abbiamo scoperto frammenti del genere a fianco alla ceramica durante gli scavi di case in siti ebraici sia rurali che urbani di epoca romana, come Kafr Kanna, Sefforis e Nazareth. Ora, per la prima volta, abbiamo l'opportunità senza precedenti di studiare il luogo in cui questo vasellame era effettivamente prodotto in Galilea", ha affermato l'archeologo della Israel Antiquities Authority nonché esperto dell'Età Romana Yardenna Alexandre.

(Le Nebbie del Tempo, 13 agosto 2017)


Palestinesi: il raggiro dei metal detector

di Khadija Khan (*)

Dopo aver ricevuto massicce pressioni dal mondo musulmano e dalla comunità internazionale, Israele ha rimosso tutti i metal detector e le telecamere di sorveglianza dal Monte del Tempio di Gerusalemme, dove si trova la Moschea di al-Aqsa.
Forse per nascondere il motivo che ha portato all'installazione dei metal detector - un attentato terroristico perpetrato il 14 luglio, in cui tre cittadini arabi israeliani hanno ucciso due poliziotti israeliani, entrambi appartenenti alla minoranza drusa, con delle armi che avevano nascosto all'interno della moschea - l'Autorità palestinese (Ap) ha esortato i musulmani a boicottare il sito e indire i "giorni della rabbia" contro lo Stato ebraico.
   I palestinesi, sostenendo che i dispositivi elettronici fossero una "profanazione" della moschea - che sorge sul luogo più sacro del Giudaismo ed è il terzo luogo più sacro dell'Islam - hanno ingaggiato violenti scontri con le forze di sicurezza israeliane. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha condannato Israele e ha invitato i musulmani a "proteggere" Gerusalemme.
   Un adolescente palestinese aveva postato su Facebook un messaggio in cui esprimeva l'intenzione di diventare un "martire", prima di entrare nell'abitazione di una famiglia ebrea della Cisgiordania, uccidendo a coltellate tre dei suoi membri. E mentre questo terrorista era ricoverato in un ospedale israeliano in seguito alle ferite riportate, l'Autorità palestinese celebrava questo atto di violenza, mettendo in moto il meccanismo atto a ricompensare il giovane con 3mila dollari al mese per il suo tentativo di diventare un "martire" uccidendo degli ebrei.
   Poi, il 23 luglio, un terrorista in Giordania - il Paese che è ufficialmente custode dei luoghi sacri musulmani sul Monte del Tempio attraverso il Waqf islamico - ha aggredito un funzionario di sicurezza israeliano nel compound dell'ambasciata israeliana ad Amman. L'agente israeliano, ferito, ha aperto il fuoco per autodifesa contro il giovane attentatore e lo ha ucciso. Nella sparatoria, è rimasto gravemente ferito un altro cittadino giordano, poi morto in ospedale. Grazie a un accordo siglato tra Israele e le autorità giordane, l'agente e altri membri del personale dell'ambasciata sono stati rilasciati, verosimilmente in cambio della promessa che i metal detector sarebbero stati rimossi dall'ingresso del Monte del Tempio.
   Ma i metal detector non hanno niente a che fare con il vero motivo dell'atmosfera esplosiva - alimentata da Fatah, la fazione del presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, e dall'organizzazione terroristica Hamas, che governa la Striscia di Gaza - nonostante il fatto che l'attentato sia stato compiuto da musulmani israeliani contro due poliziotti israeliani appartenenti alla minoranza drusa. In realtà, le misure di sicurezza erano finalizzate a proteggere chiunque entrasse nel sito in cui solo i musulmani sono autorizzati a pregare, mentre i cristiani e gli ebrei possono limitarsi a visitarlo, ma sotto stretta sorveglianza.
   La prova che la violenza non è stata una conseguenza delle misure volte a impedire l'introduzione di armi letali sul Monte del Tempio sta nel fatto che è molto comune la presenza di metal detector nelle moschee più importanti del Medio Oriente e sono più di 5mila le telecamere di sorveglianza (e 100mila addetti alla sicurezza) che sorvegliano i pellegrini che si recano ogni anno alla Mecca, in Arabia Saudita, per compiere l'Hajj. Inoltre, chiunque si rechi in visita al [Kotel] Muro Occidentale a Gerusalemme, un altro luogo sacro per gli ebrei, deve passare attraverso i metal detector prima di accedere alla piazza - una protezione data per scontata.
   L'incitazione alla violenza contro gli israeliani - adducendo come pretesto il fatto che i metal detector siano un tentativo da parte dello Stato ebraico di modificare lo "status quo" sul Monte del Tempio - non solo disonora l'Islam, ma danneggia i palestinesi che il mondo pretende di voler difendere.
   È ora che la comunità internazionale impedisca ai radicali di utilizzare i palestinesi come pedine nel loro grande piano che persegue un obiettivo visibile a chiunque, compresi tutti i musulmani: distruggere Israele attraverso la delegittimazione.
(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 12 agosto 2017 - trad. Angelita La Spada)


Israele, il volo delle mongolfiere all'Eshkol National Park

Eshkol National Park, Israele - Centinaia di israeliani si sono radunati all'Eshkol National Park, nella regione del Negev settentrionale, nei pressi di Gaza, per provare da vicino l'emozione del decollo e del volo delle mongolfiere nel corso dell'International hot air balloon festival che ha radunato appassionati locali e provenienti da tutto il mondo.

(RDS, 12 agosto 2017)


Pace In Medio Oriente: Trump ci riprova ma fa un favore agli arabi

Trump ritiene che dopo la fine della crisi del Monte del Tempio questo sia il momento giusto per riportare arabi e israeliani al tavolo delle trattative. Ma è un grosso favore agli arabi.

Trump ci riprova a promuovere la pace in Medio Oriente. Più precisamente Trump ci riprova a promuovere la pace tra Israele e i cosiddetti palestinesi - considerata essenziale per la stabilità regionale - e invia il genero Jared Kushner accompagnato in questa missione dall'inviato speciale per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, e dal vice segretario per la sicurezza nazionale Dina Powel.
Trump ritiene che dopo la fine della crisi per il Monte del Tempio questo sia il momento più adatto per riallacciare i rapporti tra Israele e i cosiddetti palestinesi. Per questo dopo consultazioni con i suoi maggiori consiglieri ha deciso di inviare il genero e gli altri importanti componenti del suo staff in una missione ad ampio raggio che li vedrà incontrare i leader di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania, Egitto, Israele e dell'Autorità Palestinese....

(Right Reporters, 12 agosto 2017)


Rosenthal, il calciatore israeliano ripudiato dall'antisemitismo degli ultras dell'Udinese

di Riccardo Ghezzi

 
Ronny Rosenthal
Ronny Rosenthal è stato un calciatore israeliano, un attaccante che ha segnato più di 100 gol in carriera vincendo quasi ovunque: due campionati israeliani con il Maccabi Haifa, un campionato belga con il Bruges, un campionato inglese con il Liverpool. Nella sua bacheca personale anche due Supercoppe del Belgio, sempre con il Bruges, una Coppa d'Inghilterra e una Charity Shield con il Liverpool.
   Tra i punti di forza della nazionale israeliana degli anni '80 e prima metà degli anni '90, insieme al centrocampista Nir Klinger e al trequartista Eli Ohana, Rosenthal ha collezionato 60 presenze segnando 11 gol con la maglia della selezione del proprio Paese.
   Nella sua carriera ha giocato anche per due stagioni nella formazione belga dello Standard Liegi e, negli ultimi anni, dopo i fasti di Liverpool è rimasto in Inghilterra vestendo le casacche di Tottenham e Watford.
   Ha chiuso la carriera da calciatore nel 1999. Avrebbe potuto giocare in Italia, ma non c'è riuscito.
   Se la serie A non ha mai conosciuto Ronny Rosenthal e i tifosi italiani non hanno mai potuto apprezzare i suoi gol, il motivo è soltanto uno: l'antisemitismo manifestato da alcuni ultras. Era infatti l'estate del 1989 quando l'Udinese, convinto dai gol dell'attaccante israeliano, ha offerto allo Standard Liegi la somma di un milione e mezzo di sterline per aggiudicarsi le prestazioni del giocatore.
   Rosenthal aveva 26 anni e aveva già vinto due campionati in Israele e altri due in Belgio con il Bruges, prima di essere acquistato dallo Standard Liegi.
   L'affare con l'Udinese era ormai andato in porto quando è apparsa una scritta sui muri della sede della società friulana: "Rosenthal vai nel forno". Firmato "Htb", acronimo di Hooligans-Teddy-Boys, una delle tante sigle teppistiche del mondo ultras. Non solo: nella sede dell'Udinese era arrivata una lettera intimidatoria, siglata da una svastica, contenente minacce all'indirizzo del presidente Giampaolo Pozzo. Scopo della missiva: convincere la società a non acquistare un calciatore ebreo.
   Si può solo immaginare l'atmosfera tesa in cui Rosenthal ha sostenuto le visite mediche dopo la presentazione. E qui arriva il colpo di scena: i medici dell'Udinese asseriscono di aver trovato un difetto congenito, un problema alla schiena, ad "una vertebra", che avrebbe compromesso le prestazioni dell'attaccante. L'ingaggio salta, tutto annullato.
   Non è vero nulla e Rosenthal lo sa: non c'è alcun difetto congenito che possa compromettere il rendimento. Tant'è che l'attaccante tornerà allo Standard Liegi e verrà girato al Liverpool, per poi trasferirsi definitivamente per altre quattro stagioni nella città dei Beatles e vivere una seconda giovinezza, vincendo altri trofei e segnando altri gol, chiudendo poi la carriera a Londra e a Watford.
   L'Udinese acquisterà al suo posto l'argentino Abel Balbo, che diventerà un eroe della squadra bianconera e poi del calcio italiano, vestendo anche le maglie di Roma, Fiorentina e Parma.
   Tutti contenti, quindi. Non proprio. Perché quello di Rosenthal resterà il primo ingaggio mancato di un calciatore a causa del razzismo dei tifosi. L'attaccante israeliano, per nulla convinto delle motivazioni "mediche", ha infatti citato in giudizio l'Udinese per danni morali, vincendo la causa e ottenendo un risarcimento. La società friulana ha dimostrato mancanza di fermezza nel contrastare l'antisemitismo delle frange più estremiste del tifo, ma soprattutto anche secondo i giudici non aveva rispettato gli accordi presi. Un anno fa, in un'intervista al Corsera, lo stesso Rosenthal ha gettato elegantemente acqua sul fuoco, dicendo: "In quei giorni sui muri della città comparvero alcune svastiche e scritte razziste contro di me, israeliano ed ebreo. Ma non ho mai creduto che l'Udinese mi avesse scaricato per questo, perché si era spaventata: magari mi sbaglio, ma credo che fosse più che altro una questione d'affari. Hanno avuto l'occasione di prendere Abel Balbo e l'hanno sfruttata, senza rispettare gli accordi presi con me".
   Quella ferita delle scritte e delle svastiche però resta. Nonostante questo, nella stessa intervista Rosenthal ha confessato: «Ho sempre amato molto l'Italia. E quell'episodio, che al momento mi aveva amareggiato e disorientato, si è rivelato invece la mia fortuna: andare a giocare in Inghilterra mi ha cambiato la vita. È stato un vero happy end».
   Qualche anno più tardi, nel 1997, il Brescia tessererà Tal Banin, centrocampista israeliano. Il primo israeliano della serie A (poi nel 2011 è arrivato Eran Zahavi, acquistato dal Palermo). Con otto anni di ritardo.

(L'informale, 12 agosto 2017)


La stretta di Abu Mazen sui social network: carcere per chi minaccia "l'unità nazionale"

Il presidente palestinese Abu Mazen ha lanciato un'offensiva senza precedenti contro i social network e ogni forma di dissenso espresso sul Web. Il decreto presidenziale prevede il carcere per chiunque minacci "l'unità nazionale" o "l'equilibrio sociale". Parole vaghe che secondo i difensori dei diritti umani permettono di reprimere chiunque critichi l'operato dell'Autorità nazionale palestinese e costituiscono "la più significativa" restrizione della libertà di parola sotto il governo dell'erede di Arafat.

 Trenta siti chiusi in un mese
  L'autorità giudiziaria palestinese però nega che il decreto rappresenti un minaccia alle libertà e insiste che era necessario per colmare lacune legislative che permettevano ai "criminali elettronici", come gli hacker, di farla franca. Ma per il Palestinian Center for Development and Media Freedoms il decreto ha già permesso al governo di chiudere trenta siti Internet, la maggior parte sostenitori del grande rivale del partito di Abu Mazen, Al-Fatah, cioè Hamas. Alcuni invece sostenevano l'Isis.

 Arresti di giornalisti
  Cinque giornalisti che lavoravano per siti legati ad Hamas sono stati arrestati la scorsa settimana. Altri quattro sono stati interrogati per aver postato sul Facebook commenti critici nei confronti del governo. Uno di loro, Fai Arouri, collaboratore dell'agenzia cinese Xinhua, è stato accusato di aver scritto post che "portano al disordine nella società".

(Attualità.com, 11 agosto 2017)


L'islam le vuole morte, Israele e Ungheria le salvano

Svezia e Turchia perseguitano due donne in fuga dall'Iran

di Caterina Maniaci

 
Aideen Strandsson

Aideen Strandsson e Neda Amin sono due donne giovani, ma con alle spalle una vita già intensa e difficile. Un destino comune, come comune è la patria, l'Iran. E il destino è quello dell'esilio, sul quale si allunga l'ombra di un pericolo costante, della prigionia, della persecuzione, della morte.
   Le loro storie si sono incrociate, davanti all'opinione pubblica internazionale, proprio in questi giorni. E nelle loro vicende affiora il pregiudizio al contrario, il lato oscuro del politically correct. La Svezia è considerata un modello di accoglienza nei confronti dei rifugiati. Ma ci sono profughi e profughi. Per Aideen Strandsson, attrice iraniana fuggita dal suo Paese dopo essersi convertita dall'islam al cristianesimo, le porte non si sono aperte. Senza considerare che in Iran la conversione al cristianesimo è punibile con la morte per gli uomini e con l' ergastolo per le donne. L'attrice - che in patria ha interpretato diversi ruoli in film e fiction - nel 2014 è fuggita in Svezia, convinta di trovare riparo e sicurezza. In effetti è riuscita ad ottenere un visto di lavoro provvisorio ed è stata battezzata. Ma la donna è presto diventata oggetto di pesanti minacce da parte di musulmani.
   Alla Strandsson, che pure ha origini scandinave come si capisce dal cognome, l'Agenzia Migratoria ha respinto la richiesta di asilo. Dev'essere imbarazzante dare rifugio a una convertita al cristianesimo, mentre non lo è affatto accogliere migliaia di integralisti islamici, nel Paese e in tutta Europa. «Mi hanno detto che sono scelte personali, che essere diventata cristiana è un mio problema», ha raccontato Aideen in un'intervista. «Tornare in Iran è davvero pericoloso per me, non so perché nessuno mi creda», ha aggiunto. Al disperato appello ha risposto invece la tanto vituperata Ungheria. Il governo magiaro si è infatti dichiarato «pronto a riconoscere lo status di rifugiato» alla ragazza, se lei chiederà aiuto a Budapest. Il vice primo ministro ungherese Zsolt Semjén ha così commentato: «Noi proteggiamo l'Ungheria dall'invasione dei migranti, ma forniamo aiuto ai veri rifugiati, quelli la cui vita è in pericolo diretto per la loro religione, nazionalità o affiliazione politica».
   Si sta concludendo positivamente, dopo molte peripezie e angosce, la vicenda di Neda Amin, scrittrice iraniana. Era arrivata in Turchia nel 2014, in fuga dal suo Paese, dopo che il suo libro Zenjir (La Catena) è stato messo al bando. Per tre anni ha vissuto in Turchia come rifugiata politica ed ha collaborato all'edizione in farsi di Times of Israel. Ma anche da qui ha dovuto prendere la strada dell'esilio, minacciata di espulsione il mese scorso, proprio per via della sua collaborazione con il sito di notizie israeliano. Le era stato offerto di andare in Israele, ma anche quella possibilità le era stata negata, in un primo momento. Poi le è stato concesso un visto speciale turistico dal ministro dell'Interno Aryeh Deri e così è finalmente partita per Gerusalemme.

(Libero, 12 agosto 2017)


La truffa del "nuovo Olocausto"

Giudici che paragonano un centro per migranti a un lager nazista. Intellettuali alla Erri de Luca che parlano di "sterminio di massa" di migranti. Alla radice del grande inganno culturale e lessicale di chi non vuole governare l'immigrazione

di Giulio Meotti

ROMA - L'ideologia, messa in circolazione dai giornali, finisce spesso per entrare nelle sentenze dei magistrati. Ieri, la prima sezione civile del tribunale di Bari ha condannato la presidenza del Consiglio e il ministero dell'Interno a versare un risarcimento di 30 mila euro al comune di Bari. Motivo? Il "danno all'immagine" causato dalla presenza di un "cie", i centri di identificazione dei migranti. "Si pensi ad Auschwitz, luogo che richiama alla mente di tutti immediatamente il campo di concentramento simbolo dell'Olocausto" osserva il magistrato. "E non di certo la cittadina polacca sita nelle vicinanze".
   Dunque, secondo la magistratura un centro per migranti sfigurerebbe il territorio barese come ha fatto il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau alla cittadina polacca di Oswiecim. L'uso sbrigativo, la reiterata propensione comparativa di categorie esplosive, come "sterminio" e "genocidio", iniziò proprio contro i cie. "Quei lager chiamati Cie", partì MicroMega dedicandogli un dossier. Poi La Repubblica, sorella nel gruppo Espresso: "Ecco l'inferno del centro immigrati. Campo di concentramento al San Paolo". La Repubblica sembra aver ritrovato una missione nell'immigrazione, elevandola a causa ideologica, contro il tentativo del governo Gentiloni e del ministro dell'Interno Minniti di regolare i flussi dalla Libia. Si inizia con i pezzi di cronaca, come quello dell'8 agosto: "Libia, arrivano meno migranti che così finiscono nel lager" scrive Rep. Nei confronti dei migranti si consumano "atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo". Si scopre che la Kolyma non è più battuta dalle tormente siberiane, ma dalle tempeste di sabbia del deserto libico. La polacca Sobibor oggi è la libica Sabha.
   Coloro che consideravano "banalizzante" e dissacrante il paragone tra i sei milioni di ebrei dello sterminio nazista con i milioni nei regimi comunisti, gli anti-comparativi di allora, si sono trasformati nei supercomparativi che ora considerano doveroso mettere sullo stesso piano la più grande tragedia della storia con i campi per migranti in Italia e in Libia. Ieri è arrivato, rilanciato su Repubblica, l'appello firmato da intellettuali, personalità e ong, dal titolo "Io preferirei di no", accompagnato dal filo spinato di un lager. Il titolo richiama i dodici professori che si rifiutarono di firmare il giuramento Gentile al regime fascista, lo storico Gaetano De Sanctis, il chimico Giorgio Errera, l'orientalista Giorgio Levi della Vida, il filosofo Piero Martinetti e lo storico dell'arte Lionello Venturi. Sui migranti, si legge nell'appello, "è in corso un nuovo sterminio di massa". Allora "il nostro governo non è indifferente a questa carneficina ma complice", inviando navi per impedire ai migranti di lasciare le coste e "perseguitando" le ong, Fra i firmatari, lo scrittore Erri de Luca e il critico d'arte Tomaso Montanari, l'Arei ed Emergency, sindacalisti, Mani Ovadia, sacerdoti come Alex Zanotelli e la Comunità di San Benedetto di don Gallo, ma anche i segretari di Sinistra Italiana e Rifondazione, Nicola Fratoianni e Maurizio Acerbo, e poi Vauro (quello che a Servizio Pubblico faceva vignette sull'"Olocausto dei migranti"). E' lo stesso Erri de Luca che vede "vernichtung", sterminio, ovunque, tranne dove c'è stato, come nelle terre dell'Isis. De Luca ha lanciato la campagna contro "lo sterminio degli ulivi pugliesi" (che tempi quando Elie Wiesel implorava i commentatori di tutto il mondo ad astenersi dal tirare in ballo l'Olocausto persino sul Kosovo). Paragoni che diminuiscono la capacità di capire e di distinguere.
   Ma a una cosa servono: riaprire le rotte, costi quel che costi. Poi uno ripensa alle vecchie edizioni di Repubblica. E si ricorda che il "lager", prima che nei centri per migranti, il grande quotidiano lo ha visto rinascere in una caserma di Genova: "Il lager Bolzaneto". "Bolzaneto, il lager dei Gom". "Il lager-prigione di Bolzaneto". "Bolzaneto, immagini dal lager". Di questo passo la Shoah è diventata tutto e niente. In Italia si iniziò chiamandola "Giorno della memoria", quando in tutto il mondo è la "Giornata internazionale di commemorazione delle vittime dell'Olocausto". Si è finiti istituendo la "Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione".

(Il Foglio, 12 agosto 2017)


Addio all'uomo più vecchio del mondo, era sopravvissuto all'Olocausto

L'israeliano Yisrael Kristal si è spento a 113 anni, un mese prima del suo compleanno

di Ugo Leo

 
Yisrael Kristal
 
Yisrael Kristal festeggiato dai familiari
È morto quello che fino ad oggi era l'uomo più vecchio del mondo. Yisrael Kristal, un israeliano di 113 anni sopravvissuto all'Olocausto. La sua età è stata attestata dal libro dei Guinness dei primati, ma il suo non è un record assoluto: lo scorso 1 maggio è morto in Indonesia un uomo di 146 anni. Al momento l'essere umano più vecchio è una donna, la giamaicana Viole Brown che ha 117 anni.
Nato il 15 settembre del 1903 nel villaggio di Zarnow, a circa 150 chilometri a sud ovest di Varsavia, è morto venerdì pomeriggio ad Haifa in Israele. Fece notizia lo scorso anno la sua scelta di celebrare il suo bar mitzvah (rito di passaggio ebraico dall'infanzia all'età adulta) cento anni in "ritardo" (viene officiato a 13 anni e un giorno).
Figlio di uno studioso religioso, aveva perso la madre e il padre durante la Prima guerra mondiale. A diciassette anni si trasferì a Lodz per lavorare nella pasticceria di famiglia. Dopo l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista nel 1939, fu trasferito insieme ai familiari nel ghetto di Lodz. Lì morirono i suoi due figli, poi fu mandato ad Auschwitz con sua moglie Chaja Feige Frucht nel 1944.
Lei perse la vita nel campo di concentramento poco dopo, mentre lui riuscì a sopravvivere lavorando. Quando fu trovato dagli Alleati nel maggio 1945 pesava solo 37 kg. Secondo Tablet Mag, ringraziò i soldati sovietici che lo salvarono preparandogli dei dolci. Unico sopravvissuto della sua famiglia, Yisrael emigrò in Israele nel 1950 con la sua seconda moglie e suo figlio, dove aprì una pasticceria in cui lavorò fino alla pensione.
In un'intervista raccolta dal sito d'informazione israeliano Ynetnews disse che aveva avuto un "grande padre", aggiungendo: "Nonostante tutto quello che ho vissuto e la perdita di tutta la famiglia nell'Olocausto, sono sempre stato ottimista e ho sempre trovato in tutto il lato positivo".

(La Stampa, 11 agosto 2017)


Shin Bet: arrestati due arabo-israeliani per legami con lo Stato islamico

GERUSALEMME - L'agenzia per la sicurezza israeliana, lo Shin Bet, ha arrestato due fratelli arabo-israeliani originari della città di Umm el Fahm, sospettati di coinvolgimento con lo Stato islamico. Lo riferisce oggi una nota dello Shin Bet, sebbene l'arresto sia avvenuto il mese scorso. Le forze di sicurezza hanno perlustrato le abitazioni di Mahmoud Abd al Karim Qassem Jabarin (25 anni) e di Na'im Abd al Karim Qassem Jabarin (20 anni), dove hanno trovato materiale dello Stato islamico (Is) e fucili Gustav Carl. Il primo dei due arabi-israeliani è stato accusato di collaborazione con un agente straniero, mentre il secondo, Na'im, è accusato di possesso di armi illegali. Secondo quanto emerso dalle indagini, Mahmoud, stava pianificando di andare in Siria per combattere tra le fila dell'Is, tramite l'aiuto di un suo concittadino che era stato nel paese arabo nel 2014. Na'im, invece, aveva giurato fedeltà al sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi, identificandosi come un combattente dell'Is. Lo Shin Bet ha fatto sapere che continuerà a monitorare le situazioni sospette legate all'Is che rappresentano una pericolosa minaccia per Israele.

(Agenzia Nova, 11 agosto 2017)


Stretta di Abbas sul dibattito in siti web, alcuni legati a Dahlan

RAMALLAH - Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha bloccato i principali siti di dibattito e di notizie in Cisgiordania attraverso un decreto che di fatto consente a Ramallah di mettere in prigione chiunque danneggia l'unità nazionale. Il Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà dei media sostiene che nel mese di luglio sono stati chiusi 30 siti web, molti dei quali legati al nemico storico di Abbas, Muhammad Dahlan, ed al movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza, Hamas. Secondo quanto riferiscono alcuni attivisti, il decreto emesso senza che vi fosse un dibattito pubblico rappresenta un tentativo da parte di Abbas di limitare la libertà di espressione in Cisgiordania. Fonti dell'amministrazione giudiziaria palestinese sostengono che il provvedimento mira a perseguire penalmente i responsabili di reati informatici. E' proprio in virtù di questa legge che nei giorni scorsi sono stati arrestati cinque giornalisti palestinesi, accusati di lavorare per siti informativi legati ad Hamas. La stretta sulla libertà di espressione sul web stabilita da Abbas giunge in un momento in cui Hamas e Dahlan, esponente di Fatah, sembrano aver superato le loro antiche rivalità per avviare una "condivisione di potere" a Gaza a scapito proprio dell'anziano leader dell'Anp. I sondaggi rivelano che i due-terzi della popolazione palestinese vorrebbe le dimissioni di Abbas, eletto per cinque anni nel 2005, ma tuttora al potere a Ramallah a causa delle divergenze politiche con Hamas che hanno impedito le elezioni.

(Agenzia Nova, 11 agosto 2017)


Neda Amin, la giornalista dissidente iraniana, ringrazia Israele per averla salvata

di Riccardo Ghezzi

 
Neda Amin
Qualche ora dopo l'arrivo all'aeroporto di Ben Gurion, Neda Amin, giornalista e dissidente iraniana che temeva di essere deportata nel suo paese natale, ha ringraziato il governo israeliano per averla accolta, aggiungendo di avere radici ebraiche e che le piacerebbe vivere in Israele.
Durante la conferenza stampa presso gli uffici di The Times of Israel a Gerusalemme, Neda Amin - che ha collaborato regolarmente come blogger freelance per la versione persiana del Times of Israel - ha raccontato la sua angoscia dovuta al timore che la Turchia, dove ha vissuto come rifugiata dal 2014, l'avrebbe deportata in Iran.
Essendosi espressa in modo critico contro il regime, Neda Amin temeva di essere arrestata, torturata e addirittura uccisa se fosse stata costretta a tornare nella Repubblica Islamica dell'Iran.
"Sono molto felice. Israele è il mio paese" ha detto in inglese un po' stentato, aggiungendo che finalmente si sentiva "al sicuro" perché nessuno vuole "aggredirmi o arrestarmi qui".
Neda Amin, 32 anni, ha dichiarato di non avere progetti immediati ma che avrebbe cercato di soggiornare definitivamente in Israele, ottenendo la cittadinanza.
"Nel frattempo sono stata salvata, sono salva" ha detto in persiano, avvalendosi dell'aiuto di un interprete. "Se le autorità israeliane mi daranno il permesso, mi piacerebbe vivere qui, con tutto il cuore e l'anima mia. Se no, rispetterò la loro decisione".
Neda Amin ha rivelato che sua nonna paterna era ebrea e che lei si è sempre sentita attratta da Israele e dalla religione ebraica.
"Secondo la legge ebraica mio padre è considerato ebreo, ma secondo la legge islamica mio padre è considerato musulmano. Ma mio padre non credeva veramente nell'Islam, così ha anche studiato l'ebraismo" ha detto.
"Le mie radici sono un po' connesse all'ebraismo. Amo Israele dalla mia giovinezza. Non ho mai accettato tutti gli slogan anti-israeliani del regime. Ho sempre sognato di raggiungere Israele in qualche modo".
Neda Amin ha anche detto che le piacerebbe imparare la lingua ebraica "perché credo di avere un qualche legame con l'ebraismo e con Israele".
La giovane, quando era in Turchia, aveva invitato le Nazioni Unite a proteggerla e aveva anche invitato altre organizzazioni per i diritti umani ad intervenire in sua difesa.
"Quando la sua situazione è arrivata alla mia attenzione, appena due settimane fa, ne ho parlato con le autorità israeliane competenti" ha detto il direttore del Times of Israel, David Horovitz, che ha incontrato la giornalista iraniana dissidente in aeroporto. "Ho ritenuto che avevamo un obbligo - in particolare Times of Israel e lo Stato d'Israele in generale - di aiutare qualcuno che è in difficoltà, in parte anche a causa del suo legame con Israele".
La giovane si era rivolta anche ad altri paesi per chiedere aiuto, ma ha raccontato che tutti le hanno risposto di aspettare pazientemente.
"L'unico paese che ha agito in modo rapido è stato Israele" ammette Neda Amin. "Al contrario di tutte le cose che si dicono di Israele, specialmente in Iran, sulla presunta violazione dei diritti umani, ho visto che Israele ha intrapreso le misure necessarie per difendere i diritti umani, per salvare la vita di un essere umano".
Se fosse stata deportata in Iran, ha detto Amin, sarebbe stata sottoposta a "arresti, torture, stupri, e sarei stata costretta a confessare cose che non ho fatto".
Le persone accusate di collaborare con il "regime sionista" subiscono regolarmente tutto questo e alla fine vengono uccise. "Questo è ciò che mi ha spaventato".
"La maggior parte della mia famiglia ha interrotto i contatti con me a causa del mio legame con Israele" ha raccontato ancora la donna.
"Nel frattempo, la Turchia mi ha fatto sapere che mi avrebbe rispedito in Iran". "Sono stata spesso in pericolo e la mia vita è stata assai difficile, alla fine lo Stato di Israele mi ha dato un rifugio. Sono grata a David [Horovitz] per il suo aiuto".
Horovitz ha raccontato di aver compreso che Neda Amin si sentisse in pericolo perché aveva attaccato il regime di Teheran e perché la Turchia, dove ha cercato asilo, "sta cambiando" e avrebbe potuto espellerla. "C'era una scelta: non fare nulla o provare a salvarla. Non credo che avrei potuto perdonarmi se avessi saputo che la donna era a bordo di un aereo diretto in Iran".

(L'informale, 11 agosto 2017)


Appunti di Viaggio: Budapest, gioiello d'arte e storia

di Marinella Tumino

Per chi ama l'Arte ed è appassionato di Storia, Budapest, la chiassosa e vivace capitale ungherese, è di sicuro una città che può regalare preziose emozioni. Arte e Storia si intrecciano per le vie scandite dal querulo vociare dei turisti e per i quartieri scanditi dall'armonioso brio dei passanti. E' possibile apprezzare la semplicità dei suoi palazzi, l'eleganza delle caffetterie e dei viali, i vivaci colori del Mercato e la bontà dei suoi curiosi dolci. Ogni angolo della città, cullata soavemente dalle acque del Danubio e dall'ebbrezza del suono di violini, trasuda emozioni, lividi, ferite…
   Per chi come me è affascinato di Storia, in particolare di quella del Novecento, ricca di avvenimenti, puntellata da tragiche vicende che hanno sconvolto il mondo intero, può iniziare la visita dal Quartiere ebraico, chiamato Erzsébetvàros e collocato nel VII distretto della città, nel cuore pulsante della Pest più antica e vera, che narra ancora l'eco lontana di una storia tormentata. Visitando il quartiere si ha come l'impressione che qui il tempo si sia fermato, come se ancora risuonasse nell'atmosfera lo stesso vivace clima di un tempo, con gli ebrei, industriosi cittadini di Budapest, che hanno vissuto e lavorato per le sue vie, hanno cantato e danzato al ritmo di un'eufonica ballata che evoca quelle di Zitani e che alla fine, in questo stesso sito, hanno sopportato il dolore di una persecuzione immorale, segregati nel ghetto in condizioni impietose, ghetto sbaragliato dalla forza della storia, spettatore del conflitto sfiancante dei suoi abitanti.
   Il quartiere è un gioiellino variopinto, un piccolo e arcano scrigno dove primeggia la magistrale costruzione della Sinagoga, accanto alla quale è possibile visitare il Museo e il Cimitero ebraico ma anche il Giardino della Memoria che celebra le vittime della Shoah. Nelle foglie dell'Albero della vita, salice piangente in argento, opera di Imre Varga, sono stati incisi i nomi di tantissime vittime. Ogni foglia vuole ricordare la storia, le ambizioni, i progetti di uomini e donne le cui vite sono state letteralmente spazzate via come da una raffica di vento. Si ricordano anche con un peculiare monumento i "Giusti fra le Nazioni" che hanno rischiato la loro vita pur di salvare un consistente numero di ebrei perseguitati. Tra questi va rigorosamente ricordata la figura di Giorgio Perlasca che ha protetto, salvato e sfamato migliaia di ungheresi di religione ebraica accatastati in case protette lungo il Danubio. Non lontano dalla grande Sinagoga, si può far visita anche all'Holocaust Memorial Museum dove è possibile effettuare un percorso commovente nella storia degli ebrei ungheresi che durante il secondo conflitto mondiale si sono irrimediabilmente piegati al destino. Passeggiando sul lungo Danubio proprio sulla banchina, in prossimità del Parlamento è profondamente toccante la vista di una serie di scarpe. Sembrano lasciate li… quasi dimenticate, 60 paia di scarpe in bronzo che tolgono il respiro, trafiggono l'anima.
   È il memoriale dell'eccidio ebraico accaduto nell'inverno tra il '44 e il '45 del Novecento. Il Male in Ungheria aveva il nome di Croci Frecciate, così si identificava la milizia collaborazionista dei nazisti nel processo di deportazione e assassinio di migliaia di ebrei ungheresi. Dopo averli rinchiusi, imprigionati in casa loro, tra gli alti muri del ghetto, lasciati a morire di fame, freddo e malattia o deportati nei più vicini campi di concentramento, soprattutto ad Auschwitz, i "potenti di Budapest" decisero di uccidere le proprie vittime in città. Non si trattava di fosse comuni, piuttosto del Danubio che fu reso complice di tanto scempio. Martoriati, coartati, venivano poi trascinati sulle sponde di Pest e, con lo sguardo verso il fiume, defraudati delle proprie scarpe, bene inestimabile, emblema di fuga, di viaggio, di libertà, ma soprattutto di dignità. Venivano legati e annodati a gruppi di tre; solo chi capitava al centro era il predestinato a una morte istantanea con una pallottola e col peso inerme trascinava in acqua, a fondo, gli altri due. Nessuno era risparmiato.
   Nel 2005 le scarpe sono ricomparse lungo il Danubio grazie all'ambizione e al talento dello scultore Pauer Gyula perché nessuno potesse dimenticare. Lo sguardo cade inevitabilmente su quelle scarpe: alcune infiorate, altre contenenti preghiere, altre sassolini ed è un po' come se quelle anime smarrite peregrinassero ancora in eterno.
   Le lacrime, allora, scendono mute mentre il mormorio del fiume continua a cullare quelle voci…
   E il Danubio così come alcuni edifici in cui sono presenti schegge pockmarks sono testimoni anche del terrore che il Comunismo incosse sul popolo ungherese che nel '56 tentò di ribellarsi. Tuttavia, il Paese fu, ancora una volta, vittima che ha versato sangue innocente. Ne è spettatrice la Casa-museo del terrore (Terror Haza), situata in un imponente palazzo neo-rinascimentale sull'Andrassy Boulevard che collega downtown Budapest con Piazza degli eroi, una via elegante che rievoca i boulevard signorili francesi con un lontano sapore viennese. All'interno il visitatore viene condotto per mano coinvolgendolo in un percorso che disarma in toto il cuore…Il palazzo che ospita la casa-museo fu quartier generale prima dei Nazisti (nel 1944, quando la furia del regime impresse il suo definitivo scacco anche in Ungheria, diventò un sito di deportazione e tortura, cuore della vessazione nazista ungherese) e, successivamente, dei Comunisti (nel 1945, negli ultimi mesi della Soluzione Finale, fu convertito a sede del carcere sovietico e della polizia politica comunista, capeggiata da Gabo Peter, che divenne, insieme al Fürer ungherese Ferenc Szalasi del precedente regime, il regista pallido e macchinoso di una dittatura di sangue).
   Ed è forse il peso di una storia così travagliata ed insanguinata a rendere Budapest così speciale, quella Budapest che rinasce memoria per crescere libertà…
   Ma il bel Danubio blu, così lo definiva il grande Joahn Strauss nel suo famoso valzer, regala anche ben altre emozioni inconsuete …la crociera in battello, per esempio, è una sfiziosa chicca da non perdere assolutamente, specie all'imbrunire, mentre le stelle fanno a gara con le mille luci che sfavillano silenziosamente di notte danzando un valzer senza tempo.

