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Notizie 1-15 aprile 2021


Estratto del discorso dell'Ambasciatore dello Stato d'Israele in occasione di Yom Haatzmaut

Oggi celebriamo Yom Haatzmaut e se guardate l'Israele contemporanea, capirete perché festeggiamo.

Grazie a Dio, Israele sta ritornando alla vita, dopo la pandemia. Quasi tutto è nuovamente aperto, ed è possibile festeggiare e ritrovarsi insieme.
   Nonostante la crisi globale, l'economia israeliana è forte, la cultura e la scienza prosperano, e l'apparato della difesa è pronto a far fronte a possibili minacce. Il mondo della Torah in Israele sta fiorendo, come mai prima nella storia ebraica. Anche la quantità di innovazioni, invenzioni e brevetti in Israele, è senza precedenti nel mondo.
   Tutto questo non lo teniamo soltanto per noi. Condividiamo con il mondo le nostre idee e, naturalmente, con la nostra amica Italia. Ad esempio, abbiamo recentemente proposto all'Italia, di partecipare alla terza fase di sviluppo del vaccino israeliano, nonché di partecipare a una fase avanzata di sperimentazione e produzione di un farmaco per malati di Covid-19.
   La settimana iniziata con Yom HaShoah, il Giorno della Memoria della Shoah, che termina con il Giorno dell'Indipendenza, Yom Haatzmaùt, costituisce una sorta di "Dieci giorni di Ringraziamento".
   Dall'esilio alla sovranità. Dalla distruzione alla rinascita. Dal lutto a un giorno di festa. Dalla Valle della Morte di Auschwitz alla Valle di Yezreel, alla Pianura della Giudea, alla Valle del Giordano, alla pianura costiera e fino al Monte del Tempio a Gerusalemme.
   Un antico racconto medievale, narra di un ballerino che danzava in maniera meravigliosa, fino a sembrare fluttuare in aria senza peso. Era difficile credere che una danza così vertiginosa fosse possibile. Lo stupore degli spettatori aumentò, quando, alla fine della danza, notarono che per tutto questo tempo, le gambe del ballerino erano state legate con delle catene ma, ciononostante, esse riuscivano comunque a librarsi, e a raggiungere grandi risultati.
   Capite dunque l'entità del miracolo chiamato Stato di Israele?
   La verità è, che questo ballerino così bravo a ballare, non è solo era incatenato, ma è anche riuscito di fatto a far breccia, tra le pareti della tomba in cui cercavano di seppellirlo, solo meno di ottanta anni fa.
   Il poeta Nathan Alterman, ha immaginato questo processo come "la meraviglia della nascita di una farfalla da un bruco".
   Lo stadio in cui il baco da seta diventa una crisalide, è uno stadio di morte e vuoto. Se si prova ad aprire il bozzolo, non si vede nulla. È necessaria una fede profonda nelle forze nascoste in questo bozzolo, che sembra morto. E chi sa aspettare pazientemente, vince e vede la sua salvezza, e arriva a far parte di questa meraviglia.
   Noi ce l'abbiamo fatta.
   Felice Yom Atzmaut!

(Shalom, 15 aprile 2021)


Consultazioni in Israele: riusciranno a esorcizzare la 5a elezione?

Anche nello Stato ebraico non esistono più la destra e la sinistra

di Elena Grigatti

Ennesima tornata di consultazioni in Israele per individuare una squadra di coalizione. Oramai lo Stato ebraico appare come un paese allo sbando anche se i suoi principali esponenti sembrano non preoccuparsene. Eppure, un'instabilità politica protratta per così lungo tempo va solo a svantaggio di Israele. Specialmente dopo l'aumento delle tensioni con l'Iran. Riusciranno i colloqui a favorire un'intesa per un nuovo esecutivo? E "Bibi" ce la farà di nuovo?

 ANCORA CONSULTAZIONI IN ISRAELE?
  Proseguono le consultazioni in Israele tra il leader di Yamina, Naftali Bennett, e il primo ministro Benjamin Netanyahu. L'obiettivo è trovare un'intesa per formare un governo di coalizione dopo che le elezioni non hanno prodotto una maggioranza. Ma per come stanno andando le cose la sfida sembra tutt'altro che semplice. A seguito dell'ultimo colloquio, lo stesso Bennett ha ammesso come la "politica dei blocchi" sia ormai una logica superata. In Israele destra e sinistra non esistono più. Allo stesso modo in cui sono svaniti gli schieramenti parlamentari pro o contro Netanyahu che (intanto) ringrazia e va avanti, rimanendo al potere. In particolare, quella di mercoledì è stata la quarta tornata consultiva da quando il presidente israeliano, Reuven Rivlin, ha concesso a Netanyahu il mandato di formare un governo. Queste trattative porteranno a qualcosa di buono?

 LA VECCHIA VOLPE
  Le delegazioni di Likud e di Yamina hanno preso parte all'incontro presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Gerusalemme. Ma i deputati della coalizione si sono incontrati anche in via separata dai due leader. Nel frattempo, "Bibi" Netanyahu ha interesse a stringere alleanze con Yamina, Shas e il giudaismo della Torah unita. Questo per fare pressioni sul capo del Partito sionista religioso, Bezalel Smotrich, che continua a rifiutarsi di entrare in un governo sostenuto da Ra'am (la Lista araba unita). Ma il tempo stringe per Bibi, il cui mandato scadrà il 4 maggio. Se non formerà un governo entro quel termine, Rivlin sarebbe costretto a incaricare Bennett di provare a costruire una coalizione con il leader di Yesh Atid, Yair Lapid. Tornato in tutta fretta dagli Usa martedì.

 L'ASTRO NASCENTE
  Da maggiore delle Idf, a imprenditore informatico, a politico. La poliedrica carriera di Naftali Bennett sembra solo all'inizio. E chissà cosa gli riserverà il futuro. Malgrado la giovane età, Bennett sta dimostrando uno spirito e una caparbietà da vero leader. Soprattutto, sembra sapere bene dove vuole arrivare e come fare per ottenerlo. Quanto alla sua strategia, Bennett cercherà in tutti i modi di far perdere potere a Smotrich per favorire Netanyahu. D'altronde, lui stesso aveva dichiarato: "Stiamo lavorando alla costruzione di un governo sotto Netanyahu e con il suo blocco". "Ma potrà funzionare solo quando Smotrich troverà una soluzione al suo problema con Mansour Abbas". Giovedì sera Smotrich sarà ospite di Bibi nel suo ufficio di Gerusalemme. Un incontro al quale presenzierà anche l'astro nascente Naftali Bennett, dato che la riunione potrebbe stabilire se il leader di Yamina possa vantare un sostegno parlamentare sufficiente a formare un esecutivo.

 QUALE SARÀ L'ESITO DELLE CONSULTAZIONI IN ISRAELE?
  Fonti vicine a Bennett ritengono che il leader di Yamina confermerà il suo sostegno a un possibile Netanyahu VI. Al punto da essere disposto a scendere a compromessi per realizzarlo. Inoltre, si pensa che verranno discusse le proposte di Bennett per formare un governo in cui la carica di premier sarà assunta a rotazione con Yair Lapid, al momento fuori dalle trattative. Al momento, però, con il leader di Yesh Atid "Non ci sono stati contatti né colloqui". Lo ha riferito una fonte dell'entourage di Bennett, la stessa che ha rivelato come il politico non creda nel successo di Netanyahu nel formare un governo. Se così fosse, il leader di Yamina starebbe fingendo di collaborare con Bibi in modo da far ricadere la colpa su Smotrich per l'impossibilità di formare un esecutivo.

 QUI CHI È LA VOLPE?
  Inoltre, Bennett sfrutterebbe l'opposizione a entrare in un governo con quattro parlamentari del partito di Abbas che il capo del Partito sionista religioso ha manifestato in pubblico. Il che potrebbe legittimare il leader di Yamina ipso facto a formare un governo col centrista Yair Lapid. Il quale non sembra disdegnare, al contrario. Mercoledì, Lapid aveva promesso che dopo il 4 maggio avrebbe acconsentito a creare un governo di coalizione che rappresentasse uno spaccato della società israeliana. Di conseguenza, aveva anche profetizzato il fallimento del nostro Bibi. Poi Lapid si era fatto insolitamente polemico su Facebook, lanciando un post al vetriolo contro i mass media. Troppo concentrati, secondo lui, a speculare se il prossimo governo sarà di destra o di sinistra.

 TU QUOQUE
  "Il governo che stiamo cercando di formare avrà tre partiti di destra (Yamina, New Hope e Yisrael Beytenu), due partiti centristi (Yesh Atid e Blue and White) e due partiti sionisti di sinistra (Labour e Meretz)", scriveva Lapid sul suo profilo. "Ciò significa che nessuno otterrà tutto ciò che desidera, ma ci sarà un equilibrio che richiederà di concentrarci su obiettivi pratici: il budget, la salute, l'istruzione e l'urgente necessità di calmare la tensione nella società israeliana". Ma Lapid si è spinto oltre. Il centrista si è reso disponibile a modificare il sistema di governo israeliano, che ha definito "difettoso".

 ALTRE CONSULTAZIONI IN ISRAELE
  Di certo, Bibi non è tipo da darsi per vinto. Tanto che martedì ha incontrato il leader dello Shas, Arye Deri, mentre mercoledì era toccato ai capi del giudaismo della Torah unita (Utj), Ya'acov Litzman e Moshe Gafni. Soprattutto perché la prossima settimana saranno formate le squadre di negoziazione della coalizione. Intanto, il portavoce di Gafni ha smentito le voci secondo cui il leader dell'Utj avrebbe avvertito Netanyahu che il suo partito non avrebbe consentito al premier di imbarcarsi in un'altra elezione; e che piuttosto avrebbe preso parte a un governo di coalizione guidato da Bennett. Al contrario, Litzman ha spiegato ai giornalisti che esisterebbe la "concreta possibilità" di una seconda elezione. Se il buon giorno si vede dal mattino, quello di Bibi non sembra essersi aperto con i migliori auspici.

 NEMICI AMICI
  Mercoledì, dopo la cerimonia del giuramento alla Knesset, c'era stato pure il primo incontro tra il parlamentare Gilad Kariv, che è un rabbino riformato, e il parlamentare ortodosso di estrema destra Avi Maoz. Lo stesso Maoz che qualche tempo fa aveva detto a Kariv che tutti gli ebrei sono fratelli. Ma che non esiste dialogo con i giudei. Che la situazione sia mutata? Del resto, solo gli stolti non cambiano mai idea. Soprattutto se in gioco c'è un seggio in Parlamento. Eppure, la prolungata instabilità politica di Israele sta avendo un impatto negativo non solo sul piano internazionale. Ma anche sulla sicurezza del Paese, specialmente dopo le rinnovate tensioni con Teheran.

 COSTI QUEL CHE COSTI?
  Di questo l'ex ambasciatore israeliano negli Usa, Michael Oren, non ha dubbi. In un intervista al Jerusalem Post, il funzionario ha spigato come il mondo "Ci guarda e ci trova un po' ridicoli e, date le nostre preoccupazioni sulla sicurezza, questo è un prezzo proibitivo da pagare". "Israele non sembra mettere insieme le sue azioni, non può eleggere un governo", ha proseguito. "E l'impressione che si crea è che un Paese che non può eleggere un governo non possa neanche difendersi così bene". "È un'impressione sbagliata, ma esiste", ha notato Oren.

 IL COMMENTO
  In particolare, l'ex deputato di Kulanu ha avvertito: "La prima vera legge della politica israeliana è che i politici israeliani sceglieranno sempre il suicidio collettivo rispetto al suicidio individuale". Ciò significa che se Naftali Bennett di Yamina, o Yair Lapid di Yesh Atid, o Bezalel Smotrich del Partito sionista religioso non otterranno quello che si sono prefissati "Potremmo tornare alla quinta tornata elettorale". Sarebbe la quinta in meno di tre anni. In altre parole, prosegue Oren, "Se non sarò 'io' a diventare primo ministro, nessun altro lo diventerà".

(Periodico Daily, 15 aprile 2021)


La frattura di al-Fatah e il nodo delle elezioni in Palestina

di Futura D'Aprile

I palestinesi si preparano a tornare finalmente alle urne dopo quasi 15 anni, ma ad un mese dalle elezioni del Consiglio legislativo del 22 maggio la situazione in Cisgiordania è già molto tesa. Mahmoud Abbas, attuale presidente dell'Autorità nazionale palestinese (ANP) in carica dal 2005, deve fare i conti con le fratture all'interno del suo partito, al-Fatah, e con il rischio che Hamas diventi la seconda formazione più importante all'interno del Consiglio. Con conseguenze non del tutto prevedibili sul piano internazionale.
  Il risultato delle consultazioni legislative sarà importante anche in vista della scelta del prossimo presidente dell'ANP, la cui elezione è prevista per il 31 luglio. Abbas, che si è presentato ancora una volta come candidato di al-Fatah nonostante la veneranda età di 85 anni e diversi problemi di salute, dovrà fare i conti con il malcontento della popolazione palestinese oltre che con il dissenso interno al suo partito. Dopo quasi 15 anni al potere, Abbas ha visto il suo consenso diminuire notevolmente, come dimostrano tanto i sondaggi quanto i problemi interni ad al-Fatah emersi con l'avvicinarsi delle elezioni legislative.
  Nelle prossime consultazioni, Abbas dovrà fare i conti non solo con Hamas, che sembra poter contare anche sull'appoggio di una fetta consistente degli elettori della Cisgiordania, ma anche con Marwan Barghouti e Mohammed Dahlan.
  Il primo, noto anche come il "Mandela palestinese", sta scontando cinque ergastoli in un carcere israeliano ed è il candidato favorito tanto nelle legislative quanto nelle presidenziali di luglio. Barghouti secondo gli ultimi sondaggi può contare sul 21% delle preferenze, grazie anche al sostegno di Nasser al-Qudwa. Nipote di Yasser Arafat, quest'ultimo ha ricoperto la carica di ministro degli Esteri, ha rappresentato l'OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) all'ONU ed è stato membro del Comitato centrale di al-Fatah, almeno fino alla sua espulsione. Al-Qudwa è stato infatti allontanato dalla direzione del partito dopo aver annunciato l'intenzione di formare una lista interna ad al-Fatah in sostegno di Barghouti. Grazie all'endorsement di al-Qudwa, il "Mandela palestinese" ha ancora più possibilità di successo. La sua vittoria, tra l'altro, non sarebbe un problema solo per Abbas: l'elezione a presidente di Barghouti metterebbe sotto pressione Israele a livello internazionale tanto da poter persino condurre alla sua scarcerazione.
  Ma la sfida ad Abbas non arriva solo dall'interno del suo stesso partito. Lo storico presidente dell'ANP deve fare i conti anche con Dahlan, a cui è stato tuttavia impedito di candidarsi alle elezioni presidenziali a causa di una condanna per frode e appropriazione indebita. Un processo particolarmente controverso su cui restano tuttora numerosi dubbi. Dahlan si è quindi limitato a presentare la lista Movimento di riforma democratica alle elezioni legislative e potrebbe diventare la terza formazione più forte nel Consiglio grazie anche al sostegno di cui gode nella Striscia di Gaza. Dal suo autoesilio negli Emirati Arabi Uniti, Dahlan ha saputo accrescere il proprio prestigio ed è considerato uno dei più importanti consiglieri del principe emiratino Mohammed bin Zayed. A livello internazionale, Dahlan può contare sull'appoggio - anche finanziario - di Emirati, Arabia Saudita ed Egitto, tutti e tre attori determinanti nella questione palestinese e nella sopravvivenza di Gaza.
  Resta poi il nodo Hamas. Il Movimento islamico vinse le elezioni legislative già nel 2006, ma il risultato elettorale e le pressioni internazionali portarono ad uno scontro diretto con al-Fatah e alla spartizione del potere tra le due fazioni: Hamas prese il controllo di Gaza, al-Fatah della Cisgiordania. Il Movimento è però considerato un'organizzazione terroristica da Unione Europea, Stati Uniti e Israele, il che rende ancora più complesso il quadro delle prossime elezioni. Gli occhi sono puntati principalmente sulla possibile reazione di Washington: il successo di Hamas avrebbe delle ripercussioni sul riavvicinamento dell'amministrazione Biden all'ANP e potrebbe mettere un freno a tale processo. Difficile da prevedere è anche la reazione di Israele, ancora alle prese con i problemi politici interni ma fortemente ostile ad ogni avanzata di Hamas in Cisgiordania.
  Sullo sfondo resta poi la possibilità che Abbas decida di posticipare nuovamente le elezioni pur di non dover rinunciare al potere.

(Treccani, 15 aprile 2021)


Le antichissime origini del cognome Hanau. Da Gerusalemme a Roma fino all'eccidio

Tra le quattro famiglie a giungere in Italia ai tempi dell'imperatore Tito vi era quella dei min-'anavìm, "dagli umili", da cui Anav e Anau.

di Vittorio Bendaud

Nel mondo ebraico della bassa del Po - a Ferrara, Rovigo, Badia Polesine - ricorre un cognome, quello delle famiglie Hanau, con ogni probabilità derivazioni da un ceppo familiare infinitamente più vasto, quello degli 'Anàv. Questa è la nostra storia.
  Giorgio Bassani, imparentato anch'egli con una Hanau (la nonna paterna), racconta ne Una notte del '43 della tragica fine di Vittore e Mario Hanau, assassinati a Ferrara per fucilazione dinanzi al muretto del Castello Estense all'albeggiare del 15 novembre 1943.
  Ma qual è la storia di questa antichissima e gloriosa famiglia ebraica italiana? Hanau o Anau è una possibile pronuncia della parola ebraica 'anàv, anch'essa divenuta cognome, il cui suono "v", nell'originale, può essere anche pronunziato "u" (anàu, dunque). In ebraico 'anàv significa "umile" e la sua occorrenza più famosa è in Numeri XII,3 ove è detto che "ve-ha-ish Mosheh 'anàv meòd mi-kol ha-adàm ashèr 'al-pené-ha-adamah", ossia "e l'uomo Mosè fu l'essere umano più umile esistente al mondo".
  Un'antica tradizione, sospesa tra storia e leggenda, vuole che tra gli ebrei deportati da Gerusalemme e dalla Giudea a Roma da Tito vi furono anche gli esponenti di quattro famiglie eminenti, divenute così tra le più antiche e illustri dell'ebraismo italiano, in diretta connessione con la Terra di Israele. Tra queste quattro famiglie vi era quella dei min-'anavìm, "dagli umili", da cui, nei secoli, i cognomi ebraici italiani Anav, Anau, Almansi, Piattelli e simili, nelle loro varie versioni e modificazioni.
  Quest'anno, come si è infinitamente ripetuto, si celebra il settimo centenario dantesco, dallo Stilnovo alla Comedìa, dalla scuola siciliana al De vulgari eloquentia. Nel XIII secolo a Roma operarono due fratelli, entrambi insigni rabbini, Biniamìn -il maggiore- e Tzidqiah Anàv. Quest'ultimo è celeberrimo in tutto il mondo rabbinico, da New York a Gerusalemme, in quanto autore di una delle prime e fondamentali opere di normativa rabbinica, lo Shibboleh ha-Léqet (La raccolta delle spighe). Rabbì Biniamìn ben Avraham Anàv, il fratello maggiore, fu invece un poeta sinagogale, autore, tra l'altro, di alcune poesie penitenziali (le selichòt, da "slichà" ossia, letteralmente, ancora oggi, "scusa") tuttora in uso nel rito italiano.
  Biniamìn, tra gli altri suoi scritti, compose un'operetta satirica che godette di una certa celebrità, ove poesia e prosa si alternano (secondo un particolare genere letterario mutuato dalla coeva letteratura araba andalusa, prodotta peraltro anche da autori ebrei e cristiani) e in cui viene allestito una sorta di "inferno" per ricchi dissoluti, con vizi, peccatori e punizioni dell'anima post mortem. Questo curioso prosimetro vide per la prima volta la stampa in Italia, nel 1560, a Riva di Trento. Si tratta di una delle due opere letterarie riguardanti viaggi nei regni ultraterreni prodotte dall'ebraismo italiano prima di Dante. La seconda vide la luce nei decenni finali del XIII secolo per mano del rabbino e traduttore siciliano Aḥituv da Palermo (XIII-XIV secolo) che in una sua opera allegorica descrisse la propria ascesa nell'empireo, ove si saziò del pane dei giusti e bevve l'acqua scaturente dalle sorgenti celesti, con cui peraltro si peritò poi di annaffiare il suo bell'orto siciliano, che gli elargì tredici squisiti e succulenti frutti -ossia i tredici articoli di fede definiti qualche decennio prima dal grande rabbino e teologo Mosè Maimonide-, da condividere riservatamente con chi sappia gustarli.
  Non si sa - ed è forse improbabile - se Dante abbia avuto notizia, nel corso delle sue peregrinazioni, di questi due particolari scritti rabbinici, che precedettero il suo capolavoro. E non è il tema del nostro articolo. Abbiamo voluto, invece, restituire ai nostri lettori, seppur con rapidi e incompleti cenni, la storia avventurosa di un'antica famiglia ebraica italiana -o, piuttosto, la saga-, nota ai più unicamente per la targa commemorante l'omicidio, tra gli altri martiri, degli Hanau -padre e figlio-.

(Il Resto del Carlino, 15 aprile 2021)


Il processo diplomatico israelo-palestinese secondo Marco Paganoni

di Nathan Greppi

Con gli Accordi di Abramo e il crescente riconoscimento d'Israele da parte del mondo arabo, il processo di pace israelo-palestinese è entrato in una nuova fase, nella quale i vecchi schemi interpretativi non sono più validi. Di questo e molto altro ha parlato il giornalista Marco Paganoni, direttore del sito Israele.net, in un incontro organizzato su Zoom domenica 11 aprile, in seno alla rassegna Incontri in Guastalla.
Dopo i saluti introduttivi di Gadi Schoenheit, Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Milano, Paganoni ha cominciato ricordando come l'anno scorso si parlasse molto del piano di pace di Donald Trump per il Medio Oriente: "Adesso ci troviamo in una situazione in cui tutto sembra fermarsi di nuovo. Rispetto alla scorsa estate, oggi non ci sono prospettive ottimistiche per chi, come noi, auspica che si possa arrivare alla pace prima o poi." Secondo lui, ciò è dovuto innanzitutto a "cambiamenti dell'autorità politica delle parti in causa: da un lato il difficile processo elettorale israeliano, dall'altro il rifiuto dell'Autorità Palestinese di trattare con Israele, ormai da molti anni." È stato ricordato che il 22 maggio, a meno di imprevisti, ci saranno le prime elezioni nell'ANP dal 2005.

 ELEZIONI PALESTINESI
  Proprio parlando a proposito delle elezioni palestinesi, ha fatto notare come, a seconda di chi vincerà, "bisognerà vedere con chi Israele dovrà costruire un eventuale processo diplomatico." Molti temono che le elezioni le vinca Hamas, non ritenuto un interlocutore credibile in quanto non ha mai rispettato le condizioni imposte un decennio fa per il processo di pace da USA, UE, ONU e Russia: il riconoscimento dell'esistenza d'Israele; la rinuncia alla violenza; e l'accettazione degli accordi già firmati. Tutte cose che Hamas non ha mai accettato, "mentre Fatah lo ha fatto, almeno a parole." Proprio Fatah corre alle elezioni divisa in più liste diverse, il che dimostra come "ci sono delle anime, in seno al mondo palestinese laico, che si stanno muovendo." La lista più importante è quella con cui sembra voler correre Marwan Barghouti, terrorista che da anni sconta un ergastolo in Israele per aver partecipato a numerosi attentati.

 DUE POPOLI DUE STATI
  Un'altra questione spinosa che ha affrontato è quella della Soluzione dei due stati: a tal proposito, ha spiegato che il piano di pace di Trump "può essere discutibile, anche nella tempistica, ma sicuramente è stato un'importante tentativo di uscire dagli schemi ripetitivi delle amministrazioni precedenti." Ha ricordato che è stato contestato sia dai palestinesi che lo accusavano di concedere loro troppa poca terra, sia dalla destra nazionalista israeliana che non accetta uno stato sovrano palestinese a fianco d'Israele. "Ora la domanda è se l'Amministrazione Biden saprà pensare fuori dagli schemi, o se si ritroverà a riproporre degli approcci sempre uguali."

 LA QUESTIONE DEI PROFUGHI PALESTINESI
  Un altro argomento delicato che ha toccato, verso la fine, è stato quello relativo ai profughi palestinesi: ha ricordato come abbiano un'agenzia dell'ONU dedicata solo a loro, l'UNRWA, a differenza dell'UHRCR che copre tutti i profughi del mondo, e che non ha mai cercato di aiutarli a inserirsi nei vari paesi circostanti come cittadini a pieni diritti, ma piuttosto a pretendere d'insediarsi, anziché in un futuro Stato palestinese, all'interno d'Israele. Secondo Paganoni "l'UNRWA si è trasformata di fatto in uno strumento per perpetuare l'ideologia del profughismo e del diritto al ritorno. Un diritto che non è mai stato riconosciuto in quasi nessun altro caso di profughi, come non è stato riconosciuto per gli ebrei cacciati dai paesi arabi."

(Bet Magazine Mosaico, 14 aprile 2021)


Le tre madri d'Israele

Il discorso di ieri sera al Kotel del Capo di Stato Maggiore Aviv Kochavi è uno di quei discorsi che resterà nella memoria collettiva d'Israele. Le tre madri di Israele: Rachel che muore entrando in Israele ma i cui figli torneranno, Nechama che vive in Israele ma che perde due figli nella difesa del paese. E poi la madre senza nome, ogni madre d'Israele, che cresce in sicurezza i suoi figli grazie al sacrificio dei figli di Nechama. Un grande privilegio che a comandare i nostri ragazzi ci sia un uomo con una prospettiva storica e un compasso morale del genere. Di seguito riportiamo i passaggi principali del discorso.


"Il viaggio di ritorno del popolo di Israele nella sua terra è un evento senza precedenti nella storia delle nazioni. È una sorta di miracolo, anche se l'attuale generazione vede il paese come un evento naturale. I risultati registrati qui dal giorno in cui la prima persona ha calpestato le rive di questa terra benedetta e si è unito al vecchio Yishuv sono straordinari. È un viaggio di fede, determinazione e creatività, durante il quale generazioni di difensori si sono levati in piedi e hanno pagato un prezzo pesante, un prezzo in sangue…
  …Questo viaggio non è stato solo l'Esodo dall'Egitto, ma l'Esodo dall'Est e l'Esodo dall'Ovest. È stato un intero popolo che si è svegliato e ha iniziato a camminare, vecchi e giovani, padri e madri, tre delle quali voglio parlare stasera. La prima è stata nostra madre Rachel, che non è riuscita a vivere nel suo paese, e conosceva l'alienazione e la mancanza di appartenenza. Riuscì a raggiungere Israele ma non riuscì a viverci e quando i suoi figli furono costretti all'esilio da Israele sono passati dalla sua tomba. La maggior parte della vita del popolo ebraico è passata oltre i confini della sua terra, quando la gente era insicura, impreparata e ripetutamente perseguitata e massacrata. Il sionismo ha cambiato radicalmente questa situazione. Una leadership determinata di fronte a molte difficoltà ha compiuto un atto incredibile, spazzato via e ispirato molti che si sono sviluppati fino a diventare un grande popolo e lo Stato di Israele. Siamo la generazione dei figli che sono tornati ai loro confini. Siamo tornati per sempre in questo momento storico, ma il viaggio di ritorno è stato ed è tuttora insopportabilmente difficile…
  "Anche l'altra madre, Nehama, è immigrata. Ha lasciato la sua casa in Ucraina e insieme a suo marito Joseph, che è fuggito dall'Austria nazista, è emigrato in terra di Israele per stabilire una famiglia e uno stato, ha cambiato il proprio cognome in Israeli, essi stabilirono la loro casa nel Kibbutz Dovrat, una casa satura di sionismo e valori. "Un popolo risorto ha bisogno di bambini", disse Nehama - e diede alla luce cinque, due dei quali maschi: Effi e Dedi, erano amici nel cuore e nell'anima. Effie divenne ufficiale e istruttore in un corso per ufficiali carristi e Dedi seguì suo fratello e divenne soldato in quel corso, corso che non finì, la guerra dello Yom Kippur lo interruppe ed i due fratelli furono mandati in Sinai.
  Il secondo giorno di guerra, il carro armato di Dedi fu colpito, e sebbene fosse gravemente ustionato, tornò per salvare un membro dell'equipaggio e solo allora fu portato in ospedale. Suo fratello Effie rimase sul campo di battaglia, e sebbene il suo carro armato fu colpito si spostò su un altro carro armato e continuò a combattere. Il dodicesimo giorno di guerra, quando l'IDF stava già combattendo sulla riva occidentale del Canale di Suez, è stato colpito ancora una volta e ucciso. Un familiare bussare alla porta di una famiglia israeliana, il bussare che fa presagire cattive notizie, è diventato il cuore spezzato che fa parte della storia israeliana, parte del polso israeliano…
  …"Molte, troppe famiglie, hanno sentito i colpi seguiti da un grande clamore, un crepacuore e un dolore che non si sono potuti contenere. Care famiglie, avete perso ciò che è il più prezioso di tutti. Tutto intorno continua a svilupparsi e cambiare , e solo il vostro dolore è fermo al suo posto, approfondendo le sue radici e i suoi fardelli. Cerchiamo di comprendere l'intensità del dolore e insistiamo nel ricordarli e ricordare a noi stessi di imparare dagli eventi e di insegnarli e vederli come parte dei difensori del loro stato. Da parte nostra, per impegno nei confronti dell'attuale generazione di soldati e delle loro famiglie, faremo di tutto per inviarli esclusivamente in missioni degne, miglioreremo le capacità dell'IDF per portare a termine le missioni con successo ma non meno per sorvegliare e proteggere i soldati. Decine di migliaia di soldati e comandanti ora svolgono un numero infinito di missioni e tornano a casa sani e salvi grazie alla professionalità e alla preoccupazione dei loro comandanti. Si prendono cura dei feriti e si impegnano a restituire i prigionieri e le persone scomparse alle loro famiglie e al paese.
  …I caduti hanno difeso il Paese, e noi continuiamo nei loro panni. Fare la guardia. A volte, la sicurezza di cui gode lo Stato di Israele può sembrare ovvia, ma dietro ogni giornata protetta e sicura c'è un intero esercito che raccoglie informazioni, impedisce intrusioni o spara, incursioni, attacchi, blocca minacce e previene armi e attacchi. Anche chi è immerso in attività difensive e operative non sempre vede l'entità del proprio atto, sia che si tratti del soldato che sta attualmente marciando al confine settentrionale come l'ufficiale che ha rivelato molti obiettivi nemici questa settimana, così come il pilota che è tornato pochi giorni fa da un attacco…
  …La sicurezza di cui godono i cittadini del paese consiste nei risultati di tutte le organizzazioni di sicurezza e di tutti i soldati dell'IDF, ma i primi a sopportare il fardello sono i soldati e le unità combattenti che tengono sulle loro spalle la sicurezza dello stato. Le loro azioni dovrebbero servire come un esempio di buona cittadinanza, un ideale per l'istruzione e un modello in ogni famiglia, scuola, comunità e località. Un'organizzazione esemplare è anche il ruolo aggiuntivo dell'IDF - un esercito che unisce e unisce tutte le parti del popolo, esprime il bene comune ed è un modello con cui emulare e identificarsi. I soldati dell'IDF si allenano insieme, combattono insieme, vincono insieme e quando un compagno viene ucciso, lo seppelliscono insieme…
  …Non conosco il nome della terza madre, ma rappresenta molte madri che riempiono la terra. Hanno messo su famiglia, ed i loro figli si stanno realizzando e continuano a costruire lo Stato di Israele. Sono madri laiche e religiose, dal villaggio e dalla città, ebrei, drusi, cristiani e musulmani - e hanno nipoti e pronipoti e vivono tutti nel loro paese protetti e al sicuro. Nehama Israeli, la combattente del Palmach che ha perso i suoi due figli che hanno prestato servizio in l'IDF, ed i cui numerosi discendenti hanno prestato servizio nelle unità di combattimento, è un simbolo di valori e forza, ed è un esempio eccezionale per tutti noi. Saluto lei e la sua famiglia e saluto le molte famiglie per le quali ha bussato la notizia due volte alla loro porta. A nome di tutti i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, saluto tutte le famiglie in lutto: madri e padri, vedove e vedovi, fratelli e figli. Abbracciandovi e dandovi forza per quanto possibile".

(Il Corriere Israelitico, 14 aprile 2021)


Israele riapre al turismo dal 23 maggio
   
A partire dal 23 maggio 2021, Israele aprirà le sue porte ai turisti stranieri dopo più di un anno. Nella prima fase, i gruppi saranno ammessi in base alle linee guida che saranno pubblicate dai Ministeri. Gli accordi sono stati raggiunti in seguito al lavoro della task force istituita dai ministeri, tra cui il capo della sanità pubblica Sharon Alroey-Price, Ph.D., e il Commissario COVID, il professor Nachman Ash, nonché i professionisti del Ministero del turismo. Secondo lo schema, il 23 maggio inizierà ad arrivare un numero limitato di gruppi.
   Il numero potrà essere accresciuto progressivamente in base alla situazione sanitaria e allo stato di avanzamento del programma.I viaggiatori individuali saranno poi ammessi in Israele in una seconda fase, in considerazione del progredire della situazione sanitaria. Tutti i visitatori saranno tenuti a sottoporsi a un test PCR prima di imbarcarsi sul volo per Israele e un test sierologico dovrà essere eseguito all'arrivo all'aeroporto Ben Gurion, così da dimostrare di aver ricevuto la vaccinazione. Nel frattempo proseguiranno le trattative avviate con vari Paesi per raggiungere accordi per la convalida dei certificati vaccinali, così da annullare la necessità del test sierologico.Uno schema dettagliato delle attività verrà distribuito nei prossimi giorni.
   Il ministro della Salute, Yuli Edelstein dichiara "Israele è il primo Paese vaccinato, e i cittadini israeliani sono i primi a fruire di questo risultato. Dopo aver aperto l'economia, è tempo ora di consentire la ripresa del turismo in modo, attento e oculato. Aprire al turismo è importante essendo stato questo uno dei settori più danneggiati durante l'anno COVID. Continueremo a cercare di adeguare le normative in base allo sviluppo della situazione sanitaria ".
   Il ministro del turismo, Orit Farkash-Hacohen, commenta: "Sono lieta che questi importanti primi passi vengano indirizzati all'industria del turismo. È tempo che il vantaggio unico di Israele quale Paese sano e sicuro inizi a sorreggere il comparto turistico nella ripresa dalla crisi economica, e non soltanto a sostegno delle economie di altri Paesi. Solo aprire i cieli al turismo internazionale farà davvero rivivere l'industria del turismo, inclusi ristoranti, hotel, siti archeologici, guide turistiche, autobus e molti altri che sostengono i lavoratori del comparto e le loro famiglie. Continuerò a lavorare per la piena apertura del turismo in Israele, il che aiuterà enormemente l'economia e creerà posti di lavoro per molti israeliani".
   Kalanit Goren Perry, direttrice dell'Ufficio Nazionale del Turismo israeliano aggiunge: "Israele ancora una volta ha dato prova di reagire al meglio anche a questi eventi e a questo periodo particolarmente complesso traendone grandi opportunità e iniziative".

(All Sardinia Holidays, 14 aprile 2021)


Bombe segrete e missili. Nuova escalation nella guerra Iran-Israele

Rappresaglia di Teheran dopo l'attacco a Natanz. "Arricchiamo l'uranio al 60%". Colpita nave nel Golfo. Netanyahu avverte: vi impediremo di avere l'atomica.

di Giordano Stabile

La sfida è aperta, senza infingimenti. Israele attacca e mette fuori uso il principale sito nucleare iraniano, con una bomba telecomandata, forse piazzata lì anni prima da una talpa. L'Iran risponde con un missile lanciato contro una nave israeliana nello Stretto di Hormuz. E poi annuncia che porterà l'arricchimento dell'uranio al 60%, sempre più vicino a quello necessario per un ordigno atomico, e sempre più lontano dal Trattato dei 2015, che pure domani a Vienna la diplomazia mondiale cercherà di rimettere sui binari. L'escalation mostra per la prima volta un divaricamento fra lo Stato ebraico e l'America, con l'amministrazione Biden decisa a tentare la via del negoziato e Benjamin Netanyahu altrettanto determinato a mostrare i muscoli e a stoppare qualsia velleità atomica della Repubblica islamica.
   La temperatura si è alzata di colpo dopo i primi due round dei colloqui a Vienna, martedì e venerdì scorsi, con «buoni risultati» e un riavvicinamento concreto fra Washington e Teheran. Ma già sabato il presidente Hassan Rohani andava a inaugurare in pompa magna le nuove centrifughe dell'impianto di Natanz. Un segnale contradditorio. Per i Pasdaran il nuovo sito sotterraneo era inattaccabile ma non avevano fatto i conti con il Mossad. Domenica una potente deflagrazione ha distrutto il sistema elettrico principale e quello di riserva. Una botta tremenda, in grado di bloccare il lavoro delle centrifughe per «molti mesi». L'esplosivo è stato portato all'interno dell'impianto da una o più talpe, forse anni fa, e fatto esplodere a distanza, secondo fonti di Intelligence citate dal New York Times.
   Gli effetti della deflagrazione sono stati confermati, sulla sua pelle, dal portavoce dell'Organizzazione atomica iraniana, Behrouz Kamalvandi. Il cratere era profondo «sette metri» e Kamalvandi ci è scivolato dentro. Questa volta Israele non ha smentito il blitz neppure pro forma e il premier Netanyahu ha ribadito che «impedirà» all'Iran di dotarsi di armi atomiche. Un colpo a viso aperto e la risposta è arrivata subito. Ieri una nave di una compagnia israeliana è stata colpita da un missile al largo di Fujairah, Emirati Arabi Uniti, dopo che aveva attraversato lo Stretto di Hormuz. L'Intelligence israeliana ha confermato che si trattava di un attacco «iraniano», in acque internazionali, e che il mercantile, l'Hyperion, apparteneva alla Israeli Ray Shipping, la stessa della nave danneggiata a febbraio da una mina magnetica.
   Un nuovo episodio nella «guerra marittima» che ha visto almeno una dozzina di petroliere iraniane colpite e tre mercantili israeliani attaccati dai Pasdaran. La giornata però non era finita e poche ore dopo il capo del programma nucleare Abbas Aragchi annunciava che Teheran avrebbe cominciato ad arricchire l'uranio al 60%, un balzo rispetto al livello del 20 mantenuto finora e soprattutto rispetto al limite del 3,65 stabilito dall'intesa del 2015. Per fabbricare la Bomba occorre andare oltre il 90% ma il segnale è inequivocabile. Anche se, con Natanz fuori uso, non è chiaro quando il processo potrà cominciare. Per l'Intelligence israeliana l'Iran non ne ha in questo momento la capacità ma potrebbe arrivarci in pochi mesi. A meno che i colloqui di Vienna, rinviati di un giorno a domani, non mettano uno stop a questa deriva pericolosa.
   
(La Stampa, 14 aprile 2021)


L'Iran provoca e colpisce nave israeliana Usa: pazienza

di Fiamma Nirenstein

Gerusalemme - L'Iran ha ripreso ad arricchire l'uranio al 60 per cento: l'ha annunciato, e non è un caso che sia stato proprio lui a farlo, il capo negoziatore nucleare Abbas Araqchi, una sfida lanciata agli altri negoziatori. Il limite stabilito dal Jcpoa, il patto del 2015, è sotto il 5%. Le riserve di uranio sono state in buona parte arricchite al 20%, da cui è facile raggiungere, con centrifughe avanzate come quelle di Natanz, il 90% per la bomba atomica. II 60% è la risposta iraniana all'attacco ben riuscito alla centrale di Natanz. Quello di lunedì fermerà per mesi le centrifughe. L'imbarazzo che il maggiore sito atomico sia stato danneggiato gravemente è rimasto per poche ore fonte di incertezza politica: far finta di niente o denunciare al mondo «un attacco terroristico», accusare il Mossad e giurare vendetta, come ha scelto di fare il regime?
   E' un atteggiamento contraddittorio rispetto al tono accattivante con cui gli iraniani vorrebbero presentarsi a Vienna a riprendere il dialogo e convincere Biden. La sua scelta di ricostruire il patto è sostenuta con entusiasmo da tutti i vecchi funzionari di Obama. Alla fine l'elemento culturale mediorientale del regime degli Ayatollah ha prevalso con l'affermazione della forza e dell'onore, e adesso vedremo come giocherà insieme alla proposta finora presentata: smettete con tutte le sanzioni e noi torniamo al patto. A Biden si sa che non piace molto («avanti nonostante le provocazioni» ha detto a sera) e meno ancora gli piacerà che ieri sia stata attaccata una nave di proprietà israeliana, l'Hyperion, lungo la costa dell'Emirato del Fujairah, in coincidenza con le minacce di vendetta delle scorse ore. La nave è stata colpita da un missile iraniano ed è associata con l'Israeli Ray Shipping, la stessa compagnia proprietaria della nave colpita da un attacco iraniano a febbraio. La nave iraniana Saviz, una piattaforma militare delle Guardie della Rivoluzione, era stata danneggiata nel Mar Rosso da un sospetto attacco israeliano.
   Sono ormai innumerevoli le operazioni israeliane di contenimento di una strategia di assedio a Israele che prevede la costruzione di una mezzaluna sciita dall'Iran allo Yemen. Netanyahu ha giurato che non consentirà la costruzione di una bomba atomica che ha sulla testata un indirizzo tanto chiaro. D'altra parte, l'Iran sa che se alle operazioni che si sospetta siano di Israele rispondesse con una vendetta che richiede una guerra, non avrebbe molto da guadagnarne. Tuttavia a volte le svolte drammatiche giungono non invitate.
   
(il Giornale, 14 aprile 2021)


«Sono qui per ricominciare» le lettere di Sergio Ben Zion Pavoncello

Caduto nella guerra del '48 per l'Indipendenza d'Israele

di Ariela Piattelli

Una cassetta di legno, rimasta chiusa per anni, a Roma, nella casa di Emma Di Porto. Dentro una manciata di lettere, conservate in cartelline di plastica. Un messaggio di David Ben Gurion. Un opuscolo del cimitero militare del Monte Herzl di Gerusalemme, e la fotografia di un giovane soldato. Un mosaico che insieme all'inchiostro sbiadito ha visto via via saltare alcuni tasselli, di una storia fatta di sopravvivenza, di eroismo ed anche di un misterioso amore. Quella di Sergio Pavoncello, ebreo romano caduto a Latrun, sulla via di Gerusalemme, durante la Guerra d'Indipendenza dello Stato d'Israele nel '48, è storia tutta da ricomporre; questa ci racconta l'eroismo, il coraggio, di quegli ebrei romani, e italiani, che dopo la Shoah combatterono e morirono per l'esistenza dello Stato Ebraico.

 Un figlio della Shoah
  «La storia di zio Sergio inizia a Roma, nel quartiere di Primavalle - ci racconta Emma-. Oltre a lui nonna Emma e nonno Leone avevano sei figli, tra cui mia madre, Rosa, che era la più grande. A febbraio del '44 arrivarono i nazisti per deportare la mia famiglia, scampata alla retata del 16 ottobre, nei campi di sterminio. Arrivarono sotto casa, mia nonna disse ai bambini di nascondersi sotto il letto, mentre nonno e Sergio erano fuori per cercare qualcosa da mangiare». Emma scende di casa, portando con sé la piccola Renata, di soli 10 mesi. Vengono caricate a forza sui camion, e non torneranno più. Quando Sergio e Leone arrivano a casa, trovano soltanto i bambini. Cercano disperatamente, senza successo, di contattare qualcuno che possa aiutarli a ritrovare Emma e la figlia. «Quell'assenza peserà sulla coscienza di Sergio come un macigno per tutta la vita- continua Emma-. Il complesso di colpa di non essere stato lì a proteggere la madre e la sorella lo assillerà per sempre». Il viaggio di Emma verso i campi di sterminio è lungo, e passa per alcune città d'Italia. Per giorni manderà cartoline ai famigliari, in cui chiede ogni volta di abbracciare Sergio. Assicura alla famiglia che lei e la bimba stanno bene, ma le lettere passano per la censura fascista, e i famigliari sono certi che la situazione sia disperata. Le tracce della donna si perdono, e solo dopo la guerra i famigliari conosceranno il loro tragico destino. Emma e Renata sono state uccise all'arrivo nei campi di sterminio.

 Ben Zion e la rinascita in Eretz Israel
  E' il 1948 e Sergio ha vent'anni, vede intorno a sé una lenta rinascita dalle macerie della guerra, ma capisce che il suo percorso lo porta altrove, in Palestina, per contribuire alla nascita dello Stato d'Israele. E' un sionista convinto, così parte, a giugno, subito dopo la Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato d'Israele, quando gli eserciti dei paesi arabi attaccano immediatamente lo Stato Ebraico. Sergio, arrivato a destinazione, si arruola subito nell'Haganà, e scrive alla sorella Rosa: «Sono partito per farmi una nuova vita. E se qualcuno ti dice che sono matto, tu rispondi che non sono una carogna o un vigliacco, ma faccio soltanto il mio dovere di ebreo. Qui mi chiamano Ben Zion (figlio di Sion)». Era il taglio con il passato di dolore, per Sergio, e l'inizio della rinascita. «Qui mi rifarò una nuova vita. Non ci sono pregiudizi, né distinzioni tra una persona e l'altra» scriveva. Sergio visita Tel Aviv e la definisce "città moderna". «Papà, se vedessi come è fatta la Palestina! E' un gioiello ricamato- scrive-. Tutto è bello, cose, strade, case e città, è la Terra d'Israele, "Eretz Israel", diventerà il Paese più bello del mondo. E voi? Dovete far studiare l'ebraico ai vostri figli, perché anche loro un giorno dovranno venire a vivere quì».

