Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 1-15 gennaio 2021


Nuove specie di api scoperte nelle pianure di Israele

Una nuova speranza per gli impollinatori

di Federica Vitale

 
Come è noto, gli impollinatori hanno un ruolo molto importante in materia alimentare, ma queste popolazioni stanno scomparendo. Ora, un gruppo di ricercatori israeliani ha scoperto una nuova specie di ape. Sebbene l'impollinazione delle colture dipenda principalmente dalle colonie di api domestiche, anche gli impollinatori selvatici si sono rivelati molto efficaci in questo processo e spesso contribuiscono ai servizi di impollinazione nei sistemi naturali e agricoli.
  Tra gli impollinatori selvatici, le api autoctone sono il gruppo più importante. In questo senso, e riconoscendone l'importanza, i ricercatori israeliani sono stati entusiasti della scoperta di una nuova specie di api nella regione della pianura costiera, soprattutto in un momento in cui sono preoccupati per la diminuzione delle popolazioni di impollinatori, principalmente di api, in diversi parti del mondo.
  In risposta a questa riduzione, i biologi hanno deciso di mettersi al lavoro e hanno suggerito la conservazione e il ripristino dell'habitat come uno dei principali strumenti per proteggere gli impollinatori e la biodiversità nel suo complesso.

 La ricerca
  Durante il processo di ricerca su come conservare questi habitat in Israele, i ricercatori hanno scoperto una specie di api selvatiche precedentemente sconosciuta. Nello studio, pubblicato sul Belgian Journal of Entomology nel novembre 2020, il team evidenzia l'impatto delle attività di ripristino su un ecosistema sabbioso in via di estinzione lungo le pianure costiere di Israele.
  Yael Mandelik e il suo team hanno trascorso gli ultimi cinque anni a studiare gli effetti di queste attività e, in particolare, come influenzano la popolazione di api locale. Attraverso l'uso di una varietà di metodi classici per il rilevamento di insetti e piante, il team ha trovato ragioni per sperare in un cambiamento graduale dopo le azioni di ripristino.
  "Abbiamo osservato cambiamenti nelle comunità di api e nella disponibilità di cibo e risorse di nidificazione negli habitat ripristinati. In generale, possiamo vedere che gli sforzi di ripristino hanno effetti positivi sulle api", ha spiegato Karmit Levy, un altro autore dello studio.
  Parallelamente a queste scoperte, gli esperti ne hanno registrato un'altra, ancora più emozionante: una nuova specie di ape che non era mai stata registrata, ritenuta esclusiva delle dune di sabbia trovate nelle pianure costiere di Israele.
  Il nome scelto per la specie è stato Lasioglossum dorchini in onore del ricercatore israeliano di api Achik Dorchin. "Oltre all'entusiasmo professionale per la scoperta di una nuova specie precedentemente sconosciuta alla scienza, questa scoperta ha un valore applicativo più ampio per aiutarci a comprendere meglio le comunità di api, i loro requisiti di habitat e i servizi di impollinazione che possono fornire", ha spiegato il professor Mandelik.

(Infinity News, 15 gennaio 2021)


Israele, due milioni di vaccinati, ma la pandemia si estende

Rabbini ortodossi contro 'alberghi Covid'

TEL AVIV - Mentre in Israele prosegue a ritmo serrato la campagna di vaccinazione, la pandemia continua ad estendersi e nei prossimi giorni il governo sarà chiamato ad ordinare una estensione di una settimana del lockdown già in atto. Oggi il ministero della sanità ha reso noto che due milioni di israeliani hanno già ricevuto la prima dose di vaccino Pfizer, e di questi 172 mila hanno avuto questa settimana anche la seconda.
   Ciò nonostante anche ieri, per il quarto giorno consecutivo, si sono avuti oltre 9.000 contagi. Diversi ospedali denunciano sovraffollamenti. Le aeree dove la pandemia è più avvertita sono quelle arabe e quelle popolate da ebrei ortodossi. Nelle prime resta bassa la percentuale di quanti si vaccinano. Nel rioni ortodossi la polizia è stata più volte attaccata da dimostranti quando ha cercato di impedire lo svolgimento di lezioni in scuole che dovevano restare chiuse. Due importanti rabbini, Haim Kanyevski e Gershon Edelstein, hanno intanto vietato agli allievi di entrare in 'Alberghi Covid' perché altrimenti - hanno avvertito - sarebbero esposti "a pericoli spirituali": a quanto pare un riferimento alla presenza di apparecchi televisivi e di internet.

(ANSAmed, 15 gennaio 2021)


Usa: riorganizzazione militare per cooperazione Israele-Paesi arabi

MILANO - Il presidente Usa, Donald Trump, ha ordinato che il principale comando militare statunitense per il Medio Oriente venga ampliato per includere Israele, dando vita a una riorganizzazione dell'ultimo minuto della struttura di difesa americana che i gruppi filo-israeliani hanno a lungo sostenuto, hanno detto i funzionari statunitensi.
   La mossa fa sì che il Comando Centrale degli Stati Uniti supervisioni la politica militare americana che coinvolge sia Israele che le Nazioni arabe, segnando un cambiamento rispetto alla struttura di comando militare statunitense decennale che teneva conto dell'ostilità tra Israele e alcuni degli alleati arabi del Pentagono.
   Si tratta dell'ultima di una serie di mosse politiche dell'amministrazione Trump per plasmare l'agenda della sicurezza nazionale che il presidente eletto, Joe Biden, erediterà. La modifica è stata recentemente ordinata dal presidente ma non è stata ancora resa pubblica.
   La responsabilità militare statunitense nei confronti di Israele era finora assegnata al comando europeo. Questo consentiva ai generali Usa in Medio Oriente di interagire con gli Stati arabi senza avere una stretta associazione con Israele, che all'epoca era visto come un avversario nel mondo arabo.
   A seguito degli accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, i gruppi filo-israeliani hanno intensificato la loro pressione affinché il Comando Centrale si assumesse la responsabilità delle operazioni militari e della pianificazione che coinvolgono Israele per promuovere una maggiore cooperazione tra il Paese e i suoi vicini arabi.
   "Ora il generale Frank McKenzie può andare in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele e visitare tutti", ha detto un funzionario degli Stati Uniti, riferendosi al generale dei Marine che guida il Comando Centrale.
   Il Jewish Institute for National Security Affairs, un gruppo con sede a Washington che sostiene una stretta cooperazione militare tra Stati Uniti e Israele, ha richiesto il cambiamento a dicembre come un modo per incoraggiare l'allineamento emergente tra Israele e gli Stati arabi chiave contro l'Iran.
   Anthony Zinni, un generale dei Marine in pensione ed ex capo del Comando Centrale, ha detto ieri che "il momento potrebbe essere giusto per farlo". "Potremmo vedere più Paesi arabi riconoscere Israele, quindi ha senso riunirli tutti sotto un unico comando americano unificato", ha aggiunto il generale, spiegando che questo "migliorerà la cooperazione in materia di sicurezza. In passato non avrebbe avuto senso perché c'era troppa sfiducia. Si temeva allora che se Israele fosse stata nel Comando Centrale ci sarebbe stata la condivisione dell'intelligence statunitense con Israele sui vicini arabi".
   Un altro ufficiale militare statunitense in pensione ha convenuto che la mossa che rafforzerebbe gli sforzi degli Stati Uniti per normalizzare i legami tra Israele e gli Stati arabi ma ha avvertito che questo aumenterebbe il fardello del quartier generale del Comando Centrale che ha già la responsabilità delle operazioni militari statunitensi in Afghanistan, Iraq e Siria e in altri punti caldi del Medio Oriente.
   Un'altra potenziale complicazione per il Comando Centrale potrebbe arrivare se il tentativo americano di rafforzare i legami tra Israele e gli Stati arabi vacillasse e le loro relazioni si inasprissero. Un simile sviluppo potrebbe mettere le forze armate statunitensi nella scomoda posizione di lavorare con alleati sospettosi delle reciproche intenzioni.
   Sebbene Israele abbia migliorato i legami con gli Stati del Golfo, la disputa con i palestinesi è profonda e irrisolta. Anche l'Arabia Saudita, il più importante Stato arabo della regione del Golfo, non ha ancora normalizzato le relazioni con Israele.
   Prendendo la decisione durante i suoi ultimi giorni in carica, Trump ha lasciato al suo successore l'attuazione completa della decisione e le sue conseguenze, ha aggiunto l'ex ufficiale.
   Martin Indyk, un ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele che ora è al Council on Foreign Relations, ha affermato che alcuni israeliani in precedenza avevano visto alcuni vantaggi nel lavorare con il Comando europeo perché li associava a un quartier generale che svolge un ruolo centrale nella Nato. Poiché l'Iran è diventato una preoccupazione crescente per Israele e gli Stati arabi del Golfo, però, lavorare con il Comando Centrale ha più senso per Israele, ha aggiunto. "Penso che sia una buona cosa", ha affermato.
   Dennis Ross, un ex negoziatore di pace degli Stati Uniti, ha affermato che il cambiamento arriva in ritardo. "Non credo che il popolo di Biden avrà problemi con questo e penso che gli israeliani lo accoglieranno come un riflesso delle nuove realtà nella regione", ha detto Ross.

(MarketScreener, 15 gennaio 2021)


Joe Biden avrà pochi amici in Israele

di Pierre Haski, France Inter, Francia

In questi giorni è frequente la tentazione di collegare tutto alla transizione in corso a Washington. È il caso degli attacchi compiuti dall'aviazione israeliana nell'est della Siria il 12 gennaio, costati la vita a 57 persone secondo una ong indipendente siriana.
  Negli ultimi anni Israele ha eseguito decine, forse centinaia di attacchi aerei in territorio siriano. Spesso il bersaglio sono stati i miliziani di Hezbollah, organizzazione libanese vicina all'Iran, o le installazioni iraniane a sostegno del regime di Bashar al Assad.
  Tuttavia il raid del 12 gennaio è il più grave di questa lunga serie, e soprattutto è stato rivendicato, mentre generalmente Israele si è sempre rifiutato di commentare questi episodi. Inoltre l'azione nasce da una collaborazione con l'amministrazione Trump, solitamente più discreta in questo tipo di circostanze.

 Scelta deliberata
  Un funzionario israeliano ha addirittura rivelato che l'operazione era stata discussa alla vigilia in occasione di un incontro in un famoso ristorante di Washington tra il segretario di stato americano Mike Pompeo e il capo del Mossad israeliano, Yossi Cohen. La scelta del contesto lascia pensare che i due abbiano deliberatamente scelto di farsi vedere in pubblico.
  Secondo il funzionario israeliano citato dai mezzi d'informazione l'obiettivo degli attacchi erano alcuni depositi contenenti armi iraniane e (precisazione importante) materiali legati al programma nucleare di Teheran.
  I giornali israeliani hanno analizzato la squadra di Biden in funzione del trattato sul nucleare iraniano
  Questa è senz'altro la chiave dell'operazione, perché l'amministrazione Trump e il governo israeliano condividono la stessa ostilità nei confronti dell'Iran, mentre Joe Biden non ha nascosto l'intenzione di provare a salvare l'accordo sul nucleare concluso da Obama nel 2015. Negli ultimi giorni i mezzi d'informazione israeliani hanno analizzato la composizione della squadra di Biden in funzione di un unico criterio: sia il segretario di stato Antony Blinken sia il consulente per la sicurezza nazionale Jake Sullivan sia il direttore della Cia William Burns sono stati associati al negoziato per l'accordo con l'Iran.
  Da qui a pensare che i raid in Siria e il collegamento con il programma nucleare contengano un messaggio subliminale inviato all'amministrazione democratica il passo è breve.

 Fedele a Trump
  I rapporti tra Israele e Stati Uniti, insomma, non saranno comodi. Malgrado ciò che è accaduto la settimana scorsa al congresso e la procedura di destituzione in corso, il governo di Benjamin Netanyahu resta fedele a Donald Trump, considerato il presidente statunitense che più di ogni altro ha sostenuto Israele.
  Netanyahu, di contro, aveva rapporti pessimi con Obama e si era opposto con tutte le sue forze alla firma dell'accordo con Teheran, arrivando a pronunciare un discorso davanti al congresso statunitense per invitare i parlamentari a osteggiarlo. La battaglia ricomincia con l'avvento di un'amministrazione legata all'epoca Obama e decisa a riallacciare i rapporti con l'Iran, in un contesto diverso rispetto al passato. Oggi, infatti, Netanyahu si sente più forte grazie ai nuovi rapporti con i paesi del Golfo, in particolare con l'Arabia Saudita, ferocemente ostile all'Iran.
  La squadra di Biden è avvertita: non avrà amici in questa parte del mondo. Ma probabilmente lo sapeva già prima dei raid israeliani in Siria.

(Internazionale, 14 gennaio 2021 - trad. Andrea Sparacino)


Vitalizio tolto a perseguitata ebrea, appello a Mattarella

Potrebbe finire sulla scrivania del Presidente della Repubblica il caso della perseguitata ebrea a cui lo Stato ha chiesto indietro l'assegno del vitalizio, concesso nel 2007 poi revocato in quanto nata in Libia e non in Italia. Mattarella diventa «Ultima Spes», dopo che davanti alla Corte dei Conti di Torino si è svolta un'udienza che ha sospeso il provvedimento impugnato dagli eredi di Messauda Fadlun, nata nel 1928 a Bengasi, ma vissuta a Tripoli, insegnante nella scuola israelitica di via San Pio V del capoluogo piemontese.
   La donna nel 1982 era stata riconosciuta dallo Stato italiano come «perseguitata razziale» e nel 2007 le era stato concesso un assegno mensile di circa cinquecento euro. Adesso il vedovo della donna, scomparsa nel 2018, Alberto Finzi, 99 anni, deve restituire 80 mila euro. «Come ultima possibilità ho solo quella di rivolgermi a Sergio Mattarella - spiega Ariel Finzi, rabbino della comunità ebraica di Napoli e figlio di Messauda Fadlun - Mi pare che non ci siano altre alternative: pagare o rivolgersi al presidente». Alla donna è stato contestato di avere la cittadinanza «Italiana libica», che veniva data a chi nasceva nella colonia, quindi di non essere una cittadina italiana al cento per cento.
   Alla revoca dell'assegno, l'insegnante aveva fatto ricorso alla Corte dei conti di Torino e, nel 2014, il giudice le aveva dato ragione. Decisione a cui si è opposto il Ministero delle Finanze che ha fatto ricorso a sua volta alla sezione d'appello della Corte dei Conti di Roma, che nel 2017 ha dato torto alla perseguitata con una sentenza definitiva, a cui i Finzi, assistiti dell'avvocato Paolo Bonaiuti, si sono opposti. Almeno fino a ieri. Tra poche settimane questa vicenda arriverà ad una conclusione. «Non ci resta che aspettare aprile per la chiusura del giudizio, ma siamo all'ultima spiaggia - continua Finzi - Poi verrà emesso un decreto ingiuntivo e si prenderanno in modo coatto i soldi». Anche perché i familiari della donna non hanno intenzione di pagare: «Quei soldi sono già stati erogati - racconta il figlio - Anche se sbagliato potevano togliere il vitalizio senza chiedere la restituzione degli arretrati». «Stiamo parlando di 500 euro in più con cui uno stabilisce il suo tenore di vita - aggiunge il rabbino - Restituirli significa trovarsi in difficoltà. E folle. TI problema vero è che qui c'è uno Stato che sta andando a prendere i soldi ad una persona anziana. E questa è una brutta cosa».

(Corriere Torino, 15 gennaio 2021)


Perseguitati razziali, i risultati ottenuti e i nodi da risolvere

Dopo la storica modifica della legge Terracini

Una battaglia non ancora terminata, come raccontano le cronache, ma arrivata a un punto di svolta grazie alle novità dell'ultima legge di Bilancio. È quella diretta a correggere la disciplina dei risarcimenti ai perseguitati razziali e politici dal fascismo. Per anni, in particolare, si sono accumulati casi in cui cittadini ebrei vittime delle leggi razziste e delle persecuzioni si sono visti negare il diritto agli assegni di benemerenza previsti dalla legge Terracini del 1955 ("Provvidenze a favore dei perseguitati politici o razziali e dei loro familiari superstiti"). E per anni l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si è impegnata affinché questi diritti venissero riconosciuti e le distorsioni presenti nella norma del '55 fossero superate. "Profonde aberrazioni", le ha definite la Presidente UCEI Noemi Di Segni, spiegando quali importanti correttivi alla legge Terracini siano stati introdotti con la legge di Bilancio, pubblicata il 30 dicembre 2020 nella Gazzetta Ufficiale. "Il comma 373 precisa, anzitutto (alla lettere a), il superamento del limite temporale dell'8 settembre 1943, chiarendo quindi una volta per sempre che la persecuzione subita è riferita all'intero periodo dell'occupazione nazifascista e si conclude il giorno della liberazione, quindi il 25 aprile del 1945. - evidenziava in queste pagine la Presidente UCEI - Fino a questa data vi erano ancora persecuzioni sia da parte degli occupanti nazisti sia dei fascisti. La persecuzione di cui l'Italia deve rispondere non è solo quella fascista e non finisce con l'invasione successiva all'armistizio".
Altro novità fondamentale introdotta, quella legata all'onere della prova. "Fino a ieri qualsiasi richiedente doveva produrre la prova dell'atto persecutorio. - spiegava Di Segni - Dimostrare quindi di aver sofferto e di aver subito atti di violenza e sevizie, con documenti originali o testimoni. Al di là della difficoltà oggettiva di fornire tali prove e al di là della valutazione estremamente variabile di cosa si intende per atto persecutorio vi era una umiliante decisione di ammissibilità soggettivizzata. Dopo l'onta e le esclusioni da ogni ambito della vita dovuta alle leggi razziste, dopo la persecuzione fisica e la deportazione, gli ebrei dovevano ancora dimostrare la 'corretta' applicazione di tale persecuzione nei loro riguardi, e questo dopo la formale abolizione delle leggi antiebraiche, dopo la Costituzione del 1947. Con la nuova disposizione si chiarisce che gli atti di violenza o le sevizie subite in Italia o all'estero si presumono fino a prova contraria. Con tale formulazione si supera quindi la richiesta a carico del richiedente di fornire prove, riconoscendo quindi (implicitamente) che leggi e circolari volute e promulgate in Italia sono state applicate con rigore alla popolazione ebraica e quanto sia incoerente, normativamente, se non anche aberrante moralmente, chiederne la prova".
  Un cambio di orientamento necessario a cui si è arrivati con anni di lavoro nelle sedi istituzionali, come ha raccontato il Vicepresidente UCEI Giulio Disegni, membro della Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici italiani antifascisti o razziali e loro familiari superstiti. Due le Commissioni dedicate al tema e istituite presso la Presidenza del Consiglio nel corso del tempo. La seconda di recente formazione, presieduta da Giovanni Canzio, già primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, e nata su impulso, "ha lavorato con ritmi serrati, in piena armonia, al di là di qualche inevitabile differenza di pensiero tra i vari commissari, arrivando in pochi mesi a formulare alcune concrete proposte normative, pressoché unitarie, anziché semplici orientamenti interpretativi, che venivano poste all'attenzione prima della Presidenza del Consiglio dei Ministri, poi del Parlamento", la testimonianza di Davide Jona Falco, Consigliere UCEI, che di questa Commissione di Studi è uno dei membri. Si è arrivati così alle citate novità introdotte nella legge di Bilancio approvata a fine 2020. Una norma, rileva il Vicepresidente Disegni, che apre nuove prospettive "per chi non ha potuto veder sinora riconosciuto il proprio diritto all'ottenimento della benemerenza, mentre restano sul tappeto ancora talune criticità e diversità di orientamenti, che si spera possano esser presto risolti, nella comune convinzione che chi ha subìto persecuzioni, restrizioni e discriminazioni a causa delle famigerate leggi razziste non debba più subire iniquità".
  Tra i casi da risolvere, quello discusso di recente a Torino. Qui la Corte dei Conti ha per il momento sospeso il provvedimento contro gli eredi di Messauda Fadlun, nata in Libia e vittima delle leggi razziste del '38, a cui nel 2007 era stato riconosciuto l'assegno di benemerenza. Una misura poi interrotta con la richiesta dello Stato alla famiglia - Messauda Fadlun, a lungo insegnante della Scuola ebraica di Torino, è scomparsa nel 2018 - di avere indietro quanto erogato. A raccontare lo sconcerto per questa richiesta, il figlio Ariel Finzi, rabbino capo della comunità ebraica di Napoli. "È arrivata una ingiunzione di pagamento a mio padre, 99 anni di età, per la restituzione di quella cifra. Lo Stato italiano sostiene che la cittadinanza italiana dei residenti nelle colonie, in questo caso in Libia, non fosse di rango sufficiente per ottenere quel beneficio". Non si riconosce dunque la cittadinanza piena della signora Fadlun, vittima in Libia delle leggi razziste, e con questa motivazione viene negato il diritto alla benemerenza. Un doppio problema, di cui la Commissione di studio è al corrente, spiegava Jona Falco, e che richiede un intervento risolutore. "Mi auguro davvero in un ripensamento e in una riparazione, - l'auspicio di Finzi - che prima ancora di essere economica e legale, sarebbe un atto di dignità morale".

(moked, 15 gennaio 2021)


Il gender entra nella Tv dei ragazzi: «Così si falsa la realtà dell'uomo e della donna»

Ha suscitato scalpore la "rivisitazione", in chiave Lgbttiq, di alcune fiabe per bambini. L'esperto: «Si calpesta la loro dignità».

Grande scalpore ha suscitato nei genitori il programma televisivo nel quale vengono rivisitate le fiabe classiche in chiave Lgbttiq, trasmesso in fascia pomeridiana - quindi in fascia protetta. Come Associazione Genitori Scuole Cattoliche siamo attenti ai valori che vengono trasmessi ai nostri figli e quindi abbiamo chiesto una valutazione a Stefano Chiapponi (consulente tecnico scientifico biomedicale), professionista che ha girato in lungo e in largo la Penisola per parlare nelle scuole e coi genitori della problematica.
   «Difficile definire oggi valori come la libertà anche perché e sempre più arduo capire quale sia la verità - esordisce l'esperto-. Certo è che questo modo di concepire il sesso (biologico) come "sesso sociale" (gender) è estraneo ad una corretta antropologia e falsa la realtà dell'uomo e della donna. Inoltre non è supportato scientificamente dal punto di vista medico. Gli attacchi di questa forma di indottrinamento proseguono oltre che a spese dei genitori/educatori (nella scuola) anche a spese dei normali "contribuenti" attraverso la Tv di Stato che presenta in quella fascia oraria definita "protetta" programmi destinati ai bambini come le favole, opportunamente artefatte in salsa Lgbttiq. Dopo averci "insegnato" che l'orientamento sessuale e l'identità sessuale sono assolutamente soggettivi e legati alla sensazione del momento, che i termini padre e madre non devono essere discriminanti e quindi è necessario sostituirli con definizioni tipo "genitore 1, 2 e anche 3", che l'omofobia è imputabile a ogni persona che non ritiene equivalenti l'eterosessualità e l'omosessualità, discriminando e criminalizzando (reato di opinione) coloro che credono nei valori della famiglia naturale e dell'ordinamento creativo proprio del Cristianesimo (e hanno il coraggio di esprimerlo pubblicamente). Ora per colpire ulteriormente l'istituto familiare - prosegue Chiapponi - si attaccano i bambini confondendo la loro identità sessuale con le favole revisionate secondo concetti gender. Così si calpesta la dignità dei più piccoli, quella dei primi educatori che sono papà e mamma, la verità che non è sentimento e la libertà che non è slegata dalla verità/responsabilità e così viene ridotta a "fai quello che vuoi", favorendo solo l'affermazione del più forte». A proposito dei bambini, sottolinea Chiapponi, «per rilevare quanto sia potente ed organizzata questa ideologia (nata storicamente negli anni '90 e appoggiata ora da tanti benefattori miliardari) basti pensare alle recenti collaborazioni di organizzazioni Onu come l'Alto Commissariato peri diritti umani o del comitato per i diritti del bambino che il 5 febbraio 2014 sollecitava la Santa Sede affinché la Chiesa cattolica rivedesse il proprio atteggiamento nei confronti dell'aborto, della contraccezione, del matrimonio omosessuale e del sesso di adolescenti e pre adolescenti! Questa ideologia sta operando al fine di sgretolare la famiglia, collabora alla sostituzione della cultura della vita con una cultura di morte, invece che sostenere realtà creative e generative opta per realtà senza prospettive e senza futuro».
   La sfida del gender mette i genitori di fronte a scelte importanti, li rende più responsabili nei confronti dei figli che rappresentano il loro orizzonte e sono parte della loro libertà. A loro debbono offrire il massimo della dignità ed insegnare il valore dell'accoglienza accettando le sfide del mondo di oggi, ricercando sempre la verità, perché loro crescano nella libertà vera del mondo di domani! Anche la Chiesa non ha mancato di pronunciarsi in varie occasioni su questa ideologia, tra questi pronunciamenti uno specifico di papa Benedetto XVI: «Dove la libertà del fare si muta in libertà del fare sé stesso, necessariamente viene negato lo stesso Creatore e con ciò, in ultima analisi, viene avvilito anche l'essere umano come creazione divina, come immagine di Dio nell'originalità del suo essere. Nella lotta per la famiglia la posta in gioco è l'uomo stesso. E diviene evidente che là dove è negato Dio, si dilegua anche la dignità dell'uomo. Chi difende Dio, difende l'uomo».