(ondaiblea, 11 agosto 2017)


Guerra d'Indipendenza

di Michael Sierra

"Il contributo più grande della diaspora alla sopravvivenza dello Stato d'Israele", così li definì il primo Primo ministro israeliano David Ben Gurion. Era appena finita la Seconda guerra mondiale, erano tutti giovani, avevano attorno ai 20 anni, e arrivavano da paesi diversi e parlavano lingue diverse. Tra loro c'erano anche Graziano Terracina, David Pavoncello e Franco Veneziani.
Nel Marzo del 1947, dopo il conflitto e dopo un anno di servizio militare di leva in Italia, Graziano, David e Franco decisero di partire verso Erez Israel allora sotto Mandato britannico.
Erano gli anni del Libro Bianco che limitava l'immigrazione degli ebrei, ma i tre riuscirono ad ottenere i documenti falsi. Graziano ha raccontato che il suo era di un ebreo polacco morto nei campi di sterminio e, dopo essere partiti sulla nave 'Hatzmaut' da Venezia, riuscirono ad eludere i controlli britannici.
Graziano David e Franco si arruolarono nel Palmah che confluì nella Brigada Ha Neghev, che combatté insieme ai fuoriusciti della Legione Straniera francese e spagnola inquadrati nell'esercito israeliano.
Vennero addestrati all'uso delle armi che erano in dotazione al neonato Zahal, fra cui anche il moschetto 91 italiano della Prima guerra mondiale, e combatterono nelle battaglie di Yafo Ghibbelia, Castina e Al Faluja.
Ad Al Faluja Franco Veneziani perse la vita in battaglia e Graziano Terracina rimase ferito e venne portato all'ospedale di Beer Yakov per una decina di giorni.
Non avendo sue notizie, l'ufficiale che comandava l'unità lo considerò morto in combattimento e sepolto in località sconosciuta, la notizia arrivò ai famigliari a Roma. Impossibile immaginare la loro gioia quando si scoprì che la notizia era falsa.
Dopo essere tornato al reparto, Graziano prese parte ad altri scontri a fuoco nel deserto del Negev fino alla completa liberazione di Beer Sheva.
Alla fine della guerra Graziano Terracina e David Pavoncello sfilarono a Tel Aviv nella parata militare della vittoria e, una volta congedati, nel 1950, tornarono in Italia.
Ho avuto l'onore di presentare Graziano Terracina insieme al figlio giornalista, Michael Sfaradi, all'evento organizzato in occasione di Yom Yerushalaim dalla Giovane Kehilà.
Il giorno successivo l'ho presentato ai soldati della mia unità e in entrambe le occasioni, a Graziano fu chiesto il perché lui e suoi amici scelsero di combattere.
Mentre non ricordava bene il nome dell'ufficiale o altri dettagli tecnici, su questa domanda non ha avuto dubbi: "era il nostro dovere e la cosa giusta da fare".
Da ricordare che la legge che prevede il servizio di leva obbligatorio in Israele fu approvata nel 1949, una anno dopo l'arruolamento volontario di Graziano.
Dopo quasi settanta anni è arrivato per mio fratello il momento di arruolarsi e, pur essendo io stesso soldato israeliano ben abituato alla realtà in cui viviamo in Israele, non ho potuto non riflettere su tutto ciò che ruota intorno al servizio militare e alla difesa di Israele.
Arrivato il giorno dell'arruolamento, l'ho accompagnato a Givat Ha-tachmoshet dove si è svolta nel 1967 una delle battaglie più importanti della Guerra dei Sei giorni che contribuì alla liberazione di Gerusalemme, battaglia che purtroppo costò la vita a 71 soldati.
Mio fratello era stato nello stesso luogo tre anni prima, in occasione del mio arruolamento. Si tratta di un posto che ha un significato storico importante perché proprio lì venivano tenute nascoste le armi durante il mandato britannico, mandato che non si faceva scrupolo di limitare anche l'aliyah degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio. E proprio in quel punto, dopo l'invasione del 1948, i giordani costruirono un avamposto militare.
Oggi a Givat Ha-tachmoshet, si uniscono famiglie di tutta le fasce socio-economiche, etniche e culturali, insieme ai loro figli e i "soldati soli" provenienti da tutto il mondo e adottati dalla società israeliana, per salire sull'autobus verso il distretto d'arruolamento.
E salutando mio fratello che partiva per i suoi tre anni di leva obbligatoria, ho pensato ai soldati caduti, al significato di Yom Yerushalaim e a Graziano.
Proprio in quel luogo ho capito il vero significato di quello che intendeva quando diceva che la sua scelta era: "Il nostro dovere e la cosa giusta da fare".

(moked, 11 agosto 2017)


Intervista a Graziano Terracina


Per il 67% degli israeliani Netanyahu dovrebbe autosospendersi se imputato

Sondaggio del 'Jerusalem Post'

Il 67% di un campione ritiene che il premier Benyamin Netanyahu dovrebbe autosospendersi se dovesse essere imputato dalle indagini in corso della magistratura. Lo indica un sondaggio pubblicato oggi dal quotidiano 'Jerusalem Post' secondo cui i 2/3 degli interrogati si sono dichiarati a favore di questa ipotesi mentre la restante quota si è espressa negativamente. Se si analizzano all'interno del campione i sostenitori del Likud (il partito del premier) la divisione è più fragile: 56% contro la sospensione, 53% a favore. Tra gli elettori di sinistra, l'80% è decisamente per l'autosospensione di Netanyahu. Il quotidiano Maariv ha invece pubblicato un sondaggio sull'incidenza delle indagini della magistratura se si dovesse andare al voto oggi: il Likud perderebbe 5 seggi scendendo così a 25 mentre salirebbe il partito centrista di Yair Lapid ('C'è futuro') che passerebbe da 11 a 21 seggi.

(ANSAmed, 11 agosto 2017)


"Pur con leader deboli vedrete che alla fine troveremo un intesa

Parla Aharon Appelfeld, scrittore israeliano fuggito da bimbo al lager nazista: "Ho fiducia per il futuro nostro e per quello dei palestinesi'

di Antonello Guerrera

 
Aharon Appelfeld
Aharon Appelfeld, 85 anni, è a casa sua, a Gerusalemme, e fatica a parlare a causa di una recente frattura alla gamba. Ma la sua voce, nonostante tutto, batte forte come il suo cuore. Sfuggito alla furia nazista da bambino e arrivato da profugo a Napoli dopo la Seconda guerra mondiale prima di trasferirsi in Israele, Appelfeld è coscienza e memoria viva di Israele, dell'Olocausto e di tutte le barbarie del mondo cui è sopravvissuto. La sua vita è un drammatico romanzo, anzi molti romanzi, come tutti quelli che ha pubblicato nei decenni in ebraico, da Il ragazzo che voleva dormire a Badenheim 1939, fino all'ultimo Il Partigiano Edmond (pubblicati da Guanda). Appelfeld, il "figlio dello spaesamento" come l'ha definito Philip Roth, segue con interesse la politica israeliana e palestinese, che oggi attraversano un momento particolare. Come il presidente Abu Mazen, che da tempo non sembra più controllare l'Autorità palestinese e perde sempre più consenso, il premier israeliano Netanyahu per la prima volta sembra in grossa difficoltà: regali ricevuti (tra cui sigari e champagne di classe da imprenditori e produttori) che i magistrati sospettano siano il prezzo di suoi favori politici, manovre atte a «sfavorire i media a lui ostili», ex collaboratori nei guai per corruzione e truffa.

- Appelfeld, in Israele, dopo tre mandati consecutivi, ci si chiede: «C'è vita oltre "Bibi"?»
  «Tutti i politici possono essere sostituiti nella vita, anche Netanyahu. Certo, Bibi ha fatto delle cose non consone: un primo ministro non dovrebbe accettare regali di ogni sorta. Ma certo, dire che è un criminale ce ne passa».

- C'è davvero una caccia alle streghe, come dice il premier?
  «Le accuse contro di lui sono state di sicuro esagerate da diversi giornalisti, cui non piace un uomo forte come Netanyahu. Che non è un tiranno, come dicono».

- E se dovesse comunque cadere? Alcuni in Israele temono il caos, visto che non ci sono altre figure per colmare il vuoto politico che lascerebbe.
  «Non ci sarà alcun caos. Israele è una democrazia parlamentare solida, anche se il Paese è diviso a livello politico. Non temo l'estrema destra di Bennett e Lieberman. Dopo Netanyahu, verrà un governo di centro che metterà d'accordo più partiti. In Israele conosciamo bene l'arte del compromesso politico».

- Compromesso che però non si riesce a trovare con i palestinesi, il cui leader, Abu Mazen, è tra l'altro in grossa difficoltà.
  «È vero, non ci sono leader in salute oggi, neanche in Israele. Ma in questa lunghissima questione israeliani e palestinesi possono fare comunque ben poco da soli, qualunque leader li guidi, forte o debole che sia, come la Storia ci ha dimostrato. Solo gli Stati Uniti possono aiutarci».

- Però l'America di Trump non sembra avere le idee chiare, come si è visto sul dibattito dei due stati e il ping pong sul trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme.
  «Ha ragione, l'America oggi non è un Paese stabile. Ma resta l'unica nazione che può rimetterci sulla strada della razionalità, come in Cisgiordania, dove da solo Israele non ha le capacità né economiche né umane di trovare un accordo sulle colonie. E aspetterei a giudicare Trump».

- Perché?
  «La sua caratura potremo giudicarla solo tra qualche anno. E poi, vista l'instabilità generale dell'area, stavolta ci saranno anche Paesi arabi interessati alla pace tra Israele e Palestina».

- Con quale soluzione? Una o due Stati?
  «Non conta, per me possono essere anche tre, se consideriamo i palestinesi in Giordania».

- La Turchia e altri stanno cercando di approfittare delle esitazioni americane.
  «È vero. Io spero solo che queste intromissioni non favoriscano gli attentati di gruppi terroristici come Hamas».

- Appelfeld, lei è ottimista sul futuro di Israele e dei palestinesi?
  «Assolutamente sì. Lo dico per mia esperienza di vita, ma non solo. Israele, se non avesse la speranza, non resisterebbe neanche una settimana».

(la Repubblica, 11 agosto 2017)


Tombe profanate, il caso in Campidoglio

Polemiche dopo la denuncia de Il Tempo delle lapidi ebraiche ancora distrutte I Consiglieri Fdi Figliomeni e De Priamo: «La Raggi si attivi immediatamente»

di Pietro De Leo

 
La problematica sollevata ieri da Il Tempo sulle tombe ebraiche al Verano ha suscitato reazioni nella politica locale. L'antefatto, in sintesi, è questo: nello scorso maggio un raid ad opera di un gruppo di adolescenti ha portato al danneggiamento, nel cimitero principale di Roma, di una settantina di tombe, la maggioranza delle quali nel settore ebraico.
Ora, a distanza di tre mesi, le sepolture non sono ancora state ripristinate, e la scena di lapidi e addobbi funerari distrutti è struggente sia per la memoria dei defunti che per la dignità delle famiglie.
   Dopo circa cento giorni dall'accaduto e un confronto avviato tra Comunità Ebraica e Comune, ancora non è stata trovata una soluzione. Ama, interpellata dal Tempo sull'argomento, ha spiegato che a settembre sarà avviata un'attività di ricognizione per quantificare i danni. L'azienda, inoltre, ha fatto sapere di aver avviato un'azione risarcitoria sui responsabili del gesto. Ieri, però, la vicenda ha suscitato le reazioni di esponenti di Fratelli d'Italia al Campidoglio, che hanno puntato il dito, più in generale, sullo stato in cui versano i cimiteri della Capitale. Il Consigliere comunale di Fdi Francesco Figliomeni sottolinea come «il degrado che investe la Capitale lo troviamo specularmente uguale nei cimiteri capitolini».
   E prosegue: «L'ennesimo grido d'aiuto proviene dalla Comunità ebraica di Roma, in merito alla distruzione di circa una settantina i tombe all'interno del Cimitero Monumentale del Verano, in gran parte nel settore ebraico, che da quando sono state profanate a maggio, aspettano che il Comune intervenga per il ripristino delle strutture originarie». Figliomeni, poi, ricorda il dossier del Comitato Tutela Cimiteri, in cui si denunciava «lo stato di incuria in cui versano, tra vegetazione incolta, rifiuti lasciati tra le tombe, manufatti scultorei divelti, fontane che non erogano acqua, il guano degli uccelli che ricopre le tombe oltre alla scarsa sicurezza tra furti e atti di vandalismo». Sul punto interviene anche il Vice Presidente dell'Assemblea Capitolina, e consigliere Fdi, Andrea De Priamo: «A distanza di tre mesi dalla profanazione di numerose tombe ebraiche nel cimitero Verano, l'Amministrazione capitolina non ha vergognosamente operato alcun intervento di bonifica sulle medesime, mancando di rispetto in particolare alla Comunità Ebraica. La Raggi - chiede De Priamo - chieda quindi scusa e intervenga immediatamente». Il Consigliere Fdi ricorda: «Recentemente abbiamo ricevuto risposta ad una interrogazione con la quale segnalavamo tra le altre cose le indecenti condizioni di lavoro dei lavoratori ex Multiservizi che non hanno neanche a disposizione i bagni e gli spogliatoi in quanto parzialmente guasti. Ama - prosegue - ha deciso di prorogare affidamenti assegnati al massimo ribasso ed i risultati sono evidenti a tutta la città. Una capitale che non riesce a preservare dal degrado nemmeno luoghi sacri come i cimiteri».

(Il Tempo, 11 agosto 2017)


Le Comunità ebraiche: «No al ricordo della Rsi»

L'Ucei scrive al sindaco: la manifestazione della destra a Trespiano è una provocazione che va contrastata

di Valentina Marotta

«La manifestazione dell'estrema destra in ricordo della Repubblica sociale italiana è una provocazione, l'ennesima in questa estate già segnata da vari episodi di apologia del regime fascista che ci auguriamo possa essere contrastata nei modi più opportuni dalle istituzioni». Dopo l'Anpi, a lanciare l'allarme sono anche Dario Bedarida, presidente della Comunità ebraica di Firenze, e Noemi Di Segni, a capo dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che firmano una lettera al sindaco Dario Nardella.
   Una città, due manifestazioni per l'11 agosto. La martinella in Palazzo Vecchio segnerà l'inizio delle celebrazioni per la Liberazione di Firenze dai nazifascisti e, nelle stesse ore, una corona di fiori sarà deposta dagli esponenti della destra al sacrario di Trespiano per ricordare i caduti della Rsi, secondo quella che gli stessi esponenti dell'estrema destra definiscono «una tradizione».
   «Il rispetto è dovuto a tutti i morti - prosegue la nota delle Comunità ebraiche - ma non possono essere tollerate manifestazioni celebrative di gruppi che tanto lutto e dolore hanno portato a tutta Italia. Oggi più che mai un concetto deve essere affermato: in un'epoca di scelte decisive per il futuro dell'umanità ci fu chi entusiasticamente abbracciò odio, violenza e sangue. Il ricordo di questi individui, che si sono macchiati consapevolmente dei crimini più efferati, non può e non deve in alcun modo confondersi con il senso e il valore più autentico di ricorrenze fondamentali per la coscienza democratica del paese».
   La memoria è importante, ricordano gli esponenti della comunità ebraica. Non a caso. Nei giorni scorsi, sono rimbalzate dal web alle pagine dei quotidiani le immagini dei bambini che alzano la bandiera e intonano canti del ventennio fascista nella colonia estiva di Forza Nuova intitolata a «Evita Peron» a Catania. A Chioggia, il gestore della spiaggia «Punta Canna», ha trasmesso dagli altoparlanti discorsi inneggianti al regime ed esposto nel lido cimeli e gadget fascisti. Anche per questo, nei giorni scorsi, l'Anpi aveva sollecitato con una lettera al sindaco Nardella, al prefetto Giuffrida e al questore Intini che la manifestazione non avesse luogo. I consiglieri comunali della Sinistra Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella Verdi avevano invece chiesto di dichiarare «illegale una manifestazione che è contro la storia e la Costituzione oltre a essere un oltraggio alla memoria».
   È la vicesindaco Cristina Giachi a rispondere per il Comune: «Nessun problema se si tratta di una celebrazione di tipo cimiteriale, una deposizione di fiori o una corona di fiori. Ma non si deve eccedere. Ci sarà un presidio che vigilerà affinché non ci siano apologie. Del resto, il valore della Resistenza e il ruolo della nostra città è consegnato alla storia e non c'è celebrazione che possa scalfire l'importanza della liberazione di Firenze».

(Corriere Fiorentino, 11 agosto 2017)


L'antifascismo non è un tema esclusivamente ebraico. Che l’Unione delle Comunità Ebraiche protesti perché l’Anpi voleva proiettare a Biella il film“Israele, il cancro” è comprensibile ed è di fattoavvenuto; che si accodi alla protesta dell’Anpi contro la celebrazione del fascismo è certamente lecito ma può anche essere un’inutile sovraesposizione. Continuare a bacchettare le istituzioni alla lunga può diventare fastidioso e controproducente. M.C.


Giocano contro una squadra israeliana: radiati dall'Iran

Due giocatori iraniani del Panionios non giocheranno più con la loro Nazionale. Motivo? Essere scesi in campo contro il Maccabi Tel Aviv in E. League.

 
Ehsan Hajsafi e Masoud Shojaei
Nella tesa situazione internazionale di questi tempi, anche una partita giocata può costare caro. E' quello che è successo a Ehsan Hajsafi e Masoud Shojaei, rispettivamente difensore e centrocampista della Nazionale iraniana e della squadra greca del Panionios, sorteggiata con gli israeliani del Maccabi Tel Aviv nel secondo turno preliminare di Europa League.
   Stante la pesantissima tensione esistente da anni tra Israele e Iran (per l'Iran, giocare contro Israele o squadre israeliane equivale a riconoscere lo Stato ebraico), i due giocatori iraniani per scelta personale avevano deciso di non seguire la loro squadra nella gara d'andata a Tel Aviv, rendendosi però disponibili a giocare la gara di ritorno in Grecia, cosa che effettivamente era poi avvenuta. Nonostante la doppia sconfitta per 0-1 e la conseguente eliminazione, la loro partecipazione all'incontro si era guadagnata il plauso del ministro degli esteri israeliano, che aveva lodato il gesto di distensione con un tweet in lingua farsi.
   La cosa però non è stata accolta allo stesso modo dalle autorità iraniane. Il ministro dello sport Mohammed Reza Davarzani ha infatti dichiarato alla TV di Stato:
    "Ehsan Hajsafi e Masoud Shojaei non hanno più il loro posto in seno alla nazionale dell'Iran in quanto hanno violato una grave regola interna riguardante il loro paese. Negli ultimi 38 anni, da quando è stata creata la Repubblica Islamica, nessuno dei nostri sportivi aveva mai accettato di affrontare dei rivali del regime sionista (Israele), nemmeno ai Giochi Olimpici [...] Due giocatori hanno ignorato questa politica per il fatto che hanno un contratto in essere con un club, ma come la mettiamo con il loro impegno nei confronti della grande nazione iraniana?".
Le conseguenze per i due giocatori consistono così nell'esclusione perpetua dalla propria Nazionale. In Iran intanto il Ministro degli Esteri ha proposto di far introdurre nei contratti dei calciatori iraniani all'estero una clausola che vieti esplicitamente la loro partecipazione a partite contro squadre israeliane. La strada per la pace, o quantomeno per un po' di ragionevolezza, è insomma ancora molto lontana.

(Goal.com, 11 agosto 2017)

"Ho una proposta: Betlemme capitale della Palestina"

"Vediamo se il mondo cristiano sarà disposto ad accettare che il luogo natale di Gesù vanga trasformato nella capitale di coloro che ne hanno cacciato la popolazione cristiana"

Il mondo si è rivelato assai miope quando ha accettato di dichiarare che il sito del Tempio di Gerusalemme e il Muro Occidentale, ultimo resto dei contrafforti del Monte del Tempio, sono islamici e non fanno parte di Israele. Si sa che i palestinesi rivendicano Gerusalemme come loro capitale e il mondo, con queste scelte, sembra volerli assecondare. Ho una soluzione migliore da proporre: facciamo che sia Betlemme la loro capitale.
I palestinesi non perdono occasione per raccontare al mondo quanto abbiano a cuore il luogo di nascita di Gesù, che loro definiscono "un messaggero palestinese". E sostengono di avere molto a cuore la cristianità, anche se la popolazione cristiana di Betlemme, da schiacciante maggioranza che era nel 1995 quando Israele in un gesto di pace ne cedette il controllo a Yasser Arafat, è precipitata al 12% di oggi. I palestinesi sostengono che questa fuga dei cristiani da Betlemme è stata causata dalla barriera di sicurezza israeliana. Ma non è un po' strano che, nello stesso periodo, la popolazione musulmana aumentasse? A sentire la loro propaganda, la barriera di sicurezza funziona come un curioso strumento di pulizia etnica altamente selettivo contro i soli cristiani. Una evidente stupidaggine. Secondo le statistiche, la popolazione di Betlemme è cresciuta dai 14.439 abitanti del 1967 agli oltre 27.000 di oggi. Quello che è cambiato è l'equilibrio demografico interno: molti meno cristiani, molto più musulmani. E molto più peso degli estremisti di Hamas....

(israele.net, 10 agosto 2017)


Gaza: Israele procede nei lavori per la barriera difensiva in cemento

Incuneata sotto terra ed alta 6 metri contro tunnel Hamas

TEL AVIV - Israele sta procedendo a ritmo serrato nella costruzione, lungo la frontiera con Gaza, della barriera difensiva di cemento, profondamente incuneata sotto terra, con l'obiettivo di contrastare i tunnel scavati da Hamas per colpire lo stato ebraico. "Credo che l'altra parte - ha detto il generale Eyal Shamir, comandante del fronte sud - debba riconsiderare la situazione alla luce di questo". La costruzione - ha spiegato ai media - "sarà completata" anche se Hamas tenterà di colpire i lavori e in presenza di un'eventuale "escalation" della situazione.
Il progetto, dal costo stimato di 3 miliardi di shekel (746 milioni di euro circa), include un muro di cemento equipaggiato di sensori, profondo dozzine di metri ed alto 6 metri dal suolo.
Allo stato attuale i lavori sono concentrati in sei punti lungo la frontiera: da ottobre prossimo saranno mille gli addetti ad operare in 40 punti 24 ore al giorno, escluso il sabato. L'esercito ha mostrato ai media foto di edifici, anche civili, che si ritiene Hamas usi come ingressi ai tunnel.

(ANSAmed, 10 agosto 2017)


Anche Israele vuole chiudere Al Jazeera

L'emittente è presa tra due fuochi, dopo la fatwa dei paesi arabi

Continua a essere un'estate molto difficile per Al Jazeera: adesso l'emittente qatariota rischia la chiusura anche in Israele. L'accusa, rivolta in particolare all'ufficio di corrispondenza a Gerusalemme, è di fomentare la violenza nel già infuocato conflitto israelo-palestinese. Il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu ha precisato le modalità con cui intende procedere alla chiusura della tv fondata dall'emiro del Qatar nel 1996 e oggi sparsa nel mondo con un network redazionale di 80 uffici. Le misure riguarderanno in particolare il blocco delle trasmissioni satellitari e via cavo, la cancellazione di ogni accredito stampa per i suoi giornalisti e nessuna possibilità di ottenerne altri in futuro, la chiusura degli stessi uffici a Gerusalemme e, non da ultimo, la limitazione delle trasmissioni verso la maggior parte della comunità araboisraeliana.Oggi, quindi, Al Jazeera si trova presa tra due fuochi dopo che, a fine giugno, sono stati per primi i paesi del Golfo persico (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain ed Egitto) a lanciare la loro fatwa per motivi geopolitici contro il Qatar, chiedendo tra l'altro la chiusura di Al Jazeera rea di propagandare sia gli interessi nazionali dell'emiro sia le posizioni dei Fratelli musulmani, definita una «organizzazione terroristica» (vedere ItaliaOggi del 24/6/2017). Ora ci si mette anche Israele che, secondo alcune interpretazioni, serra i ranghi con i nemici arabi di sempre per poter chiedere in cambio l'allontanamento delle posizioni arabe più radicali, come già richiesto dal presidente americano Donald Trump durante la sua ultima visita nella regione.
   Al momento Al Jazeera non ha ancora chiuso a Gerusalemme né sarà una questione immediata, vista l'opposizione interna di parte dell'opinione pubblica. Per di più, e questo non aiuterà di certo a rasserenare il clima internazionale, la stessa tv qatariota è scesa in campo con una campagna virale, legata all'hashtag social #DemandPressFreedom (in italiano: pretendi la libertà di stampa). Almeno in Israele comunque (mentre altri paesi del Golfo hanno già fatto chiudere distaccamenti vari dell'emittente), Al Jazeera può contare sul fatto che il suo segnale arriva nelle case palestinesi attraverso antenne satellitari private su cui il governo ha ben poco controllo.

(ItaliaOggi, 10 agosto 2017)


Firenze - E gli ebrei si ritrovarono in una stanza in via delle Oche

La sinagoga minata, i primi abbracci tra i superstiti. E il libro della Torah preso «in prestito».

di Adam Smulevich

Via delle Oche, Firenze. Al secondo piano di questo edificio, che oggi ospita un hotel, si trovava l'oratorio che dopo la Liberazione supplì alla Sinagoga, a quel tempo minata dai tedeschi.

Oggi è un luogo quasi dimenticato, su cui difficilmente si posa lo sguardo se non si ha una consapevolezza alle spalle. Una targa ricorda ciò che fu, la fondamentale funzione assolta nei giorni in cui speranza e fiducia tornarono a pulsare nei cuori. Ma bisogna arrivarci preparati, essere pronti ad alzare lo sguardo.
Eppure al secondo piano del civico 5 di via delle Oche, dove oggi c'è l'hotel Benivieni ci si dava appuntamento per scrivere una piccola pagina di storia. Fu infatti in quell'edificio in pieno centro che nell'agosto del 1944 accorsero per la prima volta gli ebrei fiorentini desiderosi di rincontrarsi e riabbracciarsi dopo mesi di angoscia. Non lontano da Iì, a Liberazione in corso, ancora si sparava.
   Inagibile la grande sinagoga di via Parini, depredata dei suoi arredi e poi minata dai nazisti, fu del tutto spontaneo salire le scale e varcare la soglia di quel piccolo oratorio, istituito nell'Ottocento dalla confraternita «Mattir Asurim» (già attiva ai tempi del Ghetto) e rimasto in funzione fino al 1962.
   «Qui nell'agosto 1944 gli ebrei fiorentini si ritrovarono a ringraziare l'Eterno per l'avvenuta Liberazione» recita la targa, posta nel 1980 su iniziativa della Comunità ebraica stessa.
   In quell'estate di libertà ai fiorentini salvatisi dalle persecuzioni mancava un po' tutto. A partire dal rabbino, la figura essenziale di riferimento. Nathan Cassuto, la guida dei mesi più difficili, in agosto sta ancora lottando per la sopravvivenza in un lager (da cui non farà ritorno). A mancare però non sono solo i riferimenti morali, insieme a centinaia di correligionari inviati all'inferno. Nell'oratorio non c'è ad esempio traccia di un Sefer Torah, il libro della Torah indispensabile per fare di un luogo di ritrovo una sinagoga. Come ha ricostruito l'allora ventenne Gaio Sciloni, futuro traduttore di tanta letteratura israeliana di successo, erano stati nascosti in una villa a Fiesole, oppure ancora in cantine, pozzi e in altri luoghi difficilmente alla portata della furia nazista ma ancora non del tutto sicuri. Fu così che a Sciloni venne un'intuizione, che confidò al futuro rabbino capo Fernando Belgrado ( che allora deteneva il titolo minore di maskil): alla Biblioteca Nazionale era conservato un Sefer. Se fosse o meno «casher», cioè adatto all'uso, lo si sarebbe stabilito poi. «Così - ha raccontato Sciloni, in una memoria recuperata da Sara Valentina Di Palma - andai alla Nazionale, il cui bibliotecario era il mio vecchio professore di matematica al liceo Michelangiolo, il quale mi dette questo Sefer Torah, che portai in braccio, in mezzo al fischiare delle pallottole, sino in via delle Oche».
   Umberto Di Gioacchino, uno degli archivisti della Comunità, estrae dagli scaffali il verbale relativo alla prima riunione della dirigenza comunitaria ( che avvenne in un locale in via Cavour). La data è la stessa in cui la Torah torna in via delle Oche: 25 agosto 1944. Tra i punti urgenti all'ordine del giorno, a testimonianza della voglia di ripartire subito con slancio, c'è la nomina dell'amministratore dell'oratorio. Per diversi mesi inoltre, in quegli ambienti ( di cui restano intatte le scale, mentre il salone dopo un restauro è stato suddiviso in varie stanze), gli ebrei fiorentini affronteranno la gioia della libertà ritrovata, il lutto per la barbara uccisione di tanti familiari e amici, gli alti e bassi di un futuro tutto da costruire. Sempre in via delle Oche si terrà uno dei primi matrimoni ebraici del dopoguerra. A promettersi amore eterno, nel dicembre del 1946, sono l'italiana Adele Lascar e il militare statunitense Sidney Levine.

(Corriere Fiorentino, 10 agosto 2017)


Trattativa segreta tra Usa, Russia e Israele sulla Siria

di Rosalba Castelletti

MOSCA - Non solo Ginevra o Astana. Un'altra iniziativa per la pace in Siria sarebbe stata promossa da Russia, Usa e Israele. Secondo un'esclusiva di Haaretz, a inizio luglio emissari dei tre Paesi avrebbero tenuto colloqui segreti ad Amman, in Giordania, e in una capitale europea. L'obiettivo era un cessate-il-fuoco e la creazione di zone di de-escalation in Siria. Ma non si è trovato l'accordo. Mentre Mosca e Washington sottolineavano l'importanza di stabilizzare la regione, Israele insisteva sulla necessità che le Guardie rivoluzionarie iraniane, Hezbollah e le milizie sciite lasciassero la Siria. Da qui lo stupore d'Israele, riferisce Haaretz, nel vedere Usa e Russia annunciare 1'8 luglio al G20 ad Amburgo l'intesa sul cessate-il-fuoco. Ma soprattutto il «forte disappunto» nell'osservare che l'accordo non menzionava l'Iran. Non sembra casuale che la rivelazione sia arrivata ieri, mentre i rappresentati di Russia, Turchia e Iran, la troika che ha promosso i colloqui di Astana, s'incontravano per la prima volta a Teheran. Scegliendo l'Iran come sede del sesto round di negoziati, Mosca aveva cercato di legittimare Teheran, ma a quanto pare ha ulteriormente innervosito Israele.

(la Repubblica, 10 agosto 2017)


Dubbi sulla scoperta del "villaggio degli apostoli"

Gli archeologi hanno forse individuato, sulle rive del Lago di Tiberiade, la città degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo. Ma solo ulteriori scoperte potranno confermarlo.

di Kristin Romey

 
Una veduta aerea degli scavi di El-Araj, forse l'antica città di Betsaida-Julia e villaggio in cui ebbero i natali tre degli apostoli di Gesù.
Il "villaggio perduto degli apostoli di Gesù" è stato ritrovato, secondo quanto affermato dal quotidiano israeliano Haaretz. Eppure, nonostante la scoperta non sia così eccezionale come molte testate lasciano intendere, i nuovi ritrovamenti stanno alimentando un interessante dibattito sul luogo in cui si trova una delle più importanti città citate nel Nuovo Testamento. Ecco cosa è noto finora:

- È fondata la notizia del ritrovamento del "villaggio degli apostoli" di Gesù?
  No, secondo un docente di Geografia storica che ha lavorato agli scavi nella località di El-Araj, situata presso la riva settentrionale del Lago di Tiberiade, sul delta del Giordano.
  "Non siamo stati noi a dare la notizia sui giornali", spiega a National Geographic Steven Notley, professore autorevole di Nuovo Testamento e Origini del Cristianesimo al Nyack College di New York e direttore accademico degli scavi di El-Araj.
  Piuttosto, i ricercatori che lavorano agli scavi nel sito dal 2016 sono alla ricerca delle tracce di Betsaida, città dove, secondo quanto affermato nel Nuovo Testamento, ebbero i natali gli apostoli Pietro, Andre e Filippo.
  Secondo i Vangeli, Betsaida era il villaggio dei primi apostoli e il luogo in cui Gesù compì il miracolo della guarigione di un cieco.
  Se Cafarnao - un altro villaggio di pescatori situato della Galilea, spesso citato nei Vangeli - è stato scoperto agli inizi del XX secolo, Betsaida è a lungo rimasta oggetto di dibattito.

- Dunque, cos'è stato effettivamente scoperto di così importante?
  Gli archeologi hanno dichiarato di aver scoperto a El-Araj un bagno pubblico di epoca romana (risalente al periodo compreso fra il I e il III secolo d. C.), che potrebbe costituire la testimonianza di un significativo insediamento urbano, molto probabilmente dell'antica Betsaida.
  Alla fine del I secolo d. C., lo storico romano di origine ebraica Flavio Giuseppe spiegava nei suoi scritti come il piccolo villaggio di Betsaida, nel 30 d. C., durante il regno di Filippo, fosse diventata una polis greco-romana. Filippo, figlio di Erode il Grande, la rinominò Julia in onore della madre dell'imperatore romano Tiberio (Livia Drusilla Claudia, conosciuta anche come Giulia Augusta) e si fece seppellire lì dopo la sua morte.
  "Il bagno pubblico dimostra l'esistenza di una cultura urbana", dichiara al quotidiano israeliano Haaretz Mordechai Aviam, del Kinneret Institute for Galilean Archaeology, direttore degli scavi.

- Ma non esiste già un sito chiamato Betsaida nella zona?
  Sì. Dal 1839, il sito vicino di E-Tell è stato individuato come possibile luogo in cui era situata l'antica Betsaida - Julia. Gli scavi a E-Tell, a opera del Betsaida Excavations Project, che vanno avanti dal 1987, hanno portato alla luce importanti fortificazioni risalenti all'Età del ferro (IX secolo a. C.), oltre ad abitazioni del periodo greco (II secolo a. C.) e romano contenenti attrezzi da pesca - come ancore di ferro e ami - e ai resti di quello che potrebbe essere un tempio romano.
  Tuttavia, molti archeologi hanno messo in discussione la corrispondenza fra E-Tell e la città di Betsaida menzionata nel Nuovo Testamento, sostenendo che il sito sia troppo lontano (circa 2,41 chilometri) dalla costa per essere stato un centro dedito alla pesca. Inoltre, alcuni ritengono che i resti romani rinvenuti lì nel corso degli scavi durati trent'anni sono di modesta entità per appartenere a una città grande e importante del tempo.
  "Se i resti dell'Età del ferro a Betsaida sono imponenti e notevoli, quelli d'epoca romana sono esigui, e dunque il sito non sembra essere un centro urbano", afferma Jodi Magness, archeologo e beneficiario di una borsa di studio di National Geographic.
  Contestualmente, Rami Arav, direttore del Betsaida Excavations Project a E-Tell, spiega a National Geographic che non ci sono prove sufficienti per associare El-Araj all'antica città e neanche per documentare l'esistenza di un precedente villaggio ebraico di pescatori.

