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Notizie 1-15 aprile 2023


Hamas si è stabilito in Libano con il supporto di Iran ed Hezbollah

La settimana scorsa un attacco missilistico dal Libano ha dato a Israele un’idea delle capacità militari del ramo libanese di Hamas.
  I razzi lanciati contro il nord di Israele – apparentemente da un’ala del gruppo terroristico palestinese Hamas – sembrano essere di origine iraniana e secondo gli esperti potrebbero essere stati forniti dall’Iran o dal suo proxy Hezbollah.
  Il 6 aprile le Forze di Difesa Israeliane hanno reso noto che almeno 36 razzi sono stati lanciati in Israele dal Libano, molti dei quali sono stati abbattuti dal sistema di difesa aerea Iron Dome. Due persone sono rimaste leggermente ferite dalle schegge.
  Si è trattato del più pesante lancio di razzi dalla Seconda guerra del Libano del 2006 ed è stato attribuito da Israele ad Hamas.
  Un noto esperto di armi occidentale, che scrive anonimamente su Twitter con lo pseudonimo di Calibre Obscura e le cui notizie sono state citate da The Guardian, AFP, Vice e altri, ha affermato che i razzi erano probabilmente varianti iraniane di proiettili russi e cinesi.
  Alcuni razzi non sparati sono stati ritrovati dalle Forze armate libanesi (LAF) nei giorni successivi al pesante attacco. Calibre Obscura li ha identificati come razzi di tipo Grad da 122 mm e 107 mm, con gittate effettive di circa 21 chilometri (13 miglia) e 8 chilometri (5 miglia), rispettivamente. Ha osservato che i Grad potrebbero anche essere una variante a lungo raggio con una gittata di 40 chilometri (25 miglia), poiché esternamente i modelli sono quasi identici.
  I razzi di tipo Grad sono stati rinvenuti nel Libano occidentale e diretti verso la Galilea superiore e occidentale nel nord di Israele, dove è stata lanciata la maggior parte dei proiettili nell’attacco. Calibre Obscura ha dichiarato che i razzi corrispondono a schegge trovate nella città israeliana settentrionale di Shlomi.
  I Grad e le loro varianti iraniane non sono nuovi nella regione e sono stati utilizzati sia da Hamas a Gaza che da Hezbollah in Libano. Sono armi “di base, semplici e imprecise”, ha dichiarato Calibre Obscura. Ma essendo il successore del Katyusha sovietico, sono in grado di causare danni significativi se lanciati in grandi raffiche.
  “In Ucraina li vediamo sparati da veicoli di lancio, 40 alla volta. Un’intera salva potrebbe essere composta da centinaia di proiettili. “È essenzialmente un’arma di distruzione dell’area”, ha detto, sottolineando che la testata può essere letale anche contro obiettivi poco corazzati.
  L’IDF ha dichiarato che due razzi sono stati lanciati anche nella città di Metula il 6 aprile, e gli ufficiali locali li hanno identificati come razzi da 107 mm, che corrispondono ai proiettili e al lanciatore trovati dalle LAF nell’area di Marjayoun.
  In tutti i casi di razzi apparentemente iraniani trovati dalle LAF, i proiettili sembravano essere stati sparati contro Israele usando lanciatori di fortuna e non il sistema ufficiale di lanciatori multipli di razzi montati su camion (MRLS). Tuttavia, il fatto che in seguito siano stati trovati diversi razzi che non erano stati sparati indica che i lanciatori di fortuna non sono particolarmente affidabili.
“Potrebbe essere uno sforzo eccessivo dare ad Hamas un intero veicolo di lancio. Se vogliono inviare un messaggio e non causare troppi danni, possono lanciarne alcuni e posizionarli con una semplice applicazione per smartphone, e lanciarli con una batteria per auto e qualche filo”, ha detto Calibre Obscura, notando la difficoltà per Israele di localizzare un tale sito di lancio rispetto ai ben più grandi MRLS montati su camion.
  Israele lo disse nel 2018: Hamas si sta insediando in Libano
  Negli ultimi anni Hamas ha tranquillamente creato una filiale libanese per aprire un ulteriore fronte contro Israele in futuri conflitti.
  La filiale ha sede a Tiro, secondo quanto riportato lo scorso anno dal quotidiano Yedioth Ahronoth, ma si ritiene che abbia altri avamposti in tutto il Paese.
  Il potente gruppo terroristico di Hezbollah, che detiene uno stretto controllo sul Libano meridionale, dispone di attrezzature simili nel suo arsenale, facendo temere che possa anche aver consegnato ad Hamas alcuni dei suoi missili precisi, che non sono stati utilizzati nel bombardamento della scorsa settimana.
  Un funzionario statunitense ha dichiarato martedì a Sky News che Hezbollah ha fornito ai membri di Hamas in Libano razzi a lunga gittata da usare contro Israele.
  Gli ufficiali militari e gli analisti non dubitano che Hezbollah sia stato coinvolto in qualche misura nel lancio di razzi della scorsa settimana, poiché Hamas non avrebbe potuto effettuare un attacco del genere senza il consenso del gruppo libanese. L’IDF stava verificando se fosse coinvolto anche l’Iran.
  Jonathan Schanzer, vicepresidente della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington, ha affermato che l’infrastruttura militare di Hamas in Libano è stata resa pubblica per la prima volta nel 2018 in una lettera dell’allora ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, Danny Danon.
  “La lettera descrive in modo molto chiaro ciò che Israele riteneva stesse facendo Hamas. E prevedibilmente, le Nazioni Unite non fecero nulla. E cinque anni dopo, siamo sull’orlo di una guerra in Medio Oriente”, ha dichiarato al Times of Israel.
  La lettera di Danon, datata 11 maggio 2018, affermava: “Desidero attirare la vostra attenzione sul rafforzamento dei legami tra due organizzazioni terroristiche riconosciute a livello internazionale, Hamas e Hezbollah, il proxy iraniano. Come vi ho informato nella mia lettera inviata il 27 giugno 2017, Hamas è colluso con Hezbollah e con il suo sponsor a Teheran per espandere le sue attività terroristiche oltre Gaza, Giudea e Samaria, fino alle aree all’interno del Libano”.
  “La crescente cooperazione tra Hamas, Hezbollah e Iran costituisce una grave minaccia non solo per Israele, ma per la stabilità e la sicurezza dell’intera regione… è guidata da Saleh al-Arouri, il vice capo del Politburo di Hamas con sede in Libano”, ha scritto Danon nel 2018.
  “Hamas sta costruendo una propria forza militare segreta in Libano. Hamas ha reclutato e addestrato centinaia di combattenti, per lo più uomini di origine palestinese, e progetta di reclutarne altre migliaia che costituiranno una forza che opererà per conto di Hamas in Libano”, ha aggiunto.
  Il Libano ospita decine di migliaia di rifugiati palestinesi e i loro discendenti. Molti vivono nei 12 campi profughi sparsi per il piccolo Paese mediterraneo. Per un accordo di lunga data, l’esercito libanese non entra nei campi, lasciando la sicurezza all’interno alle fazioni palestinesi, tra cui Hamas.
  Al-Arouri, comandante fondatore dell’ala militare di Hamas, è ritenuto responsabile del lancio di razzi dal Libano avvenuto la scorsa settimana.
  Domenica, il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ha incontrato una delegazione di Hamas a Beirut per discutere di cooperazione. La delegazione era guidata dal leader di Hamas Ismail Haniyeh e comprendeva al-Arouri.
  Dopo il lancio di razzi da Gaza e dal Libano, al-Arouri ha dichiarato che i bombardamenti “dimostrano che c’è qualcuno che difende la Moschea di Al-Aqsa” in cima al Monte del Tempio, nella Città Vecchia di Gerusalemme.
  “Le forze della resistenza hanno il potere e i mezzi per fermare l’aggressione contro la moschea e lavoreranno per la sua liberazione”, ha dichiarato durante un evento a Beirut.
  Schanzer ha detto che al-Arouri risiedeva in Turchia a tempo pieno, fino a quando non è stato inserito nella lista dei ricercati dagli Stati Uniti, in seguito alla rivendicazione da parte di Hamas della responsabilità del rapimento e dell’uccisione di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania che ha scatenato la guerra di Gaza del 2014.
  “Questo ha portato a uno strano accordo per cui non era basato in Turchia a tempo pieno, ma ha iniziato a fare la spola tra la Turchia e il Libano. E qui inizia la storia dell’infrastruttura [libanese]”, ha detto Schanzer, sottolineando che al-Arouri aveva il sostegno di Hezbollah e dell’Iran.
  “Non avrebbe potuto farlo senza la conoscenza o l’assistenza di Hezbollah. È innegabile che l’Iran abbia fornito il materiale e parte dell’ingegneria e dell’addestramento necessari per creare questa infrastruttura”, ha affermato.
  Schanzer ha affermato di ritenere che il ramo di Hamas in Libano potrebbe essere ancora più capace dell’organizzazione principale nella Striscia di Gaza, poiché l’Iran ha un accesso molto più facile al Libano per trasferire armi e addestramento, e Israele raramente conduce attacchi in Libano per sventare i tentativi di costruire forze nel paese dei cedri.
  “Sul fronte di Gaza, [Israele] è in grado di distruggere una serie di obiettivi a volte, quando viene lanciato un razzo. Sfrutta queste opportunità. In Libano non si colpisce per paura di un confronto più ampio”, ha detto, riferendosi a Hezbollah.
  Gli Hezbollah, sostenuti dall’Iran, rappresentano da tempo la minaccia militare più significativa ai confini di Israele, con un arsenale stimato di quasi 150.000 razzi che possono raggiungere qualsiasi punto del Paese, centinaia dei quali sono missili a guida di precisione.
  Schanzer ha detto che l’establishment della difesa israeliana dovrebbe chiedersi se Hamas in Libano possiede missili a guida di precisione, che Hezbollah ha accumulato e prodotto utilizzando parti importate dall’Iran.
  “Hezbollah ha condiviso le munizioni a guida di precisione con Hamas?”, ha chiesto. “Se stanno operando nello stesso teatro, se stanno già cooperando mano nella mano, se hanno lo stesso sponsor, lo stesso fornitore di armi, cosa ci dice che Hamas non abbia acquisito queste armi?”.

(Rights Reporter, 15 aprile 2023)

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Sovranità e grazia di Dio

Dalla Sacra Scrittura

ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
gennaio 2008




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Crisi d’identità e rischio guerra civile: se Israele si scontra con Israele

A 75 anni dalla nascita lo Stato ebraico si frammenta su principi e legittimità delle istituzioni. Mai quanto adesso le divisioni incidono sul futuro di un Paese che pare sul punto di esplodere.

di Lucio Caracciolo

Chi è Israele? Lo Stato ebraico rischia la vita per non rispondere a questa domanda. Perché inevitabile ne consegue l’altra: di chi è Israele? Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni. Tribù, adottando il linguaggio biblico oggi ricorrente per distinguere i sottogruppi che in Terra promessa si agitano, distinguono, rimescolano. Nello Stato dai confini non identificati, perché se li delimitasse si spaccherebbe.
  Dilemma. Se mondo ebraico, rabbinato e società israeliana tuttora disputano su chi sia ebreo, come pretendere di definire l’identità dello Stato? Ma se il corpo del paese si frammenta e dilania sui princìpi primi, dunque sulla legittimità delle istituzioni, come schivare la questione regina che ne determina e giustifica l’esistenza? Di sicuro il re è nudo. Le acrobazie con cui David Ben Gurion e successori hanno inventato poi evoluto Israele in potenza regionale e avanguardia tecnologica non ne garantiscono il futuro. Serve un fondamento o il ripudio definitivo di qualsiasi fondamento. La costituzione cui si è finora rinunciato causa eccesso di eterogeneità identitaria nella società israeliana. O l’esplicita abdicazione a dotarsene per vivere alla giornata, ciò che fino a un paio di mesi fa pareva ricetta di successo. Costituzione della non-costituzione.
  A settantacinque anni dall’avventurosa nascita, cinque dopo l’autocertificazione quale Stato nazionale del popolo ebraico via maggioranza d’un voto in parlamento, la creatura sionista è scossa da crisi identitaria. I suoi dirigenti evocano lo spettro della guerra civile. Caduto il tabù dei tabù, tutto è possibile. Il sogno dei nemici d’Israele, che fiduciosi ne attendono l’autodistruzione, parrebbe prossimo a compiersi. Come al contrario persiste la fede di chi intravvede nella crisi la leva per ristabilire su basi meno incerte il rifugio per ebrei eretto dai superstiti della Shoah. Perché non ne considera affatto esaurita la funzione. Anzi, l’antisemitismo serpeggia ovunque, in forme talvolta banali, talaltra inconsapevoli, spesso violente, tanto da ammetterlo nei salotti del politicamente corretto.
  Causa efficiente di tanto caos è la riforma giudiziaria voluta da un primo ministro impegnato a sfuggire il processo per corruzione e perciò abbarbicato al potere, costi quel che costi. Lo scopo è neutralizzare la Corte Suprema, da tempo usa surrogare funzioni tipicamente politiche nel non scritto squilibrio fra poteri. E affermare il primato del governo o meglio del suo capo, signore e gran manipolatore del parlamento.
  La sospensione della riforma e l’avvio di faticosi negoziati fra maggioranza e opposizione per inventare un compromesso non significano la fine dell’emergenza. Le faglie interne alla società non spariscono grazie a un lodo pacificatore. Sono inscritte nell’evoluzione demografica, antropologica e sociale di Israele. Nel fattore umano. Nella vocazione centrifuga, refrattaria al riconoscimento reciproco fra gli aggruppamenti separati in Eretz Yisrael come in diaspora.
  Il catalogo delle tribù proposto dall’ex presidente Reuven Rivlin nell’ormai celeberrimo intervento del 7 giugno 2015 alla conferenza di Herzliya fotografava la partizione fra arabi ed ebrei laici, religiosi e ultraortodossi. Secessione strisciante, di carattere «strutturale, che non avremo mai il potere di cancellare». In altre parole, la nazione è impossibile perché ve ne sono almeno quattro in gestazione.
  Ma l’impossibile unità nazionale non deriva per forza dal tribalismo. Anche le tribù cambiano. Il punto è che Israele le sta incentivando. Fino a consolidarle quasi-nazioni nella non-nazione. Che cos’altro produce la persistenza di quattro tipi di scuole, uno per tribù (cinque, considerando quello dedicato all’esigua minoranza drusa), espressione secondo Rivlin di «visioni totalmente differenti dello Stato d’Israele e dei suoi valori basilari»? Spesso gli studenti di indirizzi diversi nemmeno si parlano, non solo perché attingono a idiomi distinti. Vivono in quartieri o località separate. Monoculturali. Due delle quattro tribù, ricordava Rivlin, «non si definiscono sioniste»: «Non guardano la cerimonia della torcia sul monte Herzl il giorno dell’Indipendenza. Non cantano l’inno nazionale con gli occhi lucidi». Senza pedagogia israeliana niente nazione israeliana. Quando poi i governi sovvenzionano le scuole che antepongono se non contrappongono il Libro allo Stato, incentivano la segregazione. Israele genera le tarme che ne corrodono le impalcature.
  «Che cos’è Israele? Non si sa». Così la Knesset nel 1950, fissato che la costituzione non s’ha da fare. Settantatré anni dopo, se Israele si guardasse allo specchio e ripetesse la domanda, identica sarebbe la non risposta.
  La tecnica del rinvio permanente sembra al punto di non ritorno. Anime troppo conflittuali, per troppo tempo concentrate nell’offrire la propria intrattabile, assoluta risposta al «chi siamo?», si avvinghiano sull’orlo dell’abisso. Caso unico di crisi costituzionale senza costituzione né formale né materiale. Tre soluzioni “finali”: compromesso fra le tribù d’Israele, colpo di Stato o fine dello Stato per consunzione. Le ultime due soluzioni implicano violenza potenzialmente incontrollabile, dall’esito imprevedibile. Comunque rivoluzionario. Cambio di paradigma geopolitico a mano armata. La prima suppone magia in forma di sinedrio abilitato a tracciare finalmente la costituzione. Improbabile, stando all’esperienza di questi tre quarti di secolo. Necessario, per chi considera scaduto il tempo incostituzionale quindi vitale aprire la fabbrica costituzionale.
  Conclusione che porta al dubbio con cui convivremo. Non sarà che Israele (r)esiste perché rifiuta di identificarsi? E che lo sforzo di farlo potrebbe ucciderlo? Il “chi sono io?” è la domanda di chi si tormenta nella ricerca di una teoria che ne abbellisca la prassi. E rischia di morirne, dopo una vita spericolata all’insegna di scontri e astuti compromessi puntuali (hasdarah). Nella metafora del sociologo francese Danny Trom: «Lo Stato di Israele assomiglia a quel bambino in bicicletta che nel momento in cui si chiede come faccia a stare in equilibrio smette di pedalare, s’impanica e cade. Forse lo prevede, evita di pensare e continua a pedalare. Volta lo sguardo e smette di pensare ogni volta che è spinto a pensare che cosa stia facendo. L’assenza di costituzione, la predilezione per il bricolage e gli arrangiamenti provvisori in guisa di soluzione, la presupposta reversibilità di ogni iniziativa ne sono i sintomi più patenti». Meglio allora non scoperchiare il vaso di Pandora. Salvo sia già aperto.

(La Stampa, 15 aprile 2023)

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Commissione Covid sulla strada giusta, occhio al boicottaggio dell’ultimo miglio

Perimetro d’azione molto ampio, dalle restrizioni ai vaccini: rispetto della Carta e “poteri speciali” il fulcro politico-giuridico. Fondamentale la scelta per la presidenza

di Gianluca Spera

Finalmente è stato mosso un passo importante sul fronte della Commissione d’inchiesta sulla gestione sanitaria dell’ultimo triennio. Il perimetro d’azione disegnato dalla Commissione affari sociali della Camera è molto ampio e abbraccia ogni aspetto, compresi quelli assai controversi, riferibili alle decisioni che sono state assunte dai due governi (Conte II e Draghi) che si sono succeduti alla guida del Paese durante l’interminabile fase emergenziale.

• Rispetto della Costituzione
  I compiti della Commissione sono stati fissati in 28 specifici punti che renderanno certamente gravoso il lavoro dei 30 membri nominati dai presidenti delle Camere ma, allo stesso tempo, permetteranno di illuminare tutti i lati oscuri della vicenda.
  Perciò, non può che essere accolta con favore la concreta valutazione delle misure di contenimento adottate nelle fasi iniziali e successive della pandemia, individuando eventuali provvedimenti sprovvisti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’efficacia.
  Inoltre, la Commissione dovrà pure verificare se tali decisioni siano entrate in rotta di collisione con i principi sanciti dalla nostra Carta costituzionale, se siano state supportate da “adeguato fondamento scientifico” e se siano state adottate nel “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. A tale scopo, è prevista anche un’analisi comparativa con le normative introdotte da altri Stati europei, mettendo sul piatto della bilancia anche i risultati sanitari ottenuti con minori restrizioni.

• Il nodo dei “poteri speciali”
  Inoltre, sarà posta sotto la lente di ingrandimento pure “la legittimità della dichiarazione dello stato d’emergenza e relative proroghe, nonché dello strumento della decretazione d’urgenza”. Ora, al di là dell’indiscutibile rilevanza dell’indagine sui sieri e sulle mascherine, è questo il fulcro politico-giuridico di tutta la faccenda perché affronta il nodo finora irrisolto dei “poteri speciali” esercitati massicciamente nell’era pandemica.

Lockdown e restrizioni
  Un percorso logico suggerirebbe di iniziare proprio dalla decretazione dello stato d’emergenza che, nato con lo scopo di semplificare e snellire le procedure, ha di fatto permesso al governo di imporre un rigoroso lockdown nazionale con prolungata e pesante limitazione di alcuni diritti fondamentali come quello di movimento.
  In pratica, la momentanea interruzione delle attività economiche e sociali si è trasformata nel divieto di uscire di casa se non per impellenze autocertificate con tanto di check-point per le strade italiane.
  Addirittura, è stato consentito alle Regioni (con semplici ordinanze) di imporre misure più restrittive di quelle nazionali incoraggiando atteggiamenti assai dispotici e, probabilmente, sprovvisti di un appiglio costituzionale che potessero legittimarle.
  La criticità della situazione si è, dunque, palesata su un doppio piano: sia quello formale perché si è agito con atti amministrativi e non aventi forza di legge, sia su quello sostanziale perché i diritti costituzionali possono essere limitati solo a determinate e tassative condizioni.

• Obbligo vaccinale e Green Pass
  Superata questa fase estenuante e archiviato l’Esecutivo giallo-rosso, si è poi agito (seppur con decreti legge in sostituzione dei Dpcm) con maggiore invadenza nell’ambito delle libertà individuali imponendo l’inoculazione coatta: o attraverso l’obbligo diretto per alcune categorie di soggetti o attraverso quello surrettizio rappresentato dall’orrendo lasciapassare (quello che avrebbe garantito di ritrovarsi tra persone non contagiate o non contagiose, come da improvvida dichiarazione dell’ex premier Mario Draghi nel luglio 2021).
  Così, il Green Pass è diventato quasi un corpo contundente scagliato nei confronti non solo dei renitenti ma anche dei dubbiosi o degli esitanti. A differenza di quello che dichiarò l’allora segretario del Pd Enrico Letta (“Il vaccino è libertà e chi è ambiguo sul Green Pass è contro la salute dei cittadini”), la carta verde si è dimostrata uno strumento vessatorio nei confronti di chi è stato costretto a porgere il braccio per non perdere lo stipendio o non dover rinunciare alla vita sociale, e fortemente discriminatorio nei confronti di chi ha deciso di resistere a ogni costo alla puntura di Stato.

• Il clima da caccia alle streghe
  Peraltro, in un clima insopportabile da caccia alle streghe, in nome di un presunto interesse collettivo si sono sacrificati i diritti individuali snaturando l’essenza stessa di una moderna democrazia liberale che ha assunto le sembianze di uno Stato etico.
  Così si è del tutto compressa e compromessa la facoltà di scelta dei cittadini, riservando un trattamento deteriore a chi si è permesso di sollevare obiezioni, additato come uno spregevole no-vax. Eppure, non si trattava di polarizzare lo scontro tra favorevoli (alcuni per costrizione) e contrari alla vaccinazione ma andava assicurata la libertà di scelta, a maggior ragione dopo che si era scoperto che pure i pluridosati potevano contrarre il virus e trasmetterlo.
  Forse molti di questi no-vax andavano considerati come dei free-vax, non necessariamente sfavorevoli alle vaccinazioni ma assolutamente contrari a qualsiasi tipo di coartazione.

• Pd e 5 Stelle sulle barricate
  Naturalmente, messa così la questione, tocca nel profondo il tanto sbandierato modello italiano, le politiche intransigenti dell’inamovibile ministro Roberto Speranza, l’approccio draconiano e inflessibile dei due governi che hanno affrontato l’epidemia.
  Perciò, sia il Pd che il Movimento 5 Stelle già si sono posti sulle barricate tacciando la manovra della maggioranza, sostenuta anche dal Terzo polo, come una strumentalizzazione politica e un attacco alle minoranze. Tutto questo lascia immaginare che ci saranno ostacoli e intralci sul cammino della commissione.
  C’è già chi cerca di buttarla in caciara lamentando che questa commissione rappresenterebbe un favore per i famigerati no-vax. Invece, ora che la propaganda pandemica è ormai anacronistica, è vero proprio il contrario: l’indagine riguarderà la legittimità delle decisioni che hanno imposto alla stragrande maggioranza dei cittadini un trattamento sanitario obbligatorio sulla base di un inconsistente presupposto scientifico (“Non ti vaccini, ti ammali e muori, non ti vaccini e contagi”).
  Per cui, la figura dell’untore di manzoniana memoria viene tirata in ballo in maniera poco convinta e convincente da coloro che credono di poter ancor difendere gli indifendibili dogmi sanitari e le assurde norme liberticide che ne sono derivate.

• Presidenza fondamentale
  Piuttosto, in questa fase, la vera preoccupazione è assicurarsi che il lavoro della commissione proceda in maniera regolare e spedita. C’è ancora una settimana per presentare gli emendamenti. Probabilmente, le opposizioni di centro-sinistra punteranno su una scelta aventiniana tentando una sorta di boicottaggio.
  Fondamentale sarà la scelta di chi sarà chiamato a presiedere l’organismo. Nell’articolo del 19 febbraio, già sono stati esposti i nostri dubbi sulla possibilità che sia eletto il renziano Davide Faraone, all’epoca arcigno sostenitore del Green Pass. Il primo segnale di discontinuità rispetto all’ammorbante contesto pandemico deve venire proprio da questo passaggio fondamentale.
  Partire col piede sbagliato significherebbe vanificare fin da subito le possibilità di ribaltare la narrazione orwelliana e riscrivere laicamente la storia di questi ultimi terribili anni.

(Atlantico, 15 aprile 2023)
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Molti vorrebbero dimenticare quello che è accaduto nei tre anni di istupidimento pandemico-vaccinale, e forse qualcuno pensa che tanto più si dovrebbe fare su pagine che si interessano particolarmente di Israele. Riprendiamo allora alcuni articoli che abbiamo riportato nel luglio 2021, il mese che ha dato l'avvio al ricatto del green pass, invitando a considerarne i commenti. M.C.

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6 luglio 2021 - Bennett, il nuovo premier israeliano - che affronta la variante Delta con successo

di Jonathan Pacifici*

La prima volta che ho incontrato Naftali Bennett era il 2005. Lui era ceo di una promettente startup, Cyota, specializzata nella lotta alle frodi bancarie. lo ero un giovane consulente. Avevo da poco lasciato un importante società di management consulting per mettermi in proprio e Cyota fu uno dei miei primi clienti. Il mio compito, aiutarli a sviluppare il mercato italiano, era strategico. La società andava molto bene negli Usa ma gli investitori volevano vedere risultati anche in Europa. «Ti voglio presentare Naftali», mi disse un giorno la responsabile dello sviluppo internazionale con la quale collaboravo. Ricordo perfettamente il piccolo ufficio in Rechov Shenkar ad Herzelya Pituach, l'epicentro della StartupNation. Ricordo anche la mia prima impressione: un altro ceo che ha il peso del mondo sulle spalle. Da qualche giorno Bennett si cimenta con quello che, a ragione, è considerato il mestiere più difficile al mondo: primo ministro dello Stato d'Israele. Dopo dodici anni ininterrotti di premiership Netanyahu, vedere un'altra persona al centro del tavolo del governo fa veramente impressione. Ma al di là della naturale acerrima ostilità politica, l'ascesa di Bennet è storicamente una grande vittoria della dottrina Netanyahu.
  Il nuovo premier incarna il mito della Startup Nation, della tecnologia, del successo. Di quella Israele che Netanyahu ha plasmato negli ultimi decenni. Da buon ceo, Naftali è un decisionista preciso e metodico. Dall' opposizione, ha passato i mesi della pandemia spiegando cosa si dovrebbe fare. Ha girato Israele in lungo e in largo parlando con imprenditori e commercianti colpiti dal virus. Ha scritto un libro-manuale intitolato Come sconfiggere la pandemia. Ha coniato una frase diventata tormentone: «Se non è lavoro, non interessa a nessuno», a indicare che l'unica priorità del governo doveva essere mitigare le ripercussioni sociali del Covid. Ora al comando c'è lui e immagino abbia già capito che non esiste un manuale per il compito che lo attende. La vera novità della premiership Bennett non è la politica. E' il metodo. Bennett incarna l'ethos israeliano del problem solving, che è la pietra angolare del successo planetario della tecnologia israeliana e del suo apparato militare.
  Il primo banco di prova lo sta offrendo la variante Delta. Se concettualmente il premier si è subito mostrato interventista, segnalando al pubblico la serietà della minaccia con il ripristino delle mascherine nei luoghi chiusi, appena 11 giorni dopo averle tolte, nella pratica si è subito concentrato su ciò che conta davvero. La nuova policy si basa su due assunti fondamentali. Il primo è l'Aeroporto Ben Gurion, la porta d'Israele verso il resto del mondo. E' da lì che la variante è entrata. Non era ineluttabile. Bennett si è presentato al Ben Gurion con i ministri competenti e non se ne è andato fino a che non sono state definite nuove procedure che mirano a eliminare l'ingresso delle varianti. Il secondo pilastro è la vaccinazione. Il vaccino si sta dimostrando estremamente efficace non solo nel contenere la diffusione delle varianti (pur con minore successo), ma soprattutto eliminando quasi totalmente il rischio che i contagiati debbano essere ospedalizzati. Il condizionale, lo abbiamo imparato, è d'obbligo ma sembra che al netto di un forte incremento dei contagi, non ci sia stata alcuna variazione nelle ospedalizzazioni. Questo è il motivo per il quale si sta insistendo molto sulla vaccinazione degli adolescenti, la fascia 12-16 anni. Qui nasce quello che Amit Segal, uno dei più attenti analisti politici israeliani ha chiamato il «dilemma del governo»: di fronte alla tenuta del vaccino, all'altissima percentuale di vaccinati, e in assenza di malati gravi siamo di fronte alla quarta ondata Covid o piuttosto a qualcosa di simile a un'influenza stagionale? Al momento il governo propende per la seconda. Ovviamente tutto può cambiare e la situazione è attentamente monitorata, ma quanto accade qui ora potrebbe paradossalmente rappresentare un raggio di luce per tutto il mondo. Forse, se continuiamo a vaccinare a tappeto e conteniamo i contagi, possiamo convivere con il virus e tornare alle nostre vite. Certo non Bennet, che continuerà ad avere sul tavolo dossier come il nucleare iraniano e i gangli del terrorismo jihadista da Gaza e dal Libano. Ma del resto, lo abbiamo detto, si è scelto il mestiere più difficile al mondo. (riproduzione riservata)

* Presidente del Jewish Economic Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 6 luglio 2021)


"... quanto accade qui ora potrebbe paradossalmente rappresentare un raggio di luce per tutto il mondo". Dunque anche il Covid riporta Israele al centro dell'attenzione del mondo. Raggio di luce? M.C.


11 luglio 2021 - Israele fornisce la spinta al vaccino Pfizer agli adulti a rischio

GERUSALEMME -Israele ha detto che inizierà a offrire iniezioni di richiamo Pfizer Inc (NYSE:) fornisce vaccini per adulti con sistema immunitario indebolito, ma sta ancora valutando se debba fornire il terzo ciclo di vaccini al pubblico.
  Poiché il numero di nuove infezioni è passato da una cifra a circa 450 al giorno nell’ultimo mese, la rapida diffusione della variante Delta ha riportato il tasso di vaccinazione in Israele.
  Il ministro della Sanità Nitzan Horowitz ha affermato che gli adulti con un sistema immunitario compromesso che hanno ricevuto due dosi di vaccino Pfizer possono ricevere immediatamente colpi di richiamo e si attende una decisione per una più ampia distribuzione.
  Pfizer e il suo partner BioNTech SE (Nasdaq:), il principale fornitore israeliano di vaccini che ha iniziato a lanciare rapidamente i vaccini a dicembre, hanno dichiarato giovedì che richiederanno alle autorità di regolamentazione statunitensi ed europee di approvare le iniezioni potenziate entro poche settimane.
  Le due società hanno affermato quando hanno chiesto il permesso per la terza iniezione che il rischio di infezione è aumentato dopo sei mesi.
  Criticate da alcuni scienziati e funzionari, queste aziende non hanno condiviso i dati che mostrano questo rischio, ma hanno affermato che lo avrebbero reso pubblico presto.
  “Stiamo studiando questa domanda, ma non abbiamo ancora una risposta definitiva”, ha detto Horowitz del richiamo dei comuni cittadini israeliani in un discorso alla Kan Public Radio.
  “Ad ogni modo, ora stiamo facendo una terza iniezione ai pazienti con immunodeficienza per esempio, queste persone hanno ricevuto trapianti di organi o hanno malattie che causano una ridotta immunità”.
  Secondo i dati del Ministero della Salute, circa la metà dei 46 pazienti gravemente malati attualmente ricoverati in Israele sono stati vaccinati. Il coordinatore israeliano della risposta alla pandemia di coronavirus, Nachman Ash, ha dichiarato mercoledì che la stragrande maggioranza di loro proviene da gruppi ad alto rischio, di età superiore ai 60 anni e ha problemi di salute.
  Horowitz ha detto che, inoltre, il Ministero della Salute utilizzerà Moderno (Nasdaq:) I vaccini dell’azienda sono già disponibili.
  Israele ha somministrato iniezioni Pfizer a quasi il 60% dei suoi 9,3 milioni di abitanti. Tuttavia, un lotto di 700.000 dosi di vaccino in scadenza alla fine di luglio è stato inviato in Corea del Sud perché il recente rallentamento dei tassi di vaccinazione potrebbe causare lo spreco di queste dosi.
  Secondo l’accordo di swap, Seoul restituirà la stessa quantità di iniezioni a settembre e ottobre, che sono già state ordinate da Pfizer.
  “Abbiamo il vaccino Moderna e gli adulti che vogliono vaccinarsi possono iniziare a usare il vaccino Moderna questa mattina o domani”, ha detto Horowitz.
  “Stiamo vaccinando i giovani con Pfizer e stiamo lavorando duramente per promuovere la consegna Pfizer”, ha affermato.
  Israele spera che consegne anticipate consentiranno a più giovani di essere vaccinati prima dell’inizio dell’anno scolastico a settembre.
  Secondo i regolamenti del Ministero della Salute, i giovani israeliani possono accettare iniezioni Pfizer, ma non possono accettare iniezioni prodotte da Moderna.

(Economia Finanza, 11 luglio 2021)


"Colpi di richiamo". Interessante. Sarà questo il destino dei Si-Vax duri e puri? Andare avanti a "colpi di richiamo"? M.C.


12 luglio 2021 - Israele, terza dose di vaccino Pfizer per i pazienti immunodepressi

L'obiettivo, hanno spiegato le fonti governative, è di impedire che i più fragili siano contagiati e che sviluppino forme gravi della malattia. Previsto per oggi un incontro tra i vertici aziendali e le autorità statunitensi sull'ipotesi di autorizzare una terza dose contro la variante più aggressiva.
  Alla luce della rinnovata diffusione del Covid nelle ultime settimane in Israele, il ministero della Sanità israeliano ha dato istruzione oggi alle casse mutue di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli immunodepressi. L'obiettivo è di impedire così che siano contagiati e che sviluppino forme gravi della malattia.
  Un comunicato del ministero della Sanità precisa che il provvedimento riguarda chi abbia avuto trapianti di cuore, polmoni, fegato, midollo osseo o reni. La terza dose può essere somministrata inoltre a chi sia stato o sia ancora sottoposto a cure oncologiche di vario genere.
  Il periodo ottimale per la vaccinazione con la terza dose - secondo il ministero - è di otto settimane dopo la seconda. In ogni caso, avverte, non devono trascorrere meno di quattro settimane fra seconda e la terza dose. Gli immunodepressi, avverte il ministero della sanità, devono comunque continuare a mantenere la massima cautela. Sono incoraggiati fra l'altro ad indossare mascherine protettive, ad osservare la igiene personale e ad astenersi da contatti con persone malate o non vaccinate.
  Giovedì scorso la Pfizer-BionTech aveva annunciato di essere intenzionata a chiedere l'autorizzazione alla Fda americana per una terza dose del vaccino sviluppata in maniera specifica contro la variante delta che nel giro di poco tempo diventerà quella predominante un po' in tutto il mondo.
  L'azienda farmaceutica aveva spiegato che esistono "dati incoraggianti", ma in una nota congiunta Fda e Cdc (Centers for Disease Control) avevano messo in dubbio la necessità sostenendo che non ci sono evidenze scientifiche che facciano pensare al bisogno di un richiamo
  Pfizer oggi prevede di incontrare i massimi funzionari sanitari degli Stati Uniti per discutere la richiesta per l'autorizzazione federale di una terza dose del suo vaccino, poiché Anthony Fauci, consigliere medico del presidente Joe Biden, ha riconosciuto che "è del tutto concepibile, forse probabile" che in futuro siano necessari richiami.
  In una dichiarazione alla Associated Press, il dottor Mikael Dolsten di Pfizer ha detto che i primi dati dello studio di richiamo dell'azienda suggeriscono che i livelli di anticorpi delle persone aumentano da cinque a dieci volte dopo una terza dose, rispetto alla loro seconda dose mesi prima.
  Ieri Fauci non ha escluso la possibilità, ma ha detto che era troppo presto perché il governo raccomandasse un richiamo del vaccino. Fauci si è detto d'accordo con la posizione di Fda e Cdc di non considerare necessari i richiami "in questo momento".
  "Questo non significa che ci fermiamo qui - ha specificato Fauci - Ci sono studi ora in corso mentre parliamo di esaminare la fattibilità su se e quando dovremmo dare un richiamo alle persone.''
  Secondo il consigliere medico di Joe Biden è abbastanza possibile nei prossimi mesi "con l'evoluzione dei dati" il governo possa sollecitare un richiamo basato su fattori come l'età e le condizioni mediche di base. "Certamente è del tutto concepibile, forse probabilmente prima o poi, avremo bisogno di un richiamo", ha concluso Fauci.
  L'ipotesi di somministrare la terza dose di vaccino al momento lascia scettica gran parte della comunità scientifica statunitense. Nel Paese l'immunizzazione completa riguarda meno della metà della popolazione (48%) e la sensibile risalita dei casi di questi giorni è stata registrata negli stati dove le vaccinazioni sono ancora poche.
  La settimana scorsa la direttrice del Cdc Rochelle Walensky ha spiegato che ci sono due realtà: zone dove le persone completamente immunizzate tornano alla vita normale e altre dove le ospedalizzazioni continuano a crescere. L'ostilità verso i vaccini è più alta negli stati rurali e nel sud del Paese.

(la Repubblica, 12 luglio 2021)


"Vaccinatevi, vaccinatevi, forse probabilmente prima o poi qualcosa si capirà". Il laboratorio sperimentale del mondo, modello Israele, è in piena funzione. M.C.


15 luglio 2021 - Anticorpi naturali più potenti dei vaccini. Ma i guariti devono vaccinarsi

di Silvana Palazzo

Gli anticorpi naturali sono più efficaci nel prevenire i contagi rispetto alle vaccinazioni. È questa la conclusione a cui giunge uno studio israeliano, che di fatto contraddice la ricerca condotta da alcuni esperti americani, tra cui il dottor Anthony Fauci, e degli scienziati di Pfizer e Moderna, secondo cui gli anticorpi sviluppati dai vaccini sono più potenti di quelli prodotti dall’infezione naturale. E invece dall’analisi dei dati dei contagi il ministero della Salute israeliano hanno scoperto che le persone guarite spontaneamente dalla malattia, quindi quelle che sviluppano anticorpi naturali, hanno meno probabilità di essere reinfettati rispetto ai vaccinati. Ma il consiglio degli esperi resta quello di vaccinarsi anche se si è guariti dal Covid, in modo da avere una protezione ancor più elevata.
   Stando a quanto riportato da Israel National News, nell’ultima ondata sono stati registrati oltre 7.700 casi. Di questi, solo 72 erano relativi a persone già guarite e quindi con anticorpi naturali. Dunque, meno dell’1%. Invece circa il 40% dei nuovi casi, quindi oltre 3mila pazienti, era completamente vaccinato e si è infettato, ovviamente senza sviluppare una forma grave di Covid, che è il motivo per il quale è importante vaccinarsi.

 ISRAELE VERSO TERZA DOSE VACCINO COVID
  Dallo studio israeliano è emerso che i vaccinati avevano 6,72 volte più probabilità di contrarre il Covid dopo la somministrazione dei vaccini rispetto a chi ha sviluppato una protezione col naturale decorso della malattia. Una disparità che ha creato confusione tra gli esperti. Alcuni sostengono che questi dati dimostrano che il livello di immunità fornito dall’infezione naturale rispetto alla vaccinazione è più alto, altri non sono convinti. Il punto però è evidentemente un altro. Questi dati hanno senso se la questione verte sulla vaccinazione tra i guariti, ma non su chi non si è infettato. In tal casi è bene proteggersi da forme gravi del Covid, anziché esporsi al virus rischiando anche di morire. Israele non ha dubbi sull’importanza della vaccinazione, infatti con la diffusione delle varianti, in particolare quella Delta, e l’impennata di contagi, il ministero della Salute ha disposto la somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer agli immunodepressi. Nel frattempo è aperto un dialogo con le cause farmaceutiche per la terza dose per tutti coloro che hanno completato il ciclo vaccinale.

(ilsussidiario.net, 15 luglio 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi, prima o poi qualcosa si capirà. M.C.


23 luglio 2021 - Malati gravi in ospedale, più della metà sono vaccinati. Allarme da Israele

Doccia fredda da Israele. Il "Jerusalem Post" pubblica una notizia che farà discutere. E getta qualche ombra sull'efficacia dei vaccini. Al momento in Israele più della metà dei pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni sono vaccinati.
Nell'articolo del "Jerusalem Post" si legge: "Al momento circa il 60% dei pazienti in gravi condizioni sono stati vaccinati. Inoltre, secondo i ricercatori dell'Università ebraica di Gerusalemme, circa il 90% dei nuovi contagi sopra i 50 anni sono vaccinati con due dosi".

(Il Tempo, 23 luglio 2021)


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23 luglio 2021 - "Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire"

“Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire, oppure a far morire: non ti vaccini, contagi, muori, o fai contagiare e fai morire." Queste parole del Presidente del Consiglio Mario Draghi, riportate con compiacimento anche dal notiziario di Pagine Ebraiche, sono di enorme gravità. Confermano, in quanto motivazione delle decisioni che il governo si accinge a prendere, che sta avvenendo un graduale cambiamento dei paradigmi con cui è stata pensata e attuata finora la democrazia. Il ricatto ai cittadini è entrato a far parte integrante delle forme di governo. E' inutile e anche pericoloso tentare di spiegarlo in questa sede, ma verosimilmente anche in altre sedi più importanti di questa: si potrebbe correre il rischio di essere denunciati per istigazione al suicidio. 
   Per chi scrive, e si spera anche per altri cristiani evangelici che fanno della Bibbia la loro base di fede, è un campanello d'allarme che ha cominciato a suonare già diversi anni fa e il cui suono in questi ultimi giorni si è fatto particolarmente forte. M.C.

(Notizie su Israele, 23 luglio 2021)


24 luglio 2021 - Italia-Israele: telefonata tra Bennett e Draghi

È avvenuta oggi [venerdì 23] una conversazione telefonica tra Il presidente del Consiglio Mario Draghi e il primo ministro israeliano, Naftali Bennett. Lo rende noto Palazzo Chigi. Lo scambio di punti di vista si è concentrato sulla collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia, situazione che continua a turbare gli equilibri di entrambe le nazioni; per la transizione energetica, nonché sull’ulteriore rafforzamento del partenariato italo-israeliano specialmente nei settori della cooperazione tecnologica, scientifica e industriale.

(Shalos, 24 luglio 2021)


Interessante. Ma poco rassicurante la "collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia". M.C.


27 luglio 2021 - Green pass e infodemia: cosa ci dicono i dati di Israele

di Francesca Totolo

ROMA - Lo scetticismo e la perdita di fiducia nei confronti dei governi nazionali in merito alle strategie di contenimento del Covid-19 e delle campagne vaccinali stanno aumentando un po’ ovunque. L’infodemia, una comunicazione errata, la mancanza di trasparenza e di autorevolezza delle istituzioni stanno confondendo i cittadini che si trovano a dover maneggiare il tutto e il contrario di tutto, come in un grande labirinto orwelliano. Ogni Paese occidentale sta attuando politiche simili per sconfiggere il coronavirus, ma i risultati non sembrano portare ai medesimi risultati. Il Regno Unito e Israele hanno i tassi di popolazione vaccinata più alti a livello mondiale, rispettivamente il 54,43 per cento e il 61,15 per cento di vaccinazioni con due dosi al 22 luglio del 2021. Gli ultimi dati pubblicati dal ministero della Salute del Regno Unito, il 22 luglio scorso, affermano che l’efficacia del vaccino, dopo la somministrazione di due dosi, contro la malattia sintomatica da Covid-19 si attesterebbe al 79 per cento per quanto riguarda la variante Delta, percentuale in forte riduzione rispetto alla variante Alpha, l’89 per cento.

I DATI DI ISRAELE IN CONTRASTO CON QUELLI BRITANNICI
  Veniamo ai dati di Israele. Secondo le nuove statistiche del Ministero della Salute di Israele pubblicate il 20 luglio scorso, il vaccino della Pfizer è ora efficace solo per il 39 per cento contro l’infezione da variante Delta, mentre è efficace solo per il 41 per cento nel prevenire il Covid-19 sintomatico.
  L’epidemiologo Nadav Davidovitch, professore della Ben-Gurion University e presidente del sindacato dei medici israeliani, ha commentato tali dati: “Quello che vediamo è che il vaccino è meno efficace nel prevenire la trasmissione, ma è facile trascurare che è ancora molto efficace nel prevenire il ricovero e i casi gravi”. Per questo motivo, secondo Davidovitch “non possiamo fare affidamento solo sulle vaccinazioni, ma abbiamo anche bisogno di green pass, dei test, delle mascherine e simili”. La perdita di efficacia del vaccino Pfizer è stata ribadita anche dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, durante la conferenza stampa seguita alla cabina di regia sull’emergenza coronavirus del 16 luglio. Qualche giorno prima, era stato divulgato lo studio di un team di medici israeliani guidati dal professore Tal Brosh, capo dell’Unità Malattie Infettive presso il Samson Assuta Ashdod Hospital. L’analisi aveva riguardato 152 pazienti completamente vaccinati che avevano sviluppato il Covid-19. Il 96 per cento di questi soggetti, ricoverati in diciassette ospedali, erano affetti da malattie preesistenti. Il professor Brosh ha poi evidenziato: “Se il tuo sistema immunitario non funziona bene, sei a maggior rischio di non sviluppare protezione dalla vaccinazione”, aggiungendo che circa il 35 per cento dei pazienti non aveva anticorpi rilevabili, ovvero non erano riusciti a creare una risposta immunitaria dopo la somministrazione vaccino. Anthony Fauci, capo della task force del presidente degli Stati Uniti sull’emergenza coronavirus, ha affermato di essere rimasto sorpreso dall’apparente forte calo dell’efficacia del vaccino Pfizer che i dati israeliani sembrano suggerire. Ha poi affermato di volerlo confrontare con i dati che il Center for disease control and prevention sta raccogliendo negli Stati Uniti. Fauci ha evidenziato altresì: “Le persone si stanno insospettendo“.