(Avvenire, 15 gennaio 2021)


*


Il diavolo non molla l'osso

di Marcello Cicchese

Il 21 gennaio 1999, in un discorso alla Sacra Rota, Giovanni Paolo II, anche in reazione a posizioni che sul tema del matrimonio stava assumendo il Parlamento Europeo, ribadì la linea tradizionale della chiesa cattolica:
    «Alla luce di questi principi può essere stabilita e compresa l'essenziale differenza esistente fra una mera unione di fatto - che pur si pretenda originata da amore - e il matrimonio, in cui l'amore si traduce in impegno non soltanto morale, ma rigorosamente giuridico. Il vincolo che reciprocamente s'assume, sviluppa di rimando un'efficacia corroborante nei confronti dell'amore da cui nasce, favorendone il perdurare a vantaggio della comparte, della prole e della stessa società. E' alla luce dei menzionati principi che si rivela anche quanto sia incongrua la pretesa di attribuire una realtà "coniugale" all'unione fra persone dello stesso sesso. Vi si oppone, innanzitutto, l'oggettiva impossibilità di far fruttificare il connubio mediante la trasmissione della vita, secondo il progetto inscritto da Dio nella stessa struttura dell'essere umano. E' di ostacolo, inoltre, l'assenza dei presupposti per quella complementarità interpersonale che il Creatore ha voluto, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello eminentemente psicologico, tra il maschio e la femmina. E' soltanto nell'unione fra due persone sessualmente diverse che può attuarsi il perfezionamento del singolo, in una sintesi di unità e di mutuo completamento psicofisico. In questa prospettiva l'amore non è fine a se stesso, e non si riduce all'incontro corporale fra due esseri, ma è una relazione interpersonale profonda, che raggiunge il suo coronamento nella donazione reciproca piena e nella cooperazione con Dio Creatore, sorgente ultima di ogni nuova esistenza umana.»
Quando il diavolo non può impedire che una cosa giusta sia detta, cerca di fare in modo che a dirla più forte sia la persona sbagliata. E' una tecnica anche oggi molto usata, soprattutto in campo politico. In questo caso, la persona che dice la cosa giusta è la CCR (Chiesa Cattolica Romana), che è la persona più sbagliata, perché la sua stessa storia la mette in contraddizione col suo messaggio. La CCR deve il suo "successo" storico anche al fatto che si è appoggiata su elementi di verità contenuti nel messaggio evangelico, ma che essa ha deformato e adattato allo scopo di farne uno strumento di potere politico nel mondo. Fino a che ha potuto vederlo sottomesso, la CCR ha dominato il mondo, ma quando questo non è stato più possibile ha imparato a cavalcare la tigre di un mondo "in libertà" adattando il messaggio e il comportamento alla novità dei tempi. Sta cercando di farlo adesso con il gesuita papa argentino e il suo sommesso "chi sono io per...". Quanto è umile questo papa! E ha anche molti problemi, soprattutto coi suoi sudditi. Molti dei quali, anche tra preti e porporati, non hanno ancora capito che oggi non bisogna essere "ideologici" restando attaccati a rigide dottrine del passato. Oggi bisogna saper dare al mondo quello che il mondo chiede, ma in una forma che lasci sempre la CCR al primo posto. In senso morale, se non è più possibile in senso strettamente politico. Il mondo però sta crescendo di statura e fra poco questo giochino non riuscirà più alla CCR. Dopo aver permesso, per motivi di forza maggiore, che a dire una cosa giusta sia la persona sbagliata, il diavolo costringerà la persona sbagliata a dire la cosa sbagliata presentandola come cosa giusta in forza della sua autorità.
   La cosa sbagliata che il diavolo vuole sia presentata come giusta è la dottrina gender, l'equiparazione maschio-femmina ad ogni livello, in tutti i suoi aspetti. C'è voluto del tempo - non molto, a dire il vero - per passare dalla semplice accettazione umana degli omosessuali alla distruzione ideologica della famiglia come ordinamento naturale voluto da Dio. Ma l'avversario ha capito di aver trovato l'osso giusto e non è diposto a mollarlo, né a permettere che ci si fermi troppo presto: si dovrà andare avanti, senza fermarsi e senza indugiare. Chi è abbastanza avanti negli anni potrebbe rifare la storia del processo tappa dopo tappa. E l'istituzione che usa il nome di Gesù per i suoi illegittimi interessi di potere sarà costretta o ad adattare il suo messaggio o ad essere azzannata da lupi feroci, perché ormai siamo già entrati nella fase minacciosa dell'intimidazione rivolta ad ogni oppositore.
   Continueremo sulla trattazione di questo tema, considerandolo collegato al tema di Israele. Perché se l'antisemitismo è un'insurrezione diabolica contro l'ordine storico di Dio che riguarda popoli e nazioni, il transessualismo è un'insurrezione diabolica contro l'odine naturale di Dio che riguarda uomini e donne.

(Notizie su Israele, 15 gennaio 2021)


Strasburgo - Rider algerino: «Non consegno agli ebrei»

Condannato a quattro anni

Un rider algerino di 19 anni è stato condannato a quattro anni di carcere dal tribunale di Strasburgo, nell'Est della Francia, per discriminazione su base religiosa. Il giovane si era rifiutato di consegnare ordini ricevuti da due ristoranti kosher, ovvero piatti confezionati secondo le regole ebraiche. L'algerino, in Francia in condizioni irregolari, dovrà anche lasciare il territorio. In aula, uno dei ristoratori ha confermato che il ragazzo gli ha risposto: "lo non consegno agli ebrei», annullando poi la consegna davanti ai suoi occhi. Aiutato da un interprete del tribunale, l'imputato ha ammesso di aver rifiutato la consegna ma non di aver pronunciato quella frase.

(La Verità, 15 gennaio 2021)


Prima dose già efficace sugli ultra 60enni vaccinati in Israele

Lo rileva uno studio condotto su 400mila persone. A 13 giorni dalla prima iniezione le infezioni calano.

TEL AVIV - I risultati di una recente ricerca israeliana confermano un certo ottimismo sulla copertura immunitaria offerta già dalla prima dose del vaccino di Pfizer-BioNTech. Lo riferisce il quotidiano Yediot Ahronot, che illustra lo studio condotto dalla cassa malati Clalit - la principale del Paese - su 200'000 persone di oltre 60 anni che hanno ricevuto la prima dose.
   Messi a confronto con altre 200'000 persone che non sono state vaccinate, i due gruppi hanno mostrato le stesse caratteristiche nei primi dodici giorni dopo l'iniezione. Dal tredicesimo giorno in poi, però, fra i vaccinati il numero di contagiati da SARS-CoV-2 è calato del 33% rispetto al gruppo di controllo.
   La prima dose della vaccinazione sembra dunque ridurre in modo tangibile il rischio di contagio fra gli ultra sessantenni. Si tratta tuttavia, avverte il giornale, di dati preliminari. Questa ricerca dovrà essere portata avanti nelle prossime settimane fra quanti avranno nel frattempo ricevuto anche la seconda dose, che secondo la Pfizer è comunque quella determinante per la immunizzazione.
   Sulla base delle indicazioni del produttore, che già rilevavano la buona copertura offerta dalla prima dose, nelle scorse settimane il Regno Unito aveva deciso di praticare la prima iniezione a quante più persone a rischio possibile, rinviando la seconda anche di tre mesi. La Svizzera aveva escluso di voler seguire questa procedura.

(tio.ch, 14 gennaio 2021)


Al lavoro per accordo di libero scambio tra Marocco e Israele

MAROCCO - Il ministro israeliano dell'Economia e dell'Industria Amir Peretz ha annunciato l'intenzione di provare a stabilire un accordo di libero scambio con il Marocco, ritenendo che le economie marocchina e israeliana non siano in una relazione competitiva, ma piuttosto di complementarità.
   In un'intervista al quotidiano marocchino L'Economiste, pubblicata ieri, il ministro israeliano ha dichiarato che un accordo di libero scambio è un "obiettivo principale", indicando che una squadra speciale sarà incaricata di "lavorare intensamente e rapidamente alla preparazione di una bozza di accordo da sottoporre all'apprezzamento dei due governi".
   Secondo il ministro, il Marocco potrebbe beneficiare dell'immensa esperienza israeliana nei settori delle tecnologie dell'acqua e dell'agricoltura. Potrebbe anche essere istituita una cooperazione basata su tecnologie innovative nel settore automobilistico.
   "Israele ha molto da imparare dalla potenza automobilistica industriale del Marocco, nonché dalla capacità del Marocco, situato in un crocevia strategico, di fungere da ponte tra le regioni", ha affermato Peretz, sostenendo che migliaia di uomini d'affari israeliani stanno progettando di visitare il Marocco e creare partnership con le loro controparti marocchine. [GT]

(infoafrica, 14 gennaio 2021)


Aurelia, nata ad Auschwitz: «Mia madre sopravvisse, poi mi raccontò l'inferno»

Il ricordo inedito di uno dei due bimbi italiani che furono partoriti nel lager

di Walter Veltroni

 
Trieste, autunno 1945 - Aurelia Gregori in braccio
alla madre Aurelia, accanto a loro la zia
Fu violentata dagli aguzzini che poi la misero sul treno per Birkenau. Era sfinita dal freddo e dalla fame, si ammalò di tifo e pensò di non farcela. Venni alla luce su un tavolaccio di pietra. Mi disse: pensavo saresti stata un mostro, invece eri una bambina bellissima.
Ma in questo caso, conta, insieme alla data di nascita, il luogo in cui questa è avvenuta. La signora Aurelia Gregori è venuta al mondo nel campo di concentramento di Auschwitz il 13 gennaio del 1945. Il suo è un racconto inedito. E' la vicenda di uno dei due neonati italiani la cui identità è stata ricostruita attraverso l'analisi di documenti conservati nell'Archivio di Auschwitz, l'elenco delle donne con bambini ricoverate, dopo la nascita, nell'ospedale allestito nell'ex Lager subito dopo l'arrivo dei sovietici, i cui dati sono stati analizzati e messi a confronto con la documentazione italiana di vario tipo e della Croce Rossa internazionale. E' un lavoro coordinato da Marcello Pezzetti, uno del massimi studiosi della Shoah, insieme alla storica Sara Berger, che, con Pezzetti, per la Fondazione Museo della Shoah di Roma, ha effettuato la ricerca per la realizzazione dell'esposizione «Dall'Italia ad Auschwitz», da Liliana Picciotto e dal suo staff del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, da Laura Tagliabue, dell'ANED di Sesto San Giovanni, e da Dunja Nanut, dell'ANA di Trieste.
   Ne sta uscendo un quadro della deportazione dall'Italia ad Auschwitz del tutto inedito, ricco di novità assolute, spesso sconvolgenti. Una di queste è l'avvenuta deportazione di un numero incredibilmente consistente di donne da Trieste, arrestate in tutto il territorio del Litorale Adriatico, incarcerate nel penitenziario del Coroneo e deportate ad Auschwitz, come tutte le persone di origine ebraica. Tra queste donne c'erano le due giovani che hanno dato alla luce un bambino e una bambina nelle condizioni insostenibili del campo di Auschwitz. Una di queste era Aurelia Gregori, una ragazza triestina di ventitrè anni che partorì, in quell'inferno, una bambina alla quale diede poi il suo stesso nome.
   «Mia mamma non era ebrea e non era antifascista. Era una ragazza come tante. Fu presa da due fascisti che la sequestrarono e la portarono a Villa Triste dove fu stuprata. Poi l'hanno messa su uno di quei treni piombati, destinazione Birkenau».
   Villa Triste era in via Bellosguardo numero otto, a 'Trieste. Era stata la casa di una famiglia ebraica che, per spietato contrappasso, fu trasformata nella sede dell'Ispettorato speciale di Pubblica Sicurezza dove operava la banda Collotti che prendeva il nome da un funzionario di polizia che Paolo Rumiz ha così descritto: «Il capo era, tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziati — in gran parte sloveni del Carso e altri antifascisti dl lingua italiana — faceva sparare intorno musica ad alto volume». Molti sono stati torturati lì e anche nella caserma dei carabinieri di via Cologna. Ei sempre Rumiz a dare voce al racconto di quel martirio attraverso le parole di Sonia Amf Kanziani: «Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Cl picchiavano e Collotti guardava, impassibile. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno... Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena».
   «Mia madre» dice oggi Aurelia Gregori «lì fu violentata dagli aguzzini che poi l'hanno trasferita ad Auschwitz-Birkenau. Solo quando sono stata più grande mi ha raccontato ciò che aveva subito nel campo: le baracche, i corpi delle persone agonizzanti portati dentro la sera per essere spostati, morti, il mattino dopo. L'orrore delle kapò che si vendevano ai nazisti. Mi ha raccontato di quando ha contratto il tifo, al sesto mese di gravidanza, e di quante persone ha visto cadere intorno a lei per sfinimento, fame, freddo. Non ci si rende conto di cosa fosse l'inverno lì. Mamma andava con le altre prigioniere a vuotare al mattino i bidoni con le feci nella tundra, nel gelo, sotto zero e vestite di niente. Lei non ce la faceva più, voleva farla finita, era al nono mese, era stremata. Una sua compagna era fuggita e i nazisti, quando qualcuno scappava, scioglievano i cani che prendevano i fuggitivi e li sbranavano.
   Le Ss non si erano accorte che mamma era incinta perché lei era alta e nascondeva la pancia. Altrimenti l'avrebbero certamente mandata nella camera a gas. E stata fortunata e io con lei. Col tifo ha temuto di non farcela, mi ha detto che pensava: "Muoio e muoio insieme a te". Dio ci ha salvate, insieme. Io sono nata a gennaio. Il parto glielo hanno fatto fare su un tavolaccio di pietra. Mamma non aveva le doglie, le contrazioni, non riusciva a partorire. Era troppo debole, aveva fame, non mangiava nulla, aspettava che qualcuno morisse per prendere un pezzo di pane. Mi ha detto: "Dovevo far sopravvivere te e me. Eravamo in due. Io pensavo che saresti venuta fuori come un mostro. Se fosse stato così ti avrei lasciato lì, sotto la neve. Invece, nonostante tutto, eri una bella bambina. Avevi molti peli, e questo ti salvò dalla marchiatura col numero che i nazisti volevano farti".
   Mia mamma cercò invece, con un chirurgo, di far venire via quelle cifre impresse nel suo braccio. A Trieste, dopo la guerra, meno parlavi dei lager e dei nazisti e meglio era. Io, che lavoravo in ospedale nel reparto geriatrico, stavo zitta. Alla scuola elementare le maestre, che erano ebree, certamente avranno avuto un sobbalzo nel leggere il luogo in cui ero nata, ma non mi hanno mai detto nulla».
   Aurelia è rimasta in vita perché non era ebrea, altrimenti sarebbe stata eliminata come i tanti bambini le cui foto ogni giorno l'Auschwitz Memorial pubblica sui social network. Furono portati nel lager circa duecentotrentamila bambini e adolescenti, ne sopravvissero alcune centinaia. Ci sono pagine atroci come quella del martirio dei venti bambini ebrei sequestrati da Mengele per gli esperimenti e poi trucidati nella scuola di Bullenhuser Damm o il racconto che faceva Shlomo Venezia, uno dei deportati, che testimoniò di aver visto con i suoi occhi un neonato strappato dal seno della madre morta nella camera a gas e lanciato in aria dal nazisti che gli spararono così.
   Aurelia riprende a parlare: «Io non sono mai voluta andare ad Auschwitz, mamma invece ci è tornata con l'associazione. Lei ha sofferto tanto, per tutta la vita. Faceva la pulitrice dei condomini. È morta nel 2012, il 1q marzo».
   Di lei i freddi dati degli archivi dicono questo: «Aurelia Gregori (1921-2012), nata a Sant'Antonio (Villa Decani, Capodistria, oggi in Slovenia) viene arrestata il 24 maggio 1944 a Trieste nella sua abitazione di Largo Barriera Vecchia n. 1.4. Quando viene deportata ad Auschwitz, dove arriva il 25 giugno 1944, è incinta di tre mesi. Immatricolata con il numero 82120, resiste alle spaventose condizioni igienico-sanitarie del campo e il 13 gennaio 1945, due settimane prima dell'arrivo dell'Armata Rossa, riesce a dare alla luce una bimba che riceve il suo stesso nome: Zlatka/Aurelia Gregori. La bimba viene battezzata nel febbraio in una chiesa a Brzeszcze.
   Aurelia rientra a Trieste il 20 settembre 1945» .
   Dell'altro bambino nato ad Auschwitz si sa solo che, da grande, non ce l'ha fatta.

(Corriere della Sera, 14 gennaio 2021)


'Gli unicorni non prendono il Corona', il successo di Israele spiegato da Pacifici

"In un mondo occidentale sempre più confuso e stagnante, Israele rappresenta un'isola felice di sviluppo, crescita e positività", lo afferma Jonathan Pacifici, venture capitalist italo-israeliano, specializzato in investimenti nel settore hi-tech. Nel suo libro fresco di stampa "Gli unicorni non prendono il corona" (ed. Pacifici & Associates OÜ 2021), racconta di come Israele abbia rappresentato un pilot mondiale nella campagna di vaccinazione e come, oltre ad una grande accelerazione sul piano sanitario, abbia dato esempio anche sul fronte economico.
   In poco meno di tre settimane sono state vaccinate più di un milione e 700mila persone, il 70% delle quali sopra i sessant'anni. Il grande vantaggio del sistema sanitario israeliano è la digitalizzazione: ogni analisi, ogni visita medica, ogni esame clinico, ogni acquisto di medicinali è tracciato, registrato e disponibile sia per il paziente che per ogni struttura medica del paese. I sistemi informatici sono poi integrati con quelli delle forze dell'ordine, pur nel rispetto della privacy, e questo ha favorito l'opera di tracciamento, che qui ha davvero funzionato.
   Nel frattempo il settore hi-tech ha raggiunto nuovi record: 10,6 miliardi di dollari di investimenti nel settore, solo nel 2020. "Perché tutta questa fiducia nell'economia israeliana? Parte del segreto è nella locomotiva del settore tech che traina il paese e che non ha dato segni di crisi nemmeno in questi mesi di lockdown", afferma Pacifici.
   I suoi 45 'unicorni' (società private che hanno raggiunto una valorizzazione superiore al miliardo di dollari) hanno retto la crisi, e anzi 15 di questi si sono aggiunti proprio nell'annus horribilis, il 2020. Per questo l'autore cerca di rispondere nel suo libro al perché gli 'unicorni' non prendano il Corona. "È per questo che ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare a coloro che hanno voglia di fare gli imprenditori che un altro mondo è possibile ed esiste a tre ore di volo da Roma. E magari per far venire voglia ad altri di rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco".

(LaChirico, 14 gennaio 2021)


Vaccino covid: nei territori palestinesi arriverà a marzo

di Giacomo Kahn

Arriveranno a marzo i primi vaccini anti-Covid per i Territori palestinesi. Il governo dell'Autorita' nazionale palestinese (Anp) ha annunciato che fra due mesi sia i vaccini ordinati ad Astrazeneca, sia quelli russi, dovrebbero arrivare nel Paese e permettere l'inizio della campagna di vaccinazione. L'Anp e' stata la prima, in Medio Oriente, a registrare il vaccino russo Sputnik V. Il Fondo Russo per gli Investimenti Diretti, (Russian Direct Investment Fund, Rdif), ha diffuso la notizia con un comunicato, asserendo che il ministro della Salute palestinese ha approvato in emergenza il vaccino, come e' gia' successo per Algeria, Argentina, Bolivia e Serbia. Il vaccino russo arrivera' nei Territori grazie anche ai partner internazionali dell'Rdif India, Cina, Corea del Sud, tra gli altri paesi. La notizia pero' non smorza le polemiche con Israele per la fornitura dei vaccini.
   Dimostrando il tradizionale odio contro Israele, alcune Ong, tra le quali Amnesty International, nelle scorse settimane hanno accusato Israele di non voler offrire il vaccino ai palestinesi.
   Ma secondo gli accordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra i due stati, e' l'Autorita' palestinese, non Israele, responsabile per la salute dei palestinesi in Cisgiordania, vaccini compresi, tant'e' vero che i palestinesi residenti a Gerusalemme est, sotto controllo israeliano, sono già stati vaccinati in Israele.

(Shalom, 13 gennaio 2021)


Il gruppo Emirates Post espande le operazioni in Israele

DUBAI - Emirates Post Group (EPG) ha aggiunto Israele alla sua rete operativa globale a seguito dell'accordo ufficiale e dell'instaurazione di piene relazioni diplomatiche tra gli Emirati Arabi Uniti e lo Stato di Israele.
EPG ha stretto un legame con la sua controparte locale, Israel Post, per facilitare l'accesso a città e destinazioni in tutto il paese, fornendo un canale affidabile al nuovo mercato.
"Il nostro servizio completerà le promettenti relazioni commerciali tra i due paesi e rafforzerà la tolleranza, la comunicazione e lo scambio tra le due culture. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti e Israele sono entrambi paesi lungimiranti e la partnership con Israel Post porterà anche a uno scambio di idee, incoraggerà l'innovazione e aiuterà a sviluppare il settore", ha affermato Abdulla M. Alashram, Group CEO di Emirates Post Group.
Con l'ultima aggiunta, i clienti degli Emirati Arabi Uniti possono ora utilizzare i servizi postali e internazionali premium per Israele. I servizi postali sono attualmente disponibili in numerosi paesi, inclusi i servizi premium internazionali per oltre 190 destinazioni. Con la pandemia COVID-19 che continua a influenzare i viaggi e le operazioni internazionali, Emirates Post continua a lavorare con i suoi partner per ripristinare i servizi postali verso il maggior numero possibile di destinazioni.

(WAM Italian, 13 gennaio 2021)


"Juden Hier", scritta antisemita a Mondovì: la Procura chiede l'archiviazione del caso

L'episodio si era verificato nell'ultima decade del mese di gennaio 2020. Le parole in lingua tedesca erano state tracciate sulla porta dell'abitazione che un tempo fu della staffetta partigiana Lidia Rolfi

di Alessandro Nidi

È accaduto soltanto un anno fa, eppure, complice la pandemia di Coronavirus che ha sconvolto le nostre vite, sembra che siano trascorsi decenni interi: nella notte fra il 23 e il 24 gennaio 2020, uno o più ignoti tracciarono sulla porta dell'abitazione della staffetta partigiana di Mondovì Lidia Rolfi la scritta antisemita "Juden Hier", "Ebrei qui".
Parole tratte dal tedesco e impresse sul legno con vernice nera, accompagnandole con la stella di David.
Un gesto gravissimo, che toccò nel profondo l'intera comunità monregalese e del Piemonte tutto, che si riunì per manifestare in una suggestiva e significativa fiaccolata silenziosa lungo le vie del centro cittadino.
A quasi un anno di distanza, però, il lieto fine pare destinato a non arrivare: la Procura di Cuneo ha ufficialmente richiesto l'archiviazione del caso.
Nessun colpevole, dunque, per quel rimando alla "Notte dei cristalli" del 1938, ricordata nei libri di storia come una notte di atroci violenze nella Germania nazista contro gli ebrei.