- Allora perché i giornali parlano di "villaggio degli apostoli"?
  Oltre ai resti del bagno pubblico di epoca romana - tra cui un pavimento a mosaico, tegole e condutture - a El-Araj gli archeologi hanno scoperto testimonianze di muri e mosaici in vetro dorato del V secolo, che suggeriscono l'esistenza di una chiesa di grande interesse situata lì nel periodo tardo-bizantino. Tali mosaici compariranno solo in "chiese importanti e riccamente elaborate", osserva Notley.
  Lo studioso sostiene si possa trattare della chiesa descritta in un racconto dell'IIX secolo di Villibaldo di Eichstätt, vescovo bavarese di Eichstätt, che viaggiò nella regione intorno al 725, riferendo che a Betsaida era stata costruita una chiesa sulla casa dell'apostolo Pietro e del fratello Andrea.
  Gli archeologi al lavoro a El-Araj si chiedono se si trovino di fronte a un caso simile a quello della vicina Cafarnao, dove fu costruita una chiesa bizantina su un sito tradizionalmente associato all'apostolo Pietro. Nel 1968, gli archeologi hanno scoperto evidenze di una casa di epoca romana sotto la chiesa bizantina, che alla fine del I secolo si era nel frattempo trasformata in un centro condiviso di venerazione.
  Notley avverte che finora sono stati compiuti scavi solo in una piccola area di El-Araj, e che le future campagne di scavo riveleranno maggiori dettagli sulla storia del sito e della sua possibile corrispondenza con l'antica Betsaida, villaggio biblico degli apostoli.
  Il team di ricerca ha in ogni caso concluso positivamente la stagione di scavo di quest'anno.
  "Il racconto di Villibaldo di Eichstätt ci dice che nell'epoca bizantina vi era memoria del sito di Betsaida, che egli identifica con la tradizione del Vangelo", spiega Notley. "Solo il tempo ci dirà se nel sito oggetto di studio sia presente una chiesa bizantina e se il sito corrisponde effettivamente alla città di Betsaida risalente al I secolo".
  "Al momento ritengo che sia molto probabile che entrambe le risposte siano affermative", conclude.

(National Geographic Italia, 10 agosto 2017)


Firenze - Il clarinetto magico di Krakauer illumina il Balagan

L'iniziativa dai percorsi per bambini alla cena ebraica fino al concerto

di Maurizio Costanzo

David Krakauer
Sarà il grande clarinettista David Krakauer, considerato una leggenda della musica klezmer, il protagonista dell'appuntamento di stasera alla Sinagoga di via Farini per il Balagan Cafe, rassegna promossa dalla Comunità Ebraica nell'ambito dell'Estate Fiorentina.
La serata, realizzata in collaborazione con Rete Toscana Ebraica e il contributo dell'Ucei, inizierà alle ore 20, come da tradizione, con l'incontro a tu per tu con l'artista, che è tra i massimi interpreti dell'avanguardia musicale ebraica americana. A seguire il concerto che vedrà David Krakauer accompagnato da Alfonso Santimone al pianoforte e Zeno De Rossi alla batteria, sull'onda del progetto Hatzel, sogno in musica ambientato nell'Italia ebraica, nella sua memoria e tradizione, che ha come obiettivo quello di raccontare l'anima ebraica, caratterizzata da una varietà sorprendente.
E dal momento che il Balagan Cafe offre al pubblico sia una ricca proposta musicale che gastronomica, l'incontro con l'artista sarà preceduto, alle 19,30, dall'apericena dedicata allo chef Yotam Ottolenghi. Tanto divertimento anche per i più piccoli con i percorsi ludico didattici del Balaghino dei Bambini, questa sera, dalle 19,30, dedicato alla fiaba peruviana Il colibrì e il colore degli uccelli. Sarà Silvia Baccianti di Centrale dell'Arte ad animare la fiaba, che vedrà poi i bambini impegnati nel disegnare i momenti più belli della storia, che saranno poi esposti il 10 settembre in una speciale mostra allestita in Sinagoga in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica.

(La Nazione, 10 agosto 2017)


Tombe profanate e dimenticate. Comunità ebraica contro Raggi

Ancora abbandonate le sessanta sepolture al Verano distrutte a maggio. La Comunità ebraica aveva sondato il Comune per rimetterle in sesto. Nessuna risposta.

Dolore
Le famiglie non possono andare a pregare per i propri cari
Scempio
Sono stati danneggiati oltre sessanta loculi

di Pietro De Leo

ROMA - La storia è di quelle che rischiano di mescolare danno e beffa, in una doppia razione di disagio, in questo caso per la memoria dei defunti e la dignità di chi ha il diritto di onorarli. L'antefatto è una brutta storia di profanazione di tombe, come spesso purtroppo si verifica qui e là per l'Italia. Siamo al cimitero del Verano, nel maggio scorso, quando viene scoperta la distruzione di una settantina di tombe, gran parte della quali nel settore ebraico. Un accanimento tale da far pensare ad un raid mirato e consapevole. Scattano subito le indagini, e viene scoperto grazie al sistema interno di videosorveglianza, un gruppetto di quattro adolescenti come autore del gesto orribile. Rintracciati, vanno nel panico, provano a rimpallarsi le responsabilità, alla fine emerge il loro pieno coinvolgimento dell'accaduto. E fu appurato, peraltro, che i giovani, rimasti chiusi all'interno del cimitero dopo aver compiuto il loro gesto si sono fatti aprire dal custode. Fin qui, la dinamica della cronaca, culminata con la denuncia dei ragazzi, tutti tra i 13 e i 14 anni, e la derubricazione del gesto a «bravata». Da questo punto in poi inizia una dinamica che potrebbe culminare nell'italianissimo canovaccio kafkiano. Già, perché ad oggi, 10 agosto, le tombe sono ancora tutte lì, come la furia di quei ragazzi le aveva lasciate, e non sono certo dei danni di poco conto, ma un accanimento su lapidi e addobbi funerari. E dunque non è difficile immaginare il dolore per i famigliari dei defunti nel vedere le tombe dei propri cari ridotte in quel modo e soprattutto il dispiacere del fatto che, a tre mesi dall'accaduto, la rimessa in pristino appaia ancora un obiettivo astratto. Da ambienti della Comunità Ebraica di Roma, dunque, trapela una certa insoddisfazione per un confronto con il Comune nel quale non si è trovata una soluzione per riportare le sepolture (quelle danneggiate nel settore ebraico sono oltre sessanta) alla loro integrità. «Più che per i figli o nipoti - viene fatto notare al Tempo - la difficoltà è per quegli anziani che magari hanno un coniuge sepolto lì, con una tomba distrutta. Immaginate il dolore e il trauma nel vedere tutto questo». Dunque, si attende una svolta, anche se non è detto che tutte le famiglie poi abbiano la possibilità economica di provvedere autonomamente alla riparazione. Il Tempo ha contattato l'Ama, l'azienda municipale che si occupa della gestione dei servizi cimiteriali, che sottolinea il «clima di massima collaborazione con la Comunità Ebraica», e prova a fissare una tempistica: «A settembre - spiegano dall'azienda - verranno svolte ulteriori attività di ricognizione per quantificare i danni. È stata intentata, nei confronti dei responsabili, un'azione risarcitoria, sia da parte dei familiari concessionari, sia da parte di Ama stessa che ha voluto tutelare la propria immagine. La cura dei manufatti è a cura delle famiglie, e comunque si procederà sulla base di come verrà stabilito il risarcimento danni». Insomma, a settembre si avrà, si spera, un passo in avanti. Ma per la rimessa in pristino delle tombe è ancora difficile fare delle previsioni.

(Il Tempo, 10 agosto 2017)


Medio Oriente: ecco come Hezbollah e Iran prendono il posto di ISIS

Una eccellente analisi di Yaron Friedman su Yedioth Ahronoth analizza il futuro del Medio Oriente una volta che ISIS sarà definitivamente sconfitto e non c'è da stare allegri, né per Israele né per le altre potenze regionali sunnite.
Yaron Friedman parte da una attenta analisi del flusso di notizie dei media arabi, uno studio che rivela come la faccenda palestinese sia stata relegata dai media arabi in posizione decisamente subalterna rispetto ad altri problemi che sta affrontando il mondo arabo. Passati i giorni delle rivolte per i metal detector sul Monte del Tempio la questione palestinese è subito scomparsa dai radar dei media arabi (e qui si dimostra buona la scelta di Netanyahu di cedere alle pressioni arabe) i quali sono tornati a concentrarsi su due punti fondamentali: ISIS ed Hezbollah....

(Right Reporters, 10 agosto 2017)


Iran - Hamas: impegno comune contro Israele

Zarif incontra la delegazione di Hamas
Una delegazione di Hamas ha incontrato il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif. L'incontro è avvenuto a Teheran, a margine della cerimonia di inaugurazione del secondo mandato del presidente iraniano, Hassan Rouhani, che si è tenuta giovedì 3 agosto 2017.
  Al termine dell'incontro, che si è svolto lunedì 7 agosto, le parti hanno emesso un comunicato congiunto, nel quale hanno affermato che "è giunto il momento di voltare pagina per affrontare il nemico comune".
  L'Iran è sempre stato uno dei principali sostenitori di Hamas. Le relazioni tra le due parti sono diventate più tese a partire dal 2012, quando Teheran ha iniziato a sostenere il regime di Bashar Al-Assad nella guerra civile siriana. In seguito all'intervento dell'Iran nel conflitto siriano, uno dei capi politici di Hamas, Khaled Meshaal, che da anni viveva a Damasco, ha lasciato la capitale siriana dopo aver rifiutato di sostenere il regime di Al-Assad. I rapporti si sono ulteriormente deteriorati dopo che Hamas ha riconosciuto la legittimità del presidente dello Yemen, Abed Rabbo Mansour Hadi, mentre l'Iran ha iniziato a sostenere gli Houthi. A partire dal 15 giugno 2016, Hamas ha iniziato a riprendere le relazioni pubbliche con Teheran, che sono state rinsaldate anche grazie all'incontro di lunedì 7 agosto.
  Zarif ha accolto favorevolmente la visita della delegazione di Hamas e ha sottolineato l'importanza che riveste la questione palestinese nella politica estera iraniana e la necessità che le fazioni della resistenza palestinese, guidata da Hamas, si uniscano per far fronte al nemico comune. Il ministro ha ribadito che la posizione dell'Iran nei confronti della questione palestinese non cambierà e che Teheran continuerà a supportare la causa palestinese e il movimento di resistenza, in particolare Hamas, contro Israele. Zarif ha affermato: "Siamo pronti per andare oltre tutte le differenze, al fine di sostenere la Palestina, il popolo palestinese e l'unità della umma islamica".
  Da parte sua, Hamas ha ringraziato l'Iran per il sostegno che ha sempre dimostrato nei confronti della causa palestinese, del popolo palestinese e della sua resistenza e ha ribadito che i Paesi musulmani dovrebbero rafforzare la loro unità e sfruttare le loro capacità per contrastare il nemico comune, Israele.
  Il 1 agosto 2017, Zarif aveva partecipato a una riunione di emergenza dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), che si è tenuta a Istanbul. La riunione era stata convocata per fronteggiare l'emergenza causata dalla crisi di Gerusalemme. In questa occasione, il ministro iraniano aveva invitato gli Stati islamici a contrastare l'espansione e l'occupazione del regime sionista e a sostenere la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
  I rapporti tra Israele e Iran sono molto tesi. Israele teme il potenziamento della presenza sciita vicino ai propri confini. Secondo Tel Aviv, Teheran starebbe rafforzando la propria posizione ai confini con Israele attraverso il sostegno nei confronti del regime di Bashar Al-Assad e delle milizie sciite di Hezbollah in Libano.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 9 agosto 2017)


BYD si aggiudica il primo grande contratto di eBus in Israele

 
Autobus BYD da 12m in Haifa
 
Yisrael Katz, Ministro dei Trasporti e Arik Feldman, Presidente del CEO di Egged
HAIFA, 8 agosto 2017 - BYD si è assicurata il suo primo ordine di autobus puri elettrici in Israele. Una flotta di 17 autobus da 12 m di un unico piano servirà la città portuale settentrionale di Haifa, la terza città più grande d'Israele. Gli autobus saranno gestiti da Egged, che con quasi 3.000 autobus possiede la più grande flotta di autobus d'Israele.
Gli autobus sono stati acquistati dopo che BYD ha vinto una gara di appalto competitiva. Il successo segue le prove di un bus BYD single decker che ha operato a Tel Aviv, la seconda città più grande d'Israele, dal 2013. Ad Haifa la nuova flotta dovrebbe coprire 200 km per autobus al giorno.

Ze'ev Elkin, Ministro della Protezione Ambientale di Israele, ha dichiarato:
    "È l'inizio di una rivoluzione nell'area di Haifa che mira a ridurre l'inquinamento proveniente dai mezzi pubblici attraverso l'investimento previsto di 400 milioni di Shekels (93,6 milioni di euro)".
Yisrael Katz, ministro dei Trasporti, ha dichiarato:
    "Questi autobus sono solo l'inizio. Abbiamo intenzione di introdurre il trasporto verde nella zona di Haifa e in tutto il paese".
Isbrand Ho, amministratore delegato di BYD Europe, ha commentato:
    "Questo è uno sviluppo molto significativo per BYD - un nuovo paese per noi che riconosce la forza del prodotto BYD. E' importante notare che è la buona esperienza di quattro anni del nostro autobus di prova a Tel Aviv che ha portato all'annuncio di questa settimana. La tecnologia collaudata di base ai nostri ordini ed i programmi di estesa sperimentazione ci porterà ad un ulteriore successo commerciale in molte delle città della regione che stanno attualmente implementando il trasporto verde che vediamo a Haifa".
(ElectricMotor, 9 agosto 2017)


Media: incontro segreto tra Russia, USA e Israele su tregua in Siria

Israele, USA e Russia all'inizio di luglio hanno condotto dei negoziati segreti nei quali hanno discusso la tregua in Siria e la creazione di zone di de-escalation alle frontiere siriano-israeliane e siriano-giordane, comunica la testata Haaretz.
L'incontro si è svolto ad Amman e in una della città europee. Ai negoziati la parte israeliana si è opposta agli accordi per le zone di de-escalation dichiarando che Mosca e Washington non prestano abbastanza attenzione al ritiro delle forze iraniane dalla Siria.
Le fonti della testata, le quali sono volute restare anonime, hanno dichiarato che i diplomatici e i rappresentanti delle forze militari di Israele, Russia e Stati Uniti hanno preso parte ai negoziati. La parte israeliana ha visto la partecipazione del Ministro degli esteri, della difesa, dei rappresentanti del "Mossad" e delle forze armate del paese. La parte americana era rappresentata dall'ambasciatore speciale per la Siria, il vice assistente del segretario di stato Michael Ratni, e il rappresentante del presidente USA nella coalizione anti Daesh Brett Mcgurk. La delegazione russa era guidata dall'ambasciatore speciale del presidente per la Siria Aleksandr Lavrentiev.
Come riporta la testata, ad Amman nella stessa giornata si sono tenuti degli incontri per la tregua in Siria. Al primo hanno preso parte i rappresentanti di Israele, Russia e USA dove Tel Aviv ha presentato la propria posizione a Washington e Mosca. Il secondo incontro si è svolto tra Israele, USA e Giordania e qui è coinciso il punto di vista di Tel Aviv e Amman. Pochi giorni dopo, i rappresentanti di Israele, degli Stati Uniti e della Russia si sono incontrati in una delle capitali europee. Come ha spiegato la fonte della pubblicazione, a questi negoziati hanno partecipato i più alti rappresentanti dei paesi in questione.
Secondo i funzionari israeliani, la principale controversia era che gli americani e i russi consideravano il cessate il fuoco e la creazione di zone di de-escalation come misure tattiche e pratiche per stabilizzare la situazione e come una opportunità di concentrare gli sforzi per combattere lo Stato Islamico e per mettere fine alla guerra civile in Siria. Israele ritiene che l'accordo debba essere considerato in prospettiva strategica a lungo termine e che dovrebbe concentrarsi sul grado di influenza iraniana in Siria dopo la guerra.
Secondo la pubblicazione, Tel Aviv ha dichiarato agli interlocutori che l'accordo dovrebbe fornire una soluzione al problema della presenza dell'Iran in tutta la Siria. Gli israeliani hanno detto alla Russia e agli Stati Uniti che dovrebbero chiedere il ritiro dalla Siria delle truppe iraniane del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, del movimento libanese Hezbollah e delle milizie sciite. Altrimenti, Israele e Giordania potrebbero esserne minacciati.
Secondo la fonte, Israele era insoddisfatto dall'accordo concluso tra gli Stati Uniti e la Russia, in quanto non menzionava l'Iran o gli Hezbollah e non menzionava la presenza di forze iraniane in altre parti della Siria.
Il 7 luglio è stato reso noto che gli esperti provenienti dalla Russia, dagli Stati Uniti e dalla Giordania avevano convenuto su un memorandum sulla creazione di zone di de-escalation nella Siria sud-occidentale: queste sono i distretti di Deraa, Quneitra e Suweida. Secondo la parte russa, Mosca e Washington si sono impegnati a garantire l'attuazione del cessate il fuoco. Il regime di cessate il fuoco è entrato in vigore in questa zona dalle 12.00 del 9 luglio, ora di Damasco.

(Sputnik, 9 agosto 2017)


Folla da star per il soldato israeliano che entra in carcere

Elor Azaria, condannato a 18 mesi per aver ucciso un palestinese ferito a terra

RISHON LEZION- E' entrato oggi in carcere il soldato israeliano Elor Azaria, oltre un anno dopo aver ucciso con un colpo di pistola un palestinese ferito a terra. Il caso ha colpito profondamente il Paese, tra il fronte di coloro che ne chiedono il perdono e di coloro che invece considerano la condanna a 18 mesi del tutto inadeguata alla gravità del gesto.
Ventuno anni, il soldato sconterà la pena nella base militare di Tserifin, nei pressi della città di Rishon Lezion, dove è stato accompagnato dal padre in auto, completamente tappezzata da fotografie del soldato con una bandiera israeliana. L'ingresso in carcere è stato seguito da decine di fan oltre che da giornalisti e fotografi e ritrasmesso in diretta in televisione. Durante il tragitto Azaria è stato scortato da motociclisti, alcuni con giacche di pelle e la scritta "God Bless Israel" sul dorso. Sceso dalla macchina, Azaria ha sfoggiato un grande sorriso, ormai noto agli israeliani, ha salutato ma non ha rilasciato dichiarazioni.
In un messaggio postato sui social network la scorsa settimana, il soldato franco-israeliano ha scritto "Vado in prigione a testa alta. Amo questo paese con tutto il mio cuore. Amo l'esercito".
Lo scorso 30 luglio una corte militare ha respinto l'appello presentato dai legali di Azaria contro la sua condanna per omicidio colposo e ha confermato la pena detentiva. Avrebbe potuto appellarsi alla Corte suprema, ma ha accolto l'invito del ministro della difesa Avigdor Lieberman a non farlo. Ha invece presentato richiesta per una riduzione della pena e per poterla scontare con un servizio civile.
Azaria ha anche chiesto la grazia al presidente israeliano Reuven Rivlin, sostenuta da tutta la destra israeliana oltre che dal premier Benjamin Netanyahu. Due terzi degli israeliani, rivela un sondaggio, sarebbero d'accordo.
I fatti risalgono al marzo 2016 nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, e sono stati ripresi dall'inizio alla fine da un video girato da una ong per i diritti umani. Si vede il palestinese Abdul Fatah al-Sharif, 21 anni, che giace a terra ferito dai colpi sparati dai soldati israeliani in reazione a un'aggressione col coltello. Circa 11 minuti dopo l'aggressione e la relativa reazione israeliana, il soldato Azaria gli passa vicino e gli spara alla testa, senza alcun tipo di provocazione da arte del palestinese ferito a terra. Azaria si è difeso sostenendo di temere che l'uomo a terra indossasse una cintura esplosiva.

(askanews, 9 agosto 2017)


"Trasformiamo i deserti in giardini". Netafim venduta per 1,6 miliardi

La società israeliana ha inventato il metodo di irrigazione a goccia

di Luigi Grassia

 
L'80% di Netafim passa da Permira alla Mexichem
«Trasformare il deserto in giardino» era la sfida dei coloni israeliani nel Neghev mezzo secolo fa. Una sfida vinta creando l'irrigazione a goccia, idea poi replicata in altre zone aride del mondo, fino a farne un business. Tanto che nel 2011 il fondo britannico Permira aveva acquisito 1'80% della società israeliana Netafim, specializzata nelle soluzioni di irrigazione innovative, soluzioni create e sviluppate nel kibbutz israeliano di Hatzerim che ha fondato la stessa Netafim. Adesso Permira vende il suo 80% al gruppo chimico messicano Mexichem, però al prezzo di 1,895 miliardi di dollari (1,6 miliardi di euro) cioè il doppio di quello che la stessa Permira aveva pagato sei anni fa. Il restante 20% di Netafim resta in mano ai lavoratori del kibbutz di Hatzerim.
   Il gruppo Netafim ha 4300 dipendenti, di cui mille in Israele e 3300 sparsi fra Asia, Africa e Americhe, e ha avuto un grande ruolo nello sviluppo dell'agricoltura a livello mondiale. Reinveste gran parte degli utili in continui miglioramenti dei prodotti e nella formazione dei lavoratori, anche se il 98% di questi agricoltori del deserto ha già una laurea.
   Negli Anni 60 nel kibbutz di Hatzerim si scoprì che per ottimizzare l'irrigazione occorreva che minuscole quantità di acqua raggiungessero con precisione la base delle piante, alle loro radici, senza disperdersi. Dopo i primi tentativi di irrigazione a goccia con tubi forati (1965) ne seguirono altri in cui alle gocce di acqua furono aggiunti i fertilizzanti. Poi si escogitò un sistema per non occludere i fori. Quindi si regolò la pressione del flusso dell'acqua per superare i dislivelli del terreno. In seguito molte funzioni furono affidate ai computer e i raccolti continuarono a crescere.
   «Quando arrivammo in India nello Stato del Gujarat - ricorda Rafi Mehudar, uno dei progettisti di Netafim - gli agricoltori potevano a malapena coltivare insalata. Adesso esportano pomodori». Secondo Netafim, i sistemi israeliani di irrigazione riducono di decine di punti percentuali il consumo dell'acqua e moltiplicano la quantità dei raccolti. È anche questo che consente le coltivazioni in zone altrimenti ritenute proibitive.

(La Stampa, 9 agosto 2017)


Libia - Haftar stringe patti col governo d'Israele

Ad agosto 2015 alcuni aerei israeliani avrebbero bombardato le postazioni dello Stato islamico nei dintorni di Sirte - città natale di Gheddafi -, su indicazione del generale libico Khalifa Haftar. Durante una visita ad Amman, il generale avrebbe promesso in cambio la firma di alcuni accordi per il commercio di armi e petrolio con Tel Aviv. Secondo fonti citate dal quotidiano online al Arab Al jadeed, Haftar si sarebbe incontrato nel 2015 e nel 2016 con ufficiali del Mossad, grazie alla mediazione degli Emirati Arabi Uniti. Durante questi incontri Haftar avrebbe concluso accordi per ricevere equipaggiamenti militari, tra cui fucili da cecchino e visori notturni.

(Nazione-Carlino-Giorno, 9 agosto 2017)


Israele e l'impegno verso il cambiamento climatico

Il Ministro dell'Energia israeliano Yuval Steinitz con un recente post su Facebook ha spiegato quali saranno gli impegni di Israele per combattere i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale.
Questo il commento del Ministro Steinitz:
Anche se c'è una probabilità del 50 per cento che i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale siano causati da attività umane, è nostro dovere agire per ridurre al minimo i rischi.
Con la firma degli accordi di Parigi nel 2015, Israele ha promesso, entro il 2030, di mantenere le emissioni di gas serra a circa i livelli attuali. Prendendo in considerazione il tasso di crescita della popolazione, il piano è pari a una riduzione pro-capite di emissioni di gas serra di circa il 26 per cento. Il piano di Israele comprende anche un aumento (pari a 8 volte) delle fonti di energia rinnovabile, attuazione dei codici di costruzione più green per promuovere l'efficienza energetica e l'investimento in trasporti pubblici.
L'impegno di Israele per ridurre l'inquinamento è coerente con l'immagine di sé che ha sempre promosso, ovvero come leader nel settore ambientale. Israele infatti è riuscita a "far fiorire il deserto" grazie alle sue tecnologie idriche e ad oggi ricicla la stragrande maggioranza delle sue acque, utilizza pannelli solari e ha aperto la strada ad entusiasmanti innovazioni per il risparmio energetico e idrico.

(SiliconWadi, 9 agosto 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continuiamo la pubblicazione di notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

GENNAIO 1954
Il nostro atteggiamento verso gli Ebrei

di A. Krolenbaum

«Non voglio più giocare con te, Ester - disse la piccola irlandese alla sua vicina - perchè tu hai ucciso Cristo!»
   Impaurita, la piccola Ester corse dalla mamma per sapere perchè mai la bambina della casa accanto non voleva più giocare con lei.
   E' davvero sorprendente che dopo duemila anni di predicazione del Vangelo in tutto il mondo, venga ancora coltivato l'odio per gli Ebrei, qualche volta proprio nel nome stesso del Vangelo! Ma è ancor più sorprendente che il sentimento anti-ebraico debba essere l'equipaggiamento di persone che, lavorano per diffondere «Il Regno di Cristo».
   O invece siamo forse noi gli ingenui, che ci aspettiamo qualcosa di diverso da un'epoca come questa, che ha assistito ai più gradi massacri di Ebrei?
   L'attuale capo di un movimento cattolico in Irlanda, denominato «Maria Duce», ha recentemente pubblicato un libro intitolato «Il Regno di Cristo ed il naturalismo organizzato», nel quale egli attacca «la potente organizzazione supernazionale del popolo ebreo».
   Abbiamo dunque davanti a noi due accuse rivolte contro gli Ebrei: essi hanno ucciso il Salvatore; essi formano una comunità supernazionale. Parrebbe logico allora che tutti i rinnegatori di Cristo dovessero essere per natura amici degli Ebrei. Ma non è così: accade frequentemente di trovare dei «razionalisti» che attaccano il popolo ebreo per la, sola ragione che «la salvezza è dalla parte dei Giudei» (Giov. 4.22): infatti il Signore Gesù Cristo era anch'Egli della stirpe di Abramo. Noi siamo rattristati nell'ascoltare dalle labbra di quegli increduli parole che, mentre possono condurre alcuni ad un atteggiamento ostile verso il Cristo, creano nel contempo un ambiente sfavorevole agli Ebrei.
   Non è forse abbastanza chiaro ché tutte le accuse mosse contro gli Ebrei si distruggono l'una con l'altra? Se la bambina di genitori non ebrei si rifiuta di giocare con la piccola ebrea; se un ministro di chiesa «cristiana» afferma di non avere posto per gli Ebrei, ma allora che cosa debbono fare costoro?
   Tuttavia queste non sono le sole accuse lanciate contro gli Israeliti. Non li avete mai sentiti accusare di essere, a seconda dei casi, dei comunisti o dei capitalisti? Non vi hanno mai detto che gli Ebrei non vogliono lavorare, o che lavorano troppo; che si vantano delle loro ricchezze, o che sono una massa di pezzenti; che si intrufolano, o che si segregano dalla società vivendo rinchiusi in se stessi?
   Dobbiamo constatare che ogni ragionamento antisemita ha sempre un elemento di verità. Questo elemento però, è ingrandito fino a diventare un'accusa generale: ed è qui che non regge più. Ma l'antisemitismo non è, nè è mai stato, una cosa razionale; perciò molta gente, anche bene intenzionata, inciampa in esso, con conseguenze tragiche.
   Considerate i nemici « classici» d'Israele: Faraone e Haman, Che cosa li spinse a prendere quelle terribili misure contro il popolo ebreo? Non era stato Giuseppe a salvare l'Egitto dalla carestia e Mardocheo non aveva salvato la vita del re Assuero? E, da allora innanzi, gli Ebrei non hanno sempre cercato di guadagnarsi la benevolenza dei loro concittadini nei paesi in cui vivono?
   Ciononostante, degli Hitler e degli Stalin si levano sempre contro Israele!
   « Se i cristiani fossero dei veri cristiani, gli Ebrei si sarebbero già convertiti da molto tempo al Cristo » sembra abbia eletto lo scrittore anglo-ebraico Israel Zangwill. Ed è profondamente vero: anche negli ambienti evangelici, dove ci si aspetterebbe una più larga comprensione verso gli Ebrei come riflesso dell'insegnamento delle Scritture, ci si accorge che purtroppo questa comprensione manca.
   Ma non fu sempre così e, grazie a Dio, non è così dappertutto neanche oggi. Infatti, se non fosse per merito dei veri figliuoli di Dio che, fondandosi sulla Bibbia come Parola Divina, sanno che «i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento » (Rom. 11. 29), nessun Israelita del giorno d'oggi potrebbe ascoltare l'annuncio. del Vangelo come « potenza di Dio in salvezza ad ognun che crede, al Giudeo in prima ... » (Rom. 1.16).
   Era di grande conforto ai profughi ebrei in Italia, Austria ed altre nazioni, il sapere che vi erano delle persone che si chiamavano del nome di Cristo, le quali pregavano per la salvezza d'Israele (Rom. 10.1). E cosa potremmo dire di quella «nuvola dii testimoni» israeliti che si sono convertiti al Salvatore nelle ultime due o tre generazioni? La Chiesa di Cristo sarebbe stata certo impoverita dalla mancanza del loro contributo.
   «Il seguace di Cristo non può essere nemico degli Ebrei», dichiarò il prof. Thomas Masaryk, fondatore della repubblica cecoslovacca, in una conversazione con lo scrittore ebreo tedesco Emil Ludwig.
   Ma voi vorreste sapere che cosa è accaduto alla piccola Ester, non è vero?
   Essendo essa di salute delicata, i suoi genitori la inviarono ad un giardino d'infanzia condotto da una signora evangelica. Essi pattuirono che alla bambina non doveva essere insegnato nulla di specificatamente cristiano, neppure gli inni. Cosi, quando qualche cosa di cristiano veniva insegnato agli altri, Ester insieme ad uno. o due altri ragazzi ebrei, veniva condotta nel parco a giocare. Ma Ester ed i suoi compagni impararono lo stesso a cantare «Gesù m'ama, questo so!», come cantavano gli altri. E come? Stando presso la finestra ed ascoltando da fuori le strofe di questo inno mentre i ragazzi lo imparavano.
   Così, in una o due famiglie ebree della cattolica città di Dublino, capitale dell'Irlanda, risuona ora l'eco di questo inno favorito dei nostri bambini. .. Chissà, forse la piccola Ester e gli altri bimbi potranno guadagnare i loro genitori a Cristo, il Messia d'Israele.
   Non credete voi che Gesù, il nostro amato Salvatore, ama veramente il popolo ebraico? La Bibbia ci dice chiaramente di sì! Non dobbiamo lasciarci influenzare da irragionevoli pregiudizi contro questo popolo dal cui seno ci è sorto il Salvatore.
   E' necessario invece che preghiamo per il popolo d'Israele. Così facendo con l'aiuto di Dio, ci troveremo in compagnia di Mosè, di Samuele, del Signore Gesù stesso, dell'Apostolo Paolo e di altri Santi di Dio, che non cessarono mai di pregare per il popolo ebraico.

(Notizie su Israele, 9 agosto 2017)


Lione - Profanata la stele della memoria di bimbi ebrei deportati

La stele profanata
Profanata in Francia, a Lione, una stele in memoria di 44 bambini ebrei e 7 adulti deportati nei rastrellamenti d'Izieu del 1944.
"La stele è stata profanata, spaccata e sradicata. Hanno tolto tutto", ha annunciato Jean Lévy, presidente regionale dell'associazione Figli dei deportati (FFDJF), aggiungendo che "sporgerà denuncia insieme al comune".
In una nota, il ministro dell'Interno ed ex sindaco di Lione, Gérard Collomb, condanna "questo atto vile e odioso che urta la memoria delle vittime e rappresenta un affronto ai valori della Repubblica".
La stele con i nomi di tutte le vittime di Izieu si trovava in un giardino del 7o arrondissement di Lione, dietro al Centro di storia della Resistenza e della deportazione durante la Seconda Guerra mondiale.
Nel 1987, Klaus Barbie, ex capo locale della Gestapo, ribattezzato il 'macellaio di Lione', venne condannato all'ergastolo per le sue responsabilità nella deportazione dei bambini della colonia di Izieu e dei loro istruttori che fece caricare a bordo di un convoglio per Auschwitz l'11 agosto 1944.

(swissinfo.ch, 8 agosto 2017)


Hamas e Iran annunciano un nuovo capitolo di relazioni per combattere Israele

TEHERAN - Il movimento islamista palestinese Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, ha raggiunto un accordo con l'Iran per aprire un nuovo capitolo delle relazioni reciproche per combattere lo Stato di Israele, sostenere il popolo palestinese e la protezione della moschea di al Aqsa. Secondo quanto riferisce l'emittente iraniana "Press Tv", una delegazione dell'ufficio politico di Hamas, guidata Izzat al Rishq, membro dell'ufficio politico del movimento, si è recata nei giorni scorsi a Teheran per presenziare alla cerimonia di insediamento del presidente Hassan Rohani, avvenuta lo scorso 5 agosto. Ieri la delegazione ha avuto colloqui con il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Durante l'incontro, il capo della diplomazia iraniana ha dichiarato che la questione palestinese è un punto importante della politica estera iraniana, sottolineando l'importanza di migliorare i rapporti con i gruppi di resistenza palestinese, in particolare Hamas. Da parte sua Rishq ha lodato il sostegno dell'Iran al popolo palestinese e la resistenza di Teheran contro lo Stato di Israele. Il funzionario di Hamas ha inoltre dichiarato che il movimento palestinese è convinto che i paesi musulmani dovrebbero rafforzare la loro unità e utilizzare le loro capacità per contrastare il nemico comune: Israele.

(Agenzia Nova, 8 agosto 2017)


Iran e calcio: "mai in campo contro Israele"

Il campo di calcio diventa terreno di scontro fra Iran e Israele. A surriscaldare gli animi fra i due Paesi è una proposta del portavoce del ministro degli Esteri iraniano Bahram Qassemi: consentire ai calciatori della Repubblica islamica che giocano all'estero di non scendere in campo contro le squadre israeliane, prevedendo clausole nei contratti con i club. Le dichiarazioni fomentano il dibattito sul caso che ha per protagonisti i centrocampisti iraniani Masoud Shojaei e Ehsan Hajsafi, giocatori nella squadra greca del Panionios. I due erano finiti nel mirino per avere partecipato a una partita contro il Maccabi Tel Aviv, nelle qualificazioni di Europa League, sommersi dalle critiche del ministero dello Sport di Teheran e della Federazione iraniana del calcio. A difesa di Shojaei e Hajsafi, che rischiano di non giocare più in nazionale, il popolo di Twitter con hashtag come: "Il calcio non è la politica". Già in passato Paesi arabi avevano rifiutato il confronto internazionale con atleti israeliani.

(la Repubblica, 8 agosto 2017)


A Roma un parco intitolato a Yasser Arafat. Polemica la comunità ebraica: "Scelta offensiva"

Durissima lettera della Presidente Ruth Dureghello a Virginia Raggi

di Ariela Piattelli

Ruth Dureghello
Si riaccende la polemica tra l'amministrazione di Virginia Raggi e la comunità ebraica di Roma. La Presidente della comunità capitolina Ruth Dureghello ha mandato una durissima lettera in cui condanna la recente decisione della giunta grillina di intitolare un parco a Yasser Arafat. A rendere la delibera ancor più inaccettabile per gli ebrei di Roma è il fatto che nella stessa c'è anche una via dedicata al Rabbino Emerito Elio Toaff. «Due nomi inaccostabili», tuona Dureghello.
«Una scelta offensiva e antistorica proprio nel momento in cui l'Europa è vittima di una serie di attentati terroristici di matrice islamista - scrive la Presidente -. Arafat del terrorismo odierno è stato il precursore, se non l'ideatore, e il premio Nobel per la Pace da lui ricevuto non è altro che il primo dei tanti premi Nobel assegnati con "dubbio merito"».
Una scelta sbagliata di chi non conosce la storia, dunque, neanche quella della città che governa: «Arafat, lo ricordiamo per chi evidentemente non conosce la storia, - continua Dureghello nella missiva - è il mandante morale dell'attentato antisemita alla Sinagoga del 9 ottobre 1982 in cui morì Stefano Gay Tachè. Un bambino ebreo, romano e italiano. Per questo la scelta di dedicare a Arafat un parco è inaccettabile, perché ricorda con merito colui che dovrebbe essere ricordato con disonore. Gentile Sindaca, la città di Roma deve scegliere: ricordare i terroristi o le sue vittime».
«Le chiediamo pertanto di non procedere con quella stessa delibera che vede l'intitolazione di una piazza al Rabbino Capo Emerito Elio Toaff - chiude Dureghello. - Vedere associato, nello stesso documento, il suo nome a Arafat è un'offesa alla sua memoria che non vogliamo tollerare. Rav Toaff, che oltre a aderire alla Resistenza e ad essere il primo rabbino ad accogliere in una Sinagoga un Papa, fu colui che denunciò l'accoglienza dei politici italiani, esclusi Spadolini e Pannella, al leader dell'Olp durante la sua visita in Italia. Visita che fu il preludio dell'attentato. Oggi questo conferimento appare come una riabilitazione postuma e non meritata».

