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Notizie 1-15 aprile 2025


Palermo – Al via i lavori della sinagoga

Sorgerà nei locali dell'ex Oratorio di Santa Maria del Sabato

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Hanno preso il via in queste ore i lavori per la realizzazione di una sinagoga a Palermo nei locali dell’ex Oratorio di Santa Maria del Sabato, concesso in comodato gratuito dall’Arcidiocesi locale nel 2017 agli ebrei palermitani. Lavori coperti per intero dall’amministrazione cittadina e che trasformeranno l’edificio in uno spazio destinato ad accogliere il culto ebraico, come prevede un accordo sottoscritto lo scorso dicembre assieme a Ucei e Comunità di Napoli.
  All’apertura del cantiere con la consegna delle chiavi alla ditta incaricata del restauro e del sito sono intervenuti tra gli altri il sindaco Roberto Lagalla, l’arcivescovo Corrado Lorefice, la presidente Ucei Noemi Di Segni, il rabbino capo di Napoli Cesare Moscati e Luciana Pepi, referente della Sezione palermitana della Comunità partenopea. Erano inoltre presenti alcuni esponenti della chiesa valdese, della comunità islamica e di altre confessioni religiose. «Palermo si riappropria di una propria caratteristica storica e millenaria che è quella della convivenza civile, della tolleranza e dell’integrazione», ha dichiarato tra gli altri il primo cittadino.
  Non nasconde l’emozione Pepi, che è anche presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici: «È un passaggio importante, in un momento storico difficile su tutti i fronti. Anche il dialogo ebraico-cristiano ha risentito degli effetti del 7 ottobre e noi oggi stiamo lanciando un messaggio di speranza, volto alla ripresa di un confronto costruttivo». Anche l’Istituto troverà casa nella sinagoga «e questo è senz’altro un valore aggiunto».
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La sinagoga sorgerà in un’ex oratorio cattolico, ma l’area è comunque quella dell’antico quartiere ebraico. «Lo sappiamo da fonti certe. Come diari e testimonianze di viaggio, a partire da quella redatta dal rabbino Ovadià Bertinoro (1455 – 1516)», spiega Pepi. A detta dell’illustre ospite, che trascorse vari mesi a Palermo in attesa di proseguire verso la Terra d’Israele, «non aveva pari in tutto il mondo; i pilastri di pietra nel cortile esterno sono circondati da vigneti, il vestibolo dispone di tre ingressi e un portico in cui ci sono grandi sedie per il riposo, e una splendida fontana». E se i vigneti forse non torneranno, qualcosa di quel retaggio tornerà a popolare l’orizzonte dei palermitani. Già un saggio del 2021 su “Il risveglio dell’ebraismo Palermo”, pubblicato dalla Rassegna Mensile di Israel, Pepi scriveva che «la sopita e antica anima ebraica della Sicilia sta pian piano riprendendo forma». In un futuro prossimo avrà di nuovo una sinagoga per esprimersi con un potenziale ancora più grande.

(moked, 15 aprile 2025)

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In migliaia partecipano alla Birchat Koanim al Muro Occidentale

di Michelle Zarfati

Decine di migliaia di persone si sono riunite al Muro Occidentale di Gerusalemme questa mattina per partecipare alla preghiera e alla tradizionale cerimonia della Birchat Koanim che annualmente avviene nei giorni di Kol hamoed di Pesach. L’evento ha segnato un’occasione significativa per la riflessione religiosa e nazionale, sullo sfondo del conflitto in corso. La cerimonia ha incluso la partecipazione dei rabbini capo di Israele, il rabbino Kalman Bar e il rabbino David Yosef, insieme a Shmuel Rabinowitz, rabbino del Muro Occidentale. Presenti anche migliaia di Koanim e decine di migliaia di fedeli. L’evento è stato trasmesso in diretta, per gentile concessione della Western Wall Heritage Foundation.
  Una cerimonia simile è prevista per mercoledì, con partecipanti molto attesi tra cui ex ostaggi e famiglie di coloro che sono ancora detenuti prigionieri da Hamas, assieme a soldati dell’IDF feriti durante la guerra in corso. Durante la cerimonia, i partecipanti hanno pregato e ricevuto benedizioni due volte – durante le preghiere di Shacharit e Musaf. Alla luce del conflitto in corso e della speranza per il ritorno degli ostaggi, una preghiera speciale seguirà il servizio di Musaf. Ulteriori preghiere saranno dedicate poi per la sicurezza dei soldati IDF, la guarigione dei feriti e per la pace e l’unione tra il popolo di Israele. La cerimonia sarà anche caratterizzata da un evento molto atteso a cui parteciperanno i rabbini capo di Israele. Oltre alle preghiere, i siti del Muro Occidentale saranno aperti al pubblico durante i giorni intermedi di Pesach.

(Shalom, 15 aprile 2025)

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Roma – Museo ebraico Lecce propone due mostre per “Mediterraneo di pace”

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Due mostre interculturali per promuovere “un Mediterraneo di pace”. È la proposta del Museo ebraico di Lecce, in trasferta a Roma per inaugurare due esposizioni nella Sala del Cenacolo di Palazzo Montecitorio: “La Puglia crocevia del Mediterraneo – Mobilità di uomini, merci e culture”, curata dal direttore del museo Fabrizio Lelli insieme a Fabrizio Ghio; ed “Errare, perseverare, sopravvivere”, personale dell’artista ebrea americana Lenore Mizrachi-Cohen curata da Fiammetta Martegani. Se nella prima si racconta il fattore della mobilità dei popoli «per la costruzione e la comprensione della Puglia di oggi», nella seconda l’attenzione si sposta sulle opere di questa artista di origine siriana, cresciuta in una famiglia in cui l’arabo è rimasta lingua di formazione e dialogo. Proprio dall’arabo e dalla sua suggestiva calligrafia Mizrachi-Cohen attinge nelle sue opere per affrontare il tema dell’erranza. Un modo per lei per significare «il dolore del suo popolo eternamente sradicato», sottolinea Martegani, antropologa milanese trapiantata a Tel Aviv e curatrice per l’arte contemporanea del museo leccese. Un discorso valido «non soltanto per la Siria dalla quale i suoi genitori scapparono, ma anche per la Puglia che secoli fa cacciò i suoi ebrei e oggi anche per Israele, con il 7 ottobre e gli ostaggi sequestrati a Gaza».
  Per il Museo ebraico di Lecce la tappa romana è un appuntamento importante, anche a livello simbolico, a nove anni dall’inaugurazione. Una storia iniziata dalla scoperta casuale di un mikveh, un bagno rituale ebraico, nell’ambito di un’iniziativa edilizia nell’area dell’ex giudecca di Lecce. Si è così scoperto che in quell’edificio sorgeva in passato una sinagoga e proprio qui si è deciso di fondare un museo dedicato al retaggio dell’ebraismo leccese e pugliese. Per Martegani, spiega lei stessa, scoprirlo è stato come un colpo di fulmine.
  Tutto è iniziato nel 2021, quando il museo ospitò un suo allestimento dedicato alle vicende dell’aliyah bet: la migrazione degli ebrei scampati alla Shoah verso le coste del nascente Stato d’Israele, con un particolare focus sui campi profughi pugliesi. «In quanto esperta di arte contemporanea, mi offrii di trasformare uno dei due ambienti in una sala per valorizzare alcuni artisti israeliani», spiega Martegani.
  Quattro le mostre finora da lei curate. Tra cui il progetto “Shades of Israel”, con dodici artisti protagonisti sul territorio regionale nei primi giorni di ottobre del 2023. Poche ore dopo Hamas avrebbe scatenato il suo massacro e tra le sue conseguenze indirette ci sarebbe stato il crollo del turismo da e per Israele. Il finanziamento erogato da Pugliapromozione AReT, collegato al turismo israeliano verso la Puglia, è oggi sospeso e quindi l’attività in quest’ambito prosegue di fatto «in assenza di contributi, a costo zero». Ciò nonostante, lo scorso 27 gennaio “Errare, perseverare, sopravvivere” è arrivata a Lecce. E da oggi, per una settimana, sarà in Parlamento. a.s.

(moked, 15 aprile 2025)

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IDF: ucciso un terrorista di Hamas coinvolto nel massacro del 7 ottobre

Hamza Asafah, che ha preso parte al massacro e ha inscenato eventi di rilascio, è stato eliminato in un attacco aereo di precisione nel centro di Gaza due settimane fa.

di Joshua Marks

Le Forze di Difesa Israeliane e l'Agenzia di Sicurezza Israeliana (Shin Bet) hanno ucciso il terrorista di Hamas Hamza Wael Muhammad Asafah in un attacco aereo di precisione nel centro di Gaza due settimane fa, hanno dichiarato martedì le agenzie.
Asafah, un membro anziano della Forza Nukhba nel Battaglione Deir al-Balah di Hamas, si era infiltrato in territorio israeliano durante il massacro del 7 ottobre 2023 e successivamente aveva partecipato alle cerimonie di liberazione degli ostaggi utilizzate da Hamas per scopi propagandistici. L'IDF ha dichiarato che era coinvolto nella restituzione degli ostaggi Eli Sharabi, Ohad Ben-Ami e Or Levy.
L'operazione congiunta IDF-Shin Bet è stata condotta dopo un'ampia raccolta di informazioni e una sorveglianza aerea per ridurre al minimo i danni ai civili.
“L'organizzazione terroristica di Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale, utilizzando infrastrutture e popolazioni civili come scudi umani”, si legge nella dichiarazione. “L'IDF e lo Shin Bet continueranno ad operare per proteggere lo Stato di Israele”.

(JNS, 15 aprile 2025)

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Un agente dello Shin Bet arrestato per divulgazione di documenti riservati

L'agente di sicurezza avrebbe trasmesso informazioni sensibili al ministro del Likud e alla stampa.

L'arresto di un riservista dello Shin Bet (Servizio di sicurezza interna israeliano) sospettato di aver divulgato informazioni riservate al ministro Amichaï Shikli e a due giornalisti sta suscitando una forte controversia in Israele. Il ministro della Diaspora ha difeso con forza l'agente in questione, definendolo un “eroe d'Israele” e un “informatore”. “Ha rivelato che, nel bel mezzo della guerra, il capo del Servizio di sicurezza interna stava spiando ossessivamente un ministro in carica”, ha dichiarato Shikli. ‘Ha anche rivelato che gli estratti del rapporto dello Shin Bet sulle circostanze dell'inizio della guerra presentano un'immagine fuorviante e distorta’.
  Secondo i dettagli resi pubblici, il Dipartimento di indagine sulla polizia (Machash) ha recentemente aperto un'indagine contro questo riservista, sospettato di aver trasmesso documenti interni al ministro Shikli e ai giornalisti Amit Segal e Shirit Avitan-Cohen. Questi documenti rivelerebbero in particolare che lo Shin Bet avrebbe condotto un'indagine su una possibile “infiltrazione kahanista” all'interno della polizia israeliana. Il ministro ha criticato aspramente il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, e il consigliere legale del governo, Gali Baharav-Miara: “Nessuna delle informazioni divulgate corrisponde alla definizione di materiale segreto o che presenta un rischio per la sicurezza nazionale - al contrario, è la mancata divulgazione di questi documenti ai responsabili politici e al pubblico che costituisce una minaccia”.
  Anche altri membri del governo hanno attaccato i responsabili della sicurezza. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha definito il caso un “vero e proprio colpo di stato”, mentre il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha parlato di “criminali che oltrepassano ogni limite”. Gli avvocati dell'indiziato, che avrebbe lavorato “per decenni” per lo Shin Bet, affermano che il loro cliente “ha trasmesso informazioni di capitale importanza pubblica, facendo attenzione a non divulgare informazioni di sicurezza”. Denunciano l'uso di “strumenti draconiani” contro un uomo che ha “collaborato pienamente fin dall'inizio”.

(i24, 15 aprile 2025)

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Come la memoria non vendicativa ha salvato il popolo ebraico dalla sua stessa Storia

Il popolo d’Israele che esce dall’Egitto non cerca vendetta contro i suoi oppressori, ma guarda avanti verso la Terra Promessa. Questa visione è in contrasto con l’ethos dei nostri nemici, adottato dall’Occidente progressista, che si crogiola nel passato e perpetua la schiavitù e la condizione di profugo.

di David Kurtzweil

Il fenomeno della schiavitù è antico quanto l’umanità. Testimonianza di ciò si trova non solo nella Torà, che tratta la schiavitù come una realtà conosciuta e familiare, ma anche nell’antico Oriente. Già nel Codice di Hammurabi, del XVIII secolo a.C., vi sono leggi che regolavano i diritti degli schiavi. 2.300 anni dopo Hammurabi, anche il diritto romano sancì la schiavitù nella legge. Questa legislazione costituì la base per la continuazione della schiavitù anche nel periodo post-classico. L’abolizione della schiavitù è stata una conquista tardiva del mondo moderno, e di fatto nella costituzione americana la schiavitù fu vietata solo a metà del XIX secolo.
Ogni popolo ha la sua storia di schiavitù; per alcuni è una storia di padroni, per altri di servi. La cultura mondiale è piena di storie di schiavi. La maggior parte di esse si è conclusa in tragedia, in alcune il destino degli schiavi è migliorato e hanno ottenuto la libertà. Il famoso libro di Harriet Beecher Stowe, “La capanna dello zio Tom“, che descrive le sofferenze degli schiavi e le torture che hanno subito, fu pubblicato per la prima volta nel 1852, fece scalpore e ottenne subito un’eco straordinaria. Alcuni dubitarono del grado di verità e autenticità delle descrizioni, ritenendo che la stimata scrittrice avesse dato ali alla sua immaginazione creando un dramma dal nulla. Tuttavia, circa un anno dopo la pubblicazione del libro, uscì l’autobiografia dello schiavo liberato Solomon Northup, “12 anni schiavo“, che confermò di prima mano la maggior parte delle descrizioni de “La capanna dello zio Tom”. Tra gli storici americani è comune ancora oggi considerare il libro “12 anni schiavo” un documento attendibile di valore storico.
L’Haggadà di Pesach è anch’essa una storia di schiavitù, la schiavitù del popolo ebraico e la storia della sua liberazione. Anche nella storia della schiavitù ebraica ci sono descrizioni di torture e tirannie dei padroni, e nelle parole dell’Haggadah: “Gli egiziani ci maltrattarono e ci afflissero“. Ispirandosi al libro di Northup, si potrebbe intitolare l’Haggadah anche come “210 anni di schiavitù“. In questo articolo vorrei evidenziare una distinzione che caratterizza la storia della schiavitù ebraica rispetto alle altre storie di schiavitù universali. Grazie a questa distinzione, vorrei illuminare un ulteriore aspetto del significato della notte del Seder e indicare anche un collegamento attuale.

La scoperta di Colombo
   María Magdalena Campos-Pons è un’artista pluripremiata, nata a Cuba ed emigrata negli Stati Uniti. Campos-Pons discende da una famiglia di schiavi neri. Come portatrice di un’eredità familiare di schiavitù, la questione della schiavitù ha trovato un’espressione significativa nelle sue opere. In questi giorni si tiene una mostra dei suoi lavori al museo Paul Getty in California. Per la pubblicità della mostra è stata scelta una delle sue opere più espressive e potenti. Si tratta di un’opera del 2003 intitolata “The Calling“. Quest’opera è un dittico che mostra una donna nera con piccole linee bianche su tutta la pelle e il viso. Queste linee creano l’associazione con una malattia della pelle o forse con ustioni, non nere né rosse ma bianche. L’impressione che emerge da questa immagine è di una critica forte e acuta al ruolo dell’uomo bianco nella vita dei neri. Secondo questa interpretazione, nell’esperienza dell’uomo nero, l’uomo bianco è come una malattia che lo colpisce.
Anche se non era questa l’intenzione dell’artista, queste sono le correnti che oggi soffiano da movimenti come Black Lives Matter. Nella cultura americana contemporanea soffiano venti cattivi che fanno i conti con il difficile passato anche attraverso la violenza, il silenzio e pretese di supremazia della razza nera. La lotta contro il fenomeno storico della schiavitù e la repulsione verso chiunque vi fosse coinvolto trovano sfogo anche nella distruzione e nella demolizione di statue e monumenti di chiunque sia considerato problematico da questi movimenti. In un’atmosfera culturale del genere, era prevedibile che si spolverasse il libro “12 anni schiavo” e lo si trasformasse nel 2013 in un film. Nel 2019 il New York Times ha fatto di più con il “Progetto 1619” (l’anno dell’arrivo dei primi schiavi neri in America), che cerca di fare della schiavitù il cuore dell’esperienza americana. Parallelamente, si sono sentite sempre più richieste da parte dei neri per ricevere un risarcimento per la schiavitù dei loro antenati storici, fino a quando alla Camera dei Rappresentanti americana, sotto il controllo dei Democratici, sono iniziate le procedure per esaminare una proposta di legge per il risarcimento della schiavitù.
Non c’è dubbio che il fenomeno della schiavitù sia spregevole e riprovevole; non c’è dubbio anche che la discriminazione razziale contro l’uomo nero sia un marchio di infamia per la società umana. In effetti, anche ai nostri giorni dobbiamo schierarci fermamente contro ogni manifestazione di razzismo. Tuttavia, la domanda è come dovremmo affrontare nel presente ingiustizie e fenomeni riprovevoli avvenuti nel passato, tenendo presente che sia gli esecutori che le vittime non sono più in vita.
Come detto, nella società americana esistono correnti importanti che scelgono di cancellare ogni traccia storica di chi considerano riprovevole. Così, ad esempio, il “Columbus Day” è una delle festività federali ufficiali negli Stati Uniti. Questa festa, celebrata da molti anni, esalta il giorno della scoperta dell’America nel 1492 da parte di Colombo. Ma ora, nei venti progressisti, tra molti che in passato lo celebravano cresce la tendenza a cancellare questa festa e ogni suo riferimento, trasformandola nel “Giorno dei nativi americani“. La loro idea è che l’arrivo di Colombo ha causato l’uccisione degli indigeni che vivevano già da tempo nel continente. Così, Colombo è diventato agli occhi di molti una persona non grata, e persino la sua statua a Richmond, in Virginia, è stata data alle fiamme e gettata in un lago. Se in passato Colombo ha scoperto l’America, molti americani sentono di aver ora scoperto Colombo.

Un regolamento di conti senza fine
   Se lasciamo l’America e torniamo nel nostro quartiere, i nostri vicini gridano alla “Nakba” fatta ai loro padri quasi ottant’anni fa. Anche se adottassimo per amore della discussione la falsa narrativa araba, si porrebbe comunque loro la stessa domanda nazionale e sociale a cui ogni popolo deve rispondere: come è giusto affrontare nel presente le calamità del passato? I palestinesi hanno sempre agito come i nuovi progressisti. Cercano di congelare per sempre il passato e di farlo dominare sul presente e sul futuro. Ecco perché perpetuano lo status di profughi fino alla fine dei tempi.
Nell’antica Repubblica Romana si verificarono tre guerre di schiavi, la più famosa delle quali è la guerra dei gladiatori guidata da Spartaco. Lo storico Prof. Keith Bradley sostiene nei suoi studi che la motivazione iniziale delle guerre fosse la vendetta. Nel periodo moderno, la rivolta documentata degli schiavi iniziò all’inizio del XVI secolo. Gli schiavi che riuscirono a fuggire dai loro padroni si unirono in comunità chiamate comunità cimarroni. Anche tra le comunità cimarroni ci furono fenomeni di vendetta, non necessariamente diretti contro i diretti responsabili.
Di fronte ai numerosi movimenti sociali negli Stati Uniti che oggi trasformano la storia della schiavitù come un conto aperto con l’uomo bianco, di fronte alle guerre degli schiavi e alle comunità cimarroni che dopo la loro liberazione agirono per vendicarsi, e soprattutto di fronte a fenomeni universali di continue rese dei conti con ingiustizie passate i cui autori non sono più tra noi, e il conto viene fatto con discendenti innocenti – arriva la storia dell’Haggadà di Pesach che propone un’alternativa diversa.
Il popolo ebraico ha sofferto in Egitto una dura schiavitù durata centinaia di anni, e alle sue levatrici fu ordinato di gettare i suoi figli nel Nilo. Nonostante ciò, quando il popolo ebraico esce dall’Egitto, cancella di fatto la storia egiziana come un conto nazionale aperto. Gli schiavi in uscita non perpetuano la loro condizione di profughi. Non sono vittime eterne; sono un popolo vivo con gli occhi rivolti a un futuro luminoso.
Non solo l’Haggadà non chiama a una vendetta eterna contro l’Egitto, ma la Torà impone persino un comandamento sorprendente contrario a ogni intuizione umana, e degno di attenzione: “Non avrai in abominio l’Egiziano, perché sei stato straniero nella sua terra” (Deuteronomio 23, 8). L’Haggadà inoltre non incoraggia la demolizione delle piramidi egiziane, nonostante il loro simbolismo. Agli angeli che volevano cantare quando gli egiziani annegarono nel Mar Rosso, il Santo, benedetto sia, disse: “Le opere delle mie mani stanno annegando nel mare e voi volete cantare?” (TB Sanhedrin 39a). La Torà inoltre proibisce addirittura di tornare in Egitto.
La storia degli schiavi ebrei crea un ethos secondo cui dalla crisi della schiavitù, e in effetti da ogni crisi, bisogna alzarsi e costruire e non crogiolarsi in essa per sempre. Il Talmud racconta che dopo la distruzione del Secondo Tempio, a causa dei profondi sentimenti di lutto e dolore, molti smisero di mangiare carne e bere vino, ma Rabbi Yehoshua discute con loro e ordina di non comportarsi così (TB Bava Batra 60b). Nelle sue parole e nelle sue motivazioni, Rabbi Yehoshua ribadisce l’ethos ebraico secondo cui anche in un momento di crisi, gli occhi sono sempre rivolti alla costruzione e al progresso, poiché crogiolarsi nel passato è una negazione e cessazione della vita. Anche il comandamento amorfo di cancellare Amalek viene spostato a un punto temporale utopico dopo il completamento dell’insediamento nella terra e la sconfitta di tutti i nemici. In altre parole, il progresso e la costruzione precedono la cancellazione di Amalek.

Ricordare e dimenticare
   La memoria della storia dell’uscita dall’Egitto è fondamentale nella legge e nel pensiero ebraico. Ma questo ricordo è indirizzato solo a un pensiero costruttivo di ricordare i miracoli fatti al popolo d’Israele e di educare l’uomo alla compassione e all’amore per lo straniero, perché siamo stati stranieri in terra straniera. Il progetto di memoria ebraico nel suo complesso è destinato solo all’apprendimento di lezioni e intuizioni morali (come spiega anche il Chafetz Chaim nel suo testo Mishnà Berurà, all’inizio delle leggi del 9 di Av e degli altri digiuni). Nessun ricordo è indirizzato a sentimenti di rabbia o violenza, né all’oppressione nel presente. Il comandamento dell’Haggadà che in ogni generazione ogni persona deve vedere se stessa come se fosse uscita dall’Egitto, è destinato a produrre un valore educativo e imporre all’uomo obblighi morali, non a inculcare in lui un senso di vittima o incoraggiarlo a combattere contro i discendenti degli egiziani per correggere il torto storico.
L’Haggadà di Pèsach non descrive solo la schiavitù d’Egitto, ma ricorda anche che in ogni generazione si alzano contro di noi per annientarci. L’Haggadà porta il pesante carico storico del popolo d’Israele. Anche in questo conto storico non ci chiede di vendicarci, e si accontenta di rivolgersi a Dio che è colui che verserà la sua ira sulle nazioni che non lo hanno conosciuto. E nota, Lui e non noi. Nella meravigliosa frase “Versa la tua ira sulle nazioni che non ti conoscono“, è radicata l’idea di contenimento e raffinamento contro la vendetta umana. I sentimenti di vendetta sono giustificati e umani, ma quando si tratta di vendetta storica (a differenza della nostra attuale situazione di guerra, a cui questo articolo non è affatto rivolto) creano stagnazione e bloccano ogni progresso. Lasciare la vendetta a Dio lascia l’uomo libero da tutti i sentimenti di vendetta e mentalmente libero di costruirsi un nuovo mondo.
Per un popolo cresciuto con questo ethos dell’Haggadà di Pèsach, non c’è da stupirsi che dopo aver attraversato l’Olocausto europeo non abbia chiesto la creazione di un’organizzazione di profughi dell’ONU che per molti anni lo nutrisse e educasse i suoi figli. Al contrario, questo popolo si è alzato in piedi, ha preso il suo destino nelle proprie mani e ha stabilito uno stato indipendente di cui essere fieri. Questo popolo non porta nemmeno un conto storico aperto contro i discendenti dei suoi persecutori. Questo in totale contrasto con i nostri vicini che non hanno vissuto una catastrofe come l’Olocausto europeo, ma fino ad oggi sono rimasti imprigionati e bloccati nel loro passato, con la paralisi e l’atrofia di ogni orizzonte di progresso, e con ostilità e odio per generazioni di ebrei non ancora nati nel 1948.
L’Haggadà di Pesach crea quindi una costruzione sociale per il modo appropriato di affrontare la memoria storica. La storia dell’uscita dall’Egitto, come è organizzata nell’Haggadà di Pesach e nella tradizione rabbinica, non ci insegna solo cosa è giusto prenderne per sempre, ma anche e soprattutto cosa è giusto e appropriato lasciare al passato. Il prologo dell’Haggadà è “Eravamo schiavi in Egitto“, il cui scopo è inculcare la comprensione che l’Egitto è impresso solo come memoria educativa, ma la nostra principale aspettativa è diretta alla realizzazione del desiderio e dell’obiettivo, che sono l’epilogo dell’Haggadà:L’anno prossimo a Gerusalemme ricostruita“.
Concluderò con il noto detto di Yigal Allon: “Un popolo che non conosce il suo passato, il suo presente è povero e il suo futuro è avvolto nella nebbia“. Nello spirito di questo articolo aggiungerò che le sue parole sono vere anche per un popolo “bloccato” nel suo passato. Anche per un tale popolo, il presente è povero e il futuro è avvolto nella nebbia. I nostri vicini lo dimostrano.

(Kolòt - Morashà, 15 aprile 2025)

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I Fratelli Musulmani emettono una nuova fatwa contro Israele

L'Unione internazionale degli studiosi musulmani fa della lotta armata contro Israele un dovere individuale. La fatwa è rivolta anche al presidente americano Trump.

LONDRA - In una fatwa, l'Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani, che appartiene ai Fratelli Musulmani, ha invitato alla lotta armata contro Israele. Si tratterebbe di un dovere individuale di ogni musulmano, secondo una dichiarazione rilasciata il 28 marzo. L'organizzazione, con sede a Londra, cita la “continua aggressione a Gaza e la sospensione del cessate il fuoco” come motivo della fatwa.
Nello specifico, l'Unione internazionale degli studiosi musulmani spiega in 14 punti come dovrebbe essere questa lotta. Oltre all'impegno per la jihad contro l'“entità sionista”, viene richiesto il divieto di fornire a Israele risorse, gas e petrolio, o armi. Gli studiosi chiedono quindi il blocco dei corridoi internazionali per il trasporto di queste merci. In particolare, vengono citati il Canale di Suez e lo Stretto di Hormuz. Da mesi il gruppo terroristico Houthi sta mettendo a rischio il commercio nel Golfo di Aden . Si chiede inoltre di boicottare gli alleati di Israele.
In un punto l'Unione internazionale degli studiosi musulmani si rivolge direttamente al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Al Presidente viene ricordata la sua promessa di creare la pace nella Striscia di Gaza. Molti musulmani hanno votato per lui per questo motivo e ora devono fare pressione su Trump, dicono.
Durante la campagna elettorale, Trump ha annunciato che avrebbe posto fine alla guerra nella Striscia di Gaza. Tuttavia, ha collegato questo obiettivo al rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e ha ripetutamente affermato di sostenere il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) e le azioni di Israele nella Striscia di Gaza.

Effetti in Germania
   Nel frattempo, la Società tedesco-israeliana (DIG) ha reagito con preoccupazione alla nuova fatwa. In un comunicato, la DIG sottolinea la vicinanza dell'Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani a molte organizzazioni musulmane in Germania, come l'Istituto Europeo per le Scienze Umane o l'organizzazione ombrello Ditib, che gestisce più di 900 comunità di moschee in Germania.
Per questo motivo, secondo la DIG, la fatwa ha un “impatto diretto sulla situazione della sicurezza in Germania”. I politici tedeschi devono quindi chiedere a tutte le organizzazioni islamiche tedesche di condannare questo parere legale come anti-islamico. Le organizzazioni che non condannano pubblicamente questa fatwa sono una minaccia per la sicurezza pubblica. Questo perché “rifiutandosi di farlo, tali organizzazioni vanno direttamente contro l'idea di comprensione internazionale (articolo 9, paragrafo 2, della Legge fondamentale)”.

(Israelnetz, 14 aprile 2025)

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Hezbollah, smantellata rete in mezza Europa: costruivano droni per colpire Israele

di Stefano Piazza

Un’ampia rete logistica a supporto della produzione di droni di Hezbollah è stata smantellata in tutta Europa. L’operazione ha interessato Spagna, Germania, Francia e Regno Unito, con arresti effettuati tra la metà del 2024 e l’inizio di aprile 2025. Secondo quanto riferito al quotidiano francese Le Figaro, la rete era coinvolta nell’acquisto di grandi quantità di materiali per la costruzione di droni potenzialmente in grado di trasportare esplosivi. Gli investigatori hanno trovato sistemi di guida elettronici, motori a benzina ed elettrici, eliche e diverse tonnellate di materiali utilizzati per realizzare componenti di droni come fusoliere e ali. Secondo Le Figaro, il volume di componenti sequestrati avrebbe potuto essere utilizzato per produrre fino a un migliaio di droni.
  Tutto ha inizio nell’estate del 2024, nel cuore della Catalogna. È qui che la Guardia Civil individua una serie di movimenti sospetti legati ad acquisti di materiali ad alta tecnologia. A destare l’attenzione degli investigatori, le attività di alcune aziende spagnole riconducibili a individui di origine libanese, coinvolti nell’acquisto sistematico di componenti utilizzabili per la costruzione di droni. Secondo quanto riportato dalla giustizia spagnola, Firas AH, 38 anni, unico degli arrestati rimasto in carcere, sarebbe parte di «un gruppo di individui di origine libanese residenti in Spagna e Germania, legati in varia misura all’organizzazione terroristica». Gli inquirenti ritengono che il gruppo fosse pronto a spedire via mare un ingente carico di componenti essenziali per la costruzione di droni, destinati al Libano.
  Una spedizione, definita «imminente» dalle autorità, che avrebbe rappresentato un rischio concreto per la sicurezza collettiva e, in particolare, per quella dei cittadini israeliani. Il carico, composto da decine di elementi chiave per l’assemblaggio di velivoli senza pilota, è stato intercettato in tempo, evitando un potenziale salto di qualità nella capacità offensiva delle milizie coinvolte. Secondo quanto emerso dalle indagini, si tratta di forniture a doppio uso – civile e militare – che avrebbero consentito, secondo gli inquirenti, l’assemblaggio di droni capaci di trasportare diversi chilogrammi di esplosivo. Gli ordini, che si contano a centinaia, erano destinati all’esportazione in Libano, dove i materiali sarebbero stati riconvertiti per finalità belliche. – Anche sul fronte tedesco, l’operazione antiterrorismo ha inferto un colpo significativo alla rete sospettata di traffici illeciti con finalità militari. La Procura federale ha confermato l’arresto di un cittadino libanese, Fadel Z., fermato il 14 luglio a Salzgitter, nella Bassa Sassonia, dagli agenti del BKA (Bundeskriminalamt). In un comunicato dettagliato, le autorità tedesche hanno reso noto che il sospettato si sarebbe affiliato a Hezbollah non più tardi dell’estate del 2016. Dall’inizio del 2024, avrebbe acquistato in Germania componenti destinati alla costruzione di droni militari, “in particolare motori”. Il materiale era destinato all’esportazione in Libano, dove, secondo gli inquirenti, sarebbe stato impiegato in operazioni terroristiche contro obiettivi israeliani.
  Negli ultimi anni, questi piccoli velivoli si sono rivelati strumenti strategici nei conflitti moderni. Difficili da rilevare e abbattere, i droni hanno avuto un ruolo chiave in diversi teatri di guerra, dall’Ucraina alle aree di confine tra Siria e Iraq, dove lo Stato Islamico li ha impiegati con modalità sempre più sofisticate. Le indagini hanno avuto un’ulteriore svolta l’1 aprile 2025, quando la polizia spagnola ha effettuato altri tre arresti nello stesso appartamento di Barcellona già perquisito l’anno precedente. Uno degli indagati è accusato di far parte di un’organizzazione criminale transnazionale, di finanziare attività illecite e di falsificazione di documenti. Nel frattempo, anche in Francia si è mossa la Direzione Generale della Sicurezza Interna (DGSI), che ha fermato un altro sospetto ritenuto legato alla rete. La procura antiterrorismo francese ha confermato che l’uomo è accusato di preparare atti di terrorismo. Due uomini sono stati arrestati all’inizio del mese dalla polizia antiterrorismo britannica durante un’operazione condotta nella zona nord della capitale. I sospetti, di 39 e 35 anni, sono accusati di reati connessi al terrorismo internazionale. Il primo, 39 anni, è indagato per appartenenza a un’organizzazione vietata: Hezbollah è infatti designata come gruppo terroristico nel Regno Unito dal 2019.
  L’uomo è anche sospettato di aver preparato attentati e di aver finanziato attività terroristiche. Il secondo individuo, 35enne, sarebbe coinvolto in reati simili. Entrambi sono stati rilasciati su cauzione, mentre proseguono le indagini da parte delle autorità britanniche. Secondo il rapporto investigativo, la rete smantellata operava in maniera estesa sul territorio europeo, ma il suo obiettivo principale era il sostegno logistico e operativo alle attività di Hezbollah all’estero. Le autorità sottolineano che, al momento, non emergono elementi concreti su piani terroristici imminenti sul suolo europeo. Tuttavia, il rischio rimane elevato. Le forze di sicurezza ribadiscono la pericolosità di tali infrastrutture clandestine, capaci di alimentare operazioni militari all’estero, soprattutto contro civili israeliani, e di trasformarsi rapidamente in minacce anche interne in caso di escalation.

(Panorama, 14 aprile 2025)

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Deputati sudafricani in visita in Israele

“Sosteniamo Israele e crediamo che Hamas sia un'organizzazione terroristica che deve essere distrutta”, ha dichiarato il deputato Ashley Sauls.

di Etgar Lefkovits

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La delegazione sudafricana al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme, 7 aprile 2025

Un gruppo di 15 parlamentari sudafricani, tra cui membri del governo di unità nazionale, ha visitato Israele la scorsa settimana per esprimere il proprio sostegno allo Stato ebraico e criticare la politica mediorientale dell'African National Congress (ANC) al governo.
La visita parlamentare segue la formazione di un governo di unità nazionale in Sudafrica lo scorso giugno, dopo che l'ANC ha perso la maggioranza assoluta per la prima volta dalla fine dell'apartheid, 30 anni fa.
La delegazione, che comprendeva membri di due partiti del governo di unità nazionale e un partito cristiano di opposizione, oltre a leader di fede cristiana ed ebraica, ha incontrato i parlamentari israeliani e ha visitato le comunità israeliane meridionali attaccate nel massacro perpetrato da Hamas 18 mesi fa.
“L'ANC non parla a nome di tutti”, ha dichiarato lunedì il deputato Ashley Sauls, il cui partito Alleanza patriottica è membro del governo sudafricano, in occasione di un evento al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme. “Noi sosteniamo Israele e crediamo che Hamas sia un'organizzazione terroristica che deve essere distrutta affinché ci sia pace per i palestinesi e gli israeliani”.
E ha aggiunto: “Possiamo dire che Israele non è uno Stato di apartheid e che non c'è alcun genocidio a Gaza”.
L'ANC, che rappresenta la politica estera anti-Israele del Sudafrica, ha ricevuto solo il 40% dei voti alle elezioni dello scorso maggio ed è stata quindi costretta a formare un governo di unità nazionale.
Alcuni membri della delegazione, che appartengono a un altro partito del governo di unità, hanno rifiutato di commentare il loro viaggio a causa della delicatezza della visita.
Il viaggio avviene in un momento in cui il Sudafrica è diventato uno dei più attivi oppositori di Israele al mondo, avendo denunciato il Paese per genocidio alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite per la sua guerra contro Hamas a Gaza lo scorso anno e essendosi alleato con l'Iran e i suoi scagnozzi terroristi.
Il deputato Steven Swart, membro del Partito cristiano democratico africano di opposizione, da tempo filo-israeliano, ha dichiarato: “Speravamo che con il governo di unità nazionale le voci anti-israeliane in Sudafrica si sarebbero placate, poiché ci sono molti partiti politici che hanno una posizione filo-israeliana, ma non è ancora così e stanno continuando con il caso della Corte internazionale di giustizia. Ma il fatto che siamo qui in un periodo di guerra serve anche a prendere le distanze dal caso della Corte internazionale di giustizia e dal sentimento anti-israeliano”.