(Cuneo24, 13 gennaio 2021)


La purga contro i conservatori

«Siamo a rischio bavaglio».

di Fiamma Nirenstein

Ancora otto giorni, e Trump scenderà dal palco. Si parla anche di impeachment, e questo farebbe gongolare molti: Trump ha detto che ne risulterebbe una enorme frustrazione che creerebbe altre terribili tensioni. È vero. L'accanimento ha preso il posto della discussione, la colpevolizzazione si è ormai riversata sui 70 milioni che l'hanno votato in modo da rendere impossibile un futuro equilibrato per gli Stati Uniti. Questo, anche se si riconosce, come fa chi scrive, il gravissimo errore della chiamata di Trump alla folla. Ma Trump è stato posseduto dalla sua hybris che non gli consente di perdere.
   E' evidente però nella furia dei commenti, nel disprezzo a 360 gradi, che il rischio nel ribadire l'indegnità di Trump condannando lui e i suoi uomini all'isolamento a vita sull'Isola del Diavolo, alla fine pretende la genuflessione pentita di una vasta parte di mondo, dell'universo conservatore. E mostra la prosopopea morale per cui chi non appartiene al credo progressista è abominevole. Questa messa al bando morale giunta a livelli incredibili nei posti di lavoro, nelle università, nella famiglie ha creato una barriera che ha causato la demenziale marcia su Capitol Hill. Una marcia anche criminale nel senso della violazione e della vandalizzazione di beni pubblici e dell'intenzione di questionare il verdetto morale delle urne. Ma non nel senso insurrezionale che gli si vuole attribuire, come ha spiegato l'avvocato Dershowitz, non una pianificata intenzione di fare a pezzi la democrazia, né un'espressione della natura diabolica e forse di un piano a lungo termine del presidente. L'intenzione che hanno attribuito a Trump e a quella folla è «insurrezione»: ma è difficile stabilire che cosa significhi, specie quando da maggio a settembre grandi folle di Black Lives Matter hanno stravolto il Paese con marce e proteste anche molto violente. Molti gli assalti alla polizia e la richiesta di eliminare la polizia del tutto. Era insurrezione? Probabilmente no. Solo il simbolo di Capitol Hill è più cogente e soprattutto l'istigatore l'uomo più odiato d'America, ma non da quei 70 milioni americani che non hanno intenzione di emigrare e non sono delinquenti.
   E allora? Che vuol fare Biden? Fra la folla di Capitol Hill la polizia sta individuando i responsabili della violenza: bene. Ma Twitter sospende tutti i commenti di quella parte politica, colpevoli solo di avere l'opinione sbagliata, Paypal blocca i pagamenti, i maggiori gruppi che coi loro soldi sostengono la politica pilotano le donazioni per ingraziarsi la nuova amministrazione. Non importa che anche Nancy Pelosi a suo tempo abbia dichiarato che la sua parte era stata battuta con la frode e abbia invitato a dimostrare.
   Ci si vanta di ripetere che chi è per Trump non toccherà più palla. Chi osa dichiararsi al suo fianco va messo al bando. Sparire dal consesso legittimato: a questo si spinge quando si proibisce a Trump (e non agli ayatollah o all'Isis o ai cinesi o agli Hezbollah) di accedere ai social. Trump viene travolto dal suo errore finale insieme alle buone cose che ha fatto: ha pilotato bene l'economia, ha incoraggiato gli arabi moderati e i disperati perseguitati che Obama aveva abbandonato, ha bloccato l'atomica genocida dell'Iran, ha svegliato il mondo sulla Cina, ha promosso una grande pace con i patti di Abramo, nonostante le sciocchezze dette sul Covid ha promosso la definizione e la produzione veloce del vaccino. Gli è mancato il fegato di perdere con grazia. Ma non era né un Mussolini né uno Stalin. Invece, è in atto una purga.
   
(il Giornale, 13 gennaio 2021)
   

L’elezione di Trump è stata considerata da una parte di chi non l’ha votato non come una frode, ma come una vera e propria ingiustizia. Una parte non l’ha accettato fin dall’inizio, lo ha moralmente delegittimato. L’occasione per colpirlo si è presentata soltanto alla fine, e si capisce quindi che ci sia adesso chi non vuole lasciarsela scappare. Trump ha dato fastidio a molti, come altri prima di lui, ma in un modo nuovo, dovuto in parte anche al suo nuovo modo di esercitare il potere. Ma si può presumere che uno dei fatti che ha accentuato l’antipatia di molti per lui è stato l’inaspettato favore mostrato verso Israele. Tutto gli si può perdonare, ma questo proprio no, penseranno molti. O meglio, più che pensare, avvertiranno nel fondo delle loro viscere. E tuttavia, per un incidente della storia è accaduto che al vertice di una delle più grandi potenze mondiali capitasse uno che per motivi non necessariamente elevati abbia comunque tentato del fare del bene a Israele. Era un pazzo, dicono alcuni. Forse è proprio per questo che l’ha fatto, penseranno altri. Ma quando c’entra Israele, c’è sempre di mezzo qualcosa che assomiglia alla pazzia. Si pensi per esempio che per benedire Israele Dio una volta usò un mago pagano, dunque un pazzo secondo la scienza, che era stato pagato con il preciso scopo di maledire quel popolo. All’occultista pazzo di quel tempo Dio fece fare una brutta fine, perché avrebbe voluto fare del male a Israele; al presidente pazzo dei nostri tempi invece alcuni vorrebbero fargli fare una brutta fine perché ha tentato di fargli del bene. M.C.


Sheldon Adelson, il figlio del tassista che farà la differenza in America e Israele

Dal "Ghetto di Boston" all'olimpo politico, il magnate dei casino'

di Giulio Meotti

ROMA - "Francamente, i Democratici non hanno il monopolio dell'avere un cuore", ripeteva Sheldon Adelson. La sua provenienza dal proletariato ebraico lo porterà, una volta straricco, a diventare un grande filantropo. Era nato il 4 agosto 1933, nel difficile quartiere di Dorchester, a Boston, che definiva un "ghetto ebraico". Il padre, di origine lituana, lavorava come tassista e si era fermato alle elementari; la madre gallese faceva la magliaia. "L'intera famiglia - i miei genitori, due fratelli e mia sorella - viveva in una camera da letto", ricorderà Adelson, scomparso ieri a 87 anni. A dodici anni prende in prestito i soldi da uno zio per acquistare un chiostro di giornali. Ma i soldi veri inizierà a farli con i distributori automatici. Nel 1979, lui e quattro soci avviano una fiera di computer a Las Vegas, la "Comdex". Questo anni prima che i computer proliferassero nelle famiglie e negli anni 80 e 90 quella di Adelson sarà la principale fiera di computer del paese (dalla vendita avrebbe ricavato 500 milioni di dollari). Ma il più grande successo di Adelson arriverà quando concentrò i suoi sforzi su Las Vegas, dove sarebbe diventato uno dei magnati del gioco d'azzardo più importanti al mondo con proprietà fino a Macao. E quando sei tra i venti uomini più ricchi al mondo (trentasei miliardi di ricchezza personale) inizi a pensare a dove buttarne un po'. La politica diventa la grande passione di Adelson.
   In Israele è diventato famoso per aver creato il quotidiano Israel Hayom nel 2007, dalla linea editoriale inequivocabilmente favorevole a Benjamin Netanyahu. Nella politica americana Adelson è stato uno dei più importanti megadonors del Partito Repubblicano negli ultimi cicli elettorali. Prima le campagne di George W. Bush, poi i cento milioni di dollari a Mitt Romney contro Barack Obama e infine, nel 2016, sebbene inizialmente non avesse sostenuto Donald Trump, Adelson finisce per versare decine di milioni di dollari nella sua campagna presidenziale.
   Si dice che Adelson sia passato all'incasso" svolgendo un ruolo importante nello spingere Trump a spostare l'ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, a ritirare gli Stati Uniti dall'accordo nucleare con l'Iran (contro cui Netanyahu si era a lungo battuto) e a riconoscere la sovranità israeliana sul Golan. Ma non solo politica. Adelson ha investito decine di milioni di dollari nel "Birthright", il programma che porta i giovani ebrei americani in viaggi organizzati in Israele, nell'Università di Ariel in Cisgiordania, la Samaria ebraica, e nella ricerca medica, gestita da sua moglie, la dottoressa Mirian Adelson, che si dice sia stata la forza trainante dietro molte delle sue posizioni su Israele.
   "Siamo come muratori", diceva lui. "Mescoliamo il cemento che collega una generazione di ebrei a un'altra". Volava in Israele otto volte all'anno con il suo jet e aveva pensato di andarci a vivere (aveva comprato un attico a Tel Aviv). Quando Forbes gli chiese se fosse giusto che i ricchi potessero finanziare le campagne dei politici, Adelson rispose: "Sono contrario al fatto che i ricchi influenzino le elezioni, ma finché sarà possibile, lo farò. Perché so che persone come George Soros lo fanno da anni, se non da decenni. Ho la mia filosofia e non me ne vergogno".
   Quando mise piede in Israele per la prima volta nel 1988 scelse di indossare le scarpe del padre, che quel viaggio non aveva mai potuto farlo.
   
(Il Foglio, 13 gennaio 2021)


I fascisti digitali: "ebrei al forno"

di Elena Loewenthal

Fra le tante cose che in questi mesi di pandemia sono cambiate radicalmente c'è anche la nostra percezione delle mura domestiche. Siamo rinchiusi in casa come in una prigione. Al tempo stesso essa è diventata uno spazio pubblico, lo scenario del dibattito politico e culturale: virtuale perché da remoto, eppure reale come gli scaffali di libri, i quadri appesi, i ninnoli di più o meno dubbio gusto sullo sfondo dei volti e delle voci. Oggi più che mai la casa è diventata il nostro rifugio, l'unico spazio al sicuro dalle incertezze del mondo, dal quale ci sembra di poterci affacciare all'esterno senza correre rischi, attraverso lo schermo del nostro device.
   Ma non è così. Perché oggi scopriamo che si può fare violenza anche passando per un'applicazione. «L'importante è non lasciarsi prendere dalla paura. Non cedere all'intimidazione», spiega Lia Tagliacozzo, autrice di un libro uscito da poco e intitolato «La generazione del deserto» (Marini editore), all'indomani della presentazione via Zoom organizzata dal Centro di Studi Ebraici di Roma e funestata da una vera e propria aggressione antisemita. «Era iniziata da poco, stava parlando Claudia Abbina, c'erano circa centoventi persone collegate, quando abbiamo sentito un vociare, delle urla che si avvicendavano con "ebrei ai forni", "stiamo tomando", `viva Hitler". Sul mosaico dello schermo sono anche comparse immagini di svastiche. E' durato tutto non più di due minuti perché gli amministratori della piattaforma hanno bloccato quei partecipanti. E ci tengo a dire che la presentazione del libro è ripresa regolarmente. No, non dobbiamo farci intimidire».
   Questo vergognoso episodio ci dice in fondo due cose. Due verità molto scomode, inaccettabili. La prima è che con una puntualità sconfortante gli episodi di antisemitismo — violenza verbale, simbolica o fisica che sia — si moltiplicano proprio intorno al Giorno della Memoria, di fatto spalmati su tutto il mese. E' come se questa ricorrenza fomentasse una rabbia cieca. Allora non si può non pensare che c'è qualcosa che non funziona nel modo in cui viene intesa questa commemorazione. Che non è, non deve essere un atto di ossequio alle vittime dello sterminio bensì la consapevolezza che quell'orrore fa parte della storia d'Italia e d'Europa. Perché il Giorno della Memoria riguarda non tanto gli ebrei quanto il resto del mondo: la nostra comune civiltà che ha visto, permesso e prodotto tutto questo. A ciò dovrebbe appunto servire il ricordo: a condividere quel passato invece di liquidarlo come altrui svendendo i propri sensi di colpa con un omaggio, magari a denti stretti, ai morti. No, non è affatto questione di senso di colpa — che è ingiusto e inutile — ma di coscienza storica. Intorno a questa memoria si avvita invece ogni anno la vergogna di aggressioni razziste e antisemite.
   La seconda è che a tutto questo si somma il disvalore aggiunto di una violenza capace di penetrare dentro le nostre case attraverso le piattaforme di incontro virtuale: ora sappiamo che cliccare su un link pub essere un gesto sinistro e niente affatto innocuo, capace di violare l'intimità e la sicurezza del nostro spazio domestico.

(La Stampa, 13 gennaio 2021)


Quegli ebrei protetti da una Resistenza diffusa

'Ci salveremo insieme' di Ada Ottolenghi ricostruisce la storia di una famiglia scampata alla Shoah grazie all'impegno della gente di Ravenna.

di Paola Naldi

Fu merito dell'artista Luigi Varoli e di sua moglie Annetta, di Mario e Gigina Tampieri, semplici contadini, di Vittorio Zanzi macellaio e commissario prefettizio di Cotignola ma antifascista, e poi di una schiera di persone comuni - la maestra Giacomina, i Rivalta, i Fontana, i Maiocchi, Beppo e sua moglie Teresina - se Guido e Ada Ottolenghi, con i figli Luisella, Emilia ed Emma, riuscirono a salvarsi nell'Italia fascista. Ebrei torinesi, arrivarono a Ravenna nel 1940, ma da quell'anno fino alla Liberazione la loro vita divenne una storia di fughe rocambolesche - da Cotignola a Roma, passando per Firenze - di paure, di risate e di solidarietà.
   A loro furono risparmiati la deportazione e il campo di sterminio ma, dopo la fine del conflitto e la morte del marito nel 1958, Ada sentì la necessità di raccontare quella "vita-non vita" comune agli ebrei italiani, affidando la memoria ad un manoscritto. Un resoconto domestico, preciso e intimo, trasformato in un libro, "Ci salveremo insieme. Una famiglia ebrea nella tempesta della guerra", che esce domani per il Mulino, con la prefazione di Liliana Picciotto, con le testimonianze dell'amica Rita Giacobbe (che aiutò gli Ottolenghi ad arrivare nella capitale) e del figlio Emilio.
   L'autrice, scomparsa nel 1979, scrive alla nipote Raffaella «sicura che tanti orrori non debbono essere stati invano e che la tua generazione debba conoscerli ancora direttamente da quelli che li hanno vissuti».
   Con quello spirito Ada racconta le vicende della famiglia. Guido, il capostipite, si dimostrerà padre e marito premuroso ma anche uomo di azione, imprenditore e sostenitore della Resistenza. Ada è una donna coraggiosa che saprà affrontare senza cedimenti anche l'incursione dei soldati tedeschi, piombati in casa per cercare armi e che se ne andranno con un bottino di prosciutti.
   Man mano che la Storia stringe i suoi lacci tremendi attorno la famiglia, il ritmo del racconto incalza e si seguono gli stravolgimenti imposti dal destino. Al loro arrivo a Porto Corsini gli Ottolenghi alloggiavano in una villa immersa nella pineta, con il cancello che portava direttamente alla spiaggia e con le stanze piene di gigli bianchi e profumatissimi: «Tutto era così in ordine, così lucido, così fuori del tempo», ricorda Ada. Costretti a fuggire troveranno riparo prima in un capanno da pesca, dormendo su letti di paglia, poi a casa dell'artista Luigi Varoli, con Guido rinchiuso per sei mesi in una stanza angusta, quindi in campagna dalla famiglia Tampieri, in una abitazione dal cortile pieno di fango. Ma agli Ottolenghi mancarono soprattutto la libertà e il diritto alla propria identità.
   Una privazione pesante compensata dalla solidarietà della gente: il romanzo in fondo ricorda i tanti italiani che, pur nella loro semplicità o nella penuria di mezzi, nascosero e diedero sostegno a ebrei, partigiani, perseguitati. Dividendo con loro le poche risorse, rischiando la vita. Fu la Resistenza di tutti, combattuta non con i fucili ma con stratagemmi e coraggio. Esemplare la fuga degli Ottolenghi verso Roma, con documenti falsi, su camion di militari tedeschi che, sottobanco ma ben remunerati, portavano su e giù per l'Italia merci e persone.
   Nel 2002, ai Varoli e agli Zanzi fu riconosciuto in Israele il titolo di "Giusti fra le Nazioni", destinato a quanti aiutarono gli ebrei europei durante le persecuzioni nazi-fasciste. Ad Ada Ottolenghi è intitolata la Biblioteca per ragazzi di Marina di Ravenna.
   
(la Repubblica - Bologna, 13 gennaio 2021)


Pompeo accusa l'Iran: «Nuova base di Al Qaeda»

A otto giorni dalla fine della presidenza di Donald Trump, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha accusato l'Iran di essere «la nuova base di Al Qaeda». Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha respinto le accuse definendole su Twitter «bugie guerrafondaio».
   Il New York Times ha scritto a novembre che la scorsa estate sarebbe stato ucciso in Iran dai servizi israeliani Abu Muhammad al-Masri, alto dirigente di Al Qaeda accusato di aver contribuito a pianificare gli attentati contro due ambasciate americane in Africa nel 1998; altre fonti hanno parlato in passato dell'ospitalità data dal regime sciita — per ragioni tattiche — alla leadership qaedista sunnita: familiari di Osama, luogotenenti e militanti di peso ospitati nel Paese. L'Iran ha sempre dichiarato che non ci sono terroristi di Al Qaeda sul suo territorio, e di aver sempre combattuto quel gruppo come pure l'Isis. Pompeo ha annunciato anche nuove sanzioni su 5 leader qaedisti, che sostiene siano basati in Iran o legati al Paese, e una ricompensa di 7 milioni di dollari per informazioni che portino all'identificazione e localizzazione di Muhammad Abbatay, noto anche come Abd alRahman al-Maghrebl.
   I consiglieri di Joe Biden vedono nelle dichiarazioni di Pompeo un ulteriore tentativo di ostacolare il ritorno all'accordo sul nucleare (Jcpoa) del 2015 voluto sia dal nuovo presidente che dalla leadership di Teheran.
   
(Corriere della Sera, 13 gennaio 2021)


Israele vuole vaccinare tutti i sopravvissuti alla Shoah

La ministra israeliana della diaspora Omer Yankelevich ha annunciato l’intenzione di vaccinare contro il Covid-19 tutti i sopravvissuti all’Olocausto, ovunque si trovino nel mondo: secondo il ministero ci sono circa 190.000 superstiti alla Shoah in Israele e altri 130.000 nel resto del pianeta.

di Davide Falcioni

Omer Yankelevich, ministra israeliana della diaspora
Tutti i sopravvissuti all'Olocausto dovranno essere vaccinati contro il Covid-19, ovunque si trovino nel mondo e qualunque sia la loro età: è l'obiettivo della ministra israeliana della diaspora Omer Yankelevich, che nei giorni scorsi ha incaricato l'ong ebraica Schalom Corps di potenziare le ricerche di tutti i superstiti della Shoah ancora in vita affinché vengano vaccinati nel più breve tempo possibile. Secondo la politica israeliana è necessario "restituire qualcosa ai sopravvissuti allo sterminio dei nazisti che, attraverso il loro coraggio, hanno permesso all'ebraismo di sopravvivere". Ad attuare il programma di immunizzazione dei reduci della Shoah sarà, per l'appunto, un'ONG che si è attivata per cercare donatori. Dal canto suo invece il governo ha avviato una trattativa con Pfizer e Moderna affinché vengano riservate dosi del vaccino allo scopo. Il piano non è stato ancora definito nei dettagli: secondo il ministero della Diaspora ci sono circa 190.000 sopravvissuti all'Olocausto in Israele e altri 130.000 in tutto il mondo, ma molti di questi potrebbero ricevere la prima dose a breve a prescindere dall'iniziativa di Tel Aviv. Si tratta, infatti, di anziani che rientrano tra i soggetti più vulnerabili, e dunque da vaccinare nel più breve tempo possibile insieme agli operatori sanitari.

(fanpage, 12 gennaio 2021)


Da Napoli un'app per proteggere i più piccoli dai rischi del web

Si chiama Keepers ed è nata in Israele. Ha scelto la città partenopea come centro di gestione dello sviluppo e della comunicazione sull'intero territorio nazionale.

Con il ritrovamento di alcune tracce maschili sul foulard di Tiziana Cantone - la giovane donna morta suicida dopo essere stata vittima della diffusione impropria di suoi scatti intimi - e la probabile riapertura delle indagini per omicidio, ma anche con alcuni episodi di revenge porn e di bullismo cui sono state vittime diversi personaggi del mondo dello spettacolo (Tiziano Ferro lo ha rilevato nel suo documentario), si riaccendono le luci su quel palco che è il web, dove spesso vanno in scena episodi da condannare e scongiurare. Revenge porn, cyberbullismo, messaggi violenti e pericolosi, truffe, adescamento, pedo pornografia, sono solo alcuni dei fenomeni che possono manifestarsi in rete, dalle chat di messaggistica ai social network.
  Ad esserne vittime sono soprattutto i più giovani, oggi più che mai esposti a causa del lockdown, della DAD e del conseguente tempo in più trascorso in rete. Il dato allarmante è che questi fenomeni sono in crescita costante. Va da sé che cresca anche la preoccupazione dei genitori per i propri figli, bambini e adolescenti, sempre più esposti alle summenzionate minacce. In questo la tecnologia si rende sempre più necessaria e si dimostra anche al passo con i tempi. Da circa due anni infatti, l'app di parental control Keepers, nata in Israele e disponibile in Italia in partnership con Vodafone, promette di proteggere i più piccoli dai rischi del web.
  Keepers, che ha scelto la città di Napoli come centro di gestione dello sviluppo e della comunicazione su tutto il territorio nazionale, rispetta la privacy dei bambini, motivo per cui è anche sostenuta dal Moige (Movimento Italiano Genitori) e dal Senato. Keepers garantisce di monitorare e osservare il comportamento del bambino tramite l'installazione sul proprio e sul suo cellulare, senza ledere la sua privacy e accedere al suo spazio digitale personale. Grazie a un sistema tecnologicamente avanzato, viene effettuata un'analisi dei contenuti presenti sul dispositivo del bambino e identifica tutte le situazioni allarmanti. Keepers intercetta i messaggi pericolosi sul cellulare dei più piccoli e avvisa il genitore: individua tutti i contenuti sospetti e pericolosi che arrivano sullo smartphone del bambino, via chat o social, allertando immediatamente.
  Cosa viene rilevato:
  • linguaggio offensivo tipico del bullismo e del cyberbullismo;
  • linguaggio sessuale non richiesto;
  • contatto da persone estranee al nucleo familiare e alla cerchia di amici;
  • qualsiasi pericolo che possa danneggiare la salute mentale del ragazzo.
   Il sistema è in grado di avvisare il genitore di una conversazione pericolosa, anche se non contiene parole offensive: grazie agli algoritmi di riconoscimento del linguaggio naturale, il cosiddetto NLP, vengono identificate le emozioni dal testo anche se non sono presenti parole esplicitamente lesive.
  Altre funzioni di Keepers:
  1. Blocco app.
    Grazie agli appositi filtri, Keepers permette di bloccare sullo smartphone del bambino gli accessi a tutti i siti o app ritenuti pericolosi o destinati ad un pubblico adulto o cui si vuole semplicemente limitare l'accesso.
  2. Scelta orari di utilizzo
    Tramite una sezione dedicata, è possibile stabilire gli orari di utilizzo di internet, app e navigazione web sul cellulare del bambino. Un esempio: dalle 22.00 alle 7.00 è l'ora del riposo, quindi si può decidere di bloccare gli accessi ad internet e scongiurare qualsiasi tipo di collegamento da parte del ragazzo.
  3. Definire le aree sicure
    Questa è una delle funzionalità più importanti e apprezzate di Keepers: la possibilità di poter tracciare costantemente la posizione del proprio figlio in tempo reale su una mappa. Appena il bambino uscirà dalle aree sicure (es. palestra o casa dell'amico) il genitore verrà avvisato.
  4. Alert se la batteria si scarica
    Appena il livello della batteria dello smartphone del bambino scenderà al di sotto del 10%, il genitore riceverà una notifica. Anche nel caso il dispositivo dovesse risultare offline.
  5. Controllo costante utilizzo app
  Grazie a Keepers, il genitore potrà avere una panoramica delle sue abitudini, scoprendo quali applicazioni utilizza maggiormente e soprattutto per quanto tempo. Si riesce quindi a capire se il bambino utilizza correttamente il proprio dispositivo oppure ne fa un uso eccessivo.
Il tuo browser non può riprodurre il video.
   Keepers ha, inoltre, una sezione blog sul sito italiano (https://www.keepersitalia.com/)nel quale si affrontano tematiche legate alla famiglia, al bullismo, alla scuola, alla psicologia, agli adolescenti, ai social e a tutto quanto concerne la vita contemporanea dei ragazzi, oggi resa aperta ai pericoli della rete. E' attualmente disponibile in Italia, Australia, Austria, Israele, Giappone e in espansione in altri Paesi quali Inghilterra e Germania, disponibile per iOS e Android.