“LA CAROTA NON STA PIÙ FUNZIONANDO”
  In una mail che è stata diffusa per errore, il capo dell’ufficio di Washington e senior vice president della Cnn, Sam Feist, ha ammesso: “La carota non sta più funzionando“. La risposta di Feist arrivava dopo la constatazione del giornalista Charlie Kirk: “La maggioranza degli americani non vaccinati afferma che non ha intenzione di assumere il vaccino, nonostante la divulgazione degli sforzi messi in campo”. Probabilmente, anche Anthony Fauci si riferiva a quella “carota” quando ha dichiarato che gli americani si stavano insospettendo. La mancanza di trasparenza governativa e istituzionale riguardante i vaccini sono alla base dello scetticismo che sta prendendo piede in quasi tutti i Paesi occidentali, come è peraltro emerso durante le manifestazioni dell’ultimo fine settimana. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il Green pass e l’obbligo vaccinale, dall’Italia all’Australia, passando per l’Inghilterra e la Francia. Nel nostro Paese, sono state ben 81 le città coinvolte dalle manifestazioni, dai grandi centri, come Milano, Roma, Napoli e Torino, alle province più piccole.
  Il premier Mario Draghi, durante la conferenza stampa del 22 luglio scorso, ha testualmente asserito: “Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all’aperto, al chiuso, con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”. Questa dichiarazione, oltre che inesatta, potrebbe spingere gli italiani vaccinati a comportamenti irresponsabili e i non vaccinati a un’ulteriore perdita di fiducia nei confronti del presidente del consiglio. La cosiddetta “moral suasion” non causerà un’ulteriore perdita di credibilità nelle istituzioni e nel governo? Veramente gli italiani hanno bisogno di un atteggiamento paternalistico per essere “responsabili”? Vediamo se il premier Draghi passerà al “bastone”, imponendo per legge l’obbligo vaccinale ai cittadini italiani. [Sì, passerà al bastone. Imporrà l'obbligo vaccinale, a coronamento di una serie di carognate sulla pelle dei cittadini. M.C. 15/04/2023].

(Il Primato Nazionale, 27 luglio 2021)


I no-greenpass faranno bene a non farsi troppe illusioni. La grande maggioranza degli italiani accetterà "responsabilmente" il ricatto del governo. Ma rifiuterà sdegnosamente di ammettere di aver ceduto a un ricatto. Diranno che è per il bene della società, prima che per il bene personale. E ci spiegheranno che la libertà deve scaturire dall'accettazione degli obblighi sociali; e che quella dei renitenti alla chiamata al vaccino è una deplorevole ego-libertà. Così diranno, anzi già dicono. Ma forse presto si accorgeranno di aver rinunciato alla ego-libertà per cadere nella socio-schiavitù. Ma la difenderanno con tutte le loro forze, sia perché l'essere in molti è comunque rassicurante, sia perché una volta che si è fatta una scelta sotto costrizione per motivi di necessità, è inevitabile desiderare di presentarla a se stessi e agli altri sotto una veste nobile. E di conseguenza quella di chi l'ha rifiutata come ignobile. Ma la società comunque non ne avrà affatto un bene. Tutt'altro. M.C.


30 luglio 2021 - Terza dose Pfizer agli over 60, Israele fa da apripista

Primo Paese al mondo. Anche l’Ue ci pensa: nuovo accordo con l’azienda per 1,8 miliardi di fiale

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Oggi il presidente dello Stato Isaac Herzog sarà il primo capo di Stato a ricevere una terza iniezione Pfizer, dando il via alla campagna per la somministrazione dell’iniezione “booster” agli over 60. La decisione è stata annunciata ieri dal premier Naftali Bennett dopo settimane di discussione tra gli esperti: Israele sarà il primo paese al mondo a procedere con il richiamo, nonostante non vi sia ancora l’approvazione della Fda. I sondaggi indicano che gli israeliani hanno fiducia nella scelta, con un 72% che ha risposto che si sottoporrà alla terza iniezione, disponibile da domenica, per gli over 60 che hanno ricevuto la seconda dose almeno cinque mesi fa. Già circa 4 mila immunodepressi hanno ricevuto il booster nelle ultime settimane, senza riportare effetti collaterali. Secondo gli esperti, la scelta verrà estesa a stretto giro all’intera popolazione. «Non è stata una decisione leggera, ma non è la prima volta che anticipiamo la Fda, come è stato con la scelta di inoculare donne incinte, bambini sotto i 16 anni e ora anche sotto i 12 con malattie pregresse », dice Arnon Shahar, responsabile Covid per la cassa mutua Maccabi. Il dilemma principale degli esperti era se aspettare la versione del vaccino Pfizer in lavorazione, adattata alle nuove varianti. La decisione di procedere subito è motivata dall’aumento dei contagi nel Paese da inizi di giugno, anche tra i vaccinati: gli ultimi dati del ministero della Salute indicano che l’efficacia del vaccino nel prevenire i contagi da variante Delta è calata al 40%. Il calo è riscontrato in particolare tra gli over 60 che sono stati i primi a vaccinarsi (tra gennaio e febbraio). Rispetto ai dati sulla ridotta efficacia del vaccino, Shahar tranquillizza: «Vediamo un aumento dei contagi nella quarta ondata, ma la curva dei malati gravi non cresce in maniera esponenziale, grazie ai vaccini». Da ieri è rientrato in vigore anche il Green Pass, che era stato rimosso a inizio giugno. Di nuovo solo vaccinati, guariti o chi presenta un tampone negativo potranno accedere a raduni di oltre 100 persone, eventi culturali, ristoranti al chiuso, palestre, luoghi di culto. Dall’8 agosto, i tamponi non saranno più sovvenzionati dallo Stato (salvo per chi è impossibilitato a vaccinarsi), ma saranno a carico dei clienti a partire dai 12 anni in su.
   Anche l’Ue non vuole farsi trovare impreparata. «Stiamo concludendo un terzo accordo con Pfizer per 1,8 miliardi di dosi e con Moderna per 150 milioni di fiale che serviranno se occorrerà fare una terza dose, oppure per combattere le varianti», ha detto un portavoce della Commissione.

(la Repubblica, 30 luglio 2021)


Di variante in variante, di dose in dose, di controllo in controllo. Ma - dicono - è per il bene dell'umanità. Ed è per questo che il mondo ammira Israele. Gli si ritorcerà contro. M.C.


L'indagine su Emanuela Orlandi, anche i dubbi su Wojtyla

"Ho fatto nomi anche eccellenti, sconti a nessuno"

di Fausto Gasparroni

Dopo il confronto di oltre ben otto ore tra Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, e il promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, non si può certo escludere che l'inchiesta aperta alla fine del 2022 in Vaticano sulla misteriosa scomparsa il 22 giugno di 40 anni fa della quindicenne figlia di un commesso della Prefettura della Casa pontificia possa fare passi avanti finora anche imprevisti.

• “Ho percepito la volontà di fare chiarezza.
Lo stesso Diddi mi ha detto: 'io ho avuto mandato dal segretario di Stato e da papa Francesco di fare chiarezza al 100%, di indagare a 360 gradi e non fare sconti a nessuno, dalla base al vertice', e quello per me già è una cosa positiva". Depositando la sua memoria, Pietro ha potuto far inglobare negli atti dell'inchiesta le acquisizioni delle indagini private promosse dalla famiglia insieme all'avvocato Laura Sgrò, oltre a quelle già inoltrate tramite le precedenti varie denunce che hanno contribuito alla clamorosa apertura del fascicolo d'Oltretevere.
  "Certo, tu ci hai aperto dei mondi nuovi con le cose che ci racconti", gli ha detto chiaramente Diddi, oltre al fatto che "non ci saranno intoccabili". Tra i "nomi eccellenti" fatti dal fratello di Emanuela al magistrato, quello del cardinale Giovanni Battista Re, attuale decano del Collegio cardinalizio e all'epoca della scomparsa della quindicenne cittadina vaticana sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato. "Non sto bene di salute e non voglio dare interviste", ha risposto oggi Re all'ANSA che gli chiedeva commenti. Ma le questioni aperte su quello che resta uno dei maggiori misteri della storia italiana e vaticana sono molte. Tra le documentazioni prodotte da Orlandi, i quattro fogli di una chat, risalente ai primi anni del pontificato di Francesco, in cui si parla del caso di Emanuela. Tra gli interlocutori di questa chat ci sarebbe il cardinale Santos Abril y Castellò, presidente della Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior e arciprete emerito della basilica papale di Santa Maria Maggiore. In un'ulteriore documentazione si parla della permanenza di Emanuela in Inghilterra, ha riferito l'avvocata Sgrò, spiegando comunque che "va analizzata, anche per capire se è attendibile".

• Orlandi deposita memoria. Legale: 'Dossier saltino fuori'
Pietro Orlandi e la sua legale sono tornati poi a chiedere che vengano ascoltati alcuni testimoni dell'epoca tra i quali appunto il card. Re, il card. Leonardo Sandri, il card. Stanislaw Dziwisz, che è stato il segretario storico di Giovanni Paolo II, mons. Georg Gaenswein, segretario di Benedetto XVI e l'ex comandante della Gendarmeria Domenico Giani. Un aspetto sollevato è particolarmente spinoso. "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...", è la frase-shock pronunciata ieri sera da Orlandi a DiMartedì con la quale ha ribadito i suoi sospetti sul Papa polacco, fatto santo il 27 aprile 2014, e in genere sulla pedofilia in Vaticano durante il suo pontificato. Orlandi ha detto tra l'altro: "sono convinto che Giovanni Paolo II, Ratzinger e Francesco siano a conoscenza di quello che è avvenuto". Ha fatto quindi ascoltare un audio da lui consegnato al magistrato vaticano, in cui a parlare sarebbe un uomo vicino alla banda della Magliana: "Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il segretario di Stato a un certo punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell'ambiente carcerario".
  Orlandi ha così ribadito quanto già detto nella precedente puntata della trasmissione di Giovanni Floris, lo scorso 4 aprile: "Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell'abuso sia stato organizzato. È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant'anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità... Certo, se nel '93 si parlava normalmente della pedofilia dei cardinali come se fosse una cosa normale e accettata, uno può pure pensare che la pedofilia sia anche più su di quei cardinali". Pietro dice di avere esposto questo pensiero "qualche giorno fa ad un vescovo", il quale avrebbe commentato: "beh, probabilmente...". "Forse non ha capito, se parlo di qualcuno più su dei cardinali mi riferisco a Wojtyla", ha ribattuto. "Probabile", è stata la risposta.

(ANSA, 13 aprile 2023)

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Israele sotto minaccia militare e diplomatica: le tensioni interne passano in secondo piano

• I lavori sulla legge di riforma
  Qualcosa è cambiato nel clima politico di Israele. La Knesset (il parlamento monocamerale) ha sospeso i lavori una decina di giorni fa per la festività di Pesach e li riprenderà il 30 aprile, dopo le tre giornate che ricordano la Shoah e la resistenza ebraica (lunedì prossimo), i caduti delle forze armate e le vittime del terrorismo (il 25 aprile) e la nascita dello Stato di Israele (il 26), quest’anno particolarmente solenne perché sono passati tre quarti di secolo. Prima della sospensione, la maggioranza ha rinunciato ad approvare le prime due leggi della riforma giudiziaria, cui mancavano ormai solo le votazioni finali (in Israele l’approvazione di una legge richiede tre voti del plenum della Knesset, gli ultimi due sono fatti normalmente nella stessa giornata). La scelta è stata fatta dal primo ministro Netanyahu per lasciare spazio alle trattative con la minoranza che si stanno svolgendo sotto la supervisione del Presidente Herzog.

• Altre mosse distensive
  Nei giorni scorsi è stato anche annunciato che le votazioni sulla riforma non si svolgeranno probabilmente durante il mese di maggio, per lasciare spazio alla discussione del bilancio dello stato, che dev’essere approvato entro la fine del mese. Anche questa scelta implica la volontà di lasciar spazio alle trattative. Vi sono state altre significative mosse concilianti da parte di Netanyahu. In primo luogo il Primo Ministro ha rinunciato alla richiesta di dimissioni da parte del ministro della difesa Gallant, che era stata annunciata dopo che egli aveva evitato di sanzionare gli ufficiali piloti della riserva che per protesta avevano rifiutato il richiamo alle armi e inoltre era intervenuto pubblicamente mentre il Primo Ministro era all’estero per dissociarsi dalla linea del governo sulla riforma. In secondo luogo Netanyahu ha deciso che la polizia non doveva intervenire contro gli agitatori islamici che avevano occupato di notte la moschea di Al Aqsa sul Monte del Tempio per il terzo venerdì di Ramadan e, contro il parere del ministro della sicurezza Ben Gvir aveva anche fermato le visite ebraiche sul Monte per gli ultimi dieci giorni della festività islamica, come del resto era abitudine in passato. Sono anche diminuite, non cessate del tutto ma animate ormai solo dai più estremisti, le manifestazioni antigovernative. Vi sono state alcune provocazioni da parte dell’opposizione, come quella del vicesindaco di Tel Aviv che ha cercato di impedire una preghiera di Pesach nella centralissima Piazza Dizenghoff, o quella di alcuni medici che hanno cercato di introdurre cibo lievitato negli ospedali che non lo consentivano di Pesach, contro una legge approvata dalla Knesset e l’uso costante dei decenni scorsi. Ma sono rimaste isolate: non c’è dubbio che la tensione politica dentro Israele si sia allentata. Come ha scritto qualcuno, le persone ragionevoli si sono rese conto che lo Stato ebraico non può permettersi una guerra civile.

• I pericoli esterni
  La ragione di questa presa di coscienza è purtroppo un progressivo peggioramento dei rischi esterni a Israele. Non si tratta solo del terrorismo palestinese, che ha continuato anche durante l’ultima settimana a mietere vittime, come il giovane avvocato italiano Alessandro Parini falciato da un terrorista sul lungomare di Tel Aviv e le due sorelle israelo-britanniche Maia and Rina e la loro madre Lea Lucy Dee uccise in un agguato vicino a Gerico, che hanno colpito moltissimo l’opinione pubblica israeliana. Altri attacchi e altri arresti da parte della polizia si sono succeduti nei giorni successivi. Ma il problema è un altro. Sull’orizzonte strategico medio-orientale si sono resi evidenti due altri temi di crisi, uno militare e uno politico-strategico, così importanti da configurarsi come minacce all’esistenza stessa di Israele.

• L’assedio militare
  Fra il 5 e il 6 aprile, in seguito agli incidenti nella moschea di Al Aqsa, una cinquantina di razzi sono stati sparati sul territorio israeliano: non una quantità tale da non poter essere gestita dai sistemi di difesa di Iron Dome; ma il punto è che questi missili sono stati lanciati contemporaneamente da Gaza, dalla Siria e dal Libano. Un attacco missilistico concentrico da diverse direzioni su Israele, unito magari a rivolte interne degli arabi israeliani e al tentativo di invasione anche per mezzo di tunnel (di nuovo forse sia da Gaza che dal Libano) è l’incubo delle forze armate israeliane. Senza dubbio Iron Dome non basterebbe a fermare i lanci massicci di migliaia di razzi e droni da tre o quattro direzioni e anche se le forze armate di Israele riuscissero dopo qualche tempo a respingere l’attacco e distruggere i nemici, come si può essere sicuri, le vittime civili e militari sarebbero molte. Quella della settimana scorsa è stata probabilmente solo una prova tecnica. I giornali libanesi hanno riferito che Esmail Qaani, comandante di un gruppo delle forze rivoluzionarie dell’Iran (IRGC) ufficialmente dedicato a Gerusalemme (Qod force) ha riunito a Beirut rappresentanti di Hamas, Hezbollah, Islamic Jihad, degli Houthi dello Yemen e di altri gruppi per coordinare la loro azione contro Israele; in seguito il capo di Hezbollah, Nasrallah, ha raccolto il compito del coordinamento. È una minaccia molto seria, che pone a Israele problemi strategici. La reazione molto moderata agli attacchi missilistici decisa dal ministro della difesa indica che Israele non ha ancora pianificato come agire in questi casi per ristabilire la sua capacità di dissuasione, senza accendere una guerra non voluta. Bisogna aspettarsi che queste provocazioni continuino e si rafforzino.

• Il problema diplomatico
  Nel frattempo si è mosso in maniera sfavorevole anche il fronte diplomatico. L’accordo fra Iran e Arabia Saudita patrocinato dalla Cina ha favorito pure il reingresso della Siria (protettorato iraniano) nel consesso degli stati arabi. Anche in questo caso l’Arabia è stata la prima a ristabilire le relazioni diplomatiche e sarà seguita da Bahrein ed Emirati. Sempre l’Arabia ha riconosciuto il governo filo-iraniano degli Houti in Yemen. Insomma rischia di rinsaldarsi di nuovo un blocco anti-occidentale e anti-israeliano in tutta la regione. Dietro a questi fatti vi è un rafforzamento del ruolo della Russia (cui anche l’Egitto, a quanto è stato rivelato, ha promesso armi per la guerra in Ucraina) e un’eclissi degli Usa, che difendono sì ancora militarmente le loro posizioni in Iraq, ma mancano completamente di una politica mediorientale, soprattutto perché nonostante lo schieramento filorusso dell’Iran si ostinano a cercare un accordo con gli ayatollah. Insomma, quel che è a rischio è l’intero quadro degli accordi di Abramo. E certamente la volontà di Biden di non rompere con l’Iran minaccia direttamente la sicurezza di Israele che in caso di uno scontro con gli ayatollah (voluto da loro o provocato dal chiaro rischio dell’armamento nucleare) dovrà cercare di difendersi da solo, senza l’appoggio americano, né naturalmente quello europeo. Sulla posizione dei Paesi sunniti in questo caso non vi sono certezze. Sono pericoli gravi ed imminenti, di cui tutte le persone ragionevoli nell’ambito della maggioranza e della minoranza parlamentare israeliana si rendono conto e che richiedono la concordia nazionale.

(Shalom, 14 aprile 2023)

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L’Iran rafforza la sua capacità militare in Siria e tesse nuove relazioni diplomatiche

di Francesco Paolo La Bionda

Le forze armate iraniane hanno approfittato dei voli di soccorso inviati in Siria, a seguito del terremoto dello scorso febbraio, per trasportare segretamente anche armi ed equipaggiamento militare. Il segreto è stato rivelato dall’agenzia di stampa Reuters, che ha consultato diverse fonti siriane, iraniane, israeliane e occidentali. Nelle sette settimane successive al disastro naturale, centinaia di aerei iraniani sono atterrati negli aeroporti siriani di Aleppo, Damasco e Latakia, trasportando oltre ad aiuti umanitari anche apparecchiature di comunicazione avanzate, batterie per i sistemi radar e altri pezzi di ricambio necessari per il previsto aggiornamento del sistema di difesa aerea della Siria, fornito da Teheran al suo alleato.
  Sempre secondo le fonti, Israele si è subito accorto del flusso di armi nascosto ed è intervenuto per contrastarlo con incursioni aeree mirate: grazie al lavoro di intelligence, gli aerei israeliani sono stati in grado di colpire con esattezza persino i veicoli specifici da trasporto dei convogli con cui sono state movimentate le attrezzature militari iraniane.

• Le incognite russa e turca
  Sulla capacità israeliana di colpire obiettivi in territorio siriano pesa tuttavia il deterioramento dei rapporti tra lo Stato ebraico e la Russia e il parallelo avvicinamento tra Teheran e Mosca. Finora il Cremlino, altro alleato principale del regime di Assad, non è intervenuto per difendere lo spazio aereo siriano dalle incursioni israeliane, nonostante abbia schierato in loco sistemi di difesa antiaerea. Tuttavia la pressione occidentale per un maggior sostegno israeliano all’Ucraina e le crescenti forniture militari iraniane all’esercito russo, in particolare i droni, potrebbero spingere Mosca a contrastare attivamente le incursioni dei jet dello Stato ebraico.
  Altro fronte dove le relazioni bilaterali sono in peggioramento per Israele è quello turco: i rapporti tra Gerusalemme e Ankara hanno ripreso a peggiorare dopo il ritorno al potere di Netanyahu, le cui relazioni col presidente turco Erdogan sono storicamente pessime. Sebbene la Turchia sia divisa dall’Iran da numerose rivalità, tra cui proprio quella in Siria dove i turchi sostengono l’opposizione armata al regime, la vicinanza ai palestinesi mossa da sentimento religioso li accomuna. Lo scorso 7 aprile, Erdogan ha telefonato al presidente iraniano Raisi dopo gli scontri ad Al-Aqsa, affermando che “il mondo musulmano deve unirsi nell’opporsi all’aggressione israeliana”.

• Il riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita
  Negativo per Israele è anche il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, dopo anni di gelo diplomatico e tensioni militari, promosso dalla Cina e concretizzatosi in un accordo siglato lo scorso 6 marzo. Il riavvicinamento tra Teheran e Riad ha comportato anche una ripresa dei rapporti tra i sauditi e il regime siriano, anch’essi interrotti a seguito del conflitto in cui la monarchia del Golfo aveva supportato le opposizioni. Il 12 aprile due delegazioni diplomatiche, una siriana e una iraniana, sono atterrate in contemporanea in Arabia Saudita per nuovi colloqui.
  Sembra quindi allontanarsi la possibilità che Riad possa unirsi a Emirati Arabi Uniti e Bahrein nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo, nonostante il principe ereditario e uomo forte saudita Moḥammad bin Salmān avesse mostrato ufficiosamente la sua apertura verso lo Stato ebraico.
  Va però rilevato che la decisione di Riad non è stata condivisa dal resto del mondo arabo: Marocco, Kuwait, Qatar e Yemen hanno infatti rifiutato di riammettere la Siria nella Lega Araba e persino l’Egitto ha espresso le sue perplessità nel riavvicinamento saudita verso Damasco. 

(Bet Magazine Mosaico, 14 aprile 2023)

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Medio Oriente: oltre centomila fedeli ad Al Aqsa per l’ultimo venerdì di Ramadan

Alle celebrazioni parteciperanno anche migliaia di palestinesi della Cisgiordania

Si prevede che oltre centomila musulmani parteciperanno alle preghiere sulla Spianata delle moschee ad Al Aqsa, a Gerusalemme, nel quarto e ultimo venerdì del Ramadan, il mese sacro per l’islam. Più di duemila agenti di polizia israeliani saranno incaricati di garantire la preghiera a Gerusalemme, e molte delle strade principali vicino al complesso della Spianata delle moschee (chiamato Monte del Tempio dagli ebrei) saranno chiuse al traffico. Alle celebrazioni parteciperanno anche migliaia di palestinesi della Cisgiordania. Venerdì mattina, Israele ha annunciato che potranno partecipare donne di tutte le età e uomini di età superiore ai 55 anni e inferiore ai 12 anni.
  Durante la notte, decine di fedeli hanno partecipato alle preghiere del Ramadan con diversi incontri presso la moschea di Al Aqsa nelle prime ore di venerdì mattina, cantando slogan filo-palestinesi e tenendo bandiere del movimento Hamas. L’esercito israeliano ha dispiegato ulteriori batterie Iron Dome in tutto il Paese negli ultimi giorni a seguito degli avvertimenti ricevuti dall’establishment della sicurezza israeliana prima del quarto venerdì di Ramadan. L’ultima settimana ha visto un’intensa escalation, con razzi lanciati dal Libano, dalla Siria e da Gaza.
  Israele è “impegnato a preservare lo status quo presso il Monte del Tempio e la moschea di Al Aqsa – a Gerusalemme -, e a garantire calma, tranquillità e sicurezza a tutti i fedeli”. Lo ha detto ieri, 13 aprile, il presidente di Israele, Isaac Herzog, durante una visita nella città araba di Shfaram in occasione del mese sacro di Ramadan, in cui i musulmani digiunano dall’alba al tramonto. La visita giunge a pochi giorni dagli scontri tra agenti di polizia israeliani e palestinesi all’interno della moschea, che hanno causato un clamore più ampio nel mondo arabo. “Spero che il mese di Ramadan colmi i divari, abbassi le fiamme e guarisca le ferite”, ha aggiunto Herzog. Per il capo dello Stato israeliano, “è importante sottolineare e insegnare a tutto il pubblico israeliano l’importanza di questo mese, un mese di benevolenza, un mese in cui non dovremmo parlare di rabbia e violenza”. Mercoledì, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha vietato ai fedeli ebrei di recarsi alla Spianata delle moschee fino alla fine del Ramadan (20 aprile), nonostante l’opposizione del suo ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir.
  Adducendo motivazioni di sicurezza, la polizia israeliana ha deciso di limitare sabato 15 aprile l’ingresso dei fedeli cristiani nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme durante la cerimonia del sacro fuoco della Pasqua ortodossa: solo 1.800 persone potranno partecipare, rispetto agli 8.200 fedeli dell’anno scorso. Da parte loro, i rappresentanti della Chiesa ortodossa hanno esortato a ignorare le restrizioni della polizia israeliana. “Continueremo a mantenere le usanze dello status quo. La cerimonia si svolgerà come consuetudine da due millenni e tutti coloro che vorranno pregare con noi sono invitati a partecipare”, riferisce un comunicato congiunto del Patriarcato greco-ortodosso, della Custodia di Terra Santa e del Patriarcato armeno.
  Quest’anno, il clima attorno alle feste religiose nella Città Vecchia di Gerusalemme è particolarmente rovente. Infatti, il mese sacro musulmano del Ramadan, la festa della Pasqua ebraica e la Pasqua cristiana coincidono in un momento di crescente tensione israelo-palestinese. La scorsa settimana, un turista italiano è stato ucciso e altre sette persone sono rimaste ferite in un attacco con un’auto a Tel Aviv. L’attacco è avvenuto dopo che due sorelle anglo-israeliane e la loro madre sono state uccise durante una sparatoria in un insediamento in Cisgiordania. Prima di allora, le forze israeliane hanno colpito obiettivi legati al gruppo militante palestinese Hamas all’interno del Libano e in tutta la Striscia di Gaza.

(Nova News, 14 aprile 2023)

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A Berlino c’è stata una dimostrazione pro-Palestina piena di slogan antisemiti

L’indignazione della politica per il sospetto antisemitismo

di Lorenzo Tortu

Morte agli ebrei! Morte a Israele!
Pochi giorni fa a Berlino
Sabato scorso, 8 aprile 2023, si è tenuta tra Kreuzberg e Neukölln – quartieri con una folta comunità araba e musulmana – una dimostrazione in supporto delle rivendicazioni palestinesi e contro lo stato d’Israele. Apparentemente, durante le proteste si sono sentiti cori e urla che inneggiavano all’odio, di stampo antisemita. Il fatto ha subito scatenato la reazione indignata dell’ambasciatore e dei media israeliani, nonché la condanna da parte delle autorità politiche cittadine e nazionali.
  Tuttavia, bisogna ancora accertare l’accaduto: martedì, un portavoce della polizia ha dichiarato che si sta indagando su un caso specifico di incitamento all’odio. Se al momento la traduzione dei canti ascoltati dall’interprete non ha rivelato alcun contenuto punibile, è anche vero che le associazioni palestinesi a Berlino stanno assumendo posizioni sempre più radicali e un atteggiamento potenzialmente più aggressivo. La tensione tra arabi musulmani ed israeliani è al momento altissima anche a causa dei recenti fatti del Monte del Tempio.

• L’accusa di antisemitismo
  L’osservatorio sui movimenti anti-democratici Democ ha denunciato i cori antisemiti attraverso la pubblicazione di un video. Alla dimostrazione di Berlino, qualcuno avrebbe urlato “morte agli ebrei” e “morte a Israele”. Anche l’attuale presidente della Società tedesco-israeliana ha esposto denuncia. L’ambasciatore israeliano in Germania, Ron Prosor, ha accusato i presunti colpevoli di “approfittarsi delle libertà in Germania” e affermato che “è stata superata ogni possibile linea rossa” e che “è incomprensibile come la manifestazione abbia potuto svolgersi in questa forma”. Viene quindi messa in discussione l’inazione della polizia, presente alla manifestazione, che non ha fermato i dimostranti.

• L’atteggiamento della politica
  La senatrice degli Interni di Berlino Iris Spranger (SPD) ha commentato su Twitter: “Condanno qualsiasi tipo di minaccia e dichiarazione antisemita. L’odio non ha posto nella nostra società”. Anche il ministro federale della Giustizia Marco Buschmann (FDP) è intervenuto sullo stesso social: “Quando gruppi cantano ‘Morte agli ebrei’ nelle strade tedesche, c’è un primo sospetto di incitamento del popolo”. Sia per la sua storia che per la recente recrudescenza del conflitto arabo-israeliano, la Germania ha mantenuto il pugno di ferro contro l’antisemitismo.
  Infatti, i berlinesi che l’anno scorso hanno celebrato la Giornata della Nakba – il giorno che ricorda l’espulsione dei palestinesi dalla loro patria – sono stati arrestati anche solo per aver portato bandiere palestinesi o indossato la kefiah. Anche la manifestazione Al-Quds, che normalmente si svolge il 15 aprile a Charlottenburg, è stata cancellata quest’anno e in città si è parlato di un divieto permanente della dimostrazione. Ma per la Società tedesco-israeliana non è abbastanza, che infatti chiede la messa al bando di Semidoun, la rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, illegale in Israele già dal 2012.

• Torna l’alta tensione nel conflitto arabo-israeliano
  Il raid israeliano avvenuto mercoledì 5 aprile presso la moschea di Al-Aqsa ha provocato un’escalation del conflitto, iniziato formalmente più di 70 anni fa. La moschea si trova sulla collina del Monte del Tempio di Gerusalemme, un luogo sacro sia per l’islam sia per l’ebraismo. Il sito è dunque al centro di una disputa fra le due comunità.
  Negli ultimi 20 anni, a seguito della seconda Intifada e della presa del potere dell’ultradestra al governo israeliano, una risoluzione pacifica sembra essere sempre più lontana. Di recente, nel 2021 erano avvenuti altri scontri a Gerusalemme, mentre il confine con la striscia di Gaza rimane una zona di guerra sotto i missili di ambe le parti. Infatti, anche associazioni palestinesi radicali come Hamas impediscono una risoluzione diplomatica del conflitto o, quanto meno, una distensione.

(Berlino Magazine, 14 aprile 2023)

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Barbanti, grazie a Israele per la solidarietà per la morte Parini

TEL AVIV – “In questo momento di grande dolore per l’Italia e per Israele, desidero ricordare lo spirito di umanità che unisce i nostri popoli e che ha portato molti cittadini israeliani a ritenere che quanto è stato fatto all’Italia è stato fatto a Israele”. Lo scriveva in un intervento pubblicato sul quotidiano Yediot Ahronot, dal titolo ‘Grazie Israele’, l’ambasciatore italiano nel Paese Sergio Barbanti una settimana dopo l’attentato terroristico, perpetrato da un arabo-israeliano, che sul lungomare di Tel Aviv uccise Alessandro Parini.
  “La sera del 7 aprile un turista italiano è stato ucciso mentre passeggiava sul lungomare di Tel Aviv. Conosciamo – ha detto Barbanti – i tragici eventi e immaginiamo il dolore che questo provocò nella famiglia e negli amici di Alessandro Parini che quella sera si vide stroncare la vita. La dimensione del dolore, però, non è l’unica che ha segnato questi giorni”.
  “Sono stato testimone – ha sottolineato – non solo della solidarietà delle istituzioni israeliane, ma della commovente generosità di innumerevoli cittadini israeliani, senza alcuna distinzione tra loro, che in vari modi hanno espresso il loro cordoglio”. “In tanti – ha spiegato – hanno inviato doni ai feriti in ospedale. Altri hanno portato fiori e candele sul luogo dell’attacco terroristico. Altri mi hanno scritto. È stata una tragedia condivisa non solo nella comune condanna di ogni atto terroristico, ma nei sentimenti vissuti a prescindere dalla nazionalità. Desidero – ha concluso Barbanti – ringraziare tutti coloro che non ho potuto raggiungere di persona”.

(ANSAmed, 14 aprile 2023)

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“Israele contro Israele”

Il terzo numero di Limes del 2023 è dedicato alla violenta crisi politica e sociale che ha investito lo Stato ebraico. Innescata dalla controversa riforma giudiziaria voluta dal governo di Binyamin Netanyahu per circoscrivere (tra l’altro) il potere della Corte suprema e votata dalla maggioranza alla Knesset (parlamento), la legge ha scatenato ampie proteste.
  A queste hanno preso parte, in modo inedito, vasti settori del mondo istituzionale ed economico, oltre che degli apparati di Difesa (esercito, aviazione, intelligence). Sarebbe però riduttivo leggere gli eventi solo come mobilitazione democratica contro una legge censoria con cui il premier cerca di sottrarsi al giudizio della magistratura. L’iniziativa del governo più “a destra” della storia israeliana, entrato in carica pochi mesi fa, e la veemente opposizione che suscita si inscrivono infatti nella crisi ormai strutturale di un paese in perenne tensione tra natura ebraica (dunque etnico-confessionale) e democratica.
  La dirimente figura di Netanyahu e l’estremismo delle forze ultraconservatrici del suo esecutivo sono al contempo causa ed effetto della “tribalizzazione” denunciata pubblicamente nel 2015 dall’ex presidente Reuven Rivlin. Esito, questo, delle profonde e irrisolte contraddizioni di uno Stato nato e sviluppatosi in condizioni d’emergenza, la cui natura composita ha finora impedito di formulare una costituzione.
  Per questo il passo indietro del governo, con la concessione di un periodo di trattative sulla discussa legge, è da leggersi come tregua e non come atto risolutivo di una disputa esistenziale, più e oltre che giuridica.

(limes, 13 aprile 2023)

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Israele: governo lacerato perde consensi

Crisi nell’esecutivo tra Netanyahu e i partiti di destra. Un recente sondaggio ha evidenziato che l’attuale coalizione di governo non raggiungerebbe la maggioranza, se si tenessero oggi le elezioni.

di Nello del Gatto

La tensione che nei giorni scorsi ha scosso Israele, si è riverberata anche sul governo di Benjamin Netanyahu che sta vivendo un periodo di prime crisi e fratture al suo interno. Da un lato, infatti, il premier, dall’altro i due leader della destra estrema, Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, i quali hanno più volte manifestato in pubblico la loro insoddisfazione per decisioni dell’esecutivo. L’ultima, in ordine di tempo, quella presa da Netanyahu di impedire, fino alla fine del Ramadan prevista per il 23 di aprile, la salita per gli ebrei alla Spianata delle Moschee (per i musulmani) o Monte del Tempio. La decisione non è nuova, ripetendosi ogni anno.
  Per non urtare la suscettibilità dei fedeli del Profeta negli ultimi giorni del mese sacro, è una consuetudine che la spianata venga chiusa a tutti coloro che musulmani non sono. Dopotutto, nei giorni precedenti alla chiusura che, tra l’altro hanno coinciso con la settimana di Pesach, la Pasqua ebraica, migliaia di ebrei sono saliti sulla Spianata. Lo status quo che regola gli accessi al sito, vieta ai non musulmani di andarvi a pregare. È per questo motivo che all’ingresso, vengono controllate le borse e gli zaini, per impedire che si portino oggetti religiosi non islamici. Per questo motivo, le visite ai non musulmani durante l’anno sono vietate il venerdì e il sabato. Diversi rabbini ortodossi, inoltre, da sempre vietano ai fedeli ebrei di salire sul luogo dove erano costruiti il primo tempio, distrutto dai babilonesi nel 586 avanti Cristo e il secondo, distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Questo perché non essendo sicuri di dove si trovasse il Sancta Sanctorum, vogliono impedire che si calpesti il luogo sacerrimo. Ma durante i primi e gli ultimi giorni di Pasqua, oltre 3000 ebrei, in aumento del 32% rispetto all’anno scorso, sono saliti sulla Spianata accompagnati, come di consueto, dalla polizia per evitare che infrangessero lo status quo. Proprio il timore che andassero a pregare, aveva spinto frange estremiste di fedeli musulmani ad asserragliarsi di notte con bastoni e fuochi d’artificio all’interno della moschea di Al Aqsa alla vigilia della Pasqua ebraica, cosa che spinse la polizia a fare irruzione nel luogo sacro, aprendo la strada alla risposta dei gruppi terroristici che lanciarono razzi da nord e da sud del paese.
  La scelta di Netanyahu è stata condannata da Ben Gvir, secondo il quale il premier è capitolato rispetto ai palestinesi. La decisione di chiudere il Monte del Tempio per i visitatori ebrei è un "grave errore che non porterà tranquillità" nella regione, ha detto Ben-Gvir in un attacco diretto a Netanyahu. "Può solo aggravare la situazione. La mancanza di presenza ebraica sul Monte del Tempio causerà automaticamente una diminuzione della presenza della polizia sul Monte, che creerà un terreno fertile per appelli all'incitamento all'omicidio di ebrei", ha accusato il ministro della sicurezza nazionale. “Quando il terrore colpisce, bisogna rispondere con forza piuttosto che soccombere ai suoi capricci".
  Ben Gvir e Smotrich da qualche tempo stanno facendo sentire la loro insoddisfazione. Hanno già minacciato il governo quando, quasi un mese fa, Netanyahu, spinto da oltre dieci settimane di continue manifestazioni di piazza, ha deciso di congelare la contestata riforma della giustizia. Allora, parlando di capitolazione agli anarchici, minacciarono di uscire e in cambio Ben Gvir ottenne l’approvazione di un nuovo corpo di sicurezza. Lui che è dichiaratamente antipalestinese e pro coloni, controlla ora 2000 persone della neonata guardia nazionale, per gestire la quale ogni ministero si è dovuto tagliare il budget dell’1,25%. Questi avranno potere di intervento soprattutto nelle città arabe.
  Poco prima della decisione di Netanyahu di impedire agli ebrei di salire sulla spianata negli ultimi dieci giorni di Ramadan, Ben Gvir, Smotrich and company hanno messo in scena un nuovo atto di forza. Erano loro il 9 aprile, insieme ad altri ministri e parlamentari, in testa al corteo di migliaia di coloni, ortodossi religiosi e simpatizzanti della destra estrema che ha sfilato verso l’avamposto di Evyatar, in Samaria, non lontano da Nablus. L’avamposto è nato nel 2013 ed è stato distrutto diverse volte, l’ultima nel 2021, dalle autorità israeliane perché illegale, costruito sul territorio della cittadina palestinese di Beita. Dopo l’attentato del 26 febbraio scorso nel quale due giovani coloni in auto nei pressi del villaggio palestinese di Hawara furono uccisi da un terrorista legato a Hamas, che provocò poi una sorta di pogrom da parte dei coloni nei confronti dei palestinesi, Ben Gvir annunciò che si sarebbe battuto per la riapertura di Evyatar, che si trova non lontano dal luogo dell'attentato.
  La marcia, tra le proteste dell’opinione pubblica, è stata accompagnata e scortata da militari israeliani, che, oltre a bloccare diverse strade e tagliare di fatto i collegamenti con Nablus, hanno anche usato gas lacrimogeni e proiettili con la punta di gomma contro i palestinesi che hanno manifestato contro il furto di terra, con alcuni di loro che hanno lanciato pietre contro le forze di sicurezza. Almeno 120 i feriti, tra i quali alcuni giornalisti.
  Una manifestazione che allontana ancora di più le posizioni in un governo lacerato e che sta perdendo consensi. Dopotutto, un sondaggio pubblicato domenica da Channel 13 ha evidenziato che il Likud del premier, se si tenessero ora le elezioni, perderebbe 12 seggi, un risultato che non si vedeva dal 2006. La sua coalizione di governo arriverebbe a 46 seggi, contro i 61 necessari per formare il governo, visto che anche i suoi alleati,  Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, perderebbero seggi. In ascesa invece Benny Gantz, l’ex capo di stato maggiore e ministro della difesa di Netanyahu, quello che sarebbe dovuto essere il suo premier in alternanza. E si comincia a vociferare di una sostituzione nel governo, con Ben Gviur e Smotrich fuori e dentro Gantz, per evitare nuove elezioni.

(eastwest, 13 aprile 2023)

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Il premier Netanyahu affronta il crollo della sua leadership

Reintegro permanente del Ministro della Difesa Gallant

di Flavia De Michetti

Nei giorni scorsi, il premier israeliano Benyamin Netanyahu è tornato sui suoi passi riguardo il licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant, il quale aveva chiesto in un discorso pubblico di congelare i piani di revisione del sistema giudiziario.
  Annunciandone il reintegro permanente, il Primo Ministro ha dichiarato: “Ho deciso di lasciarci alle spalle le differenze che avevamo. Gallant rimane nella sua posizione e continueremo a lavorare insieme per la sicurezza dei cittadini di Israele”.
  La rimozione del Ministro della Difesa ha innescato un’ondata di proteste senza precedenti contro il piano già disapprovato di togliere potere di controllo alla Corte Suprema per affidarli al Governo, poiché molti israeliani sono giunti alla conclusione che, oltre a essere un reale pericolo per la democrazia del Paese, anche la loro sicurezza potrebbe essere sacrificata per gli interessi personali di Netanyahu.
  Tuttavia, Gallant non ha mai ricevuto una formale lettera di licenziamento ed è di fatto rimasto in carica nel bel mezzo di ondate di violenza, tra queste i raid della Polizia israeliana alla Moschea al-Aqsa di Gerusalemme, recenti lanci di razzi da Gaza, Libano e Siria, una sparatoria lungo la strada che ha ucciso tre donne anglo-israeliane in Cisgiordania e un’auto speronata a Tel Aviv che ha ucciso un turista italiano e ferito altre sette persone.
  La crisi della sicurezza ha danneggiato ulteriormente la popolarità di Netanyahu con un sondaggio condotto negli ultimi giorni, secondo il quale solo il 27% degli intervistati “Si affida al Governo per gestire l’ondata di terrore”.
  Nel suo discorso in conferenza stampa in prima serata, Netanyahu ha cercato di difendere la sua leadership, annunciando il duro intervento dell’Aviazione israeliana che le truppe avrebbero “Raggiunto e regolato i conti con tutti i terroristi”.
  Inoltre, ha aggiunto: “Sto lavorando con determinazione e responsabilità. Respingeremo i pericoli e prevarremo sui nostri nemici. Il nostro Paese è sotto un attacco terroristico, ma non è iniziato adesso. Sotto il Governo precedente, il numero di attacchi terroristici era il doppio”.
  Facendo riferimento ai sempre più numerosi riservisti dell’Esercito e dell’Aeronautica che si erano uniti al movimento di protesta, il premier ha lasciato intendere che anche questi ultimi sarebbero stati responsabili nell’incoraggiare i nemici di Israele, parlando di un accordo di demarcazione del confine marittimo sostenuto dagli Stati Uniti con il Libano, che ha falsamente affermato essere stato firmato con il gruppo terroristico libanese Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”, un’organizzazione paramilitare islamista sciita e fortemente antisionista libanese, nata nel giugno 1982 e divenuta successivamente anche un partito politico islamista del Libano), “Il Governo precedente ha consegnato al nemico territorio e giacimenti di gas senza ottenere nulla in cambio”.
  Secondo i sondaggi, il discorso non ha sortito un effetto incisivo, tant’è che è stato solo un quinto del pubblico ad approvare le sue parole.
  Inoltre, le stime condotte su 699 israeliani dal sondaggista Camil Fuchs ha mostrato che la coalizione guidata dal partito Likud (partito nazionalista liberale e di destra israeliano) sarebbe stata sconfitta dai partiti che detenevano il potere prima delle elezioni dello scorso novembre con un margine di 64 a 46 e con dieci legislatori, per lo più arabi, neutrali.
  Il sondaggio ha indicato, dunque, un aumento di popolarità per l’ex Ministro della Difesa Benny Gantz e il suo partito di unità nazionale di Centro-destra. L’Unità Nazionale otterrebbe 29 seggi, Yesh Atid, partito politico israeliano centrista e laico, guidato dall’ex giornalista Yair Lapid, attualmente alla guida dell’opposizione, guadagnerebbe 21 seggi e il partito Likud di Netanyahu crollerebbe da 32 a 20 seggi.
  L’attuale coalizione ha 64 seggi, di cui 14 detenuti da due partiti di estrema destra, il Sionismo Religioso e il Potere Ebraico (fondato nel 2012 e noto inizialmente come Otzma LeYisrael, letteralmente Potere per Israele). 
  Anche la loro popolarità sta diminuendo, con il sondaggio che assegna loro un totale di undici seggi. Secondo gli analisti israeliani, anche i numeri di fine marzo avevano mostrato che la coalizione stava perdendo potere, ma i nuovi risultati equivalevano a un crollo totale per la coalizione.
  In ogni caso, Gallant ha mostrato di aver accolto con favore ed entusiasmo la mossa di Netanyahu, postando sui social una sua foto con il premier e un messaggio che recita: “Continuiamo insieme con pieni poteri per Israele”.