Il Paese non appartiene all’ANC
   Gli organizzatori della visita hanno espresso la speranza che questa sia foriera di cambiamenti.
“Credo davvero che possiamo cambiare il Sudafrica creando un'alleanza tra cristiani, ebrei e Israele”, ha dichiarato Daniel Yakcobi, direttore di South African Friends of Israel, che ha organizzato la visita.
“Questa delegazione è un segno di cambiamento per il futuro”, ha dichiarato il rabbino capo sudafricano Warren Goldstein, che ha partecipato alla visita insieme a due pastori della Nazione Arcobaleno.
Il rabbino, che ha tenuto il discorso principale all'evento presso il Museo degli Amici di Sion, ha criticato il governo dell'ANC in seguito alla sua risposta all'invasione guidata da Hamas il 7 ottobre 2023 e ha affermato che i giorni del governo dell'ANC sono contati.
“Non giudicate il popolo sudafricano in base all'ANC”, ha detto. “L'ANC non è il proprietario del Paese”.
Goldstein ha elogiato i membri della delegazione per aver intrapreso il viaggio e per aver difeso i propri principi e le proprie convinzioni.
“Oggi ci vuole coraggio, ma domani sarà la strada del Paese”, ha detto.

(Israel Heute, 14 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Un’altra manifestazione pro-Hamas a Milano. Chi la finanzia?

di Giovanni Giacalone

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C’è qualcosa all’interno del Ministero dell’Interno italiano che sembra proprio non funzionare, e la conferma arriva dalla manifestazione pro-Pal, organizzata dai soliti gruppi di estrema sinistra, palestinesi e islamisti, che ha paralizzato il centro di Milano sabato 12 aprile. Durante la manifestazione, diverse attività commerciali sono state vandalizzate.
Niente di nuovo, visto che migliaia di manifestazioni contro Israele e i suoi alleati si sono svolte in Italia, e in particolare a Milano, dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023. La manifestazione di ieri ha mostrato ancora una volta la sua natura reale e violenta, con i soliti slogan come “Intifada intifada” e “Dal fiume al mare”, che invocavano l’annientamento dello Stato di Israele.
Uno striscione portato dai manifestanti recitava “Abbattete lo Stato sionista”, mentre un altro cartello recitava: “Per la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista di Israele”. E ancora, una bandiera tunisina con la scritta “Fanculo Israele”, e un’immagine del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che veniva calpestata e molto altro. È evidente che l’odio per Israele sia il denominatore comune di questi diversi gruppi che marciano fianco a fianco.
Tra i manifestanti, c’erano individui che indossavano gilet senza maniche con lo striscione “Associazione Palestinesi in Italia”, guidata da Mohammad Hannoun, un attivista palestinese sanzionato nell’ottobre 2024 dal Dipartimento del Tesoro statunitense dopo essere stato segnalato come uomo di Hamas e suo collettore di denaro in Italia. Anche in questo caso, da allora non è stato intrapreso alcun provvedimento da parte delle autorità italiane. L’attività di Hannoun è ancora in corso.
Inoltre, una filiale bancaria in Piazzale Lagosta è stata deturpata con la scritta “Sparate a Giorgia”; un chiaro messaggio al Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, accusata dai manifestanti di schierarsi con Israele. Durante la manifestazione, ci sono stati anche scontri con la polizia, e le immagini sono state prontamente riportate dall’emittente qatariota al-Jazeera, con il titolo: “La polizia italiana tenta di disperdere una manifestazione pro-Palestina a Milano”, forse per gettare benzina sul fuoco. Il sostegno del Qatar ad Hamas e agli islamisti in Europa non è certo un segreto.
L’approccio del Ministero dell’Interno nei confronti di queste manifestazioni, che può essere riassunto in un approccio del tipo “lasciateli sfogare” per “evitare tensioni sociali”, si è rivelato un fallimento in quanto ha portato a liste nere, inviti a marcare le case di “ebrei e sionisti”, sfilate con cartelli raffiguranti “agenti sionisti”, deturpazioni di scuole elementari ebraiche, sermoni pro-Hamas e antisemiti nelle moschee, la pubblicazione di caricature antisemite, e l’esposizione di bandiere di Hezbollah.
L’estate scorsa, il “Nuovo Partito Comunista” (NCP) italiano, un gruppo clandestino di estrema sinistra con base principalmente nell’Italia centro-occidentale schierato con altre fazioni di estrema sinistra e palestinesi presenti alla manifestazione di ieri, ha pubblicato una lunga lista nera di “agenti e sostenitori sionisti” che includeva un numero consistente di rabbini, membri di associazioni ebraiche e persino la sopravvissuta all’Olocausto Liliana Segre, una donna di 94 anni che è anche senatrice del Parlamento italiano ed è stata spesso presa di mira dagli antisemiti. La lista includeva anche importanti parlamentari italiani sia della maggioranza che dell’opposizione; ministri del governo Meloni e un ex ambasciatore.
L’NCP italiano chiedeva anche il rovesciamento del governo italiano democraticamente eletto e l’instaurazione di un regime comunista definito come “blocco popolare”. Che ci si creda o meno, l’NCP italiano è così “clandestino” che gestisce persino un proprio sito web, accessibile a tutti, dove condivide ogni settimana la sua propaganda sovversiva, inclusa la lista degli “agenti sionisti”. L’NCP si vanta di essere irreperibile e fornisce modalità per contattare in modo anonimo i suoi militanti. Stranamente, il sito web è ancora attivo e finora le autorità italiane non hanno preso alcuna misura contro questo gruppo sovversivo. Perché?
Una panorama interessante, considerando che a Milano, il 27 gennaio 2024, durante il Giorno della Memoria, lo studente italiano Mihael Melnic ha esposto un cartello dalla finestra del suo appartamento con la scritta “Liberate Gaza da Hamas”. Contemporaneamente, la strada sottostante era diventata teatro dell’ennesima manifestazione filo-palestinese non autorizzata. Melnic, oggetto di insulti e minacce da parte dei manifestanti, ha ricevuto immediatamente la visita intimidatoria di due poliziotti. Sono entrati nel suo appartamento, lo hanno identificato e hanno tentato invano di confiscare il cartello. Melnic ha poi rilasciato un’intervista al Times of Israel raccontando l’accaduto.
A Padova, la studentessa israeliana Jasmine Kolodro è stata convocata in questura per aver esposto una bandiera israeliana nei pressi di una manifestazione pro-palestinese.
Le conseguenze di un approccio così riluttante erano in effetti prevedibili, poiché quando gli estremisti non vedono una risposta dalle istituzioni, continuano ad alzare la posta, ed è esattamente ciò che sta accadendo. Cosa aspettano dunque il Ministero dell’Interno e il governo Meloni ad agire? La narrazione estremista è una seria minaccia perché è il “carburante” ideologico che porta alla violenza. Ciò a cui l’Italia sta assistendo è una grave deriva eversiva e antisemita, confermata anche dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Italiano sull’Antisemitismo, che ha indicato “una fortissima crescita (degli episodi antisemiti) in termini assoluti e percentuali”.
Continuando in questa direzione, con tanta riluttanza a intervenire, prima o poi succederà qualcosa di grave e a quel punto nessuno al Viminale potrà dire “non ce lo aspettavamo”, perché i segnali erano tutti lì, chiari ed evidenti.
C’è poi un’ultima domanda: chi paga tutto questo? Chi paga il trasporto, le bandiere e tutto il necessario per queste manifestazioni? Molti manifestanti sono stati trasportati da altre parti d’Italia. Manifestare costa e richiede fondi.
(da Times of Israel, 13.4.25))

(L'informale, 13 aprile 2025 - trad. Niram Ferretti)

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Come Gaza ha sequestrato la sinistra occidentale

L’ombra lunga della Palestina su una sinistra che ha smesso di pensare

di Carmen Dal Monte:

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La bandiera palestinese esposta dal sindaco Matteo Lepore
sulla facciata del Comune di Bologna

Oggi, per gran parte della sinistra occidentale sembra esistere una sola battaglia che meriti davvero visibilità: la Palestina. Ma non la Palestina come realtà storica, sociale o geopolitica, bensì come simbolo assoluto, totemico, della sofferenza. Gaza è diventata il paradigma del giusto oppresso. Tutto il resto è rumore di fondo. Eppure, mentre si grida “Free Palestine”, altre voci vengono silenziate. Le donne musulmane che denunciano violenze sistemiche. Gli omosessuali che fuggono da regimi islamici per non essere uccisi. I dissidenti, i convertiti, i lavoratori sfruttati nei paesi arabi. Per loro, nei cortei, non c’è posto. Né spazio sui cartelli. Sono una dissonanza. Un inciampo.
  E non è solo questione di Hamas. Oggi, il movimento pro-palestinese fa parte di un blocco più vasto, ideologico e geopolitico, in cui si intrecciano Stati arabi autoritari, monarchie teocratiche, media pan-islamici, università finanziate da regimi repressivi. Gaza è diventata la bandiera di poteri che reprimono al proprio interno, ma sventolano la causa palestinese per guadagnare legittimità all’esterno.
  E la sinistra europea? Ha smesso di analizzare. Ha smesso di leggere. E soprattutto ha smesso di distinguere. Pressata dal discorso anglosassone, ha abbandonato il metodo marxista, quello che studia i rapporti di forza, le contraddizioni materiali, la composizione di classe, per adottare un vocabolario moralistico, americanizzato, dove tutto si divide in dominante e dominato, vittima e privilegio, bianco e non bianco.
  In questo schema rigido, la Palestina diventa il simbolo perfetto. Tutto il resto svanisce. Ma diciamolo: Gaza non è centrale. Non lo è mai stata. Lo è diventata solo per chi ha sostituito l’analisi con il rito, il conflitto sociale con una liturgia identitaria.
  Il problema non è Gaza, ma l’ossessione che le è cresciuta intorno. Un’ossessione che ha colonizzato l’immaginario della sinistra, soffocando altri fronti: lotte femminili, mobilitazioni operaie, richieste di libertà religiosa o laica, diritti civili. Gaza è diventata il feticcio perfetto per chi non vuole più leggere il mondo, ma solo farne teatro.
  E non importa se a portare quella bandiera siano Stati che imprigionano giornalisti, lapidano donne, criminalizzano l’omosessualità. Non importa se quegli stessi regimi finanziano la repressione delle rivolte popolari in Iran, Siria, Sudan. La coerenza ha smesso di contare. Conta l’identità simbolica. E l’allineamento.
  E non si tratta solo di collettivi radicali o universitari. Anche amministratori pubblici moderati, perfettamente inseriti nel sistema democratico, alimentano questa selezione. A Bologna, il sindaco Matteo Lepore ha fatto esporre la bandiera palestinese sulla facciata del Comune, in solidarietà con Gaza. Un gesto forte, simbolico, capace di orientare l’immaginario civico. Ma non risulta che quel Comune abbia mai preso posizione pubblica per le donne iraniane, i dissidenti turchi, le vittime del regime siriano o i migranti schiavizzati nei Paesi del Golfo.
  In quel contesto, la sofferenza palestinese diventa l’unica degna di visibilità pubblica. Le altre più complesse, meno codificabili, restano invisibili. Che tutto ciò avvenga proprio a Bologna, città simbolo della sinistra italiana, democratica, antifascista, storicamente legata al pensiero critico, rende il gesto ancora più emblematico. Come se quella storia, la capacità di discernere, di leggere le contraddizioni, di evitare i riflessi automatici fosse stata cancellata. O peggio: rovesciata.
  La sinistra che un tempo avrebbe smascherato questa dinamica, oggi la asseconda. Non per tradimento, ma per smarrimento. Ha scambiato l’analisi con l’indignazione. La strategia con il posizionamento morale. Ha dimenticato che il marxismo non è una religione dell’innocenza, ma uno strumento per comprendere e trasformare i rapporti di dominio: tutti. Anche quelli esercitati in nome dell’anti-sionismo.
  Così, mentre si manifesta per Gaza, si tace su Teheran. Su Doha. Su Riad. Si ignorano le vere rivolte, quelle che vengono dal basso, da subalterni reali, che non rientrano nei canoni estetici del progressismo occidentale. Si dimentica che i popoli arabi non sono soltanto vittime da rappresentare, ma soggetti politici, con idee e conflitti reali, spesso contro i loro stessi governi, religioni, movimenti armati.
  La sinistra che fa dell’occupazione israeliana il prisma unico della giustizia ha perso contatto con la realtà. Perché nessun conflitto ha diritto alla centralità ideologica. E ogni silenzio selettivo è, alla fine, una scelta politica.
  Qui non si tratta di Gaza. E scomparso l’Impero romano, figuriamoci Gaza. Si tratta di salvarci dalla cecità analitica. Dalla paura del dissenso. Dalla rinuncia al pensiero. La dialettica non è un hashtag. È un processo reale fatto di contraddizioni, di forze che si scontrano, di popoli che agiscono, spesso al di fuori del nostro campo visivo.
  Mentre ci accapigliamo su chi sia più vittima, la realtà si muove: regimi si consolidano, movimenti si radicalizzano, rivoluzioni svaniscono nel silenzio.
  La sinistra che ha smesso di leggere la società non parla più a nessuno. E la società, semplicemente, smette di ascoltarla.
(da Times of Israel, 22.3.25)

(israelnet.it, 13 aprile 2025)

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«Lascia andare il mio popolo, altrimenti...»

di Marcello Cicchese

Quando si riflette sull'uscita del popolo ebraico dall'Egitto, si tende a porre Dio, Mosè e gli ebrei da una parte, e Faraone e gli egiziani dall'altra. Le cose non stanno proprio così. Una schematizzazione più biblica sarebbe questa: Dio da una parte; ebrei ed egiziani dall'altra, ma in posizioni diverse; Mosè (col supporto di Aaronne) strumento scelto da Dio fra gli ebrei per svolgere la sua politica all'interno e per mezzo di Israele.
Nella storia dell'esodo biblico non c'è nulla che assomigli alle altre lotte di liberazione di popoli oppressi. Mosè non è il capo riconosciuto e acclamato di un popolo che vede in lui l'espressione e lo strumento della sua battaglia. Il popolo non è artefice della sua politica, ma subisce la politica di Dio.
In Esodo 4:27-31 Mosè ed Aaronne comunicano agli anziani il progetto di liberazione che Dio, non il popolo, aveva intenzione di compiere,
    "ed il popolo prestò loro fede. Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, e s'inchinarono e adorarono" (Esodo 4:31).
Dopo di che Mosè ed Aaronne si presentano al Faraone con la loro richiesta, ed in questa occasione, e solo in questa, parlano in veste di rappresentanti di tutto il popolo, perché ne hanno ricevuto esplicitamente il consenso.

Un modo singolare di procedere
   Il modo in cui i rappresentanti del popolo formulano la loro richiesta è davvero strano. Dio aveva detto a Mosè di informare il Faraone che Israele è il suo figlio primogenito, e che se non l'avesse lasciato andare, Lui avrebbe ucciso il figlio primogenito suo (Esodo 4:22-23). Mosè ed Aaronne però non presentano subito la loro richiesta in forma di minaccia, non dicono: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per te", come si fa, in forma più o meno velata, in certe trattative politiche; dicono invece: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per noi".
    "Essi dissero: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare per tre giornate di cammino nel deserto, per offrire sacrifici all'Eterno, nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada»" (Esodo 5:3).
Un bel Dio, quello degli ebrei, penserà qualcuno: prima lascia che il suo popolo gema per secoli sotto tiranni stranieri, poi gli ordina di andarlo a festeggiare nel deserto altrimenti li punirà con la peste o con la spada. Com'era prevedibile, il Faraone respinge nettamente la richiesta dei rappresentanti e dice a Mosè che il popolo non stia a preoccuparsi di quello che gli farebbe il suo Dio, ma di preoccuparsi di quello che gli farà lui. E li sbatte fuori in malo modo.
Le angherie aumentano e i sorveglianti del popolo si scagliano contro Mosè ed Aaronne. Possiamo immaginare che abbiano detto parole come queste: "Al Faraone voi avete detto che se non avessimo ubbidito a Dio, Egli ci avrebbe colpito con la spada, invece è successo che la spada l'ha usata il Faraone, e siete stati voi che gliela avete messa in mano".
    "Essi dissero: L'Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano la spada per ucciderci» (Esodo 5:21).
Anche Mosè fu fortemente scosso da questo svolgersi delle cose, ma Dio gli rinnovò la sua promessa di liberazione facendo riferimento al patto con Abramo, Isacco e Giacobbe (Esodo 6:2-8). Mosè si lasciò convincere e ripeté al popolo le promesse di Dio, ma questa volta il popolo non credette alle sue parole e si rifiutò di seguirlo.
    "Mosè parlò così ai figli d'Israele; ma essi non dettero ascolto a Mosè, a motivo dell'angoscia dello spirito loro e della loro dura schiavitù" (Esodo 6:9).
Questa fu la prima, determinante ribellione del popolo d'Israele contro il suo Signore.

Mosè si presenta al Faraone a nome di Dio, non del popolo
   Il rifiuto del popolo a credere alle parole di Dio è un fatto grave, e Mosè fa presente all'Eterno questa situazione:
    "Ecco, i figli d'Israele non mi hanno dato ascolto" (Esodo 6:12).
Come farà dunque Mosè a presentarsi al Faraone senza avere il consenso del popolo e il sostegno di un mandato popolare? Questo si direbbe oggi, e forse qualcosa del genere deve aver detto anche Mosè al Signore. Dio però tagliò corto:
    "Ma l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne e comandò loro di andare dai figli d'Israele e dal Faraone re d'Egitto, per far uscire i figli d'Israele dal paese d'Egitto" (Esodo 6:13).
Da questo momento Mosè agisce soltanto come strumento della volontà di Dio e non come espressione della volontà del popolo, anzi in opposizione diretta a questa volontà. C'è da immaginare il terrore con cui gli ebrei avranno saputo che "quei due pazzi forsennati" di Mosè ed Aaronne si sono presentati un'altra volta davanti al Faraone a fare le loro richieste. Se si è così arrabbiato la prima volta - avranno pensato - chissà che cosa succederà le prossime.
Invece poi vengono a sapere che chi si arrabbia è Dio. Certo, gli ebrei vedono avvenire cose grandiose: l'acqua mutata in sangue, le rane, le zanzare. Le prime calamità che devastano l'Egitto sono segni davvero potenti. Ma il fatto è che dentro all'Egitto ci sono anche loro, e nella posizione peggiore che si possa immaginare, perché certamente il Faraone non li avrà esentati dai loro lavori a causa dello stato di emergenza in cui si era venuto a trovare il paese. Quindi ad essere colpiti sono tutti, anche gli ebrei, che si saranno chiesti: ma sarebbe questa la nostra liberazione?
Soltanto alla quarta piaga, le mosche velenose, Dio avvisa che farà una distinzione:
    "In quel giorno io risparmierò il paese di Goscen, dove abita il mio popolo; lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo" (Esodo 8:22-23).
Alla fine il popolo d'Israele uscirà dall'Egitto, ma questo avverrà per l'opera di Dio con la mediazione di Mosè, e senza il consenso e l'appoggio del popolo, il quale subisce l'azione di Dio senza parteciparvi con la sua volontà.

Il passaggio dell'angelo. Che significa?
   Quanto detto fin qui sembra essere fuori tema rispetto al contenuto della parashà di oggi, che ha come oggetto la pasqua. Vuol essere invece una premessa necessaria per cominciare ad inquadrare quello strano fatto del passaggio dell'angelo che colpisce i primogeniti egiziani ma risparmia gli ebrei che hanno osservato le disposizioni di Dio: uccidere un agnello per casa e spargere il suo sangue sugli stipiti della porta.
Egiziani ed ebrei sono entrambi in posizione di peccato rispetto a Dio, ma in modi diversi. Il Faraone e il suo popolo giacciono nel peccato perché vivono nelle tenebre dell'idolatria pagana; il popolo d'Israele invece no, perché è stato visitato da Dio e lo ha adorato (Esodo 4:31). Il suo peccato però è di tipo diverso: ha rigettato la parola di Dio ricevuta attraverso Mosè. L'angelo è stato mandato per colpire tutti coloro che sono ribelli alla volontà di Dio, e tra questi ci sono anche gli ebrei. Ma gli ebrei sono il popolo che Dio ha promesso ad Abramo, ed ecco allora che, dopo aver manifestato la potenza della sua sovranità, Dio adesso manifesta una cosa nuova: la grandezza della sua grazia. Gli ebrei ricevono l'ordine di uccidere l'agnello nella forma prestabilita, e con questo Dio dice loro due cose: 1) voi siete peccatori della stessa pasta degli egiziani e meritate la stessa fine; 2) voi siete parte di un popolo con il quale ho deciso di portare a compimento un'opera di redenzione a cui parteciperanno tutti coloro che avranno accolto la mia parola nella forma in cui l'avranno ricevuta. Voi siete il primo popolo che ha commesso un peccato di incredulità, avendo respinto la parola di liberazione che vi era stata annunciata; voi siete il primo popolo che ha fatto l'esperienza della grazia di Dio, avendo creduto nella sua parola che vi offriva la possibilità di evitare il giudizio di Dio attraverso l'offerta di un sostituto innocente e privo di difetti.
Il significato profondo di quell'agnello si trova nelle parole del profeta Isaia:
    "Noi tutti eravamo erranti come pecore, ognuno di noi seguiva la sua propria via; e l'Eterno ha fatto cadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, umiliò se stesso e non aperse la bocca. Come l'agnello menato allo scannatoio, come la pecora muta dinanzi a chi la tosa, egli non aperse la bocca" (Isaia 53:6-7).
E nelle parole dell'evangelista Giovanni:
    Il giorno seguente Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! (Giovanni 1:29).
(da "Sta scritto")



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Il senso della Pasqua di un popolo in guerra

La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita.

di Fiamma Nirenstein

«In ogni generazione qualcuno si leva per la nostra distruzione, ma Dio e lo spirito dei nostri combattenti ci salverà sempre». Ripete anche questo il «seder» di Pasqua, Pesach, ovvero uno dei riti più antichi della storia della civiltà, in mezzo a mille altre verità sempiterne: ricorda, ricorda sempre chi eri per sapere chi sei, fummo schiavi e oggi e come se tu fossi uscito dall'Egitto. «Figli della libertà», dobbiamo comportarci senza perdere mai di vista ciò che fummo, ripete il testo della Agadà, in cui si ripercorre la storia di come Mosè portò il popolo ebraico fuori dall'Egitto verso la libertà pratica e concettuale non solo dei suoi, ma del mondo.
  La libertà, l'etica, le società democratiche su di esse basate, definiranno nuovi confini grazie alla Torah, la Bibbia, quando Mosè nel deserto riceverà i dieci comandamenti dei quali oggi viviamo. Stasera intorno al tavolo le famiglie ebraiche portano con sé dolore e aspettative insieme all'immensa determinazione a superare anche questa: «abbiamo passato il Faraone, supereremo anche questa», dice il testo mentre si spezza l'azzima che ricorda come il mare si apri per il più folle dei miracoli, e sommerse l'esercito egiziano. E tutti gli ebrei del mondo con gli uomini di buona volontà avvertiranno il vuoto e pregheranno insieme per il ritorno dei rapiti e per i soldati che a Gaza combattono per loro e per sgominare definitivamente un nemico il cui odio per gli ebrei non ha limite in nessuna trattativa. Mentre si bevono i quattro bicchieri del rito, da una parte si pensa alla odierna, nuovissima trattativa fatale fra gli americani e gli iraniani che dovrebbe, forse, portare a un accordo per la distruzione delle strutture nucleari, oppure allo scontro inevitabile, se il potere messianico e brutale degli Ayatollah non abbandona il disegno ripetuto fino all'ossessione di distruggere Israele e il mondo occidentale. Dall'altra parte si tenta, sempre nelle ore di Pesach, di bloccare una mortale strada di collisione con Erdogan, il premier turco che adesso cerca di una base fissa in Siria per prendere possesso di una terrazza che lo doti di un inusitato potere di minaccia su Israele.
  La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita. Gli Israeliani fra assassinati il 7 di ottobre e soldati uccisi ha superato i duemila morti in un anno e mezzo, una cifra enorme per dieci milioni di abitanti. Le storie di incredibile valore che ogni giorno vengono alla superficie, di ragazzi che hanno scritto ai genitori o alla loro amata lettere in cui la consapevolezza, a volte la certezza finale, di rischiare la vita è unita alla volontà invincibile di non volere rinunciare a questo onore, è un unicum nella storia moderna. Il rifiuto che essi combattono non è solo odio per Israele, ma per il mondo ebraico nel suo insieme: l'aggressione dell'antisemitismo politico rappresenta un pericolo di vita per tutti gli ebrei, ma oggi, al contrario che nel passato, ha di fronte i giovani leoni d'Israele.
  Il 96 per cento degli ebrei del mondo, scrive Nathan Sharansky celebrano il seder di Pesach seduti al tavolo della tradizione nonostante la guerra. Sfidano la tempesta. Non rinunceranno mai. Abbiamo superato il faraone, supereremo anche questa.

(il Giornale, 12 aprile 2025)

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L'Hapoel Tel Aviv fa la storia vincendo l'EuroCup di basket

Grazie a questo storico trionfo, il club israeliano potrà passare al livello successivo e partecipare alla prossima stagione dell'EuroLeague, la competizione per club più prestigiosa del basket europeo.

L'Hapoel Tel Aviv ha realizzato l'impensabile vincendo ieri sera (venerdì) la EuroCup di pallacanestro, battendo il Gran Canaria 103-94 e completando la serie finale 2-0. Questo storico trionfo consente al club israeliano di passare al livello successivo e di partecipare alla prossima stagione dell'EuroLeague, la competizione per club più prestigiosa del basket europeo.
  La squadra, che rientrerà oggi in Israele, ha dominato la partita dall'inizio alla fine, mantenendo il vantaggio per tutto il tempo e costruendo un vantaggio di 14 punti nel primo tempo.
  Il proprietario del club, Ofer Yannay, ha dato una dimensione politica alla vittoria, dicendo: “So che per voi abbiamo battuto il Valencia e i Canarini, ma per me abbiamo battuto Hamas. Hanno cercato di spezzare il nostro spirito e non ci sono riusciti”. E ha aggiunto: “Abbiamo fatto la storia dello sport israeliano, una storia nazionale. Abbiamo portato orgoglio a tutto il nostro popolo”. Il presidente della lega israeliana Winner Sal, Ari Steinberg, ha inviato “le sue più calorose congratulazioni alla squadra Hapoel ‘Shlomo’ Tel Aviv per la vittoria. A nome mio e di tutta la lega Winner Sal, vorrei congratularmi con il proprietario, Ofer Yannay, con la dirigenza del club, con lo staff tecnico, con i giocatori e naturalmente con i tifosi per questo risultato storico - la vittoria dell'EuroCup”.

(i24, 12 aprile 2025)

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Steve Witkoff: «Nelle trattative con l’Iran dovremo rinunciare a qualcosa»

Mentre Israele sostiene che «un accordo credibile debba includere la distruzione degli impianti nucleari iraniani sotto la supervisione degli Stati Uniti», Steve Witkoff sembra andare incontro all'Iran con linee rosse decisamente diverse.

di Gabor H. Friedman

L’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff ha dichiarato che la “linea rossa” dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran è quella di impedirgli di produrre un’arma nucleare, in quella che appare come una potenziale apertura nei confronti di Teheran in vista dei colloqui che si terranno questo fine settimana.
Qualsiasi accordo che permetta al programma nucleare iraniano di continuare in qualche forma equivarrebbe a una ritirata per l’amministrazione e non sarebbe all’altezza dell’insistenza di Israele sul fatto che un accordo credibile debba includere la distruzione degli impianti nucleari iraniani sotto la supervisione degli Stati Uniti.
Witkoff, che sabato guiderà i colloqui in Oman per conto degli Stati Uniti, ha dichiarato al Wall Street Journal che la richiesta iniziale dell’amministrazione sarebbe quella di eliminare il programma nucleare di Teheran, ma ha ammesso che potrebbero essere necessari dei compromessi per raggiungere un accordo.
“Penso che la nostra posizione inizi con lo smantellamento del vostro programma. Questa è la nostra posizione oggi”, ha detto Witkoff, riassumendo il suo messaggio ai funzionari iraniani. “Questo non significa, comunque, che a margine non troveremo altri modi per trovare un compromesso tra i due Paesi”.
“La nostra linea rossa sarà che non si può armare la vostra capacità nucleare”, ha aggiunto Witkoff.
I commenti dell’inviato aprono una finestra sulle riflessioni ai massimi livelli dell’amministrazione Trump e mettono in evidenza le difficili scelte che probabilmente dovrà affrontare nei prossimi mesi, quando valuterà se sarà necessaria la forza militare per contenere il programma nucleare iraniano o se sarà sufficiente la diplomazia.
Se l’Iran rifiutasse di eliminare il suo programma nucleare, Witkoff ha detto che porterebbe la questione al Presidente Trump per determinare come procedere, mettendo potenzialmente la Casa Bianca di fronte a una scelta difficile su quanto tollerare delle attività nucleari iraniane.
Secondo alcuni analisti, fare pressione per l’eliminazione totale del programma iraniano è una ricetta per una situazione di stallo e potenzialmente un conflitto militare.
“L’amministrazione Trump è in una buona posizione per negoziare un accordo forte, che possa impedire in modo verificabile all’Iran di avere armi nucleari per un periodo di tempo significativo”, ha dichiarato Robert Einhorn, ex funzionario del Dipartimento di Stato per la non proliferazione. “Ma non dovrebbe giocare troppo la mano”.
L’Iran ha a lungo esitato ad accettare il completo smantellamento del suo programma nucleare, che sostiene essere per scopi pacifici e non finalizzato alla produzione di un dispositivo nucleare. Un compromesso che gli consentiva di arricchire l’uranio con ispezioni internazionali era al centro dell’accordo del 2015 che Teheran aveva raggiunto con gli Stati Uniti e altre potenze mondiali.
Trump si è tirato fuori dall’accordo del 2015 durante il suo primo mandato e ha imposto sanzioni punitive, insistendo affinché l’Iran interrompesse l’arricchimento dell’uranio e lo sviluppo di missili che potrebbero trasportare testate nucleari. L’Iran ha sopportato le sanzioni e ha ampliato il suo programma nucleare e la produzione di missili.
I funzionari iraniani dicono di volere un alleggerimento delle sanzioni economiche e il ripristino dei legami commerciali con gli Stati Uniti, ma hanno avvertito che un’azione militare statunitense spingerebbe l’Iran a smettere di cooperare con gli ispettori internazionali e a spostare il materiale nucleare in siti nascosti.
“Non abbiamo pregiudizi né previsioni”, ha dichiarato venerdì Esmaeil Baqaei, portavoce del Ministero degli Affari Esteri iraniano, in vista dei colloqui. “Abbiamo intenzione di valutare le intenzioni e la serietà dell’altra parte sabato e di regolare le nostre prossime mosse di conseguenza”.
Witkoff ha detto che l’incontro iniziale “riguarda la costruzione della fiducia. Si tratta di parlare del perché è così importante per noi arrivare a un accordo, non dei termini esatti dell’accordo”.
Qualsiasi accordo, ha detto Witkoff, richiederebbe misure di verifica sostanziali per garantire che l’Iran non stia lavorando a una bomba.
Trump ha affermato che i negoziati faccia a faccia sono necessari per sigillare un accordo. I funzionari iraniani hanno detto che i colloqui iniziali sarebbero stati indiretti, con la mediazione di funzionari omaniti tra le due parti. Witkoff ha detto che spera di risolvere la questione e di “stabilire i parametri” per i futuri colloqui.
I funzionari statunitensi sostengono che l’Iran potrebbe produrre un qualche tipo di arma nucleare in pochi mesi. Ma il mese scorso funzionari dell’intelligence americana hanno dichiarato al Congresso che la guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, non ha ancora deciso di costruire una bomba.
Per farlo, l’Iran ha bisogno di un programma di arricchimento per la produzione di materiale fissile, che ha già sviluppato. L’Iran dovrebbe anche produrre una testata usando quel materiale, un processo tecnicamente complicato.
L’Iran è l’unico Paese non dotato di armi nucleari che produce il 60% di uranio altamente arricchito, che può essere facilmente convertito in materiale fissile di grado militare per costruire una bomba nucleare.
Il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, ha affermato che niente di meno di un “completo smantellamento” del programma nucleare iraniano e del suo sforzo separato di produrre missili in grado di trasportare testate nucleari soddisferebbe Trump.
“L’Iran deve abbandonare il suo programma in un modo che tutto il mondo può vedere”, ha detto Waltz a “Face The Nation” della CBS il mese scorso. “Questo è l’arricchimento. Questo è l’armamento, e questo è il suo programma missilistico strategico… Rinuncia o ci saranno conseguenze”.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha incontrato Trump lunedì e ha avvertito che potrebbe essere necessaria una “opzione militare” con l’Iran, ha detto che un accordo dovrebbe includere l’eliminazione dei siti di arricchimento sotto la supervisione americana.
Ma il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, un veterano dei negoziati nucleari passati che guiderà il team iraniano, ha respinto l’idea di eliminare completamente il suo programma. “Gli Stati Uniti possono solo sognare”, ha dichiarato domenica in un’intervista all’agenzia di stampa parlamentare iraniana.
Negli ultimi due anni l’Iran ha subito ripetuti colpi alla sua sicurezza, con la sconfitta dei suoi alleati e dei suoi proxy miliziani in Libano, Siria e Gaza. Gli attacchi israeliani dello scorso anno ai siti di difesa aerea e ad altri obiettivi hanno reso l’Iran più vulnerabile agli attacchi diretti.
La sua economia è sotto pressione a causa delle sanzioni, un messaggio che l’amministrazione Trump ha cercato di trasmettere negli ultimi giorni imponendo nuove sanzioni sul programma nucleare iraniano e sulle società straniere coinvolte nel trasporto di petrolio iraniano.
La batosta subita nella regione da parte dei proxy sostenuti dall’Iran potrebbe anche aver rafforzato la determinazione di Teheran a preservare gran parte del suo programma nucleare.
Ali Shamkhani, uno dei principali aiutanti di Khamenei, ha dichiarato giovedì scorso che se i nemici dell’Iran continueranno a minacciare un’azione militare, Teheran potrebbe adottare quelle che ha definito misure di deterrenza, compreso il trasferimento delle scorte di uranio in “luoghi sicuri”.

(Rights Reporter, 12 aprile 2025)


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Senza una meta in vista

Apprendiamo senza particolare sconcerto che a marzo, Adam Boehler, inviato da Donald Trump come negoziatore per la liberazione degli ostaggi, aveva incontrato faccia a faccia tre membri dell’ufficio politico di Hamas.
Lo sconcerto invece Boehler lo aveva suscitato in Israele dopo le sue dichiarazioni a seguito dell’incontro in cui aveva affermato che i membri di Hamas sono esseri umani come noi e che è dalla loro umanità che bisogna partire.
L’incontro faccia a faccia, mai avvenuto prima tra un funzionario del governo americano e l’organizzazione jihadista, era finalizzato alla liberazione dell’ostaggio americano Edan Alexander. Trump desiderava che venisse liberato prima del suo discorso sullo Stato dell’Unione in modo da intestarsene il merito, ma diversamente da Netanyahu, che lo scorso gennaio aveva acconsentito per la medesima ragione, alla perentoria richiesta di Steve Witkoff di fare un accordo con Hamas prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, Hamas aveva rifiutato.
Le parole di Boehler su Hamas e la loro componente umana, così chiaramente manifestata il 7 ottobre del 2023, hanno poi trovato appoggio nelle parole di Witkoff durante la sua intervista con Tucker Carlson, nella quale ha detto che alla fine, i jihadisti non sono così radicalizzati e che con loro si può dialogare.
Come ha ricordato su queste pagine Daniel Pipes, non è certo una prerogativa dell’Amministrazione Trump quella di scegliere dei dilettanti di politica completamente inesperti di Medio Oriente, nel ruolo di inviati speciali nella regione, ciò non toglie che la piena legittimazione da parte americana di Hamas come interlocutore, inaugurata dall’Amministrazione Biden e proseguita da quella Trump, ha solo incrementato il suo potere contrattuale.
La guerra a Gaza prosegue da un anno e mezzo senza che se ne veda il termine, e 34 ostaggi vivi sono ancora detenuti.
Nell’incontro tra Trump e Netanyahu avvenuto l’8 aprile a Washington, su Gaza non è stata spesa alcuna parola rilevante, Trump si è limitato a dire che essa rappresenta un notevole asset edilizio, in compenso si è deciso di mandare Witkoff in Oman sabato per negoziare con l’Iran.
L’Iran dovrebbe impegnarsi a smantellare il suo programma nucleare, se non lo farà, Trump non ha escluso l’opzione militare. A questo proposito la presenza militare americana in Medio Oriente è stata incrementata tramite l’invio di un secondo gruppo di portaerei.
In attesa di vedere quale sarà l’esito dell’incontro si può solo constatare che a Gaza Hamas controlla ancora circa il sessanta per cento del territorio, detiene gli ostaggi come assicurazione sulla sua sopravvivenza e non esiste alcun piano concreto, cioè programmaticamente attuabile, né americano né israeliano per un futuro post Hamas, sempre che un futuro di Gaza senza Hamas sia praticabile.