 Il sacrificio di un combattente
  Durante l'esperienza nell'Haganà, Sergio conosce una ragazza, anche lei soldato. Se ne innamora. «Ho conosciuto una ragazza bella e coraggiosa e ci siamo fidanzati. Lei parla perfettamente italiano». Lui scrive anche il nome della giovane soldatessa, con una matita, ma oggi sembra indecifrabile. Successivamente in una dolorosa corrispondenza Sergio comunica alla famiglia che la ragazza «ha fatto la fine che può fare un soldato. E' il destino». Lei viene uccisa durante un combattimento. Poche settimane prima di morire, Sergio promette alla sua famiglia che dopo la guerra tornerà a Roma per una visita. «Adesso lascio la scrittura- scrive -, perché dobbiamo cambiare campo e andare fuori Gerusalemme, vi scriverò quando avrò tempo». Il 17 ottobre Sergio viene ucciso in un'imboscata degli arabi, sulla strada di Gerusalemme. Muore da eroe della patria e a comunicarlo alla famiglia è un telegramma del capo del governo israeliano David Ben Gurion: «Il governo d'Israele, l'esercito, ed il popolo ebraico, porteranno nel cuore l'eterno ricordo di Ben Zion Pavoncello, che cadde per la difesa della Terra dei Padri e nella battaglia per la libertà e per l'Indipendenza». Oggi Sergio Ben Zion è sepolto nel cimitero militare del Monte Herzl di Gerusalemme.

(Shalom, 14 aprile 2021)


Studio israeliano sul Covid-19: la variante sudafricana resiste al vaccino Pfizer

Dopo aver monitorato i dati di un campione di pazienti, uno studio israeliano ha lanciato l'allarme sulla capacità protettiva del vaccino americano di fronte alla mutazione sudafricana del Covid-19.

Negli ultimi mesi, con il materializzarsi di nuove e sempre più temibili mutazioni del Covid-19, in molti si sono domandati quale sia la reale efficacia dei vaccini attualmente disponibili sul mercato. Sotto questo punto di vista, pessime notizie arrivano sul conto del preparato più efficace finora disponibile, quello realizzato da Pfizer-Biontech.
   Come dimostrato per mezzo di uno studio realizzato dai ricercatori dell'università di Tel Aviv e da Clalit, il più grande operatore sanitario della capitale israeliana, il vaccino reso disponibile dal colosso farmaceutico americano non sarebbe particolarmente efficace contro la variante sudafricana del Covid-19. Lo studio è stato condotto mettendo a confronto 400 pazienti risultati positivi al virus, con un pari numero di soggetti contagiati nelle due settimane successive alla somministrazione della prima o della seconda dose del preparato.
   Come poi identificato, un dato su tutti avrebbe del clamoroso: tra i pazienti vaccinati, la variante B.1351, quella sudafricana, ha presentato un tasso di prevalenza otto volte superiore rispetto a quella rilevata nei non vaccinati. In termini statistici, la variante è stata identificata nel 5,4% dei vaccinati, mentre nei non vaccinati non ha superato lo 0,7% del campione analizzato.
   Lo studio da prendere con le molle non essendo stato ancora sottoposto a revisione, sembra quindi mettere in forte dubbio l'efficacia del vaccino Pfizer. Adi Stern, ricercatore dell'Università di Tel Aviv, sul punto ha fatto presente che "è stato riscontrato un tasso sproporzionatamente più alto del ceppo sudafricano tra gli individui vaccinati con la seconda dose rispetto al gruppo non vaccinato. […] la variante sudafricana è in grado di contrastare in qualche modo la protezione del vaccino".
   Albert Bourla, CEO della Pfizer, si è affrettato a replicare che il vaccino è efficace anche contro questo ceppo: non a caso lo scorso 1 aprile sia Pfizer che Biontech avevano ribadito, dopo sei mesi di studi, che il loro preparato fosse efficace con una percentuale del 91,3%.

(Fidelity News, 13 aprile 2021)


Il lamentino degli Ayatollah. L'Iran viola gli accordi internazionali poi piange

di Sarah G. Frankl

Prima violano gli accordi internazionali, poi vanno a fare il pianto all'ONU perché sono stati puniti. Se non fossero tragicamente veri gli iraniani sarebbero comici
   Prima l'Iran viola gli accordi internazionali installando nuovissime centrifughe per l'arricchimento dell'uranio nella centrale di Natanz, poi si lamenta quando viene giustamente punita da un attacco portato da mani ignote che sostanzialmente distrugge le cascate appena installate.
   Se non fosse vero sarebbe comico. Addirittura il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha scritto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per protestare contro l'attacco che l'Iran imputa a Israele, il quale attacco ha distrutto le centrifughe installate illegalmente. Siamo alla follia.
   Nel frattempo oggi si riunirà il gruppo strategico israelo-americano che dovrebbe monitorare i progressi dell'Iran nel campo nucleare e balistico.
   Presieduto dal consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e dalla sua controparte israeliana, Meir Ben-Shabbat, si riunisce per la prima volta da quando alla Casa Bianca c'era Barack Obama.
   All'epoca venne sciolto in quanto gli israeliani, saputo dell'accordo sul nucleare iraniano, lo ritennero ormai superato e inutile. Oggi è di nuovo in campo e potrebbe essere il segnale che Washington non crede molto in un nuovo accordo con l'Iran.
   «In Medio Oriente, non c'è minaccia più pericolosa, seria e pressante di quella rappresentata dal regime fanatico iraniano» ha detto Netanyahu nella conferenza stampa seguita all'incontro.
   Poi, rivolto al Segretario Austin ha detto: «sig. Segretario, conosciamo entrambi gli orrori della guerra. Entrambi comprendiamo l'importanza di prevenire la guerra. E siamo entrambi d'accordo sul fatto che l'Iran non deve mai possedere armi nucleari. La mia politica come primo ministro di Israele è chiara: non permetterò mai all'Iran di ottenere la capacità nucleare per realizzare il suo obiettivo genocida di eliminare Israele».
   L'amministrazione Biden non ha espresso alcuna opinione sul fantomatico attacco contro la centrale nucleare di Natanz denunciato dall'Iran.

(Rights Reporter, 13 aprile 2021)


Con Biden gli USA riprendono i finanziamenti ai palestinesi e alla UNRWA

di Ugo Volli

Gli USA riprendono i finanziamenti ai palestinesi e alla UNRWA. A parole sono tutti d'accordo: europei, russi, americani dei due partiti, anche i "palestinesi" e gli israeliani. L'obiettivo di ogni politica, trattativa, decisione sul conflitto arabo-israeliano non può che essere la pace. Ma come si ottiene la pace? Anche qui, a parole, sono tutti d'accordo: riconoscendosi a vicenda e risolvendo i contrasti concreti come si fa in tutte le situazioni pubbliche o private, con un compromesso. Questo era l'idea degli accordi di Oslo, almeno nella mente degli statisti israeliani che li sottoscrissero: prendiamo un gruppo di terroristi, l'OLP, il più grosso e apparentemente capace di un linguaggio ragionevole, lo mettiamo a capo delle zone arabe di Giudea, Samaria e Gaza, riconosciamo loro una ragionevole autonomia, poi col crescere della fiducia ci metteremo d'accordo su confini, commercio e quant'altro.
  Sappiamo tutti come è andata. L'errore fondamentale di quell'accordo e di tutta quella politica fu il pensare che obiettivo dell'OLP fosse l'autogoverno della popolazione araba, o anche nella versione più estrema (che, bisogna ripeterlo, NON è affatto prevista dagli accordi di Oslo), cioè la costituzione di uno stato "palestinese". Non vi era chiaramente bisogno di questa nuova creatura geopolitica, perché c'è già uno stato fattualmente e legalmente creato nel 1922 come patria degli arabi del mandato di Palestina, ancora esistente sotto il nome di Giordania. Ma Arafat e i suoi erano ambiziosi e corrotti, magari volevano solo i titoli e i soldi di uno Stato. Così si illudeva la sinistra israeliana. Ma l'obiettivo vero di costoro, la ragione per cui, in collaborazione fra i paesi arabi e i servizi segreti del blocco sovietico, era stato costituito il loro movimento, non era la creazione di un altro stato arabo musulmano oltre alla ventina che già esiste, ma la distruzione dello stato di Israele. Per i sovietici si trattava di eliminare il principale alleato dell'Occidente in Medio Oriente e il polo di resistenza ideale per gli ebrei dei loro territori, per gli arabi dell'obbligo religioso di far sparire uno stato "infedele" costruito su una terra conquistata con le armi dall'Islam, che per loro doveva appartenergli irrevocabilmente, e inoltre di far sparire l'obbrobrio in cui esseri inferiori come gli ebrei e magari le loro donne potevano governare i capi per diritto divino, cioè i musulmani.
  L'errore di Oslo fu fornire a queste pretese, che alimentano il terrorismo, una base territoriale e una legalità internazionale. Gli israeliani si dovettero purtroppo svegliare presto dall'illusione, perché il terrorismo palestinista non fu spento ma alimentato dalle concessioni e dopo Oslo vennero subito gli anni terribili degli autobus e dei locali fatti esplodere con decine di vittime. Ma l'Europa ci crede ancora e alimenta con soldi e appoggi internazionali l'impresa dei discendenti di quel gruppo di terroristi trasformati per un colpo di bacchetta magica in governanti. Anche gli Usa ci hanno creduto e in particolare hanno alimentato per decenni una versione particolarmente barocca di questa illusione: che la pace si sarebbe raggiunta con un lungo "processo negoziale", condotto sulle linee di Oslo, cioè concessioni pratiche, territoriali, economiche, giuridiche da parte di Israele in cambio della prosecuzione delle interminabili trattative da parte dell'OLP - o addirittura della promessa che il negoziato, spesso interrotto, sarebbe ripreso in cambio di concessioni preliminari.
  Nel frattempo gli americani davano all'Autorità Palestinese appoggio internazionale, addestramento militare, soldi. In particolare gli Usa si facevano carico quasi da soli del budget di un'agenzia dell'Onu, l'UNRWA, creata settant'anni fa dopo la guerra di indipendenza di Israele con il solo scopo di prendersi carico dei rifugiati di quella guerra, che però subito prese partito occupandosi solo dei profughi palestinesi e non di quelli ebrei espulsi dai paesi arabi in occasione di quella guerra; e poi fece l'incredibile scelta di non considerare rifugiati solo i fuggitivi di quel momento, ma anche i loro figli, nipoti, pronipoti e così via, gonfiando enormemente le cifre con l'obiettivo di mantenere aperto il "problema palestinese" fino alla sua "soluzione vera" cioè la distruzione dello stato di Israele. L'UNRWA ormai è un braccio dell'amministrazione dell'Autorità Palestinese e soprattutto di Hamas, usando fondi internazionali per l'istruzione e la sanità dei territori da loro amministrati, col risultato da un lato di permettere loro di usare gli aiuti internazionali diretti per finanziare il terrorismo e dall'altro di aver assunto completamente l'ideologia palestinista, indottrinando i bambini all'odio per gli ebrei e Israele, com'è spesso stato dimostrato, dando stipendi alle gerarchie del terrorismo, ospitando addirittura nelle sue strutture civili e protette dall'Onu depositi e comandi militari.
  Gli Stati Uniti hanno finanziato sia l'Unrwa che l'Autorità Palestinese per decenni, fino alla grande novità della scorsa presidenza. Trump aveva capito infatti lucidamente il gioco dei palestinisti e la funzione dell'UNRWA, era stato capace di cambiare gioco trovando per la pace fra Israele e i Paesi Arabi la strada degli accordi diretti "di Abramo", come li ha chiamati, che hanno cambiato l'organizzazione strategica del Medio Oriente. E ha intuito anche che per portare la dirigenza di Hamas e dell'AP all'abbandono del terrorismo e a una pace vera bisognasse far pressione su di loro e non su Israele, innanzitutto tagliando loro i finanziamenti se non cessavano i comportamenti di appoggio al terrorismo e soprattutto togliendoli a quell'agenzia di educazione al terrorismo che è l'UNRWA.
  Purtroppo Trump ha perso la presidenza alle ultime elezioni, e non ci occupiamo qui delle cause di questa sconfitta. Ma l'amministrazione Biden ha subito ripreso le politiche delle amministrazioni precedenti, in particolare di Obama, in molte materie fra cui il Medio Oriente. Sta cercando di far ripartire l'accordo con l'Iran che ne finanziava l'imperialismo e la guerra a Israele in cambio di un rallentamento provvisorio (non certo dell'abolizione) del programma di armamento nucleare. Ha tagliato gli aiuti agli alleati tradizionali con cui Israele ha sottoscritto o sta negoziando degli accordi, prima di tutto gli Emirati e l'Arabia, togliendo loro anche l'ombrello difensivo di cui godevano. Ha ricominciato a finanziare e ad appoggiare politicamente i palestinisti, iniziando ad anticipare loro la bella sommetta di 325 milioni di dollari, anche in violazione delle leggi americane stesse, in particolare destinando 150 milioni all'UNRWA. La resistenza dei repubblicani al Senato serve a ritardare un po' il processo e soprattutto a chiarirlo all'opinione pubblica. E' ricominciata anche la pratica delle soffiate ai giornali delle operazioni segrete dell'esercito israeliano, come quella contro la nave spia iraniana.
  Insomma, bisogna prendere atto che a Washington comanda di nuovo un'amministrazione ostile a Israele, per certi versi ancora più ostile di quella di Obama, perché nel partito democratico hanno preso forza gli antisemiti di sinistra che vogliono una politica apertamente antisraeliana, senza le ipocrisie di cui ancora Biden e il suo segretario di stato Blinken la velano. E' un difficile momento per Israele, che richiederebbe tutta la competenza di un leader esperto come Netanyahu, paralizzato invece dalle difficoltà di costituire il governo.

(Progetto Dreyfus, 12 aprile 2021)


Una bandiera per tutti coloro che sono caduti

Questa sera [martedì] inizia la giornata del ricordo dei caduti e delle vittime del terrorismo.

Come ogni anno prima del giorno del ricordo dei caduti e delle vittime del terrore, il Ministero della Difesa ha pubblicato gli ultimi dati. L'anno scorso ci sono state 43 vittime e 69 disabili dell'IDF che sono morti per la loro disabilità e durante l'anno sono stati riconosciuti come caduti. A differenza dello scorso anno, le famiglie potranno nuovamente visitare i cimiteri.
Il numero di soldati caduti per Israele dal 1860 è 23.928. Le vittime si contano dal 1860, poiché quest'anno è considerato l'inizio del sionismo con la costruzione del primo quartiere ebraico fuori dalla città vecchia di Gerusalemme.
Il Giorno della Memoria inizia stasera alle 20:00 con una cerimonia al Muro del Pianto e una sirena di un minuto. Mercoledì mattina le sirene suoneranno di nuovo e l'intero Paese si fermerà di nuovo per due minuti per commemorare i caduti.
La giornata del ricordo si conclude mercoledì sera con l'inizio delle celebrazioni per il 73° Giorno dell'Indipendenza dello Stato di Israele. Allora al cordoglio per i caduti subentrerà la gioia per la nascita dello Stato d'Israele.

(israel heute, 13 aprile 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Israele quasi smette la linea dell'ambiguità sui sabotaggi in Iran

Devastato il sito dove si arricchiva l'uranio durante l'inaugurazione delle nuove centrifughe. E adesso su cosa si negozia?

di Daniele Raineri

ROMA - Sabato era la quindicesima Giornata del nucleare in Iran, dedicata alla celebrazione del programma atomico del paese. Dentro al principale sito per l'arricchimento dell'uranio a Natanz le telecamere hanno filmato i tecnici in camice bianco cantare un inno al nucleare con in mano le foto dei ricercatori uccisi dalla campagna di omicidi mirati dell'intelligence israeliana per rallentare la corsa verso l'atomica. Il governo ha annunciato l'inizio dei test delle nuove centrifughe Ir-9, che saranno 50 volte più veloci delle centrifughe di prima generazione. Ma domenica mattina c'è stato un sabotaggio. Una versione parla di un attacco informatico che avrebbe messo fuori uso il sistema interno che fornisce energia elettrica alle centrifughe - e avrebbe manomesso il sistema in modo così grave da provocare un'esplosione.
   Una seconda versione pubblicata dal New York Times che ha sentito fonti delle intelligence americana e israeliana sostiene che è esplosa una bomba. In entrambi i casi vuol dire che qualcuno è entrato dentro Natanz perché il sistema elettrico non è connesso a internet.
   Anche nel 2010 quando l'intelligence israeliana distrusse alcune centrifughe con il virus informatico Stuxnet - le faceva girare in modo irregolare - qualcuno aveva portato il virus dentro al sito. Il portavoce dell'Agenzia atomica iraniana si è rotto le gambe perché è caduto in un condotto dell'aria alto sette metri la cui imboccatura era "coperta dai detriti", quindi possiamo supporre che lo scoppio sia stato potente. C'era stata un'esplosione dentro Natanz a luglio e le immagini provavano che la bomba anche in quel caso era all'interno. Per questo gli iraniani da ottobre costruiscono un sito sotterraneo, che però non sembra immune dai sabotaggi.
   L'attacco sospende la capacità di arricchire l'uranio a Natanz per nove mesi e quindi toglie agli iraniani la loro arma principale durante i negoziati con l'Amministrazione Biden a Vienna - che possono essere riassunti così: "Se non ci levate tutte le sanzioni come nel 2015, noi acceleriamo l'arricchimento dell'uranio". Israele non commenta, ma la sua antica politica di ambiguità è sempre meno ambigua. Domenica le tv israeliane citavano loro fonti che attribuivano all'intelligence israeliana il sabotaggio. Forse ha a che fare con il fatto che l'Amministrazione Biden passa ai media informazioni sulle operazioni di Israele con l'intento di moderarle, come è successo a marzo con la notizia dei sabotaggi in mare. Il governo israeliano potrebbe aver deciso che a questo punto è meglio ridurre al minimo l'ambiguità e mandare un messaggio di determinazione sia all'Iran sia all'Amministrazione Biden.
   
(Il Foglio, 13 aprile 2021)


Il messaggio di Israele a Washington. Niente ritorno all'intesa con Teheran

Il terzo sabotaggio della centrale opera del Mossad può minare i colloqui in corso a Vienna per ripristinare l'accordo con l'Iran.

di Gian Micalessin

Come il Mossad sia riuscito a colpire per la terza volta la centrale di Natanz. cuore dei progetti nucleari iraniani, resterà un mistero. Il perché invece è più semplice da spiegare. Basta guardare, da una parte, alle trattative fra i rappresentanti dell'Iran e quelli di Unione europea, Usa, Francia, Inghilterra, Cina e Russia (i cinque componenti permanenti del Consiglio di Sicurezza più l'Ue) in corso dalla scorsa settimana al Grand Hotel di Vienna e, dall'altra, alla visita del Segretario alla Difesa statunitense Austin Lloyd, arrivato in Israele domenica per colloqui con l'omologo Benny Gantz e con il premier Bibi Netanyahu.
   Al centro dei negoziati di Vienna e di Gerusalemme c'era, seppur con toni diversi, il tentativo di rimettere in piedi l'accordo sul nucleare (Piano d'azione congiunto globale) siglato nel 2015 dall'amministrazione Obama e dalla Repubblica Islamica. Un accordo, affossato nel 2018 da Donald Trump, che Joe Biden ha sempre fatto capire di voler ripristinare. Ma per riuscirci deve vedersela con un Netanyahu convinto che l'intesa sia solo un ipocrita palliativo destinato, nel medio periodo, a regalare l'arma atomica agli ayatollah trasformandoli in una minaccia «esistenziale» per Israele. Un concetto ribadito prima da Gantz e poi dal premier israeliano negli incontri con il Segretario alla Difesa americano. Ma per meglio farsi intendere Bibi s'è fatto precedere dagli ancor più espliciti argomenti del Mossad. E così ecco la misteriosa esplosione che ha distrutto la linea di centrifughe di nuova concezione messa in funzione solo sabato dagli ingegneri di Natanz. Quelle centrifughe dovevano, stando ai tecnici di Teheran, garantire il raddoppio delle riserve di uranio arricchito al 20 per cento portandole dagli attuali 55 chili, già presenti nei depositi, a ben 120 chilogrammi in meno di otto mesi. Non avevano fatto i conti con un Mossad abituato da tempo a contrastare i loro piani. Un'abitudine sviluppata fin dal 2009 quando Stuxnet, un virus informatico progettato con la Cia, infestò i computer di Natanz distruggendo un migliaio di centrifughe. E solo undici mesi fa l'ennesima infiltrazione cibernetica aveva generato un gigantesco incendio all'interno dell'infrastruttura.
   Ma a fare la differenza è, stavolta, la volontà israeliana di attribuirsi l'operazione. A differenza del passato, fonti dell'intelligence hanno immediatamente segnalato l'origine del nuovo colpo. Il messaggio. indirizzato più agli Usa che non a Teheran, fa capire che una nuova intesa nucleare, favorita dall'alleggerimento delle sanzioni introdotte da Trump, non troverà mai il consenso dello stato ebraico. E che il governo di Netanyahu è pronto a passare dalla guerra segreta allo scontro aperto pur d'impedire all'Iran di dotarsi dell'arma nucleare.
   In questo risiko i margini d'iniziativa nelle mani di Washington sono veramente pochi. Spetta infatti ai vertici della Repubblica Islamica decidere se sia più conveniente tentare l'ennesima «vendetta», ritualmente promessa ieri dal ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif o far, invece, buon viso a cattivo gioco e continuare le trattative indirette con l'amministrazione Biden per farsi attenuare le sanzioni, ripristinare l'intesa sul nucleare e riaprire la strada agli indispensabili investimenti europei. Ma non è un calcolo facile. Il ritorno all'intesa costringerebbe l'Iran a vivere sotto il pungolo dei continui attacchi di uno stato ebraico che, a giudicare dai fatti, non ha nessuna intenzione di delegare a Biden la propria sicurezza.
   
(il Giornale, 13 aprile 2021)


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Il silenzio di Israele e i sospetti sull'attacco alla centrale nucleare iraniana di Natanz

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Il giorno dopo l'attacco all'impianto nucleare di Natanz, le speculazioni sul coinvolgimento dell'intelligence israeliana si fanno sempre più concrete. Il New York Times, in un articolo co-firmato dal giornalista israeliano Ronen Bergman, ha riportato nel corso della notte che "fonti di intelligence americane e israeliane affermano che Israele ha avuto un ruolo" e nella mattina il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammed Javad Zarif, ha apertamente puntato il dito contro Israele. Da Gerusalemme non è arrivata nessuna rivendicazione, ma nei dibattiti sui media locali viene dato un certo peso a quella che viene definita una nuova politica in contrasto con la tradizionale "dottrina dell'ambiguità", che ha sempre caratterizzato le operazioni di intelligence dello Stato ebraico.
   
Il ministro della Difesa Benny Gantz, al termine della due giorni in Israele del capo del Pentagono Lloyd Austin conclusasi lunedì pomeriggio, ha detto che chiederà di aprire un'indagine tra i servizi d'intelligence, Mossad e Shin Bet - escludendo le forze armate a lui sottoposte. "Tutte queste chiacchere, citazioni di 'fonti di intelligence occidentali', danneggiano gli interessi dello Stato d'Israele". Nel mirino ci sarebbero anche leaks rilasciati la settimana scorsa in merito a un'altra operazione attribuita a Israele dal New York Times, ossia l'attacco da parte dell'unità di élite Shayetet 13 alla nave Saviz al largo del Mar Rosso, ritenuta una base delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
   Gantz ha risposto ai cronisti che lo interrogavano su eventuali cambiamenti nella "politica dell'ambiguità", sostenendo che si tratti di un "un comportamento irresponsabile. Se deriva da interessi personali o politici è gravissimo. Non sminuisco la grande esperienza del premier nella diplomazia e sicurezza. Penso che ogni altra considerazione dovrebbe essere messa da parte e spero che sia quello che sta facendo".
   
Il Paese è nel pieno di una grave crisi istituzionale che si protrae da due anni. Le ultime elezioni del 23 marzo - le quarte in due anni - hanno confermato lo stallo politico senza la possibilità di nessuno dei due campi avversari di raggiungere una maggioranza di 61 parlamentari per formare un governo, e questo mentre la settimana scorsa si è aperta la fase dibattimentale del processo per corruzione dell'attuale premier Benjamin Netanyahu. Al momento, il Presidente ha affidato a lui l'incarico di formare un governo e gli rimangono 23 giorni per riuscire nell'impresa. Proprio oggi pomeriggio ha incassato un importante consenso da parte di Naftali Bennett, leader della destra nazionalista di Yemina, finora considerato un ago della bilancia. Bennett ha dichiarato che "Netanyahu può contare sulle dita di Yemina per formare un governo di destra". Con Bennett, Netanyahu arriva però a 59 consensi e la sfida rimane ancora aperta: trovare due "disertori", o convincere le fazioni più oltranziste dell'alleanza di destra a non porre il veto all'appoggio esterno di Ra'am di Mansour Abbas, il leader del partito islamista che si è detto disposto ad appoggiare qualsiasi governo che accolga le sue richieste.
   "Israele affronta delle sfide enormi: il Tribunale dell'Aja, l'Iran, la ripresa economica" ha detto Bennett. "Dobbiamo occuparci di colpire i nostri nemici e non noi stessi. Questo circo che potrebbe portare a quinte elezioni indica ai nostri nemici che ci stiamo disintegrando. Ed è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno". L'escalation sul fronte estero potrebbe rappresentare quindi un'ancora di salvezza sul fronte interno, un po' come accaduto l'anno scorso quando la pandemia ha portato alla formazione del governo di unità nazionale Netanyahu-Gantz, che però, come si è visto, ha avuto vita breve.

(la Repubblica, 13 aprile 2021)


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La tensione tra Iran e Israele sta diventando pericolosa

Dopo le accuse di sabotaggio alla centrale nucleare

di Mario Giro

L 'ultima accusa dell'Iran a Israele, in ordine di tempo, è di avere orchestrato l'azione di sabotaggio che domenica ha bloccato la centrale nucleare di Natanz, la più importante del paese, dove giusto il giorno prima erano state inaugurate nuove centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. Il regime di Teheran ha parlato di un atto di «terrorismo nucleare», puntando il dito contro Israele, e nelle stesse ore — coincidenze della diplomazia — il segretario della Difesa americano, Lloyd Austin, era in visita presso lo storico alleato dell'area Ma questo è solo l'ultimo episodio di una lunga serie.
   Pochi giorni fa la nave iraniana Saviz è stata colpita nei pressi dello Stretto di Bab el Mandeb, all'imbocco meridionale del mar Rosso è un altro degli episodi della "guerra a bassa intensità" tra Israele e Iran, svolta nel Mediterraneo, nel mare d'Arabia e nel Golfo Persico. È dal 2000 circa che si assiste a un susseguirsi di operazioni di commando, uccisioni mirate, navi minate, bombardamenti o attacchi di droni e razzi. A tali azioni segue in genere un mix di false informazioni, accuse e depistaggi. La guerra dello Yemen ha portato lo scontro anche dentro il mar Rosso mentre nei primi anni era sostanzialmente limitato al Golfo.
   
 LA GARANZIA AMERICANA
  Da anni ci si chiede cosa debba fare Israele davanti alla minaccia iraniana: attaccare direttamente, contenere, sabotare ecc.? L'accordo con Teheran, da cui Trump è uscito e dove Biden sta cercando di rientrare, si basava anche su un non detto tra Washington e Gerusalemme: gli Stati Uniti sono i veri garanti in termini militari della sicurezza dello stato d'Israele. Ma numerosi esperti continuano a pensare che un attacco israeliano sia ineluttabile e che gli scontri fantasma di queste settimane rappresentino un'escalation verso tale eventualità. Altri invece sottolineano che un attacco generale rischia un mezzo fallimento. una singola offensiva (come quella di Osirak in Iraq del 1981) potrebbe non bastare.
   Fin dall'epoca di Menahem Begin, premier dal 1977 al 1983, le fonti ufficiali israeliane affermano di non poter in alcun caso tollerare una potenza nucleare ostile e vicina. All'epoca si faceva riferimento alle ambizioni del programma nucleare iracheno. La Francia aveva fornito a Saddam Hussein una centrale nucleare ma la reazione israeliana fu una rapida distruzione sul territorio francese tra il 5 e 6 aprile 1979 del materiale destinato a Baghdad e poi al bombardamento del sito il 7 giugno 1983, con l'appoggio saudita che permise ai caccia israeliani di passare nel suo spazio aereo.
   La cosiddetta «dottrina Begin» fu applicata anche nel 2007, quando l'aviazione israeliana distrusse un sospetto sito nucleare siriano presso l'Eufrate (questa volta donato dalla Corea del Nord). L'operazione rimane ancora avvolta nel mistero tanto che Israele non l'ha mai ufficialmente rivendicata.
   Il sorgere della minaccia iraniana a partire dagli anni Novanta è legato alla ripresa del vecchio programma nucleare voluto dallo scià e che gli ayatollah avevano sospeso. Da allora fonti ufficiali dello stato maggiore di Israele hanno confermato di aver pronti i piani per un attacco preventivo.
   Nel 2002 un oppositore iraniano ha dichiarato l'esistenza di ben due siti nucleari: uno è quello di Natanz, dedicato all'arricchimento dell'uranio, e l'altro ad Arak per l'acqua pesante. L'Unione europea e l'Aiea hanno ottenuto un'interruzione del programma che però è ripreso con l'elezione nel 2005 di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza.
   È iniziato allora il periodo peggiore gli attacchi verbali contro Israele (e gli Usa) del presidente iraniano (vicino ai pasdaran) sono stati quasi quotidiani lungo tutto il corso del suo mandato. il leader iraniano è arrivato a dichiararsi negazionista sulla Shoah. Dal 2006 gli iraniani hanno rilanciato ufficialmente le loro ricerche e l'anno successivo hanno ammesso di disporre di 3.000 centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. Allo stesso tempo Teheran ha accresciuto le sue capacità missilistiche fino ad un raggio di 2.000 chilometri, cosa che permette di colpire Israele e parte dell'Europa. Gli esperti militari israeliani erano convinti che l'Iran potesse sviluppare l'arma nucleare entro il 2014.
   
 TENTATIVI DI DIALOGO
  I primi tentativi di dialogo sono iniziati nel 2009, ma senza grandi risultati. L'Iran sostiene di avere il diritto ad un programma nucleare civile mentre tutti si chiedono a cosa serve per uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo.
   A turno varie mediazioni (russa, francese ecc.) si sono offerte di fornire all'Iran un certo quantitativo di uranio già arricchito purché non se lo produca in casa, permettendo al programma di divenire potenzialmente militare. Ma la repubblica islamica ha rifiutato le offerte, prevedendo di aumentare le centrifughe fino a 500.000. Nel 2009 appena eletto Benjamin Netanyahu ha dichiarata «Non permetteremo a color che negano la Shoah di commetterne una seconda». Visto che con Ahmadinejad non è possibile nessun accordo, Israele rafforza le sue azioni di contrasto si punta ad attaccare il sistema informatico delle centrifughe, riuscendo a rallentarlo con i virus e in certi momenti anche a bloccarlo. È una guerra di spie e di cyber-conflitti che dura ancora. Di fatto tali attacchi non sono cessati nemmeno quando l'amministrazione Obama è riuscita nel tentativo di portare l'Iran al tavolo negoziale nel 2013 e, con il consenso russo, a far firmare l'accordo al nuovo presidente Hassan Rohani nel 2015. Ma per Israele non è abbastanza, l'Ira ha nel frattempo aumentato l'estensione del suo programma. Per quello che se ne sa, oltre alla nota centrale nucleare (ad acqua leggera) di Buchechr più un'altra in costruzione a Darkhovin (con l'aiuto cinese), ad Arak e Natanz si sono aggiunti nuovi siti di ricerca a Isfahan, Fordow, Teheran stessa, a Qom e probabilmente altrove. Miniere di uranio sono scavate in vari luoghi del paese. Tutto ciò fa capire che un solo attacco aereo israeliano a sorpresa non sarebbe sufficiente; troppi luoghi da colpire, troppi rischi di fallimento, la campagna sarebbe molto più lunga.
   
 UN AVVERSARLO TESTARDO
  L'Iran si sta rivelando un avversario resiliente e testardo, capace di resistere alle sanzioni e di concludere accordi militari con alleati sempre diversi (si pensi al Venezuela). La globalizzazione permette "triangolazioni" insospettate e molto difficili da scoprire, allo scopo di far giungere materiale sensibile in Iran.
   Per questa ragione sono aumentati gli attacchi alle navi iraniane da trasporto: un modo per diminuire i rischi tenendo il rivale sotto pressione. Ma è anche la strada che potrebbe portare alla guerra. Stati Uniti ed Europa, assieme alla Russia, sostengono che la dissuasione e il contenimento sono le uniche possibilità, un conflitto aperto e generalizzato sarebbe troppo rischioso provocando conseguenze non prevedibili. Ma a Gerusalemme non tutti ne sono convinti e pensano all'Iran come a una minaccia esistenziale, ben peggiore delle precedenti. Come sempre in Israele, il dibattito interno di questi anni su tale questione è molto acceso. Numerosi coloro (tra cui anche ex militari) che hanno criticato l'allarmismo di Netanyahu sostenendo che mostrerebbe un' 'Israele debole" mentre non è mai stato così forte. Alcuni si spingono anche a dire che un Iran dotato di arma atomica non sarebbe di per sé un pericolo assoluto; la capacità nucleare di Israele rimane ineguagliabile.
   C'è poi chi sostiene che gli attuali attacchi iraniani sarebbero una cortina fumogena per celare le vere preoccupazioni di Teheran, i suoi vicini orientali, tutti provvisti di arma nucleare, come il Pakistan e l'India In particolare si teme l'influenza talebana a Islamabad, come si nota dai sanguinosi scontri con i talebani in Afghanistan.
   Ma Netanyahu ha buon gioco a indicare le mosse iraniane in Siria e i ripetuti tentativi delle milizie sciite di avvicinarsi alla frontiera con Israele (per questo continuamente bombardate), a dimostrazione del pericolo imminente.
   Soprattutto c'è da guardare al quadro geopolitico complessivo; la fine del monopolio nucleare di Israele in medio oriente cambierebbe tutto. Un`Iran potenza nucleare vedrebbe la sua influenza aumentare esponenzialmente a discapito dei paesi del Golfo, e segnatamente del suo acerrimo nemico l'Arabia Saudita, scatenando una corsa all'arma nucleare nell'intera regione (si pensi solo alla Turchia).
   L'Europa deve stare più attenta a ciò che sta avvenendo tra Israele e Iran: il rischio di guerra è reale ma anche è in bilico la stabilità geopolitica dell'intero medio oriente e del Golfo Persico. Occorre un'attenta analisi della situazione strategica da confrontare con Washington, Mosca e Gerusalemme per evitare una conflagrazione generale.

(Domani, 13 aprile 2021)


Assembrati in sinagoga

Non solo luogo di culto

di Manuel Orazi

La raccolta di Adam Smulevich, Sinagoghe italiane. Raccontate e disegnate, illustrazioni di Pierfranco Fabris (Pordenone, Biblioteca dell'Immagine 2020, 15 euro) non va letta come una guida, ma come un'antologia di racconti brevi così come La sinagoga degli iconoclasti che Rodolfo J. Wilcock nel 1972 dedicò a trentasei personaggi bizzarri di fantasia. Pur reali, le storie delle sinagoghe italiane sono altrettanto stupefacenti e sono anche di più; qui ne sono state scelte quarantadue, ma sono molte di più contando quelle smantellate, convertite o perdute. Non è possibile classificarle secondo un'unica regola, l'unica cosa che hanno in comune secondo Luca Zevi infatti è un carattere prestazionale anti-tipologico: "La Sinagoga, prima ancora che luogo di preghiera, è luogo di studio. Ma non è soltanto questo. Essa svolge regolarmente una funzione di aggregazione sociale e spesso anche di sede del Bet din, il tribunale rabbinico. E senza che a queste differenti attività, nella maggior parte dei casi, venga attribuito un ambiente fisico particolare". Ne consegue che viaggiare per sinagoghe equivale a un viaggio negli stili e nelle tradizioni regionali della penisola, dal romanico della Scolanova di Trani all'architettura moderna di Eugenio Gentili Tedeschi a Milano, passando per il manierismo di quella di Pesaro, il barocco di Casale Monferrato, il rococò di Siena, il neoclassico di Reggio Emilia e cosa via. Ovviamente fra tutte emergono i tre enormi templi dall'eclettismo orientaleggiante di Firenze (stile moresco), Roma (assiro-babilonese) e Trieste (bizantineggiante). Due sono state costruite durante il ventennio fascista, quella rocciosa di Genova (1935) e quella di Fiume (1928) che nel libro non c'è - nonostante che proprio là affondino le radici famigliari dell'autore. Certo restano anche delle parti di città come le cinque sinagoghe del ghetto veneziano o piazza delle cinque scole a Roma o ancora le tre sinagoghe ferraresi riunite in via Mazzini e ricordate da Giorgio Bassani - fra cui quella misteriosa "di rito fanese".
   In uno studio sulla sinagoga nel Medioevo, David Cassuto ha scritto che questa "cercava di celarsi nel quartiere ebraico, di non dar nell'occhio e, se veniva costruita, il suo posto era presso abitazioni e botteghe. Essa avrebbe dovuto assolvere due funzioni contrastanti, cioè servire da vedetta e da fortezza, nel caso che la comunità fosse attaccata, e, d'altro canto, da luogo di riunione sociale, di studio e di preghiera". Non era facile cioè nascondersi se poi si creavano chiassosi assembramenti di cui resta traccia ancora oggi nel dialetto di Imola ad esempio, dove per indicare il baccano creato dai bambini che giocano si dice "ohi ma cos'è sta sinagoga"?
   
(Il Foglio, 13 aprile 2021)


Natanz, raid informatico contro la centrale nucleare. L'Iran accusa Israele

Lo Stato ebraico non smentisce. Teheran: dialogo con gli Usa. Alcune fonti citate dalle radio israeliane attribuiscono il raid agli agenti del Mossad.

di Davide Frattinl

GERUSALEMME - «Le nostre operazioni in Medio Oriente non sono nascoste agli occhi del nemico» proclama Aviv Kochavi mentre Israele si prepara a commemorare i caduti delle tante guerre. Le parole del capo di Stato Maggiore non infrangono per ora la dottrina dell'ambiguità e non rompono il silenzio che gli israeliani mantengono attorno agli attacchi.
   Eppure sono arrivate poche ore prima che gli ingegneri iraniani denunciassero un sabotaggio alla centrale di Natanz, appena potenziata con altre centrifughe per produrre più in fretta l'uranio arricchito. Parlano di «terrorismo nucleare» e allo stesso tempo vogliono mantenere aperto il canale che gli americani stanno cercando di riattivare dopo che Donald Trump aveva deciso di abbandonare l'accordo con Teheran e di reimporre le sanzioni economiche contro il regime degli ayatollah.
   Benjamin Netanyahu, da sempre contrario all'intesa, sa di avere poco tempo per rallentare o tentare di fermare la produzione atomica: il primo ministro israeliano la definisce una minaccia esistenziale, gli iraniani ripetono che l'utilizzo sarà solo civile, per produrre energia. «La lotta contro l'Iran e le sue metastasi è un compito enorme» ha detto Netanyahu ai capi delle strutture di intelligence e della sicurezza a un brindisi per festeggiare il giorno dell'Indipendenza che il Paese celebra giovedì. «Mi auguro che continuerete a tenere la spada di Davide nelle vostre mani».
   A Natanz è stato messo fuori uso il sistema elettrico, probabilmente con un cyberattacco. Alcune fonti — citate dalla radio israeliana senza indicarne la nazionalità, secondo altri giornali pezzi dell'intelligence occidentale — hanno attribuito il raid informatico al Mossad. Che in collaborazione con gli americani avrebbe già sviluppato e lanciato il virus Stuamet che nel 2010 ha distrutto un quinto delle centrifughe iraniane. Nel luglio dell'anno scorso un'esplosione aveva colpito la stessa centrale e a novembre Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma atomico iraniano, era stato ucciso in un agguato.
   Tutte operazioni che per Teheran hanno un solo ideatore e responsabile: i servizi israeliani.
   A Vienna gli europei e gli americani hanno discusso con gli inviati iraniani per trovare una mediazione che rilanci il patto del 201,5: voluto da Barack Obama e sostenuto da Joe Biden, allora suo vice, è saltato per la nuova strategia imposta da Trump. Biden per ora lascia capire di non essere disposto a rimuovere tutte le sanzioni ma solo quelle che non sono in linea can l'intesa di sette anni fa.
   La sfida tra Israele e l'Iran va avanti in Siria dove l'aviazione dello Stato ebraico continua a colpire le basi avanzate dei Pasdaran e si è allargata allo scontro in mare attorno alle rotte delle petroliere. Cinque giorni fa una mina ha danneggiato il cargo Saviz mentre navigava nel Mar Rosso: è •considerato dagli 007 una postazione avanzata di comando usata dagli ufficiali iraniani per coordinare le operazioni degli Houthi, sostenuti da Teheran, nella guerra in Yemen. Alla fine di marzo una nave container di proprietà di un armatore israeliano era stata colpita da un missile che sarebbe stato lanciato dagli iraniani.

(Corriere della Sera, 12 aprile 2021)


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Iran, attacco al nucleare. "C'è la mano di Israele"

Blackout alla centrale di Natanz: due giorni fa potenziate le centrifughe. Mistero sulle modalità dell'azione. Teheran: "Un atto di terrorismo".

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Solo una dozzina di ore è trascorsa sabato tra l'inaugurazione in pompa magna di 164 nuove centrifughe all'impianto di arricchimento dell'uranio di Natanz e un misterioso blackout che nella notte avrebbe mandato in tilt il sistema. Classificato nella mattina di ieri come «incidente», in serata era diventato un atto di «terrorismo nucleare», per dichiarazione di Ali Akbar Salehi, capo dell'Organizzazione per l'energia atomica di Teheran. Come in passato, non nomina il «solito sospetto», né da Gerusalemme arrivano rivendicazioni, ma «fonti di intelligence occidentali» anonime citate dai media attribuiscono al Mossad l'ennesima operazione di sabotaggio di quello che dovrebbe essere il fiore all'occhiello del programma nucleare iraniano.
   La centrale di Natanz era stata già colpita nel 2010 con il virus Stuxnet, distruggendo mille centrifughe. Nel luglio scorso un'esplosione aveva arrecato danni ingenti e proprio l'inaugurazione di sabato, durante la Giornata nazionale delle tecnologie nucleari, voleva indicare una ripresa a ritmo accelerato delle attività: l'esafluoruro di uranio è stato introdotto nelle nuove centrifughe IR-6 agli occhi del presidente Hassan Rohani, che ha specificato come siano «in grado di fornire una quantità di prodotto dieci volte maggiore rispetto alle precedenti». Una violazione dei termini dell'accordo Jcpoa, sbandierata dagli iraniani, che presumibilmente fungerà da carta negoziale nei giorni in cui a Vienna sono ripresi i colloqui indiretti che potrebbero vedere il rientro degli Stati Uniti nell'intesa. Non sembra poi casuale che il nuovo attacco colpisca proprio quando il capo del Pentagono, Lloyd Austin, sta effettuando la prima visita ufficiale in Israele di un rappresentante dell'amministrazione Biden. «Gli Usa restano impegnati a garantire la sicurezza di Israele e lavoreranno con l'esercito israeliano per assicurare il suo vantaggio militare qualitativo in Medioriente», ha detto Austin dopo l'incontro con l'omologo Benny Gantz.
   Quello di ieri è solo l'ultimo atto del conflitto a bassa intensità tra Teheran e Gerusalemme che nelle ultime settimane sta vivendo una rapida escalation, rischiando di infiammare l'area: al fronte aereo che da anni vede Israele colpire il consolidamento della presenza militare iraniana in Siria, si è aggiunto ora quello marittimo. Ieri sera si sono riuniti i capi di tutte le forze di sicurezza e di intelligence del Paese. L'occasione era un brindisi in vista del 73esimo anniversario dalla fondazione dello Stato. «La lotta contro la nuclearizzazione dell'Iran è un'operazione enorme», ha detto Netanyahu. «La situazione di oggi non è detto che sarà quella di domani». Né è detto che sarà quella di mercoledì, quando a Vienna riprenderanno i colloqui sul nucleare.