(QuotidianoWeb, 13 aprile 2023)

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Si prospetta la fine del tradizionale “sodalizio” tra Stati Uniti e Israele?

di Paolo Arrigotti

Non lasciano adito a dubbi o interpretazioni le dichiarazioni di Noam Chomsky, filosofo e linguista, rese qualche giorno fa all’emittente araba Al Jazeera: “Il governo israeliano sta apertamente rompendo con gli Stati Uniti per la prima volta”, accusando alcuni esponenti dell’Esecutivo di ultra destra, al governo dello stato ebraico – i nomi sono quelli del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e di quello delle finanze Bezalel Smotrich – di stare seriamente minando le relazioni tra i due stati, finora mai messe in discussione. Al fine di evitare ogni strumentalizzazione, visto l’uso e l’abuso che spesso viene fatto (in Italia e altrove) di parole come “antisemitismo” o “razzismo” ricorderemo che Chomsky, oltre che autorevole studioso, è da decenni un attento osservatore della politica internazionale; politicamente parlando, lui stesso si è definito un “socialista libertario”, con tratti anarchici. Ma soprattutto, Chomsky proviene da una famiglia di origine ebraica dell’Europa orientale, cosa che non gli ha mai impedito di assumere posizioni molto critiche verso la politica dello stato ebraico e degli USA, sua patria d’adozione.
  Chiaramente sarebbe del tutto pretestuoso pensare di riassumere in poche parole il pensiero politico dell’autore, per il quale rinviamo alla lettura di capolavori come Manufacturing consent: the political economy of the mass media del 1988 e Understanding power: the indispensable Chomsky pubblicato nel 2002, disponibili anche in lingua italiana. Ci limiteremo a riprendere quello che è il fulcro della sua teoria circa i mezzi di comunicazione, ispirato al concetto della “fabbrica del consenso”, che sostiene un utilizzo pervasivo dei mass media per orientare l’informazione nel senso voluto dai possessori delle maggiori testate - spesso i grandi gruppi economici internazionali – col fine ultimo di influenzare e/o indirizzare nel senso voluto la pubblica opinione. Una costruzione non molto distante da quella elaborata, a suo tempo, dal nostro Pierpaolo Pasolini.
  Ribadendo che questa non può e non vuole essere una lezione sul lavoro di Chomsky, prenderemo spunto dal suo pensiero critico per affrontare un argomento di grandissima attualità: il nuovo corso del Medio Oriente, dove si intravedono importanti segnali di cambiamento, oramai quasi all’ordine del giorno. Abbiamo già parlato della svolta a destra segnata dalle ultime elezioni israeliane, come dell’accordo storico tra Iran e Arabia Saudita, reso possibile dalla mediazione cinese. Il passo successivo potrebbe essere – usiamo il condizionale, in attesa di conferme ufficiali – la pace per il tormentato Yemen, funestato da un conflitto quasi decennale.
  Inoltre, è di questi giorni la decisione dell’Opec+ (a trazione russo-cinese) che, non aderendo alle opposte richieste di Washington, ha varato un nuovo taglio per l’export di greggio, proprio mentre Pechino e Riyad stanno rafforzando i loro legami, pattuendo di regolare il loro interscambio di petrolio in yuan e non più in dollari. In che modo questa evoluzione delle relazioni tra blocco russo cinese e paesi del Medio Oriente, tradizionali alleati degli statunitensi (pensiamo solo all’Arabia Saudita) si potrebbe collegare alla potenziale crisi, preannunciata da Chomsky, nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv, sinora il loro più fedele alleato nella regione?
  Che la virata a destra in Israele avrebbe messo una seria ipoteca per il processo di pace tra israeliani e palestinesi ve lo avevamo preannunciato, e per la verità non occorrevano grandi capacità divinatorie per prevederlo, vista e considerata la composizione del governo israeliano, che vede la partecipazione delle componenti più estremiste; un esempio pratico arriva dalla recente decisione di restringere ulteriormente le attività costruttive dei palestinesi. Ma il discorso è molto più ampio e complesso, perché a venire in gioco non sono più soltanto i già esasperati rapporti tra lo stato ebraico (dal 2018 proclamato per legge “casa nazionale del popolo ebraico”) e la componente araba, che ha visto una nuova escalation dopo l’episodio della moschea di Al Aqsa, ma gli equilibri di una delle regioni più tormentate del pianeta, per lo meno dal secondo dopoguerra in poi.
  Non è certo un caso se lo stesso Chomsky, pure favorevole alla nascita dello stato ebraico, si sia più volte espresso per la soluzione negoziale ispirata alla logica dei due stati, criticando le politiche colonialiste e antiarabe professate dai governi degli ultimi decenni (e vi lasciamo immaginare cosa possa pensare dell’attuale Esecutivo…). Solo per incidens, rammentiamo che la logica dei “due stati” non è frutto della mente sopraffina di Chomsky, ma è contenuta in una serie di documenti ufficiali rimasti, purtroppo, solo sulla carta; solo per citarne alcuni, ricorderemo due risoluzioni delle Nazioni Unite: la 181 del 1947, che la contemplava espressamente, e, più di recente, la 2334 del 2016, che condannava i nuovi insediamenti ebraici in territorio palestinese.
  L’appoggio degli States è stato determinante, perlomeno sinora, per garantire Israele da pressioni troppo forti per abbandonare una linea sempre più estremista nell’approccio alla questione palestinese. Ricordiamo che sotto l’Amministrazione Trump, nel 2020, sono stati sottoscritti gli accordi di Abramo, che hanno permesso di allacciare formali relazioni diplomatiche tra lo stato ebraico e diversi paesi arabi (tra i quali Bahrein ed Emirati Arabi Uniti) ed è sempre sotto la presidenza del tycoon che l’America ha riconosciuto la sovranità sulle alture del Golan e lo status di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Gli accordi di cui sopra non hanno, però, coinvolto l’Arabia Saudita, riluttante proprio a causa della questione palestinese, con la quale tuttavia Israele ha da tempo una sorta di canale non ufficiale, favorito dalla comune avversione al “nemico” iraniano. Il fatto è l’intesa tra i due tradizionali rivali del Medio Oriente ora potrebbe cambiare tutto.
  Così come ad influire sui rapporti tra USA e stato ebraico potrebbe essere il crescente interesse di Washington per il teatro dell’Indo Pacifico. Oramai non è un mistero per nessuno che il “vero nemico” per l’America sia la Cina, sempre più vicina alla Russia, il che potrebbe indurre Washington – come di fatto già sta avvenendo – a retrocedere da altri fronti, come per l’appunto il Medio Oriente. Se volessimo ipotizzare uno scenario, l’unico elemento che potrebbe ancora tenere “agganciati” gli americani sarebbe il desiderio di non consentire che Pechino incassi nuovi e importanti successi diplomatici (vedi la pace in Yemen), ma visto l’andamento delle cose – un discorso analogo potremmo farlo per l’Africa, dove sembra che gli USA si stiano muovendo per un cambio di passo – non è detto che sarà agevole. Anche perché, più che di successi cinesi, si potrebbe e dovrebbe parlare di gravi errori della politica a stelle e strisce in certe aree del pianeta, dove un mix tra paternalismo e conflittualità ha finito per esasperare molte delle popolazioni coinvolte, che non ci si può stupire se oggi finiscano per intravvedere in Cina (e Russia) nuove e interessanti opportunità.
  Questa lunga premessa, per dire che se mutassero gli interessi strategici di Washington in Medio Oriente, sulla spinta di una modifica più complessiva degli equilibri geopolitici internazionali, perfino la tradizionale amicizia con Tel Aviv potrebbe subire dei contraccolpi. E nell’attuale quadro una simile prospettiva sarebbe particolarmente infausta per lo stato ebraico, che se nella tradizionale rivalità tra sauditi e iraniani vedeva una sponda, ora privata (come sembra plausibile) di questa ultima, potrebbe intravvedere in un cambio di passo da parte dell’America il pericolo di ritrovarsi “solo” in un ambiente ostile. Con questo non stiamo dicendo che l’amicizia tra USA e Israele sia giunta al capolinea: non pensiamo questo, casomai riteniamo che sarebbe più sostenibile l’idea di un mutamento, che preluda all’abbandono di una linea troppo estremista, che obiettivamente non sta portando nessun tipo di vantaggio e creando il presupposto per nuove conflittualità.
  E non dimentichiamo che le fin troppo note ragioni storiche e politiche che sono alla base della tradizionale alleanza tra americani e israeliani – nelle quali si intrecciano questioni storiche, finanziarie, geopolitiche, financo lobbistiche - non hanno mai impedito, specie negli ultimi anni, una serie di riserve da parte della Casa Bianca sulle politiche di espansione della “sola democrazia del Medio Oriente”.
  E si badi bene che la stessa famosa soluzione (datata 1947) della pace coi due stati – dalla quale l’attuale governo è distante anni luce – non è affatto estranea a Washington. Riprendiamo le parole di due segretari di Stato americani, di due amministrazioni differenti. “L’unico modo di garantire un futuro a Israele come stato ebraico e democratico è di dare anche ai palestinesi un loro stato a cui hanno diritto è la cosiddetta soluzione dei due stati. Ma è difficile nel breve termine vedere una qualunque prospettiva realistica di riuscita in tal senso.” (Antony Blinken, segretario in carica, gennaio 2021). E ancora: “Non è possibile difendere e proteggere Israele se lasciamo che ogni possibilità di arrivare alla soluzione dei due stati venga distrutta sotto i nostri occhi,” (John Kerry, 2016, dichiarazione resa in occasione del voto alla risoluzione 2334, il primo nel quale gli Stati Uniti non posero il veto).
  Se è innegabile che con Trump, come ricordavamo, l’America sembrava aver manifestato nuove e forti aperture verso il premier Netanyahu, finora il cambio di inquilino alla Casa Bianca, con l’arrivo di Joe Biden, non sembra aver preluso a grossi stravolgimenti nei rapporti tra i due stati. Ma potrà ancora essere così con l’evoluzione che abbiamo descritto e i segnali che arrivano dal Medio Oriente? Inoltre, si avvicinano le presidenziali americane del 2024, in occasione delle quali gli equilibri internazionali potrebbero essere un nuovo e importante terreno di scontro.
  A parole Stati Uniti e Israele hanno ribadito a più riprese la loro incrollabile amicizia – anche se da Tel Aviv è arrivata la precisazione che lo stato ebraico è indipendente e sovrano, con una chiara allusione al rigetto di qualunque forma di pressione - ma esistono forti incertezze sul futuro. Una di queste riguarda la tenuta stessa dell’attuale governo israeliano, con un crollo di consensi certificato dagli ultimi sondaggi e dalle sempre più partecipate manifestazioni di piazza (dovute, però, più a ragioni interne, che internazionali). E nel panorama geopolitico le incognite abbondano, dalle tensioni crescenti tra Israele e Iran, a quelle nell’Indo Pacifico per la questione di Taiwan.
  In questo contesto, Israele, specie di fronte a un rifiuto circa un cambio di passo su certe linee (quelle denunziate da Chomsky) rischia di trovarsi sempre più isolato, con un governo, diciamolo, che sta creando più problemi che prospettive, dentro e fuori i propri confini. E il punto sta proprio in questo: non si può, né si dovrebbe confondere il benessere di un paese (e/o di uno o più popoli) con quello di un governo, peggio ancora con quello di un certo leader. Un discorso che dovrebbe valere per tutti i paesi, Israele incluso.

(l'AntiDiplomatico, 13 aprile 2023)

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Arabia Saudita, Iran e Israele in cerca di meno nemici

Per Vittorio Maccarrone de Il Caffè Geopolitico gli accordi in Medio Oriente per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Paesi stanno creando un “effetto domino”.

di Alessandro De Pascale

Il 10 marzo, Iran e Arabia Saudita hanno raggiunto a Pechino un accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche interrotte nel 2016. Il 29 marzo, Ryad ha inoltre annunciato la propria adesione all’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco), il forum di cooperazione euro-asiatico dominato da Russia e Cina in funzione anti-Usa. Il 15 settembre 2020, alla Casa Bianca, l’allora presidente statunitense Donald Trump aveva invece mediato la firma degli Accordi di Abramo. Israele avviava così relazioni diplomatiche con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, primi Stati del Golfo ad unirsi ad Egitto (1979) e Giordania (1994) nell’avvio di rapporti con lo Stato ebraico. Ne abbiamo parlato con Vittorio Maccarrone, collaboratore di lungo corso de Il Caffé Geopolitico, associazione che dal 2009 analizza la geopolitica e le relazioni internazionali.

- Come riassumerebbe la politica estera del giovane ereditario principe saudita?
  L’Arabia saudita va verso la diversificazione dei propri alleati e ha sempre cercato di vedere le proprie relazioni, non solo regionali ma internazionali, in maniera tale da difendere i propri interessi, soprattutto securitari. Non si fida più degli Stati Uniti, anche se ospita soldati e basi Usa. Non nutre più fiducia nella sicurezza che Washington potrebbe garantirgli, ma continua a dialogare con l’Occidente. Nel 2019 l’Arabia Saudita ha subito un attacco alle sue infrastrutture petrolifere, più o meno diretto, proprio dall’Iran. Gli USA, allora guidati da Trump, inviarono più truppe a Ryad ma non colpirono direttamente Teheran per dissuaderla da altre azioni nei confronti del Regno. Che era quello che cercava di ottenere l’Arabia Saudita dagli Stati Uniti. Da quel giorno il Regno sta cercando di avviare una distensione nei confronti dell’Iran.

- Qual è l’obiettivo saudita di questo riavvicinamento all’Iran?
  Arrivare a una distensione dei rapporti o quantomeno a un congelamento delle tensioni tra i due Paesi, così da mettere al sicuro le proprie esportazioni di petrolio. Che è bene ricordare sono la sua fonte vitale di guadagno. Su questo vale la pena ricordare che l’Arabia Saudita non ha partecipato alle sanzioni contro la Russia imposte dall’Occidente. Anzi, ha ad esempio aumentato le esportazioni di diesel verso Mosca. A questo si aggiunge la loro preoccupazione per il possibile sviluppo del programma nucleare iraniano. In poche parole, con questo avvicinamento, l’Arabia Saudita sta cercando di avere un nemico in meno in Medio Oriente. È questo il solco nel quale il Regno saudita si sta muovendo a livello regionale.

- A suo parere quali saranno gli effetti di questo accordo?
  È un avvicinamento tattico, non strategico, che ha però creato immediatamente un effetto domino nel Golfo. Nel breve e nel medio periodo può creare i presupposti per una calma relativa in Medio Oriente. Ma nel lungo periodo una stabilizzazione totale sarà molto difficile. Tra Iran e Arabia Saudita c’è sempre stata una rivalità per arrivare a un’egemonia in Medio Oriente che ha creato una destabilizzazione in tutta l’area. Guardiamo alla Siria, allo Yemen, agli attacchi alle infrastrutture energetiche non solo saudite ma anche emiratine. L’Iran sostiene in Siria il regime di Bashar al-Assad. In Yemen gli Houti, pur non essendo una loro diretta emanazione avendo una certa autonomia, sono collegati all’Iran. Per la prima volta dal 2016, Teheran ha nominato il 5 aprile un proprio ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, cosa che era già stata fatta anche nel Kuwait. Negli ambienti regionali del Medio Oriente, alcune fonti diplomatiche, quindi nulla di ufficiale, parlano anche di cosa può succedere con la Giordania o l’Egitto. Al-Sisi, ricordiamolo, è un alleato dell’Arabia Saudita. Non è da sottovalutare nemmeno il riavvicinamento tra l’Iran e il Bahrein e anche con l’Oman sembrano esserci i presupposti.

- Invece qual è l’attuale politica estera iraniana?
  L’Iran si percepisce impero e ha una narrazione, anche in larga parte condivisa anche dalla popolazione, di influenza a livello regionale. A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iran ha però smesso di dialogare con l’Occidente. In realtà è stato costretto a rompere i rapporti. Perché gli Stati Uniti prima decidono di dialogare con l’Iran attraverso l’accordo sul programma nucleare iraniano, poi durante la presidenza Trump lo stracciano. Alla politica di massima pressione USA nei confronti dell’Iran, non avendo più la strada negoziale (quindi diplomatica), Teheran risponde in due modi: da un lato procede all’arricchimento dell’uranio, dall’altro innalza la tensione compiendo azioni militari in tutto il Golfo e attaccando le infrastrutture saudite ed emiratine. L’Iran ha inoltre aumentato il supporto agli Houti nella guerra in Yemen contro tutta la coalizione a guida saudita che sostiene il governo Hadi. Ora si è però reso conto di avere troppi nemici, di essere totalmente accerchiato e guarda altrove.

- Questo accordo potrà influire sulla guerra in Yemen, in corso dal 2015, che vede Arabia Saudita e Iran su fronti contrapposti?
  Secondo alcune voci l’Iran avrebbe detto all’Arabia Saudita: “Cerchiamo di risolverla in modo diplomatico, non sosterremo più gli Houti”. In cambio “tu mi fai uscire dall’isolamento”. Mi aiuti, non dico ad avere degli amici in Medio Oriente, perché la lotta per l’egemonia tra le due nazioni nei prossimi anni ritornerà, ma intanto dialoghiamo per cercare di risolverla in maniera diplomatica. Non c’è nulla di sicuro, anche se si potrà arrivare a una trattativa.

- Qual è stato il ruolo della Cina nel raggiungimento di questo accordo?
  Di facilitatore. La Cina è stata brava a inserirsi nel momento in cui c’era già una ricerca di dialogo. Ci sono due ambiti. Il primo è un ruolo simbolico, molto scenografico, da parte della Cina. La narrazione di proporsi come una potenza mondiale che cerca la stabilità, la pace e il dialogo. C’è poi il ruolo geopolitico. La Cina crede nel declino statunitense a livello egemonico e quindi anche in una transizione multipolare delle relazioni internazionali, di cui parla apertamente. Si è accorta che gli Stati Uniti si stanno ritirando del Medio Oriente a favore del teatro dell’Indo-Pacifico. Cui si aggiunge, dopo l’invasione dell’Ucraina, il contenimento della Russia in Europa orientale. Ecco perché la Cina ha deciso di dare agli attori nel Golfo un proprio segnale di presenza. Infine c’è l’aspetto economico: Pechino ha strettissimi legami con l’Iran e l’Arabia Saudita, che nel corso degli anni si sono intensificati. Entrambi sono del resto fornitori di petrolio anche alla Cina, che è la seconda più grande economia del mondo.

- Nel 2020 era stata la volta di Israele, nel cercare di avere meno nemici nell’area?
  Sì, con gli accordi di Abramo, che ovviamente escludono l’Iran. I Paesi del Golfo stanno cercando di avviare una fase volta più al pragmatismo, piuttosto che a un’ideologia che vede in Israele il male assoluto. L’Iran ha deciso di rimanere su quella posizione, a differenza di Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, che sono stati spinti in questa direzione dall’America e in questo caso da Trump, il quale ha cercato a modo suo di pacificare la regione. L’Arabia Saudita e Israele in realtà già parlavano, ad esempio in merito al programma nucleare iraniano. C’erano dei contatti, in maniera indiretta.

(Atlante Guerre, 13 aprile 2023)

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Riapre i cancelli l’ambasciata iraniana a Riyadh

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L’ambasciata iraniana in Arabia saudita ha riaperto i cancelli ieri per la prima volta in sette anni nel quadro di un accordo volto a ristabilire i legami diplomatici tra Teheran e Riyadh e che dovrebbe allentare una lunga rivalità che ha alimentato crisi e conflitti in tutto il Medio oriente. L’agenzia Reuters ha scritto che ieri sono stati riaperti i pesanti cancelli dell’ambasciata iraniana a Riyadh e che alcune persone hanno ispezionato l’edificio. I due paesi avevano interrotto i rapporti nel 2016, dopo l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran seguito all’esecuzione di un importante religioso sciita da parte di Riyadh.
  Ma i rapporti avevano iniziato a peggiorare un anno prima, dopo che l’Arabia saudita e gli Emirati erano intervenuti militarmente in Yemen, dove i ribelli sciiti Houthi, alleati dell’Iran, avevano preso il potere estromettendo da Sanaa il governo sostenuto dai sauditi. Negli anni successivi, Riyadh e Teheran sono giunte a pochi passi dallo scontro militare. Circa due anni fa l’inizio di colloqui tra i due paesi mediati dall’Iraq. Infine è giunto l’intervento della Cina che a marzo ha portato alla firma a Pechino di uno storico accordo di riconciliazione tra sauditi e iraniani.
  La riconciliazione tra le due potenze regionali ha contribuito alla ridefinizione parziale dell’ordine mediorientale con la fine dell’isolamento arabo della Siria che ha appena ripreso le relazioni diplomatiche con la Tunisia e sarà riammessa nella Lega araba – e il riavvicinamento tra Turchia ed Egitto. E ha frenato il progetto avviato da Israele e Usa attraverso gli Accordi di Abramo per la creazione di un fronte israelo-arabo contro l’Iran.

(Pagine Esteri, 13 aprile 2023)

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L’Iran sfrutta il terremoto per rifornire di armi la Siria

L’Iran ha utilizzato i voli di soccorso per i terremotati per portare armi ed equipaggiamento militare al suo alleato strategico, la Siria. Lo hanno dichiarato varie fonti attendibili tra le quali anche fonti iraniane.
  Le fonti hanno dichiarato che l’obiettivo era quello di rafforzare le difese iraniane contro Israele in Siria e di rafforzare il presidente siriano Bashar al-Assad.
  Dopo il terremoto del 6 febbraio nel nord della Siria e della Turchia, centinaia di voli dall’Iran hanno iniziato ad atterrare negli aeroporti siriani di Aleppo, Damasco e Latakia portando rifornimenti, e questo è andato avanti per sette settimane, hanno detto le fonti. Secondo le Nazioni Unite, in tutta la Siria sono morte più di 6.000 persone.
  Le forniture comprendevano apparecchiature di comunicazione avanzate, batterie di radar e pezzi di ricambio necessari per il previsto aggiornamento del sistema di difesa aerea della Siria, fornito dall’Iran nel corso della guerra civile, hanno detto le fonti, due fonti regionali e una fonte di intelligence occidentale.
  Tra le fonti ci sono funzionari dell’intelligence occidentale, fonti vicine alla leadership iraniana e israeliana, nonché con un disertore militare siriano e un ufficiale siriano in servizio.
  Alla domanda se l’Iran avesse usato gli aerei di soccorso umanitario dopo i terremoti per trasferire attrezzature militari in Siria per potenziare la sua rete e aiutare Assad, la missione iraniana presso le Nazioni Unite a New York ha risposto: “Non è vero”.
  Il governo siriano non ha risposto a una richiesta di commento.
  Fonti regionali hanno riferito che Israele si è subito accorto del flusso di armi verso la Siria e ha avviato una campagna aggressiva per contrastarlo.
  Il generale di brigata Yossi Kuperwasser, un insider ed ex capo della ricerca dell’esercito israeliano, nonché ex direttore generale del Ministero degli Affari Strategici, ha detto che gli attacchi aerei israeliani contro le spedizioni si sono basati su informazioni così specifiche che i militari israeliani sapevano quale camion di un lungo convoglio colpire.
  Un funzionario della difesa israeliana, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha dichiarato alla Reuters: “Con il pretesto di spedizioni di aiuti per il terremoto in Siria, Israele ha assistito a significativi movimenti di equipaggiamento militare dall’Iran, trasportato principalmente in parti”.
  Ha detto che gli aiuti sono stati consegnati principalmente all’aeroporto di Aleppo, nel nord della Siria. Le spedizioni sono state organizzate dalla divisione siriana Unit 18000 della Forza Quds, il braccio paramilitare e di spionaggio estero delle Guardie rivoluzionarie iraniane, guidato da Hassan Mehdoui.
  Il trasporto via terra è stato gestito dall’Unità di trasporto 190 della Forza Quds, guidata da Bahanem Shahariri. La Reuters non è riuscita a contattare Mehdoui e Shahariri per un commento. Le Guardie rivoluzionarie hanno rifiutato di commentare.
  “Gli attacchi israeliani hanno preso di mira anche una riunione di comandanti di milizie iraniane e spedizioni di chip elettronici per aggiornare i sistemi d’arma”, ha dichiarato il colonnello Abduljabbar Akaidi, disertore dell’esercito siriano, che conserva contatti con l’esercito. Akaidi non ha detto dove si è svolta la riunione.
  La pista di Aleppo è stata colpita da Israele poche ore dopo l’atterraggio di due aerei cargo iraniani con carichi di armi che come copertura avevano usato il pretesto di fornire aiuti, ha dichiarato una fonte regionale, informazione confermata da altre due fonti di intelligence occidentali.
  Il generale di brigata Esmail Qaani, capo della Forza Quds delle Guardie Rivoluzionarie, è stato il primo ufficiale straniero a mettere piede nella zona terremotata della Siria, pochi giorni prima dell’arrivo dello stesso Assad.
  In caso di catastrofe umanitaria, gli aerei di soccorso delle Nazioni Unite possono chiedere alle autorità locali i diritti di atterraggio e i beni umanitari sono esenti da sanzioni. In questo caso le autorità siriane hanno concesso i diritti di atterraggio ai voli diretti provenienti da Russia e Iran.
  “Il terremoto è stato un triste disastro, ma allo stesso tempo è stato l’aiuto di Dio per aiutare i nostri fratelli in Siria nella loro lotta contro i nemici. Carichi di armi sono stati inviati immediatamente in Siria”, ha dichiarato una fonte regionale vicina alla leadership clericale iraniana.
  Israele ha condotto per anni attacchi contro quelli che ha definito obiettivi legati all’Iran in Siria, dove l’influenza di Teheran è cresciuta da quando ha iniziato a sostenere Assad nella guerra civile iniziata nel 2011.
  Un ufficiale dell’esercito siriano che ha chiesto di non essere nominato ha detto che gli israeliani stavano intensificando gli sforzi per sconfiggere l’Iran in Siria.
  “Perché ora? Semplicemente perché hanno informazioni che qualcosa si sta sviluppando rapidamente. Devono fermarlo e colpirlo per rallentarlo. Il terremoto ha creato le condizioni giuste. Il caos che ne è seguito ha permesso ai jet iraniani di atterrare con facilità”, ha detto.
  In seguito ad altri terremoti del 3 aprile, gli obiettivi israeliani hanno incluso magazzini di armi nella catena montuosa di Jabal Manea Kiswa, a sud di Damasco, dove le truppe iraniane e gli Hezbollah libanesi hanno costruito quello che è probabilmente il loro sito militare più fortificato in Siria, hanno dichiarato una fonte di sicurezza regionale e due fonti di intelligence occidentali.
  Il 3 aprile è stata colpita anche una stazione radar utilizzata per i droni, ha aggiunto la fonte regionale, confermando quanto detto da due fonti di intelligence occidentali.
  “Crediamo che le milizie iraniane abbiano trasferito enormi quantità di munizioni – hanno rifornito le quantità perse nei precedenti attacchi di droni israeliani”, ha detto una fonte di intelligence occidentale, riferendosi ai voli iraniani dopo il terremoto del 6 febbraio.

(Rights Reporter, 12 aprile 2023)

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Addio a Meir Shalev, lo scrittore che amava la musica delle parole

Scomparso a 74 anni l’autore israeliano divenuto un classico. Ha raccontato con ironia la rinascita del popolo ebraico

di Elena Loewenthal

Meir Shalev
Aveva un orecchio assoluto per la musica delle parole, Meir Shalev. Adorava vederle scritte sulla pagina e ascoltarle, nella sua e nelle altre lingue. Era la prima cosa che chiedeva delle sue traduzioni: ascoltare la musica delle parole, e di lì estrarre sensazioni, significati. Con lui se ne va un altro dei grandi scrittori israeliani che possiamo e dobbiamo definire classici per quanto siano contemporanei, nati più o meno insieme allo stato ebraico. Classici perché diventati un modello, una sorta di canone in cui riconoscersi e da amare.
  Di Israele Meir Shalev, che ci ha lasciati ieri nel cuore della Pasqua ebraica – che è anche festa della primavera e di quella natura che lui tanto amava – era proprio coetaneo, nato due mesi e qualche giorno dopo la dichiarazione d’Indipendenza, il 14 maggio del 1948. Ma la sua appartenenza non è un puro fatto anagrafico, è ben di più: Meir è infatti venuto al mondo a Nahalal, comune agricola fondata agli albori del Novecento da uno sparuto gruppo di pionieri giunti dall’Europa dell’est, e divenuta ben presto il modello di una rinascita del popolo ebraico che partiva dalla terra e alla terra tornava. Il padre di Meir era il poeta Yitzhak Shalev, nato e vissuto in un mondo come quello di allora in cui essere scrittori e contadini, intellettuali e manovali di fatica non era una contraddizione, anzi: bisognava costruire ed essere costruiti, se stessi e il proprio paese. Anche Meir era fatto proprio così: adorava le parole e la natura. Scriveva con un’eleganza rara, attingendo a tutte le sfumature di colori di cui l’ebraico è capace, ma era anche capace di fermarsi sul ciglio della superstrada per raccogliere qualche seme di lupino di un colore che mancava nel suo giardino, come racconta nel suo ultimo libro Il mio giardino selvatico, pubblicato in italiano da Bompiani. Era un uomo dalla straordinaria semplicità - come quella volta in un albergo in Italia in cui, di fronte a una sontuosa colazione continentale scelse una fetta di pane con un po’ d’olio d’oliva lentamente colato sopra – eppure straordinariamente raffinato nel suo modo di guardare al mondo e all’arte.
  E aveva anche un senso dell’umorismo così sottile e benevolo, sempre in pace con il mondo. Del resto, aveva cominciato la sua carriera artistica come autore di sketch per la televisione. Ma era fatto per il romanzo, era uno scrittore nato. E un raccontatore di storie che si facevano passo a passo, man mano che le disegnava con le parole, come succedeva sempre nei suoi libri, da Per amore di una donna a Il pane di Sara, da Il ragazzo e la colomba (piccola notazione da traduttrice: avevo dovuto studiare trattati e manuali di allevamento di piccioni viaggiatori, per districarmi. E che divertimento che era stato, tradurlo, come sempre) a È andata così, spassosa storia di un aspirapolvere approdato a Nahalal dall’America per cambiare le sorti della famiglia.
  Le sue storie sono quasi tutte ambientate in campagna: nulla a che vedere con l’Israele di altri autori, che sia la Tel Aviv postmoderna e un po’ malinconica o la cupa e troppo santa Gerusalemme. Meir Shalev racconta di stalle, campi di senape, colline e uadi. Racconta di zabaglioni che sono un po’ come l’incanto di Sherazade: servono a non interrompere la storia e a farla sempre nuova perché come le storie anche rosso d’uovo e zucchero racchiudono il mistero dell’esistenza. Racconta dei templari, che non erano cavalieri armati bensì una comunità di protestanti messianici arrivati in Terra Santa ad aspettare la seconda venuta del Messia e le sue tappe, che nel frattempo allevavano bovini, coltivavano la terra, facevano il vino e costruivano casette con il tetto spiovente, disseminando la regione di «villaggi tedeschi».
  E ancora: Fontanella, La montagna blu, La casa delle grandi donne. Romanzi indimenticabili, pieni di forza e dolcezza, di personaggi che ti entrano dentro, che fanno soffrire e sorridere. Aveva un senso della vita tutto speciale, Meir Shalev: sapeva che talvolta è capace di mostrarsi spietata, la vita, ma che non bisogna mai dimenticare che, a cercarlo, un risvolto ironico, paradossale e pure consolatorio lo si trova sempre. E lui la strada per cercarlo la indicava sempre, nei suoi libri ma prima ancora nel rapporto di confidenza che sapeva instaurare con le sue lettrici e i suoi lettori sin dalla prima pagina di ogni suo libro. E quanto ci mancherà, quanto già ci manca, quel suo essere e scrivere così, forte e delicato al tempo stesso, sempre con le orecchie e tutto il corpo e tutto il cuore pronti ad ascoltare: storie, vite, destini.
  Sapeva, eccome se sapeva parlare al suo pubblico – di adulti e bambini, perché ha scritto anche per i più piccoli, con la stessa grazia che aveva e che metteva nei suoi protagonisti. Perdere un autore così, da traduttrice e lettrice, è sentirsi proprio un po’ orfani. E per lui, viene da oggi in poi una nostalgia che non è soltanto della sua voce, ma anche del suo modo di ascoltare – come quando di ogni libro appena tradotto in italiano voleva farsi leggere una pagina, per sentire la musica che fa.

(La Stampa, 12 aprile 2023)

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Lunga strada agli ordini: sistema di razzi a lancio multiplo PULS (Israele)

Per molto tempo, l'industria militare israeliana ha promosso il suo sistema di razzi a lancio multiplo PULS sul mercato internazionale. Può utilizzare munizioni di diversi calibri e tipi ed è inoltre dotato di un moderno sistema di controllo. Si sostiene che tutto ciò offra vantaggi significativi rispetto ad altri MLRS moderni. Tuttavia, fino a poco tempo fa, PULS non riusciva a trovare un acquirente.

- LUNGA STORIA

Due MLRS PULS su telaio diverso con armi diverse. Quello davanti trasporta razzi da 122 mm, l'auto dietro è equipaggiata con prodotti da 306 mm
In passato, la società israeliana Israel Military Industries è stata attivamente coinvolta nello sviluppo di varie armi, incl. artiglieria missilistica. A metà degli anni XNUMX, ha sviluppato un altro progetto di questo tipo, chiamato "Kotesh" (in ebraico "Crushing") e Lynx (in inglese "Lynx"). È stato proposto un MLRS su telaio gommato, in grado di utilizzare trasporti unificati e lanciare container con missili di vario calibro e tipologia.
   MLRS "Kotesh" ha superato i test necessari ed è stato regolarmente dimostrato alle mostre. Lo sviluppo del progetto è proseguito anche attraverso il miglioramento dei sistemi di bordo e l'introduzione di nuovi missili. Tuttavia, nonostante tutti gli sforzi dello sviluppatore, non è stato possibile ricevere ordini. Gli eserciti stranieri erano più disposti ad acquisire altri sistemi di razzi a lancio multiplo dall'IMI e le prospettive per il Lynx rimanevano poco chiare.
   Nel 2018, Elbit Systems ha acquisito IMI con tutti gli sviluppi e l'ha ribattezzata Elbit Systems Land. Si è deciso di continuare una serie di progetti, incl. MLRS modulare e sue modifiche. Allo stesso tempo, il progetto Kotesh nel 2019 ha ricevuto una nuova designazione PULS (Precise & Universal Launching System). Varie modifiche del sistema esistente sono state rinominate in modo simile.
   Già con il nuovo nome, l'MLRS ha continuato a essere promosso sul mercato, e ancora una volta senza molto successo. Durante i primi anni, il prodotto PULS in diverse versioni ha attirato solo l'attenzione dei visitatori alle fiere, ma niente di più. Tuttavia, recentemente la situazione ha iniziato a cambiare e sono comparsi i primi ordini.

- DIREZIONE EUROPEA
  Nel giugno 2022, la società israeliana Elbit Systems e la società tedesca Krauss-Maffei Wegmann hanno firmato un memorandum di cooperazione nel campo dell'artiglieria missilistica. Si prevedeva di sviluppare un progetto congiunto per una profonda modernizzazione dell'attuale M270 MLRS / MARS MLRS prodotto negli Stati Uniti. Con un tale progetto, volevano entrare nel mercato europeo e ricevere ordini per l'aggiornamento delle attrezzature disponibili per i paesi della regione.
   Pochi mesi dopo, Elbit e KMW hanno annunciato che si rifiutavano di aggiornare l'M270 e di sviluppare un progetto su una base diversa. Il nuovo MLRS per il mercato europeo è stato realizzato sulla base del PULS israeliano. Il progetto Euro-PULS prevede una leggera ristrutturazione del sistema di lancio multiplo Elbit finito con l'introduzione di alcuni dispositivi e / o munizioni su richiesta del cliente.
   Anche prima della prima ufficiale, il progetto Euro-PULS è stato offerto a potenziali clienti di fronte a eserciti europei senza nome. Gli sviluppatori presumono che troverà il suo acquirente e nel prossimo futuro inizierà la produzione del nuovo MLRS. L'assemblea dovrebbe essere organizzata da imprese israeliane e tedesche. Allo stesso tempo, almeno la maggior parte dei tipi di missili sarà prodotta in Europa.

- PRIMI SUCCESSI

MLRS con TPK per missili AccuLAR-160 da 160 mm
MLRS "Kotesh" / Lynx, successivamente ribattezzato PULS, è stato introdotto un decennio e mezzo fa, ma da allora non ha mostrato alcun successo commerciale. La situazione ha cominciato a cambiare solo negli ultimi mesi. Sullo sfondo di un generale deterioramento della situazione nella regione, diversi paesi europei si sono riuniti per aggiornare la loro flotta MLRS e si sono persino interessati allo sviluppo israeliano.
   Alla fine di gennaio 2023, sui media specializzati sono apparse informazioni sui negoziati tra il ministero della Difesa danese e Elbit Systems. Secondo i loro risultati, doveva apparire un contratto per la fornitura di sistemi di artiglieria ATMOS e MLRS PULS - 19 e 8 unità. rispettivamente. Il costo totale dell'attrezzatura è stato stimato in $ 260 milioni.
   All'inizio di marzo, la società Elbit ha annunciato di aver ricevuto due ordini da un paese NATO europeo senza nome per la fornitura di obici e MLRS. Come riportato in precedenza, sono state ordinate due batterie PULS di otto veicoli da combattimento, nonché una fornitura di missili per loro. Tutti i prodotti saranno consegnati al cliente nei prossimi tre anni e il primo potrà essere spedito quest'anno. Il costo di produzione è di 133 milioni di dollari.
   Quale versione dell'MLRS verrà fornita alla Danimarca, l'originale o "europea", non è specificata. Anche la gamma di munizioni ordinate non viene divulgata. Tuttavia, anche in questo caso, Elbit Systems ha motivo di essere felice: dopo molti anni di campagna pubblicitaria, è finalmente riuscita a trovare un vero cliente.
   Come divenne presto chiaro, parallelamente c'erano trattative con un altro cliente. Il 3 aprile, il ministro della Difesa dei Paesi Bassi ha annunciato la firma di contratti per la fornitura di una serie di sistemi d'arma stranieri. Insieme ad altri prodotti, verrà acquistato un certo numero di PULS MLRS modulari. I primi veicoli da combattimento entreranno nell'esercito quest'anno, grazie ai quali i Paesi Bassi avranno nuovamente artiglieria a razzo.
   Il ministro non ha specificato i dettagli del contratto firmato. Ma lo stesso giorno, la società Elbit ha pubblicato il suo comunicato stampa sulla ricezione di un ordine da un paese europeo senza nome. Apparentemente, riguardava i Paesi Bassi. Il valore di questo contratto ha raggiunto i 280 milioni di dollari, il che indica la consegna di quattro batterie con 16 veicoli da combattimento, oltre a uno stock di missili. Termine di consegna - tre anni dalla data di conclusione del contratto.

- MODULARMENTE
  In termini di architettura complessiva e caratteristiche di progettazione, il prodotto PULS è simile ad altri sistemi di razzi a lancio multiplo. Questo MLRS è costruito su un telaio per fuoristrada a più assi. I dispositivi antincendio sono posizionati nella cabina del veicolo e un lanciatore è montato sulla piattaforma di carico. In questo caso, il sistema è in realtà un insieme di moduli adatti per l'installazione su diverse piattaforme.
  Diversi veicoli possono essere utilizzati come base per PULS. Quindi, i Paesi Bassi riceveranno MLRS su un telaio del marchio Scania a quattro assi. Nei materiali pubblicitari di Elbit Systems Land compaiono auto di altre marche. Nonostante l'utilizzo di telai diversi, i veicoli da combattimento nelle configurazioni proposte hanno caratteristiche simili di mobilità e percorrenza campestre.
   In tutti i casi, PULS riceve un sistema digitale di controllo del fuoco. È realizzato sulla base di un computer, nella cui memoria sono presenti informazioni su tutte le munizioni compatibili. Ricevendo informazioni sulla sua posizione e le coordinate del bersaglio, il computer calcola i dati per sparare e controlla la mira e, se possibile, inserisce le informazioni nella memoria dei missili.
   PULS ha un lanciatore universale con la possibilità di mirare su due piani. L'installazione può accettare due trasporti unificati e lanciare container con missili del tipo desiderato. È curioso che il design e le dimensioni del TPK siano presi in prestito dagli americani MLRS M270 e M142. Allo stesso tempo, la disposizione dei tubi di lancio con missili differisce a causa di altri calibri. Il caricamento del container viene effettuato da un manipolatore di gru della macchina di carico-trasporto. Inoltre, alcune opzioni di telaio consentono di avere la propria gru.
   Il modulare multi-calibro MLRS PULS può utilizzare TPK con quattro tipi di missili. Per risolvere missioni di combattimento a profondità tattica, vengono utilizzati missili guidati AccuLAR-122 di calibro 122 mm con una portata di 35 km. Un container standard contiene 18 di questi prodotti: il carico totale di munizioni include 36 missili. Esiste una munizione simile nel calibro 160 mm - AccuLAR-160 con una portata di 60 km. TPK trasporta dieci di questi missili.
   Si propone di colpire bersagli più distanti con missili EXTRA di calibro 306 mm. Hanno una portata di 150 km. Allo stesso tempo, a causa delle grandi dimensioni, solo quattro prodotti si adattano al TPK. I più grandi sono i missili Predator Hawk. Il calibro 370 mm consentiva di posizionare solo due di queste munizioni nel contenitore. Gamma - fino a 300 km. Entrambi i missili a lungo raggio hanno mezzi di guida.
   In futuro è possibile sviluppare nuovi missili guidati con le caratteristiche richieste. Dovremmo aspettarci un aumento della gamma di missili AccuLAR, nonché un aumento della precisione e della potenza dei prodotti più grandi. Allo stesso tempo, un aumento della loro portata oltre i 300 km non è possibile a causa delle restrizioni all'esportazione esistenti.

- FUTURO NON CHIARO
  L'industria militare israeliana è stata a lungo coinvolta nello sviluppo e nella produzione dei propri sistemi di razzi a lancio multiplo. Il prodotto Kotesh / Lynx / PULS è stato un altro sviluppo in quest'area e nella sua creazione sono state utilizzate nuove idee e soluzioni promettenti. Tuttavia, i risultati sperati non sono stati ottenuti. Nonostante tutti gli sforzi per promuovere, per molti anni l'MLRS modulare non è riuscito a trovare il suo cliente.
   La situazione ha iniziato a cambiare solo quest'anno, un decennio e mezzo dopo la prima del nuovo MLRS. Negli ultimi mesi, Elbit Systems ha ricevuto due contratti per la produzione di circa 20-25 lanciarazzi multipli e relative munizioni. Inoltre, vengono prese misure per attirare nuovi clienti. Se si giustificheranno e se sarà possibile ottenere nuovi ordini, il tempo lo dirà.
  
(Top War, 12 aprile 2023)

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Lucy Dee muore dopo l’attentato che ha ucciso anche le 2 figlie

Il marito: “Donati i suoi organi per portare altro bene nel mondo”

di Fabiana Magrì

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Cinque persone in attesa di trapianto hanno ricevuto gli organi donati dalla famiglia di Lea Lucy Dee. Tre giorni dopo il mortale attentato palestinese in Cisgiordania, poco dopo i funerali delle due sorelle Maya (20) e Rina (16), uccise sul colpo, anche la loro madre, Lea Lucy Dee (48 anni), è morta in ospedale a Gerusalemme, per le gravi ferite riportate. Lunedì pomeriggio l'Hadassah-University Medical Center ha comunicato che la donna, come le sue figlie un’israeliana britannica, era stata evacuata in elicottero a Ein Kerem in “condizioni critiche” e che i medici “hanno combattuto per la sua vita, nell'unità traumatologica, in sala operatoria e nell'unità di terapia intensiva”. Ma nonostante gli sforzi “intensi e incessanti”, l'équipe ha infine dovuto “determinare la sua morte”.
  Il capofamiglia, il rabbino Leo Dee, dopo aver appena sepolto le figlie e aver appreso la notizia della moglie, ha voluto rivolgere alcune dichiarazioni alla stampa. "La mia bellissima moglie, Lucy, ed io abbiamo cercato di crescere i nostri figli con buoni valori, per fare del bene e portare altro bene nel mondo”, ha detto lunedì sera, annunciando la decisione di donare gli organi della donna. E poi ha rivolto un messaggio all’attentatore, che è riuscito a fuggire dalla scena del crimine e non è ancora stato catturato: "Chiedo alla persona con il kalashnikov: cosa hai ottenuto? Una vittoria temporanea? Stai passando del tempo con i tuoi figli per insegnare loro valori di vita decenti? Hai un futuro? Questo è puro male”. Leo Dee ha poi ripercorso il momento in cui, venerdì mattina, si è reso conto dell’accaduto, troppo tardi per intervenire. “Ho chiamato Lucy. Nessuna risposta. Ho chiamato Maya. Nessuna risposta. Ho chiamato Rina. Nessuna risposta. Poi ho visto una chiamata persa da Maya alle 10:52. Non me ne ero accorto e non avevo risposto al telefono. La sensazione che mi abbia chiamato durante l'attacco mi perseguiterà per un po’”.
  Sono pesanti le perdite recenti di vite umane, 19 è il numero delle vittime di attentati terroristici palestinesi dall'inizio del 2023, per Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato le sue condoglianze alla famiglia "a nome di tutti i cittadini di Israele”, così come il presidente Isaac Herzog.