(La Stampa, 7 agosto 2017)


*


Raggi rinvia la delibera la titolazione di parco Arafat e piazza Toaff

"Abbiamo deciso di rinviare l'attuazione della delibera per quanto riguarda le denominazioni in questione affinché lo spirito che le muove non sia vanificato da incomprensioni".

 
Virginia Raggi
Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha deciso di rinviare l'approvazione della delibera che prevedeva l'intitolazione di un parco a Yasser Arafat e di una piazza al Rabbino Capo Emerito Elio Toaff dopo che la Comunità Ebraica di Roma ha definito "offensivo ed antistorico" dedicare un parco al defunto leader palestinese e chiesto di "non procedere all'intitolazione di una piazza a Toaff". Lo ha riferito l'Agenzia di Stampa Associata, Ansa.
In serata la sindaca Raggi ha comunicato alla presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, la sua decisione di rinviare la delibera. "Considerato che il nostro atto intende richiamare processi di pace che si fondano sulla condivisione delle scelte, insieme alla Giunta, abbiamo deciso di rinviare l'attuazione della delibera per quanto riguarda le denominazioni in questione affinché - ha spiegato la sindaca - lo spirito che le muove non sia vanificato da incomprensioni e possa compitamente realizzarsi con gli eventuali aggiustamenti necessari".

(Roma.it, 7 agosto 2017)


Povera Virginia! Chi le vuole bene avrebbe dovuto sconsigliarla di mettersi in politica. Dureghello farebbe bene a consolarla un po'. M.C.


*


"Parco Arafat", Raggi fa marcia indietro

Tra le numerose proteste anche quella della Comunità ebraica di Roma che aveva definito la scelta "antistorica".

di Laura Mari

ROMA - Alla fine, Virginia Raggi rimanda la decisione. Aveva annunciato di voler intitolare due luoghi di Roma a Yasser Arafat e a Elio Toaff, rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001, un gesto che probabilmente voleva essere simbolico, di pace, sulla lunga via della difficile risoluzione del conflitto mediorientale.
   Una marcia indietro che la stessa sindaca spiega in una lettera indirizzata alla presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, che negli scorsi giorni aveva duramente criticato la proposta della prima cittadina. Prima le motivazioni: «Dedicare una piazza a Elio Toaff, come da tempo atteso, è un nutrimento della memoria collettiva, nonché espressione dell'immenso rispetto e senso di gratitudine che la città prova nei confronti della sua persona e del gigantesco contributo che ha dato alla vita della città e del Paese. La città desidera onorare la memoria di Elio Toaff e il suo indimenticabile lascito». Poi la comunicazione della scelta: «Perciò, considerato che il nostro atto intende richiamare processi di pace che si fondano sulla condivisione delle scelte, insieme alla Giunta, abbiamo deciso di rinviare l'attuazione della delibera per quanto riguarda le denominazioni in questione affinché lo spirito che le muove non sia vanificato da incomprensioni e possa compitamente realizzarsi con gli eventuali aggiustamenti necessari», scrive la sindaca.
   Parole che forse serviranno a placare le proteste. Era stata durissima, infatti, la posizione della Comunità ebraica romana: «Dedicare un parco a Yasser Arafat è una scelta offensiva e antistorica proprio nel momento in cui l'Europa è vittima di una serie di attentati terroristici di matrice islamista», aveva attaccato Ruth Dureghello. Ancora: «Arafat del terrorismo odierno è stato il precursore se non l'ideatore, e il premio Nobel per la Pace da lui ricevuto non è altro che il primo dei tanti Nobel assegnati con 'dubbio merito'. Arafat è il mandante morale dell'attentato antisemita alla Sinagoga di Roma del 9 luglio 1982, in cui mori Stefano Gay Tachè, un bambino ebreo romano e italiano».
La giunta guidata dalla Raggi aveva anche individuato i luoghi: al leader palestinese sarebbe stato intitolato un parco di Centocelle, quartiere periferico della città. E al rabbino Toaff (scomparso nel 2015 ) uno slargo di Colle Oppio.
   Decisione rimandata, dunque. E per la cui attuazione la sindaca Raggi aveva chiesto anche l'attuazione di un provvedimento speciale: per poter intitolare lo slargo al rabbino Toaff, c'era stato bisogno di una richiesta di deroga al prefetto. La legge prevede infatti che una strada possa essere "dedicata" solo a persone decedute da almeno 10 anni: Toaff è morto nel 2015.

(la Repubblica, 8 agosto 2017)


Ebrei ultraortodossi attaccano il convoglio di Lieberman

Il ministro della difesa Avigdor Lieberman si è trovato oggi al centro di una violenta protesta da parte di ebrei ultraortodossi mentre era in visita privata nel rione religioso di Mea Shearim, a Gerusalemme.
Una portavoce della polizia israeliana ha precisato che il ministro, che è rimasto indenne, è stato scortato dalla polizia fuori dal quartiere. Ma anche dopo la sua partenza sono proseguiti disordini nei quali è rimasta ferita una bambina.
All'origine delle tensioni vi è l'atteggiamento di totale rifiuto da parte di correnti massimaliste nel mondo rabbinico dell'arruolamento dei ragazzi che frequentano i collegi rabbinici. Il servizio militare, sostengono, ''rischia di allontanarli per sempre dal mondo della Torah'' e dalle loro famiglie.

(swissinfo.ch, 8 agosto 2017)


La petrolchimica Mexichem acquisirà l'80 per cento delle azioni della società israeliana Netafim

GERUSALEMME - Il gigante petrolchimico messicano Mexichem acquisirà l'80 per cento delle azioni della società di irrigazione israeliana Netafim. Secondo quanto riferito oggi dalla società, il valore dell'operazione commerciale è pari a circa 1,5 miliardi di dollari. Mexichem acquisirà le azioni detenute da Permira Fund, Kibbutz Magal e una parte di quelle di Kibbutz Hatzerim. In base all'accordo le attività principali di Netafim continueranno a svolgersi in Israele, tra cui la produzione e il settore di ricerca e sviluppo, almeno per i prossimi 20 anni. Il processo di acquisizione di parte delle azioni di Netafim dovrebbe essere ultimato entro il quarto trimestre del 2017. Netafim è una società nata nel 1965 nel Kibbutz Hatzerim, nel deserto del Negev, cresciuta negli anni fino a diventare una delle aziende leader a livello mondiale nei sistemi di irrigazione.

(Agenzia Nova, 7 agosto 2017)


Israele contro AI Jazeera il ministro vuoi chiuderla: «Sostiene il terrorismo»

Giro di vite in Israele. La decisione drastica ormai è stata presa. Revocherà le credenziali stampa ai giornalisti di Al-Jazeera, lavorerà per chiudere la sede dell'emittente a Gerusalemme ed eliminerà le trasmissioni della rete con base in Qatar dalle emittenti via cavo e satellitari. Lo ha annunciato il ministro della Comunicazione, Ayoub Kara, accusando l'emittente panaraba di «sostenere il terrorismo». Parole pesanti che servono a giustificare la mossa di Gerusalemme. Dopo le numerose denunce, ora arriva la dura presa di posizione.
   Giro di vite totale, quindi. Il provvedimento, precisa al Jazeera, riguarda sia i reporter della rete in lingua araba che quelli dei programmi in inglese. Le frizioni più recenti fra il governo di Netanyahu e la rete qatariota si sono avute durante i disordini avvenuti nella Spianata delle Moschee.
   Il futuro dell'emittente era diventato sempre più in bilico da quando i Paesi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati, Bahrain ed Egitto) avevano inoltrato 13 precise richieste al Qatar, come condicio sine qua non per riprendere i rapporti diplomatici a seguito dell' accusa piovuta contro lo Stato qatariota di aiutare l'Isis. Tra di esse, al primo punto c'era proprio la «chiusura immediata di al Jazeera, anche nell'edizione in lingua inglese». Condizione che non è stata accolta.
   Per questo i giornalisti dell'emittente qatariota avevano realizzato un video in cui spiegavano quali siano i principi del loro lavoro e la loro voglia di continuare a fare bene il loro mestiere. Nella conferenza stampa, a cui al Jazeera non è stata ammessa, Kara ha sparato a zero sull'emittente. Dan Williams, un giornalista di Reuters che si occupa di Israele e Palestina, ha però fatto notare che Kara non ha l'autorità per fare nemmeno una di queste cose, e che le autorità competenti «non sembrano avere fretta» di esaudire le sue richieste. La misura più facile da applicare potrebbe essere quella di revocare le credenziali ufficiali dei giornalisti di al Jazeera tramite il Government Press Office (GPO), l'agenzia governativa che regola la presenza e gli accessi dei giornalisti stranieri in Israele.
   L'emittente al Jazeera, fondata nel 1996, dal 2006 ha una versione in inglese. Molto attiva, sia su internet che in tv, segue soprattutto le notizie sui paesi del Medio Oriente. È presente in più di 70 paesi del mondo e i suoi programmi sono trasmessi in più di 100. E' stata la prima tv a trasmettere i farneticanti messaggi di Osama bin Laden.

(il Giornale, 7 agosto 2017)


Leucemia: in Israele nuove sperimentazioni per trovare cure efficaci

Israele ha un tasso di malati di leucemia molto alto. La maggior parte dei trattamenti oggi si basano su chemioterapia, steroidi e trapianti di cellule staminali. Ma il ricercatore Roi Gazit dell'Università Ben Gurion è a caccia di trattamenti più efficaci e mirati.
Queste le sue parole:
I nostri modelli di trattamento con le cellule staminali contribuiranno a colpire un tipo specifico o sotto-tipo della malattia. Purtroppo, non esiste una cura che vada bene a tutti i malati di leucemia, ecco perché abbiamo bisogno di modelli su misura per ogni paziente.
Gazit si sta concentrando su come sviluppare un trattamento mirato delle cellule tumorali che utilizzano cellule staminali ematopoietiche - le cellule staminali utilizzate nel trattamento del cancro a causa della loro capacità di dividersi e di formare nuovi e diversi tipi di cellule nel sangue.
La ricerca consiste nel prelievo di cellule primarie - cellule in coltura prelevate direttamente da un soggetto - e trasformarle in cellule leucemiche maligne. Esaminando come si sviluppa la leucemia, Gazit sta esplorando un modo per arrestare la leucemia.
I modelli di ricerca sviluppati nel suo laboratorio, nell'ambito di un progetto sostenuto dall'Israel Cancer Research Fund, potrebbero aiutare gli scienziati a sviluppare più tipi di immunoterapia e più modi per utilizzare le cellule staminali per combattere la malattia.

(SiliconWadi, 7 agosto 2017)


Dureghello e il Ghetto: «Tra vicoli e luoghi sacri, orgoglio di noi ebrei romani»

In giro nella «cittadella» con Ruth Dureghello all'ombra del Tempio Maggiore e attorno a quella che tutti chiamano Piazza Giudìa, significa fermarsi ogni due metri.

di Paolo Conti

 
«Ruth, salutame mamma tua, nun te scordà!». Vicolo della Reginella: una panchina e due donne anziane della zona più antica del Vecchio Ghetto ebraico di Roma, lì nell'unica strada rimasta del secolare reticolo di viuzze. Girare con Ruth Dureghello nell'area ebraica di Roma, all'ombra del Tempio Maggiore e attorno a quella che tutti chiamano Piazza Giudìa, significa fermarsi ogni due metri. La abbracciano e baciano tutti: ristoratori, baristi, passanti, le proprietarie del Forno Pasticceria Boccione, che espone in vetrina la migliore crostata ebraica di ricotta e visciole certamente di Roma, forse d'Europa.
  Ruth Dureghello, da due anni esatti presidente della Comunità ebraica romana, è il simbolo di quella grande famiglia allargata che è l'ebraismo romano: «Siamo i romani più antichi, i primi ad arrivare furono i Maccabei nel II secolo prima dell'Era Volgare (è la definizione preferita dagli israeliti per indicare avanti Cristo, ndr), poi giunsero gli altri nel 70 dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Nessuna comunità italiana è così profondamente cementata con l'identità della propria città come avviene qui a Roma».
  In una giornata di sole estivo, i richiami delle voci confermano: è il dialetto giudaico romanesco, rimasto intatto nei secoli, pieno di rinvii geografici. Soprattutto in via della Reginella: «Per noi questa strada è importante, spiega bene cosa fosse l'antico Ghetto con i vicoli stretti e le case quasi una addossata all'altra. Siamo fatti così, noi ebrei romani: abituati a stare uno vicino all'altro, da secoli».
  Il cuore della cittadella ebraica romana è sicuramente il Tempio Maggiore, che Ruth Dureghello apre e mostra con amore e fierezza: «È il luogo che rappresenta la nostra emancipazione e la nostra rivalsa storica dopo i secoli del Ghetto chiuso dai cancelli. La prova della nostra capacità, dopo l'Unità d'Italia, di crescere e di rappresentarci: per di più è un'architettura eclettica che unisce la tradizione delle chiese romane a simboli orientali, quindi l'unione di due culture finalmente fuse dopo secoli in cui una tentò di sovrastare l'altra». All'ingresso, a sinistra, la lapide in cui si ricorda il gesto storico del soldato ebreo americano Charles Aaron Golub che per primo, il 4 giugno 1944, riaprì il Tempio, e lì per primo pregò, dopo la tragedia delle leggi razziali e del rastrellamento del 16 ottobre 1943.
  La presidente della Comunità racconta: «Nonostante tutto, in quegli anni tragici ci fu sempre un controllo, una protezione da parte dei pochi scampati… Riaperto il Tempio, ricominciò la nostra vita e la nostra storia con la Liberazione di Roma». E qui emerge un ricordo personale legato all'infanzia: «Mia madre mi portava al Tempio da bambina e avvertivo fortemente quel senso di sacralità che emana questo posto. Oggi, col ruolo che ricopro, mi capita di entrare spesso, e con naturalezza. Quando ci rifletto, penso che se me lo avessero detto da ragazzina non ci avrei mai creduto…».
  Pochi passi e, all'uscita del Tempio, la lapide che ricorda l'attentato del 9 ottobre 1982, da parte un commando terroristico del Consiglio rivoluzionario di al-Fath di Abu Nidal, in un giorno di sabbath (il sabato ebraico) in cui si celebrava il bar mitzvah, la maggiorità religiosa di molti adolescenti: un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, venne ucciso e 37 persone furono ferite. Cosa significa questo posto, con la buca sull'asfalto lasciata dalle bombe a mano ancora aperta? «Significa che noi ebrei romani, come gli ebrei in tutto il mondo, non possiamo mai stare veramente tranquilli perché c'è sempre l'odio di qualcuno con cui fare i conti. In quel caso fummo trattati da stranieri, pagando un prezzo legato a una guerra lontana, quella in Medio Oriente: l'antisionismo unito all'antisemitismo produce continuamente tragedie. E basta guardare cosa sta accadendo anche oggi in Israele per pensare che non bisogna mai abbassare la guardia».
  Ma nello stesso tempo è bene guardare con decisione e forza al futuro, fa capire Dureghello: «Siamo pieni di fermenti e di vita. Abbiamo la bellissima Libreria Ebraica, unica a Roma e in Italia, chi vuole può trovare spunti culturali e religiosi di straordinario interesse. E poi c'è la scuola "Cesare Polacco", il nostro fiore all'occhiello: elementari, medie, scuole superiori e altri asili nido sparsi per Roma, in tutto circa mille iscritti. Solo Roma, Milano, Torino e Trieste mantengono ancora una scuola ebraica. Ed è magnifico, la mattina all'entrata e all'uscita, vedere bambini e ragazzi sulla piazza».
  Una gran voglia di normalità. La mattinata porta già i profumi delle cucine dei ristoranti e Ruth Dureghello non si fa pregare per parlarne: «La cucina giudìa romanesca è ricca di sapori antichissimi e ingredienti poveri, elementari, penso ai carciofi alla giudìa, agli aliciotti con l'indivia, allo stracotto che è l'ideale per la fine del Sabato, già pronto e utilizzabile con la pasta, il riso…». Il suo sapore preferito? Beh, gli aliciotti ma come li fa mia madre, sia chiaro…».
  Fiera di essere un'ebrea romana? «Si vede, vero? (ride) Orgogliosissima. Di essere italiana e soprattutto romana e ebrea, perché penso che nessun ebreo nel resto del mondo avverta su di sé le gioie e le ferite della propria città quanto capita a noi. Cioè ai romani più antichi tra tutti i romani».

(Corriere della Sera - Roma, 7 agosto 2017)


Vi farò a pezzi, ripulirò il paese da ogni ebreo, lo giuro sulla mia religione"

Video musicale che esalta la più cruda violenza contro gli israeliani circola virale sui social network palestinesi dai giorni delle violenze al Monte del Tempio

Un video musicale cantato in ebraico che esorta alla violenza ed esalta gli attacchi contro ebrei e israeliani si è diffuso in modo virale sui social network palestinesi a partire dai giorni in cui venivano fomentati violenti disordini attorno al Monte del Tempio di Gerusalemme dopo un attentato terroristico compiuto proprio a partire dal luogo santo. Ne ha dato notizia il Middle East Media Research Institute (MEMRI) spiegando che il video, caricato su un canale YouTube palestinese lo scorso 28 luglio, è stato da allora condiviso moltissime volte nell'ambito della campagna palestinese sotto l'hashtag #Rage_For_Al-Aqsa ("Rabbia per al-Aqsa"). Sia Hamas che Fatah avevano indetto delle "Giornate della rabbia" contro i metal detector installati dalle autorità di sicurezza israeliane attorno al complesso ove sorge la moschea di al-Aqsa dopo che il 14 luglio tre terroristi arabi avevano ricevuto proprio dentro la moschea le armi con cui hanno poi ammazzato a sangue freddo due agenti di polizia....

(israele.net, 7 agosto 2017)


Nel 1939 la Cina voleva salvare gli ebrei in fuga dal nazismo

La scoperta è stata fatta da un giornalista investigativo del quotidiano Haaretz negli archivi della Repubblica

di Giordano Stabile

 
La sinagoga di Ohel Rachel a Shanghai
Per gli ebrei in fuga dalla barbarie nazista c'era pronta un'altra terra di accoglienza e soltanto gli sviluppi drammatici della Seconda Guerra mondiale impedirono che si realizzasse. Quella terra era una remota provincia della Cina e la Repubblica cinese aveva già pronti i piani per l'insediamento di migliaia di profughi.

 La scoperta negli archivi
  La scoperta è stata fatta da un giornalista investigativo del quotidiano Haaretz negli archivi della Repubblica e conferma quello che è sempre stato storicamente un rapporto di simpatia fra i cinesi e il popolo ebraico. I documenti risalgono al 1939: Pechino voleva ospitare la nuova comunità ebraica nello Yunnan al confine con la Birmania. Ma il piano non andò in porto, probabilmente perché la Repubblica era sotto attacco da parte delle truppe imperiali giapponesi, che avevano già commesso il massacro di Nanchino.

 Le comunità a Kaifeng e Shanghai
  La Cina ospitava già una comunità ebraica. La più antica era quella a Kaifeng nella provincia dell'Henan, e poi quella degli ebrei sefarditi di Baghdad, arrivati alla metà dell'Ottocento. Le comunità si erano ingrossate poi tra la fine dell'Ottocento e gli anni Venti, con l'arrivo degli ebrei russi in fuga dai pogrom dell'epoca zarista e dal caos della rivoluzione d'Ottobre. Alla fine degli anni Trenta i nuovi arrivi erano dalla Germania e dall'Europa centrale e si erano concentrati nel distretto Hongkou di Shanghai.

 L'invasione giapponese
  E' a quel punto che i dirigenti cinesi preparano i piani per l'insediamento nello Yunnan, per ragioni umanitarie e perché probabilmente le capacità di assorbimento a Shanghai erano esaurite. E' una dimostrazione di grande generosità perché il quel momento le truppe del Giappone, alleato della Germania nazista, erano inarrestabili e stavano conquistando quasi tutte le province costiere, tanto che la capitale era stata spostata provvisoriamente a Hankou.

 Fondatore della Repubblica
  La nuova ondata di profughi si era gonfiata dopo l'Anschluss dell'Austria alla Germania, nel 1938. Il governo cinese adotta i suggerimenti di Sun Fo, figlio di Sun Yat-sen, fondatore della repubblica cinese nel 1912, dopo la deposizione dell'ultimo imperatore Pu Yi. Viene scelto lo Yunnan per i nuovi insediamenti per ragioni pratiche, oltre che di solidarietà: è poco popolato e si trova al confine con la Birmania, parte allora dell'Impero britannico.

 Mossa per ottenere l'aiuto inglese
  Il documento ritrovato da Haaretz enumera gli ebrei nel mondo: 16 milioni, quattro negli Stati Uniti, tre in Unione Sovietica, tre in Polonia e gli altri sparsi negli altri Paesi. Il piano sottolinea che la Gran Bretagna non ha fornito loro l'assistenza promessa. L'annotazione punta a suscitare anche la simpatia dell'opinione pubblica britannica, compresa l'importante e influente comunità che viveva allora in Cina. Salvando gli ebrei la Cina sperava anche nell'aiuto dell'Impero britannico contro l'invasore giapponese. Un circostanza che si realizzerà solo molto più tardi, dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor nel dicembre del 1941.

(La Stampa, 5 agosto 2017)


"Ebrei di Libia residenti all'estero, un'ingiustizia da sanare"

"Gli ebrei di origine libica naturalizzati italiani, o riconosciuti tali 'optimo iure sanguine' che risiedono all'estero, incontrano delle difficoltà nel vedersi rinnovato il passaporto dai rispettivi consolati, per via dell'impossibilità di poter produrre il loro certificato di nascita. In mancanza del certificato di nascita, un cittadino italiano residente all'estero, non può nemmeno iscriversi all'Aire".
A sollevare questo problema, in una lettera aperta al Primo ministro Paolo Gentiloni, è l'assessore UCEI alla Cultura David Meghnagi.
"Per evitare il rischio di perdere la cittadinanza - si legge ancora - occorrerebbe trasferire la propria residenza in Italia e, una volta qui, rivolgersi al Tribunale per ottenere una dichiarazione giurata". Il trasferimento della residenza non è però una cosa che si possa compiere facilmente. Per questo Meghnagi individua una via di uscita: a rilasciare la certificazione sostitutiva potrebbero i Consolati.
"Qualora questa strada fosse percorribile sul piano giuridico - osserva infine - renderebbe possibile il superamento di una difficoltà che per non voluta, suonerebbe ingiusta".

(moked, 6 agosto 2017)


Unità speciale mista'aravim ("comportarsi come un arabo")

In una stretta e polverosa viuzza di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, un carretto trainato da un asino si faceva spazio tra la gente. Poco distante, in un chiosco protetto dal sole, cinque uomini conversavano davanti ad un bicchiere di vetro contenente del caffè. Ad un certo punto una macchina bianca svoltò, a velocità sostenuta, verso il centro dell'angusta carreggiata: l'asino con il suo padrone era d'intralcio e avrebbe potuto rallentarne la marcia.
All'interno dell'autovettura bianca sedevano cinque uomini con il volto semicoperto dalla tradizionale Kefiah bianconera. Improvvisamente, non appena raggiunto il pergolato, le portiere della macchina si spalancarono all'unisono: tre uomini, con la pistola in mano, si avventarono sul gruppo con inaudita rapidità. In pochi istanti uno dei commensali venne afferrato e trascinato con forza verso il vano posteriore della macchina; ai suoi compagni non restò che assistere, atterriti, a quanto stava accadendo. Dentro l'auto, al lato opposto del guidatore, un altro uomo osservava la scena impugnando un M4, pronto ad annichilire qualsiasi tentativo di reazione. Con la stessa velocità, l'autovettura ingranò la prima imboccando una strada secondaria, volatilizzandosi come inghiottita dalla polvere. Il giovane rapito era un terrorista di Hamas il quale stava preparandosi ad un attentato contro le città ebraiche oltreconfine....

(DIFESA online, 5 agosto 2017)


Da Giulio Cesare alle deportazioni, storia e usanze degli ebrei romani

Giulia Mafai racconta la lunga storia degli ebrei romani

di Fabio Isman

 Il racconto
«La memoria non si comanda, non si costruisce: si automantiene in un posto profondo e segreto della nostra anima», dice Giulia Mafai, ultima e più piccola figlia di Mario e Antonietta Raphael, famosa scenografa e costumista per i maggiori nomi del cinema italiano, 87 anni portati in modo assolutamente invidiabile. «In età avanzata, mi sono concessa un regalo: ho fatto l'abusiva della scrittura, e ho scritto un librino che considero un atto d'amore, con cui saldo in minima parte il debito morale verso il mio lato ebraico».
  Nasce così "Ebrei sul Tevere, storia, storie e storielle": quasi un racconto per spiegare 2300 anni di storia ad un nipote. Del resto, «sulla divulgazione si gioca una partita assai importante», precisa nella prefazione Gadi Luzzatto Voghera.
  Tantissimi aneddoti, tantissime usanze remote, tantissimi dettagli. Dai tempi felici, quando Roma aveva 17 sinagoghe, e tutti gli ebrei in lacrime (giunti nell'Urbe almeno nel 139 a.C) partecipano ai funerali di Giulio Cesare, però Tiberio ne spedisce quattromila in Sardegna (si usava già allora), ai giorni più oscuri delle persecuzioni volute dai papi, a quelli tremendi dell'ultima Guerra e dei nazisti: c'è davvero tutto.Non c'è invece più la casa dei Mafai, la terrazza dove Mario e Antonietta «dipingevano con poesia e amore le rovine e i tramonti»: sacrificata per far nascere via dell'Impero.
  Seneca si lamentava per il loro «shabbat»: scendono tutti in strada e fanno fracasso. E se Augusto distribuiva il grano di sabato, stabiliva un altro giorno per gli ebrei, ed esonerava dal servizio i funzionari giudei. Qualcuno vuole che perfino un papa, Anacleto II, fosse figlio di un banchiere ebreo. Ma poi, la pittura, e anche già Giotto, «di Gesù cancella l'origine palestinese: la fa diventare bizantina. «A Magonza, nel 1096, un pogrom dura più giorni: oltre mille vittime». «L'odio delle Crociate, per gl'infedeli di Terrasanta, dà forza a quello mai sopito verso gli ebrei». E' l'ora di distinguerli con un segno obbligatorio: lo si vede ancora a Mantova, in una pala eseguita per una chiesa su ordine di Daniele Norsa. Da lì, non ci sarà più fine; nella «corsa ai ghetti», Venezia arriva prima, e Roma seconda.

 La paura
  La discriminazione e la paura. Il Ghetto è un paese, e vi si tramandano le usanze popolari; qualcuno muore, e si vuotano tutti gli orci e le brocche perché l'angelo della morte, lasciando la casa, si lavava le mani, e l'acqua era impura; finestre aperte, perché l'anima possa uscire; ci si strappava le vesti per il lutto: oggi solo le imbastiture. Le uova sode non si tagliano con il coltello, strumento di morte; un pizzico di sale in ogni angolo a casa nuova, è la difesa dal malocchio. E a Roma, ci sono le prediche forzate e la Casa dei catecumeni (pagata dagli ebrei) dove, spesso, le conversioni hanno bisogno delle virgolette. Accanto al Tempio maggiore, una chiesa ha ancora un'iscrizione sulla facciata in lingua ebraica: un ammonimento per chi vi era rinchiuso. Ventimila libri bruciati a Campo dei Fiori nel 1553.
  I nazisti: e non occorre ricordare troppo. I 50 chili d'oro prelevati con l'inganno; le due biblioteche rubate; gli oltre mille deportati nel medesimo giorno. Il libro racconta di tanti salvati nelle chiese, e delle Fosse Ardeatine. Manca un solo nome: il rabbino capo di Roma Israel Anton Zolli, divenuto Italo con l'arianizzazione, che nel 1943 si converte; lascia solo il suo popolo, si fa chiamare Eugenio Pio, da papa Pacelli. Beh, gli ebrei della Capitale sono romani antichi: nell'Urbe prima che Gesù nascesse; e hanno imparato la «damnatio memoriae». Non è una rimozione, come avrebbe detto Sigmund Freud; ma un'omissione voluta. Leggendo questa pagine si può benissimo capire perché.

(Il Messaggero, 6 agosto 2017)


Il Bel Paese dell'Ebraismo

L'Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts di Gerusalemme conta 35mila manoscritti. Quasi la metà provengono dall'Italia.

di Giulio Busi

Nei miei ricordi giovanili c'è una stanza segreta. In penombra, con il fruscio dell'aria condizionata, sulla collina di Givat Ram. Ci sono entrato per la prima nel 1982. Israele era in stato di mobilitazione per la guerra del Libano. I miei familiari in Italia pensavano fossi in un'area pericolosa, ed erano in pensiero. Secondo i miei amici israeliani, che mi chiedevano delle Brigate rosse e delle stragi terroristiche, era l'Italia a essere poco sicura. Varcata la porta di quella sala protetta, la realtà attorno svaniva. Lì si leggeva solo del passato. Ci si nuotava dentro, al passato, si rischiava di affondarci. Arrivavo presto la mattina, uscivo la sera, con l'ultimo bibliotecario. Decine di migliaia di manoscritti, raccolti da ogni parte del pianeta. un numero abissale di pagine, frasi, lettere, disegni, miniature. L'Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts della Biblioteca Nazionale Ebraica era l'unico luogo in cui fosse possibile consultare tutti assieme quei codici, gettati ai quattro angoli del mondo da espulsioni e persecuzioni, o portati lontano dalla vita di diaspora, del destino, dalla Storia. La rivoluzione digitale ha mutato il volto della Distanza, la dea pallida che ci attrae senza mai soddisfarci. Lontano e vicino sono un click sulla barra delle applicazioni, l'immagine che si chiude e la prossima che sboccia, umile fiore di cristalli liquidi. Allora, e sono trascorsi "solo" trentacinque anni, per studiare qualsiasi comunità ebraica d'Italia, bisognava andare a Gerusalemme, prendere l'autobus numero 9 per il campus universitario, sedersi davanti a un lettore di microfilm, e far muovere il rullino avanti e indietro, fino al fotogramma giusto.
   Dei circa 35 mila manoscritti ebraici del Medioevo e Rinascimento, fotografati in quella straordinaria collezione, quasi la metà provengono dall'Italia: qui sono stati copiati, o comunque conservati per molti secoli, prima di esser venduti, soprattutto a partire dall'Ottocento, e finire nelle grandi biblioteche del Vecchio continente, d'America, d'Israele. È vero che, nell'età di mezzo e fino al XVI secolo, circa un quinto della popolazione ebraica d'Europa era concentrata nella nostra Penisola, ma resta il divario tra dati demografici da una parte e capacità di durata dall'altra. Perché? Per capirlo, dalla stanza di Gerusalemme è necessario percorrere l'itinerario inverso. Tornare sui luoghi che hanno alimentato una così sorprendente creatività.
   La risposta è custodita nelle vicende di una miriade di insediamenti ebraici, sparsi per la pianura padana, nell'Italia centrale, nel Mezzogiorno, come semi gettati da un misterioso seminatore. Nessun'altra terra di diaspora può offrire altrettanta continuità. Almeno ventuno secoli di presenza ininterrotta degli ebrei a Roma non sono una nota a piè di pagina della storia dell'Urbe. Architettura, urbanistica, letteratura, archivi. Provate a toglierli, quei fili, dalla più ampia vicenda maggioritaria, e tutta la stoffa si strapperà. Andate a Mantova, a Venezia, a Livorno. O in luoghi assai più piccoli, quasi sconosciuti. Cercate le sinagoghe, o le vestigia che ne rimangono. Entrate in biblioteca, sfogliate i volumi di cronaca locale. Non c'è memoria italiana senza ebraismo. E non c'è ebraismo senza memoria italiana.
   In queste settimane si è parlato molto di un manoscritto copiato Medioevo, e conservato da cinque secoli da una stessa, antica famiglia ebraica italiana. Trattenerlo nel nostro Paese, lasciarlo emigrare, senza ritorno, o quasi? Proviamo innanzitutto ad ascoltare le sue pagine antiche. Ne hanno viste tante, che qualcosa da dirci l'hanno di sicuro.
   È un racconto che comincia col buio. "L'anno in cui la luce si è trasformata in tenebre". Lo scrive il copista, Jacob ben Samuel, nel poema che contiene il suo nome e la data di copia. L'anno è il 5109 dalla Creazione, secondo il computo ebraico. Il 1349 del calendario cristiano. La tenebra, è quella portata dalla peste nera, con il suo corteo di morte e di persecuzione. Accusati di aver diffuso intenzionalmente il contagio, gli ebrei vengono massacrati in molti luoghi d'Europa. I primi stermini divampano nel 1348, per estendersi l'anno seguente, in specie in area tedesca. Dalla luce all'oscurità e di nuovo alla speranza. Il manoscritto, bellissimo nella grafia e nelle miniature, contiene la "Guida dei Perplessi", grande e difficile opera filosofica di Mosè Maimonide (m. 1204). Bibbia e pensiero greco, teologia d'ascendenza musulmana, aristotelismo, retaggio rabbinico: le fonti di Maimonide hanno molti colori, proprio come il fato ebraico dell'età di mezzo. Capitolo dopo capitolo, il pensatore d'origine iberica, letto e apprezzato anche da Tommaso d'Aquino, costruisce la sua ardita armonia tra fede e ragione. Qualcuno, forse già nel tardo Trecento, porta il libro in Italia. È una minuscola goccia nel ruscello dell'immigrazione che scorre da nord verso sud. Gli ebrei ashkenaziti, perseguitati a settentrione delle Alpi, si rifugiano nelle terre della Penisola, più ospitali e in piena espansione economica.
   Nel giudaismo, forse più che in qualsiasi altra tradizione, i libri concentrano speranze, afflizioni, attese. Il "nostro" manoscritto è un bene prezioso, per la cura con cui è stato eseguito, ed è importante e ricercato per il suo contenuto. Passa di mano in mano, e giunge a un membro della famiglia Norsa, dinastia di banchieri in stretto contatto con i Gonzaga e gli Este. È il 10 gennaio 1516, e a comprarlo è Mosè ben Netanel. Per Mosè Norsa i testi scritti sono molto importanti. Raccoglie una biblioteca scelta di manoscritti, e di quella collezione ci rimangono oggi almeno altri otto codici, oltre a questo di cui oggi si discute. Sono sparsi tra la Palatina di Parma, Parigi ed Oxford.
   Il codice di Maimonide mostra segni del tempo. I primi dieci fogli sono danneggiati. La legatura originale, d'area tedesca, è stata sostituita con una realizzata in Italia settentrionale, anch'essa rovinata, forse nel sacco di Mantova del 1630. Nonostante le traversie, per 511 anni, quella Guida dei perplessi venuta dalla tenebra, s'è tramandata di generazione, tra Mantova e Milano. Di sicuro è una testimonianza fondamentale di storia dell'ebraismo in Italia. È anche storia italiana? Provate a strappare i fili, fra trama e ordito. Guardate cosa resta.
   L'emorragia del patrimonio librario ebraico italiano verso l'estero è stata impressionante, e si può dire che sia continuata, con esportazioni più o meno illegali, fino a ieri. A questo punto, conservare e valorizzare ogni volume è importante, ed è fondamentale che non vada persa la continuità di questi beni con il loro contesto storico. Una memoria solo virtuale sancisce in realtà l'oblio e la desertificazione del paesaggio, interiore ed esteriore.
   In attesa di conoscerne la collocazione futura, se nel frattempo volete leggere il manoscritto copiato da Jacob ben Samuel, o solo scorrerne le immagini, scrivetevi questo numero: F 4285. È la segnatura del microfilm a Gerusalemme. L'autobus è il numero 9, ma va bene anche il 7.

(Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2017)


Drone palestinese atterra in Israele

di Luca Masali

L'esercito israeliano ha catturato un drone partito dalla striscia di Gaza e atterrato in territorio israeliano. La macchina, di cui non sono state rese note le caratteristiche, è ora sotto analisi nei laboratori israeliani.

Il timore delle autorità è che Hamas, che ha una notevole esperienza con i droni, anche ad ala fissa di dimensioni non trascurabili, possa armarli con cariche esplosive per fare attentati nello Stato ebraico, anche se finora Hamas ha usato i droni solo per ricognizioni video.