(L'informale, 12 aprile 2025)

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Vento di cambiamento nell’IDF: sì allo smalto e alla barba

di Michelle Zarfati

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L’IDF è pronto ad approvare una serie di modifiche al suo codice di abbigliamento per i soldati, tra cui consentire ai militari di farsi crescere la barba. In precedenza, solo i soldati ebrei osservanti avevano il permesso di tenere la barba lunga. Secondo i nuovi cambiamenti, tutte le truppe potranno avere lo stesso diritto purché sia ordinata e soddisfi le linee guida dell’IDF. Inoltre, le soldatesse potranno indossare quasi tutti i colori di smalto. In precedenza, lo smalto era limitato a una manciata di colori, come il rosa, il nero e il grigio.
Un altro cambiamento sarà quello che consentirà ai soldati di tornare a casa mentre indossano la loro uniforme tattica. In precedenza, quando le truppe lasciavano la loro base per il congedo, dovevano indossare uniformi eleganti, note come “Madei Aleph”.
Queste riforme proposte fanno parte di un piano molto più ampio guidato dal capo di stato maggiore Eyal Zamir che ha assunto la guida dell’IDF a marzo. Il suo mandato è caratterizzato da un’enfasi sulla modernizzazione, compresi gli adeguamenti alle politiche interne per riflettere meglio le esigenze dei membri del servizio di oggi e allinearsi con le norme sociali in evoluzione. In attesa dell’approvazione finale delle modifiche, si può segnalare il continuo impegno dell’IDF ad allineare la vita militare con i valori contemporanei e a sostenere un ambiente più inclusivo per il suo personale.

(Shalom, 10 aprile 2025)

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Un periodo decisivo per la sconfitta dell’Iran

di Ugo Volli

L’evento politico più importante per Israele nell’ultima settimana è stata la visita di Netanyahu alla Casa Bianca: non programmata e non prevista, in risposta a un invito urgente di Trump nel pieno della crisi dei dazi. Il primo ministro israeliano è volato direttamente a Washington dall’Ungheria, tralasciando per un paio di giorni le intricate polemiche interne al sistema politico israeliano. Nel breve colloquio con la stampa alla fine dei colloqui e nelle dichiarazioni successive, alcuni hanno voluto leggere un fallimento: Israele non ha ottenuto un trattamento di favore sui dazi, ma Trump già meditava evidentemente di sospenderli e Israele ha chiarito il proprio proposito di eliminare dazi e ostacoli ai prodotti americani, entrando evidentemente nel numero dei paesi amici che non dovrebbero essere davvero penalizzati in futuro. Sulla guerra di Gaza e con l’Iran, dicono queste voci, Trump non si è del tutto allineato con Israele.

Gaza
   Vediamo. Per quanto riguarda Gaza e la guerra, Trump non ha spinto perché Israele sospendesse l’azione in corso, soprattutto la costruzione di ampie zone cuscinetto sottratte al controllo palestinese, in particolare al confine con l’Egitto, e non ha nemmeno eccepito a un provvedimento in corso da due settimane, la sospensione dell’ingresso dei rifornimenti a Gaza, che senza dubbio ai tempi di Biden avrebbe suscitato un putiferio. Né Trump si è tirato indietro dal piano di favorire l’espatrio delle popolazione di Gaza. Insomma, non ci sono novità in un atteggiamento fortemente filo-israeliano, di cui fa parte anche la personale, evidente commozione di Trump per la sorte dei rapiti. Basta confrontare il suo atteggiamento con quello di Macron, che alla fine di una visita in Egitto ha annunciato il prossimo riconoscimento dell’inesistente “Stato di Palestina” per capire la sua posizione, che non è cambiata da tempo.

La trattativa in Oman
   Perché dunque Trump ha voluto parlare con Netanyahu? Il tema centrale dell’incontro è stato l’Iran, come ha dichiarato lo stesso primo ministro israeliano. Trump gli ha annunciato i colloqui previsti per sabato in Oman fra il suo inviato in Medio Oriente, Steve Witkoff, con il ministro degli esteri dell’Iran Abbas Araghchi. Che si annuncino questi colloqui è una novità, perché il “leader supremo” Khamenei aveva escluso ogni trattativa. Netanyahu ha detto che ne era a conoscenza, ma non ne aveva mai parlato. Ora la discussione sui giornali è se saranno colloqui diretti, come sostiene Witkoff, o solo indiretti, come dice Araghchi. Ma il punto vero non è questo. Israele non vuole che questo incontro in Oman sia l’inizio di un ciclo di trattative lunghe che farebbe guadagnare tempo all’Iran. Per Israele questo dovrebbe essere piuttosto un punto finale, in cui gli ayatollah dovranno rispondere a un’alternativa secca.

Il modello libico o la guerra
   Vi sono due possibilità, ha dichiarato Netanyahu. O l’Iran accetta di disarmare completamente il suo sistema di attacco nucleare, consegnando l’uranio arricchito che è il combustibile delle bombe atomiche (sembra che ne abbia già abbastanza per sei testate); smantellando il sistema delle centrifughe che permettono l’arricchimento; distruggendo il programma missilistico; e facendo tutto ciò sotto il diretto controllo americano – questo è quello che si chiama “modello libico” perché si riferisce al processo attraverso il quale la Libia, sotto il regime di Muammar Gheddafi, accettò di abbandonare volontariamente il suo programma di armi nucleari e altre armi di distruzione di massa sotto controllo internazionale nei primi anni 2000. Oppure il suo armamento nucleare e missilistico dovrà essere distrutto con mezzi bellici.

L’accumulo di potenza militare contro l’Iran
   Di questo hanno dunque parlato Trump e Netanyahu: una conversazione avvenuta in parallelo alle consultazioni di alto livello che si sono avute nell’ultima settimana fra i capi militari israeliani e americani e soprattutto alla costruzione di una imponente forza aeronavale americana intorno al Medio Oriente. Stanno arrivando nella zona quattro flotte con portaerei; nell’isola britannica di Diego Garcia (che è a portata di autonomia aerea dall’Iran) si sono radunati numerosi bombardieri strategici da bombardamento fra cui sei modernissimi B-2 invisibili al radar e capaci di portare le più grandi bombe anti-bunker del mondo; decine di voli di immensi aerei da carico hanno portato in Israele e nelle basi americane in Medio Oriente i più avanzati sistemi antimissile. Si può dire che oltre un terzo della potenza militare americana si stia concentrando intorno all’Iran.

Le prospettive
   Significa questo che l’attacco all’Iran è inevitabile? No, per carattere e per ideologia Trump preferisce le trattative anche durissime alla guerra. E soprattutto non vuole il coinvolgimento diretto di militari americani sul terreno. Per questo ha cercato le trattative, mandando qualche settimana fa una lettera diretta a Khamenei, autorizzando il negoziato in Oman e fra l’altro in un contesto diverso facendo incontrare diverse volte i suoi uomini direttamente con Hamas. Questa riluttanza lo mette in conflitto con Netanyahu, come molti nemici di Israele dicono con malcelata gioia? Neppure. Anche Israele preferirebbe che il regime clericale di Teheran cedesse le armi, perché esso dispone di ostaggi (fra cui circa 10 mila ebrei che vivono in Iran); perché ha probabilmente la possibilità di fare male a Israele (basterebbe una bomba atomica fatta esplodere con qualunque mezzo a Tel Aviv per mettere in ginocchio il paese; perché infine Israele pensa che si possa distinguere una popolazione iraniana innocente e perfino amica dall’aggressione del regime). Se il governo iraniano fosse costretto a rinunciare alle armi e alle manovre imperialistiche per cui ha impoverito il proprio popolo negli ultimi decenni, probabilmente finirebbe col cadere ignominiosamente, lasciando spazio alla resistenza pacifica che in questi anni è spesso emersa, pagando prezzi altissimi. Ma se la trattativa non si concludesse? La risposta l’ha data Trump in una dichiarazione dopo l’incontro con Netanyahu: “Se sarà necessario un intervento militare con l’Iran, ci sarà un intervento militare e Israele sarà coinvolto e guiderà l’azione”.

(Shalom, 11 aprile 2025)
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Disse Trump: “Se sarà necessario un intervento militare con l’Iran, ci sarà un intervento militare e Israele sarà coinvolto e guiderà l’azione”. Una delle tante frasi ad effetto di Trump, che a pensare agli ostaggi si commuove. Nel dicembre scorso ne aveva detta, anzi scritta, un'altra: "Tutti parlano degli ostaggi israeliani detenuti in modo violento e disumano, ma nessuno agisce. Se gli ostaggi non verranno rilasciati prima del 20 gennaio 2025, la data in cui assumerò con orgoglio il mio incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà un vero e proprio inferno in Medio Oriente, anche per quelli che sono responsabili di queste atrocità contro l’umanità”. La maggior parte degli ostaggi presenti allora a Gaza è ancora lì. E se è vero che in Medio Oriente adesso c'è l'inferno, vuol dire che i diavoli di Hamas rimasti dentro ci si sono abituati, perché continuano a muoversi come prima e più di prima. E' stato fatto un serio confronto fra gli interessi di Trump e quelli di Israele? M.C.

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Americani sempre più critici verso Israele

Un nuovo sondaggio negli Stati Uniti mostra che gli americani sono sempre più critici nei confronti di Israele. Questa tendenza è ancora più forte tra i giovani.

Il favore di Israele tra gli americani è diminuito significativamente negli ultimi anni. Un sondaggio del Pew Research Center conclude che il 53% degli americani adulti ha una visione negativa di Israele. Nel 2022, un anno prima dell'attacco di Hamas a Israele, la percentuale era del 42%.
Secondo il Pew Research Center, ci sono differenze tra i sostenitori democratici e quelli repubblicani. Secondo lo studio, il 37% dei repubblicani ha una visione negativa di Israele (2022: 27%), mentre il 69% dei democratici ha una visione negativa (2022: 53%). Le cifre sono significativamente più alte tra i sostenitori di entrambi i partiti di età inferiore ai 50 anni: il 50% dei repubblicani e il 71% dei democratici hanno un'opinione negativa.
Gli unici gruppi religiosi negli Stati Uniti che hanno un atteggiamento positivo nei confronti di Israele sono gli ebrei (73%) e i cristiani. I protestanti (57%) precedono di poco i cattolici (53%). Gli evangelici bianchi, in particolare, hanno una visione positiva di Israele (72%). Al contrario, l'81% dei musulmani ha un'opinione negativa di Israele.
L'interesse per la guerra è in calo
Inoltre, la maggioranza degli americani è contraria al piano del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump (repubblicano) di occupare la Striscia di Gaza. Il 62% è contrario al piano, mentre il 15% è favorevole.
Il sondaggio è stato condotto tra il 24 e il 30 marzo e ha coinvolto 3.605 cittadini statunitensi.

(israelnez, 11 aprile 2025)

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Huckabee confermato ambasciatore degli Stati Uniti in Israel

“Non posso essere un cristiano e non avere a che fare con il popolo ebraico”

di Adam Eliyahu Berkowitz

Mercoledì il Senato degli Stati Uniti ha votato 53 a 46 per confermare il governatore Mike Huckabee come ambasciatore in Israele.
Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha elogiato la conferma del suo “grande amico”, affermando che si tratta di un “grande giorno per l'alleanza israelo-americana”.
Huckabee ha risposto: “Grazie  e non vedo l'ora di lavorare con te mentre preghiamo per la 'Pace di Gerusalemme!”.
Forte sostenitore di Israele, Huckabee è stato nominato dal Jerusalem Post il secondo sionista più influente d'America nel 2024.
Huckabee, ordinato ministro battista del Sud, è il primo non ebreo nominato alla carica da quando il presidente George W. Bush nominò James Cunningham nel 2008. Ci sono nove membri ebrei del Senato degli Stati Uniti - tutti democratici o indipendenti - e nessuno di loro ha votato per Huckabee. Huckabee ha affrontato una dura opposizione da parte dei democratici che si sono opposti al suo sostegno a Israele basato sulla fede.
In un video pubblicato sui social media, Huckabee spiega la sua devozione a Israele: “Si può essere ebrei e non avere nulla a che fare con i cristiani, ma non posso essere cristiano e non avere niente a che fare con il popolo ebraico, la fede ebraica, le Scritture. Tutto ciò in cui credo è costruito sulle fondamenta di queste, quindi per me - e per la maggior parte degli evangelici - si può dire che siamo persone del Libro. È semplice”.
Ronald Lauder, presidente del Congresso ebraico mondiale, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

    «A nome del Congresso ebraico mondiale, mi congratulo con Mike Huckabee per la sua conferma e non vedo l'ora di sostenerlo mentre si reca a Gerusalemme per questo importante incarico in un momento storico. La sua nomina prosegue il chiaro impegno dell'amministrazione Trump a rafforzare l'alleanza tra Stati Uniti e Israele in un momento di grandi sfide e opportunità.
    Sono certo che, in qualità di inviato in Israele, l'ambasciatore Huckabee continuerà a impegnarsi per rafforzare il legame unico tra le due nazioni, mantenendo in cima all'agenda la richiesta di liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas. La loro continua prigionia è una macchia quotidiana sulla coscienza della comunità internazionale, e ogni canale disponibile deve essere utilizzato per riportarli a casa.»

Huckabee è un forte sostenitore di Israele e si oppone alla statualità palestinese. In un'intervista del 2015 al Washington Post, ha dichiarato: “L'idea che abbiano una lunga storia, che risale a centinaia o migliaia di anni fa, non è vera”.
Si oppone alla Soluzione dei due Stati, un programma politico che creerebbe uno Stato arabo militarizzato senza precedenti ai confini di Israele, ripulito etnicamente dagli ebrei, con una capitale esclusivamente musulmana a Gerusalemme. Al suo posto, sostiene la sovranità di Israele sulla terra conquistata nella guerra difensiva dei Sei Giorni del 1967. Ha suggerito che uno “Stato palestinese” potrebbe essere istituito in Paesi vicini come l'Egitto, la Siria o la Giordania,  dove vive già un numero molto maggiore di palestinesi, piuttosto che all'interno dei confini di Israele.
Nel 2017, in un evento in Samaria, ha dichiarato: “Non esiste una Cisgiordania - è Giudea e Samaria. Non esiste un insediamento. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste un'occupazione”.
Ha anche respinto il concetto di identità palestinese, affermando che si tratta di “uno strumento politico per cercare di sottrarre terra a Israele”.
“Fondamentalmente, non esiste - devo stare attento a dirlo, perché molti si arrabbierebbero - una cosa come un palestinese”, ha detto Huckabee in una tappa della campagna elettorale del 2008 in Massachusetts, mentre parlava con due uomini ebrei ortodossi. “Non esiste”.

(Israel365, 11 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Parashat Tzav. Essere ebrei significa offrire ringraziamento e gratitudine

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Tra i sacrifici descritti nella Parashà di questa settimana c’è il korban todà, l’offerta di ringraziamento: “Se (una persona) offrirà [il sacrificio] come offerta di ringraziamento, allora insieme a questa offerta di ringraziamento offrirà azzime impastate con olio, gallette non lievitate unte con olio e focacce di fior di farina ben impastata e mescolata con olio.” (Levitico 7:12)
Anche se siamo senza sacrifici da quasi duemila anni, una traccia dell’offerta di ringraziamento sopravvive fino ad oggi, sotto forma della benedizione nota come Hagomel: “Colui che elargisce il bene anche agli indegni”, recitata in sinagoga, al momento della lettura della Torà, da chi è sopravvissuto a una situazione pericolosa.
Cosa costituisce una situazione pericolosa? I Maestri (Berachot 54b) trovarono la risposta nel Salmo 107, un canto sul tema del ringraziamento, che inizia con le parole più note della gratitudine religiosa nell’ebraismo: “Hodu la-Shem ki tov, ki le-olam chasdo”, “Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la Sua bontà dura per sempre” (Salmo 107).
Il salmo stesso descrive quattro situazioni specifiche:

  1. Attraversamento del mare:
    Alcuni scesero in mare su navi; erano mercanti sulle grandi acque… Salivano fino al cielo e scendevano negli abissi; nella loro angoscia il coraggio veniva meno… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li trasse fuori dalle loro difficoltà. Calmò la tempesta in una brezza; le onde del mare si acquietarono.
  2. Attraversamento del deserto:
    Alcuni vagavano in terre desertiche, senza trovare la via per una città dove stabilirsi. Erano affamati e assetati, la loro possibilità di vita stava venendo meno. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li liberò dalle loro difficoltà.
  3. Guarigione da una grave malattia:
    Rifiutavano ogni cibo e si avvicinavano alle porte della morte. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Mandò la Sua parola e li guarì; li liberò dalla tomba.
  4. Liberazione dalla prigionia:
    Alcuni sedevano nelle tenebre e nell’ombra più cupa, prigionieri che soffrivano in catene di ferro… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra più cupa e spezzò le loro catene. (Berachot 54b)

Ancora oggi, queste sono le situazioni di pericolo (oggi molti includono anche il volo aereo oltre al viaggio per mare) per le quali si recita l’Hagomel quando si è scampati indenni.
Nel suo libro A Rumour of Angels, il sociologo americano Peter Berger (1929-2017) descrive ciò che chiama “segnali di trascendenza” – fenomeni all’interno della condizione umana che indicano qualcosa al di là. Tra questi include l’umorismo e la speranza. Non c’è nulla nella natura che spieghi la nostra capacità di riformulare situazioni dolorose in modo da poterci ridere sopra; né c’è nulla che spieghi la capacità umana di trovare un senso persino nelle profondità della sofferenza.
Questi non sono, nel senso classico, prove dell’esistenza di Dio, ma sono evidenze esperienziali. Ci dicono che non siamo aggregazioni casuali di geni egoisti che si riproducono ciecamente. I nostri corpi possono essere prodotti della natura (“polvere sei e alla polvere ritornerai”), ma le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre emozioni – tutto ciò che è indicato con la parola “anima” – non lo sono. C’è qualcosa dentro di noi che tende verso qualcosa oltre noi: l’anima dell’universo, il Divino “Tu” a cui ci rivolgiamo nella preghiera, e al quale i nostri antenati, quando esisteva il Tempio, offrivano i loro sacrifici.
Anche se Berger non lo include, uno dei “segnali di trascendenza” è sicuramente il desiderio umano istintivo di rendere grazie. Spesso è semplicemente umano. Qualcuno ci ha fatto un favore, ci ha fatto un dono, ci ha consolato nel dolore, o ci ha salvati dal pericolo. Sentiamo di dovergli qualcosa. Quel “qualcosa” è todà, la parola ebraica che significa sia “riconoscimento” che “ringraziamento”.
Ma spesso sentiamo qualcosa di più. Non è solo al pilota che vogliamo dire grazie quando atterriamo sani e salvi dopo un volo pericoloso; non solo al chirurgo, quando sopravviviamo a un’operazione; non solo al giudice o al politico, quando siamo liberati da prigionia o cattività. È come se una forza più grande fosse entrata in azione, come se la mano che muove i pezzi sulla scacchiera umana avesse pensato a noi; come se il cielo stesso fosse sceso in nostro aiuto.
Le compagnie di assicurazione tendono a definire le catastrofi naturali come “atti di Dio”. L’emozione umana fa l’opposto. Dio è nella buona notizia, nella sopravvivenza miracolosa, nella salvezza dalla catastrofe. Questo istinto – di offrire ringraziamento a una forza, una presenza, al di sopra delle circostanze naturali e dell’intervento umano – è esso stesso un segnale di trascendenza. Questo è ciò che un tempo veniva espresso con l’offerta di ringraziamento, e che ancora oggi viene espresso con la preghiera dell’Hagomel. Ma non è solo dicendo l’Hagomel che esprimiamo la nostra gratitudine.
Elaine mia moglie ed io eravamo in viaggio di nozze. Era estate, il sole splendeva, la spiaggia era splendida e il mare invitante. C’era solo un problema. Non sapevo nuotare. Ma osservando il mare, notai che vicino alla riva era davvero molto basso. C’erano persone a diverse centinaia di metri dalla spiaggia, eppure l’acqua arrivava solo alle loro ginocchia. Cosa poteva essere più sicuro – pensai – che camminare semplicemente in mare e fermarmi ben prima di perdere il contatto con il fondo.
Lo feci. Camminai per diverse centinaia di metri e sì, l’acqua arrivava solo alle ginocchia. Mi voltai e cominciai a tornare indietro. Con mia sorpresa e spavento, mi ritrovai improvvisamente sommerso dall’acqua. Evidentemente avevo camminato in un avvallamento nella sabbia. Non toccavo più. Provai a nuotare. Fallii. Era pericoloso. Non c’era nessuno vicino. Le persone che nuotavano erano molto lontane. Andai sotto, più volte. Alla quinta volta, capii che stavo annegando. La mia vita stava per finire. Che modo – pensai – di iniziare un viaggio di nozze.
Ovviamente qualcuno mi salvò, altrimenti non starei scrivendo queste righe. Ancora oggi non so chi fosse: a quel punto ero quasi incosciente. Tutto ciò che so è che deve avermi visto lottare. Nuotò fino a me, mi afferrò e mi portò in salvo. Da allora, le parole che diciamo ogni giorno al risveglio hanno per me un significato profondo: “Ti ringrazio, Dio vivente ed eterno, perché hai restituito la mia vita a me: grande è la Tua fedeltà.” Chiunque sia sopravvissuto a un grande pericolo sa cosa significa sentire, non solo sapere in astratto, che la vita è un dono di Dio, rinnovato ogni giorno.
La prima parola di questa preghiera, Modeh, proviene dalla stessa radice ebraica di Todah, “ringraziamento”. Così anche la parola Yehudi, “ebreo”. Abbiamo ricevuto questo nome dal quarto figlio di Giacobbe, Yehudà. Lui a sua volta ricevette il nome da Leah che, alla sua nascita, disse: “Questa volta ringrazierò [alcuni traducono: loderò] il Signore” (Genesi 29:35).
Essere ebrei significa offrire ringraziamento. Questo è il significato del nostro nome e il gesto costitutivo della nostra fede.
Ci sono stati ebrei che, dopo la Shoah, hanno cercato di definire l’identità ebraica in termini di sofferenza, vittimismo, sopravvivenza. Un teologo parlò di un 614º comandamento: “Non dare a Hitler una vittoria postuma.” Lo storico polacco Salo Baron (1895-1989) chiamò questa lettura della storia “lacrimosa”: una storia scritta con le lacrime. Io, per parte mia, non sono d’accordo. Sì, c’è stata sofferenza ebraica. Eppure se questo fosse stato tutto, gli ebrei non avrebbero fatto ciò che in realtà la maggior parte fece: trasmettere la propria identità ai figli come la loro eredità più preziosa.
Essere ebrei significa provare un senso di gratitudine; vedere la vita stessa come un dono; saper vivere la sofferenza senza esserne definiti; dare alla speranza la vittoria sulla paura. Essere ebrei significa offrire ringraziamento.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz”l

(Bet Magazine Mosaico, 11 aprile 2025)

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Pesach – Il giorno e la notte, l’amaro e il dolce

di Rav Alberto Somek

Nella preghiera del mattino si dice: «Benedetto Tu H…. che forgi la luce e crei il buio» e in quella serale: «… che avvicendi la luce davanti al buio e il buio davanti alla luce». È strano che ogni volta nominiamo anche il dono opposto invece di ringraziare solo per il beneficio del momento! Ma così ci insegna Rabbà bar ‘Ullà nel Talmud: «Si deve menzionare anche il dono del giorno di notte e il dono della notte di giorno» (Berakhot 12b). Una prima spiegazione risiede nel fatto che esiste agli antipodi un’altra terra che beneficia della luce quando da noi è notte e viceversa. Già nello Zohar ciò è noto, alcuni secoli prima della scoperta dell’America (P. Wayqrà, 10a).
  Ma esiste un’altra motivazione più profonda. In tutte le lingue buio è sinonimo di male (si pensi al detto “tempi bui”), mentre luce è sinonimo di bene. Ciò ci rimanda a un versetto della Torah in cui il Faraone ci rivela le sue credenze. Il re d’Egitto «disse loro (a Moshe e Aharon): … guardate che il Male è davanti a voi!» (Shemot 10, 10). Per R. ‘Azaryah Picho (Venezia, sec. XVII) il Faraone era convinto che il D. degli Ebrei fosse un dio del male, in opposizione a un’altra divinità preposta al bene.
  Tale Dio maligno ora perseguitava gli Egiziani, ma una volta distrutti questi se la sarebbe presa anche con gli Ebrei e il Faraone si proponeva di proteggerli trattenendoli e così sottraendoli, per quanto riteneva nelle sue forze, all’influenza nefasta di questa Divinità. Ovviamente il Faraone si sbagliava: esiste un unico D. che amministra il Bene e il Male a seconda di come le persone si comportano.
  Questo è il messaggio che pone la liberazione degli Ebrei dall’Egitto e la contestuale punizione degli Egiziani malvagi a centro e fondamento della nostra fede. Noi ribadiamo tale messaggio due volte al giorno quando, mattina e sera, affermiamo nella Tefillah che D. è fautore tanto dell’avvento del giorno, il bene, che della notte, simbolo di male.
  Ma oltre che il Faraone, Moshe doveva anche persuadere il suo stesso popolo dell’esistenza di una Divina Provvidenza. In quest’ottica preferiamo parlare dell’alternanza di due attributi del S.B.: la middat ha-din, il Suo rigore, e la middat ha-rachamim, ovvero la Sua bontà. Durante il Seder di Pesach prima si intinge un cibo dolce nell’amaro (il sedano nell’acqua salata) e poi si intinge l’erba amara nel dolce (i maròr nel charòsset, impasto di frutta). In questo modo ci ricordiamo che le cose buone (rachamim) non durano in eterno, ma lasciano il posto a momenti bui in cui sembra prevalere il din; d’altronde anche i rigori prima o poi cessano a favore dei momenti buoni. Il Ben Ish Chay di Baghdad indossava al dito un anello su cui era scritto: «Anche questo passa». Nelle disgrazie lo guardava e si consolava; d’altronde, nei momenti buoni si ammoniva che non doveva insuperbirsi per conseguenza, perché neanche questi erano destinati a durare.
  È sintomatico che dei due intingoli solo il secondo è di Mitzwah. È scritto infatti: «E mangeranno la carne (dell’agnello pasquale) in questa notte arrostita sul fuoco, insieme a azzime (matzot) e erbe amare (maròr) (Shemot 12, 8). La Torah ci insegna che il dolce tempera l’amaro e non viceversa! Basta saper attendere e la redenzione si compirà per mano del S.B.

(moked, 11 aprile 2025)

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L'IDF evacuerà Rafah, creando una zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza ed Egitto

Il Corridoio Morag si estenderà per 3,1 miglia nella Striscia, mentre Israele si muove per tagliare le linee di rifornimento di Hamas dal Sinai.

Le Forze di Difesa Israeliane stanno ultimando i piani per evacuare la città di Rafah e stabilire una zona cuscinetto strategica lungo il confine meridionale di Gaza, in quello che i funzionari israeliani descrivono come un passo fondamentale nello smantellamento della presenza militare di Hamas nell'area.
Il piano è incentrato sulla costruzione del Corridoio Morag, una nuova fascia di sicurezza che si estende dalla costa mediterranea a ovest attraverso l'ex insediamento di Morag e si collega al Corridoio Philadelphi lungo il confine egiziano, secondo quanto riportato dai media ebraici. Il corridoio dovrebbe estendersi fino a 5 chilometri (3,1 miglia) all'interno di Gaza, circondando di fatto Rafah.
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato all'inizio della settimana: “Rafah sarà evacuata. Quest'area diventerà una zona cuscinetto per eliminare la capacità di Hamas di riorganizzarsi o di contrabbandare armi attraverso il confine meridionale”.
L'istituzione del corridoio arriva in un momento in cui l'attività dell'IDF nel sud di Gaza è in aumento, con mappe di evacuazione aggiornate che mostrano zone di sgombero ampliate vicino al confine. I funzionari israeliani sottolineano che questo cuscinetto è necessario per impedire la ricostituzione delle forze di Hamas e l'uso dei tunnel di contrabbando che corrono tra Gaza e l'Egitto.
“Questa operazione non è solo tattica ma strategica. Il controllo di Rafah e del Corridoio di Filadelfia chiuderà le ultime vie di rifornimento esterne di Hamas”, ha dichiarato una fonte dell'IDF citata da Ynet.
Sebbene l'IDF non abbia ancora lanciato ufficialmente una completa operazione di terra a Rafah, i preparativi sono in corso e gli ufficiali hanno ribadito che l'offensiva andrà avanti una volta completata l'evacuazione dei civili.

(JNS, 10 aprile 2025)

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Quando la Corte Suprema diventa la Knesset

Cosa succede quando tutte le “vacche sacre” vengono macellate? L'escalation in aula conferma esattamente gli avvertimenti formulati dall'avvocato e giornalista Yuval Elbashan nel suo attuale commento.

di Dov Eilon 

Quello che si è svolto lunedì alla Corte Suprema di Israele è stato più di un'udienza legale: è stato un riflesso dell’imbarbarimento sociale. L'udienza, che riguardava le petizioni per la rimozione del capo dei servizi segreti interni Shin Bet, Ronen Bar, si è trasformata in uno spettacolo politico che in precedenza era più familiare alla Knesset: Fischi, proteste rumorose, attacchi personali.
Prima fra tutte la deputata del Likud Tali Gottlieb, che ha ripetutamente disturbato l'aula ed è stata infine espulsa dal giudice Yitzchak Amit. In un momento quasi simbolico dello stato del Paese, le ammonizioni di Amit hanno ricordato quelle di un oratore della Knesset che richiama all'ordine i parlamentari - tranne che non si trattava del Parlamento, ma della più alta corte di Israele.
L'avvocato e giornalista Yuval Elbashan riassume il tutto in un commento pubblicato su Ynet: “Si potrebbe pensare che sia lo speaker del Parlamento, che, secondo il paragrafo 42 del regolamento interno, deve emettere tre avvertimenti prima di essere autorizzato ad allontanare qualcuno dalla sessione plenaria”. Elbashan, che si è a lungo battuto per la giustizia sociale e lo stato di diritto, descrive in modo impressionante come lo stile politico della Knesset si sia ora insinuato nella magistratura - come risultato di anni di erosione della decenza e del rispetto istituzionale.
E chiede retoricamente: “Cosa pensavate esattamente che sarebbe successo? Che la Corte Suprema sarebbe stata risparmiata quando le vacche sacre sono state macellate ovunque?”. E continua: “Chiunque infranga tutte le regole per protestare contro una violazione delle regole non dovrebbe sorprendersi quando le regole crollano”. Secondo Elbashan, i tribunali sono stati a lungo l'ultimo luogo in cui vigevano ancora l'ordine, la dignità e una certa forma di rituale. Ma anche lì ormai si è insediato il caos.
Questo sviluppo, come lui stesso dice, “non è il risultato di un caso singolo, ma il risultato di anni in cui ci si è voltati dall'altra parte, svalutando e coltivando il chiassoso e lo spietato”. Elbashan critica non solo le voci radicali in parlamento, ma anche la maggioranza silenziosa che ha a lungo tollerato questo imbarbarimento. “Abbiamo lasciato che la facessero franca”, scrive, ‘e ora possiamo vedere dove questo ci porta’.
In effetti, ciò che sta accadendo nel settore giudiziario è espressione di un cambiamento generale nel tono politico e nel rapporto tra le istituzioni. Il tono del dibattito pubblico è diventato più duro negli ultimi anni, non solo in Parlamento, ma anche nei media e online. Anche i tradizionali confini del rispetto delle istituzioni e dei loro rappresentanti sono diventati sempre più labili.
In questo clima, non sorprende che la Corte Suprema non sia più considerata intoccabile. Le controversie sul ruolo della magistratura, sui suoi poteri e sulla sua composizione - ad esempio nel contesto del dibattito sulla riforma giudiziaria - riflettono una tensione più profonda tra i poteri che ora si fa sentire anche nelle aule di giustizia.
Di conseguenza, la questione centrale - se Ronen Bar possa rimanere in carica - è quasi passata in secondo piano. All'indomani dei massacri del 7 ottobre, il capo dello Shin Bet ha ammesso pubblicamente la sua responsabilità, il che non è stato sufficiente per alcuni gruppi. Ma invece di concentrarsi sulle argomentazioni legali, l'udienza è degenerata in uno spettacolo politico che ha fatto più notizia che giustizia.
Elbashan vede in questo una responsabilità della società nel suo complesso: “I maleducati che oggi gridano erano silenziosi ieri, quando si trattava di altri. Quelli che oggi difendono le istituzioni erano silenziosi quando loro stessi traevano vantaggio dall'indebolimento di altri”. Il suo messaggio: il crollo dei toni, delle buone maniere e del rispetto reciproco non è una coincidenza, ma una conseguenza dell'indifferenza collettiva.
Rimane l'amara impressione che le istituzioni democratiche israeliane siano sempre più sotto pressione, non solo dall'esterno, ma anche dal modo in cui si trattano all'interno. Quando la Corte Suprema diventa la Knesset, non è in gioco solo la reputazione della Corte, ma l'equilibrio del potere nella democrazia israeliana nel suo complesso.

(Israel Heute, 10 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Voci da Gaza contro Hamas: il 16 aprile al Senato un evento con due dissidenti palestinesi

Mercoledì 16 aprile alle 18:00 al Senato (Aula Convegni, Palazzo Carpegna, Via degli Staderari, 2) si terrà un evento intitolato ‘Voci da Gaza. La fine di Hamas è la premessa per il cessate il fuoco’ che vedrà la partecipazione di due dissidenti palestinesi anti-Hamas di Gaza: Hamza Howidy, attivista di Gaza per i diritti umani, dissidente anti-Hamas in esilio, e Moumen al-Natour, co-promotore del movimento di protesta Bidna Naish (“Vogliamo vivere”), in collegamento da Gaza. Entrambi sono tra i fondatori di Bidna Naish, nato nel 2019, motore delle proteste in corso nella Striscia di Gaza. Per la loro attività, sono stati incarcerati e torturati più volte.
Li intervisterà la giornalista Sharon Nizza, autrice del libro 7 ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo, analista dei conflitti mediorientali. Un’occasione unica per ascoltare senza filtri voci palestinesi contro il governo di Hamas, oggi al centro delle proteste di migliaia di gazawi esasperati da anni di ingiustizie, violenze e soppressione delle libertà da parte dell’organizzazione al governo dal 2007.
Durante l’evento, interverranno Ivan Scalfarotto, Senatore di Italia Viva, Piero Fassino, Deputato del Partito Democratico, e Lucio Malan, Senatore di Fratelli d’Italia.
Ingresso fino a esaurimento posti. Registrazione obbligatoria: 
segreteria.italiavivailcentrore@senato.it
Per gli uomini obbligo di indossare giacca e cravatta.

(Bet Magazine Mosaico, 10 aprile 2025)

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Pesach – Le proposte educative di Zeraim

Sapevate che nel 1947 David Ben Gurion, per perorare la causa di Israele, rievocò di fronte a una commissione britannica la vicenda dell’Esodo?
«Trecento anni fa, una nave di nome Mayflower, partiva verso il Nuovo Mondo. Si trattava di un grande avvenimento all’interno della storia inglese e americana… Ma io vorrei sapere: c’è forse un inglese che sappia esattamente in quale momento partiva questa nave? Quanti sono gli americani a saperlo? E qualcuno di loro sa forse quante persone c’erano su questa nave e che genere di pane abbiano consumato?», chiese ai suoi interlocutori il futuro primo ministro dello Stato ebraico. «Ecco, più di 3300 anni prima della partenza della Mayflower, uscirono gli ebrei dall’Egitto e ogni ebreo nel mondo, anche in America, o in Russia, sa esattamente in quale giorno».
L’aneddoto è ricordato sul sito dedicato all’educazione ebraica Zeraim, lanciato dall’UCEI nel 2020, che propone in vista dell’ormai imminente Pesach numerosi contenuti inediti per adulti e bambini: Haggadot didattiche, attività per famiglie e proposte di gioco come un trivial e un sudoku incentrati sulla festa. Nel nuovo materiale messo a disposizione in rete c’è anche un approfondimento in vista del Seder, la cena rituale, per ripercorrere quel viaggio verso la libertà nel segno della consapevolezza. E delle domande. È importante arrivarci preparati, si legge, perché «nella notte di Pesach, in cui educhiamo i nostri figli e le nostre figlie alla storia dell’uscita dall’Egitto, dobbiamo fare attenzione alle differenze tra i bambini e dare a ognuno di loro il messaggio più adatto».

(moked, 10 aprile 2025)

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Israele onorerà i civili eroi del 7 ottobre con un riconoscimento ufficiale

di Luca Spizzichino

L’esercito israeliano ha annunciato che i civili uccisi durante l’attacco del 7 ottobre 2023 e che si sono distinti per atti di eroismo riceveranno un riconoscimento e una commemorazione dedicata da parte del governo. Il provvedimento riguarderà anche gli ostaggi assassinati in prigionia a Gaza e i riservisti dell’IDF uccisi mentre non erano in servizio attivo nel corso della guerra “Spade di Ferro”.
  La decisione riflette la volontà dello Stato di “onorare i civili che hanno dimostrato straordinario coraggio”, mantenendo però la distinzione tra personale militare e popolazione civile. Il riconoscimento sarà concesso a tre categorie di persone: civili uccisi mentre combattevano o svolgevano attività di salvataggio il 7 e 8 ottobre, ostaggi uccisi durante la prigionia e riservisti caduti fuori dal servizio. Per queste persone, è previsto un funerale civile con rappresentanza militare, una targa speciale sulla lapide e una menzione ufficiale nella cerimonia statale per le vittime del terrorismo, che si tiene ogni anno al Monte Herzl. I loro nomi saranno inoltre aggiunti al sito commemorativo ufficiale dedicato alle vittime di atti ostili.
  La decisione è arrivato dopo una discussione avviata a marzo su proposta del ministro della Difesa, Israel Katz. Tra i casi che hanno contribuito ad aprire il dibattito, quello di Alon Shamriz, uno dei tre ostaggi uccisi per errore da soldati israeliani a Gaza. La famiglia aveva chiesto che fosse riconosciuto come caduto in servizio, ma la richiesta era stata inizialmente respinta.
  Un comitato apposito all’interno della Direzione del Personale dell’IDF, con la partecipazione di un rappresentante dell’Organizzazione per le Vittime del Terrorismo, esaminerà caso per caso per determinare l’idoneità al nuovo status.