(la Repubblica, 12 aprile 2021)


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L'atomica iraniana va ko. Teheran contro Israele: "È un atto di terrorismo"

Incidente al principale impianto per arricchire l'uranio. La pista del cyberattacco del Mossad

di Fiamma Nirenstein

Un «incidente» a Natanz, centrale nucleare iraniana, sempre in primo piano, già investita nel luglio scorso da una misteriosa esplosione, ha fermato proprio il giorno dopo l'inaugurazione le nuove, bellissime, centrifughe di ultima generazione, proibite dall'accordo Jcpoa stretto nel 2015.
   Sabato scorso il presidente Rouhani aveva annunciato che l'Iran aveva iniziato a iniettare l'uranio in forma di gas hexafluoride nelle centrifughe di Natanz IR-6 e IR-5. Una tecnica molto avanzata e veloce, fuori delle norme, usando la quale (oltre forse ad altri sistemi) «in meno di quattro mesi» come aveva annunciato Behrouz Kamalvandi il portavoce della AEOI l'Organizzazione Atomica Iraniana qualche giorno prima «abbiamo prodotto 55 chili di uranio arricchito al 20 per cento, e in meno di otto mesi possiamo raggiungere i 120 chili». Passi evidenti sulla strada della bomba atomica nonostante una beffarda assicurazione che si tratta di strutture civili, minacce palesi proprio mentre il presidente Hassan Rouhani di ritorno dagli Usa, riferendosi al summit di Vienna si era vantato che «tutte le parti del patto nucleare hanno concluso che non c'è nessuna conclusione migliore del Jcpoa e che non c'è nessuna altra strada che la sua totale realizzazione».
   Una sfida, per altro in questi giorni riportata dai mallevadori europei (per ora Iran e Usa non si incontrano direttamente) ai due maggiori interlocutori, che risulta evidente: per noi, dice l'Iran, il blocco immediato delle sanzioni, anche di quelle non legate all'arricchimento atomico (per esempio quelle sui diritti umani, o sull'assalto balistico al Medio Oriente) per voi la ripresa del patto da cui Trump ha ritirato gli Usa nel 2018. Un patto che non ha mai garantito che l'Iran rinunciasse ai suoi fini atomici e bellici, oltre a restare inchiodata alla sua totale violazione dei diritti umani. La centrale ha subito «un'interruzione dell'elettricità»: qui non si tratta di impianti che si fermano tagliando un filo o toccando un interruttore. Il blocco è complesso, e arresta processi superveloci e protetti, il cui «stop» comporta un danno consistente e perdurante nel tempo. É dunque una delle tante imprese che si sospettano compiute dalla mano del Mossad (ieri il canale 13 della TV israeliana ha parlato di una fonte occidentale attendibile) nel cuore del regime degli Ayatollah e fra i ranghi delle Guardie della Rivoluzione.
   La lista è infinita e impressionante; l'eliminazione del capo del sistema atomico Fahrizadeh; l'asporto degli archivi atomici per cui l'Iran seguitava a costruire la bomba dopo l'accordo; attacchi alle centrali; scontri navali fra cui l'attacco nel Mar Rosso di un cargo «Saviz», una piattaforma logistica di supporto delle Guardie della Rivoluzione per le guerre mediorientali; innumerevoli operazioni dal cielo, nelle acque, per bloccare il rifornimento e la costruzione iraniani di armi ai suoi «proxy» in Siria, Hezbollah, libanesi e iracheni e a Hamas.
   Ieri pomeriggio è giunto in Israele il segretario alla difesa americano Lloyd Austin, un amichevole e severo gigante. Devono essere state dette parole significative: l'attacco a Natanz segnala parecchie cose per l'agenda americana. Per esempio, che pare che Israele abbia una struttura di intervento a Teheran molto robusta, e non consentirà di distruggerla al Paese che ha giurato con intento ideologico profondo e sincero. L'Iran, gli Usa lo sanno, tesse le sue tele anche con la Cina e gli Stati dell'Asia Centrale. Zarif si è appena fatto un bel giro da quelle parti. Anche gli Ayatollah, che hanno definito «un attacco terroristico» quello di Natanz, lanciano le loro minacce agli Usa di Biden. Tempi di scelte difficili.

(il Giornale, 12 aprile 2021)


Israele e Turchia alla ricerca di soluzioni

di Giancarlo Elia Valori

Dagli incidenti di Davos e Mavi Marmara sono trascorsi rispettivamente dodici e undici anni, e le relazioni Turchia-Israele sono sottoposte a intensi sforzi di ripresa. Essi sono due importanti Paesi vicino-orientali, e influiscono sulla stabilità regionale.
   Le relazioni tra i due Paesi oggi, come in passato, hanno una struttura basata sulla realpolitik, perseguendo un rapporto di equilibrio/interesse, e girano attorno alla questione palestinese ed alla posizione d'Israele quale interlocutore privilegiato della Casa Bianca. Però, adesso, riassumiamo brevemente la storia dei rapporti turco-ebraici.
   Il primo evento importante che viene in mente quando si citano ebrei e turchi è che quando oltre 200mila ebrei furono espulsi dall'Inquisizione spagnola nel 1491, l'Impero ottomano li invitò a stabilirsi nel suo territorio.
   La Turchia è stato il primo Paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. La prima missione diplomatica di Israele in Turchia fu aperta il 7 gennaio 1950, ma i rapporti con la crisi di Suez nel 1956 furono ridotti al livello di incaricato d'affari. La Turchia nella seconda guerra arabo-israeliana nel 1967, ha scelto di non essere coinvolta; e non ha permesso che i rapporti si interrompessero completamente.
   Gli anni Novanta hanno avuto un andamento positivo in termini di relazioni bilaterali. Dopo la seconda guerra del Golfo del 1991 - ricordiamo che la prima fu quella 1980-1988 dell'Iraq e il mondo contro l'Iran (che aveva dalla sua unicamente RPD di Corea, Siria Libia e il sostegno morale dell'Albania di Enver Hoxha) - la Turchia è stata al centro della politica di sicurezza nella regione. Ed in tale contesto le relazioni Turchia-Israele riscossero un serio riavvicinamento.
   Nel 1993, la Turchia elevò relazioni diplomatiche con Israele a livello di ambasciatori. La firma dell'accordo di Oslo tra Palestina e Israele ha portato a relazioni più strette. Fu firmato l'accordo di cooperazione militare del 1996 tra i due Paesi nella lotta al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in Turchia, che fornì un contributo significativo sia in termini logistici che di intelligence ad entrambe le parti.
   Negli anni 2000, c'è stato un ulteriore riavvicinamento con Israele, a causa della politica "zero problemi con i vicini" del Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan. Ricordo ancora il N. 3/1999 di "Limes" titolato "Turchia-Israele, la nuova alleanza".
   Nel 2002 una compagnia israeliana ha intrapreso il progetto di ammodernamento di dodici carri armati M-60 appartenenti alle forze armate turche. Il 2004 la Turchia ha accettato di vendere l'acqua a Israele dal fiume Manavgat.
   La visita del primo ministro Erdogan in Israele nel 2005 è stata un punto di svolta in termini di mediazione tra Palestina e Israele e un ulteriore avanzamento delle relazioni bilaterali. Nel 2007, il presidente israeliano Shimon Peres e il presidente palestinese Mahmud Abbas hanno parlato alla Grande assemblea nazionale turca ad un giorno di distanza. Sono continuate le visite ad alto livello da Israele.
   Il 22 dicembre 2008, il primo ministro israeliano Ehud Olmert è venuto ad Ankara e ha incontrato il primo ministro Recep Tayyip Erdogan. In questo incontro sono stati registrati progressi significativi per quanto riguarda la mediazione della Turchia tra Israele e Siria.
   Il deteriorarsi dei rapporti turco-israeliani, al di là dei summenzionati incidenti, è avvenuto cinque giorni dopo il predetto incontro: l'operazione Piombo Fuso contro Gaza il 27 dicembre 2008. Dopo questo avvenimento, i rapporti fra le due parti non sono stati più gli stessi di prima.
   Però recentemente sono state fatte anche dichiarazioni di buona volontà da entrambi i Paesi per normalizzare le relazioni politiche. A dicembre 2020, il presidente Erdogan ha dichiarato di voler migliorare le relazioni con Israele e ha affermato: «Non è possibile per noi accettare l'atteggiamento di Israele nei confronti dei territori palestinesi. Questo è il punto in cui differiamo da Israele, altrimenti, il nostro cuore desidera migliorare anche i nostri rapporti con loro».
   La Turchia sta proponendo, nelle relazioni con Israele, la questione palestinese come condizione. Quando la guardiamo dalla prospettiva opposta, tale questione palestinese è un argomento vitale per Israele. Per cui essa è un serio ostacolo alle relazioni bilaterali.
   D'altro canto, molte questioni regionali come il Mediterraneo orientale, la Siria e alcune questioni di sicurezza nella regione richiedono la cooperazione di questi due Paesi chiave. Per questo motivo, è chiaro che entrambe le parti desiderano almeno porre fine alla crisi, ridurre la retorica a livello di leadership e concentrarsi sulle aree di cooperazione e real-politik.
   Sicuramente nei prossimi mesi si cercherà di troverà un equilibrio tra questi propositi e le condizioni che rendono necessario riavviare su un piano di parità le relazioni bilaterali con Israele, in modo da trovare un equilibrio. Poiché il miglioramento delle relazioni con Israele influenzerà positivamente anche le relazioni della Turchia con gli Usa.
   La Turchia cerca di evitare che gli Usa e l'Unione Europea stabiliscano sanzioni che potrebbero arrivare al punto di incrementare la retorica neottomana anti-occidentale, mentre il miglioramento dei rapporti con Israele potrebbero offrire un risultato positivo non solo per evitare il predetto danno, ma pure per le questioni turche legate al Mediterraneo orientale, alle acque territoriali, a Libia e Siria. La Turchia non ha intenzione di tirarsi indietro sulle questioni che ritiene vitali: al contrario vorrebbe trasmettere messaggi positivi a livello di colloqui e vertici.
   Un altro importante argomento di frizione fra Turchia e Israele è la questione dell'utilizzo degli idrocarburi nelle riserve del Mediterraneo orientale fra Egitto, Israele, Grecia e Cipro (Nicosia).
   Quest'è un approccio che sta escludendo la Turchia. Anche gli Stati Uniti e l'UE sostengono fortemente la situazione odierna (che abbiamo affrontato in un precedente articolo) pure perché la Francia è stata inclusa nell'equazione.
   Gli allineamenti in queste aree marine li abbiamo ampiamente visti pure durante la guerra civile in Libia, dove sono scesi in campo Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, così come altri attori come Russia, Italia, ecc.
   In definitiva un punto di contatto fra Turchia e Israele, è l'azione mediatrice che Ankara potrebbe giocare nei rapporti fra Teheran e Tel Aviv specie dopo il miglioramento delle relazioni turco-iraniane.
   Infatti il ministero degli Esteri turco all'indomani dell'attacco aereo degli Usa a Baghdad - che il 3 gennaio 2020 ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani - ha affermato che l'azione statunitense aumenterà l'insicurezza e l'instabilità nella regione. Inoltre ha riportato che la Turchia è preoccupata per le crescenti tensioni tra Usa e Iran che potrebbero ritrasformare l'Iraq in area di conflitto a danno di pace e stabilità nella regione. Vi è stata anche una telefonata di condoglianze di Erdogan al presidente iraniano Rouhani, esortandolo ad evitare un'escalation conflittuale con gli Usa a seguito dell'attacco aereo.
   Di conseguenza, è interesse del presidente turco mantenere un canale aperto con Teheran, affinché egli stesso possa ammorbidire le reciproche tensioni fra Israele e Iran, in modo che a sua volta la diplomazia israeliana influenzi le scelte dell'amministrazione di Joseph Robinette Biden Jr., sia pure meno favorevole a Israele rispetto a Donald Trump.
   La Turchia è noto abbia molti problemi relazionali con gli Usa - specie dopo il tentato colpo di Stato del 15-16 luglio 2016 e compresa la questione petrolifera summenzionata - e si rende conto che unicamente Tel Aviv sia in grado di risolvere agevolmente la situazione.
   Di fatto, le relazioni Israele-Usa non sono al meglio come con il presidente Trump; questo elemento pare non sia noto ad Erdogan, ma in realtà il presidente turco sa bene che l'unica voce che la Casa Bianca è in grado di udire è quella di Tel Aviv, e no di certo delle monarchie del Golfo, attualmente in urto con Ankara.
   Israele mantiene un basso profilo sulle dichiarazioni di Erdogan relative ai Palestinesi, ritenendole consequenziali, come pure ad una serie di atteggiamenti chiaramente antisionisti del popolo turco.
   Siamo comunque certi che le dichiarazioni di apertura da parte di Erdogan e l'acquiescenza israeliana sicuramente daranno risultati concreti.

(il denaro, 12 aprile 2021)


Covid, lo studio israeliano: la variante sudafricana «buca» il vaccino Pfizer

Secondo un'indagine sul mondo reale svolta in Israele la prevalenza della variante sudafricana nelle persone vaccinate e positive era 8 volte superiore a quella riscontrata nella popolazione non vaccinata. Sempre più vicina l'ipotesi di una terza dose.

di Cristina Marrone

La variante del coronavirus scoperta per la prima volta in Sud Africa è in grado di «bucare», almeno in parte, la protezione indotta dal vaccino Pfizer-BioNTech secondo un nuovo studio israeliano realizzato dall'università di Tel Aviv e dall'istituto Clalit, non ancora sottoposto a peer review. In Israele è strato utilizzato quasi esclusivamente proprio il vaccino Pfizer per vaccinare milioni di cittadini (sono circolate pochissime dosi di Moderna).

 Lo studio
  I ricercatori hanno esaminato quasi 400 persone che erano risultate positive al Covid-19 dopo aver ricevuto almeno una dose di vaccino e li hanno confrontati con lo stesso numero di persone infette e non vaccinate. Gli scienziati hanno scoperto che la prevalenza della variante Sudafricana (B.1.351) tra i pazienti che avevano ricevuto due dosi di vaccino era circa otto volte superiore rispetto alla popolazione non vaccinata. Sebbene il numero di soggetti esaminati sia limitato, il risultato è ritenuto indicativo.

 La variante viola la protezione del vaccino
  «Ci saremmo aspettati solo un caso di variante sudafricana, ne abbiamo trovati otto», ha detto la professoressa Adi Stern, che ha guidato la ricerca, al quotidiano The Times of Israel. La variante sudafricana, paragonata al ceppo originale e alla variante inglese, «è in grado di violare la protezione del vaccino» anche se servono ulteriori studi per un quadro più preciso. «Riteniamo comunque - scrive la scienziata su twitter - che la ridotta efficacia si verifichi solo in un piccolo lasso di tempo. Nessun caso di B.1.351 si è verificato dopo 14 giorni dalla seconda dose». Gli otto casi sono concentrati entro i 7 giorni dalla seconda dose. Inoltre gli scienziati hanno osservato che la variante sudafricana non si diffonde in modo efficiente per questo è importante vaccinare il più velocemente possibile per far crollare il numero di contagi. Il professor Ran Balicer, direttore delle ricerche al Clalit, ha definito l'indagine «molto importante». «È il primo studio al mondo (indipendente, ndr) basato su dati reali e mostra che il vaccino è meno efficace contro la variante sudafricana in confronto al virus originale e alla variante britannica» che ha circolato in Israele.

 Le altre ricerche
  La ricerca è destinata a sollevare domande su un altro studio del mondo reale condotto da Pfizer che ha concluso come il vaccino mRNA mantenga una protezione di almeno sei mesi anche contro la variante più temuta rispetto ai vaccini, quella sudafricana appunto. In Sudafrica sono stati arruolati 800 partecipanti e sono stati osservati nove casi di Covid, tutti nel gruppo placebo, indicando un'efficacia del vaccino del 100%, ha riferito la società una decina di giorni fa. La nuova ricerca di Tel Aviv va in senso opposto e sembra invece confermare un recente studio dell'Università Be-Gurion del Negev che ha scoperto che il vaccino è meno efficace contro la variante sudafricana (indagine su campioni di sangue). Anche altre analisi in vitro avevano concluso che la variante sudafricana sarebbe in grado di aggirare le difese e provocare reinfezioni.La nuova ricerca israeliana però non indica con precisione il livello di protezione contro la variante perché la sua prevalenza in Israele è molto bassa e rappresenta solo l'1% di tutti i casi (in Italia siamo allo 0,1% dei casi secondo l'ultimo report).

 Lo studio della terza dose
  La diffusione delle varianti (in particolare la sudafricana e la brasiliana che hanno in comune le mutazione E484K, capace di eludere parzialmente la protezione vaccinale) preoccupa i governi di tutto il mondo. Tanto che le case farmaceutiche si sono già mosse e stanno studiando una «terza dose» proprio per aumentare la protezione contro le varianti più insidiose. Sembra infatti sempre più probabile l'ipotesi che siano necessari periodici richiami, soprattutto tra gli anziani, la popolazione più fragile, come già succede con l'influenza. Pfizer-BioNTech stanno testando una terza dose del loro vaccino Covid-19 per comprendere meglio la risposta immunitaria contro nuove varianti del virus. Anche Moderna ha sviluppato un vaccino contro la variante sudafricana e ha consegnato le dosi al National Institutes of Health statunitensi per l'avvio dello studio clinico. Aggiornare i vaccini con la tecnologia a mRNA è più facile e veloce mentre le cose si fanno più complesse con i vaccini a vettori virali per importanti limiti tecnologici a causa dell'immunità nei confronti degli adenovirus utilizzati come trasportatori del materiale genetico che codifica una proteina di Sars-CoV-2 (lo abbiamo spiegato qui).

 L'efficacia dei vaccini
  Infine va ricordato, e questo vale sempre, anche con le varianti, che i vaccini diventano pienamente efficaci all'incirca a partire da una settimana dopo la seconda dose (i dati possono variare leggermente da vaccino a vaccino). E anche questo studio israeliano lo dimostra dal momento che si sono verificati contagi, anche con variante britannica, tra la prima e la seconda iniezione. È infatti possibile contagiarsi tra una dose e l'altra perché la carica anticorpale non è ancora al suo massimo livello. Tuttavia è possibile ammalarsi di Covid-19 anche dopo aver fatto due dosi di vaccino (in genere non in modo grave) e questo perché i vaccini anti Covid-19, come tutti gli altri vaccini, non sono efficaci al 100%. Qualcuno resterà scoperto perché per qualche motivo non sviluppa sufficienti difese immunitarie. A questo punto vale la pena ribadire come va interpretato il valore di efficacia di un vaccino (dato in realtà non comparabile tra i vari prodotti perché i trial sono stati condotti in luoghi e tempi diversi). Avere un vaccino efficace al 95% come Pfizer non significa che si ammaleranno 5 persone ogni 100. Il dato di efficacia è relativo alla protezione individuale ed è una cifra probabilistica. Se il vaccino è efficace al 95% ogni individuo che conclude il ciclo vaccinale con quel prodotto ha il 95% in meno di probabilità di essere contagiato ogni volta che viene esposto al virus rispetto a un individuo che non è vaccinato.

(Corriere della Sera, 12 aprile 2021)


La vita notturna in Israele pulsa di vita dopo il successo del vaccino

di Cirillo Lombardi

È come scuotere una bottiglia di champagne, aprirla e poi provare a richiuderla.
Così la polizia israeliana descrive la sua missione quando chiediamo perché non interviene. Deve gridare per sentire la sua voce. La musica è al massimo, la gente applaude al ritmo, fischia e canta. Tutti i comandamenti dello scorso anno in materia di distanza, maschere e "capsule" sono stati dimenticati per un massimo di sette persone.
   Mezzanotte al mercato ortofrutticolo di Gerusalemme, che era un'area ricreativa ogni giovedì e venerdì sera. Ciò sta accadendo di nuovo per la prima volta da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato un "ritorno alla vita" nella sua campagna elettorale.
   Quello che vediamo tra la folla. Non quello che le autorità avevano pianificato. Durante la campagna elettorale, i populisti hanno promesso che tutto sarebbe stato come prima, e subito. Ma il ministero della Salute sta pianificando un ritorno alla vita graduale e cauto che è stato congelato nel marzo 2020. Il direttore generale, il professor Hagai Levy, traccia ogni giorno scenari apocalittici nei media e menziona tutto ciò che potrebbe andare storto nonostante le vaccinazioni.
   Rifiuta leggermente la coercizione. Negli stadi di calcio, nei teatri e nelle palestre è possibile contare e verificare il numero di persone ammesse, ma nei caffè all'aperto, nelle spiagge, nelle riserve naturali e durante le processioni religiose le forze dell'ordine possono cedere.
   Al pubblico, la cosa sembra chiara: ora deve indossare o rompersi, non ti ritroverai in più chiusure. Finora ho resistito. Il numero di feriti, malati e morti è in rapida diminuzione. A maggio, le autorità sperano di poter iniziare a vaccinare i bambini e il governo vuole ordinare trentasei milioni di nuove dosi di vaccino, anche se il ministero delle Finanze lo considera uno spreco.

(TecnoSuper.net, 11 aprile 2021)



impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo

 


Il segretario della Difesa Usa va in Israele: si parlerà di Iran

Lloyd Austin ha in programma incontri con Benny Gantz e anche con il premier Benjamin Netanyahu.

Ricevuto con gli onori militari israeliani, il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha iniziato una visita in Israele, la prima nel paese di un esponente dell'amministrazione Biden., Austin si è riunito dopo il suo arrivo con il collega israeliano Benny Gantz.
Tra i temi in agenda quello dei colloqui sul nucleare iraniano: il ministro israeliano sottolineerà l'auspicio del suo paese che si possa negoziare un accordo migliore di quello del 2015, fortemente osteggiato dalle autorità dello stato ebraico.
Il segretario alla Difesa di Washington ha in programma anche un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu - impegnato nel tentativo di definire una coalizione di governo - nel corso della visita di due giorni.
Non è prevista invece una visita nei territori palestinesi, malgrado l'inversione di rotta da parte del presidente Biden nei rapporti con i palestinesi rispetto al suo predecessore. Conclusa la visita in Israele, Austin è atteso in Germania martedì, e successivamente a Bruxelles.

(globalist, 11 aprile 2021)


La guerra «segreta» in mare: Iran-Israele a rischio scontro

Continuano i reciproci assalti ai cargo nelle acque del Golfo e nel Mediterraneo. Gli israeliani avrebbero già colpito una dozzina di navi iraniane che portavano petrolio e armi in Siria. Dura risposta di Teheran.

di Francesco Palmas

E' una guerra a bassa intensità, fatta di colpi di mano, sabotaggi ed esplosioni misteriose. Si combatte sul mare, fra Hormuz e il Mediterraneo, lo scacchiere elettivo della proiezione pan-regionale iraniana. Ha per protagonista Israele, al tempo stesso vittima e carnefice. Dal 2019, lo Stato ebraico ha esteso al mare il contenimento geopolitico di Teheran. Ne ha bombardato centinaia di volte le manovre sospette in Siria, i flussi aeroterrestri di armi per Hezbollah e le mire sul Golan. Da due anni a questa parte, sta colpendo anche in acqua.
   Ha già mandato in avaria una dozzina di navi iraniane che trasportavano petrolio e armi in Siria. Carichi preziosi, che alimentano la guerra delle milizie sciite e aggirano gli embarghi, procurando valuta pregiata a Teheran. Ogni mossa israeliana è ben studiata, dettata dall'intelligence e ordita con attacchi dissimulati. Le azioni non hanno nulla di eclatante. Niente bombardamenti con missili anti-nave, ma uso di mine magnetiche, a basso potenziale, che sfondano gli scafi senza farli deflagrare.
   Dietro ci sono gli incursori della Shayetet 13, le forze speciali della marina, che si infiltrano con vedette rapide e sommergibili, posano gli ordigni e si dileguano. L'ultima preda a finire nella loro tela, il 6 aprile, è stato il cargo Saviz, appartenente ufficialmente alla compagnia iraniana Iris. In realtà, la sigla è una copertura. E la storia puzza di spionaggio. Il Saviz è una base operativa avanzata della marina dei pasdaran. È una nave intelligence, zeppa di radar e di sensori, che incrocia per gli Ayatollah in prossimità dello stretto di Bab el Mandeb.
   A bordo, ospita squadre di commando e tre unità navali veloci, armate di cannoni e di mitragliatrici pesanti. Scorta le petroliere e i cargo iraniani che transitano per il Mar Rosso. Ma supporta anche gli alleati Houthi yemeniti. Per non destare troppi sospetti, Teheran ha reagito morbidamente al blitz, derubricandolo a «incidente». Ha affermato che i danni incassati sarebbero irrisori e che la navigazione prosegue immutata. Le immagini satellitari dicono però altro, svelando una lunga scia di carburante, perso dai serbatoi della Saviz. Sembra che gli israeliani abbiano mobilitato almeno un sommergibile e che, prima di colpire, abbiano informato gli americani. Hanno temporeggiato, aspettando la riapertura del canale di Suez e il passaggio del gruppo di combattimento della portaerei Eisenhower.
   Un modo per prendere le distanze fisiche dagli Stati Uniti, evitando di coinvolgerli. Che l'Iran incassi l'ennesimo colpo con diplomazia non deve sorprendere. Dietro le quinte, sta rispondendo colpo su colpo all'offensiva navale israeliana: negli ultimi due mesi, ha centrato almeno due navi, indesiderate nel Mar Arabico. L'ultimo attacco è avvenuto il 25 marzo scorso, con un missile, sparato contro una portacontainer della società XT Management, in viaggio fra la Tanzania e l'India. Le armi predilette dai pasdaran sono le centinaia di vedette e di imbarcazioni rapide e potenti.
   Sono armate con missili anti-nave cinesi e con perfette copie iraniane. Sgusciano nel traffico marittimo, vi si insinuano e lanciano attacchi a sorpresa, con l'appoggio di bunker interrati e posti d'osservazione. Tutti assi nella manica per l'appoggio e il rifornimento delle pattuglie di ricognizione, per i mezzi posa-mine e per il lancio di attacchi veloci. La sfida navale con Israele può andare avanti ancora a lungo, ma rischia di degenerare alla prima vittima non calcolata E questo lo sanno in molti, primi fra tutti gli Usa.

(Avvenire, 11 aprile 2021)


Non voglio imparare come si scrive Auschwitz

di David Spagnoletto

È la seconda volta da quando faccio parte della redazione di Progetto Dreyfus, che scrivo un articolo in prima persona.
La prima è stata quando scrissi una lettera "immaginaria" a Stefano Gay Taché, il bimbo di due anni ucciso dal terrorismo palestinese.
Solo adesso mi rendo conto che gli argomenti di questi due articoli, in qualche modo, rappresentano due ferite aperte che riguardano Roma: l'attentato alla Sinagoga Maggiore nel 1982 e la deportazione nazista che portò tantissimi ebrei nell'inferno di Auschwitz.
Per qualche strano gioco del destino, Roma è la città dove sono nato e il 1982 è l'anno della mia nascita. Non so se in quel modo ci sia un collegamento.
Da sempre ho sentito parlare di Auschwitz. Non ricordo un giorno della mia vita senza non aver saputo cosa significasse quella parola.
Dai miei genitori e più direttamente dai miei nonni, i cui racconti della guerra per molti anni arrivavano al cuore ma non alla mia mente.
Crescendo e occupandomi di giornalismo e di comunicazione, la mente aveva raggiunto la stessa consapevolezza del cuore.
Migliaia di volte ho scritto Auschwitz nella mia vita. In tutte le volte ho sempre dovuto copiare come si scrivesse, da un libro e dal web.
All'inizio pensavo di non voler essere un aspirante giornalista che sbagliava una parola così importante. Andava prima la h? Prima la w?
Poi ho capito quella che oggi ritengo essere la verità.
Non ho mai voluto imparare a scrivere Auschwitz.
Il mio cuore e la mia testa non potevano accettare quella parola, che rappresentava l'inferno per gli ebrei di tutto il mondo e per coloro che, come me, avevano ascoltato racconti strazianti di parenti deportati e morti nei lager o come la fortuna avesse fatto salvare i miei nonni. Inutile dirlo, ma se quella fortuna non li avesse accompagnati, io oggi non sarei qui. E non ci sarebbe neanche mia figlia Miriam di otto mesi.
Non ho mai voluto imparare a scrivere Auschwitz, perché mi sono accorto che cercando sul web come si scrive, venivo a conoscenza di nuove storie e di nuovi aneddoti sulla Shoah.
Perché, nonostante quello che si creda, non sapremo mai abbastanza di quell'Orrore. Vengono fuori in continuazione nuovi soprusi aberranti subiti dagli ebrei durante la guerra.
Adesso so di non voler imparare a scrivere Auschwitz, perché vorrei imparare sempre di più. Perché in troppi utilizzano il termine e ci scherzano su, come se fosse un tema da cabaret.
Perché la deriva delle parole è arrivata a toccare "Auschwitz" e i "negazionisti". Fino a un anno fa il termine negazionista era riferito a colui che non credeva al genocidio nazista. Oggi il termine è abusato per identificare chi non crede al Covid-19 o ai vaccini.
Per questo, oggi più che mai, sono convinto di non voler imparare a scrivere Auschwitz.

(Progetto Dreyfus, 11 aprile 2021)


Il pensiero ebraico nell'Europa cristiana

"Il Rinascimento nel pensiero ebraico", Giuseppe Venai Paideia, pagg. 234, € 32

di Giulio Busi

«E invero qui, nella grande città di Ferrara, le rovine e le brecce furono numerose [...] gli abitanti, sia giovani sia i vecchi si precipitarono fuori dalle loro case [...] abbandonarono le loro ricchezze e i loro beni e si diedero alla fuga, presi dal timore che le case crollassero d'un tratto su di loro, come accadde a più di settanta abitanti della città, un po' qua un po' là, che non riuscirono a fuggire in fretta: le loro dimore divennero in un attimo le loro tombe». Azaria de' Rossi si è appena trasferito nella città estense, giusto in tempo per vivere in prima persona il forte terremoto del novembre 1570. Il suo resoconto, denso di particolari, è una delle testimonianze storiche più importanti e meno conosciute su questo episodio della storia sismica italiana. Il terremoto, e l'ozio forzato che ne seguì, diedero ad Azaria l'occasione di scrivere la sua opera più importante, un trattato sulla cronologia ebraica che fece scalpore nelle cerchie ortodosse della diaspora il Me'or enayim (Lume degli occhi), così si chiama il libro, contiene una revisione critica di alcune datazioni tramandate dalla tradizione rabbinica, e usa come materiale di confronto gli scritti dell'esegeta giudeo-alessandrino Filone Alessandrino e addirittura testi cristiani. Un tentativo filologico di stampo umanistico, che assicura al De Rossi un posto di primo piano nel bel volume di Giuseppe Veltri sul Rinascimento nel pensiero ebraico. Dalla Ferrara estense alla Praga del Maharal, dalla Venezia seicentesca alla Firenze della qabbalah cristiana, Veltri mette a fuoco alcuni episodi "rinascimentali" che coinvolgono ebrei ed ebraismo. Le virgolette sono d'obbligo, giacché la prospettiva storiografica pone in rilievo, accanto alle consonanze, anche gli episodi di contrasto e di rottura. Né può essere altrimenti quando si analizza un'epoca in cui la minoranza ebraica è quasi dovunque discriminata e relegata.
   Eppure, qualcosa si muove. Quando papa Pio V dà credito all'opinione comune e attribuisce il sisma ferrarese alla presenza in città di «giudei e marrani», l'internunzio ferrarese gli risponde, umanisticamente, per le rime: «Beatissimo Padre, né giudei né marrani han causato il terremoto, essendo cosa naturale».

(Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2021)


I guardiani dell'imputato Eichmann

L'11 aprile di 60 anni fa a Gerusalemme il processo al gerarca nazista. Ecco il ricordo dei testimoni e dei poliziotti che lo sorvegliavano.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - «Ogni volta che vengo qui a vedere uno spettacolo, cerco la cella di vetro antiproiettile». Davanti a quello che oggi è il teatro Gerard Behar, Reuven Campagnano condivide le memorie indelebili dell'evento che più di ogni altro ha forgiato la percezione collettiva della Shoah non solo per il mondo intero, ma anche per la società israeliana. L'11 aprile 1961 si apriva a Gerusalemme il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Il 10 maggio, Reuven, 19 anni, con sua madre Hulda, si faceva strada tra la folla che cercava di accedere a uno dei 756 posti disponibili nella sala. Per loro c'era un ingresso preferenziale, quello riservato ai 112 testimoni viventi dell'orrore nazista. Hulda Cassuto Campagnano fu l'unica teste italiana al processo del secolo.
  Figlia di Umberto Cassuto, noto rabbino e storico costretto dalle leggi razziali ad abbandonare la cattedra alla Sapienza di Roma, non riuscì a raggiungere Gerusalemme nel 1939 insieme al padre per le limitazioni imposte dagli inglesi all'immigrazione ebraica nella Palestina mandataria. Al banco dei testi, Hulda ripercorrerà l'epopea che la vide affrontare la guerra con i sei bambini della famiglia, rimasta sola dopo la deportazione del marito Shaul, del fratello Nathan e della cognata Anna. Solo Anna fece ritorno da Auschwitz, per perdere la vita tre anni dopo in un attentato arabo a Gerusalemme. «C'era una tensione altissima nell'aula. Eichmann sembrava un burattino, non emanava nessuna espressione. A guardarlo mi si apriva una voragine», rievoca Reuven. «Ricordo la sensazione di sollievo terminata la testimonianza. Una catarsi».
  Il processo Eichmann è stato lo spartiacque nel rapporto tra lo Stato d'Israele, nato appena 13 anni prima, e i sopravvissuti della Shoah, un quarto della popolazione del Paese negli anni '60. Una sorta di terapia d'urto collettiva, la definisce la storica Hanna Yablonka, che per prima ha avuto accesso agli archivi del processo, su cui si basa il suo saggio Lo Stato d'Israele contro Adolf Eichmann. «In quel momento, la Shoah da un insieme di informazioni, è diventata conoscenza. Fino ad allora la storia veniva raccontata principalmente attraverso i documenti rinvenuti nel dopoguerra. Le vittime non erano state sentite, sei milioni era un numero generico», dice Yablonka. «Con il processo Eichmann si è iniziato a parlare in prima persona singolare: quando Martin Foldi dal banco dei testimoni racconta la separazione ad Auschwitz dalla figlia, che indossava un cappotto rosso, e di come la vide per l'ultima volta come un puntino rosso in lontananza che non riuscì a raggiungere (sarà poi la scena iconica del film Schindler's List), il pubblico israeliano si trova di fronte all'aspetto esistenziale della Shoah, al suo impatto sulle vite degli individui».
  Fu un passaggio determinante nello sfatare il mito degli ebrei che andarono a morire «come pecore al macello», che negli anni della fondazione dello Stato contrapponeva l'ethos dell'ebreo pioniere, fondatore della patria, con quello diasporico, debole vittima imbelle. «Si è cominciato a capire che, nelle condizioni straordinarie e senza precedenti descritte, anche sopravvivere è stata una forma di eroismo», ricorda Reuven. Ma la svolta non è stata soltanto rispetto all'esposizione delle persecuzioni e delle atrocità.
  «La mamma ci aveva raccontato in parte la storia, teneva un diario personale per ognuno di noi bambini, dove e da chi era stato nascosto finché dopo la guerra non ci ha recuperati. Per me c'è stato un risvolto emotivo: mia madre ha fatto di tutto per farci crescere sereni, lontani dal trauma. Era la prima volta che ero esposto al suo dolore».
  Un trauma tenuto dentro a forza anche per le drammatiche circostanze che, solo tre anni dopo, il Paese si trovava a vivere con la guerra del '48 di fronte a cinque eserciti arabi schierati. «Il processo è stato un'opportunità unica per la rielaborazione del rapporto tra le due generazioni», dice Yablonka. Ricorda ogni dettaglio come fosse ieri, Gabriel Bach, 94 anni oggi, viceprocuratore per l'accusa durante il processo. La prima volta che incontra Eichmann a Gerusalemme, dopo il rapimento del Mossad, aveva appena terminato di leggere l'autobiografia di Rudolf Hess, comandante del campo di Auschwitz. Hess descrive come capitava che in un giorno venissero uccisi anche mille bambini ebrei e che proprio Eichmann gli spiegava perché i bambini dovevano essere uccisi per primi: «Qual è la logica nell'uccidere gli adulti se si lascia una generazione di vendicatori che può ripristinare questa razza?». Dieci minuti dopo, Eichmann era di fronte a lui. «Voleva consultarsi con me sulla nomina dell'avvocato».
  Alla fine, la scelta ricadde su Robert Servatius, già difensore di nazisti al processo di Norimberga. La famiglia Eichmann non se lo poteva permettere e fu Israele a pagarne il compenso. Eichmann era sorvegliato costantemente da un'unità della polizia istituita ad hoc. Decine di poliziotti si alternavano nei turni, disarmati e senza legami familiari con sopravvissuti «per evitare di rendere difficile il servizio o di mettere a rischio la vita del prigioniero», spiega lo storico Yossi Hemi, che ha in uscita un nuovo libro sul ruolo della polizia israeliana nel processo Eichmann. Tra le testimonianze, quella del sovrintendente capo Michael Goldman, dell'Unità 06 responsabile delle indagini. «Fu come vedere riaprirsi la porta del crematorio»: così ricorda il momento in cui sentì Eichmann parlare per la prima volta. Il primo giugno 1962 fu uno dei pochi presenti all'unica pena di morte comminata dallo Stato ebraico.
  Dopo l'impiccagione, il corpo fu cremato. Goldmann, il prete e due poliziotti, salparono al largo delle acque territoriali israeliane per disperdere le ceneri in mare. «Istintivamente ho recitato il verso biblico: "Possano così perire tutti i tuoi nemici, Israele". Qualcuno accanto a me ha risposto "Amen"».

(la Repubblica, 10 aprile 2021)


Napoleone e gli ebrei di Francia: uno sguardo contemporaneo

di Pierre Savy

Nella storia degli ebrei di Francia, la sequenza rivoluzionaria e imperiale (1789-1815) costituisce un vero e proprio spartiacque sul piano politico: da una parte, quelli furono gli anni dell'emancipazione vera e propria (con l'ottenimento della cittadinanza e dell'uguaglianza, 1790-1791) e, grazie alla convocazione del "Grand Sanhédrin" (1806-1807), dell'istituzionalizzazione dell'ebraismo francese. Dall'altra, troviamo l'emanazione del "decreto infame" del 1808 e, più in generale, la spinta verso una politica di "rigenerazione" degli ebrei (già nell'ambiguo Saggio sulla rigenerazione fisica e morale dei Giudei dell'Abbé Grégoire, del 1787), insieme a diverse dichiarazioni pesanti di Napoleone sul "sangue ebraico". Un'ambivalenza profonda, che spiega la grande pluralità di opinioni sull'atteggiamento di Napoleone nei confronti degli ebrei: non a caso, nel libro più importante sulla questione, L'Aigle et la Synagogue (Fayard, 2007), Pierre Birnbaum parlava di una "cacofonia".
  A prima vista, il lascito istituzionale sembra importante. Ai 71 ebrei del Sanhedrin presieduto dal rabbino David Sintzheim, furono fatte 12 domande, alcune a cui era facile rispondere (sulla poligamia o il divorzio, sul sentimento di fraternità degli ebrei di Francia nei confronti degli altri francesi) e altre più malevole, come questa: "Può un'ebrea sposare un cristiano o una cristiana un ebreo?"; o altre, molto delicate, che riguardavano la giurisdizione e la polizia degli ebrei. Il risultato fu l'istituzione di una comunità ebraica francese, una struttura che garantiva il rispetto della religione ebraica. Le odierne istituzioni ebraiche francesi ne sono la continuazione e, in quanto primo rabbino capo del Concistoro centrale, il rabbino Sintzheim fu il primo "grand-rabbin de France", un titolo che esiste tuttora.
  Ma questo riconoscimento ufficiale supponeva anche di limitare fortemente le prerogative delle comunità: era il prezzo dell'assimilazione alla nazione. Chi sottovaluta la gravità della rinuncia alle autonomie ebraiche è troppo condizionato dalla situazione attuale, in cui la tradizione di self-government ebraico è molto indebolita, addirittura in Israele: ormai si limita ai problemi di carattere "religioso" (secondo una distinzione perfettamente estranea alla tradizione ebraica: non tratteggia forse il Talmud mille argomenti, di cui molti non "religiosi"?). Ma, per secoli questa tradizione di autonomia fu una realtà costitutiva degli ordinamenti politici.
  L'ambivalenza e la dimensione fondatrice del momento napoleonico nella storia ebraica fanno sì che esso rimane presente nel dibattito pubblico francese. Lo dimostrano un paio di articoli sulle pagine de Le Monde dell'inverno 2020 con posizione "incrociate" dell'americano James McAuley - preoccupato per "il futuro dell'ideale universale francese" - e del francese Marc Weitzmann, che invece si dichiarava critico su quest'ideale. Poche settimane fa, nel marzo 2021, si è discusso dell'uso politico dell'integrazione napoleonica che ha proposto Gérald Darmanin, il molto di destra ministro dell'interno francese. Nel suo libro, appena uscito (Le séparatisme islamiste, Éditions de l'Observatoire, 2021), Darmanin ha suggerito di prendere il processo di integrazione degli ebrei sotto Napoleone come modello per quella dei musulmani nella Francia di oggi e questo approccio ha sollevato dure critiche, che sono arrivate a sfiorare il sospetto di antisemitismo per alcuni passaggi (va detto, peraltro, che, pochi mesi prima, a proposito del cibo kasher e halal, lo stesso Darmanin aveva confessato di "essere sempre rimasto sconvolto quando, entrando in un ipermercato, [si trova davanti] un reparto di cucina comunitaria").
  Ma questi sono simboli e materie politiche. Con l'imporsi della laicità "alla francese", definibile come una progressiva "invisibilizzazione" dell'identità religiosa degli individui nello spazio pubblico, le cose sono cambiate. La legge di separazione tra Stato e Chiese del 1905 pose fine alle istituzioni ebraiche napoleoniche come istituzioni pubbliche. Oggi, in Francia, le comunità ebraiche, pur avendo un "consistoire" e una struttura centralizzata forti, eredità della politica imperiale, sono molto meno integranti - anche perché sono molto più numerose - che in Italia, dove vige un concordato e dove, grosso modo, l'iscrizione alla comunità rimane per gli ebrei un fatto comune: un'organizzazione di stampo risorgimentale ma che è anche conseguenza dei Patti Lateranensi (1929) e che rende l'identità ebraica italiana più ufficiale e più visibile di quella francese. Il lascito napoleonico pesa più al livello dei simboli e della cultura storica comune che come realtà politica concreta e, paradossalmente, gli ebrei italiani conoscono una strutturazione più "napoleonica" di quelli francesi.