(Napoli Today, 12 gennaio 2021)


Covid, così la campagna per i vaccini unisce i palestinesi e i soldati israeliani

A Gerusalemme est parte l'immunizzazione per la popolazione araba

di Sharon Nizza

 
Jabel Mukaber, quartiere di Gerusalemme Est popolato esclusivamente da palestinesi
GERUSALEMME - Le immagini delle sommosse che hanno infuocato in passato Jabel Mukaber sembrano lontane anni luce mentre giri per le strade con i soldati del Pikud haoref, che distribuiscono ai bambini braccialetti con su scritto, in arabo, "mascherina, distanza, igiene". Siamo in uno dei quartieri di Gerusalemme Est da cui, durante l'intifada dei coltelli, sono partiti diversi attentati e dove vedere soldati in divisa a passeggio era impensabile un tempo. Dal virus che non distingue tra religioni, qualcosa di buono sembra essere uscito, almeno per il complesso rapporto tra le autorità israeliane e Gerusalemme Est, dove vivono oggi 370.000 palestinesi. Questa parte della città, conquistata dalla Giordania quando contava 70.000 abitanti, fu annessa da Israele subito dopo la guerra del '67, a differenza di quanto accaduto con la Cisgiordania. Ai palestinesi venne data la residenza, con la possibilità di richiedere la cittadinanza e da allora, nonostante per Israele sia la capitale unica e indivisibile, di fatto le autorità l'hanno trascurata visibilmente.
   "Tu mi pari un poliziotto buono", dice ridendo uno dei bambini a Esam Saleh, che cammina con noi. Serve nella polizia di quartiere, una sorta di anello di congiunzione tra forze dell'ordine e territorio, a cui, da aprile, si è aggiunto il Pikud haoref, il Comando interno dell'esercito israeliano, la Protezione Civile di qui. "All'inizio siamo venuti senza divisa, per superare la diffidenza", dice Jonathan Ventura, professore di design industriale nella vita civile, maggiore di questa unità da riservista. Per lui, che ha deciso volontariamente di prolungare il periodo di riserva e da 180 giorni serve qui, è una missione e un'esperienza di vita. "Abbiamo creato legami forti con la gente, ci invitano a pranzo". Per arrivare a questa sinergia è stato fondamentale il coinvolgimento dei mukhtar e degli imam dei 16 quartieri di Gerusalemme Est. Molti di loro collaboravano già con il comune, attraverso la rete dei centri comunitari, come quello di Sur Baher, a sud della città, dove incontriamo Ala Dabash, che gestisce l'unità di crisi Covid. Prima della riunione di routine, si siede con i soldati a mangiare humus e ci raccontano del lavoro fatto insieme: distribuzione di cibo e medicine ai quarantenati, isolamento in hotel Covid e tamponi, e molta operazione di convincimento per ridimensionare i matrimoni, la causa principale della diffusione del virus. "Ho cercato su google cosa fosse Pikud haoref, non immaginavano che l'esercito potesse venire per aiutare", dice Ala. Ali Khaled, volontario del Magen David Adom (la Crocerossa israeliana), ha collaborato in passato con il Pikud haoref per corsi di formazione in gestione di emergenze "e così non siamo stati presi del tutto alla sprovvista".
   Il generale Ben Zvi Eliassi, a capo dell'unità creata ad hoc su richiesta del sindaco Moshè Lion, ora è concentrato a promuovere la campagna vaccini, che in tutte le comunità arabe va a rilento rispetto alla media nazionale, per via dell'ampia circolazione di fake news. "Con i leader comunitari che si vaccinano diffondiamo video spiegando che il vaccino non è pericoloso. Dall'inizio della campagna il 27 dicembre, i numeri sono in crescita".
   Se questo nuovo idillio influirà sul futuro dei rapporti tra residenti e autorità è ancora presto per dirlo. Il sindaco Lion, nei due anni di mandato, ha dato prova di voler fare dei cambiamenti, uno dei più significativi è la moratoria, in vista dell'approvazione di un nuovo piano regolatore, delle demolizioni di abitazioni illegali nel quartiere di Issawia, la piaga principale di quest'area. Un altro indicatore del vento di cambiamento è il costante aumento delle domande di cittadinanza israeliana. Per molti è un tabù, perché si rischia di essere minacciati in quanto "collaborazionisti della potenza occupante". Ma, come osserva uno di loro, "il passaporto lo metti in tasca e non lo vede nessuno". L'avvocato Khalil Alian di Bet Safafa ringrazia "il coronavirus per averci dato l'opportunità di unirci". Anche questi paradossi accadono nella città santa.
   
(la Repubblica, 12 gennaio 2021)


Forze armate israeliane: alle stelle il gradimento dei cittadini

 
PARMA- Le forze armate israeliane restano l'istituzione di cui gli israeliani si fidano maggiormente. Assai minore è l 'indice di gradimento, invece, verso le altre istituzioni. Lo ha dichiarato l'Istituto israeliano della democrazia, che segnala come vi sia ben l"81 per cento degli israeliani a dichiararlo.
Nei confronti del Capo dello Stato la fiducia scende al 56 per cento mentre la fiducia nel governo è del 25 per cento, nel parlamento il 21 per cento e nei partiti del 14 per cento.
"Due terzi degli israeliani temono che la nostra democrazia sia in grave pericolo" ha affermato l'Istituto. "La solidarietà sociale ha toccato il livello più basso degli ultimi 10 anni".
Mentre Israele andrà a marzo alle quarte elezioni in meno di due anni, il capo dello stato Reuven Rivlin ha denunciato la "erosione" dei valori provocata dal comportamento della classe politica e ha avvertito: "Non dobbiamo permettere che le scene terribili viste a Washington a Capitol Hill siano un anticipo di eventi analoghi a Gerusalemme" .

(Congedati Folgore, 12 gennaio 2021)


«Europa in ritardo». E Cipro chiede il siero a Israele

Il presidente di Cipro, Nicos Anastasiades, ha chiesto al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, di valutare la possibilità di fornire al suo Paese una certa quantità di dosi del vaccino anti-Covid. Lo ha confermato in un'intervista al quotidiano Politis in cui ha criticato l'Ue «per i ritardi nell'approvazione dei vaccini». «Ho contattato Netanyahu e gli ho chiesto di considerare la possibilità di fornire una quantità per la Repubblica di Cipro. La valuterà e in pochi giorni avremo una risposta», ha dichiarato il leader cipriota.
   Alla domanda se la decisione non sia in contrasto con la politica di approvvigionamento vaccinale dell'Ue, Anastasiades ha chiarito: Non credo che ci sia un problema del genere. È uno sforzo che il nostro Paese sta compiendo per accelerare le vaccinazioni, visto il ritardo nella produzione dei vaccini. Ma sarebbe sicuramente stato un problema se questi vaccini provenienti da Israele non fossero già stati approvati dall'Ue». Il capo di Stato ha criticato Bruxelles perché «è stata molto lenta nel decidere il vaccino», «Una cosa che può essere attribuita all'Ue è di aver dato troppo peso all'inizio al siero di AstraZeneca perché era uno studio finanziato anche dall'Ue, Le indicazioni iniziali erano state molto incoraggianti, ma a un certo punto c'è stata una battuta d'arresto nella sua effìcacia», ha spiegato Anastasiades. «Il risultato è che sono arrivate prima due aziende ma non con abbastanza dosi per fare vaccinazioni di massa in modo rapido».

(Libero, 12 gennaio 2021)


L'eversiva dittatura dei social media

di Dimitri Buffa

La circostanza più grave emersa in questi giorni dopo il tragico epilogo dell'assalto farsesco a Capitol Hill - al netto dei morti che ci sono scappati, quasi tutti provocati dalle regole di ingaggio dei poliziotti americani che prima sparano e poi chiedono i documenti a chiunque e non solo ai neri dei ghetti - è stata quella emersa dal constatare che i social network, come Facebook e Twitter, si comportano come se fossero delle entità statali sovranazionali indipendenti, con loro leggi e regole spesso incomprensibili e gravate dal famigerato doppio standard. Si censura Donald Trump, perché implicitamente inviterebbe alla violenza e alla insurrezione - facendo un processo alle intenzioni degno di migliore causa - ma si ignorano, facendo finta di niente, i tanti account presenti nei due principali social mondiali intestati ad Hamas, alle Farc (Forza armate rivoluzionarie della Colombia), agli Hezbollah, agli Ayatollah iraniani e alle organizzazioni rivoluzionarie armate di mezzo mondo, anche a trazione islamica, che invitano esplicitamente all'assassinio di ebrei, crociati e capitalisti in nome del futuro radioso che verrà.
  Esiste quindi un problema di imperialismo di questi social media che dettano le regole per continuare ad avere un account dopo averlo reso negli anni e nella consuetudine indispensabile per esistere, anche politicamente parlando, al giorno di oggi. E meno male che a suo tempo proprio il tanto deprecato Donald Trump si era opposto a che Facebook battesse una propria cripto valuta. Sennò a quest'ora il circolo si sarebbe chiuso con il relativo patatrac. Infatti, questa prepotenza para tirannica dei vari Mark Zuckerberg e questo opportunismo politico, mascherato da buonismo, sta rivelando di che pasta siano fatte queste nuove espressioni della comunicazione globale: trattasi niente altro che di lobby che parassitano i nostri dati, per rivenderseli sotto banco a imprese di mezzo mondo che ci controllano persino negli spostamenti, oltre che nei gusti relativi ai consumi. Inoltre, gestiscono arbitrariamente un controllo politico e sociale sulle nostre opinioni e sui nostri comportamenti. Uniformando il metro di giudizio a una sorta di minimo comune denominatore che tanto assomiglia a quello del neo-maoismo cinese di Xi Jinping.
  A questo punto urlare contro la presunta eversione trumpiana culminata nell'assalto di Capitol Hill e non vedere cosa in realtà stia bollendo in pentola equivale a quella imbecillità - consapevole o indotta - di coloro che guardano il dito invece della luna indicata. Viene in mente che questa atmosfera da Terza guerra mondiale non ancora dichiarata sia il frutto non tanto e non solo dalla pandemia di quello che Trump giustamente chiamava "virus cinese" quanto di una tendenza di tutte le democrazie liberali al "cupio dissolvi" in nome del "politically correct". Prendersela ora con Trump come se "la malattia" fosse lui - e non magari solo un grave sintomo - equivale per analogia a giustificare il terrorismo islamico, facendosi scudo della causa palestinese. Trump è infatti solo un aspirante e forse persino compiaciuto capro espiatorio della crisi mondiale, politica ed economica, mentre quella causa è da sempre una foglia di fico di quei Paesi che non riconoscono il diritto di Israele ad esistere. Se il dibattito geo politico mondiale è ancora fermo a questo, siamo freschi. Anzi freschissimi.

(l'Opinione, 12 gennaio 2021)


Israel Start-Up Nation, Chris Froome: "Questo nuovo progetto mi ringiovanisce"

"Voglio lottare per vincere il Tour"

di Michele Carpani

 
Quello di Chris Froome alla Israel Start-Up Nation è stato un trasferimento che ha fatto parlare tanto fin dalla scorsa estate. Ora, per la prima volta, il britannico ha raccontato del suo passaggio alla formazione israeliana dopo i grandi successi conquistati nelle undici stagioni vissute in maglia Sky. Per il Keniano Bianco questo 2021 rappresenta la grande occasione del rilancio per ritornare al suo livello, dopo la terribile caduta del Giro del Delfinato 2019, per dare poi l'assalto al quinto Tour de France, in vista del quale si sta meticolosamente preparando in California.
  Il britannico ha raccontato di come sia nata la trattativa per il suo arrivo nella squadra israeliana e di come questo cambiamento, oltre a dargli nuove motivazioni, possa riguardare anche il suo futuro una volta che avrà smesso con le corse: "È stata una decisione importante venire qui. Quando sono stato contattato da Carlström, mio ex compagno di squadra e ora team manager della Israel, non mi ci è voluto molto per parlare con il patron Sylvan Adams. Abbiamo subito avuto un bel rapporto, grazie alla sua passione. Siamo velocemente arrivati alla conclusione che cambiare squadra dopo tanti anni per me non sarebbe stato solamente un accordo di un anno o due, ma qualcosa che sarebbe durato fino alla fine della mia carriera, potenzialmente anche oltre".
  Ha poi anche spiegato che l'approdo alla corte di Sylvan Adams rappresenti per lui una nuova pagina della sua carriera che dopo tante stagioni nello stesso team aveva bisogno di nuove motivazioni: "Dopo tanti anni con la stessa squadra, era un po' come un copia-incolla per me. Cambiare squadra, in questo momento della carriera, a 35 anni e dopo un grave infortunio, penso mi possa dare più stimoli e motivazioni. Questo nuovo progetto e questo nuovo capitolo in qualche modo mi ringiovanisce".
  Sicuramente le motivazioni per fare bene in questa stagione non mancano, come si evince anche dalla meticolosità della sua preparazione: "Dalla fine dell'anno scorso sono venuto in California per iniziare a prepararmi alla stagione seguente, trovando un clima decisamente migliore rispetto che in Europa. Oltre al lavoro su strada, ho lavorato molto al Red Bull High Performance Center. Durante l'inverno mi sono concentrato molto sul lavoro di equilibrio, bilanciamento e sulle debolezze che ancora avevo in seguito all'infortunio. Ora mi sento ottimista in vista della nuova stagione".
  Quello della formazione israeliana è un progetto accompagnato anche da una valenza sociale, che guarda anche allo sviluppo del ciclismo in Israele, e Froome ci vede delle similitudini con quanto è stato fatto in Gran Bretagna proprio dalla sua ex squadra: "Un progetto come questo ha grande potenziale, specialmente se lo si guarda da un punto di vista del ciclismo locale. Vedendo a quello che ha fatto la Sky per il ciclismo britannico, dai bambini agli adulti, per avvicinarli al ciclismo, penso che qui si possa fare qualcosa di simile. Spero che in futuro vedremo ancora più giovani ciclisti israeliani".
  Infine, ammette che i suoi obiettivi non sono certo cambiati, col Tour de France sempre in cima ai suoi pensieri: "I miei obiettivi non sono cambiati. Voglio tornare al mio livello migliore, voglio lottare per le vittorie al Tour e agli altri Grandi Giri. Non vedo l'ora inizi la stagione 2021. Spero che possa essere l'inizio di una partnership di successo".

(SpazioCiclismo, 12 gennaio 2021)


Ebrei, raid con immagini e video nazisti alla presentazione di un libro su Zoom

Irruzione sulla piattaforma davanti a un centinaio di partecipanti. Lia Tagliacozzo stava parlando della storia della sua famiglia. «Faremo denuncia alla polizia postale contro gli zoombomber».

di Paolo Brogi

Hanno tentato di far saltare la presentazione di un libro sulla Shoa, irrompendo sulla piattaforma zoom con video e immagini naziste, accompagnati da scritte e insulti in diretta contro gli ebrei. «Ebrei ai forni», «Vi bruceremo tutti», svastiche, immagini di Hitler: è successo alle 17,45 di domenica mentre su Zoom era stata da poco avviata la presentazione del libro di Lia Tagliacozzo «La generazione del deserto», con sottotitolo «Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia». A promuovere l'incontro sul libro dell'autrice romana il Centro di studi ebraici di Torino, in collaborazione con Istoreto (Istituto storico della resistenza a Torino). Presenti Fabio Levi, presidente del Centro internazionale di studi Primo Levi, Claudia Abbina, consigliere di Istoreto, e Alberto Sadun, del Centro di studi ebraici, in veste di organizzatore e moderatore. Sull'irruzione, un vero e proprio raid in Rete, il Centro di studi ebraici ha deciso di presentare una denuncia alla polizia postale, come ci ha anticipato oggi Alberto Sadun.
   «Ci hanno provato e non ci sono riusciti - commenta l'autrice del libro edito da Manni -. Volevano certamente bloccare la presentazione ma non hanno raggiunto lo scopo. E' stato un brutto momento ma gli organizzatori sono riusciti ad espellerli. Non dobbiamo però aver paura e chiuderci, aver sventato questo attacco di Zoombombing, che pare sia già successo altre volte, deve indurci ad usare al meglio le piattaforme». L'irruzione è avvenuta mentre stava parlando Claudia Abbina dell'Istoreto. All'improvviso sono entrate sullo schermo condiviso dai partecipanti - oltre un centinaio di iscritti all'evento - immagini di video nazisti accompagnati poi da una parte sonora, dal vivo, con risate, inneggiamenti ad Hitler e minacce varie come «torneremo a prendervi».
   Per quasi due minuti il delirio antisemita è andato avanti mentre gli organizzatori provvedevano a mettere al sicuro l'incontro, espellendo gli intrusi. Per avere il via libera gli intrusi hanno utilizzato una procedura complessa, che ora il Centro studi ebraici sta cercando di ricostruire con l'aiuto di Zoom e di uno studio legale. Infatti per ottenere il link con cui collegarsi all'evento ospitato da Zoom occorreva inviare, come avviene normalmente, un'email di contatto alla quale far pervenire il link-password. Che cosa è successo allora? «Sono state usate email con nomi di persone conosciute delle comunità ebraiche italiane - spiega Alberto Sadun -, email fasulle create ad hoc evidentemente per potersi accreditare, nascondendosi dietro il paravento di nomi piuttosto noti. Ad occuparci della trasmissione eravamo in due, il presidente del Centro ed io, e ci eravamo suddivisi il compito per far entrare il centinaio di collegamenti. Quando è scattata l'irruzione ci siamo precipitati a silenziare gli intrusi. E' stato un attacco serio, volevano far finire l'incontro, per fortuna l'evento è poi proseguito e il loro scopo è fallito. Ora con l'auiuto di Zoom cercheremo di capire chi sono e procederemo legalmente nei loro confronti».

(Corriere della Sera - Roma, 11 gennaio 2021)


«Ho lasciato l'esercito a causa dell'antisemitismo»

La testimonianza di una recluta ebrea che aveva cominciato la scuola reclute

BERNA - «Cosa succederà quando scopriranno che sono ebreo?» È questa la domanda che si è posto a più riprese un giovane di diciannove anni che aveva cominciato la scuola reclute, convinto che fosse la scelta giusta. Ma che poi si è accorto che quotidianamente era confrontato con barzellette e battute a sfondo antisemita.
   La sua storia viene raccontata dal Tages Anzeiger, nell'ambito di un reportage che parla proprio dell'antisemitismo presente nell'esercito svizzero. Una storia, quella del giovane, che si è poi conclusa con la sua decisione di lasciare la scuola reclute per dedicarsi al servizio civile.
   In particolare il diciannovenne racconta di un gioco che avveniva con un sergente: quando il sottufficiale gridava «Hollywood! Hollywood!», le reclute dovevano farsi venire in mente una barzelletta. Una di loro doveva quindi raccontarla. E se il sergente non la trovava divertente, tutta la sezione deve fare flessioni. Nella maggior parte dei casi si trattava di barzellette sugli ebrei.
   Poi non mancavano i momenti in cui i camerati parlavano appassionatamente di Adolf Hitler. In un gruppo WhatsApp erano frequenti gli scambi di meme sul nazismo.
   Una situazione, questa, che preoccupava molto la giovane recluta. In particolare per il fatto che gli altri non sapevano nulla sulle sue origini ebraiche. Il diciannovenne aveva provato a parlarne con i superiori, che lo avevano invitato a dirlo agli altri. Ma lui non se la sentiva proprio, temendo anche per la propria incolumità. E alla fine ha allora deciso di abbandonare l'esercito.

 Situazione pericolosa
  «Non sono certo che le reclute siano effettivamente antisemite. Forse alcune hanno convinzioni di estrema destra. Ma i giovani condividono le immagini di Hitler soprattutto perché in questo modo oltrepassano dei limiti» afferma Dirk Baier, responsabile dell'Istituto di delinquenza e prevenzione della criminalità all'Università di scienze applicate di Zurigo (ZHAW), interpellato dal quotidiano zurighese.
   Ma l'esperto non minimizza la situazione e la definisce come «pericolosa». Se il giovane ebreo avesse informato gli altri sulle sue origini, «non avrebbe dovuto per forza accadere qualcosa, ma c'era comunque il rischio che venisse discriminato o anche attaccato fisicamente».

 «Tolleranza zero»
  Sul fenomeno prende la parola anche l'esercito, che parla di «tolleranza zero». Così il comandante di corpo Hans-Peter Walser: «Ogni caso di discriminazione è una caso di troppo e mi dà personalmente dispiacere». Sono situazioni che vanno affrontate e non ignorate, secondo Walser. Vanno quindi notificate al comandante di compagnia, «che si può rivolgere al Servizio specializzato per l'estremismo, al Servizio specializzato Diversity, alla giustizia militare, all'assistenza spirituale dell'esercito, al servizio psicologico e pedagogico, al servizio sociale».

(tio.ch, 11 gennaio 2021)


Hitler abolì il "gotico", perché carattere ebreo

di Roberto Giardina

Mio padre era professore di "Storia del diritto italiano", materia affascinante e difficile. Fotografava con la Leica antichi libri e sviluppava da solo le foto che appendeva a asciugare come un bucato di carta lucida. A due o tre anni, vedevo apparire strani segni, che mio padre riusciva a leggere. Un rito magico, e fu il mio primo incontro con il tedesco. Erano lettere in gotico. Oggi, pochi tedeschi riescono a leggerlo, io ci riesco con molta fatica, se proprio sono obbligato.
   La "Frankfurter Allgemeine Zeitung" fu l'ultima a stampare in gotico il titolo dell'articolo di fondo in prima pagina, per vezzo intellettuale, fino a pochi anni fa, infine si arrese. Nel 1983, il pittore e falsario Konrad Kujau ingannò gli esperti di tutto il mondo con i diari di Hitler, scritti di suo pugno. Sulla copertina di uno dei quaderni, la "F" in metallo di Führer, in gotico era in realtà una "B", e nessuno se ne accorse. Una beffa di Kujau. Gli esperti avrebbero dovuto sapere che Hitler odiava l'antica scrittura, perché la considerava creata dagli ebrei, e la vietò esattamente ottanta anni fa, nel gennaio del 1941, come racconta lo storico Anatol Regnier nel saggio "Jeder schreibt für sich allein" (Beck Verlag; 26 euro), ognuno scrive per sé. Un paradosso: il gotico, simbolo della cultura tedesca, inventato dalla razza inferiore.
   "Nevica o tira vento, è sempre colpa degli ebrei", è la beffarda canzone scritta da Friedrich Holländer (1931), An allen sind die Juden schuld, sulla musica dell'Habanera di Bizet. Holländer se ne fuggì all'estero
Refrain:
An allem sind die Juden schuld!
Die Juden sind an allem schuld!
Wieso, warum sind sie dran schuld?
Kind, das verstehst du nicht, sie sind dran schuld.
Und Sie mich auch! Sie sind dran schuld!
Die Juden sind, sie sind und sind dran schuld!
Und glaubst du's nicht, sind sie dran schuld,
an allem, allem sind die Juden schuld!
Ach so!
già nel 1933, appena Hitler giunse al potere. Ma in questo caso sono innocenti, non è vero che il gotico fosse una "scrittura ebraica", come Martin Bormann spiegò nell'editto che lo vietava per i libri e giornali. Perfino il "Völkischer Beobachter", il giornale del partito nazista era scritto in gotico, che a quel tempo tutti i tedeschi, o quasi, riuscivano a leggere. Cambiò il carattere il primo febbraio.
Gli ebrei, secondo Bormann, si erano impadroniti nel XV e XVI secolo delle tipografie, e avevano imposto i loro caratteri. A causa di questa "congiura ebraica", il gotico si era diffuso nella Mitteleuropa, e perfino tipografi cristiani come Thomas Anshelm a Tubinga o Johannes Boeschenstein a Augsburg, usavano questi caratteri.
   Un falso storico, probabilmente l'editto linguistico non è neanche imputabile personalmente a Hitler, che nel '41 aveva altre preoccupazioni. All'inizio della stampa, agli ebrei non era consentito lavorare o tanto meno gestire una tipografia. Era permesso a pochi, come l'ebreo Antonius Margaritha, a Francoforte, che si era fatto battezzare.
   Sarà stata l'idea dello stesso Bormann, o di qualche altro zelante collaboratore. Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda, commentò nel diario: «Sehr gut… molto bene, così i bambini oggi non dovranno più imparare un alfabeto superato, e il tedesco potrà diventare veramente una lingua mondiale». Dieci giorni dopo, Hans Heinrich Lammers, capo della Cancelleria, nel comunicare l'ordine a tutti gli uffici pubblici e ministeri, si dimentica degli ebrei, e si limita a spiegare che «il gotico danneggia gli interessi tedeschi all'estero perché molti che parlano la nostra lingua hanno difficoltà a leggere questi caratteri». Paradossale che ancora due anni dopo, nel 1943, parte delle nuove edizioni del "Mein Kampf" di Hitler venissero stampare in gotico.