(Shalom, 9 aprile 2025)

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Gaza sfida Hamas, ma l’Occidente guarda altrove: proteste, repressione e silenzi

Per la terza settimana di fila, i gazawi sfidano Hamas con proteste pubbliche. Mentre la repressione si fa più brutale, i media internazionali restano in silenzio.

di Sofia Tranchina

Domenica scorsa, 6 aprile, ancora una volta, da Jabaliya a Deir al-Balah, passando per Gaza City, centinaia, forse migliaia di cittadini palestinesi sono scesi in piazza per chiedere la fine del governo di Hamas, per ricostruire Gaza libera dall’influenza iraniana. “Rilasciate gli ostaggi, cedete il potere, basta guerra con Israele, basta razzi, basta fame, basta morte e devastazione”, chiedono i gazawi.
Le proteste, iniziate il 25 marzo, sono esplose in un clima di orrore e tensione crescente, tra la ripresa dei bombardamenti e le dure dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che ha minacciato l’annessione di parti di Gaza e l’espulsione della popolazione qualora Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi. Da allora si sono susseguiti cortei, raduni spontanei, slogan, cartelli scritti a mano. Nei video condivisi sui social, si vedono i manifestanti urlare, a viso scoperto, “Via Hamas. Via i Fratelli Musulmani. Vogliamo vivere.” Un atto di sfida diretto a Hamas, che dal 2007 governa la Striscia con un pugno di ferro violento, dopo aver preso il potere con “elezioni democratiche” che prevedevano la defenestrazione degli oppositori da alti edifici. Ha instaurato una teocrazia islamica basata su sorveglianza capillare, repressione violenta e controllo ideologico. Il suo leader più noto, Yahya Sinwar — la mente dietro l’attacco del 7 ottobre contro Israele — è salito ai vertici uccidendo rivali palestinesi, e ha descritto i civili palestinesi morti come ‘sacrifici necessari’ alla sua causa. Intanto, gli aiuti umanitari vengono continuamente dirottati ai vertici del gruppo, lasciando la popolazione alla fame.

La reazione violenta di Hamas
   Hamas ha reagito come tutte le dittature: con torture, sparizioni e repressione. Il caso più noto è quello di Oday Al-Rubay, 22 anni, rapito, torturato e ucciso da Hamas la settimana scorsa per aver osato criticare il gruppo sui social media e aver partecipato alle manifestazioni. «Lo hanno rapito e lo hanno torturato per ore», ha raccontato alla CNN il fratello Hassan. «Indossava solo biancheria intima e i combattenti lo avevano legato per il collo con una corda. Me lo hanno restituito vivo, sanguinante, e mi hanno detto: questo è il destino di chi manca di rispetto alle Brigate al-Qassam.» Un video condiviso sui social lo mostra disteso su un letto d’ospedale, coperto di grandi tagli e lividi. Oday è morto poco dopo in ospedale. «Non venite a porgere le condoglianze prima che ci vendichiamo», avrebbe affermato un familiare al suo funerale.
Secondo Ynet News, Hamas ha giustiziato almeno sei palestinesi e ne ha picchiati pubblicamente altri in risposta alle proteste. Ma, a differenza del passato, sta evitando massacri di massa: l’attenzione internazionale è troppo alta. E così, la repressione si trasforma in un altro tipo di violenza: quella narrativa. Il movimento islamista cerca di delegittimare le proteste descrivendole come il risultato di interferenze esterne, e le minimizza, presentandole come vaghi sfoghi “contro la guerra” più che come un attacco al regime. Censura i contenuti più critici e reprime la diffusione di immagini, video, testimonianze.
«Non possono imprigionarli tutti. Non possono ucciderli tutti», ha scritto su Facebook Ahmed Fouad Alkhatib, attivista palestinese-americano e direttore del Project Unified Assistance. «Allora cercano di farli vergognare, accusandoli di essere traditori. Hamas è una minaccia esistenziale per il popolo palestinese a Gaza.»
La disperazione si è tradotta anche in giustizia privata. Secondo The National, una famiglia di Deir al-Balah ha ucciso un poliziotto di Hamas dopo che quest’ultimo aveva aperto il fuoco durante una calca fuori da un deposito di farina, uccidendo un loro parente. Hamas ha definito l’agente “una vittima di criminali” e ha dichiarato: «Non permetteremo a nessuna parte di diffondere il caos nella Striscia di Gaza o di farsi giustizia da sola.»
Anche a Gaza City la tensione è esplosa. Come riportato da Israel Hayom, un clan locale ha chiesto pubblicamente giustizia dopo che un loro figlio è stato torturato a morte dagli agenti del regime. E in un video diventato virale sui social, Hisham al-Barawi, capo di uno dei principali clan di Beit Lahia, ha affermato: «Il governo di Hamas è finito. L’organizzazione ci ha distrutti. Per noi sarebbe meglio se i sudanesi ci controllassero.»
Ufficialmente, Hamas prova a mostrarsi tollerante, in particolare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Il suo ufficio stampa dichiara: «Le proteste sono un diritto legittimo e una parte essenziale dei valori nazionali in cui crediamo e che difendiamo.» Una frase studiata per mantenere una facciata di legittimità democratica, pur continuando a reprimere il dissenso.

Le voci palestinesi “contro” Hamas e il cieco Occidente
   Poche voci riescono, malgrado tutto, a bucare la barriera e arrivarci da Gaza. Hamza Howidy, attivista sociale e volto storico del movimento Bidna N’eesh (“Vogliamo vivere”), è uno dei pochi a parlare apertamente. Arrestato e torturato nel 2019 per aver organizzato proteste anti-Hamas, oggi accusa il silenzio dell’Occidente: «Il popolo di Gaza è pronto a liberarsi da Hamas e rischia la vita per farlo, ma i loro sforzi vengono ignorati dal movimento filopalestinese e dai media. Se non sostengono i gazawi che rischiano tutto, che tipo di movimento è? Un movimento di natura vuota e opportunistica, che non vede i palestinesi come persone vere con lotte reali, ma come strumenti da usare nelle loro battaglie ideologiche. Per questo Mahmoud Khalil [lo studente palestinese arrestato in Europa per aver inneggiato a Hamas] è stato inneggiato come martire, mentre Oday Al-Rubay è stato lasciato morire in silenzio per mano del regime».
Anche Bassem Eid, attivista palestinese per i diritti umani, punta il dito contro l’ipocrisia: «È tempo di ascoltare la gente di Gaza, non i terroristi che controllano le loro vite.»
Secondo Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research, le proteste sono state innescate da tre fattori principali: la fame, il desiderio di porre fine alla guerra e, «soprattutto, la richiesta a Hamas di dimettersi e lasciare il governo». Tuttavia, va notato che il sentimento anti-Hamas a Gaza non implica necessariamente un desiderio di normalizzazione con Israele. Shikaki avverte che queste dimostrazioni non rappresentano ancora una minaccia concreta al controllo del gruppo islamista. I sondaggi condotti dal suo centro indicano che la maggioranza dei cittadini di Gaza attribuisce le proprie sofferenze principalmente a Israele e agli Stati Uniti. Solo uno su cinque ritiene responsabile Hamas. Inoltre, i valori fondamentali dei cittadini di Gaza in termini di identità religiosa, nazionale e disponibilità al martirio non sono diminuiti. Molti gazawi hanno espresso semplicemente il timore che, finché Hamas resterà al potere, Israele continuerà a bombardare e i civili continueranno a subire morte e sfollamento.
Le proteste sono spontanee, disorganizzate, prive di leadership e senza un programma chiaro. Non sono una rivoluzione, non sono una “Primavera araba”. Ma sono qualcosa che, fino a ieri, sembrava impensabile.

Le responsabilità dei media
   Il nodo della comunicazione è centrale. Negli ultimi giorni, sempre più palestinesi hanno accusato i media — in particolare Al Jazeera — di minimizzare o ignorare le proteste anti-Hamas. In rete, il canale qatariota è stato soprannominato “Al Khanzeera” (“il maiale”), parodia del nome ufficiale che in arabo fa rima: «quando proteste e dimostrazioni contro Hamas avvengono a Gaza, Al Jazeera le copre a malapena, e questo è deliberato. Hanno impegnato le loro troupe a costruire una narrativa secondo cui noi non possiamo vivere senza Hamas» si lamentano, secondo quanto riportato da Haaretz. Ramzi, da Gaza, aggiunge: «Quando arrivano le telecamere, la gente sanguina più forte. Non perché fa più male, ma perché forse, finalmente, qualcuno ci vedrà. Si affrettano a scattare una foto a un uomo che tiene in braccio il suo bambino decapitato invece di confortarlo. Il dolore è diventato un’esibizione
La frustrazione non è solo verso Hamas e i media arabi. Anche le istituzioni internazionali sono accusate di ignorare le voci dei gazawi dissidenti. In un video condiviso da migliaia di utenti, Hillel Neuer, avvocato e direttore di UN Watch, ha denunciato il silenzio delle Nazioni Unite sulle proteste anti-Hamas.
Secondo l’analista Bret Stephens, editorialista del New York Times, Hamas è paragonabile ai Khmer Rossi della Cambogia: «un culto della morte che prometteva liberazione e promuoveva massacri, con i suoi apologeti nei campus universitari americani.» Per Stephens, la questione va oltre Hamas: «Se la richiesta fondamentale non è uno Stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele, allora il conflitto è destinato a continuare. I palestinesi devono abbandonare il terrorismo, ma anche le forme più subdole di distruzione di Israele, come la pretestuosa richiesta del diritto al ritorno per i discendenti dei rifugiati palestinesi, un diritto il cui scopo principale è quello di sommergere Israele demograficamente in modo che non sia più in grado di mantenere una maggioranza ebraica.»
In tutto questo, Gaza rimane sospesa. Le proteste non sono ancora una rivoluzione, ma ne portano un seme, con la supplica “Basta guerra, lasciateci vivere”.

(Bet Magazine Mosaico, 9 aprile 2025)

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Travel Photographer of the Year: vince l’israeliano Galitz con gli scatti alle isole Svalbard

di Jacqueline Sermoneta

FOTO
Ha viaggiato negli angoli più remoti della Terra, catturando immagini mozzafiato. Scatti unici quelli del fotografo naturalista pluripremiato, Roie Galitz, 44 anni, di Givatayim, in Israele, che non solo svelano la bellezza della natura ma vogliono anche portare all’attenzione e sensibilizzare il pubblico sulle questioni ambientali.
  Una missione, dunque, per Galitz, che ha vinto il primo premio del prestigioso concorso Travel Photographer of the Year nella categoria portfolio ‘Terra – Paesaggi, Clima e Acqua’ grazie agli incredibili scatti a Bråsvellbreen, un ghiacciaio che fa parte della più grande calotta di ghiaccio di Austfonna, nelle isole Svalbard. Al concorso hanno partecipato amatori e professionisti di oltre 150 Paesi, che hanno inviato oltre 20mila foto.
  Secondo la giuria Galitz “cattura perfettamente il tema del paesaggio, del clima e dell’acqua da diverse prospettive su un ambiente che sta affrontando alcune delle più grandi minacce alla sua futura esistenza”.
  Il fotografo ha fondato la Galitz School of Photography, la più grande scuola di fotografia in Israele e Phototeva Expeditions, una compagnia specializzata in viaggi fotografici. Dal 2012 Galitz ha guidato 30 volte gruppi di persone nelle isole Svalbard, che distano circa 650 km dal Polo Nord. “È come essere su un altro pianeta, il più lontano e diverso possibile dalla vita quotidiana. – ha detto in un’intervista a Israel21c – Il sole non tramonta. È pieno di ghiaccio e non ci sono alberi. È un deserto più duro del nostro Negev in Israele”. “Il ghiacciaio Bråsvellbreen – ha aggiunto – si sta rapidamente sciogliendo e, con l’aumento delle temperature, la sua acqua di fusione blu brillante contribuisce a far crescere sempre di più il livello dell’oceano. Vedo la differenza anno dopo anno. È catastrofico”.
  Inoltre, Galitz dirige il suo obiettivo verso la spettacolare fauna selvatica dell’Artico: orsi polari, volpi artiche, balene, trichechi, foche. “Mi piace mostrare gli animali perché, per quanto sia possibile relazionarci con un pezzo di ghiaccio, ci leghiamo più facilmente agli enormi e soffici orsi polari, i più grandi predatori terrestri del mondo. – spiega – Quando i ghiacci si sciolgono, gli orsi polari muoiono di fame. Di conseguenza, quando diminuiscono, sappiamo che siamo in pericolo perché gli oceani si stanno alzando. Ironicamente si può dire che è un effetto valanga”. Al ritorno di due spedizioni in Antartide, Galitz racconta a Israel21c: “Anche qui vediamo gli effetti del cambiamento climatico, ma l’Antartide è più protetta dell’Artico. Tuttavia, notiamo molti pezzi delle calotte di ghiaccio antartiche che si stanno rompendo, un processo che sta accelerando negli ultimi anni”.
   Alla notizia della selezione del collega e amico israeliano, Amit Eshel, nella categoria Wildlife & Nature del concorso dei Sony World Photography Awards 2025, ha commentato: “È motivo di orgoglio e onore avere fotografi israeliani in prima linea. Vogliamo mostrare a tutti che gli israeliani non si occupano solo di conflitti e di alta tecnologia. Diamo il nostro contributo al mondo anche in tanti altri contesti”.

(Shalom, 9 aprile 2025)

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Quasi duemila milionari hanno lasciato Israele nell'ultimo anno

Secondo un rapporto pubblicato questa settimana da Henley & Partners, in collaborazione con la società di consulenza internazionale New World Wealth, il numero di milionari in Israele diminuirà nel 2024, mentre città come Dubai, New York e Singapore continueranno ad attrarre nuove fortune.
Tel Aviv e Herzliya sono scese nella classifica mondiale delle città con la più alta concentrazione di ricchezza, scendendo al 47° posto nel 2024. Il rapporto evidenzia che quasi 1.700 milionari hanno lasciato Israele nell'ultimo anno, riducendo il numero totale di persone con beni superiori a 22.600 milioni di dollari in queste due città a 24.300, in calo rispetto ai 2023 del XNUMX.
Lo studio rileva inoltre che a Tel Aviv e Herzliya vivono ancora 76 individui con un patrimonio superiore ai 100 milioni di dollari e nove miliardari, ma avverte che la crescita delle grandi fortune in Israele ha subito un notevole rallentamento. Nell'ultimo decennio il numero dei milionari è aumentato del 25%, una cifra notevolmente inferiore alla crescita del 45% registrata nel decennio precedente.
Il rapporto colloca New York al primo posto della classifica, con oltre 384.500 milionari, 818 persone con un patrimonio superiore a 100 milioni di dollari e 66 miliardari. Seguono la Bay Area di San Francisco e Tokyo.

(Aurora Israel, 9 aprile 2025)

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L’ex sindaca che voleva gli haredi in fabbrica

di Daniel Reichel

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  Aliza Bloch, 62 anni, oggi è presidente della Iasa, l’Accademia delle arti e delle scienze dedicata agli studenti più dotati

Basco, tailleur, spilletta con la qualifica di sindaco: a Beit Shemesh, città israeliana a sud-ovest di Gerusalemme, negli ultimi anni molte bambine si sono travestite così per Purim. L’eroina da cui prendevano ispirazione era Aliza Bloch, la prima donna sindaco di Beit Shemesh. «All’inizio mi sentivo molto, molto a disagio. Non mi sembrava appropriato. Ma poi ho capito che era un gesto importante: queste bambine avevano trovato un modello di riferimento e potevano sognare in grande», spiega Aliza Bloch a Pagine Ebraiche.
  Quasi nessuno, nel 2018, immaginava possibile la sua elezione a sindaco. Nonostante il malcontento generale per la gestione dell’allora primo cittadino, Moshe Abutbul, pochi credevano nella possibilità di vittoria per una candidata donna, senza esperienza politica, religiosa ma non haredi (dall’ebraico “timorati di D-o”, impropriamente definiti in italiano ultraortodossi), in una città in cui metà della popolazione appartiene a questa comunità.
  «Ho deciso di entrare in politica per assumermi una responsabilità maggiore nei confronti della società. L’ho fatto nonostante le difficoltà lungo il percorso e ho colto questa opportunità per lavorare a un futuro migliore per la città», afferma oggi, richiamando la lezione di Ester, la salvatrice del popolo ebraico ricordata durante la festa di Purim. «La storia di Ester porta con sé un messaggio molto attuale: non dobbiamo accettare la realtà così com’è. Anche quando sembra estremamente difficile, dobbiamo fare tutto il possibile per cambiarla. Non bisogna avere paura, con la consapevolezza che non sempre si riesce, ma è necessario provare».
  Parole che riflettono il percorso politico di Bloch. Ottenuto il primo mandato, ha lavorato costantemente per cambiare il volto di Beit Shemesh. Anche i suoi oppositori le hanno riconosciuto un impegno costante: dalle cinque del mattino fino a sera, la sindaca era sempre impegnata in qualche progetto comunale. «Per me il punto di partenza era costruire una città in cui tutti potessero sentirsi a casa». Nata nel 1963 in una famiglia di immigrati marocchini, legata al sionismo religioso, Bloch ha diretto per 16 anni una scuola superiore della città a una trentina di chilometri a ovest di Gerusalemme.
  «Ho sempre creduto nella diversità, sia nella scuola che nel mio mandato politico». Una volta eletta sindaca, si è impegnata a costruire campi da calcio, una yeshivah (scuola religiosa), un parco giochi, un mikveh (bagno rituale) e un centro culturale. «Un progetto per i religiosi non è in contrasto con uno rivolto al pubblico laico. L’importante è costruire opportunità per tutti».
  I quotidiani locali raccontano che, il primo giorno di lavoro, Bloch è andata a trovare i dirigenti di alcune fabbriche della zona, chiedendo loro di assumere personale haredi nei loro stabilimenti. Alcuni hanno seguito il suo consiglio. «Solo con l’integrazione possiamo comprenderci. Le divisioni tra noi israeliani sono il pericolo maggiore per la nostra società», spiega Bloch, esprimendo grande rammarico per non essere riuscita a portare avanti il suo progetto fino in fondo. Ricandidatasi nel 2024, è stata sconfitta da Shmuel Greenberg, candidato di Degel HaTorah, un partito haredi.
  «Avrei voluto che la città rimanesse mista. Credo profondamente che una città eterogenea, con cittadini di diverse origini e fedi, abbia un maggiore potenziale di crescita. Penso che questo valga per tutto il paese». Purtroppo, aggiunge, a Beit Shemesh la politica si è mossa in un’altra direzione.
  Beit Shemesh è conosciuta in Israele per i frequenti scontri tra alcuni gruppi haredi e il resto della popolazione. Nel 2021, ad esempio, la Corte Suprema ha ordinato la rimozione di cartelli che imponevano alle donne di vestirsi in modo modesto. Ci sono stati casi in cui estremisti religiosi hanno attaccato delle donne. Nel 2023, la stessa Bloch è stata vittima di un grave episodio: un gruppo di manifestanti legati a una delle correnti haredi ha distrutto i finestrini della sua auto e l’ha assediata all’interno di un edificio scolastico fino all’arrivo dalla polizia. «Non possiamo permettere a un pugno di estremisti di interrompere la routine lavorativa e distogliere l’attenzione dallo sviluppo di Beit Shemesh», aveva replicato allora la sindaca.
  Lasciato l’incarico, Bloch è stata nominata presidente della Israel Arts and Science Academy (Iasa), un’istituzione dedicata agli allievi più dotati. «Valorizzare l’eccellenza e gli studenti di talento dovrebbe essere la norma, non un lusso. Vogliamo rendere questa educazione accessibile a tutti quei segmenti della popolazione per cui, al momento, non lo è». L’obiettivo di Bloch ora è aprire filiali dell’Accademia, oggi a Gerusalemme, anche nel nord e nel sud del paese, oltre a una succursale ad hoc per la comunità haredi.
  «Può sembrare scontato, ma il nostro impegno deve essere garantire cultura per tutti, istruzione per tutti, cercando di mantenere la calma e l’ordine». Un obiettivo solo parzialmente raggiunto a Beit Shemesh, aggiunge. «Ma questo non significa che io rinunci. Come ci insegna Ester, dobbiamo sempre essere pronti a correre rischi per un bene superiore».
  (Aliza Bloch, 62 anni, oggi è presidente della Iasa, l’Accademia delle arti e delle scienze dedicata agli studenti più dotati)

(moked, 9 aprile 2025)

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Israele: i dazi di Trump distruggono il modello economico di Netanyahu

Trump è meno amico di quello che in molti credono, è semplicemente un commerciante che, in quanto tale, non ha amici. In un batter d'occhio ha distrutto le basi su cui si fondava il rapporto tra Israele e gli Stati Uniti.

di Raoul Wootliff*

Nel 1985 gli Stati Uniti fecero una mossa audace e inaspettata. All’apice della Guerra Fredda, firmarono il loro primo accordo di libero scambio – non con una superpotenza o un blocco regionale chiave, ma con Israele, una piccola democrazia mediorientale in difficoltà economica che lottava contro un’inflazione a tre cifre e un isolamento geopolitico.
A prima vista, l’accordo sembrava di poco conto. Ma in realtà era rivoluzionario: una scommessa dell’era della Guerra Fredda sul fatto che l’accesso economico, non solo l’assistenza militare, potesse servire come strumento strategico per stabilizzare gli alleati e proiettare l’influenza americana all’estero.
Quell’accordo sarebbe diventato la pietra miliare di un nuovo tipo di politica estera americana, che andava oltre le basi e le armi per includere mercati e regole. Questa era la visione di Ronald Reagan della “pace attraverso la forza”, tradotta in termini economici: l’apertura del commercio non solo come percorso di crescita, ma come strumento di allineamento ideologico. Israele, fidato e in urgente difficoltà, divenne il banco di prova. E ha funzionato.
L’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Israele ha contribuito a stabilizzare la vacillante economia israeliana, ha attirato capitali stranieri e ha incoraggiato riforme strutturali da tempo attese. Ha catalizzato la trasformazione del Paese in un’economia connessa a livello globale e guidata dall’innovazione.
Allo stesso tempo, ha offerto agli Stati Uniti un modello per un ordine economico internazionale liberale, in cui le nazioni democratiche più piccole potevano crescere e prosperare allineandosi con Washington e inserendosi nel sistema globale guidato dagli Stati Uniti. Negli anni successivi alla Guerra Fredda, questo modello sarebbe proliferato – prima con il NAFTA, poi con accordi commerciali con Giordania, Marocco, Corea del Sud e altri. Ma Israele è stato il primo.
Nessuno ha interiorizzato questa strategia più profondamente di Benjamin Netanyahu. Formatosi negli Stati Uniti e imbevuto di economia reaganiana, Netanyahu è salito al potere su una piattaforma di liberismo di mercato, deregolamentazione e integrazione economica. Come ministro delle Finanze e poi come primo ministro, ha riorientato l’economia israeliana allontanandola dalle sue radici socialiste e orientandola verso i flussi di capitale globali. Per Netanyahu, l’accordo di libero scambio del 1985 non è stato solo uno strumento diplomatico, ma una prova di concetto. L’ha trasformato nel fondamento di una strategia volta a rilanciare Israele come “Start-Up Nation”: un hub di innovazione agile, iperconnesso e dipendente non dal territorio o dalle dimensioni, ma dall’interdipendenza strategica.
Al centro di questa visione c’era la fiducia nella coerenza americana. Netanyahu scommetteva che finché Israele fosse rimasto un partner fedele, investito in Occidente e allineato agli interessi degli Stati Uniti, sarebbe stato ricompensato con un accesso stabile, protezione politica e integrazione economica. La sua visione del mondo si basava sul presupposto che il commercio non fosse solo transazionale ma anche relazionale; che la vicinanza al potere americano avrebbe garantito prosperità e sicurezza. In particolare, rifiutava l’idea dell’autarchia, il modello economico dell’autosufficienza e dell’isolamento nazionale. Scommise invece che la forza di Israele sarebbe derivata dall’apertura, dall’integrazione e dalla specializzazione in un’economia globale.

Una profonda inversione di rotta
   Questa visione del mondo sta ora crollando sotto i vasti dazi all’importazione del presidente Donald Trump per il “Giorno della Liberazione”, tra cui un dazio del 17% sulle merci israeliane. La logica alla base di queste tariffe è semplice: qualsiasi Paese che abbia un surplus commerciale con gli Stati Uniti se ne sta approfittando e deve essere penalizzato, indipendentemente dalla natura del rapporto. In effetti, pochi giorni prima dell’annuncio di Trump, Israele ha eliminato tutte le tariffe rimanenti sulle importazioni americane. Ma non è servito. Alleanza, reciprocità, valore strategico: niente di tutto questo conta. I deficit commerciali sono l’unico parametro.
Si tratta di una profonda inversione di tendenza. Reagan usava il commercio per legare gli alleati e costruire coalizioni. Trump tratta il commercio come un’arma per punire partner e nemici. Mentre Reagan credeva che l’integrazione economica fosse uno strumento di pace e di forza, Trump vede l’interdipendenza economica come vulnerabilità e tradimento. Se Reagan aveva costruito un mondo di ponti, Trump li sta sistematicamente smantellando.
Israele è ora accomunato a concorrenti strategici come Cina e Vietnam. Per decenni, Israele è stato un alleato vitale per gli Stati Uniti: ha condiviso informazioni, ha fatto progredire sistemi di difesa congiunti, ha contribuito con tecnologie critiche nel campo della sicurezza informatica, dell’assistenza sanitaria e dell’intelligenza artificiale. È uno dei pochi Paesi ad allineare pienamente le proprie politiche commerciali, diplomatiche e militari agli interessi strategici di Washington. Trattarla ora alla stregua di potenze autoritarie impegnate in un’aperta rivalità tecnologica ed economica con gli Stati Uniti non è solo economicamente incoerente, ma anche diplomaticamente autolesionista. Invia un messaggio pericoloso: che la lealtà, l’allineamento e i valori democratici non hanno più senso nell’ambito della politica economica statunitense.
Netanyahu, più di ogni altro leader mondiale, ha puntato la sua strategia economica e la sua identità politica sullo stretto allineamento con Trump. Ha rispecchiato il populismo di Trump, ha abbracciato il suo disprezzo per le istituzioni liberali e si è posizionato come un alleato fedele in un mondo definito dalla personalità più che dalla politica. Credeva che la lealtà ideologica e personale avrebbe comprato a Israele un isolamento strategico. Si sbagliava.
La visione del mondo di Trump è transazionale e imprevedibile. Il modello economico sostenuto da Netanyahu – globalizzato, ancorato agli Stati Uniti, dipendente dal commercio – viene ora smantellato proprio dall’uomo che ha contribuito a normalizzare e legittimare sulla scena mondiale. Né Netanyahu né Israele hanno ricevuto un trattamento speciale. Il conto della cieca fedeltà è arrivato a scadenza.
È difficile non notare l’ironia. Netanyahu, un tempo volto della liberalizzazione di Israele, ora ne presiede l’emarginazione e il regresso democratico. È arrivato a rispecchiare la discesa ideologica di Trump: dall’ottimismo globalista alla rabbia nazionalista, dall’apertura del mercato all’istinto autocratico. Da Reagan alla rovina.
Anche se Netanyahu riuscirà a negoziare la riduzione dei dazi o ad ottenere delle esenzioni (e non c'è riuscito), qualcosa di fondamentale si è già rotto. L’intero modello era costruito sulla prevedibilità, sulla fiducia strategica e sull’idea che l’allineamento con gli Stati Uniti portasse sicurezza economica a lungo termine. La volontà di Trump di prendere di mira Israele, nonostante decenni di lealtà e integrazione, rivela la fragilità di questo presupposto. Questo fatto da solo mina la credibilità del sistema che Netanyahu ha passato la sua carriera a promuovere.
E questo cambiamento non riguarda solo Israele. È un ammonimento per tutte le democrazie inserite nell’ordine commerciale liberale un tempo guidato dagli Stati Uniti. Quel sistema offriva a piccole nazioni come Israele un percorso verso la rilevanza, la resilienza e la prosperità. La sua erosione minaccia la stabilità globale e favorisce le alternative autocratiche.
Una strada da percorrere esiste ancora. I liberali in Israele, negli Stati Uniti e in tutto il mondo democratico devono riarticolare le ragioni di un sistema economico aperto ma resistente, equo ma strategico, che valorizzi la reciprocità, protegga i suoi alleati e ristabilisca il commercio come meccanismo di fiducia, non di coercizione.
Il ponte costruito nel 1985 non riguardava solo i beni. Si trattava di valori. Trump lo ha distrutto. Netanyahu finora è rimasto in disparte. Ricostruirlo non solo è possibile, ma è essenziale. Ma richiederà una leadership fondata sui principi, non sull’ego. Cosa che né Trump né Netanyahu sembrano possedere.
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* Head of Strategic Communications presso Number 10 Strategies, una società di consulenza internazionale per la strategia, la ricerca e le comunicazioni.

(Rights Reporter, 9 aprile 2025)

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"Più soldati sul campo": così Israele lancia la nuova guerra totale contro Hamas

Il nuovo capo di stato maggiore israeliano pronto ad inviare decine di migliaia di soldati nella Striscia di Gaza.

di Valerio Chiapparino

Una nuova fase delle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza è alle porte e potrebbe essere ancora più violenta delle precedenti. I segnali non mancano: domenica l’emittente qatariota Al Jazeera ha riportato infatti di raid dello Stato ebraico nell’enclave palestinese, in particolare a Khan Younis e a Rafah, che hanno provocato la morte nell'arco di 24 ore di almeno 46 persone. Dal 18 marzo, giorno della rottura del cessate il fuoco scattato a gennaio scorso, si sono registrate oltre 1300 vittime e circa 3200 feriti.
  La conferma dei progetti di intensificazione dei blitz di Tel Aviv era già arrivata dal nuovo capo di stato maggiore d'Israele, il tenente generale Eyal Zamir, il quale a inizio marzo ha dichiarato che il 2025 sarà “un anno di guerra” nonostante le speranze suscitate dall’accordo che per due mesi ha sospeso le ostilità nella Striscia. Un concetto rafforzato pochi giorni fa quando il cinquantanovenne ex comandante di carri armati ha affermato che le truppe dell’Idf “stanno intensificando l’operazione e continueranno ad un ritmo deliberato e determinato”.
  Il Wall Street Journal ha ricostruito in queste ore il profilo di Zamir sottolineando che l’attuale capo di stato maggiore ha trascorso quasi tutta la sua vita nell’esercito - a 14 anni ha lasciato la sua casa per unirsi ad un collegio militare – ed è cresciuto ammirando i comandanti dei tank che hanno respinto le truppe siriane ed egiziane nel conflitto arabo-israeliano del 1973.
  Durante la seconda intifada dei primi anni Duemila, Zamir ha guidato una brigata composta da una novantina di carri armati in un’operazione di assedio della città di Jenin in Cisgiordania. Nel 2012 è diventato il segretario militare del primo ministro (quest’ultimo anche all’epoca era Benjamin Netanyahu): secondo persone citate dal quotidiano Usa, i due avrebbero sviluppato un solido rapporto professionale ma non personale.
  Più volte Zamir ha visto sfumare la nomina a capo di stato maggiore, in precedenza assegnata a militari di unità d'élite, e non è un caso che sia uno dei più accesi critici del culto delle forze speciali israeliane. Quando pochi anni fa ha lasciato l’esercito, l’ex comandante di carri armati, ha pronunciato un discorso di commiato in cui ha individuato due punti deboli dell’Idf: l’eccessiva dipendenza dalla tecnologia e la mancanza di soldati per combattere una guerra prolungata su più fronti.
  Zamir, che la scorsa settimana ha incontrato anche il generale Michael Kurilla, comandante del Centcom, si prepara adesso a lanciare un’offensiva di terra nella Striscia “della durata di mesi”. L’operazione, sostenuta dal governo Netanyahu, dovrebbe prevedere lo schieramento di decine di migliaia di militari allo scopo di liberare gli ostaggi ancora in mano ad Hamas, eliminare l’organizzazione islamista “prima che venga decisa una soluzione politica per Gaza” e controllare la distribuzione degli aiuti umanitari nell’enclave palestinese.
  Ehud Yaari del Washington Institute for Near East Policy sostiene che il nuovo capo di stato maggiore ”proviene da una cultura militare diversa” rispetto ai suoi predecessori che è incentrata su “un dispiegamento massiccio”. Più in generale, per il Wall Street Journal la figura di Zamir riassume il dibattito globale su come le guerre vengono combattute e vinte ai nostri giorni. Una riflessione che ci porta su un altro fronte caldo nell’Europa orientale. Nello scontro tra Russia e. Ucraina, le nuove tecnologie hanno sin qui aiutato Kiev a “neutralizzare la potenza militare della Russia” ma gli ucraini hanno perso battaglie importati perché Mosca ha fatto ricorso allo schieramento di migliaia di soldati dimostrando che “gli stivali sul terreno sono ancora necessari per conquistare e mantenere il territorio”.
  Ad ogni modo, resta da vedere come Zamir possa davvero applicare la lezione ucraina nella Striscia di Gaza e quali risultati possa ottenere nella lotta totale contro un’organizzazione come Hamas.
  Il rischio della scommessa del capo dell’Idf è ben riassunto da Israel Ziv, generale in pensione dello Stato ebraico, che afferma che “tornare in guerra per il gusto di combattere o semplicemente per schiacciare” l’organizzazione islamista “è un errore strategico molto grande”.

(il Giornale, 8 aprile 2025)

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Israele introduce un piano di monitoraggio delle forniture di aiuti per prevenire le interferenze di Hamas

di Joshua Marks

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Camion palestinesi vicino al valico di frontiera di Kerem Shalom, dopo che Israele ha sospeso le consegne di aiuti il 2 marzo 2025

GERUSALEMME - Le Forze di Difesa Israeliane e il Dipartimento delle Attività Governative nei Territori (COGAT) del Ministero della Difesa hanno annunciato il lancio di un sistema rivisto per la consegna degli aiuti alla Striscia di Gaza. L'iniziativa mira a migliorare la distribuzione degli aiuti e a garantire che le forniture non vengano rubate dall'organizzazione terroristica di Hamas.
In una dichiarazione rilasciata lunedì, le Forze di Difesa israeliane hanno chiarito che stanno “agendo in conformità con le istruzioni dei vertici politici” e hanno ribadito che “Israele non trasferisce e non trasferirà aiuti ad Hamas”.
Secondo il COGAT, il quadro aggiornato mira ad aumentare la trasparenza e a rendere sicuri i percorsi degli aiuti per i civili in difficoltà. “Per evitare che Hamas confischi le forniture umanitarie e per garantire che il lavoro delle organizzazioni rimanga neutrale e imparziale, è essenziale introdurre un meccanismo strutturato di monitoraggio e accesso agli aiuti”.
L'obiettivo è rafforzare gli accordi di sicurezza per le operazioni umanitarie e sostenere le organizzazioni internazionali che lavorano a Gaza. “Gli aiuti devono raggiungere la popolazione civile che ne ha bisogno e non devono essere deviati e rubati da Hamas”, ha sottolineato il COGAT.
In risposta alla copertura mediatica della situazione degli aiuti, l'Ufficio del Primo Ministro ha risposto a un rapporto pubblicato da Ynet, affermando: “Il rapporto è falso. Come da istruzioni della leadership politica, le Forze di Difesa israeliane continueranno ad aumentare la pressione su Hamas per garantire il ritorno dei nostri ostaggi e raggiungere tutti gli obiettivi della guerra in conformità con il diritto internazionale”.
La decisione di attuare questo meccanismo arriva in un momento in cui c'è grande preoccupazione per il fatto che le forniture di aiuti a Gaza potrebbero presto esaurirsi. Come parte dell'iniziativa, Israele lancerà un programma pilota per la distribuzione diretta di cibo nel sud della Striscia di Gaza - in particolare nella regione di Rafah - prendendo precauzioni per prevenire qualsiasi influenza di Hamas sul processo di aiuti.
Il 2 marzo il governo israeliano ha annunciato di aver sospeso tutti gli aiuti alla Striscia di Gaza dopo che l'organizzazione terroristica Hamas ha rifiutato un'estensione del cessate il fuoco proposta dall'inviato statunitense per il Medio Oriente Steve Witkoff.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato in quell'occasione che nessun altro bene o rifornimento sarebbe entrato nella Striscia di Gaza fino a nuovo avviso e ha ribadito che Gerusalemme non avrebbe accettato un cessate il fuoco senza il rilascio dei suoi ostaggi.