(Dronezine, 6 agosto 2017)


Lo straordinario autocontrollo con cui Israele gestisce l'emergenza

Da quando è stato fondato, nel maggio del 1948, lo stato di Israele è costretto a confrontarsi con problematiche molto significative sul piano della sicurezza. provenienti dall'esterno ma talvolta anche dall'interno. Qual è il segreto di una così difficile sopravvivenza? Quale invece il costo che questa costante tensione impone?

di Francesco Lucrezi

I recenti, drammatici fatti di sangue di Gerusalemme ripropongono, ancora una volta, amare considerazioni, che già tante volte siamo stati costretti a ripetere. La feroce spietatezza degli assassini, per i quali la sacralità del luogo prescelto per dare la morte rappresenta, anziché un freno morale, un evidente potenziatore dell'effetto mediatico e propagandistico dei crimini perpetrati. La tetra, lugubre, disperante monotonia dei loro sponsor, che non vedono l'ora di inneggiare, con parole sempre uguali, ai nuovi "eroi", che vanno ad infoltire il già affollatissimo album di figurine dei campioni di casa; la sfacciata ipocrisia di chi finge di condannare il gesto, già preparando i soldi delle laute pensioni da elargire ai familiari degli assassini, in impaziente attesa; lo squallido cinismo di chi reclama a viva voce la tutela dei luoghi santi, attribuendo la responsabilità della loro temporanea chiusura non già ai seminatori di morte, ma alle autorità preposte alla pubblica sicurezza, che hanno il dovere (strano?) di vigilare sull'incolumità di tutti, e di prevenire ulteriori accoltellamenti e omicidi. Sono cose già dette e stradette, che non varrebbe neanche la pena ripetere. Quella che intendevo fare, in quest'occasione, era invece un 'altra, piccola considerazione.
   Anche se, purtroppo, la minaccia terroristica incombe, al giorno d'oggi, su quasi tutti i Paesi del mondo (compresa l'Italia, anche se pare, fino ad oggi - incrociamo le dita - essere stata risparmiata), in nessun altro posto, al pari di Israele, vige uno stato di allerta così costante, quotidiano, capillare, che impone non soltanto alle forze dell'ordine, ma ogni singolo cittadino una condizione di vigilanza continua e incessante, che non ammette alcuna deroga o flessione. Ci sono regole di comportamento quotidiane che gli israeliani imparano fin da bambini, e che tutti, di qualsiasi orientamento politico o religioso, sono costretti a osservare giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Anche gli arabi, naturalmente, quando circolano per le zone a maggioranza ebraica, stanno attenti, e gli stessi terroristi, anche quando vanno a fare gli attentati, usano cautela, per evitare di finire per sbaglio colpiti da qualche loro collega. Senza questa educazione collettiva alla sicurezza, il prezzo pagato dalla cittadinanza al terrore sarebbe, evidentemente, molto più alto. Eppure, come ben sa chi sia andato in Israele, anche una sola volta, questo costante stato di emergenza viene gestito con straordinario autocontrollo: la gente lavora, esce, si diverte, si incontra, va al ristorante, al cinema e a teatro, vive la quotidianità con un diffuso sentimento di normalità, di tranquillità.
   E com'è noto, il Paese stupisce il mondo con i risultati di eccellenza raggiunti nei campi più disparati: le Università israeliane sono tra le migliori del mondo, gli ospedali pure, gli studi di diritto, storiografia, economia, scienze sono all' avanguardia, i progressi tecnologici recano benefici a tutti i continenti, e rendono la piccola nazione, percentualmente, la punta di diamante dell'hi-tech mondiale, l'agricoltura è in costante avanscoperta, i romanzieri sono tradotti in tutte le lingue, e commuovono i lettori di tutto il pianeta. E tutto questo nonostante l'intero sistema-Paese debba investire una parte enorme delle proprie risorse umane e finanziarie nella sicurezza. Nonostante Israele sia costretto a mantenere un esercito e una polizia in stato di costante e assoluta efficienza, nonostante tutti i ragazzi, appena finito il liceo, debbano sostenere due o tre anni di leva obbligatoria, e quasi tutti gli adulti debbano tornare a servire Tsahal, come riservisti, fino a età non più verdi. Qualcuno si è mai chiesto cosa riuscirebbe a fare Israele, senza dovere impiegare tanta parte del tempo, delle energie e delle risorse nella sola sicurezza? Senza dovere sempre organizzare e gestire controlli, check point, metal detector - sforzandosi di ridurre al minimo i disagi per la popolazione -, senza quotidiani addestramenti militari, senza dovere costantemente guardarsi intorno e alle spalle?
   Quanti altri libri e poesie potrebbero essere scritti, quanti quadri potrebbero essere dipinti, quante scoperte potrebbero essere fatte, quanta musica potrebbe essere composta e ascoltata, quante opere teatrali recitate? E quanto beneficio trarrebbe, tutto il mondo, da tutto ciò?
   Nessuno lo saprà mai. Sappiamo solo che, ogni giorno, vengono buttati a mare interi forzieri ripieni di monete d'oro, nell'indifferenza - se non nel compiacimento - di tutti.

(Pagine Ebraiche, agosto 2017)


Ritrovata in Israele la città degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo

La scoperta che ha convinto gli archeologi di essere in presenza della città citata dagli storici di epoca romana ma mai ritrovata, è stata quella di un complesso di bagni.

di Giordano Stabile

Archeologi israeliani hanno ritrovata l'antica città di Julias, dove nacquero gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo. Un sito stratificato, con resti bizantini e romani di epoca classica è stato individuato e portato alla luce sulla sponda settentrionale del Lago Tiberiade, nella valle di Bethsaida.

 I bagni ritrovati
  La scoperta che ha convinto gli archeologi di essere in presenza della città citata dagli storici di epoca romana ma mai ritrovata, è stata quella di un complesso di bagni, il che indica che siamo di fronte a una "polis" romana, non un villaggio, una città dotata di servizi pubblici, come ha sottolineato il professor Mordechai Aviam del Kinneret College, citato dal quotidiano Haaretz.

 Lo storico ebreo
  L'esistenza di Julias è citata dallo storico ebreo Josephus Flavius. Venne fondata nel I secolo dopo Cristo dal re Filippo Erode, figlio dell'Erode sterminatore dei bambini alla nascita di Cristo. Il re trasformò il villaggio di pescatori di Bethsaida in una vera città. E i bagni scoperti dimostrato che lo storico aveva ragione.

 La moglie dell'imperatore
  Julias prese il nome dalla moglie dell'imperatore Tiberio e fu protagonista della grande rivolta contro i romani del 67 dopo Cristo, repressa nel sangue e con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, un altro episodio raccontato in prima persona dallo storico Josephus.

 Ricostruita in epoca bizantina
  Julias si trova in quello che era il delta del fiume Giordano sulle sponde del lago Tiberiade. Venne probabilmente distrutta, sommersa dal fango trasportato dal fiume e poi riedificata in epoca bizantina, come ha ipotizzato lo studioso Noam Greenbaum dell'Università di Haifa. Gli archeologi sono convinti di aver trovato anche i resti di una basilica bizantina, citata da un vescovo in viaggio in Terra Santa nell'VIII secolo.

 La casa degli apostoli
  I ricercatori hanno anche ritrovato monete dell'epoca dell'imperatore Nerone, che dimostrano come fosse abitata attorno al 65 dopo Cristo. La basilica venne invece edificata nel III o IV secolo dopo Cristo, sulle fondamenta di quella che si pensava fosse la casa di Pietro e Andrea.

(La Stampa, 6 agosto 2017)


Milano - Ogni notte cinquanta profughi ospitati nel museo della Shoah

Accuditi dai volontari nel memoriale sotto la stazione Centrale

di Michele Sasso

MILANO - I gruppi di migranti si radunano al tramonto. Dopo aver ciondolato tutto il giorno tra piazza Duca d'Aosta e i giardini di Porta Venezia, aspettano l'apertura del Memoriale della Shoah di Milano, alla Stazione centrale: unici visitatori (interessati) di un luogo poco conosciuto in città, eppure fortemente simbolico. Da luglio a novembre, nella stagione clou degli sbarchi, ecco la trasformazione del «binario 21»: il luogo sotterraneo da cui nel 1943-44 partirono i convogli per i lager della Germania nazista, diventa dormitorio temporaneo; il luogo in cui ebbe inizio l'orrore della Shoah, 70 anni dopo diventa approdo per chi scappa dall'Africa.
   In città, nei centri di accoglienza comunali e prefettizi, si contano 6011 migranti (125 mila i profughi accolti da ottobre 2013) ma i posti non sono abbastanza. E in tanti dormono dove possono: in strada, nei parchi, sotto i cavalcavia, nei luoghi invisibili della metropoli. Per 50 di loro, grazie alla passa parola, c'è la possibilità di entrare negli spazi del Memoriale, fare una doccia, cenare e avere una brandina fino al mattino quando, dopo la colazione, sono di nuovo in strada.
   Dall'indifferenza alla solidarietà, grazie alla buona volontà della Comunità di Sant'Egidio che, insieme a quella Ebraica, ha deciso di aprire il Memoriale per la prima volta a fine giugno 2015. «Eravamo nel pieno dell'ennesima ondata di arrivi, con centinaia di siriani bloccati a Milano a causa della chiusura delle frontiere a Ventimiglia e al Brennero - racconta Stefano Pasta, Comunità di Sant'Egidio, -. In quel clima la Fondazione memoriale della Shoah telefona a Liliana Segre e dà il via all'ospitalità». Sopra un treno partito dal binario 21 il 30 gennaio 1944 c'era proprio lei, Liliana Segre: aveva 13 anni, era con suo padre, morto ad Auschwitz. Lei è una dei pochissimi superstiti ancora in vita, e grazie a lei questo spazio caduto nell'oblio è stato trasformato in memoriale e nel 2013 aperto al pubblico.
   In due anni sono passati da qui oltre 7500 profughi provenienti da 26 Paesi. Le brandine vengono aperte in una piccola porzione dei settemila metri quadri di percorsi tematici. Sono giovani, giovanissimi, l'altro giorno erano soprattutto eritrei, tutti sotto i 18 anni; Yafiet è a piedi nudi mentre aspetta la cena: «Voglio andare in Germania. Sono partito 8 mesi fa da Asmara per scappare da Afewerki (il sanguinario dittatore che tiene in scacco l'Eritrea da 20 anni). Aspetto i documenti». A dare informazioni ai tanti Yafiet e darsi il cambio per la distribuzione di pasti e informazioni utili per avere lo status di rifugiato, sono più di mille volontari: studenti, parrocchiani del quartiere Baggio, fedeli della chiesa anglicana, ma anche laici musulmani e ragazzi Rom. I migranti non possono stare per più di tre notti; priorità a minorenni e donne. In attesa dei documenti si arrangiano. Come Abdu, 23 anni, sudanese: «Per 5 volte ho cercato di andare in Francia e per 5 volte mi hanno rispedito a Taranto. Ho appuntamento per la richiesta di asilo il 7 settembre, ma nel frattempo che faccio?».

(La Stampa, 6 agosto 2017)


Bologna - Memoriale della Shoah fra sporco e rifiuti.

«Basta usarlo come dormitorio, impediremo agli sbandati di sdraiarsi». Comune e Comunità Ebraica al lavoro

di Federico Del Prete

Le telecamere e una migliore illuminazione ci sono già, ma non bastano. Per difendere dal degrado il Memoriale della Shoah sul ponte di via Matteotti - inaugurato solo un anno e mezzo fa -, il Comune sta pensando a qualcosa di più. Intanto, Hera pulirà anche l'interno del monumento, che in questi giorni è invaso da rifiuti, cartacce e persino escrementi umani, ma soprattutto si sta pensando a una soluzione per evitare che la struttura diventi un riparo per sbandati e clochard, come mostrato da un video pubblicato l'altro ieri sulla pagina Facebook di 'Riprendiamoci Bologna'. Nelle immagini, girate intorno a mezzogiorno, all'improvviso spuntava una persona che dormiva e i tecnici Palazzo d'Accursio stanno ragionando insieme ai progettisti del monumento su una soluzione architettonica che eviti questa possibilità. Forse una diversa superficie o l'inserimento di elementi che impediscano alle persone di sdraiarsi.
  «Non è la prima volta purtroppo, siamo a conoscenza della situazione», rivela Daniele De Paz, presidente della Comunità ebraica di Bologna: «Solo pochi giorni fa, durante un sopralluogo notturno con il presidente del quartiere Ara, ci eravamo imbattuti anche noi in una persona che dormiva». Per questo, il dialogo con il Comune è già stato aperto: «La conformazione di quella struttura si presta a questo genere di cose - analizza l'assessore Riccardo Malagoli, che ha una specifica delega per la lotta al degrado -: sembra quasi fatto apposta per sdraiarsi, i vani sono ampi e riparati dall'esterno». Dunque, «stiamo studiando una soluzione per evitare quel tipo di utilizzo, da parte nostra c'è la massima disponibilità su tutto». La stessa offerta dalla Comunità ebraica che ha messo un solo paletto: «Il monumento è aperto e tale deve restare - assicura De Paz -: la possibilità di passare in mezzo alle due strutture fa parte del significato stesso dell'opera». Quanto ai ragazzi che utilizzano la piazza con gli skateboard, era proprio loro che Ara e De Paz hanno incontrato nei giorni scorsi. «Volevamo conoscerli e chiedere loro di fare meno rumore nelle ore serali», spiega ancora De Paz: «Ma anche ringraziarli, perché tengono vivo l'utilizzo del monumento. Oltre alla memoria, è giusto che sia anche un luogo di ritrovo, da vivere nel modo giusto e più decoroso».

(il Resto del Carlino, 6 agosto 2017)


La lettera di Moro sul patto coi palestlnesi

Già due anni prima della strage di Bologna lo statista parlava del Lodo

Mino Pecorelli su OP
Anche il giornalista fece riferimento a quell' «accordo anomalo»
Il lodo
L'avrebbe raggiunto Giovannone capo centro del Sismi a Beirut
Moro
Più volte furono liberati palestinesi detenuti e condannati

di Luca Rocca

C'è una lettera, che Aldo Moro scrisse durante i 55 giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse, che avvalora la «pista palestinese» per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Una lettera che lo statista democristiano indirizzò all' ex segretario della Dc Flaminio Piccoli e che rende ancora più plausibile immaginare che la bomba esplosa alla stazione 37 anni fa fu opera dei terroristi palestinesi intenzionati a punirci per il tradimento del cosiddetto «Lodo Moro», espressione utilizzata dal Capo dello Stato Francesco Cossiga per descrivere un accordo non scritto fra l'Italia e il Fronte, che da una parte teneva fuori il nostro Paese da attentati terroristici, e dall'altra prevedeva un trattamento di favore al Fplp, compreso il transito indisturbato delle loro armi sul nostro territorio. Tradimento avvenuto col sequestro di due missili a Ortona nel novembre del '79 e l'arresto del responsabile del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina in Italia, Abu Anzeh Saleh. In quell'appunto scritto dal covo delle Br e indirizzato a Piccoli, Moro citava, innanzitutto, Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut dal 1972 al 1981 (è dai nostri 007 che nel biennio 1979-1980 vennero lanciati vari allarmi sull'intenzione palestinese di far scattare ritorsioni contro l'Italia), e poi affermava: «Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente». Parole non equivocabili, con le quali lo statista sembra confermare proprio l'esistenza di un «patto» con gli estremisti del Fplp allo scopo di evitare «rappresaglie». Ad analizzare quella lettera a Piccoli fu, il 10 ottobre del 1978, anche Mino Pecorelli (poi morto ammazzato in circostanze rimaste oscure), che sul suo settimanale «OP» fece un chiaro collegamento fra le parole di Moro e il suo «Lodo»: «Moro - scrisse Pecorelli - si riferisce a quell'accordo "anomalo" stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l'Italia non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi e attentati che tante vittime e danni hanno provocato in Europa a partire dal '72. Rumor (ex presidente del Consiglio Dc, ndr) e Moro giudicarono che l'unica strada per impedire che l'Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con Habbash (leader del Fplp, ndr) una sorta di mutuo patto di non aggressione. L'accordo stabilito dal Sid (futuro Sismi, ndr) fu sempre rispettato». Almeno fino a quel momento. Perché poco dopo, come detto, quel patto venne violato con l'arresto di Saleh. E così le condizioni per evitare «rappresaglie» descritte da Moro nella sua lettera (cioè la liberazione di «palestinesi detenuti ed anche condannati»), ne uscirono disintegrate. Sta di fatto che, qualche mese dopo l'arresto di Saleh, a Bologna deflagrò una bomba che fece 85 morti e più di 200 feriti. L'estate successiva a quell'eccidio, il rappresentante del Fplp in Italia venne liberato su decisione della Cassazione. Del «Lodo Moro», d'altra parte, ne parlò schiettamente anche Bassam Abu Sharif, in quegli anni responsabile dell'informazione dei marxisti-leninisti del Fronte e reclutatore del terrorista Carlos «lo Sciacallo» (il cui uomo, Thomas Kram, si trovava a Bologna nel giorno della strage), ma non lo nascose nemmeno lo stesso Saleh: «lo posso dire che c'era effettivamente un accordo ed era tra l'Italia e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina - confessò nel 2009 -. Fu raggiunto tramite il Sismi, di cui il colonnello Stefano Giovannone, a Beirut, era il garante. Non era un accordo scritto, ma un'intesa sulla parola. Lui ci aveva dato la sua parola d'onore e noi gli abbiamo assicurato che non avremmo compiuto nessuna azione militare in Italia. In cambio Giovannone ci riconobbe la possibilità di trasportare materiale militare attraverso l'Italia».
Quando Cossiga affermò che la strage di Ustica del 27 giugno 1980 avvenne a causa di un missile (anche se le perizie parlano chiaramente di bomba a bordo), tutti gli credettero; chissà perché, però, quando disse che sbagliò a definire «fascista» la mattanza di Bologna, e che commise quell' errore perché «male informato dai servizi segreti», tutti, o quasi, si girarono dall'altra parte.

(Il Tempo, 5 agosto 2017)


«Desecretate tutti i documenti»

Le indagini hanno puntato fin dall'inizio al terrorismo nero.

di Federico Mollicone

Ho aspettato che passasse l'anniversario per rispetto dei parenti delle vittime e per non finire nella grancassa delle dichiarazioni ufficiali dense di retorica e ipocrisia. La strage di Bologna è una ferita ancora aperta nella coscienza nazionale e per questa ragione oggi sono qui a chiedere che venga rispettata l'urgenza di verità sulla strage di Bologna e lo faccio, non come esponente di una parte politica, ma come ex consulente della Commissione Mitrokhin e prima ancora come collaboratore in Commissione Stragi del compianto Enzo Fragalà, avendo seguito tutte le audizioni e letto tutte le carte arrivate in Commissione anche grazie al lavoro del consulente e giornalista Giampaolo Pellizzaro che su Bologna fece un ottimo lavoro insieme a Fragalà e Raisi. Da quelle carte, già in quegli anni, emerse la presenza di uomini di Carlos «lo Sciacallo» a Bologna e la volontà degli apparati di Polizia, da subito, di seguire quella pista segnalata anche dai servizi tedeschi ma, anzi, la frenesia di denunciare la strage «nera» .
   Alla luce di quanto rivelato - grazie allo scoop di Gian Marco Chiocci e de Il Tempo - circa le carte del Colonnello Giovannone che risulterebbero inspiegabilmente ancora secretate nonostante la propaganda renziana sugli archivi trasparenti, si consoliderebbe in maniera inequivocabile, la pista palestinese attraverso la rete Separat di Carlos: una forma di terrorismo «interinales per punire l'Italia che si era permessa di non rispettare il «Lodo Moro» con i palestinesi. Tutte tessere di un mosaico ormai chiarissimo ed evidente, confermato in passato da Francesco Cossiga proprio in Commissione Stragi e in altre occasioni che dichiarò di essersi sbagliato sulla matrice della strage.
   Con le nuove rilevanze la strage di Bologna sarebbe stata la rappresaglia dell'ala estremista del FPLP per l'arresto del loro responsabile militare, Abu Anzeh Saleh, e dei tre autonomi italiani che trasportavano i lanciamissili sovietici per conto dei palestinesi. Da quanto apparso sui giornali Stefano Giovannone avvisò gli apparati dello Stato di questo pericolo e i suoi report hanno una micidiale concordanza di tempi con la strage. Il Sisde si attivò proprio su indicazione di questa minaccia. Poi la strage.
L'urgenza di verità è assoluta. Lo dobbiamo alle vittime innocenti della Strage, a chi è stato ingiustamente condannato per essa e a chi, come Enzo Fragalà, si è battuto sempre per la verità documentata e non per quella processuale di comodo senza mandanti e senza movente.
   Lancio un appello al Presidente Gentiloni affinché quelle carte vengano desecretate e messe subito a disposizione della magistratura per arrivare finalmente ad una verità storica e giudiziaria condivisa.

(Il Tempo, 5 agosto 2017)


La questione della cosiddetta pista palestinese nella strage di Bologna

La procura ha esaminato gran parte delle carte di cui si parla in questi giorni e ha archiviato tutto

di Massimo Bordin

Oggi qui si onora un impegno preso e si completa la cronaca delle vicende giudiziarie legate alla strage di Bologna affrontando la questione della cosiddetta pista palestinese presentata in alternativa alla matrice neofascista di cui parla la sentenza, almeno per quel che riguarda l'esecuzione della strage. La procura di Bologna ha esaminato gran parte delle carte di cui si parla in questi giorni e ha archiviato tutto. Non è decisiva come argomentazione, perché è difficile che lo stesso ufficio che ritiene di aver chiuso un fascicolo con successo, riconosca da solo di aver sbagliato, ma alcuni elementi vanno presi in considerazione. La perizia fatta sull'esplosivo usato in attentati del Fplp comparato a quello usato a Bologna ha dato esito negativo. La minaccia di ritorsioni del gruppo palestinese, che molto preoccupava il colonnello Giovannone, non è comunque comparabile con i dettagliati piani di attentati rinvenuti in quel periodo negli ambienti dell'estrema destra. Negli archivi della Stasi che foraggiava e controllava il Fplp e il "gruppo Carlos", non si è trovato nulla su Bologna. Thomas Kram, l'estremista tedesco presente a Bologna e registrato in albergo col suo vero nome, non faceva parte del gruppo Carlos. Abu Saleh, il palestinese arrestato per la cui liberazione il Fplp avrebbe fatto saltare la stazione di Bologna, venne sì scarcerato ma un anno dopo la strage. Un anno durante il quale il Fplp non si sentì più. C'è ancora dell'altro, ma basta questo per rendere l'ipotesi palestinese fragile almeno quanto quella che ha portato alla condanna di Mambro e Fioravanti.

(Il Foglio, 4 agosto 2017)


E' strano questo compiacimento del FOGLIO per l'archiviazione della "cosiddetta" pista palestinese. Perché cosiddetta? Come si sarebbe dovuto chiamarla altrimenti? E la pista fascista che ha portato alla condanna di Mambro e Fioravanti è anch'essa "cosiddetta"? E se l'ipotesi palestinese è fragile quanto l'ipotesi fascista, perché i due fascisti Mambro e Fioravanti non sono stati lasciati liberi come sono sempre stati liberi i palestinesi. L'autore dell'articolo si tranquillizza facilmente davanti alla possibilità che due innocenti siano stati ingiustamente in carcere per anni. Sarebbe augurabile che dal giornale possa farsi sentire qualche altra voce sull'argomento. M.C.


Gli ebrei che se ne vanno

di Fabrizio Ravelli

Qualche settimana fa una cara amica ebrea confessava che lei non diciamo paura, ma un po' di preoccupazione cominciava ad avercela. Questa amica è una donna razionale e ironica, molto poco incline a drammatizzare. Ho pensato che se lo dice lei la sensazione dev'essere fondata. Mi sono vergognato, io non ebreo, e ho provato a raccogliere qualche dato e qualche parere.
   La domanda è, appunto, se gli ebrei italiani debbano cominciare ad avere paura (o preoccupazione, sempre per non esagerare) a vivere nel loro paese. Dal canto mio, ma immagino dal canto di tutte le persone ragionevoli che non hanno perso la memoria, sono già abbastanza preoccupato per l'espansione evidente dei vari movimenti fascisti. Che si sono messi a fare politica, non trascurando peraltro di moltiplicare le manifestazioni pubbliche a base di saluti romani, labari, saluto al Duce, auguri per il compleanno del suddetto, eccetera. Piccolo inciso: l'altra sera una persona cara che stava per salire su un taxi è stata accolta dal taxista col saluto romano, e alle sue proteste il taxista ha minimizzato, insomma era quasi uno scherzo.
   Questi movimenti variamente fascisti o nazisti (Casa Pound, Fratelli d'Italia, Lealtà Azione e così via) partecipano alle elezioni (locali, per ora) e fanno eleggere loro rappresentanti. A Monza c'è addirittura un assessore nazista, a Lucca diversi consiglieri comunali, solo per citare due città di medie dimensioni. Direi che al momento il loro bersaglio principale sia l'immigrazione, con evidenti connotati razzisti. Ma l'odio per gli ebrei sta comunque, senza dubbio, nel loro Dna e nei riferimenti ad alcuni fra gli organizzatori e gli ideologi della "soluzione finale".
   Un amico ebreo sostiene, a questo proposito, alcune cose:
  • Primo: quando il razzismo esplode, gli ebrei prima o poi ci vanno di mezzo. Più prima che poi.
  • Secondo: l'antisemitismo esplode rapidamente, dopo aver magari a lungo preparato le condizioni.
  • Terzo: gli ebrei italiani, come ha verificato in diverse discussioni pubbliche, sono molto restii ad ammettere di dover avere paura.
Ho trovato in rete (citato in un articolo di Massimo Maugeri) uno studio del britannico Institute for Jewish Policy Research, pubblicato a metà gennaio, dal titolo "Gli ebrei stanno lasciando l'Europa?". Premette che non si tratta di un nuovo esodo, e che i numeri non sono paragonabili con quelli dei decenni '30 e '40 del secolo scorso. Ma negli ultimi anni la migrazione ebraica dall'Europa verso Israele è in crescita costante. Anche le partenze dall'Italia hanno raggiunto livelli "storicamente senza precedenti", e nel 2015 hanno superato le cifre del 1948, anno della fondazione dello stato ebraico. I motivi principali vanno ricercati nella crisi economica, nella ricerca di prospettive di lavoro e nel senso di insicurezza.
   Il Belgio e la Francia sono i paesi europei più toccati. Dalla Francia, dove c'è la comunità ebraica più numerosa d'Europa, dopo gli attentati a Charlie Hebdo e all'Hyper Cacher di Parigi circa 10 mila ebrei se ne sono andati, 8 mila dei quali verso Israele. L'Italia, se questa tendenza fosse confermata, perderebbe dal 2016 al 2021 il 7 per cento della sua popolazione ebraica. La comunità ebraica italiana, una delle più piccole, ha circa 35 mila iscritti, lo 0,6 per mille della popolazione totale. L'anno scorso dall'Italia sono partiti 289 ebrei. Nell'articolo di Maugeri si cita l'opinione di Raffaele Besso, presidente della comunità ebraica di Milano, secondo il quale "in Italia non c'è la percezione netta di una crescita dell'antisemitismo come sta accadendo in altri paesi europei, ma mentre la paura della popolazione ebraica fino al secolo scorso era legata al possibile ritorno di fascismi di varia natura, oggi questa paura è legata al rischio di attentati di matrice jihadista". Gli attentati in Francia e in Belgio hanno accresciuto il senso di insicurezza degli ebrei italiani. E, piuttosto paradossalmente, ci sono ebrei che ritengono di avere maggiore sicurezza in Israele.

(il Post, 4 agosto 2017)


Un'Accademia della lingua per salvare il giudeo-spagnolo

Promossa da autorità linguistica di Spagna, avrà sede in Israele

di Paola Del Vecchio

 
Una vasca per i lavacri rituali, o 'micve', in uso in una sinagoga del XV secolo e recentemente ritrovata
MADRID - Con l'editto promulgato da Isabella la Cattolica nel 1492, ebrei e moreschi furono espulsi dalla Spagna. Cinque secoli dopo, alcuni dei loro discendenti ancora conservano non solo le chiavi delle case nell'antico regno, ma le lingue parlate all'epoca, tramandate nei secoli nelle memorie familiari. Come il giudeo-spagnolo, chiamato anche Judezmo o ladino, parlato ancora oggi nei paesi in cui si trasferirono le comunità sefardite: dal nord Africa ai Balcani, passando per l'Italia, la Guinea Equatoriale, le Filippine e l'America Latina.
   Per salvarla dall'oblio della storia, la Reale Accademia della Lingua spagnola (Rae) ha annunciato la creazione nel 2018 di una sua branca in Israele, dedicata al recupero di quell'idioma. Per "saldare un debito storico con i sefarditi", ha spiegato Dario Villanueva, direttore della Rae, in dichiarazioni ai media. E preservare "un fenomeno culturale e storico di straordinaria importanza". Villanueva ha già avviato contatti con cattedratici, esperti e istituzioni per creare la prima Accademia di lingua giudeo-spagnola, con sede a Tel Aviv, che conta sull'appoggio dell'Autorità nazionale della comunità sefardita, del Centro Sefarad-Israele e del governo di Madrid, oltre che di quello israeliano. Il modello è quello della Rae, istituzione dedicata alla regolazione linguistico-normativa, diretta a favorire l'unità idiomatica nel mondo ispano-parlante, e delle 23 accademie nazionali fondate negli Stati americani dopo l'indipendenza. "Gli ebrei espulsi nel 1492, che si dispersero in Europa e nelle Americhe, portarono con loro la lingua spagnola com'era parlata ai tempi del loro esodo. E che si è miracolosamente preservata nei secoli. Ci sono letteratura, folclore, traduzioni della Bibbia e perfino un quotidiano pubblicato nell'attualità", ha ricordato Villanueva. Un idioma ferito a morte dalla diaspora e dall'olocausto, che ha conservato molti termini dello spagnolo arcaico ed è stato a sua volta influenzato dalle lingue dei Paesi in cui si rifugiarono gli espulsi.
   La nuova istituzione, che diventerebbe il punto di riferimento di fondazioni e centri esistenti per gli specialisti dell'ebreo-spagnolo, avrà appunto sede in Israele. Ed entrerà a far parte dell'Associazione delle Accademie di Lingua Spagnola che fanno capo alla Rae. "Così come facemmo con la fondazione delle accademie Latino Americane, l'idea non è assimilare il giudeo-spagnolo allo spagnolo moderno ma, al contrario, preservarlo", ha assicurato il direttore della Rae. Fra i promotori dell'iniziativa, Shmuel Rafael Vivante, membro del comitato esecutivo dell'autorità nazionale e direttore del Centro Naime e Yehoushua Salti per gli studi del giudeo-spagnolo nell'Università di Bar-Llàn, che ha dedicato la vita a ricostruire la memoria dell'idioma parlato in famiglia. "Nella mia casa venivano riversate parole, espressioni, detti, costumi e usanze sefardite, anche canzoni. Era la lingua dell'allegria, riempiva lo spazio sociale di mia madre con le vicine e di mio padre con gli amici e i sopravvissuti all'olocausto", ha ricordato lo studioso al quotidiano El Diario.
   L'idioma giudeo-spagnolo o sefardita ha perduto sempre più terreno rispetto all'ebraico, che ha finito con l'imporsi nei ghetti. Secondo Vivante, oggi in Israele ci sono almeno 400mila discendenti che conoscono quella lingua, che si è estesa per il mondo, nei paesi in cui si rifugiarono i sefarditi. "Non più in Olanda o Regno Unito, dove si è perduta, ma di certo in nord Africa, nei Balcani e in Turchia", assicura Esther Bendahan, scrittrice e direttrice del centro di studi ebraici di Casa Sefarad-Israele di Madrid.

(ANSAmed, 4 agosto 2017)


Archeologia a Gerusalemme. Uno scavo conferma il rogo della capitale d'Israele

L'archeologia a Gerusalemme sta portando alla luce incredibili scoperte. L'ultima in ordine di tempo è stata il ritrovamento di alcuni oggetti datati 600 anni A.C., che confermano il rogo appiccato a Gerusalemme dai Babilonesi. Tra gli artefatti rinvenuti dagli archeologi dell'Israel Antiquities Authority si contano ceramiche, semi di vite e anche ossa bruciate: tutti ricoperti dalla cenere. I sigilli visibili sopra questi oggetti hanno reso possibile la loro precisa datazione.
Joe Uziel, che guida il programma di scavi, ha spiegato:
"Si tratta di sigilli caratteristici del periodo di costruzione del Primo Tempio. Erano utilizzati per funzioni amministrative tipiche della fine della dinastia giudaica. Non sembra che le costruzioni edificate nella città di David siano state distrutte in una singola occasione, ma che alcune siano state buttate giù, altre abbandonate".
I ritrovamenti effettuati a Gerusalemme testimoniano il rogo babilonese ai danni della capitale d'Israele così com'è scritto nel libro di Geremia:
    "Nel quinto mese, il dieci del mese, essendo l'anno decimonono del regno di Nabucodònosor re di Babilonia, Nabuzaradàn, capo delle guardie, che prestava servizio alla presenza del re di Babilonia, entrò a Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme, diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili".
Gerusalemme, popolo ebraico e Israele. Un legame indissolubile, storico e culturale che non potrà mai venire meno, a prescindere da cosa si tenta di fare nelle stanze di organizzazioni ormai vuotate di ogni autorità.

(Progetto Dreyfus, 4 agosto 2017)


Camminata attraverso la Memoria al colle delle Finestre

Annunciato il programma del pellegrinaggio laico del 10 settembre in ricordo degli ebrei nel '43 cercano in valle Gesso rifugio dalla persecuzione nazista.

di Vanna Pescatori

CUNEO - Salirà al Colle delle Finestre, domenica 10 settembre, la «Camminata attraverso la Memoria», organizzata dall'associazione Giorgio Biandrata di Saluzzo con l'impegno di Sandro Capellaro, di sua moglie Piera e di tanti amici, con cui quest'anno segna il traguardo della XIX edizione.
   Il pellegrinaggio laico a ricordo degli ebrei che attraverso i sentieri alpini, tra l'8 e l'11 settembre 1943, cercarono rifugio dalla persecuzione nazista in valle Gesso, lasciando Saint Martin Vésubié, dove erano forzatamente «residenti», all'arrivo dei tedeschi, ad anni alterni raggiunge i due valichi percorsi dai fuggitivi (soprattutto anziani, donne, ragazzi e bambini). Nel settembre 2016 l'incontro internazionale con i partecipanti che salgono dal versante francese è avvenuto, sul colle Ciriegia. Quest'anno sarà, alle 12, al Colle delle Finestre. Interverranno, tra gli altri, il presidente della Regione, Sergio Chiamparino, Christian Estrosi, sindaco di Nizza, Daniel Wancier, presidente dello Yad Vashem di Nizza e il coro del liceo valdese di Torre Pellice. Il ritrovo sarà alle 7,30, a San Giacomo di Entracque.
   Il programma curato dall'associazione Biandrata, prevede anche un concerto «antologico» dei Barbapedana, al Toselli di Cuneo, venerdì 8 settembre, alle 21, con musiche klezmer ashkenazite e balcaniche e letture dal libro «Oltre il nome» di Adriana Muncinelli e Elena Fallo. Ingresso gratuito con prenotazioni al 3484450451. Sabato 9 settembre, alle 15, incontro a Saint Martin Vésubie, con testimonianze di sopravvissuti e testimoni.

(La Stampa, 4 agosto 2017)


C'è chi cita freddure antisemite pur di sostenere che Israele è la causa dell'antisemitismo

In ogni epoca gli agitatori anti-ebrei hanno sempre sostenuto che reagivano ai "misfatti" degli ebrei: Israele non è che l'ultimo pretesto

Identificare l'antisemitismo e studiare come contrastarlo e sconfiggerlo non è impresa facile, ma in più di due decenni di lavoro e studio in questo campo ho messo a punto una semplice regola: non scimmiottare gli antisemiti contro cui ci si batte.
O meglio, sembrerebbe una regola semplice. Ma lo scrittore e attivista britannico Tony Klug è caduto dritto dritto in questa trappola quando recentemente, su questo stesso giornale (Ha'aretz, 30.7.17), ha citato un conoscente che, a suo dire, gli avrebbe detto: "Pensavo che antisemita fosse chi odia gli ebrei, non chi è odiato dagli ebrei"....