(Il Deutsch Italia, 11 gennaio 2021)


Biden su Israele seguirà molto Trump

La possibile continuità su molti fronti con l'amministrazione uscente

Scrive il Jerusalem Post (7/1)

L'assalto al Campidoglio e le affermazioni infondate secondo cui le elezioni sono state "rubate" al presidente americano uscente Donald Trump non hanno nulla a che fare con Israele. Ma Israele dovrà fare i conti con l'eredità di Trump e la sua enorme impronta in Medio Oriente.
   Ripercorrendo gli ultimi quattro anni, è impressionante il numero di scelte politiche fatte da Trump che corrispondono alle ragioni e agli interessi di Israele. L'amministrazione Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan, ha presentato un piano di pace tra Israele e palestinesi che poteva essere scritto dallo stesso primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. L'amministrazione Trump ha dichiarato che gli insediamenti non sono di per sé illegali, ha permesso agli americani nati a Gerusalemme di scrivere "nato in Israele" sul loro passaporto e ai beni prodotti in Giudea e Samaria di essere etichettati come "made in Israel". L'amministrazione Trump ha abbandonato l'accordo sul nucleare del 2015 che piaceva tanto all'Iran e lo ha sostituito con sanzioni e ancora sanzioni. Poi ha convinto altri paesi della regione, che vedono nell'Iran un pericoloso nemico, a firmare storici accordi di pace con Israele.
   Netanyahu e molti altri in Israele non hanno risparmiato elogi al mercuriale presidente americano, noto per essere molto sensibile dall'adulazione. Non che i complimenti non fossero sinceri. E i sondaggi d'opinione hanno ripetutamente mostrato che la maggior parte degli israeliani approvava Trump. A un certo punto hanno mostrato che Israele era il paese dove Trump piaceva di più al mondo. L'effetto è stato quello di creare un'identificazione quasi totale tra Israele e Trump, insieme alla totale identificazione fra Trump e le recenti politiche statunitensi verso Israele. Ora che Trump termina la sua presidenza aizzando i suoi sostenitori che danno l'assalto al simbolo della democrazia americana, il rapporto Usa-Israele rischia di andare a fondo insieme a lui? Alcune di queste politiche - va sottolineato - godevano di un sostegno bipartisan anche negli Stati Uniti. Ad esempio, il neo eletto presidente Biden è stato a suo tempo uno dei membri del Congresso che hanno firmato il disegno di legge originario per lo spostamento dell'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, e di recente ha detto che non intende riportarla a Tel Aviv. Biden si è anche espresso apertamente a favore degli Accordi di Abramo. L'ampio sostegno al normale accoglimento di Israele fra i paesi del Medio Oriente e il vasto sostegno israeliano a molti dei passi compiuti da Washington negli ultimi quattro anni - non il presidente sotto il quale sono stati fatti quei passi - dovrebbe essere ciò che la leadership israeliana sottolinea al fine di preservare quei risultati.
   
(Il Foglio, 11 gennaio 2021)


La messa dopo 54 anni sulle rive del Giordano dove fu battezzato Gesù

La celebrazione dei frati francescani. Il presidente israeliano: "Torni un'oasi di fede"

di Sharon Nizza

 
Qasr el-Yahud, sulle rive del Giordano
GERUSALEMME — Cento anni dopo l'acquisto dei terreni, 54 dopo che vi fu celebrata l'ultima messa, ieri i frati francescani hanno potuto accedere nuovamente alla chiesa di San Giovanni Battista sulle rive del fiume Giordano. Siamo a Qasr el-Yahud, "il castello degli ebrei", che le tradizioni religiose identificano come il varco d'ingresso di Giosuè nella terra promessa e come il luogo del battesimo di Gesù.
   Negli anni, otto confessioni cristiane hanno costruito qui monasteri, per ripercorrere la tradizione del pellegrinaggio. Poi, la guerra dei Sei Giorni e il confine tra Israele e Giordania che segue il tragitto del fiume — in questo punto di pochi metri — hanno trasformato l'area in un campo minato per respingere i nemici e costretto i frati all'abbandono.
   «Abbiamo firmato lo stesso registro della messa che utilizzarono gli ultimi frati nel 1967, l'abbiamo trovato intatto nel 2018. Possiamo dire di aver voltato pagina, speriamo anche rispetto al 2020», ci dice padre Ibrahim Faltas, che per la Custodia ha seguito il percorso che ha portato i francescani a riprendere possesso del sito. Una chiesa piccola che spicca nel suggestivo paesaggio del deserto della Giudea, pochi chilometri a est del Monte delle Tentazioni a Gerico.
   Nel 2011, Israele — che secondo gli Accordi di Oslo amministra l'area — aveva già aperto ai turisti l'accesso a parte del sito battesimale, meta per migliaia di pellegrini. La guerra con la Giordania è cosa del passato dal 1994, ora al massimo la battaglia è contendersi i turisti post Covid, che potranno scegliere da quale sponda immergersi nel Giordano.
   Nel 2018, l'ong Halo Trust è intervenuta per la bonifica delle aree minate, eliminando oltre 4 mila ordigni e soprattutto riuscendo in un'impresa non da poco nella terra dello statu quo: mettere d'accordo le diverse denominazioni cristiane, nonché le autorità israeliane e palestinesi.
   Ad ottobre le chiese hanno ottenuto nuovamente l'accesso ai monasteri abbandonati dal 1967. La Custodia di Terra Santa è stata la prima ad avviare i lavori di restauro che hanno consentito di svolgere ieri la liturgia, emozionante seppur ridotta secondo gli standard anti Covid.
   «Questo luogo, da campo di guerra, minato, è tornato ad essere un campo di pace, di preghiera», ha detto nell'omelia il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, che ha ringraziato il presidente israeliano Reuven Rivlin per aver «fortemente voluto la restituzione di questi luoghi santi alle chiese».
   Rivlin, dal 2015, in accordo con le autorità giordane e palestinesi, si è fatto promotore del progetto "Terra dei Monasteri", discusso anche con Papa Francesco, invitato dal presidente israeliano a inaugurarlo a lavori terminati, forse già nel 2021.
   In un messaggio consegnato a Repubblica, il presidente israeliano esprime la volontà di «far sì che il sito del battesimo di Gesù torni a essere un'oasi di fede e speranza, dove cristiani, ebrei e musulmani potranno creare un luogo di pellegrinaggio e preghiera, di pace e collaborazione».

(la Repubblica, 11 gennaio 2021)


Nel suo 17esimo anno di un mandato di quattro anni, Abu Mazen indirà nuove elezioni?

L'opinione pubblica palestinese è molto scettica circa la notizia dell'ennesima intesa tra Fatah e Hamas: "Non crederemo davvero alle elezioni fino al giorno dopo che si saranno tenute"

Sabato scorso ricorreva il 16esimo anniversario delle seconde elezioni presidenziali palestinesi, quelle che videro Abu Mazen (Mahmoud Abbas) vincere con 62,52% dei voti e diventare il secondo presidente dell'Autorità Palestinese dopo Yasser Arafat. Abu Mazen, che ora ha 85 anni, venne eletto per un mandato di quattro anni che è scaduto nel 2009. Da allora i palestinesi non hanno tenuto altre elezioni presidenziali, principalmente a causa della spaccatura tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza, dovuta al feroce contrasto tra la fazione Fatah, che fa capo ad Abu Mazen, e Hamas che controlla la striscia di Gaza.
Di recente Abu Mazen ha subìto crescenti pressioni, soprattutto da parte della comunità internazionale, affinché consenta ai palestinesi di votare in nuove elezioni. Secondo la Legge Fondamentale palestinese, un presidente non può essere eletto per più di due mandati consecutivi.

(israele.net, 11 gennaio 2021)


La lezione dello Stato ebraico. Israele vaccina tutti, noi richiudiamo tutto

Arnon Shahar, capo della profilassi: «Immune un cittadino su 5, ad aprile finiamo. Visti gli errori italiani, abbiamo deciso di curare e fare iniezioni fuori dagli ospedali»

di Alessandro Gonzato

STADI E PALESTRE
«Vacciniamo in stadi e palestre, ogni infermiere vaccina 7,5 persone all'ora»
OFFERTA IN AIUTO
«Quando avremo finito potremo aiutare chi è più indietro»

 
In Israele si è specializzato in Medicina di famiglia, dirige una grande clinica privata, 10 mesi fa il premier Benjamin Netanyahu gli ha affidato la direzione della gestione dei pazienti Covid e poi quella vaccinale. «Domani», ci dice (oggi per chi legge, ndr ), «mi sottopongo alla seconda iniezione: la prima l'ho ricevuta il 20 dicembre, come gli altri componenti della squadra sanitaria».

- La vaccinazione della popolazione, invece, quand'è iniziata?
  «Il giorno dopo».

- Una settimana prima del "Vaccine-Day" europeo.
  «Eravamo pronti alla somministrazione già settimane prima dell'arrivo del vaccino Pilzer-Biontech. Abbiamo preparato medici e infermieri, di persona ma anche in video tramite Zoom, spiegandogli esattamente come si somministrano le dosi: non bisogna toccarle troppo perché il siero è molto sensibile, è necessario sapere esattamente come va aspirato il liquido, è fondamentale non girare le fiale. Di pari passo abbiamo spiegato alla popolazione, in tivù, su internet e per radio in cosa consiste il vaccino. Abbiamo mostrato i dati del livello di sicurezza. Dal premier al ministro della Salute, tutti si sono vaccinati in diretta. Il risultato è che oggi per sottoporsi alla vaccinazione c'è la fila».

- Quante iniezioni fate al giorno!
  «Abbiamo cominciato con 70 mila: oggi siamo a più del doppio».

- Chi avete vaccinato finora!
  «Tutto il personale medico, gli over 60 e le persone immunodepresse. Adesso inizia la fase 2».

- E a chi tocca!
  «A chi ha problemi a uscire di casa, alle forze di polizia e agli insegnanti. Vacciniamo nelle palestre e negli stadi. Abbiamo 400 postazioni mobili: spostiamo le nostre forze dove c'è bisogno, come in un campo di battaglia. Ogni infermiere riesce a vaccinare una media di 7,5 persone all'ora. È un lavoro incessante: per garantire il turn over abbiamo assunto anche un buon numero di paramedici dell'esercito. Non bisogna girarci attorno: è un'operazione bellica».

- Non vaccinate nessuno o quasi negli ospedali: perché?
  «Non vanno intasati. Inizialmente abbiamo sbagliato anche noi ricoverando troppa gente. Poi, alla luce di quello che stava succedendo in Italia, abbiamo cambiato strategia. Il futuro della medicina non è l'ospedale tradizionale, ma quello virtuale».

- Ci spieghi
  «Si basa sulla medicina di comunità. Vanno ospedalizzati solo i pazienti gravi. Noi monitoriamo quotidianamente i pazienti da remoto nelle loro case attraverso call center, messaggi video e audio. C'è un'applicazione dedicata: al medico di famiglia basta un click per aggiornare in tempo reale la cartella medica. Abbiamo fornito a tutti il saturimetro per controllare l'ossigenazione del sangue. Quando una persona ha bisogno di medicinali glieli mandiamo. Se un paziente si aggrava inviamo l'ambulanza e lo portiamo in ospedale per sottoporlo agli esami. In questo ospedale virtuale lavorano 2 mila medici e 700 infermieri: al momento abbiamo 20 mila pazienti classificati in 4 fasce di rischio».

- Un altro mondo rispetto all'Italia. ..
  «Guardi che noi non siamo più intelligenti di voi: abbiamo semplicemente evitato di commettere gli stessi errori. L'Italia, purtroppo, non si è mai ripresa dalla prima ondata È stata una tragedia: 4 mila persone in terapia intensiva con la metà dei posti disponibili. Sarebbe andato in crisi chiunque».

- Cosa cambierebbe nel sistema italiano anti-Covid?
  «La logistica delle cure, che sposterei fuori dagli ospedali, se non per i casi più gravi. Creerei un'unica task farce con a capo un medico o un infermiere d'esperienza, meglio con una formazione militare. Avete strutture e competenze migliori di noi ma non le sfruttate. Poi va detto che avete a disposizione pochi vaccini».

- Secondo lei l'Italia cos'ha sbagliato principalmente!
  «In queste situazioni bisogna essere rapidi e correggere immediatamente le decisioni che non portano risultato, ma non voglio assolutamente criticare nessuno».

- Qui è successo che al centro vaccinale di Modena, vicino alla sua Bologna, a fine giornata gli infermieri hanno somministrato ai parenti le dosi avanzate. ..
  «Qui se capiamo che un giorno non riusciamo a effettuare tutte le iniezioni a disposizione telefoniamo e inviamo messaggi a persone inserite nelle fasce successive, quelle non prioritarie. Abbiamo costruito un archivio, ci bastano pochi secondi per avvisare i diretti interessati».

- Come vengono applicate le restrizioni?
  «Siamo al terzo mini-lockdown: finora le chiusure sono state di 2-3 settimane, non di più. Al termine di questa quarantena un quarto degli israeliani sarà già stato vaccinato».

- Tra non molto sarete il primo Paese Covid-free: in 4 mesi, grazie al vaccino, avrete sconfitto il virus del secolo. Altre nazioni europee tra cui l'Italia, dati alla mano, non ce la faranno prima di un paio d'anni.
  «Per ora è solo un'idea, nulla di ufficiale, ma non escludo che a vaccinazione terminata potremo aiutare chi è più indietro. Potremmo far venire persone dall' estero e pensare di vaccinare anche i turisti. Saremo pronti a metterci a disposizione. Io sto già offrendo la mia esperienza a chi è interessato, ho parlato con l'ambasciata italiana, ho fatto collegamenti con medici inglesi. Vogliamo fare di tutto perché la situazione torni alla normalità il più velocemente possibile».

- Potete già somministrare anche il vaccino di Astrazeneca!
  «No: anche qui ci vorrà ancora un po' di tempo, ma non possiamo distrarci. In guerra non è permesso. Bisogna concentrarsi sulle forze in campo».

(Libero, 10 gennaio 2021)


Modello Israele per tornare (prima) alla vita

di Luigi De Santis

 
«Ritorno alla vita», l'hanno chiamata così la campagna di vaccinazione anti-Covid in Israele. Un ritorno alla vita che quel popolo vuole raggiungere in fretta: entro marzo il Paese sarà il primo al mondo a uscire dalla pandemia con tutti i cittadini sopra i 16 anni vaccinati.
   So bene che Israele è uno Stato 'piccolo' con poco più di 9 milioni di abitanti, in Puglia siamo poco meno di 4 milioni. E quindi in totale spirito di collaborazione, senza polemiche, e nel mio ruolo di console di Israele sento la necessità di fare la mia parte. L'esperienza israeliana può diventare un modello anche per la nostra Regione perché anche i pugliesi possano "ritornare alla vita" e quindi a una vita se non come quella che abbiamo vissuto fino a un anno fa, ma una che consenta la ripresa economica, penso soprattutto a tutti quei settori che più di altri hanno e stanno subendo danni incalcolabili.
   In Israele - che come l'Italia utilizza le dosi Pfizer- Biontech, ma ha acquistato anche quelle della Moderna - le vaccinazioni anti-Covid vengono effettuate ininterrottamente, 24 ore su 24 e sette giorni su sette. A questi ritmi ogni giorno vengono vaccinate tra le 100 e le 150mila persone. Un dato su tutti: alla fine dello scorso anno, il 30 dicembre scorso, quando in Europa stavamo festeggiando il V-day loro avevano già vaccinato circa il 10% della popolazione. E' chiaro che numeri del genere non sarebbero potuti realizzare con il personale sanitario 'ordinario', per questo il governo ha deciso di implementare il Piano vaccini coinvolgendo anche l'Esercito.
   In un aspetto Italia e Israele sono per così dire uguali: anche loro stanno anche valutando l'idea di istituire una sorta di Green Passport per tutti coloro che si sono vaccinati e quindi, in sostanza, potrebbero essere esenti dalle misure restrittive del lockdown.
   Sul piano sociale è stata, invece, prevista direttamente dal ministero della Giustizia una campagna contro i no-vax, basata soprattutto sulla confutazione delle fake news e della disinformazione relativamente al vaccino.
   Va anche detto che al di là del Covid il punto di forza sanitario di Israele è la digitalizzazione del sistema. Dai 18 anni in poi, tutti i cittadini sono registrati in una delle cosiddette health maintenance organization (es. Clalit, Maccabi). In un chip ogni israeliano ha racchiuso (e porta con sé) tutta la sua vita sanitaria.
   Ribadisco, sicuramente Israele ha come vantaggio di essere una nazione relativamente piccola, ma si tratta di una caratteristica che anche altri Paesi hanno e che comunque non gli ha consentito di raggiungere la stessa efficienza nella campagna di vaccinazione. L'Italia e la nostra Puglia potrebbero trovare nel modello Israele qualche suggerimento organizzativo per migliorare la performance che se comparata con il resto d'Europa risulta essere la migliore, pur fra mille difficoltà.
   "Ritorno alla vita" diventi un auspicio per un legame più forte fra Israele e Italia.

(Corriere del Mezzogiorno, 10 gennaio 2021)


Abu Mazen prepara elezioni presidenziali e legislative

Wafa: il decreto sarà pubblicato entro 10 giorni

Il presidente palestinese Abu Mazen si accinge a pubblicare entro dieci giorni un decreto relativo alla convocazione di nuove elezioni in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza. Lo ha anticipato la agenzia di stampa ufficiale Wafa secondo cui Abu Mazen ha discusso ieri di questa iniziativa col presidente della Commissione elettorale centrale, Hanna Nasser.
Secondo i media Abu Mazen progetta di condurre separatamente le elezioni legislative, le presidenziali e quelle per la composizione del Consiglio nazionale palestinese, una istituzione che include anche i palestinesi che vivono in Paesi stranieri. Le ultime elezioni presidenziali risalgono al 2005, e le ultime legislative al 2006. Con queste elezioni Abu Mazen e la leadership di Hamas cercano fra l'altro di superare la grave frattura politica creatasi nel 2007, quando Hamas espugnò il potere a Gaza. Inoltre, secondo i media, le elezioni legislative potrebbero rappresentare un segnale rivolto alla Casa Bianca, in concomitanza con l'insediamento del presidente Joe Biden.

(ANSAmed, 10 gennaio 2021)


Anche in periodo di covid chi calunnia Israele non si ferma mai

di Ugo Volli

Una nuova calunnia si è aggiunta al ricco armamentario della propaganda antisemita. Israele, che è un esempio per tutto il mondo nella lotta contro il Covid avendo vaccinato finora circa il venti per cento della sua popolazione (l'Italia, che è ben piazzata in Europa, ha appena superato l'uno per cento), sarebbe colpevole per giornali come il Guardian e il New York Times, di non vaccinare i palestinesi, privilegiando invece i "coloni". La calunnia è facile da smontare: gli accordi di Oslo assegnano la sanità fra le materie esclusive dell'Autorità Palestinese, naturalmente sui territori che amministra. Essa non ha richiesto e a quanto pare non vuole affatto ricevere da Israele il vaccino. Lo stato ebraico peraltro ha fatto uno sforzo notevole per convincere gli arabi israeliani, piuttosto restii, a farsi vaccinare e ha incluso nella campagna tutti i cittadini ma anche i residenti stranieri, inclusi i non pochi cittadini dell'Autorità Palestinese domiciliati a Gerusalemme. Lo Stato ebraico ha sempre permesso il passaggio del materiale sanitario non solo verso i territori amministrati dall'AP in Giudea e Samaria, ma anche verso Gaza. Se i loro abitanti non sono largamente vaccinati, ciò dipende da scelte di chi li governa, che investe gli abbondanti fondi dell'aiuto internazionale invece che in sanità in armi e tunnel d'attacco (a Gaza) e in stipendi per i terroristi (Ramallah) - per non parlare dei conti correnti personali di Abbas e dei leader di Hamas. I vaccini infatti costano, Israele ne ha avuto tanti perché li ha pagati più del prezzo di mercato, investendo più di mezzo miliardo di euro solo per Pfitzer.
   Ma se la calunnia è fragile, la sua motivazione è interessante. C'è dietro l'immagine antisemita antica degli ebrei che avvelenano i pozzi e diffondono le epidemie, per cui nel Medioevo ogni ondata di peste si portava dietro assalti ai quartieri ebraici e stragi terribili di ebrei. Ma c'è anche una contraddizione contemporanea: da un lato si dice che c'è uno stato di Palestina, indipendente e autonomo, che va riconosciuto da tutti. Dall'altro si ritiene Israele (e non gli altri vicini, come l'Egitto e la Giordania, soprattutto non i dittatori locali) sempre responsabili di quel che accade in questi territori. Dev'essere Israele, per questi politici intellettuali e giornalisti antisionisti a portare - gratis, naturalmente - a Gaza e Ramallah i vaccini, ma anche l'acqua, l'elettricità, i rifornimenti petroliferi, le materie prime che magari i terroristi impiegano per costruire missili e altre armi. E se non ci sta, è immorale, oppressivo, antiumano e naturalmente "occupante".

(Shalom, 10 gennaio 2021)


Quando Moretto saltò dal comando fascista

Dall'antico ghetto a Porta san Paolo, sulle tracce del leggendario pugile che lottò a testa alta contro tutti.