(Israel Heute, 8 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Netanyahu alla Casa Bianca

Trump annuncia trattative dirette con l’Iran e un nuovo accordo sugli ostaggi

di Luca Spizzichino

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Con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu al suo fianco, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato lunedì l’avvio di colloqui diretti tra Washington e Teheran sul programma nucleare iraniano. Una dichiarazione che ha colto di sorpresa sia l’opinione pubblica che lo stesso Netanyahu, e che è stata prontamente smentita da funzionari iraniani.
  “Stiamo avendo colloqui diretti con l’Iran e continueranno sabato. Abbiamo un grande incontro e vedremo cosa succederà. Penso che tutti concordino sul fatto che un accordo sarebbe preferibile”, ha detto Trump alla stampa nella Sala Ovale. Il Presidente americano ha poi aggiunto un monito: “Se i colloqui non avranno successo, sarà un giorno molto brutto per l’Iran. L’Iran non può avere un’arma nucleare”. Secondo una fonte diplomatica israeliana, Netanyahu non era stato informato in anticipo dell’annuncio del Presidente Trump riguardo ai colloqui con Teheran. “È emerso chiaramente dalla conferenza stampa che il Primo Ministro è stato colto di sorpresa”, ha detto la fonte. Tuttavia, ha aggiunto che Israele è stato successivamente rassicurato dal fatto che verrà tenuto informato su ogni sviluppo delle trattative. Durante l’incontro, Netanyahu ha ribadito che l’obiettivo comune deve restare quello di impedire all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare: “Se questo può essere raggiunto diplomaticamente, in modo completo, come fu fatto con la Libia, sarebbe una buona cosa. Ma dobbiamo assicurarci che l’Iran non abbia mai un’arma nucleare”.
  Fonti diplomatiche iraniane hanno immediatamente negato la natura diretta delle trattative, spiegando che l’incontro previsto per sabato a Mascate, in Oman, sarà condotto in forma indiretta, con diplomatici omaniti a fare da mediatori. Secondo quanto riportato dal New York Times, Teheran potrebbe aprire alla possibilità di negoziati diretti soltanto in seguito a un esito positivo degli incontri preliminari. Il Ministero degli Esteri iraniano ha bollato le dichiarazioni di Trump come parte di “un’operazione psicologica destinata a influenzare l’opinione pubblica locale e internazionale”, mentre Nournews, media legato al Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano, ha definito l’annuncio un tentativo di “pressione mediatica”.
  Trump e Netanyahu hanno anche discusso della crisi in corso a Gaza e della questione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Netanyahu ha dichiarato che, insieme all’amministrazione Trump, sta lavorando a un nuovo accordo per la loro liberazione.
  “Vogliamo portarli tutti a casa”, ha detto il premier israeliano lodando l’impegno del rappresentante di Trump, Steve Witkoff, che in precedenza aveva contribuito alla liberazione di 25 ostaggi. L’Egitto avrebbe proposto un nuovo piano per un cessate il fuoco, che prevede la liberazione di otto ostaggi vivi e delle salme di altri otto, in cambio della scarcerazione di numerosi prigionieri palestinesi e una tregua tra i 40 e i 70 giorni. Tuttavia, fonti israeliane hanno riferito di non aver ancora ricevuto una proposta formale da parte del Cairo. Trump ha detto di credere che la guerra a Gaza finirà “in un futuro non troppo lontano”: “Voglio vedere la guerra fermarsi. È un processo lungo, ma non dovrebbe esserlo. Questo uomo [Netanyahu] sta lavorando molto duramente con noi”.
  Nel corso del bilaterale, Netanyahu ha promesso di eliminare rapidamente il surplus commerciale di Israele nei confronti degli Stati Uniti – pari a 7,4 miliardi di dollari lo scorso anno – e di abbattere le barriere doganali. Una mossa significativa, alla luce delle nuove politiche tariffarie di Trump, che impongono un dazio del 17% sulle merci israeliane. Alla domanda se l’amministrazione fosse disposta a ridurre le tariffe, Trump ha risposto seccamente: “Siamo stati sfruttati da molti Paesi per anni, e non possiamo permettercelo più”.
  Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare nella regione, spostando bombardieri stealth e una nuova portaerei nell’area del Medio Oriente e dell’Oceano Indiano, in posizione strategica rispetto sia allo Yemen sia all’Iran. La mossa è letta come un chiaro messaggio a Teheran. “Spero in un accordo perché l’alternativa è molto pericolosa. Stiamo entrando in un territorio rischioso”, ha concluso Trump.

(Shalom, 8 aprile 2025)

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Le minoranze perseguitate dal nuovo regime di Damasco chiedono aiuto a Israele

Qualcuno si chiede perché?

di Paolo Salom

[Voci dal lontano Occidente] Da decenni siamo abituati a sentirci dire che il conflitto in Medio Oriente “è complicato”, che le ragioni sono “ugualmente distribuite” e, dal momento che Israele è la parte più forte, tocca allo Stato ebraico fare concessioni per garantire ai palestinesi “i loro diritti” nel cosiddetto processo di pace destinato alla creazione di “due Stati per due popoli”.
Dal 7 ottobre 2023, dall’osceno massacro perpetrato contro intere famiglie da parte dei terroristi di Hamas, coadiuvati dai volonterosi (e feroci) cittadini venuti da Gaza, con il rapimento di uomini, donne, bambini, anziani – molti dei quali trucidati con comodo nei tunnel della Striscia – trovo che la questione si sia chiarita una volta per tutte.
Primo, non esiste alcun processo di pace anche se il sospetto su questo punto l’avevamo da un po’, almeno da quando Arafat (e dopo di lui Abu Mazen) ha ripetutamente rifiutato la miglior offerta che Israele potesse fare in vista della nascita di uno Stato arabo-palestinese.
Secondo, l’unico punto su cui i palestinesi si trovano d’accordo è la volontà di distruggere Israele per sostituirlo con un regime arabo musulmano, il ventitreesimo sulla carta. Per fare questo, la macchina della propaganda ha lavorato con alacrità (e con buoni risultati, ahimè).
Come altro spiegare le follie che si sono ripetute nel lontano Occidente, negli ultimi quindici mesi, quando le azioni in difesa dello Stato ebraico sono state condannate, a tutti i livelli, a partire dall’Onu, e definite “un tentativo di genocidio” contro i palestinesi?
Quando le violenze e gli stupri – rivendicati da chi li aveva commessi! – sono stati ignorati in tutte le sedi possibili e immaginabili, mentre le associazioni internazionali delle donne hanno proibito alle israeliane non solo di prendere parte alle loro manifestazioni, ma addirittura di denunciare quanto subito perché in contrasto con la narrativa delle uniche vittime, quelle palestinesi? Tutto ciò non è altro che un tentativo coordinato da determinate nazioni (per prima l’Iran, ma non è certo l’unica) per sconfiggere Israele, per “estirparlo” dal Medio Oriente.
Noi oggi confidiamo che questo insano progetto, fallito in passato, continuerà a finire nel nulla. L’ipocrisia di chi dice che Israele è un corpo estraneo – e non una legittima espressione di un popolo finalmente sovrano nella sua terra – è ancor più evidente ora che la Siria è collassata in una guerra civile di cui non si vede la fine, quanto meno a breve. Soprattutto, ascoltando le grida di aiuto della comunità alauita, la minoranza sciita di cui fa parte la famiglia Assad, che dopo aver vissuto da “padrona”, si è ritrovata a subire la violenza spaventosa di nuovi padroni sunniti.
E che cosa hanno fatto gli alauiti (prima di loro è capitato ai drusi)? Hanno chiesto aiuto a Israele, allo Stato degli ebrei. Non si sono rivolti ai loro protettori iraniani. Né ad altri Paesi della comunità islamica. No: hanno lanciato le loro invocazioni agli israeliani, gli unici in quella regione martoriata ad avere la fama di considerare il valore della vita sopra ogni cosa. Naturalmente, nel lontano Occidente tutto questo è passato pressoché inosservato. Così come le immagini terribili dei massacri (quelli veri) di civili nelle città della comunità alauita della Siria. Ecco un genocidio in atto: ci sono le immagini, ci sono i proclami osceni degli autori e, ahimè, il silenzio assordante e ingiustificabile del resto del mondo.

(Bet Magazine Mosaico, 8 aprile 2025)

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Trump rinnova l'invito a trasferire i gazesi in altri paesi

di David Isaac

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rinnovato lunedì il suo appello a trasferire in luoghi più sicuri i palestinesi che desiderano lasciare la Striscia di Gaza.
“Per anni e anni ho sentito parlare solo di uccisioni, di Hamas e di problemi”, ha detto durante un incontro con la stampa nello Studio Ovale lunedì insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
“E se prendete le persone, i palestinesi, e li spostate in paesi diversi, e ci sono molti paesi che lo faranno... avrete davvero una zona di libertà... una zona in cui le persone non verranno uccise ogni giorno”, ha aggiunto.
Il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato per la prima volta il suo piano di trasferimento a Gaza durante una conferenza stampa con Netanyahu a febbraio.
Netanyahu, che ha appoggiato il piano, ha detto lunedì che “ciò di cui parla il presidente significa dare alla gente una scelta”. I gazesi sono stati chiusi in casa. In ogni altro luogo, che sia l'Ucraina o la Siria, o qualsiasi altro luogo, la gente può andarsene. Cosa c'è di sbagliato nel dare alla gente una scelta? ... Permettere alla gente di Gaza di scegliere davvero di andare dove vuole?”.
Ha osservato che la ricostruzione di Gaza richiederà anni.
Una fonte diplomatica israeliana di alto livello ha dichiarato a JNS il 4 aprile che i sondaggi hanno mostrato che molti palestinesi a Gaza vogliono andarsene.
“Anche prima che Israele ricominciasse l'azione militare, il 60% ha detto di volersene andare - il 40% di questi non vuole tornare, e un altro 20% vuole andarsene ma con la possibilità di tornare. Si tratta di più di 1 milione di persone che dicono di voler partire”, ha detto la fonte.
Secondo i sondaggi, gli israeliani sostengono la proposta del Presidente.
Il punto critico sembra essere la ricerca di paesi partner disposti ad accogliere i gazesi. Tuttavia, lunedì Netanyahu ha dichiarato che “i paesi stanno rispondendo alla visione [di Trump]. Ci stiamo lavorando. Spero che avremo buone notizie per voi”.
Anche se non ha voluto fare i nomi dei paesi, Danny Danon, che è tornato a ricoprire il ruolo di ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite nel 2024, dopo averlo ricoperto in precedenza dal 2015 al 2020, ha dichiarato nel dicembre 2023 che i paesi sudamericani e africani hanno espresso interesse ad accogliere i palestinesi in cambio di una remunerazione finanziaria.
Anche i paesi arabi dovrebbero dare una mano, perché “hanno l'obbligo di aiutare i palestinesi. Che aiutino invece di fare discorsi infiammatori”, ha detto Danon.
Finora i paesi arabi si sono rifiutati di dare una mano alla proposta di Trump, offrendo invece piani di ricostruzione alternativi in cui i gazesi rimarrebbero al loro posto.
L'inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff, in un'intervista rilasciata a marzo a Tucker Carlson, è sembrato respingere tali piani di ricostruzione in quanto irrealistici.
“Penso che sia davvero importante che quando si prendono queste decisioni ci si basi sui fatti”, ha detto, sottolineando che le condizioni nella Striscia sono troppo pericolose per viverci.
“Come possiamo rimettere le persone in una zona di battaglia dove ci sono munizioni dappertutto? O dove ci sono queste condizioni latenti per cui un bambino può cadere in una buca e andare a 40, 50, 60 piedi di profondità, e non si saprebbe mai che era lì”, ha aggiunto.
“Chi farebbe una cosa del genere? Se avessimo edifici in quelle condizioni a New York, ci sarebbe del nastro giallo tutto intorno e nessuno potrebbe entrare”, ha detto Witkoff, stimando che ci vorrebbero 15-20 anni per ricostruire Gaza.
Ha condiviso l'opinione del presidente secondo cui le precedenti ricette politiche per Gaza non hanno funzionato, perpetuando un ciclo di guerra, ricostruzione e ancora guerra. Non aveva “alcun senso”, ha detto, aggiungendo: “Il presidente ha iniziato a dire: ‘Forse dobbiamo pensare a qualcosa di diverso’”.

(JNS, 8 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Razzi di Hamas colpiscono città costiere israeliane

Diversi feriti, solo metà dei razzi sono stati intercettati; il ministro della Difesa israeliano promette una risposta dura.

Domenica sera Hamas ha segnalato di essere tutt'altro che sconfitto quando ha lanciato una raffica di dieci razzi contro le città costiere israeliane di Ashkelon e Ashdod. Almeno la metà dei razzi è stata intercettata, ma i razzi caduti e le schegge  hanno ferito diverse persone e causato danni.
Uno dei razzi è atterrato in un'area residenziale di Ashkelon, causando feriti e panico generale. Il Centro medico Barzilai di Ashkelon ha riferito che dopo l'attacco sono arrivate 27 persone per essere curate. Di queste, 17 soffrivano di ansia, sette erano ferite da schegge, una persona ha riportato una ferita agli occhi e altre due sono state ferite mentre correvano verso un rifugio antiaereo. Tutte le ferite sono state classificate come lievi.
Diversi veicoli sono stati danneggiati da frammenti di razzo caduto vicino a un parcheggio nell'area di Ashkelon. Il sindaco di Ashkelon, Tomer Glam, ha visitato il sito e ha rilasciato una dura dichiarazione:
“Mi aspetto che il governo israeliano e le Forze di Difesa israeliane attacchino Hamas con tutte le loro forze e distruggano qualsiasi capacità di Hamas di interrompere nuovamente la nostra vita quotidiana in città”.
Hamas ha subito rivendicato la responsabilità dell'attacco, descrivendolo come una rappresaglia per le nuove operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si stava recando negli Stati Uniti per un incontro con il presidente americano Donald Trump, ha convocato una riunione d'emergenza con il ministro della Difesa Israel Katz. In seguito al loro incontro, Netanyahu ha autorizzato un'intensificazione delle operazioni militari contro Hamas.
Katz ha annunciato pubblicamente di aver dato istruzioni alle Forze di Difesa israeliane di intensificare la loro risposta e ha dichiarato che l'obiettivo era quello di infliggere un duro colpo al gruppo terroristico.
In seguito al lancio di razzi, le forze israeliane hanno lanciato attacchi aerei sul sito di lancio. Prima degli attacchi, l'esercito ha dichiarato di aver lanciato un appello urgente all'evacuazione dei residenti in alcune zone di Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza.

(Israel Heute, 7 aprile 2025)

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Oggi l’incontro Trump-Netanyahu: sul tavolo anche i dazi

La guerra a Gaza, il ritorno degli ostaggi, la minaccia iraniana, la nuova politica dei dazi. Sono i principali argomenti dei quali dovrebbero discutere Donald Trump e Benjamin Netanyahu nel loro incontro lunedì sera (ora italiana) alla Casa Bianca. Il primo ministro israeliano, arrivato a Washington dall’Ungheria, sarà il primo leader straniero a essere ricevuto da Trump dopo che questi ha imposto dazi nei confronti di mezzo mondo.
  Se nei confronti dell’Ue i dazi sono stati fissati al 20%, per Israele si attestano al 17%. Alle 20.30 ora italiana i due leader interverranno in una conferenza stampa congiunta. Netanyahu si è già confrontato nel merito con Howard Williams Lutnick, il segretario al commercio dell’amministrazione Trump. L’incontro tra i due è avvenuto nella serata di domenica ed è stato «caloroso, amichevole e produttivo», informa l’ufficio stampa del governo israeliano.In Israele tiene banco anche la politica interna. Negli scorsi giorni Netanyahu ha denunciato l’esistenza in Israele di uno “Stato profondo” a suo dire impegnato a mettere i bastoni tra le ruote al governo. Al premier ha risposto il presidente Isaac Herzog, in una intervista con il quotidiano Yedioth Ahronoth nella quale afferma: «Non c’è uno stato profondo e non c’è una dittatura». In merito al Qatargate, Herzog ritiene che ci siano «questioni da approfondire» con la massima attenzione, perché l’indagine tratta aspetti «critici per la sicurezza d’Israele». Di sicurezza ha parlato in queste ore anche il presidente francese Emmanuel Macron, incontrando al Cairo il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. «Hamas non deve svolgere alcun ruolo nel governo di Gaza e il gruppo non deve rappresentare in alcun modo una minaccia per Israele», ha sostenuto Macron, esprimendo il proprio sostegno a un ruolo di mediazione dell’Egitto. L’inquilino dell’Eliseo ha lanciato anche un appello per il rilascio di tutti gli ostaggi.

(moked, 7 aprile 2025)

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Per la decima volta consecutiva: la Banca d'Israele mantiene invariato il suo tasso di riferimento

La decisione di mantenere invariato il tasso riflette la cautela della Banca centrale di fronte alle attuali incertezze economiche.

Il professor Amir Yaron, governatore della Banca d'Israele, ha annunciato lunedì che l'istituto ha deciso di non modificare il tasso di riferimento. Il tasso di riferimento rimarrà quindi al 4,5%. Questa decisione giunge sullo sfondo del piano del presidente statunitense Donald Trump di imporre una tassa del 17% sui beni importati da Israele.

Stabilità prolungata dei tassi
   È la decima volta consecutiva che la Banca centrale israeliana mantiene invariati i tassi. L'ultimo taglio risale a 14 mesi fa, il 1° gennaio 2024, quando il tasso è stato ridotto di un quarto di punto, dopo una serie di aumenti iniziati nell'aprile 2022.
  Questo periodo di aumenti successivi ha colpito in particolare i mutuatari di case, che hanno visto un aumento medio di circa 1.500 shekel (circa 380 euro) dei loro rimborsi mensili, oltre a un aumento dei rimborsi dei prestiti per le famiglie in generale.

Prospettive per il 2025
   Gli analisti di mercato ritengono che un taglio dei tassi sarà possibile solo nella seconda metà dell'anno, con la possibilità di due riduzioni. Questa previsione è in linea con le recenti dichiarazioni del Governatore della Banca d'Israele, che ha indicato che tali tagli sarebbero condizionati alla fine del conflitto entro la prima metà del 2025 e alla continuazione delle tendenze fiscali osservate negli ultimi mesi. La decisione di mantenere il tasso invariato riflette la cautela della Banca Centrale di fronte alle attuali incertezze economiche, in particolare quelle legate alle nuove tensioni commerciali con gli Stati Uniti e al continuo impatto del conflitto in corso.
  In un momento in cui l'economia israeliana si trova ad affrontare molteplici sfide, sia a livello nazionale che internazionale, questa stabilità monetaria riflette un approccio conservativo volto a preservare gli equilibri macroeconomici in un contesto particolarmente volatile.

(i24, 7 aprile 2025)

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Hamas chiese 500 milioni a Teheran per distruggere Israele”

Katz: “Iran dietro l’attacco del 7 ottobre

di Luca Spizzichino

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In una dichiarazione video diffusa domenica, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha rivelato l’esistenza di un documento di intelligence che collegherebbe direttamente l’Iran alla pianificazione dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Il documento, rinvenuto nei tunnel dei vertici di Hamas a Gaza, risale al giugno 2021 e consiste in una lettera inviata dai leader del gruppo, Yahya Sinwar e Muhammad Deif, al comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, Esmail Qaani.
  “Presento per la prima volta un documento che dimostra in modo inequivocabile la connessione diretta tra l’Iran e i capi di Hamas, come parte del loro piano per distruggere Israele” ha dichiarato Katz durante una visita all’unità dell’intelligence militare israeliana specializzata nell’analisi del cosiddetto “bottino tecnico”, nota con l’acronimo ebraico Amshat.
  Nel documento, Sinwar e Deif chiedevano al comandante iraniano un finanziamento di 500 milioni di dollari, pari a circa 20 milioni di dollari al mese per due anni, al fine di portare avanti un progetto finalizzato alla distruzione dello Stato di Israele.
  Secondo quanto riportato da Katz, Saeed Izadi, responsabile della Divisione Palestinese all’interno dell’IRGC, avrebbe accettato la richiesta, garantendo che, nonostante la difficile situazione economica dell’Iran, Teheran avrebbe continuato a finanziare Hamas. “La lotta contro Israele e gli Stati Uniti è la priorità assoluta del regime iraniano” avrebbe affermato Izadi in risposta.
  “La conclusione è chiara: l’Iran è la testa del serpente,” ha dichiarato Katz. “Nonostante tutte le sue smentite, finanzia e promuove il terrorismo in tutta la regione: da Gaza al Libano, dalla Siria alla Giudea e Samaria, fino agli Houthi in Yemen, con un unico obiettivo: distruggere Israele.” Il ministro ha poi ribadito che “Israele farà tutto il possibile per impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare e continuerà a colpire i suoi proxy nella regione finché l’asse del male iraniano non sarà annientato e sconfitto”.

(Shalom, 7 aprile 2025)

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Iran pronto ai negoziati sul nucleare, in cambio della revoca delle sanzioni

TEL AVIV -  L’Iran, seguendo la logica della costruzione della fiducia, è disposto a negoziare sul suo programma nucleare in cambio della revoca delle sanzioni unilaterali imposte al Paese. Lo ha dichiarato il Ministro degli Esteri iraniano, Seyyed Abbas Araghchi.
Parlando a un incontro con i capi delle missioni diplomatiche straniere a Teheran lo scorso 5 aprile, Araghchi ha sottolineato che il programma nucleare iraniano è interamente pacifico e che il Paese ha volontariamente intrapreso diverse misure nell’ambito del Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) per creare fiducia sulle sue intenzioni nucleari. Tuttavia, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal JCPOA.
Araghchi ha aggiunto che l’Iran rimane impegnato nel dialogo e nella diplomazia per risolvere incomprensioni e conflitti, ed è pronto a qualsiasi risultato possibile. Se da un lato l’Iran è serio nei negoziati e nella diplomazia, dall’altro sarà fermo nel difendere la propria sovranità e i propri interessi, ha dichiarato.
“In linea di principio, le discussioni dirette con Paesi che minacciano l’uso della forza e adottano posizioni contraddittorie, contrarie alla Carta delle Nazioni Unite, non avrebbero senso. Tuttavia, l’Iran è pronto a esplorare discussioni indirette nel quadro della diplomazia”, ha osservato.
Il ministro iraniano ha inoltre sottolineato che l’Iran segue una politica di principio nello sviluppo delle relazioni con i Paesi vicini e con altri nel mondo. Ha espresso la speranza che il nuovo anno iraniano porti ulteriori opportunità per lo sviluppo di relazioni politiche, economiche e culturali con vari Paesi.
Il 16 gennaio 2016 è entrato in vigore il JCPOA tra l’Iran e il gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) sul programma nucleare iraniano. Tuttavia, l’8 maggio 2018, gli Stati Uniti si sono ritirati dal Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) tra l’Iran e il gruppo 5+1 (Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Germania) e hanno imposto nuove sanzioni all’Iran a partire dal novembre 2018.
Entro la fine del 2020, il Parlamento iraniano ha deciso di perseguire un piano strategico nel settore nucleare per contrastare le sanzioni, che ha portato alla sospensione dei passi aggiuntivi e del Protocollo aggiuntivo previsti dall’accordo nucleare.
Di conseguenza, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha dovuto affrontare una riduzione delle capacità di monitoraggio del 20-30%.
L’Iran ha ufficialmente affermato che la sua strategia non è quella di perseguire lo sviluppo di una bomba atomica e che non sostiene la produzione di armi di distruzione di massa. Ma nessuno si fida degli Ayatollah.

(Rights Reporter, 7 aprile 2025)

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La semplicità della vita senza preoccupazioni

di Dietrich Bonhoeffer

    «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e rubano. Accumulate invece tesori nel cielo, dove né il tarlo né la ruggine logorano e i ladri non scassinano né rubano. Infatti dov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore. La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato, se invero il tuo occhio è guasto, tutto il tuo corpo sarà oscuro. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra. Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro; non potete servire a Dio e a Mammona»  (Matteo 6,19-24).

La vita del seguace si dimostra nel fatto che nulla si frappone fra Cristo e lui, né la legge né la pietà, ma neppure il mondo. Il seguace vede sempre solo Cristo; non vede Cristo e il mondo. Non incomincerà nemmeno a riflettere su questo, segue semplicemente Cristo in tutto. Perciò il suo occhio è sano; posa solamente sulla luce che gli viene da Cristo e non ha in sé nessuna ombra, nessuna ambiguità. Come l’occhio deve essere sano, chiaro, puro, perché il corpo resti nella luce, come mani e piedi non ricevono luce se non dall’occhio, come il piede inciampa e la mano sbaglia se l’occhio è opaco, come tutto il corpo si trova all’oscuro se l’occhio si spegne, così il seguace è luce solo finché guarda semplicemente a Cristo e non a questo o a quell’altro; così il cuore del discepolo deve essere intento solo a Cristo, Se l’occhio vede qualcosa di diverso della realtà, tutto il corpo è tratto in inganno. Se un cuore si attacca alle apparenze del mondo, alla creatura invece che al creatore, il discepolo è perso.
  Sono i beni del mondo che cercano di distrarre il cuore del discepolo di Gesù, A che cosa è rivolto il cuore del discepolo? Ecco la domanda. È rivolto ai beni del mondo? o anche solo a Cristo e ai beni del mondo? oppure è rivolto a Cristo solo? La lucerna del corpo è l’occhio, la lucerna di chi segue Gesù è il cuore. Se l’occhio è opaco, quanto opaco dev’essere il corpo! Se il cuore è oscuro, quanta oscurità dev’esserci nel discepolo! Ma il cuore diviene oscuro se si attacca ai beni di questo mondo. Allora, per quanto energica possa essere la chiamata di Gesù, essa rimbalza, non può penetrare nell’uomo, perché il suo cuore è chiuso, appartiene ad un altro. Come nel corpo non può penetrare luce se l’occhio è malvagio, così la Parola di Gesù non raggiunge più il discepolo se il suo cuore si chiude. La Parola è soffocata come il seme tra le spine «dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita» (Luca 8,14).
  La semplicità dell’occhio e del cuore corrisponde a quella segretezza che non conosce altro che la Parola di Cristo e la chiamata che consiste nella completa comunione con Cristo. Come può il seguace di Cristo usare dei beni terreni in modo semplice?
  Gesù non vieta l’uso dei beni. Gesù era uomo; mangiava e beveva come i suoi discepoli. Così ha purificato l’uso dei beni terreni. Il seguace usi pure con riconoscenza i beni che vanno consumati sul momento, di cui ha bisogno ogni giorno per le necessità e il nutrimento della vita corporale.

    «Si deve camminare come pellegrini, liberi, nudi e veramente vuoti; raccogliere, tenere per sé molte cose e agire molto rende il cammino assai pesante. Chi vuole si carichi pure tanto da morirne; noi camminiamo separati dal mondo, contenti di poco; abbiamo bisogno solo del necessario» (G. Tersteegen).

I beni sono dati per essere usati, non per essere accumulati. Come Israele nel deserto ricevette la manna da Dio ogni giorno e non doveva preoccuparsi del cibo e della bevanda, e come la manna che veniva conservata per il giorno dopo marciva presto, così il discepolo di Gesù deve ricevere da Dio ogni giorno il necessario; ma se lo accumula per un possesso duraturo, rovina il dono e se stesso. Il suo cuore resta attaccato al tesoro accumulato. Il bene accumulato si pone fra me e Dio. Lì dov’è il mio tesoro, è anche la mia fiducia, la mia sicurezza, il mio conforto, il mio Dio. Il tesoro è idolatria.
  Ma dov’è il limite tra i beni che devo usare e il tesoro che non devo avere? Rovesciamo la proposizione e diciamo: - il tuo tesoro è ciò a cui attacchi il tuo cuore; e così la risposta è data. Può essere un tesoro molto insignificante; non è la grandezza che conta, è solo il cuore che conta, tu stesso. Se poi chiedo, da che cosa riconosco a che cosa è legato il mio cuore, la risposta è semplice e chiara: tutto ciò che ti impedisce di amare Dio sopra ogni altra cosa, ciò che si frappone fra te e l’obbedienza a Gesù è il tesoro al quale è legato il tuo cuore.
  Ma poiché il cuore umano si attacca a un tesoro, perciò l’uomo, anche per volontà di Gesù, può avere un tesoro, ma non in terra dove esso si sciupa, bensì in cielo dove rimane. I ‘tesori’ in cielo, dei quali parla Gesù, evidentemente non sono l’unico tesoro cioè Gesù stesso, ma veri tesori raccolti dai suoi seguaci. C’è una grande promessa nell’affermazione che il discepolo, seguendo Gesù, si acquista tesori nel cielo, che non si consumano, ma che lo attendono, con i quali si riunirà. Quali altri tesori possono essere se non quel che v’è di straordinario, di segreto nella vita del discepolo? quali tesori possono essere se non i frutti della passione di Cristo che la vita del seguace produce?
  Se il discepolo ha il suo cuore completamente riposto in Dio, è evidente che non può servire a due padroni. Non è possibile. Seguendo Gesù non è possibile. Sarebbe certo naturale cercare di dimostrare la propria prudenza ed esperienza cristiana col far vedere che, ciononostante, si sa servire ad ambedue i signori, a Mammona e a Dio, che si sa dare ad ognuno il suo diritto limitato. Perché come figli di Dio non dovremmo essere anche allegri figli del mondo, che godono i beni e accettano i suoi tesori come benedizioni di Dio? Dio e il mondo, Dio e i beni sono in contrasto, perché il mondo e i suoi beni vogliono impadronirsi del nostro cuore e sono quel che sono solo quando hanno conquistato il nostro cuore. Senza il nostro cuore i beni e il mondo non sono nulla. Essi vivono del nostro cuore. Perciò sono contro Dio. Possiamo dare il nostro cuore pieno di amore solo ad uno, possiamo essere legati totalmente solo a un signore. Ciò che si oppone a questo amore incorre nell’odio. Secondo la Parola di Dio non si può che o amare o odiare. Se non amiamo Dio, lo odiamo. Non c’è via di mezzo. Dio è Dio, perché può essere solo amato o odiato. C’è solo un «aut aut»: o ami Dio o ami i beni del mondo. Se ami il mondo odii Dio, se ami Dio odii il mondo. Non importa affatto che tu lo voglia o lo faccia coscientemente. Certo non lo vuoi, forse anche non sai quello che fai; anzi, tu non lo vuoi, ma vuoi appunto servire ambedue i signori. Tu vuoi amare Dio e i beni, perciò riterrai sempre una falsa accusa l’affermazione che odii Dio. Tu credi di amarlo. Ma appunto se ami Dio e anche i beni del mondo, questo amore è odio per Dio. L’occhio non è più semplice, non è più in comunione con Gesù. Volere o non volere, non può essere diversamente. Non potete servire a due signori, voi che seguite Gesù.

    «Perciò vi dico: non vi affannate per la vostra vita, di che cosa mangerete o berrete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita non vale forse più del nutrimento e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo che non seminano né mietono né radunano in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre; non valete voi forse più di essi? E chi di voi, pur affannandosi, può prolungare d’un solo cubito la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate i gigli del campo come crescono: non faticano né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestì come uno di essi. Ora se Dio veste così l’erba del campo che oggi è e domani verrà data al fuoco, quanto più farà per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: che mangeremo o che berremo, o di che ei vestiremo? Tutte queste cose infatti cercano ansiosamente i pagani, ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate invece prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani si affannerà da se stesso; basta a ciascun giorno la sua pena» (Matteo 6,25-34).

Non preoccupatevi! I beni fanno credere al cuore umano di essere in grado di dargli sicurezza e serenità; ma in realtà sono loro a causare preoccupazioni. Il cuore che cerca appiglio ai beni, con essi viene caricato del peso opprimente della preoccupazione. La preoccupazione si crea dei tesori e i tesori a loro volta creano preoccupazioni. Vogliamo assicurare la nostra vita per mezzo di beni; vogliamo liberarci dalle preoccupazioni per mezzo delle preoccupazioni stesse; ma in realtà accade il contrario. I vincoli che ci legano ai beni, che trattengono i beni, sono essi stessi... preoccupazioni.
  L’abuso dei beni consiste nel fatto che noi ce ne serviamo per assicurarci il giorno seguente. La preoccupazione è sempre rivolta al futuro. Ma i beni sono decisamente destinati all’oggi. È proprio il desiderio di assicurarsi per l’indomani a renderli così malsicuri oggi. Basta che ogni giorno abbia la sua pena. Solo chi affida il domani completamente a Dio ed oggi accetta quello che gli serve per vivere, vive veramente sicuro. Il ricevere ogni giorno il suo mi libera dal domani. Il pensiero del domani mi espone a preoccupazioni senza fine. «Non affannatevi dunque per il domani», queste parole sono o un terribile scherno dei poveri e miserabili - ai quali Gesù appunto si rivolge -, di tutti coloro che dal punto di vista umano domani morranno di fame se non ci pensano oggi, ed è una legge insopportabile che l’uomo respinge con ripugnanza, oppure, invece, è l’unico annunzio dell’Evangelo stesso della libertà dei figli di Dio, che hanno un Padre celeste il quale ha donato loro il suo Figlio diletto. «Come non ci donerebbe tutto con lui?».
  «Non affannatevi per il domani», non sono parole da considerare come un modo saggio per affrontare la vita; non sono una legge. Le si può solo comprendere come Evangelo di Gesù Cristo. Solo chi segue Gesù, chi ha riconosciuto Gesù in questa Parola, riceve l’assicurazione dell’amore del Padre di Gesù Cristo e la libertà da ogni cosa. Non è la previdenza a rendere il discepolo libero da preoccupazioni, ma la fede in Gesù Cristo. Ora egli sa: non possiamo nemmeno provvedere. Il prossimo giorno, la prossima ora non sono in nostro potere. È inutile far finta di poter provvedere. Non possiamo cambiar nulla nella situazione del mondo. Solo Dio può provvedere, perché Egli governa il mondo. Dato che non possiamo provvedere, dato che siamo tanto impotenti, non dobbiamo nemmeno preoccuparci. Non arroghiamoci con le nostre preoccupazioni il governo che spetta a Dio.
  Ma il seguace sa che non solo non può e non deve preoccuparsi, ma che non ha nemmeno bisogno di farlo. Non è la preoccupazione e nemmeno il lavoro a procurarci il pane quotidiano, ma Dio Padre. Gli uccelli e i gigli non lavorano e non tessono, eppure vengono nutriti e vestiti, ricevono ogni giorno il necessario senza preoccuparsene. Usano i beni del mondo solo per la vita quotidiana, non li accumulano, e proprio così glorificano il Creatore, non mediante la loro diligenza, il loro lavoro, la loro previdenza, ma ricevendo ogni giorno semplicemente il dono che Dio offre. Così uccelli e gigli divengono esempio per chi segue Gesù. Gesù scioglie il nesso tra lavoro e nutrimento, ritenuto necessario non tenendo conto di Dio. Egli non parla del pane quotidiano come di una ricompensa per il lavoro, ma loda la vita semplice e senza preoccupazioni di chi cammina sulla via di Gesù e riceve tutto da Dio.

    «Ora nessun animale lavora per il proprio nutrimento, ma ognuno ha il suo compito, poi cerca e trova il suo cibo. L’uccello vola e canta, nidifica e genera pulcini; questo è il suo compito; ma non si nutre di questo. I buoi arano, i cavalli portano l’uomo e combattono, le pecore danno la lana, il latte, il formaggio, questo è il loro lavoro; ma di questo non si nutrono; ma la terra fa crescere l’erba e li nutre per la benedizione di Dio. Altrettanto l’uomo deve lavorare e fare qualcosa, ma pure deve sapere che è un Altro a nutrirlo, e non il suo lavoro; è la ricca benedizione del Signore; per quanto sembri essere il suo lavoro a nutrirlo, perché Dio non gli dà nulla senza il suo lavoro; così come l’uccellino non semina né raccoglie, eppure dovrebbe morire di fame se non volasse in cerca di cibo. Ma non è il suo lavoro che gli fa trovare il cibo, bensì la bontà di Dio. Infatti, chi ha sparso cibo perché lo trovi? Dove Dio non pone nulla, nessuno può trovare qualcosa, anche se lavorasse e cercasse fino a sfinirsi» (Lutero).