(Shalom, 11 aprile 2023)

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Viaggio a Napoli

Un percorso nella storia ebraica della città partenopea

di Camilla Marini

A Napoli non c’è mai stato un ghetto. C’è poco da gioirne, però. Se gli ebrei non vi subirono la segregazione inflitta nel resto d’Italia dalla metà del Cinquecento, è solo perché ne erano stati espulsi almeno da un decennio. Risale infatti al 1541 il decreto con cui Ferdinando il Cattolico, salito al potere nel 1503, ordinava che nessun ebreo risiedesse più nell’intero Mezzogiorno. Prima di quel momento, la presenza ebraica in Campania e a Napoli era stata capillare fin dal periodo romano. Lo testimoniano reperti antichi come le lastre epigrafiche e le lapidi esposte presso il Museo Archeologico Nazionale di via Museo 19 e la stessa toponomastica cittadina.
Le cronache antiche a loro volta attestano le gesta degli ebrei napoletani fin dal 536, anno in cui aiutarono i Goti nel tentativo di fermare il generale bizantino Belisario. Da quel momento all’anno Mille non ci sarebbero più state loro notizie, ma si suppone che non avessero mai smesso di vivere in città. Beniamino di Tudela, rabbino ed esploratore spagnolo ritenuto il Marco Polo ebreo, parla di ben 500 famiglie residenti a Napoli nel 1159.
  Per farsi un’idea di dove vivesse la comunità dell’epoca ci si può recare presso il complesso monastico di San Marcellino, ai piedi di quel colle Monterone che vide la nascita dell’antica Neapolis. Qui, l’area compresa tra le attuali rampe di San Marcellino e via Leopoldo Rodinò fu abitata da ebrei almeno a partire dal X secolo. Tra i documenti giunti a noi, uno del 984 attesta l’esistenza in zona di una sinagoga e di diversi altri locali di proprietà ebraica. Tra i vantaggi del quartiere pare ci fosse la ricchezza di fonti d’acqua, indispensabili per l’istallazione di bagni rituali. Risale probabilmente all’epoca romana anche l’insediamento ebraico nei pressi dell’anfiteatro romano, lungo l’attuale strada dell’Anticaglia, sull’asse dell’antico Decumano. Un documento del 1002 fa qui riferimento a un vicus Judeorum, corrispondente all’attuale vico Limoncello, ma non si hanno notizie né di sinagoghe né di bagni rituali.
  Tra il XII e il XIII la giudecca di San Marcellino si sarebbe allargata fino a comprendere l’attuale piazza Portanova, in quella che viene definita la Giudecca Grande o, appunto, di Portanova. Questa si sarebbe sviluppata ulteriormente tra il Duecento e il Trecento giungendo fino alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin. In quel periodo pare che gli abitanti ebrei della zona fossero perlopiù impegnati nella lavorazione dei tessuti e avessero diverse sinagoghe. Oggi di esse non rimane traccia se non forse in una chiesa, quella di Santa Caterina della Spina Corona in via Giuseppina Guacci Nobile 13. Guardando alla sua conformazione a pianta rettangolare, alla presenza di una fontana e alla posizione all’estremità del quartiere, si suppone che questo edificio fosse la stessa sinagoga che nel 1288, sulla spinta di alcuni ebrei convertiti e soprattutto di un movimento cattolico antiebraico, era stata trasformata in chiesa. Nei secoli successivi, anche una parte dell’attuale Corso Umberto I, il tratto compreso tra via Miroballo e piazza Nicola Amore, avrebbe accolto la vita ebraica, tanto da essere chiamata via Giudecca Grande. Via Giudechella si trovava invece più in fondo, tra via San Biagio ai Taffettanari e vico San Vito ai Giubbonari. Pare che avesse un impianto simile a quello della cosiddetta Giudecca Vecchia che dà il nome a una via e che si trovava nell’attuale zona di Forcella. In questo come negli altri casi, ben poco è rimasto degli antichi palazzi, stravolti dalle operazioni urbanistiche di fine Ottocento.
  L’ampliamento della Giudecca, avvenuto intorno alla metà del Quattrocento, coincise con un periodo particolarmente favorevole per la vita ebraica in città. Sotto la dominazione aragonese, iniziata nel 1442, Napoli accolse gli esuli da Sicilia, Sardegna e Spagna, aumentando così la forza della sua comunità. Ma le cose non sarebbero durate a lungo. Nel 1503 il regno passò a Ferdinando il Cattolico e dopo un primo bando di espulsione nel 1510 si arrivò a quello definitivo del 1541. Da quell’anno, salvo alcuni di passaggio per fiere e mercati, nessun ebreo avrebbe più vissuto a Napoli fino al 1740, quando il re di Napoli Carlo di Borbone tentò di rimpinguare le casse di stato grazie alle abilità commerciali degli ebrei. Ne invitò da Livorno e dall’Olanda, allettandoli con la promessa di libertà di culto e di facilitazioni sul lavoro, ma i pur fiorenti affari dei circa 120 commercianti che si insediarono a Napoli non bastarono a risanare i conti e nel 1747 un nuovo assetto politico a corte portò a una nuova espulsione.
Nonostante i ripetuti affronti subiti nel corso dei secoli, gli ebrei napoletani sono stati gli unici del Sud Italia ad avere ricostituito una comunità nell’Ottocento. Fondata nel 1864, la Comunità Ebraica di Napoli è anche l’unica tuttora esistente sotto Roma, con giurisdizione per Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Perché si arrivasse alla sua fondazione e prima ancora al ritorno degli ebrei a Napoli si deve andare indietro di poco più di trent’anni, al 1831, quando il barone Carl Rothschild si trasferì in città. In quegli stessi anni anche un gruppo di commercianti ebrei era tornato a Napoli e, sotto la guida di Isidoro Rouff, aveva inaugurato una sala di preghiera in una delle stanze dell’albergo Croce di Malta, nell’attuale piazza Municipio. Le vicende legate ai banchieri tedeschi sarebbero state però quelle decisive per la rinascita della vita ebraica partenopea. Dopo aver concesso tramite l’Austria un finanziamento ai Borbone per pagarsi le truppe contro i rivoluzionari e rimettere sul trono Ferdinando, i Rothschild inaugurarono a Napoli la prima filiale della loro banca in Italia. Carl, figlio del capostipite della dinastia, si insediò nel più bel palazzo della prestigiosa Riviera di Chiaia, la neoclassica Villa Acton, poi diventata Villa Pignatelli e oggi sede dell’omonimo museo. Noto per l’estrema osservanza religiosa, Carl adibì una sala della sua fastosa residenza a oratorio per i suoi ospiti e gli ebrei di passaggio. Per quanto riguarda quelli residenti, sarebbero aumentati velocemente di numero, arrivando a toccare le 630 unità nel 1864. È questo l’anno della fondazione della Comunità e dell’inaugurazione della Sinagoga in via Santa Maria a Cappella Vecchia 31, luogo in cui tuttora si trova.
  Visitabile solo prendendo appuntamento dal sito della Comunità, la Sinagoga di Napoli rappresenta oggi una importante testimonianza storica oltre che il riferimento per il culto per l’intero Meridione. Dalla pianta rettangolare, è divisa a metà da una grande arcata. Nata ashkenazita e diventata sefardita dopo gli arrivi di esuli a inizio Novecento da Istanbul, Smirne, Sarajevo, Gianina e soprattutto da Salonicco, presenta una tevah centrale circondata dai banchi posta di fronte all’aron, che poggia invece sulla parete orientale di fronte all’ingresso. Qui si trova il matroneo, retto da colonne di legno. Vi si accede da una scala esterna, passando da una sala attigua all’ingresso. In questo locale si può ammirare una serie di antichi contratti nuziali (ketubà) appartenenti a membri della Comunità, nonché una hanukkiah per la celebrazione della Festa dei Lumi. La struttura che ospita la sinagoga comprende anche sale per conferenze e concerti, la segreteria della Comunità, la casa del rabbino e altre sale in fase di ristrutturazione.
Restaurata nel 2004 con il contributo del Ministero dei Beni Culturali e rinnovata nel 2020 grazie all’aiuto della Fondazione Rothschild di Parigi, la Sinagoga nasceva come appartamento al primo piano di Palazzo Sessa. Presa in affitto da Lamberto Foà, era stata in seguito pagata grazie al lascito dello stesso barone Rothschild, che alla sua morte nel 1900 aveva destinato fondi anche per la fondazione e il mantenimento di un ospedale e di una scuola. L’acquisto sarebbe arrivato solo nel 1927, grazie al denaro lasciato nel 1910 dal defunto presidente Dario Ascarelli e alle donazioni di altri iscritti. Nel frattempo, la Comunità aveva toccato il migliaio di membri, tra cui diversi nomi importanti per la storia della stessa Napoli a cavallo tra i due secoli. Uno di questi è Mario Recanati, nato a Padova ma stabilitosi a Napoli dopo un soggiorno negli Stati Uniti. Acquistati dei locali al civico 90 della Galleria Umberto, aveva cominciato col vendervi grammofoni e dischi giungendo poi ad aprirvi nel 1896 la cosiddetta Sala Recanati, considerata la prima sala cinematografica a Napoli e tra le prime in Italia. Inizialmente per fare pubblicità ai suoi prodotti, l’uomo aveva importato da Parigi la macchina Lumière insieme ad alcuni film. Altri imprenditori avrebbero seguito negli anni successivi la geniale intuizione di Recanati moltiplicando le sale di proiezione e trasformando Napoli nella capitale del cinema italiano di inizio Novecento.
  Restando in tema di primati, si deve ringraziare un ebreo anche per un altro fiore all’occhiello della città: la sua squadra di calcio. Fondatore nel 1926 dell’Associazione Sportiva Calcio Napoli fu infatti Giorgio Ascarelli, imprenditore figlio dell’industriale tessile Salomone Pacifico. Primo presidente della squadra, fece in modo di riunirvi tutte le piccole realtà calcistiche partenopee facendola diventare competitiva in ambito nazionale già dalla stagione 1928-29. Forte di questo successo, Ascarelli nello stesso 1929 fece costruire uno stadio a proprie spese presso il Rione Luzzatti chiamandolo Stadio Vesuvio. Alla sua morte, sopraggiunta appena 17 giorni dopo l’inaugurazione per un attacco di peritonite, l’impianto gli fu intitolato, come riportano le cronache, “a furor di popolo”. Avrebbe mantenuto il nome del mecenate morto a neppure 36 anni fino al 1934, data in cui il regime fascista decise di mutarne la denominazione in Stadio Partenopeo. La struttura finì distrutta sotto i bombardamenti, ma la memoria del benefattore del calcio napoletano le sopravvisse. Per ricordare degnamente Ascarelli, nel 2018 l’allora sindaco Luigi de Magistris aveva annunciato che il piazzale davanti allo Stadio Diego Armando Maradona, intitolato all’ex segretario provinciale fascista Francesco Tecchio, avrebbe finalmente cambiato nome e preso quello del mecenate ebreo. Purtroppo, dopo due anni di attesa, è arrivata la doccia fredda del veto della Commissione Toponomastica. Qui l’Istituto di Storia Patria e un fantomatico comitato civico del quartiere di Fuorigrotta avevano votato contro il cambio di nome. Tra gli impedimenti, si dice, anche la difficoltà nel ricevere la posta…

(JoiMag, 12 aprile 2023)

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Israele e il fronte mediorientale della guerra in Ucraina

Gli scontri in mare, i missili, i leak americani e la necessità di Gerusalemme e Kyiv di considerarsi sempre più vicine

di Micol Flammini

Il Florida è un sottomarino americano in grado di trasportare 154 missili,  venerdì scorso è entrato nel Canale di Suez e si è diretto verso le acque del Mar Arabico. Lo ha fatto con un clamore insolito perché sebbene non sia strano che un sottomarino americano entri nella regione è  peculiare che abbia deciso di passare avvisando. La sua navigazione ha uno scopo preciso: serve, secondo alcune fonti di intelligence sentite dal New York Times, a mantenere la stabilità di una delle rotte marittime più trafficate del mondo. Qualche giorno prima che venisse diffusa la rotta del Florida, le agenzie di sicurezza americane e israeliane avevano allertato i mercantili civili sulla possibilità di nuovi attacchi con i droni da parte di Teheran. Avevano raccomandato alle navi che transitano nel Golfo Persico e nel Mar Arabico di fare attenzione, navigare con i transponder spenti,  vicini alle coste dell’Oman,   e segnalare ogni attività sospetta. E’ dal 2021 che Iran e Israele sono impegnate in una guerra che coinvolge  il passaggio dei mercantili e in queste settimane in cui le tensioni sono peggiorate, gli Stati Uniti temono che anche in mare la situazione possa inasprirsi.
  Gerusalemme è stata colpita da ogni lato, da Gaza, dal Libano, sabato anche dal sud della Siria. E’ stata attaccata internamente e ieri è morta un’altra vittima di un attentato, la donna ferita in Cisgiordania venerdì. Gli attacchi contro Israele provengono da milizie che dicono di far parte dell’“asse della resistenza”, l’insieme di forze armate e sostenute dall’Iran. Il conflitto è aperto su più fronti ed è difficile non considerare insieme  quello che accade in medio oriente e la guerra in Ucraina, dove  l’Iran è alleato della Russia. 
  Alcuni dei documenti trafugati dell’intelligence americana, la cui esistenza è stata resa nota la scorsa settimana, erano dedicati anche a Israele. Alcuni parlavano della possibilità che il governo israeliano possa un giorno rifornire Kyiv di armi sempre più letali, avendo compreso che non può più contare sulla Russia per il controllo del fronte siriano. Fidarsi di Mosca, che dà soldi all’Iran che a sua volta li spende nella repressione interna e nella lotta contro Israele, è impensabile. I fronti di Kyiv e di Gerusalemme si sono avvicinati e gli Stati Uniti, che pure anni fa avevano espresso il desiderio di allontanarsene sempre di più, non possono fare a meno di sostenerli. 
  Altri documenti trafugati raccontavano invece di un piano del Mossad per fomentare le proteste contro la riforma della giustizia. L’agenzia di intelligence ha smentito queste ricostruzioni, dicendo che alcuni dipendenti avevano chiesto e ottenuto il permesso per recarsi alle manifestazioni, ma non c’era mai stata una regia per fomentare  divisioni dentro alla società israeliana. Queste divisioni preoccupano sempre di più gli addetti alla sicurezza e in un’intervista al Times of Israel, l’ex capo delle Forze di difesa israeliane, Tamir Hayman, ha detto che l’immagine di Israele come uno stato in grado di garantire alti livelli di sicurezza è ormai stata danneggiata in modo irreversibile. Hayman ha detto di non capire l’atteggiamento del premier Netanyahu e di non potersi fidare di lui dopo che ha dato retta a quella parte del governo che ha aizzato gli israeliani gli uni contro gli altri.  Ieri quella parte del governo, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich assieme ad altri funzionari, hanno preso parte a una marcia per chiedere la legalizzazione dell’avamposto di Evyatar. Assieme ai ministri hanno sfilato migliaia di persone con un costo alto a livello di sicurezza nei giorni che seguono lanci di missili e attentati contro i civili.
   Il premier Benjamin Netanyahu ha tenuto lunedì una conferenza stampa  in cui ha annunciato che il ministro della Difesa Yoav Gallant rimarrà al suo posto – lo aveva licenziato dopo i dissidi sulla riforma della giustizia – e ha sminuito anche la portata della guardia nazionale posta sotto il ministero della Sicurezza di Ben Gvir – Netanyahu ha detto che sarà coordinata con altre agenzie e non sottoposta al ministro, come auspicava la polizia – e si è concentrato sulla Siria, da cui sono partiti gli ultimi attacchi contro Israele. Ha detto che se il regime di Bashar el Assad consentirà un lancio di missili continuo pagherà un prezzo alto. Era proprio sulla Siria che si reggevano i rapporti con Mosca, che sorveglia i cieli siriani: gli ultimi lanci di missili e l’arrivo dei droni iraniani rendono chiaro che questi rapporti  hanno sempre meno senso per la sicurezza di Israele. 

Il Foglio, 11 aprile 2023)

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Colloquio telefonico Meloni-Netanyahu

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha ricevuto oggi una telefonata dal Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, il quale ha voluto esprimere le proprie condoglianze per la morte di Alessandro Parini nell’attentato di venerdì scorso a Tel Aviv.
  Il Presidente Meloni ha ringraziato per l'assistenza fornita dal Governo israeliano e per la solidarietà espressa da molti cittadini di Israele nella drammatica circostanza.

(Agenparl, 11 aprile 2023)

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Attacco a Tel Aviv, la salma di Parini in arrivo oggi a Ciampino. Netanyahu: “Faremo giustizia”

Gli ultimi accertamenti: nel corpo nessun proiettile. Il premier: «Prenderemo tutti i terroristi». La coalizione di governo crolla nei sondaggi: avrebbe soltanto 46 seggi invece di 64

di Nello Del Gatto

GERUSALEMME - Partirà oggi dall’aeroporto Ben Gurion per arrivare nel primo pomeriggio a Ciampino, la salma di Alessandro Parini, il giovane avvocato ucciso venerdì sera sul lungomare di Tel Aviv. È arrivato il via libera dalle autorità israeliane, che hanno concluso una parte delle indagini sulla sua morte, avvenuta ad opera di Yousef Abu Jaber, un arabo israeliano. Il corpo di Parini è stato sottoposto ad alcuni esami strumentali all’istituto di medicina legale di Abu Kabir. In particolare una tac ha evidenziato che nessun proiettile era presente nel corpo del giovane avvocato. Parini è stato anche ricordato sabato dalla manifestazione giunta alla quattordicesima settimana, nata per protestare contro la riforma della giustizia e divenuta un referendum anti Netanyahu.
  Il premier ha deciso di metterci la faccia e presentarsi ieri sera in conferenza stampa, sullo stato della sicurezza nazionale. Negli ultimi giorni gli scontri sulla spianata delle moschee in occasione della Pasqua ebraica, razzi da Gaza, dal Sud del Libano, dalla Siria, l’attentato a Parini e quello, sempre venerdì nella Valle del Giordano nella quale sono state uccise due sorelle inglesi e la loro madre (morta ieri per le ferite) che vivevano in un insediamento nella zona, hanno posto un serio problema di sicurezza.
  Netanyahu, che ha detto che il paese «è sotto attacco terroristico» e che questi sono cominciati con il governo precedente, ha assicurato che «tutti i terroristi saranno presi» e che il ministro della difesa Gallant, in un primo momento licenziato perché si opponeva alla riforma della giustizia, resta al suo posto. «La maggior parte delle persone oggi capisce che è necessario apportare modifiche al sistema giudiziario», ha affermato Netanyahu quando gli è stato chiesto delle riforme giudiziarie, esprimendo preoccupazione per l’immagine che Israele proietta ai suoi nemici durante questo periodo di disordini politici. Il premier ha poi sottolineato che il governo israeliano dovrebbe essere un fronte unito contro il terrorismo.
  Un sondaggio pubblicato domenica da Channel 13 ha evidenziato che il Likud del premier, se si tenessero ora le elezioni, perderebbe 12 seggi, un risultato che non si vedeva dal 2006. La sua coalizione di governo arriverebbe a 46 seggi, contro i 61 necessari per formare il governo, visto che anche i suoi alleati, Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, perderebbero seggi.
  Erano loro ieri, insieme ad altri ministri e parlamentari, in testa al corteo di migliaia di coloni, ortodossi religiosi e simpatizzanti della destra estrema che ha sfilato verso l’avamposto di Evyatar, in Samaria, non lontano da Nablus. L’avamposto è nato nel 2013 ed è stato distrutto diverse volte, l’ultima nel 2021, dalle autorità israeliane perché illegale, costruito sul territorio della cittadina palestinese di Beita. Dopo l’attentato del 26 febbraio scorso nel quale due giovani coloni in auto nei pressi del villaggio palestinese di Hawara furono uccisi da un terrorista legato a Hamas, che provocò poi una rappresaglia da parte degli abitanti dell’insediamento nei confronti dei palestinesi, Ben Gvir annunciò che si sarebbe battuto per la riapertura di Evyatar, che si trova non lontano dal luogo dell’attentato. La marcia, tra le proteste dell’opinione pubblica, è stata accompagnata e scortata da militari israeliani, che, oltre a bloccare diverse strade per Nablus, hanno anche usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro i palestinesi che hanno manifestato contro il furto di terra, con alcuni di loro che hanno lanciato pietre contro le forze di sicurezza. Almeno 120 i feriti, tra i quali alcuni giornalisti.
  Non erano invece di gomma i proiettili dell’esercito israeliano che hanno ucciso a Gerico il quindicenne Muhammad Fayez Bilhan, durante un raid nel campo profughi di Aqabat Jabr, alla ricerca di un sospetto terrorista poi arrestato. Nelle stesse ore, in ospedale dove era ricoverata da venerdì, è morta per le ferite riportate nell’attentato che ha ucciso le sue due figlie, Lucy Dee. Sono così 19 le vittime israeliane dall’inizio dell’anno, e a 96 (inclusi anche combattenti e autori di attacchi) quelle palestinesi. E si temono altri scontri per oggi e domani in occasione dell’ultimo giorno di Pasqua ebraica.

(La Stampa, 11 aprile 2023)

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50 anni dopo l’operazione “Primavera della Gioventù”, il Libano è al centro del conflitto tra lo Stato ebraico e i suoi nemici

di Luca Spizzichino

Sono passati cinquant’anni dal raid israeliano guidato da Ehud Barak per eliminare i leader dell'OLP coinvolti nel massacro di Monaco. Nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1973, le forze speciali israeliane penetrarono nel territorio con l’obiettivo di colpire tre funzionari dell'OLP: Kamal Adwan, responsabile delle operazioni nella Cisgiordania occupata da Israele, Mohammed Youssef Najjar, membro del comitato esecutivo dell'OLP e Kamal Nasser, portavoce dell'OLP.
  Barak, che in seguito sarebbe diventato Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano e poi nel 1999 primo ministro, in un una lunga intervista anni dopo l’operazione descrisse quanto avvenne quella notte.
  Lui e altri due commando per non attirare l’attenzione delle guardie si vestirono da donne, con tanto di parrucche e trucco. Il resto del gruppo sbarcò sulla costa di Beirut dove si trovavano gli agenti del Mossad. Una volta arrivati nel quartiere di Verdun, tre squadre si sono intrufolate nei due edifici e hanno fatto saltare le porte degli appartamenti dei funzionari dell’OLP, mentre Barak e una squadra di supporto stavano fuori. L’operazione durò meno di otto minuti. Le tre squadre assassinarono Adwan, Najjar e Nasser e portarono con loro documenti che favorirono l'arresto di agenti dell'OLP in Cisgiordania.
  L’Operazione “Primavera della Gioventù”, segnò un momento spartiacque per il destino del Libano, che divenne l'arena dello scontro tra Israele e i suoi nemici nella regione, come spiega Ynet. Il raid infatti ebbe conseguenze in Libano, dove il governo dell'allora primo ministro Saeb Salam, diede le dimissioni. Meno di un mese dopo, scoppiarono scontri tra l'esercito libanese e la guerriglia palestinese, che sfociò nella guerra civile del 1975-1990, durante la quale Israele invase e occupò parte del paese fino al ritiro nel 2000.
  Dalla fine della guerra civile, il gruppo militante sciita Hezbollah, sostenuto dall'Iran, si è fatto avanti come principale minaccia per lo Stato d’Israele in Libano. Ma anche diverse fazioni palestinesi sono ancora presenti nel territorio libanese, in particolare Hamas, come dimostra il lancio di razzi verso il nord d’Israele, che ha risposto con attacchi mirati dell’aviazione.

(Shalom, 11 aprile 2023)

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Marcia indietro di Netanyahu, il ministro della Difesa resta

Dopo giorni di forte tensione, lanci di razzi e attentati, il premier israeliano torna in tv per cercare di rassicurare l'opinione pubblica. E Yoav Gallant, reo di aver chiesto la sospensione della contestata riforma della giustizia, rimane al suo posto

di Cecilia Scaldaferri

AGI - Dopo giorni di forte tensione, lancio di razzi e attentati, tra cui quello a Tel Aviv costato la vita ad Alessandro Parini, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è tornato in tv all'ora di cena per cercare di tranquillizzare l'opinione pubblica e rafforzare la sua immagine, scossa dalla precaria situazione della sicurezza e dalle proteste contro il contestato progetto di riforma della giustizia che proseguono da oltre tre mesi e mezzo. Una situazione che ha costretto il capo di governo a fare marcia indietro sull'annunciato licenziamento del ministro della Difesa, Yoav Gallant, due settimane fa, 'reo' di essersi espresso pubblicamente a favore della sospensione del percorso di riforma.
  "Abbiamo avuto delle divergenze, ma Gallant rimane nella sua posizione", ha affermato Netanyahu, sottolineando di volersi "lasciare alle spalle le differenze". Poco dopo, il ministro della Difesa ha postato una foto di loro due assieme: "Continuiamo insieme a tutta forza, per la sicurezza di Israele", ha scritto, taggando il capo di governo. Quest'ultimo ha promesso di ristabilire la sicurezza su "tutti i fronti" dopo che la scorsa settimana su Israele sono caduti razzi lanciati da Gaza e dal Paese dei Cedri, ai quali lo Stato ebraico ha risposto con raid aerei e bombardamenti. "Non permetteremo che i terroristi di Hamas si stabiliscano in Libano", ha assicurato Bibi. 

• La Siria è avvertita
   Avvertimenti sono stati lanciati anche alla Siria, dalla quale sono stati lanciati sei razzi, scatenando la reazione israeliana che per la prima volta ha bombardato pubblicamente con artiglieria e aviazione. Se il regime di Bashar al-Assad continuerà a consentire attacchi con razzi e droni contro Israele dal suo territorio, pagherà un prezzo molto alto, ha sottolineato il leader del Likud.
  Commentando poi gli ultimi sondaggi che lo danno in forte difficoltà (per il 71% non sta facendo un buon lavoro, solo il 20% lo appoggia, e il Likud - se ci fossero elezioni oggi - crollerebbe da 32 a 20 seggi), Netanyahu ha detto di "non preoccuparsi": "Ho visto di peggio", ha affermato, assicurando che "questo governo resterà in carica per quattro anni". "Il fattore determinante, alla fine, sarà il modo in cui gestiamo la sicurezza, l'economia, la salute, l'istruzione, la pace", ha aggiunto.
  Per poi attaccare: la responsabilità della precaria situazione attuale ricade sul "precedente governo" guidato da Naftali Bennett e Yair Lapid. Il leader del Likud ha puntato il dito anche contro i manifestanti che protestano contro la riforma della giustizia. Nel mirino, in particolare, i riservisti che si rifiutano di fare il proprio dovere, dimostrando ai "nostri nemici che siamo deboli".

• La dura reazione dell'opposizione
  Parole che hanno suscitato la durissima reazione dell'opposizione: dagli Stati Uniti, dove è volato per ricucire i rapporti con Washington alla luce della "crisi che si è intensificata nelle ultime settimane", Lapid ha attaccato il premier, esortandolo a "smettere di lamentarsi e assumersi le sue responsabilità", "invece di tenere una conferenza stampa e incolpare gli altri per i problemi causati dal suo governo estremista e fallito".
  Gli ha fatto eco Bennett che ha denunciato il "vergognoso" discorso del leader del Likud, respingendo le accuse secondo le quali l'accordo sulla demarcazione dei confini marittimi con il Libano firmato l'anno scorso ha danneggiato la capacità di deterrenza di Israele. Ancora più secco il leader di Yisrael Beytenu ed ex ministro delle Finanze e Difesa, Avigdor Liberman, per il quale il discorso di Netanyahu "dimostra che non è adatto a svolgere il suo lavoro".

• I difficili rapporti con Washington
  E proprio guardando alle recenti tensioni con l'amministrazione Biden, che ha più volte espresso - pubblicamente e in privato - la sua irritazione nei confronti delle iniziative del governo di estrema destra e non ha ancora avanzato un invito formale alla Casa Bianca a Netanyahu, il premier ha assicurato che "ci sarà una visita (negli Usa), state tranquilli". "Gli Usa sono un nostro alleato indispensabile, e questo non è cambiato", ma Israele, come "Stato sovrano" deve "avere la libertà di dire no" al presidente americano "a volte".
  Oggi, intanto, in Cisgiordania, epicentro di fortissime tensioni, raid e attentati nelle ultime settimane, migliaia di coloni (secondo Channel 12 circa diecimila) hanno sfilato fino all'avamposto illegale di Evyatar. Con loro, diversi ministri tra cui quello per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il collega delle Finanze Bezalel Smotrich, leader dei due partiti di estrema destra Otzma Yehudit e Sionismo Religioso. Ci sono stati scontri tra manifestanti palestinesi e soldati che, presenti in forze per sorvegliare il percorso, hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni. "La risposta al terrorismo è costruire" insediamenti nei Territori palestinesi, ha scandito Ben-Gvir rivolgendosi alla folla. 

(AGI, 10 aprile 2023)

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Manifestazione shock in Polonia: il corteo antisemita di Pruchnik, impiccata effigie di un ebreo ortodosso

di Luca Spizzichino

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Un’effigie raffigurante un ebreo ortodosso con la scritta “Judasz 2023” è stata impiccata venerdì scorso alle porte della cittadina polacca di Pruchnik. L’accaduto è stato condannato dai funzionari della città che hanno rimosso immediatamente il pupazzo, lo riporta il giornale polacco Ekspres Jarosławski, che ha pubblicato la fotografia dalla manifestazione antisemita conosciuta come il “Giudizio di Giuda”.
  Questa fu oggetto di un enorme scandalo dopo che nel 2019 Kan News pubblicò un video proveniente da Pruchnik in cui l’effige, che riprendevano lo stereotipo dell’ebreo ortodosso vestito di nero e con le peot, veniva prima impiccata, poi picchiata dai bambini e successivamente bruciata. Dopo la condanna unanime della politica, della Chiesa e del mondo ebraico, l’autorità abolirono questa usanza.
  Un residente anonimo, che ha parlato con il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, ha ipotizzato il motivo della manifestazione di quest’anno. Secondo lui infatti, “il tradimento di Giuda questa volta riguarda i politici, i produttori di grano si sentono traditi”, ha detto.
  Meir Bolka, presidente dell'organizzazione per la conservazione del patrimonio ebraico dell'Europa orientale ha commentato l’accaduto. "Il ripetersi di incidenti antisemiti come questo, solo poche settimane dopo che il governo polacco e quello israeliano hanno firmato un accordo per normalizzare le relazioni e ripristinare i viaggi dei giovani in Polonia, è profondamente preoccupante", ha affermato a Ynet. "È evidente come il governo polacco non sia riuscito ad affrontare le radici di questo odio verso gli ebrei” ha aggiunto.
  "Questo problema richiede una seria attenzione e una risposta significativa da parte del governo polacco" ha sottolineato.La manifestazione di Pruchnik non è l’unica però. Infatti in occasione del Venerdì Santo anche in altre comunità cristiane viene bruciata l'effigie di Giuda Iscariota. Questo rituale, risalente al Medioevo e conosciuto come il “Rogo di Giuda”, viene ancora praticato in alcuni paesi.

(Shalom, 10 aprile 2023)

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Gerusalemme: feste blindate dopo gli scontri e la tensione dei giorni scorsi

VIDEO
Feste religiose blindate a Gerusalemme. La polizia israeliana presidia la Città Vecchia, in concomitanza con i riti di Pasqua, Ramadan e Pesach, la Pasqua che celebra l'esodo del popolo ebraico dall'Egitto. 
  Dopo le tensioni dei giorni scorsi, circa 2500 agenti sono stati chiamati a garantire l'ordine pubblico.
In occasione della Pasqua ebraica l'esercito ha imposto la chiusura dei valichi di transito con la Cisgiordania e con Gaza. 
  La presenza delle forze dell'ordine non ha però contribuito a stemperare la tensione all'interno e nei pressi della Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme.

• La preghiera e la violenza
  Centinaia di ebrei sono stati scortati attraverso la spianata verso il Muro del Pianto, il luogo più sacro per pregare, in occasione della festività della Pasqua.
  Nella notte centinaia di palestinesi hanno pregato nella Moschea di Al Aqsa, nell'ambito delle celebrazioni del mese sacro musulmano del Ramadan, e si sono poi rifiutati di lasciare il complesso religioso nonostante le pressioni della polizia.
  Alcuni si sono rifiutati di andarsene, ma questa volta non ci sono stati sgomberi per evitare ulteriori scontri.
  Intanto, centinaia di persone hanno partecipato ai funerali delle due sorelle israeliano-britanniche uccise in una sparatoria venerdì in Cisgiordania. La madre delle due sorelle, anch'essa colpita da un proiettile nell'attacco, rimane in condizioni critiche in ospedale, ignara della morte delle figlie.

• Altri attacchi
  Gli attacchi non si sono fermati nei giorni scorsi: da Gaza, dal Libano e dalla Siria sono stati lanciati razzi a cui hanno fatto seguito le rappresaglie israeliane che hanno investito la regione.
  Mercoledì scorso, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, il terzo luogo più sacro dell'Islam. L'azione ha alimentato tensioni e scontri. Nelle scorse ore almeno sei razzi sono stati lanciati, in due tempi, dal sud della Siria verso le Alture del Golan in Israele.

(euronews, 10 aprile 2023)

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Tensioni, instabilità e antisemitismo. Che succede nel Mediterraneo secondo Donzelli

“Non nascondiamocelo: in Israele è messo in discussione il diritto a esistere e a difendersi, non è accettabile dal punto di vista morale e geopolitico. Il Piano Mattei? Strategico, nella consapevolezza che è necessaria una cooperazione non predatoria. L’Italia? Collegamento naturale fra le varie culture, esigenze e le differenti sensibilità”. Conversazione con il vicepresidente del Copasir.

di Francesco De Palo

Mentre la polizia israeliana starebbe valutando l’ipotesi che i fatti Tel Aviv non siano terrorismo, così come riferito dal comandante della polizia di Tel Aviv, Ami Eshed, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, l’occidente si interroga su come il momento di straordinaria tensione dato da guerra in Ucraina, crisi del grano e ripresa del conflitto israeliano-palestinese possa influire sull’area mediterranea e mediorientale.
  Secondo Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir e parlamentare di FdI, al di là di come evolveranno le indagini sull’episodio di Tel Aviv, le zone del Sahel e dell’Africa presentano una crescita importante del fondamentalismo. “Sicuramente nel caso di Hamas e Israele – dice a Formiche.net – vi sono anche delle peculiarità ancora più gravi perché lì è messo in discussione il diritto a esistere di Israele e a difendersi: non è accettabile dal punto di vista morale e geopolitico”.

- Hamas e la Jihad islamica hanno definito “un’operazione di alto livello” l’attacco di ieri commesso da un arabo-israeliano sul lungomare di Tel Aviv, in cui ha perso la vita un cittadino italiano: quale la posizione del governo?
  Vicinanza alla famiglia di Alessandro Parini e vicinanza allo stato israeliano che, per l’ennesima volta, si vede minacciato e ferito nel proprio cuore e condanna inequivocabile a qualsiasi forma di terrorismo. Attendiamo comunque i risultati delle indagini dei servizi israeliani.

- Giorgia Meloni, che solo pochi giorni fa ha ricevuto Netanyahu a Palazzo Chigi, ha parlato di vile attacco. Crede che il fondamentalismo islamico stia approfittando della guerra in Ucraina per tornare a colpire?
  Purtroppo il fondamentalismo islamico non ha mai smesso di colpire e non ha mai smesso di rafforzarsi. Se guardiamo a tutte le zone del Sahel e dell’Africa osserviamo aree con una crescita importante del fondamentalismo. Sicuramente nel caso di Hamas e Israele vi sono anche delle peculiarità ancora più gravi, perché lì è messo in discussione il diritto a esistere di Israele e a difendersi: non è accettabile dal punto di vista morale e geopolitico.

- Anche alla luce di quello che stanno facendo attori importanti come l’Iran e la Wagner in Africa, come nella pratica potrebbe influire il Piano Mattei?
  E’ necessaria una cooperazione non predatoria, ciò potrà portare a rafforzare i singoli Stati e le istituzioni, con tentativi di percorsi democratici o comunque laici che si stanno svolgendo. Inoltre questo potrà consentire anche un freno al fondamentalismo islamico e al terrorismo che si nutrono della povertà e delle situazioni di marginalità sociale. Ma nel caso Israele, accanto a questi fenomeni di carattere internazionale, è presente anche un antisemitismo strisciante che si nasconde con le rivendicazioni territoriali: in realtà c’è anche un razzismo di fondo nei confronti dello Stato ebraico che va combattuto con forza.

- Come impatta la politica del governo italiano nel Mediterraneo in questo scenario?
  Non dobbiamo farci condizionare dalle varie proteste che possono esserci, perché spesso quando manca la razionalità si arriva a festeggiare per le primavere arabe, come è successo in passato, per scoprire solo dopo che non hanno portato né stabilità né benessere. Quindi si rende necessaria un’azione geopolitica che tenga conto della strategia internazionale: l’Italia la porta avanti mettendo al centro gli interessi nazionali. Non dobbiamo mai dimenticarci che è fondamentale provare a tenere un equilibrio che consenta alle nazioni in via di sviluppo di poter crescere con più solidità possibile.
  Troppe volte abbiamo visto un Occidente che cercava di trarre vantaggi immediati dallo sfruttamento di altre nazioni più povere. Da parte nostra c’è la consapevolezza di un ruolo responsabile dell’Italia, che è una nazione al centro del Mediterraneo e quindi ha tutte le carte in regola per svolgere un ruolo da protagonista. Mi riferisco al suo essere collegamento naturale fra le varie culture, tra le varie esigenze e le differenti sensibilità. Il Mediterraneo può essere nei prossimi anni o la culla della serenità e del benessere, o il centro di tensioni internazionali. Sta a noi rendercene conto e porre la massima attenzione ai confini meridionali dell’Europa.

(Formiche.net, 10 aprile 2023)

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Esposti i gioielli di una ragazza romana ritrovati in una tomba di 1.800 anni fa

Orecchini, forcina, ciondolo e perline portano il simbolo della divinità Luna.

  I gioielli ritrovati
  nella tomba
GERUSALEMME - Per gli archeologi è un grandissimo evento: per la prima volta sono stati esposti i monili d’oro provenienti da una tomba del Monte Scopus, a nord-est di Gerusalemme, ritrovati nel 1971. Gli splendidi gioielli in oro e con gemme sono stati mostrati in pubblico al 48esimo Congresso Archeologico organizzato dall’Israel Antiquities Authority e dall'Israel Archaeological Association, oltre 50 anni dopo il loro ritrovamento e possono raccontare la storia di chi li indossava.
  Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l'esodo della popolazione ebraica, la Gerusalemme tardo romana, ribattezzata Aelia Capitolina, aveva una popolazione mista. Durante quel periodo, alcune ragazze furono sepolte adornate con gioielli in oro pregiato. I gioielli furono scoperti in una bara di piombo sul Monte Scopus durante gli scavi guidati dal defunto archeologo Yael Adler del Dipartimento di Antichità israeliano. Il ritrovamento includeva orecchini d'oro, una forcina, un ciondolo d'oro, perline d'oro, perline di corniola e una perlina di vetro e portano il simbolo di Luna, divinità romana: questo dettaglio fa pensare che i gioielli fossero portati per tutto il corso della vita della fanciulla, per poi accompagnarla anche durante la morte e continuare a proteggerla nell'aldilà. Scoperti nel 1971, i reperti non sono stati mai esposti da allora, ma soltanto studiati. I reperti, secondo i ricercatori, si riferiscono a un periodo dopo che Gerusalemme fu quasi interamente distrutta in seguito all'assedio del 70 d.C. Le divinità romane pagane ebbero molta fama nella nuova città di Adriano. A quel tempo, agli ebrei era vietato entrare a Gerusalemme perché la città era occupata da legionari romani e nel caso lo facessero, per loro c’era la pena di morte. 
  «Sembra che la ragazza sia stata sepolta con un costoso set di gioielli in oro che includeva orecchini, una catena con un ciondolo lunula (dal nome della dea Luna) e una forcina», dicono i ricercatori. «Questi gioielli sono noti nel mondo romano e sono caratteristici delle sepolture delle ragazze, forse fornendo prove delle persone che sono state sepolte in questi siti. La tardiva Gerusalemme romana, ribattezzata Aelia Capitolina, aveva una popolazione mista che raggiunse la città dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l'evacuazione della popolazione ebraica. Persone provenienti da diverse parti dell'Impero Romano si stabilirono in città, portando con sé un diverso insieme di valori, credenze e rituali. Il culto pagano della nuova popolazione della città era ricco e vario, compresi gli dei e le dee, tra cui il culto della dea della Luna».
  Secondo i ricercatori, i gioielli d'oro erano usati come amuleto contro il malocchio dalle giovani ragazze pagane quasi 1.800 anni fa. I gioielli sono stati sepolti con le ragazze per continuare a proteggerle nell'aldilà. «I gioielli sepolti insieme alla ragazza sono emozionanti», ha detto il direttore della IAA Eli Escusido. «Si può immaginare che i loro genitori o parenti si siano separati dalla ragazza, adornata con i gioielli o forse adagiati al suo fianco pensando alla protezione che avrebbero fornito nel mondo a venire. Un comportamento molto umano in cui tutti possono identificarsi con la necessità di proteggere la propria prole, qualunque sia la cultura o il periodo».
   

(Il Mattino, 10 aprile 2023)

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La polizia israeliana sulla morte di Alessandro Parini: «Ucciso dall’impatto con l’auto

Atto premeditato: ha accelerato davanti ai turisti»

È stato l’impatto con l’auto condotta dall’arabo-israeliano Yousef Abu Jaber a uccidere Alessandro Parini, e non i proiettili esplosi nel panico dell’evento, come invece era stato riportato nelle scorse ore. Questa mattina l’istituto di medicina legale Abu Kabir aveva smentito il dettaglio e ora lo confermano fonti della polizia – citate da Haaretz – che hanno effettuato l’autopsia sul corpo del giovane avvocato romano. Nessun proiettile né in punti vitali né alla gamba. Sulla salma, invece, sono state trovate ferite compatibili con l’impatto violento contro la Kia bianca. La polizia di Tel Aviv, inoltre, ha escluso l’ipotesi dell’incidente stradale. Piuttosto, pare sicuro che l’attentatore abbia agito in modo premeditato, scagliandosi intenzionalmente contro la folla, e nello specifico, il gruppo di amici italiani nei quali si trovava anche Parini. Viene meno, quindi, la tesi della famiglia di Abu Jaber, secondo la quale l’uomo avrebbe sofferto un colpo di sonno.

• La dinamica dell’incidente
  Nello specifico, diversi elementi non coincidono. Le indagini della polizia rivelano che l’attentatore ha guidato ad alta velocità fin dal suo luogo di residenza, la città collinare araba di Kafar Kassem, verso il lungomare di Tel Aviv. Un dettaglio che aggrava la posizione dell’uomo che – riferisce la polizia ribadendo l’intenzionalità – «ha rapidamente manovrato tra i blocchi di cemento sui marciapiedi per raggiungere di proposito la pista ciclabile e colpire quante più persone possibile». Inoltre, «mentre guidava all’impazzata – ha aggiunto – ha intenzionalmente accelerato e ha colpito un gruppo di persone. Ha poi continuato ad accelerare e ha colpito ancora un altro gruppo», spiega la polizia.

• I medici legali: «Nessun proiettile»
  Non c’era stato nessun proiettile sul corpo di Alessandro Parini, ucciso sul lungomare di Tel Aviv lo scorso venerdì sera. Secondo l’Istituto di medicina legale di Abu Kabir ha smentito il dettaglio inizialmente riportato come riferiva il Corriere della Sera secondo cui sarebbe stato trovato un proiettile nella gamba dell’avvocato 35enne. Sul corpo dell’avvocato 35enne di Roma non è ancora stata effettuata l’autopsia, e secondo l’istituto israeliano non è ancora certo che sarà svolta. Nei primi momenti convulsi dopo che Parini era stato travolto da un’auto sul lungomare di Tel Aviv, i media locali, ricorda il Corriere della Sera, avevano citato un soccorritore che aveva parlato di ferite da arma da fuoco, anche alla testa.
  All’inizio infatti l’allarme scattato via social parlava di un attacco terroristico con un mezzo scagliato contro i civili, con spari sulla folla. Un amico che era con l’avvocato romano 35enne sentito dall’Ansa aveva detto: «Abbiamo sentito il rumore dell’auto che ci passava accanto, poi gli spari e ci siamo dispersi. Quando siamo tornati indietro, abbiamo visto Alessandro steso a terra nel sangue». Gli spari erano quelli di un poliziotto in borghese e di una guardia municipale, che sono riusciti a circondare l’uomo alla guida della Kia bianca dopo che questo è strisciato fuori dall’auto. È lì che lo avrebbero «neutralizzato» dopo averlo visto avvicinare la mano verso un’arma, che poi si rivelerà un fucile automatico giocattolo.

• Il sospetto attentatore
  I famigliari di Yusef Abu Jaber, il 45enne arabo-israeliano alla guida dell’auto che ha ucciso Parini, assicurano che si sia trattato di un incidente. Il fratello al sito Ynet ha commentato le immagini diffuse dalle telecamere di sicurezza convinto che non si sia trattato di un attentato terroristico: «Per quattro giorni e per quattro notti Yusef non aveva dormito. Può darsi si sia addormentato e abbia perso il controllo dell’automobile». Il fratello di Yusef Abu Jaber anzi sostiene che si vede dalle immagini come il 45enne avesse anche tentato di evitare i passanti. Sull’uomo non risulterebbero al momento legami con la Jihad islamica, che ha rivendicato l’attacco. Aveva sei figlie ed era nonno. In passato aveva gestito un negozio di giocattoli nella città araba di Kfar Kassem (a nord-est di Tel Aviv). Due anni prima aveva lavorato con la moglie come addetto alle pulizie in un liceo vicino Tel Aviv.

(Open, 9 aprile 2023)

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L'esultanza di Hamas e Jihad e quello scivolone di Grillo "Per i palestinesi solo dolore”

di Francesco De Remigis

È un copione che si ripete. Dopo ogni attentato in Israele - col beneplacito dei due principali movimenti islamici palestinesi - c'è chi condanna e chi esulta. E chi, come l'Ue, continua a non dare un nome alle cose. Ma se i macabri festeggiamenti a Gaza sono ben noti, e si ripetono a ogni colpo inferto a Tel Aviv, la tragica sorte toccata all'avvocato romano Alessandro Parini stavolta ha messo in luce tutte le contraddizioni di chi, anche in Italia, da anni considera legittime le stragi in nome della resistenza.
  Hamas, il movimento che governa nella Striscia di Gaza, ha espresso il suo plauso per «l'operazione di Tel Aviv», che «dimostra la capacità di colpire l'occupazione». Niente rivendicazione esplicita dell'attacco, ma ideologica solidarietà verso una causa comune: cancellare Israele dalla mappa geografica, come da statuto di Hamas. Poco importa (a loro) se ad andarci di mezzo siano stati degli italiani senza alcuna connessione col governo israeliano. «Le operazioni si stanno intensificando e non si fermeranno».
  Non è da meno l'altra organizzazione, la Jihad islamica, che dopo aver rivendicato l'assalto parla di «risposta legittima ai crimini e agli attacchi dell'occupazione sionista al nostro popolo e ai nostri luoghi santi». Prevedibili, certi commenti; un po' meno, quel latente senso di accondiscendenza espresso su Twitter da Beppe Grillo, poche ore prima dell'attentato: «Per il popolo palestinese non c'è fine al dolore, all'oppressione, al sacrificio, alla negazione della libertà e dell'indipendenza, ma solo muri, divieti, repressione, segregazione che dura dal 1967».
  Con tanto di hashtag #FreePalestine, intorno alle 17 di venerdì, il fondatore del M5s ha infatti messo in vetrina i suoi sentimenti, a corredo di un articolo sul blog a firma Torquato Cardilli. Ma gli è andata male: «Sveglia, Beppe, hanno appena ammazzato un italiano», gli scrive uno dei tanti utenti infuriati; «Taci, mostro». Poi gli insulti: «Imbecille», sentenzia chi segnala che era appena morto un connazionale.
  Dai tweet inizialmente sulla stessa linea (miope) dell'ex comico, i commenti al Grillo-pensiero vengono sommersi da improperi, parodie e account creati ad hoc per immortalare la figuraccia. Ieri si è tornati alla realtà col presidente Sergio Mattarella, lesto a esprimere esecrazione per il vile atto terroristico.
  Dopo gli inviti degli utenti a Grillo, a dedicarsi solo al teatro, è toccato al ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani prendere posizione: «Attentato criminale, il terrorismo colpisce ancora Israele coinvolgendo italiani che non avevano nulla a che vedere con le vicende israelo-palestinesi - dice al Gr1 - la violenza di questi assassini non risparmia nessuno e va condannata, questa scia di terrore va fermata». Il suo collega israeliano Eli Cohen, su Twitter, chiarisce: «Il terrorismo omicida è nemico di tutti noi». Ma il fraintendimento tra resistenza, e mattanza d'innocenti ispirata dall'islam politico che a Gaza governa da anni, trova sostegno non solo in certi Stati arabi ma pure occidentali, e Bruxelles ne è impregnata: «L'Ue è preoccupata per l'escalation di violenza in Israele, nei Territori palestinesi e in Libano», sostiene l'Alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell: «Deve cessare». Non manca il colpo alla botte (palestinese): «Questa recrudescenza segue giorni di tensione nei luoghi Santi, compreso l'intervento e l'uso della forza da parte della polizia israeliana nella moschea di Al Aqsa». L'Ue condanna certo «gli attacchi indiscriminati di razzi su Israele da Gaza e dal Libano», e «senza riserve l'attacco terroristico che ha ucciso due israeliani e ne ha ferito uno gravemente». E, certo, per Borrell «Israele ha il diritto di difendersi». Ma al tempo stesso, «ogni risposta dev'essere proporzionata», dice. Meno equidistante, il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, per cui «la comunità internazionale dovrebbe cambiare il paradigma dell'approccio alla questione palestinese, perché è un errore strategico proseguire il dialogo con gruppi criminali che andrebbero spazzati via per salvare innanzitutto il popolo palestinese».