(Shalom, 10 aprile 2021)



Il segno del profeta Giona (3)

di Marcello Cicchese
  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
"Alzati, va' a Ninive", ha detto Dio a Giona. E' un invito alla decisione: "Muoviti - sembra dire il Signore - c'è un compito per te". E Giona si muove, con decisione, ma per andare... da un'altra parte. Dio gli aveva indicato una città precisa: Ninive, e Giona individua per il suo viaggio una città altrettanto precisa: Tarsis, che si presume si trovi nella lontana Spagna, quindi situata in direzione esattamente opposta a quella indicatagli da Dio. A Ninive ci si va via terra, a Tarsis invece via mare. Il mare nella Bibbia è accostato al mondo dei gentili, e non è quindi molto familiare agli ebrei. Giona però è deciso: si alza e va. "Scende", più precisamente, a Giaffa, perché è da lì che partono le navi.
  All'inizio sembra andargli tutto bene: trova subito una nave che va proprio a Tarsis. Ma chissà se sono disposti a dargli un passaggio. Sì, sono disposti, ma chiedono soldi. E già, perché senza soldi a questo mondo non si fa niente. Giona lo sa, e poiché si era preparato anche finanziariamente, paga il prezzo richiestogli e s'imbarca per andare a Tarsis "con loro", i marinai pagani della nave.
  Per ben tre volte nel versetto 3 è ripetuto il nome della città scelta da Giona: Tarsis; e per due volte è ripetuto il motivo del viaggio: fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno. In questo versetto sono citati i tre protagonisti fondamentali del racconto: Dio, Israele (nella persona di Giona) e le nazioni (nei marinai pagani). L'origine di tutto il fatto sta in un disaccordo fra Israele e Dio. Ma perché Israele? qui si parla di Giona. Dio però ha deciso di operare storicamente nel mondo attraverso lo strumento che si è personalmente formato e ha costituito come suo servitore: Israele. Nei rapporti con il suo servitore Dio sceglie di volta in volta chi sarà il membro del popolo con cui decide di interloquire. Dopo Mosè gli interlocutori di Dio sono stati in maggior parte profeti da Lui autonomamente scelti, perché le autorità politiche, a parte Davide e pochi altri, sono stati quasi sempre parte del problema, non della soluzione.
  Nel periodo che precede le grandi invasioni in Israele dei popoli pagani ci sono due profeti che occupano un posto di rilievo: Elia e Giona. Due profeti molto diversi fra loro, ma con due cose in comune: ad entrambi Dio dà l'ordine di andare verso qualcuno a svolgere un compito, ed entrambi dopo aver eseguito l'ordine manifestano il desiderio di morire. Anzi, chiedono direttamente a Dio di farli morire.
  Ordine di Dio a Elia:
    La parola dell'Eterno fu su Elia dicendo:: "Va', presèntati ad Acab, e io manderò la pioggia sul paese» (1Re, 18:1)
  Replica di Elia a Dio dopo aver eseguito l'ordine:
    "Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino, andò a sedersi sotto una ginestra, ed espresse il desiderio di morire, dicendo: 'Basta! Prendi ora, o Eterno, l'anima mia, poiché io non valgo più dei miei padri!' (1Re 19:4)
  Ordine di Dio a Giona;
    La parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo: "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia" (Giona 1:1-2).
  Replica di Giona a Dio dopo aver eseguito l'ordine:
    "Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me è meglio morire che vivere" (Giona 4:3).
  Un altro elemento comune alla storia dei due profeti è che entrambi, su precisa indicazione del Signore, sono portatori di benedizione in terra pagana. Elia porta la salvezza dalla morte per fame alla libanese vedova di Sarepta e inoltre le risuscita il figlio (1Re 17); Giona porta agli assiri di Ninive la salvezza dal giudizio di Dio per la loro malvagità e la possibilità di convertirsi ed essere perdonati. Entrambi dunque hanno eseguito un incarico che rientra nel ruolo assegnato alla nazione promessa da Dio in Abramo: essere in benedizione a tutte le genti.
  Perché allora i due profeti finiscono il loro servizio scoraggiati? Il Signore poteva soltanto essere contento, dal momento che i suoi ordini erano stati eseguiti; come mai invece i due profeti sono scontenti? Una lettura antropocentrica del testo si dilungherebbe in considerazioni psicologistiche o moralistiche sulle debolezze dell'animo umano o la tendenza alla ribellione di chi è sottoposto ad ordini, ma ogni spiegazione di fatti narrati nella Scrittura che aspiri ad avere legittimità biblica non può che essere teologica, cioè deve mettere in primo piano la parte svolta dal personaggio principale, che è Dio.
  Nel caso di Elia, nella terna Dio-Israele-nazioni la parte delle nazioni è svolta dalla moglie libanese di Acab, Iezebel, che uccideva i profeti di Dio e alla cui mensa mangiavano i profeti di Baal e Astarte. Dopo il grandioso spettacolo del fuoco che cade sull'olocausto e lo consuma, dopo che gli ottocentocinquanta profeti di Baal e Astarte erano stati scannati dalla folla, dopo che la pioggia assente da mesi si era riversata torrenziale sulla terra, Elia forse si aspettava che su Acab e Iezebel si sarebbe abbattuta con violenza la giusta ira di Dio, e con questo sarebbe stato chiuso il capitolo del loro regno.
  Ma questo non accade, e Iezebel è ancora lì, più decisa che mai, e promette vendetta. Elia è frastornato, deluso da Dio più che spaventato da Iezebel, di cui conosceva bene la ferocia. Dopo che tutto il popolo aveva gridato "l'Eterno è Dio", rifiutando gli idoli portati nella nazione dalla pagana Iezebel, perché Dio le concede ancora spazio? Perché le concede di minacciare di morte un profeta che ha manifestato tutta la potenza autorevole di Dio? Non capisce il comportamento di Dio e non capisce più che cosa ci sta a fare ancora lui. Forse è stata qualche sua mossa sbagliata a non permettere la piena riuscita del piano di Dio, si chiede. E allora, per usare un linguaggio moderno, presenta a Dio le sue dimissioni da profeta. E poiché sa che il posto di profeta è un vitalizio, sa anche che rimettere la sua qualifica nelle mani di Dio non può che significare chiedergli di morire. E così fa.
  Ma Dio non accetta le sue dimissioni. E l'azione di recupero con cui provvede a liberare il suo avvilito servitore in preda a lugubri pensieri è di una delicatezza davvero sublime, letteralmente divina (1Re 19). Nessuno psicoterapeuta potrebbe imitarla, perché è una rivelazione di Dio su come Egli vuole trattare gli uomini, non un'istruzione agli uomini su come devono trattarsi fra di loro.
  Nel primo capitolo del libro che stiamo esaminando la parte di Israele è svolta da Giona e quella delle nazioni dai marinai. L'ebreo Giona è in collera con Dio, e "non lo vuole più vedere", quindi se ne va lontano dalla faccia dell'Eterno. Ma è possibile fare questo fisicamente? Risponde il re Davide:
    "Dove me ne andrò lontano dal tuo spirito? dove fuggirò dalla tua faccia? Se salgo in cielo tu vi sei; se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti lì. Se prendo le ali dell'alba e vado ad abitare all'estremità del mare, anche qui mi condurrà la tua mano, e la tua destra mi afferrerà" (Salmo 139:7-10).
Chi vive sulla terra non può certo sperare di fuggire fisicamente da un Dio che ha formato i cieli e la terra. Ma quello che Giona vuol fare nella realtà storica in cui si muove è allontanarsi corporalmente da ciò che ricorda la presenza di Dio in mezzo al suo popolo: il Tempio di Gerusalemme. Questo lo può fare, e lo fa. Giona vuole ricominciare da capo, vuole rifarsi una vita, lontano da tutto ciò che gli ricorda la presenza di un Dio che l'ha deluso. Tarsis per lui è un programma di vita, una nuova vita normale, in mezzo ad uomini comuni che hanno i comuni problemi di tutti. Si è imbarcato non solo per andare a Tarsis, ma per andare con loro a Tarsis. Sulla nave, e forse anche dopo, avrebbe fatto vita con loro, che certamente non mangiavano kosher. Ma che importa! Giona aveva nascosto la sua origine, non aveva detto di essere ebreo e certamente avrebbe voluto continuare così, perché su quella nave non dovevano esserci differenze: siamo tutti uomini, con gli stessi bisogni e gli stessi problemi. Bisogna reciprocamente aiutarsi, non dividersi per questioni religiose.
  Sulla nave certamente ciascuno aveva qualche divinità a cui rivolgere invocazioni e preghiere, e se questo serviva a vivere meglio la vita di tutti i giorni, perché mettersi a discutere su chi fosse il dio migliore? A Giona questo andava bene: viaggiare insieme agli altri, parlare di cose pratiche e lasciare che ognuno si tenesse stretto il suo dio in quel momento per lui era la cosa migliore. In discussioni religiose comunque non sarebbe entrato, ma avrebbe mantenuto un rispettoso silenzio. Altrimenti avrebbe dovuto contrastare l'idolatria dei religiosi pagani, ma nello stesso tempo avrebbe dovuto rivelare la situazione di rottura che in quel momento esisteva fra lui e Dio.
  In questo modo Giona pensava di aver arrangiato al meglio la sua convivenza sulla nave con i marinai pagani.
  E' a questo punto che interviene Dio. Come con l'avvilito servitore Elia, anche col corrucciato servitore Giona Dio non si presenta direttamente e con parole, ma indirettamente e con azioni. Al profeta depresso che nel deserto aveva chiesto di morire, Dio aveva mandato un angelo, che senza sbrodolarsi in dolci parole d'amore e comprensione, gli aveva dato un ordine secco: "Alzati, e mangia". Con Giona invece l'azione di Dio è ancora più decisa:
    "L'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi".
Nelle traduzioni di solito si trova scritto che Dio scatenò un grande vento (tranne la vecchia Diodati che traduce lanciò) ma qui abbiamo scelto una traduzione più letterale perché il verbo serve meglio ad esprimere un movimento dall'alto verso il basso; inoltre è lo stesso verbo che viene usato per dire che i marinai gettarono a mare le mercanzie.
  Sulla nave non si fanno dispute religiose, ma l'incursione dall'Alto li obbliga a porsi il problema di Dio da un'angolatura non teorica, ma pratica. I marinai a bordo sono professionalmente preparati, ma la tempesta è talmente forte che non riescono a padroneggiarla, e questo per loro poteva voler dire che da qualche parte c'era un dio adirato con qualcuno presente a bordo. Non si sa qual è il dio arrabbiato e non si sa con chi ce l'ha, ma proprio questo obbliga tutti a invocare il proprio dio affinché plachi la sua ira e venga in soccorso della nave che sta per affondare. E così fanno tutti. Tranne Giona. Ed è qui che viene fuori la differenza fra Israele e le nazioni. Giona sa chi è il vero Dio e sa anche che sulla nave l'elemento di disturbo è lui. Si capisce allora perché non ha voglia di andare pregare insieme agli altri. Per prima cosa, non può accettare che il Dio d'Israele sia mescolato ai tanti dei a cui si rivolgono gli idolatri marinai; seconda cosa, non può chiedere aiuto a un Dio con cui è in palese disaccordo e da cui si sta volontariamente allontanando. Era riuscito fino a quel momento ad evitare i discorsi religiosi, ma adesso che tutti si sono messi a invocare i loro dei, è difficile per lui giustificare ancora la sua reticenza. E allora "svicola": s'imbosca nella stiva della nave e lì, inspiegabilmente, s'addormenta.
  E' difficile capire perché Giona è preso dal sonno in una circostanza così drammatica, ma se non sempre si riesce a dare precise spiegazioni, si possono almeno cercare. Nella Bibbia, naturalmente. Fa riflettere ancora una volta l'analogia tra i due profeti in fuga da Dio. Elia, dopo essersi inoltrato da solo nel deserto una giornata di cammino, si mise a sedere ed espresse a Dio il desiderio di morire, "poi si coricò e si addormentò" (1Re 19:5). Giona, dopo essere sceso da solo nel fondo della nave "si era coricato e dormiva profondamente". Che significa questo sonno in circostanze così prossime alla morte? Nei Vangeli si trova un fatto dello stesso tipo, sempre in prossimità della morte. Gesù prega nel Getsemani prima di essere arrestato; la sua anima "è oppressa da tristezza mortale" (Matteo 26:38); chiede a tre dei suoi discepoli di pregare e poi si allontana per pregare da solo; torna dai discepoli e "li trovò che dormivano perché gli occhi loro erano aggravati" (Matteo 26:43).
  Guardiamo come vengono interrotti questi sonni.
  Elia viene svegliato da un angelo che gli dice: "Alzati e mangia".
  Giona viene svegliato dal capitano della nave che gli dice: "Alzati e invoca il tuo Dio".
  I discepoli nel Getsemani vengono svegliati da Gesù che dice loro: "Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione" (Matteo 26:41).
  In tutti e tre i casi il fatto di addormentarsi è conseguenza passiva di un atteggiamento sbagliato dell'uomo e l'azione di risvegliare è espressione attiva di una volontà salvifica di Dio. Anche nel caso di Giona, il capitano che lo scuote è come un angelo che Dio usa per risvegliare il suo servo dal torpore in cui si era lasciato andare. Un morboso desiderio di morire simile a quello di Elia si era impadronito di Giona dopo lo scatenarsi del temporale e l'imminente affondamento della nave. Falliva il suo proposito di ricostruirsi una nuova vita a Tarsis e nello stesso tempo vedeva abbattersi su di lui la giusta punizione del Dio d'Israele da cui aveva tentato di allontanarsi. Lo risvegliano le parole brusche del capitano: "Che fai tu qui a dormire?" Già, ci sono anche i marinai, si ricorda Giona. Questo complica il suo rapporto con Dio. Loro sono pagani, idolatri, ma in questa faccenda non c'entrano: sono innocenti, questa tempesta non arriva per colpa loro. E sente il capitano che gli dice: "Alzati", proprio come gli aveva detto Dio in Israele, e lo supplica di invocare il suo Dio, dunque il Dio d'Israele, perché - dice il capitano - "Forse Dio si ricorderà di noi, e noi non periremo".
  Adesso Giona è messo alle strette. Aveva voluto fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno che gli aveva detto: alzati, e va' dai pagani; e si ritrova davanti la faccia del pagano che gli dice: alzati, e prega il tuo Dio. L'Eterno ha ritrovato il fuggiasco Giona.
  Ci sa fare, il Dio d'Israele, creatore dei cieli e della terra. Ha senso cercare di nascondersi davanti a Lui, come ha fatto Adamo? o tentare di fuggire lontano da Lui, come ha fatto Giona?

(3) continua

(Notizie su Israele, 11 aprile 2021)


 

Israele ha sconfitto il virus: gli investimenti decollano

di Jonathan Pacifici*

In Israele, quando finisci il servizio militare, ti porti appresso per settimane o mesi un'arma fantasma. E' il riflesso condizionato che manda la mano destra verso la schiena per verificare che il fucile di ordinanza sia lì a tracolla. Dopo tre anni di leva nei quali non puoi lasciarlo nemmeno per andare in bagno il tuo corpo fatica a credere che non sia più lì. Chi sa se sarà lo stesso con le mascherine, ci siamo chiesti spesso nell'ultimo anno. Sembra che lo scopriremo presto. Dal prossimo 18 aprile infatti, l'uso della mascherina, almeno all'aperto, non sarà più obbligatorio.
   E' forse il più emblematico risultato dello strepitoso successo della campagna vaccinale israeliana. Partiamo dai numeri: su una popolazione di 9.3 milioni, 5.282.545 vaccinati (56.81%) con una dose, 4.871.397 con due (52.38%). Il resto è composto da buona parte dagli 834.920 che hanno contratto il virus, dai 2,6 milioni di under 16 al momento non vaccinabili e da qualche centinaio di migliaia di irriducibili, più che altro frange estreme disadattate in villaggi beduini e qualche no-vax. I risultati sono stati stupefacenti: restano in tutto 4.931 contagiati attivi, test positivi allo 0,7%, 317 ospedalizzati gravi di cui 169 sotto respirazione assistita. Inutile dirlo, tutti non vaccinati. Ed i numeri migliorano di giorno in giorno. Dopo i risultati dei test Pfizer si attende poi a giorni il via libera dell'Fda per vaccinare la fascia 12-16 anni, circa 800.000 adolescenti. Le dosi ci sono così come un piano ad hoc che vede coinvolte le Hmo (casse sanitarie) ed il ministero dell'Istruzione. La vaccinazione avverrà direttamente nelle scuole ed il governo ritiene di poterla eseguire in poche settimane.
   In altri termini, Israele ha sconfitto il virus. La vita sta gradualmente riprendendo, ristoranti pieni, scuole funzionanti, uffici che si riempiono nuovamente. Girare per le strade di Gerusalemme e Tel Aviv oggi è un'iniezione di positività, di ottimismo e di fiducia nel futuro. L'onda d'urto del successo israeliano va ben oltre. Gli Emirati Arabi hanno annunciato che i cittadini israeliani vaccinati potranno accedere al Paese senza quarantena. Abu Dhabi ha fretta di mettere in moto la pax economica degli Accordi di Abramo e così mercoledì è atterrato al Ben Gurion Airport il volo inaugurale della Etihad Airways sulla nuova rotta Abu Dhabi-Tel Aviv. A bordo il neo-ambasciatore Uae Mohamed Al-Khaja, l'ambasciatore designato di Israele negli Emirati, Eitan Na'eh ed il ceo del gruppo Etihad Tony Douglas.
   Nel frattempo, Grecia, Cipro e Croazia si contendono il turismo estivo a colpi di passaporti verdi. Tutto questo in un'economia che al di là della flessione fisiologica di turismo e commercio al dettaglio non si è fermata per un attimo. Il primo trimestre del 2021 ha segnato un nuovo record per la Startup Nation con 5,3 miliardi di dollari raccolti dalle società tecnologiche israeliane, il 50% di tutto il 2020 che già era stato un anno record. Nello stesso periodo il Paese ha prodotto oltre 15 nuovi unicorni (società con valorizzazione sopra il miliardo), comprese due nuove Spac da oltre 10 miliardi.
   Martedì il Fondo monetario internazionale ha rivisto al rialzo le proprie stime Paese 2021, prevedendo una crescita del 5% ed una diminuzione della disoccupazione che scenderà sotto al 5% per fine anno, per attestarsi al 4,6% nel 2022. Positivi anche i dati sull'inflazione che dovrebbe essere attorno allo 0,7%, circa la metà di quanto previsto nella maggior parte dei paesi Ocse. Eppure, tutto ciò non è bastato al premier Netanyahu a sfondare alle ultime elezioni. Martedì King Bibi ha incassato l'incarico ma la caccia ai due responsabili necessari per far partire il suo nuovo esecutivo è tutt'altro che banale. Parafrasando Peter Ustinov, Israele non solo ha dato al mondo uno dei più grandi statisti dell'epoca moderna ma si è anche concessa il lusso di non votarlo.

* Presidente del Jewish Economic Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

(Milano Finanza, 10 aprile 2021)


Emirati e Israele partecipano a manovre aeree internazionali in Grecia

LONDRA - Le aeronautiche militari degli Emirati Arabi Uniti e di Israele parteciperanno alle manovre internazionali "Iniochos 21" presso la base aerea di Andravida, in Grecia. Oltre alla Grecia e ai due paesi, vi prenderanno parte anche Stati Uniti, Canada, Francia, Cipro, Slovenia e Spagna. "Iniochos 21", che sarà guidata dalla Polemiki Aeroporia (l'aeronautica militare della Grecia), si svolgerà dal 12 aprile al 22 aprile per simulare scenari di conflitto e di disastri. Israele è un ospite fisso delle manovre, ma l'inclusione degli Emirati è una novità dopo la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi.
   Una fonte a Tel Aviv, citata dal quotidiano panarabo edito a Londra "Asharq al Awsat", ha precisato che non è la prima volta che Emirati Arabi Uniti e Israele si esercitano insieme: già nel 2016, infatti, i velivoli dei due Paesi avevano preso parte all'esercitazione "Red Flag" tenuta dall'aeronautica degli Stati Uniti. Gli Emirati e la Grecia schiereranno velivoli F-16, mentre gli Stati Uniti parteciperanno con caccia F-15 e F-16, aerocisterne Stratotanker KC-135 e droni UAV MQ-9. La partecipazione israeliana di quest'anno include F-15 e F-16, mentre la Francia ha portato caccia multiruolo Rafale e Mirage 2000D. La Spagna parteciperà con cacciabombardieri F / A-18, mentre il Canada invierà otto ufficiali per partecipare all'esercitazione come controllori di volo a terra e Cipro contribuirà con un elicottero AgustaWestland AW139.
   
(Agenzia Nova, 10 aprile 2021)


Così Israele è tornato allo stadio

di Francesco Caremani

"Prima è ripartita la pallacanestro, poi la pallavolo e infine il calcio. Novemila tifosi in uno stadio da 30mila (all'inizio erano 5.000), 1.500 con una capienza di 15mila e così via". Parla il giornalista sportivo israeliano Uri Levy
  Dodici marzo 2021. È questa la data che i calciofili israeliani ricorderanno a lungo. Il giorno in cui, per la prima volta dopo un anno, sono potuti tornare allo stadio a tifare. In Israele, infatti, a causa della pandemia il calcio si era fermato il 5 marzo 2020, anche se è stata la pallacanestro il primo sport di squadra a giocare con il pubblico a fine febbraio, una specie di esperimento pilota. La partita di calcio si è giocata al Teddy Kollek Stadium di Gerusalemme alla presenza di 1.500 tifosi, tra Hapoel Jerusalem e Ramat HaSharon, serie B israeliana, finita 1-0 per i padroni di casa. Poi ci sono state le due partite di qualificazione a Qatar 2022 contro Danimarca (0-2) e Scozia (1-1), entrambe disputate al Bloomfield di Tel Aviv, con 5.000 tifosi presenti. "Prima è ripartita la pallacanestro, poi la pallavolo e infine il calcio. Novemila tifosi in uno stadio da 30mila (all'inizio erano 5.000), 1.500 con una capienza di 15mila e così via; per quanto riguarda il basket, invece, siamo al dieci per cento della capacità dell'impianto. Al momento possono accedere solamente vaccinati e guariti esibendo i certificati da cellulare, ma il governo sta pensando di aprire pure agli altri con test rapidi prima della partita", spiega al Foglio Uri Levy, giornalista sportivo israeliano, fondatore del blog Babagol, uno dei più seguiti a livello internazionale nel circuito dell'indie journalism, tifoso dell'Hapoel Jerusalem e titolare dell'Estudiantes Tel Aviv (IFLI League, sesta divisione israeliana), con un debole per Tottenham Hotspur, Psg e Celta Vigo.
  Le regole sono semplici. Distanziamento sociale e biglietti digitali, niente carta, alcun contatto. Inoltre si devono produrre le relative certificazioni agli steward e ai poliziotti che lo richiedono, tutto scaricabile dal sito del ministero della Salute israeliano con la propria carta d'identità. "Tutto molto semplice" dice Levy, il quale ci racconta un'altra realtà: "Il nostro governo ha gestito male la crisi pandemica. Poi sono arrivati i vaccini e a dicembre è partita la campagna che è stata molto rapida grazie al nostro sistema sanitario nazionale e ai dati posseduti che gli permettono di raggiungere direttamente ogni paziente. Prima è toccato ai più anziani e fragili, poi over 60, over 40, dai sedici anni in su e infine lo hanno aperto a tutti. Anche da noi ci sono i no-vax, ma al momento abbiamo vaccinato quasi cinque milioni di abitanti, il 52 per cento della popolazione. Ancora utilizziamo la mascherina e abbiamo una media di 320 nuovi casi il giorno, ma mai sopra i 500". Il vaccino in Israele, più che altrove, è pure argomento politico: "Gli araboisraeliani possono fare il vaccino come tutti gli altri ma molti di loro non vogliono, nonostante grandi campagne mediatiche di influencer arabi. Per quello che so l'Autorità Palestinese non voleva ricevere i vaccini da Israele e hanno rifiutato il suggerimento di costruire punti vaccinali in più luoghi con loghi israeliani, quindi hanno aspettato quello russo per vaccinare i più anziani. Tuttavia 150.000 palestinesi che lavorano in Israele possono farlo e molti lo hanno già ricevuto", afferma Uri Levy.
  Intanto gli atleti israeliani qualificati si stanno allenando e preparando per Tokyo 2021 che sarà un altro passo fondamentale del ritorno alla normalità dello sport mondiale, con molte incognite. Per quanto riguarda il calcio, invece, alcuni giocatori hanno contratto il Coronavirus ma la maggior parte adesso è vaccinata, sia nei vari club che in Nazionale e questo evita, per esempio, quello che è accaduto all'Italia e sta accadendo in serie A. Il Covid-19, però, ha colpito duro anche in Israele: "La situazione economica delle società calcistiche è pessima, soprattutto di quelle più piccole e con meno risorse. Stanno ancora in piedi grazie agli aiuti governativi, ma tutti temono il dopo, quando questi finanziamenti non ci saranno più. Non c'è stata un'organizzazione particolarmente efficace per questo tipo di ristori, ma alla fine tutte le società sportive, in qualche modo, sono state aiutate", racconta Uri. Levy si divide tra Gerusalemme e Giaffa nell'attesa di riprendere a viaggiare: "È cambiato il modo di lavorare, più da remoto e maggiormente tecnologico, ma quello che mi manca davvero è la libertà di andare all'estero e assistere agli eventi sportivi, per poi raccontarli ai nostri lettori. Il calcio senza tifosi non è niente, è deprimente, ma ho continuato a seguire le partite locali per sentirmi vivo e per raccontare agli israeliani e ai palestinesi cosa accadeva e cosa era il calcio dentro gli stadi al tempo della pandemia".
  Babagol è specializzato nel narrare il calcio di quelle porzioni di mondo generalmente dimenticate, dal Medio Oriente all'Africa, dall'America Latina all'Asia, sempre con un taglio sociale, politico e culturale: storie alternative, che è la cifra di questa testata e del suo fondatore. "La pandemia ci ha cambiati, nel modo di pensare e di vivere, al di là di tifosi e giornalisti sportivi, nonostante il nostro continuo ritorno verso la normalità, molto persone lavorano da casa e la loro vita si è adattata a questa situazione. Anche Babagol è cambiato. Abbiamo iniziato a descrivere il calcio sotto la lente del Coronavirus, continuando a offrire la nostra edizione scouting, scoprendo talenti in giro per il mondo, e long-form. Pure le storie sono cambiate, ma non è cambiato il modo di raccontarle e la passione per il calcio, quello vero, con i tifosi, quella c'è ancora". Una passione che nelle ultime settimane, in Israele, ha rivisto la luce, mentre altrove cova sotto la cenere, sognando (come in tutti gli altri settori fermi, dalla cultura alla ristorazione), il giorno in cui sarà possibile tornare allo stadio a tifare e cantare.

(Il Foglio, 10 aprile 2021)


Iran, nuove centrifughe per l'arricchimento dell'uranio

«No a colloqui con Usa fino a revoca sanzioni»

L'Iran ha inaugurato delle nuove centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. La cerimonia si è tenuta a Natanz, sede di un complesso nucleare. La tv di Stato non ha mostrato le immagini delle centrifughe ma ha realizzato un collegamento con gli ingegneri dell'impianto che hanno raccontato di aver introdotto esafluoruro di uranio dopo aver ricevuto l'ordine dal presidente Hassan Rohani.
   Avviata una linea di 164 centrifughe IR-6 e un'altra delle 30 IR-5: «Sono in grado di poterci fornire una quantità di prodotto dieci volte maggiore rispetto alla precedente», ha detto il presidente. «Tutte le attività nucleari sono solo a scopi pacifici e per scopi civili. Come ha detto in diverse occasioni la Guida Suprema - ha rassicurato Rohani - per la nostra giurisprudenza è vietato rincorrere un'arma che potrebbe costituire un grande pericolo».
   Gli Stati Uniti, durante i colloqui di Vienna che hanno l'obiettivo di salvare l'accordo nucleare, si sono detti «pronti» a ritirare le sanzioni per Teheran quando «tornerà a rispettare gli obblighi dell'accordo».
«Non ci sono stati tra gli Usa e l'Iran colloqui diretti o indiretti a Vienna o altrove perché non c'è bisogno di trattative dal momento che il Jcpoa (l'accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015, ndc) è stato negoziato in ogni dettaglio e gli Stati Uniti devono dimostrare a tutti, non solo sulla carta, che vogliono invertire la rotta rispetto all'era Trump, che vogliono attuare integralmente e fedelmente il Jcpoa e revocare tutte le sanzioni illegali contro l'Iran». Si è espresso così il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Saeed Khatibzadeh, in una lunga intervista a Christiane Amanpour per la Cnn. Secondo il portavoce, a Vienna si sono registrati «passi positivi da parte del gruppo 4+1» (Cina, Francia, Regno Unito e Russia più la Germania) e i colloqui «hanno dimostrato che sono possibili progressi», mentre il lavoro si concentra sulla definizione di una «lista di sanzioni che gli Stati Uniti dovrebbero effettivamente rimuovere».
   Il gruppo 4+1, ha insistito, «ha i canali per parlare con gli Usa e sapere cosa effettivamente pensano». E, ha proseguito, «se Stati Uniti e Iran potranno di nuovo parlare dipenderà da se gli Usa torneranno nell'accordo e al tavolo del Jcpoa», in un momento in cui è «quasi impossibile credere negli Stati Uniti soprattutto dopo quattro anni di costante guerra economica contro il popolo iraniano» durante l'Amministrazione Trump.

 La produzione di uranio arricchito in Iran
  Dall'inizio di quest'anno l'Iran ha prodotto 55 kg di uranio arricchito al 20%, mentre l'attuale accordo del 2015 prevede tra le altre cose per la Repubblica islamica il limite massimo dell'arricchimento di uranio al 3,67%. La quantità annunciata è superiore a quella prevista in base alla legge iraniana - emanata come rappresaglia al ritiro degli Usa dall'intesa -, che indica una soglia media di produzione 10 kg al mese.
   Secondo il portavoce, l'obiettivo annuale fissato in 120 kg potrebbe essere raggiunto entro agosto. Stando all'ultimo rapporto trimestrale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), al 16 febbraio Teheran aveva prodotto 17,6 kg di uranio arricchito al 20%. La soglia è comunque ancora significativamente inferiore al 90% richiesto per poter arrivare all'atomica, che l'Iran ha sempre negato di volere.

(Il Messaggero, 10 aprile 2021)


Israele, il risveglio dopo il vaccino

Ristoranti, mostre, cineme, compleanni, scuole, strade e anche spiagge che si riempiono di persone... Cronaca di un ritorno (possibile) alla normalità.

di Claudia Fellus

All'inizio si fa capoccella piano piano. Non sei abituato alla luce dopo un anno oramai. I cauti incontri, distanziati e con mascherina, hanno trasformato l'isolamento in abitudine di vita. Gli unici contatti sono separati dallo schermo del computer o del telefono. Poi il primo vaccino, ancora cautela, il secondo e la sensazione della conquista della libertà. Quantomeno ho fatto qualcosa per battermi contro chi ci ha privato degli affetti, della socialità anche lavorativa (anche se lo smart working ha il suo perché se alternato alla presenza).
   Tom, diciassettenne figlio di mia cugina, mi parlava spesso dello strappo violento che aveva provocato sui ragazzi l'assenza dell'altro. La mancanza della scuola. Come tutti sappiamo. "Vaccinano i 17enni per poter tornare a scuola a prepararsi per la maturità." Ha detto, lo sguardo sorridente, con un sorriso che viene da dentro. La campagna di vaccinazione era già avanzata, e la popolazione più anziana era stata tutta messa in sicurezza.
   La riapertura è stata lenta, cauta. Ogni settimana si sono riattivate categorie ormai in letargo. E le strade sono tornate ad essere piene. Anche le spiagge. Il primo ritorno fu ad un compleanno di un'amica. Improvvisamente ho avuto la sensazione di essere risvegliata da un sogno. Quattordici persone intorno a un tavolo che festeggiavano un'amica con la gamba rotta. Che chiacchieravano amabilmente. La prima riunione sociale rilassata dopo una vita. E si era di nuovo capaci di trasferirsi affetto, chiacchiere frivole. Ogni volta, i primi tempi c'era un filo di commozione e tanta cautela. Finestre aperte ma un allegro cinguettio.
   "Un compleanno che ricorderemo per sempre", abbiamo esclamato tutte infilandoci la mascherina per uscire.
   Una sera tornando a casa mi sono fermata davanti a un noto ristorante italiano per chiedere del grasso d'oca per fare una carbonara. C'era un signore fuori con dei bambini. Sentendomi parlare italiano col cuoco, mi si avvicina e sussurra "io sono vaccinato due volte e lei?" "anche io" rispondo e lui felice con la sua mascherina mi chiede consigli sul menu, cerca cose davvero italiane e ci salutiamo felici di fare parte della medesima corrente di pensiero: "W la scienza".
   Un altro passo importante verso la riconquista della vita condivisa è stata l'anteprima della riapertura del Museo della storia con aggiunta del contemporaneo del popolo ebraico. La visita era organizzata per una importante associazione di amici dell'arte. Eravamo una quarantina, non conoscevo nessuno ma ero affascinata dal ritorno alla cultura condivisa, ma soprattutto dalla gioia dei presenti. Poter fare una visita con la curatrice, in questo anno di pandemia ci eravamo abituati a guardare persino le mostre su FB.
   Forse il momento di rottura è stato con la riapertura al pubblico dei ristoranti la sera. Eravamo abituati, da più di 8 mesi, alla sola possibilità di asporto. Non più sedute conviviali intorno a del buon cibo e una bottiglia di vino ma carbonari incontri in case private con cibo ordinato in pochissimi a distanza e con finestra aperta.
   Le strade di Tel Aviv la sera si rianimano. Finito il lockdown, ma soprattutto lentamente nell'immaginario collettivo si fa strada il pensiero che forse, potremmo aver sconfitto il "Corona"?
   Nessuno osa dirlo continuiamo a camminare per le strade con la mascherina ma di fatto la vita si riappropria di noi. I pub sono pieni di ragazzi, ballano, cantano, bevono, si abbracciano. Non temono più di contagiare ed ammazzare i nonni o i genitori. Gli anziani sono vaccinati! Sembrano dei reduci di una guerra che solo un'arma ha potuto combattere: la solitudine e l'isolamento.
"Sono aperto da 30 anni, mai nella storia della mia attività ho lavorato così tanto." Ovunque si sente questo refrain. Come se l'astinenza così lunga avesse spinto la gente a uscire, acquistare, consumare, divertirsi.
   Tornare in palestra, poi al cinema, a teatro. Un'unica domanda all'ingresso: Hai il passaporto verde? Non c'è legge che ti obblighi a vaccinarti né che impedisca l'accesso ai non vaccinati, ma c'è un non detto, di autodifesa: chiunque entri in un luogo chiuso vuole essere certo che siano tutti coperti dalla vaccinazione. Nessuno vuole correre rischi e soprattutto nessuno vuole tornare indietro. Le palestre fanno lezione a quelli senza passaporto verde all'esterno, i ristoranti, se hanno posto li fanno sedere fuori.
   Cinema, teatri, centri commerciali è tutto preso d'assalto. Si torna alla vita pre Covid, con cautela, ancora con le mascherine al chiuso, ma con una corrente di energia solidale, con commozione si torna a quel passato che ci era sembrato oramai il retaggio di un'altra epoca.
   Mai avrei pensato che avrei provato commozione in un centro commerciale affollato (odio i centri commerciali, affollati poi non ne parliamo) né che avrei pianto sedendomi su una comoda poltrona di fronte al grande schermo cinematografico, mentre sfiorando il braccio di un amico mi chiedevo se era realtà o un sogno.
   Ci siamo chiesti se e come avremmo ricominciato. Ci siamo detti che probabilmente non sarebbe stato più come prima. E la commovente e gioiosa sorpresa è che abbiamo ritrovato le nostre abitudini del passato e ci siamo rientrati affamati e bramosi di riprenderci tutto. Ce lo stiamo riprendendo con cautela, anche se con le ultime feste ebraiche il vaccino è stato messo a dura prova dall'euforia. Nonostante questo i numeri di contagi, malati gravi e morti continuano a scendere. Incrociamo le dita e ringraziamo la scienza.
   Con la speranza che gli Stati possano presto ottenere i vaccini per riportare la popolazione alla vita. Perché da quello che viviamo qua si può dire che c'è una luce in fondo al tunnel grazie all'arma che la scienza ci ha fornito, per batterci contro l'invisibile nemico che ci impediva di rapportarci con gli altri. Tranquilli non ci si abitua al sonno della socialità affettiva, né a quello culturale, basta riattaccare la spina e saremo in grado di riprendere a camminare, all'inizio con cautela, ma poi con una gioia infinita. Come sta succedendo qui.

(la Repubblica, 9 aprile 2021)


40 notti di guerra discreta

Dalle esplosioni nel Mediterraneo ai raid aerei agli sciami di droni contro le raffinerie del greggio, il conflitto in accelerazione tra Iran e Israele (e i loro alleati) è appena un timido blip fra le notizie

di Daniele Raineri

Da un punto di vista tecnico Iran e Israele non sono due paesi in guerra. Dal punto di vista della realtà, sono a capo di due grandi schieramenti che si fanno la guerra tutti i giorni lungo un fronte che attraversa molti paesi come Libano, Siria, Iraq e Yemen e passa anche per il Mediterraneo orientale, il Mar Rosso e il Golfo dell'Oman. E' una guerra senza eroi, senza monumenti, senza battaglie ma con molti morti e rischia tutti i giorni di diventare un conflitto più grande in una zona strategica del mondo. La chiusura accidentale del canale di Suez in confronto è stata uno scherzo. E' una guerra camuffata da altre guerre: gli Ansar Allah contro i sauditi e le milizie irachene contro gli americani fanno parte anche loro della grande contesa per decidere chi controlla quella regione e alla fine i poli che si vogliono annullare a vicenda sono due: Israele e l'Iran dei pasdaran. Però i due poli sono diventati due grandi blocchi e coinvolgono molti alleati: l'Arabia Saudita, il regime siriano, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti, il Libano, lo Yemen e altri. E' una guerra d'intelligence ma con molta azione e però non viene percepita. Non c'è un racconto unificato, di essa abbiamo soltanto una sequenza infinita di frammenti, di piccole notizie, di comunicati, di trafiletti di giornale. Abbiamo provato a raccogliere i frammenti degli ultimi quaranta giorni, è un campione assolutamente random che però rende l'idea di cosa sta succedendo laggiù. Ci sono stati altri periodi molto peggiori, ma è proprio il flusso casuale delle notizie a far paura. Abbiamo escluso grandi temi, come l'offensiva di terra a Marib in Yemen o l'arresto di sicari iraniani in Etiopia - mandati a colpire diplomatici degli Emirati Arabi Uniti. E' la guerra dei trafiletti di giornale e a volte non ci sono nemmeno quelli (altre volte invece una singola notizia ruba tutta la scena: vedi il bombardamento ordinato da Joe Biden). In qualche caso li abbiamo un po' espansi per dare più informazioni.
  E' giovedì 25 febbraio, i commandos iraniani attaccano la nave da carico Helios Ray nel Golfo dell'Oman. Qualcuno ha verificato che il cargo è di proprietà israeliana e britannica e questo lo rende un bersaglio nella guerra in mare tra Israele e l'Iran. Non è chiaro come arrivano i commandos così vicini alla Helios Ray, forse escono da un piccolo sottomarino classe Ghadir - che diventa invisibile quando si acquatta sul fondale molto basso in quell'area - o forse usano uno di quei mezzi ancora più piccoli che i sabotatori possono cavalcare sott'acqua. E' una versione con tecnologia aggiornata delle missioni che faceva la Decima Mas italiana contro le navi inglesi ottant'anni fa e funziona ancora perché il Golfo è una strettoia affollata, è come avvicinarsi di soppiatto a qualcuno sulla banchina della metropolitana all'ora di punta. La regola non dichiarata di queste rappresaglie incrociate tra iraniani e israeliani dice che per adesso le navi devono essere danneggiate ma non affondate, quindi le mine magnetiche sono piazzate sopra la linea di galleggiamento. Questo ne riduce di molto la potenza perché una grande parte della forza dell'esplosione si disperde verso l'esterno - se esplodessero sotto la linea di galleggiamento invece succederebbe il contrario e la forza dell'esplosione compressa dall'acqua si sfogherebbe di più contro la fiancata. Il concetto è: costringere le navi a tornare al porto più vicino con gli scafi bucati e interrompere il loro viaggio, senza uccidere chi è a bordo. Due giorni dopo un team di specialisti israeliani mandato a Dubai (a Dubai negli Emirati Arabi Uniti, un viaggio che è possibile soltanto grazie agli accordi di agosto 2020) scrive in un rapporto che i sabotatori hanno applicato quattro mine, due per fiancata, e forse l'hanno fatto quando la nave israeliana era all'ancora proprio nel porto di Dubai pochi giorni prima.
  Poche ore dopo alcuni aerei americani entrano nello spazio aereo siriano e lanciano sette bombe da 230 kg contro la base Imam Alì delle milizie irachene filoiraniane. Le milizie sono irachene e sono tollerate in Iraq, ma usano spesso quella base nel deserto siriano appena al di là del confine - che dispone di enormi hangar sotterranei e si ingrandisce sempre di più - per non mettere troppo in imbarazzo il governo dell'Iraq, che così non è costretto a giustificarsi con gli americani (il governo americano spende ancora molti soldi per appoggiare le forze armate irachene nella campagna di sicurezza contro lo Stato islamico). E' venerdì 26 febbraio ed è il primo raid aereo dell'Amministrazione Biden. Il presidente americano lo ha autorizzato come rappresaglia per un bombardamento con ventiquattro razzi da parte delle milizie contro la città di Erbil, nel nord dell'Iraq, avvenuto due settimane prima.
  Domenica 28 febbraio, due giorni dopo. In Yemen c'è una milizia armata e addestrata dall'Iran che si fa chiamare Ansar Allah, in arabo vuol dire i partigiani di Dio. Il loro motto in cinque parti è: "Dio è il più grande, morte all'America, morte a Israele, maledetti gli ebrei, vittoria per l'islam". I media spesso li chiamano "ribelli Houthi" invece che usare il nome che loro stessi si sono dati, ma è ormai dal 2015 che controllano la capitale dello Yemen e di sicuro non sono più "ribelli". Siedono nei palazzi del governo e controllano la maggior parte del paese. Michael Knights, un esperto dell'area, li chiama "southern Hezbollah", gli hezbollah del sud, e questa definizione indica due cose: lo Yemen è il fianco sud di un'unica, grande guerra che attraversa tanti paesi diversi della regione e Ansar Allah è un gruppo armato che dipende dall'Iran, come Hezbollah in Libano. Il nemico diretto degli Ansar Allah su quel fronte sono i sauditi. Conosciamo la ferocia del principe erede al trono saudita Mohammed bin Salman - che è considerato il mandante dell'uccisione di Jamal Khashoggi ed è impegnato in una campagna di public relation e di riabilitazione permanente, anche con la partecipazione di Matteo Renzi - ma questo non rende migliori i soldati di Ansar Allah, che sono accusati di esecuzioni, di sequestri e di torture di massa contro i civili dai report indipendenti di Amnesty. Quella domenica Ansar Allah spara un missile Zulfiqar (come la spada a due punte di Maometto) contro la capitale saudita Riad e lancia anche nove droni esplosivi Sammad-3. Inoltre manda sei droni esplosivi Qasef-2k contro altre città. Gli ordigni volano tra i mille e i millequattrocento chilometri prima di raggiungere con precisione i loro bersagli, è come bombardare Milano dall'Aspromonte calabrese. Di solito i sauditi riescono a intercettare questi oggetti volanti con le loro batterie di missili, ma è una sorveglianza costosissima e ci sono attacchi ogni settimana. Negli ultimi anni sui giornali sono apparsi articoli suggestivi sugli "sciami di droni", se ne parlava come di uno stratagemma per disorientare e sopraffare le difese dei nemici. Tra sauditi e yemeniti questa ipotesi futuristica è la normalità di tutti i giorni.
  Sempre domenica 28 febbraio. Gli aerei israeliani bombardano di notte gli iraniani in Siria, vicino alla capitale Damasco. Lo fanno per bloccare i trasferimenti di missili dall'Iran, tutta la zona a sud della capitale è un grande scalo in mano agli iraniani che dormono in edifici civili e controllano basi anonime, mentre si occupano di spostare armi vicino al confine con Israele in vista di un possibile conflitto aperto. Qui la distanza è più ridotta, fra Damasco e Gerusalemme ci sono duecento chilometri. E' il quinto raid aereo dall'inizio dell'anno.
  Lunedì 1 marzo. Gli aerei israeliani bombardano di nuovo gli iraniani in Siria, vicino alla capitale Damasco. Per farlo non devono nemmeno entrare dentro lo spazio aereo della Siria. Volano sul mare verso nord, costeggiano il Libano, salgono in quota e quando sono ancora sul confine montagnoso tra Libano e Siria sganciano bombe che planano nell'aria per decine di chilometri con un sistema di guida che le porta sui bersagli mentre gli aerei sono già di ritorno verso le basi. Le bombe sono molto più piccole dei jet e quindi sono molto più difficili da intercettare.
  Mercoledì 3 marzo. Le milizie iraniane lanciano razzi contro la base americana di al Asad, in Iraq. Nel dicembre 2018 il presidente americano Trump l'aveva visitata per fare gli auguri ai soldati, era considerata più sicura del resto del paese.
  Giovedì 4 marzo. Gli yemeniti di Ansar Allah sparano un missile Quds-2 ("Gerusalemme") contro un impianto di Aramco, la compagnia petrolifera saudita, sulla costa a nord di Jedda. La rete del greggio è un ovvio bersaglio dei bombardamenti perché è l'unica risorsa dei sauditi. Sono passati quattro giorni dall'ultimo attacco.
  Domenica 7 marzo. Ansar Allah lancia un drone esplosivo contro il terminal petrolifero di Ras Tanura, in Arabia Saudita, da dove passa ogni giorno il sette per cento della domanda di petrolio di tutto il mondo. I sauditi scrivono un comunicato per dire di avere intercettato diciotto droni esplosivi nelle ultime quarantotto ore. All'aeroporto internazionale di Riad i ritardi e le interruzioni dei voli civili in attesa di avere il via libera fra un allarme e l'altro sono un fatto normale. I jet sauditi bombardano Sana'a, la capitale dello Yemen.
  Mercoledì 10 marzo. I commandos israeliani attaccano una nave iraniana davanti alla costa della Siria, la Shar e Kord. Secondo le fonti sentite dal New York Times l'unità militare incaricata di queste operazioni è lo Shayetet 13, il gruppo di sabotatori della Marina israeliana, e a partire dal 2019 ha attaccato "almeno dieci navi, ma il numero reale potrebbe essere venti". Piazza mine magnetiche sulle navi iraniane che trasportano greggio, armi e tecnologia militare verso la Siria in violazione delle sanzioni internazionali. La regola, come si diceva prima, è fermare il traffico ma non affondare i carghi - per evitare accuse e conseguenze internazionali. "Siamo in guerra a fari spenti", dice Hossein Dalirian, un analista militare dell'Iran. Su una delle navi colpite c'era un miscelatore per combustibile solido che serve a produrre il propellente usato nei razzi ed era destinato a Hezbollah che così avrebbe potuto produrre il combustibile per i suoi missili - il miscelatore che aveva era stato distrutto in un bombardamento israeliano su Beirut nel 2018. Il combustibile solido ha molti vantaggi su quello liquido, è una miglioria che tutti gli armieri vogliono. E' chiaro che questi attacchi in mare e i raid aerei in Siria contro bersagli precisi a terra sono soltanto l'atto finale di una raccolta di informazioni che va avanti senza sosta da parte degli israeliani. Per mitigare il problema, adesso le navi iraniane si mettono in convoglio dietro a una nave russa che le aspetta e con la sua presenza garantisce protezione. E' un balletto che si vede con chiarezza quando le navi attraversano in fila il canale di Suez. Anche la Shar e Kord aveva fatto così, ma quando è arrivata sotto la costa siriana e la nave russa di scorta si è allontanata una carica esplosiva piazzata in qualche modo a bordo è esplosa lo stesso.
  Martedì 16 marzo. Jet israeliani bombardano di notte gli iraniani in Siria vicino alla capitale Damasco, è il settimo raid aereo dall'inizio dell'anno. Jet sauditi fanno saltare in aria un Rc-Wbied lanciato in mare dagli yemeniti di Ansar Allah, il video dell'operazione è pubblicato. La sigla vuol dire: remote controlled water born improvised explosive device, in pratica è uno scafo con motore fuoribordo e carico di esplosivo guidato da lontano, è un motoscafo-drone. Può attaccare le navi nemiche che passano nel Mar Rosso se non viene individuato e fatto saltare in aria prima come succede in questo caso. Gli Ansar Allah quando fanno queste manovre ricevono informazioni dalla nave militare iraniana Saviz, che mascherata da mercantile sta quasi sempre alla fonda dalla parte opposta rispetto al traffico di navi che passa davanti alle coste dello Yemen. E' stata scoperta nel 2017, ma continua a fare da sentinella galleggiante quasi sempre nella stessa posizione per tenere d'occhio chi passa. Saviz è un nome che tornerà più avanti.
  Venerdì 19 marzo. Il conteggio dei droni e dei missili lanciati da Ansar Allah contro i sauditi nelle ultime due settimane arriva a 52.
  Giovedì 25 marzo. La milizia irachena Raballah sfila per le strade di Baghdad con i suoi veicoli, i passamontagna sui volti e le armi. Minaccia il governo, vuole la cacciata degli americani. E' una creazione dell'Iran e prende ordini dall'Iran, ma non se ne parlerà nel nuovo round di negoziati sul programma atomico iraniano che è in corso in queste settimane in due hotel di Vienna, in Austria. E' come se il programma atomico fosse un esercizio diplomatico-scientifico, non collegato a quello che succede nel resto della regione. Raballah vuole fare la guerra ai soldati americani in Iraq, ma i tempi dell'invasione del 2003 sono lontanissimi, gli americani sono soltanto duemilacinquecento e si occupano di raccogliere informazioni e di guidare i raid aerei contro lo Stato islamico (per fare un raffronto: i vigili urbani a Roma sono seimila). Il governo iracheno ha detto più volte che i militari americani sono essenziali nella campagna contro il terrorismo.
  Sabato 27 marzo. Due motoscafi-droni lanciati da Ansar Allah sono intercettati in mare dai sauditi.
  Martedì 30 marzo. Per la prima volta le milizie irachene usano una bomba magnetica contro un convoglio che andava a rifornire una base americana. E' lo stesso concetto già usato in mare contro le navi, evita ai sabotatori di dover aspettare al varco il convoglio.
  Mercoledì 31 marzo. Bomba contro un convoglio di rifornimenti destinato agli americani in Iraq.
  Venerdì 1 aprile. Bomba contro un convoglio di rifornimenti destinato agli americani in Iraq.
  Domenica 4 aprile, Pasqua. Cinque bombe contro cinque convogli di rifornimenti destinati agli americani in Iraq. Due razzi contro una base americana a nord di Baghdad.
  Martedì 6 aprile. Commandos israeliani piazzano mine magnetiche contro la nave militare iraniana Saviz, già menzionata prima, che da anni finge di essere un mercantile all'ancora nel Mar Rosso per tenere d'occhio chi passa e raccogliere informazioni. Le foto da bordo mostrano la sala macchine allagata, la Saviz è stata colpita sotto la linea di galleggiamento - e come abbiamo visto è una rottura della regola tacita che era stata rispettata per due anni. Gli esperti di fotografie satellitari scoprono che un sottomarino israeliano classe Dolphin era in navigazione proprio in quella zona e i suoi spostamenti sono compatibili con l'attacco. Poteva portare una squadra dello Shayetet 13 a bordo. In un pezzo del New York Times succede l'inaudito: fonti militari americane dicono di essere state avvertite da fonti israeliane dell'attacco, che sarebbe avvenuto alle sette e mezza locali, e in molti notano che la portaerei americana Eisenhower era nella zona fino a poco tempo prima ma si era allontanata in fretta, come se non volesse essere presente sulla scena.
  Mercoledì 7 aprile. I jet israeliani bombardano di notte gli iraniani in Siria, vicino alla capitale Damasco.