Ma se uccelli e gigli vengono mantenuti dal Creatore, il Padre non dovrebbe tanto più nutrire i suoi figli che gliela chiedono ogni giorno, non dovrebbe poter dar loro ciò di cui hanno bisogno per la loro vita quotidiana, lui al quale appartengono tutti i beni della terra e che può distribuirli come gli piace? «Dio mi dà ogni giorno solo quanto mi è necessario per vivere; se lo dà agli uccelli sul tetto, come non dovrebbe darlo a me?» (Claudius).
  Preoccuparsi è da pagani che non credono, che si fidano delle proprie forze e del proprio lavoro, ma non di Dio. Pagani sono coloro che si preoccupano, perché non sanno che il Padre sa che hanno bisogno di tutte queste cose. Perciò vogliono fare loro stessi quello che non si aspettano da Dio. Ma per chi segue Gesù vale: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più».
  Da ciò è evidente che preoccuparsi del nutrimento e del vestiario non vuol dire ancora preoccuparsi del regno di Dio, come noi spesso vogliamo credere, quasi l’adempimento del nostro lavoro per la nostra famiglia e per noi, quasi la nostra preoccupazione per il vitto e l’alloggio fossero già un cercare il regno di Dio, come se questo si realizzasse entro queste preoccupazioni. Il regno di Dio e la sua giustizia è qualcosa di completamente diverso dai doni del mondo che ci vengono dati. Non è altro che la giustizia, di cui si parla in Matteo 5 e 6, la giustizia della croce di Cristo e del cammino al seguito di Gesù, sotto la croce.
  La comunione con Gesù e l’obbedienza ai suoi comandamenti vien prima, tutto il resto segue. Non è un insieme, ma una successione. Prima delle preoccupazioni per la nostra vita, per il nutrimento e il vestiario, per la professione e la famiglia viene la ricerca della giustizia di Cristo. Qui è solo data un’estrema sintesi di ciò che già era stato detto. Anche questa parola di Gesù è un peso insopportabile, una impossibile distruzione dell’esistenza umana dei poveri e miserabili, oppure è l’Evangelo stesso, che rende completamente liberi e felici. Gesù non parla di quello che l’uomo deve e non può, ma di quello che Dio ci ha donato e ci promette ancora. Se Cristo ci è stato donato, se siamo chiamati a seguirlo, allora con lui ci viene donato tutto, veramente tutto. Tutto il resto ci sarà dato in più. Chi, seguendo Gesù, guarda solo alla giustizia di Cristo, è al sicuro nella mano e sotto la protezione di Gesù Cristo e di suo Padre, e chi è così in comunione con lui non può più dubitare che il Padre non sappia nutrire i suoi figli e non li farà soffrire la fame. Dio aiuterà al momento opportuno. Egli sa di che cosa abbiamo bisogno.
  Chi segue Gesù, anche dopo essere stato a lungo suo discepolo, alla domanda del Signore: «Vi è mai mancato qualcosa?» risponderà: «Mai, Signore». Come potrebbe mancare di qualcosa chi, pur affamato e nudo, nella persecuzione e nel pericolo, è certo della comunione con Gesù Cristo?

(da "Sequela", di Dietrich Bonhoeffer)


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Indossare la Kippah in solidarietà agli ebrei, l'iniziativa dei radicali a Milano

"Gli ebrei rischiano contestazioni e aggressioni". L'iniziativa di solidarietà lanciata a Milano, verrà estesa ai sindaci delle città principali: indossare la Kippah nei luoghi pubblici per alcune settimane.

di Massimiliano Melley

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Indossare la Kippah come gesto simbolico di solidarietà nei confronti delle persone di religione ebraica che, per il fatto di essere riconosciute come tali, ogni giorno rischiano contestazioni e aggressioni. L'iniziativa è stata promossa da Europa Radicale, e presentata a Milano dal suo portavoce Igor Boni insieme a Lorenzo Strik Lievers (ex deputato radicale) e Carmelo Palma. Per la comunità ebraica milanese c'erano il vice presidente Ilan Boni e il delegato alla comunicazione David Blei.
"L’antisemitismo, cioè la quotidiana imputazione agli ebrei, in quanto ebrei, di colpe e nequizie inemendabili, è tornato a essere un pregiudizio di massa, culturalmente e politicamente legittimato da istanze cosiddette 'antisioniste', cioè di contestazione non delle scelte, ma della legittimità di Israele", è stato detto durante la conferenza stampa di presentazione.

• L’invito ai sindaci
   Sotto accusa Hamas, che ha "come fondamentale obiettivo la distruzione di Israele" e quindi, oltre a lasciare lo stato israeliano in una condizione di pericolo, impedisce di fatto di costruire una pace fondata sul principio "due popoli, due stati", che implica "un riconoscimento reciproco". Igor Boni, Lorenzo Strik Lievers e Carmelo Palma, alla fine della conferenza stampa, hanno indossato una Kippah, impegnandosi a portarla nei luoghi pubblici nelle prossime settimane, e scriveranno ai sindaci delle principali città italiane, tra cui Beppe Sala, invitandoli a fare lo stesso.

• “Clima pesante"
   "A Milano c'è una situazione molto pesante, ma in altre zone d'Italia è pure peggio, per cui non saprei se c'è un caso Milano specifico", ha aggiunto Ilan Boni per la comunità ebraica. Percepisco che nel capoluogo lombardo la situazione è molto critica ma è anche un effetto di un movimento mondiale, di un certo clima internazionale. Per questo ritengo che indossare la Kippah sia un gesto simbolico nonché un messaggio importante".

(MilanoToday, 5 aprile 2025)

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"Voglio lasciare Gaza”, dicono i palestinesi alla BBC Arabic

Una donna palestinese ha spiegato che suo marito, cittadino giordano, è stato costretto dall'Egitto a tornare a Gaza senza la sua famiglia.

Nonostante la proposta di trasferire i palestinesi da Gaza sia stata accolta dall'indignazione internazionale, la scorsa settimana alcuni palestinesi hanno dichiarato alla BBC Arabic di voler lasciare l'enclave.
“Non ce la faccio più, soprattutto ora che la guerra è tornata. Le nostre vite sono minacciate ogni giorno. Voglio lasciare Gaza”, ha detto Alaa alla BBC.
Ola, una donna palestinese che vive a Jabalya, ha detto al sito di notizie che la maggior parte dei gazesi vuole lasciare la Striscia di Gaza, citando “la mancanza di una vita decente. Non ci sono luoghi adatti per vivere, né cibo buono, né opportunità di lavoro. Manca tutto, anche le necessità più elementari della vita”.
Coloro che sono disposti e vogliono rimanere a Gaza, ha detto l'Ola, spesso hanno un buon lavoro “ma se ne andranno non appena troveranno un'opportunità migliore”.
Ha riconosciuto che alcune persone vorrebbero rimanere e investire nel futuro di Gaza, ma che la generazione più giovane sta cercando sempre più spesso di fuggire per avere migliori prospettive all'estero.
Le possibilità per i giovani di lasciare Gaza possono essere quelle di ottenere borse di studio, ma le opportunità di lavoro sono difficili e alcuni potrebbero ricorrere all'immigrazione clandestina, se ne hanno la possibilità”, ha affermato l'autrice, aggiungendo che gli anziani non sono più in grado di lavorare.
“Guardare gli anziani a Gaza è straziante. Le loro possibilità di lasciare la Striscia sono scarse, tranne che per i malati e i feriti, che vengono ospitati da alcuni Paesi per essere curati. Gli altri non hanno soldi, cibo e nemmeno una tenda”, ha sottolineato. “Ogni giorno cercano un posto sicuro e cercano di soddisfare alcuni dei loro bisogni. Quindi, se hanno una buona opportunità, se ne andranno anche loro, “e molto probabilmente rimarranno intrappolati in situazioni non sicure all'interno della Striscia di Gaza”.
Quando le è stato chiesto di indicare dove pensava che i palestinesi avrebbero potuto ripartire, ha detto che molti guardavano all'Indonesia o agli Stati arabi circostanti, ma ha aggiunto che i giovani speravano in un futuro in Europa.
Un altro palestinese, un uomo reso anonimo con il nome di “Mahdi”, ha potuto lasciare la sua casa di Rafah con la figlia per sottoporsi a cure mediche in Egitto. “Non intendo tornare a Gaza a meno che non sia costretto a farlo”, ha confermato alla BBC.
“Dicono che siamo fuggiti da Gaza, ma la verità è un'altra”, ha spiegato Mahdi. “Non siamo fuggiti e non abbiamo scelto di vivere nella sofferenza. Volete che moriamo sotto le macerie e che diventiamo solo resti? Vi piace vederci morti e fatti a pezzi? No, non è questo il nostro obiettivo”.
E ha aggiunto: “Non siamo traditori se vogliamo andarcene. Ognuno di noi ha la capacità di sopportare, e molti di noi non ce la fanno più”.
Un terzo palestinese, Ahmed, ha dichiarato alla BBC di desiderare di trasferirsi in un Paese “che abbracci me e mio fratello in modo da poter lavorare e vivere con dignità”.
“So che la gente fraintenderà la nostra uscita da Gaza”, ha ripetuto più volte durante l'intervista con la BBC. “Io e molte persone che conosco vogliamo lasciare Gaza, ma senza che ci vengano imposte condizioni su come partire o tornare, o addirittura senza tornare a Gaza, come si dice in giro. In definitiva, questo è il nostro Paese e vogliamo entrare e uscire di nostra spontanea volontà”.
Sebbene molti palestinesi desiderino andarsene, alcuni hanno raccontato come i loro sforzi legali per emigrare siano stati ostacolati dagli Stati confinanti.
Hadeel ha raccontato dalla sua nuova casa in Giordania che suo marito, che ha la cittadinanza giordana, è stato rimpatriato dall'Egitto a Gaza. Ora vive con le sue figlie e aspetta che la famiglia si riunisca.

Quanti palestinesi vogliono andarsene?
   “Ci sono molte persone a Gaza che desiderano recarsi in Paesi europei come il Belgio, la Germania e la Grecia, ma sono il blocco, la chiusura e i costi esorbitanti del viaggio a impedirglielo”, ha spiegato Hadeel. “D'altra parte, ci sono anche coloro che rimangono impegnati a Gaza e vi rimangono nonostante le difficili condizioni”.
Mentre BBC Arabic ha riportato le dichiarazioni di tre persone che affermavano di voler rimanere a Gaza, un sondaggio di Gallup International pubblicato a marzo ha indicato che la stragrande maggioranza voleva andarsene.
Condotto dal 2 al 13 marzo, il sondaggio ha rilevato che il 38% degli intervistati avrebbe optato per un trasferimento temporaneo, il 14% si sarebbe trasferito in modo permanente e il 4% avrebbe mandato all'estero i propri familiari.

(Jerusalem Post, 5 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'inviato di Trump incontra il presidente libanese nell'ambito degli sforzi per disarmare Hezbollah

Il vice inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Morgan Ortagus, ha incontrato sabato a Beirut il presidente libanese Joseph Aoun, dopo che Israele e Libano hanno concordato di tenere dei colloqui per risolvere le loro controversie sui confini.
La visita avviene sullo sfondo di oltre un anno di guerra tra lo Stato ebraico e il gruppo terroristico sciita libanese.
Washington ha esortato il governo libanese a disarmare Hezbollah per garantire la calma lungo il confine.
Ortagus ha discusso con Aoun anche dell'escalation degli attacchi israeliani contro obiettivi delle organizzazioni terroristiche Hezbollah e Hamas, concentrati soprattutto nel Libano meridionale, che negli ultimi giorni hanno raggiunto anche la periferia di Beirut.
La presidenza libanese ha affermato in una nota che l'incontro tra Ortagus e Aoun "è stato costruttivo" e che le delegazioni guidate dai due hanno discusso "della situazione nel Libano meridionale, del confine tra Libano e Siria e delle riforme finanziarie ed economiche per combattere la corruzione" nel Paese mediterraneo.
La dichiarazione non ha fornito ulteriori dettagli, sebbene abbia indicato che l'incontro è stato preceduto da un incontro "privato" tra il capo di Stato libanese e il funzionario statunitense.
Dopo aver concluso l'incontro con Aoun, Ortagus ha incontrato il primo ministro libanese Nawaf Salam e dovrebbe incontrare anche il presidente del Parlamento Nabih Berri, che è anche il principale negoziatore per la cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah.
La sua visita avviene in un momento in cui aumentano gli attacchi delle Forze di difesa israeliane, che la scorsa settimana hanno lanciato due attacchi aerei contro obiettivi terroristici alla periferia di Beirut, per la prima volta da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco quattro mesi fa, e ieri hanno preso di mira un leader di Hamas nella città meridionale di Sidone.
Nelle prime ore del mattino, appena 12 ore prima dell'arrivo del rappresentante degli Stati Uniti, un attacco di precisione israeliano su un appartamento di quella città ha ucciso Hassan Farhat, comandante del gruppo terroristico palestinese Hamas in Libano, e i suoi due figli.
Washington, principale mediatore della cessazione delle ostilità, ha esortato il Libano ad accelerare il disarmo dei gruppi non statali e ad avviare negoziati per demarcare il confine con lo Stato ebraico, attualmente diviso solo da una linea di ritiro tracciata dall'ONU.

(Aurora Israel, 5 aprile 2025)

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“Am Israel run”: si conclude 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme

di Michelle Zarfati

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Circa 40.000 corridori hanno partecipato venerdì alla 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner”, che si è svolta sotto il tema “Am Israel Runs”. L’evento ha reso omaggio all’IDF e alle forze di sicurezza e di soccorso israeliane, e ha rappresentato la resilienza, la speranza, la forza e lo spirito del popolo israeliano. La corsa è stata inaugurata da Karina Ariev, liberata dalla prigionia di Hamas a Gaza dopo oltre 500 giorni. Nel suo discorso ai corridori prima della partenza, ha detto: “Mentre correte, sentite la libertà, l’abbraccio confortante di ciò che vi circonda. Dedicate questa corsa alla memoria dei nostri eroi che hanno sacrificato le loro vite perché noi potessimo essere qui oggi, agli ostaggi – che possano tornare presto e in sicurezza – a noi stessi e all’intero popolo di Israele”.
  Tra i corridori c’erano circa 15.000 soldati dell’IDF – sia riservisti che personale in servizio attivo – oltre ai membri dei servizi di sicurezza e di emergenza di Israele. La maratona ha attirato anche circa 1.800 partecipanti internazionali, che hanno corso lungo un percorso straordinario che ha toccato punti di riferimento iconici come la Knesset, le mura della Città Vecchia, la Piscina del Sultano, Mishkenot Sha’ananim, il Monte Sion, la Colonia Tedesca, Rehavia, la Passeggiata Armon Hanatziv, la Collina delle Munizioni, il Parco Sacher, il Monte Scopus, il Monte degli Ulivi e altro ancora.
  Tra i partecipanti di quest’anno c’era anche il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion, che ha corso nella gara di 5 km. “La Maratona Internazionale di Gerusalemme ‘Winner’ è uno degli eventi sportivi più professionali e stimolanti per i corridori in Israele e nel mondo. Sono orgoglioso che ancora una volta abbiamo battuto un record assoluto di partecipazione e abbiamo ospitato con successo la maratona sotto il tema “Am Israel Run” ha detto Lion, salutando inoltre l’IDF, le forze di sicurezza e i soccorritori di emergenza. “Ringrazio le decine di migliaia di corridori che hanno preso parte al più grande evento sportivo israeliano, tenutosi nella capitale dello sport del Paese. Tutti noi speriamo in un rapido ritorno di tutti gli ostaggi alle loro famiglie e nel ritorno in sicurezza dei nostri soldati. Ci vediamo alla prossima maratona nel 2026″.
  Il vincitore della 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” è stato Bohdan Semenovych, 39 anni, con il tempo di 02:22:47. Al secondo posto: Gabriyesos Tachlowini Melake, 27 anni, con un tempo di 02:23:05. Al terzo posto: Yonah Amitai, 31 anni, da Israele, con il tempo di 02:23:18.
  Campionessa femminile: Salgong Pauline Gepkirui dal Kenya che ha tagliato il traguardo in 02:51:58. Secondo posto: Mantamar Bikaya da Israele che ha completato la gara in 02:56:53 Terzo posto: Noah Berkman da Israele, con un tempo di 02:59:48.
  La 14a Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” prevedeva sei categorie di gara, offrendo ai partecipanti una serie di sfide. I corridori hanno affrontato la maratona completa (42,195 km), la mezza maratona (21,1 km), la corsa di 10 km, la corsa di 5 km e la corsa per famiglie di 1,7 km. Inoltre, l’evento comprendeva l’esclusiva Community Race, una caratteristica esclusiva della Maratona di Gerusalemme.
  Il vincitore della maratona si è aggiudicato un premio di 3.750 dollari, mentre il secondo classificato ha ricevuto 2.500 dollari e il terzo classificato 1.250 dollari.
  La Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” è stata organizzata dal Comune di Gerusalemme, in collaborazione con l’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme e con il sostegno del Ministero di Gerusalemme e del Patrimonio, del Ministero della Cultura e dello Sport e del Ministero del Turismo. Lo sponsor principale dell’evento è stato Toto Winner. Il brand Saucony ha collaborato all’evento, commercializzando le scarpe da corsa e le magliette ufficiali della Maratona di Gerusalemme. Altri sponsor sono stati Hapoel Center, Eldan, Cinema City, Reidman College e Bezeq Business. La maratona è stata prodotta da Electra Target.

(Shalom, 4 aprile 2025)

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Israele e gli USA alla prova dei dazi: effetti economici e risposte politiche

di Davide Cucciati

Israele si trova coinvolto nella nuova guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti. Il 2 aprile, il presidente Donald Trump ha annunciato un vasto piano di dazi, illustrato, secondo quanto riportato da Globes, come un modo per “riportare la ricchezza in America” e rilanciare l’industria nazionale. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha definito la giornata dell’annuncio come “uno dei momenti più importanti della storia americana moderna”. In un comunicato ufficiale, l’amministrazione statunitense ha inoltre affermato che “questi dazi sono centrali nel piano del presidente Trump per invertire i danni economici lasciati dal presidente Biden e portare l’America verso una nuova età dell’oro”.

Secondo Globes, Israele è tra gli Stati a cui si applicheranno i nuovi dazi, con un’aliquota del 17%. Si tratta di un valore intermedio: più basso rispetto a quello imposto alla Cina (34% che, in combinazione con i dazi preesistenti, porta il livello effettivo al 54%, secondo quanto chiarito dalla Casa Bianca alla CNBC), all’India (26%), al Giappone (24%) e all’Unione Europea (20%), ma superiore a quello riservato a partner come Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Turchia o Singapore. La Casa Bianca ha spiegato che le nuove aliquote non sono direttamente proporzionali al disavanzo commerciale, ma riflettono, secondo quanto dichiarato dal presidente Trump e riportato da Reuters, “circa la metà” del livello delle tariffe, delle barriere non tariffarie e delle altre restrizioni che i singoli Stati impongono alle merci statunitensi.

Nel caso di Israele, è stata calcolata un’aliquota del 17% sulla base di questo criterio. L’inclusione tra i Paesi “penalizzati” preoccupa il ministero delle finanze israeliano poiché gli Stati Uniti rappresentano di gran lunga il principale mercato di esportazione per Israele. Secondo la testata economica israeliana, nel 2024 l’export di beni israeliani verso gli USA è stato pari a 17,3 miliardi di dollari. A titolo di confronto, il secondo Paese in classifica è l’Irlanda (3,2 miliardi), seguita dalla Cina (2,8 miliardi). I settori più esposti all’impatto dei dazi sono quelli dell’elettronica e dei macchinari industriali, le apparecchiature mediche e ottiche, il settore farmaceutico e i diamanti.I dazi, almeno per ora, si applicano solo alle merci e non ai servizi: le esportazioni israeliane di servizi verso gli USA (soprattutto nel settore high-tech) hanno raggiunto i 16,7 miliardi di dollari nel 2024 e non saranno colpite direttamente. Il danno potenziale sul fronte dei beni è comunque rilevante: con un dazio medio del 17% sul valore esportato, si stima una ricaduta potenziale di circa 2,9 miliardi di dollari l’anno che potrebbe ridurre la competitività dei prodotti israeliani e aumentare i costi per i consumatori americani.

Successivamente all’annuncio, il ministro delle finanze israeliano Smotrich ha convocato una riunione d’emergenza con i funzionari del ministero e il presidente dell’associazione degli industriali, Ron Tomer. Secondo quanto dichiarato da fonti del ministero a Globes, il gruppo di lavoro ha avviato un’analisi per individuare i comparti più vulnerabili e pianificare interventi mirati. Peraltro, Israele aveva cercato di muoversi in anticipo. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti all’annuncio, il governo aveva adottato due misure: l’abolizione dei dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti e l’estensione della riforma “Ciò che è buono per l’Europa è buono per Israele”, adattandola anche agli standard statunitensi. Preme precisare che l’abolizione dei dazi richiede ancora l’approvazione della Commissione Finanze della Knesset. A differenza dell’Unione Europea, Israele ha escluso per ora l’adozione di dazi di ritorsione: l’intenzione è mantenere i canali aperti e puntare a una riduzione delle tariffe, non a una loro escalation. Non mancano, secondo gli analisti israeliani, possibili margini di opportunità. Il fatto che Israele sia tassato meno di UE, India e Giappone potrebbe rendere alcune produzioni israeliane più competitive ma il contesto rimane altamente incerto. Molto dipenderà dalle reazioni europee e dalle dinamiche di una possibile guerra commerciale globale.

Nel frattempo, il mondo della finanza ha reagito con durezza. Il giorno dopo l’annuncio di Trump, i mercati hanno subito un tonfo. Secondo la SkyTG24, il 3 aprile, in apertura del mercato, il Dow Jones ha perso il 2,62%, il Nasdaq il 4,40% mentre lo S&P 500 “lascia sul terreno il 3,4%”. Nike ha segnato un -13% scendendo ai minimi dal 2017; Apple un-8,5% bruciando 255 miliardi di dollari di valore. Il capo stratega di B. Riley Wealth Management, Art Hogan, ha definito l’annuncio “caotico come tutto ciò che questa amministrazione ha fatto finora”, osservando che “il livello di complicazione è peggiore del previsto e non ancora scontato dai mercati”.

Anche sul piano teorico, la scelta di Trump ha suscitato ampie critiche: Piercamillo Falasca, direttore de L’Europeista e in passato responsabile dell’ufficio legislativo di un gruppo parlamentare alla Camera dei Deputati, ha osservato su X che “il fatto che gli Stati Uniti siano in deficit commerciale con il mondo non è di per sé un problema”, poiché negli ultimi venticinque anni hanno attratto una quota crescente di investimenti diretti esteri. “I soldi uscivano sotto forma di consumi, ma rientravano sotto forma di investimenti”, ha scritto, ricordando anche che il dollaro è la valuta degli scambi internazionali, e ciò rappresenta “un altro modo indiretto per finanziare l’economia americana”. Secondo dati del Dipartimento del Commercio USA, gli investimenti diretti esteri nel Paese hanno superato i 5 trilioni di dollari nel 2023, con un’incidenza sul PIL superiore al 20%. “Dalla guerra dei dazi scatenata da Trump non ne verrà nulla di buono”, conclude Falasca. “Abbiamo secoli di evidenza a spiegarcelo. Il mondo non stava fregando gli USA: è Trump a illudere i suoi cittadini e a far male a tutti”.

Anche The Economist ha preso posizione in modo netto, definendo l’iniziativa “la decisione economica più grave e inutile dell’era moderna”. Nell’editoriale del 3 aprile, la rivista britannica accusa Trump di voler riscrivere la politica commerciale americana con criteri arbitrari e privi di basi economiche. Secondo la testata, le conseguenze sono quasi inevitabili: inflazione, interruzione degli scambi, ritorsioni da parte di altri Stati e, potenzialmente, una nuova recessione globale.

Israele si trova così ad affrontare una sfida complessa: difendere l’accesso al suo mercato di esportazione principale e orientarsi in un contesto internazionale sempre più instabile.

(Bet Magazine Mosaico, 4 aprile 2025)

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Hamas sotto pressione. Come Israele indebolisce il terrore

di Luca Spizzichino

Hamas è in difficolta. Secondo quanto riportato dal quotidiano arabo Asharq Al-Awsat e ripreso da Ynet, gli ultimi attacchi mirati dell’IDF, che hanno colpito la leadership politica, militare e amministrativa, hanno sconvolto la catena di comando e modificato la struttura decisionale, creando di fatto un grave vuoto organizzativo all’interno di Hamas. 
  Gli attacchi israeliani hanno compromesso inoltre il pagamento degli stipendi ai dipendenti dell’amministrazione controllata dal gruppo a Gaza, con tagli che hanno ridotto le retribuzioni dei ranghi politici e militari al 60% durante l’Eid al-Fitr. Secondo fonti di Hamas, i ritardi nei pagamenti sono stati aggravati dal caos interno e dalla sorveglianza israeliana sui funzionari finanziari.
  I raid hanno avuto un impatto significativo sulle operazioni di Hamas. La struttura decisionale si è ristretta a un piccolo “consiglio di leadership”, composto da leader regionali che consultano il più ampio ufficio politico solo in casi di estrema necessità. Attualmente, il capo di questo consiglio è Muhammad Darwish, che ha preso il posto di Osama al-Mazini dopo la sua uccisione nei primi giorni della guerra nell’ottobre 2023. Mentre l’ufficio politico di Hamas, che contava originariamente più di 20 membri, ora ne comprende tra i 5 e i 7.
  Delle figure chiave di Hamas, Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri sono stati uccisi all’estero, mentre circa 15 membri del politburo sono stati eliminati all’interno di Gaza. Fonti di Hamas hanno rivelato che, a causa della pressione israeliana, il processo decisionale è passato direttamente al consiglio di leadership, escludendo i comandanti sul campo a meno che non sia strettamente necessario. Tuttavia, rimangono alcune linee rosse: né il consiglio né la squadra negoziale possono prendere decisioni critiche senza consultare l’intero ufficio politico, in particolare i membri ancora presenti a Gaza e il comando militare delle Brigate Qassam, guidato da Mohammed Sinwar, fratello di Yahya Sinwar.
  Durante la tregua, Hamas ha tentato di riorganizzarsi rapidamente attraverso nuove nomine ed elezioni interne. Questo processo ha portato all’ascesa di Khalil al-Hayya, che ha sostituito Yahya Sinwar e ha svolto un ruolo centrale nei negoziati, viaggiando tra Egitto, Turchia e altri Paesi per coordinare le trattative. Tuttavia, anche alcuni membri della delegazione negoziale, tra cui Muhammad al-Jamasi, Yasser Harb, Ismail Barhoum ed Essam al-Da’alis, sono stati successivamente uccisi nei raid aerei israeliani.
  Parlando con Reuters, alcuni funzionari di Hamas hanno sostenuto che l’organizzazione mantiene un sistema di governo efficace nonostante il conflitto. “Il movimento ha le risorse umane per ricostruire. Le fazioni palestinesi subiscono colpi da decenni, ma riescono sempre a riemergere più forti”. Hamas starebbe valutando l’ipotesi di ritirarsi dalla gestione civile di Gaza per alleviare le pressioni interne, ma non intende rinunciare al proprio arsenale militare. Secondo le fonti citate da Asharq Al-Awsat, il gruppo disporrebbe di ulteriori “strumenti di pressione” oltre agli ostaggi, anche se non sono stati specificati dettagli in merito.
  La strategia di Israele, basata su eliminazioni mirate e pressione costante sulle reti operative di Hamas, sta infliggendo un duro colpo alla capacità del gruppo terroristico di coordinare attacchi e mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Con una leadership decimata e crescenti difficoltà amministrative.

(Shalom, 4 aprile 2025)

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I palestinesi sono un popolo antico o una creazione moderna?

Sullo sfondo storico dei palestinesi nel Mandato britannico, nella Striscia di Gaza, in Giudea e Samaria e nel mondo musulmano.

di Harold Rhode

Prima del 1948, anno di fondazione dello Stato ebraico, quasi esclusivamente gli ebrei che vi abitavano si definivano palestinesi. Gli altri abitanti della regione, principalmente arabi musulmani, si definivano innanzitutto musulmani. Una certa consapevolezza dell'appartenenza territoriale esisteva solo in piccoli circoli intellettuali, che consideravano la regione come Grande Siria, Siria meridionale o “Ash-Sham” (la regione levantina).
L'identità palestinese moderna è stata in gran parte creata solo nel 1964 con la fondazione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). È controverso se gli attuali abitanti di Gaza e della “Cisgiordania” abbiano legami storici con la Palestina del Mandato britannico (prima del 1948).

Matrimonio e commercio: una rete di connessioni regionali
   Storicamente, le relazioni familiari e tribali in Medio Oriente sono state spesso definite da reti economiche e commerciali, non da confini geografici. In molte parti del mondo musulmano, i matrimoni seguivano le rotte commerciali e rafforzavano i legami economici e sociali a lungo termine. Il concetto occidentale di confini fissi non ha avuto alcun ruolo in questo contesto. Questa dinamica può essere osservata anche nella Palestina pre-1948, dove le pratiche matrimoniali tradizionali collegavano le comunità al di là dei moderni confini statali.
Ad esempio, le famiglie di Nablus si sposavano spesso con famiglie di Al-Balqa, una regione a est del fiume Giordano. Di conseguenza, nomi di famiglie importanti come Toukan e Masri sono comparsi su entrambe le sponde del fiume. Legami simili esistevano tra le famiglie di Jenin e la città di Irbid, nel nord della Giordania, e tra le famiglie musulmane di Nazareth. I politici giordani di alto rango fanno spesso riferimento alle radici familiari a Hebron o a Safed, il che sottolinea ulteriormente gli stretti legami storici attraverso il fiume Giordano. Questi legami dimostrano che l'identità della regione è stata storicamente fluida e caratterizzata da relazioni sociali ed economiche piuttosto che dai moderni confini politici.

Demografia del XIX secolo: una terra vuota?
   Fino al XIX secolo, gran parte di quella che oggi è la “Cisgiordania” e Gaza era scarsamente popolata e sottosviluppata. Viaggiatori come Mark Twain e il presidente degli Stati Uniti Ulysses S. Grant descrissero la regione come in gran parte arida e disabitata. Questi resoconti, scritti senza un'agenda politica, danno un'idea dello stato del Paese prima dei successivi cambiamenti demografici.
Durante questo periodo, l'Impero Ottomano tentò di rivitalizzare la regione insediandovi immigrati musulmani provenienti da Albania, Bosnia e Caucaso. Questa politica aveva lo scopo di rivitalizzare il Paese dal punto di vista economico, ma contribuì anche alla diversità etnica della popolazione poi identificata come “palestinese”. Oggi alcuni giovani commentatori sauditi fanno riferimento a questa storia per affermare che i palestinesi non sono “veri arabi” - un'affermazione che riflette la complessa politica identitaria della regione.

La migrazione e l'emergere dell'identità palestinese
   I documenti storici e le tradizioni familiari orali indicano che significative ondate migratorie hanno contribuito all'emergere dell'attuale popolazione palestinese. Negli anni '40 del XIX secolo, le truppe egiziane occuparono l'area e ciò portò all'insediamento di molti egiziani. Il nome della famiglia “Masri” (“egiziano” in arabo) è oggi molto diffuso tra i palestinesi e testimonia questa migrazione. Alcuni di questi coloni egiziani si trasferirono poi a Salt, a est del fiume Giordano.
Alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo, un'altra ondata migratoria arrivò nella regione, innescata dalla costruzione della ferrovia ottomana, che collegava il sud-est della Turchia con l'Hejaz (e la Mecca). Il ramo di Haifa di questa ferrovia attirò molti lavoratori dalla Giordania e dalla Siria, molti dei quali rimasero. Questi movimenti di lavoratori portarono la regione a essere conosciuta come “Umm al-Amal” (“Madre del Lavoro”), sottolineando il suo ruolo di centro economico.
Ulteriori spostamenti demografici si verificarono durante il periodo del Mandato britannico. Con l'aumento dell'immigrazione ebraica, anche i lavoratori arabi provenienti dalla Transgiordania si riversarono nell'area, attratti dalle opportunità di lavoro e dai migliori servizi sanitari offerti dagli immigrati ebrei. Mentre le autorità britanniche controllavano rigorosamente l'immigrazione ebraica, ignoravano ampiamente l'immigrazione araba nel territorio.

L’autonomia culturale di Gaza
   Gaza ha storicamente avuto legami culturali e linguistici più stretti con l'Egitto che con altre parti della Palestina. Il dialetto arabo locale e molte tradizioni riflettono questa influenza e indicano un'identità culturale distinta da quella della Cisgiordania. Molti palestinesi oggi sono consapevoli delle loro radici familiari e riconoscono apertamente le loro origini diverse. Questa prospettiva storica mette in discussione l'idea che l'identità palestinese sia esclusivamente legata alla Palestina del Mandato britannico (prima del 1948) e solleva interrogativi sulle origini del nazionalismo e delle rivendicazioni territoriali palestinesi.

La dimensione politica: un conflitto creato artificialmente?
   Dati i modelli storici di migrazione e la fluidità delle identità, l'identità nazionale palestinese è una costruzione relativamente nuova. Questa prospettiva sta alimentando il dibattito sulla politica internazionale nei confronti dei territori palestinesi. La proposta del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di reinsediare i residenti di Gaza ed eventualmente della Cisgiordania negli Stati arabi confinanti è in linea con questa realtà storica. Secondo questa visione, i palestinesi - molti dei quali hanno vissuto secoli di migrazioni - non dovrebbero soffrire sotto il dominio di gruppi oppressivi come Hamas o l'Autorità Palestinese (AP).
I critici della risposta araba alla questione palestinese sostengono che i leader regionali hanno a lungo usato la questione come leva politica contro Israele, piuttosto che promuovere attivamente soluzioni per i rifugiati palestinesi. Nonostante la loro retorica, molti Stati arabi hanno impedito la piena integrazione dei palestinesi per conservarli come merce di scambio geopolitico.

Due pesi e due misure occidentali
   L'Occidente ha sostenuto ampiamente i palestinesi - in contrasto con la quasi totale assenza di sostegno da parte dei Paesi arabi o musulmani. Il senso di colpa occidentale per il colonialismo e l'ingiustizia percepita nei confronti del mondo non occidentale ha generato un sostegno sproporzionato alla causa palestinese. Al contrario, l'approccio di Trump chiede agli Stati arabi di assumersi la responsabilità per i “loro fratelli” piuttosto che fare affidamento sulla generosità occidentale.

Conclusione
   I legami storici tra i palestinesi della Striscia di Gaza, della “Cisgiordania” e della Palestina del mandato britannico sono complessi e caratterizzati da secoli di migrazioni, scambi commerciali e cambiamenti politici. I palestinesi non sono un unico gruppo etnico, ma un insieme di popoli diversi che si sono stabiliti nella regione solo negli ultimi 200 anni. Mentre continuano i dibattiti sul reinsediamento e sulle soluzioni politiche, la domanda rimane: le potenze arabe dovrebbero assumere un ruolo più attivo nella questione palestinese, o lo status quo rimarrà invariato?
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L'autore Harold Rhode è stato per 28 anni consulente per gli affari del mondo islamico presso l'Ufficio del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. È membro del Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs e del Gatestone Institute di New York.

(Israel Heute, 4 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Vayikrà. Non c’è etica senza Dio

di Donato Grosser

Alla fine di questa parashà la Torà prescrive cosa devono fare coloro che si comportano in modo disonesto nei confronti del prossimo, per espiare i rispettivi peccati: “Il Signore parlò a Moshè dicendo: se una persona pecca e commette un reato di appropriazione indebita contro Dio, mentendo al suo vicino riguardo a un articolo lasciato in custodia, a un affare commerciale, a una ruberia, a una trattenuta di fondi o al ritrovamento di un oggetto smarrito negando di averlo trovato. Se una persona giura falsamente in uno qualsiasi di questi casi che coinvolgono relazioni umane, è considerata colpevole. Quando si rende colpevole di un tale peccato, deve restituire l’articolo rubato, i fondi trattenuti, l’articolo lasciato in custodia, l’articolo trovato o qualsiasi altra cosa riguardo alla quale ha giurato il falso. Deve restituire il capitale e poi aggiungervi un quinto al legittimo proprietario nel giorno in cui vorrà fare espiazione” (Vaykrà, 5:20-26).
Una domanda che nasce spontanea dalla lettura di questo passo è per quale motivo la Torà parla di un reato nei confronti del Signore quando poi elenca una serie di reati nei confronti del prossimo.
Una risposta la offre r. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) In Mesoras Harav (po. 30-31). Egli cita la Toseftà Shevu’ot (3:5) dove è detto: “R. Chananya ben Chakhinai disse: è scritto che una persona pecca nei confronti di Dio quando nega falsamente di aver derubato il suo prossimo. Ed è così perché una persona non deruba il prossimo se non ha negato il principio essenziale (dell’esistenza di Dio)”. Se una persona ha veramente fede in Dio, non si comporta in modo immorale, non deruba il prossimo e non giura in falso.
La Toseftà continua con un racconto strano: “Una volta r. Reuven passò uno Shabbàt a Tiberiade. Vi incontrò un filosofo che gli fece una domanda: Chi è colui che è odiato (dall’Onnipresente) in questo mondo? R. Reuven rispose: chi nega l’esistenza di Colui che l’ha creato. R. Soloveitchik commenta che il filosofo non riusciva a capire la risposta. Perché un non credente deve essere disprezzato e considerato odioso? La fede in Dio non è una questione privata? Il suo scetticismo non fa alcun danno alla società! R. Reuven rispose: “Onora tuo padre e tua madre, non uccidere, non commettere adulterio, non rubare. Non c’è nessuno che violi questi precetti se non ha negato l’esistenza del suo Creatore”.
Il filosofo si aspettava che r. Reuven rispondesse che solo i criminali che fanno male al prossimo meritano il disprezzo della società, ma non gli agnostici o atei innocenti. La risposta al filosofo fu immediata e chiara. L’assenza nella fede in Dio conduce necessariamente al crollo della moralità sociale. Il punto cruciale dell’etica sociale è la fede in un Dio trascendentale e personale che chiede che l’uomo lo imiti. All’inizio, gli scettici dicono che i comandamenti “Io sono il Signore Dio tuo e non avrai gli dei degli altri in Mia presenza” sono socialmente irrilevanti, poiché è possibile organizzare una società sulle fondamenta di una moralità creata dall’uomo. Poi finalmente capiscono che senza “Io sono il Signore Dio tuo”, l’uomo perde la sua sensibilità etica e diventa ignaro dei principi più elementari di moralità.