(israele.net, 4 agosto 2017)


Gli spari sopra nella notte di Israele. Diario di viaggio

Da Gerusalemme al Mar Morto, con la visita a un kibbutz, un itinerario nello scacchiere più fragile del Mediterraneo

di Silvio Ferrari

Non sono un inviato. Nessuno mi ha mai proposto di farlo. Però nell'ultimo scorcio di luglio, certo per merito del mio amico Carlo Repetti che, dopo averlo studiato, ha guidato su un bel percorso di visita a Israele, mi sono sentito un osservatore (turistico) privilegiato. Su un itinerario di grande rilievo in giorni di innegabile attenzione del mondo, o almeno dell'Europa, alla travagliata, sempre differenziata esistenza fra ebrei e musulmani nello scacchiere più fragile delle sponde mediterranee.
   Dalla mirabile quadridivisione della Gerusalemme dentro dalla cerchia antica, salvata e minacciata al tempo stesso dalla intoccabile celebrità dei suoi monumenti capitali, proprio nei giorni in cui la Spianata delle moschee ( o Collina del tempio a seconda delle dizioni) costituiva la ragione concreta di qualche
Tel Aviv - Museo di Arte Moderna
sparatoria notturna e del pattugliamento intenso degli accessi alla città, molto più accentuato nei duecento metri che dividevano il nostro albergo tutto arabo-musulmano dalla non meno connotata Porta di Damasco.
   Eppure, se si esce razionalmente dalla città della storia e si percorrono i 60 km dell'autostrada n.1, si può agevolmente toccare con mano la laica e organizzata euforia estiva della moderna e giovanile Tel Aviv dove una visita all'istituzione più consolidata della cultura europea - il Museo dell'arte moderna - ti consente di toccare con mano la forza e la generosità dei lasciti ebrei alla patria e la durata della permanenza negli spazi attraenti dell'esposizione ti fa incontrare centinaia di giovani genitori con i loro bambini in braccio che escono entusiasti dallo splendido auditorium dove hanno assistito ad un apposito spettacolo per piccolissimi. Davvero coinvolgente immagine di un paese giovane e prolifico ... di necessità.
   Ma non riesci a rimuovere l'effetto drammatico subito due giorni prima nella ben più primitiva (e non meno intensamente popolata) Hebron, dove le celebri e antiche tombe dei patriarchi (Abramo, Sara. Rebecca ... ) vengono contese a colpi di muri interni persino alla stessa moschea e difese, con arroganza umiliante per il nostro accompagnatore palestinese, dall'ispezione fisica ordinata dalla soldatessa di turno.
   Si dice, ed è sostanzialmente giusto, che bisogna uscire dai grandi centri urbani per misurarsi con la realtà di un
   territorio sconosciuto. E così, come abbiamo avvertito, quasi preparati dal nome del luogo, l'atmosfera unica della Basilica della Natività a Betlemme e la ritroveremo nell'oasi mistica di Cafarnao e nella doppia Annunciazione delle due chiese così intitolate a Nazareth, ci siamo rivolti alla risalita litoranea del paese su un tracciato passato-presente, cercando di raggiungere in un solo giorno la archeologica Cesarea, la portuale Haifa e la crociato-musulmana San Giovanni d'Acri, che oggi si chiama Akko e si raggiunge in mezz'ora da una stazione suburbana di Haifa con un lindo regionale dalla puntualità sconcertante.
   Che grandezza ellenistico-romana gli scavi di Cesarea fra ippodromi e teatri e che atmosfera da fortezza medievale sul mare Akko, murata e solidamente restaurata in tutta la sua dimensione antica e fino alla splendida moschea settecentesca, ancora più suggestiva nella notte appena impreziosita da una falce di luna crescente.
   Si dice, ed è sostanzialmente giusto, che l'elemento umano, il contatto fra persone, supera ogni conoscenza libresca preventiva, e sotto questo profilo siamo stati dei privilegiati. Abbiamo potuto incontrare in un kibbutz strategicamente collocato davvero ai limiti del paese, nei confini tra il Libano e la
 
Ariela Fersen
Siria del Golan, la signora Ariela Fersen (Fairaisen) protagonista di quella meritevole istituzione comunitaria e al tempo stesso testimone consapevole, fin dalla propria infanzia di bambina ebrea nascosta per anni nel paesino di Lumarzo, della vergognosa persecuzione nazifascista presente anche a Genova dove Ariela è nata, figlia del grande regista Alessandro, attivo antifascista di origine polacca e di rilevante presenza genovese.
   Ci vorrebbe un saggetto per esporre il valore delle scelte compiute da questa giovane sionista e socialista (così si è definita) nella seconda metà degli anni '50 del secolo scorso, che sono state alla base del suo trasferimento in Israele e del suo enorme impegno nella vita e nell'organizzazione del kibbutz di cui abbiamo potuto verificare i risultati e le problematiche. Poi, come in una ragionata ricerca di equilibrio fra curiosità di conoscenza e richiamo del paesaggio turistico più noto e giustamente celebre, abbiamo scelto di concludere il giro sul Mar Morto, fra l'elegante oasi di Ein Gedi e l'acropoli zeloto-ebraica di Masada (Metzada in ebraico).
   Tutti sappiamo da sempre qualcosa di questi luoghi, ma galleggiare "a forza" su quelle acque brucianti di sale e di temperatura (siamo a quasi 50 gradi), mescolati a gruppi consistenti di turisti russi che espongono al sole implacabile le loro robuste, pingui membra di chiara origine contadina, produce un altro effetto e stordisce in breve ogni presunta energia marinara. E meno male che il trenino dei bagnanti ci riporta al ristoro di una qualsiasi bevanda, purché fredda. Ci siamo sopravvalutati.
   Cerchiamo di non ripeterci nella visita mattutina al santuario storico di Masada, oggi grande obiettivo attrezzato con una solida ascesa in funivia che in tre minuti ti porta fra le rovine ben ricostruite della resistenza ebraica all'imperialismo romano del I secolo dopo Cristo.

(Il Secolo XIX, 4 agosto 2017)


A teatro l'assassino dei bimbi ebrei di Tolosa è una vittima della società

Dopo Avignone, prosegue il tour della piece sull'islamista Merah

di Giulio Meotti

ROMA - Il 9 e 10 dicembre si replica a Mont Saint-Aignan, Intanto, la pièce ha raccolto un discreto successo al Festival di Avignone che si è concluso la settimana scorsa. Nella Francia dove 40 mila ebrei se ne sono andati in dieci anni, dove la kippah sta diventando un oggetto proibito per strada, dove dodici ebrei hanno perso la vita in cinque anni di attentati, Mohammed Merah è diventato il simbolo degli esclusi e delle vittime della società francese.
   La pièce "Moi, la mort, je l'aime, comme vous aimez la vie", scritta dall'algerino Mohamed Kacimi e prodotta dal Centro drammatico nazionale di Rouen, racconta le ultime ore del terrorista che ha ucciso a sangue freddo nel 2012 tre soldati francesi, prima di abbattere due fratelli ebrei di quattro anni, il loro padre rabbino e una bambina di sette anni, in una scuola ebraica a Tolosa. Il ministro israeliano della Cultura, Miri Regev, aveva scritto alla sua omologa francese, Françoise Nyssen, chiedendo di vietare l'opera sul jihadista di Tolosa. "La Francia è stata oggetto, come molti altri paesi, di temibili e brutali attacchi terroristici. Dovremmo vietare gli spettacoli e le rappresentazioni teatrali che incoraggiano sentimenti di perdono e simpatia per i terroristi".
"Mohammed Merah era un essere umano, un giovane di vent'anni che guardava i Simpson e mangiava pizza", ha detto il direttore Yohan Manca, contro cui è stata presentata una denuncia per apologia del terrorismo e dell'antisemitismo. Anche i parenti delle vittime di Mohammed Merah avevano chiesto la cancellazione dell'opera, mentre Latifa Ibn Ziaten, la madre di un soldato ucciso da Merah, aveva detto alla France Presse: "Io sono per la libertà della musica, del teatro, ma non in quel modo". Persino il fratello di Merah aveva scritto una lettera al regista.
   Il sottotesto della pièce è chiaro: "E' urgente riflettere sulle cause della violenza in una società che ne è la fonte e la vittima, dove nascono e crescono coloro attirati più dalla morte che dalla vita". Nel testo su Merah ricorre una domanda: "Perché la nostra società crea oggi tali mostruosità?". La gauche tace sulla pièce, già scossa dal caso Mehdi Meklat, il blogger della Francia socialista e multiculti che si è scoperto postava, sotto falso nome, frasi a favore di Merah, contro gli ebrei e i gay.
   Meyer Habib, deputato della Repubblica ed esponente di spicco della comunità ebraica francese, ha condannato l'opera teatrale al Figaro: "Umanizzare l'assassino è già una scusa". Bizzarro poi che il prestigioso festival di Avignone abbia accolto questo testo scandaloso ma abbia censurato "Lettera ai truffatori della islamofobia", l'ultimo libretto del direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier, escluso questa estate da Avignone. In una lettera a Libération del 30 luglio, gli autori della pièce su Charb, oltre a condannare il doppio standard, attaccano la riduzione di Merah a "vittima fragile e alienato del 'sistema razzista"'.
I falsi ideologici di Tariq Ramadan (il suo articolo su Tolosa per il Corriere della Sera) fanno dunque strada, trasformando l'uccisione di tre bambini ebrei, seguita dalla strage all'Hyper Cacher, in una meditazione sul razzismo e l'emarginazione nella società.

(Il Foglio, 4 agosto 2017)


Israele: il presidente Rivlin si accomiata dall'ambasciatore Talò

Ottimi rapporti fra due Paesi, affrontare insieme sfide del Med

 

A pochi giorni dalla fine del suo mandato, l'ambasciatore Francesco Maria Talò è stato ricevuto ieri dal capo dello stato d'Israele, Reuven Rivlin. Con un gesto molto inusuale, il massimo rappresentante israeliano ha così voluto salutare il Capo missione italiano, da 5 anni in questo Paese e prossimo al rientro a Roma.
"Sono onorato di aver incontrato il Presidente Rivlin prima di concludere la mia missione in Israele - ha commentato Talo' - È il segnale dell'ulteriore crescita del legame tra l'Italia e Israele cui ha contribuito il lavoro svolto negli ultimi anni dall' Ambasciata''.
Rivlin ha menzionato l'incontro con il presidente Mattarella dello scorso autunno ed il recente incontro con il ministro degli esteri Alfano nel marzo 2017.
Al centro dei colloqui - precisa un comunicato - e anche ieri nell'incontro di commiato, vi è sempre il Mediterraneo: mare che accomuna i due Paesi e che è fonte di minacce globali, ma anche di grandi opportunità.
"È proprio sulla dimensione mediterranea di entrambi i Paesi che si deve puntare" - ha proseguito l'ambasciatore Talò; "occorre affrontare insieme le tante sfide che provengono da quest'area: immigrazione, terrorismo, sicurezza ed energia, identita', turismo." A conclusione dei 5 anni in Israele, l'Ambasciatore ha tracciato un bilancio molto positivo: "i legami tra i due Paesi - ha osservato - sono già ottimi" ma ha anche rammentato che vi sono "ancora nuove opportunità da cogliere: ad esempio attraverso un impegno comune nell'attrarre flussi turistici da paesi extra-europei verso i due Paesi, o nell'integrare le capacita' industriali italiane con quelle dell'innovazione israeliana".

(ANSAmed, 3 agosto 2017)


BBC, antisemitismo e Times

Un triangolo che non avrebbe ragione d'essere. E invece come spesso accade il sentimento anti-ebraico diventa una falsa "spiegazione" perfetta e un collante troppo affascinante per gli odiatori di professione.
A formare il triangolo in questione è stato Kevin Myers che nell'edizione irlandese del quotidiano ha commentato il caso dei compensi della BBC e della lettera diretta all'emittente spedita da 42 donne, che chiedevano parità di trattamento e di stipendi per giornalisti e giornaliste.
Kevin Myers nell'editoriale "Scusate, signore-la parità di retribuzione va guadagnata", ha suggerito che la giornalista Vanessa Feltz e la presentatrice Claudia Winkleman siano tra le meglio pagate in quanto ebree: "Gli ebrei sono generalmente noti per vendere il loro talento a prezzi alti".
Parole che hanno suscitato le polemiche di molti lettori e hanno costretto il direttore Martin Ivens a etichettare come "inaccettabili" i commenti che non dovevano essere scritti sul quotidiano.
Il contenuto antisemita dell'articolo è stato accompagnato anche da un'altra affermazione assai discutibile secondo cui gli uomini "lavorano di più, si ammalano di meno e restano raramente incinti".
L'episodio di cui si è reso protagonista Kevin Myers è solo l'ennesimo nel quale si tenta di spiegare con la religione un qualcosa che invece ha a che fare esclusivamente con le capacità professionali e lavorative.
La considerazioni sono due.
Un quotidiano prestigioso come può pubblicare un articolo in cui sono presenti accuse contro gli ebrei e offese contro le donne? Il provvedimento del direttore non dovrebbe essere correttivo, ma preventivo.
"Gli ebrei sono generalmente noti per vendere il loro talento a prezzi alti". Questa non è una prerogativa ebraica, ma di tutti: chiunque non vuole svalutare sé stesso e il proprio lavoro. L'appartenenza religiosa non c'entra nulla.

(Progetto Dreyfus, 3 agosto 2017)


Iran. Siamo vicini ad un nuovo conflitto?

Ce lo spiega Ali Vaez, dell'International Crisis Group

di Vanessa Tomassini *

Ali Vaez
Nel giugno dell'ormai lontanissimo 2015 era stato firmato l'accordo sul nucleare tra l'Iran e i Paesi del cosiddetto "5+1", cioè i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu (Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania. L'accordo venne definito "storico" da Obama, che insieme ai suoi alleati immaginava un nuovo ottimistico scenario mediorientale, dove l'Iran avrebbe avuto finalmente un ruolo protagonista. L'accordo prevedeva la graduale eliminazione delle sanzioni economiche imposte all'Iran per anni, il quale dall'altra parte accettava di limitare il programma nucleare, permettendo periodicamente il controllo delle centrali agli addetti ai lavori dell'Onu. L'accordo era giunto dopo anni di discussioni tra Usa ed Ue che accusavano l'Iran del fine militare delle centrifughe nucleari, contrariamente da quanto sostenuto dalla Repubblica Islamica che si difendeva adducendo meri scopi civili. L'accordo sembrava funzionare, tutto sembrava andare per il meglio, se non fosse che l'Iran, abbandonato sì il nucleare, abbia iniziato a testare nuove strategie come i sistemi missilistici balistici e i veicoli aerospaziali. In questo quadro va ricordato il cambio di rotta della politica estera americana conseguente al passaggio di consegne tra Barack Obama e Donald Trump. Quest'ultimo, che ha sempre adottato la politica di distruggere tutto ciò che era stato fatto dal suo predecessore, ha espresso senza grande mistero forti dubbi sull'accordo iraniano. A conferma di ciò il rafforzamento dei rapporti con i principali nemici di Teheran nella regione, Arabia Saudita ed Israele. Dopo l'esito positivo dell'ultimo test iraniano del 27 luglio, con il lancio del vettore spaziale "Simorgh", Trump ha subito minacciato, con il savoir-faire che lo contraddistingue, di travolgere se necessario l'accordo del 2015 e l'immediata introduzione di nuove sanzioni. Affermazioni che non sono una novità, considerando che nell'incontro a Riad dello scorso maggio aveva accusato Teheran di finanziare il terrorismo, flirtando con Hezbollah e Fratelli Musulmani e definendo l'Iran "il più grosso pericolo per l'occidente". Mentre diversi analisti occidentali sostengono una possibile egemonia iraniana, soprattutto al termine della guerra in Iraq contro l'Isis, abbiamo cercato di fare chiarezza incontrando uno dei massimi esperti in materia: Ali Vaez, analista senior dell'Iran per Crisis Group. Lo studios, nel corso degli ultimi anni e con la consulenza di tutti i partiti nei negoziati nucleari, ha contribuito a colmare le lacune tra l'Iran e il 5+1 ed è riconosciuto anche dal governo degli Stati Uniti come uno dei più importanti esperti sui programmi nucleari e missilistici iraniani.

- Qual è la situazione attuale economica, sociale e politica dell'Iran? E quali sono le novità dell'accordo nucleare?
  "La buona notizia è che l'accordo nucleare sta funzionando esattamente come previsto. Molte persone avevano paventato molte altre idee, ma questo era ed è puramente un accordo nucleare. L'affare di base era un congelamento delle attività nucleari in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. L'accordo ha avvolto il programma nucleare iraniano nel più vigoroso regime di controllo delle garanzie mai implementato, e l'Aiea ha verificato già sei volte, dopo l'entrata in vigore dell'intesa, che l'Iran avesse rispettato i suoi impegni. Ci sono stati alcuni attacchi tecnici, ma sono stati rapidamente risolti dalla commissione mista creata nell'ambito dell'accordo. L'economia iraniana ha recuperato ed è migliorata indiscutibilmente, ma forse non così rapidamente come l'amministrazione di Rohani aveva sperato. Tuttavia il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede che l'economia iraniana cresca al tasso del 5% entro il 2018, il che renderà l'economia della regione ancora in più rapida crescita. L'inflazione è scesa dal 40% del 2012, a meno del 10%. Gli investimenti stranieri sono in aumento. Il commercio con l'Europa è aumentato di 5 volte".

- Quali sono allora gli aspetti preoccupanti?
  "Le cattive notizie sono che, nonostante il suo successo, l'accordo rimane estremamente instabile. È tanto fragile, quanto sono formidabili le forze contro di esso. Per assicurare il successo le parti lo hanno negoziato come un accordo di controllo strettamente sulle armi, per non avvalersi di un più ampio compromesso o di una collaborazione in settori di preoccupazione condivisa, anche se alcuni lo avevano sperato, o temuto, che lo avrebbe fatto. Mi lasci chiarire che l'accordo non avrebbe potuto essere negoziato con successo se quei problemi fossero stati messi sul tavolo. Oggi costituiscono la minaccia primaria per la sua implementazione di successo. Questo a sua volta è dovuto al fatto che il potenziale di trasformazione del piano d'azione congiunto globale (JCPOA) non si è ancora materializzato di fronte a potenti parti interessate che si sono mosse per assicurare che sia un massimale, non un fondamento per la disoccupazione tra l'Iran, i suoi vicini e gli Stati Uniti".

- Per il presidente americano Donald Trump l'Iran rappresenta la minaccia più pericolosa per l'occidente. Quali strategie ha adottato l'amministrazione americana contro di essa? Quanto pesa Israele in queste scelte?
  "L'Amministrazione Trump è altamente scettica riguardo all'accordo e ha autorizzato un team di sicurezza nazionale altamente ostile all'Iran. L'amministrazione ha capito che l'uccisione dell'operazione non è una buona opzione dato che l'elevato grado di soddisfazione di altre parti interessate, e la conformità dell'Iran all'accordo porterebbero all'isolamento statunitense. Tuttavia sembra che stia cercando in tutti i modi di assicurarsi che l'Iran non possa raccogliere i dividendi economici del contratto, per cui sarebbe il primo a violare la JCPOA. Parallelamente l'Amministrazione cerca di contrastare le politiche regionali dell'Iran. Ciò potrebbe aumentare le tensioni tra le due parti e provocare un 'tit-for-tat', che trasformerebbe l'accordo nucleare in gravi danni collaterali. Israele non sembra essere tanto appassionato (quanto l'Amministrazione Trump) a minare la JCPOA, come una priorità".

- Teheran e Mosca hanno sviluppato relazioni strategiche e sono stati in grado di rafforzare i legami, in particolare nel commercio. Più sanzioni da parte degli Stati Uniti, non rischiano di rafforzare queste relazioni?
  "Il rapporto di Teheran con Mosca è principalmente tattico, non strategico. I due Paesi condividono la loro "inimicizia" verso gli Stati Uniti e gli azionisti comuni nel conflitto siriano. Più isolano gli Stati Uniti, tanto più hanno un interesse per la cooperazione. Ma il rapporto è improbabile che diventi strategico, in quanto vi è una tremenda quantità di sfiducia storica tra i due Paesi".

- I rapporti con diversi gruppi terroristici, i test missilistici, i flirt con Hezbollah contro Israele e la lista è ancora lunga… pensa che ci sia un piano iraniano per conquistare il Medio Oriente?
  ""Non è utile amplificare la forza e il potere dell'Iran: sebbene Teheran abbia più influenza a Baghdad, Damasco, Beirut e Sanaa (più di quanto abituato), il suo ruolo in tutti e quattro è più controverso per via degli attori statali e non statali, più che in passato. Come nazione persiana tra arabi e turchi, uno stato diviso tra sciiti e sunniti, esistono barriere naturali alla portata dell'Iran che spiegano la mancata diffusione della rivoluzione, di quasi quattro decenni, a qualsiasi paese confinante. Secondo l'ex ambasciatore americano in Iraq, Ryan Crocker, "l'influenza iraniana è auto-limitante. Quanto più spingono, più resistenza ottengono ". Le politiche di tutti i leader iraniani contemporanei, a prescindere dall'appartenenza politica, sono state formate da due obiettivi: il mantenimento del regime e il restauro del ruolo dell'Iran, dicono i critici, nell'espansione come leader regionale. Il perseguimento dell'autoconservazione, obiettivo primario di qualsiasi sistema politico, confina con la paranoia in una cultura politica iraniana imbottita di un profondo senso di insicurezza e di solitudine. La prospettiva di sicurezza degli attuali leader dell'Iran è formata dal traumatico conflitto '1980-1988' con l'Iraq, in cui quasi tutta la regione e l'occidente hanno sostenuto lo sforzo di guerra di Saddam Hussein. Successivamente, hanno sostenuto gli Stati Uniti nell'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, i loro vicini a est e ad ovest. Per compensare il suo senso di circondamento da parte delle forze statunitensi e degli stati pro-Usa e della sua capacità militare convenzionale inferiore, rispetto a quella dei suoi vicini, l'Iran ha sviluppato una rete di partner e proxy per respingere le minacce alle frontiere. Teheran adotta questa sua "politica di difesa in avanti", un eufemismo per molti, cercando di usare gli altri stati come tamponi, a scapito della loro sovranità".

- Cosa mi dice riguardo ad Hezbollah?
  "L'Hezbollah libanese è la pietra angolare della strategia avanzata dell'Iran. Come disse un funzionario israeliano più anziano, "Per noi l'Iran è un chilometro di distanza, mentre per l'Iran Israele è a 10 metri di distanza dal confine libanese". Molti a Teheran sono convinti che Israele non abbia colpito gli impianti iraniani dell'uranio impoverito e il reattore ad acqua pesante durante la crisi nucleare, ma è stato un grande timore, questo spiegherebbe le centinaia di missili forniti dall'Iran a Hezbollah, che puntano alle città israeliane. Quello che l'Iran chiama "l'asse della resistenza" tra Israele e gli Stati Uniti - conosciuto dai vicini sunniti iraniani come la "mezzaluna sciita" - è un'estensione molto più aggressiva della sua politica di difesa avanzata. Non solo dà profondità strategica all'Iran, ma permette di proiettare potere nel Levante. L'Iran per lungo tempo ha rifiutato l'idea che il terrorismo si trovi alla radice delle sue alleanze, ma come la guerra proxy della Somalia non è più approfondita, ha preteso di restare al di sopra della sfida intransigente. Teheran ora mobilita le milizie sciite provenienti da tutta la regione per combattere in Iraq e Siria, mentre non riesce a condannare - e persino facilita - le atrocità che commettono nei campi sunniti di questi Paesi, alimentando il risentimento e fornendo agli estremisti sunniti un potente strumento di reclutamento.
La deterrenza convenzionale di Teheran non sembra minacciosa per la regione. Il suo punto centrale è un programma missilistico balistico, come successione per essere stata una vittima di queste durante la guerra Iran-Iraq. Come l'unica arma iraniana che potrebbe raggiungere i suoi avversari sul loro terreno, i missili sono considerati un'arma esistenziale da parte di Teheran, che perseguirà il loro sviluppo indipendentemente dalle sanzioni imposte. Gli iraniani hanno rifiutato di mettere i loro missili sul tavolo delle contrattazioni, durante i negoziati nucleari ed è improbabile riuscire a comprometterli senza cambiamenti fondamentali nella struttura di sicurezza della regione, di cui l'Iran sarebbe parte integrante. Non sorprende che ciò che sembra difensivo per Teheran viene percepito all'esterno come aggressivo, ma ciò che rende la politica regionale iraniana particolarmente minacciosa è quello che c'è dietro di esso: il suo desiderio per lo status regionale, che nelle capitali vicine sembra un tentativo di egemonia. Per loro tale scenario è insopportabile, come l'isolamento dell'Iran dalla regione è inaccettabile per Teheran".

- Cosa consiglia agli Stati Uniti?
  "Qualsiasi politica statunitense nei confronti delle ambizioni regionali iraniane deve tenere conto di queste dinamiche. Questo permetterà a Washington di sviluppare una valutazione realistica delle reazioni probabili di Teheran".

- Israele ha già ipotizzato che se al-Assad ha ripreso il controllo del sud-est della Siria, il governatorato di Deir Ezzor e il confine siriano-iracheno, l'Iran sarà il vero vincitore della guerra contro Isis. Cosa ne pensa?
  "È importante ricordare che, prima dell'insurrezione siriana nel 2011, l'Iran aveva una stretta alleanza militare con il regime siriano e aveva accesso al sud-est della Siria. In quanto tale, è difficile dichiarare l'Iran come vincitore, data la quantità di sangue e il prezzo che ha dovuto sostenere per preservare lo status quo ante".

- Pensa che siamo vicini a un conflitto armato?
  "Le dinamiche nella regione mediorientale stanno andando in una direzione molto preoccupante: l'attrito tra l'Iran e gli Stati Uniti in Siria, in Yemen e in Iraq sta crescendo; la nuova leadership dell'Arabia Saudita è interessata a tagliare fuori l'Iran. Al momento non esiste un contatto politico di alto livello tra Teheran e Washington. Tutto ciò aumenta notevolmente le probabilità di un confronto deliberato o involontario, che potrebbe mandare l'intera regione in un caos più profondo e in un sempre più probabile spargimento di sangue".

(Notizie Geopolitiche, 3 agosto 2017)


Israele - Palestinese accoltella alle spalle un commesso di un supermercato

di Federica Macagnone

 
Per la polizia non ci sono dubbi: l'accoltellamento di ieri è da ritenersi un attacco terroristico. Un israeliano di 43 anni, dipendente di un supermarket, è stato pugnalato in modo grave da Ismail Abu Aram, 19enne palestinese, a Yavne, cittadina israeliana a trenta chilometri da Tel Aviv.
L'assalitore, che vive nel villaggio di Yatta, in Cisgiordania, è entrato nel supermercato e ha puntato uno dei dipendenti: come si vede nelle immagini registrate da una telecamera di sicurezza, la vittima stava sistemando alcuni prodotti sugli scaffali quando è stato colpito alle spalle da diverse pugnalate. Aram lo ha accoltellato ripetutamente mentre lui cercava disperatamente di difendersi dai fendenti. Alla fine del brutale attacco l'aggressore ha provato a fuggire, ma è stato fermato da alcuni testimoni che lo hanno tenuto bloccato fino all'arrivo della polizia, che lo ha arrestato. Secondo le forze di sicurezza, Abu Aram era entrato illegalmente in Israele e non aveva alcuna storia di terrorismo alle spalle.

(Il Messaggero, 3 agosto 2017)


Ritrovamenti archeologici a Gerusalemme confermano che la Bibbia ha un fondamento storico

La Bibbia, il libro più venduto al mondo, è anche uno dei più discussi e studiati dai ricercatori. Ora alcuni esperti che stanno scavando nella zone della cosiddetta Città di David, hanno trovato prove dell'incendio di Gerusalemme.

di Beatrice Elerdin

Gli archeologi dell'Israel Antiquities Authority, al lavoro nella Città di David, hanno rinvenuto una serie di artefatti datati 600 anni A.C. e riportanti parti bruciate, a conferma che Gerusalemme fu travolta da un incendio e che la città venne invasa dai Babilonesi. Tra i reperti ritrovati si annoverano anche ossa bruciate, semi di vite, legno e ceramiche, tutti rivestiti da diversi strati di cenere.
   Grazie ai sigilli presenti sugli oggetti rinvenuti, i ricercatori sono stati in grado di risalire alla corretta datazione degli stessi. A tal proposito, Joe Uziel, coordinatore del progetto di indagine archeologica, ha spiegato: 'Si tratta di sigilli caratteristici del periodo di costruzione del Primo Tempio. Erano utilizzati per funzioni amministrative tipiche della fine del della dinastia giudaica. Non sembra che le costruzioni edificate nella città di David siano state distrutte in una singola occasione, ma che alcune siano state buttate giù, altre abbandonate'.
   Il riferimento storico dell'incendio di Gerusalemme è rintracciabile nel libro di Geremia (52, 12-13), che recita testualmente: 'Nel quinto mese, il dieci del mese, essendo l'anno decimonono del regno di Nabucodònosor re di Babilonia, Nabuzaradàn, capo delle guardie, che prestava servizio alla presenza del re di Babilonia, entrò a Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme, diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili'.

(Nanopress, 3 agosto 2017)


Moschee gonfiabili fanno la loro apparizione sulle spiagge francesi

Le informazioni provengono da Cannes, dove molti turisti dicono che le moschee gonfiabili cominciano ad apparire sulle spiagge francesi.
Queste moschee gonfiabili vengono commercializzate sulla Croisette di Cannes, dove vengono utilizzate durante i festeggiamenti.
Per pochi giorni sono apparse sulle spiagge e sui giardini pubblici. "Queste moschee gonfiabili sono installate quasi ovunque senza autorizzazione, per non dimenticare la religione à la page».

(JForum.fr, 3 agosto 2017 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Tutti al campo estivo di Hamas per imparare a far fuori i «maiali sionisti»

Così a Gaza indottrinano i ragazzini. Assalti e azioni di guerriglia al posto dei giochi

di Ilaria Pedrali

Lezioni di assalto
Sono campi estivi per bambini e ragazzi, come milioni di altri sparsi nel mondo. Ma in quelli che organizza ogni anno Hamas si insegna loro, tra le altre cose, come assaltare e liberare la Spianata delle Moschee dai «maiali sionisti».
Giochi premonitori
Un video, datato 19 luglio, mostra i «giochi» dei bambini che simulano l'attacco alla Spianata. Il tutto prima degli incidenti e delle violenze che sono scoppiate dopo l'attentato in cui sono morti due soldati Israeliani.

Nei campi estivi di Hamas i bambini imparano a liberare la Spianata delle Moschee dai «maiali sionisti». Perché la violenza, evidentemente, è bene insegnarla fin da piccoli. Un video che circola in rete mostra lo spettacolo finale del campo estivo per i ragazzi che ogni anno Hamas organizza a Gaza. Ci sono ragazzini vestiti da musulmani in preghiera, e altri travestiti da soldati israeliani. Dietro alcune lenzuola con immagini che raffigurano le mura di Gerusalemme e il Muro Occidentale. Sullo sfondo, una ricostruzione
della Cupola d'oro di un giallo abbagliante, forse in gommapiuma, e in mezzo un'auto della polizia israeliana. Quando i ragazzini vestiti da soldato negano il permesso a quelli che interpretano i fedeli di accedere alla Spianata, parte la protesta: tutti si mettono a pregare di fronte ai militari. E una voce fuori campo guida la preghiera, come un vero muezzin. Poi partono le cariche della polizia, i lacrimogeni, le sassate dei palestinesi.
   A un certo punto, in una sorta di gran finale, irrompono altri ragazzini, tutti vestiti di nero e a volto coperto, che imbracciano armi, sparano ai soldati israeliani e liberano la Spianata delle Moschee dalla presenza israeliana. Sono le brigate Izzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas. Tutti urlano «Allah Akbar!» e «Vogliamo pregare ad Al Aqsa!», e ancora «Con le nostre anime e il nostro sangue ti riscatteremo, o Al Aqsa!».
   Il tutto si è svolto per strada, alla luce del sole, anche perché a Gaza l'elettricità viene erogata solo per un paio d'ore al giorno, e ad assistere allo spettacolo ci sono molti spettatori che applaudono alle gesta dei ragazzini, forse loro figli. Intanto la voce fuori campo, con orgoglio, narra: «I mujahideen stanno affrontando i maiali sionisti e li stanno cacciando».
   Quello messo in scena a Gaza dovrebbe essere un gioco, con armi finte e pietre di carta, che ha tragicamente anticipato i fatti che si sono verificati a Gerusalemme. Perché il video, datato 19 luglio, è antecedente a quanto si è verificato nella Città Santa una settimana dopo l'attentato in cui sono morti due soldati israeliani. Addirittura nel video si vedono dei cancelli di metallo, oltre alle varie transenne che delimitano l'accesso alla Spianata, che stanno a rappresentare i metal detector che Israele a Gerusalemme ha installato e poi rimosso in seguito alle violenze. Più che una rievocazione, quasi una predizione dei tragici fatti che hanno insanguinato Gerusalemme.
Se a Gaza i bambini anziché giocare e fare i bambini, come avviene in tutti gli altri campi estivi organizzati nel mondo, vengono indottrinati alla violenza, a Gerusalemme il clima rimane teso. In questo periodo 1300 ebrei nazionalisti hanno visitato il Monte del Tempio, la Spianata delle Moschee, in occasione della festa di Tisha B'Av, che commemora la distruzione dei due templi di Gerusalemme. Mai così tanti, secondo i media israeliani, dal 1967 a oggi.

(Libero, 3 agosto 2017)


Database on-line che raccoglie decine di migliaia di manoscritti ebraici digitalizzati

La Biblioteca Nazionale d'Israele ha lanciato un database on-line che raccoglie decine di migliaia di manoscritti ebraici digitalizzati appartenenti a collezioni provenienti da tutto il mondo. A partire da mercoledì, studiosi e profani possono accedere a quasi metà dei manoscritti ebraici conosciuti, dalla Spagna all'Afghanistan, digitalizzati e catalogati on-line. In particolare, la Biblioteca Nazionale israeliana ha collaborato con alcune delle più grandi collezioni di manoscritti ebraici, tra cui la Biblioteca Britannica, la Biblioteca Palatina di Parma e la Biblioteca Vaticana, allo scopo di preservare e mettere a disposizione in forma digitale i quasi 100mila manoscritti ebraici noti. L'archivio contiene attualmente circa 4,5 milioni di immagini tratte da 45mila manoscritti, tra cui libri di preghiera, testi biblici e commentari, testi di filosofia, letteratura e scritti scientifici in ebraico, yiddish, ladino, judeo-arabo e altro ancora. Continua intanto il lavoro per mettere on-line le migliaia di testi restanti.

(israele.net, 3 agosto 2017)


Israele: nuovo studio sulla Sclerosi Multipla

 
La Sclerosi Multipla, una delle malattie neurodegenerative più devastanti, colpisce circa 2,5 milioni di persone in tutto il mondo e non ha, ad oggi, una cura.
I ricercatori hanno a lungo ipotizzato che la malattia potesse essere innescata dal sistema immunitario del corpo il quale scatena un attacco incontrollato contro le guaine mieliniche che proteggono le cellule nervose.
Uno studio pubblicato da scienziati israeliani nel Journal of American Chemical Society (JACS) individua un'instabilità strutturale nelle guaina mielinica (sostanza che costituisce la guaina midollare delle fibre nervose e che ha funzione, oltre che protettiva, isolante nei riguardi della conduzione dello stimolo nervoso).
Questa vulnerabilità sembra essere quella che dà l'accesso al sistema immunitario alle regioni che invece dovrebbero essere protette.
Questo il commento del Prof. Roy Beck dell'Università di Tel Aviv:
Abbiamo scoperto che delle piccole modifiche nelle guaine mieliniche creano instabilità strutturali che possono favorire l'attacco. Gli approcci terapeutici attuali sono concentrati sulla risposta autoimmune senza individuare il meccanismo scatenante. La nostra ricerca suggerisce una nuova strada per la diagnostica e la terapia contro la sclerosi multipla.
Ai fini della ricerca, gli scienziati hanno sfruttato la luce a raggi X per esaminare centinaia di modelli della membrana che imitavano quelli di animali sani e malati.
In collaborazione con la Prof.ssa Ruth Arnon (Premio Wolf della medicina 1998) del Weizmann Institute e con il Prof. Yeshayahu Talmon del Technion di Haifa, il team ha utilizzato anche la microscopia elettronica per determinare le diverse strutture nanoscopiche delle guaine mieliniche.
Conclude il Prof. Beck:
Il passo successivo è quello di trovare un modo per invertire la progressione della malattia e trovare nuove tecniche per la diagnosi precoce.
(SiliconWadi, 3 agosto 2017)


Strage di Bologna, desecretare tutto

di Daniele Capezzone

Un ceto politico coraggioso e una stampa capace di una ricerca libera e non scontata potrebbero con serenità aiutare tutti, indipendentemente dalle sensibilità culturali e dalle appartenenze politiche, ad andare oltre il pregiudizio sulla strage di Bologna, di cui ieri è ricorso l'anniversario. Negli anni 70, l'Italia aveva di fatto adottato la politica del «lodo Moro-Giovannone» (scelta sciagurata, e lungamente negata in sede ufficiale): una sostanziale chiusura d'occhi sulla presenza e sui movimenti dei terroristi palestinesi sul nostro territorio in cambio di informazioni e soprattutto di una esenzione dell'Italia da atti di terrorismo diretti. A quanto pare, è possibile che un arresto, un processo e una successiva condanna di un palestinese siano stati vissuti come una rottura di quel lodo, e possano aver innescato, come vendetta palestinese, la strage di Bologna.
   Sarebbe doveroso esplorare questa pista, e, per altro verso, arrivare a desecretare molti documenti dei nostri servizi degli anni Settanta. La prima operazione restituirebbe la possibilità, forse, di una verità credibile sulla strage; la seconda consentirebbe di comprendere quale sia stato l'atteggiamento italiano (temiamo: ambiguo, opaco, vischioso) rispetto al terrorismo internazionale. Perché non lo si vuol fare? Forse ancora oggi ci sono strascichi di quelle politiche?