Libero, 9 aprile 2023)

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Alessandro Parini morto a Tel Aviv, il giallo della rivendicazione

Non ci sarebbero legami tra l'attentatore e la Jihad. Il killer aveva solo un precedente, prima di essere ucciso dalla polizia avrebbe gridato "Allah Akbar"

di Cristiana Mangani

Solo un piccolo precedente per rissa nel 2017, quando Yusef Abu Jaber era finito in carcere per aver fatto a pugni a Kafr Qasem. Per il resto nella sua vita di arabo israeliano, niente che lasciasse anche lontanamente presagire l'intenzione di compiere un attentato sul lungomare di Tel Aviv. Così ieri, quando la sua macchina ha travolto i pedoni che passeggiavano per strada e ha ucciso il giovane avvocato italiano, Alessandro Parini, non è stato facile associarlo alla causa nazionale palestinese.
  Padre di sei figli e già nonno, malgrado avesse solo 45 anni, era considerato nella località araba di Kfar Kassem (a nord est di Tel Aviv) una persona mite. In passato aveva gestito un negozio di giocattoli, dove arrivavano clienti ebrei provenienti anche dagli insediamenti ebraici della Cisgiordania. Negli ultimi anni lavorava con la moglie come addetto alle pulizie in un liceo alla periferia della città. Faceva il bidello, gli volevano tutti bene, tanto che sul web ci sono filmati che lo mostrano divertirsi con gli studenti.

• LE IPOTESI
  La rivendicazione è arrivata dalla Jihad islamica che, con Hamas, ha acclamato il gesto di Yusef. L'ipotesi in Israele, condivisa anche a Gaza - è che l'uomo possa essere rimasto molto turbato dalle immagini di violenze avvenute nei giorni scorsi alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme, e abbia deciso di vendicarsi. Finora lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) e la polizia israeliana - che pure si dicono certi che si tratti di un attentatore - non hanno trovato alcuna traccia di un particolare impegno politico o religioso. In uno dei filmati, pochi istanti prima di essere abbattuto da un ufficiale della polizia, l'uomo pare gridare: "Allah Akbar", Dio è grande. Ma sarebbero comunque ultime parole di fede, e non necessariamente un manifesto politico.
  Secondo il fratello maggiore Omar Abu Jaber, che non crede all'attentato, Yusef potrebbe avere avuto un colpo di sonno mentre era al volante. Al sito Ynet ha spiegato che nei quattro giorni precedenti non aveva dormito perché aveva partecipato a riti di lutto per la morte di uno stretto congiunto. Secondo Omar, il video che ha ripreso la corsa della sua automobile, dopo essere piombata ad alta velocità su una pista ciclabile, mostra «tentativi di evitare l'impatto». E, comunque, anche la polizia ha spiegato che l'attentatore non ha sparato alcun colpo di arma da fuoco. E che, anzi, non era armato. All'interno dell'auto - secondo la radio militare - è stata trovata solo un'arma giocattolo, scomposta in alcuni pezzi.
  Sempre secondo le notizie diffuse dalla radio militare, prima di archiviare il caso definitivamente come «attentato terroristico» la polizia vuole esaminare le condizioni dell'automobile e verificare se vi sia stato un guasto tecnico, qualcosa che possa giustificare quanto è accaduto. Poi restituirà il corpo alla famiglia per i funerali.
  Insomma, il giallo resta. Anche se gli investigatori non sembrano mostrare dubbi sulla dinamica e sulle ragioni di quanto è accaduto. E in risposta a chi sta avanzando dubbi, hanno dichiarato: «Sia la polizia israeliana sia lo Shin Bet stanno trattando il caso come un attacco terroristico». A sottolinearlo, il portavoce della polizia Dean Elsdunne, che ha specificato di «non poter scendere nei dettagli visto che l'indagine è ancora in corso. Il sindaco di Kfar Kassem e il leader del movimento islamico in Israele, Mansur Abbas, hanno condannato l'attentato e hanno ribadito che «la violenza non è la strada scelta dalla popolazione araba in Israele».

• IL TIMORE DI UNA BOMBA
  A colpire l'aggressore sono stati un agente di polizia e un ispettore civile. Yusef Abu Jaber era vivo dopo che l'auto si era ribaltata, ma il timore che potesse avere una bomba o che fosse armato, ha provocato la reazione immediata. Un parente dell'uomo ha detto al quotidiano Hareetz che «non possiamo credere che abbia fatto una cosa del genere, è inconcepibile. Era una persona molto tranquilla e rispettosa. Se solo avessimo sospettato qualcosa, glielo avremmo impedito. Non ha mai mostrato segni di radicalità e non ha mai avuto un background ideologico». E la polizia conferma che l'uomo non era affiliato ad alcun gruppo terroristico.  

(Il Messaggero, 9 aprile 2023)


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La strage di Tel Aviv fa scattare Erdogan: «Uniti contro Israele»

Dopo l'attentato che ha ucciso Alessandro Parini, rivendicato dalla jihad islamica, il rais detta la linea al mondo musulmano 

di Stefano Piazza 

Massima allerta in Israele dopo l'attentato terroristico di venerdì sera a Tel Aviv dove ha perso la vita l'avvocato romano Alessandro Parini. Il trentacinquenne giurista era arrivato in Israele con un gruppo di amici venerdì mattina e intorno alle 21 si trovava nel parco Charles Core che costeggia il mare, insieme a tanti turisti, famiglie, coppie che passeggiavano la sera del Venerdì Santo. 
  All'improvviso un'automobile lanciata a forte velocità ha investito la folla prima di perdere il controllo e di ribaltarsi. Alla guida c'era Yousef Abu Jaber, 44 anni, araboisraeliano di Kafr Qasem, a nord est di Tel Aviv, che, una volta uscito dall'auto, ha iniziato a sparare prima di essere ucciso dalla polizia. In passato era stato arrestato per una rissa (nel 2017) e aveva gestito un negozio di giocattoli nella città araba di Kfar Kassem (a nord-est di Tel Aviv) ma da due anni era addetto, assieme alla moglie, alle pulizie in un liceo vicino a Tel Aviv. 
  Ieri, al sito web israeliano Ynet, suo fratello Omar ha detto che «per quattro giorni e per quattro notti Yousef non aveva dormito. Può darsi che si sia addormentato e abbia perso il controllo dell'automobile». Ma la polizia israeliana sia lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, «stanno trattando il caso come un attacco terroristico». E l'attentato è stato rivendicato dalla Jihad islamica, un gruppo terroristico che opera nella Striscia di Gaza {al pari di Hamas) e nel suo comunicato di rivendicazione scrive che «l'operazione eroica è una risposta naturale e legittima ai crimini dell'occupazione contro il popolo palestinese». Dopo che si è sparsa la notizia dell'attacco, i terroristi della Jihad Islamica sono corsi in piazza a festeggiare e hanno distribuito dolciumi per le strade in segno di gioia. 
  I terroristi di Hamas, nemici/amici della Jihad islamica, hanno espresso la loro soddisfazione per «l'operazione di alto livello nel cuore dell'entità sionista a Tel Aviv che dimostra il livello raggiunto dalla resistenza dei giovani per colpire gli occupanti». Il ministro degli Esteri i tali ano, Antonio Tajani, ha precisato che Parini e i turisti italiani rimasti feriti - tra i quali Roberto Niccolai - facevano parte di due gruppi diversi. La salma di Parini «dovrebbe rientrare nei prossimi giorni in Italia. Stiamo seguendo, attraverso l'unità di crisi della Farnesina e la nostra ambasciata a Tel Aviv, tutte le procedure necessarie, in stretto collegamento con le autorità israeliane», ha affermato Tajani a SkyTg24. 
  Poi il vicepremier e ministro degli Esteri, in un'intervista a Rainews 24, ha detto che «non deve essere messa a rischio la sopravvivenza di Israele ed è inaccettabile l'obiettivo di cancellare Israele dalla carta geografica. Fino a quando Hamas continuerà a soffiare sul fuoco, c'è il rischio di un'impennata e bisogna lavorare affinché ciò non accada e fare di tutto perché la situazione sia meno tesa». La Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine per l'attentato terroristico. 
  I pm del gruppo antiterrorismo della Capitale, coordinati dall'aggiunto Michele Prestipino, hanno ricevuto una prima informativa dai Ros e dalla Digos: si procede per omicidio, attentato con finalità di terrorismo e lesioni. Giorgia Meloni esprime «profondo cordoglio per la morte di un nostro connazionale, Alessandro Parini, nell'attentato terroristico avvenuto a Tel Aviv. «Il presidente Meloni», si legge in un comunicato di Palazzo Chigi, «esprime vicinanza alla famiglia della vittima, ai feriti, e solidarietà allo Stato di Israele per il vile attentato che lo ha colpito. Meloni e il governo sono in contatto con le autorità israeliane per seguire gli aggiornamenti e l'eventuale coinvolgimento nell'attacco di altri cittadini italiani». Anche il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha emesso la sua condanna con il vice portavoce principale Vedant Patel che ha affermato che «gli Stati Uniti stanno dalla parte del governo e del popolo di Israele». 
  Dopo aver colpito a Gaza e in Libano, il richiamo dei riservisti e il rafforzamento delle truppe nei Territori, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in difficoltà su più fronti, invia un chiaro messaggio ad Hamas, Hezbollah e all'Iran, loro protettore e finanziatore. A proposito di Iran, i media turchi riferiscono che il presidente Recep Tayyip Erdogan ha detto al telefono al suo omologo iraniano Ebrahim Raisi che «il mondo islamico dovrebbe essere unito contro gli attacchi di Israele in Palestina». Mentre il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha detto al suo omologo turco Mevlut Cavusoglu che «l'esercito israeliano risponderà a qualsiasi tentativo di terrorizzare i civili». 
  Diversi politici arabi in Israele hanno condannato l'attacco: il presidente del partito Ra'am, Mansour Abbas, ha affermato che «questo non è il modo della società araba e dei cittadini arabi in Israele», aggiungendo che la leadership araba, guidata da Ra'am e dal movimento islamico «non accetterà in alcun modo l'uso della violenza contro qualsiasi cittadino senza distinzione di religione, razza o nazionalità». 
  Infine, ieri sono continuate le proteste per la riforma giudiziaria nonostante gli attacchi terroristici e la minaccia alla sicurezza nazionale, mentre tanti lumini e mazzi di fiori sono stati posti accanto alla fotografia di Alessandro Parini. Sotto l'immagine c'è una scritta in inglese e in ebraico che dice: «Il giovane popolo di Israele abbraccia il giovane popolo di Italia».

(La Verità, 9 aprile 2023)

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Occidente debole con i terroristi

L' intrigante mistero del terrorismo è lo stesso che in queste ore riempie di stupore gli alunni della scuola di Kiriat Ono dove lavorava come bidello il terrorista Yussef Abu Jaber che si è lanciato con la macchina su Alessandro Parini.

di Fiamma Nirenstein

L' intrigante mistero del terrorismo è lo stesso che in queste ore riempie di stupore gli alunni della scuola di Kiriat Ono dove lavorava come bidello il terrorista Yussef Abu Jaber che si è lanciato con la macchina su Alessandro Parini e il piccolo gruppo che camminava con lui: un giovane sorridente tranquillo, disponibile mentre qualcuno lo filma durante il suo umile lavoro. Alle prime indagini non ha profilo e storia da terrorista. La domanda sul terrorismo è quella sulla inconoscibile storia della crudeltà umana: proprio quel 45enne sorridente, ha spinto al massimo sul gas e si è lanciato per uccidere su un gruppo di esseri umani che passeggiava in vacanza davanti al mare di Tel Aviv. La stessa decisione di uccidere a caso degli innocenti, che appare folle e incomprensibile, la mattina dello stesso giorno ha portato un altro terrorista, per ora in fuga, a sparare da un'auto 22 colpi uccidendo due ragazze di 15 e di 20 anni e riducendo in fin di vita la madre che era al volante.
  L'elenco in Israele è infinito: è del Guardian la valutazione che nel 2022 gli israeliani siano stati colpiti da 5mila attacchi terroristici. Solo per rinfrescarsi la memoria: un anno fa, il 7 aprile, vicino al luogo dell'attacco, tre uccisi; sette morti e tre feriti a Gerusalemme mentre uscivano dal tempio a gennaio; due fratellini di 6 e 8 anni a febbraio; a marzo l'attacco armato a un caffè di Tel Aviv. Inutile avventurarsi, l'elenco è infinito, 18 morti in meno di tre mesi, 200 attacchi armati sventati. Ma da ovunque provenisse il terrorista, dall'Anp come dai centri arabo-israeliani, come l'ultimo, la stessa conclusione: rivendicazione dell'eroico Shahid da parte di Hamas e di altre organizzazioni; distribuzione nelle strade di Gaza di dolci e lodi dell'attacco e una pensione a vita alla famiglia per scelta di Mahmoud Abbas.
  L'Ue ha fatto un tiepido comunicato in cui in cui invita le parti, supponendo un'equivalenza fuori della realtà, alla calma e a alla «proporzionalità». Si tratta del solito errore nel considerare il difendersi dal terrorismo pari al terrorismo stesso: oggi in particolare, se si esaminano gli ultimi giorni, si nota come sia di nuovo il fuoco religioso, che sempre accende la Spianata delle Moschee a Ramadan, che ha dato il via a una pioggia di missili sia dal Libano sia da Gaza. Da là si è scatenata l'epidemia di attentati in cui vengono attratti nuovi adepti con i social che chiamano a difendere le Moschee, i contatti personali, la distribuzione di armi spesso per la prima volta nelle mani dei candidati «Shahid». Si tratta di una rete che ha poco a che fare con la disputa territoriale locale, ma che è invece alimentata e organizzata da nuove ambizioni geopolitiche molto larghe: esse cercano tramite la scusa di proteggere i palestinesi o le Moschee di Gerusalemme, l'unità islamica della guerra di religione, con al centro la distruzione dello Stato d'Israele. Gli attacchi dal Libano da parte dei palestinesi armati dagli Hezbollah a loro volta in mano all'Iran, i missili da Gaza lanciati con la sponsorizzazione degli ayatollah dalla Jihad Islamica, insieme all'ondata terroristica disegnano un attacco concentrico.
  L'editoriale di Keyhan, il giornale che esprime l'opinione del regime iraniano, dice: «L'implosione in varie parti di Israele, all'interno, invita una campagna collettiva da fuori i confini della Palestina Occupata in modo da porre fine all'esistenza dell'Entità Sionista». Erdogan ha detto a Ebraihim Raisi al telefono che «il mondo islamico deve unirsi contro gli attacchi israeliani in Palestina». L'Arabia Saudita incontra l'Iran, mentre Ismail Haniye, il capo storico di Hamas, incontra Nasrallah a Beirut.Sullo sfondo l'idea che Israele e anche gli Stati Uniti passino un momento di debolezza. E la debolezza invita la violenza. E anche le posizioni che prende l'Europa non inducono un'impressione di forza.

(il Giornale, 9 aprile 2023)


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Gli attentati non fermano le proteste

Città sotto choc ma in migliaia tornano in piazza contro Netanyahu

di Chiara Clausi

Hanno iniziato a marciare ieri sera in un silenzio surreale a Rehovot per commemorare le vittime del terrore, ma poi l'urlo della gente a Tel Aviv si è alzato altissimo contro il premier Benjamin Netanyahu e il suo tentativo di riforma della giustizia. In una Tel Aviv ancora sotto choc per l'attacco sul suo lungomare, un fiume di gente con le bandiere israeliane bianche e azzurre e con torce e razzi ha continuato a protestare. Le persone in strada hanno portato uno striscione con la scritta: «Lasciate andare avanti la mia gente». Poi hanno iniziato a radunarsi anche di fronte il palazzo presidenziale a Gerusalemme. I manifestanti dunque non hanno mostrato segni di cedimento. Neanche da quando il premier Benjamin Netanyahu ha sospeso la revisione.
  Ma c'è di più: nonostante i dimostranti abbiano condannato gli ultimi attentati terroristici e la scia di violenza mortale nel Paese, non hanno fatto un passo indietro rispetto alla loro volontà di bloccare l'iter legislativo. Gli organizzatori hanno acconsentito alla richiesta della polizia di annullare una marcia attraverso la città. Ma la manifestazione principale da Habima Square a Kaplan Road è andata avanti. E molti cittadini hanno lasciato sul luogo dell'attentato mortale a Tel Aviv in cui ha perso la vita Alessandro Parini fiori, una sua foto e una bandiera dello Stato ebraico. Centinaia di persone si sono anche radunate nel nord di Israele all'incrocio che porta alla città di Kiryat Shmona dove giovedì sono caduti i razzi sparati dal Libano. La gente cantava: «Il nord chiede protezione ora». Mentre il ministro della difesa Yoav Gallant ha ordinato di rafforzare le forze di polizia nel centro di Israele e di estendere la chiusura della Cisgiordania durante la Pasqua ebraica.
  La tensione infatti continua a salire. In serata tre razzi sono stati lanciati dalla Siria sulle alture del Golan. Uno ha attraversato il confine ed è atterrato in un'area aperta vicino alla città di Meitsar, nel nord di Israele. Ma non finisce qui la scia di violenza. Un giovane palestinese di 20 anni Azzam Salim ieri è stato ucciso vicino alla città di Azzun in Cisgiordania dalle forze israeliane. E nella notte di ieri centinaia di persone si sono barricate nella moschea Al-Aqsa: si stavano preparando per gli scontri con la polizia israeliana.
  Intanto la rabbia contro l'attuale governo non si placa. La polizia ha fatto sapere che a causa dell'attuale ondata di terrore, era essenziale mantenere sgombre le strade principali durante la manifestazione. Gli organizzatori anche ieri hanno ribadito che la protesta si sarebbe tenuta, «proprio mentre stanno andando avanti dozzine di eventi, così come il raduno al Muro Occidentale per la benedizione sacerdotale di Birkat Kohanim e le visite al Monte del Tempio per la Pasqua. Non si deve permettere al terrorismo di vincere». E gruppi di riservisti militari israeliani, inclusi piloti e ufficiali delle forze speciali hanno minacciato di rifiutarsi di presentarsi al servizio se il progetto di riforma della giustizia andrà avanti.
  Sabato scorso, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza chiedendo che la coalizione accantonasse completamente il progetto di riforma. «Continueremo ad andare in strada fino a quando non ci verrà promesso che lo Stato di Israele rimarrà una democrazia», hanno tuonato gli organizzatori. Il procuratore generale ha avvertito che l'attuale pacchetto legislativo della coalizione - che darebbe all'esecutivo il controllo quasi completo su tutte le nomine giudiziarie e limiterebbe radicalmente l'Alta Corte - conferirebbe al governo un potere praticamente illimitato. Sebbene i colloqui con l'opposizione siano in corso, pochi si aspettano che porteranno ad una intesa.

(il Giornale, 9 aprile 2023)

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In Israele la situazione si è aggravata

di Luigi Mussari

Tel Aviv, in Israele, è stata colpita da un attacco terroristico che ha lasciato almeno sei feriti, tra cui due italiani, e un turista italiano morto. L’attacco è prima che l’attentatore aprisse il fuoco. Le guardie di sicurezza hanno prontamente risposto e hanno ucciso l’attentatore, che successivamente è deceduto per le ferite riportate. L’organizzazione Jihad Islamica ha rivendicato la responsabilità dell’attacco.
  La situazione in Israele sta peggiorando a causa dell’aumento degli attacchi terroristici. Quest’ultimo episodio è solo l’ultimo di una serie di eventi violenti. Mentre i paesi occidentali, tra cui l’Italia, e quelli arabi, come gli Emirati Arabi e la Giordania, hanno espresso solidarietà nei confronti di Israele, tutte le fazioni palestinesi hanno manifestato gioia ed esultanza per le uccisioni. Questa situazione conferma l’impossibilità di un progetto di pace con questi leader, e forse anche con questo pubblico, profondamente impregnato di odio. Inoltre, la presenza di bandiere palestinesi alle manifestazioni dell’opposizione di sinistra contro il governo israeliano ha fatto scandalo, dimostrando che in certi ambienti l’odio contro Netanyahu sembra più importante della condanna del terrorismo.

• ECCO LE PROBABILI CAUSE DEGLI ATTACCHI TERRORISTICI IN ISRAELE
  

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La ragione principale dell’aumento degli attacchi è l’incentivo finanziario offerto dall’Autorità Palestinese ai terroristi e alle loro famiglie. L’Autorità Palestinese spende oltre mezzo miliardo di euro all’anno, circa il 15% del suo bilancio, per pagare stipendi ai terroristi condannati e alle famiglie dei defunti. Un condannato per omicidio riceve almeno 3.000 euro al mese di stipendio o lo lascia in eredità alla famiglia se muore durante il suo crimine. Inoltre, i nomi dei terroristi vengono celebrati, e ogni problema economico o giudiziario viene perdonato. Questo rappresenta una forte e disgustosa motivazione per l’uccisione di innocenti, ed è una responsabilità altrettanto grave dell’Autorità Palestinese.
  Un’altra causa per l’aumento degli attacchi è la competizione per la successione di Mohamed Abbas. Il “presidente” palestinese (eletto diciotto anni fa per un mandato di quattro anni, mai più confermato o esposto alle elezioni) ha 87 anni, cattiva salute e pochissima popolarità. Alla sua morte o rinuncia, il sistema dell’Autorità Palestinese rischia di esplodere. Il terrorismo, con la popolarità che ne consegue, sarà fra le ragioni determinanti della selezione del successore. Non si può essere sicuri che ciò accada, ma è evidente che i gruppi terroristici stanno cercando di ottenere maggiore attenzione e potere attraverso questi attacchi.
  Un’altra ragione per l’aumento degli attacchi potrebbe essere legata alla situazione geopolitica in Medio Oriente. Negli ultimi anni, la questione palestinese si è progressivamente marginalizzata, e il problema principale per molti stati della regione è l’imperialismo iraniano. Israele è visto come l’unico ostacolo all’egemonia degli ayatollah, e l’Autorità Palestinese e Hamas stanno cercando di riportare l’attenzione sulla loro causa attraverso il terrorismo.
  Il nuovo governo israeliano è stato criticato dalla stampa americana ed europea per la sua posizione più dura nei confronti dell’Autorità Palestinese, ma questo non sembra essere la causa dell’aumento degli attacchi. In realtà, la crescita dell’ondata terroristica è iniziata lo scorso anno, e le forze di sicurezza israeliane sono costrette a frequenti e difficili incursioni per contrastare il radicamento del terrorismo. Una maggiore decisione nella lotta al terrorismo, le sanzioni più dure nei confronti dei complici e delle famiglie degli attentatori, e il maggior sostegno delle forze dell’ordine alle comunità sotto attacco potrebbero contribuire a smorzare l’offensiva terroristica.
  In ogni caso, l’attacco di Tel Aviv è solo l’ultimo di una serie di episodi violenti che dimostrano la necessità di un impegno congiunto della comunità internazionale per contrastare il terrorismo e promuovere la pace in Medio Oriente. La situazione è estremamente complessa, ma è fondamentale che tutti i paesi lavorino insieme per prevenire futuri attacchi e trovare una soluzione duratura alla questione palestinese.

(Calabria Magnifica, 8 aprile 2023)

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Israele tenta di evitare una guerra e schiva Hezbollah

I nemici dello stato ebraico si coordinano e annusano le debolezze del governo di Netanyahu. I missili, l'attentato in Cisgiordania e il coordinamento tra i nemici sotto la regia dell'Iran. Gerusalemme cerca la risposta migliore agli attacchi e si concentra su Hamas.

di Micol Flammini

La risposta di Israele contro i missili che sono arrivati dal Libano e dalla Striscia di Gaza è stata meditata a lungo. Non poteva lasciare gli attacchi senza una risposta, ma doveva decidere contro chi concentrarla. Ha prevalso la linea del capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi e Israele ha reagito colpendo gli obiettivi di Hamas a Gaza e nel Libano, decidendo di dare credito alle affermazioni di Hezbollah, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran che durante la giornata di giovedì aveva attribuito ai palestinesi la responsabilità degli oltre trenta missili lanciati dal Libano contro  Israele.
  Gerusalemme si trovava di fronte a due opzioni. La prima era reagire contro tutti i gruppi nemici dello stato ebraico, Hezbollah incluso, e questo era lo scenario  esposto dal capo del Mossad David Barnea. Oppure tenere fuori Hezbollah, prendere per buone le sue dichiarazioni, evitando così una risposta del gruppo in grado di lanciare missili di precisione contro le città israeliane provocando  attacchi che avrebbero potuto degenerare in una guerra. Era questa l’opzione proposta da Halevi, volta a evitare uno scontro più forte nel giorno in cui i razzi hanno tenuto gli israeliani nei rifugi durante Pesach. Ieri in un attacco terroristico nella valle del Giordano sono state uccise due cittadine israeliane e una terza è stata gravemente ferita. Tutta Israele ha alzato le sue difese, gli Stati Uniti hanno detto che lo stato ebraico ha tutto il diritto di difendersi dai molteplici attacchi. Gerusalemme ha dimostrato di non essere intenzionata ad aumentare i rischi di uno scontro e il calcolo di Herzi Halevi per il momento si è dimostrato la miglior soluzione: Hezbollah durante la giornata di ieri ha minimizzato gli attacchi aerei israeliani, non ha approfittato dell’occasione per dare il sostegno ai palestinesi e un parlamentare intervenuto in radio ha commentato con un preciso “no comment”. Rispondere senza arrivare alla guerra è il punto di equilibrio che Gerusalemme deve trovare ogni volta. 
  Mentre Israele respingeva e rispondeva ai missili, una delegazione di Hamas era a Beirut  ed era guidata dal capo politico del gruppo, Ismail Haniyeh. Il portavoce di Hamas in Libano, Walid Kilani, ha detto che la visita era privata e serviva a “coordinare le posizioni e rafforzare la resistenza contro il nemico israeliano”. La decisione di Israele di rispondere soltanto contro Hamas era calibrata anche per spezzare o almeno ritardare questo sforzo di coordinamento. Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in questi mesi non ha incontrato soltanto delegazioni del gruppo della Striscia di Gaza, ma anche del Jihad islamico. Questi incontri hanno uno scopo: la creazione di una sala operativa congiunta, una war room, che tenga insieme Hezbollah, Hamas, Jihad islamico e il corpo delle Guardie della rivoluzione iraniane. Queste quattro forze si definiscono l’“asse della resistenza” e una sala operativa l’avevano già formata nel maggio del 2021 proprio in Libano. Lo rivelò il leader di Hamas Yahya Sinwar in un documentario realizzato da Al Jazeera nel 2022, in cui  aveva spiegato che in questo modo i terroristi si erano coordinati durante gli scontri tra Israele e Gaza dell’anno prima. Lo sforzo di costruzione di un asse coordinato va avanti dal 2017 e alcuni analisti suggeriscono che il suo centro potrebbe non essere più il Libano ma la Siria, seppure con una regia sempre nelle mani dell’Iran. Nel 2021, Nasrallah disse che la prossima violazione di  uno dei “luoghi sacri” avrebbe causato una risposta regionale e gli scontri di martedì sera sul Monte del Tempio potrebbero essere un pretesto, ma il gruppo sciita, che pure avrà approvato gli attacchi  di Hamas dal suo territorio, forse preferisce rimandare lo scontro. La cautela di Israele nel tenere Hezbollah fuori dalla risposta potrebbe essere motivata dalla consapevolezza che al momento Nasrallah è sotto pressione politica in Libano per la scelta della presidenza e preferisce evitare una guerra. 
  Due settimane fa in Israele il dibattito era incentrato sulla riforma della giustizia e il ministro della Difesa Yoav Gallant era stata la prima voce interna alla coalizione di governo contraria. Aveva detto che il paese stava mostrando le sue debolezze, che gli scioperi di piloti e riservisti erano un regalo ai terroristi e che la cocciutaggine sulle nuove norme giuridiche era un danno per Israele. Il premier Benjamin Netanyahu aveva reagito molto male, arrivando a cacciarlo. Gallant invece è ancora il ministro della Difesa, aveva ragione nel dire che i nemici erano pronti ad approfittare delle debolezze del paese e oggi, assieme a Herzi Halevi, guida la risposta a questi attacchi congiunti.   

Il Foglio, 8 aprile 2023)

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La preghiera sacerdotale

Dalla Sacra Scrittura

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
agosto 2017



 
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Nell'attentato a Tel Aviv è morto un cittadino italiano

Un terrorista si è lanciato in macchina e armato contro la folla che passeggiava sul lungomare della città, uccidendo un avvocato romano e ferendo altre sette persone, tutti turisti. Le reazioni della politica italiana e internazionale

di Micol Flammini

L’allerta in Israele era alta dopo gli scontri sul Monte del Tempio di martedì notte, dopo i missili arrivati sia dalla Striscia di Gaza mercoledì, sia dal sud del Libano giovedì, dopo l’attentato in Cisgiordania di ieri costato la vita a due sorelle e in cui è rimasta gravemente ferita una terza vittima: la madre delle due. A Tel Aviv c’è stato un altro attentato: un terrorista armato si è lanciato in macchina contro i civili che passeggiavano lungo l’area del lungomare uccidendo un italiano, Alessandro Parini, un avvocato romano di trentacinque anni arrivato per una vacanza venerdì mattina a Tel Aviv, e ferendo altre sette persone, tutti turisti britannici e altri italiani. Il terrorista è stato poi neutralizzato dalla polizia israeliana e un agente ha raccontato che mentre si avvicinava alla macchina, l’uomo stava prendendo tra le mani un'arma, dopo il colpo, la macchina si è capovolta. 

• Le reazioni
  Prima dell’attentato a Tel Aviv, già gli Stati Uniti avevano non soltanto espresso la loro preoccupazione per la situazione in Israele, ma avevano detto che lo stato ebraico aveva il diritto di difendersi. L’attacco contro i civili e le parole di sostegno dei gruppi terroristi hanno inevitabilmente portato il paese a una nuova mobilitazione e il premier Benjamin Netanyahu ha mobilitato quattro unità di riserva della polizia di frontiera che si uniscono alle sei già operanti a Gerusalemme. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso la sua vicinanza alla famiglia di Alessandro Parini e la sua solidarietà a Israele dopo l’attacco.
  La Farnesina ha espresso “dolore profondo e sgomento per il vile attacco” e il ministro degli Esteri Antonio Tajani parlando al Tg1 ha detto che gli altri italiani feriti sono in buone condizioni.   

• Il terrorista
  Il terrorista proveniva da Kfar Qassim, che si trova a venti chilometri da Tel Aviv, aveva quarantacinque anni e non era noto alla sicurezza. Dalla città sono arrivate parole di condanna contro l’attentato, il sindaco Adel Badir ha chiesto tolleranza: “Questa non è la via dei residenti di Kfar Qassim”. Il parlamentare arabo Mansour Abbas, capo del partito Ra'am, ha detto: “La leadership araba, guidata da Ra'am e dal movimento islamico, non accetterà in alcun modo l'uso della violenza contro qualsiasi cittadino indipendentemente dalla religione, dalla razza o dalla nazionalità”. 
  I terroristi di Hamas hanno invece lodato i due attentati in Cisgiordania e a Tel Aviv: “Testimoniano la capacità della resistenza  e di colpire Israele ovunque". Anche il Jihad islamico si è congratulato “con l’operazione di Tel Aviv e affermiamo che si tratta di una risposta legittima ai crimini e agli attacchi dell’occupazione sionista … nei nostri luoghi sacri”. 

Il Foglio, 8 aprile 2023)

 
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Missili su Pesach: così la tenaglia del terrore si stringe attorno a Israele

di Giulio Meotti

Mentre gli ebrei di tutto Israele (e nel mondo) partecipavano al Seder pasquale per celebrare la libertà, la pace e la resilienza, dal nord al sud del paese decine di migliaia di loro dovevano entrare nei rifugi antimissile. “La reazione di Israele, stasera e in futuro, esigerà un prezzo significativo dai nostri nemici”, ha detto Benjamin Netanyahu. “Oggi Israele è in conflitto su quattro arene contemporaneamente – ha detto il leader dell’opposizione Yair Lapid – Al confine settentrionale, al confine con  Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme”. Al terrorismo che ha insanguinato Israele negli ultimi due mesi nella peggior ondata jihadista dalla fine della Seconda Intifada si sono aggiunti anche i lanci di missili dai confini del paese. 
  In uno dei più grandi attacchi dalla guerra del 2006, dal Libano giovedì sono partiti trenta missili in pochi minuti, contro le comunità dell’alta Galilea, mentre il sistema missilistico Iron Dome entrava in funzione dal piccolissimo e assediatissimo kibbutz Snir, assiepato di fronte al confine libanese (i sistemi antimissili israeliani sono una tale rivoluzione militare che la Finlandia ha annunciato di aver acquistato da Gerusalemme “la fionda di Davide”). I jet israeliani hanno risposto alla periferia di un campo profughi palestinese vicino alla città di Tiro, nel sud del Libano. 
  Il governo Netanyahu aveva invano sperato in una Pasqua tranquilla. Ma l’attacco su più fronti risulta essere il risultato di una pianificazione avanzata. Dopo il Libano, infatti, una cinquantina di missili venivano subito dopo lanciati anche da Gaza. 
  La pianificazione dell’ultima campagna di terrore sembra derivare, come rivelano fonti militari e di intelligence ai giornali israeliani, dall’aeroporto siriano di al Daaba. Situato nella regione di al Qusayr governata da Hezbollah a ovest di Damasco, è lì che le Guardie rivoluzionarie iraniane e Hezbollah hanno istituito un  quartier generale per le operazioni terroristiche contro Israele. Il 13 marzo, un libanese è entrato in Israele attraverso il confine settentrionale e ha piazzato una bomba sul ciglio della strada nel trafficato incrocio di Megiddo. È esplosa contro un’auto di passaggio, ferendo l’autista. Nella settimana che ha preceduto la Pasqua ebraica, l’aviazione israeliana ha condotto quattro raid sulla Siria, uno dei quali ha preso di mira il nuovo sito iraniano di al Daaba.
  Giovedì notte, una madre di una bambina di nove mesi la cui casa è stata colpita da un razzo a Sderot durante la notte ha detto ai giornalisti che intende allontanarsi dalla città a causa dei bombardamenti dall’enclave governata da Hamas. “Per noi significa lasciare Sderot adesso, non voglio crescere mia figlia in una situazione che distrugge la sua salute mentale già a nove mesi”, ha detto Sherry Vazana al sito di notizie Ynet. 
  Ma nei giorni scorsi il gabinetto israeliano ha approvato la creazione di una nuova città vicino al confine con la Striscia di Gaza, gettando le basi per cinquecento nuove famiglie nell’area. La nuova città, chiamata “Hanun”, sorgerà a sud di Sderot. Anche questo è Israele. Intanto, al kibbutz Nir Yitzhak, a un paio di chilometri dal confine con Gaza, i tavoli nella sala da pranzo comunitaria erano stati apparecchiati per centinaia di commensali e il programma di spettacoli e canti è andato avanti mentre le sirene chiamavano ai rifugi. Oggi, due donne israeliane sono state assassinate a Hamra, una comunità ebraica nella Valle del Giordano, mentre i palestinesi si scontravano con le forze di polizia israeliane nel primo giorno di Pasqua ebraica a Gerusalemme. La tenaglia del terrore si stringe sullo stato ebraico.

(Il Foglio, 8 aprile 2023)

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No, i palestinesi non sono partigiani

di Franco Londei

Anche l’Italia viene nuovamente toccata dal terrorismo palestinese. Non dalla “resistenza” palestinese come alcuni affermano, che non esiste, ma da quel terrorismo arabo di matrice palestinese che tanti morti ha fatto ne mondo e che ogni volta inventa un nuovo modo per uccidere poi copiato dagli altri terroristi islamici.
  Ieri sera a Tel Aviv, in Israele, un terrorista palestinese si è lanciato con la macchina contro i turisti che affollavano il lungomare uccidendo un cittadino italiano, Alessandro Parini, un avvocato di Roma di 35 anni, e ferendo altre sette persone tra le quali due italiani.
  Colpire e uccidere civili inermi, siano essi israeliani o di un’altra nazionalità, non è un atto di resistenza, è un atto vigliacco di terrorismo islamico.
  Il terrorista che ha ucciso il turista italiano e che voleva fare una strage impugnando un mitra (che fortunatamente si è inceppato) era un arabo israeliano di 45 anni di Kafr Qassem. Un cittadino israeliano quindi.
  Già ieri nel pomeriggio il terrorismo arabo di matrice palestinese aveva colpito uccidendo due giovani ragazze di venti anni.

• Perché non è resistenza ma terrorismo
  Partiamo da un dato certo: i cosiddetti palestinesi non vogliono un loro Stato dove vivere pacificamente accanto agli israeliani. Non lo hanno mai voluto nonostante i tanti impegni presi. Essi vogliono la cancellazione di Israele. Sono stati creati dal nulla per questo e per niente altro.
  È questa la ragione principale per cui i cosiddetti palestinesi non hanno mai creato un loro Stato e preferiscono vivere dell’elemosina degli altri paesi arabi (ultimamente molto stanchi di pagare questa loro stessa invenzione) e di quella del mondo intero.
  Quindi non si tratta di “resistenza” ma della volontà islamica di cancellare uno Stato e il suo popolo, Israele e i suoi cittadini non musulmani.
  Quindi i veri resistenti sono gli israeliani e non i palestinesi. Non sentirete mai un israeliano dire che bisogna cancellare i cosiddetti palestinesi dalla faccia della Terra. Invece gli arabi insegnano anche ai bambini che gli ebrei sono il nemico e che per questo vanno uccisi, TUTTI.
  Non esiste la volontà di creare uno Stato Palestinese, l’obiettivo è lo sterminio degli ebrei e la distruzione di Israele. Hamas e Fatah, i due principali “partiti” arabo-palestinesi, ce lo hanno scritto nei loro statuti. Se ne infischiano della creazione di uno stato palestinese.
  Tutto questo per spiegare agli italiani che non si interessano di questioni mediorientali ma che ieri sera hanno scoperto che esistono i palestinesi, che tutto questo non c’entra niente con l’idea di resistenza. Non è un romanzo e questi non sono partigiani ma terroristi che uccidono civili alla cieca, un po’ come ha fatto in passato l’ISIS che proprio dai cosiddetti palestinesi aveva appreso la tecnica di usare auto e camion per compiere attacchi terroristici. Se sono partigiani i palestinesi allora lo sono anche quelli dell’ISIS e di Al Qaeda.

(Rights Reporter, 8 aprile 2023)

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Campagna vaccinale come «valore etico»: ricatto per ottenere il controllo sociale

Si è fatto ricorso a un falso moralismo per gestire la pandemia. Una pratica utilizzata anche nel Piano di prevenzione 2023-2025

di Martina Pastorelli

Martina Pastorelli
Della mala gestione pandemica, le cui evidenze continuano ad emergere nella generale e sospetta indifferenza del sistema politico-giuridico-mediatico, il passaggio moralmente più grave è stato quello di avere trasformato una discutibile campagna vaccinale in un fatto etico. Da questa ambigua operazione discendono infatti le decisioni di milioni di persone prese sulla pelle propria e altrui, a cominciare da quella dei bambini, vaccinati a tappeto perché - così fu detto - avrebbero protetto i nonni.
  A precedere e affiancare le costrizioni fisiche che hanno tolto a chi non era in regola con i diktat vaccinali pseudoscientifici di volta in volta stabiliti, libertà di movimento, vita sociale e financo diritto al lavoro, c'è stata infatti fin dall'inizio la forte pressione psicologica derivante dall'aver presentato la questione sotto un'aura di «bene comune», «altruismo», senso di «responsabilità» sociale. Il dovere morale della vaccinazione anti Covid è stato sottolineato in modo martellante da tutte le autorità, dalla più alta carica dello Stato in giù. Risuona ancora nelle orecchie il memento dell'allora presidente del Consiglio, Mario Draghi, che in conferenza stampa dichiarò: «se non ti vaccini ti ammali, muori e fai morire», Parole gravissime - e infondate - per le quali non si è mai udita una pubblica ammenda e mai c'è stata una richiesta di chiarimento.
  Che si sia trattato di un'operazione condotta in piena malafede, lo dimostra non solo il fatto che chi invocava la vaccinazione per proteggere il prossimo già sapeva che in realtà questi prodotti non impedivano il contagio (come si evince dai contenuti di chat e mail pubblicate in questi giorni), ma anche perché era scorretto ed ingiusto invocare le categorie morali che sono state usate e - è il caso di dirlo - abusate. Il « bene comune», ad esempio, non è uno solo, non è uguale per tutti e lo Stato non ne ha l'esclusiva. C'è invece un bene comune per ogni singolo consorzio umano, ed ogni gruppo umano è chiamato a perseguire il proprio bene comune, che è diverso l'uno dall'altro. «Discernimento» è la parola chiave, dunque, che evidentemente nella vicenda Covid è mancata a vari livelli e in più momenti.
  Come spiegano nel docufilm Covid-19, dodici mesi di pensiero critico due sacerdoti che sono tra i protagonisti della rassegna ragionata su quanto accaduto durante la pandemia, il bene comune fa la sintesi tra bene della collettività e bene della singola persona, libera di esprimersi secondo la propria coscienza; coscienza che deve sempre essere pienamente informata. Entrambe condizioni che non sono mai state presenti: sia perché non c'è mai stato equilibrio fra diritti collettivi e individuali ma costrizione frontale di questi ultimi in nome di una ragion di Stato; sia perché le coscienze non sono mai state pienamente in-formate: mancando una corretta informazione, e in presenza di una costante azione di censura di determinate notizie (in primis quelle sugli eventi avversi causati da questi specifici vaccini), le coscienze erano impossibilitate a decidere e dunque a scegliere liberamente che cosa fosse bene e cosa fosse male, per sé e per gli altri.
  D'altronde, come ci si può richiamare al bene comune quando in suo nome si fanno confliggere lavoro e salute? E come si può imporre il bene comune quando si è cancellato ogni riferimento alla legge naturale, e quindi a un bene oggettivo valido per tutti? Nella società del relativismo rampante in cui «uno vale uno» e ogni persona è legge a sé stessa, all'improvviso ci è stato chiesto di accettare come bene comune qualcosa che è stato stabilito tale da uno Stato etico a sua volta «ispirato» da una scienza dogmatica, foraggiata da interessi privati e controllata da organismi internazionali.
  Anche su questi aspetti, come su tutto il resto, sarebbe allora bastato fermarsi a riflettere: gli elementi c'erano tutti, e fin da subito, per comprendere che non è mai stata questione di bene comune e men che meno di altruismo. Ma quantomeno di controllo sociale, per ottenere il quale non si è esitato a far ricorso a un moralismo falso e aggressivo per colpevolizzare, costringere, gestire. Un'arma straordinariamente potente, che infatti si continua ad usare e a cui si fa abbondantemente ricorso nel nuovo Piano nazionale di prevenzione vaccinale 2023- 2025 trasmesso dalla presidenza del Consiglio a Regioni, Province e ministero della Salute. Il documento, che replica termini e contenuti della recente gestione pandemica e non mostra traccia di discontinuità con le male pratiche degli ultimi tre anni, fin dalle prime pagine sottolinea il «valore etico e sociale delle vaccinazioni» appoggiandosi proprio su alcuni pareri del Comitato nazionale di bioetica (che a sua volta si richiama all'Organizzazione mondiale della sanità). Citando alcuni testi del Comitato risalenti al 2015 - come se nel frattempo non si fosse verificata una pandemia che ha comportato l'uso su larga scala di una nuova generazione di farmaci - e senza operare alcun distinguo tra i vari vaccini, il Piano calca la mano sui «benefici della vaccinazione nel proteggere il singolo e la collettività», sul «valore di un'assunzione di responsabilità personale e sociale» e sulle «motivazioni di carattere solidaristico e cooperativo», per caldeggiare l'osservanza dell'obbligo alla profilassi vaccinale per operatori sanitari e personale scolastico e giustificare un monitoraggio continuo e «granulare» che contrasti l'esitazione vaccinale.
  Nonostante i danni compiuti, il ricatto morale dunque subdolamente continua. E torna alla mente la profezia di Ivan Illich, che in Nemesi medica, descriveva un mondo in cui la salute non sarebbe stata più «una proprietà naturale di cui si presume che ogni essere umano sia dotato fino a quando non si dimostra che è malato», ma una «meta permanentemente lontana cui si ha diritto di aspirare in virtù dei principi di giustizia sociale».

(La Verità, 7 aprile 2023)

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Una stella in campo

Giovanni Di Veroli, scomparso nel 2018 all'età di 86 anni; una formazione della Lazio degli Anni Cinquanta, di cui fu una colonna per sei stagioni.