 
Uno scorcio dell'antico ghetto
 
Il Moretto durante un incontro amatoriale: la box
ebbe tra i suoi campioni molti ebrei romani
''Avanza il piede sinistro, piantalo saldo in terra, come un soldato, fletti il ginocchio, ruota il tronco, raccogli la spinta, carica la spalla, piega il braccio a novanta gradi. Il gancio è carico, rilascia le velocità e somma le forze: piede, ginocchio, busto, spalla. Questo coordinato di potenza si abbatterà come una montagna su Amalek, qualunque veste indossi". Un paio di anni fa, in una emozionante trasposizione teatrale, Antonello Capurso descriveva con queste parole uno dei personaggi più amati della Roma ebraica: Pacifico Di Consiglio, così diceva l'anagrafe, anche se tutti lo conoscevano come "Moretto".
   Il "Moretto" era un pugile dilettante, ma soprattutto un uomo tutto d'un pezzo. Al tempo delle persecuzioni nazifasciste non solo scelse di restare a vivere nell'area dell'antico quartiere ebraico ma andò a sfidare - a testa alta, senza paura - alcuni tra i peggiori sgherri fascisti e nazisti. Una lotta da cui uscì vincitore e che ne fece un simbolo di resilienza. Di Consiglio, che fu anche catturato ma poi fuggì in rocambolesche circostanze, fu anche protagonista della vita ebraica nel Dopoguerra, in prima linea nella difesa del quartiere dagli assalti dei nostalgici del fascismo che anni dopo ancora imperversavano.
   "Per ripercorrere le strade del Moretto - spiega lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, che ha affiancato Maurizio Molinari nella stesura del libro Duello nel Ghetto - partirei da via di Sant'.Angelo in Pescheria. È la strada in cui era nascosto, la sua base in quei giorni difficili".
   La tappa successiva dell'itinerario è molto vicina: via dei Delfini. Là abitava Luigi Roselli, il fascista stretto collaboratore dei nazisti che fu il primo nemico del Moretto.
   L'espediente per avere informazioni sul suo conto, racconta Osti Guerrazzi, fu quello di far innamorare la nipote Annida. Una finta però: il suo cuore apparteneva in realtà alla bella Ada, futura moglie e compagna di vita. Il Moretto è catturato mentre sta per aggregarsi ai partigiani. Non è la prima volta che finisce nelle mani degli aguzzini. A Piazza Farnese era sfuggito alla polizia fascista lanciandosi da una stanza del comando, dotata per fortuna di finestra. Stavolta però dovrà aspettare di più.
   Iniziano per lui giornate drammatiche tra le celle di via Tasso e quindi in quelle del carcere di Regina Coeli.
   Nel maggio del '44 scriverà ai suoi cari: "Albergo di Regina Coeli. Via della Lungara Terzo braccio camera 326. Buongiorno a tutti i miei. Scrivo a tutti, ma particolarmente mi rivolgo ad Angelica perché in ultimo era una seconda mamma. Mi raccomando di non piangere e non abbatterti. È destino del Signore perché l'ho sempre creduto, lo credo e lo crederò anche di più fin quando avrò un filo di vita". Per poi aggiungere, sul retro: "Arrivederci, perché ritornerò".
   Anche in quel caso si dimostrerà più forte e determinato dei suoi carnefici. Non solo non cedendo mai alle loro minacce, alle violenze e alle torture che gli infliggeranno. Ma anche riuscendo a fuggire dal camion che lo sta trasferendo verso un'altra tappa di avvicinamento all'inferno del lager. Si rifugia in montagna, ma la vita lontano dall'azione non è per lui. Sceglie così di tornare a Roma, distinguendosi in una delle battaglie che portano alla Liberazione della città in zona Porta San Paolo. "Doveroso - aggiunge quindi lo storico - recarsi anche in via Marmolata, nel quartiere Testaccio. Lì Moretto combatterà insieme agli americani". Tra i suoi compiti, in quel delicato e decisivo momento, quello di neutralizzare la minaccia dei cecchini tedeschi.
   Per chiudere il cerchio è poi necessario andare in corso del Rinascimento, nel palazzo oggi sede dell'archivio di Stato ma dove, qualche tempo, si tenne il processo alla banda, la Cialli Mezzaroma, che in Di Consiglio aveva trovato il più determinato oppositore.

(Pagine Ebraiche, gennaio 2021)



Le beatitudini del saggio

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 3.
  1. Beato l'uomo che ha trovato la saggezza,
    l'uomo che ottiene l'intelligenza!
  2. Poiché il suo guadagno è maggiore di quello dell'argento,
    il profitto che se ne trae vale più dell'oro fino.
  3. Essa è più pregevole delle perle,
    quanto hai di più prezioso non l'equivale.
  4. Lunghezza di vita è nella sua destra;
    ricchezza e gloria nella sua sinistra.
  5. Le sue vie sono vie deliziose,
    e tutti i suoi sentieri sono pace.
  6. Essa è un albero di vita per quelli che l'afferrano,
    e chi la possiede è beato.
  7. Con la saggezza il SIGNORE fondò la terra,
    e con l'intelligenza rese stabili i cieli.
  8. Per la sua scienza gli abissi furono aperti,
    e le nuvole distillano la rugiada.
  1. Beato l'uomo che ha trovato la saggezza,
    l'uomo che ottiene l'intelligenza!

    In 2.4 il discepolo era stato esortato a cercare la saggezza come l'argento. Nei versetti che seguono viene descritto il guadagno che procura l'aver trovato la saggezza. E poiché tale guadagno risulta "migliore di quello dell'argento" (3.14), colui che l'ha ottenuto viene detto beato, cioè benedetto da Dio. Queste parole non sono né una distaccata descrizione dei fatti, né una diretta esortazione alla virtù: si potrebbe dire che sono una forma di amorevole "propaganda" in favore della saggezza. Ma a differenza della propaganda umana che viene progettata ed eseguita a beneficio esclusivo di chi la fa, qui si desidera realmente che il vantaggio ricada su chi la riceve. Nel Suo infinito amore, Dio vuole donare agli uomini la Sua saggezza; ma, come ogni dono d'amore, per essere veramente ricevuto come tale deve essere accolto in piena libertà.

  2. Poiché il guadagno che essa procura è migliore di quello dell'argento,
    il profitto che se ne trae vale più dell'oro fino.

    Il linguaggio che qui viene usato è volutamente commerciale. Chi è convinto di essere un uomo pratico e pensa soprattutto ai soldi deve sapere che il guadagno che si ottiene attraverso l'uso della sapienza è molto più grande del profitto che può provenire dall'investimento di grandi capitali. La ricchezza non è di per sé un male, ma su di essa non si può fondare la propria vita, perché per sua natura la ricchezza è instabile:"Non ti affannare per diventar ricco, smetti dall'applicarvi la tua intelligenza. Vuoi fissare lo sguardo su ciò che scompare? Poiché la ricchezza si fa delle ali, come l'aquila che vola verso il cielo" (23.4-5). Ottenere da Dio la saggezza è di gran lunga preferibile, perché "con la saggezza il Signore fondò la terra, e con l'intelligenza rese stabili i cieli" (3.19). E ciò che rende stabile i cieli e la terra costituisce certamente un fondamento sicuro per la vita di ogni uomo.

  3. Essa è più pregevole delle perle,
    quanto hai di più prezioso non l'equivale.

    Gli oggetti con cui viene paragonata la saggezza aumentano sempre di valore: prima l'argento, poi l'oro e infine le perle. Non è detto però che tutti siano interessati soltanto alle ricchezze. Molti altri beni possono essere bramosamente desiderati e quindi diventare di grande valore per una persona. Per qualcuno può essere la carriera, per un altro la musica, per un altro uno sport. Ma la sapienza proveniente dal Signore è un bene di gran lunga superiore, perché, come dice il maestro al discepolo: "Quanto hai di più prezioso non l'equivale".

  4. Lunghezza di vita è nella sua destra;
    ricchezza e gloria nella sua sinistra.

    La sapienza non è soltanto il bene più prezioso di qualsiasi altro: essa contiene in sé tutti gli altri veri beni e li dispensa generosamente agli uomini. Con la mano destra può dare lunghezza di vita (3.2, 4.10), con la sinistra ricchezza e gloria (4.9, 8.18). E' quindi da folli sperare di ottenere la felicità dalle cose senza ascoltare la voce della saggezza che proviene da Dio. Chi ha trovato la vera sapienza non si lamenta, non perché ha la forza di sopportare stoicamente il male, ma perché sa di essere ricolmo di ogni bene. La sapienza di Dio è apparsa in forma perfetta nella persona di Cristo, e l'apostolo Paolo dirà: "Voi avete tutto pienamente in Lui" (Co 2.10). Di che cosa dovremmo lamentarci?

  5. Le sue vie sono vie deliziose,
    e tutti i suoi sentieri sono pace.

    Non sempre la vita del saggio sembra essere tranquilla e deliziosa. L'esempio più evidente è proprio quello di Gesù. Giudicando con metri umani, gli ultimi anni della vita del Figlio di Dio sulla terra sono stati pieni di difficoltà, contrasti e sofferenze. Eppure, poche ore prima di affrontare il supplizio della croce il Signore Gesù poté dire ai Suoi discepoli: "Vi lascio pace; vi do la mia pace" (Gv 14.27). Chi accoglie questa parola e vive sul fondamento di questa promessa sperimenta la pace profonda che si basa non sull'assenza di male, ma sulla vittoria definitiva che Dio ha riportato sul male attraverso l'opera di Cristo.

  6. Essa è un albero di vita per quelli che l'afferrano,
    e chi la possiede è beato.

    L'albero della vita compare all'inizio della storia bibica, nel giardino di Eden (Ge 2.9), e alla fine, nella Gerusalemme celeste (Ap 22.2). All'inizio il peccato non era ancora stato compiuto e la morte non era entrata nel mondo; alla fine il peccato sarà definitivamente cancellato e la morte vinta. In questo tempo intermedio gli uomini possono ottenere la vera vita soltanto attraverso la sapienza, manifestatasi compiutamente nella persona di Cristo. Essa è offerta a tutti, ma soltanto quelli che l'afferrano ne godono i benefici effetti di salvezza; e soltanto quelli che la possiedono possono dirsi veramente beati, cioè realmente e pienamente felici.

  7. Con la saggezza il SIGNORE fondò la terra,
    e con l'intelligenza rese stabili i cieli.

    Questo versetto può essere considerato come un'anticipazione e un breve riassunto di 8.22-31. Se il mondo fosse sorto per caso e gli uomini fossero i primi esseri che avessero cominciato a pensare, allora è chiaro che toccherebbe a loro organizzare le forme del pensiero e definire che cos'è saggezza. Se invece è Dio che fondò la terra e rese stabili i cieli, allora è assurdo credere di poter vivere su questa terra e sotto questi cieli trascurando il pensiero di Colui che li ha creati. Chi non risale dall'osservazione delle opere create alla sapienza del Creatore, necessariamente sarà costretto a chiamare "sapienza" la propria stoltezza. E ne subirà le conseguenze.

  8. Per la sua scienza gli abissi furono aperti,
    e le nuvole distillano la rugiada.

    Non è facile capire se gli abissi aperti si riferiscano al diluvio (Ge 7.11) o alla regolare caduta della pioggia (Gb 36.27). Nel primo caso l'insegnamento sarebbe che anche l'attività punitiva di Dio sul peccato degli uomini è una manifestazione della Sua sapienza. Nel secondo caso i riferimenti alla pioggia e alla rugiada mostrerebbero che Dio, dopo aver creato "nel principio" (Ge 1.1) i cieli e la terra, continua ora a benedire le Sue creature concedendo loro "la rugiada del cielo, la fertilità della terra e abbondanza di frumento e di vino" (Ge 27.28).

    M.C.

 

Israele - Via alla somministrazione della seconda dose

L'annuncio lo ha dato il ministro della Sanità israeliano Yuli Edelstein: nel suo Paese si sono vaccinati 1,7 milioni di persone su una popolazione di oltre 9 milioni. Di questi, 115 mila solo nella giornata di giovedì. Tutti hanno ricevuto per ora solo la prima dose del vaccino di Pfizer. Oggi inizierà invece la somministrazione della seconda dose: i primi a sottoporsi saranno il premier Benyamin Netanyahu e il ministro Edelstein. Netanyahu ha ricevuto telefonate di congratulazioni da parte di alcuni leader europei, dopo aver annunciato che entro marzo potrebbe essere completata la vaccinazione anti Covid degli adulti. A congratularsi, è stato scritto in una nota dell'ufficio del premier, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, la premier danese Mette Frederiksen e il presidente cipriota Nicos Anastiasades. Questi leader, spiegano da Israele, «hanno chiesto informazioni sulle modalità di immunizzazione di massa adottate».

(Corriere della Sera, 9 gennaio 2021)


L'enigma di Bartali salvatore degli ebrei

Lo storico Pivato: nessuna prova del suo intervento. Da Israele la replica: la documentazione è imponente. La versione ufficiale: secondo diversi testimoni il famoso sportivo recapitò in bicicletta documenti falsi che consentirono a 800 ebrei di sfuggire ai nazisti.

di Glan Antonio Stella

 
La statua di Bartali a Mandela Forum - Firenze
Gino Bartali fu davvero un eroe che rischiò la pelle per salvare centinaia di ebrei? Si, risponde lo storico Stefano Pivato nel libro Sia lodato Bartali, uscito per Castelvecchi nel maggio 2018. No, risponde lo storico Stefano Pivato nel libro L'ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata, in uscita per Castelvecchi il prossimo 21 gennaio. Sei giorni prima di quel 27 gennaio in cui si celebra la Giornata della Memoria. Stesso autore (con la firma, stavolta, del figlio Marco Pivato), stesso tema, stesso editore. Ma ribaltamento totale.
   Meno di tre anni fa l'ordinario di Storia contemporanea all'Università di Urbino, di cui è stato anche rettore, sosteneva: «Fra il 1943 e il 1944 il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, allestisce una rete clandestina per il salvataggio degli ebrei rifugiati o profughi. Bartali, incaricato direttamente dal cardinale, compie vari viaggi in bicicletta dalla stazione di Terontola-Cortona fino ad Assisi, trasportando documenti e fototessere nascoste nei tubi della bicicletta. Bartali compie varie volte il percorso e, secondo le testimonianze, contribuisce al salvataggio di circa 800 ebrei. Bartali muore nel 2000, la vicenda viene svelata da alcuni testimoni solo dopo la sua scomparsa e il campione viene dichiarato "Giusto tra le nazioni" dallo Yad Vashem, il memoriale israeliano delle vittime dell'Olocausto fondato nel 1953 e che vuole costituire un riconoscimento per i non ebrei che hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei durante le persecuzioni naziste».
   Nessun punto interrogativo, nessun «forse», nessun «pare»... Una convinzione pressoché assoluta. Che lo stesso «Corriere della Sera», che già aveva parlato di altri libri dello storico come Il secolo del rumore, Il nome e la storia o Vuoti di memoria, condivise mettendosi nella scia di centinaia di articoli su questo tema pubblicati in mezzo mondo. Macché: contrordine! Quei «testimoni» citati nel primo libro non sembrano più così attendibili. O comunque, non sembrano più sufficienti ad accertare la verità. Insomma: dove sono le prove documentali?
   Marco e Stefano Pivato partono da una citazione di Jacques Le Goff sui limiti della memoria: «Così come il passato non è la storia, ma il suo oggetto, la memoria non è la storia ma, insieme, uno dei suoi soggetti». Per capirci, sostengono, «a partire dagli ultimi anni del Novecento, di fronte a quella che è ormai riconosciuta come la crisi della storia, la memoria ha esercitato una sorta di surroga nei confronti del racconto e dell'interpretazione del passato. Come a dire che la memoria ha progressivamente preso il posto della storia, trasformandosi spesso in una sorta di scorciatoia per leggere il passato. Se non altro perché la memoria, a differenza della storia, è priva di complessità e dunque meglio si adatta alle semplificazioni e alla velocità del tempo in cui viviamo». Risultato? «Nel momento in cui si è definitivamente consumato il divorzio fra storia e memoria, quest'ultima ne ha preso il posto e, priva delle tutele e delle cautele dello storico, ha finito talvolta per accreditare come veri fatti e accadimenti mai avvenuti». Fino a diventare «fattrice di false notizie». E a trasformare a volte dei testimoni in «contrabbandieri di verità».
   Gino Bartali un contrabbandiere di verità? Lui no, rispondono, non c'entra. I colpevoli sono coloro che dopo la sua morte, partendo da una «notizia falsa», si sono via via aggiunti nell'enfasi, creando un mito «anche grazie a quella mancanza di tutele della storia rispetto a una serie di memorie ripescate a decenni di distanza, di sentito dire, di sussurri e supposizioni di seconda e di terza mano». Colpa della scuola, come dicono i dati di un questionario fra 303 universitari di Urbino, dei quali il 58,o8 per cento è arrivato a studiare a malapena la Seconda guerra mondiale, senza arrivare mai neppure agli anni Cinquanta. Colpa di una società in cui «la maggior parte del giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato». Colpa del web dove «domina il presentismo» e le leggende trovano terreno fertilissimo.
   Scusate: e gli storici? Si, ammette Stefano Pivato, «la vicenda non fa onore neppure a quegli storici che hanno avallato quella leggenda. Libri sulla Resistenza, sulla Shoah o sulle vicende sportive che hanno attraversato l'Italia del Novecento hanno fatto propria quella fantasiosa ricostruzione. Fra questi c'e anche il sottoscritto che, nell'ultima edizione di un fortunato libretto dedicato alla vicenda politica di Bartali, ha finito per accreditare quella leggenda senza le necessarie verifiche». Mea culpa. «Tutto questo a conferma che quella narrazione, non priva di toni fra il fantastico e il fideistico, certifica, almeno in parte, il divorzio intervenuto fra la storia e la memoria. E di fronte a queste sviste è legittimo invocare una delle regole richiamate decenni fa da Edward Carr in quel delizioso libretto, Sei lezioni sulla storia, sul quale si sono formate schiere di ricercatori alle prime armi: "L'accuratezza è un dovere non una virtù"».
   A farla corta: «Sono amici, parenti e tifosi di ciclismo che attribuiscono al campione un ruolo destinato ad aumentarne il fascino già straordinario non solo per via della rivalità con Fausto Coppi. Una parte non secondaria è svolta dai politici sempre pronti a cavalcare l'onda della popolarità e a trasformare gli eventi in consenso elettorale. E questo nonostante non un solo documento e neppure una testimonianza credibile certifichi il suo ruolo di "postino della pace"». Ma che cos'è una testimonianza «credibile», se lo stesso Carlo Azeglio Ciampi nel 2006 decise di consegnare alla moglie di Gino Bartali, Adriana, la medaglia d'oro al valor civile «per aver salvato almeno 800 ebrei»? E se quel giorno il figlio del campione Andrea si commosse spiegando che si trattava di «un omaggio ad un aspetto forse meno conosciuto di mio padre che va oltre la sua carriera sportiva»?
   Macché: tutta «una storia inventata», come dice secco secco il titolo. A partire da un libro uscito in inglese nel 1978, Assisi Underground (Assisi clandestina nella successiva traduzione italiana) firmato da Alexander Ramati, nome d'arte di uno scrittore e regista ebreo polacco, David Solomonovich Grinberg, che nel 1944 aveva partecipato come cronista (pare...) alla liberazione dell'Umbria e lì aveva conosciuto il francescano Salvatore Niccacci, detto Fra Rufino, tra i primi a ricevere poi nel 1974 dallo Yad Vashem il titolo di Giusto fra le nazioni (insieme col suo vescovo e altri due collaboratori) per l'aiuto dato agli ebrei in fuga fornendo loro identità false. Un libro, scritto con Fra Rufino nella parte della voce narrante, dove raccontava di come quei documenti venivano trasferiti anche grazie all'aiuto di un ciclista, un certo Battaglia (nome di copertura?), nel quale si poteva riconoscere, appunto, Gino Bartali. Libro da cui fu tratto nel 1985 un film omonimo in cui recitava come suorina di clausura anti-nazista (suor Beata) la futura deputata, senatrice e ballerina Alessandra Mussolini. E nella parte di Gino Bartali l'attore Alfredo Pea. Micidiale la recensione di Paolo Mereghetti: «Un dramma edulcorato e troppo romanzato».
   Ancora più brutale, però, il giudizio sul libro di don Aldo Brunacci, il canonico di Assisi, che peraltro risulta tra i consulenti (!) del film: «Si tratta di un vero romanzo. L'autore aveva certamente in mente un copione per un film e non poteva trovare personaggio più adatto per il suo intento e soprattutto una fantasia più fervida di quella di Padre Rufino». Di più: don Brunacci buttò lì l'ipotesi che fosse dai suoi racconti che lo scrittore avesse preso l'idea di «introdurre tra personaggi anche Bartali!». Giudizio ripreso per primo, nel 2017, dallo storico Michele Sarfatti (più volte citato da Marco e Stefano Pivato) in un breve saggio: Gino Bartali e la fabbricazione di carte di identità per gli ebrei nascosti a Firenze. Dove spiegava tutte le date, i luoghi, le circostanze, gli strafalcioni del racconto. Concludendo: «Ramati-Niccacci ha inventato quel ruolo di corriere di Bartali».
   Non l'avesse mai scritto! Lui, poi! Uno studioso stimatissimo da sempre attento alla Shoah! Bartali il Giusto, confusione sul web. Le ragioni della ricerca storica e la smania di visibilità, titolò la rivista moked.it, il portale dell'ebraismo italiano. E Adam Smulevich ricordò polemico le ragioni che avevano spinto lo Yad Vashem a riconoscere nel campione del ciclismo un uomo che aveva messo davvero a rischio la propria vita per gli ebrei.
   Punto di snodo, la testimonianza di Giorgio Goldenberg, un ebreo che alle prime retate naziste, costretto col papà, la mamma e i parenti a lasciare Fiume, si era rifugiato a Firenze. Rintracciato in Israele dove viveva, l'uomo aveva raccontato allo stesso Smulevich ciò che avrebbe ripetuto successivamente in una deposizione davanti alla commissione dei Giusti tra le nazioni: «Se sono vivo lo devo a Bartali». Tutta la famiglia infatti, braccata per essere mandata nei lager di sterminio, era stata accolta in uno scantinato di via del Bandino di proprietà del mitico Gino, terziario carmelitano e fedelissimo del cardinale Elia Dalla Costa, fermissimo avversario dei nazisti e lui stesso destinato a essere accolto allo Yad Vashem: «La cantina era molto piccola. Una porta dava su un cortile ma non potevo uscire perché avrei corso il rischio di farmi vedere dagli inquilini dei palazzi adiacenti. Dormivamo in quattro in un letto matrimoniale: io, il babbo, la mamma e mia sorella Tea. Non so dove i miei genitori trovassero il cibo...»
   Perfino più duro fu allora il commento del demografo Sergio Della Pergola, che da molti anni vive in Israele: «L'azione diffamatoria in corso è indegna di chi voglia occuparsi seriamente delle vicende del periodo bellico e della Shoah». E ancora: «E doloroso che un ricercatore eccellente e stimato come Michele Sarfatti si sia prestato a questa trama di cui non comprendo le fondamenta e la logica». Parole che ripete oggi verso chi parla ancora di una «leggenda Bartali»: «Io faccio parte della commissione per i Giusti tra le nazioni, presieduta da un giudice della Corte Suprema. Lavoriamo seguendo principi strettissimi. Estremamente meticolosi. Niente di meno del processo che accade nella Chiesa cattolica quando viene proposta una beatificazione. Nel caso di Gino Bartali la documentazione era imponente. Ripeto: imponente».
   Esempi? «Le carte di Sara Di Gioacchino Corcos, una fiorentina che ha lavorato per anni al Centro di documentazione ebraica di Milano ed era cognata di Nathan Cassuto, il rabbino di Firenze che non poté testimoniare perché ucciso ad Auschwitz. C'è agli atti una sua "intervista" su questi temi dei documenti falsi con lo stesso Gino Bartali. Era un uomo schivo. Non ne parlava volentieri. Ma sapendo della parentela con Nathan Cassuto, al quale portava i documenti nascosti sotto il sellino, la storia dei viaggi la confermò». E' questa la prova regina? «Una delle "prove regine". Ripeto: c'è una massa di documenti incontrovertibili. Per esempio quelli della curia fiorentina ai tempi del cardinale Dalla Costa, al quale si è giustamente riferito il Papa giorni fa nell'intervista alla "Gazzetta" in cui confermava il ruolo di Bartali, sono chiari».
   Ma allora, perché non vengono messi a disposizione degli storici, se è vero che Marco e Stefano Pivato scrivono d'aver presentato allo Yad Vashem nel 2020 cinque richieste di consultazione e che «nessuna ha ricevuto risposta»? «Certo, ci sono dei documenti che restano segreti. Succede così anche per quelli delle beatificazioni dei cattolici», risponde Della Pergola, «però le testimonianze, comunque, sono moltissime». Una, tra le altre, la conferma da Gerusalemme l'avvocato fiorentino Renzo Ventura, che da otto anni vive in Israele: «Io sono in possesso di quattro carte d'identità false. Una di mio nonno, una di mia nonna, una di mia zia e una di mia mamma. E sono cresciuto sentendo dire in famiglia, in ogni momento, che quei documenti li dovevamo a Gino Bartali. Lo so, da avvocato, non è una testimonianza diretta. Ma io, in casa, per anni e anni, prima che se ne parlasse sui giornali, solo questo ho sentito da mia mamma dovevamo la nostra vita a Gino Bartali».
   Possiamo scommetterci, però: le polemiche sulle «prove» non finiranno qui.