(Kolòt - Morashà, 4 aprile 2025)
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Parashà della settimana: Vayikrà (E chiamò)

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Israele pronta a costruire una nuova barriera con la Giordania

Un progetto stimato da 1,4 miliardi di dollari

di Nina Deutsch

Israele ha deciso: entro pochi mesi partiranno finalmente i lavori promessi e tanto attesi per una nuova e sofisticata barriera di confine ad alta tecnologia con la Giordania. Lo ha annunciato il ministro della Difesa Israel Katz durante una visita alla valle del Giordano lunedì. Si tratta di un progetto imponente di cui si parla da tempo, dal costo stimato di 1,4 miliardi di dollari. Il progetto prevede la costruzione di una recinzione che si estenderà da Hamat Gader, situata all’estremità meridionale delle alture del Golan, fino all’aeroporto internazionale Ramon, a nord di Eilat. Questa zona, una sezione di 30 chilometri del confine con la Giordania, è già stata rafforzata con una struttura simile a quella eretta lungo i confini di Israele con l’Egitto e la Striscia di Gaza nei primi anni 2010.

Obiettivi del progetto
   L’iniziativa mira a rafforzare la sicurezza lungo il confine giordano e a contrastare il contrabbando di droga e armi che, nell’ultimo decennio, ha alimentato un’ondata di violenza nelle comunità arabe in Israele. Inoltre, la barriera è progettata per prevenire infiltrazioni ostili, essendo dotata di sensori e sistemi di sorveglianza all’avanguardia. Attualmente, la recinzione esistente lascia circa 170 chilometri quadrati tra sé e il confine effettivo, una zona considerata vulnerabile dalle autorità. La Direzione per i confini e le giunzioni eseguirà il progetto in coordinamento con la divisione Ingegneria e costruzione, la Direzione per gli appalti della difesa, la Direzione per il potenziamento delle forze armate e i Comandi centrale e meridionale delle IDF.
L’iniziativa include anche l’istituzione di avamposti Nahal lungo il percorso della recinzione, rafforzando ulteriormente la presenza di Israele nell’area. Inoltre, secondo quanto riportato, Israele ha intenzione di avviare lo sviluppo di nuove città lungo questo tratto di confine. Secondo Katz, il progetto è direttamente legato agli sforzi per smantellare le reti terroristiche che operano in Giudea e Samaria e impedire all’Iran di stabilire un fronte terroristico orientale contro Israele.

Contesto e sviluppi recenti
   L’idea di potenziare la recinzione esistente o di costruire una sorta di muro di confine è stata ripetutamente proposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu e da altri funzionari israeliani per oltre un decennio. Tuttavia, molti hanno ritenuto improbabile un simile sforzo a causa dell’enorme lunghezza del confine e dei costi elevati. Nel settembre 2024, Netanyahu ha nuovamente rilanciato l’idea di costruire una recinzione altamente tecnologica lungo l’intera lunghezza del confine per «garantire che non ci siano infiltrazioni».

Un confine poroso, preoccupazioni per la sicurezza
   Il confine con la Giordania è considerato poroso, con un aumento significativo delle infiltrazioni illegali. Secondo dati del governo, il numero di ingressi illegali è passato da meno di 90 al mese nel 2022 a circa 600 nel 2023. Le autorità israeliane temono che, oltre ai trafficanti, vi sia il rischio di infiltrazioni terroristiche. Israele ha iniziato a progettare la recinzione di confine con la Giordania nel novembre 2024, in seguito a un attacco mortale al valico di Allenby Bridge, in cui sono stati uccisi tre israeliani e un uomo armato giordano.
Nonostante Israele e Giordania abbiano un trattato di pace dal 1994, la costruzione di questa barriera solleva interrogativi sullo stato attuale delle loro relazioni. (Il trattato di pace israelo-giordano del 1994 – o trattato di pace Israele-Giordania; formalmente trattato di pace tra lo Stato di Israele e il Regno hascemita di Giordania – a volte indicato come trattato di Wadi Araba, fu firmato il 26 ottobre 1994 a Washington).
La Giordania, che ospita una vasta popolazione palestinese e mantiene un equilibrio delicato nei rapporti con Israele, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sul progetto. Tuttavia, la decisione israeliana potrebbe essere interpretata come un segnale di sfiducia, in un momento già complicato dal conflitto in corso tra Israele e Hamas.
Al momento, i lavori sono previsti per i prossimi mesi. Resta da vedere se questa barriera rappresenterà una soluzione efficace o se diventerà un ulteriore simbolo delle divisioni in un Medio Oriente sempre più frammentato.

(Bet Magazine Mosaico, 3 aprile 2025)

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L'Ungheria lascia la Corte penale internazionale

Con il plauso di Netanyahu

L’Ungheria si ritirerà dalla Corte penale internazionale (Cpi) perché lo ritiene «un tribunale politico, come le decisioni su Israele hanno dimostrato». L’annuncio, nell’aria da giorni, è stato ufficializzato nel corso della conferenza stampa congiunta del primo ministro ungherese Viktor Orban e del suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in questi giorni a Budapest e contro il quale la Cpi ha spiccato in novembre un mandato d’arresto, al pari dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. «Sono stato il primo ministro che ha firmato il documento di adesione alla Corte penale internazionale e ora ho firmato il documento per il ritiro», ha affermato Orban durante l’incontro con i giornalisti.
«Stiamo combattendo contro l’Islam radicale, guidato dall’Iran, con ramificazioni come gli Houthi e Hezbollah. Stiamo combattendo contro l’Iran e contro la campagna omicida di Hamas che ci ha attaccati», ha dichiarato Netanyahu, il quale ha anche parlato di «asse del male da schiacciare» nell’interesse dell’Occidente stesso. «Alcuni paesi non lo capiscono, Orban sì». Secondo Netanyahu, che ha definito la Cpi «una organizzazione corrotta», l’Ungheria è stata la prima ma non sarà l’ultima a lasciare.

(moked, 3 aprile 2025)

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Benjamin Netanyahu in visita ufficiale in Ungheria

È il primo viaggio di Netanyahu in Europa da quando la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti.

VIDEO
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è arrivato a Budapest mercoledì sera per una visita ufficiale di Stato, la prima in un Paese europeo da quando è stato emesso un mandato di arresto nei suoi confronti da parte della Corte penale internazionale (CPI) dell'Aia.
  Netanyahu, accompagnato dalla moglie Sara, è stato accolto nella capitale ungherese, dove incontrerà il Presidente della Repubblica e il suo omologo ungherese, Viktor Orban. In serata è prevista una cena ufficiale con Orban.
  Questa visita è di particolare importanza diplomatica, poiché l'Ungheria ha chiarito che non eseguirà il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale a seguito delle operazioni militari israeliane contro Hamas a Gaza. Diverse organizzazioni, tra cui Amnesty International, avevano chiesto a Budapest di arrestare il primo ministro israeliano non appena fosse entrato nel Paese. Poche ore dopo l'arrivo di Netanyahu, l'Ungheria ha annunciato il suo ritiro dalla Corte penale internazionale.
  Secondo fonti diplomatiche, i colloqui dovrebbero concentrarsi sul rafforzamento delle relazioni bilaterali, sulla cooperazione economica e sul sostegno di Budapest alle posizioni di Israele sulla scena internazionale, in un momento in cui Israele sta cercando di consolidare le sue alleanze europee di fronte alla crescente pressione internazionale.
  Prima della sua partenza da Israele, il Primo Ministro è stato omaggiato con matzot “chmourot” per Pesach dal rabbino Habad David Nachshon. Il rabbino Nachshon gli ha anche consegnato un libro di Salmi che era sul petto del rabbino di Loubavitch quando era in vita, accompagnato dalla tradizionale benedizione: “Che Dio ti custodisca dalla tua partenza fino al tuo ritorno e per sempre”.

(i24, 3 aprile 2025)

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Israele attacca la Siria da cielo e da terra

E apre un nuovo fronte con la Turchia

di Eliana Riva

Tra mercoledì 2 e giovedì 3 aprile, Israele ha lanciato in Siria una serie di attacchi aerei e di terra, uccidendo almeno 29 persone, tra civili e militari. Nel giro di pochi minuti, cinque aree del Paese sono state bombardate, in particolare Hama e il suo aeroporto militare che, secondo le autorità al potere a Damasco, è stato quasi completamente distrutto. Più di dieci raid hanno colpito la struttura, causando diverse vittime. È stata colpita anche la base aerea T4 nelle campagne di Homs, in quelle che sembra essere stata un’azione coordinata per lanciare un avvertimento alla Turchia.
La tensione tra Ankara e Gerusalemme sta aumentando, soprattutto nelle ultime settimane. Erdoğan, sostenitore (e mente) dell’azione che ha rovesciato Bashar al-Assad, ha in programma di utilizzare alcune delle strutture militari preesistenti sul territorio siriano, trasformandole in basi da cui controllare droni o sistemare aerei da guerra. Netanyahu sta tentando, invece, di approfittare del vuoto di potere, da un lato occupando terre e dall’altro cercando di limitare l’influenza di altri attori regionali, ad esempio distruggendo le basi militari e scientifiche che la Turchia intende controllare.
L’aeroporto militare di Hama e la base aerea T4 sono state messe fuori funzionamento. Anche il Centro scientifico di ricerca Barzah, appena fuori Damasco, è stato attaccato da Israele, il quale ha fatto coincidere i bombardamenti con un’incursione militare di terra nella Siria meridionale. I carri armati sono avanzati in profondità e violenti scontri sono scoppiati tra i militari di Tel Aviv e combattenti del posto. Fonti locali hanno confermato che almeno nove civili sono stati uccisi e molti altri feriti nella foresta di Al-Jubailiyah Dam, ad ovest di Daraa, nel sud della Siria, in seguito agli attacchi aerei e all’avanzata di terra israeliana.
Le incursioni sono rese più semplici dalla costruzione di strade e infrastrutture di collegamento che lo stesso esercito sta realizzando attraverso le alture del Golan occupate fin dentro il Paese, in profondità. A Daraa e Quneitra le invasioni di Tel Aviv sono diventate sempre più frequenti.
Le autorità di Damasco hanno condannato gli attacchi come una grave violazione della sovranità territoriale e un tentativo di mantenere il Paese destabilizzato e insicuro per poter sfruttare la sua debolezza secondo i propri scopi. Il ministro della difesa Israel Katz ha rivendicato i raid, descrivendoli come “un avvertimento per il futuro”. Katz si è rivolto direttamente al leader Ahmad al-Shara’ (al-Joulani): “Avverto il leader siriano Joulani: se permetti alle forze ostili di entrare in Siria e minacciare gli interessi di sicurezza israeliani, pagherai un prezzo pesante”. Tel Aviv ha chiesto la completa smilitarizzazione del sud della Siria, dichiarando di non volere la presenza di personale militare governativo. Allo stesso tempo, l’esercito effettua incursioni sempre più all’interno del paese, intendendo la propria occupazione a tempo “indefinito”.

(Pagine Esteri, 3 aprile 2025)

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Riprendono le proteste contro Hamas

Tornano le proteste contro Hamas? Dopo diversi giorni di calma, circa 200 palestinesi hanno manifestato ieri a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, gridando “Hamas, fuori, fuori” e chiedendo la fine della guerra e la caduta di Hamas.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Immagini dalla Striscia di Gaza mostrano residenti che reggono cartelli con scritto, tra l'altro, “Stop alla guerra” e “I bambini della Palestina vogliono vivere”. Tuttavia, resta da chiedersi se le proteste riprenderanno anche in altre aree. Nonostante l'esplosione delle proteste a Beit Lahia, negli ultimi giorni è stata relativamente tranquilla e non è chiaro in quale direzione si svilupperà il movimento di protesta contro Hamas.
Ma nel centro della Striscia di Gaza si è verificato un incidente che fa pensare a una svolta contro Hamas. Dei cosiddetti poliziotti appartenenti alle file dei terroristi di Hamas hanno sparato e ucciso il giovane Abd al-Rahman Abu Samra mentre era in fila per comprare della farina a Deir al-Balah.
In risposta, i membri della famiglia del clan Abu Samra hanno arrestato il poliziotto di Hamas, lo hanno preso da parte e lo hanno ucciso in strada. Una vendetta di sangue.
Si tratta indubbiamente di un episodio insolito in cui un clan della Striscia di Gaza agisce contro Hamas in pieno giorno e a viso aperto.
La famiglia del poliziotto di Hamas Ibrahim ha rilasciato una dichiarazione di condanna della sua esecuzione. Hanno dichiarato che i poliziotti avevano solo sparato dei colpi di avvertimento in aria come parte del loro dovere quando stavano mettendo in sicurezza un convoglio, uccidendo Abd al-Rahman Abu Samra. La famiglia del poliziotto di Hamas invita tutte le parti a mostrare moderazione, ma chiede vendetta e che i responsabili della sua esecuzione siano consegnati alla giustizia.
La polizia di Hamas risponde con una propria dichiarazione all'esecuzione del poliziotto a Deir al-Balah: “Stiamo indagando sulla morte di un poliziotto mentre era in servizio e cercava di risolvere un conflitto tra clan a Deir al-Balah a mezzogiorno di oggi. La polizia sta indagando sull'incidente per arrestare i responsabili. Prenderemo provvedimenti legali severi contro i responsabili di questo crimine efferato”.
Una nuova esplosione di rabbia sembra scoppiare nella Striscia di Gaza mentre la massiccia pressione di Israele su Hamas spinge la popolazione di Gaza in una situazione di maggiore disagio. Ieri, ad esempio, i palestinesi hanno preso d'assalto un deposito di farina delle Nazioni Unite.
Data la risposta violenta di Hamas ai manifestanti negli ultimi giorni, è tutt'altro che certo che le proteste guadagneranno effettivamente slancio, anche se si rianimeranno. Inoltre, mancano di una chiara leadership. Non essendoci un'alternativa politica ad Hamas, è probabile che l'influenza di queste proteste sulla situazione generale della Striscia di Gaza e sull'andamento dei combattimenti rimarrà limitata per il momento.

(Israel Heute, 3 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Bennett prepara il ritorno, l’Ocse chiede riforme

Dopo oltre due anni lontano dalla politica, Naftali Bennett muove il primo passo verso un possibile ritorno. Ha registrato un nuovo partito con il nome provvisorio di “Bennett 2026”, mentre i sondaggi lo vedono già in testa rispetto al Likud di Benjamin Netanyahu. Una proiezione del sito Maariv assegna alla sua ipotetica lista 27 seggi, contro i 19 del partito del primo ministro. Ufficialmente, non c’è ancora una dichiarazione di candidatura, ma l’ex premier ha iniziato a tessere contatti e riattivare la rete di sostenitori, scrivono i media locali.

Produttività, disuguaglianze e costo della vita: le sfide per l’economia
   La sicurezza e l’economia restano i due assi principali del dibattito pubblico israeliano. Sul secondo fronte, l’Ocse ha pubblicato il suo rapporto annuale sull’economia dello stato ebraico, prevedendo una ripresa nel 2025, ma con tassi di crescita inferiori alle stime locali: +3,4% secondo l’organizzazione, contro il 4% previsto dalla Banca d’Israele. Il rapporto chiede riforme strutturali per migliorare la produttività, ridurre le disuguaglianze e affrontare il costo della vita, oggi tra i più alti tra i paesi Ocse. Tra le priorità indicate, come in passato: taglio ai sussidi per gli studenti delle yeshiva, aumento della partecipazione al lavoro di arabi e ultraortodossi, e meno burocrazia per le imprese al di fuori dell’hi-tech.
  Oltre alla sfida economica, Netanyahu è alle prese con la successione alla guida dello Shin Bet. Dopo aver ritirato la candidatura dell’ex comandante della Marina Eli Sharvit, il primo ministro ha nominato l’attuale vicedirettore – identificato solo con la lettera “Shin” – come capo ad interim. Il mandato dell’attuale numero uno, Ronen Bar, dovrebbe concludersi il 10 aprile, ma la Corte suprema ha congelato la sua rimozione, decisa dal governo, e si esprimerà sul caso l’8 aprile.

Le operazioni a Gaza
   Sul piano militare, l’esercito ha ampliato l’operazione «Forza e Spada» a Gaza. Le Idf hanno intensificato le operazioni su Rafah e Khan Yunis, mentre il ministro della Difesa, Israel Katz, ha annunciato l’intenzione di annettere nuove aree di Gaza alla cintura di sicurezza israeliana. «Chiedo agli abitanti di Gaza di agire ora per rimuovere Hamas e restituire tutti gli ostaggi. Questo è l’unico modo per porre fine alla guerra», ha affermato il ministro.
  L’aumento della pressione militare per il Forum delle famiglie degli ostaggi non è però la strada giusta. «La nostra sensazione è che il ritorno dei rapiti sia stato posto in fondo alla lista delle priorità», ha commentato il Forum, chiedendo al governo di chiarire cosa intende fare per riportare a casa i 59 israeliani ancora nelle mani di Hamas. «Ogni esplosione infrange un po’ di più le speranze degli ostaggi. Io ero lì. Lo so», ha dichiarato Romi Gonen, sequestrata il 7 ottobre e liberata nell’accordo di tregua di gennaio.

(moked, 2 aprile 2025)

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Il benvenuto di Tirana al volo da Tel Aviv. Albania e Israele mai così vicini

di Loredana Buoso

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L’Ambasciatrice albanese Meri Kumbe taglia il nastro inaugurale del nuovo volo di linea

L’aeroporto internazionale “Madre Teresa” di Rinas ha accolto ieri il primo aereo decollato dalla capitale Israeliana, in attuazione delle intese propiziate dalla più recente visita di Stato in terra Israeliana della Vicepremier Belinda Balluku
La linea sarà operativa tre volte a settimana, a beneficio dei viaggi turistici e d’affari, come è stato bene evidenziato dal Direttore operativo del grande Scalo di Rinas, Pier Vittorio Farabbi, parlando di “un ponte che collega non solo due Città, ma anzitutto due Popoli. Sappiamo che Israele è un mercato di grande interesse per il turismo, e ci auguriamo che questo sia solo l’inizio di una collaborazione di successo”.
Il Direttore dell’ente di Aviazione civile della Repubblica d’Albania, Maksim Et’hemaj, ha aggiunto che “uno dei compiti principali dell’Aviazione civile è quello di collegare Continenti, Paesi, culture e persone. Siamo orgogliosi di porgere il benvenuto a un operatore prestigioso come SunDor, che giunge qui grazie al risultato di un lavoro congiunto e continuo. I turisti Israeliani porteranno nel proprio Paese bellissimi ricordi dall’Albania, e questo flusso è destinato a crescere”, ha dichiarato.

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Galit Peleg, Ambasciatrice di Israele a Tirana

L’Ambasciatrice di Tel Aviv in Albania, onorevole Galit Peleg, ha messo in evidenza gli stretti rapporti binazionali: “Oggi viviamo un momento storico, che concretizza i legami speciali tra Israele e Albania tramite un volo diretto e quindi una connessione fisica. Sono certa che SunDor Airlines porterà più cittadini Israeliani in Albania e, nello stesso modo, condurrà più agevolmente gli Albanesi in Israele”.
Il direttore esecutivo di SunDor, Gal Gershon, si è infine soffermato su un bilancio del volo di esordio: “I passeggeri sono stati entusiasti. Sono molto contento che Sandor stia collegando Israele con l’Albania, e spero che sempre più israeliani avranno l’opportunità di visitare questo Paese meraviglioso alle porte dei Balcani occidentali”.

(notizieinunclick, 3 aprile 2025)

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Il “Qatar-Gate” scuote Israele: tra rischi per la sicurezza e intrighi politici

Itamar Eichner, corrispondente di Israel Heute, parla delle gravi accuse contro i confidenti del primo ministro, della presunta influenza del Qatar sulla politica israeliana e del fragile equilibrio tra magistratura e governo.

di Itamar Eichner

GERUSALEMME - La vicenda del “Qatar-gate”, scoperta di recente, sta provocando un'agitazione senza precedenti nella politica e nell'opinione pubblica israeliana. Le accuse rivolte ai consiglieri del primo ministro, Yonatan Urich e Eli Feldstein, sollevano domande esplosive: Come è stata effettivamente impostata la politica di comunicazione del governo e da dove provengono i messaggi trasmessi ai media israeliani e internazionali?
Al centro della vicenda c'è l'accusa che i due consiglieri abbiano diffuso contenuti mediatici che sarebbero stati originati da ambienti della sicurezza e della politica estera israeliana, ma che in realtà provenivano dal Qatar, uno Stato considerato un attore problematico in Israele, soprattutto per il suo sostegno ad Hamas e alla Fratellanza Musulmana.

Qatar: mediatore o Stato ostile?

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Israeliani protestano contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo governo vicino alla Knesset, il 31 marzo 2025

Sebbene il Qatar non sia ufficialmente uno Stato nemico, il suo comportamento da anni lascia pochi dubbi sulle sue intenzioni. Il canale d'informazione qatariota Al-Jazeera funge regolarmente da piattaforma di incitamento contro Israele e offre un ampio palcoscenico ai rappresentanti di Hamas e delle ideologie islamiste estremiste. Allo stesso tempo, il Qatar svolge un ruolo centrale come mediatore nella questione degli ostaggi e in processi politici delicati. Questo duplice ruolo solleva una questione cruciale: Il Qatar può essere considerato un mediatore equo o è un attore con un'agenda anti-israeliana che si nasconde dietro la maschera della neutralità?

Le accuse: informazioni segrete, influenza straniera e fughe di notizie mirate
   Al centro dell'indagine c'è il sospetto che Urich e Feldstein non abbiano agito in modo indipendente, ma abbiano invece agito come strumenti degli interessi del Qatar con l'obiettivo di influenzare il discorso pubblico in Israele. Secondo i risultati dell'indagine, hanno presentato i messaggi come dichiarazioni degli ambienti della sicurezza israeliana, mentre in realtà erano il risultato della manipolazione di attori vicini al Qatar. Secondo quanto emerso, si sospetta che persone all'interno dell'Ufficio del Primo Ministro siano collegate a uno Stato che ha un atteggiamento ostile nei confronti di Israele.
C'è anche il fondato sospetto che una società americana che rappresenta gli interessi del Qatar fosse in contatto con Urich. L'obiettivo della collaborazione era presentare il ruolo del Qatar nella questione degli ostaggi in una luce positiva e allo stesso tempo gettare l'Egitto in una luce negativa. E sembra che del denaro sia affluito a Feldstein.
Un aspetto particolarmente allarmante: si sospetta che Feldstein abbia passato informazioni segrete al Qatar, con l'obiettivo di minare la sicurezza di Israele. Se ciò risultasse vero, non si tratterebbe solo di un grave reato penale, ma di una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.

Dimensione politica: Netanyahu contrattacca, la procura si difende
   Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha risposto con un attacco frontale alle autorità di polizia. Ha etichettato Urich e Feldstein come “ostaggi” di un'indagine politica che mira esclusivamente a far cadere il suo governo. A suo avviso, si tratta di una campagna contro la sua persona e le sue iniziative politiche: un prodotto della persecuzione politica.
Persone vicine a Netanyahu sostengono addirittura che la vicenda sia stata inventata dal capo del servizio segreto interno Shin Bet, Ronen Bar, per evitare il proprio imminente licenziamento. I rappresentanti dello Shin Bet ribattono che l'indagine era già iniziata prima dell'annuncio del licenziamento di Bar. Netanyahu, da parte sua, ha dichiarato di aver perso la fiducia in Bar il 7 ottobre - perché non aveva svegliato lui e altri decisori la notte dell'attacco di Hamas, cosa che avrebbe potuto prevenire o almeno ridurre i danni. Lo Shin Bet ribatte che Netanyahu ha elogiato pubblicamente Bar e i servizi segreti più volte dall'inizio della guerra - e che l'indagine sulla vicenda è iniziata prima dei piani per il suo licenziamento.
Nel frattempo, gli investigatori sottolineano che si tratta di un caso grave con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele e l'integrità della funzione pubblica.

Critiche all'operato della polizia
   Il giudice Menachem Mizrachi ha criticato aspramente l'operato della polizia. In particolare, ha criticato il fatto che non sia stato applicato l'ordine di bavaglio imposto, il che ha portato a ripetute fughe di notizie. Questa critica solleva la questione se le indagini siano puramente professionali o politicamente motivate.

È un caso di corruzione?
   Un altro punto controverso è la questione se Urich e Feldstein siano colpevoli di corruzione. La difesa sostiene che nessuno dei due è un pubblico ufficiale nel senso tradizionale del termine, il che significa che non esiste una base legale per questa accusa. I pubblici ministeri, invece, fanno riferimento a una sentenza della Corte Suprema, secondo la quale anche i consulenti esterni che supportano gli enti pubblici possono rientrare nella definizione di “pubblico ufficiale”.

Cosa succederà in seguito?
   La vicenda del Qatar-Gate solleva questioni profonde che vanno ben oltre i due consulenti arrestati. Rivela quanto gli interessi stranieri possano essere già penetrati nei centri decisionali israeliani e quanto facilmente il dibattito pubblico possa essere manipolato da attori esterni. Si tratta di un caso isolato o stiamo vedendo la punta di un iceberg?
In un clima politico in cui la fiducia dell'opinione pubblica nel governo e nella magistratura è già stata scossa, questa vicenda funge da acceleratore. Se le accuse contro Urich e Feldstein dovessero essere confermate, il sistema politico israeliano subirebbe una vera e propria scossa. Se invece le indagini si rivelassero inconsistenti, il “Qatar-Gate” potrebbe diventare il prossimo episodio dell'escalation di scontri tra l'esecutivo e le forze dell'ordine.
In ogni caso, questa vicenda terrà Israele occupato per molto tempo ancora - e potrebbe essere decisiva per il suo futuro politico.

(Israel Heute, 2 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Droni, basi e alleanze con il nuovo regime siriano: la nuova minaccia turca per Israele

di Luca Spizzichino

Le tensioni con la Turchia continuano a crescere. Ankara infatti sta rafforzando i legami con il nuovo governo siriano guidato da Ahmed al-Sharaa, ex leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), gruppo con forti connessioni con la Turchia. L’escalation è stata accompagnata da dichiarazioni senza precedenti del presidente Recep Tayyip Erdogan, che il 30 marzo ha invocato Allah affinché porti “distruzione su Israele sionista”. Questo segnale di aperta ostilità rafforza la convinzione che uno scontro militare diretto non sia più un’ipotesi remota.
  Questo sviluppo rappresenta una minaccia strategica per Israele, che negli ultimi mesi ha intensificato attacchi mirati contro installazioni militari e infrastrutture strategiche siriane, nel tentativo di impedire alla Turchia di consolidare la propria presenza nella regione.
  Dopo il colpo di Stato in Siria infatti, avvenuto con il sostegno turco nel dicembre 2024, Ankara è diventata il principale attore politico nel paese, controllando direttamente o indirettamente circa 8.000 km², da Idlib a Ras al-Ayn, pericolosamente vicino al confine israeliano.
  Il nuovo governo siriano, di orientamento islamista e ora apertamente alleato di Ankara, sta negoziando un patto di difesa che prevede la presenza permanente di truppe turche e l’installazione di avanzati sistemi di difesa aerea sul suolo siriano, un’evoluzione che modificherebbe radicalmente l’equilibrio strategico nell’area. Secondo diverse fonti d’intelligence, la Turchia sta già predisponendo basi aeree nel nord della Siria, in grado di lanciare operazioni con droni, ponendo una minaccia diretta allo spazio aereo israeliano e limitando la libertà operativa di Israele.
  In risposta a queste minacce, l’aviazione israeliana ha recentemente colpito la base aerea di T-4, nei pressi di Palmira, una struttura precedentemente utilizzata dall’Iran e dal regime siriano.
  Il rapporto del Comitato Nagel, pubblicato nel gennaio 2025, ha identificato il crescente radicamento militare turco in Siria come una minaccia “potenzialmente più pericolosa di quella iraniana”. Ad aggravare il quadro è il crescente sostegno turco ad Hamas, che opera sempre più liberamente all’interno del territorio turco. Operativi di alto livello, tra cui Saleh al-Arouri, coordinano operazioni terroristiche direttamente da Istanbul. Inoltre, rapporti d’intelligence del 2024 hanno sollevato allarme tra i legislatori statunitensi per la possibile espansione di Hamas a Cipro del Nord, sotto occupazione turca. Questa evoluzione alimenta i timori israeliani che la Turchia possa utilizzare i propri proxy per colpire Israele da nuove basi avanzate.
  I consiglieri più vicini a Erdogan hanno pubblicamente alimentato una retorica aggressiva contro Israele, arrivando a suggerire l’attivazione dei sistemi missilistici S-400 di fabbricazione russa, a conferma della postura sempre più ostile della Turchia.
  Parallelamente tuttavia, Erdogan si trova a gestire una crisi interna senza precedenti, con un’inflazione superiore al 44% e un clima politico turbolento, segnato dall’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Tradizionalmente, i leader in difficoltà hanno spesso sfruttato crisi internazionali per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Per questo motivo, gli analisti israeliani temono che Erdogan possa deliberatamente alimentare le tensioni con Israele per rafforzare il consenso interno e distogliere l’attenzione dai problemi interni.

(Shalom, 2 aprile 2025)

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Hamas falsa di nuovo il numero dei morti nei suoi report sulla guerra a Gaza

di Nina Prenda

Secondo The Telegraph, una nuova ricerca mostra che Hamas ha silenziosamente ricalcolato nei suoi database il numero delle vittime di Gaza, eliminando migliaia di morti dalle sue liste sulle vittime della guerra.
Salo Aizenberg, giornalista dell’organizzazione non-profit Honest Reporting, con sede negli Stati Uniti, che nella guerra in corso si è distinta per l’affidabilità della sua informazione, ha affermato che nell’aggiornamento delle vittime di Hamas di marzo 2025 l’organizzazione aveva rimosso migliaia di persone che in precedenza aveva elencato come uccise nel corso del 2024. Queste, improvvisamente, non ci sono più. “Il nuovo elenco delle vittime di marzo 2025 di Hamas elimina silenziosamente 3.400 morti completamente ‘identificati’ elencati nei suoi rapporti di agosto e ottobre 2024, tra cui 1.080 bambini. Queste ‘morti’ non sono mai avvenute. I numeri sono stati falsificati, di nuovo”, ha scritto Aizenberg.
Gli elenchi delle vittime vengono pubblicati in formato PDF dal cosiddetto “Ministero della salute” di Gaza, gestito da Hamas, che è stato citato dai media internazionali come fonte di dati sulle vittime nell’enclave dall’inizio della guerra.
A dicembre, un rapporto della Henry Jackson Society affermava che il numero di civili uccisi nel conflitto di Gaza era stato probabilmente aumentato da Hamas per dare l’impressione che Israele prendesse deliberatamente di mira persone innocenti. Andrew Fox, l’autore del rapporto, ha affermato che le ultime cancellazioni sono state condotte probabilmente per un tentativo di Hamas di mantenere una sorta di credibilità. “Sapevamo che c’erano una serie di errori nei loro resoconti – , ha affermato Fox. – C’è una spiegazione ragionevole nel fatto che i loro sistemi informatici abbiano avuto un collasso a novembre 2023, quindi è stato difficile per loro riferire in modo accurato, ma le liste sono così inaffidabili che i media mondiali non dovrebbero citarle come affidabili”. Inoltre Fox ha aggiunto: “L’Onu prende anche solo le cifre di Hamas e le pubblica con una nota che afferma che le cifre non sono confermate”. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite nel maggio del 2024 aveva in parte ritrattato alcuni numeri rilasciati dai terroristi riguardo ai morti in Gaza.
Le liste di Hamas contengono informazioni come nomi e numeri di identificazione e possono essere compilate da chiunque abbia un collegamento al modulo Google per il documento.
Hamas “avrà esaminato la lista, cercando di renderla il più convincente possibile. Hanno accettato nomi su quella lista senza alcuna prova -, ha spiegato Fox. – Quindi quello che immagino stiano cercando di fare è diradare i nomi che non possono affatto comprovare”.
Fox è un ex paracadutista britannico che ha lavorato con Aizenberg in ricerche precedenti. Ha detto che le loro squadre di lavoro usano i dati di Hamas disponibili al pubblico e li confrontano nome per nome. “La ricerca di Salo cercherebbe nomi che erano su liste precedenti ma che ora sono scomparsi – ha spiegato Fox. – Hamas pubblica gli elenchi in formato PDF, quindi è più difficile fare confronti, ma trasferiamo i nomi su un foglio Excel per fare un confronto di massa in questo modo”.
 
Le vittime citate da Hamas sono davvero civili?
Fox ha osservato che i dati all’interno delle liste di Hamas indeboliscono l’affermazione secondo cui la maggior parte delle vittime sono civili. “I dati demografici sono la cosa più importante in tutto questo. Abbiamo sentito affermazioni secondo cui circa il 70 percento dei decessi sono donne e bambini, e queste liste, specialmente le più recenti, dimostrano che è una totale assurdità”, ha affermato. Non è la prima fonte ad affermarlo. Il Jerusalem Post aveva riportato il riconteggio dell’Onu l’11 maggio 2024. Nel giornale veniva scritto: “Il 6 maggio, l’ONU ha pubblicato dati che mostrano che a Gaza sarebbero state uccise 34.735 persone, tra cui oltre 9.500 donne e oltre 14.500 bambini. L’8 maggio, le Nazioni Unite hanno pubblicato dati che mostrano che sarebbero state uccise 34.844 persone, tra cui 4.959 donne e 7.797 bambini”.
“Circa il 72% delle vittime di età compresa tra 13 e 55 anni sono uomini, che è la fascia di età approssimativa dei combattenti di Hamas”, ha affermato Fox. “Sappiamo che Hamas usa bambini soldato e queste statistiche mostrano chiaramente che Israele sta prendendo di mira uomini in età da combattimento”.
Nei precedenti conflitti, le cifre di Hamas sono state spesso corroborate da organizzazioni esterne, ha affermato Fox. Il rapporto di dicembre della Henry Jackson Society affermava: “Il ministero della salute, operando sotto Hamas, ha sistematicamente aumentato il numero delle vittime, non distinguendo tra morti civili e combattenti, sovrastimando i decessi tra donne e bambini e persino includendo individui deceduti prima dell’inizio del conflitto. Questo ha portato a una narrazione in cui le Forze di difesa israeliane sono descritte come persone che prendono di mira in modo sproporzionato i civili, mentre i numeri effettivi suggeriscono che una parte significativa dei morti sono combattenti”.
Hamas ha affermato che il numero di morti a Gaza dall’inizio della guerra al momento è superiore a 50.000. Tzahal, l’esercito israeliano, afferma di aver ucciso 20.000 combattenti di Hamas durante la guerra e afferma di fare tutto il possibile per ridurre le vittime civili.
“L’IDF compie grandi sforzi per stimare e considerare potenziali danni collaterali civili nei suoi attacchi. L’IDF non ha mai, e non prenderà mai, deliberatamente di mira i bambini”, ha affermato l’esercito israeliano in una dichiarazione.

(Bet Magazine Mosaico, 2 aprile 2025)

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Gaza: famiglie degli ostaggi “inorridite” dalla decisione di riprendere l’offensiva

Nella notte l'annuncio dell'allargamento delle operazioni di terra a Gaza. Per le famiglie degli ostaggi "la loro liberazione è stata relegata in fondo alle priorità ed è diventata semplicemente un obiettivo secondario" e "sacrificata per un mero guadagno territoriale”.

L’esercito israeliano ha annunciato questa notte che avrebbe espanso l’offensiva di terra nel sud della Striscia di Gaza
Secondo un comunicato diffuso dal ministro della Difesa Israel Katz, l’IDF espanderà le operazioni per bonificare le aree “da terroristi e infrastrutture e catturare un vasto territorio che verrà aggiunto alle aree di sicurezza dello Stato di Israele”.
Questa mattina, dopo una notte di pesanti bombardamenti, la 35esima Divisione è entrata in maniera ” massiccia” nella Striscia di Gaza nelle zone di Rafah e Khan Younis.

Famiglie degli ostaggi “inorridite”
   In risposta all’annuncio dell’allargamento dell’operazione militare a Rafah, l’Hostages and Missing Families Forum ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “È stato deciso di sacrificare gli ostaggi per ottenere guadagni territoriali?”
Aggiunge: “Invece di garantire il rilascio degli ostaggi attraverso un accordo e porre fine alla guerra, il governo israeliano sta inviando più soldati a Gaza per combattere nelle stesse aree in cui le battaglie hanno già avuto luogo ripetutamente”.
Il Forum afferma che le famiglie “sono rimaste inorridite quando questa mattina si sono svegliate con l’annuncio del ministro della Difesa secondo cui l’operazione militare a Gaza sarebbe stata estesa allo scopo di conquistare un vasto territorio“.
“La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano. La nostra grave preoccupazione è che questa missione sia stata relegata in fondo alle sue priorità e sia diventata semplicemente un obiettivo secondario.”

(Rights Reporter, 2 aprile 2025)
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"La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano", hanno detto famiglie israeliane di ostaggi incatenati e torturati da Hamas. Ed è una frase che fa inorridire. M.C.