(ItaliaOggi, 3 agosto 2017)


Volevano rieducare i fanatici islamici coi fiori alle pareti e le lezioncine sulla laicità

La Francia chiude il programma di "deradicalizzazione"

di Giulio Meotti

ROMA - Avevano scelto lo chàteau di Pontourny, un maniero del XVIII secolo che sorge nel cuore della Francia, nella Loira. Aveva aperto lì a settembre il primo Centre de prévention, d'insertion et de citoyenneté. Centro di prevenzione, integrazione e cittadinanza. In pratica un campo estivo per islamisti. Doveva essere il fiore all'occhiello della passata amministrazione socialista di Hollande per "deradicalizzare" la gioventù francese in odore di jihadismo. Il sindaco della vicina cittadina di Beaumont, Bernard Chàteau, era orgoglioso di ospitarlo.
   Non è durato neppure un anno. Il centro di Pontourny ha chiuso la settimana scorsa. "L'esperimento di un centro di accoglienza ha mostrato i suoi limiti e il governo ha così deciso di mettervi fine", afferma il comunicato del ministero dell'Interno. La nuova amministrazione Macron ha preso atto del fiasco e dello spreco di risorse. Dopo solo cinque mesi di attività, Pontourny era già vuoto, pur dando lavoro a 27 persone, tra cui cinque psicologi, uno psichiatra e nove educatori, a un costo annuale di 2,5 milioni di euro. Dovevano nascere altri undici centri simili a Pontourny con un budget di 40 milioni di euro e a fronte di 15 mila islamisti schedati dall'intelligence francese, secondo la recente inchiesta di copertina del settimanale Valeurs Actuelles.
   In pratica doveva funzionare così: i sospetti radicalisti islamici, convinti da parenti, amici e assistenti sociali, avrebbero dovuto presentarsi volontariamente al centro per un percorso di lavoro manuale, corsi di storia, musica e "valori repubblicani", lettura dei quotidiani e terapia psicologica. Non si è presentato nessuno.
   Lo scorso marzo la National Intelligence Agency americana ha reso noto che 121 terroristi sono tornati a fare quello che sapevano fare meglio, il jihad, persino dopo la lunga detenzione a Guantanamo Bay. Era facile immaginare come sarebbe finita con i jihadisti francesi rieducati con il patriottismo repubblicano. Si sperava di "deradicalizzarli" a Pontourny per non mettere piede nelle "cento Molenbeek francesi". La chiusura di Pontourny arriva con il rapporto di una commissione parlamentare d'inchiesta che ha stabilito che il programma di deradicalizzazione dei jihadisti è stato un "fallimento totale". Non per mancanza di risorse o di buona volontà. Ma perché i fondamentalisti islamici non volevano essere deradicalizzati. Il governo sperava che 3.600 individui accedessero a queste strutture in due anni. Quando le senatrici Esther Benbassa e Catherine Troendlé si sono recate a Pontourny il 3 febbraio scorso, avevano trovato un solo ospite nella struttura. Da questo programma ci perdeva lo stato francese, ma ci guadagnavano, come ha detto la senatrice Benbassa, "diverse associazioni in cerca di finanziamenti pubblici ma senza reale esperienza verso il settore della de-radicalizzazione".
   Le hanno provate tutte, dai manieri con i fiori alle pareti ai braccialetti elettronici, dagli hashtag #stopjihadism alle lezioncine sulla parità sessuale e l'uguaglianza. Forse Pontourny dovrebbe essere ora convertito in un centro per la deradicalizzazione delle élite francesi, che pensano di debellare il virus islamista con le badanti, i bignami della laicità e il training autogeno.

(Il Foglio, 3 agosto 2017)


Ritrova cinquecento nuovi parenti sopravvissuti alla Shoah

GERUSALEMME - Pensava di aver perso l'intera famiglia nella Shoah. E, invece, oltre 70 anni dopo, Alex Kafri ha scoperto di avere cinquecento nuovi parenti ai quattro angoli del mondo e li ha incontrati a Londra. «Il momento più emozionante - ha raccontato - è stato quando ha visto all'entrata della sala dell'hotel dove si erano dati appuntamento un rotolo enorme nel quale era disegnato l'albero della famiglia: era lungo 30 metri». Kafri si è messo sulle tracce del resto dei propri familiari da dieci anni. Solo ad aprile, però, ha fatto progressi. Grazie a un post trovato dalla sorella nella pagina del tributo che ogni anno si fa nel Giorno della Menora. Kafri ha risposto e, uno dopo l'altro, ha trovato una «grande famiglia», dispersa in quindici differenti nazioni.

(Avvenire, 3 agosto 2017)


"Sette sabati di consolazione"

di Giuseppe Momigliano, rabbino

Rav Giuseppe Momigliano
A partire dallo shabbat successivo al digiuno del nove di Av ha inizio una serie di sette sabati definiti con il termine "shiv'à denechamatà" ovvero "sette Sabati di consolazione", che si contrappongono ai "tre Sabati di punizione", legati al ricordo della distruzione del Santuario, quasi a stabilire emblematicamente il prevalere della misura della misericordia divina rispetto a quella della giustizia punitiva. Questi sette sabati, che ci accompagnano fino alla fine dell'anno nel calendario ebraico, sono caratterizzati dalla lettura liturgica quale passo profetico - Haftarah - di brani del profeta Isaia, contenenti accorate espressioni di conforto, speranza e incoraggiamento rivolte ai figli d'Israele, anche con evidenti riferimenti all'attesa messianica.
Un grande Maestro medievale, R. David Abudraham (vissuto in Spagna nel 14o secolo) ha interpretato metaforicamente le parole iniziali di questi sette brani profetici delle haftarot, come parti di un dialogo, che si sviluppa idealmente, coinvolgendo il profeta, il popolo d'Israele e l'Eterno.
La prima haftarah "Nachamù nachamù ammì - Consolate, consolate il Mio popolo" (Isaia 40,1), esprime il messaggio di conforto per Israele che il Signore affida ai profeti; il messaggio viene portato ma le prime parole della successiva haftarah ci dicono che il popolo, disperato e provato dalle sciagure, non sa darsi consolazione: "Zion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il mio Signore mi ha dimenticata" (Isaia 49,14). Questo stato d'animo di profonda prostrazione viene riferito dal profeta al Signore, cosi inizia la terza haftarah: "Afflitta, agitata, priva di consolazione" (Isaia 54,11). Le parole iniziale delle tre successive haftarot vengono quindi interpretate come ulteriori e più forti conferme dei messaggi di consolazione che il Signore affida ai profeti "Sono Io, sono Io che vi consolo" (Isia 51,12). "Esulta o sterile che non avevi partorito" (Isaia 54,1) ". Sorgi, risplendi perché viene la tua luce"(Isaia 60,1). Finalmente confortata da queste promesse del Signore, Israele risponde con le parole che danno inizio all'ultima di queste sette haftaroth " Gioisco pienamente nell'Eterno, la mia anima esulta di giubilo nel mio Signore" (Isaia 61,10). Abbiamo qui una sorta di midrash, che trasforma il messaggio univoco del profeta Isaia in un dialogo a più voci, nel quale proprio i confusi e incerti sentimenti del popolo e la amorosa, paziente sollecitudine del Signore, conferiscono forza e rendono ancora più vicine al nostro animo le parole di speranza che questi brani ci riportano.

(moked, 2 agosto 2017)


Israele manda in orbita satellite Venus, primo destinato a ricerca ambientale

 
GERUSALEMME - Israele ha lanciato oggi nello spazio il suo primo satellite destinato alla ricerca ambientale. Venus, questo il nome del satellite, è stato lanciato all'alba di oggi da una piattaforma nella Guinea francese. Il progetto è frutto di una joint venture franco-israeliana tra l'Agenzia spaziale israeliana (Isa) e la controparte francese Cnes (Centre National d'Etudes Spatiales). Venus è stato progettato per avere immagini ad alta risoluzione di luoghi specifici per monitorare ed analizzare alcuni aspetti ambientali, tra cui la desertificazione, l'erosione, l'inquinamento, i disastri naturali ed altri fattori legati ai cambiamenti climatici. La fotocamera del satellite possiede 12 lunghezze d'onda in grado di scovare dettagli invisibili all'occhio umano. In particolare, l'alta risoluzione della lente focale consentire di distinguere le piante da una distanza di circa 5 metri, rendendo possibile la cosiddetta "agricoltura di precisione", utile alla pianificazione delle necessità di acqua, fertilizzanti e antiparassitari degli organismi vegetali. Venus, acronimo di Vegetation and Environment Monitoring on a New Micro Satellite, circumnavigherà la Terra 29 volte in 48 ore e resterà in orbita 4-5 anni, al termine dei quali sarà spostato su un'orbita più bassa. L'Isa, agenzia interna al ministero della Scienza, Tecnologia e Aerospazio israeliano, ha investito circa 5 milioni di shekel nei progetti di ricerca del satellite. Il satellite pesa 265 chilogrammi ed è destinato a controllare i terreni agricolo dallo spazio per effettuare studi ambientali. Venus è stato lanciato simultaneamente con OPTSAT3000, un satellite di osservazione che verrà utilizzato dal ministero della Difesa italiano. Entrambi i satelliti sono stati costruiti dalla società aerospaziale israeliano Israel Aerospace Industries (Iai). Quello di oggi è stato sia il primo lancio doppio di satelliti per Israele, sia il primo dopo che lo scorso settembre 2016 a Cape Canaveral, in Florida, era esploso il razzo vettore Falcon-9 di Space X che avrebbe dovuto mettere in orbita il satellite israeliano per le comunicazioni Amos-6. L'incidente dello scorso anno aveva avuto una serie di ripercussioni sull'industria satellitare del paese

(Agenzia Nova, 2 agosto 2017)


In orbita OPTSAT-3000, il nuovo satellite italiano per osservare la Terra

il satellite è stato realizzato nell'ambito di un accordo di cooperazione internazionale tra Italia e Israele.

Il nuovo satellite italiano OPTSAT-3000
È stato lanciato con successo alle 3.58 ora italiana il satellite OPTSAT-3000 del ministero della Difesa italiano. Il lancio è stato effettuato da Arianespace d allo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana francese, con il lanciatore europeo VEGA, realizzato da AVIO. Il satellite si è separato dal razzo vettore 42 minuti dopo il lancio e il primo segnale di telemetria è stato acquisito circa cinque ore dopo. L'intero sistema viene fornito da Leonardo attraverso Telespazio (Leonardo 67%, Thales 33%), primo contraente alla guida di un gruppo internazionale di aziende tra cui Israel Aerospace Industries (IAI), che ha realizzato il satellite nell'ambito di un accordo di cooperazione internazionale tra Italia e Israele, e OHB Italia, responsabile dei servizi di lancio.
Composto da un satellite in orbita LEO (Low Earth Orbit) eliosincrona e da un segmento di terra per il controllo in orbita, l'acquisizione e il processamento dei dati, OPTSAT-3000 fornirà immagini ad alta risoluzione di ogni area del pianeta, permettendo all'Italia di acquisire una capacità nazionale autonoma di osservazione della Terra dallo Spazio con sensore ottico ad alta risoluzione. OPTSAT-3000 pesa soltanto 368 chilogrammi ed è lungo 4,58 metri, per 3,35 metri e 1,2 m. Sarà in orbita per sette anni a un'altitudine di circa 450 chilometri. Il satellite è stato lanciato dallo spazioporto di Kourou con un vettore VEGA, che è giunto così alla sua decima missione da quando è stato attivato nel 2012. Nell'operazione è stato lanciato anche il satellite Venus dell'Agenzia spaziale israeliana e di quella francese (Centre National d'Etudes Spatiales) per lo studio della vegetazione a scopi ambientali.
Con il lancio di OPSAT-3000 "l'Italia si è dotata di un importante strumento in grado di potenziare la capacità di difesa e sicurezza", ha commentato il ministro della Difesa Roberta Pinotti: "Il programma permetterà di avere informazioni precise in risposta ad esigenze che nascono dalla Difesa ma che verranno messe a disposizione del Paese e dei vari enti, come ad esempio in caso di terremoti, alluvioni o incendi". Si tratta di "un asset in grado di migliorare significativamente le capacità di difesa e protezione dell'Italia", ha ribadito l'amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo.
Dopo il successo del lancio, sono ora iniziate le operazioni di verifica e test del sistema, che sarà quindi gestito interamente dal segmento di terra italiano, articolato su tre siti operativi: il Centro Interforze di Telerilevamento Satellitare (CITS) di Pratica di Mare (Roma), il Centro Interforze di Gestione e Controllo SICRAL (CIGC SICRAL) di Vigna di Valle (Roma) e il Centro Spaziale del Fucino (L'Aquila) di Telespazio. Sarà proprio quest'ultimo centro a ricevere e distribuire le immagini dal satellite. La prima trasmissione è prevista per il 7 agosto.
"In un momento di rischi nuovi e consolidate minacce, in cui abbiamo missioni in varie parti del mondo, il lancio di questo satellite è di profondo significato, perché il ruolo internazionale che gioca un Paese dipende dalle capacità reali che sa esprimere sul piano operativo", ha spiegato il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Claudio Graziano. Secondo il sottosegretario alla Difesa, Gioacchino Alfano, con questa operazione "l'Italia si dimostra un Paese capace di mantenere ai massimi livelli le sue capacità tecnologiche. Il satellite è sostenuto dalla Difesa - ha concluso Alfano - ma ha funzioni anche per esigenze civili".

(Adnkronos, 2 agosto 2017)


Venezuela, è crisi democratica. Israele accoglie diverse famiglie

 
Tareck Zaidan El Aissami Maddah
Sono diverse le famiglie ebraiche che nelle ultime ore hanno lasciato il Venezuela per emigrare in Israele. Un dato significativo, che desta preoccupazione e che dà il polso come tante altre volte in passato di quanto sia grave il livello di precarietà democratica che investe il paese sudamericano e quanto destabilizzante sia nel complesso la sua situazione politica/sociale/economica.
   Già in calo demografico da tempo, la comunità ebraica venezuelana è tra le più indigenti al mondo. Molteplici, riporta la stampa israeliana, le famiglie che hanno bisogno di assistenza quotidiana. In ragione della crescente povertà, un quarto degli iscritti è stato dispensato dal pagamento delle tasse comunitarie. La sfida per molti, il più delle volte, è quella di mettere insieme il pranzo con la cena.
   "Aiutiamo gli ebrei venezuelani ad emigrare in Israele per iniziare una nuova vita. In Venezuela oggi la situazione è catastrofica: violenza in crescita nelle strade e carenza di cibo, medicine, materie prime" ha sottolineato tra gli altri il rabbino Yechiel Eckstein, uno dei protagonisti della rete di assistenza a chi compie questa scelta.
   Tra i principali motivi di preoccupazione, anche un antisemitismo difficile da scalfire. Già riconosciuto come il paese più pregiudizialmente antiebraico del continente durante il lungo mandato di Chavez, che non ha mai mancato di mostrare aperta ostilità nei confronti di Israele e vicinanza a leader sanguinari come l'iraniano Ahmadinejad, il Venezuela sembra aver fatto pochi passi in direzione opposta durante la presidenza Maduro. In particolare ha fatto discutere, nel gennaio scorso, la nomina a vicepresidente del controverso Tareck Zaidan El Aissami Maddah. Già ministro dell'Interno e della Giustizia, El Aissami ha sempre attirato su di sé sospetti di cattive frequentazioni (in primis i terroristi di Hezbollah) tanto da portare gli Stati Uniti a inserirlo in una black list che, da febbraio, gli preclude l'ingresso sul suolo americano.
   Appare inoltre significativo che, nel suo populismo più estremo, a seguito di alcune contestazioni il presidente Maduro abbia dichiarato in maggio: "Noi chavisti siamo i nuovi ebrei del XXI secolo che Hitler ha perseguitato. Non portiamo la stella di David, ma abbiamo i cuori rossi pieni di desiderio di combattere per la dignità umana. E li sconfiggeremo, i nazisti di questo secolo".
   L'impegno per la dignità umana di Maduro prosegue in queste ore con il fermo dei leader delle opposizioni, prelevati nella notte dai loro appartamenti (dove erano già ai domiciliari) e condotti in carcere.

(moked, 2 agosto 2017)


«Il processo su Bologna va riaperto»

Parla Furio Colombo. Il giornalista di sinistra «scagiona» Mambro e Fioravanti. «Per me la strage non fu opera loro, la pista palestinese è plausibile, va verificata»

di Luca Rocca

Falsa verità
Ci sono troppe testimonianze venute fuori all'ultimo momento nella condanna di Mambro e Fioravanti. lo non ci ho mai creduto
Battaglia difficile
È sempre complicato rimettere in discussione la verità processuale. I parenti delle vittime hanno paura che i loro lutti restino senza un colpevole

«La pista palestinese per la strage alla stazione di Bologna è assolutamente plausibile, e la revisione del processo consigliabile e civile». A dirlo al Tempo, nel giorno del 37o anniversario della mattanza che il 2 agosto del 1980 fece 85 morti, non è un giornalista di destra magari pregiudizialmente schierato a favore dei colpevoli «ufficiali» Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ma Furio Colombo, «penna» nota e di sinistra ma che non si fa scrupoli, conoscendo gli atti processuali, nel ritenere gli ex terroristi dei Nar innocenti.

- Colombo, lei non ha mai creduto alla colpevolezza di Mambro e Fioravanti. Perché?
  «Perché ho letto molto del processo e credo che l'essenziale, e cioè la loro connessione a quella mostruosa vicenda, non sia fattualmente riscontrabile. Al contrario, ho trovato un' appassionata narrazione di persone che si sono accusate persino di fatti per cui non erano imputati, ma rigettando, con motivazioni logiche e difficili da abbattere, quella colpa. Ho trovato, inoltre, molta "costruzione di verità", impronte di mani che hanno lavorato per costruire il caso, testimonianze e dichiarazioni saltate fuori all'ultimo istante. Ecco perché sono sempre stato persuaso che la verità ufficiale sia stata fabbricata, ma penso sia stata fabbricata a destra per sacrificare Mambro e Fioravanti, che sono le vittime, e proteggere "altro" ... »,

- Stefano Sparti, figlio di Massimiliano, il grande accusatore degli ex terroristi «neri», ha rivelato che suo padre, poco prima di morire, confessò di aver mentito su tutto.
  «Per quel tanto di narratore che sono stato nella mia vita professionale, penso che quando una cosa la si dice in punto di morte, raramente si tratta di una trovata per un'ultima battuta. È un'impronta di particolare credibilità».

- Trova convincente la «pista palestinese», e cioè una bomba piazzata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina intenzionato a farci pagare il tradimento del «Lodo Moro», l'accordo fra fedayn e l'Italia per far transitare le loro armi sul nostro territorio in cambio della promessa di non subire attentati?
  «Non ho investigato in questa direzione, ma si tratta di un'ipotesi perfettamente e assolutamente plausibile, persino logica e da prendere in esame con molta cura. Tenendo presente, però, che tra plausibile e verosimile c'è una distanza e tra verosimile e vero una ancora più grande».

- Eppure è maledettamente complicato incrinare la "verità" ufficiale.
  «Quando si trova una risposta che si ritiene abbia fatto giustizia e quando, ad esempio, i familiari delle vittime sono certi di avere ottenuto giustizia, allora è umano volere che quella risposta sia per sempre, per non dover riaprire il caso e ritrovarsi di fronte all'orrore di non sapere chi è stato. Il sapere chi è stato è una grande consolazione. Ciò spiega la tenacia con cui è continuata l'accusa nei confronti di Mambro e Fioravanti. Rimuoverla avrebbe riaperto l'abisso del non sapere e della giustizia incompiuta. Al contrario, una condanna, per quanto incredibilmente discutibile, dà l'impressione che giustizia sia stata fatta, nonostante la possibile, probabile e, secondo me, certa estraneità di Mambro e Fioravanti alla strage di Bologna. È molto duro liberarsi di questa forma di comprensibile e disperato pregiudizio».

- Sarebbe giusta la revisione del processo, anche alla luce delle note dei nostri servizi segreti, ancora tenute segrete, che, come raccontato dal Tempo, nel biennio 1979-'80 descrivevano un Fplp intenzionato a colpirci duramente?
  «Se c'è un solo fatto nuovo, sarebbe importante, consigliabile e civile, anche dal punto di vista del!' accuratezza del diritto, accogliere immediatamente l'idea della revisione del processo che porti a liberare Mambo e Fioravanti dall'unica accusa ingiusta che pesa sulle loro vite».

(Il Tempo, 2 agosto 2017)


*


Nelle carte di Stefano Giovannone, ex capo del Sismi a Beirut, una luce tutta nuova sulla strage

Bologna 2 agosto 1980: e se la pista giusta fosse quella del Medio Oriente?

di Paolo Delgado

Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d'Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l'inchiesta sui mandanti della strage. E' opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come "anelli intermedi": quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l'attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni.
   Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell'allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti.
   Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l'Italia come base in cambio dell'impegno a non colpire obiettivi italiani (a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l'ex presidente picconatore, escludeva dall'accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l'individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980.
   A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell'Intelligence come tanti: "Stefano d'Arabia", com'era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d'interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979-80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant'anni di distanza, tanta prudenza?
   Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista.
   L'antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e 1'8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam-7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l'arresto, per cercare invano di risolvere l'incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l'allora dirigente dell'Fplp Abu Sharif, nel corso dell'audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell'Olp a favore della liberazione dell'ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall'interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel '74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia.
   La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal '73 era in vigore l'accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d'arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell'epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell'Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta.
   Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l'intervento del responsabile dell'Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lancia - missili.
   In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell'Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l'Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell'Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell'Fplp George Habbash, che si dice pressato dall'ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l'eventuale attentato sarebbe commissionato a un'organizzazione esterna all'Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l'area dura dell'Fplp ha appena preso contatti. L'esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell'Olp da parte dell'Italia.
   In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d'azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un'azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l'avvio del processo d'appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d'Appello dell'Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l'occupazione di un'ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli veri e a ipotizzare un attentato "suggerito" dalla Libia all'Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all'Olp.
   L'ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l'appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma 1'11 luglio il direttore dell'Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell'Fplp.
   Né l'informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libico-palestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti.
   È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l'attentato, di seguire tutt'altra pista.

(Il Dubbio, 2 agosto 2017)


*


L'autobus 37, simbolo dei soccorsi, ritorna 37 anni dopo la tragedia

Un improvvisato pronto soccorso mobile, subito dopo lo scoppio della bomba e nelle ore successive un vero e proprio carro funebre per le vittime innocenti dell'attentato terroristico con la spola, fino a notte fonda, dalla stazione all'obitorio: è l'autobus della linea 37, matricola 4030, diventato l'emblema della strage del 2 agosto 1980. Dopo 37 anni, il bus tornerà in stazione, in piazza Medaglie d'Oro, domani, in occasione della giornata di commemorazione della strage di Bologna. Simbolo di una città che reagì tempestivamente ad una tragedia immane, il «37» non è mai stato dimenticato. Dopo il suo "pensionamento" è stato conservato, con una premura museal2, nel capannone storico di via Bigari al riparo da agenti atmosferici e da pericoli di danneggiamento. Inoltre non è mai stato formalmente dismesso, ma tutt'oggi (seppur non circolante) resta immatricolato e targato come 37 anni fa per conservare la memoria storica di un testimone-simbolo del servizio alla città. Al bus matricola 4030 della linea 37, nei minuti successivi alla deflagrazione dell'ordigno, furono rimossi sul posto i montanti corrimano presenti in corrispondenza delle porte per poter permettere l'accesso più agevole delle barelle. Il giorno della strage, inoltre, del «37» si ricordano i lenzuoli bianchi fissati ai vetri per celare alla vista il carico di tragedia. Il bus sarà trasportato domani nella piazza di fronte alla stazione ferroviaria dove parleranno dal palco il sindaco di Bologna, Virginio Merola e il presidente dell'Associazione familiari delle vittime, Paolo Bolognesi. Il ritorno del 37 è stato reso possibile grazie a Tper (Trasporto passeggeri Emilia Romagna), al Comune e alla Città Metropolitana di Bologna. «La memoria della strage - sottolinea un comunicato congiunto dei tre enti - resta sempre viva nell'azienda di trasporti pubblici bolognese, che versò essa stessa il proprio tributo di morte alla barbarie terroristica di quel giorno».

(Il Dubbio, 2 agosto 2017)


I palestinesi non vogliono la pace con Israele

di Peter Newburgh

Più di dieci anni fa le televisioni di tutto il mondo mostravano l'esercito israeliano trascinare a forza i coloni irriducibili giù dai tetti di una sinagoga nella Striscia di Gaza, mentre Israele sradicava gli insediamenti, espelleva i suoi cittadini e ritirava il suo esercito, restituendo Gaza ai palestinesi. Israele voleva che questo nuovo «Stato» palestinese avesse successo. Per aiutare l'economia di Gaza, Israele aveva dato ai palestinesi le sue 3.000 serre che producevano frutta e fiori per l'esportazione. L'idea era quella di stabilire il modello di due Stati che vivono pacificamente fianco a fianco. Nessuno sembra ricordare che, contemporaneamente, Israele aveva smantellato anche quattro piccoli insediamenti nel Nord della Giudea e della Samaria, come chiaro segnale della volontà di lasciare anche la Cisgiordania. Questa non è storia antica, è successo pochi anni fa. E come hanno reagito i palestinesi? In primo luogo, hanno demolito le serre. Poi hanno eletto Hamas. Poi, invece di costruire uno Stato con le sue relative istituzioni politiche ed economiche, hanno impiegato buona parte di un decennio a trasformare Gaza in un'enorme base per continuare la guerra contro Israele.

(La Verità, 2 agosto 2017)


Una risposta alle distorsioni di Sergio Romano

Lettera inviata al Direttore del Corriere della Sera

di Emanuel Segre Amar*

L'articolo pubblicato nella edizione di domenica 30 luglio a firma di Sergio Romano sul Corriere della Sera, avente come titolo "Una tomba per due eredità", merita, a mio parere, delle riflessioni su numerose affermazioni fatte dall'autore. Per brevità mi limito qui a riportare solo le osservazioni più importanti:
   L'autostrada che va da Gerusalemme a Hebron non "costeggia Ramallah", giacché la "sede di Abu Mazen e dei suoi uffici governativi" si trova in tutt'altra direzione: Ramallah è a nord di Gerusalemme, Hebron 27 Km a sud. Questa affermazione, avulsa dal tema trattato, appare giustificata solo dalla volontà di ricordare nel seguito altre "verità" che tali appaiono oggi solo perché vengono ripetute all'infinito.
   Non ci si deve stupire se la regione è "chiamata dagli ebrei Giudea" perché questo, in effetti, è il suo nome storico, utilizzato da tutti, indipendentemente dalla loro religione, fino a quando precise volontà di cancellare ogni legame degli ebrei con la loro terra hanno iniziato a serpeggiare nel mondo. Mi permetto di ricordare che non solo in ebraico si chiama Yehuda, ma anche in arabo si chiama al-Yahudiyyah.
   La strada non ha affatto "i due muri che la separano dal territorio circostante"; questi si trovano unicamente nel tratto che affianca la città di Betlemme, e, in gran parte, non ha nemmeno le ben note barriere elettroniche che costituiscono per oltre il 90% le difese chiamate genericamente "muro" che sono state costruite unicamente come difesa dagli attentatori dopo la tragicamente nota intifada. E la strada non è affatto "israeliana", visto che viene utilizzata da tutti, arabi, cristiani ed ebrei.
   Gli insediamenti israeliani nell'area di Hebron sono ben più di quattro (oltre una dozzina, nella realtà) e sono "protetti da truppe israeliane e da occasionali posti di blocco" per evitare il ripetersi delle situazioni che già nel 1929 hanno obbligato tutti gli ebrei quelli sopravvissuti alla strage ad abbandonare le case abitate ininterrottamente da 3000 anni (appare quindi difficile chiamare "vecchia comunità" chi abita una città da un tempo tanto lungo, raramente riscontrabile per altre città).
   Sergio Romano, che evidentemente ha visitato di recente la città di Hebron con un "accompagnatore", non può non aver visto che la maggior parte delle case non sono affatto "fatte con la stessa pietra bianca, leggermente rosata, che è usata per quelle di Gerusalemme", e che ben poche "hanno grate di ferro molto eleganti, con graziose volute"; inoltre, forse "l'accompagnatore" non ha fatto presente a Romano che le "autorizzazioni delle autorità israeliane", concordate a Oslo per la zona C, non vengono rispettate nemmeno in tale zona, e non sono affatto necessarie per la zona A sulla quale si trova la maggior parte di Hebron.
   Usare la parola "ghetto" per le aree dove "vivevano poche centinaia di persone" fino al 1929, quando furono cacciati dal ben noto pogrom arabo, appare del tutto fuorviante; gli ebrei erano assolutamente liberi di muoversi in tutte le ore e di scegliere le proprie abitazioni dove gradivano, e pertanto la scelta della parola "ghetto" appare del tutto fuori luogo.
   A questo punto Romano si ricorda che nel 1929 vi fu "la prima grande sollevazione araba contro le colonie sioniste", ma, tralasciando che evita di spiegarne le ragioni (il gran Muftì, noto amico di Hitler, aveva fatto spargere la voce che gli ebrei volevano distruggere la moschea di Al Aqsa, suscitando, in tal modo, allora come oggi, rivolte in tutta la regione), definisce "colonie sioniste" quelle che erano le antiche abitazioni di cittadini ebrei. Perché dunque definirle "colonie"? Perché non chiamare "colonie" quelle degli arabi, arrivati oltre un millennio e mezzo dopo gli ebrei?
   Non corrisponde al vero che nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, gli ebrei "vi tornarono in maggior numero"; fino al 1980 nessun ebreo tornò a vivere in quella che è sicuramente una città avente per loro, da sempre, un enorme significato religioso, ma in quella decina di anni si devono piuttosto registrare solo attacchi portati dagli arabi, a colpi di granate, ai turisti che volevano tornare a visitare le antiche tombe dei Patriarchi, attacchi però non ricordati da Romano.
   Al contrario, molto spazio viene dedicato, nell'articolo, a "Baruch Goldstein, vestito con uniforme militare"; egli era effettivamente un maggiore nelle riserve dell'esercito, pluridecorato come il miglior medico d'emergenza, e non soltanto,"un medico che veniva da New York".
   Scrivere che "Maometto incontrò durante il suo viaggio notturno a Gerusalemme, il profeta Ismaele", è un'altra affermazione fuorviante per il lettore, dal momento che nel Corano Gerusalemme non viene citata nemmeno una volta, e la moschea più lontana nei giorni della morte di Maometto, dalla quale egli sarebbe salito in cielo, non poteva essere a Gerusalemme dove l'Islam non era ancora arrivato.
   Romano ricorda la presenza, a Hebron, dal 1995, "di un piccolo distaccamento di osservatori internazionali che piacciono ai palestinesi, un po' meno ai coloni ebrei che manifestano occasionalmente il proprio malumore con il lancio di sassi contro le auto quando fanno servizio di ronda"; sarebbe stato utile ricordare che il comando di questo piccolo distaccamento si trova nello stesso edificio dove si trova la direzione dell'OLP, posizione per lo meno sospetta per la dovuta imparzialità, e che gli ebrei hanno reagito contro le pattuglie due volte per protestare contro il silenzio degli osservatori dopo attentati commessi dagli arabi contro di loro. Una situazione non molto dissimile da quella che si riscontra nel sud del Libano dove non vi sono, al contrario, ebrei che possano protestare per la cecità quando non addirittura complicità degli osservatori delle Nazioni Unite che hanno lasciato accumulare oltre 100.000 missili puntati contro Israele, in una zona che in base alla Risoluzione ONU 1701 sarebbe dovuta estate demilitarizzata, affidandone l'applicazione all'Unifil.
   A questo punto Romano ricorda "il conferimento a Hebron e alla Tomba dei patriarchi del titolo di sito palestinese del patrimonio mondiale al quale il governo israeliano ha reagito con rabbia", ma omette di spiegare le ragioni di tale rabbia, ragioni che non sto qui a ricordare perché fin troppo note.
   Attorno alla Tomba dei Patriarchi, nella quale è sepolta anche Lea, non a caso dimenticata da Romano, la situazione appare diversa da quanto descritta nell'articolo; sarebbe stato doveroso ricordare non solo l'antichissima sinagoga ebraica, ma anche la basilica costruita dai bizantini, poi distrutta dagli arabi e da loro trasformata in moschea, ma forse queste realtà storiche non appaiono a Romano politically correct.
   Non è affatto vero che "Ismaele sia il padre dei dodici progenitori delle tribù arabe" sia perché quando si parla delle tribù, si parla di quelle degli antichi ebrei, sia perché la vicenda religiosa, come rappresentata nell'articolo, ricalca la versione sciita, e non quella dell'islam nel suo complesso.
   Non mi sembra corretto definire Hebron: "il quarto luogo santo dell'Islam"; è noto che è Roma a godere di questo privilegio, per ragioni non difficili da comprendere. Inoltre a Hebron non vi è nessuna "convivenza coatta"; tutti dovrebbero poter vivere dove desiderano, e ritengo che sarebbe piuttosto doveroso far capire ad Abu Mazen che non è accettabile la sua dichiarata volontà di non ammettere cittadini di religione ebraica nel futuro stato di Palestina.
   Le visite alle tombe seguono regole ben precise, anche se non facilmente accettate da tutte le parti interessate (come sempre succede quando vi sono più religioni coinvolte; lo stesso avviene ad esempio tra i cristiani al Santo Sepolcro di Gerusalemme); le tombe sono 15 metri sotto terra, e si entra solo nel luogo che segna la tomba di Isacco sottostante, la sala più grande (alla quale gli ebrei possono accedere solo in 10 giorni all'anno, unici giorni nei quali gli arabi non possono accedere) e il tutto è amministrato dai musulmani del WAQF che, come al Monte del Tempio (Spianata delle moschee per i musulmani) sono molto attenti a fare osservare le imposizioni con ferrea intransigenza, soprattutto nei confronti di chi per secoli sono stati considerati dhimmi.
* Presidente Gruppo Sionistico Piemontese

(Notizie su Israele, 1 agosto 2017)


Da Israele al Piemonte l'irrigazione a goccia per combattere la siccità

Il sistema per dosare l'acqua sperimentato fra Torino e Vercelli: "Risparmi del 60%"

di Maurizio Tropeano

TORINO - «I cereali, da sempre, sono tra le coltivazioni che necessitano di più irrigazione in un periodo breve ma fondamentale, come quello estivo. Se poi si pensa che il sistema utilizzato attualmente risale al 1500, si comprende quanto bisogno ci sia di innovazione». Il ragionamento di Michele Bechis, responsabile del settore cerealico di Fedragri-Confcooperative Piemonte, ha portato alla sperimentazione del sistema delle ali gocciolanti prima della grande sete del 2017.
   La tecnica della goccia (un sistema che trasporta l'acqua direttamente sulla pianta e la rifornisce gocciolando senza passare dai canali) è nata in Israele ed è già utilizzata in altre zone d'Europa. In Piemonte la cooperativa Dora Baltea l'ha provata su 30 ettari al confine tra le province di Torino e Vercelli. I risultati? «Risparmio certificato del 60% di acqua e gestione più sostenibile dei fertilizzanti. Grazie a questo sistema possiamo usarli nella giusta quantità, solo quando serve alla pianta, e senza dispersione nel terreno».
   Questi numeri e la condivisione della necessità di investire sul futuro «per evitare - prosegue Bechis - che fra un mese, finita questa emergenza, si dimentichi quel che è successo», hanno fatto nascere una grande alleanza che ha messo insieme le cooperative agricole e il consorzio irriguo Angiono Foglietti. Il consorzio, nato all'inizio degli anni '90 sulla sponda sinistra della Dora sempre al confine tra le province di Torino e Vercelli, ha presentato un progetto che, utilizzando i fondi dello sviluppo rurale gestiti dalla regione Piemonte, punta ad investire 7,5 milioni per realizzare il sistema ad ali gocciolanti su 300 ettari e impermeabilizzare i canali di adduzione dell'acqua per evitare sprechi.
   Ancora Bechis: «Abbiamo affrontato le sfide dell'innovazione in agricoltura, del recupero degli scarti vegetali per la produzione di energie rinnovabili e ora la nuova frontiera del migliore utilizzo dell'acqua per affrontare i cambiamenti climatici in atto». Il Piemonte è una delle regioni che più sta sperimentando l'utilizzo di tecniche innovative nell'irrigazione ma, per quanto riguarda il mondo dei cereali, «a livello consortile si tratta della prima esperienza significativa».
   Dal loro punto di vista è «un atto di responsabilità non solo verso gli agricoltori, ma verso tutta la collettività». Bechis, però, sa che non bastano le parole per convincere gli scettici: «Oggi il sistema di irrigazione nella zona prevede un "sollevamento" dell'acqua di circa 62 metri dal bacino della Dora Baltea. Utilizzando meno acqua con le ali gocciolanti si risparmia anche molta energia elettrica».