(Corriere della Sera, 9 gennaio 2021)


Il castello del banchiere ebreo

Sorge sul lago tedesco di Zeesener See, a 30 km da Berlino, conteso fra nazisti e comunisti. A lungo abbandonato, ora diventa una residenza per anziani. Fu acquistato da Ernst Goldschmidt, un mecenate che amava l'arte. Il grande salone al primo piano, aperto sul lago, divenne il punto di ritrovo per attori, scrittori, musicisti, registi durante la Repubblica di Weimar. Il padrone di casa morì pochi mesi dopo la conquista del potere da parte di Hitler.

di Roberto Giardina

 
Zeesener See
BERLINO - Mephisto si prese il castello del banchiere ebreo, castello alla francese, una storica villa su un lago. Gustaf Gründgens, il grande attore che per il successo, come Faust, vendette l'anima ai nazisti, comprò per meno della metà del suo valore la residenza della famiglia Goldschmidt nel 1934, sullo Zeesener See, un lago a 30 chilometri dal centro di Berlino. Dalla caduta del Muro e la riunificazione il castello è in abbandono, rischia di andare in rovina, ma ora dovrebbe essere restaurato e trasformato in un residence di lusso per anziani. Ma tutto è fermo a causa del Covid.
   La villa, con una serra, due scuderie, una darsena, circondata da un parco di 35 mila metri quadrati, fu costruita nel 1687, per due secoli cambiò diverse volte di proprietà, fino ad essere acquistata dal banchiere Ernst Goldschmidt, un mecenate che amava l'arte. Il grande salone al primo piano, aperto sul lago, diviene il punto di ritrovo per attori, scrittori, musicisti, registi durante la Repubblica di Weimar. Il padrone di casa morì pochi mesi dopo la conquista del potere da parte di Hitler.
   Gustaf Gründgens, nato nel 1899, è già celebre, dirige lo Schauspielhaus, il teatro sulla Gendarmenmarkt a Berlino. Amico di Klaus Mann, il figlio di Thomas, protetto da Hermann Göring, è stato ospite nella villa, e la vuole per sé. Rudolf Goldschmidt, figlio di Ernst, riceve forti pressioni, fino alle minacce, per cedere alle richieste dell'attore. Le trattative sono condotte dall'avvocato Gerd Voß, un membro delle SA. Ernst cede e vende la villa per 58 mila Reichsmark, meno della metà del valore reale. «La trattativa avvenne in modo poco serio, ma io sono un artista, non mi intendo di affari» ammise anni dopo Gründgens.
   Nella «notte dei lunghi coltelli,, tra il 30 giugno e il primo luglio del '34, con il pretesto di un complotto, Adolf Hitler elimina le SA guidate da Ernst Röhm. Un massacro sul Tegernsee, il lago vicino a Monaco. Il Führer non vuole rivali. Anche l'avvocato Gerd Voß viene arrestato, e Gründgens cerca di farlo liberare. Voß viene giustiziato il 2 luglio. Röhm e i suoi amici erano omosessuali, e lo è anche Gründgens, a Berlino lo sanno tutti, compagni di lavoro e i suoi ammiratori. I nazisti spediscono a Dachau, il Lager appena aperto alle porte di Monaco, i comunisti e gli omosessuali, considerati asociali.
   A dicembre Gründgens va da Göring e presenta le dimissioni dalla direzione del teatro, confessando di essere omosessuale. Ma l'amico le respinge, non deve temere, lo protegge lui, ma gli consiglia prudenza. Gründgens sposa l'attrice Marianne Hoppe, un matrimonio di convenienza. Nella villa sul lago la coppia continua a ricevere il bel mondo di Berlino, gerarchi nazisti, e artisti, anche ebrei che sperano di venir protetti da Gründgens.
   Klaus Mann è già andato all'estero, i libri del padre vengono mandati al rogo. In Olanda scrive nel '36 Mephisto, il romanzo ispirato a Gründgens, un attore che per il successo accetta il patto con il demonio. Ma un artista è al di sopra della morale? La villa sul lago viene usata da Gründgens come ambiente per i suoi film. Nel '39 vi gira Effi Briest dal romanzo di Theodor Fontane. Dopo la guerra, nel `45, viene arrestato per i suoi rapporti con il regime, trascorre quasi un anno in carcere, molti testimoniano a suo favore. Marianne Hoppe continua a lavorare nel cinema, l'ultimo film nel 1991, morirà nel 2002.
   La villa finisce all'Est. Viene occupata dall'esercito sovietico, poi diventa un orfanotrofio, infine è gestita dal ministero degli esteri della Germania orientale, come residenza estiva per i diplomatici. Nel '49 Gründgens adotta il compagno, il giovane Peter Gorki, e lo nomina suo erede. Muore a Manila nel '63, forse suicida. Peter continua ad opporsi alla pubblicazione di Mephisto, che offende la memoria di Gründgens. I giudici gli danno ragione: la reputazione di un uomo vale più della letteratura. Il romanzo uscirà nella Ddr nel '56, nella Repubblica Federale solo nel 1981.
   Dopo la riunificazione, Rudolf Goldschmidt chiede che gli sia restituita la villa «rubata» dai nazisti, si oppone Peter Gorki in nome del padre adottivo, e anche il ministero degli esteri che si considera erede dei beni della scomparsa di Rudolf muore nel 1999, e il suo erede Maximilian Wolf ottiene infine il «castello di Mephisto». È una fine non un lieto fine.

(ItaliaOggi, 9 gennaio 2021)


Rinviato il processo a Netanyahu

La Corte distrettuale di Gerusalemme ha rinviato a data da destinarsi l'udienza, prevista per mercoledì prossimo, del processo che vede coinvolto il premier Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano è accusato di frode, corruzione e violazione della fiducia in tre diverse inchieste. La proroga dell'udienza è dovuta al lockdown imposto nel paese per contrastare la terza ondata di contagi. Il premier si è sempre definito innocente respingendo le accuse, ma nelle scorse settimane migliaia di persone sono scese in piazza per chiederne le dimissioni. Durante l'annuncio del nuovo confinamento, Netanyahu ha dichiarato che per fine marzo saranno vaccinati tutti i cittadini.

(Domani, 9 gennaio 2021)


La giornalista Al-Sayed vittima di bullismo chiede sostegno ai colleghi israeliani

Ahdeya Ahmed Al-Sayed
Il presidente della Bahrain Journalists 'Association (BJA) ha dichiarato che i giornalisti dei media arabi che sostengono la normalizzazione con Israele sono vittime di bullismo e minacce online. Ahdeya Ahmed Al-Sayed ha dichiarato questo durante una conferenza online organizzata dall'American Jewish Press Association (AJPA) in cui ha chiesto sostegno ai suoi colleghi israeliani.
"Se desideriamo sostenerci, sarebbe una buona cosa aiutarci a non essere soli", ha detto la presidente della BJA. "L'AJPA può fare molto, se non si fa nulla, i giornalisti non cercheranno mai di parlare apertamente di normalizzazione".
Al-Sayed è la prima donna a essere eletta a guidare i 600 membri della BJA, ha vinto un seggio per il Bahrein per la prima volta nell'International Federation of Journalists 'Gender Council che mira a proteggere e difendere i diritti delle giornaliste in tutto il mondo.
Il presidente della BJA prevede di guidare la prima delegazione di giornalisti dal Bahrein in Israele quest'anno e afferma di essere stata attaccata per aver celebrato gli accordi di Abramo. "Sono stata vittima di bullismo, molestie sui social media. Mi sono sentita ferita".
Quello detto sui social ha superato il "limite di ciò che si può dire su una donna" in Bahrain, ha spiegato. Quello che non sopporto è che i suoi tre figli e il marito hanno dovuto leggere le parole odiose scritte contro di lei.

(DailyMuslim, 9 gennaio 2021)


Israele rafforza il lockdown. Rivlin: "Un blocco per non ucciderci a vicenda"

di Giacomo Kahn

E' arrivato in Israele un primo carico di vaccini Moderna, ma intanto il paese è costretto a rafforzare le misure del suo terzo lockdown di fronte al progredire dei contagi. "Dobbiamo rimanere in lockdown per non provocare la morte degli altri. Tutti noi dobbiamo seguire le regole", è stato il monito lanciato ieri dal presidente Reuven Rivlin, esortando la popolazione a far prova di "pazienza e disciplina" in attesa che la campagna vaccinale faccia il suo effetto e riporti il paese alla normalità.
   "Il blocco, con tutte le sue restrizioni decise dal governo, si applica a tutti noi", ha detto Rivlin. "Qualunque sia la tua posizione, questo blocco è una decisione del governo, il governo eletto di Israele, su raccomandazione dei consulenti medici professionisti responsabili della nostra salute, della salute delle persone nel loro insieme, senza deviazioni o opinioni politiche", ha aggiunto. "Stiamo andando in blocco per non ucciderci a vicenda", ha spiegato. "A questo punto - ha proseguito - vorrei dire che anche se c'è o ci sarà chi disobbedisce alle regole o alla legge, questo non dà a nessun altro, a nessuno, il diritto di infrangere la legge". "So che la salute e la stabilità economica, la più basilare di tutte le cose, sembrano più difficili che mai. La società israeliana deve affrontare una sfida complessa e dobbiamo fare tutto il possibile per affrontarla. Credo con tutto il cuore che possiamo farlo, allacciarsi le cinture, restare a casa e obbedire alla legge", ha concluso.
   Per i prossimi 14 giorni rimarrà in vigore la chiusura di bar e ristoranti, con la possibilità del solo asporto, così il divieto di frequentare persone non conviventi. La polizia è stata schierata in forze per assicurare il rispetto del confinamento Intanto è arrivato ieri a Tel Aviv un aereo cargo con 100mila dosi del vaccino Moderna, di cui Israele ha prenotato in tutto sei milioni di dosi. il 20 dicembre, Israele ha iniziato la campagna di immunizzazione dal covid-19 con il vaccino BioNTech-Pfizer ed è uno dei paesi che si sono finora dimostrati più efficienti in questo sforzo. Il ministro della Salute ha annunciato che già 1,6 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose.

(Shalom, 8 gennaio 2021)


Gerusalemme, primo giorno di lockdown: polizia nelle strade

Israele, le forze dell'ordine controllano il rispetto delle misure

Inizia oggi in Israele il nuovo lockdown imposto dal governo del premier Netanyahu per arginare l'aumento dei contagi da Covid-19 mentre è partita la campagna vaccinale di massa che punta a immunizzare tutti i cittadini sopra i 16 anni entro marzo. Scuole e negozi non essenziali sono chiusi, vietati gli incontri di più di 5 persone nelle case e di più di 10 all'aperto. Nelle strade di Gerusalemme la polizia controlla che le norme vengano rispettate.

(LaPresse, 8 gennaio 2021)


«A marzo tutti gli israeliani l'avranno fatto»

L'annuncio di Netanyahu

«Entro la fine di marzo saremo il primo Paese al mondo ad uscire dalla pandemia. Per quella data tutti gli israeliani che vorranno, sopra i 16 anni, saranno vaccinati». Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu annunciando l'imminente arrivo in Israele di una nuova «quantità importante di vaccini Pfizer», oltre quelli giunti oggi con il primo carico di Moderna. L'operazione - ha aggiunto Netanyahu spiegando di aver parlato di nuovo con il presidente della Pfizer Albert Burla - è stata chiamata "Ritorno alla vita". « Israele rappresenterà un Paese modello per il mondo intero per una vaccinazione di massa. Condivideremo con la Pfizer e il resto dell'umanità i dati statistici di questa vaccinazione». «Per la prossima Pasqua ebraica - ha sottolineato- potremo tornare a festeggiare con i nostri anziani». II premier ha tuttavia avvertito che la battaglia non è ancora vinta e che non bisogna abbassare la guardia continuando ad osservare tutte le precauzioni necessarie e rispettando il lockdown totale in vigore in Israele dalle 24 di ieri sera (ora locale) fino al 21 gennaio.

(Il Messaggero, 8 gennaio 2021)


«Questo finale rovina tutta la storia di una presidenza diffamata per anni»

L'intellettuale conservatore: «Ha rovinato con parole sbagliate delle politiche giuste»

di Fiamma Nirenstein

Seduti uno di qua e uno di là dall'Oceano, da Washington e da Gerusalemme, contempliamo con la testa fra le mani, insieme a David Wurmser, il disastro di Capitol Hill, la parabola del presidente che ha trasformato la conclusione del suo mandato in un circo di leoni impazziti. David è uno dei migliori intellettuali conservatori degli Stati Uniti, è stato consigliere speciale al Dipartimento di Stato di John Bolton, e prima di Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti, membro dell'American Enterprise Institute.

- Cos'è successo a Capitol Hill?
  «E' successo un disastro. Tutta la storia della presidenza Trump sarà ricordata soprattutto per questa conclusione, e la sua memoria ne sarà interamente compromessa».

- Le critiche a Trump erano già insistenti, asfissianti...
  «Di più, ed è stata proprio la persecuzione totalizzante del personaggio e dei suoi che ha portato al discorso scandaloso di due giorni fa. Trump è stato sempre un'antenna dello stato d'animo della sua folla, non di violenti, ma di cittadini su cui il fatto di non essere di sinistra è diventato un'accusa di essere una sorta di "nazisti". Una parola che non ammette replica, perché implica storicamente la sua totale indecenza. Trump e la sua gente in questi anni sono stati bombardati da accuse di ignominia: ci sono stati licenziamenti, fratture familiari, messe al bando di vecchi amici, odio, disgusto e shaming sui media, attacchi fisici al ristorante, per la strada ai trumpiani. La legittimazione appartiene a gruppi che per altro negli ultimi 8 mesi hanno distrutto migliaia di negozi, ferito cittadini, sparato ai poliziotti...».

- La campagna elettorale ha peggiorato molto.
  «Non è stata nemmeno una campagna elettorale, ma un coro di diffamazione mentre agli altri tutto veniva condonato, la violenza, i rapporti del figlio di Biden coi cinesi».

- Ma Trump ha sbagliato a reclamare ancora la vittoria e a chiederla alla folla.
  «Sì ha sbagliato, ha compiuto svariati errori, anche col Covid mentre faceva politiche giuste proclamava posizioni sbagliate. E induce oggi con gli ultimi fatti all'oblio dei molti errori storici che aveva curato con azioni giuste: aveva sgominato la paura paralizzante della Cina, l'ubbidienza ai no palestinesi promuovendo una serie di processi di pace; aveva posto fine alla pretesa che con l'Iran qualsiasi accordo sia migliore di un non accordo e alla passività di fronte all'ostilità di Onu ed Europa. E in politica interna ha promosso la riabilitazione in base alle regole di un mercato libero ma nazionalista di una larghissima classe sociale vilipesa. Da questa via Trump ha guadagnato sempre più consensi».

- Adesso possiamo dire che siamo in mezzo a un disastro?
  «I disastri sono due: il primo è quello legato agli scontri, il secondo è quello della Georgia. E' una tragedia per Biden non avere un Senato conservatore dietro cui nascondersi per bloccare l'estremismo del suo partito».

- Il problema è la democrazia americana: si potrà ricostruire una situazione in cui governo e opposizione si confrontano serenamente?
  «C'è sempre stato molto in comune nelle due parti politiche, nell'idea che ogni individuo è un depositario di "diritti inalienabili" dati da Dio o dalla Storia o dalla natura, o da qualcosa di più grande di lui. Ma ora la sinistra si è staccata da questa sponda, la sua propensione è verso una deriva socialista alla Bernie Sanders».

- Pensi che nei prossimi giorni Trump possa fare ancora qualcosa che possa sconvolgere il mondo?
  «Non direi. Trump ha abdicato all'interventismo Usa, lasciando a ciascuno i suoi guai e le sue scelte. Ha anche posto fine alla scelta politica di un inutile restraint internazionale. E così ha avviato parecchi cambiamenti positivi, ma...».

- Ma ha rovinato tutto.
  «Diciamo danneggiato».

(il Giornale, 8 gennaio 2021)


In viaggio alla scoperta delle sinagoghe d'Italia

di Massimiliano Castellani

Adam Smulevich, da Trieste fino a Palermo, passando per i piccoli centri del Belpaese, ci guida alla scoperta dei luoghi di preghiera e di aggregazione sociale della cultura ebraica italiana. Soste non solo a Venezia con le sue cinque sinagoghe o la Ferrara del Meis, ma si entra anche nelle tante "Case dell'assemblea" piemontesi e i luoghi più remoti della "Memoria".

«Il cammino comune tra cattolicesimo e ebraismo è fondamentale. Fondamentale fu la visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga, visita che inaugurò un cammino...». Sono le parole dell'ex rabbino italiano Elio Toaff (1915-2015). E quel cammino «comune» indicato da Toaff, in questo mese di gennaio che porta al "Giorno della Memoria" (il 27), lo seguiamo anche fisicamente, in un viaggio affascinante che ci porta alla scoperta del luogo dove la religione ebraica è vissuta intensamente da millenni. Quel luogo, nato anche per sopperire al vuoto dettato dall'esilio forzato del popolo di Israele, è la sinagoga, nella lingua madre, «BethhaKnesset», tradotto: «La casa dell'assemblea». La casa della socialità, della preghiera, «ma soprattutto la dimora della Torah, e cioè dei cinque libri del Pentateuco», scrive Adam Smulevich in Sinagoghe italiane. Raccontate e disegnate (Edizioni Biblioteca dell'Immagine. Pagine 333. Euro 15,00) che ci accompagna in questo viaggio, da Nord a Sud alla scoperta - in alcuni casi, trattasi di riscoperta - di questi scrigni secolari della tradizione spirituale e della cultura ebraica. Un viaggio nel tempo che inizia 2200 anni fa, ad Ostia antica.
  Lì, alle porte di Roma, nel I secolo venne edificata la prima sinagoga su suolo italico, «poi rinnovata nel IV secolo, è la più vecchia rinvenuta in Europa occidentale», puntualizza Smulevich. Un ritrovamento archeologico casuale quello dei resti ostiensi, così come altrettanto «fortuita» è stata la scoperta di una sinagoga di epoca romana a Bova Marina, in Calabria. Siamo nel Meridione che in origine fu l'approdo privilegiato degli ebrei provenienti dall'area mediterranea e quella mediorientale. Qui iniziarono a costruire le proprie sinagoghe, prima dell'oblio medioevale in cui «le sorti delle persone: le preghiere, tornano nelle case, nascoste e protette», spiega Smulevich. Non cambia lo scenario neppure con la scoperta del Nuovo Mondo ad opera di Cristoforo Colombo, che pare avesse origini ebraiche. Per gli ebrei, specie quelli del Sud d'Italia sottoposto al dominio della corona di Spagna - che imponeva la conversione al cristianesimo - le cose andarono di male in peggio. L'ora della segregazione scattò nel 1555 con la bolla papale Cum nimis absurdum di Paolo IV, e già dal 1516 Venezia aveva creato il primo ghetto. In ogni luogo, la pubblica ottusità antisemita, lamentando la minaccia alla quiete sociale per mano degli ebrei («i condannati alla schiavitù eterna»), inventava ad arte storie di bambini sacrificati nelle sinagoghe. E la diceria degli untori è durata fino «all'altro ieri - si legge in Sinagoghe d'Italia.
  Un macabro culto rimasto in vigore fino al Concilio Vaticano II. Si tratta della devozione istituita a Trento per onorare il "beato Simonino", un bambino ritenuto per secoli vittima di un omicidio rituale ebraico». Processi farsa, condanne sommarie, quanto ingiuste, portarono a secoli di spargimento di sangue tra i fedeli delle sinagoghe, che, spesso rimasero degli edifici celati all'interno dei centri storici delle nostre città.
  Ma il vento del Risorgimento iniziò a spirare dalla parte degli ebrei: nel 1848 lo Statuto Albertino gli concesse - assieme ai valdesi - «la dignità di culto e di cittadinanza». Trascorre però meno di un secolo che, Mussolini, con le Leggi razziali del 1938 mette nuovamente al bando la comunità ebraica italiana, sacrificata davvero sull'ara del totalitarismo nazifascista, che, oltre a mietere milioni di vittime, non risparmierà i loro luoghi di culto. Pertanto, questo viaggio, attraverso le pagine di un libro meravigliosamente illustrato da Pierfranco Fabris, è anche una sorta di censimento storico-artistico per rintracciare i segni vitali delle 21 comunità ebraiche, sparse da Trieste a Palermo. Mosaico vivente di una fervida minoranza - circa 25mila sono gli ebrei italiani, il 75% appartenenti alle comunità metropolitane di Milano e Roma - che dal massimo centro di aggregazione, che è la sinagoga, porta avanti il «tikkun olam», ovvero «l'opera di riparazione e risanamento del mondo». Il "Popolo del libro", la «Torah», lo fa studiando le leggi e rispettando le «mitzvot», le 248 azioni da compiere e i 365 divieti imposti. E il pensiero di ogni ebreo professante che entra nella sinagoga è illuminata dal «ner tamid», la lampada che simboleggia la luce eterna del Pentateuco. Quella luce non ha mai smesso di illuminare la sinagoga di Trieste, una delle più grandi d'Europa, avamposto di resistenza umana distante appena due chilometri - in linea d'aria - dalla famelica Risiera di San Sabba: «L'unico campo di sterminio attivo nel Paese». Vicino Trieste, a Gorizia, sorge la "Gerusalemme sull'Isonzo" con la sua sinagoga, intitolata al linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), punto d'incontro dell'intellighenzia locale, a cominciare dal poeta e filosofo de La Persuasione e la Rettorica, Carlo Michelstaedter (morto suicida a 23 anni, nel 1910) e della prima direttrice donna di un quotidiano, Carolina Luzzatto (1839-1917). "Capitale" della «consapevolezza» ebraica, come sottolinea Smulevich, è sicuramente Venezia, con il suo ghetto storico, le cinque sinagoghe (Tedesca, Canton, Italiana, Levantina e Spagnola) e il cimitero di San Nicolò, sull'isola del Lido, in cui aleggia il "Golem" veneziano che incuriosì le anime poetiche di Goethe e Byron. Prima della Shoah, assai frequentate erano anche le tre sinagoghe di Ferrara (Italia, Tedesca e Fanese). Le vicende storiche della comunità estense del secolo scorso si ritrovano nel tragico e romantico romanzo Il giardino dei Finzi Contini e i Racconti ferraresi dello scrittore ebreo Giorgio Bassani. Comunque gli Este, come i Gonzaga a Mantova, ebbero sempre un occhio di riguardo per gli ebrei, cosa come a Urbino, con profondo rispetto e in ricordo della distruzione del Tempio di Gerusalemme sulla sinagoga (inaugurata nel 1633) venne lasciata una fascia di mattoni rotti.
  «La costruzione di una sinagoga può anche essere la rivendicazione di un'autonomia, di un proprio percorso indipendente», si legge nel passaggio con "sosta" nello splendido borgo di Sabbioneta, che, oltre ai magnifici, Palazzo Ducale e il Teatro all'Antica dello Scamozzi (realizzato nel 1590), conserva la sinagoga. Fortemente voluta dai «113 ebrei» locali che rifiutarono l'unione con Mantova perorata dagli austriaci, e nel 1812 posero la prima pietra della loro "Casa dell'assemblea" incastonata all'interno di un palazzo cinquecentesco. L'estetica e l'eleganza sono cifre ricorrenti, e forse in questo la sinagoga di Merano rappresenta un esempio mirabile di "piccolo è bello". Nell'ex raffinato salotto imperiale, caro agli intellettuali (Kafka e Zweig, rimasero stregati da Merano) e al casato austriaco di Francesco Giuseppe, ancora oggi giungono alla sinagoga molti viennesi per onorare la memoria del rabbino e talmudista Yerucham Fischi che qui è sepolto. In Piemonte si può visitare il maggior numero di sinagoghe: a Torino, Asti, Casale, Alessandria, Vercelli, Biella, Cherasco, Cuneo, Mondovi, Saluzzo e Ivrea. Folto anche l'itinerario in Emilia che, oltre a Ferrara - dove alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2017 è stato inaugurato il Meis (Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah) - ci sono le comunità e le annesse sinagoghe di Bologna, Parma, Modena, Soragna (che funge anche da Museo della Memoria), Reggio Emilia (sinagoga riaperta più che simbolicamente settant'anni dopo le leggi razziali, nel 2008 e nel 150° della sua costruzione) e Carpi. Qui, ha sede la Fondazione ex Campo Fossoli, il campo di internamento da cui Primo Levi venne poi deportato ad Auschwitz, e dove al gendarme della Repubblica sociale italiana che gli chiese cosa poteva fare per evitare che i prigionieri andassero a morire nei lager, il chimico e scrittore ebreo torinese rispose: «Faccia il ladro, è molto più onesto». L'onestà intellettuale più forte e fiera dell'ebraismo italiano si rintraccia a Livorno. Città cosmopolita quella tirrenica, un tempo suddivisa internamente dalle «Nazioni», composte dalle diverse etnie sbarcate nel suo porto, delle quali un 10% era rappresentato dalla «Nazione ebraica». Sotto il granduca Ferdinando I de' Medici vennero promulgate le «Leggi Livornine», con la proclamazione di Livorno e Pisa «città senza ghetto». Livorno ha generato stirpi di illustri rabbini che, dal '700 ai giorni nostri, vanno da Chidà e Benamozegh, fino a Toaff. E fu lo stesso Toaff, a Roma, testimone diretto nel 1959 della prima benedizione di un Pontefice, il "Papa buono" Giovanni XXIII, alle famiglie che uscivano dalla sinagoga del ghetto di Portico Ottavia. Napoli, dove il primo stadio di calcio di proprietà, portava il nome del presidente ebreo Giorgio Ascarelli (morto a 32 anni, nel 1930) ha la giurisdizione su tutte le comunità ebraiche del Meridione. Sotto il Vesuvio gli ebrei erano stati cacciati definitivamente, senza praticamente fare più ritorno, dal 1540, ma nel 1863 la sinagoga di via Cappella Vecchia venne costruita grazie a un munifico lascito della ricca famiglia dei banchieri Rothschild. Gli Ascarelli hanno fatto il resto. Anche senza sinagoga la memoria di una piccola comunità, come quella di Conegliano, continua a "vivere" con l'Aron e altri arredi trasportati a Gerusalemme nel dopoguerra. La sinagoga nel 2007 è stata riportata alla Scola Nova (dove nel frattempo era sorta una chiesa cristiana). Mentre a Palermo, approdo finale di questo viaggio, la sinagoga presto troverà la sua sede nell'Oratorio di Santa Maria del Sabato, «nell'area anticamente occupata dagli insediamenti ebraici della Guzzetta e della Meschita - conclude Smulevich - . Un nuovo inizio, nel segno delle radici».