Giovanni Di Veroli
L'odio antisemita sembra tornato ad affacciarsi con insistenza nelle curve degli stadi italiani. E in particolare in quella della Lazio, con vari tifosi biancocelesti distintisi più volte per cori e iniziative infami.
  Un problema irrisolto di lungo corso e non estraneo ad altri ambienti della galassia ultrà, come più volte indicato dalle istituzioni dell'ebraismo italiano nell'invitare a un azione più incisiva. "Preziosa sarebbe la disponibilità delle società calcistiche a favorire incontri e dialoghi tra gli ultras e il mondo ebraico: mi rendo conto che questo possa apparire un po' rischioso, ma la conoscenza e il dialogo sono alla base del rispetto dell'altro" la speranza espressa, in una recente intervista, dal presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma Mario Venezia. Osservazione scaturita dopo l'ultimo episodio di un'inquietante serie, nell'occasione del derby capitolino disputatosi a metà marzo, con tre ultrà neonazisti prima destinatari di un daspo comminato dalla Questura e poi banditi a vita dall'Olimpico in ossequio al codice etico varato dal club. Un libro fresco di stampa potrebbe essere d'aiuto e aprire una nuova strada nel segno della consapevolezza. Si tratta di "Una stella in campo. Giovanni Di Veroli. Dalla persecuzione razziale al calcio di serie A’. Pubblicato da Persiani Editore e scritto dal figlio Roberto e da Paolo Poponessi, sviluppa la storia di un atleta con una sua vicenda peculiare e da conoscere. Anche oltre quel rettangolo verde in cui pure, vestendo la maglia della Lazio, seppe dire il fatto suo. Sfuggito bambino alla persecuzione nazifascista, Giovanni "Ciccio" Di Veroli si era formato con l'iconica divisa della Stella Azzurra sulle spalle. Sodalizio e fucina di bel calcio in cui si espressero non pochi talenti di una Roma ebraica in ricostruzione dopo le macerie lasciate dagli anni della persecuzione e della Shoah. Tra i suoi punti di riferimento Alberto Mieli, detto Zi Pucchio, che avrebbe poi consacrato l'ultimo periodo della vita alla Testimonianza degli orrori subiti ad Auschwitz.
  "Quando la Stella Azzurra scendeva in campo, anche in trasferta, non era mai da sola. Noi giovani ebrei romani la seguivamo in massa, magari in bicicletta, o addirittura prendendo il pullman. Era l'unica squadra giovanile romana con il tifo organizzato" racconterà Cesare Di Veroli, uno dei fratelli di "Ciccio", restituendoci così l'immenso valore anche simbolico di quel collettivo. Per Giovanni, oltre a ciò, un trampolino verso scenari agonistici di primissimo livello.
  La Lazio, che lo ingaggerà su segnalazione di un talent scout colpito dalle sue qualità, lo avrà infatti in rosa per un totale di sei stagioni (1952-1958). A suggellare l'ultima annata la conquista della Coppa Italia, il primo trofeo mai vinto dal club.
  In precedenza, sempre con la Lazio, era stato tra i protagonisti di una tournée israeliana che aveva visto oltre 30mila tifosi raccogliersi sugli spalti dello stadio di Ramat Gan. Giornate speciali e indelebili nella sua esistenza, conclusasi nel 2018 all'età di 86 anni. "Non è difficile immaginare la commozione di Di Veroli nel trovarsi di fronte le maglie del Maccabi con la stella di Davide, lui che al calcio si era affacciato indossando la divisa della romana Stella Azzurra", sottolineano non a caso gli autori.
  "Una stella in campo" ce lo fa scoprire anche da altri punti di vista, allargando ad esempio lo sguardo dal calcio ad altre passioni e scelte che grande impatto ebbero nel suo orizzonte. Straordinarie ad esempio le sue foto accanto ai soldati d'Israele impegnati sulla linea del fuoco nella Guerra dei Sei Giorni che portò all'unificazione di Gerusalemme. La Nikon dell'ex calciatore, in quei giorni che fecero la Storia, non si limitò a raccontare solo quello che era avvenuto tra gli eserciti. Al centro infatti anche la "sfera più intima".
  Ecco allora, l'introduzione degli autori ad alcuni scatti inediti, "l'immagine del soldato israeliano in preghiera al Muro del Pianto, la madre con il bambino in fuga dai combattimenti, la desolazione e lo sconforto dei prigionieri egiziani”.
  L’occhio attento di "Ciccio", dai campi di calcio a quelli di guerra, aveva colto ancora nel segno.

(Pagine Ebraiche, aprile 2023)

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Attacco a Israele

Hamas lancia missili contro lo stato ebraico, che cerca le responsabilità dell’Iran

di Micol Flammini

ROMA - Dal sud del Libano più di trenta missili hanno cercato di raggiungere il territorio dello stato ebraico, costringendo gli israeliani a correre nei rifugi, mentre il sistema di protezione Iron Dome fermava decine e decine di razzi. Una minima parte ha eluso la difesa israeliana e due cittadini sono stati feriti. Erano due mesi che il premier Benjamin Netanyahu non convocava una riunione del gabinetto di sicurezza, indispensabile per decidere come reagire agli attacchi contro Israele che nei primi giorni della Pasqua ebraica sono arrivati da ogni lato. Mercoledì, e anche ieri mattina, da Gaza, dopo gli scontri nella moschea di al Aqsa. Israele ha risposto colpendo nella Striscia alcuni depositi di armi dei terroristi di Hamas. Un altro pericolo è arrivato dalla Siria, quando Gerusalemme ha visto arrivare un sospetto drone iraniano. La tensione interna delle scorse settimane, trascorse a discutere la riforma della Giustizia, si è tramutata in una tensione ai confini molto intensa e il numero di missili sparati secondo i media israeliani ricorda l’estate del 2006, quando Israele e Hezbollah combatterono una guerra in Libano che portò alla morte di 160 israeliani, la maggior parte soldati, e 1.200 libanesi, centinaia erano combattenti delle milizie sciite. Questa volta però una fonte di Hezbollah ha detto al canale al Arabiya che la responsabilità è di gruppi palestinesi in Libano. Anche l’esercito israeliano ha escluso che Hezbollah sia l’esecutore materiale dell’attacco: è stato Hamas, ma è difficile credere che il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran, non abbia dato almeno l’approvazione.
  Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, mercoledì era a Beirut e aveva poi annullato una visita prevista per il giorno successivo (ieri) nel sud del Libano e aveva in programma un incontro con il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah. Anche il Jihad islamico ha gioito per il lancio di missili, li ha definiti “un’operazione eroica” per vendicare i fatti di al Aqsa. Sul Monte del Tempio gli scontri erano iniziati martedì notte dopo che un gruppo di uomini con il volto coperto si era barricato dentro la moschea armato di pietre, mazze e fuochi d’artificio e prendendo in ostaggio i fedeli all’interno. Gli aggressori si sono rifiutati di aprire alla polizia israeliana, che è stata aggredita subito dopo l’irruzione. I gruppi terroristici attorno a Israele difficilmente si coordinano, l’attacco di uno genera solitamente una reazione a catena sui vari confini. Questa volta però è Hamas che si è mossa su tutti i lati, con il plauso degli altri. Per l’esercito israeliano adesso è importante capire il grado di coinvolgimento dell’Iran. Gli Stati Uniti hanno detto di essere preoccupati, hanno chiesto calma, di non aumentare la tensione, ma Israele deve dimostrare che l’immagine di debolezza che ha proiettato nelle ultime settimane non corrisponde alla realtà.
  Nel 2020 Benjamin Netanyahu aveva firmato gli Accordi di Abramo che aprivano alla normalizzazione nei rapporti con alcuni paesi arabi. Quella firma aveva lasciato intravedere la possibilità di altre firme, di una coalizione sempre più ampia pronta a dialogare con Gerusalemme e sempre meno interessata ai contatti con i gruppi terroristici. Erano tutti accordi in funzione anti Iran e con il tacito consenso dell’Arabia Saudita. Nel giro di poche settimane tutto è cambiato: Teheran e Riad hanno ripreso i rapporti diplomatici attraverso la mediazione cinese e il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha accettato l’invito del re saudita Salman per una visita, cosa impensabile fino a poco fa. L’Iran sta anche lavorando alla ripresa di piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti. Sabato il ministro degli Esteri siriano, Faisal Mekdad, ha visitato il Cairo, non accadeva da dieci anni e la visita ha rappresentato un importante passo di normalizzazione tra un alleato chiave saudita e un alleato chiave iraniano. Questa rete per Teheran ha una funzione anti israeliana e punta sul momento di debolezza.

Il Foglio, 7 aprile 2023)

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Gaza, ancora razzi e incursioni aeree. Due ventenni israeliane uccise in un attacco terroristico

Dopo la pioggia di razzi dal Libano - il più grande attacco dal 2006 - lo Stato ebraico ha colpito in tutto tredici obiettivi di Hamas e ha ordinato il richiamo dei riservisti delle difese aeree e dell'aviazione. Attentato nella Valle del Giordano elogiato dall'organizzazione palestinese.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Ancora ore di scontri in Israele. Nella notte decine di razzi vengono sparati da Gaza verso il territorio dello Stato ebraico, mentre l’aviazione israeliana colpisce obiettivi legati ad Hamas nella Striscia ma anche nel Sud del Libano, in risposta agli attacchi dei giorni precedenti. Nel frattempo continuano le tensioni a Gerusalemme e in varie città arabo-israeliane. In mattinata poi un attentato terroristico nella Valle del Giordano uccide due donne israeliane e ne ferisce gravemente una terza.

• Lo status quo di Al-Aqsa
  La situazione ha incominciato a infiammarsi nella notte tra martedì e mercoledì a Gerusalemme. Dopo le prime due settimane di Ramadan (il mese sacro dell’Islam) trascorse in relativa tranquillità, alcune centinaia di giovani palestinesi si sono asserragliati all’interno della Moschea di Al-Aqsa e sono stati sgombrati a forza dalla polizia israeliana, che sostiene di essere stata costretta a intervenire per ripristinare il libero accesso al santuario.
  Negli ultimi anni quella che per i musulmani è la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio e per entrambe le religioni un luogo sacro, è diventato uno dei punti più spinosi del conflitto mediorientale. Secondo quello che è noto come “lo status quo”, i non musulmani hanno la possibilità di visitare il sito, ma non di pregare o di celebrare rituali religiosi. Negli ultimi anni, un numero crescente di ebrei, in prevalenza tra i gruppi religiosi nazionalisti di estrema destra, hanno però cominciato a richiedere di cambiare lo status quo, una richiesta che non solo tra i palestinesi ma nell’intero mondo arabo è considerata una linea rossa da non superare.
  Tra coloro che premono per un cambiamento delle regole ci sono vari esponenti dell’attuale governo, nonostante il primo ministro Benjamin Netanyahu abbia più volte garantito che l’esecutivo si impegna a preservare lo status quo.

• Le violenze della polizia israeliana
  Negli ultimi anni inoltre, il numero di visitatori ebrei alla spianata si è moltiplicato, passando da poche centinaia a decine di migliaia all’anno. Visite considerate da molti musulmani come offensive e spesso descritte da leader e media arabi come attacchi ad Al-Aqsa. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, una delle ragioni che hanno spinto la polizia a intervenire mercoledì era proprio il rischio che i palestinesi nella moschea attaccassero i gruppi di visitatori ebrei in programma per quella mattina, vigilia dell’inizio della settimana di Pesach, la Pasqua ebraica, tutt’ora in corso.

• I razzi di Hamas
  Le immagini delle violenze degli agenti hanno suscitato indignazione e condanne in tutto il mondo arabo, mentre da Gaza hanno cominciato a sparare razzi contro il territorio israeliano. Ieri il conflitto si è allargato al nord, con decine di razzi e colpi di mortaio lanciati contro lo Stato ebraico dal Sud del Libano, il più grave attacco dalla guerra del 2006, anche se in questo caso, secondo gli apparati di sicurezza di Gerusalemme, a colpire non è il gruppo sciita pro-iraniano Hezbollah, che a Beirut rappresenta un vero Stato nello Stato, ma il ramo locale di Hamas.
  Il Consiglio di Sicurezza israeliano si riunisce in serata, con Netanyahu che promette che “i nemici pagheranno il prezzo di ogni aggressione”, ma ribadisce ancora una volta come non ci sia l’intenzione di cambiare lo status quo sulla Spianata.

• La risposta israeliana e i razzi da Gaza
  Nella notte, i caccia israeliani colpiscono obiettivi di Hamas nel sud del Libano e a Gaza. Secondo i media palestinesi a essere danneggiate sono anche diverse abitazioni e un ospedale pediatrico. Nel frattempo si rinnova anche il fuoco contro lo Stato ebraico dalla Striscia. Oltre 40 razzi costringono gli abitanti del sud del paese nei rifugi. Uno danneggia una casa, senza provocare feriti.
  Giovedì sera si registrano anche scontri in varie città o zone arabe in Israele, tra dimostranti e polizia. Nel maggio 2021, quando simili scontri ad Al-Aqsa rappresentarono il preludio a 11 giorni di conflitto aperto tra Israele e Hamas, si verificarono violenze tra arabi ed ebrei in molte città del Paese.
  Venerdì mattina, la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e ad Al-Aqsa rimane tesa ma relativamente tranquilla. “Durante la preghiera del mattino, migliaia di fedeli musulmani sono confluiti al Monte del Tempio”, ha dichiarato in un comunicato il capo della polizia del Distretto di Gerusalemme Doron Turgeman. “Tra loro c'era un gruppo che cantava slogan di incitamento all’odio, alcuni dei quali hanno anche lanciato sassi, ma sono stati rapidamente dispersi”. “Il nostro scopo è consentire la libertà di culto e il mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblico”, ha aggiunto.

• L’attentato nella Valle del Giordano
  In mattinata però arriva la notizia di un attentato nella Valle del Giordano, sulla strada 57, dove i soccorritori intervengono pensando di trovarsi davanti a un incidente e trovano l’auto crivellata di colpi. Secondo il sindaco dell’insediamento di Efrat in Cisgiordania Oded Reviv, le giovani donne uccise sarebbero due sorelle sui vent’anni, mentre la terza vittima in gravi condizioni sarebbe la madre.
  “Quando siamo arrivati sulla scena, abbiamo visto un veicolo israeliano con tre donne schiacciate e un veicolo palestinese”, ha spiegato Dennis Polikov, paramedico del Magen David Adom. “La donna sui 40 anni soffre di gravi lesioni multisistemiche. Stiamo lottando per salvarla”. L’attentato è stato elogiato da Hamas, che l’ha definito “una naturale risposta” ai fatti al-Aqsa.
  A partire dalla primavera 2022 una recrudescenza negli attentati terroristici palestinesi ha ucciso decine di israeliani, mentre nelle operazioni militari israeliane in Cisgiordania sono morti centinaia di palestinesi, in maggioranza miliziani ma anche tanti civili.

• La crisi politica israeliana
  Il tutto mentre Israele vive un momento di profonda crisi politica. La riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin Netanyahu, entrato in carica a fine dicembre, ha spaccato la società israeliana, con i suoi critici che hanno dato vita a un movimento di protesta senza precedenti denunciando il rischio di un colpo fatale per la democrazia. Dieci giorni fa, Netanyahu ha annunciato il licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant in seguito alle sue dichiarazioni che mettevano in guardia come la frattura politica stesse minando anche la capacità operativa dell’esercito. Licenziamento che però non è mai diventato ufficiale, con Gallant che al momento continua a gestire l’escalation in una sorta di pace fredda con Netanyahu. Secondo i comunicati ufficiali i due continuano – separatamente - a monitorare la situazione.
  Nel pomeriggio, l’annuncio che l’esercito israeliano richiama piloti, esperti di difesa aerea e operatori di droni riservisti per gestire l’escalation. Mentre il capo della polizia Kobi Shabtai chiede a tutti i cittadini israeliani che abbiano il permesso di portare un’arma di farlo.   

(la Repubblica, 7 aprile 2023)

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Israele, Pasqua di guerra pioggia di fuoco (iraniano). I razzi da Libano e Gaza

Decine di missili. Il leader di Hamas a Beirut da Nasrallah. Gli Usa: "Diritto alla difesa".

di Fiamma Nirenstein

Israele, Pasqua di guerra pioggia di fuoco (iraniano). I razzi da Libano e Gaza Giornata di sole, cedri carichi di foglie al vento nel primo giorno della Pasqua ebraica, in cui si ricorda l'uscita degli ebrei dall'Egitto, condotti da Mosè alla loro terra. Ma la loro terra brucia anche in vacanza. Ieri 34 missili (25 intercettati) sono stati sparati dal Libano, un attacco pari solo a quelli della guerra del 2006, mentre i kibbutz e i villaggi in Galilea e sul Golan, che aspettavano turisti, preparano i rifugi. Nelle ventiquattro ore fra martedì e mercoledì era toccato ai cittadini che vivono nell'area a Sud bombardata con circa 25 missili da Gaza. Un sandwich di fuoco. Israele ha risposto bombardando il Sud del Libano.
  Il sistema di difesa «scudo di acciaio» è stato messo in funzione: si alza in volo lasciando una scia bianca finché intercetta il proiettile nemico, chi è fuori dei rifugi può vedere lo scoppio. Un ferito, un appartamento a pezzi, un'auto sventrata per ora solo l'allarme è alto, ma può toccare a chiunque, la radio ripete di restare vicini ai rifugi.
  Per capire i missili da Nord e da Sud occorre prendere in considerazione gli scontri violenti alla Moschea di Al Aqsa, una copia di ogni Ramadan: un largo gruppo di giovani palestinesi ha trasformato il grande luogo di preghiera in una casamatta di fuochi, bastoni, armi varie e si è asserragliato, finché la polizia israeliana l'ha sgomberato a forza. Lo scontro violento, reso virale dai mille telefonini, ha fatto gridare a gran parte del mondo islamico, come ai tempi in cui inizia ogni guerra con Gaza, alla violenza, alla volontà di impossessarsi della moschea, e ha mobilitato Hamas e la Jihad Islamica. Adesso, si realizza l'allarme che già da tempo era stato sollevato per la sicurezza (anche dal ministro della sicurezza Gallant, tornato in questi giorni al lavoro con Netanyahu): una forza particolarmente agguerrita e organizzata sta mettendo insieme un attacco concentrico approfittando del clima violento che si crea nel Ramadan, anzi programmando una sorta di agguato. Questa forza è naturalmente l'Iran, che comanda gli Hezbollah e anche gran parte del mondo palestinese, più che altro la Jihad Islamica.
  L'alto numero fa pensare a una preparazione accurata, ma gli Hezbollah non rivendicano l'evento per ora, preoccupati dalla reazione che Israele potrebbe avere sul Libano, dove l'esercito con l'Unifil invece dicono di voler calmare le acque. Ma si sa bene che niente si muove senza che Nasrallah lo comandi. Ismail Haniyeh, il capo storico di Hamas, è da mercoledì a Beirut da Nasrallah, sotto l'ombrello iraniano. Sia Nasrallah sia l'ayatollah Khamenei hanno più volte sollevato in questo periodo il tema della debolezza di cui Israele soffre a causa dello scontro sulla riforma giudiziaria. Ambedue ripetono che Israele è destinato a disfarsi e a svanire. Un bel momento per colpire.
  Nel frattempo l'Iran è stato più volte colpito negli uomini e nelle strutture, nel corso delle reazioni israeliane alla veloce trasformazione della Siria in un retroterra iraniano antisraeliano con la presenza degli Hezbollah e il supporto russo: in tre giorni quattro attacchi contro obiettivi iraniani in Siria hanno anche portato alla morte di ufficiale importante dell'Irgc, Milad Heydari, che dirigeva il settore degli attacchi terroristi contro Israele. Il Mossad ha anche bloccato un complotto iraniano per uccidere gruppi di ebrei in Grecia. L'Iran ha promesso di vendicarsi. Adesso, mentre Netanyahu si consulta sul che fare senza che ancora arrivi una reazione, al solito al mondo intero, compresi gli Usa, sembra un fatto normale che Israele venga bombardato e la sua gente sia costretta a correre nei rifugi di notte. In serata è arrivato l'ok di Washington al «diritto di difendersi». Siamo di fronte a un conflitto serio.

(il Giornale, 7 aprile 2023)

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Alta tensione in Medio Oriente. Israele lancia 44 razzi contro Gaza e dieci siti ad Hamas

Il ministro degli Esteri Cohen: «Prenderemo tutte le misure necessarie per difendere il nostro Paese e il nostro popolo.

L'esercito israeliano ha attaccato obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un attacco contro il proprio territorio, al termine di una giornata di tensione in cui dal Libano sono partiti 36 razzi verso Israele. Un portavoce militare israeliano ha confermato che le truppe hanno attaccato obiettivi a Gaza. Per il momento non sono annunciate rappresaglie in territorio libanese. «Le forze della difesa di Israele (Fdi) hanno attaccato due tunnel terroristi e due siti di fabbricazione di armi dell'organizzazione terrorista Hamas», ha riferito l'Esercito in un comunicato. «L'attacco è stato lanciato in risposta alle violazioni della sicurezza da parte di Hamas negli ultimi giorni».
  Sono stati più di 10 i siti di Hamas colpiti dall’aviazione israeliana nel sud del Libano, mentre a Gaza sono stati centrati 2 tunnel e varie postazioni. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui Hamas ha lanciato da Gaza contro Israele 44 razzi. Uno, ha aggiunto, ha colpito una casa a Sderot ma senza vittime: 14 sono caduti in area aperta, 8 sono stati intercettati, 12 sono caduti in mare e 9 dentro la Striscia. L'esercito ha istruito i residenti attorno la Striscia di restare nei rifugi fino a nuovo ordine.

• Missili dal Libano, Israele risponde con l'artiglieria: cos'è successo
  Dei 36 ordigni lanciati dal territorio libanese, 25 sono stati intercettati dalla difesa israeliana e cinque sono caduti. Secondo i primi rilievi, due persone sono rimaste lievemente ferite dalle schegge: un uomo di 26 anni colpito vicino a Shlomi (una città nel distretto settentrionale di Israele) e un ragazzo di 19 che era in auto. Una terza persona è caduta correndo verso un rifugio e una quarta ha avuto un attacco di panico.
  Il premier israeliano Benjamin Netanyahu già ieri aveva promesso di «colpire i nemici» che – aveva aggiunto - «pagheranno un prezzo per ogni atto di aggressione». Lo ha detto rivolgendosi alla nazione in una riunione del gabinetto di sicurezza.
  Il Libano «rifiuta qualsiasi escalation dal suo territorio» ha dichiarato il primo ministro Najib Mikati, condannando la raffica di razzi lanciati contro Israele dal paese. Il Libano, recita una dichiarazione, «rifiuta l'uso del suo territorio per effettuare operazioni che destabilizzino la situazione».
  «Nessuno ci dovrebbe mettere alla prova. Prenderemo tutte le misure necessarie per difendere il nostro Paese e il nostro popolo - ha detto il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen - Chiedo alla comunità internazionale di rilasciare una dichiarazione chiara contro i responsabili degli attacchi contro Israele».
  Alcuni funzionari della sicurezza libanese, che chiedono di restare anonimi, hanno detto che i razzi lanciati dal Libano verso Israele sono partiti dall'area di un campo profughi palestinese. Ciò suggerirebbe che i razzi siano stati lanciati da militanti palestinesi con base in Libano. Il gruppo militante palestinese Jihad islamica ha salutato i razzi come «un'operazione eroica contro i crimini israeliani nella Moschea di Al-Aqsa» (il riferimento è ai disordini di un giorno fa, quando alcuni ebrei sono entrati nella moschea).
  Nella serata di mercoledì si erano registrati scontri al confine con Gaza, dove sono stati incendiati copertoni e innalzate barricate e lanciati ordigni improvvisati. Due, inoltre, i lanci di razzi da Gaza verso Israele, secondo quanto aveva fatto sapere l'esercito israeliano: uno è caduto nella Striscia, l'altro in un'area aperta vicino al confine.
  La missione dei caschi blu dell'Onu nel Sud del Libano (Unifil) ha definito «estremamente grave» la situazione dopo il lancio dei razzi e ha esortato a «Evitare ulteriori escalation». «Il capo missione e comandante della forza, il maggiore generale Aroldo Lazaro, è in contatto con le autorità su entrambi i lati della Linea Blu - in sostanza il confine tra i due Stati, ndr - La situazione attuale è estremamente grave. Unifil esorta alla moderazione e ad evitare ulteriori escalation».
  L'attacco è il più grave dal 2006, quando c'era la seconda guerra del Libano. Il conflitto allora durò poco più di un mese e venne innescato dal lancio di missili e dal rapimento di due soldati israeliani, Ehud Goldwasser e Eldad Regev, per mano di Hezbollah. I morti furono circa 150 tra gli israeliani e oltre un migliaio tra i libanesi. I corpi di Goldwasser e Regev vennero restituiti due anni dopo nell'ambito di uno scambio di prigionieri.Israele ha detto subito di essere pronto a reagire. «Primo giorno della Pasqua ebraica. Mentre sediamo al tavolo delle feste, con famiglia e amici, Israele affronta razzi da Sud e da Nord. Non si tratta di una coincidenza. Nessuno dovrebbe metterci alla prova, prenderemo tutte le misure necessarie per difendere il nostro Paese e il nostro popolo». Così su Twitter il ministro Cohen ha commentato gli attacchi mossi dalla Striscia di Gaza e dal sud del Libano contro lo Stato ebraico.

(La Stampa, 7 aprile 2023)

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Raid alla Spianata di Al Aqsa. 34 razzi libanesi su Israele, guerra vicina

In risposta alla violenza della polizia israeliana a Gerusalemme ieri sono stati lanciati 34 razzi dal Libano meridionale, quasi tutti intercettati. Netanyahu ieri sera preparava una dura risposta militare, anche contro Gaza.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Mentre si cerca di saperne di più degli ordini ricevuti dalla polizia israeliana volti ad impedire, con blitz violenti e pestaggi, ai musulmani di trascorrere le notti del Ramadan nelle moschee della Spianata di Al Aqsa – lo scopo è garantire lo svolgimento delle «passeggiate» sul sito dei nazionalisti ebrei, denunciano i palestinesi – la tensione generata da questa mossa ora coinvolge il resto della regione. Già mercoledì erano giunte notizie di raduni di protesta contro la polizia israeliana in Giordania, Turchia, Siria, Libano e altri paesi. Poi ieri, nel primo pomeriggio, dal Libano meridionale sono partiti nel giro di pochi minuti 34 razzi katiusha. Venticinque sono stati intercettati dal sistema di difesa Iron Dome, hanno comunicato fonti militari israeliane, cinque invece sono caduti su Shlomi e altre aree nel nord di Israele. Le immagini mandate in onda dalle tv locali ieri sera mostravano le scie bianche dei razzi nel cielo, un’alta e densa colonna di fumo nero che si sollevava da Shlomi, dove sarebbe stata colpita una stazione di rifornimento, edifici con i vetri delle finestre in frantumi, danni nei pressi di un parco giochi e un cratere con i resti di un katiusha conficcato nell’asfalto. Due invece i feriti, pare leggeri. In serata è scattato l’allarme a Metulla per il lancio di altri tre razzi o colpi di mortaio. Alla popolazione locale è stato ordinato di entrare nei rifugi che nel pomeriggio erano stati aperti lungo tutta la fascia di territorio sul confine con il Libano. Lo spazio aereo settentrionale di Israele è stato chiuso.
  Sono state avanzate diverse ipotesi sui responsabili del lancio dei 34 razzi. Il primo indiziato è stato Hezbollah, alleato dell’Iran e storico avversario di Israele contro il quale ha combattuto una guerra nel 2006 nel Libano del sud. Il movimento sciita libanese appena qualche ora prima dell’attacco aveva espresso pieno sostegno ai palestinesi e una condanna ferma delle incursioni della polizia israeliana sulla Spianata di Gerusalemme, avvertendo che queste azioni avrebbero senza alcun dubbio avuto una risposta. Sono stati proprio i comandi militari e di intelligence ad escludere un coinvolgimento diretto di Hezbollah, non interessato, secondo la loro valutazione, a un nuovo ampio conflitto con Israele. Allo stesso tempo in Libano del sud non si muove una foglia senza il consenso del movimento sciita di resistenza. Secondo Israele, ma lo pensano anche gli analisti arabi e palestinesi, a sparare i katiusha potrebbe essere stata una cellula del movimento islamico Hamas, con il via libera di Hezbollah. Da due anni, dalle tensioni di Sheikh Jarrah, Hamas ripete che reagirà a qualsiasi attacco contro Al Aqsa e nel maggio del 2021 si è scontrato di nuovo con Israele. Tuttavia, un portavoce in Libano del movimento islamico – che nei giorni scorsi ha dato luce verde al lancio di 27 razzi da Gaza verso il sud di Israele – ha negato ogni coinvolgimento. È il gioco delle parti, in cui tutti negano per evitare una guerra vera? Forse, ma non è da escludere che ad agire siano stati gruppi agli ordini diretti di Teheran. Da alcuni giorni Israele ha intensificato i raid aerei e missilistici contro presunte basi dell’Iran in Siria uccidendo anche due ufficiali dei Pasdaran. Morti alle quali l’Iran ha replicato qualche giorno fa lanciando dalla Siria un drone nello spazio aereo israeliano.
  Usa e Francia hanno condannato l’attacco subito da Israele. Washington ha sottolineato il «diritto alla autodifesa» dello Stato ebraico. Altre parti invece hanno invitato alla calma, a non cercare l’escalation. In particolare, l’Unifil, il contingente di interposizione tra Israele e Libano, e il segretario generale dell’Onu Guterres. I comandi militari israeliani ieri sera smentivano di aver reagito con un raid aereo all’attacco giunto dal Libano. Però è probabile che lo facciano presto. In anticipo sulla riunione del gabinetto di sicurezza convocato in serata dal premier Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant ha chiesto ai vertici di Esercito, Aviazione e Marina di preparare i piani per la risposta da dare al Libano. Da parte sua Beirut, dopo una riunione tra il premier Mikati e il ministro degli esteri Abdallah Bou Habib, ha chiesto alla comunità internazionale di impedire la rappresaglia israeliana. Ma è difficile che dal gabinetto di sicurezza israeliana non esca una reazione forte, considerando anche i leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz hanno dato pieno sostegno all’azione di sicurezza del governo che contestavano fino a qualche giorno fa sulla riforma giudiziaria. Il ministero degli esteri ha inviato una direttiva agli ambasciatori israeliani per invitarli a spiegare nel mondo che Israele risponderà.
  A Gerusalemme, nel frattempo, la tensione è sempre alta dopo i pestaggi di fedeli palestinesi e le centinaia di arresti. Ieri sera si temevano nuovi raid della polizia sulla Spianata. La leader del partito Meretz (sinistra) Zahava Galon ha accusato il ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir di essere la causa dei lanci di razzi contro Israele per le politiche provocatorie che ha svolto sulla Spianata delle moschee.

(il manifesto, 7 aprile 2023)

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Cosa cerca Erdogan nel caos israelo-palestinese

Sulla denuncia di Erdogan alle attività israeliane contro i palestinesi si intravedono i nuovi equilibri tattici del Medio Oriente. Interessi incrociati tra Ankara, Gerusalemme, Abu Dhabi e Riad.

di Emanuele Rossi

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha rapidamente condannato l’irruzione della polizia israeliana nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, che ha portato a scontri con i fedeli, definendo gli atti di mercoledì una “linea rossa” per la Turchia. È una sottolineatura di valore strategico, perché serve a dare un ruolo a Erdogan — e di riflesso ad Ankara — nel mondo musulmano, e dunque può anche essere utile in questa fase in cui il presidente turco cerca di stabilizzare ciò che rimane del suo consenso interno in vista delle prossime elezioni. Ma interessa anche vari altri attori geopolitici regionali.

• Narrazioni e interessi
  “Condanno gli atti vili contro la prima qiblah dei musulmani in nome del mio Paese e del mio popolo e chiedo che gli attacchi cessino al più presto”, ha dichiarato Erdogan in un discorso tenuto in occasione della cena per la rottura del digiuno. Già, perché il raid della polizia israeliana nella moschea è avvenuto durante il mese sacro musulmano del Ramadan e alla vigilia della Pasqua ebraica, alimentando i timori di ulteriori violenze nel complesso della moschea — un punto altamente sensibile del conflitto israelo-palestinese.
  “Il nome di tutto questo è politica della repressione, politica del sangue, politica della provocazione. La Turchia non potrà mai rimanere in silenzio e indifferente di fronte a questi attacchi”, ha dichiarato Erdogan. “Mettere una mano sulla moschea di Al Aqsa e calpestare la santità dell’Haram al Sharif è una linea rossa per noi”.

• Punti di riferimento
  Il governo di destra israeliano guidato da Benajamin Netanyahu è completamente cosciente che il valore delle proprie azioni possa portarsi dietro reazioni del genere. Ma innanzitutto deve difendere la propria linea iper-securitaria, e poi sa altrettanto perfettamente che esse non modificheranno nel profondo il processo di riavvicinamento con Ankara. Anche perché quella è una dinamica di valore strategico per Israele, ma soprattutto per la Turchia — che in difficoltà economica maggiorata dal devastante terremoto di febbraio, ha molto più bisogno di partner che di rivali.
  E allora, cosa muove Erdogan a usare certe parole? Il presidente turco da sempre cerca di aumentare il peso specifico del suo Paese all’interno del mondo musulmano — è questa la dinamica alla base dei vecchi dissidi con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, lungo la faglia tra le visioni islamiche sunnite. Erdogan vorrebbe che il suo islamismo e il suo Paese fossero il punto di riferimento dei fedeli musulmani nel mondo, ma i luoghi sacri sono sul territorio saudita. E allora sfrutta certe occasioni. E la questione palestinese ne offre: infiammata dal nuovo corso del potere esecutivo israeliano, marginalizzata negli interessi dei grandi Paesi arabi per via di un nuovo rapporto con Israele.

• Opportunità, coincidenze, semantica
  Il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Zayed, nello stesso giorno in cui Erdogan tuonava la sua posizione (narrazione meglio dire), ha confermato l’impegno dello Stato del Golfo nei confronti delle relazioni con Israele in una telefonata con il primo ministro Netanyahu. I due hanno discusso del rafforzamento dei legami e concordato di “continuare il dialogo tra loro in un incontro personale nel prossimo futuro” — questo però lo hanno detto gli israeliani, mentre gli emiratini non hanno fatto cenno a incontri in futuro.
  La telefonata segue una serie di mosse e commenti della coalizione di governo di destra di Netanyahu che hanno sollevato l’ira degli arabi e attirato la condanna degli Emirati, soprattutto per quanto riguarda la politica degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata — con gli ultimi mesi in cui si è registrata un’impennata di violenza israelo-palestinese. Ossia, il contatto tra leader serve a tenere vivo lo spirito degli Accordi di Abramo. Contatto necessario perché a Gerusalemme c’è già chi si chiede che Netanyahu stia “facendo un pasticcio” con gli accordi, come scrive il Times of Israel.
  Ed è proprio lì che Erdogan cerca spazio. Le dichiarazioni a favore dei palestinesi sono un terreno neutrale e accettabile per gli equilibri in corso (come lo furono ai tempi dei Mondiali in Qatar).
  Il presidente turco ha disteso il rapporto tattico con Emirati e Arabia Saudita, ma non perde interesse nel rivendicare il suo ruolo a più lungo termine — pur cosciente dei limiti. Allo stesso tempo, Abu Dhabi e Riad — coinvolte in processi di contatto più delicati nei confronti di Gerusalemme — potrebbero non disdegnare le uscite turche, consapevoli delle leve che possono comunque muovere su Ankara, ma anche che essa a mani più libere nel criticare Israele. Infine Netanyahu: il primo ministro è consapevole che il suo governo ha visioni troppo spinte sulla questione palestinese — gli è stato fatto notare anche da Washington — e per questo assorbe critiche strumentali, anche perché ne comprende le dinamiche e sa che a Erdogan serve prendere quelle posizioni, ma anche (o forse di più) il sostengo israeliano.

(Formiche.net, 6 aprile 2023)

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L’epidemia delle morti improvvise negli anni 2021 e 2022

Ed Dowd, autore del libro "Cause Unknown: The Epidemic of Sudden Deaths in 2021 & 2022", in questa lunga intervista con Tucker Carlson espone quella che lui definisce "la più grande scena del crimine" mai vista, con banche centrali, aziende tecnologiche, governi, big pharma... tutti coinvolti nel tenerla nascosta.

(Fonte: Rossella Fidanza)

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Dachau, il lager compie 90 anni

La spesa prevista per il restauro è di 492 milioni di euro

di Roberto Giardina

Dachau
Il lager di Dachau fu aperto 90 anni fa, e in Germania si esita a spendere milioni di euro per salvare quel che resta del campo alla periferia di Monaco. Eppure ogni anno giungono migliaia di visitatori, come a Auschwitz, per vedere, capire, ricordare. Hitler era stato nominato cancelliere il 30 gennaio, e il primo lager venne inaugurato a Dachau il 22 marzo del 1933. Non era un campo di sterminio, la notizia non ebbe molto risalto in Germania e all'estero. Era destinato a custodire gli oppositori del regime, e quanti erano considerati asociali, comunisti, omosessuali. In Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, si era perfino d'accordo con Berlino: i comunisti erano una minaccia. Molti dei detenuti erano ebrei, ma ufficialmente all'inizio non perseguiti in quanto tali.
  In marzo a Dachau furono deportati 170 nemici del Reich, il mese dopo erano duemila. In totale, fino al 28 aprile del 1945, quando fu liberato dagli americani, nel lager furono rinchiusi in 200mila, di 40 nazioni, e 41.500 vi morirono, per le privazioni, i maltrattamenti, come cavie per esperimenti medici, le torture, molti furono giustiziati per colpe anche lievi, o condannati a morte dopo aver tentato la fuga.
  La Süddeutsche Zeitung, in occasione dell'anniversario, ha raccontato la fine delle prime vittime, ed erano quattro ebrei. Un fatto dimenticato, anche se dimostra che era possibile all'inizio opporsi al regime, come tentarono un magistrato e un medico legale. Forse per questo. Il 12 aprile, un detenuto di Dachau, Erwin Kahn, 32 anni, fu ricoverato in un ospedale di Monaco, in fin di vita per due colpi di pistola. Le pallottole gli avevano perforato la guancia destra. Lo stesso giorno, Heinrich Himmler diffuse un comunicato per annunciare che tre prigionieri a Dachau avevano tentato la fuga, tre erano morti, e uno era gravemente ferito. Ma Himmler non aveva previsto che Kahn potesse sopravvivere. Erwin, nonostante le gravi ferite, riuscì a raccontare alla moglie Eva quanto era realmente accaduto, e lei lo riferì tre giorni dopo al procuratore Josef Hartinger, 39 anni.
  Kahn raccontò che una SS, Hans Steinbrenner, aveva scelto lui, suo fratello Arthur e altri due compagni, Rudolf Benario e Ernst Goldmann, li aveva condotti in un boschetto lontano dalla vista degli altri deportati. Infine Steinbrenner e altre SS avevano aperto il fuoco, un'esecuzione senza alcun motivo, erano stati scelti solo perché ebrei. La SS Robert Erspenmüller voleva dare il colpo di grazia a Erwin ma un poliziotto, Emil Schuler, lo aveva bloccato, e si era adoperato affinché il ferito fosse trasportato in ospedale.
  Il magistrato vuole interrogare Erwin, ma giunge troppo tardi: il ferito è appena deceduto. Hartinger ordina l'autopsia, eseguita dal dottor Moritz Flamm, che non cede alle pressioni dei nazisti: Erwin, scrive nel referto, è stato strangolato, probabilmente dalle due SS che sorvegliavano la sua camera. La vedova presenta una denuncia, anche se corre il rischio di finire in galera. E Hartinger l'appoggia. Eva racconterà dopo la guerra che Hartinger «era una persona gentile e corretta, non era un nazista, e voleva perseguire i colpevoli». Il magistrato sarà tuttavia costretto a chiudere l'istruttoria per ordine di Himmler, viene sospeso, e trasferito in provincia ma non si arrende, e conserverà tutti i documenti che incriminano le SS. Il dottor Flamm, che eseguì l'autopsia, viene internato in manicomio, dove si toglierà la vita, o forse viene eliminato.
  Andai a Dachau nel 1969, e fui sorpreso dal cartello all'ingresso della cittadina: Wilkommen in Dachau, benvenuti. Non si rendevano conto dell'effetto sui visitatori? Oggi la sensibilità è diversa, o dovrebbe. Nel rapporto del ministro della cultura, la verde Claudia Roth, si stima che restaurare e salvare i lager, non solo Dachau e Flossenburg, sempre in Baviera, dove morì il fratello di Pertini, Eugenio, costerebbe almeno 492 milioni di euro. La prova che si è trascurato per anni di compiere lavori necessari. Troppi mentre si cerca di limitare le spese nel bilancio federale? Il bilancio del ministero di Frau Roth arriva a 2,39 miliardi di euro, per quel che resta dei lager si potrà spendere al massimo cinque milioni. Ma le testimonianze dell'orrore rischiano di svanire.

(ItaliaOggi, 6 aprile 2023)

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Israele, nuovi scontri nella moschea di Al-Aqsa nel giorno della Pasqua ebraica

La polizia israeliana ha dichiarato di essere entrata per cacciare alcuni "istigatori" di violenze e ha usato granate assordanti. E' sempre più forte la tensione sull'accesso degli ebrei al luogo santo dove secondo lo status quo i non musulmani non possono celebrare riti.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Ore di tensione in Medio Oriente, dove nel bel mezzo del Ramadan, il mese sacro dell’Islam, e a poche ore dall’inizio di Pesach, la Pasqua ebraica, si registrano scontri sulla Spianata delle Moschee, razzi sparati da Gaza verso il territorio israeliano e raid aerei contro obiettivi di Hamas.
  Tutto comincia nella notte tra martedì e mercoledì, quando alcune centinaia di fedeli musulmani si asserragliano nella moschea di Al-Aqsa al termine delle preghiere. Nelle ore precedenti, Hamas che controlla Gaza aveva lanciato un appello all’azione paventando il rischio che fedeli ebrei accedessero all’area per realizzare il sacrificio pasquale per celebrare Pesach.
  In tarda serata di mercoledì, nuovi scontri all'interno della moschea tra la polizia israeliana e i palestinesi. Gli agenti sono entrati nella moschea e hanno cercato di far uscire i fedeli, usando granate stordenti e sparando proiettili di gomma. Secondo testimoni, i fedeli hanno lanciato oggetti contro la polizia. Sei persone sarebbero ferite.
  La Spianata delle Moschee sorge sul luogo in cui si trovava il Tempio sacro di Gerusalemme ed è un luogo santo per entrambe le religioni. Secondo quello che è noto come “lo status quo,” i non musulmani hanno la possibilità di visitare il sito, ma non di pregare o di celebrare rituali religiosi. Negli ultimi anni, un numero crescente di ebrei, in prevalenza tra i gruppi religiosi nazionalisti di ultra-destra, hanno cominciato a richiedere di cambiare lo status quo, una richiesta che non solo tra i palestinesi ma nell’intero mondo arabo è considerata una linea rossa da non superare.
  Tra coloro che premono per un cambiamento delle regole ci sono vari esponenti dell’attuale governo, incluso il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, la cui visita al sito in gennaio ha suscitato condanne da tutto il mondo, nonostante il primo Ministro Benjamin Netanyahu abbia più volte garantito che l’esecutivo si impegna a preservare lo status quo.
  Nei giorni scorsi alcuni rabbini hanno inviato una lettera aperta al governo per chiedere il permesso di celebrare il sacrificio, e una rappresentazione del rituale è stata realizzata da un gruppo di attivisti vicino alla Porta dell’Immondizia in Città Vecchia, a poche centinaia di metri dal Monte del Tempio.
  Negli ultimi anni inoltre, il numero di visitatori ebrei alla Spianata si è moltiplicato, passando da poche centinaia a decine di migliaia all’anno. Visite considerate da molti musulmani come offensive e spesso descritte da leader e media arabi come attacchi ad Al Aqsa.
  Secondo quanto dichiarato dalla polizia israeliana, gli agenti sono stati costretti a intervenire per sgombrare il gruppo asserragliato nella moschea.
  "Questi istigatori hanno barricato la moschea ore dopo la preghiera serale causando problemi di ordine pubblico," ha affermato la polizia in un comunicato. “Dopo molti e prolungati tentativi di dialogo per convincerli a uscire, gli agenti sono stati costretti a entrare nel complesso per consentire la preghiera dell’alba”.
  Nell’azione si sono sviluppati scontri violenti, con la polizia che ha usato granate stordenti e gli agenti che sono stati colpiti da pietre e altri oggetti. Alla fine i palestinesi arrestati sono 350, con una decina di feriti.
  L’azione delle forze dell’ordine israeliane è stata condannata dall’Autorità palestinese e da altri leader nel mondo arabo, compresi Egitto, Turchia e Arabia Saudita e Giordania che ha chiesto una riunione urgente della Lega Araba.
  “Mettiamo in guardia l'occupazione dal calpestare le linee rosse nei luoghi sacri, che potrebbero portare a una grave esplosione della situazione”, ha detto Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas.
  La Lega araba ha affermato invece che "l’approccio estremista che controlla la politica del governo israeliano rischia di portare a scontri con i palestinesi”.
  Nella notte intanto, 16 razzi sono stati sparati da Gaza verso il sud di Israele, con l’aviazione israeliana che in risposta ha colpito una fabbrica di armi e altri obiettivi legati ad Hamas.
  Nel maggio 2021, proprio gli scontri intorno ad Al Aqsa durante il Ramadan rappresentarono il preludio a undici giorni di conflitto fra Israele e Hamas. Se finora la festività musulmana è trascorsa in modo relativamente tranquillo, l’allerta per una possibile escalation rimane alta.

(la Repubblica, 6 aprile 2023)

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I diari del Ghetto di Varsavia

di Elisabetta Fiorito d Michelle Zarfati

Cosa successe dall’invasione della Polonia nel 1939 alla rivolta del Ghetto di Varsavia terminata il 9 maggio del 1943 è scritto in alcuni diari che testimoniano come i nazisti, tra false promesse e violenze quotidiane, abbiano potuto piegare e deportare a Treblinka 300mila ebrei polacchi.

• Emanuel Ringelblum
  Le testimonianze di Emanuel Ringelblum non hanno l’enfasi emotiva di un diario, ma sono tutte le notizie che un archivista eccellente riesce a raccogliere per lasciarle ai posteri. “Le donne vengono costrette a lavare i marciapiedi con le mutandine e poi rinfilarsele bagnate, ad un rabbino viene ordinato di defecare nei suoi pantaloni. Uccisi contrabbandieri da un poliziotto denominato Frankestein. Hanno scaraventato un certo Wilner malato accasciato sulla sedia dalla finestra del secondo piano sparandogli mentre precipitava. Elementi improduttivi, bambini fino a 10 anni e vecchi dai sessant’anni in su, vengono chiusi in vagoni sigillati, sorvegliati da guardie tedesche e partono verso destinazione ignota”. Ringelblum non vedrà la rivolta del ghetto di Varsavia perché verrà fatto scappare prima dell’aprile 1943. I suoi diari saranno messi in contenitori del latte, sepolti dalle macerie, e diventeranno capsule del tempo che verranno ritrovate e analizzate fino ai giorni nostri. Morirà nel ’44 quando la Gestapo scoverà il suo nascondiglio e lo ucciderà insieme a moglie e figli.

• Janusz Korczak
  Scritti allo stremo delle forze, con sincerità disarmante a matita, le riflessioni di Janus Korczak non sono un inno alla morte, anzi tutto il contrario. Sono considerazioni personali, quasi intime, sul senso della vita, della morte e su tutte le sensazioni provate in quelle terribili circostanze. Sono parole che fanno male, ma che consentono al lettore di rivivere, attraverso la lente del famoso pedagogista, la tragedia della Shoah specialmente dal punto di vista dei bambini. Una scrittura in prima persona che colpisce, è con il favore delle tenebre che Korczak ci porta dentro la storia, quella dell’orfanotrofio di Varsavia. Accompagna il lettore nelle vicende, con un presentimento costante di una morte vicina, imminente. La stessa educazione alla morte diventerà un importante parte della sua pedagogia, l’accettazione necessaria di una parte della vita. Il Diario del Ghetto fonde storie, riflessioni, annotazioni che toccano il profondo dell’anima ricostruendo, al contempo, una grande pagina della storia del Novecento. Decide di seguire i bambini nel campo di sterminio di Treblinka malgrado i tedeschi avrebbero voluto salvarlo.