(Il Foglio, 9 aprile 2021)


Attacco israeliano a Damasco, quattro feriti siriani

di Patrizio Ricci

Attacco israeliano a Damasco nella notte tra 7 e 8 aprile, feriti 4 soldati siriani
Le difese aeree siriane hanno intercettato e distrutto i missili lanciati da Israele dalla direzione del Libano e dalle alture del Golan verso la capitale siriana Damasco, lo ha riferito l'agenzia di stampa statale SANA.
"Intorno alle 00:56 di oggi, il nemico israeliano ha effettuato un attacco aereo con raffiche di razzi dalla direzione del territorio libanese mirando ad alcuni punti nelle vicinanze di Damasco. Le nostre difese aeree hanno affrontato l'aggressione e hanno abbattuto la maggior parte dei razzi ", ha detto SANA citando una fonte militare.
Il presunto attacco israeliano ha ferito quattro soldati e ha causato alcune perdite materiali, aggiunge il rapporto.
I media statali siriani hanno trasmesso filmati di ciò che si diceva fossero le difese aeree che reagivano, con luci intense che si vedevano esplodere nel cielo notturno.
Al-Manar la TV libanese di Hezbollah ha riferito che il suo corrispondente ha visto un razzo della difesa siriana inseguire un aereo militare israeliano nella zona di confine e sono state udite esplosioni in tutto il Libano.
Gli attacchi arrivano dopo che nelle ultime settimane sono stati segnalati una serie di voli cargo tra Siria e Iran.
Gli attacchi aerei sono stati nove da gennaio, con attacchi attribuiti a Israele segnalati nella Siria orientale, meridionale e occidentale ogni mese dall'inizio dell'anno. Tuttavia, la maggior parte di loro si trova su obiettivi vicino a Damasco
Le difese aeree siriane hanno intercettato e distrutto i razzi lanciati da Israele dalla direzione del Libano e dalle alture del Golan occupate da Israele verso la capitale siriana Damasco, ha riferito l'agenzia di stampa statale SANA.

(Vietato Parlare, 9 aprile 2021)


Gli Usa ripristinano gli aiuti ai palestinesi

Stanziati 235 milioni di dollari

WASHINGTON - Gli Stati Uniti hanno ripristinato gli aiuti alla popolazione palestinese che erano stati congelati dalla precedente amministrazione di Donald Trump, stanziando 235 milioni di dollari. Lo ha reso noto il Dipartimento di Stato americano, precisando che 150 milioni di dollari saranno inizialmente disposti all'Unrwa, l'organizzazione dell'Onu che si occupa dei profughi palestinesi.
Altri 75 milioni di dollari saranno destinati a progetti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, e 10 per la pace e la sicurezza.
I fondi statunitensi serviranno anche ad aiutare i palestinesi a fronteggiare la pandemia di covid-19.
Gli Stati Uniti intendono promuovere «prosperità, sicurezza e libertà» sia per gli israeliani sia per i palestinesi, ha detto il segretario di Stato americano, Antony Blinken, aggiungendo che il ripristino dei fondi all'Unrwa serve anche a fare progressi verso un accordo su una soluzione a due Stati.
L'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Gilad Erdan, si è detto deluso dalla decisione di Washington.

(L'Osservatore Romano, 9 aprile 2021)


Come dire "mai più" alla Shoah

di Fiamma Nirenstein

La premessa indispensabile per poter dire never again, mai più, è capire che i sei milioni di uccisi fra cui mio nonno, sua moglie, cinque fratellini di mio padre in Polonia, due fratelli della mia nonna Lattes Volterra, tutta la famiglia di mio zio Nedo Fiano, sono stati assassinati per una sola ragione: perché erano ebrei.
   Alle dieci di ieri nelle scuole di Israele i bambini con la maglietta bianca si sono fermati al suono della sirena come le auto, i passanti, la gente al supermarket. Abbiamo ripercorso verità insopportabili, infinite storie: come a Wansee fu sancito dai nazisti che era necessario uccidere i bambini perché da grandi non si vendicassero; come una bambina si arrampicava sul mucchio dei morti a Babi Yar e trovata la mamma l'abbracciava; come nella notte bulgara sotto zero due tedeschi urlano a una mamma coi bambini che hanno cinque minuti prima della deportazione; come nel ghetto di Lodz fu intimato alle famiglie di consegnare i loro bambini. E altre mille memorie, mille espressioni della fantasia antisemita su cui si pretende di dire «never again» senza neppure riconoscerla.
   La storia riporta connivenze pressoché onnipresenti con la Shoah; oggi l'Onu si diverte a condannare Israele (105 volte contro 0 per la Cina e 5 per l'Iran); l'America e l'Europa vantano la ripresa del dialogo con l'Iran per un patto che non sarà mai osservato, senza una parola perché quel Paese ha giurato di distruggere lo Stato degli ebrei; Biden riapre un portafoglio milionario ai palestinesi e non si vede cura che i soldi non vadano in odio e terrore. Nel mondo lievita l'antisemitismo, l'ultima psicosi parla di cospirazione ebraica come causa del Covid. L'antisemitismo descrive oggi gli ebrei come attivi protagonisti di stragi naziste, colpevoli di praticare apartheid, pulizia etnica, genocidio... come i nazisti, no? Non è una criminalizzazione come quella degli anni '30? Se si parla di antisemitismo in genere, si distacca la loro immagine da quella di Israele, e gli ebrei ridiventano vittime della discriminazione e del razzismo, mentre Israele diventa nazista! Primo passo, capire, che la Shoah come sistematica distruzione di un popolo è stata praticata solo sugli ebrei perché ebrei. La macchina nazista ha triturato anche i gay, i rom, i politici, e per questo vanno onorati e ricordati. Ma la Shoah è la distruzione sistematica degli ebrei, teorizzata e praticata, e da poco la «variante» antisemita attuale trasforma l'antisemitismo in odio antisraeliano che si somma al ceppo antico, quello nostrano europeo. Se non lo si capisce, inutile dire «never again». Lasciate che lo diciamo da soli, qui, da Gerusalemme.

(il Giornale, 9 aprile 2021)


Stellantis, accordo con Israele per ricerca e sviluppo sulla mobilità

L'innovazione e il futuro di Stellantis passano anche per Israele. Se le piattaforme elettrificate dell'ex Gruppo PSA e l'accordo di FCA con Waymo di Google per la guida autonoma, erano già una bella base da cui partire per il consolidamento tecnologico della nuova creatura figlia della fusione FCA-PSA, quest'ultimo accordo va nella direzione di sviluppare e rafforzare la cooperazione nell'innovazione tecnologica, creando collaborazioni con imprese e soprattutto con le avanzatissime start-up israeliane.
L'intesa siglata da Ami Applebaum, presidente della Israel Innovation Authority, e Roberto Di Stefano, responsabile e-Mobility di Stellantis fa parte del programma di ricerca e sviluppo e collaborazione pilota dell'Authority con le multinazionali iniziato nel 2005. Le prime collaborazioni saranno focalizzate su assistenza alla guida, cybersecurity e industria 4.0. A riguardo è in atto uno scouting tra circa 30 start up da oltre un anno.
L'accordo prevede che l'Autorità - ente pubblico indipendente responsabile della politica di innovazione israeliana - aiuti FCA Italy a individuare le tecnologie israeliane che soddisfino esigenze specifiche del gruppo, fornendo supporto finanziario per la ricerca e lo sviluppo. Stellantis aiuterà sia attraverso investimenti, personale e attrezzature, sia tramite consulenza sulla strategia normativa, tecnologica o di marketing, le aziende israeliane coinvolte ad aprire opportunità di sviluppo dei loro business sui mercati esteri, sostenendo le start up selezionate.
Tra le società che hanno già firmato memorandum di collaborazione con la stessa Autorità ci sono, tra le altre, Intel, Audi, Adler Pelzer, Abbot, Unilever, Hewlett Packard, Ibm , Panasonic, Philips, Nielsen, Fujitsu e Renault. La globalizzazione e le alleanze non finiscono mai.

(il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2021)


Il rapporto Kantor sull'antisemitismo

"Complottismo, fenomeno da arginare"

Il mondo ebraico deve mantenere alta la guardia a fronte dell'aumento delle teorie complottiste antisemite, che hanno trovato terreno fertile nelle fragilità e insicurezze generate dalla pandemia. A dirlo, Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo, in occasione della pubblicazione del Rapporto annuale sull'Antisemitismo mondiale 2020 del Kantor Center dell'Università di Tel Aviv. "Il 2020 è stato un anno di disordine sociale, e di profonda polarizzazione globale. La pandemia ha creato le condizioni sociali in cui l'antisemitismo, il razzismo e l'estremismo prosperano - le parole di Kantor - Nell'ultimo anno, si sono diffuse teorie cospirative sugli ebrei, il popolo ebraico o lo stato di Israele, come se ci fossero loro dietro la pandemia, o comunque ne approfittassero. L'attenzione costante sul ruolo degli ebrei dietro gli eventi globali dimostra che l'antisemitismo, come centro delle teorie del complotto, non è andato via".
   Il report segnala come rispetto agli anni precedenti ci sia stata una diminuzione degli attacchi fisici antisemiti, in un 2020 caratterizzato da chiusure e severe restrizioni. Ad aumentare però sono stati gli attacchi online, con il rilancio delle citate teorie complottiste.
   Il documento, guardando ai diversi stati, parla di tendenze preoccupanti in Germania e negli Stati Uniti. In Germania, il Kantor Center segnala un aumento nel numero totale di incidenti, con la profanazione di memoriali e cimiteri ebraici, a cui si è affiancato un preoccupante fenomeno di strumentalizzazione della Shoah in riferimento alle campagne vaccinali. Un fenomeno non solo tedesco. "L'uso di immagini dell'Olocausto che circondano il Coronavirus è diventato dilagante. - il messaggio di Kantor - Le chiusure sono state paragonate a ghetti e campi di concentramento; i vaccini sono stati descritti come esperimenti medici malvagi, e le persone che rifiutano questi vaccini salvavita affermano di essere perseguitati e indossano stelle gialle". Gruppi sempre più organizzati, grazie soprattutto alla rete, hanno così inscenato proteste dai toni profondamente preoccupanti. Proteste non solo dirette a contestare le decisioni dei governi sulla pandemia, ma anche, nel caso dei complottisti di Qanon negli Stat Uniti, a mettere in crisi il processo democratico.
   Su questo fronte, Kantor reputa positivo l'intervento delle grandi piattaforme social per fermare. "La buona notizia è che grazie a una maggiore supervisione e azione da parte delle principali società di social media, e a una legislazione nazionale più forte contro l'odio online, il numero di incidenti antisemiti sulle principali piattaforme è diminuito - il suo commento - Tuttavia, mentre queste risposte sono benvenute e necessarie, non fermeranno l'odio online da sole. Come mostra il rapporto, l'odio si sposterà semplicemente più sottoterra verso altre piattaforme".
   Il rapporto mostra anche che negli Stati Uniti è stato osservato un graduale aumento degli incidenti violenti per diversi anni, raggiungendo 119 quest'anno, e anche la Germania ha visto una significativa escalation, del 24% nel numero totale di reati penali motivati dall'antisemitismo, raggiungendo 2.275 (rispetto ai 1.839 del 2019) - il numero più alto registrato dal 2001 - inclusi 59 incidenti violenti. In entrambi i paesi, il vandalismo ha rappresentato la maggior parte degli incidenti.
   
(moked, 8 aprile 2021)


Israele si ferma per ricordare le vittime dell'Olocausto

Alle 10 in punto (le 9 in Italia) Israele si è fermata per due minuti al suono delle sirene in ricordo dei 6 milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro complici. Ovunque fossero, gli israeliani hanno interrotto le loro attività: in silenzio si sono levati in piedi chinando la testa in rispetto della Memoria celebrata durante 'Yom ha-Shoah', giorno di dolore e di lutto tra i più solenni del calendario nazionale. Lungo le arterie cittadine o quelle principali del Paese le auto in viaggio e anche gli autobus hanno accostato e i passeggeri sono usciti mettendosi sull'attenti. Nel sacrario della Memoria di Yad Vashem a Gerusalemme - dove ieri sera si è svolta la cerimonia principale con 6 torce accese da altrettanti sopravvissuti - per ore saranno letti i nomi degli ebrei uccisi nella Shoah mentre alla Knesset i parlamentari ricordano i loro congiunti vittime dei nazisti. Cerimonie di commemorazione si sono svolte anche nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche e nelle basi militari. Quest'anno gli eventi previsti per Yom ha-Shoah si svolgono con la dizione 'Fino all'ultimo ebreo: 80 anni dall'avvio dello sterminio di massa. In Israele vivono circa 175mila sopravvissuti, 900 di loro sono morti in questo periodo a causa del covid.

(la Repubblica, 8 aprile 2021)


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Il discorso del Rabbino Capo di Roma alla cerimonia di Yom HaShoah

di Riccardo Di Segni

Il giorno di ricordo per la Shoà e l'eroismo fu istituito dal parlamento israeliano poco dopo la fondazione dello stato d'Israele, per commemorare insieme le vittime della Shoà e gli ebrei che vi si opposero combattendo; la data scelta fu quella in cui nel 1943 fu soffocata la rivolta del Ghetto di Varsavia. La scelta politica di sottolineare l'aspetto resistenziale ancora solleva polemiche; perché se è vero, contro una narrazione diffusa, che ci furono circa un milione di combattenti ebrei contro il nazifascismo, negli eserciti alleati e nelle file della resistenza, l'accento sulla lotta armata rischia di mettere in secondo piano il sacrificio delle vittime inermi. Ma questa è una polemica interna, che per quanto sia lacerante, è virtuosa.
  Altri problemi si affacciano ora sul fronte della memoria, di cui dobbiamo essere consapevoli. Dopo periodi di oblio, si è passati alla celebrazione ipertrofizzata e ora, negli ultimi tempi, a varie forme di attenuazione, confusione e annacquamento. Proprio sul tema della resistenza, il 25 Aprile è diventato, proprio qui a Roma, il giorno in cui si celebrano tutte le "resistenze", compresa quella anti israeliana. È una deviazione alla quale ci si siamo opposti e dobbiamo continuare a farlo senza compromessi.
  Il giorno della memoria del 27 Gennaio, faticosamente istituito dal parlamento italiano agli inizi degli anni duemila, si sta trasformando in giorno delle memorie, al plurale. Ora è vero purtroppo che non esiste solo il genocidio ebraico e che altri se ne sono presentati anche recentemente e non dobbiamo affatto ignorarli, ma non si può mettere sempre tutto insieme, perché per ricordare tutto alla fine non si ricorda più niente. Addirittura è stato scritto che bisogna aggiungerci il ricordo delle vittime del Covid. Come sappiamo la tragedia del Covid, che ancora imperversa, ha fatto più di centomila vittime nella sola Italia, è un incubo spaventoso, ma non c'entra niente con la Shoà; quest'ultima è il risultato della malvagità umana, a differenza della epidemia dove la responsabilità umana è al massimo nella incapacità di gestirla.
  Poi c'è la questione dei Giusti. È assolutamente opportuno ricordare l'azione meritoria di chi a rischio della propria vita ha salvato i perseguitati. Come è opportuno additare comportamenti esemplari di chi in situazioni di violazione di vite e diritti umani rischia la vita per difenderli. Ma attenzione a non dimenticare che se di giusti ce n'è stata una manciata, ci sono stati tanti malvagi, molti di più, e ancora di più di indifferenti; che le situazioni non sono mai comparabili; e che si rischia di far passare per giusto, con il voto di una commissione talvolta politicizzata, chi tanto giusto non lo è stato.
  C'è un dato comune in tutte queste operazioni, che pure potrebbero essere motivate da qualche buona intenzione, ed è quello di eliminare la specificità della nostra storia e del nostro martirio, mettere tutto in unico grande calderone, creare nuovi miti e finti santi, deresponsabilizzare i colpevoli e colpevolizzare le vittime o i loro discendenti. Per questo è assolutamente necessario vigilare.

(Shalom, 8 aprile 2021)


La diplomazia dei vaccini di Israele è diventata un vero gesto politico

di Jonathan Pacifici*

Gerusalemme si sta lasciando alle spalle la crisi Covid. Dopo le visite del cancelliere austriaco Sebastian Kurz e del primo ministro danese Mette Frederiksen, giovedì è stata la volta del premier ceco Andrej Babis e del primo ministro ungherese Viktor Orban. Appena due settimane fa aveva fatto notizia la decisione di Netanyahu di destinare almeno 100.000 dosi di Moderna ad una vera e propria campagna di diplomazia del vaccino. L'operazione era stata poi sospesa per problemi regolatori, non prima però che Praga ricevesse 5.000 dosi. Ora la campagna riprende e secondo l'emittente pubblica Kan i Paesi che dovrebbero ricevere dosi sono Cipro, Ungheria, Guatemala, Maldive, San Marino, Etiopia, Ciad, Kenya, Uganda e Guinea. Ci sarebbe anche la Mauritania, che con Israele non ha rapporti diplomatici ma presto potrebbe averne. Anche i diplomatici stranieri accreditati in Israele sono stati tutti vaccinati nonostante l'assenza di regime di reciprocità. Su richiesta degli Stati Uniti poi, Gerusalemme ha provveduto anche alla vaccinazione delle forze di Pace Mfo di stanza nel Sinai. Si tratta di 2.400 membri da 14 nazioni. Secondo il quotidiano londinese Asharq Al-Awsat Israele sta finanziando l'acquisto di dosi di Sputnik V per la nemica Siria. Il finanziamento sarebbe parte di un accordo di scambio di prigionieri con il regime di Assad mediato da Mosca.
   Sul fronte palestinese, questa settimana è iniziata la vaccinazione di circa 120.000 persone che entrano quotidianamente in Israele con regolare permesso di lavoro (circa 87.000) e dei lavoratori palestinesi nelle comunità ebraiche dei territori (35.000). Lo scorso giovedì è stato rodato il sistema con un pilot di 700 palestinesi vaccinati al checkpoint di Shaar Efraim. C'è chi sostiene che gli ordini fatti dal governo israeliano, ben oltre le necessità nazionali, prendono in considerazione il fatto che, alla fine, toccherà ancora una volta ad Israele supplire al malgoverno di Ramallah. Tutto questo è possibile perché Israele ha provveduto in tempi utili ad ordinare vaccini da più produttori, quando ancora non ne era chiara l'efficacia. Ora si ritrova con i magazzini pieni di validissime alternative e si prepara, non appena ci sarà l'ok dell'Fda, anche alla vaccinazione degli under 16 che dovrebbe finalmente portare all'immunità di gregge.
   Forte del successo vaccinale oggi Gerusalemme guarda avanti. La Uae ha annunciato «discussioni formali per stabilire un corridoio di viaggio senza quarantena» con Israele. Gli Emirati arabi uniti riconosceranno i certificati di vaccinazione israeliani e viceversa. Grecia e Cipro hanno già firmato accordi simili con Israele in vista della stagione estiva. Anche con gli Usa è al vaglio l'integrazione dei sistemi informatici per un più veloce scambio di informazioni. Sembra invece saltato, almeno per ora, il vero colpaccio di King Bibi. Il premier doveva volare ad Abu Dhabi per un tanto atteso incontro con il principe Mohamed bin Zayed Al Nahyan e, sembra, con lo stesso principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Un improvviso ricovero per appendicite della first lady Sara Netanyahu ha impedito il viaggio. Nell'era della diplomazia del vaccino la pace tra Israele e l'Arabia Saudita è ormai una questione di quando, non di se.

* Presidente del Jewish Economic Forum e General Partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 8 aprile 2021)


Le relazioni fra Unione Europea e Israele

Nell'emiciclo dell'Europarlamento il monito dei rappresentanti di Israele

di Eleonora Baldoni

In Israele vi sono ben 60mila startup, caratterizzate da un alto livello di innovazione tecnologica. E i rappresentanti di Israele promuovono rapporti di collaborazione con l'UE, attraverso nuovi accordi commerciali, ma non solo. Il tema è stato affrontato più volte nell'ambito di conferenze all'Europarlamento di Bruxelles. L'obiettivo è cercare di ottimizzare le relazioni economiche fra l'Unione e Israele, ipotizzando un ruolo di partner commerciale di primissimo piano per Israele. Infatti, Israele è oggi fra i primi posti al mondo in termini di startup e tecnologia.
  I rappresentanti di Israele intervenuti all'Europarlamento sostengono che la politica dovrebbe rimanere imparziale e ben lontana dalle logiche commerciali. Purtroppo invece ci sono regole e policy che creano un muro fra Israele e il resto del mondo: regole per cui fare business con Israele è dannoso e pericoloso. Invece il business non deve essere legato alla politica. L'immagine "territory restriction" dà l'idea che, essendo il territorio già occupato, non si può sviluppare nuovo business. Niente di più falso.
  Israele punta il dito verso l'industria elettrica (peraltro trattata nell'ambito del green deal): un settore nel quale il partner mediorientale potrebbe essere un'ottima risorsa per l'UE. Stessa cosa per quanto concerne le tecniche di agricoltura, importabili da Israele: potrebbero notevolmente migliorare la produzione agricola europea. La Spagna stessa, ma anche l'Italia, sono Paesi che potrebbero fortemente beneficiare degli aiuti tecnologici di Israele.
  Processi che passano attraverso la stabilità politica: Israele è una democrazia e in quanto tale deve essere considerata al pari degli altri Paesi democratici. Eppure, nell'emiciclo del Parlamento europeo tuonano queste parole: vi sono ancora Paesi che vogliono cacciare gli Ebrei dalla loro terra biblica. Israele si sente sotto pressione, gli israeliani si sentono esclusi vedendo che Paesi come Libano o Algeria hanno più incontri annuali con i vertici di Bruxelles.
  In merito all'eterno conflitto arabo-israeliano, nell'emiciclo di Bruxelles emerge un monito: come è possibile che l'UE, la culla della democrazia, possa trattare un altro Paese democratico con distacco e velato disprezzo? L'UE dovrebbe stare dalla parte dell'unico Paese del Medio Oriente che tratta uomini e donne allo stesso modo.
  Ma non tutta l'Unione vive di pregiudizi nei confronti di Israele. L'Olanda ha avviato programmi di acquisto di prodotti chimici, tecnologia, prodotti per la sicurezza, e cyberset cooperation. Un esempio da imitare.

(Punti di Fuga, 8 aprile 2021)


Gli israeliani spiavano gli sceicchi camuffati da cronisti de La Stampa

Inchiesta negli Usa: creato un profilo su Facebook di una finta reporter del nostro giornale e della Fox News. Agenti di una società hanno contattato negli Emirati i nemici di Ras Al Khaimah.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Agenti stranieri camuffati da reporter de La Stampa hanno tentato di raccogliere e divulgare informazioni volte a screditare la leadership degli Emirati arabi uniti. E quanto emerge da un'inchiesta del giornale online «Daily Beast» secondo cui l'azione è stata condotta da Bluehawk CI società di investigazioni private con sede in Israele. «All'inizio del 2020 individui che si sono spacciati per ricercatrice di Fox News e giornalista del quotidiano italiano La Stampa hanno approcciato due uomini coinvolti in contenziosi contro Ras Al Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti - spiega la testata Usa -. Gli impostori hanno tentato di carpire dai loro interlocutori informazioni circa le azioni legali che li vedono contrapposti alla leadership dell'Emirato». In un caso hanno agito su Facebook utilizzando nome e foto di utenti reali per creare il profilo fake di <Julia» fantomatica reporter de La Stampa. Con l'obiettivo di approcciare Kather Massaad, cittadino con doppio passaporto svizzero e libanese che ha lavorato come capo del fondo sovrano Rakia sino al 2012. «La scelta della testata - spiegano fonti informate - è legata alla sua assidua copertura delle vicende regionali, sino a quel momento». Nel 2015, i giudici hanno condannato Massaad in contumacia per appropriazione indebita di fondi. Accuse definite dal diretto interessato false e motivate politicamente, perché - sostiene - è considerato oppositore del governo dell'emirato.
   «La falsa giornalista italiana si è avvicinata a Massaad tramite un messaggio Facebook chiedendo di discutere il suo rapporto con il governo di Ras Al Khaimah», spiega Daily Beast. Lo scambio tra i due sarebbe stato molto limitato. Massaad insospettito da qualche incertezza dell'interlocutore non ha proseguito il colloquio. «A quanto pare, ha fatto bene - prosegue il sito Usa -, visto che il curioso giornalista italiano era un agente legato a Bluehawk CI». A smascherare il cacciatore di segreti reali è stato proprio Facebook che ha dimostrato come il falso profilo di cronista de La Stampa fosse stato illecitamente utilizzato dalla società israeliana di business intelligence. Il social ha adottato provvedimenti immediati tra cui la cancellazione dell'utente"fake".
   Completa estraneità quindi della testata, come ribadito in una nota del direttore Massimo Giannini. Stesso metodo è stato ha utilizzato con una finta«ricercatrice presso il canale di notizie Fox a New York», interessata a scrivere sui «numerosi casi di immigrazione e detenzione tra i confini degli Emirati e Penisola araba». La fantomatica "Samantha" ha contattato nel febbraio 2020 Oussama El Omari, cittadino americano che aveva lavorato come amministratore delegato della zona di libero scambio di Ras Al Khaimah e ha citato in giudizio l'emirato nel 2016 per un pagamento non corrisposto. La causa è stata archiviata nel 2017. Anche in questo caso è emerso il legame con la società fondata da Guy Klisman, ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana. Non è chiaro invece chi potrebbe aver assunto Bluehawk CI e perché. El Omari ha intentato un'azione legale sostenendo che dietro il falso giornalista Fox si celano dipendenti di aziende dell'emirato.
   
(La Stampa, 8 aprile 2021)


Nave iraniana colpita, il NYT: "Sono stati gli israeliani"

Una battaglia navale segreta dal 2019

Israele agisce "quando serve". Senza far riferimento alle 'voci' che indicano lo Stato Ebraico come responsabile dell'esplosione avvenuta sulla nave iraniana Mv Saviz due giorni fa nel Mar Rosso, il ministro della Difesa Benny Gantz al quotidiano Times of Israel ha detto: "Lo stato d'Israele deve difendersi. Ogni volta che c'è una sfida operativa o una necessità operativa, continueremo ad agire", Secondo il New York Times, i servizi segreti israeliani avevano avvertito gli Stati Uniti dell'operazione contro la Saviz, che è stata danneggiata da una mina a largo della costa dello Yemen. Un ufficiale americano coperto da anonimato ha affermato al giornale che Israele ha descritto l'operazione come una "rappresaglia per precedenti attacchi iraniani contro navi israeliane". Per gli 007 dello Stato ebraico il cargo fa parte della dotazione delle Guardie della rivoluzione come centro di comando per le operazioni nella regione dove le milizie Houti sciite sostenute da Teheran combattono contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato da una coalizione a guida saudita. Diversa la versione fornita dal regime degli Ayatollah. Il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh, ha sostenuto che la "nave civile Saviz come annunciato in precedenti dichiarazioni ufficiali e in coordinamento con l'Organizzazione marittima internazionale, stazionava nella regione del Mar Rosso e nel Golfo di Aden per fornire sicurezza lungo le rotte di navigazione e per combattere i pirati". In verità gli analisti parlano ormai da tempo di una guerra navale segreta fra Israele e Iran, fatta di colpi e ripicche. Prima del botto di due giorni fa, ecco le ultime schermaglie. Il 10 marzo una nave iraniana era stata colpita mentre era in navigazione nel Mediterraneo, il 25 febbraio invece nel Golfo di Oman c'era stata una esplosione a bordo di una nave israeliana. A rivelare il contesto era stato il Wall Street Journal secondo cui dal 2019 Israele ha colpito almeno 12 navi iraniane che avevano la missione di portare in Siria petrolio, armi ed altri rifornimenti. Proprio dal commercio di greggio le milizie sciite che agiscono in Siria per conto di Teheran trarrebbero i profitti per continuare a essere una minaccia alle porte dello Stato ebraico.

(il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2021)


Con la pandemia meno attacchi antisemiti ma più dissacrazioni di luoghi ebraici

Nati lo "zoom bombing" e il "Giudeovirus"

Nel 2020, anno della pandemia, gli attacchi antisemiti violenti nel mondo sono scesi a 371 dai 456 del 2019. Lo rivela l'annuale rapporto del Kantor Center dell'Università di Tel Aviv in cooperazione con il Congresso ebraico europeo diffuso alla vigilia di Yom Ha-Shoah, il giorno della Shoah, che in Israele si celebra domani. Al tempo stesso - ha rivelato il rapporto - si è assistito a un 20% di aumento nella dissacrazione delle sinagoghe (da 53 a 63 eventi), delle tombe e dei Memoriali della Shoah (complessivamente da 77 a 96) che sono rimasti chiusi o incustoditi per i vari lockdown e, per questo, «facile preda del vandalismo antisemita».
Inoltre, si sono sviluppati nuovi fenomeni su internet come lo "zoom bombing" e il "darknet". Da una parte, secondo il rapporto, il calo della violenza fisica è dovuta ai lockdown che hanno ridotto gli incontri tra gli ebrei e i gli antisemiti violenti, dall'altro, le accuse contro gli ebrei - ritenuti «responsabili del disastro globale» - si sono manifestate in «aperte espressioni antisemite» sui social media con la teoria del "Giudeovirus".
Tra i Paesi dove sono state maggiori le manifestazioni ci sono gli Usa con 119 incidenti violenti nel 2020 e la Germania salita nel totale dei casi da 2.032 (2019) a 2.275 (2020), inclusi 59 incidenti violenti. Per quanto riguarda l'Italia il Rapporto cita 8 «incidenti maggiori» nel corso del 2020.

(Il Messaggero, 7 aprile 2021)


Netanyahu (a processo) incaricato di formare il governo

di Davide Frattini

La foto scattata al primo giorno di scuola del nuovo parlamento li ritrae come compagni di banco che non si parlano più. Le spalle voltate l'uno all'altro, le braccia incrociate.
   L'alleanza d'emergenza tra i due Benjamin — Netanyahu e Gantz — per combattere la pandemia è finita ben prima di ieri, nelle campagna elettorale degli ultimi mesi erano tornati a essere avversari dopo la rottura che ha riportato il Paese alle elezioni e allo stallo politico.
   I leader di partito si sono presentati nella residenza a Gerusalemme del presidente Reuven Rivlin e hanno indicato il loro candidato a formare un governo o almeno a provarci: Netanyahu ha ricevuto il sostegno di 52 deputati (l'insieme dei gruppi di destra e degli ultraortodossi) mentre Yair Lapid si è fermato a 45: riunisce il centro-sinistra, compresi Gantz (ormai ridimensionato) e i laburisti.
   Nessuno dei due ha i numeri sufficienti per raggiungere la maggioranza di 61. Dopo le consultazioni e con una decisione «difficile dal punto di vista dei valori e della morale», Rivlin ha deciso di affidare il mandato al primo ministro in carica. Nonostante gli attacchi continui ricevuti dal Likud (da cui peraltro proviene) che lo considera ormai un nemico, il capo dello Stato negli ultimi anni ha già offerto per cinque volte a Bibi — com'è soprannominato — la possibilità di mettere insieme una coalizione. A questo giro il presidente è ancora più pessimista, convinto com'è «che nessun candidato possa farcela».
   Netanyahu ha 28 giorni (più un'estensione di 14, di solito concessa) per convincere Naftali Bennett a riportare a casa i suoi 7 deputati e a creare un governo di destra, nazionalista, con frange estreme razziste e omofobe.
   Per ora Bennett con la sua fazione ha indicato al presidente se stesso come possibile primo ministro: lascia aperta la porta per un'intesa con Lapid che eviterebbe agli israeliani di tornare a votare per la quinta volta in due anni e mezzo.
   In queste stesse settimane andrà avanti il processo per corruzione contro il premier che è stato obbligato a sedersi davanti ai giudici nelle ore in cui si discuteva del suo futuro politico. Prima dell'udienza ha attaccato la magistratura che accusa di aver «tentato un colpo di mano istituzionale contro un primo ministro forte di destra».
   Nahum Barnea, uno dei giornalisti più letti e rispettati in Israele, ha raccontato sul quotidiano Yedioth Ahronoth l'atmosfera dentro (e fuori) l'aula: «All'interno arriva il tam, tam, tam dei tamburi come nell'Argentina di Perón. Impossibile dire se a batterli siano i fedelissimi di Bibi o chi protesta contro di lui. Questa sentenza verrà decisa nelle strade, così ha voluto Netanyahu con una mancanza di scrupoli mai vista prima».

(Corriere della Sera, 7 aprile 2021)

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Insediato in Israele il 24° Parlamento

Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha inaugurato ieri la 24esima Knesset esortando i politici a dimostrare leadership, superare le divisioni fra le "tribù" d'Israele e dare finalmente al paese un governo stabile dopo quattro elezioni in due anni. Rivlin, che in mattinata ha dato a Benjamin Netanyahu l'incarico di formare il nuovo governo, ha poi disertato il tradizionale incontro con il premier, la presidente della corte Suprema e lo speaker della Knesset. «Oggi parlo davanti ad un Parlamento che si è sciolto quattro volte in meno di due anni. Un Parlamento che ha rinunciato, ogni vola al diritto ad esprimere la fiducia nel governo», ha detto Rivlin, ricordando che ci sono momenti in cui «dobbiamo superare il disaccordo, anche duro e doloroso». «Se non troveremo un nuovo modello di partnership che ci permetta di vivere assieme con mutuo rispetto, la nostra resilienza nazionale sarà a rischio», ha proseguito, dicendosi preoccupato per la sempre maggior divisione del Paese in quattro tribù: ebrei laici, religiosi, ultraortodossi e arabi.

(Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2021)


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Netanyahu ha l'incarico ma non la maggioranza

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il Nessuna sorpresa. Sarà il premier di destra Benyamin Netanyahu, vittorioso con il suo partito, il Likud, alle elezioni del 23 marzo, a tentare di formare una maggioranza di governo. Ieri il presidente Reuven Rivlin gli ha affidato l'incarico. Qualcuno aveva immaginato un incarico affidato a un altro esponente della destra, il nazionalista religioso Naftali Bennett. Ma Rivlin ha fatto la scelta più ovvia: Netanyahu, nelle consultazioni di lunedì, era stato indicato dalla maggioranza dei partiti. Il presidente non ha tenuto conto del processo in corso, entrato lunedì nel vivo, che vede il premier al banco degli imputati per corruzione. «Non è stata una decisione facile - ha spiegato Rivlin - Conosco la posizione di molti, che il presidente non dovrebbe dare l'incarico a un candidato che affronta accuse penali ma secondo la legge un primo ministro può continuare a svolgere il suo incarico mentre è sotto processo». Parole che non hanno convinto Yair Lapid, leader di Yesh Atid, il partito centrista giunto secondo. «L'incarico a Netanyahu è una macchia che proietta un'immagine negativa su Israele quale Stato di diritto>, ha commentato.
  Per Netanyahu non sarà facile trovare una soluzione. Il problema è legato proprio alla sua figura, molto divisiva, che gli ha procurato avversari irriducibili persino a destra. Al momento ha 52 deputati sui 120 della Knesset. Potrebbe trovare un'intesa con il partito nazionalista religioso Yamina (7 seggi), ma non arriverebbe alla maggioranza. Il partito islamista Raam, con 4 parlamentari, si è detto pronto a governare con chiunque ma la formazione di estrema destra Sionismo religioso (7 seggi), alleata strategica del premier, dando sfogo al razzismo esplicito di cui si nutre, esclude categoricamente di poter sedere in un governo assieme a una formazione araba. Possibilità persino più ridotte di formare una maggioranza ha il composito schieramento anti-Netanyahu. La Knesset insediatasi ieri avrà breve vita e forse già in estate gli israeliani torneranno alle urne.

(il manifesto, 7 aprile 2021)


Guerra tra Israele e Iran sempre meno sotterranea: colpita nave iraniana

di Franco Londei

La guerra sotterranea tra Israele e Iran sta prendendo sempre più una brutta piega. Una nave militare iraniana identificata come Saviz è stata colpita mentre era in navigazione nel Mar Rosso.
Stando ai rapporti la Saviz, che sarebbe classificata come nave da carico ma che le intelligence occidentali la danno come nave militare del corpo dei Guardiani della Rivoluzione, sarebbe stata danneggiata da una mina attaccata manualmente sullo scafo da mani presumibilmente israeliane.
I media iraniani ripresi anche dal New York Times la danno in fiamme.
Fino a pochi mesi fa si sapeva solo di attacchi israeliani contro basi iraniane in Siria e in Iraq, ma ormai da qualche tempo questa guerra sotterranea si è trasferita in mare ed è sempre più impostata a prendere di mira obiettivi ogni volta più importanti.
Tra parentesi va segnalato che la nave iraniana è stata colpita proprio nel giorno in cui i colloqui tra Stati Uniti e Iran per un ritorno al JCPOA sembravano aver fatto alcuni passi avanti e questo ha indispettito non poco Washington.
Ma qualcuno dovrà pur rispondere agli attacchi sempre più spregiudicati degli iraniani, qualcuno dovrà pur farsi carico di mettere un freno alle mire espansionistiche di Teheran. Gli americani non lo fanno, ormai è chiaro. Lo fa Israele e lo fa bene. Bisognerà vedere se basta.

(Rights Reporter, 7 aprile 2021)


Israele, al via le consultazioni per nuovo governo, ma è fumata nera

Molti articoli su Israele di Sharon Nizza compaiono sulle pagine di Repubblica soltanto online e soltanto per gli abbonati, di solito almeno un giorno dopo. Quello che riportiamo sotto, l’abbiamo trovato in rete oggi con la data del 5 aprile. E’ strano (ma solo in parte) che un giornale come Repubblica faccia un uso così limitato di un servizio così pregevole come quello di questa collaboratrice. NsI

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Tra la residenza del presidente dello Stato e il Tribunale distrettuale, oggi Gerusalemme ha vissuto una giornata che ha gli elementi di un vero e proprio giorno del giudizio per il premier in carica Benjamin Netanyahu: alle 9:00 di mattina si è aperta la fase dibattimentale del processo che lo vede imputato per corruzione, frode e abuso d'ufficio, mentre, a pochi chilometri dall'aula di tribunale, il Presidente Reuven Rivlin ha iniziato le consultazioni con i partiti per la formazione di un nuovo governo, in seguito alle elezioni del 23 marzo.

 Il coordinamento con i media
  Nella sua arringa di apertura, con Netanyahu seduto al banco degli imputati, la procuratrice Liat Ben Ari ha sostenuto che "il primo ministro di Israele ha abusato del suo potere concedendo benefici illegali in coordinamento con i media per promuovere i suoi interessi personali", sottolineando come "tutti sono uguali di fronte alla legge, il grande e il piccolo, il ricco e il povero, il potente e il semplice".
Al termine del discorso di Ben Ari è iniziata la prima testimonianza, che riguarda il "Caso 4000", in cui è co-imputato Shaul Alovitch, azionista principale del gigante delle telecomunicazioni Bezeq, con cui, secondo l'accusa, Netanyahu avrebbe negoziato copertura mediatica positiva sul sito di informazione Walla! - sempre di proprietà di Alovitch - in cambio di politiche governative favorevoli all'azienda. Il processo che entra oggi nel vivo dopo più di un anno di rinvii e fasi procedurali, si svolgerà a un ritmo di tre sedute a settimana.

 Il primo testimone: Ilan Yeshua di "Walla!"
  Il primo teste convocato è Ilan Yeshua, ceo di Walla! durante il periodo preso in esame. Durante la sua testimonianza - che potrebbe durare un mese - ha rivelato che il premier in carica era denominato dalla redazione "Kim", con riferimento al dittatore Nord coreano Kim Jong-un. Gli interventi di politici sui contenuti mediatici non sono insoliti, ha detto Yeshua, "ma 13 anni di richieste di politici non equivalgono a quanto domandava la coppia Netanyahu in una settimana".
I giudici hanno esonerato Netanyahu da presenziare alle udienze di Yeshua e il premier, al termine dell'arringa della procuratrice, aveva lasciato l'aula del tribunale. Nel tardo pomeriggio ha tenuto una conferenza stampa in cui ha attaccato la procura che "conduce una caccia alle streghe nei miei confronti".

 La fumata nera alle consultazioni
  Negli stessi momenti, la delegazione del Likud ha indicato al presidente il nome di Netanyahu come premier da incaricare per la formazione di un governo. Il Likud è uscito vincente dalla urne con 30 seggi e uno stacco significativo dal secondo partito, Yesh Atid dell'attuale capo dell'opposizione Yair Lapid, che ne ha ottenuti 17. Tuttavia, al momento Netanyahu può contare solo su 52 sostegni sicuri (16 dei partiti ultraortodossi e 6 della nuova formazione della destra nazionalista oltranzista di Betzalel Smotrich), lontano quindi dai 61 seggi (su 120) necessari a formare una maggioranza.
Yesh Atid ha raccolto invece 45 raccomandazioni, confermando la frammentazione in cui si trovano le opposizioni a Netanyahu e lo stallo politico. Le consultazioni sono andate avanti fino a tarda serata e il Presidente ha sentito per 45 minuti tutti i 13 partiti che hanno superato la soglia di sbarramento. Ma è stata una fumata nera.

 La proposta di Nuova Speranza
  Momenti di tensione si sono respirati alla residenza del Presidente quando è arrivato il turno di Nuova Speranza, il partito di Gideon Saar, ex ministro fuoriuscito dal Likud a dicembre. Il partito non ha infatti raccomandato nessuno come premier e si è fatto promotore di una iniziativa insolita, chiedendo al Presidente di mediare un incontro tra Naftali Bennett e Yair Lapid che possa portare a un accordo verso un governo paritetico con rotazione tra i due.
L'ispirazione viene da un atto simile intrapreso in via straordinaria dal Presidente Rivlin l'anno scorso quando, falliti i rispettivi tentativi di Netanyahu e Gantz di formare un governo, aveva promosso un incontro tra i due rivali che aveva portato poi al governo di rotazione durato otto mesi.
Ma il Presidente ha rimandato al mittente la richiesta, specificando che in questa fase si tratterebbe di un intervento politico che non gli compete e ha invitato Nuova Speranza stesso a mediare tra le parti. "La matematica non è un'opinione", ha detto Rivlin, lasciando intendere che con la maggioranza relativa di 52 raccomandazioni, spetta a Netanyahu tentare di formare un nuovo governo per primo.

 L'ipotesi di un nuovo governo Netanyahu
  Il presidente ha fino a mercoledì per sciogliere la riserva su a chi affiderà l'incarico. Se la decisione ricadrà su Netanyahu, ago della bilancia saranno gli unici due partiti che non hanno messo il veto al sostegno a una sua nuova coalizione, pur senza averlo raccomandato al Presidente: Yamina di Naftali Bennett, destra nazionalista che si è staccata dalle frange più estremiste di Smotrich nei mesi scorsi per presentarsi come possibile forza "digeribile" anche dal centro sinistra, e Ra'am di Mansour Abbas, il partito islamista fuoriuscito dalla Lista Araba Unita.
Netanyahu avrebbe 28 giorni - e un'eventuale estensione di altre due settimane - per cercare di raggiungere i 61. In uno degli scenari più discussi, otterrebbe il sostegno di Bennett, arrivando quindi a 59 seggi, e l'appoggio esterno di Abbas sarebbe sufficiente per evitare quinte elezioni almeno temporaneamente, con un governo di minoranza.
Senza un premier indicato da 61 mani, il presidente Rivlin ha specificato in apertura delle consultazioni che conferirà il mandato "al candidato con maggiori possibilità di formare una coalizione", che non necessariamente coinciderebbe con il partito che ha ricevuto il maggior numero di seggi. È una prerogativa che gli è conferita dalla legge, ma nel Likud urlano allo scandalo se questo dovesse avvenire, considerato il netto vantaggio ottenuto da Netanyahu alle urne.

 Una rotazione Bennett-Lapid
  Nelle ore che rimangono, potrebbe ancora rimanere uno spiraglio per un governo di rotazione Bennett-Lapid (al momento, entrambi hanno indicato se stessi come premier). Lapid, in una dichiarazione in tarda serata, lancia un appello ai potenziali alleati che non riescono ad accordarsi - e in particolare a Bennett - per non farsi tentare dalle offerte che arriveranno ora dal premier: "Netanyahu farà di tutto per spezzarvi: cercherà disertori, di rompere coalizioni. Non permetteteglielo".