(La Stampa, 1 agosto 2017)


Gaza. Vivere tra le tombe

Quasi 150 donne, uomini e bimbi abitano il cimitero I marmi come tavolo, il bucato fra le lapidi. Qualcuno lavora come becchino, gli altri chiedono l'elemosina durante i funerali

di Davide Frattini

 
Una donna palestinese porta il suo bambino nella tenda improvvisata tra le tombe
 
Nel cimitero vivono anche i bimbi, che giocano tra le lapidi
 
Le lapidi sono utilizzate dalle madri per stendercii panni
 
La Striscia di Gaza è sempre più povera e la sua popolazione continua a crescere. A Gaza vivono quasi 10 mila persone per km quadrato
GAZA - Rashad è venuto al mondo dove altri lo lasciano. Da trentanove anni vive sulle tombe di questo cimitero nel centro di Gaza, come prima di lui il padre che adesso è morto tra i morti. Si allontana solo per andare a mendicare, soldi o un lavoro temporaneo che sa di non trovare. «Perché restiamo qui? Perché è comunque casa nostra».
   Le baracche sono costruite in mezzo alle lapidi e attorno alle lapidi: le lamiere e i sacchi di plastica tappano quella che dovrebbe essere la cucina, la pietra tombale a far da tavolo, un'altra trasformata in divano coperto da un tessuto rosso. I panni sono stesi ad asciugare con i fili tirati da un «martire» della guerra di tre anni fa al più recente seppellito, il verde delle iscrizioni islamiche ancora fresco. Rashad con il resto del clan - gli al-Ghorabi, quattro famiglie, quasi cinquanta persone - è rimasto pure durante i 59 giorni di conflitto tra Hamas e Israele nel 2014, i missili caduti anche sulle tombe, a trapassare i trapassati.
   Le due sezioni del cimitero Sheikh Shaban sono divise da una strada, negli anni gli abitanti di questo rione degli estinti sono diventati 150, «i morti ci hanno accolti, sono dei vicini docili». Qualcuno lavora come becchino, la maggior parte aspetta i funerali per chiedere l'elemosina ai parenti che portano il cadavere avvolto nel sudario e qualche spicciolo arrotolato nelle tasche.
   La madre di Rashad non sapeva che il futuro marito vivesse in un cimitero. Originaria di Amman, il matrimonio è stato combinato dai genitori ed è arrivata dalla Giordania convinta di sposare un palestinese ricco, almeno aveva pagato per averla. Siede tra i nipotini e racconta che la notte i serpenti escono dalla terra, che da cinque giorni non hanno cibo. Miserabili in mezzo alla miseria che si estende per i 365 chilometri quadrati della Striscia, un corridoio di sabbia stretto tra Israele, il Mediterraneo e l'Egitto.
   Le Nazioni Unite, contabilità dell'indigenza, calcolano che il territorio di Gaza sarà invivibile nel giro di tre anni, la popolazione cresce troppo in fretta - ha superato i 2 milioni - e le strutture per la distribuzione dell'acqua e lo smaltimento delle fogne non stanno reggendo. Perché quest'estate, come l'estate scorsa e l'inverno dopo, l'elettricità è razionata: 3-4 ore al giorno mentre la temperatura raggiunge i 40 gradi, le notti sono buie e soffocanti.
   La crisi è peggiorata dallo scontro politico. Abu Mazen vuole punire i fondamentalisti di Hamas che con le armi gli hanno tolto dieci anni fa il controllo della Striscia. Da Ramallah il presidente palestinese taglia le forniture di gasolio per la centrale elettrica e gli stipendi agli impiegati pubblici. Forse spera in una rivolta improbabile: i miliziani islamisti hanno il monopolio delle armi, le recenti rappresaglie economiche del raìs - gli israeliani hanno imposto l'embargo dal 2007 - sommergono chi è già sommerso.

(Corriere della Sera, 1 agosto 2017)


La storia dei "Kindertransport"

I treni della speranza che salvarono 10.000 bambini dallo sterminio Nazista

di Giovanna Potenza

Il monumento davanti alla stazione ferroviaria di Liverpool Street, a Londra
La piazza antistante la stazione ferroviaria di Liverpool Street, a Londra, è abbellita da un singolare monumento in bronzo dello scultore Frank Meisler, raffigurante cinque bambini in abiti degli anni Trenta, con delle valige antiquate. Il gruppo di piccoli sembra guardarsi attorno con aria smarrita, l'aria di un viaggiatore appena giunto a destinazione alla ricerca di qualcuno ad attenderlo… in attesa di chi? Ed a cosa si deve la scelta di un soggetto particolare al punto di sembrare un memoriale, per una piazza così importante, che è uno dei biglietti da visita della città?
   La risposta risiede in una parola tedesca che diede il nome ad una delle più coraggiose e meritorie azioni di quegli anni tragici: Kindertransport, ovvero, il " trasporto dei bimbi". Talvolta una semplice parola può racchiudere la storia di molte vite, in questo caso quella di circa 10.000 giovani vite di bambini ebrei (ma non soltanto) che negli anni oscuri del Nazismo, tra il 1938 ed 1940, furono trasportati temporaneamente in Gran Bretagna, per sfuggire alle persecuzioni che accanivano sulle comunità ebraiche in Austria, in Germania, in Cecoslovacchia ed a Danzica dop la Notte dei Cristalli.
   Spinta dalla stampa e dall'opinione pubblica che solidarizzava con le vittime delle violenze naziste, la Camera dei Comuni, nel novembre del 1938, decise di approvare la rimozione delle restrizioni sull'emigrazione nei confronti dei paesi dai quali dovevano provenire i bambini e gli adolescenti rifugiati. Venne fatto anche un tentativo, da parte della politica britannica, per consentire ad altri bambini di essere accolti dagli Stati Uniti. Negli USA stavano arrivando già circa 100 bambini l'anno, un numero ridottissimo, durante il programma OTC (One Thousand Children). Nel 1938 i senatori Robert F. Wagner ed Edith Rogers proposero di ammettere 20.000 bambini sotto i 14 anni senza visto, ma la proposta fu bloccata dal Senatore Robert Rice Reynolds, fervente nazionalista antisemita, con il risultato che gli USA rifiutarono l'accoglienza, come nel caso dei 936 profughi della St. Louis del 1939.
   Curiosamente, le autorità naziste non si opposero al programma, ma fissarono delle condizioni ben precise: i bambini non potevano essere accompagnati dai genitori, ma solo da alcuni adulti responsabili della loro consegna agli inglesi, e potevano trasportare con sé solo una valigia, un bagaglio a mano e 10 marchi (50 sterline dovevano essere invece versate dalle famiglie in anticipo come garanzia del rientro nel paese d'origine).
   In alcuni casi i piccini e gli adolescenti (fino ai 17 anni) che partivano, non avevano più una famiglia che potesse occuparsi di loro, perché internata nei campi di concentramento. Le organizzazioni ebraiche che si occuparono della selezione dei futuri rifugiati, diedero la preferenza agli orfani, ma non mancarono bambini sia non ebrei, che provenienti da tutte le altre classi sociali, in fuga dai venti di guerra che imperversavano in Europa.
   Il lungo viaggio verso il paese d'oltremanica si snodava attraverso tre tappe, la prima presso Rotterdam, da dove ci si imbarcava per l'Inghilterra fino ad Harwich, una cittadina nell'Essex, ed infine in treno, fino alla stazione di Liverpool Street a Londra, dove avrebbe avuto luogo l'incontro con le famiglie assegnatarie, o da dove ci sarebbe stato il dirottamento ad un primo centro di accoglienza a Dovercourt Bay, prima della destinazione finale.
   Quello dei rifugiati non era un viaggio facile e la traversata del grigio Mare del Nord, sferzato da venti invernali, era a volte paurosa per i tanti che non avevano mai visto il mare prima di allora. Eppure erano numerosissimi i bambini che arrivavano, fino a trecento a settimana, tutti disorientati e spauriti, accomunati dalla stessa speranza per un futuro migliore, inviati, come pacchi postali, da un'Europa martoriata dalla follia nazista in un paese di cui non parlavano la lingua.
   Erano bambini e adolescenti, che si erano lasciati alle spalle tutto, costretti alla separazione forzata dalle loro famiglie e dalla loro terra di origine. Se poterono restare in contatto con i loro cari sino al settembre 1939, dopo lo scoppio della guerra gli unici, sporadici contatti furono quel garantiti dalla Croce Rossa Internazionale.
   L'integrazione non fu sempre facile e talvolta, in casi estremi, i bambini furono spostati in altre famiglie disposte ad accoglierli, oppure furono dislocati, per motivi di sicurezza, nelle campagne dell'Inghilterra del Nord, dopo che iniziarono i bombardamenti sulla Gran Bretagna.
   Nel 1940 circa 1000 rifugiati furono internati nei campi di internamento nell'Isola di Man, in Canada ed in Australia, come "enemy aliens", e cioè come " stranieri nemici", tuttavia, a dispetto di questa vergognosa discriminazione, alcuni ragazzi riuscirono comunque ad arruolarsi nell'esercito britannico e furono impiegati in azioni di guerra, mentre alcune ragazze riuscirono a prestare servizio come personale parasanitario.
   Alla fine del conflitto la maggior parte dei bambini rifugiati rientrò nei paesi di origine, anche se furono comunque in tanti a restare nel Regno Unito, acquisendo la cittadinanza britannica. Altri decisero di rifarsi una vita in Israele, negli Stati Uniti, in Canada o in Australia.
   Da questa vicenda, fatta di tragedia e di speranza, nel 2000 è stato tratto un documentario diretto da Mark Jonathan Harris, vincitore dell'Oscar al miglior documentario, dal titolo "La fuga degli angeli - Storie del Kindertransport "(Into the Arms of Strangers: Stories of the Kindertransport), di cui si può vedere qui il trailer in inglese.
   Il 6 maggio del 2013 i sopravvissuti furono ospitati per un evento commemorativo a St James's Palace, ospiti del principe Carlo d'Inghilterra. In quell'occasione la settantacinquenne Ruth Hebe una delle tante bambine giunta in Inghilterra con una piccola valigia piena di qualche abito, delle sue matite preferite e di tanti sogni, dichiarò: "Sarò grata a questo paese sino al giorno della morte".
   Ormai la maggioranza di coloro che videro la stazione di Liverpool Street al loro arrivo, nei lontani anni precedenti la guerra, è ormai naturalmente scomparsa. Restano il ricordo di quei giorni e il memoriale di bronzo collocato innanzi alla stazione di Liverpool Street, i cui bambini scolpiti nel metallo hanno volti che, nonostante tutto, irradiano speranza. Sono volti che guardano avanti, verso il futuro.



Il monumento alla stazione di Liverpool Street 






Il monumento alla Stazione di Berlino free lightbox galleries by VisualLightBox.com v5.9m



   
   (Vanilla Magazine, 31 luglio 2017)


Così l'Iran sta cercando di conquistare il Medio Oriente

L'analisi del giornalista iraniano di BuzzFeed Borzou Daragahi

di Emanuele Rossi

Da quando la guerra civile siriana è iniziata, l'Iran s'è subito piazzato alle spalle del regime del presidente Bashar el Assad. Assad è alawita, una setta sciita su cui la Repubblica islamica rivendica protezione e controllo. Allo stesso tempo la Siria è un asset importante per Teheran: è uno degli sbocchi mediterranei, come il Libano, dove gli iraniani hanno marcato il proprio territorio facendo crescere fino al potere sul paese il partito/milizia Hezbollah (nota di colore: recentemente Donald Trump ha ospitato alla Casa Bianca il primo ministro libanese Saad Hariri e lo ha ringraziato per aver combattuto Hezbollah, ignaro che invece Hez dà sostegno ad Hariri). Dalla Siria al Libano, dall'Iraq allo Yemen, il sostegno iraniano a partiti armati con cui condividono ideologia, credo e mire politiche (o geopolitiche), è la base delle dinamiche con cui gli ayatollah stanno cercando di aumentare il proprio controllo politico, economico, commerciale, su una buona parte di Medio Oriente in cui hanno influenza, sfruttando il disimpegno americano, la partnership con la Russia, e animando il contrasto con le monarchie del Golfo.

 Le Quds Force
  La Siria è stata una cartina tornasole di queste attività, in piedi da anni. Il vettore che muove le linee di questa strategia sono i Guardiani della Rivoluzione, il corpo militare (e politico) che con le sue unità speciali, le Quds Force del generale Qassem Suleimani, tiene in contatti sul campo. Le Quds Force sono un'entità terroristica per gli Stati Uniti, ma per la narrativa sciita sono una realtà quasi da venerare: quando Suleimani scende sul campo di battaglia e va in visita alle forze proxy iraniane in giro per il Medio Oriente, è accolto come un eroe, la gente si scatta selfie con lui, un codazzo di fan lo segue passo passo.

 Il saggio di Buzzfeed
  Il giornalista iraniano di BuzzFeed Borzou Daragahi ha ricostruito uno spaccato concreto del mondo creato da Teheran a cavallo del Medio Oriente un saggio, frutto di ricerche durate oltre sei mesi. Ricerche sul campo, durante le quali ha potuto entrare in contatto per esempio con i miliziani iracheni filo-iraniani che stanno combattendo il Califfato. Si tratta di uomini appartenenti ai partiti milizia che osteggiarono l'invasione americana nel 2003 (si opposero con le armi e a colpi di autobombe) che nel corso del tempo - e anche grazie al governo sciita voluto dagli americani e guidato da Nouri al Maliki - sono diventate una realtà politica, sociale, culturale, militare, dominante in Iraq. Ora quelle stesse milizie, come la famigerata Lega di Giusti, combattono sullo stesso lato della Coalizione internazionale nella liberazione dallo Stato islamico, ma sono un vettore iraniano che lotta adesso per guadagnarsi una presa ancora più salda sul futuro del paese.

 I proxy di Teheran
  I miliziani sciiti filo-iraniani sono spesso nominati nel conflitto allo Stato islamico, così come per la difesa di Assad. L'esercito siriano è morto, rappresentato ormai da poche unità e rimasto in piedi soltanto grazie all'aiuto aereo russo e a quello delle milizie, appunto. L'Iran - che in Siria ha schierato anche militari convenzionali - ha mosso migliaia di uomini delle fasce sociali più basse e più devote, li ha presi dai rispettivi paesi, Iraq, Afghanistan (i Fatemiyoun si chiamano questi), Siria, li ha portati in caserme per addestrarli e li ha ributtati a puntellare il regime di Damasco, invasati dall'ideologia. Proxy per un conflitto che Teheran combatte con interesse contro i ribelli, in molti casi mossi o sostenuti dai temuti nemici politici (prima che religiosi) sunniti del Golfo.

 Hezbollah
  Discorso a parte vale per Hezbollah: il Partito di Dio libanese è da anni addestrato, finanziato, guidato, da Teheran. Sostanzialmente con uno scopo: controllare il Libano e combattere Israele, lo stato ebraico è l'altro grande nemico regionale (ed esistenziale) dell'Iran - tanto che le intelligence di Gerusalemme ritengono che una volta che in Siria sarà finita, gli Hezbollah lanceranno un'altra guerra contro Israele, rafforzati dai passaggi di armamenti iraniani (per questo prevengono, e ogni tanto bombardano convogli di armi sospette dirette in Libano). Gli uomini di Hezbollah sono ormai talmente fidati per l'Iran che, secondo un comandante che ha parlato con BuzzFeed, circa duemila di loro sono in Iraq per fare formazione alle decine di migliaia di nuove reclute.

 La forza delle milizie
  Questo programma di addestramento e accompagnamento, scrive Daragahi, è talmente opaco da non avere un nome specifico: è però frutto di un progetto minuzioso, che segue attentamente ogni reclutato, con un mix di misticismo - sono i "Protettori dei Santi", dicono i media di stato - e obiettivi politici per creare un nuovo ordine regionale. A chi si arruola anche una ricompensa materiale: stipendi decenti rispetto agli standard, ma regole rigorose e continua sorveglianza. Spiega un ex ufficiale israeliano al giornalista del sito americano che è una strategia tremenda, perché "non importa se tu hai F-16 o F-35?, non puoi combattere contro soldati che si fondono e confondono con la popolazione; che sono la popolazione. È una "visione grandiosa", che striscia anche in paesi dove non ci sono conflitti in atto, come il Bahrein, la stessa Arabia Saudita o la Nigeria (al centro dell'Africa una versione disarmata di Hezbollah fa già il suo lavoro politico, racconto la Bloomberg). Le milizie politiche sciite sono talmente incrostate nella società irachena che ormai hanno delle proprie emittenti, società da gestire, interessi, sponsor: e la mossa dello scorso anno con cui il governo di Baghdad ha formato le Popular Mobilization Units - l'entità ombrello che le racchiude creata per combattere l'IS - è di fatto un riconoscimento del loro ruolo e l'inquadramento all'interno dell'esercito come unità parallele.

(formiche.net, 1 agosto 2017)


Il Giro a Gerusalemme, ci siamo

Entro la fine dell'estate è atteso l'annuncio ufficiale per il 2018. Al centro la figura di Bartali.

Gino Bartali col figlio Luigi
Progetti editoriali, ricostruzioni giornalistiche, nuove ricerche storiografiche. La figura di Gino Bartali e il suo ruolo nel salvataggio di ebrei sotto il nazifascismo conoscono una stagione di grande interesse e centralità. Una centralità che potrebbe ulteriormente accentuarsi nelle prossime settimane, quando dovrebbe diventare ufficiale una voce insistentemente circolata in questi ultimi tempi e che ha trovato autorevoli conferme anche da parte di questa redazione. A meno di clamorosi imprevisti infatti il prossimo Giro d'Italia dovrebbe prendere il via da Gerusalemme e toccare nel proseguo diverse città israeliane. Tre in tutto le tappe previste in Israele, prima naturalmente che la competizione si animi ed entri nel vivo sul suolo italiano.
   Centralità assoluta per Ginettaccio, che dovrebbe essere ricordato dalla carovana in rosa con un passaggio allo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme la cui commissione, al termine di un lungo lavoro di approfondimento, l'ha inserito nel 2013 nell'elenco dei Giusti tra le Nazioni basandosi tra gli altri sulla testimonianza inedita dell'ebreo fiumano Giorgio Goldenberg, che dopo aver raccontato la sua incredibile storia di salvezza a Pagine Ebraiche (dicembre 2010) si è recato di persona allo Yad Vashem con una deposizione scritta a beneficio della commissione stessa.
   Sempre più spesso i grandi giri ciclistici, in testa Tour de France e Giro d'Italia, prevedono l'apertura in un paese estero. Questione d'immagine e grandi benefici di cassa, per la gioia degli sponsor. Gerusalemme è stata proposta in questa prospettiva, con l'auspicio di dar vita a una vera e propria "corsa per la pace" che rilanci un messaggio di dialogo tra diverse identità e culture attraverso lo sport.
   Le recenti tensioni che hanno coinvolto la capitale dello Stato ebraico hanno fatto slittare un annuncio che sarebbe già dovuto arrivare nel corso del Tour, durante uno dei due giorni di riposo previsti.
   Per agosto comunque, a meno che la direzione del Giro non decida improvvisamente di cambiare rotta, preferendo Varsavia o un'opzione alternativa, ci dovremmo essere.
Gerusalemme è da vari anni un punto di riferimento per gli appassionati di diverse discipline sportive. Merito in particolare di un sindaco, Nir Barkat, che coltiva da sempre la passione per l'agonismo e che molte risorse ha investito perché la città più amata e complessa al mondo potesse fregiarsi di questa specificità. "Affrontare e gestire i conflitti è la nostra sfida di ogni giorno. Una sfida le cui ricadute sono evidentemente globali" ha sottolineato Barkat in occasione di un suo recente intervento a Roma Nel solco di questo principio anche la Maratona di Gerusalemme, l'evento ad oggi più mediatico, non si è mai fermata. Persino davanti ad evidenti minacce per l'ordine pubblico. Significativi anche gli investimenti per il ciclismo stesso. Già nell'ottobre 2013, su iniziativa del Giro d'Italia, fu infatti organizzata una Gran Fondo con starter d'eccezione Andrea Bartali. Il figlio del grande Gino, recentemente scomparso al pari di Goldenberg, fu coinvolto per legare in modo ideale Sport e Memoria. Due assi che sono al centro anche di questo nuovo progetto.
   Pur relativamente marginale, il ciclismo cresce nella considerazione degli israeliani. Alcuni anni nata ad esempio una squadra professionistica, la Israel Cycling Academy, che oltre a partecipare ad alcuni giri minori si è imposta all'attenzione dell'opinione pubblica italiana per varie ragioni. Tra queste, un rapporto fortissimo con la vicenda di Bartali campione di umanità. Merito in particolare del giovane team manager, Ran Margaliot, che in corsa è stato allievo del grande Contador e che ha portato i suoi ragazzi ad affrontare i luoghi di Gino in bicicletta, nel 2016 e nella scorsa primavera Un progetto che è nato ed è stato in parte sviluppato insieme alla redazione di Pagine Ebraiche.

(Pagine Ebraiche, agosto 2017)


Il pianto del Muro e i nodi nel futuro Medio Oriente

di Sergio Della Pergola

 
Donato Grosser al Muro del Pianto, giugno 1967
Nell'euforia sincera e commovente dei giorni immediatamente dopo la Guerra dei sei giorni, a metà giugno 1967, andammo subito con un gruppetto di amici al Kòtel Hama'aravì, il Muro occidentale del Monte del Tempio, noto anche come il Muro del Pianto. Eravamo giovani, allegri e sollevati nello spirito. La sensazione era quella di essere usciti da un doppio incubo: il primo era quello immediato della possibile distruzione dello Stato di Israele proclamata dal presidente egiziano Nasser assecondato da tutti i capi di governo dei paesi arabi. Ai primi di giugno alcuni quotidiani in Italia avevano già pubblicato editoriali che compiangevano e commemoravano quello che era stato lo Stato di Israele e quello di buono che aveva potuto rappresentare. L'impari partita militare era data quasi per scontata, vista la forza militare davvero preponderante degli arabi appoggiati dall'Unione Sovietica, mentre Israele aveva come maggiore alleato la Francia, con gli Stati Uniti ai bordi del campo a guardare la scena. Ricordiamo che fra gli obiettivi colpiti dall'aviazione israeliana il 5 giugno 1967 vi fu anche la nave spia americana Liberty che bordeggiava nei paraggi a seguire le mosse degli israeliani. Il secondo incubo svanito era quello del lungo conflitto arabo-israeliano che pareva risolto una volta per sempre grazie alla vittoria militare. Il governo di Levi Eshkol aveva appena deliberato di restituire i territori occupati nella campagna militare in cambio del riconoscimento politico di Israele da parte araba. Il riconoscimento non ci fu, la delibera governativa fu annullata, il resto è storia. Ma in quel momento l'impressione immediata che la pace fosse vicina era forte e diffusa.
   La conquista di Gerusalemme aveva spianato la via al luogo più desiderato e riverito dal popolo di Israele, all'interno del paese e nella diaspora ebraica: il Muro del Pianto, ultimo simbolo sia pure indiretto del centro sacrale della nazione e della sua sovranità politica tragicamente perduta per opera delle legioni romane 1900 anni prima. Già poche ore dopo la fine delle battaglie, il ministro della Difesa Moshé Dayan aveva dato le disposizioni essenziali: la spianata del Tempio e delle Moschee sarebbe rimasta in mano e sotto la responsabilità del Waqf l'autorità religiosa amministrativa islamica. Il lato occidentale del bastione sottostante sarebbe stato liberato delle casupole del quartiere dei Mùghrabim (i Marocchini) che lo strangolavano a una misera viuzza, e al loro posto sarebbe stato creato un grande piazzale nel quale si sarebbero potute riunire migliaia di persone in preghiera, riflessione e giubilo.
   Anche noi studenti italiani arrivati nei mesi precedenti all'Università di Gerusalemme ci affrettammo ad andare a visitare l'antico e rinnovato sito e a scoprire le sue suggestioni. L'amico Donato Grosser, ritratto nella foto, era allora uno studente di economia, proveniente da Milano. Si sarebbe poi laureato a Gerusalemme e avrebbe svolto gran parte della sua carriera di consulente internazionale a New York. Con lui c'ero anch'io. Ma qui finisce la cronaca degli avvenimenti del 1967 e inizia un'analisi di antropologia politica ebraica e israeliana contemporanea che prende le mosse appunto dalla storica fotografia. Esaminiamo dunque attentamente l'immagine. In primo piano l'allora ventenne Grosser, sullo sfondo le grandi mitiche e suggestive pietre con i cespugli di capperi. E in mezzo una moltitudine di persone. Sono uomini e donne, giovani e anziani, alcuni degli uomini hanno la kippah, altri il classico kova tembel (il capelluccio rotondo tipico del kibbutz), un uomo a destra del nostro amico si è coperto il capo con un fazzoletto con i nodi ai quattro angoli. La seconda donna da destra porta un copricapo femminile tradizionalista e una lunga veste molto coperta, la donna alla sua destra ha un foulard in testa e veste una camicetta senza maniche. Dal modo di vestire si capisce chiaramente che il pubblico presente è uno spaccato del popolo di Israele che include religiosi e laici, tradizionalisti e modernisti, persone con le più svariate idee politiche e i più diversi atteggiamenti nei confronti della pratica religiosa. Ci sono tutti, senza distinzione, senza tensioni, accomunati dal comune rispetto per il luogo sacro (o consacrato) e dal desiderio di avvicinarsi a quel Muro e sfiorarlo con le dita, sentire il profumo e la temperatura di quelle pietre, provare l'emozione del ritorno al passato, e del ritorno del passato al presente. Ci sono tutti, e tutti stanno insieme armoniosamente.
   Sono passati cinquant'anni da quella storica foto, e oggi non sarebbe possibile ripeterla. Fisicamente il luogo è mutato. Il piazzale antistante il Kòtel (Muro) è stato allargato e abbassato, mettendo a nudo parecchie altre file di pietre che continuano in profondità sotto il livello del piazzale per decine di metri. Gli ultimi residui delle costruzioni accanto al Kòtel sono stati sostituiti da una passerella dalla quale si può accedere alla Spianata soprastante. E stata inserita una divisoria che separa gli uomini dalle donne. È stato nominato ufficialmente un "Rabbino del Kòtel'', un personaggio vestito con un cappotto nero, di origine ashkenazita, che segnala non solamente che il Muro non è più accessibile al popolo senza intermediari, ma deve sottostare al controllo di un custode che conosce meglio di altri le regole di chi possa avvicinarsi all' ambito sito e chi no. Il suo modo di vestire, di fare e di dire ci segnala anche chiaramente che cosa in Israele e nel mondo si debba intendere per rabbino.
   Negli Stati Uniti, in altri paesi, e anche in Israele, esistono numerose comunità ebraiche e soprattutto milioni di ebrei, con o senza affiliazione a una comunità specifica, che desiderano avvicinarsi al Kòtel in gruppi familiari comprendenti uomini e donne, senza divisioni secondo i sessi. Dopo un lungo e difficile negoziato durato tre anni, e soprattutto sotto la pressione degli ebrei americani, il governo di Israele presieduto da Benyamin Netanyahu aveva acconsentito a destinare una zona tranquilla più a sud lungo il Muro, in cui ebrei di entrambi i sessi avrebbero potuto raccogliersi insieme in preghiera e meditazione, senza disturbare la zona della preghiera con la divisoria. Ma nelle scorse settimane, il governo, cedendo alla pressione dei partiti Yahadut HaTorah e Shas, ha annullato la decisione già presa. Ne è seguita una protesta dura e senza precedenti delle organizzazioni ebraiche americane e dell'Agenzia Ebraica, che è il massimo organismo sionista mondiale. Che l'aspirazione e la presenza ebraica al Kòtel sia stata storicamente di entrambi i sessi, lo dimostrano non solamente la nostra foto del giugno 1967 ma anche molte vecchie fotografie e stampe dei secoli passati. I motivi di piccola tattica e opportunità politica che stanno dietro le nuove decisioni creano una frattura profonda fra governo e popolo. Sorge in modo doloroso ma inevitabile la domanda se l'attuale gestione del governo israeliano crei più benefici o più danni all'obiettivo ideale di Israele come Stato del Popolo ebraico.

(Pagine Ebraiche, agosto 2017)


*


E' più importante la divisoria del Muro del Pianto o il governo islamico del Monte del Tempio?

di Marcello Cicchese

E' interessante la rievocazione storica fatta dal testimone oculare Sergio Della Pergola. Meno interessante o, se si vuole, ancora interessante ma per motivi diversi, è la successiva lezione di "antropologia politica ebraica e israeliana contemporanea" fatta dal medesimo autore. Nel suo flashback storico-personale. con cui vorrebbe trarre dal passato indicazioni politiche per il presente, il prof. Della Pergola fa una scelta curiosa: fissa la sua attenzione sulla promiscuità sessuale e sociale degli ebrei che in quei giorni gloriosi si avvicinavano trepidanti al Muro del Pianto. Su questo solo punto l'autore basa tutta la sua lezione di antropologia politica, al termine della quale si pone "in modo doloroso ma inevitabile la domanda se l'attuale gestione del governo israeliano crei più benefici o più danni all'obiettivo ideale di Israele come Stato del Popolo ebraico".
   E' proprio questa la più importante rievocazione del passato che si può fare per trarne riflessioni su ciò che può portare benefici o danni "all'obiettivo ideale di Israele come Stato del Popolo ebraico"? O ce n'è qualcun'altra più importante?
   Prima ancora di iniziare la sua lezione di antropologia ebraica, il prof. Della Pergola accenna, come fosse una semplice curiosità di cronaca, ad un fatto ben noto ma molto poco sottolineato, anche dagli ebrei. Testualmente: "Già poche ore dopo la fine delle battaglie, il ministro della Difesa Moshé Dayan aveva dato le disposizioni essenziali: la spianata del Tempio e delle Moschee sarebbe rimasta in mano e sotto la responsabilità del Waqf l'autorità religiosa amministrativa islamica."
   Come mai l'eroe della guerra dei sei giorni fece al nemico sconfitto una simile concessione, di cui qualcuno ha scritto che le stesse autorità giordane si meravigliarono? La risposta sta nel fatto che il sionismo laico di quel tempo considerava la religiosità, anche la propria, un retaggio ingombrante del passato da lasciare a chi volesse continuare a farlo, ma che in nessun caso doveva dettare le scelte politiche dello Stato da poco costituito. "Che ce ne facciamo di questo Vaticano ebraico?" ha detto altezzosamente Dayan dopo essere entrato in Gerusalemme. Disprezzo del Dio d'Israele a cui il popolo per secoli ha fatto riferimento ogni volta che protendeva lo sguardo nostalgico verso la Città Santa: questo avrebbe dovuto essere ricordato guardando la fotografia pubblicata nell'articolo di Della Pergola, non la laica, indifferente promiscuità sessuale e sociale di ebrei gioiosi davanti al Muro. Dove si trova infatti la radice dei problemi che pone oggi al governo di Israele la semplice installazione di metal detector, come avviene in tutti gli aeroporti? Si trova lì: in quel trionfo della laicità pragmatica che in un momento cruciale della storia d'Israele ha consegnato il punto territoriale più importante per il popolo ebraico nelle mani di un'autorità religiosa che l'ha trasformato in un patrimonio squisitamente islamico, esigendo che sia cancellato il nome stesso di Monte del Tempio per sostituirlo con "Spianata delle Moschee" e ottenere il plauso, o quanto meno l'acquiescenza, del resto del mondo.
   Pragmaticità laica contro religiosità bigotta: questo è l'atteggiamento con cui molti ebrei della diaspora e della sinistra israeliana pensano di dover affrontare i problemi politici di Israele o di prendere posizione su di essi. Ma è davvero realistico tutto questo? I missili che arrivano da Gaza non sono forse una conseguenza delle laiche, pragmatiche, "scientifiche" previsioni statistiche che hanno convinto un Ariel Sharon a lasciare Gaza nelle mani dei palestinesi per non avere in futuro una maggioranza di arabi nello Stato d'Israele? E le ultime sommosse islamiche per i tentativi di "profanazione" della "Spianata delle moschee" da parte di "infedeli ebrei", non sono forse una conseguenza delle scelte fatte a suo tempo dai governi sionisti laici?
   L'ebraismo laico della diaspora, soprattutto americano, ha chiesto a Israele, e adesso pretende, che quando gli americani vanno a visitare il Muro del Pianto non abbiano a vergognarsi davanti ai loro amici non ebrei per una disdicevole separazione fra uomini e donne che fra poco non ci sarà più neppure nei servizi pubblici. A tutto questo il premier Netanyahu, pragmatico anche lui, ha cercato di rispondere barcamenandosi fra spinte contrastanti, come fanno tutti i politici, di destra di centro o di sinistra. "Motivi di piccola tattica e opportunità politica", dice il professore, pur sapendo che così fanno tutti i politici, con la differenza che alcuni lo sanno fare e altri no. Ma a questo egli vuole contrapporre l'"ideale di Israele come Stato del Popolo ebraico" che "l'attuale gestione del governo israeliano" non saprebbe fare. A questo punto bisognerebbe chiedergli: qual è questo ideale? Saprebbe descriverlo con chiarezza? E sarebbe certo di trovare il consenso del resto del popolo ebraico? Se al premier Netanyahu sono stati attribuiti "motivi di piccola tattica e opportunità politica", si può presumere che molti attacchi alle sue scelte di governo siano da attribuire a motivi di piccola acredine politica e antipatia personale.
   Al premier è stato rimproverato di aver tenuto troppo in conto le spinte dei religiosi. A parte le valutazioni di opportunità politica, è un male in sé tutto questo? Nuoce all'"obiettivo ideale di Israele come Stato del Popolo ebraico"? Come evangelico che crede in Gesù come Messia d'Israele, so che potrei essere inviso a molti ebrei ortodossi, eppure credo che la loro presenza, anche la loro fastidiosa invadenza, sia più significativa e necessaria in Israele della presenza occasionale di assimilati ebrei americani che vanno in visita al Kòtel. So che ci sono ebrei ortodossi che si oppongono, anche violentemente , anche attraverso apposite organizzazioni, ai miei fratelli ebrei messianici, ma fanno questo perché sono interessati alla figura del Messia. E questo è importante. Di questo, Israele ha bisogno. I laici se ne facciano una ragione e risparmino ai lettori le loro lezioni di "antropologia politica ebraica e israeliana contemporanea". Di questo, Israele non ha bisogno.

(Notizie su Israele, 31 luglio 2017)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.