• Merek Edelman
  Marek Edelman, noto bundista, ai vertici dell’organizzazione di combattimento (Zob) descrive l’istituzione della polizia ebraica, odiata dai bundisti, lo Judenrat, la costruzione del muro e il contrabbando tra la parte ebraica e quella ariana. “La gente muore di fame in mezzo alla strada, ogni giorno le pompe funebri raccolgono una dozzina di cadaveri”. Arrivano lettere che descrivono l’annientamento della popolazione ebraica, ma “il ghetto non crede” anche quando un attivista riesce ad andare nella parte ariana ed arrivare fino a Sokolow uno snodo ferroviario verso Treblinka. A mano a mano, i tedeschi si inventano mosse propagandistiche, “chi si presenta volontario per la deportazione avrà tre chili di pane e un chilo di marmellata”. Le persone si consegnano volontarie all’Umschlagplatz da dove partono i convogli. Quando il 19 aprile i tedeschi decidono di liquidare il ghetto, la maggior parte degli ebrei è già stata deportata. Con la vittoria nazista l’8 maggio, lo Zob decide il suicidio collettivo, muore il comandante, Mordechaj Anielewicz, mentre Edelman riesce a fuggire dalle fogne.

• Nöemi Szac-Wajnkranc e Leon Weliczker
  Questi diari rappresentano delle testimonianze uniche e preziose. Un racconto vivido di quegli anni dolorosi: dalla vita nel ghetto alla resistenza. Sono descrizioni minuziose dell’incertezza e della paura che animavano quei giorni. La fame, la violenza e il dolore che si fondono pagina dopo pagina creano la cronaca di un’eredità intellettuale dal valore unico. È grazie a un gruppo di intellettuali ebrei che le pagine di questo diario vengono riempite, nonostante la stanchezza e la rabbia. Nöemi Szac-Wajnkranc, ragazza polacca che troverà la morte in seguito alla deportazione nel 1945, è autrice di uno dei diari, colei che dà voce a quel dolore costruendo una testimonianza, giunta a noi dopo la guerra. L’altro autore è invece dell’altro diario è Leon Weliczker il cui epilogo è diverso da Noemi, in quanto riesce a sopravvivere alla guerra. Una lettura impegnativa ma dall’immenso valore storico e culturale.

(Shalom, 5 aprile 2023)

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Carne sintetica, come si produce e in quali tempi: il modello israeliano

A "Controcorrente" la sperimentazione del Dipartimento di biologia dell'Università Tor Vergata di Roma.

Come si produce la carne sintetica secondo il modello israeliano? E in quali tempi? Le telecamere di "Controcorrente" sono andate nei laboratori del Dipartimento di biologia dell'Università Tor Vergata di Roma dove si sperimenta questa tipologia detta anche "carne culturale". "Parlare di rischi mi fa sorridere perché qual è il rischio di mangiare un frutto o un ortaggio coltivato in serra?" si domanda il professor Cesare Gargioli
  In Israele le bistecche prodotte in laboratorio si possono ordinare direttamente dal ristorante previa la firma di una liberatoria per eventuali rischi. La fettina di carne viene generata tramite stampante 3D dove è possibile modificare la marmorizzazione e il valore dei grassi esterni. "La carne prodotta in laboratorio non prevede il sacrificio dell'animale perché si preleva solo un piccolo pezzo di tessuto", spiega Gargioli. E sui tempi di maturazione aggiunge: "Le cellule isolate crescono in apposite piastre per 3-4 settimane, dopo di che si stampano e servono altri 20 giorni per il differenziamento quindi in un paio di mesi è possibile ottenere la fettina di carne culturale".

(TGCom, 6 aprile 2023)
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Dopo il primato mondiale nella vaccinazione di massa e nell'imposizione del green pass, Israele vuole aggiudicarsi anche il primato in fatto di carne sintetica? Israele come primatista nella costruzione di un mondo artificiale? E' inquietante. M.C.

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Vietata la carne sintetica. "L'Italia è la prima Nazione al mondo a dire no"

ROMA - "L'Italia è la prima nazione che dice no al cibo sintetico e alla carne sintetica, e lo fa con un atto formale e ufficiale raccogliendo un appello dei Comuni e delle Regioni". Lo ha rimarcato il ministro dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, nel corso della conferenza stampa al termine della riunione del Consiglio dei Ministri.

(Agenzia Vista, 28 marzo 2023)

 
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«Col cibo sintetico si rischia il monopolio»

Intervista con Felice Adinolfi, docente di Economia agraria. «Presentare la carne in provetta come la salvezza del mondo è folle. Quattro o cinque proprietari di tecnologie brevettate potrebbero accendere e spegnere un bioreattore e decidere come sfamarci. Distruggendo la filiera».

di Francesco Borgonovo 

Felice Adinolfi è professore di Economia agraria all'Università di Bologna. Da tempo segue le evoluzioni della cosiddetta carne sintetica e assieme a lui abbiamo provato a rispondere ad alcune delle affermazioni (e delle mistificazioni) che in questi giorni si leggono e si ascoltano su questo genere di prodotti. 

- C’è chi sostiene che la carne sintetica semplicemente non esista. In primo luogo perché non è sintetica ma prodotta a partire da cellule animali e poi perché, in realtà, non è nemmeno in commercio. E cosi? 
  «Sarebbe più corretto parlare di proteine cresciute in vitro da cellule staminali animali. In ogni caso la carne sintetica o artificiale già esiste, ne è stata approvata la vendita a Singapore e c'è una preistruttoria della Food and drug administration negli Stati Uniti per l'approvazione di altri due prodotti. Probabilmente una richiesta simile arriverà anche in Europa nei prossimi mesi». 

- Restiamo sulle parole: è giusto chiamarla sintetica o artificiale? 
  «Penso che questa parola, artificiale, spieghi bene la separazione tra produzione e natura. Io, sinceramente, ho più dubbi sull'utilizzo del termine carne, perché appunto parliamo, si, di proteine cresciute da cellule animali, ma la legislazione europea fornisce una precisa definizione di carne, che comprende anche lo scheletro, i tessuti e le connessioni tra scheletro e tessuti. Dunque, se ci alleniamo a questa definizione, la carne artificiale non è carne. Nella letteratura scientifica il nome più in voga è quello di lab-grown meat, cioè carne cresciuta in laboratorio. Credo che questo nome possa rendere bene l'idea più di tanti altri». 

- Mi sorge il dubbio, allora che i veri giochetti con le parole li stiano facendo i difensori di questi prodotti per sdoganare l'idea che non siano poi così diversi dalla carne vera. 
  «È un giochino che va avanti da molto tempo: è stato cosi anche con altri prodotti sostitutivi. Consiste nell'assumere le connotazioni positive di un prodotto come la carne - che evidentemente è ancorato tradizionalmente all'idea di consumo di proteine importanti, di forza, di vigore e vitalità - cercando di dare un senso di naturalità al prodotto sostitutivo. Tra l'altro tra i vari promotori ci sono anche quelli che usano il termine "carne pulita", che fa veramente sorridere in questo caso»,

- Parlando della carne coltivata in laboratorio c'è chi fa paragoni con lo yogurt o lo birra, dicendo che in fondo sempre di colture cellulari si tratta. È un paragone sensato? 
  «No. E vero che nel caso della birra si utilizza un macchinario simile, ma è anche chiaro che gli ingredienti sono completamente diversi. Là parliamo di una cultura diciamo batterica, qui parliamo di cellule che vengono fatte proliferare all’interno di un cosiddetto medium di crescita, che è ricco di sostanze come ormoni e altri fattori di crescita, proteine ricombinanti, eccetera. Stiamo parlando dunque di un processo che avviene all'interno di una dimensione biotecnologica (che poi è quella che la farmaceutica percorre da mollissimo tempo). Insomma sono due cose completamente diverse. Nel caso della carne in laboratorio parliamo di una proliferazione cellulare che è alimentata da una serie di meccanismi esterni e che poi poter diventare alla fine il prodotto che qualcuno vorrebbe chiamare carne - ha bisogno di una serie notevole di aggiustamenti. I quali servono a far in modo che le strisce di cellule di proteine assumano la forma, il sapore e la consistenza di una bistecca o di una pepita di pollo». 

- Molti sostengono che la contrarietà alla carne sintetica sia una forma di oscurantismo, Come se l'agricoltura o l'allevamento non avessero nulla a che fare con la scienza e la ricerca. 
  «Lo so. Purtroppo la narrativa di chi promuove questi cibi artificiali è una narrativa che vorrebbe far passare chi è contrario e chi ha dei dubbi come un oscurantista. Io dico questo: al di là di tutta una serie di questioni che riguardano la salute e che sono molto importanti, credo che ogni tecnologia, ogni soluzione tecnica innovativa, abbia bisogno poi di essere valutata anche in base all'impatto sociale, Qui parliamo di una rottura tra campagna e produzione di cibo, tra cibo e dimensione naturale. La politica deve valutare tutto ciò. Lei ha detto bene: l'agricoltura è stata simbolo di innovazione efficace soprattutto negli ultimi trent'anni, ha fatto dei passi enormi dal punto di vista tecnologico. Ma in questo caso stiamo parlando di una cosa diversa: di riscrivere totalmente le regole di produzione e consumo del cibo». 

- Il governo ha vietato la carne artificiale. Ma c'è una incognita. Se l'Efsa, l'agenzia europea per la sicurezza alimentare, decidesse di dare il via libera a questi prodotti l'Italia non potrebbe opporsi, legge o non legge. 
  «Intanto non è detto che l'Efsa approvi questi prodotti. Abbiamo una storia alle spalle che ci racconta come l'Europa si sia comportata nel corso del tempo diversamente da altre agenzie, e in particolare dall'agenzia statunitense Fda. Dicevo prima che questi cibi per essere prodotti hanno bisogno di fattori di crescita esterna, quindi di ormoni esterni. Ma in Europa l'uso di ormoni esterni, esogeni, è vietato negli allevamenti, Già questo elemento potrebbe essere di fatto ostativo all'approvazione di questi cibi in Europa». 

- Mettiamo che invece l'Efsa approvi. 
  «La storia degli Ogm ci ha mostrato come, nei fatti, gli Stati membri abbiano preso decisioni diverse da quelle dell'Autorità europea. Oggi una buona parte dei Paesi europei vieta la coltivazione degli Ogm e soltanto tre la autorizzano. E anche sulla commercializzazione ci sono delle posizioni che ancora devono comporsi ma che fanno presupporre la richiesta di autonomia da parte degli Stati membri. L'Efsa guarda alle implicazioni di ordine sanitario, ma tralascia tutte le altre implicazioni, che sono di ordine sociale, ambientale e culturale. Quindi io credo che questo atto del governo, che ad oggi tutto sommato è solo un disegno, abbia il pregio di porre un punto politico chiaro». 

- Mettiamo che io sia un produttore. Se l'Efsa sdoganasse la carne artificiale e l'Italia continuasse a proibirla, io dovrei fare causa alle istituzioni italiane. 
  «Lei dovrebbe far causa allo Stato italiano, poi l'Unione europea dovrebbe sollevare l'infrazione dello Stato italiano che ha attuato o ha in vigore un normativa contraria a una decisione europea. In tal caso, 
  come successo con gli Ogm, si aprirebbe un contenzioso e la chiusura di questo contenzioso potrebbe essere o la condanna dell'Italia oppure l'apertura di un caso politico, come avvenuto sempre per gli Ogm, e quindi la scrittura di un 'altra storia. Per questo dico che questo atto del governo, al di là di tutto, diventa un punto fondamentale, proprio per avere la possibilità di scrivere una storia diversa nel caso l'Efsa dovesse approvare e quindi di fatto imporre la libera circolazione di questi prodotto in tutta l'Ue».

- Resta che a livello europeo, tramite vari programmi, sono arrivati molti finanziamenti alla ricerca sui cibi artificiali. 
  «Sicuramente un po' di spinta c'è, ci sono almeno quattro o cinque - vado a memoria - progetti europei che finanziano la ricerca. Ma su questo punto dobbiamo chiarirci. Intanto la proposta italiana non prevede un divieto assoluto riguardo la ricerca. Dipende appunto di che ricerca si tratta. Io non discuto la possibilità di costruire proteine per uso medico: io discuto la possibilità che queste proteine diventino parte dell'alimentazione quotidiana». 

- Mi pare che un problema rilevante sia anche quello del controllo della produzione di cibo. Cioè: mi pare che si stia ammantando di buoni sentimenti il tentativo di creare un nuovo mercato, molto meno aperto di quello attuale, per giunta. 
  «Penso che sia una follia presentare questi prodotti come quelli che salveranno il mondo. Non è vero. Ad oggi inquinano di più di un allevamento tecnologicamente avanzato o di un allevamento sostenibile estensivo. E anche per quanto riguarda gli aspetti economici ci sono problemi. Trasferire il valore della produzione dalla campagna all'industria significa ovviamente agevolare la nascita di veri e propri monopoli del cibo. Se prima chi era contrario agli Ogm era preoccupato per il monopolio delle sementi, ora dovrebbe impallidire rispetto all'idea, al pericolo, di un monopolio dei cibi per cui quattro o cinque proprietari di tecnologie - perché sono tecnologie brevettate - possono con un interruttore accendere e spegnere un bioreattore e decidere come sfamarci. Nessuno di questi investitori vuole salvare il mondo. Io ho letto proprio ieri la relazione della Food and drug administration sulla richiesta di autorizzazione di un cibo sintetico fatta da una di queste aziende, la Upside food. +

- Che ha trovato? 
  «La maggior parte degli ingredienti, e in particolare gli ingredienti che vanno a ricostruire le proteine ricombinanti, è segreta per ragioni commerciali. Si figuri se chi difende la propria proprietà intellettuale e la propria tecnologia con un brevetto lo fa allo scopo di sfamare il mondo: lo scopo è sempre lo stesso, quello di fare profitto, e in questo caso il profitto è agevolato dal fatto che la filiera viene completamente distrutta, non esiste più. L'unico luogo in cui si produce cibo è il laboratorio, il bioreattore, e l'industria che gli sta intorno, con una ricetta di proprietà. Io credo che chiunque abbia minimamente a cuore il tema della sovranità alimentare e della sicurezza degli approvvigionamenti debba essere preoccupatissimo per un eventuale sviluppo di questo in questa direzione».

(La Verità, 5 aprile 2023)

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Le origini della Pasqua ebraica

di Tommaso Todaro

«Il Signore parlò a Mosè e ad Aaronne nel paese d'Egitto, dicendo: Questo mese sarà per voi il primo dei mesi: sarà per voi il primo dei mesi dell'anno. Parlate a tutta la comunità d'Israele e dite: "Il decimo giorno di questo mese, ognuno prenda un agnello per famiglia, un agnello per casa …
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, dell'anno … Lo serberete fino al quattordicesimo giorno di questo mese, e tutta la comunità d'Israele, riunita, lo sacrificherà al tramonto.  Poi si prenda del sangue d'agnello e lo si metta sui due stipiti e sull'architrave della porta delle case dove lo si mangerà.  Se ne mangi la carne in quella notte; la si mangi arrostita al fuoco, con pane azzimo e con erbe amare…  Mangiatelo in questa maniera: con i vostri fianchi cinti, con i vostri calzari ai piedi e con il vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua del Signore.» (Esodo cap. 12:1-11)
Quella fu una notte di veglia, tenebre e angoscia, che segnò la morte di tutti i primogeniti d’Egitto, tanto degli uomini quanto degli animali e di sgomento per gli israeliti che per la prima volta, dopo quattrocentotrent’anni anni di servitù, sperimentavano la potenza del Dio dei loro Padri...

(Nuovo Monitore Napoletano, 5 aprile 2023)

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Segnali buoni da Israele

Il ministro della Giustizia dice: ho fatto un errore. La democrazia dei mea culpa.

La protesta in Israele si è placata da una settimana. Il premier Benjamin Netanyahu ha fermato la revisione della riforma giudiziaria per dare il tempo di giungere a un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ogni tanto gli israeliani tornano in strada per dire che non hanno smesso di sorvegliare, come fosse un invito al primo ministro che conoscono da decenni a non fare strappi. Anche gli israeliani a favore della riforma così com’era scendono in strada, a volte vanno davanti all’ambasciata americana a dire al presidente Joe Biden di farsi i fatti suoi, ma usando toni meno lusinghieri. Non tutti si fidano delle promesse di Netanyahu, qualcuno teme che stia prendendo tempo, altri sostengono che ormai ha rotto il tabù del fare marcia indietro e non avrebbe senso ricominciare da capo.
  Un buon segnale è arrivato dal ministro della Giustizia, Yariv Levin, che di quella riforma contestata è l’architetto. In un’intervista a Channel 14 ha ammesso che un pezzo chiave della legislazione avrebbe portato a una situazione inaccettabile in un paese democratico, determinando lo strapotere della maggioranza. Levin non ha rinnegato tutto, ma ha contestato la parte sulle nomine dei giudici. La legge era già stata approvata in prima lettura, ora tornerà alla Knesset ammorbidita per la seconda e la terza. L’opposizione non ha fatto sapere ancora cosa pensa della riscrittura della riforma e se le parti stanno davvero dialogando, ma l’ammissione di Levin conferma ancora una volta che la democrazia israeliana è sana e che gli elementi moderati del governo più a destra della storia del paese hanno i loro anticorpi contro i loro alleati che moderati non sono.
  Questa settimana Netanyahu è stato visto con il ministro della Difesa che aveva allontanato durante le proteste per aver criticato la riforma. Gli estremisti del governo volevano che Yoav Galant venisse cacciato per sempre. Anche in questo il premier ha ascoltato i suoi e non gli altri perché sa bene quanto sia importante avere un uomo competente in un ministero vitale.

Il Foglio, 5 aprile 2023)

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La Pasqua ebraica e il futuro dei bambini

Il senso della festività che inizia oggi è quello di tramandare la storia dell'Esodo. Perché non esiste domani se non si conosce il passato

di Scialom Bahbout

L'avvicinarsi di Pesach, la Pasqua ebraica, richiama l'attenzione sul saggio di Michael Walzer Esodo e rivoluzione: il filosofo americano afferma che la storia della liberazione del popolo ebraico dall'Egitto è diventata il paradigma di ogni rivoluzione e questo perché non è stato possibile cancellarne il ricordo dai libri. L'influenza dei temi dell'Esodo si è sentita, non solo nella politica, ma anche nella letteratura: si pensi a Lev Tolstoj che fa del protagonista del romanzo Resurrezione una persona pronta a dedicare la propria esistenza al servizio degli sfruttati e degli oppressi.
  Tuttavia, il problema è come sia stato possibile che, a distanza di molti secoli, l'Esodo susciti ancora tanto interesse al di là del campo ebraico in cui è nato e si è sviluppato. Ciò che caratterizza l'Esodo è che si tratta di un momento fondante della storia del popolo ebraico, l'inizio della sua storia, e la domanda che è stata posta fin dall'inizio fu come tramandare questo momento. È chiaro che è stato necessario attivare la memoria che è uno strumento importante non solo per il singolo, ma per la collettività che deve trasformare un fatto biologico, come una nascita, in qualcosa di culturale.
  "Ricorda il giorno in cui uscisti dall'Egitto dalla casa degli schiavi": a chi e come trasmettere il ricordo? Il testo biblico dà una chiara e semplice risposta: "Racconterai a tuo figlio". Da notare che non è scritto ai tuoi figli, come siamo tentati naturalmente di leggere, ma TUO figlio, al singolare. Questo spiega per quale motivo i protagonisti della cena pasquale sono i bambini, non in senso generico, ma nel senso specifico: ogni bambino ha il diritto di ascoltare e rivivere quella storia come qualcosa che si riferisce personalmente a lui. È questa l'occasione in cui gli adulti, in genere i genitori, sono chiamati a svolgere una funzione educativa ponendosi allo stesso livello dei bambini. È la prima vera occasione in cui i genitori possono svolgere una funzione che poi dovranno continuare per lunghi anni. La scuola, la società, l'Università interverranno dopo che saranno posti i primi importanti semi. Oggi la maggior parte dei genitori rinuncia al proprio ruolo nell'educazione, cosa che non può che avere riflessi negativi perché altri assumeranno questo ruolo.

• I BAMBINI SONO DIVERSI, MA MERITANO ASCOLTO
  La tradizione propone - a titolo esemplificativo - quattro tipi di bambini che noi potremmo definire come: l'intellettuale, il semplice, l'indifferente e il ribelle.
  Nachman di Brezlav - il rabbino mistico del XIX secolo vissuto in Ucraina - pone l'intellettuale e il semplice uno di fronte all'altro. L'intellettuale ha la presunzione di capire la realtà fino in fondo e di poter guidare il Mondo, mentre in realtà è la persona semplice che riesce a vivere e a dare un senso vero alla vita. Alla fine dei conti l'intellettuale si illude di conoscere e di possedere una realtà che non conosce, perché non la vive nella sua essenza. L'uomo occidentale disprezza la persona semplice che accetta la realtà così com'è e che cerca di vivere prima ancora di capire. Ma chi è il semplice? È una persona che è passata attraverso la fase intellettuale per capire che in fondo se si vuole essere vivi bisogna fare un maggior uso della sensibilità e dell'amore: bisogna ricorrere alla sapienza solo quando non si riesce a risolvere il problema con la semplicità.
  Rimanere indifferenti e non porsi molte domande è uno dei comportamenti classici dell'uomo, fino a quando non accade qualcosa di problematico, quando il ribelle mette tutto in discussione e l'indifferenza diventa un atteggiamento pericoloso anche per chi la pratica come una forma di autodifesa. Il ribelle costringe l'indifferente ad uscire dal proprio guscio che non lo protegge più dai pericoli della società ed è costretto a fare le sue scelte.

• I DIRITTI DEI BAMBINI
  In realtà ogni bambino attraversa nella sua storia tutti questi momenti: l'importante è che abbia accanto i genitori che lo aiutino e lo guidino. Tuttavia, esistono molti modi per essere figli come altrettanti per essere genitori: l'importante è che alla tavola della cena pasquale tutti possano essere presenti senza alcuna discriminazione. La tradizione ebraica insegna che perfino chi ha insegnato anche una sola lettera a un bambino ne diventa genitore. La storia che si narra la sera di Pasqua appartiene a tutti i bambini e a tutte le generazioni: sarebbe una grave omissione se qualche bambino venisse escluso. Un esempio per tutti: gli adulti non possono applicare una legge che esclude un bambino, nato per esempio da una gravidanza surrogata, dal godere dei diritti e delle esperienze che gli spettano, perché, le colpe dei padri non possono ricadere sui figli (Deuteronomio 24:16), anche quando si tratta di atti definiti come colpe dalla legge.
  Simbolicamente alla tavola della cena pasquale siedono anche tutti i bambini che sono stati esclusi, perché rapiti o perseguitati nel corso della Storia dal potere politico o religioso, e anche trucidati dai nazisti che, eliminando un milione e mezzo di bambini, pensavano che avrebbe cancellato la storia e i valori dell'Esodo.
  Ogni popolo, ogni nazione deve saper trovare gli strumenti per raccontare e rivivere la propria storia, per poter continuare a dare il proprio contributo all'Umanità. I bambini sono i veri protagonisti cui ognuno deve trasmettere la propria storia, e sono quindi un patrimonio fondamentale per il futuro della società e della nazione.

• I COSTRUTTORI E I CUSTODI
  La parola figlio, BEN in ebraico, significa anche costruttore e spesso ci sfugge quanto i bambini possano essere i veri costruttori del nostro futuro. Un'antica parabola del Talmud esprime bene questo concetto, sempre valido specie in tempi in cui i bambini sono oggetto di abusi e di guerre create dagli adulti e che insanguinano il mondo: "Alcuni Saggi furono mandati a visitare le città della Terra d'Israele per vedere se c'erano maestri che potessero insegnare la legge ai bambini, ma non ne trovarono. Dissero: "Portateci dai difensori della città". Li portarono dalle guardie e dai soldati che controllavano le porte della città. "E questi sarebbero i custodi? Questi distruggono la città; chi sono i custodi? I veri custodi sono i Maestri e i bambini che studiano la legge, come sta scritto nei salmi: Se il Signore non collabora alla costruzione di una casa (con l'applicazione della sua legge), coloro che la costruiscono lavorano invano; se il Signore non collabora alla sorveglianza di una città le guardie lavoreranno invano".
  Pasqua ci ricorda che bisogna restituire ai bambini, assieme al loro passato, ciò che appartiene loro, cioè il loro futuro: l'educazione a un uso corretto partecipato della libertà che ci viene data. Una società in cui non ci siano bambini che seguano questo percorso sarebbe destinata a scomparire.
  Per quanto riguarda l'Italia, dovremmo riflettere sulla nostra storia e definire quali sono i fondamenti su cui educare e costruire le giovani generazioni e far sì che i bambini possano crescere in sintonia con essi. Questo lavoro deve essere fatto prima dalle famiglie e poi dalle strutture pubbliche che hanno una influenza sulla formazione e l'educazione.
  "Riportare il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri": questo secondo Malachia, l'ultimo dei profeti della Bibbia, l'obiettivo che ci si deve proporre per costruire il futuro.
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L'autore (Tripoli, 1944) è un rabbino. Ha insegnato al Collegio rabbinico italiano ed è docente emerito di Fisica alla facoltà di Medicina della Sapienza di Roma

(la Repubblica, 5 aprile 2023)

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Studio israeliano, registrati per la prima volta gli ultrasuoni emessi dalle piante

di Jacqueline Sermoneta

Anche le piante ‘parlano e si lamentano’. Soprattutto in particolari condizioni di stress, come per la mancanza d’acqua, emettono ultrasuoni che vanno oltre la soglia uditiva dell’orecchio umano. A rivelarlo uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università di Tel Aviv (TAU), che è riuscito per la prima volta a registrarli e analizzarli.
  Secondo gli studiosi, le piante comunicano il loro disagio attraverso dei suoni, simili allo scoppiettio dei popcorn, che potrebbero essere percepiti da altri vegetali o da diversi animali come i pipistrelli, i topi e le falene.
  Lo studio, apparso sulla prestigiosa rivista scientifica ‘Cell’, è stato coordinato dai biologi Lilach Hadany e Yossi Yovel, insieme ad altri studiosi della TAU.
  I ricercatori hanno posizionato alcune piante di pomodoro e tabacco in piccole scatole lontano dai rumori, collocando i microfoni per ultrasuoni a una distanza di circa 10 centimetri da ogni pianta. Alcune non erano state annaffiate da cinque giorni, ad altre era stato tagliato il fusto, altre ancora erano integre. Dall'esperimento è emerso che le piante hanno emesso suoni dai 40 agli 80 kilohertz. (La capacità dell’uomo di udire arriva fino ai 20 kHz). Quelle non stressate hanno prodotto in media un suono all’ora, mentre quelle che avevano necessità di acqua o che erano state tagliate hanno emesso circa 35 suoni ogni ora.
  Le registrazioni raccolte sono state analizzate da un algoritmo di machine learning (Intelligenza Artificiale), appositamente sviluppato, che ha permesso anche di associare il suono al tipo di stress patito dalla pianta. La stessa ricerca è stata fatta anche su piante di mais, grano, vite, cactus e ortica.
  "In questo studio, abbiamo risolto una controversia scientifica molto antica: abbiamo dimostrato che le piante emettono suoni! - ha detto Hadany. - I nostri risultati suggeriscono che il mondo intorno a noi è pieno di suoni delle piante, che contengono informazioni”. “Crediamo che questi messaggi possano essere utilizzati con gli strumenti giusti, come i sensori che comunicano ai coltivatori quando le piante hanno bisogno di essere annaffiate. – ha spiegato Hadany - Apparentemente, un idilliaco campo di fiori può essere un luogo piuttosto rumoroso. È solo che noi non riusciamo a sentirlo!”.

(Shalom, 5 aprile 2023)

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"Israele rischia la contrazione economica''

 L'economista  Nouriel Roubini
Professore emerito della New York university, l'economista Nouriel Roubini è diventato famoso per aver previsto la crisi finanziaria del 2008. Aveva avvertito già quattro anni prima del rischio di un crollo verticale dei mercati e delle economie internazionali. Gli eventi gli diedero ragione. Ora la sua analisi si è soffermata su quanto accade in Israele, con cui ha un legame profondo: qui, ha raccontato, vive buona parte della sua famiglia. Le sue previsioni sugli effetti della riforma della giustizia sull'economia israeliana non sono affatto rosee. In un'intervista ad Haaretz Roubini ha previsto che la fuga di capitali porterà a un indebolimento dello shekel, a un aumento dell'inflazione e, infine, a un incremento del tasso di interesse, il tutto a spese non solo dell'economia, ma anche della sicurezza di Israele. Nelle settimane in cui la riforma ha preso forma, diverse voci del mondo bancario israeliano hanno avvertito di pericoli simili. Dall'altra parte le agenzie di rating hanno sì preso atto della situazione, ma senza esprimersi in modo negativo: non hanno ad esempio operato alcun declassamento. Questo, spiega Roubini, perché i rischi da lui descritti al momento sono potenziali. Ma potrebbero concretizzarsi nel breve periodo. "Una cosa di cui bisogna essere consapevoli è che prima che le agenzie di rating intervengano, il mercato può muoversi molto, molto velocemente. I mercati valutano ogni giorno il rischio di credito di un Paese. Non aspettano che le agenzie di rating prendano una decisione che spesso avviene dopo la reazione dei mercati. Si sta giocando con il fuoco quando si fanno cose così radicali, e i mercati vi puniranno ben prima che le agenzie di rating prendano provvedimenti", l'analisi dell'economista.
  Un avvertimento simile era arrivato anche dagli stessi esperti del ministero delle Finanze israeliano. "Compromettere i parametri democratici di Israele potrebbe portare a un declassamento del rating e quindi a un calo dello 0,8% del PIL, il che significa una perdita di 74 miliardi di dollari in cinque anni dopo l'approvazione della riforma giudiziaria" si legge in un documento ad uso interno, pubblicato dai media israeliani. "L'economia israeliana è forte e i dati presentati indicano una crescita continua", la replica del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. "La mia posizione sulla riforma è ben nota e credo che contenga grandi opportunità per la nostra economia perché ridurrà la burocrazia e i regolamenti, con conseguente crescita del mercato israeliano".
  Diametralmente opposta l'opinione di Roubini. "Se questo tipo di modifiche giudiziarie vengono attuate, si verificherà una fuga di capitali, una pressione al ribasso sulla valuta, un aumento dell'inflazione e un aumento del debito sovrano del Paese. E l'unico modo per affrontarlo sarà aumentare i tassi di interesse". In questo quadro l'economia israeliana non rischia solo una contrazione, "ma non si può escludere una vera e propria recessione". Nelle risposte arrivate dal governo di Gerusalemme, l'economista legge una mancata comprensione dell'ampiezza del problema. Un esempio è sul tema della scelta di diverse aziende hi-tech di investire altrove. "Alcuni di loro potrebbero addirittura pensare: 'Che importa se questi leader tecnologici liberali e laici vanno all'estero?". "Il problema è che in lsraele le entrate e la crescita economica che provengono dal settore tecnologico sono il motore delle risorse fiscali, che vengono poi trasferite a coloro che sono rimasti indietro". Ignorare il fatto che questo mondo stia pensando di abbandonare la Start-up Nation, il monito di Roubini, avrà conseguenza drammatiche per tutto il paese. Ci saranno, spiega, meno risorse per la sanità o per la sicurezza. Proprio mentre il terrorismo palestinese è tornato a farsi sentire.

(Pagine Ebraiche, n. 3/4 aprile 2023)

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Viene da Israele il miglior whisky malto singolo al mondo

di David Fiorentini

L’azienda israeliana di whisky Milk & Honey (M&H) è stata insignita del titolo di “miglior malto singolo del mondo” ai World Drinks Awards, la principale convention di produttori di whisky che ogni anno si tiene presso la Merchant Taylors’ Hall di Londra ed è organizzata dalla Whisky Magazine.
  “Questo whisky ha sapori di sciroppo d’oro, vaniglia, frutta tropicale e tè freddo, prima di un finale di tannini di quercia con note di anice e buccia di limone”, hanno affermato i giudici dei World Drinks Awards. “Dolce al gusto con aromi fruttati di scorza di agrumi e pesca bianca con un pizzico di vernice di legno”.
  Milk&Honey è stata fondata nel 2013 dall’imprenditore Gal Kalkstein ed è diventata la prima distilleria di whisky in Israele, che tuttora produce solamente bevande kasher.
  Il produttore di Tel Aviv attribuisce al clima israeliano il segreto del suo successo, “i 300 giorni di sole all’anno e il clima mediterraneo israeliano sono i nostri maggiori vantaggi.”
  “La maturazione in climi caldi fa sì che il nostro whisky invecchi rapidamente, ma con molta grazia. I whisky prodotti in condizioni climatiche più calde sono impregnati di un terroir specifico che conferisce loro sapori unici, in qualche modo diversi da quelli delle loro controparti nel Vecchio Continente”, si legge sul sito web dell’azienda. “I nostri metodi, le nostre tecniche e le nostre attrezzature seguono conoscenze secolari e manteniamo la tradizione di un invecchiamento minimo di tre anni”.
  Questo non è il primo riconoscimento per la distilleria, che ha già ricevuto otto premi per il suo whisky. In particolare, il produttore ha vinto diversi titoli nella categoria “Resto del mondo” dei World Drinks Awards e ha ricevuto il riconoscimento di “produttore artigianale dell’anno”, “innovatore del marchio dell’anno” e “maestro distillatore dell’anno”.
  Inoltre, anche altri prodotti della gamma M&H hanno vinto prestigiosi premi all’estero, tra cui il Frankfurt International Trophy nel 2022, nonché due medaglie d’oro al San Francisco World Spirits Competition 2022.

(Bet Magazine Mosaico, 4 aprile 2023)

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Il Friuli VG finanzia la certificazione Kosher, nuovi mercati per le imprese

di Barbara Ganz

Nasce in Friuli Venezia Giulia una nuova collaborazione tra l’Amministrazione regionale, l’Eraple (Ente regionale Acli per i lavoratori emigrati) e il sistema delle certificazioni kosher che prevede la possibilità per le aziende agroalimentari regionali di internazionalizzare i loro prodotti attraverso la certificazione kosher che aprirà a mercati fino a oggi inesplorati. In particolare, si tratta di aziende nell’ambito della produzione di vino, di distillati (come la grappa) e di alcuni prodotti lattiero caseari. Ciò consentirà alle imprese di occupare fette importanti di mercati esteri e permetterà a molti consumatori di degustare i prodotti friulani secondo i precetti alimentari della religione ebraica.
  Si è inteso, come ha spiegato l’assessore regionale alle Risorse agroalimentari nel corso dell’incontro di presentazione dell’iniziativa organizzato dall’Eraple, prevedere sovvenzioni applicabili ai finanziamenti per progetti di investimento volti a rafforzare l’aggregazione in reti di impresa nella filiera agroalimentare regionale dei prodotti kosher e a sviluppare il processo di certificazione e internazionalizzazione.
  Su questo fronte il Friuli Venezia Giulia è la prima Regione in Italia a “istituzionalizzare” la certificazione Kosher nelle procedure di sostegno finanziario e farà da apripista a livello nazionale. In regione sono già cinque le aziende che sono in fase avanzata nell’iter di certificazione da parte di una autorità rabbinica internazionale.
  La cucina kosher rispetta i dettami della religione ebraica sull’alimentazione. Quello che è “kosher” e quindi “adeguato” è ciò che rispetta le regole alimentari stabilite dalla Torah, interpretate dall’esegesi nel Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, e codificate nel Shulkan Aruk, un testo ordinativo e ritualistico religioso. Ci sono regole ben precise, che seguono i dettami della Torah, alla base della produzione di vino e altri prodotti Kosher, ovvero idonei per essere consumato da persone di religione ebraica.
  Sono previsti, nell’ambito del Fondo di rotazione per l’agricoltura, finanziamenti con procedure snelle ed efficienti, per le aziende che realizzano progetti concernenti prodotti agricoli che attraverso la certificazione kosher sono in grado di rafforzare l’immagine e la qualità delle produzioni regionali attraendo diverse fasce di consumatori. La percentuale massima della sovvenzione è dell’80 per cento, mentre l’importo massimo è di 20mila euro.
  L’iniziativa, come evidenziato dall’esponente della Giunta regionale, ha l’obiettivo di incentivare e supportare gli investimenti di imprese regionali che, scegliendo l’aggregazione, puntano a sviluppare attività di produzione, trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli e alimentari certificati kosher. Un’opportunità rilevante per arrivare su nuovi mercati potenzialmente molto interessanti – come quello di Israele e del Nord America – per una importante presenza di comunità ebraiche.

(Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2023)

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Francia: iniziato ieri il processo per l'attentato alla sinagoga di rue Copernic nel 1980

di Luca Spizzichino

Dopo quasi 43 anni, ieri è iniziato il processo per l’attentato alla sinagoga di rue Copernic del 3 ottobre del 1980, dove morirono quattro persone e i feriti furono più di quaranta. Quello alla sinagoga fu il primo attentato contro la comunità ebraica francese dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’imputato è stato processato in contumacia e la sentenza è attesa per il 21 aprile. Hassan Diab, unico sospettato per l’attentato, attualmente si trova in Canada e in caso di condanna potrebbe essere fatta nei suoi confronti una nuova richiesta di estradizione.
  La responsabilità politica dell’attentato venne subito attribuita dai media al movimento neonazista a seguito delle dichiarazioni del rabbino della sinagoga e dei leader della comunità ebraica francese. La pista neonazista venne però accantonata quando nel dicembre del 1980, la Direzione della Sorveglianza Territoriale (DST) individuò come responsabile dell’attentato il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Operazioni Speciali (FPLP-OS), un piccolo gruppo dissidente del FPLP con sede a Beirut, in Libano.
  L’indagine tuttavia si fermò per oltre 18 anni, fino a quando, nella primavera del 1999, il DST inviò un nuovo rapporto al giudice Jean-Louis Bruguière, secondo cui i terroristi che agirono in rue Copernic erano più di uno. Questi sarebbero arrivati ​​in treno da Madrid, utilizzando i loro passaporti per viaggiare dal Libano alla Spagna e poi quelli falsi per entrare in Francia. Tra questi, quello di Alexander Panadriyu, un turista cipriota che poi si sarebbe scoperto essere Hassan Diab, un ex studente libanese di Beirut, che sarebbe stato a capo del commando che aveva compiuto l’attentato. Per gli investigatori francesi la presunta presenza di Diab in Europa in quel periodo costituisce una prova del suo coinvolgimento nell’attentato.
  Inoltre, lo stesso Diab è sospettato di aver fatto esplodere un furgone davanti a una sinagoga ad Anversa, in Belgio, il 20 ottobre del 1981, provocando tre morti.
  Le indagini ripresero nel 2007, quando cominciò a occuparsi del caso il giudice Marc Trévidic, esperto di antiterrorismo. Nel novembre del 2008 Trévidic emise un mandato d’arresto internazionale contro Diab, che negò le accuse parlando anche di una possibile omonimia.
  Dopo sei anni di richieste il Canada, paese dove si trovava Diab, decise di estradarlo in Francia. Arrivato nel novembre del 2014, Diab fu portato in un carcere di massima sicurezza in cui rimase per 38 mesi, quasi sempre in regime di isolamento. Tuttavia venne rilasciato per mancanza di prove.
  Nel gennaio 2021 la corte d’Appello di Parigi ha respinto l’archiviazione del caso e sei mesi dopo la Cassazione ha ordinato un processo, quello cominciato ieri nella capitale francese.
  I sopravvissuti all'attacco e le famiglie delle vittime hanno partecipato lunedì al primo giorno dei procedimenti a Parigi. Gli avvocati delle vittime hanno affermato alla stampa che il processo servirà da deterrente per futuri atti terroristici e sentimenti antisemiti.
  "È uno sviluppo positivo che il processo si stia svolgendo, anche se lui non ci sarà", ha detto Bernard Cahen, avvocato di due famiglie che hanno perso i propri cari.
  David Père, avvocato di una vittima quattordicenne che stava celebrando il suo bar mitzvah al momento dell'attacco, ha affermato che "la via della giustizia deve essere seguita", anche dopo più di quattro decenni di indagini e drammi legali.

(Shalom, 4 aprile 2023)

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Hamas mette in guardia da 'sacrifici ebraici' sulla Spianata

Per Pasqua nazionalisti ebrei vorrebbero ripetere rito biblico

TEL AVIV - In occasione della Pasqua ebraica, che inizierà il 5 aprile, Hamas ha messo in guardia Israele dal consentire lo svolgimento di sacrifici rituali di capretti nell'ambito della Spianata delle Moschee di Gerusalemme, che per gli ebrei è il Monte del Tempio.
  All'origine dell'avvertimento c'è stata una cerimonia condotta ieri presso la Porta dell'immondizia della Città vecchia da un gruppo di ebrei nazionalisti che indossavano i paramenti dei Sacerdoti del tempio e che, secondo Haaretz, hanno sgozzato un capretto in base alle regole in uso in tempi biblici.
  Oggi inoltre la polizia israeliana ha fermato un nazionalista ebreo che, secondo informazioni di intelligence, stava preparando un altro sacrificio nella Città vecchia di Gerusalemme.
  "Noi avvertiamo gli occupanti - ha annunciato Hamas da Gaza - che devono astenersi da qualsiasi sacrificio nella moschea al-Aqsa e da ogni altro gesto sconsiderato. Sarebbe come gettare benzina sul fuoco ed Israele sarebbe responsabile degli spargimenti di sangue". Hamas ha anche fatto appello ai fedeli palestinesi a presidiare in massa la Spianata.
  Un'opposizione categorica all'ingresso di ebrei sul Monte del Tempio è stata ribadita oggi dal rabbino capo (sefardita) Yitzhak Yossef. Le cerimonie dei nazionalisti ebrei relative ai sacrifici rituali sono, a suo parere, "fonte di agitazione, e molto pericolose".

(ANSAmed, 4 aprile 2023)

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Un rabbino decorato in guerra

Si era arruolato volontario nell'esercito tedesco durante il primo conflitto mondiale. Poi fu ugualmente assassinato in un campo di sterminio.

di Roberto Giardina

Stolperstein in Frankfurt
BERLINO - Il rabbino tedesco Martin Salomonski si arruolò volontario all'inizio della prima guerra mondiale, nel 1914, per assistere i soldati ebrei, feriti, moribondi, fu decorato con la Croce di ferro nel 1917,e nell'ottobre del 1944venne gasato dai nazisti a Auschwitz. La sua storia spiega perché migliaia di ebrei si ingannarono sul nazismo, alcuni fuggirono all'estero, molti altri rimasero, anche se avevano letto il Mein Kampf. Erano parole, Hitler non poteva avercela con loro, erano bravi tedeschi, integrati, patrioti, si erano battuti con valore. E rimasero in Germania, finché fu troppo tardi…
  Per la prima volta, nella Grande Guerra, ebrei combatterono contro ebrei, con la divisa francese o tedesca, ebrei austriaci contro ebrei italiani. In 96mila furono chiamati alle armi in Germania, 12mila circa caddero in battaglia, non si hanno cifre precise sui feriti, probabilmente furono più di trentamila. In diecimila si presentarono come volontari nei primi giorni dopo la dichiarazione di guerra. Tra loro il rabbino Martin Salomonski, voleva servire per la patria tedesca. Il Kaiser Guglielmo II aveva proclamato: in battaglia non conosco i partiti politici, e le diverse religioni, cristiani ebrei sono tutti tedeschi. Nelle sinagoghe si pregava per il Kaiser e per la vittoria.
  Nella guerra del 1870, quella voluta da Bismarck contro la Francia di Napoleone III, solo quattro giovani del Seminario giudaico teologico, si presentarono come volontari. In Germania gli ebrei avevano una cattiva reputazione, non sapevano e non volevano combattere, erano degli imboscati. Pregiudizi senza fondamento.
  La partecipazione entusiastica degli ebrei al conflitto nel settembre del 1914 era una novità storica, a cui si diede poco risalto, nonostante gli atti di eroismo compiuti. L'ebreo Walter Frank era un asso dell'aria a fianco del Barone Rosso, e fu decorato con la medaglia Pour le Mérite. I nazisti poi cancellarono il ricordo dell'onorificenza dalla sua lapide. Con la Costituzione del 1871 erano stati riconosciuti tutti i diritti ai cittadini ebrei. Potevano arruolarsi ma come soldati semplici, non vennero mai promossi, fin quando in guerra le forti perdite tra gli ufficiali costrinsero l'Alto Comando a concedere i gradi anche agli ebrei. L'Impero austro-ungarico fu più aperto, e alcuni ebrei divennero generali.
  Martin Salomonski aveva studiato a Berlino filologia orientale e filosofia, ha scritto la Berliner Zeitung, nel 1908 aveva superato l'esame da rabbino. Tre anni dopo all'università di Tubinga si laureò con una tesi sull'agricoltura in Palestina.
  Nelle prime settimane del conflitto, con articoli sulla Allgemeine Zeitung des Judentums, spiegò perché era un dovere storico degli ebrei tedeschi difendere la patria. Dovette attendere due anni prima che la sua domanda di servire sul campo come Feldrabbiner, alla pari dei cappellani militari cristiani, venisse accettata. I rabbini militari furono una quarantina.
  Nel giugno del 1916, indossò la divisa, e venne inviato sul fronte occidentale, in Francia nella regione della Somme, che fu teatro di una delle battaglie più sanguinose. Già al primo giorno fu chiamato per il funerale di un caduto ebreo. E si illuse che fosse uno degli ultimi morti in battaglia, come scrisse nel diario, la vittoria del Reich sembrava ancora imminente.
  Pochi giorni dopo iniziò la controffensiva dei francesi e dei britannici. Salomonski sarà in servizio senza pause, al lazzaretto, per dare conforto ai feriti, ai morenti. E non solo per i combattenti ebrei, si prodigò per tutti. Nell'autunno del 1917, sarà decorato con la Croce di ferro di seconda classe.
  Una vignetta antisemita, negli Anni Venti, mostra un soldato tedesco in trincea, un ebreo alle spalle sta per pugnalarlo. Il comportamento degli ebrei al fronte, non ha cancellato i pregiudizi.
  La Germania avrebbe vinto la guerra se non fosse stata tradita dagli ebrei. Ci crede, o finge, anche il generale Erich Ludendorff, che sostiene Hitler nel putsch fallito del novembre 2023. Hitler finirà in carcere, ma Ludendorff non viene toccato, è un eroe di guerra.
  Dopo la sconfitta, il rabbino Salomonski, vivrà a Berlino, anche dopo il '33. Potrebbe mettersi in salvo, ma non vuole abbandonare la comunità, verrà deportato tra gli ultimi, e morirà nel lager.