(la Repubblica online, 5 aprile 2021)


Apre la tratta Abu Dhabi - Tel Aviv

di Carlotta Livoli

Gli accordi di Abramo stipulati lo scorso settembre tra gli Emirati Arabi Uniti ed Israele hanno posto le basi di nuovi rapporti politici, economici e diplomatici tra le due nazioni, favorendo la creazione di nuove dinamiche di cooperazione.
Proprio sulla scia di quanto stabilito dagli accordi, ieri il primo volo commerciale Etihad partito da Abu Dhabi è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, con a bordo l'ambasciatore israeliano negli Emirati Arabi Uniti Eitan Na'eh e l'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti in Israele Mohamed Mahmoud Al Khaja.
Tra i passeggeri, tutti vaccinati o guariti dal Covid, anche il CEO della compagnia aerea Etihad Tony Douglas ed una delegazione diplomatica ed economica degli Emirati Arabi Uniti dedita allo sviluppo del turismo tra i due paesi.
«Il volo rappresenta un momento estremamente significativo nella storia di Etihad - ha spiegato Douglas al Jerusalem Post - e siamo entusiasti delle opportunità che questo offre ad Etihad ed alla nostra casa, Abu Dhabi».

L'ambasciatore israeliano Nà-eh ha affermato di esser stato «travolto dalle emozioni» viaggiando sul primo volo Etihad tra Abu Dhabi ed Israele.
Il volo è stato accolto a Tel Aviv da un caloroso ricevimento di benvenuto.
Ai passeggeri è stato inoltre consegnato un certificato per ricordare un volo che senza dubbio lascerà il segno nella storia.
La nuova tratta segna un ulteriore passo avanti nei rapporti tra i due paesi coinvolti, essendo il primo volo regolarmente pianificato della compagnia Etihad tra le due capitali.
Già in ottobre Etihad aveva lanciato un sito internet in ebraico per i clienti israeliani desiderosi di visitare gli Emirati Arabi. E nel frattempo anche Israele si sta preparando ad un nuovo turismo. Inoltre, proprio ieri, WAM, l'agenzia di stampa ufficiale degli Emirati Arabi Uniti, ha aperto una nuova sezione in lingua ebraica riguardo il progresso dei rapporti bilaterali tra Israele e gli Emirati.

(Shalom, 7 aprile 2021)


Separati a Vienna

Biden da Teheran vuole un impegno più ampio, l'Iran non ammette patti diversi dal 2015

di Micol Flammini

ROMA - A volere il ripristino del patto sul nucleare del 2015 sono sia gli americani sia gli iraniani. Lo vogliono molto anche gli europei che ieri, facendo avanti e indietro, hanno cercato di far comunicare le due parti, che erano in stanze diverse e anche in alberghi diversi. L'incontro di ieri a Vienna, annunciato venerdì scorso dall'Unione europea, serviva a mettere giù un piano per studiare le tappe da seguire e i compromessi da fare per iniziare un processo, che sarà lungo e complicato, che preveda il ritorno degli Stati Uniti nel trattato sul nucleare, abbandonato da Donald Trump nel 2018. Ieri sono stati creati due gruppi di esperti che avranno il compito di risolvere le due condizioni attorno a cui ruota tutto, anche la partenza di futuri negoziati. Un gruppo si occuperà di studiare l'allentamento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti e l'altro si occuperà di questioni legate al nucleare iraniano. I lavori sono iniziati subito, ma quanto ci vorrà per un ritorno al patto non si sa, anche perché l'Iran ha subito detto che l'unico patto che Teheran è pronta ad accettare è quello del 2015, il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), non un altro. Nessun cambiamento, nessuna clausola in più, proprio quello che gli americani vogliono correggere perché sarà pur stato Trump ad abbandonare l'accordo, ma anche l'Amministrazione Biden crede che ci siano elementi da correggere e altri dossier su cui lavorare: la ricerca di Teheran sui missili balistici, le milizie irregolari create dall'Iran fuori dai suoi confini, le politiche aggressive in Siria, Libano, Iraq, Yemen.
  Quando nel 2015 si raggiunse l'accordo, fu il frutto di anni di lavoro e di mediazione, ma fu uno sforzo soprattutto tecnico, volto a inventare restrizioni sul nucleare e meccanismi di controllo. Questa volta l'accordo dovrà essere molto più politico, sia per l'Iran sia per gli Stati Uniti. Dovrà superare ostacoli che sono interni ed esterni ai paesi. Per il presidente iraniano Hassan Rohani è l'ultima chance, vuole essere ricordato per qualcosa e magari come il presidente che è riuscito a far togliere le pesanti sanzioni americane che così duramente hanno colpito l'Iran. Ma se Rohani vuole un successo, la Guida Suprema, Ali Khamenei, non è disposto a concederglielo e probabilmente preferisce che l'accordo non si chiuda prima delle elezioni di giugno: non ha intenzione di lasciare che agli alleati di Rohani conquistino una vittoria diplomatica. I due paesi non si fidano l'uno dell'altro, ed è proprio sulla fiducia e sulle sue garanzie che Biden vuole lavorare. Per lui, l'accordo negoziato dall'Amministrazione Obama, quando lui era vicepresidente, è soltanto un punto di partenza, all'Iran vanno imposti limiti più duri e che siano destinati a durare di più. Se Biden vuole porre fine alla strategia della massima pressione voluta da Trump non può ammettere che, come si aspetta Teheran, gli Stati Uniti tornino nell'accordo così com'era nel 2015. L'America è cambiata e si è liberata di Trump, ma quell'accordo imperfetto, che piace all'Iran, non può piacere neppure a quest'America. Biden è disposto a fare le sue concessioni, è pronto a rilasciare un primo miliardo di dollari di entrate petrolifere congelate dalla Corea del Sud, e per la prossima settimana è prevista una visita del premier sudcoreano a Teheran, ma vuole l'interruzione della produzione del 20 per cento di uranio, ed è pronto a emettere sanzioni in futuro, se gli accordi non saranno rispettati. Unione europea, Francia, Germania e Gran Bretagna dovranno capire che non ci sono possibilità per un accordo frettoloso, Biden vuole tornare, ma vuole anche che questa volta il trattato sia un impegno più ampio.

(Il Foglio, 7 aprile 2021)


Israele in tre schermi: le elezioni, il processo e l'incontro di Vienna

di Micol Flammini

ROMA - Le consultazioni sono iniziate ieri in Israele e nelle stesse ore il premier Benjamin Netanyahu era in tribunale, a Gerusalemme, per il l processo contro di lui. Ed era anche giornata di attesa, prima dell'incontro a Vienna, dove oggi riprenderanno i negoziati indiretti tra americani e iraniani sul nucleare, un evento che indica che la politica estera americana è cambiata e agli israeliani conviene seguirla con molta attenzione. I commentatori israeliani ieri suggerivano di dividere i propri schermi in tre, perché tutti e tre gli eventi sono cruciali per il futuro del paese. Il primo, l'incontro di Rivlin con i partiti, perché è l'ultimo tentativo per evitare una quinta elezione. Il secondo, Bibi in tribunale, perché serve a far chiarezza sulle pressioni del premier nei confronti della stampa, e il terzo, forse il più importante, perché potrebbe condizionare il futuro del medio oriente.
   Il primo schermo, quello concentrato sul presidente e i suoi incontri, era forse il meno interessante. Rivlin, già dopo aver incontrato i rappresentanti del Likud e di Yesh Atid, primo e secondo partito alle elezioni del 23 marzo, ha detto che dare l'incarico a qualcuno per formare un governo sarà molto complicato. Il presidente è stremato, e per la prima volta ha lasciato intendere che potrebbe negare il mandato a Netanyahu per i suoi processi. La coalizione anti Bibi, che litiga su tutto, ieri ha avuto un momento di speranza quando Yair Lapid, leader del partito di centro sinistra Yesh Atid, ha offerto a Naftali Bennett, della destra di Yamina, di formare un governo di unità nazionale con premiership a rotazione. Una mossa inaspettata, che però potrebbe scontentare tanti altri che già appartengono al fronte contro il premier.
   Il 9 luglio scade il mandato di Rivlin e un politico del Likud ha detto al Jerusalem Post che c'è un piano per candidare il loro leader alla presidenza, così anche la politica sarà più stabile e senza Netanyahu altri partiti di centro e di destra vorranno unirsi al Likud, che prima dovrebbe tenere delle primarie. Sono indiscrezioni, ma il politico ha raccontato che anche la Knesset è sfinita, come Rivlin e come gli israeliani, e i due terzi dei deputati sono pronti ad accettare. Se il presidente riuscirà a dare un incarico a qualcuno si saprà mercoledì, altrimenti toccherà al Parlamento trovare una soluzione. Mentre si continua a trattare e vengono fuori alleanze improbabili, sul secondo schermo si vedeva un Netanyahu a disagio mentre ascoltava le dichiarazioni di chi lo accusa di aver usato la sua carica per ottenere una copertura favorevole sui media, in questo processo il premier è accusato di corruzione e abuso d'ufficio nel suo rapporto con giornalisti, testate ed editori.
   Il terzo schermo è quello dell'attesa per l'incontro a Vienna, che non avrà effetti immediati, ma sarà importante per la regione, forse per la prossima campagna elettorale in Israele e per le relazioni future tra il paese e gli Stati Uniti. La domanda che tutti si fanno è: chi cederà per primo? L'Iran tornerà alla piena conformità prevista dal patto o l'America toglierà le sanzioni? La sequenzialità con cui avverranno le due cose vorrà dire molto, soprattutto per Israele , che non può impedire che i negoziati ricomincino, ma può e vuole fare in modo che il patto venga cambiato, esteso, e comprenda tanti altri dossier oltre al nucleare.
   Alon Pinkas, commentatore di Haaretz, suggerisce di dimenticare per un attimo i primi due schermi, le elezioni, i processi, e di focalizzarsi su come si stanno muovendo velocemente le cose attorno a Gerusalemme. Soprattutto con l'America. Vienna sarà il grande show, con gli europei che fanno la spola tra gli americani e gli iraniani che non vogliono parlarsi direttamente, in cui non succederà nulla, ma da cui inizieranno a muoversi molte cose, e a Israele, impigliato tra le maglie di un'elezione dietro all'altra, conviene non distrarsi dal terzo schermo, quello dei cambiamenti internazionali che nella vita del paese hanno sempre avuto un peso importantissimo.
   
(Il Foglio, 6 aprile 2021)


Netanyahu più vicino al governo. Ma il processo lo preoccupa

Non si chiude la raccogliticcia alleanza contro Bibi. Che per toccare i 61 seggi punta agli arabi di Ra'am

di Fiamma Nirenstein

Dopo una giornata di colloqui molto sofferti alla fine sarà difficile che il presidente di Israele Reuven Rivlin possa affidare a chiunque non sia Netanyahu la formazione di un nuovo governo.
   Perché a tarda serata Gideon Sa'ar, fondatore di «Nuova Speranza» e aspirante primo ministro, transfugo dal Likud che aveva giurato che mai e poi mai accetterà di sedere in un governo di cui sia il primo ministro Bibi, ha tuttavia rifiutato di dare il suo appoggio al principale oppositore di Netanyahu, Yair Lapid. Ma Bibi ha 30 seggi, e Lapid 17: i conti degli ultimi giorni davano al primo ministro uscente 52 seggi e a Lapid 45, una somma spuria di ispirazioni anti-Bibi, che se sommati ai 7 seggi di Sa'ar avrebbero portato a un pareggio che avrebbe aperto la strada dell'incarico. Invece, niente. Il mix di partiti di destra e di sinistra che si sono affannati per mettere insieme un patchwork per Lapid, scivolano su una buccia di banana.
   Tanto poco è piaciuto a Rivlin la decisione di Sa'ar, che ha subito dichiarato con gesto davvero irrituale che non riteneva chiusa la decisione di «nuova speranza» e che pregava di fare ancora qualche telefonata prima di arrivare a quella conclusione.
   Ma per ora Netanyahu ha di nuovo un numero maggiore di seggi per formare una coalizione, sempre però troppo basso rispetto ai 61 seggi necessari nella Knesset di 120 deputati, dato che «Yemina», la «destra» di Bennet, per ora indica proprio Bennet come suo candidato. Si può sempre pensare all'appoggio esterno del partito di Mansour Abbas, Ra'am, l'arabo islamo-riformista che si muove sul modello dei Patti d'Abramo, ma stavolta dentro Israele: il mondo musulmano israeliano finalmente per i suoi interessi, e non per un ideale «palestinese». Ma sarebbe una scelta molto contestata dalla parte destra della coalizione pro Netanyahu, che porterebbe a nuove rotture ideologiche. E a nuove elezioni, le quinte elezioni in due anni.
   Di questa trappola fa parte, senza dubbio, la polarizzazione fifty-fifty pro o anti Bibi creatasi nella società israeliana. Ieri è andata in scena su un palcoscenico rotante. Da una parte l'antipatia palese di Rivlin, dall'altra la prima seduta del processo per corruzione. Si è trattato del caso 4000, per cui si dice che il pm è «corrotto», accusa improponibile secondo molti giuristi di tutti il mondo. Si parla del tentativo di Netanyahu di convincere i rappresentanti del sito Walla di dargli maggiore copertura in cambio di supposti favori alla società di comunicazioni Bezeq padrona della testata. L'attacco al primo ministro ieri ha visto la testimonianza del ceo di Walla che raccontava come lui e un direttore si riferissero a Bibi chiamandolo «Kim» in riferimento a Kim-Jong perché si sentivano dominati e impauriti. Il ceo di Walla, Ilan Yeshua, ha anche detto che Netanyahu, sua moglie e suo figlio li sommergevano ossessivamente di richieste. Un po' poco per fare di Netanayahu un criminale. Lui ha accusato la pubblica accusatrice di aver messo in scena una «rappresentazione», e definito il processo stesso «un tentativo di colpo stato».

(il Giornale, 6 aprile 2021)


L'attivista libanese Kinda al-Khatib in attesa di sentenza definitiva

"Sotto processo per il suo impegno anti-Hezbollah". Intervista con Joseph Braude, presidente del Center for Peace Communications, in vista dell'udienza che deciderà le sorti della ventiquattrenne: "Oltre a Kinda, 35 cittadini sono stati falsamente accusati di terrorismo, ma il loro unico crimine è stato aver preso parte a manifestazioni antigovernative".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - La giovane attivista libanese Kinda al-Khatib, arrestata il 20 giugno scorso e condannata a dicembre dal Tribunale militare di Beirut a tre anni di carcere, è stata rilasciata nei giorni scorsi in vista dell'appello presentato dalla difesa su cui la corte marziale si pronuncerà l'8 aprile.
  Khatib, 24 anni, attivista apertamente critica di Hezbollah - il "partito di Dio" sciita che di fatto governa il Paese che si trova sull'orlo del default economico e politico - era stata condannata per "collaborazione con il nemico", Israele. Il suo entourage ha sempre sostenuto che si trattasse di una montatura per metterla a tacere.
  Nei mesi della detenzione, a perorare la sua causa è stato Joseph Braude, presidente del Center for Peace Communications, una no-profit che riunisce attivisti dal Medioriente e dal Nord Africa. Braude, che ha parlato con Kinda appena rilasciata, risponde alle domande di Repubblica da New York in vista dell'udienza che a breve deciderà la sorte della giovane attivista.

- Signor Braude, che cosa può dirci della situazione di Kinda?
  "È stata arrestata da 16 uomini mascherati nel cuore della notte, interrogata per giorni e detenuta in prigione per nove mesi prima del suo rilascio temporaneo su cauzione. Durante il suo interrogatorio, non è stata informata per molti giorni delle accuse contro di lei. Nei mesi di detenzione era denutrita, ha sofferto di intossicazione alimentare e ha contratto il Covid-19 senza ricevere cure adeguate. Secondo Kinda, l'unica ragione per cui non ha subito aggressioni fisiche mentre era in prigione era che il suo caso aveva attirato l'attenzione dei media e l'esercito aveva paura di possibili ripercussioni".

- La sua famiglia e i suoi sostenitori affermano che è stata arrestata per via del suo attivismo contro Hezbollah e che le accuse di spionaggio a favore di Israele sono una montatura. Cosa dice in merito?
  "I sostenitori di Hezbollah e del presidente Michel Aoun considerano Kinda una spina nel fianco da anni: la sua è la voce di una giovane donna di talento con decine di migliaia di follower sui social media, che non ha mai smesso di denunciare pubblicamente le loro campagne di disinformazione. Hezbollah ha maggiore controllo sui tribunali militari rispetto a quelli civili, e per questo era importante per loro portarla di fronte a una corte marziale.
  In Libano, i civili possono essere processati in un tribunale militare solo per accuse legate al terrorismo o alla "collaborazione con Israele". Siccome le monitoravano da tempo il cellulare, hanno scoperto che si era scambiata dei messaggi con un giornalista israeliano e questo è stato il pretesto di cui avevano bisogno per usare la "legge anti-normalizzazione" per arrestarla. Poi hanno utilizzato gli organi di stampa pro Hezbollah per diffondere false e assurde affermazioni, senza nessuna prova, secondo cui aveva visitato Israele e si era coordinata con i servizi di intelligence occidentali e del Golfo".

- Nei mesi della sua detenzione, il Libano è stato devastato dall'esplosione al porto di Beirut e dall'ulteriore deterioramento della situazione politica ed economica.
  "Tra i profughi siriani, la pandemia, la stretta delle sanzioni statunitensi contro Hezbollah, il nepotismo e la corruzione dilaganti, l'economia e il sistema politico libanese sono al collasso. Proprio in queste settimane, di fronte allo stallo politico e al continuo aumento dell'inflazione, sta montando una nuova ondata di proteste che chiede un cambiamento nel Paese, mentre la repressione non si placa.
  Le organizzazioni libanesi per i diritti umani hanno documentato un netto incremento delle aggressioni a giornalisti da parte di organi statali: da 20 nel 2019 a 60 nel 2020. Il 4 febbraio, l'assassinio del giornalista e attivista anti Hezbollah Lokman Slim ha scioccato il Paese. Oltre a Kinda, 35 cittadini libanesi sono stati recentemente processati con false accuse di terrorismo, quando il loro unico crimine è stato aver preso parte a manifestazioni antigovernative".

- La vostra organizzazione mira a creare maggiore consapevolezza sulle leggi sul boicottaggio in vari Paesi arabi che vietano qualsiasi interazione con gli israeliani. Ci spiega meglio?
  "Leggi del genere sono controproducenti e noi sosteniamo gli sforzi per revocarle e per proteggere gli attivisti per la pace che vi si oppongono, mettendo a rischio la propria carriera o nei casi peggiori - come in Libano - la libertà personale. Stiamo promuovendo una proposta di legge, che ha già ottenuto consenso bipartisan in Francia e negli Stati Uniti, volta a istituire un rapporto annuale dei casi in cui cittadini di Paesi arabi siano intimiditi o puniti per aver interagito con israeliani, elevando l'attenzione internazionale su questa problematica.
  Non va sottovalutato l'effetto sulla diaspora libanese che può avere la condanna di Kinda e Charbel (co-imputato che vive negli Usa, condannato in contumacia a 10 anni, ndr). La comunità libanese nel mondo è vastissima, molti di loro hanno sviluppato amicizie e collaborazioni con cittadini israeliani. Ora che Israele ha firmato accordi di pace con gli Emirati Arabi Uniti e altri Paesi musulmani dove vivono centinaia di migliaia di libanesi, molti temono di fare rientro in patria, isolando ulteriormente il Libano dalla sua ancora di salvezza che sono gli espatriati in tutto il mondo, specie in un momento così difficile per il Paese".

- Esiste un attivismo pubblico in Libano contro la legge sul boicottaggio, l'articolo 278 del Codice penale?
  "Sempre più persone, soprattutto tra i giovani, realizzano i danni che questa legge ha causato all'economia e alla posizione globale del Paese. La gestione fallimentare di Hezbollah e dei suoi alleati, che ha portato alla situazione attuale di crisi acuta, non fa che rafforzare l'opinione secondo cui è necessario tentare un nuovo approccio. Dopo decenni in cui il governo libanese ha rivendicato il monopolio sulle decisioni rispetto all'approccio verso Israele, i giovani si sentono rafforzati dall'idea di poter agire localmente e democraticamente per revocare una legge ingiusta.
  Per essere chiari, questa non è la causa che Kinda el-Khatib ha fatto propria: la sua corrispondenza con un giornalista israeliano è stata incidentale ed è un aspetto marginale della sua prolifica attività sui social media. Ma il suo caso, e il sostengo che ha ottenuto, sottolineano la natura draconiana di una legge che è stata utilizzata per perseguirla per ragioni politiche, e in questo senso potrebbe rivelarsi un punto di svolta".

(la Repubblica, 6 aprile 2021)


Bordighera e Israele nel cuore dello chef pizzaiolo Stefano Grella

Il venticinquenne bordigotto e le sue diciassette pizze gustate a Tel Aviv

di Francesco Basso

BORDIGHERA - Quando si parla di passioni, di talento, di forza di volontà, i confini non esistono; lo sa bene Stefano Grella, venticinquenne bordigotto con un grande amore per la cucina. Dopo aver studiato presso l'Istituto Fermi Polo Montale di Bordighera-Ventimiglia e aver lavorato in Francia, Stefano parte nel 2018 per Melbourne.
In Australia conosce May Apelbaum Bing, israeliana, e i due si fidanzano. Stefano vive in Israele con May e ora lavora a Rishon LeZion, a sud di Tel Aviv, presso il locale "Se Tu". Qui fa conoscere alle persone le sue pizze portando nel settore la sua esperienza e la sua italianità.
«Il menù consiste nell'avere a disposizione diciassette pizze che hanno ingredienti particolari e interessanti - spiega Stefano - alcune sono tipicamente italiane come la pizza al prosciutto e quella ai carciofi, altre seguono il gusto di qui. Facciamo infatti alcune pizze che qui vengono chiamate "polenta". Sono con crema di mais, mozzarella, funghi, prezzemolo e cipolla».
Una cucina varia e ricca che che combina il gusto orientale con quello occidentale. Recentemente la storia di Stefano è apparsa sui giornali locali e sul Canale 12 della tv israeliana. Da Bordighera a Israele la cucina di Stefano non ha confini e porta all'estero quell'italianità e genuinità apprezzate in tutto il mondo.

(Il Secolo XIX, 6 aprile 2021)


Arrestata sospetta spia israeliana in Iran. Rischia grosso

di Giuseppina Perlasca

L'Iran afferma di aver arrestato una serie di agenti dei servizi segreti stranieri, tra cui una "spia israeliana", nel nord-ovest della repubblica islamica.
Il presunto agente dell'intelligence israeliana è stato arrestato nella provincia dell'Azarbaijan orientale, secondo quanto riportato lunedì dai media iraniani citando il capo regionale del ministero del controspionaggio iraniano.
"Una spia israeliana e diverse altre spie con legami con i servizi di sicurezza di vari paesi sono state arrestate", ha detto il funzionario, che non è stato nominato nei rapporti.
L'annuncio è stato presentato durante un rapporto sulle attività delle forze dell'ordine e su altri aspetti delle operazioni della filiale. Le identità delle presunte spie non sono state rivelate e non era chiaro se quello che l'Iran collegava a Israele fosse un cittadino israeliano.
Le autorità israeliane non hanno ancora commentato i resoconti dei media.
I media incolpano l'Iran di un attacco missilistico ad una nave battente bandiera israeliana nel Mar Rosso.
Israele e Iran hanno una lunga storia di ostilità. Diversi crimini di alto profilo accaduti in Iran sono stati attribuiti ai servizi di intelligence israeliani, compreso l'assassinio dello scorso anno del famoso scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh.
Le persone arrestate in Iran con l'accusa di spionaggio a favore di Israele potrebbero essere soggette alla pena di morte, solitamente per impiccagione.

(scenarieconomici.it, 6 aprile 2021)


"Israele non paga i vaccini": Pfizer blocca 700 mila dosi

La sospensione, fino a nuovo avviso, è dovuta al mancato pagamento che l'azienda americana non avrebbe ricevuto da Tel Aviv per le ultime 2.5 milioni dosi inviate.

di Federico Giuliani

Pfizer ha bloccato una spedizione di 700 mila vaccini anti Covid diretta a Israele fino a nuovo avviso.
Il congelamento è dovuto al mancato pagamento che l'azienda non avrebbe ricevuto da Tel Aviv per le ultime 2.5 milioni dosi inviate.

 La rabbia di Pfizer
  La Big Pharma americana, secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, teme che il governo in transizione possa non pagare le forniture. È per questo motivo, quindi, che la società avrebbe interrotto le spedizioni "in segno di indignazione". I toni tra i due contendenti sono caldissimi, visto che Pfizer, ha sottolineato l'emittente Army Radio, ha definito Israele una "Repubblica delle banane". Il carico di 700 mila vaccini finito nell'occhio del ciclone sarebbe dovuto arrivare a destinazione domenica, nel giorno di Pasqua.
  Da quanto si apprende dai media israeliani, Tel Aviv ha pagato i primi 10 milioni di vaccini ricevuti per gestire la maggior parte della sua campagna di vaccinazione di massa (record), prima del 2021. Dall'inizio del nuovo anno in poi, pare che Israele abbia riscontrato qualche difficoltà. A quel punto, Pfizer ha accettato di spedire dosi extra, anche se il governo non avrebbe approvato alcun ordine di acquisto.
  Calcolatrice alla mano, Israele ha fin qui sborsato in vaccini anti Covid il corrispettivo di 670 milioni di euro. Sembra, inoltre, che il governo israeliano non discuta il costo delle dosi per via di accordi di riservatezza stipulati con le singole case farmaceutiche. In ogni caso, Tel Aviv ha pagato ogni singola dose molto di più rispetto a ogni altro Paese. Le cifre sono avvolte nel mistero, ma le indiscrezioni sono piuttosto emblematiche. Per ogni dose Pfizer, l'Unione europea pagherebbe circa 14.50 dollari a fronte dei 28 di Israele.

 I motivi dello scontro
  Nei giorni scorsi il ministero della Salute ha esercitato pressioni sul governo affinché approvasse l'acquisto di oltre 30 milioni di vaccini aggiuntivi prima della Pasqua ebraica (4 aprile). Il governo si sarebbe dovuto riunire lunedì scorso ma l'incontro è stato rinviato a causa di un conflitto tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il primo ministro supplente Benny Gantz.
  Gantz avrebbe annullato la riunione per via del rifiuto di Netanyahu di approvare la nomina permanente di un ministro della Giustizia. Il suo mandato come ministro della giustizia ad interim è terminato il 2 aprile, tre mesi dopo aver assunto l'incarico al posto di Avi Nissenkorn, che si era dimesso. Nelle ultime ore Yuli Edelstein, ministro della Salute, ha cercato di convincere Gantz a proseguire il pagamento e l'acquisto di vaccini.
  Un portavoce di Gantz, sempre secondo fonti del Jerusalem Post, ha spiegato che "anche se il primo ministro ha fatto molto per danneggiare il funzionamento del governo", il primo ministro supplente "non farà nulla che possa influenzare la salute del popolo israeliano negando i vaccini". Altre fonti nell'ufficio di Gantz hanno dichiarato che se questo incontro è così urgente per Edelstein, "tutto ciò che deve fare è chiamare il premier Netanyahu e chiedergli di nominare un ministro della Giustizia".
  Come se non bastasse, lo stesso ufficio di Gantz ha affermato che l'acquisto dei 2.5 milioni di vaccini era già stato approvato, e che ogni ritardo nel pagamento sarebbe stato a nome del ministero della Salute. Nel frattempo, Israele avrebbe già acquistato 27 milioni di vaccini - Pfizer, Moderna e AstraZeneca - "che dovrebbero essere sufficienti per il prossimo futuro". I timori sono tuttavia orientati proprio verso il futuro. Dopo questa diatriba con Pfizer, c'è il rischio che Tel Aviv possa perdere l'opportunità di acquistare ulteriori vaccini, in via prioritaria, nel caso in cui il virus dovesse tornare.

(il Giornale, 5 aprile 2021)


Israele, da lunedì iniziano le consultazioni del presidente Rivlin

Iniziano lunedì 5 aprile in Israele le consultazioni del presidente Reuven Rivlin per assegnare l'incarico ad un premier in pectore per la formazione di un governo dopo le ultime elezioni politiche che, ancora una volta, hanno prodotto un risultato che vede la Knesset divisa a metà senza che nessun schieramento abbia o possa ottenere una maggioranza, anche risicata.
   Le consultazioni di Rivlin non dovrebbero protrarsi oltre il 7 aprile, ha detto un portavoce.
   Anche dopo il risultato del 23 marzo il Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu, con 30 seggi, è il partito di maggioranza relativa, ma con i suoi alleati raggiunge solo 52 seggi. Per ottenere la maggioranza nel Parlamento israeliano sono necessari almeno 61 seggi.
   Ad opporsi alla coalizione di destra, dopo l'ultimo turno elettorale è il partito di centro Yesh Atid, guidato dall'ex ministro delle finanze Yair Lapid, che ha ottenuto però solo 17 seggi. La coalizione che si oppone a Netanyahu, però è molto eterogenea e comprende la lista che rappresenta gli arabi israeliani. Pertanto è difficile, se non impossibile, che possa trovare un accordo per supportare un governo.
   Sul fronte opposto, la destra tenta di riportare tra le proprie fila l'ex ministro della Difesa Naftali Bennett, ex pupillo di Netanyahu, che adesso ha un proprio partito, Yamina, e che non vede di buon occhio i partiti dell'ortodossia ebraica con cui l'attuale premier ha invece sancito un patto di ferro e a cui non ha finora mai voltato le spalle.
   Ma se anche Bennett dovesse passare alla destra, a quella coalizione mancherebbero almeno due seggi per avere una maggioranza a supporto del nuovo governo. Li fornirebbe volentieri il partito della destra islamica guidato da Mansour Abbas, che ne ha ottenuti 4, ma a non volerli sono proprio i partiti ultra ortodossi.
   Come è ben facile comprendere, il quadro appena riassunto è per il presidente Rivlin un vero e proprio rebus... che però si sta ripetendo ormai da due anni.
   Chiunque venga nominato da Rivlin avrà fino a 42 giorni di tempo per provare a formare un governo prima che il presidente assegni l'incarico ad altri. E se anche il secondo candidato non dovesse riuscire a formare un governo, Rivlin chiamerebbe in causa la Knesset che dovrà indicare un nuovo nome. Se anche il tentativo della Knesset non avesse successo, Israele andrebbe di nuovo alle elezioni.

(Fai Informazione, 5 aprile 2021)


Shalom News - Edizione del 5 aprile 2021

Conduce David Di Segni

In questo numero:
  1. Ariela Piattelli nuova direttrice di Shalom
    (servizio di Daniele Toscano e Luca Spizzichino);
  2. Il libro "Le radici delle parole ebraiche" di Hora Aboav
    (servizio di Marta Spizzichino);
  3. In viaggio nei dintorni di Shtula, in Galilea, al confine con il Libano
    (servizio di Fabiana Magrì).

(Shalom, 5 aprile 2021)


Prime elezioni palestinesi in 15 anni, Barghouti sfida Abu Mazen. E si teme il rinvio

Il più noto prigioniero in un carcere israeliano sostiene alle legislative la lista di Qudwa, nipote di Arafat, e prepara la candidatura alle presidenziali. I sondaggi lo danno in testa. "È un simbolo per Fatah e per il nostro popolo".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Quando il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato in autunno le elezioni legislative e presidenziali, le prime in 15 anni, la reazione predominante è stata di grande scetticismo. Non sarebbe stata infatti la prima volta in cui, nel corso di questi anni, elezioni venivano annunciate e poi annullate, esattamente come avvenuto per la riconciliazione tra Fatah e Hamas, le due fazioni avversarie che governano rispettivamente Cisgiordania e Striscia di Gaza e che ancora non sono riuscite a trovare la via della pacificazione nazionale dopo la guerra civile del 2007. L'annuncio di Abu Mazen era visto allora come un tentativo dell'attuale leadership di confermare la propria legittimità contestualmente all'insediamento dell'amministrazione Biden.

 Trentasei liste in lizza per le presidenziali
  Ma con il passare delle settimane, l'appuntamento elettorale che inizierà il 22 maggio con le legislative e dovrebbe proseguire il 31 luglio con le presidenziali, sembra uno scenario sempre più realistico e anche piuttosto animato: domenica il comitato elettorale centrale ha approvato ben 36 liste (erano 11 nel 2006). "C'è grande fermento tra la gente, lo dimostra anche il fatto che il 93% degli aventi diritto al voto si sono registrati per votare", dice a Repubblica Ghassan Khatib, già ministro fino al 2006 e attualmente direttore del centro studi Jerusalem Media & Communication Centre. Tuttavia, l'attenzione rimane concentrata solo su 4 liste: da un lato quella unica di Hamas e dall'altro 3 liste che si contendono il tradizionale elettorato di Fatah. La vera novità delle elezioni, e il grande rompicapo per Abu Mazen, è che l'andamento del processo elettorale finora si sta traducendo in una sfida interna alla sua gestione monocratica delle istituzioni palestinesi.

 La lista di Marwan Barghouti e Nasser Qudwa
  Meno di 24 ore prima della scadenza della presentazione delle liste elettorali il 31 marzo, si è materializzato il peggiore degli incubi per il presidente Abbas: Marwan Barghouti, dal carcere israeliano dove sconta cinque ergastoli come mandante di attentati terroristici contro soldati e civili israeliani durante la Seconda Intifada, ha presentato una sua lista insieme a Nasser Qudwa, nipote di Yasser Arafat, espulso di recente da Fatah proprio per aver annunciato l'intenzione di concorrere con una lista indipendente, in polemica con l'autoritarismo della gestione Abbas.
  La lista Qudwa-Barghouti rompe gli schemi e diventa una nuova spina al fianco per Abu Mazen, oltre a quella già posta dalla "Corrente democratico-riformista di Fatah" dell'arcirivale Mohammad Dahlan, che vive in esilio ad Abu Dhabi dal 2011. L'obiettivo di Barghouti - rappresentato nella lista dalla moglie Fadwa - è testare il terreno in vista di una sua possibile candidatura diretta alle presidenziali del 31 luglio.

 I sondaggi palestinesi
  Da sempre i sondaggi indicano come Barghouti, percepito dai palestinesi come un'icona della resistenza che sta pagando un prezzo personale per la lotta del suo popolo, uscirebbe vincitore da qualsiasi confronto con l'attuale presidente. Secondo l'ultimo rapporto del sondaggista palestinese Khalil Shikaki, in una competizione presidenziale a tre, Barghouti riceverebbe il 48% dei consensi, Abu Mazen il 29% e il leader di Hamas Ismail Haniyyeh il 19%. La lista ufficiale di Fatah, con Barghouti in campo, perde almeno 10 punti.
  "Non ci sono liste Fatah concorrenti: c'è solo una lista in campo che rappresenta il partito madre", dice a Repubblica Raed Debiy, leader della sezione internazionale del movimento giovanile di Fatah, posizionato al posto 130 (su 132 seggi) della "lista madre". Per Debiy, "Dahlan si è venduto da tempo agli Emirati e di certo non si può considerare Fatah", mentre per Barghouti il discorso è diverso. "Lui è un simbolo per Fatah e per il popolo palestinese".
  Debiy conferma quanto dichiarato domenica dal ministro Hassan al Sheikh, braccio destro di Abu Mazen, secondo cui "sono in corso trattative molto positive che potrebbero portare già nei prossimi giorni a una risoluzione dei fraintendimenti con Barghouti". Va ricordato che anche nel 2006 Barghouti aveva presentato una lista indipendente, ritirata poi in vista delle elezioni per sostenere Abu Mazen.

 Urne a Gerusalemme Est
  Se la controversia interna a Fatah non si dovesse placare, sempre più voci sostengono che Abu Mazen, per evitare una possibile disfatta personale, potrebbe cercare di annullare, o quantomeno rimandare le elezioni. A offrirgli l'opportunità potrebbe essere proprio Israele, se non dovesse concedere il dispiegamento delle urne a Gerusalemme Est.
  Da mesi i leader palestinesi minacciano che "senza Gerusalemme non ci saranno elezioni", tuttavia Israele - che non si era opposta alla procedura né nel 1996 né nel 2006 - attualmente non si è espresso in merito.

 Il silenzio di Israele
  Nel pieno di uno stallo politico senza precedenti che ha appena visto una quarta tornata elettorale in meno di due anni, nessun esponente di governo israeliano si è finora relazionato pubblicamente all'atteso appuntamento elettorale dei dirimpettai, che avrà inevitabilmente ripercussioni per lo Stato ebraico. L'unico messaggio ufficiale che si è sentito nei giorni scorsi in merito è stato pronunciato dal generale Kamil Abu Rukun, il Coordinatore uscente delle attività dell'esercito israeliano nei Territori palestinesi (Cogat). "Se dovesse vincere Hamas, Israele interromperà il coordinamento con i palestinesi" è quanto Abu Rukun sostiene nei briefing di fine incarico, anche di fronte alla comunità internazionale.
  Secondo Khatib, Abu Mazen potrebbe sempre revocare le elezioni, ma "non dovrebbe farlo: l'aspettativa che si è creata è enorme e rischierebbe di pagarne comunque le conseguenze". Se si procederà, "la sensazione è che si andrà incontro a un cambiamento negli equilibri di potere che hanno governato finora la leadership palestinese".

 L'incognita statunitense
  A sbaragliare tutte le carte in tavola potrebbe essere anche la posizione dell'amministrazione americana, che continua a emanare segnali contrastanti: da un lato è stato appena approvato il rinnovo di aiuti economici all'Autorità Palestinese, con un pacchetto iniziale di 100 milioni di dollari; dall'altro Joe Biden non ha ancora chiamato Abu Mazen dall'insediamento, a differenza di quanto avvenuto con Netanyahu.
  Motivo per cui pare che il presidente palestinese abbia rifiutato una chiamata del Segretario di Stato Anthony Blinken la settimana scorsa. Quello che sembra emergere finora è che gli Usa di Biden non intendono posizionare il conflitto israelo-palestinese in cima alla propria agenda estera. Resta da vedere come questo impatterà le prime elezioni palestinesi in 15 anni.

(la Repubblica, 4 aprile 2021)


Faisal bin Farhan: " la normalizzazione con Israele porterebbe enormi benefici"

Lui è il Ministro degli Esteri saudita e recentemente ha affermato che la normalizzazione con Israele porterebbe enormi benefici a tutto il Medio Oriente.
Di conseguenza sembrerebbe che il regno andrebbe in quella direzione? Faisal bin Farhan dice che l'Arabia Saudita accetterebbe tale normalizzazione a patto che ci sia la creazione dello stato Palestinese.
Il Ministro fa riferimento anche al 2002, quando gli Stati Uniti proposero un accordo, facendo riferimento a una pace di tutti i paesi arabi durante il vertice della Lega araba a Beirut, al culmine della Seconda Intifada. L'iniziativa chiedeva a "Israele il ritiro dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, che occupava nel 1967, e consentire la creazione di uno stato palestinese in cambio di accordi di normalizzazione con gli stati arabi."
Naturalmente l'entità occupante rifiutò. Ed è proprio questa l'eccezione che pone bin Farhan: "Ora, quella normalizzazione nella regione può avere successo solo se affrontiamo la questione dei palestinesi e se siamo in grado di fornire uno stato palestinese entro il confine del 1967 che dia ai palestinesi la dignità dei loro diritti."
Tra l'altro Bin Farhan ha respinto l'affermazione del primo ministro israeliano secondo cui l'Arabia Saudita avrebbe presto consentito voli diretti da Tel Aviv a Makkah. La sua risposta è stata: "Makkah non ha un aeroporto."
Anche se non si hanno rapporti ufficiali, però, i due paesi collaborano attraverso altri o clandestinamente, come è accaduto di recente, che il principe ereditario saudita e il primo ministro israeliano si sono incontrati su territorio saudita.

(DailyMuslim.it, 5 aprile 2021)


Parmigiana in Israele. «Qui è tutto aperto. Mi sento libera. Il Governo si è mosso bene»

Silvia Elisheva Bassi si è trasferita nel 2017. «Ma che sofferenza non rivedere mia madre».

di Pierluigi Dallapina

Israele è un altro mondo. Là si sta assaporando la libertà portata dal vaccino Pfizer, mentre in Italia, fino a Pasquetta, saremo tutti in zona rossa. Poi chissà. «Qui la vita è tornata alla normalità. Le scuole sono aperte. Credo che il governo israeliano si sia mosso perfettamente fin dall'inizio». Silvia Elisheva Bassi, parmigiana che dal febbraio 2017 si è trasferita in Israele per vivere in modo più autentico la sua conversione all'ebraismo, descrive una realtà distante anni luce da quella italiana.
   «Qui tutte le attività hanno riaperto: negozi, ristoranti, bar, palestre, centri commerciali. Però nei ristoranti, bar e palestre si entra solo con il certificato vaccinale, diversamente se ne può usufruire, ma rimanendo all'aperto. Nei centri commerciali possono entrare tutti anche senza certificato. Ci si può spostare ovunque nel Paese, ma tutti devono ancora utilizzare la mascherina».
   In Israele hanno già ricevuto la prima dose 5,2 milioni di persone su un totale di circa 9 milioni di abitanti, mentre in Italia, su 60,5 milioni di persone, sono 10,8 milioni quelli a cui è stata somministrata la prima dose. Tra ritardi e polemiche. «Qui ci si può riunire in famiglia o fra amici senza limiti», assicura, ma anche nel piccolo Paese mediorientale la pandemia ha lasciato il segno. «Ovviamente il Covid ha avuto un impatto non positivo sul mondo del lavoro, però il governo israeliano, dal punto di vista economico, sostiene in modo capillare la popolazione. Alcuni negozi hanno chiuso, ma gli israeliani non si lasciano abbattere per cui, al posto di un'attività commerciale, ne sono scaturite altre. Per esempio, nella mia città, Hadera, stanno aprendo con successo tanti negozi di frutta e verdura che prima non c'erano».
   Grazie ai successi della campagna vaccinale «mi sento più libera e sicura», confessa. Ma ora il vero problema è tornare nella sua città natale. «Venire in Italia è quasi impossibile a causa della situazione Covid italiana, quindi non poter tornare a Parma da mia madre, che è sola, mi procura molta sofferenza».
   
(Gazzetta di Parma, 4 aprile 2021)


La Madrid ebraica e la resistenza attiva dello studio

di Pierpaolo Pinhas Punturello

Cosa ci aspetteremmo faccia un maestro, un rabbi, un leader spirituale che stia vivendo i terribili e disperati giorni di una Gerusalemme assediata ed affamata dai Romani nel 70 E.V?
  Ci aspetteremmo un discorso infuocato che inciti alla ribellione, una disperata preghiera urlante verso il cielo, un gesto di sostegno per gli assediati? Rabbi Yochanan ben Zakai non fece nulla di tutto questo. Uscì da Gerusalemme sotto assedio, sembrò abbandonare il suo popolo, si finse morto per poter uscire perché gli zeloti non permettevano l'abbandono delle città, pena la morte e si presentò davanti a Vespasiano chiedendo la possibilità di poter aprire una scuola a Yavne e salvare i suoi saggi. (Talmud Ghitin 56B)
  In sostanza, rabbi Yochanan ben Zakkai chiede a Vespasiano l'insegnamento, la trasmissione della cultura e dello studio come futura ed immediata salvezza dell'identità ebraica. A Gerusalemme tutto è perso o si sta per perdere: il Bet Hamikdash, l'indipendenza politica, l'unità del popolo, il rispetto sociale, da dove ripartire per salvare l'identità ebraica del futuro? Da una accademia, dalla scuola. Da un luogo di studio.
  Un anno fa, due giorni prima di Purim la Comunidad de Madrid, seguita poi dalle altre comunità autonome di Spagna, dichiarò la necessità della chiusura delle scuole e dell'inizio del lockdown fino alla fine dell'anno scolastico. Allo stesso modo dallo scorso settembre la Comunidad de Madrid così come la Consejeria de Salud hanno dichiarato la necessità ed il dovere del ritorno a scuola, l'obbligo di salvarne lo spazio e la vita. Come coordinatore Covid della scuola ebraica di Madrid mi sono dovuto immediatamente adeguare alle nuove norme per gli istituti scolastici, ed ho aderito al ritorno sui banchi, pur con un certo scetticismo, almeno per le prime settimane. Domande e dubbi affollavano le riunioni del gruppo dirigente della scuola Ibn Gabirol - Estrella Toledano: "Riusciremo a gestire più di 300 alunni con mascherine e distanza? Riusciremo ad adeguare gli spazi scolastici, le aule, la mensa, la palestra alle nuove norme? Riusciremo a costruire un sistema di entrata ed uscita che salvaguardi la salute degli alunni, delle famiglie ed il funzionamento del centro? Saremo capaci di creare una comunicazione fluida e veloce con le famiglie per garantire la salute di tutti gli alunni ed evitare l'eventuale diffusione del virus all'interno della scuola? E, sopra ogni cosa, saremo capaci di trasmettere, insegnare, fare cultura e creare uno spazio sereno per i nostri bambini, adolescenti, giovani adulti?" E qui entra in gioco Rabbi Yochanan. Entra in gioco l'impegno ebraico per l'educazione, al di là di una realtà che sembra drammaticamente compromessa o terribilmente complicata. Ma se Rabbi Yochanan si sarà posto le domande fondamentali e necessarie per poter prendere la decisione che ha cambiato e salvato l'identità del popolo ebraico, noi, nel nostro piccolo, siamo stati chiamati a prendere decisioni che salvassero non solo la salute quotidiana dei nostri studenti, ma anche la loro giovinezza, l'esperienza positiva di una identità ebraica quotidiana all'interno di una scuola ebraica d'Europa e, last but not least, abbiamo dovuto pensare al miglior modo per donare ai nostri studenti una "normalità" in un'epoca totalmente straordinaria e decisamente impegnativa. Quando parlo di normalità intendo dire che abbiamo dovuto immaginare la giornata dello studente pensando ai luoghi, ai momenti, ai corridoi, alle aule, alle scale, ai laboratori, alle ricreazioni a rischio di contagio. Non abbiamo potuto, né voluto, rinunciare a tutto questo, malgrado il Covid. Perché ogni bambino, ogni adolescente della nostra scuola deve avere, insieme alla mascherina sul suo viso, la tranquillità di una scuola, ovvero uno spazio di vita serena. Una scuola ebraica in tempo di Covid è un elemento di serenità per una intera comunità, perché l'impegno per una nuova generazione di ebrei consapevoli non è solo una dichiarazione retorica e politicamente valida, ma deve essere un gesto quotidiano.
  Così, quotidianamente, il centro Ibn Gabirol si è trasformato in uno spazio con diffusori di gel idroalcolico, con indicatori di senso di marcia, di banchi e sedie messi a distanza di un metro e mezzo, di turni di pranzo a mensa con distanza e con divieti. Allo stesso tempo tutti questi elementi non hanno cancellato, anzi hanno dato un nuovo senso di forza identitaria a molti luoghi e tempi scolastici come la tefillà del mattino con il hazan che prega con il microfono come "Madonna" (cit. di uno dei nostri alunni del liceo), come lo studio in aula, come la necessaria socialità nel tempo della ricreazione, come il bisogno di risate in mensa lamentandosi del cibo della scuola, perché dai dieci ai diciotto anni ci si deve lamentare del cibo della scuola. E'un dovere e un diritto di ogni alunno al mondo. Ed in quanto educatori noi dobbiamo poter garantire anche questo. Ma se il nostro modello ispiratore è rabbi Yochanan ben Zakai, non abbiamo dimenticato l'identità ebraica della nostra scuola e ci siamo posti le domande ebraiche che ogni genitore, ogni nonno, ogni maestro ebreo si sarebbe posto: "Come assicurare il profondo valore dell'esperienza ebraica delle festività vissute a scuola? Delle attività di educazione informale per Rosh HaShana, Sukkoth, Channuka, Pesach? Come organizzare una festa "Covid free" per Purim?" Abbiamo dovuto imparare a pensare ed educare diversamente, e a tradurre in termini e metodologia ebraica i concetti di "gruppo di contatto", "capsula di classe", "gruppo di convivenza stabile", dislocando le celebrazioni di una festività in vari gruppi con la giusta distanza di tempo e di spazio. La domanda che dovremmo porci in questo momento è: "Quali sono i gesti ebraici che daranno ai nostri alunni e figli la giusta sensazione che la vitalità dell'ebraismo non può essere annullata da una pandemia?" E la risposta si può trovare solo nella scuola che funzioni malgrado tutto, nell'insegnamento con una profonda attenzione alle norme sanitarie, nella resistenza attiva dello studio e della esperienza ebraica, della formazione culturale e religiosa di una generazione che non può essere relegata all'ultimo posto delle necessità di una società intera, così come di una comunità ebraica.