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Perché alcuni ebrei statunitensi abbandonano l’ortodossia? Un nuovo studio cerca di mappare le ragioni

Un sondaggio su 29 ebrei una volta osservanti condotto dall’Orthodox Union conclude che sinagoghe e scuole devono adottare mentalità più inclusive mentre i genitori dovrebbero fornire un chiaro sostegno

di Zev Stub

Un nuovo sondaggio degli ebrei americani che hanno abbandonato l’ebraismo ortodosso pone domande difficili alla comunità mentre descrive la complessa rete di fattori che spingono le persone ad abbandonare la comunità. Pubblicato dall’Orthodox Union (OU), una delle organizzazioni più importanti del mondo ortodosso, le conclusioni del sondaggio invitano sinagoghe e scuole ad adottare mentalità più inclusive, i rabbini a prendersi cura dei bambini ai margini e i genitori a stabilire aspettative chiare con amore e sostegno.
  Una delle più grandi sorprese dello studio è stata che molti degli individui intervistati che hanno lasciato l’ortodossia rimangono comunque connessi alla comunità.
  “Abbiamo scoperto che molte delle persone con cui abbiamo parlato non erano alienate o arrabbiate“, ha dichiarato il ricercatore principale dello studio, Moshe Krakowski, Direttore degli Studi Dottorali presso la Azrieli Graduate School of Jewish Education dell’Università Yeshiva, in un’intervista con The Times of Israel. “Spesso, le persone esprimevano un mix di sentimenti positivi e negativi. Questo ha importanti implicazioni perché molti mantengono ancora stretti legami all’interno della comunità ortodossa dopo averla lasciata e potrebbero voler continuare a partecipare in qualche modo“.
  Tra gli intervistati che hanno dichiarato di sentire poco o nessun legame con l’ortodossia, la maggior parte ha affermato che ciò era dovuto al fatto che si sentivano alienati dalle risposte della comunità ortodossa nei loro confronti dopo il cambiamento del loro stile di vita, ha notato il rapporto.
  Nella prima parte di uno studio in due fasi, il Center for Communal Research (CCR) dell’OU con sede a New York ha condotto nel 2023 interviste approfondite con 29 uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 43 anni, che avevano precedentemente abbandonato l’ortodossia. I partecipanti vivevano principalmente negli Stati Uniti e provenivano da background ebraici Modern Orthodox, Yeshivish, Chabad e Hassidici.
  Gli ebrei ortodossi costituiscono circa il nove percento dei 7,5 milioni di ebrei che si trovano negli Stati Uniti, o approssimativamente 700.000 persone, secondo un rapporto del Pew Research del 2020.
  Il CCR è un’ala dell’OU che cerca di “dare potere alla comunità ebraica con i dati” in modo che la comunità possa prendere decisioni informate. “Aiutiamo le organizzazioni ebraiche a tradurre le evidenze in azione“, afferma il suo sito web. Pertanto, il sondaggio ha incluso anche una chiara chiamata all’azione nonostante le dimensioni ridotte del campione.
  “Questo tipo di studio non può essere utilizzato per quantificare i dati di una popolazione, ma è uno strumento comune nelle scienze sociali per scoprire narrazioni chiave su come le persone sperimentano determinati processi“, ha spiegato Yossi David, responsabile del laboratorio per la Comunicazione e la Ricerca sui BIAS (Credenze, Ideologie, Affetti e Stereotipi) Sociali presso l’Università Ben-Gurion del Negev. “È un modo per approfondire un argomento e sondare nuove sfaccettature“.
  Un sondaggio di follow-up più ampio basato sui risultati cercherà di quantificare i dati e presentare un quadro generale delle sfide, ha notato Krakowski. I risultati forniscono informazioni sulle tendenze di abbandono in Nord America e, in misura minore, in Europa, ma non necessariamente in Israele, ha osservato Krakowski. “Ci sono così tanti fattori e relazioni diverse che operano lì”, ha detto.

Tendenze principali
   Il sondaggio ha identificato diversi fili conduttori comuni che apparivano frequentemente nelle interviste. Tendenze significativamente diverse erano discernibili tra quelli provenienti da comunità modern-Orthodox liberali rispetto alle persone provenienti da comunità religiose più rigide e di destra, ha notato Krakowski.
  “Ogni caso è diverso, ma nell’Ortodossia Moderna, i confini sono spesso in qualche modo labili“, ha detto Krakowski. “Spesso non c’è un grande controllo su come le persone agiscono, e questo significa che è più facile allontanarsi o scivolare via dall’impegno“.
  Un partecipante che non è più religioso ha descritto così parte del processo di allontanamento: “La prima cosa che è successa è stata che ero solito aspettare sei ore tra [il consumo di] carne e latte, e poi sei ore sono diventate tre, e tre sono diventate una, e [alla fine], mi sono semplicemente sciacquato la bocca con l’acqua“. Nel frattempo, nelle comunità più religiose, spesso si può vedere l’estremo opposto, ha detto. “Le persone dicono che le aspettative e le strutture rigide della comunità le fanno sentire confinate e costrette, e questo le spinge a voler andarsene“.
  C’è molta sovrapposizione tra diverse categorie, e molti soggetti provenienti da background Modern Orthodox hanno anche parlato di sentirsi costretti, ha notato Krakowski.
  I partecipanti provenienti da background Modern Orthodox e Chabad si sono lamentati del trattamento delle questioni femministe più di quelli cresciuti Yeshivish e Hasidic. Altri reclami includevano atteggiamenti di superiorità verso gli altri e il trattamento della comunità LGBTQ all’interno dell’ortodossia.
  Altri fattori di rischio includevano questioni di appartenenza e stabilità. “Per tutti quelli con cui abbiamo parlato, c’era un certo grado di non adattamento completo alle istituzioni comunitarie“, ha detto Krakowski. “Per esempio, andare in una scuola che è molto più religiosa della tua famiglia, o molto meno religiosa, o essere l’unico bambino Hasidico in una scuola non Hasidica. Questo tipo di disallineamento appariva ripetutamente“.
  “Questo non significa che chiunque vada in una scuola che non è allineata con loro abbandonerà l’ortodossia, ma è qualcosa che devi guardare e su cui riflettere in modo più profondo“, ha aggiunto Krakowski.
  L’incoerenza religiosa all’interno della famiglia è stato un altro fattore importante scoperto nel sondaggio.
  “Abbiamo visto molti casi in cui i genitori sono diventati religiosi quando prima non lo erano, o quelli che sono diventati molto di destra dopo essere stati inizialmente più liberali, o viceversa“, ha detto Krakowski. “A volte era persino un cambiamento avvenuto prima che il bambino potesse capire. Questo può far sembrare che l’ebraismo non sia stabile e può avere un impatto significativo, specialmente quando accade rapidamente“.
  Un intervistato con genitori provenienti da background non ortodossi ha detto: “Quando ci siamo trasferiti a [una città nel Midwest], all’improvviso ho capito che le persone pensavano che fossimo strani. E così penso che alla fine abbiamo finito per fare amicizia con altre famiglie che la comunità vedeva come strane“.
  Una donna ha ricordato un trauma vissuto in un liceo dove gli educatori mettevano le violazioni dei rigidi valori comunitari allo stesso livello dei peccati più gravi. “Il mio insegnante ha detto che se leggi Harry Potter, è come se avessi fatto avodah zarah [commesso idolatria], e io ero super ossessivo-compulsivo, quindi sono andato nella mia stanza per alcune ore e ho recitato un viduy [preghiere di confessione]“, ha detto.
  Si è scoperto che le figure religiose esercitano un’influenza sorprendente nella vita dei soggetti intervistati. “Non abbiamo chiesto esplicitamente di questo, ma molte persone hanno parlato dell’influenza dei rabbini e di altre figure di autorità religiosa“, ha detto Krakowski. “Una brutta esperienza con un’autorità rabbinica che in qualche modo rappresenta l’ebraismo per te può creare un vero senso di sconvolgimento che ti fa venire voglia di andartene. Alcuni hanno descritto un senso di disgusto quando hanno sperimentato qualcosa che sembrava ipocrita, come quando qualcuno ricco veniva trattato diversamente dagli altri“. D’altra parte, ha notato Krakowski, molti soggetti hanno anche parlato delle potenti impressioni lasciate dai rabbini che li hanno sostenuti o che hanno servito come modelli positivi.
  Infine, i traumi, come la morte di un amico o di una persona cara, o abusi fisici o sessuali possono giocare un fattore importante, ha notato Krakowski.

Approcci diversi alla cultura esterna
   Un fattore che non è emerso come fattore di rischio è stata l’esposizione alla cultura popolare e ai social media. Molti intervistati hanno espresso percezioni negative della società laica e del materialismo, ha scoperto il sondaggio. “Sorprendentemente, questo non è emerso nelle interviste nel modo in cui avremmo potuto pensare“, ha detto Krakowski. “Non è che i social media siano una sorta di forza che risucchia le persone in un mondo che le allontana dall’ortodossia. Ma potrebbero giocare un ruolo in un processo più ampio di allontanamento“.
  In questo senso, queste influenze agiscono più come facilitatori che come causa principale dell’abbandono per gli ebrei ortodossi negli Stati Uniti, ha detto Krakowski. “Non si possono confrontare questi risultati. Le comunità sono troppo diverse“, ha detto David.
  Nella società Haredi, ha detto David, “i dati mostrano che ci sono due forze principali che spingono le persone a lasciare le loro comunità — cose che ti spingono fuori e cose che ti attirano dentro“.
  A volte, le persone lasciano la società ultra-ortodossa a causa di un fattore che le costringe a cercare un cambiamento, come la mancanza di rispetto per le donne, problemi con l’accettazione dei convertiti e dei nuovi religiosi, o intolleranza tra diverse sette o etnie, ha detto David. In altri casi, gli ex Haredim sono attratti dalla società laica da un’esposizione alla cultura e al mondo moderno o dalla necessità di apprendere argomenti fondamentali non insegnati nei sistemi scolastici Haredi per formarsi per una professione, ha aggiunto. In queste comunità, l’accesso alla tecnologia è considerato un fattore più significativo per l’abbandono rispetto agli Stati Uniti, ha detto David.

Affrontare le sfide
   Molte delle sfide nell’educare i figli a seguire le pratiche religiose dei loro genitori sono universali, ha notato Krakowski. “Ricerche precedenti hanno scoperto che i genitori che stabiliscono chiare aspettative normative per i loro figli tendono a vederli seguire i loro percorsi più dei genitori che lasciano che i loro figli si orientino da soli“, ha detto Krakowski, attingendo a ricerche condotte dal National Study of Youth and Religion dell’Università di Notre Dame.
  La maggior parte dei partecipanti allo studio ha descritto forti connessioni con le tradizioni e le pratiche ortodosse, spesso perché avevano bei ricordi o perché rimanevano importanti per loro e le loro famiglie.
  Un intervistato ha detto: “Mi piace il lato culturale. Non ho problemi con esso. Sento che la maggior parte delle persone che smettono di essere religiose, di solito, lo fanno da un luogo di dolore o rabbia, e io non ho niente di tutto ciò“.
  L’OU ha raccomandato ai genitori di considerare come i loro figli sperimentano questi rituali e di lavorare per costruire associazioni positive. I genitori dovrebbero anche esprimere amore e sostegno per i loro figli, fornire un senso di stabilità indipendentemente dalle scelte di vita dei figli e lavorare per aiutare i bambini a sviluppare un sano senso di autonomia e fiducia in se stessi.
  Nel frattempo, si consiglia ai rabbini e ai leader della comunità di imparare a comprendere ed empatizzare con i membri della comunità e imparare a identificare i segnali di avvertimento e a impegnarsi con le persone che si interrogano il prima possibile.
  “La messa in dubbio dei valori inizia presto“, dice la Ricercatrice Principale del CCR Rachel Ginsberg. “Aspettare fino alla fine del liceo per valutare se gli studenti si stanno connettendo è troppo tardi. Ascoltare, validare le preoccupazioni e offrire spazio per l’esplorazione è fondamentale“.
  Lo studio ha raccomandato che sinagoghe e scuole adottino mentalità più inclusive e promuovano la tolleranza per le differenze degli altri, dando il benvenuto a coloro che se ne vanno e tenendo la porta aperta per il loro ritorno.
  Ha anche suggerito che il sostegno della comunità alle famiglie con disallineamenti religiosi, specialmente per i convertiti e i nuovi religiosi, può aiutare a prevenire l’abbandono. Identificare i modi appropriati per farlo richiederà una più ampia conversazione comunitaria, ha affermato.
  La sfida, ha detto il Vicepresidente Esecutivo dell’OU Rabbi Moshe Hauer, è se le persone all’interno della comunità ortodossa sono disposte a cambiare i loro comportamenti.
  “Se vogliamo veramente fare un cambiamento significativo e positivo riguardo all’abbandono ebraico ortodosso americano“, ha detto, “faremo bene tutti a leggere questo rapporto, a studiarlo e a guardarci a lungo e onestamente allo specchio“.

(Kolòt - Morashà, 2 aprile 2025)

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Hamas ammazza i palestinesi che protestano

Sette gazawi rapiti, torturati e uccisi per aver partecipato nella Striscia al corteo anti tagliagole. Intanto gli jihadisti invitano i loro sostenitori in tutto il mondo a imbracciare le armi contro il piano di Trump. Il premier israeliano: «La pressione militare funziona»

di Stefano Piazza

Dopo aver usato fino a oggi la popolazione di Gaza come scudo umano, dopo aver fatto saltare ogni accordo che comprendeva il rilascio degli ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 (oltre 1.200 morti e centinaia di feriti), aver rubato gli aiuti destinati alla popolazione di Gaza e dopo aver ingannato il mondo, ora Hamas i palestinesi li ammazza senza alcun problema e con tanto di dedica per i familiari.
  Come abbiamo raccontato più volte, per il gruppo jihadista mantenere il controllo nella Striscia di Gaza è sempre più difficile dopo che la popolazione, arrivata a 543 giorni di guerra, si sta sollevando contro i tagliagole. Le proteste degli scorsi giorni, alle quali hanno partecipato migliaia di persone, e il ritiro da parte dei clan del loro appoggio hanno mandato in cortocircuito quello che resta della leadership di Hamas a Gaza e, come era lecito attendersi, la risposta è stata violentissima. Durante le manifestazioni uomini a volto coperto si sono schierati per le strade della Striscia nel tentativo di far desistere i manifestanti senza intervenire a causa della presenze delle Idf, ma soprattutto per prendere nomi e cognomi dei leader della protesta. Una volta terminato l'Eid Al Fitr che segue l'ultimo giorno di Ramadan (la notte tra sabato 29 e domenica 30 marzo), si è saputo delle spedizioni punitive contro coloro che hanno animato le proteste. Sette giovani gazawi sarebbero stati uccisi e tra loro c'è Uday al-Rubai, 22 anni, residente nel quartiere Tel alHawa di Gaza City. E stato rapito dall'organizzazione terroristica dopo aver incitato alle manifestazioni e torturato brutalmente per quattro ore. È stato trascinato con una corda al collo nella città di Gaza, picchiato su tutto il corpo con mazze e spranghe di ferro davanti ai passanti e consegnato alla sua famiglia mentre stava morendo con un biglietto: «Questo è quello che succede a chi critica Hamas».
  Uno degli assassini è stato identificato in Saadi Kahlil, un agente delle Brigate al Qassam. Al funerale di al-Rubai, i presenti continuavano a gridare: «Fuori Hamas, fuori!» mentre il padre affermava che non sarebbe stata eretta alcuna tenda funebre per suo figlio finché l'assassino non fosse stato punito. Visto quanto accaduto, le manifestazioni, a cui hanno partecipato centinaia di palestinesi, si sono calmate e non si registrano più ulteriori inviti a protestare contro Hamas.
  Il gruppo terroristico ha anche rapito e picchiato Hussam al-Majdalawi, un residente di Gaza che aveva espresso critiche nei confronti del gruppo. Dopo avergli sparato alle gambe, lo hanno lasciato ferito in una piazza nei pressi del campo di Nuseirat. Che Hamas avrebbe reagito lo si era capito lo scorso 27 marzo, quando un'alleanza di gruppi armati con base a Gaza, tra cui Hamas, nota come «Fazioni di resistenza», ha diffuso questa dichiarazione: «Questi individui sospetti sono responsabili quanto l'occupazione dello spargimento di sangue del nostro popolo e saranno trattati di conseguenza», si legge nel comunicato. E così è stato, e questo dovrebbe rappresentare un campanello d'allarme per Israele: nonostante quasi 18 mesi di guerra, l'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran continua, seppur tra le difficoltà, a esercitare un controllo significativo sulla popolazione di Gaza.
  Ieri uno dei leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha invitato i sostenitori del movimento in tutto il mondo a imbracciare le armi e a combattere il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire più di due milioni di abitanti di Gaza in Paesi confinanti come Egitto e Giordania. A lui ha replicato Benjamin Netanyahu, aprendo la riunione di governo: «La pressione militare funziona. Funziona perché opera simultaneamente: da un lato, schiaccia le capacità militari e governative di Hamas e, dall'altro, crea le condizioni per il rilascio dei nostri ostaggi. Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Garantiremo la sicurezza generale nella Striscia di Gaza e permetteremo l'attuazione del piano Trump, il piano di immigrazione volontaria». Le Forze di Difesa israeliane (Idf) ieri hanno ordinato l'evacuazione dei palestinesi da tutta l'area di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, annunciando che «l'esercito tornerà a combattere con forza per smantellare le capacità delle organizzazioni terroristiche presenti nella zona». In un post su X, il portavoce delle Idf per il pubblico arabo, il colonnello Avichay Adraee, ha condiviso una mappa delle aree interessate dall'evacuazione, esortando i residenti a spostarsi verso la zona costiera di al-Mawasi, nel sud della Striscia. Lo Shin Bet e la polizia israeliana hanno arrestato una cellula terroristica a Shechem che operava sotto la direzione e il finanziamento di Hamas in Turchia e pianificava attacchi in Israele.
  Capitolo ostaggi: Israele ha proposto ad Hamas la liberazione di 11 ostaggi il primo giorno e un cessate il fuoco di 40 giorni. Per contro Hamas sta offrendo un rilascio graduale in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni. Infine, si arroventa sempre di più il clima tra l'Iran e gli Usa dopo che Donald Trump ha affermato: «Se non troveranno un accordo sul nucleare, ci saranno bombardamenti, ma c'è la possibilità che, se non fanno un accordo, io imponga dazi secondari su di loro come ho fatto quattro anni fa». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha dichiarato domenica che Teheran non intende tenere negoziati diretti con gli Stati Uniti. Ora però vedremo se cambierà idea.

(La Verità, 1 aprile 2025)

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Il 25 aprile di Gaza

E il silenzio degli antifascisti. La rivolta popolare contro Hamas e le ong così taciturne

di Giulio Meotti

ROMA - Le ong non hanno mai avuto molto a cuore la sorte degli ostaggi israeliani nel sottosuolo di Gaza. Keith Siegel, recentemente rilasciato, a “60 minutes” della Cbs rivela: “Ho assistito a una giovane donna torturata dal terrorista, intendo tortura letterale, non solo in senso figurato. Ho visto aggressioni sessuali su ostaggi donne”. I suoi rapitori gli hanno rasato la testa e le parti intime. “Forse li divertiva”. Certi occidentali sono disposti a combattere Israele non solo fino all’ultimo ostaggio, ma anche fino all’ultimo palestinese. Con l’uccisione dei dissidenti, Hamas ha iniziato l’opera di repressione dei palestinesi di Gaza che hanno partecipato alle proteste al grido di “Hamas arhabiyah” (terroristi)”. Tra le persone trucidate Odai al Rubai, che aveva promosso le manifestazioni e si era espresso contro Hamas sui social. Lo hanno sequestrato e torturato per ore, per restituirlo alla famiglia moribondo. Hussam al Majdalawi è stato “gambizzato” e abbandonato in piazza. Il mukhtar al Barrawi aveva chiesto a Hamas di liberare gli ostaggi: è morto a causa di un “infarto”.
  I famigliari di Rubai hanno rilasciato una dichiarazione in video in cui esortano “tutte le organizzazioni per i diritti umani a sostenere la popolazione di Gaza contro questi criminali”. Organizzazioni per i diritti umani? In questo caso, niente “occhi puntati su Rafah”.
  I gruppi vestiti di kefiah che riempiono le strade di Londra, Roma, Parigi e New York sventolando bandiere dell’Olp e denunciando Israele come “genocida” sono visibilmente silenziosi sugli arabi di Gaza che protestano non contro Israele, ma contro Hamas. Nulla da Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu. Nulla da Amnesty International, che “ha sospeso la sua sezione locale israeliana a gennaio perché abbiamo reso evidenti i crimini di Hamas contro gli israeliani e i palestinesi”, come rivela su Haaretz Yariv Mohar. “Prima che la sospensione avesse luogo, io, come vicedirettore, ho riscontrato un modello preoccupante: una tendenza del movimento a minimizzare e sminuire le critiche legittime e importanti a Hamas. Ora siamo alla resa dei conti morale per il mondo dei diritti umani”.
  Racconta Mohar che “figure di spicco di Amnesty hanno chiesto che rimuovessimo un documento pubblicato sulla retorica disumanizzante verso gli israeliani e che glorifica Hamas utilizzata tra circoli progressisti in occidente. I membri di Amnesty hanno lasciato intendere che condannare troppo Hamas potrebbe rafforzare la narrazione israeliana”.
  L’Atlantic americano ha un’inchiesta sulle ong. Rasha Khoury, a capo del consiglio di Medici senza frontiere in America, “è l’incarnazione di questa nuova tendenza nell’establishment dei diritti umani”. Un mese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Khoury ha pubblicato un saggio sulla bacheca digitale dell’organizzazione, nota come Souk: “Dobbiamo decolonizzare le nostre menti”. Doug Sandok ha lavorato con Medici senza frontiere in Ruanda, Cecenia e Sri Lanka negli anni Novanta. “Sono andato a un incontro dell’intera organizzazione nel novembre 2023 e il discorso mi ha scioccato, tutto incentrato sul colonialismo antioccidentale e sul razzismo. Alcuni di noi hanno chiesto: ‘E’davvero scontato che Israele abbia commesso un genocidio?’”.
  Per Dan Balson, lavorare per Amnesty era un sogno. Lui e i suoi genitori sono usciti dall’Unione sovietica nel 1988 parte di un’ondata di emigrati ebrei. Amnesty ha avuto un ruolo chiave nel fare pressione su Mosca affinché liberasse famiglie come la sua. Balson è diventato il direttore dell’advocacy di Amnesty per l’Europa e l’Asia centrale, coprendo un territorio che va dalla Russia all’Afghanistan all’Ucraina. Ma quando ha visitato la sede globale di Amnesty a Londra ha percepito un’antipatia verso Israele e gli ebrei.
  La mattina del 7 ottobre, Balson aprì X e vide che la sua collega Rasha Abdul Rahim, direttrice dei servizi tecnici per Amnesty, scrisse: “Essere veramente antirazzisti e decoloniali significa riconoscere che la resistenza contro l’oppressione a volte è brutta”. Balson si è dimesso. Anche Roy Yellin è un attivista israeliana per i diritti umani che ha lavorato con i grandi gruppi internazionali in Europa e negli Stati Uniti. “Pensa che se si limitassero a urlare ‘genocidio’ e ‘apartheid’ forse torneremo in Europa. A volte mi sento come se fossi stato solo un utile idiota”. Lo era, ma a differenza degli altri, ha avuto almeno il coraggio di confessarlo.

Il Foglio, 1 aprile 2025)

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Netanyahu ritira la nomina di Sharvit a capo dello Shin Bet

Dopo le aspre critiche nazionali e internazionali, il Primo Ministro fa marcia indietro e abbandona la candidatura del generale a capo del servizio di sicurezza interno.

L'Ufficio del Primo Ministro israeliano ha reso noto che Benjamin Netanyahu ha incontrato ieri sera il generale Eli Sharvit per discutere della sua nomina a capo dello Shin Bet (Servizio di sicurezza interna). Il Primo Ministro ha ringraziato il generale Sharvit per la sua disponibilità a “rispondere alla chiamata del dovere”, ma lo ha informato che avrebbe preso in considerazione altri candidati per l'incarico.
  In una dichiarazione, il generale Eli Sharvit ha affermato: “Il Primo Ministro mi ha chiesto di assumere la posizione di direttore del Servizio e di continuare a servire lo Stato di Israele in questo momento difficile - cosa che ho accettato. Ho piena fiducia nella capacità del Servizio di Sicurezza Generale di affrontare le complesse sfide che si trova attualmente ad affrontare, e un'umile fiducia nelle mie capacità di guidarlo in questa missione.” “Il servizio dello Stato, la sua sicurezza e quella dei suoi cittadini rimarranno sempre la mia priorità assoluta”, ha aggiunto.
  La decisione arriva in un contesto di critiche internazionali. “Mentre non c'è dubbio che Israele rimanga il miglior amico dell'America, la nomina di Eli Sharvit come nuovo capo dello Shin Bet è più che problematica”, ha dichiarato il senatore repubblicano Lindsay Graham, presidente della Commissione Bilancio del Senato statunitense. A suo avviso, le passate dichiarazioni di Sharvit contro il presidente Donald Trump “creerebbero inutili pressioni in un momento critico”. Netanyahu ha dichiarato lunedì di non essere stato informato di “tutti i dettagli” del coinvolgimento di Sharvit nelle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, che avrebbe contribuito al ritiro della sua candidatura di fronte alle pressioni della destra israeliana.

(i24, 1 aprile 2025)

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“Disposti a tutto pur di non dover lasciare le proprie case”: chi sono gli ultimi novemila ebrei residenti in Iran. 

Come si vive da ebrei nel Paese degli Ayatollah? Orgogliosi della propria cultura, affezionati a tradizioni millenarie, legati visceralmente a una terra che in tanti hanno lasciato ma che continua a tenerli stretti a sé. E chi ha scelto di restare in Iran continua a sperare in giorni felici. Così, per sopravvivere, gli ebrei vivono scissi fra due polarità: quella persiana e quella ebraica. Negando (pubblicamente) Israele. Tra mille contraddizioni e lacerazioni, tre voci raccontano come vivere e fuggire da Teheran

di David Zebuloni

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«Ho ancora un desiderio – mi ha sussurrato nell’orecchio mio nonno, non molto tempo fa -. Tornare a casa, visitare l’Iran un’ultima volta», ha poi aggiunto con gli occhi socchiusi e un tono nostalgico che decisamente non gli appartiene. Mio nonno, oggi novantenne, è nato nella città di Mashad, da cui è fuggito in circostanze non proprio felici, dopo anni bui di umiliazioni e persecuzioni. Quando ho cercato di capire il motivo di tanta nostalgia, lui mi ha sorriso e ha detto che ci sono cose che non posso capire. E ha ragione. L’ossessione che molti ebrei iraniani hanno della loro prima patria, è una cosa che fatico decisamente a capire. D’altronde, come si può amare un luogo che ti ha rigettato brutalmente? Come si può avere nostalgia della povertà? Della paura? Delle piccole e grandi mortificazioni quotidiane?
  Eppure, una cosa è certa e assolutamente innegabile: forse più di ogni altro ebreo fuggito da casa propria, talvolta verso ignota destinazione, l’ebreo iraniano è il più attaccato al luogo in cui è nato. È il più orgoglioso della sua cultura. Il più affezionato alle proprie usanze millenarie. Non a caso una delle comunità ebraiche più antiche e testarde del Medio Oriente risiede ancora lì, nel paese nemico per eccellenza di Israele. E non ha alcuna intenzione di andarsene.
  Per comprendere a fondo la nostalgia di mio nonno e per capire soprattutto i motivi per i quali molti ebrei sono disposti a tutto pur di continuare ad abitare in Iran, mi faccio aiutare da tre personaggi d’eccezione: Beni Sabti, uno dei massimi esperti del regime iraniano e ricercatore presso l’Istituto per la Sicurezza Nazionale (INSS); Maureen Nehedar, cantante iraniana di fama internazionale; e il giovane Gavriel Shem, trasferitosi dall’Iran in Israele appena un anno e mezzo fa. Le storie di Beni, Maureen e Gavriel si intrecciano perfettamente, creando insieme un puzzle affascinante che racconta l’unicità della comunità ebraica in Iran, che oggi conta circa 9.000 persone e innumerevoli contraddizioni.

Ingannati dalla rivoluzione
   Sabti, il più anziano del gruppo, è nato a Teheran nel 1972, cioè sette anni prima della rivoluzione islamica, e ricorda chiaramente come il suo paese amato sia cambiato da un giorno all’altro davanti ai suoi occhi. Suo padre lavorava come contabile in un ospedale e sua madre lavorava come direttrice presso un orfanotrofio. «Nei giorni turbolenti della rivoluzione, non uscivamo di casa – racconta -. Salivamo sui tetti e guardavamo le battaglie. Non capivamo esattamente chi fosse il buono e chi fosse il cattivo, ma l’idea che il debole potesse vincere il forte ci affascinava. Così, quando vedevamo i manifestanti sopraffare i soldati dello Scià, applaudivamo emozionati. Per noi bambini, tutto sembrava un film. Tuttavia, presto capimmo chi fosse il buono e chi invece il cattivo. I rivoluzionari, capeggiati da Khomeini, ci ingannarono. Promisero libertà e prosperità, e noi, come molti ingenui iraniani, abboccammo. Presto la realtà ci è esplosa in faccia».
  A differenza di decine di migliaia di ebrei che lasciarono l’Iran proprio nell’anno della rivoluzione, i genitori di Beni decisero di restare a Teheran poiché credevano che il loro rispettabile lavoro li avrebbe protetti. «Erano anni difficili e oscuri – ricorda con dolore -. Un giorno gli uomini di Khomeini mi fermarono e mi rasarono a zero in mezzo alla strada. Barba e capelli. Ridevano esilarati. Alcuni anni dopo, quando arrivai in Israele e vidi le immagini della Shoah, capii quanto fosse grave l’umiliazione che avevo subito. Non voglio fare paragoni, ma l’odio è odio. L’umiliazione è umiliazione». Solo nel 1987, otto anni dopo la rivoluzione, quando suo padre fu intenzionalmente investito da una jeep, solo perché ebreo, davanti all’ospedale dove lavorava, i genitori di Beni capirono che era ora di fuggire.

Salvi in Israele, nonostante le difficoltà
   La storia di Maureen è molto diversa. Nata nel settembre 1977, ovvero un anno prima della rivoluzione, venne portata in Israele non appena Khomeini salì al potere. A differenza dei genitori ottimisti di Sabti, i genitori di Nehedar capirono subito che in Iran non avrebbero potuto garantire un futuro sicuro ai loro figli. «La mia famiglia si è lasciata tutto alle spalle: i soldi, la casa, i gioielli. Siamo arrivati in Israele con due valigie piene di vestiti e alcune cassette – spiega la cantante con voce rotta -. L’inizio, in Israele, fu difficile. Vivevamo nella povertà. Tuttavia i miei genitori mi hanno insegnato a camminare a testa alta e a non incolpare nessuno delle mie mancanze. Dicevano sempre che chi lavora sodo, alla fine ottiene tutto».

Partire dall’Iran dopo il 7 ottobre
   La storia di Gavriel è forse la storia di tutta la comunità ebraica che ancora abita in Iran. Nato in Isfahan nel 2002, cullato dai racconti di un paese libero che non ha mai conosciuto, in cuor suo ha sempre sognato di lasciare l’Iran per trasferirsi in Israele. Così, l’8 ottobre, il giorno dopo la grande strage compiuta da Hamas, Gavriel e sua sorella hanno preso la decisione più cruciale della loro vita. «Guardavamo le immagini del massacro al telegiornale e ci siamo detti: o ce ne andiamo ora, o restiamo in Iran per sempre – racconta -. Così abbiamo deciso di partire. Abbiamo salutato tutti e siamo saliti sull’aereo diretto a Istanbul». Quattro giorni dopo sono arrivati per la prima volta in vita loro nella Terra Promessa: lo Stato d’Israele.
  «Oggi non posso più tornare in Iran, ed è una delle ragioni per le quali molti ebrei non vogliono lasciare la loro casa: sanno che se non si trovano bene in Israele, non hanno dove tornare. È una decisione irreversibile – sottolinea Gavriel -. I miei genitori non volevano che io e mia sorella partissimo. Loro sono rimasti là, intrappolati in quella triste realtà, mentre noi stiamo costruendo una nuova vita. Non è facile. È da un anno e mezzo ormai che non li vedo. Ho festeggiato il mio compleanno con loro al telefono, una situazione del tutto innaturale. Ancora oggi cerco di accettare il fatto che la mia mamma e il mio papà non saranno con me nei momenti importanti della mia vita».

L’Iran non ti lascia mai
    Su una cosa Beni, Maureen, Gavriel e persino mio nonno sono d’accordo: puoi lasciare l’Iran, ma l’Iran non ti lascia mai. «Gli ebrei che vivono là credono ancora che le cose presto cambieranno – spiega Gavriel con l’autorità di chi quella realtà l’ha vissuta in prima persona, e non sentita raccontare da terzi -. Posticipano il momento della loro partenza di un po’ e ancora un po’ perché dentro di loro sono erroneamente convinti che il regime stia per crollare e che presto torneranno i giorni felici che hanno preceduto la rivoluzione. Che a breve potranno continuare la loro vita interrotta dal punto esatto in cui l’hanno fermata quasi cinquant’anni fa».
  E non è tutto. «Alla fine, c’è qualcosa che accomuna tutti gli ebrei persiani. Tutti, compresi quelli che vivono in Israele da cinquant’anni e non vorrebbero abitare in nessun altro luogo al mondo – sottolinea Gavriel -. Ecco, tutti sentono la mancanza della casa in cui sono cresciuti. A tutti manca quel calore. Quelle usanze dalle radici così antiche. Quel folclore. Quella cultura ineguagliabile di ospitalità e di condivisione. Di dare agli altri anche quando non hai per te stesso».
  Per molti può sembrare un paradosso inseguire il luogo da cui si è fuggiti, ma per Maureen non vi è nulla di più naturale. «Ho sempre pensato che sarei diventata una cantare lirica e che mi sarei occupata di musica classica, ma poi la nostalgia ha cominciato a farsi sentire e ho deciso di ridare vita a quella musica persiana che mi scorre nelle vene – dice visibilmente emozionata -. La mia è la nostalgia per qualcosa che non conosco, per un mondo che appena ho vissuto, ma che è sempre con me – aggiunge dopo una breve pausa -. Ancora oggi non so se questa nostalgia sia per un luogo fisico, ovvero per l’Iran, o per un luogo ideale dove ti senti parte di un microcosmo che diventa casa e famiglia, ovvero la comunità ebraica nella quale sono nata. Forse ciò che mi manca è proprio la casa dei nonni. Le loro radici, che sono anche le mie. Una cosa è certa: più esploro il mio passato, e più questo si fa doloroso. Mi sembra di scavare una ferita aperta, ancora sanguinante. Tuttavia, non riesco a smettere. Non voglio smettere. Questo è il mio passato. Questa sono io».
  A differenza degli altri due, Sabti si mostra molto meno nostalgico e molto più critico nei confronti di quella comunità che accetta tutto pur di non lasciare la propria patria. «Gli ebrei dell’Iran sono ostaggi del regime a tutti gli effetti – dichiara intransigente -. Negli ultimi mesi stanno manifestando contro Israele, a favore di Hamas e di Hezbollah. Hanno anche scritto una lettera di ringraziamento a Nasrallah per aver bombardato Tel Aviv e un comunicato di condanna per l’uccisione di Ismail Haniyeh. So che è tutta una sceneggiata, che non possono fare altrimenti poiché verrebbero appesi in piazza, ma condannare Israele per continuare a vivere in Iran a mio avviso è un errore clamoroso».
  Proprio lui, Beni, l’unico del gruppo che ha vissuto gli anni felici che hanno preceduto la rivoluzione, si mostra più intransigente dei suoi connazionali. «Gli ebrei iraniani si aggrappano a un ricordo passato di un mondo che non esiste più. Io c’ero, e porto sempre nel cuore quel luogo meraviglioso in cui sono cresciuto, ma so che vi sono linee rosse che non vanno oltrepassate. Anche ai miei tempi ci veniva chiesto di dichiarare fedeltà al regime e di condannare Israele, ma sapevamo che vi erano alcune cose che, qualunque cosa accadesse, non avremmo mai detto o fatto. Sapevamo anche che potevamo prendere e fuggire, proprio come possono fare quegli ultimi novemila ebrei che abitano lì, ancora oggi».
  Le dure parole del ricercatore fanno riflettere, ma più che provare rancore o risentimento, mi strugge il dramma che sta vivendo questa piccola comunità lacerata tra due mondi. Da un lato il desiderio di non cancellare oltre duemila anni di storia ebraica-iraniana. Di non rinnegare le proprie origini per via di un regime sadico e dittatoriale. Dall’altro, il prezzo più caro che un ebreo possa pagare: la negazione di se stessi. D’altronde, anche se pubblicamente gli ebrei dell’Iran si mostrano entusiasti di sostenere il regime degli Ayatollah, da diverse testimonianze emerge che segretamente pregano per il benessere dello Stato di Israele e per la salute dei soldati israeliani feriti in guerra contro il terrorismo. Secondo queste testimonianze, la maggior parte degli ebrei iraniani sono profondamente sionisti, ma devono fingere di non esserlo per non andare incontro alla morte certa. Un prezzo che sono disposti a pagare pur di non rinunciare al luogo che hanno tanto amato, ma che oggi esiste solo nei loro ricordi.

(Bet Magazine Mosaico, 1 aprile 2025)

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