(ItaliaOggi, 4 aprile 2023)

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Israele: via libera alla formazione della guardia nazionale proposta da Ben Gvir

di Luca Spizzichino

In occasione della riunione settimanale del Gabinetto di Governo, i ministri israeliani hanno votato a favore della formazione di una guardia nazionale, come proposto dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir; per finanziarla vi sarà un importante taglio di bilancio a tutti i ministeri.
  Questa unità, composta da 2.000 militari, secondo quanto si evince dalla risoluzione proposta dal ministro, avrà il compito di affrontare situazioni di emergenza, lotta al terrorismo, operazioni di ordine pubblico. I tempi necessari per la creazione di questa forza non sono chiari, anche se molto probabilmente ci vorranno mesi. Tuttavia, per capire se la guardia nazionale riferirà direttamente al ministro Ben Gvir bisognerà attendere la decisione di un comitato di professionisti di diversi organismi di sicurezza e agenzie governative che consegneranno le loro conclusioni entro 90 giorni.
  La scorsa settimana il primo ministro Benjamin Netanyahu per convincere Ben Gvir ad appoggiare la decisione di sospendere la legislazione sulla revisione giudiziaria aveva promesso al ministro della Sicurezza Nazionale la possibilità di proporre la formazione di questa nuova forza militare.
  Come riportato da Times of Israel, diversi ministri hanno espresso opposizione sul taglio dell'1,5% nei bilanci di tutti i ministeri, che darebbe al ministero di Ben Gvir circa 1 miliardo di NIS (278 milioni di dollari), ma alla fine hanno votato a favore. I funzionari del ministero delle Finanze hanno affermato di poter trovare soluzioni di finanziamento alternative entro diversi mesi per evitare tagli radicali, anche se hanno criticato Ben Gvir per aver chiesto i soldi immediatamente, secondo quanto riferisce il sito di notizie Ynet.
  Al diffondersi della notizia, un coro di ex alti comandanti di polizia ha messo in guardia contro il piano, mentre il commissario di polizia israeliano Kobi Shabtai ha ammonito Ben Gvir che separare la nuova forza dalla polizia danneggerà gravemente la sicurezza pubblica e causerà il caos nelle forze dell'ordine.

(Shalom, 3 aprile 2023)

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Electreon Wireless (Israele) ha annunciato un accordo con Toyota

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La società israeliana Electreon Wireless, specializzata nella tecnologia di ricarica wireless, ha annunciato un accordo con la casa automobilistica giapponese Toyota e il produttore di componenti automobilistici DENSO, per consentire ai veicoli elettrici del marchio giapponese di beneficiare della ricarica wireless. Toyota e DENSO hanno affermato di vedere la tecnologia di ricarica wireless di Electreon come una soluzione efficace per i veicoli elettrici, riporta il Posta di Gerusalemme.
  La tecnologia di ricarica wireless di Electreon funziona fondamentalmente come una versione su larga scala di quella nei telefoni cellulari. L’obiettivo dell’azienda è espandere il più possibile la propria tecnologia, a partire dai terminal degli autobus e dalle corsie preferenziali. L’obiettivo finale è riuscire a ricaricare qualsiasi tipo di veicolo elettrico quasi ovunque.
  Toyota e DENSO si impegnano a promuovere un futuro a zero emissioni di carbonio cercando di raggiungere zero emissioni di CO2 nella produzione e riducendo le emissioni di trasporto dei veicoli elettrici. Per raggiungere questi obiettivi, le due società lavoreranno con Electreon per fornire soluzioni elettriche in tutto il mondo.
  “Questa collaborazione consentirà a molti automobilisti di beneficiare della ricarica wireless e quindi di una tecnologia ecologica ed economica, contribuendo a sviluppare la neutralità del carbonio”, ha affermato il presidente di Electreon.

(DayFR Italian, 3 aprile 2023)

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Il Long Covid non esiste: lo studio norvegese

La conferma in una recente ricerca norvegese pubblicata su “Jama”: stessi sintomi tra chi si è infettato e chi invece non ha mai avuto il virus. L’ipotesi più probabile secondo i ricercatori è che i sintomi siano indotti da fattori legati alle restrizioni.

Del Long Covid è sempre stato difficile delineare i contorni, le persone che anche dopo la guarigione lamentano uno stato di malessere presentano spesso sintomi e condizioni diverse, ma ora una recente ricerca norvegese pubblicata su Jama network open, prestigiosa rivista collegata all’American medical association, è arrivata alla conclusione che il Long Covid non esiste: stessi sintomi tra chi si è infettato e chi invece non ha mai avuto il virus.
  Sono stati coinvolti 382 individui che avevano ricevuto un tampone molecolare positivo al virus Sars-Cov-2 e altre 85 persone come “gruppo di controllo”, ovvero, nell’ambito scientifico, quel gruppo di soggetti che, nel corso di un esperimento, vengono mantenuti nelle stesse condizioni di quelli in esame, ma non subiscono il trattamento che è oggetto della sperimentazione, così da poter effettuare una comparazione statistica. Ebbene, sono stati osservati esattamente gli stessi sintomi tra chi si è infettato e chi, all’opposto, non ha mai contratto il virus: tutti soggetti tra i 12 e i 25 anni, seguiti per sei mesi e sottoposti a esami, test e accertamenti approfonditi. Dunque, sono stati evidenziati addirittura 78 potenziali fattori di rischio, per lo sviluppo dei “postumi” dal Covid. La notizia è che il Covid in quanto tale non c’entra praticamente nulla, poiché i risultati dell’osservazione dei due gruppi mostrano chiaramente che il 49% degli infettati e il 47% dei non infettati presentavano gli stessi sintomi, numeri di fatto sovrapponibili.
  La conclusione cui giunge lo studio norvegese, pertanto, è che giochino un ruolo importante anche fattori piscologici e psicosomatici, quelli che gli studiosi norvegesi chiamano “Stress da lockdown”, dovuto anche all’ansia e al clima pesantissimo instaurato dal terrore instillato dai media e dalle autorità politiche e scientifiche. Quello che viene definito Long Covid (Post-Covid-19 condition, Pcc) peraltro, nota ancora lo studio degli scienziati nordeuropei, ha dei contorni indefiniti e generici: «Comprende qualunque sintomo ricorra come postumo del Covid acuto, non richiede la persistenza del sintomo dall’evento infettivo e non identifica una disabilità significativa».
  I sintomi sono comuni “nella popolazione generale”, ovvero, in altre parole, viene riportato il caso del sintomo dell’affanno: riscontrato in una percentuale degli adolescenti britannici oscillante tra il 34 e il 38%. E ciò si spiega col fatto che «numerosi studi hanno documentato un aumento significativo nella sofferenza psicologica della popolazione generale durante la pandemia», condizione che proprio i più giovani hanno maggiormente patito. Le “contromisure sociali” e i “diktat”, in definitiva, peggiorerebbero la capacità stessa di reazione al virus.
  Questa del disagio interiore da pandemia non è una invenzione dei ricercatori norvegesi, ma è essenzialmente dettata dall’impossibilità di rilevare «un elemento fisiologico chiaramente correlato ai postumi del contagio». Già alcuni mesi fa, nel settembre del 2022, su Jama psychiatry un’indagine svolta su 54.000 operatori sanitari all’università di Harvard dimostrava come depressione, ansia, stress e solitudine e preoccupazione per il contagio fossero condizioni evidentemente favorite dal clima di terrore che si era instaurato, e tendevano ad accompagnarsi a manifestazioni più gravi della malattia qualora si fosse contratto il Covid. Addirittura la vulnerabilità al Covid cresceva, in questi soggetti, tra il 32 e il 46%.
  L’Unione europea, frattanto, ha già stanziato ben 100 milioni di euro per le terapie mirate per il cosiddetto Long Covid. Proprio l’esortazione ai più giovani a vaccinarsi puntava all’obiettivo di «evitare la possibilità di avere per mesi i sintomi del Covid», come sottolineava Anthony Fauci, il virologo della Casa Bianca. Prima creano le condizioni perché la gente si ammali, poi le chiedono di vaccinarsi per schivare la malattia, e infine spendono milioni per curarla. Il tutto a nostre spese.

(Pickline, 3 aprile 2023)

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Primo sì del governo alla “guardia nazionale” di Ben Gvir. Che apre al reclutamento degli ultras

Nonostante le proteste, e i dubbi espressi anche da alcuni ministri, l'esecutivo ha approvato la nascita del nuovo corpo di polizia invocato dal leader dell'estrema destra. I dettagli del progetto saranno decisi nei prossimi tre mesi da uno speciale comitato.

di Rossella Tercatin

Itamar Ben-Gvir
GERUSALEMME – Il Consiglio dei Ministri israeliano ha approvato la costituzione di una nuova “guardia nazionale” come richiesto dal leader del partito di estrema destra Otzmah Yehudit (“Potere Ebraico”) e Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir. Per finanziare il nuovo corpo di polizia per un totale di un miliardo di shekel (circa 260 milioni di euro) è stato richiesto a tutti gli altri ministeri di tagliare i propri bilanci dell’1,5%.
  “La Guardia Nazionale che il governo ha approvato è un messaggio importante per i residenti di Israele e per la loro sicurezza personale, un'esigenza necessaria e fondamentale che gode di un ampio consenso", ha dichiarato Ben-Gvir in seguito alla decisione. Decisione che pure, secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, ha suscitato forti tensioni anche in seno allo stesso governo, con diversi ministri che avrebbero espresso la propria contrarietà – pur scegliendo alla fine di votare a favore della fondazione della nuova forza di sicurezza.
  “Il governo ha approvato tagli indiscriminati per finanziare la milizia privata di Ben-Gvir,” ha attaccato invece il leader dell’opposizione Yair Lapid. “Taglieranno sanità, istruzione, sicurezza, tutto per finanziare un esercito privato di teppisti.”
  All’inizio della scorsa settimana, quando a fronte delle proteste senza precedenti ha cominciato a emergere che il premier Benjamin Netanyahu si preparava a interrompere per un mese l’iter legislativo della controversa riforma della giustizia, Ben-Gvir ha minacciato di uscire dalla maggioranza – cosa che avrebbe portato alla caduta del governo. Per evitarlo, il premier gli ha promesso la formazione del nuovo corpo speciale, con duemila agenti.
  Mesi fa, Ben-Gvir, nei negoziati per dare vita al governo, aveva insistito perché gli fosse assegnato il Ministero della Sicurezza Interna con poteri rivisitati ed ampliati, incluso il controllo della polizia. Nelle ultime settimane però si è scontrato più volte con il capo della polizia Kobi Shabtai, che giorni fa gli ha inviato una lettera dichiarando che la formazione della nuova guardia nazionale avrebbe effetti catastrofici, per via della scarsa chiarezza rispetto al ruolo delle forze dell’ordine regolari e per gli alti costi. A esprimere contrarietà anche il Procuratore Generale Gali Baharav-Miara.
  Ben-Gvir ha suscitato indignazione anche sabato, quando ha esplicitamente menzionato i membri del gruppo estremista La Familia come possibili reclute della nuova forza. In un’intervista al canale televisivo 13, il ministro ha sostenuto che tanti ragazzi di sinistra dai kibbutz lo hanno contattato per chiedere di entrare a far parte della guarda nazionale: “Anche noi e non solo quelli de ‘La Familia’.” Formalmente un’associazione di tifo organizzato per la società calcistica Beitar Jerusalem, il gruppo ha alle spalle una lunga storia di razzismo anti-arabo e violenza verbale e fisica. Quando il club decise di ingaggiare due calciatori musulmani  nel 2013, alcuni affiliati all’organizzazione diedero fuoco alla sede della società. Nel 2016, in seguito a una complessa operazione di polizia con agenti infiltrati nel gruppo sotto copertura, 56 dei suoi membri vennero arrestati.
  Pressato dall’intervistatore per sapere se considerava gli ultras adatti a servire nella forza di polizia, Ben-Gvir ha risposto come “tra loro ci sono tanti ufficiali e persone di valore” che sarebbero i benvenuti, a patto di non avere trascorsi criminali, accusando i media di calunnie nei confronti del gruppo.
  Nonostante il voto favorevole del Consiglio dei Ministri, alcune incognite sull’effettiva operatività della guardia nazionale rimangono. Secondo la decisione approvata oggi infatti, a definire i dettagli del progetto sarà un comitato appositamente formato che avrà 90 giorni per presentare il piano. Incluso il nuovo corpo si troverà effettivamente alla diretta dipendenza di Ben-Gvir oppure di colui che ricopre il ruolo di capo della polizia, ossia Shabtai.

(la Repubblica, 3 aprile 2023)

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Israele, gli Usa e la punta dell’icerberg. Parla il generale Kuperwasser

Tra i due Paesi c’è un legame “profondo e indissolubile” che alcune divergenze politiche (come sulla riforma della giustizia) non possono scalfire, spiega il militare, oggi direttore della ricerca dell’Israel Defense And Security Forum.

di Gabriele Carrer

Yossi Kuperwasser
“C’è il profondo e indissolubile legame tra Israele e gli Stati Uniti, che rappresenta la parte dell’iceberg sotto l’acqua, quella più importante, ed è fatta di costante cooperazione in sicurezza, intelligence, difesa, economia, innovazione e molti altri settori. E poi ci sono alcuni disaccordi a livello politico, che riguardano diverse questioni come l’Iran, la questione palestinese e questa volta sulla riforma della giustizia”. A parlare a Formiche.net è il generale Yossi Kuperwasser, già capo della divisione ricerca dell’intelligence militare israeliana e direttore generale del ministero degli Affari strategici. Nella sua lunga carriera militare, è stato anche intelligence attaché negli Stati Uniti. Oggi è direttore della ricerca dell’Israel Defense And Security Forum.
  Nei giorni scorsi il presidente statunitense Joe Biden si era detto “molto preoccupato” dalla riforma della giustizia promossa dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che l’ha congelata dopo le lunghe e partecipate manifestazioni in tutto il Paese. Israele è un “Paese sovrano” che prende le “decisioni per volontà del popolo e non sulla base di pressioni dall’estero, compresi i migliori amici”, era stata la risposta di Netanyahu. “Conosco il presidente Biden da oltre 40 anni e apprezzo il suo impegno di lunga data nei confronti di Israele”, aveva aggiunto. L’alleanza con gli Stati Uniti “è indissolubile e supera sempre i disaccordi occasionali tra di noi”.
  La propaganda cinese ha tentato di sfruttare le divergenze tra i governi di Stati Uniti e Israele. I media del partito-stato hanno parlato di “duro rimprovero” da parte di Washington nel tentativo di dipingere ancora una volta gli Stati Uniti come “padroni” dei loro alleati. Ma secondo Kuperwasser non c’è modo per la Cina o chiunque altro di “mettersi tra noi e gli americani. Sconsiglio ai cinesi di nutrire aspettative di una qualche frattura strategica tra Israele e gli Stati Uniti”. Al contrario, continua Kuperwasser, Pechino sta riuscendo ad approfittare di quel “sentimento che c’è a Riad”, dove i sauditi “credono di non poter fare troppo affidamento sugli Stati Uniti che sono meno impegnati verso la sicurezza regionale”. E l’accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina ne è una dimostrazione. “C’è un messaggio diretto agli americani da parte dei sauditi: se non adottate una nuova politica verso la sicurezza del Medio Oriente e verso l’Iran molte altre iniziative simili si realizzeranno. E uno agli israeliani, in vista della normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita: anche voi dovete essere più decisi e pronti al confronto con l’Iran e a lavorare per la nostra sicurezza”.
  In ballo c’è l’accordo nucleare con l’Iran. Citando Max dei miracoli de La storia fantastica, Kuperwasser sottolinea che c’è differenza tra “praticamente morto” e “davvero morto”. “Gli Stati Uniti sono profondamente innamorati dell’accordo”, dice il generale che spera che il Jcpoa sia morto davvero, “ma non lo è”. Chi ama più l’accordo, gli americani o gli iraniani? “Anche gli iraniani sono innamorati di quell’accordo ma sanno che lo sono anche gli americani, e dunque sperano in un accordo ancora migliore per quanto riguarda alcune domande dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica sui siti non dichiarati che Teheran vuole lasciare senza risposte”, conclude.

(Formiche.net, 3 aprile 2023)

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Israele abbatte un “Aereo straniero” entrato nel suo spazio aereo

di Giuseppina Perlasca

Secondo il Jerusalem Post un “aereo straniero” è stato intercettato dall’esercito israeliano domenica sera dopo aver invaso lo spazio aereo israeliano dalla Siria, ha dichiarato l’IDF domenica sera.
  Gli elicotteri e i jet da combattimento dell’IDF hanno abbattuto il velivolo, che è stato seguito dall’aviazione israeliana prima di essere colpito.
  Il velivolo non rappresentava una minaccia, hanno affermato le fonti dell’esercito, ma non è chiaro perché sia stato abbattuto. I media israeliani hanno riferito che il velivolo è caduto in un’area disabitata e che non è stato attivato alcun allarme, come da prassi, poiché la situazione non rappresentava un pericolo in nessuna fase.
  L’IDF sta attualmente indagando sui dettagli dell’incidente. Il Consiglio dell’Alta Galilea è stato aggiornato sulla situazione e ha assicurato che non ci sono altre anomalie nei cieli settentrionali di Israele. Nello stesso tempo non sappiamo neanche se l’aereo fosse pilotato da un essere umano o fosse soltanto un drone, anche se, solitamente, questo punto viene evidenziato nei comunicati. Non si sa neppure se l’aereo avesse superato il confine perché in avaria o con il pilota non in grado di condurre l’aereo. Un bel mistero israeliano.

(Scenari Economici, 3 aprile 2023)

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Minimo storico negli investimenti nelle Startup israeliane

Due rapporti condotti da IVC Data and Insights con LeumiTech mostrano tendenze preoccupanti per le startup israeliane. Nel primo trimestre del 2023 ci sono stati investiti solo $1,7 miliardi di dollari in aziende tecnologiche israeliane, rispetto ai 6,7 miliardi del primo trimestre del 2022.

Il primo trimestre del 2023 si è rivelato il peggior trimestre di finanziamenti per le startup israeliane dal 2018. Intitolato “Israeli Tech Ecosystem Review”, il rapporto della Startup Nation riguarda gli investimenti del primo trimestre del 2023 e il sentimento pubblico verso l’industria tecnologica in Israele.
  Nel primo trimestre del 2023 sono stati investiti solo $1,7 miliardi di dollari in aziende tecnologiche israeliane, rispetto ai $6,7 miliardi del primo trimestre del 2022. La cifra è la più bassa dal 2018, con tre aziende che hanno ricevuto il 40% di tutti gli investimenti – Wiz, eToro e Via – che insieme hanno raccolto oltre $600 milioni di dollari. Inoltre, solo 112 società hanno raccolto capitali nell’ultimo trimestre – il dato più basso dal 2014. Il rapporto mostra anche una diminuzione significativa della quantità di investimenti e dei round di reclutamento nel settore tecnologico israeliano. Gli autori del rapporto sostengono che le ragioni del declino sono una combinazione della recessione globale e dei disordini civili interni in Israele dovuti all’iniziativa di revisione giudiziaria del governo.
  Forse ancora più preoccupante, il rapporto rileva una tendenza del personale e delle aziende ad abbandonare il settore tecnologico israeliano e a trasferirsi all’estero. Se questa tendenza dovesse aumentare, la perdita di capitale umano e di startup avrebbe un serio impatto sul pool di personale di qualità che guida il settore tecnologico – il settore più produttivo e redditizio dell’economia israeliana – e porterebbe a una continua contrazione del settore tecnologico israeliano.Gli autori del rapporto hanno espresso la preoccupazione che le nuove startup fondate nel 2022 o successivamente saranno particolarmente colpite dalla diminuzione degli investimenti. Finché la recessione globale e l’instabilità economica e i disordini civili derivanti dalla revisione giudiziaria continueranno, il rapporto prevede che queste aziende avranno difficoltà a reclutare investitori.

• Il calo degli investimenti esteri
  Nel frattempo, IVC Data and Insights e LeumiTech hanno pubblicato un rapporto che riassume il primo trimestre del 2023 nel settore tecnologico israeliano. Questo rapporto ha aggiunto che i primi round di raccolta fondi sono stati pari a $531 milioni di dollari nel primo trimestre dell’anno, con un calo del 62% rispetto al capitale raccolto nel primo trimestre del 2022. Gli investimenti seed sono stati i più colpiti, con una diminuzione del 40% del capitale raccolto rispetto al quarto trimestre del 2022.
  Ciò è in parte dovuto a un’altra tendenza discussa nel rapporto: il calo degli investimenti stranieri nelle startup israeliane. Dal 2018, e in particolare durante la pandemia di Covid-19, i VC internazionali sono stati tra i finanziatori più importanti per le aziende tecnologiche israeliane. Questa tendenza è cambiata nel 2022, quando i VC si sono allontanati dagli accordi con le società in portafoglio, che spesso richiedono impegni a lungo termine e ulteriori investimenti, e hanno privilegiato gli investimenti una tantum.
  Secondo Timor Arbel-Sadras, CEO di LeumiTech:  “L’anno è iniziato con un significativo rallentamento degli investimenti, sia in termini di volume che di numero di transazioni. Inoltre, vediamo che il 38% degli investimenti del trimestre è stato effettuato in un numero ridotto di società. È evidente che gli investitori e i fondi esitano ancora a effettuare investimenti o fusioni e acquisizioni. La causa principale è probabilmente l’elevato livello di incertezza sulle valutazioni delle aziende nell’attuale contesto macroeconomico. Prevediamo che nella seconda metà dell’anno assisteremo a livelli più elevati di tali attività e speriamo che questo porti a una nuova crescita nel lungo termine.”

(Israele360, 3 aprile 2023)

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Rav David Lau a Milano: «Solo nell’unità troveremo una strada comune». La cover di Bet Magazine di aprile

Le questioni sul tappeto dell’attualità israeliana oggi, i rapporti tra mondo religioso e mondo secolare, le radici, l’identità ebraica, l’educazione nelle scuole… Parla Rav David Lau, tra le massime autorità religiose d’Israele e dell’ebraismo mondiale, 39° discendente di una grande dinastia ashkenazita e figlio di una leggenda vivente, Rav Israel Lau, sopravvissuto alla Shoah.

di Fiona Diwan e Ester Moscati

Rav David Lau
Un sorriso aperto e gentile, un eloquio pieno di brio, il Rabbino capo Ashkenazita d’Israele rav David Lau, ha fama di sapersi muovere con disinvoltura in contesti sia secolari e chilonì, sia in contesti dalle sfumature ortododosso-religiose tra le più disparate. Figlio di una figura carismatica, una leggenda vivente, quella di Rav Israel Lau sopravvissuto alla Shoah – che lo ha preceduto nella carica di Rabbino capo di Israele -, discendente di una illustre e secolare dinastia di studiosi (ne è il 39° rabbino capo), capace di creare consenso poiché non appartenente a una chassidut specifica, quella di Rav David Lau è una leadership dinastica ma reale, che riesce a mettere d’accordo quasi tutti e ben ancorata nel tessuto sociale israeliano.
  Una figura a suo modo conciliante e per nulla avulsa dalla realtà sociale che lo circonda. Basti un episodio. Con un atto di coraggio e col rischio di inimicarsi l’intero mondo haredì che non ne voleva sapere di chiudersi in casa, ai tempi del lockdown e del Covid 19 Rav David Lau si cimentò con una impresa impossibile: chiese in modo perentorio al mondo religioso, in diretta televisiva, di non più riunirsi in gruppo, di pregare a casa propria e non recarsi più in templi, sinagoghe e case di studio, onde non far esplodere i contagi. Solo il suo appello, finalmente, convinse i più recidivi a starsene tra le quattro mura domestiche, riuscendo nello scopo di svuotare le strade dalle folle di haredim che vi si riversavano per feste o funerali. Ospite oggi della nostra comunità, il Rabbino capo ha visitato i luoghi nevralgici della CEM: Scuola della Comunità, Tempio Centrale, Noam, Scuola Yoseph Tehillot e Merkos … Lo abbiamo incontrato.

- Israele sta vivendo un momento di grave lacerazione interna, il Paese sembra spaccato in due, in balia quasi di un odio gratuito, l’incubo della Sinat Chinam, diviso tra chi reclama una Medinat Yehudit e chi una Medinat Demokratit. Una lacerazione profonda, che indebolisce Israele.
  Sono felice della domanda perché mi permette di chiarire una cosa molto importante. È sbagliato parlare di odio. Essere in polemica, anche in modo aspro, non significa odiare. Bisogna abolire la parola odio, è essa stessa una parola detestabile, pericolosa, da eliminare assolutamente. Inoltre: nella Dichiarazione di Indipendenza d’Israele per ben 17 volte viene usata la parola Yehudit (Ebraica, nel senso di Nazione ebraica) mentre non è mai usata la parola Demokratit. Questo non vuol dire ovviamente che Israele non debba essere uno Stato democratico, ma che la questione centrale è che sia uno Stato ebraico. È fondamentale per l’oggi così come era fondamentale per i padri fondatori. Io sono convinto che la democrazia sia un elemento clou, un elemento ebraico essenziale; credo che alla base della democrazia ci sia un principio talmudico, quello per il quale si deve seguire la regola della maggioranza. D’altra parte non credo che la discussione attuale sia tra Medinat Yehudit e Medinat Demokratit. Non credo che discutere su quanti rappresentanti politici debbano essere nella Commissione che nomina i giudici sia un problema né di democrazia né di ebraismo. Non è nessuna delle due cose: è una discussione politica ed è un problema di opinioni diverse, dal punto di vista politico.

- Rav Lau, lei è solito muoversi anche in contesti laici: è stato Rabbino capo di città come Modiin e Shoaham; suo fratello è Rabbino capo di Nethanya, suo padre, rav Israel Lau, è Rabbino onorario di Tel Aviv, città “laiche”. Siete figure immerse nella realtà d’Israele. Ci sono state 500.000 persone in piazza nell’ultimo mese; che risposta può dare a tutto questo?
  Oggi nella Tefillah ho ripetuto una frase: “che noi si possa meritare di vedere i pregi del nostro prossimo e non i suoi difetti”. Vedere i meriti dell’altro è il presupposto del dialogo perché è fondamentale che ci si parli. Sì, parlarsi. Ma il problema è riuscire a farlo. È molto importante il tentativo che in questo senso sta facendo il Presidente israeliano Isaac Herzog e sono convinto che nel momento in cui questo tentativo andrà in porto si arriverà a una situazione in cui sarà possibile parlare e arrivare all’unità.

- Crede che il tentativo avrà successo?
  Non rientra nel mio ruolo parlare di politica. Ho parlato più volte con il Presidente Herzog e sono convinto che sia un impegno serio e personalmente fornisco tutto il mio sostegno e le mie preghiere affinché questo riesca. Israele è un esempio di democrazia, il fatto stesso che si possa manifestare in piazza lo dimostra. Ci sono state le elezioni, ci sono opinioni diverse, ma sono convinto che si possa trovare la strada per parlarsi.

- Tuttavia, ci sono proposte di legge che sembrano mettere in discussione anche il diritto di manifestare…
  C’è chi ne ha parlato, ma nessuno ha formalizzato queste proposte di legge. C’è chi ha detto che bisognerebbe vietare di bloccare le strade, ma non è una proposta formale e riguarda un periodo successivo a questa crisi.

- Israele appare in questo momento indebolita: oltre alla crisi interna, l’Arabia Saudita ha stretto, sotto l’egida della Cina, un accordo con l’Iran che sembrava impossibile fino a ieri. Come ritrovare l’unità, l’Ahdut, necessaria ad affrontare questo momento? Come si fa a tornare all’unione spirituale del popolo ebraico?
  Io viaggio molto per Israele e incontro persone di gruppi diversi, haredìm e no, chilonim, datiim, laici e religiosi, in ambiti molto differenti. Io penso che la percezione che se ne ha dall’estero sia scorretta e che, viste da fuori, la frattura e la divisione interne siano esagerate. Non vedo, nei luoghi che visito abitualmente, questa divisione. Fra poche settimane leggeremo l’Haggadah di Pesach e diremo: “In ogni generazione vogliono distruggerci ma Hakadosh Baruchu ci salva”. Questo lo leggeremo tutti ed è questo che ci unisce, ci lega, che fa di noi un unicum.

- Cosa pensa del fatto che le materie di “Libà” – matematica, inglese… – non siano più rese obbligatorie nelle scuole religiose in Israele?
  Se c’è un gruppo numeroso di genitori che pensa che questo sia il modo giusto di educare i figli, – senza materie secolari – penso che lo Stato debba tenerne conto. È la via educativa scelta da quei genitori, da quelle famiglie. Lo Stato concede alle famiglie di seguire ciascuna la propria strada educativa; non costringe, non impone una strada educativa univoca, secolare o confessionale che sia. E non mi pare che i risultati siano cattivi. Israele è un Paese in cui alcuni di questi giovani poi entrano nell’esercito, nel mondo del lavoro… e quindi se si sceglie la via della non-costrizione si è dimostrato che funziona.

- Cosa pensa del fatto che questo governo voglia dare più potere alle corti rabbiniche, ai Bate’i Din, rispetto alla Rabbanut centrale?
  Non è così. Una volta, fino a vent’anni fa, chi voleva dirimere questioni economiche poteva farlo anche di fronte a un certo Bet Din, e le relative decisioni avevano un valore legale. Poi questo è stato impedito. Oggi c’è una proposta di legge per tornare a quella situazione in cui, se entrambe le parti sono d’accordo, ci si può rivolgere al piccolo Bet Din anche per controversie economiche e non solo religiose. Nei fatti, molti hanno continuato a rivolgersi al Bet Din in questi anni. Sono sorpreso di come queste notizie escano da Israele in modo parziale e inesatto. C’è un problema di hasbarà.

- Lei finirà tra pochi mesi il suo mandato di Rabbino Capo di Israele. Si ripresenterà?
  Io farò del mio meglio per agire in nome del Cielo e per unire il popolo ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 3 aprile 2023)

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Quattro forme di preghiera

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 7

  1. Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;
  2. perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa.
  3. E qual è l'uomo fra voi, il quale, se il figlio gli chiede un pane gli dia una pietra?
  4. Oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente?
  5. Se dunque voi che siete malvagi, sapete dar buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà Egli cose buone a coloro che gliele domandano!

2 CORINZI 9

  1. Ringraziato sia Dio del suo dono ineffabile!

EFESINI 5

  1. Siate ricolmi di Spirito,
  2. parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore;
  3. ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo;
  4. sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

SALMO 150

  1. Alleluia. Lodate Dio nel suo santuario, lodatelo nella distesa dove risplende la sua potenza.
  2. Lodatelo per le sue gesta, lodatelo secondo la sua somma grandezza.
  3. Lodatelo con il suono della tromba, lodatelo con il saltèrio e la cetra.
  4. Lodatelo con il timpano e le danze, lodatelo con gli strumenti a corda e con il flauto.
  5. Lodatelo con cembali risonanti, lodatelo con cembali squillanti.
  6. Ogni creatura che respira, lodi il Signore. Alleluia.

SALMO 149

  1. Alleluia. Cantate al Signore un cantico nuovo, cantate la sua lode nell'assemblea dei fedeli.
  2. Si rallegri Israele in colui che lo ha fatto, esultino i figli di Sion nel loro re.
  3. Lodino il suo nome con danze, salmeggino a lui con il tamburello e la cetra,
  4. perché il Signore gradisce il suo popolo e adorna di salvezza gli umili.
  5. Esultino i fedeli nella gloria, cantino di gioia sui loro letti.
  6. Abbiano in bocca le lodi di Dio, e una spada a due tagli in mano
  7. per punire le nazioni e infliggere castighi ai popoli;
  8. per legare i loro re con catene e i loro nobili con ceppi di ferro,
  9. per eseguir su di loro il giudizio scritto. Questo è l'onore riservato a tutti i suoi fedeli. Alleluia.

ESODO 32

  1. 1 Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: «Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto».
  2. E Aaronne rispose loro: «Staccate gli anelli d'oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie, e portatemeli».
  3. E tutto il popolo si staccò dagli orecchi gli anelli d'oro e li portò ad Aaronne.
  4. Egli li prese dalle loro mani e, dopo aver cesellato lo stampo, ne fece un vitello di metallo fuso. E quelli dissero: «O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!»
  5. Quando Aaronne vide questo, costruì un altare davanti al vitello ed esclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore!»
  6. L'indomani, si alzarono di buon'ora, offrirono olocausti e portarono dei sacrifici di ringraziamento; il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi.

APOCALISSE 4

  1. E le quattro creature viventi avevano ognuna sei ali, ed erano coperte di occhi tutt'intorno e di dentro, e non cessavano mai di ripetere giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene».
  2. Ogni volta che queste creature viventi rendono gloria, onore e grazie a colui che siede sul trono, e che vive nei secoli dei secoli,
  3. i ventiquattro anziani si prostrano davanti a colui che siede sul trono e adorano colui che vive nei secoli dei secoli, e gettano le loro corone davanti al trono, dicendo:
  4. «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà esistono e furono create».

APOCALISSE 5

  1. E vidi, e udii la voce di molti angeli intorno al trono, alle creature viventi e agli anziani; e il loro numero era di miriadi di miriadi e di migliaia di migliaia.
  2. Essi dicevano a gran voce: «Degno è l'Agnello, che è stato immolato, di ricevere la potenza, le ricchezze, la sapienza, la forza, l'onore, la gloria e la lode».

    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
gennaio 2008



 
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Israele sorride

Nonostante attentati e proteste, lo stato ebraico cresce in popolazione e non è mai stato più in salute, più ricco e più felice. Batte ogni record.

di Giulio Meotti

Ogni anno Israele aggiunge 140 mila nuovi cittadini, il due per cento della popolazione totale. L’aliyah, l'immigrazione ebraica, è da record L'Iran è in una crisi nera, la Siria non esiste come stato funzionante, l'Egitto è un solido alleato, la Giordania è un protettorato
Israele è ai vertici della libertà economica mondiale e tra i primi per "unicorni" e brevetti. L'innovazione è il motore del paese ''Nella loro preoccupazione per la decadenza della civiltà e nel loro orgoglio, gli israeliani hanno qualcosa da insegnare al mondo"

Lo Stato islamico aveva annunciato che “nel 2022 avranno fine i quarant’anni di pace di Israele”. “Entro il 2022, Israele sarà distrutto”, declamava Hassan Azghadi del Consiglio supremo iraniano per la rivoluzione, il braccio destro di Ali Khamenei. Il ministro dell’Interno di Hamas, Fathi Hamad, aveva detto che i palestinesi avrebbero liberato tutta la Palestina “entro il 2022”. Siamo nel 2023 e Israele non è mai stato più in salute. Questo fazzoletto di terra poco più grande della Lombardia è l’unico stato la cui esistenza è messa apertamente in discussione, al sud ha Hamas, a nord Hezbollah e nel mezzo i palestinesi, sempre più impazienti di accoltellare e sparare ai sionisti. A sinistra l’unico confine tranquillo: il Mediterraneo, dove in tanti dal 1948 vorrebbero far rotolare tutti gli ebrei. Eppure, Israele, all’indomani di una nuova ondata terroristica e proteste mai viste nella sua storia, appare come beato.
  Parlando con il giornale Maariv, uno degli ultimi capi del Mossad, Tamir Pardo, ha detto che “Israele non ha più nemici esistenziali”. Tsahal, per dirla con il generale Amos Yadlin, è l’esercito più potente in un arco che va “da Marrakesh al Bangladesh”. La società israeliana è soddisfatta, con percentuali quasi bulgare, anche quando riempie le strade per protestare contro la riforma della giustizia. Un sondaggio del Pew Center ha rivelato che il 59 per cento degli israeliani è contento del proprio paese, contro, ad esempio, il 33 per cento degli americani (per non parlare dei depressi europei).
  Se si confrontano i tassi di fertilità e di suicidi di Israele con quelli di tutti gli altri paesi industrializzati, lo stato ebraico sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Il tasso di fertilità ebraica di Israele è superiore a quello di tutti i paesi musulmani tranne l’Iraq e i paesi subsahariani. Il numero di nascite di ebrei israeliani nel 2022 (137.566) è stato superiore del 71 per cento rispetto al 1995 (80.400). Ogni anno Israele aggiunge 140 mila nuovi cittadini, il due per cento della popolazione totale. L’aliyah, l’immigrazione ebraica nel paese, sta vivendo numeri record. Un tempo isolato e assediato nella regione, oggi Israele ha rapporti diplomatici anche con Emirati arabi, Bahrain e Marocco, tutti ex membri del “fronte del rifiuto”, e tiene relazioni non ufficiali ma sempre più solide anche con l’Arabia Saudita, che potrebbe essere la prossima a entrare negli “accordi di Abramo”. Senza dimenticare l’accordo sul confine marittimo raggiunto tra Israele e Libano, due paesi che non si riconoscono. E nel 2023 potrebbe arrivare la firma definitiva sull’accordo con il Sudan.
  Il paese ha abbandonato lo slogan “land for peace” che ha arrecato tanti danni alla deterrenza, dagli attentati suicidi post-Oslo (1.500 morti israeliani) alla presa di Gaza da parte di Hamas dopo il ritiro dei coloni e la cacciata dell’Autorità palestinese. Con l’Autorità palestinese della Cisgiordania è stata trovata una sorta di “pace fredda”: Israele ne ha bisogno per non tornare a dover gestire un milione e mezzo di arabi, come avveniva prima del 1995, e i palestinesi hanno bisogno di Israele per essere protetti da Hamas e dalla Jihad islamica, o finirebbero come a Gaza, dove un golpe islamico li trascinò dalle finestre e per le strade non appena Israele si ritirò. Gaza continua a essere una spina nel fianco con il lancio ciclico di missili (le guerre del 2009, 2012, 2014 e così via), ma fra lo scudo Iron Dome e la resilienza israeliana (nessun kibbutz o moshav al confine ha mai chiesto di fare le valigie), Hamas non è in grado di costituire una minaccia esistenziale. I due storici capi dell’organizzazione – Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh – si godono la vita nelle dune di Doha, in Qatar, mentre il leader a Gaza, Yahya Sinwar, deve nascondersi sottoterra. L’Iran è alle prese con una ribellione interna senza precedenti, una spaventosa crisi demografica, civile e sociale. L’allora primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, il 26 gennaio 1993 annunciò alla Knesset: “L’Iran è un pericolo strategico per lo stato d’Israele”. Israele ha lavorato perché gli ayatollah non arrivassero mai alla “bomba di Allah”, come il Pakistan. Hezbollah ha un arsenale di 120 mila missili, ma appare in crisi fra l’autodistruzione economica e sociale del Libano e il fiato corto dei suoi capi a Teheran. In futuro Israele si vedrà forse costretto a tornare a Bint Jbeil, il villaggio teatro di una delle più dure battaglie fra Israele e Hezbollah nel 2006. Superato il pericolo di una rivoluzione islamica dei Fratelli musulmani, l’Egitto è oggi un solido alleato d’Israele. La Giordania di tanto in tanto fa la voce grossa sullo status quo e il Monte del Tempio a Gerusalemme, ma è una specie di protettorato occidentale e Israele lo ha armato. La Siria, un paese che provò a distruggere Israele nel 1967 e nel 1973, non esiste più come stato funzionante.
  Israele ha sempre avuto la sfortuna di essere uno dei pochi paesi del medio oriente senza pozzi di petrolio e gas. Ora la produzione di gas naturale di Israele è aumentata del 22 per cento nella prima metà dell’anno, poiché il governo prevede di aumentare le esportazioni che raggiungeranno l’Europa, dove è in corso la peggiore crisi energetica degli ultimi decenni. La produzione è salita a 10,85 miliardi di metri cubi su base annua fino a giugno, con le esportazioni verso i vicini di Israele in aumento del 35 per cento a 4,59 miliardi di metri cubi. Gran parte di questo aumento è dovuto alla produzione dai bacini di Tamar e Leviathan nel Mediterraneo orientale. Quando venne scoperto nel 2009 il giacimento che si trova a 130 chilometri a ovest di Haifa, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu disse: “Questo è il giorno dell’indipendenza energetica d’Israele. Un vero evento storico: Israele ha conseguito la libertà energetica”. Il paese, che è per più della metà deserto, da sempre colpito dalla siccità e afflitto da carenze idriche, è diventato una nazione che ora produce il venti per cento di acqua in più del necessario. Organizzazioni israeliane come Mashav e Arava diffondono l’esperienza, le tecnologie e le strategie politiche di Israele con le comunità vicine e lontane che soffrono di crisi idriche endemiche. Basti pensare che dal 1964 al 2013, la popolazione israeliana è quadruplicata, ma il consumo di acqua è rimasto invariato. Oggi Israele è leader mondiale nel trattamento dei problemi idrici ed esportatore di sofisticati sistemi per la gestione delle risorse idriche. E’ riuscito a trattare e riciclare l’86 per cento delle sue acque reflue per operazioni agricole, leader mondiale nel recupero. Seconda a Israele è la Spagna, che ha riciclato solo il 17 per cento delle sue acque reflue.
  La democrazia israeliana è sana (è appena arrivato anche un giudice islamico alla Corte suprema), le piazze sono piene (alle manifestazioni contro Netanyahu si alzavano slogan contro il “Sesto Reich” e bandiere dell’Olp), la stampa critica e gli scrittori i soliti eresiarchi.
  Il movimento di boicottaggio e disinvestimento causa ancora qualche danno alla reputazione israeliana, specie nei campus americani, in qualche consiglio comunale irlandese o norvegese e nelle redazioni dei giornali occidentali, ma è sostanzialmente poca cosa. Ci sono alcuni casi di azione aziendale e governativa, come la decisione della fondazione che gestisce il gelato Ben & Jerry di non vendere più i suoi prodotti negli insediamenti della Cisgiordania. Alcuni anni fa c’è stata una polemica su SodaStream, che aveva una fabbrica nei territori palestinesi. E l’Unione europea richiede che i prodotti realizzati negli insediamenti israeliani siano etichettati come prodotti della Cisgiordania, non di Israele. Ma a parte questo, la normalizzazione di Israele nel mondo è completa. Dei duecento paesi del mondo, oltre 160 hanno piene relazioni con Israele, inclusi sei membri della Lega araba. Delle due dozzine che non li hanno, la metà sono paesi arabi, ma anche tra quelli ci sono zone grigie. Nel 2021, Qatar e Israele hanno firmato un accordo che consente ai commercianti di diamanti israeliani di operare a Doha e i diplomatici del Qatar sono i principali interlocutori con gli israeliani a Gaza. L’Arabia Saudita è una parte virtuale degli Accordi di Abramo. Se così non fosse, sarebbe impossibile volare con la compagnia aerea israeliana El Al da Dubai a Tel Aviv in tre ore e un rappresentante delle forze di difesa israeliane non sarebbe inviato nella capitale del Bahrain, Manama. E nel 2018, l’allora primo ministro israeliano Netanyahu non avrebbe visitato l’Oman in un viaggio poi non così segreto. Quei paesi che non hanno fatto i conti con Israele includono Iran, Indonesia, Bangladesh, Malesia, Pakistan, Corea del Nord, Cuba e Venezuela. Israele sopravvivrà anche senza di loro.
  Certo, Israele subisce infinite critiche alle Nazioni Unite, ma da quando l’Assemblea generale, il Consiglio per i Diritti umani o l’Unesco hanno un impatto sulla condotta degli affari globali? Mai.
  Il 33 per cento di tutti gli “unicorni” della sicurezza informatica – aziende private del valore di oltre un miliardo di dollari – sono israeliani, più di 70, e il 40 per cento degli investimenti globali nella sicurezza informatica è nel paese. Il suo reddito pro capite è ora superiore a quello della Gran Bretagna. Israele è il leader mondiale nel settore. Gli israeliani sopravviveranno anche senza poter vedere Roger Waters esibirsi a Tel Aviv.
  Israele si colloca al ventiseiesimo posto nell’Indice di libertà economica, appena sotto Giappone, Corea del Sud e Austria, e appena sopra Repubblica Ceca, Norvegia e Germania. In confronto, i suoi vicini si classificano molto più in basso: Giordania 69, Egitto 130, Libano 154; e Siria, non classificata. Il paese si è classificato al quarto posto come economia con le migliori prestazioni Ocse nel 2022. Le esportazioni cresceranno al massimo record di 160 miliardi quest’anno. Si prevede che l’economia israeliana crescerà a un tasso del 6,3 per cento, dopo la sua espansione ancora più rapida dell’8,1 per cento nel 2021, l’anno della ripresa dalla pandemia, il momento in cui Israele ha avuto la sua più forte crescita in vent’anni. A causa del declino del debito, è l’unico paese occidentale il cui rating è sempre aumentato dal 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime. Quando fu sottoscritto il trattato di Maastricht, i debiti di Israele erano il cento per cento del pil. Un rapporto di Deloitte&Touche ha dimostrato che in sei campi chiave – telecomunicazioni, microchip, software, biofarmaceutica, dispositivi medici ed energia pulita – Israele è secondo solo agli Stati Uniti per innovazione.
  Ma la compiacenza è un lusso che il paese non può permettersi. Quest’anno sono i cinquant’anni dalla guerra dello Yom Kippur. Durante il giorno ebraico più sacro, mentre le famiglie israeliane si trovano al tempio o in casa, digiune e in preghiera, lo stato ebraico venne attaccato da nord e da sud e a malapena riuscì a svincolarsi dalla tenaglia. Un trauma profondo. Per ore, nel caos più totale, le riserve non vennero mobilitate, il fronte islamico si spostava in avanti senza ostacoli, Abba Eban evocava una “nuova Pearl Harbor”. Tremila i morti israeliani. La guerra e l’espiazione. Nessuno prese sul serio i movimenti di truppe sul canale e sul Golan. Dopo la vittoria per disperazione, la gente apparve più matura, come dopo una malattia. Da allora, la possibilità di sparire, di fare le valigie, è sempre in un angolo della coscienza di ogni israeliano. Intanto si vive come se si fosse in un paese normale. E come scrisse Saul Bellow, “nella loro preoccupazione per la decadenza della civiltà e nel loro orgoglio, gli israeliani hanno qualcosa da insegnare al mondo”. Nei giorni scorsi la notizia che Israele è salito al quarto posto della lista dei paesi più felici del mondo. Lo stato ebraico ha insegnato al mondo che si vive benissimo anche ai piedi di un vulcano.

Il Foglio, 1 aprile 2023)

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