(Shalom, 5 aprile 2021)


Gli ebrei ortodossi preferiscono gli arabi alla sinistra

di Ryan Jones

Oh, come sono cambiati i tempi Mentre Benjamin Netanyahu lotta ancora una volta per mettere insieme una coalizione di maggioranza, il principale rabbino ortodosso di Israele gli ha dato un'ancora di salvezza approvando l'inclusione degli islamisti arabi.
In un commento ai media di questa settimana, il rabbino Chaim Kanievsky ha affermato che è legale per i partiti ebraici di destra e religiosi unire le forze con la fazione islamista Ra'am, guidata dalla stella politica emergente Mansour Abbas, al fine di dare a Netanyahu i seggi di cui ha bisogno.
Il rabbino Kanievsky, che è considerato uno dei principali leader in tutta l'ortodossia ebraica in Israele, ha proseguito affermando che le comunità ebraica ortodossa e araba musulmana hanno molto in comune. Quando si tratta delle questioni più importanti per la comunità ortodossa, vale a dire la tradizione e la religione, è anche meglio allearsi politicamente con gli arabi più che con i parlamentari ebrei laici di sinistra, ha osservato.
Le sorprendenti osservazioni del rabbino sono arrivate nel momento stesso in cui Abbas pronunciava un breve discorso televisivo che molti hanno definito storico. In considerazione del fatto che Ra'am, il partito di Abbas, nonostante abbia solo quattro seggi alla Knesset, potrebbe sconvolgere gli equilibri a favore o contro Netanyahu, ogni grande emittente televisiva israeliana ha trasmesso in diretta la sua conferenza stampa. Ma a questo riguardo Abbas ha indubbiamente deluso, dal momento che non ha affatto affrontato la questione Netanyahu, ma piuttosto ha invocato una maggiore cooperazione ebraico-araba a livello politico.
"Ciò che abbiamo in comune è più grande di ciò che ci separa", ha sottolineato Abbas. "Tendo una mano a nome mio e dei miei colleghi e del pubblico che ha votato per me - per creare un'opportunità di convivenza in questa terra santa benedetta da tre religioni e due popoli".
In conclusione, ha sottolineato di non sentirsi in obbligo né verso la destra né verso la sinistra ed è pronto a lavorare in qualsiasi coalizione che ascolti le preoccupazioni della comunità araba.
Alcuni hanno paragonato il discorso di Abbas al famoso discorso "I have a dream" di Martin Luther King Jr., ma altri non gli hanno dato credito.
Un commentatore israeliano di destra ha sottolineato sui social media che mentre Abbas parla di accettare gli "altri", il suo partito non accetta nessuno. Il Movimento Islamico non accetta i gay, incita contro i cristiani ed è letteralmente la filiale di Hamas alla Knesset ".
Ra'am è il partito politico del Movimento islamico in Israele, che è esso stesso un ramo dei Fratelli Musulmani. Anche Hamas è un ramo dei Fratelli Musulmani, il che rende il Ra'am di Abbas e le organizzazioni sorelle discendenti dagli stessi genitori islamisti.
«Lo stesso Abbas non crede a una parola di quello che dice. Sono scoppiato a ridere diverse volte durante il suo discorso ", ha scritto un altro israeliano. Un terzo si chiedeva incredulo: "Ci verrà detto adesso che il Messia verrà dal movimento islamico ?!"

(israel heute, 4 aprile 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Coronavirus, da Brescia a Tel Aviv

"Dopo la seconda dose di vaccino sono libera di uscire e andare a cena" . Michela Giuliano, 32 anni, bresciana, vive in Israele dove la campagna vaccinale viaggia spedita: «Bello poter tornare alla normalità»

di Nicole Orlando

Michela Giuliano, 32 anni, bresciana, musicista e oggi anche localization manager per un'azienda hi-tech israeliana, vive a Tel Aviv da cinque anni. Pochi giorni fa ha ricevuto il «passaporto verde», che attesta l'avvenuta doppia vaccinazione. Michela è libera: di muoversi, lavorare, viaggiare, incontrare gli amici.

- Innanzitutto: da Brescia a Tel Aviv. Perché?
  «Prima per motivi familiari, poi per amore: il mio fidanzato è di qui. Appena arrivata volevo riprendere la mia carriera di musicista, ho partecipato all'X Factor israeliano e prima ancora a The Voice, da cui però mi sono ritirata perché non era la mia strada. Poi ho insegnato italiano, finché non ho iniziato lavorare per una grande azienda».

- Sul piano dei vaccini l'Europa oggi guarda Israele con ammirazione: cosa ha funzionato?
  «L'allestimento è stato molto rapido, si è cercato poi di raggiungere il più velocemente possibile tutte le comunità, anche le meno tecnologiche come quella degli ultraortodossi. Su una popolazione totale di 9 milioni di abitanti più del 60% ha già ricevuto la prima dose, oltre la metà anche la seconda».

- Quali sono state le categorie prioritarie?
  «Sono partiti con le vaccinazioni per gli anziani e per chi ha patologie. Ma con moltissimi punti vaccinali: in ogni piazza sono stati allestiti i gazebo, e da una certa ora tutte le dosi che sarebbero state buttate venivano somministrate alla popolazione».

- Qualcosa di simile al nostro «chiunque passa va vaccinato»?
  «Non proprio. Qui bisogna comunque prenotarsi, ma l'appuntamento si prende via app: si riceve la convocazione con l'ora e il luogo e in pochi minuti si riceve il vaccino. Molte mie colleghe sono state vaccinate così, ormai un mese e mezzo fa. Io ho preferito aspettare fino all'ultimo perché ho molte allergie, ma poi, nel giro di due settimane, ho ricevuto entrambe le dosi».

- Di quale vaccino?
  «Qui si trova solo Pfizer. I dati sono molto confortanti, sembra che stia funzionando tutto al meglio e che non solo ci si ammala meno ma nel caso di infezione la malattia si sviluppa in forma lieve. Vaccinarsi non è obbligatorio, ma cercano di renderlo il più possibile vantaggioso e semplice».

- Con quali effetti per la vita sociale e lavorativa?
  «C'è una netta ripresa: ha riaperto quasi tutto. Le aziende stanno predisponendo una graduale rientro in ufficio e chi ha ricevuto il secondo vaccino può accedere a locali e ristoranti. Noi siamo anche andati in vacanza».

- Com'è il futuro, visto da lì?
  «Negli occhi delle persone si legge una maggiore distanza rispetto al passato, è normale dopo un anno vissuto così. Rimane la paura di non sapere se quello che fai è giusto: tenere la mascherina sul naso oppure no, abbracciare gli amici o meno. Sono pensieri ormai automatici. La voglia di normalità però è così grande che tutto passa in secondo piano. Non è tornato tutto come prima ma iniziamo a ricordare com'era».

(Corriere della Sera - Brescia, 4 aprile 2021)


L'ex ambasciatrice del Bahrein negli Usa

"Dopo gli Accordi di Abramo per noi ebrei nel Golfo una Pasqua diversa dalle altre".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - "In cosa è diversa questa sera da tutte le altre sere?" recita uno dei passaggi più significativi della Hagadà, il racconto dell'esodo dall'Egitto che gli ebrei leggono la prima sera di Pesach, la Pasqua ebraica che cade in questi giorni. Per qualche centinaio di ebrei che vivono nei Paesi del Golfo, quest'anno si è trattato di una serata decisamente particolare. Il 13 agosto scorso, l'annuncio della normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, seguiti poi da Bahrein, Sudan e Marocco, ha aperto un nuovo capitolo negli equilibri mediorientali. Mentre nello scacchiere politico si ridefiniscono nuove alleanze, una fitta rete di relazioni economiche, accademiche e culturali sta cambiando le sorti del Medioriente come lo conoscevamo finora. Uno degli aspetti più significativi della nuova rotta è la graduale uscita allo scoperto di piccole comunità ebraiche che abitano non solo negli Emirati e in Bahrein, ma anche in Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Oman e che da poco si sono riunite sotto l'ombrello dell'Associazione delle Comunità ebraiche del Golfo (AGJC), guidata dal rabbino Elie Abadie, libanese di nascita, americano di adozione e ora tornato a respirare l'aria mediorientale da Dubai. L'associazione ha curato la spedizione di quasi 300 kg di matzot - le azzime che si consumano nei giorni di Pesach, in ricordo del pane che non lievitò per la fretta dell'uscita dall'Egitto - che hanno raggiunto le comunità del Golfo in coordinamento con le autorità locali. Per la maggior parte, si tratta di expat, cittadini stranieri che lavorano in Paesi in cui fino a un anno fa non avevano né la volontà né la possibilità di uscire allo scoperto per festeggiare le tradizioni ebraiche.
Gli Accordi di Abramo hanno inaugurato una nuova stagione di interesse e tolleranza per la cultura e le tradizioni ebraiche (con tanto di insegnamento della lingua ebraica e ritocchi dei curricula scolastici). Una presenza che per secoli è stata di casa nei Paesi del Levante e del Nord Africa, fino all'esodo più recente di quasi un milione di ebrei dai Paesi musulmani a partire dagli anni '40, come conseguenza del conflitto arabo-israeliano. Tra le comunità del Golfo, spicca la comunità autoctona del Bahrein, una cinquantina di persone a oggi, discendenti da famiglie ebraiche di commercianti iracheni e iraniani stabilitesi a Manama verso la metà dell'800. Tra loro vi è Houda Nonoo, già ambasciatrice del Bahrein a Washington e parlamentare, che nel suo attuale incarico al ministero degli Esteri ha seguito da vicino l'apertura di questa nuova pagina, presenziando anche alla firma ufficiale degli Accordi di Abramo il 15 settembre alla Casa Bianca.

- Ambasciatrice Nonoo, in che modo questa sera di Pesach è stata diversa dalle altre?
  "Come gli altri anni, ci siamo seduti con le nostre famiglie a recitare il racconto dell'uscita dall'Egitto, ma per la prima volta abbiamo tenuto anche un Seder virtuale (la cena tradizionale di Pesach, ndr) con il resto delle comunità del Golfo. Come ogni anno, nell'Hagadà abbiamo letto "l'anno prossimo a Gerusalemme", ma quest'anno per la prima volta sapevamo che non era più un sogno. Ho twittato una foto delle matzot che prepariamo qui in Bahrein e quasi 170 mila persone hanno condiviso il tweet. A 7 mesi dalla firma degli Accordi di Abramo, è impressionante la quantità di opportunità che continuano a presentarsi, sia di natura economica che sociale. Al centro di questi Accordi c'è il desiderio di creare un futuro migliore per questa regione, fondato su pace e prosperità per tutti".

- Quali nuove collaborazioni si presentano?
  "Le due principali banche israeliane hanno firmato diversi accordi con la Banca Nazionale del Bahrein, primo passo per rendere possibile le transazioni bancarie che stanno definendo la cooperazione in diversi settori, business, salute, educazione, turismo, e-commerce. Ma gli Accordi di Abramo non sono stati firmati solo per ragioni economiche: il Re Hamad bin Isa Al Khalifa e il premier Benjamin Netanyahu hanno avuto l'audace visione di promuovere un orizzonte di stabilità e prosperità per il Medioriente, basato su una pace calorosa, creando opportunità per le prossime generazioni. Insieme, stiamo cambiando la storia. Lo stiamo facendo per i nostri figli, perché inculcando loro ora lezioni di pace e convivenza, diventeranno i futuri leader politici e imprenditoriali estranei all'abisso che le generazioni precedenti hanno vissuto. Gli Accordi di Abramo sono l'inizio di una nuova era per la nostra regione e ne siamo tutti entusiasti".

- Per la prima volta vediamo la nascita di un'organizzazione ombrello che rappresenta gli ebrei nei Paesi del Golfo, di cui lei è membro del board: che obiettivi si pone?
  "Il mese scorso abbiamo inaugurato l'Associazione delle Comunità ebraiche del Golfo (AGJC) per venire incontro ai bisogni della crescente vita ebraica nell'area. Abbiamo creato una rete all'interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo (GCC) che sta giocando un ruolo senza precedenti nello sviluppo della vita ebraica nella regione, a vantaggio sia dei residenti sia dei visitatori. Stiamo per istituire diversi istituti fondamentali per consentire la vita secondo le tradizioni ebraiche: il Beth Din d'Arabia (Tribunale rabbinico ndr), che assisterà i correligionari su questioni relative allo stato personale, all'eredità e alla risoluzione delle controversie commerciali; la certificazione "Arabian Kosher" supervisionerà il rispetto delle regole alimentari ebraiche con uno standard unico che renda più semplice la vita e gli spostamenti tra i vari Paesi del Golfo. E questo è solo l'inizio, ciascuna delle nostre comunità ha molto da offrire alle altre e l'AGJC ci permette di unire le nostre risorse a beneficio di tutti gli ebrei del Golfo".

- Stiamo assistendo a una rinascita delle antiche comunità ebraiche locali?
  "Credo che assisteremo senza dubbio a una crescita delle comunità e delle tradizioni ebraiche in tutto il mondo arabo. In alcuni luoghi non si tratta proprio di un rinnovamento perché comunità locali ci sono sempre state, per molto tempo, specie fuori del Golfo, come in Azerbaigian, o in Marocco".

- Ha visitato Israele?
  "Ho avuto l'onore e il privilegio di partecipare alla prima delegazione ufficiale del Bahrein in Israele a novembre, guidata dal ministro degli Esteri Abdullatif bin Rashid Al-Zayani: abbiamo effettuato il primo volo diretto con la nostra compagnia di bandiera, il volo Gulf Air 972. È stata la mia prima volta in assoluto in Israele e dopo meno di una settimana sono tornata nuovamente per partecipare a una conferenza sulla pace. Durante i miei cinque anni di servizio a Washington, spesso mi domandavano se fossi mai stata in Israele. Ho sempre detto: "Non ancora". In cuor mio, speravo e pregavo per l'opportunità, ma dovevo aspettare il momento in cui le circostanze avrebbero consentito una visita del genere. Per molto tempo, ho potuto solo sognare. A novembre, quel sogno è diventato realtà".

(la Repubblica, 3 aprile 2021)


Dopo 15 anni i palestinesi andranno alle urne, Abu Mazen rischia

La popolazione è chiamata a definire la nuova spartizione dei 132 seggi del Consiglio legislativo di Ramallah e più in generale per superare la lunga lacerazione fra la Cisgiordania governata dall'Autorità nazionale palestinese e la striscia di Gaza gestita da Hamas.

Per la prima volta in 15 anni quasi 3 milioni di palestinesi sono chiamati il 22 maggio alle urne per definire la nuova spartizione dei 132 seggi del Consiglio legislativo di Ramallah e più in generale per superare la lunga lacerazione fra la Cisgiordania governata dalla Autorità nazionale palestinese (Anp) e la striscia di Gaza gestita da Hamas. Il presidente Abu Mazen (86 anni, in carica ininterrottamente dal 2005) ha inoltre indetto elezioni presidenziali per il 31 luglio.
   Questa settimana la Commissione elettorale centrale ha completato la registrazione delle liste che parteciperanno alle legislative. È così emerso che i sostenitori di al-Fatah si presenteranno con tre liste in concorrenza fra loro, mentre Hamas (al termine di complesse e contrastate elezioni interne) è riuscito a serrare i propri ranghi. Prevede inoltre di raccogliere i consensi dei sostenitori della Jihad islamica, che boicotterà invece le elezioni.
   Per Abu Mazen (che in un recente sondaggio di opinione del prof. Khalil Shikaki ha raccolto un indice di gradimento di appena il 32%) si tratta di un test politico difficile dopo che l'ex dirigente di al-Fatah Marwan Barghuti - che è detenuto in Israele, dove sconta un ergastolo - ha deciso di sfidarlo con una lista propria. È chiamata 'Libertà' ed è guidata da sua moglie Fadua Barghuti e da Nasser al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat. Nell'area di al-Fatah si è profilata anche la sfida di Mohammed Dahlan, che da anni vive ad Abu Dhabi. Nella sua lista, 'Futuro', spicca il nome del noto intellettuale Seri Nusseibeh. In lizza con una lista propria anche l'ex premier Salam Fayad.
   L'organizzazione delle elezioni è stata messa a punto nei mesi scorsi con incontri serrati fra delegazioni di Hamas e di al-Fatah al Cairo, sostenuti attivamente dall'Egitto. Altri incoraggiamenti sono giunti dall'Unione europea. Ieri l'emissario dell'Onu Tor Wennesland ha affermato che «lo svolgimento di elezioni credibili ed inclusive nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est, è uno sviluppo cruciale verso il rinnovamento della legittimazione delle istituzioni nazionali, verso il recupero della unità nazionale palestinese ed un passo in avanti per negoziati sulla soluzione dei due Stati».
   L'Anp esige che Israele non impedisca il voto di 180 mila palestinesi di Gerusalemme est: una richiesta ribadita ancora ieri su Twitter dal ministro Hussein al-Sheikh. In una intervista alla televisione pubblica il Coordinatore delle attività israeliane nei Territori, gen. Kamil Abu Rukun, ha replicato che quel voto non dovrebbe essere autorizzato. «Esiste un pericolo elevato - ha aggiunto - che Hamas esca vincente. Israele dovrebbe allora cessare il coordinamento di sicurezza con l'Anp». Ma il governo di Benjamin Netanyahu è entrato in fase di transizione dopo le politiche del 23 marzo e non ha fornito indicazioni concrete sull'atteggiamento che Israele assumerà sul voto dei palestinesi.

(Corriere del Ticino, 3 aprile 2021)


Israele e le sfide del mare

di Ugo Volli

Quando si visita Israele non lo si vede affatto, ma lo stato ebraico continua a essere un paese in guerra. A Sud c'è Gaza, da dove i terroristi possiedono missili in quantità e spesso li lanciano. Dai territori amministrati dall'Autorità Palestinese partono spesso terroristi "artigianali" ma capaci di ferire e di uccidere. A Nord c'è la Siria, Hezbollah e dietro a loro la grande fabbrica del terrorismo medio-orientale, l'Iran, che cerca di avvicinare armi e reparti al confine di Israele.
  Ma oltre a questi fronti terrestri, che Israele sa controllare con successo, ce n'è un quarto che diventa sempre più importante: il fronte marittimo. Nelle ultime settimane due navi commerciali di proprietà israeliana sono state colpite da missili iraniani nel Golfo Persico e nell'Oceano Indiano. Si è saputo anche che Israele da tempo agisce per impedire il contrabbando che l'Iran pratica per rifornire illegalmente via mare la Siria di petrolio e altri beni strategici. Era libica ma affittata all'Iran la petroliera che ha scaricato in mare migliaia di tonnellate di idrocarburi, provocando un terribile inquinamento della costa mediterranea di Israele. Il sospetto espresso dalla Ministra dell'ambiente israeliana Gila Gamiliel è che non sia stato un incidente, ma un atto deliberato di terrorismo ecologico.
  Ancora qualche fatto riguardante la guerra del mare. Sono passate solo alcune settimane da quando un sottomarino israeliano ha compiuto una missione per nulla segreta, fino al Golfo Persico. E qualche mese da quando, col consenso di Israele, l'Egitto ha restituito le isolette di Tiran e Sanafir, che controllano il Golfo di Eilat, all'Arabia. Un fatto tanto più importante, in quanto si è visto, con l'arenamento di una nave portacontainer nel canale di Suez, quando sia fragile questo fondamentale accesso al Mediterraneo e Eilat potrebbe diventare un terminale alternativo, col passaggio delle merci via terra fino ad Ashdot. Sembra invece che Israele abbia stretto un accordo con gli emirati per stabilire una base su certe isolette dello stretto altrettanto strategico di Bab el-Mandeb (fra Gibuti e lo Yemen). A Gibuti, peraltro, è già presente una base della marina cinese, che di recente ha fatto manovre con quella iraniana.
  Ultimo tema è quello delle istallazioni israeliane nel Mediterraneo, da cui si estrae il gas, che sta diventando importantissimo per l'economia ma anche la diplomazia di Israele: sono a distanza di missile dal Libano, Israele vi ha istallato delle batterie di Iron Dome e anche per difenderle ha acquistato delle piccole ma modernissime nuove navi da guerra. Insomma, il fronte del mare è in pieno movimento e la difesa di Israele passa sempre più anche da qui.

(Shalom, 2 aprile 2021)



Il segno del profeta Giona (2)

di Marcello Cicchese
    Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno (Giona, 1:3).
"La loro malvagità è salita alla mia faccia", dice il Signore all'inizio del libro, riferendosi agli abitanti di Ninive. Allora invia un ordine a Giona in cui gli dice: "alzati e va a Ninive" e avvertili. Giona si alza, sì, ma per andarsene dalla parte opposta, "lontano dalla faccia dell'Eterno".
  Va notato anzitutto che Giona, la faccia dell'Eterno, la conosceva. I Niniviti invece no. Qui sta la differenza. Nel passato Dio si era già servito di Giona per annunciare che i confini di Israele sarebbero stati ristabiliti, "secondo la parola che l'Eterno, l'Iddio d'Israele, aveva pronunziata per mezzo del suo servitore il profeta Giona, figlio di Amittai" (2 Re 14:25). Dunque l'Eterno e Giona avevano già avuto rapporti diretti, cosa che certamente non è da tutti. Bisogna allora essere cauti nel sottolineare la disubbidienza di Giona giudicandola secondo canoni di morale universale, che non sono meccanicamente estendibili agli avvenimenti biblici. Si pensi per esempio ad Abramo, che per la seconda volta si comporta da bugiardo quando dice al re Abimelec che Sara è sua sorella. Dio non gli rivolge alcun rimprovero, mentre minaccia di morte il re pagano che voleva prendersi Sara credendo che fosse libera. E non solo questo, ma tenendolo sotto minaccia di morte ordina ad Abimelec: "restituisci la moglie a quest'uomo, perché è profeta; ed egli pregherà per te, e tu vivrai" (Genesi 20:7). La differenza dunque sta in questo: che Abramo è profeta, come anche Giona. Il che significa che da loro Dio si è fatto conoscere e li ha inseriti nel suo piano d'azione. E in entrambi i casi è proprio attraverso la loro umana debolezza che Dio riesce a far arrivare la sua conoscenza anche ai pagani.
  Come sempre nella Bibbia, anche nella storia di Giona le parti in gioco sono tre: Dio, Israele e le nazioni. Ogni tanto sale dalla terra al Cielo il segnale di qualcosa che non va nelle nazioni. E Dio, invece di affrontare direttamente il problema, si rivolge a un membro del suo popolo Israele. La cosa cominciò molto presto con Sodoma e Gomorra. Che gli uomini siano peccatori, tutti lo sanno, ma quando la cattiveria umana arriva a certi punti la cosa comincia a diventare insopportabile anche per Dio. Così, proprio all'inizio del suo soggiorno in Canaan, Dio confida ad Abramo che è arrivato in cielo il segnale di qualcosa di molto grave che sta avvenendo sulla terra:
    "E l'Eterno disse [ad Abramo]: il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e il loro peccato è molto grave" (Genesi 18:20).
Che fare? Dio comunica ad Abramo le sue intenzioni:
    "Ora io scenderò e vedrò se hanno davvero agito secondo il grido che è pervenuto a me; e, se così non è, lo saprò" (Genesi 18:21).
Ma se così è - si potrebbe aggiungere -, è chiaro che le cose non potranno rimanere come prima. Ma perché Dio fa questa confidenza ad Abramo? La Bibbia lo spiega riportandoci un singolare colloquio di Dio con stesso avente come oggetto Abramo:
    "E l'Eterno disse: Celerò io ad Abramo quello che sto per fare, giacché Abramo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?" (Genesi 18:17-18).
La nazione che nascerà da Abramo sarà dunque lo strumento di cui Dio si servirà per benedire tutte le nazioni della terra, cioè portare tra i popoli la benedizione della sua presenza attiva, che potrà esprimersi in forma sia costruttiva sia distruttiva a seconda delle risposte degli uomini. Ma in tutti i casi l'azione di Dio nella storia passerà sempre attraverso il punto di riferimento stabile che Egli si è costituito sulla terra: Israele. E' un impegno che Dio si è preso con Sé stesso, e pertanto è immodificabile: fa parte integrante della rivelazione di Dio, e nessuno può correggerla secondo i suoi gusti. Prendere o lasciare.
  Ci fu un altro momento, prima dei fatti di Ninive, in cui Dio fu colpito da qualcosa di sgradevole che gli arrivava dalla terra. Fu quando udì il grido di dolore che proveniva dal suo popolo in Egitto:
    "I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe" (Esodo 2:23-24).
E che fa Dio in questo caso? Non interviene direttamente con tutta la sua autorità, ma attiva un membro del suo popolo: Mosè. Perché Dio agisce così? Era questo l'unico modo di affrontare il problema della sofferenza degli ebrei? Sono queste le domande che si pone anzitutto una lettura teocentrica della Bibbia. Altre letture si concentrano invece sulla tirannia dei potenti, le sofferenze degli oppressi, i loro aneliti alla libertà e altri aspetti di nobilissima aspirazione alla giustizia sociale che però non rendono ragione di quello che sta effettivamente scritto. E quando sono spinte abbastanza avanti, queste letture arrivano perfino a mettere sotto accusa di immoralità proprio il Dio della Bibbia.
  Il Creatore che ha lavorato sei giorni per creare i cieli e la terra e tutto ciò che in essi è contenuto, il settimo giorno si riposò. Ma dopo la caduta dei nostri progenitori fu costretto a riprendere il lavoro. Un lavoro diverso dal precedente, che deve mettere riparo a un disastro e ha come oggetto un'umanità decaduta che vive su una terra maledetta. Ma è aperto al futuro, mira al raggiungimento di un nuovo riposo in cui Dio potrà un giorno dire, come nella prima creazione, "Ecco, è molto buono".
  La vera storia del mondo è costituita dunque dal susseguirsi di interventi di Dio che è in cielo in mezzo al muoversi di uomini e nazioni che sono sulla terra.
  Anche al tempo di Giona il primo problema di Dio era il suo popolo. Ma in che senso Israele è un problema per Dio? Perché gli ebrei non si vogliono bene fra di loro? Perché amano troppo i soldi e praticano la corruzione negli affari? Perché i sacerdoti vanno a letto con le mogli altrui? Perché non si attengono rigorosamente alle norme della legge mosaica? E si potrebbe continuare facendo altre domande di questo tipo. Ma individuare il problema di Israele nelle risposte a queste domande significherebbe dire che il peccato fondamentale di Israele consiste nel non attenersi strettamente al modello di moralità indicatogli da Dio. E' questa la benedizione che Dio vuol far scendere su Israele affinché la trasmetta al mondo? L'esempio di un popolo che si comporta in modo moralmente perfetto? No. Il male del mondo non consiste nella mancanza di amore fra gli uomini, ma nella colpevole rottura del giusto rapporto degli uomini con Dio. Il vero rimedio al male del mondo dunque non può che consistere nella riconciliazione degli uomini con Dio. Ma poiché è Dio la parte offesa, l'offensore non può pensare di poter decidere da solo quali sono le condizioni per ristabilire i rapporti rotti. Questo può farlo soltanto la parte offesa, che in questo caso è Dio. La benedizione che Dio vuole far scendere sugli uomini attraverso Israele è appunto, in primo luogo, la possibilità di essere perdonati da Dio, riconciliati con Lui.
  Torniamo allora a Giona. Due nazioni sono in gioco: l'Assiria e Israele. Entrambe sono in posizione di rottura con Dio, ma in modo diverso. L'Assiria è una nazione pagana, feroce, serva efficace di una quantità di demoni operanti sotto la maschera di vari idoli; Israele è la nazione che si comporta come serva infedele dell'unico vero Dio che ha creato i cieli e la terra. Giona, come profeta, lo sa, e probabilmente ne soffre, perché ama la sua nazione e ne va fiero. Vede avvicinarsi il pericolo assiro e teme che possa essere usato da Dio come "verga della sua ira" (Isaia 10:5). Per Giona forse il favore di Dio verso il suo popolo potrebbe esprimersi nel perdonare Israele e confondere la superbia della nazione pagana facendogli subire una esemplare batosta da parte dei suoi nemici, tra cui potrebbe esserci l'Egitto.
  Ma questo non avviene. Quello che avviene è che a Giona cade addosso, come un macigno, l'ordine di andare a Ninive, capitale dell'Assiria, a consegnare un messaggio particolare da parte di Dio. Il messaggio era minaccioso, parlava di malvagità dei niniviti che a Dio non era ignota, avrebbe potuto quindi essere interpretato come un primo passo a cui sarebbe seguita una punizione esemplare dell'altera nazione pagana. Ma Giona "non ci casca". Lui lo conosce, Dio, e ha capito che il sasso piovuto dal Cielo serve più a colpire lui che gli assiri. E non ci sta. Ma non è una disubbidienza, la sua! E' una lite. Tra due che si amano. Giona "mette il muso" con Dio, come può accadere fra due coniugi che pure si vogliono bene. Certo, dalla parte Giona la lite è seria. Lui vorrebbe farla finita. E' deluso, irritato. Non vuole più vedere Dio, e va a cercarsi un posto "lontano dalla faccia dell'Eterno". Anche tra due coniugi che sinceramente si amano può accadere qualcosa del genere in un momento di forte contrasto: può accadere che uno dei due veda la cosa così nera da arrivare al punto di dire "basta, è finita, non ne voglio più sapere". In quel caso è compito dell'altro che non solo ama ma sa anche vedere le cose con maggiore chiarezza, liberare il coniuge dal laccio di amarezza in cui è caduto, non tanto con dolci parole ma piuttosto con atti di indiretto e intelligente soccorso. Ed è quello che tenta di fare Dio con Giona. Perché il campo d'azione di Dio non è il cortile di una caserma; non è che se uno sbaglia, tentando per esempio di imboscarsi come sembrerebbe aver fatto Giona, quando è scoperto si sente arrivare addosso la sentenza: "Stai punito!" E infatti un ordine simile a Giona non arriva, né prima né dopo. Come mai? Ancora una volta si pone la domanda: perché Dio agisce così?

(2) continua

(Notizie su Israele, 4 aprile 2021)


 

Il nucleare dell'Iran. E tutto il resto

L'incontro con Teheran è un'occasione da non sprecare per gli europei

Martedì a Vienna cominciano i negoziati indiretti tra America e Iran sul nucleare. L'Amministrazione Biden vuole il ripristino del patto del 2015, l'Iran vuole l'annullamento di tutte le sanzioni, da entrambe le parti c'è consenso sulla direzione da prendere ma disaccordo su chi dev'essere il primo a fare la mossa di concedere all'altro. Sono negoziati indiretti nel senso che ci saranno Unione europea, Francia e Germania a fare da mediatori, proprio nel senso fisico. Americani in una stanza, iraniani in un'altra stanza ed europei a fare avanti e indietro per scambiare le proposte e le risposte. L'Europa ha l'occasione di mostrare di sapere che in realtà i negoziati sul nucleare iraniano non possono essere soltanto sul nucleare, ci sono altre questioni cruciali che non possono più essere separate. Un esempio? La ricerca sui missili balistici, che possono fare da vettori a testate nucleari. Un altro? Gli attacchi all'estero compiuti grazie a milizie irregolari e che però sono creazioni dell'Iran, armate e finanziate proprio per colpire senza doversi prendere la responsabilità politica e ufficiale. E ancora: le politiche aggressive in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Se l'America e l'Europa adesso appoggiano la fine della massima pressione tentata dall'Amministrazione Trump non possono trascurare questi dossier, perché di sicuro l'Iran non li trascurerà. Hanno un posto d'onore accanto al nucleare. Altrimenti si tratterebbe la questione del programma atomico come se fosse un tema isolato e quasi soltanto un'ipotesi proiettata nel futuro, mentre il medio oriente è invece teso e in guerra come non mai, dai droni che esplodono nelle raffinerie saudite ai dissidenti uccisi in Libano e in Iraq alle milizie che si addestrano in Siria alle navi sabotate in navigazione nel Golfo e nel Mediterraneo orientale.

(Il Foglio, 3 aprile 2021)


Siamo onesti, sulla politica di contrasto all'Iran Netanyahu ha sbagliato

Se gli iraniani sono ad un passo dal confine con Israele, ad un passo dall'avere la bomba atomica, controllano Libano, Siria, Iraq e stanno per controllare lo Yemen, lo vogliamo ammettere che qualcosa non ha funzionato?

di Franco Londei

Sono sempre stato un fervente sostenitore di Benjamin Netanyahu, non per ragioni politiche delle quali non mi interesso, ma perché ho sempre creduto che fosse l'uomo migliore per guidare Israele.
  E lo penso ancora. Tuttavia questo non mi esime dal criticarlo per quelli che io credo essere stati una serie di gravi errori nella politica di contrasto all'Iran.
  Il primo punto è il più evidente. Se gli iraniani sono posizionati a pochi Km dal confine israeliano un errore di gestione ci deve essere stato.
  Puoi fare tutti i raid aerei che vuoi contro le basi iraniane in Siria, purtroppo il succo non cambia: gli iraniani sono lì, e possono vedere il confine di Israele anche senza cannocchiale.
  Il secondo punto, sempre a mio modestissimo parere, è quello relativo all'aver dato troppa fiducia a Donald Trump e all'aver puntato quasi tutto sul fatto che sarebbe stato rieletto.
  Questo ha provocato due gravi storture. La prima e più evidente è quella di aver corrotto i rapporti con gli Stati Uniti al punto che il Presidente Biden ha chiamato Bibi solo dopo un mese dalla sua elezione. Indiscutibilmente uno smacco politico.
  La seconda stortura, meno evidente ma forse più importante, è quella che proprio a causa della troppa sicurezza nella rielezione di Trump, Israele non si è procurato il necessario per mettere in pratica le minacce contro l'Iran. In poche parole, le bombe anti-bunker.
  Tutto sembrava essere pronto per farle arrivare in Israele, ma si era così sicuri di avere tempo che non si è accelerato come si sarebbe dovuto fare. Ora Biden non le fornirà mai e senza quelle bombe Israele non può attaccare le centrali nucleari iraniane. Ergo, le minacce verso Teheran sono minacce vuote.
  Il terzo punto è forse il più importante. Netanyahu ha sempre sostenuto che con l'Iran non bisognasse trattare ed era un convinto sostenitore del ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA, cioè dall'accordo sul nucleare iraniano. Lo ero anche io, tanto che ho gioito quando Trump è uscito da quel bruttissimo accordo.
  Ma con il senno di poi quella decisione alla quale non sono stati fatti seguire atti concreti per non permettere all'Iran di andare comunque avanti con il suo programma nucleare, è stata una decisione sbagliata.
  Mi spiego meglio. Di per sé la decisione era giustissima, ma sarebbe dovuta essere stata accompagnata da una serie di azioni mirate a fermare il programma nucleare iraniano, anche con azioni violente.
  Invece non si è andato oltre alle sanzioni e gli Ayatollah, senza più nessuno a controllare, sono veramente a un passo dalla bomba.
  Facendo un breve riassunto di quella che è stata la politica di contrasto all'Iran negli ultimi anni non possiamo non notare che:
  • gli iraniani sono al confine con Israele
  • gli iraniani sono a un passo dalla bomba atomica
  • gli iraniani hanno portato avanti un programma balistico in grado di trasportare ordigni nucleari
  • gli iraniani controllano Libano, Siria e Iraq mentre stanno per prendere possesso anche dello Yemen
Onestamente non mi sembra che negli ultimi anni la politica di contrasto all'Iran portata avanti da Netanyahu e Trump abbia dato risultati, anzi…
  Ora temo che sia troppo tardi per cambiare passo e per agire contro l'Iran in maniera definitiva. Paradossalmente possiamo solo sperare che il tentativo del Presidente Biden di rimettere un qualche controllo al programma nucleare iraniano vada a buon fine. Questo permetterebbe a Israele (e al mondo) di prendere tempo e magari decidere il da farsi.
  Certo, la soluzione più pratica e veloce sarebbe quella che Biden autorizzi il trasferimento in Israele delle bombe anti-bunker e degli aerei adatti a trasportarle. Ma la vedo veramente dura.

(Rights Reporter, 3 aprile 2021)


L'islamista Abbas parla agli israeliani, Netanyahu agli alleati di destra

Davanti a decine di telecamere giovedì sera il leader del partito Raam ha parlato di coesistenza tra ebrei e arabi e si è detto pronto a far parte di qualsiasi governo pur di risolvere i problemi della minoranza araba

Di un governo di destra «stabile e funzionante il più presto possibile», hanno discusso ieri per tre ore il leader di Yamina (nazionalista religioso) Naftali Bennett e il premier Netanyahu. Con quali esiti non si sa. Bennett, che con i suoi sette seggi sarà determinante per formare una maggioranza, stasera vedrà il centrista Yair Lapid (Yesh Atid), che guida il blocco contro Netanyahu. Non è affatto scontato che da questi colloqui emerga qualcosa di utile per l'incarico di premier che il presidente Rivlin affiderà il 7 aprile. E resta sempre da sciogliere il nodo del rapporto tra i partiti sionisti, di destra e di centrosinistra, con l'islamista Mansour Abbas, leader del partito Raam che, uscito sbattendo la porta dalla Lista unita araba, il 23 marzo ha superato a sorpresa la soglia di sbarramento e si ritrova ora in dote quattro seggi fondamentali per le ambizioni sia di Netanyahu che del suo rivale Lapid. Disponibile a entrare in un governo con partiti di destra, Abbas due giorni fa ha dimostrato di essere consapevole della sua centralità nell'attuale situazione di stallo.
  Giovedì alle 20, l'ora in cui gli israeliani vedono apparire sugli schermi tv il volto del primo ministro o del suo principale oppositore, invece in diretta televisiva c'era Abbas, protagonista di una conferenza stampa di un politico arabo israeliano mai tanto seguita dalla maggioranza ebraica del paese. Davanti a decine di telecamere, con alle spalle in bella vista le bandiere verdi del movimento islamico, il capo di Raam si è rivolto agli israeliani ebrei. «Quello che ci unisce è maggiore di quanto ci divide …Il mio nome è Mansour Abbas, orgoglioso arabo e musulmano, e cittadino dello stato d'Israele» ha esordito esprimendosi in ebraico. «Tendo la mia mano - ha aggiunto - per creare un'opportunità di coesistenza in questa terra, sacra alle tre religioni monoteistiche ed entrambe le nostre nazioni…Non dobbiamo essere d'accordo su tutto e saremo in disaccordo su molto. Ma dobbiamo dare a noi e i nostri figli l'opportunità, il diritto, di capirci l'uno con l'altro».
  Non ha fatto alcun cenno a Gerusalemme, non ha affermato la sua identità di palestinese nella Palestina storica e non ha parlato dei Territori occupati. Inoltre, tradendo le attese dei media, non ha indicato lo schieramento al quale vorrebbe unire il suo partito. «Non voglio far parte di alcun blocco politico, destra o sinistra - ha proclamato - chi ha votato per me mi ha dato un mandato per assicurare il soddisfacimento delle necessità degli arabi». La stampa in ebraico ieri era colma di commenti e analisi, in prevalenza favorevoli, al discorso di Abbas. Innumerevoli le reazioni politiche. La Lista unita (6 seggi) non è stata tenera. Ha condannato Abbas per le «omissioni» su Gerusalemme, le discriminazioni dei palestinesi in Israele e i diritti di quelli in Cisgiordania e Gaza. Ma non sono mancati gli applausi al discorso del leader di Raam.
  La giornalista Nahed Dirbas mette in guardia dall'attribuire a Mansour Abbas lo status di leader politico dei palestinesi in Israele. «Non dimentichiamo» ci sollecita «che il 66% degli elettori arabi il 23 marzo ha disertato le urne e i quattro seggi di Raam sono importanti solo perché c'è una paralisi politica tra i partiti sionisti, altrimenti la disponibilità (di Abbas) sarebbe stata ignorata». «Tanti - aggiunge Dirbas - dubitano che Abbas abbia considerato con attenzione la possibilità che una volta cooptato a sostegno di un governo, sia poi messo ai margini dell'esecutivo da Netanyahu o da un altro premier».

(il manifesto, 3 aprile 2021)


La Pasqua ebraica passaggio dal giogo alla libertà

Nella lingua del popolo d'Israele è detta Pesach e durante la tradizionale cena si commemorano la fuga dalla schiavitù in Egitto e l'inizio dell'esodo verso la Terra promessa A farcela conoscere e comprendere passo dopo passo sono le parole di Micaela Goren Monti

di Nicola Bottani

A introdurci nella festività di Pesach, come se aprisse le porte della sua casa e ci invitasse a conoscere i suoi familiari, riunitisi - come indicano i precetti religiosi - dopo il tramonto per la cena della Pasqua ebraica, è Micaela Goren Monti.
   «La tradizione vuole che ogni famiglia tenga un posto libero a tavola per chiunque bussi alla porta e chieda di partecipare al Seder, come è chiamata in ebraico la cena pasquale. Quindi vi invito volentieri alla nostra festa, in cui si commemorano e ricordano la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto e l'esodo verso laTerra promessa. Sono momenti cruciali e fondamentali della nostra storia e perciò Pesach per noi ebrei è una delle ricorrenze più importanti dell'anno».
   Sono queste le parole con cui ci accoglie Micaela Goren Monti che poi spiega: «La parola Pesach significa "passaggio" e può anche essere espressa con "passare oltre". Quindi sintetizza ciò che si ricorda passo dopo passo con il Seder, il cui significato è invece "ordine", "sequenza". E difatti il Sedersi svolge seguendo un ben preciso rituale, iniziando dalla domanda "Perché questa notte è diversa dalle altre?", posta dal capofamiglia al commensale più giovane. L'idea è quella di coinvolgere i bambini con delle domande per far sentire loro il significato della festività. È anche lo spunto che permette poi agli adulti di procedere con invocazioni, canti e soprattutto la lettura della Haggadah, traducibile con "narrazione". È l'antico libro grazie al quale i commensali più anziani ricordano, sviluppano e approfondiscono gli episodi vissuti dal popolo ebraico e commemorati a Pesach (appunto: la liberazione dal giogo egizio e l'inizio di un cammino di libertà verso la Terra promessa). Un esodo comunque caratterizzato da ulteriori fatiche e sofferenze. Pesach è fondamentalmente un'esperienza percettiva, sensoriale e naturalmente di rievocazione storica. Quello che conta è il "come se": ovvero "come se foste voi stessi usciti dall'Egitto oggi", il rivivere quell'esperienza veicolandola attraverso l'emozione della narrazione e il gusto del cibo simbolico presente in tavola».

 Cibi semplici ma significativi
  Ecco dunque che sulla tavola imbandita per il Seder troviamo alimenti poveri, essenziali nella loro semplicità ma altamente simbolici. «Il nostro piatto pasquale è composto in primo luogo da pane azzimo, erbe amare e uova sode, senza scordare vino e una zampa d'agnello arrosto, che però non viene consumata È infatti portata in tavola per ricordare il sangue di agnello con cui erano stati contrassegnati gli stipiti delle porte delle case degli ebrei schiavi del faraone Ramses II affinché l'angelo sterminatore risparmiasse i loro primogeniti dalla morte a cui erano stati invece condannati quelli degli egizi. È l'ultima delle dieci piaghe d'Egitto, dopo la quale il faraone finalmente si decise a liberare gli ebrei».
   Prima di passare al perché di erbe amare, uova e pane azzimo, ci concediamo una pausa, come per prenderci il tempo di appoggiare le labbra a uno dei quattro bicchieri di vino prescritti come un obbligo dal rituale. «Bere vino- sono sempre parole di Micaela Goren Monti - è fondamentale ed è un altro momento importante della festa perché ricorda una ebbrezza di libertà. I quattro bicchieri divino si consumano in memoria delle altrettante espressioni utilizzate da Dio nel momento in cui annunciò a Mosè, guida degli ebrei, l'ormai prossima liberazione dal giogo del faraone. Le espressioni sono "li sottrarrò" dalle sofferenze dell'Egitto, "li farò uscire" dal luogo di schiavitù, "li redimerò e li prenderò come mio popolo". Il vino caratterizza anche il primo gesto del Seder: viene offerto come segno di benvenuto a chi varca la soglia di casa per partecipare alla cena della nostra Pasqua».
   E dopo il brindisi? «Ci si lava le mani con l'acqua lasciata cadere da una caraffa e si prende posto a tavola. Importante è mangiare stando appoggiati sul fianco sinistro oppure con il rispettivo gomito appoggiato sul tavolo. È un altro richiamo alla liberazione del popolo d'Israele dalla schiavitù. Anticamente solo agli uomini liberi era concesso di prendere i pasti stando in una posizione comoda e rilassata».
   Dell'agnello e del vino ora sappiamo. Qual è invece il significato di erbe amare, uova e pane azzimo? «Sedano, foglie di insalata come l'indivia o prezzemolo sono le erbe amare del Seder simboleggiano l'amarezza della schiavitù del popolo d'Israele. Si consumano dopo averle intinte in acqua a cui è stato aggiunto sale o aceto, condimento che perciò ricorda le lacrime versate dagli ebrei in Egitto. L'uovo è invece tipico del lutto ed è un alimento che viene anche offerto ai parenti di un defunto al termine delle cerimonie funebri. Nel contempo è anche simbolo di rinascita, della vita che comunque si rinnova nel tempo».
   
 Gli altri simboli e gesti
  Un'altra breve pausa, poi Micaela Goren Monti spiega ancora: «Le azzime sono un pane non lievitato come quello che gli ebrei portarono con sé fuggendo dall'Egitto, pane che non fecero in tempo a far lievitare. Anche le azzime hanno quindi un grande significato, tanto che prima dell'inizio della Pasqua i precetti religiosi e la tradizione prevedono che ogni ebreo contribuisca a pulire a fondo e attentamente la casa per eliminare ogni traccia di cibi lievitati, fosse anche una sola, minuscola briciola. Nel Seder, una azzima sottratta e nascosta nel corso della cena da bambini e ragazzi è il pretesto affinché i più giovani fra i commensali la possano restituire in cambio di doni, permettendo così il proseguimento della liturgia con altre letture, canti e l'augurio finale di ritrovarsi per la successiva Pesach tutti insieme a Gerusalemme. Senza però aver scordato di assaggiare anche il Charoset, magari spalmato fra due fette di pane azzimo. È un denso impasto che a sua volta simboleggia la malta utilizzata dagli ebrei per costruire gli edifici del faraone e viene preparato tritando finemente e amalgamando fra loro datteri, mele, banane, frutta secca come noci o nocciole, pinoli e molti altri ingredienti, a seconda delle tradizioni locali e familiari. Per il Charoset esistono mille e più ricette, come sono anche le sfaccettature della vita e della cultura ebraiche».

(Corriere del Ticino, 3 aprile 2021)


Cécile Lemoine. Come si insegna il cristianesimo in Israele?

Il 78 per cento degli ebrei che vivono in Israele sono nati nel Paese. Cosa sanno del cristianesimo e dell'ebreo più famoso al mondo: Gesù? Tre ricercatori israeliani hanno affrontato la questione dell'insegnamento del cristianesimo nelle scuole israeliane.
  Per la prima volta da duemila anni, gli ebrei in Israele possono vivere la loro religione come un fatto maggioritario, possono viverlo cioè senza dover fare riferimento al cristianesimo. Dato che il 78 per cento degli ebrei che vivono nello Stato ebraico sono nati nel Paese, che cosa sanno i giovani israeliani della religione cristiana? «Non molto», è la recente conclusione di una indagine di tre ricercatori della Open University di Israele, dal titolo Jesus Was a Jew (Gesù era un ebreo. Presentazione dei cristiani e del cristianesimo nella pubblica istruzione israeliana) e il cui obiettivo era capire come il cristianesimo è insegnato nelle scuole del Paese.
  Le storie costruite e insegnate a scuola rivelano la mentalità di un intero popolo e perciò meritano un'analisi. Orit Ramon, Ines Gabel e Varda Wassermann hanno quindi sezionato i libri di testo delle scuole pubbliche e religiose sioniste, decifrando gli atteggiamenti degli insegnanti.
«Gli israeliani conoscono poco o molto male il cristianesimo», lamenta Orit Ramon. Innanzitutto, è insegnato poco e quando lo è, avviene attraverso i libri di storia e non delle religioni. «Si tratta di un dettaglio importante - spiega il ricercatore - poiché la storia viene letta da un punto di vista ebraico e delle persecuzioni subite». Si evidenzia costantemente la responsabilità dei cristiani nell'organizzazione dell'Olocausto. «Alimenta l'idea che i cristiani siano i nemici, e contemporaneamente rafforza l'identità nazionale ebraica. Come in ogni Paese in guerra, la verità viene sacrificata sull'altare del nazionalismo», lamenta David Neuhaus, superiore dei gesuiti di Terra Santa e direttore del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. Nato in una famiglia ebrea e ordinato sacerdote nel 2000, padre Neuhaus lavora da allora per creare ponti tra ebrei e cristiani.

 Rifiuto di tutto ciò che non è ebraico
  Il cristianesimo non viene mai affrontato nella sua diversità. La Chiesa cattolica è l'unico riferimento utilizzato per parlare di cristiani. Restano fuori protestanti, ortodossi e tutta la complessità di questa religione, associata in alcune scuole religiose sioniste a stereotipi negativi. Il cristianesimo sarebbe una «religione inferiore, fondata sull'idolatria e il furto delle Scritture», osserva padre David Neuhaus.
  Un altro aspetto rilevato dai ricercatori è quello del disprezzo religioso. La frase «Gesù era un ebreo», ricorrente nei libri di testo, illustra bene questa idea. «L'affermazione legittima la presenza ebraica sul suolo israeliano e allo stesso tempo minimizza la religione cristiana», spiega Ramon. Anche il nome di Gesù viene storpiato. È chiamato sistematicamente Yeshu e non Yeshua o Yehoshua, come vorrebbe la traduzione ebraica del nome greco usato nel Nuovo Testamento. «Questo acronimo è sprezzante, perché in ebraico significa "che il suo nome e la sua memoria siano cancellati" - spiega padre Neuhaus, che aggiunge -: oggi, la stragrande maggioranza degli ebrei non praticanti non sa che la parola Yeshu è un insulto».
  Per i ricercatori, questo modo di presentare la religione cristiana a scuola è problematico: «I giovani svilupperanno un atteggiamento del tutto incompleto verso gli altri e verso la differenza. Crescendo, rifiuteranno tutto ciò che non è ebraico», osserva Ramon. David Neuhaus, da parte sua, sottolinea che è una visione «in contrasto con la realtà dello Stato di Israele oggi, un Paese in cui la comunità cristiana è molto piccola e priva di potere». Oggi in Israele ci sono 180mila cristiani, appena il 2 per cento della popolazione. La maggior parte sono arabi cristiani che hanno le proprie scuole.
  Tuttavia, nulla è scolpito nella pietra. L'insegnamento del cristianesimo risente degli eventi che riguardano Israele. «Negli anni Novanta i libri di testo hanno espresso più rispetto e aderenza ai fatti, forse grazie al movimento di apertura seguito alla firma degli accordi di Oslo. Questo è terminato con la seconda intifada a partire dal 2000 - spiega Ramon, che vuole però mettere in luce un elemento positivo -: se da un lato sono in pochi ad affrontare il tema del cristianesimo, quelli che lo fanno sono insegnanti con un certo senso della missione. Lo vedono come un modo per ampliare gli orizzonti e le menti dei loro studenti, per formarli al multiculturalismo».

(Israele - Palestina: testimonianze in attesa, 2 aprile 2021)


Definire l'antisemitismo è una faccenda che divide gli stessi ebrei

La Jerusalem declaration contro l'Ihra. c'entra la critica a Israele

di Emanuele Calò

L'International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) è un'organizzazione intergovernativa, formata da 34 stati membri, i cui governi nominano una loro delegazione. Il presidente onorario è Yehuda Bauer, considerato il maggiore storico della Shoah. Nel 2016, l'Ihra ha approvato una definizione operativa di antisemitismo "non legalmente vincolante", corredata da un elenco di esempi. Questa definizione è stata adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio Ue, che hanno auspicato che gli stati membri che non l'avessero ancora fatto (finora sono 18) provvedessero ad adottarla. Anche fuori dall'Europa, moltissimi stati hanno adottato tale definizione. In Italia la definizione Ihra è stata adottata da Forza Italia, Radicali, Azione e Partito Repubblicano. Quest'anno è stata diffusa la "Jerusalem Declaration on Antisemitism" (Jda) firmata da diversi studiosi, anche italiani, la quale contrasta la definizione Ihra, che in sede di Faq, considera "né chiara né coerente" e della quale si considera un'alternativa: "Quali che siano le sue intenzioni, essa tende a offuscare la differenza fra discorsi antisemiti e legittima critica di Israele e del Sionismo. Essa provoca confusione, nel delegittimare le voci di palestinesi e altri, ebrei compresi, che hanno vedute acutamente critiche di Israele e del Sionismo. Nulla di questo aiuta a combattere l'antisemitismo. La Jda risponde a questa situazione".
   La Jda specifica che la lotta contro l'antisemitismo è "inseparabile dalla lotta globale contro ogni forma di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere". Invece, è separabile, altrimenti si provi a proporre al movimento "Black lives matter" di sostituire la denominazione con "Human lives matter".
   Questa ricerca dell'universalismo, che è una tendenza ricorrente nell'ebraismo, e che differenzia il popolo ebraico dal resto dell'umanità, che tiene alla propria specificità (nelle carte fondative palestinesi si asserisce giustamente che la Palestina è uno stato arabo basato sulla Sharia) si riscontra anche quando la Jda dice che "ciò che è vero del razzismo in generale è vero dell'antisemitismo in particolare"; eppure, quando la sorella di mio nonno fu portata da Roma ad Auschwitz per gasarla, non cercarono altre minoranze, perché l'antisemitismo è il solo razzismo eliminazionista.
   Desta soprattutto perplessità trovare la firma di Michael Walzer, il quale, nel 2019, ha sostenuto idee che mi paiono del tutto incompatibili con quelle della Jda: "Assumo che 'Sionismo' significhi la credenza nella legittima esistenza di uno Stato ebraico, null'altro; ciò che è sbagliato nell'antisionismo è l'antisionismo stesso, perché è indifferente che tu sia un antisemita oppure un filosemita o uno semiticamente indifferente, perché questa è una pessima politica". Vogliamo sentire sia Walzer che i promotori della Jda?
   
(Il Foglio, 2 aprile 2021)


Ariel Toaff. Il mio rabbino è eretico. Come me

Anni fa lo storico italo-israeliano fu attaccato duramente da una parte della comunità ebraica. Ora torna con un giallo letterario su un "rinnegato" di metà '800.

di Davide Lerner

«Ho voluto scrivere un romanzo e non un testo scientifico sulla Kabbalah, il misticismo ebraico, in modo che fosse accessibile al pubblico», dice Ariel Toaff, settantanovenne rabbino e professore italo-israeliano. «Ma gli elementi storici e autobiografici sono importanti». Moisè Ajash, protagonista di Il rinnegato (Neri Pozza) è infatti figlio e nipote di rabbini, proprio come Toaff: suo nonno Alfredo lo fu a Livorno e suo padre Elio è stato rabbino capo di Roma per mezzo secolo. Nel libro Moisè è chiamato a presenziare al funerale del padre infedele, David Ajash, disprezzato per molti anni e misteriosamente scomparso a Nablus, nella Palestina ottomana di meta '800. E mentre la cornice del racconto assume i tratti di un giallo letterario, il lettore si immerge nel diario-testamento di David, fra intrighi religiosi, massonerie e sacrilegi. Sullo sfondo, un'allegoria della polemica rovente che coinvolse l'autore nel 2007, quando pubblicò il saggio Pasque di sangue (il Mulino), in cui sosteneva che alcune sette estremiste dell'ebraismo ashkenazita medievale avessero compiuto omicidi di infanti cristiani e rituali religiosi con il loro sangue: una tesi che indirettamente accreditava infamanti accuse antisemite.

- Professor Toaff, fin dal titolo Il rinnegato balza all'occhio il rimando a quella vicenda.
  «Certo: dopo la pubblicazione di Pasque di sangue tanta parte della comunità ebraica romana mi diede appunto dell'eretico, del rinnegato. Chiesero addirittura a mio padre di non farmi entrare mai più in sinagoga. Da lì nasce l'idea di riprendere la storia del personaggio storico David Ajash, un rabbino che nacque in Italia e visse a Livorno in epoca napoleonica. I suoi commentari sui testi della Pasqua ebraica furono al centro di critiche livorose, così come il suo stile di vita libertino. Sulla scia di Jacob Frank, l'ebreo polacco scomunicato per eresia che si credeva la reincarnazione dell'autoproclamato messia Sabbatai Zevi, anche Ajash si convertì al cristianesimo, prima di ritornare all'ebraismo. L'idea di base è che prima di innalzarsi sia necessario toccare il fondo dell'abisso morale. Zevi, dotto cabalista e trasgressivo pseudomessia che nel 1666 fu costretto a convertirsi dal sultano ottomano, fu una figura simile di"santo peccatore"».

- Nel libro è Moisè, figlio di David, a risentirsi con il padre per i suoi comportamenti e i suoi contrasti con la comunità. È un po' un rovesciamento della sua vicenda personale.
  «Sì, nel mio caso fu mio padre a prendere le distanze da Pasque di sangue, ma mi preme ricordare che non firmò la condanna degli altri rabbini italiani: si limitò a criticare il libro definendolo molto inopportuno. E non obiettò sul merito della mia ricerca storica, la cui solidità ad oggi rivendico. Se ritirai e revisionai il libro fu a causa delle interpretazioni superficiali e sensazionaliste date dai media: la versione rivista non contraddiceva il merito della mia ricerca. Dopo quella polemica non sono più tornato a Roma, tranne una volta, quando è stato dato il nome di mio padre a una via a un passo dalla sinagoga. Ora vorrei tornare per presentare il romanzo».

- La vicenda del nuovo libro si svolge in Italia ma soprattutto fra Nablus e Hebron, due cittadine che attualmente sono nei Territori palestinesi ma hanno un'importanza religiosa l'ebraismo.
  «La mia biografia politica legata alla sinistra sionista definisce il mio rapporto con i territori della Cisgiordania. Li ritengo estranei al moderno stato di Israele, tant'è che vivo a Tel Aviv, ma non per questo estranei alla storia dell'ebraismo».

- A Hebron c'è anche il riferimento più esplicito al caso di Pasque di sangue: un membro della comunità lamenta l'accusa «di aver sacrificato nei giorni della Pasqua un bambino figlio degli sceicchi di qui, una menzogna per la quale abbiamo corso il rischio di essere massacrati».
  «Certo: nel saggio citavo rari casi di vendette contro battesimi forzati e omicidi di bambini ebrei, praticate da poche frange estremiste. Ancora oggi, nell'Israele moderno, ci sono fondamentalisti che hanno dato fuoco a una famiglia araba (l'attacco al villaggio di Duma nel 2015, ndr) e personaggi come Baruch Goldstein, che ha fatto strage di innocenti nella stessa Hebron (29 morti nel 1994, ndr). Ma non sono certo rappresentativi della comunità»

- Sui suoi profili social ama ricordare la figura di suo padre, figura centrale dell'ebraismo italiano.
  «Aveva un carisma e un sorriso fuori dal comune, era capace di comunicare con tutti. Fu fautore del dialogo fra la comunità ebraica e la Chiesa. Io sono Elio nato ad Ancona quando era in clandestinità da partigiano durante la Seconda guerra mondiale. Una volta finì di fronte ad un plotone d'esecuzione nazista e si salvò soltanto perché un ufficiale austriaco si impietosì, scoprendo che anche lui era professore. Non perdonò mai i tedeschi e si rifiutò di scendere dall'aereo quando, per un disguido tecnico, fu costretto ad atterrare in Germania. Per me è un faro che rimane acceso, e non ho altri fari».

(la Repubblica - il venerdì, 2 aprile 2021)


Archeologia: la passione nazionale degli israeliani, e non per caso

La ricerca di reperti ebraici, perfettamente compatibile con quella di altre epoche e civiltà, smentisce coloro che dipingono gli ebrei come intrusi estranei nella loro terra.

"L'archeologia in Israele è un movimento popolare - scrisse Amos Elon nel suo libro del 1971 The Israelis: Founders and Sons ("Israeliani. Padri fondatori e figli") - È quasi uno sport nazionale: non uno sport per spettatori passivi, ma il passatempo attivo ed elettrizzante di molte migliaia di persone" come può essere la pesca o la caccia in altri paesi.
Quelle parole di mezzo secolo fa sono risuonate di nuovo, un paio di settimane or sono, quando alcuni eccezionali ritrovamenti archeologici sono finiti sulle prime pagine dei giornali e nell'apertura in prima serata dei notiziari radio-televisivi del paese. Sebbene sia trascorso molto tempo da quando si poteva onestamente affermare di percepire nella popolazione israeliana il fervore per l'archeologia descritto da Elon, il fatto che i mass-media abbiano dedicato così tanta attenzione a questi reperti, in una settimana che era dominata dalle notizie politiche, indica che ancora ardono le braci dalla grande passione d'Israele per gli scavi archeologici....

(israele.net, 2 aprile 2021)


Primo capo missione in Bahrain strizza l'occhio a Israele

Il "collante" sarebbero proprio gli interessi comuni contro l'Iran

di Elena Grigatti

Il Barhain ha individuato il primo capo per la missione diplomatica in Israele. Una nomina accolta con favore dallo Stato ebraico, come parte degli Accordi di Abramo firmati l'anno scorso grazie alla mediazione statunitense. Non altrettanto entusiasta sarà invece l'Iran. Proprio lo Stato sciita potrebbe sentirsi minacciato dalla ripresa delle relazioni tra i due paesi arabi.

 Chi sarà il primo capo diplomatico?
  Il Bahrein ha nominato il primo capo della sua missione diplomatica in Israele, come parte degli Accordi di Abramo del 13 agosto 2020. Secondo l'agenzia di stampa nazionale BNA, il 30 marzo Hamad bin Isa Al Khalifa ha approvato due decreti regi. Uno per la costituzione della prima sede consolare del paesi in Israele. Mentre l'altro confermava la scelta operata domenica dal ministro degli Esteri Abdullatif bin Rashid Al Zayani, conferendo l'incarico all'ambasciatore Khalid Yusuf Al-Jalahma. Come riferisce Forbes, il nuovo ambasciatore è stato direttore delle operazioni presso il ministero degli Esteri del Bahrain nel 2017. Mentre in precedenza era vice capo missione negli Usa, dal 2009 al 2013. Prima dell'annuncio, il ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, ha parlato con il suo omologo del Bahrein, Abd al-Latif al-Zayani. Infatti, il dicastero del Bahrein aveva inviato una lettera ufficiale alle autorità in Israele con la richiesta di consenso all'ambasciatore designato.

 La dichiarazione
  Dal canto suo, Ashkenazi ha accolto con favore la nomina. Tanto che ha ringraziato telefonicamente al-Zayani per voler stabilire piene relazioni diplomatiche con Israele. Ma anche per "la sua forte amicizia, nonché per il coraggio e la guida del re del Bahrein". In particolare, il ministro israeliano ha dichiarato che si tratta di "un altro passo importante nell'attuazione dell'accordo di pace e nel rafforzamento dei legami tra i due paesi". Un consolidamento possibile anche grazie alla mediazione statunitense. In effetti, la nuova ambasciata rientra nella più ampia normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli altri paesi del Golfo. Per questo, una nomina seguita da vicino anche dagli EAU. Uno dei paesi firmatari dell'accordo. Del resto, i tre stati arabi condividono identiche preoccupazioni sulla questione del nucleare dell'Iran.

 Le premesse
  A settembre 2020, il Bahrein aveva annunciato che stava normalizzando i legami con Israele. Non era trascorso nemmeno un mese dall'identico annuncio da parte degli Emirati Arabi Uniti. Per il Bahrain sarà il primo consolato sul suolo israeliano. Mentre lo Stato ebraico già prima dell'annuncio della normalizzazione aveva aperto un ufficio diplomatico segreto a Manama, la capitale del Bahrein. Almeno dal 2009, stando alle indiscrezioni. Pur se mascherato come Centro per lo sviluppo internazionale. Intanto, il Jerusalem Post riferisce che una squadra del Bahrein dovrebbe arrivare in Israele nelle prossime settimane. Questo per prendere gli accordi necessari a istituire la nuova ambasciata nell'area di Tel Aviv.

 Come si è giunti al primo capo diplomatico in Israele?
  A ben vedere, anche prima degli accordi di Abramo il Bahrein aveva promosso lo sviluppo di alcuni importanti legami con Israele. Ad esempio, nel giugno 2019 aveva ospitato il seminario economico Peace to Prosperity. Il programma guidato da Jared Kushner, consigliere e genero del presidente Donald Trump per il Medio Oriente, inteso a forgiare un accordo di pace israelo-palestinese. Sebbene si sia risolto in un nulla di fatto, quel progetto aveva posto le basi per un dialogo futuro. Fino all'inaugurazione delle rispettive ambasciate nei due paesi. A gennaio, Israele ha nominato Itay Tagner come suo incaricato d'affari in Bahrain. Mentre Eitan Naeh avrebbe svolto lo stesso ruolo negli Emirati Arabi Uniti. Quel mese, anche gli EAU avevano confermato che avrebbero aperto una sede consolare nello Stato ebraico.

 Il primo capo diplomatico EAU
  Tanto che a metà febbraio avevano nominato Mohamed Mahmoud Al-Khaja primo ambasciatore nel paese. Arrivato in Israele agli inizi di marzo, il nuoco console emiratino si è presentato al presidente israeliano Reuven Rivlin. Al-Khaja ha trascorso qualche giorno nello Stato ebraico, prima di ripartire. La prossima visita dovrebbe avvenire il prossimo mese. Nel frattempo, Al Khaja aveva scritto un saluto pasquale sul suo account Twitter. "Celebriamo tutti gli ideali universali di libertà e speranzosi nuovi inizi. Abbiamo molto di cui rallegrarci e aspettarci. Buona Pasqua e Chag Sameach. A presto Israele."

 La normalizzazione in Medio Oriente
  Eppure, quello del 15 settembre scorso aveva rappresentato il primo accordo ratificato tra Israele e un Paese arabo in 25 anni. L'accordo normalizzava le relazioni diplomatiche tra i due paesi anche attraverso lo scambio di sedi consolari nonché di traffico aereo. Inoltre, nell'intesa rientrava anche la cooperazione nel settore della tecnologia, della salute e dell'agricoltura. Oltretutto, gli Emirati Arabi Uniti erano stati il primo paese del Golfo a riconoscere lo Stato di Israele dall'epoca della firma del Trattato di pace con la Giordania nell'ottobre 1994. In effetti, tali accordi mediati dagli Usa hanno rappresentato solo un primo passo nella direzione di altre intese simili. Come con l'Oman o l'Arabia Saudita. Invece, Israele e Sudan avevano ripreso il dialogo nell'ottobre 2020, dopo la visita dell'allora segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin nella capitale sudanese di Khartoum. Mentre il Marocco ha aderito agli Accordi di Abramo a dicembre.

 Com'è stata accolta la notizia del primo capo del Barhain?
  L'ex ambasciatore del Bahrein negli Usa, Houda Nonoo, che ha lavorato con Jalahama a Washington ha detto di essere "entusiasta che lui contribuisca a inaugurare questa prossima fase delle relazioni Bahrein-Israele". Mentre il rabbino Marc Schneier di New York, consigliere speciale del re del Bahrein, ha affermato che la nomina di Jalahama "farà avanzare profondamente (lo) spirito di pace, cooperazione e convivenza in Medio Oriente". E ancora. "Nei miei numerosi incontri con i leader del Golfo nel corso degli ultimi 12 anni, nessun altro leader del Golfo oltre a Sua Maestà il Re Hamad bin Isa Al Khalifa del Bahrain è stato così sinceramente impegnato a stabilire relazioni diplomatiche con Israele". Poi, ha concluso: "Nelle sue parole in una riunione al Palazzo Reale nel 2016, l'unica speranza per una forte voce araba moderata è un forte Israele".

 Quando arriverà il primo capo diplomatico in Israele?
  Nonostante il decreto con il quale è stato nominato ha effetto immediato, il suo incarico comincerà solo quando sarà stabilita la sede diplomatica nello Stato ebraico. Anche se Khaled Yousif Al-Jalahma dovrebbe giungere in Israele nelle prossime settimane. O comunque non appena saranno espletate le relative formalità. Ma dove sarà posta la rappresentanza del Barhain è una questione affatto scontata. Anche in considerazione della opposizione della comunità palestinese.

(Periodico Daily, 1 aprile 2021)


Frosinone, il consiglio adotta uno strumento contro l'antisemitismo

di Alfredo Di Costanzo Zone

Il consiglio comunale di Frosinone ha approvato la delibera avente ad oggetto l'adozione della definizione operativa di antisemitismo.
Il documento fa seguito alla partecipazione del Comune di Frosinone all'evento in videoconferenza, di carattere nazionale, "L'adozione della definizione di antisemitismo dell'IHRA (Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto): uno strumento concreto nella lotta all'antisemitismo ed un onore per l'Italia", a cui ha preso parte, in rappresentanza dell'ente, l'assessore Riccardo Mastrangeli. Nel corso del dibattito virtuale, era stata annunciata la presentazione della mozione, che avrebbe visto insieme maggioranza e minoranza, quale strumento di contrasto ad ogni forma di intolleranza, al fine di ribadire i valori della pace, della coesione sociale, della solidarietà, della cultura dell'ascolto, così come sottolineato anche dal sindaco, Nicola Ottaviani, in occasione della Giornata della Memoria, durante la visita con Luigi Yitzhak Diamanti (Associazione "Amici di Israele") all'Istituto Turriziani, incontrando una rappresentanza degli studenti. Tra i comportamenti antisemiti indicati nella definizione dell'Ihra vi sono: negare al popolo ebraico il proprio diritto all'autodeterminazione; adottare due misure diverse aspettandosi da Israele un comportamento non atteso o richiesto a nessun'altra nazione; usare i simboli e le immagini associate all'antisemitismo classico per caratterizzare Israele e gli israeliani; tracciare paragoni tra la presente politica d'Israele e quelle dei nazisti; ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato d'Israele. Mentre le critiche rivolte a Israele "che siano simili a quelle mosse a qualsiasi altro Paese" non possono essere considerate antisemite.

 Mozione
 La mozione, illustrata da Danilo Magliocchetti, impegna il consiglio comunale ad attivarsi nelle sedi opportune per fare in modo che la definizione operativa di antisemitismo sancita dall'IHRA nella sua integrale definizione ed esemplificazioni, diventi patrimonio culturale e giuridico comune, secondo quanto sollecitato nella Risoluzione con raccomandazioni del Parlamento Europeo "Lotta contro l'antisemitismo", finalizzata a rifuggire, respingere, condannare e contrastare, in qualsiasi forma, ogni atto, dichiarazione, atteggiamento, individuale o collettivo, ogni forma di pregiudizio, ogni movimento, propaganda, iniziativa e comunque ogni condotta, attiva od omissiva, individuale o collettiva che esprima, comporti, denoti o abbia come conseguenza diretta o indiretta l'ostilità, l'avversione, la denigrazione, la discriminazione, la lotta o la violenza contro gli Ebrei, i loro beni e pertinenze, anche religiosi o culturali. Ferma condanna anche di segni, simboli, oggetti, immagini, riproduzioni che esprimano, direttamente o indirettamente, pregiudizio, odio, avversione, ostilità, lotta, discriminazione o violenza contro gli Ebrei o negazione della Shoah e di ogni altra violenza, discriminazione o persecuzione abbia avuto, nella storia, destinatari o vittime gli Ebrei.

(Il Tabloid, 1 aprile 2021)


La busta numero cinque

In Israele s'aprono i negoziati per il prossimo governo. C'è chi guarda già oltre

Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha ricevuto i risultati elettorali definitivi. La commissione che si occupa di verificare se ci sono stati brogli ha detto che non ci sono state irregolarità e adesso potranno partire gli incontri, le prove tecniche di alleanze, le esplorazioni e i corteggiamenti seri. Le elezioni israeliane di martedì 23 marzo si sono concluse senza un risultato definitivo e ci sono addirittura due aghi della bilancia, un inedito. Il partito di destra Yamina di Naftali Bennett e Ra'am, il partito degli arabi israeliani di Mansour Abbas. Sono loro i più corteggiati e i più cercati dal blocco dei pro Netanyahu e degli anti Netanyahu. Il presidente si è raccomandato con i politici di essere pronti a fare scelte nuove e ad aprirsi a "collaborazioni insolite". Il Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu, ha interpretato l'invito di Rivlin come un tentativo di rafforzare il fronte degli anti Bibi. Il Likud rimane il partito che ha ottenuto più seggi nella Knesset (30), ma finora la sua coalizione sembra quella più fragile. L'opposizione tiene al suo interno sensibilità molto diverse, unite tutte dall'unico desiderio di togliere la premiership a Benjamin Netanyahu. Sembra più motivata, ma dopo aver votato le prime leggi contro il premier, rischia di sfaldarsi molto in fretta. O potrebbe addirittura non formarsi mai, al suo interno comprende sette partiti, nove se Yamina e Ra'am decideranno di unirsi a loro, e tutti i leader vogliono essere nominati premier.
   Rivlin svelerà il 7 aprile a chi affiderà il mandato per formare un governo, e ha chiesto ai partiti di essere pronti a esercitarsi al compromesso. Ma in tanti già guardano oltre, lo stallo pare insuperabile. Gli strateghi dei partiti iniziano a studiare nuove strategie e il presidente della commissione elettorale ha detto che già stanno disegnando le buste per un'altra elezione, la quinta, per la formazione della venticinquesima Knesset. C'è chi inizia a sussurrare già un mese: ottobre 2021.
   
(Il Foglio, 1 aprile 2021)


Rivlin sollecita alleanze non convenzionali per la formazione del governo

Secca la reazione del Likud secondo il quale il presidente è tenuto dalla consuetudine, se non dalla legge, a conferire l'incarico al leader del partito di maggiorana relativa.

Il presidente d'Israele Reuven Rivlin (a destra) riceve i risultati ufficiali delle elezioni dal presidente della Commissione Elettorale Centrale, giudice Uzi Vogelman
Il presidente d'Israele Reuven Rivlin ha suscitato vivaci polemiche quando, mercoledì, ha esortato i partiti eletti nella 24esima Knesset a formare alleanze inedite pur di dare un governo stabile al paese, lasciando intendere che potrebbe conferire il mandato al candidato che ha maggiori probabilità di riuscire nel compito anziché al candidato che riceve il maggior numero di raccomandazioni dai colleghi parlamentari....

(israele.net, 1 aprile 2021)


L'accoglienza va ricambiata con il rispetto

Degrado al Memoriale della Shoah di Bologna

di Daniele De Paz*

Gli spazi urbani pubblici, strade e piazze, in questo tempo di pandemia soffrono di un degrado inteso come assenza di vita. Il Memoriale della Shoah e la sua piazza nascono invece con l'obiettivo di essere luoghi ricchi di vita e di presenze. Fin da subito, la piazza del Memoriale è stata frequentata, per esempio, da giovani skater, in una forma autogestita di servizio rivolto alla cittadinanza. Con il tempo, quel luogo è diventato un punto di ritrovo per i giovani. Come Comunità Ebraica, insieme al Comune, lo abbiamo sempre considerato un elemento positivo, da non scoraggiare. Perché la presenza tutela la piazza.
   Oggi, questa presenza è calata, e assistiamo a una sempre maggiore frequentazione di quel luogo da parte di senza fissa dimora. Persone con sofferenze e necessità di natura sociale, che vanno a dormire nel Memoriale.
   Il Memoriale può - con una visione fuori dagli schemi - svolgere anche una funzione legata “all'ospitalità” di chi non ha una casa, ma non può essere assimilato a un dormitorio. L'ospitalità però va contraccambiata con una moneta di valore umano: mantenere e conservare quel luogo pulito e decoroso nella sua dignità. Perché possa essere accessibile - essendo un luogo pubblico - a chiunque voglia visitarlo. Ma lasciare un luogo in condizione non decorose - abbandonando coperte, sacchi a pelo, fornelletti e resti di cibo - definisce una mancanza di rispetto inaccettabile. Per il Memoriale della Shoah chiediamo semplicemente lo stesso rispetto che si avrebbe per la propria Casa. A maggiore ragione perché quella piazza è attraversata e visitata da cittadini che desiderano fruire di quel luogo nella sua totale essenza. È questo il modo su cui lavorare. Comunità Ebraica e Comune sosterranno sempre i valori che si nutrono della Memoria, della Storia e della Conoscenza come antidoti contro violenza e intolleranza. Il Memoriale è espressione fisica di questo principio. Prendiamocene cura per il nostro futuro.

* Presidente della Comunità Ebraica di Bologna

(il Resto del Carlino, 1 aprile 2021)


«Così il mondo scoprì la Shoah». Il processo a Eichmann

L'ufficiale delle SS a giudizio sessant'anni fa. Sul banco dei testimoni, centoundici sopravvissuti allo sterminio.

di Walter Veltroni

L'11 aprile del 1961 Adolf Eichmann entra in un tribunale di Gerusalemme E il mondo scopre l'orrore della Shoah. Quell'atto, celebrato tra la missione di Gagarin e la Baia dei Porci, spezzò il silenzio sul piano di annientamento degli ebrei.

Dice così, nel documentario di Francesca Molteni Il processo Eichmann, uno dei sopravvissuti, Joseph Kleinmann, che entrò nel campo di sterminio di Auschwitz a quattordici anni, l'età di Sami Modiano e di Piero Terracina.
   II processo di Norimberga aveva collocato la Shoah all'interno di un giudizio sui crimini complessivi del nazismo. Quello di sessant'anni fa ad Adolf Eichmann accese invece i riflettori del mondo sulla persecuzione degli ebrei e sul disegno del loro annientamento. Una tragedia che, mai va dimenticato, non ha paragoni nella storia dell'umanità.
   Il funzionario del Reich fu sequestrato nel maggio del 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato. Era uno dei tanti capi nazisti sfuggiti a ogni forma di giustizia, nascosti, sotto identità false, in vari Paesi dell'America del Sud.
   Il premier israeliano annunciò al Parlamento di Israele che Eichmann «era stato trovato dai servizi di sicurezza israeliani». Quell'arresto scatenò polemiche, singolarmente anche negli Usa, come ben raccontato dal volume di Deborah Lipstadt Il processo Eichmann (Einaudi).
   Il nome che il tenente colonnello si era scelto per la sua seconda vita era Ricardo, Ricardo Klement. Lo stesso che diede a uno dei suoi figli, l'unico che poi maturerà un giudizio critico nei confronti del nazismo, «se tornasse la dittatura, farei le piccole valigie dei miei figli e fuggirei».
   Ricardo Eichmann, nel giugno del 1995, decise dl incontrare l'uomo dei servizi israeliani che aveva prelevato in Argentina il nazista, suo padre. Sulle colonne del «Corriere della Sera» Lorenzo Cremonesi descrisse questo dialogo tra un quarantenne professore di Archeologia presso l'Università di Tubinga e Zvi Aharoni, che aveva passato giorni e glomi a sorvegliare la casa di Eichmann, in via Garibaldi, Buenos Aires. Cremonesi fa parlare il vecchio Aharoni: «Questo momento mi è molto difficile. Io sono responsabile della morte di tuo padre. E' per colpa mia che diventasti orfano a sei anni».
   Ma chi era Eichmann? Era solo un contabile dello sterminio? Era un soldato costretto a obbedire perché incapace di reagire e privo del coraggio morale di dire no? Vale qui quello che, dopo l'arresto, scrisse su queste colonne Indro Montanelli: «Egli non uccideva perché portava una divisa. Portava una divisa per uccidere. E aveva volontariamente scelto quella della milizia più infame, adibita dal regime ai servizi più sporchi, appunto per soddisfare una vocazione di tortura e di morte». E Montanelli invocava che, quale che fosse la pena, Eichmann fosse condotto a vedere Israele, «da Tiberiade a Eliat. Egli non deve chiudere gli occhi prima di averli tenuti bene aperti su ciò che gli ebrei, questa razza da lui ritenuta inferiore e maledetta, hanno fatto in quell'angolo di sabbioso deserto».
   Centoundici deportati, scampati allo sterminio, per effetto di quel processo si sedettero sul banco dei testimoni. Alcuni piansero, altri restarono in piedi per l'agitazione.
   I deportati sopravvissuti ai quali molti non credevano, costretti al senso di colpa per avercela fatta, esposti alle angherie dei negazionisti o alle critiche ingenerose dei giovani israeliani che si chiedevano perché non si fossero ribellati nei campi, finalmente presero la parola e il mondo si dovette fermare ad ascoltarli.
   Molte testimonianze sono raccolte nel bel volume Eichmann di Giulia Baj e Tullio Scovazzi, in libreria dall'8 aprile per Solferino. E stata, per Israele e per il mondo da poco libero, una esperienza collettiva sconvolgente.
   Qualcuno di loro, in quei giorni, raccontò dei suicidi nei campi, che erano molto criticati da chi restava, perché ogni caduto finiva col lasciare un posto che sarebbe stato occupato da un altro ebreo. Altri descrissero la spietatezza di una SS che, vedendo un neonato che piangeva in braccio alla madre, se lo fece passare con un sorriso rassicurante e poi lo sbatté a terra uccidendolo. C'è chi aggiunse «ogni volta che noi soffrivamo, loro gioivano» e chi, guardando Eichmann, disse che era «un pezzo di marmo, un blocco di ghiaccio». II procuratore Hausner, che condurrà l'accusa, dirà, all'inizio delle udienze: «Quando io sto di fronte a voi, giudici d'Israele, per dirigere l'accusa di Adolf Eichmann, non sto da solo. Con me ci sono sei milioni di accusatori. Ma questi non possono alzarsi in piedi e puntare il dito contro l'uomo sul banco degli imputati con il grido "J'accuse" sulle loro labbra. Perché essi ora sono soltanto cenere, cenere ammucchiata sulle colline di Auschwitz e sui campi di Treblinka e sparsa nelle foreste d'Europa».
   E poi sosterrà che Eichmann era «un nuovo tipo di assassino, che sta dietro la scrivania. Un colletto bianco che concepisce un ordine di sterminio come un incarico da sbrigare. Fu lui a organizzare e pianificare il trasporto e la messa a morte».
   Eichmann sembrava davvero un ragioniere, nelle sue deposizioni. Si appassiona alla contabilità, come faceva allora. Spiega che aveva deciso di aumentare la capienza dei treni che deportavano gli ebrei da 700 a 1.000 persone in ragione del fatto che le valigie dei destinati allo sterminio venivano messe su vagoni merci. Non ha misura né senso dell'opportunità quando dice, a proposito della Conferenza di Wannsee del 1942 che decise la pianificazione dello sterminio: «Alla conclusione ho provato la soddisfazione di Pilato perché mi sono sentito completamente sollevato da ogni colpa... Ora a me spettava solo obbedire». O racconta che al termine dei lavori ai quali aveva partecipato, nei quali si era parlato di «esecuzioni, eliminazioni, sterminio» si era sentito onorato — «era la prima volta in vita mia che partecipavo a una riunione così importante» — che i gerarchi nazisti lo invitassero a bere «uno, due, tre cognac» per festeggiare l'adozione della decisione che così veniva descritta nel Protocollo redatto proprio da Eichmann: «Nel quadro della soluzione finale e sotto una guida adeguata, gli ebrei devono essere mandati a lavorare all'Est. In grandi colonne divise per sesso. Non c'è dubbio che la stragrande maggioranza sarà eliminata per cause naturali».
   L'uomo che si pulisce freneticamente gli occhiali, che ha un tic dell'occhio destro, che si vanta con orgoglio della «meticolosità» del suo lavoro e dei suoi pregevoli risultati, che parla con freddezza delle «fontane di sangue», non lesina neanche affermazioni grottesche: «Era mio desiderio creare un luogo tutto loro, una terra dove gli ebrei potessero vivere».
   C'era riuscito, si chiamava Birkenau. Ed era il luogo dove gli ebrei poterono solo morire.
   Quel processo, celebrato tra la missione di Gagarin e la Baia dei Porci, fu in verità il disvelamento storico della Shoah. Dimostrò che in una dittatura anche un uomo senza qualità, avvolto dalla «banalità del male», può sentirsi, come disse un ebreo di Berlino a proposito di Eichmann: «II signore della vita e della morte».
   
(Corriere della Sera - la Lettura, 1 aprile 2021)
   

Bahrein: nominato il primo ambasciatore in Israele

di Piera Laurenza

Il sovrano del Bahrein, Hamad bin Isa al-Khalifa, ha emesso due decreti reali, il 30 marzo, con cui ha ufficializzato l'apertura di una missione diplomatica del Regno in Israele, e ha nominato alla sua guida l'ambasciatore Khalid Yusuf al-Jalahma.
   Quanto stabilito, è stato specificato, ha effetto immediato, e, al momento, si è in attesa di una squadra diplomatica bahreinita che andrà a stabilire un'ambasciata nell'area di Tel Aviv. Tuttavia, non è chiaro quando al-Jalahma inizierà il proprio mandato. La mossa giunge dopo che, il 18 ottobre 2020, il Regno del Bahrein e Israele avevano firmato un comunicato "storico" congiunto, con cui è stato formalizzato l'accordo di normalizzazione siglato a Washington il 15 settembre dello stesso anno. Poi, il 25 febbraio scorso, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ha riferito di essere stato invitato a Manama dal principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad al-Khalifa. La visita, tuttavia, è stata rimandata, alla luce della pandemia di Covid-19 e delle recenti elezioni israeliane.
   Il ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, ha accolto con favore la decisione di Manama di aprire una propria rappresentanza diplomatica e di nominare un suo ambasciatore in Israele, il primo per il Regno del Golfo. Al-Jalahma ha precedentemente ricoperto l'incarico di Direttore del Dipartimento delle Operazioni presso il Ministero degli Affari Esteri del Bahrein e di vicecapo della missione del Regno negli Stati Uniti, mansione svolta nel periodo 2009-2013. Per Ashkenazi la decisione del governo bahreinita rappresenta un altro importante passo verso l'attuazione dell'accordo di pace e il rafforzamento dei legami tra i due Paesi. Israele, dal canto suo, aveva già aperto un ufficio diplomatico "segreto" nella capitale bahreinita, nel 2009, inizialmente mascherato come un Centro per lo Sviluppo Internazionale e divenuto un'ambasciata a pieno titolo nei mesi successivi alla firma dell'accordo di normalizzazione.
   L'ex ambasciatore del Bahrein negli Stati Uniti, Houda Nonoo, il quale ha collaborato con Jalahama a Washington, ha riferito di essere entusiasta per la scelta dell'ambasciatore, chiamato a guidare la prossima fase delle relazioni tra il Regno del Golfo e Israele. Parallelamente, il consigliere speciale del re del Bahrein, il rabbino Marc Schneier a New York, ha affermato che Jalahama rafforzerà lo spirito di pace, di cooperazione e convivenza in Medio Oriente. "Nessun altro leader del Golfo oltre a Sua Maestà il Re Hamad bin Isa al-Khalifa è stato così sinceramente impegnato a stabilire relazioni diplomatiche con Israele", ha poi affermato Schneier. La mossa del Bahrein fa seguito a quella di Abu Dhabi. In particolare, il 14 febbraio scorso, il primo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti (UAE) in Israele, Mohammad Mahmoud al-Khajah, ha prestato giuramento dinanzi al premier emiratino, Mohammed bin Rashid al-Maktoum, altresì governatore di Dubai.
   L'accordo annunciato l'11 settembre ha reso il Bahrein il quarto Stato arabo a normalizzare le relazioni con Israele dopo Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Già negli ultimi anni, il Paese aveva mostrato una maggiore apertura verso Israele, per via del comune sentimento di ostilità nei confronti dell'Iran. Nel dicembre 2019, un rabbino di Gerusalemme Shlomo Amar, si era recato in Bahrein nella cornice di una visita definita "rara", dove ha incontrato diversi leader religiosi del Medio Oriente. Inoltre, in occasione della conferenza di Manama, tenutasi tra il 25 e il 26 giugno 2019, il ministro degli Esteri, Khalid bin Ahmed al-Khalifa, dichiarò al Times of Israel: "Israele è un Paese della regione … ed è lì per restare, ovviamente."
   Gli accordi di normalizzazione sono stati raggiunti con la mediazione della precedente amministrazione statunitense, guidata dall'ex presidente Donald Trump. Per Washington una tale intesa mira a istituire un baluardo contro la minaccia iraniana, oltre a creare nuove opportunità economiche. Dal canto suo, sin dalla firma degli accordi di normalizzazione con Israele, il Bahrein ha evidenziato che il raggiungimento di una simile alleanza con Israele non significa abbandonare la causa palestinese, ma implica unire gli sforzi per far fronte alla sfide della regione. In particolare, per Manama si è trattato di un risultato diplomatico che rafforzerà la pace in Medio Oriente ed aprirà la strada verso nuove opportunità.

(Sicurezza Internazionale, 1 aprile 2021)


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