(Avvenire Agorà 7, 8 gennaio 2021)


Hi-tech, incontrarsi di persona aiuta

 
Aharon Aharon, amministratore delegato
dell'Autorità per l'innovazione di Israele
Prendendo in mano nel 2013 l'azienda Yahoo!, allora nel pieno di una prima crisi a causa del confronto con Google, l'amministratrice delegata Marissa Mayer decise alcune modifiche all'organizzazione aziendale, tra queste un cambio rispetto alla politica del work from home, il telelavoro (o smart working). Con una circolare aziendale a tutti i dipendenti, la Mayer fece diffondere questo messaggio: "Quando si lavora da casa, spesso si sacrificano la velocità e la qualità. Noi invece dobbiamo essere un unico Yahool, e a questo si può arrivare solo lavorando fisicamente insieme". Si chiedeva dunque ai dipendenti di tornare in azienda. Nella circolare si sottolineava un problema connaturale al lavoro da remoto: la perdita delle interazioni dal vivo. I suoi autori osservavano che un luogo di lavoro funziona a seconda "delle interazioni e delle esperienze possibili solo" in ufficio, come "le discussioni in corridoio o a mensa, gli incontri con persone nuove e le riunioni non programmate".
   Seppur questo cambio non abbia migliorato il destino di Yahoo!, le considerazioni della Mayer e del suo gruppo di lavoro sono considerate ancora valide oggi che il lavoro da casa è diventato una necessità obbligata. In attesa della vaccinazione di massa e di attestarne gli effetti, molti datori di lavoro non sanno ancora quando o se i loro dipendenti torneranno nei rispettivi uffici. Inoltre ci sono da prendere in considerazione le aspettative dei lavoratori: secondo un sondaggio di luglio di Swg, una significativa maggioranza di chi lavora da remoto non vuole rinunciarvi. Il 57%, stando all'indagine dell'Istituto triestino, vorrebbe continuare il work from home per almeno 1-2 giorni a settimana. Il 20% vorrebbe lavorare solo da remoto. E solo il 19% vorrebbe tornare stabilmente al lavoro in presenza. Esigenze da tenere in considerazione, ma che lasciano aperta la questione dell'interazione di persona e il suo essere un valore aggiunto. Tanto che in Israele Aharon Aharon, amministratore delegato dell'Autorità per l'Innovazione di Israele, si dice apertamente preoccupato per il massiccio utilizzo del lavoro da remoto nel paese. E diverse sono le criticità che solleva.
   Parlando con il Times of Israel, Aharon spiega che il lavoro da remoto "potrebbe indurre gli imprenditori ad assumere lavoratori all'estero" ad un costo minore. Quindi aprire la strada all'outsourcing, danneggiando il mercato del lavoro interno. Se non ho bisogno di personale in ufficio, posso affidare il lavoro a chiunque, anche al fuori dello Stato. Il problema può poi emergere sul fronte opposto: i lavoratori israeliani facilmente preferiranno lavorare in Israele per una compagnia internazionale con stipendi più alti e condizioni migliori di quelle offerte da una start-up locale in erba. "Questo potrebbe esacerbare ulteriormente la carenza di lavoratori qualificati che sta ostacolando la crescita dell'economia tecnologica israeliana", spiega Aharon. A questo si aggiunge quanto scriveva Yahoo! nella sua circolare: l'importanza dell'interazione dal vivo per lo sviluppo di nuove idee in situazioni di casuale convivialità. Un valore aggiunto difficilmente sostituibile.
   Per l'economista israeliano Gadi Ravid, preside della Scuola di Economia di Netanya, finita la pandemia "la maggior parte delle persone non continuerà a lavorare da casa, dato che siamo tutti creature sociali e desideriamo interagire con altre persone".

(Pagine Ebraiche, gennaio 2021)


Il Sudan normalizza i rapporti con Israele

Il Sudan ha firmato gli accordi con gli Stati Uniti che prevedono la normalizzazione dei rapporti con Israele. L'annuncio è arrivato dopo il viaggio nel paese nordafricano del segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin. Il Sudan aveva annunciato la volontà di normalizzare le relazioni con lo stato israeliano a ottobre dopo una telefonata tra il presidente del paese arabo e il presidente americano, Donald Trump. Anche Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno firmato a settembre i cosiddetti Accordi di Abramo che hanno posto fine alle ostilità diplomatiche con Tel Aviv dovute al conflitto israelopalestinese. Recentemente anche il Marocco ha deciso di normalizzare le relazioni con Israele grazie alla regia americana. I palestinesi hanno criticato duramente le decisioni dei quattro governi accusati di avere «tradito» la causa araba.

(Domani, 7 gennaio 2021)


Saar, una 'nuova speranza' politica

Gideon Saar
All'affollato palcoscenico politico israeliano si è aggiunto un nuovo attore che, come molti altri, vorrebbe sottrarre lo scettro del potere al Likud di Benjamin Netanyahu. È il partito di Gideon Saar, Nuova Speranza. Dopo anni di militanza nel Likud, Saar ha scelto di uscirne. Lo aveva fatto nel 2014, ma allora la decisione era stata giustificata con il desiderio di prendersi una pausa dalla politica. Sei anni dopo l'obiettivo dichiarato è "fondare un nuovo movimento politico, schierato contro Netanyahu per la premiership con l'intenzione di sostituirlo".
   In una breve conferenza stampa, Saar ha annunciato la sua scelta di tagliare con il passato, uscire dal partito e lasciare la Knesset, portando con sé diversi potenziali seggi. una mossa imprevista dal leader Netanyahu, che, dopo averlo schiacciato alle primarie nel dicembre 2019 pensava di non doversene più preoccupare. E invece l'ex collaboratore, che diverse volte ha aiutato Netanyahu nel mantenere le redini del Likud e del paese, ora ha deciso di sfidarlo apertamente. "Negli ultimi anni il Likud ha cambiato sempre più e drammaticamente il suo percorso. Il partito è diventato uno strumento per servire gli interessi del primo ministro, compresi quelli relativi al suo processo penale" ha attaccato Saar, sottolineando i processi a carico del Premier, Incriminato per corruzione, frode e abuso d'ufficio. "Non posso più sostenere un governo guidato da lui e non posso essere un membro del suo partito", ha aggiunto.
   Con lui si sono già schierati i due parlamentari di Derech Eretz, Zvi Hauser e Yoaz Hendel, ex sottosegretari di Netanyahu ed ex Kachol Lavan. Non è una coppia che sposta molti voti, ma ideologicamente sono molto vicini a Saar, un ideologo profondamente di destra, laico, che vive a Tel Aviv e sa sporcarsi le mani nella politica. Stupisce gli addetti ai lavori la scelta della sua numero due: Yifat Shasha-Biton, a lungo anonima politica del Likud, diventata famosa per essersi opposta alcuni mesi fa alla decisione di Netanyahu di chiudere piscine e palestre. Un'opposizione condita da una buona dose di retorica populista, ma apprezzata dai piccoli e grandi esercizi in grave sofferenza. Netanyahu non aveva gradito, mandando Miki Zohar, presidente della coalizione, a punirla cercando di farla dimettere dalla guida della commissione coronavirus. Shasha-Biton ha resistito e si è ritagliata un futuro politico. Su di lei - politicamente - aveva messo gli occhi Naftali Bennett, chiedendole di entrare a far parte di Yamina. L'offerta poteva essere interessante visto che Bennett nei sondaggi fino a metà dicembre andava a gonfie vele. Saar però ha anticipato l'ex ministro dell'Educazione e della Difesa, siglando un patto con Shasha-Biton per lei molto vantaggioso: novizia della politica, è stata posta come numero due di Nuova Speranza. C'è chi ha giudicato questa mossa avventata da parte di Saar vista la poca dimestichezza della parlamentare con la politica che conta. Il suo profilo di donna mitsrachi però serviva all'ex Likud, che ora dovrà prepararla al grande salto. Per soffiare lo scettro a Bibi non basta sperare, bisogna essere preparati.

(Pagine Ebraiche, gennaio 2021)


Prima gli israeliani nella campagna vaccinale di Netanyahu per il voto

Titolo tendenzioso e partigiano. NsI

di Lisa Di Giuseppe

ROMA - Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha scommesso tutto sulla campagna vaccinale anti-Covid: da qui passa la sua eventuale conferma a fine marzo, alla quarta elezione nazionale in due anni, dopo che il partner di governo Likud ha archiviato l'alleanza che durava soltanto da maggio. Per ora l'operazione sembra andare al meglio e Israele è in cima a ogni classifica nella velocità di somministrazione delle prime dosi: dal 20 dicembre un milione e mezzo di cittadini sono stati vaccinati (la popolazione è di poco più di nove milioni). La campagna elettorale non è ancora cominciata, ma è chiaro che in ogni manifesto, in ogni spot il premier farà riferimento al successo della lotta contro il Covid-19.

 L'organizzazione
  Se la campagna vaccinale sta andando infatti a gonfie vele è soprattutto grazie alle caratteristiche del paese e al sistema sanitario israeliano: la popolazione e l'estensione geografica sono relativamente limitate, nove milioni di abitanti in uno spazio grande quanto l'Emilia-Romagna in cui il percorso più lungo da coprire per lo spostamento dei vaccini da Tel Aviv ai luoghi di somministrazione è di un'ora e mezza. A queste peculiarità va aggiunto un sistema sanitario ibrido, in cui ogni cittadina è obbligata a sottoscrivere un'assicurazione sanitaria che conserva digitalmente tutti i dati dei clienti. Combinandoli con una fitta rete di medicina sul territorio (per somministrare le dosi è stato utilizzato anche un laboratorio mobile), oltre a centri vaccinali collocati in parcheggi, stadi, cortili delle scuole e perfino in un gazebo drive-in, arrivare a inoculare 150mila dosi di vaccino al giorno è stato più facile che altrove. Le categorie a rischio, le prime a essere vaccinate, vengono avvertite via messaggio sul cellulare o chiamata con la comunicazione dell'orario esatto dell'appuntamento per evitare file. II vero merito del governo è però stato quello di essere trai primi al mondo a mettersi in trattativa con i produttori dei vaccini, che altrimenti difficilmente avrebbero dato attenzioni particolari a un paese delle dimensioni di Israele. Le prime dosi sono state consegnate da BioNTech-Pfizer già il 9 dicembre, addirittura prima del via libera della Food and drug administration, l'autorità competente americana, arrivato due giorni dopo, per avere tempo a sufficienza per lavorare sulla logistica. Oggi la gestione è in mano a Sie, un'azienda specializzata, che spacchetta le dosi di Pfizer all'aeroporto di Tel Aviv e le distribuisce nel resto del paese. Per avere un trattamento preferenziale nella consegna del vaccino, secondo l'agenzia Reuters, il governo avrebbe pagato 30 dollari a dose, pari a circa il doppio del prezzo standard. Quanto sia stato pagato e quale sia la vera portata degli ordini commissionati dall'esecutivo di Netanyahu è un segreto ben custodito, anche perché ora le vaccinazioni dovranno essere rallentate, se non del tutto sospese, le dosi contenute nella prima consegna sono infatti quasi terminate, e la prossima fornitura dovrebbe arrivare a fine mese.

 La portata politica
  In un paese dove si registrano 8mila nuovi casi al giorno, in proporzione più del doppio di quelli contati quotidianamente in Italia riuscire a raggiungere un calo dei contagi a metà marzo, dopo l'ennesimo lockdown che dovrebbe entrare in vigore nei prossimi giorni, potrebbe fare la differenza alle elezioni. Ed è per questo che il premier sta cercando di intestarsi il più possibile il successo, facendosi spesso vedere nei centri vaccinali: si sono così trasformate in operazioni di immagine la 500millesima somministrazione, e la milionesima, ricevuta da un arabo israeliano. L'opposizione intanto accusa il governo di approfittare della campagna vaccinale per guadagnare consensi senza lavorare intanto a una strategia di lungo periodo per affrontare disoccupazione e recessione, ma l'esecutivo nega. Netanyahu, che si è vaccinato per primo in diretta televisiva sta lavorando intensamente per portare più cittadini possibile a vaccinarsi, anche le minoranze come gli ebrei ortodossi e gli arabi, che in prima battuta erano rimasti lontani dai centri, soprattutto a causa di molte fake news circolate negli ultimi giorni. Resta però irrisolta la gestione della fornitura dei vaccini ai palestinesi della striscia di Gaza e in Cisgiordania. Secondo le norme internazionali, Israele, in quanto paese occupante, sarebbe responsabile della vaccinazione degli abitanti di quei territori, ma per il momento la campagna non li ha ancora raggiunti Il governo israeliano ha però annunciato di essere pronto a cedere ogni dose in eccesso rispetto al fabbisogno della popolazione israeliana. Prima gli israeliani, insomma.
   In realtà, non è chiaro se ci siano stati contatti tra l'Autorità palestinese, che tecnicamente presiede anche a un sistema sanitario autonomo, e il governo israeliano: sembrerebbe infatti che l'Anp abbia iniziato per conto proprio anche trattative con i produttori, tra gli altri anche quelli del vaccino russo. A breve dovrebbero comunque arrivare le spedizioni gestite dall'Oms nel programma Covar, creato per evitare che i paesi meno abbienti siano svantaggiati nell'ottenimento del vaccino. Le autorità competenti hanno però già annunciato che ci saranno problemi nella conservazione del prodotto, che va mantenuto a temperature molto basse. Intanto, molte organizzazioni umanitarie tra cui Amnesty International si sono mosse per chiedere al governo israeliano di farsi carico anche della vaccinazione dei palestinesi.

(Domani, 7 gennaio 2021)


*


Israele pronta a fornire i vaccini ai palestinesi. L'Anp contraria

Ramallah non intende chiedere aiuto allo stato «rivale» e preferisce affidarsi al sostegno lanciato ad aprile dall'Oms, dalla Commissione europea e dalla Francia per aiutare i paesi a basso reddito

di Fabiana Magrì

Anche Amnesty International si è unito all'appello di vari attivisti e gruppi per i diritti umani nel chiedere a Israele di farsi carico delle vaccinazioni dei palestinesi. Il dibattito oscilla tra l'evocazione di obblighi legali e morali che rispondono al diritto internazionale e il rispetto dei limiti imposti dagli accordi di Oslo, che hanno affidato all'Autorità Palestinese la responsabilità per l'assistenza sanitaria del suo popolo. Il paradosso è che, ai due estremi della questione, le posizioni dei diretti interessati sono esattamente opposte rispetto alla denuncia delle ONG.
   Già prima dell'inizio della campagna di vaccinazioni in Israele, il vice ministro della Salute Yoav Kisch aveva dichiarato la disponibilità dello Stato di prendere in considerazione l'idea di aiutare l'ANP. Lo aveva sostenuto anche il ministro Yuli Edelstein, sottolineando che, dopo aver provveduto al primo obbligo nei confronti dei propri cittadini, sarebbe stato nell'interesse di Israele contribuire a debellare il virus tra i palestinesi.
   Ma Ramallah non intende chiedere aiuto a Israele per l'approvvigionamento dei vaccini, e tanto meno ci si può aspettare da Hamas per Gaza. Entrambi fanno affidamento sul programma COVAX, lanciato ad aprile dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, dalla Commissione europea e dalla Francia in risposta alla pandemia. Il COVAX ha lo scopo di aiutare i paesi a basso reddito - sono oltre 90 quelli che partecipano al programma, tra cui Cisgiordania e Gaza - a ottenere una quota equa di vaccini. E ci potrebbero volere mesi prima che le prime dosi arrivino sul campo.
   «Quello a cui stiamo assistendo - ha commentato il professore di scienze politiche Gerald Steinberg in un incontro con la stampa - è lo schema, sempre identico, che si ripete da vent'anni: un gruppo di ONG che abitualmente, e direi in maniera ossessiva, si dedica a sminuire e puntare il dito contro Israele. Oggi il tema è il vaccino».
   L'accademico israeliano è presidente di «NGO Monitor», un think tank con lo scopo di generare e distribuire analisi critiche e rapporti sull'operato del mondo del volontariato internazionale per fornire informazioni e contesto a beneficio delle ONG che lavorano in Medio Oriente. E per far emergere distorsioni relative ai diritti umani nel conflitto arabo-israeliano.
   «Nella maggior parte dei casi - ha continuato - le accuse si basano su rivendicazioni di diritti umani. Ma, dal mio punto di vista, si tratta di politica internazionale mascherata da diritto internazionale».
   Oltre una decina di organizzazioni di volontariato hanno firmato l'appello. Sono palestinesi, israeliane e internazionali, laiche e religiose.
   «In questa particolare situazione, non solo Israele non ha nessun obbligo di provvedere ai vaccini per l'Autorità Palestinese, ma gli è perfino proibito, proprio dalle leggi internazionali, di aiutare i palestinesi nell'impresa della vaccinazione».
   A sostenerlo è Daniel Pomerantz, avvocato e amministratore delegato di HonestReporting.com, una non profit con sede a Gerusalemme che ha la missione di rilevare pregiudizi, imprecisioni e violazioni degli standard giornalistici nella copertura del conflitto arabo-israeliano.
   Pomerantz sottolinea che, se la convenzione di Ginevra a cui si appellano le ONG obbliga una forza occupante a provvedere al benessere, alla salute e alla sicurezza delle persone che vivono nell'area occupata, gli Accordi di Oslo, e in particolare Oslo 2, specificano che l'ANP e il sistema sanitario palestinesi hanno il vincolo di coordinarsi con Israele.
   «Oslo determina il modo in cui deve essere applicata la convenzione di Ginevra tra israeliani e palestinesi. E il coordinamento è ciò che fa scattare l'obbligo di aiuto. Ma l'Autorità Palestinese ha rifiutato di intraprendere quella specifica azione legale di richiedere aiuto, che serve per determinare una collaborazione, secondo gli accordi di Oslo».
   Alle fine di dicembre, e molte volte fino a ieri, l'ANP aveva ribadito che non avrebbe chiesto aiuto a Israele. «Non siamo un dipartimento del ministero della Difesa israeliano. Abbiamo il nostro governo e il nostro ministero della Salute, che stanno compiendo enormi sforzi per ottenere il vaccino», aveva affermato un dipendente della Sanità palestinese, ripreso dal Jerusalem Post.
   Al momento non c'è stata alcuna reazione, da parte di Israele, per quel che riguarda l'appello di Amnesty e delle altre ONG. Un alto funzionario di Ramallah, invece, ha dichiarato al Jerusalem Post che l'ANP starebbe adesso esaminando la possibilità di chiedere i vaccini a Israele.

(La Stampa, 7 gennaio 2021)


Vaccini: perché non possiamo fare come Israele

Il 4 gennaio, ospite a Quarta Repubblica su Rete 4, il leader di Italia viva Matteo Renzi ha criticato (min. 1:38) il governo - di cui il suo partito fa parte - per la gestione della campagna vaccinale contro il coronavirus. Secondo Renzi, il nostro Paese dovrebbe prendere esempio dal modello di Israele, elogiato da molti negli ultimi giorni, tra cui il virologo Roberto Burioni.
  Al di là dei limiti del piano vaccinale italiano, di cui abbiamo scritto di recente, quando si fanno confronti di questo tipo va tenuta in considerazione una serie di elementi. Vediamoli uno per uno, dopo aver analizzato brevemente i dati sui vaccinati.

 I numeri sui vaccinati
  Alle ore 15 del 5 gennaio, in Italia avevano ricevuto la prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech quasi 180 mila persone, circa lo 0,3 per cento della popolazione italiana. Sebbene sia ancora presto per trarre un primo bilancio, si possono evidenziare due cose: da un lato, c’è una forte disparità tra regioni; dall’altro lato, si sta registrando un trend di crescita nel numero delle vaccinazioni effettuate. Nella giornata del 4 gennaio sono stati infatti somministrati circa 60 mila vaccini, 10 mila in più rispetto al giorno precedente.
  I dati di Israele sono invece ben più elevati dei nostri. Secondo i numeri comunicati il 4 gennaio dal ministro della Salute israeliano Yuli Edelstein, finora in Israele hanno ricevuto il vaccino oltre 1,2 milioni di persone.
  Secondo le elaborazioni di Our World in Data - che vanno prese con un margine di incertezza, data la discrepanza sulle date con cui vengono aggiornati i dati - in Israele ha ricevuto la prima dose il 14 per cento circa della popolazione, una percentuale 50 volte superiore a quella dell’Italia (che al momento è seconda tra i grandi Paesi Ue, dietro la Germania, ma davanti a Francia e Spagna; e dietro al Regno Unito, che però ha iniziato prima le vaccinazioni).

 Le differenze di popolazione e di superficie
  È vero che questi dati sono espressi in percentuale rispetto alla popolazione, ma vanno comunque tenuti a mente i valori assoluti. Israele ha circa 9 milioni di abitanti, quasi un settimo dei 60 milioni circa dell’Italia.
  Le dimensioni della popolazione israeliana non sono un fattore secondario. Come ha sottolineato il 1° gennaio al New York Times Ran Balicer, un ricercatore che fa parte del gruppo di scienziati che consiglia il governo israeliano, avere un numero di abitanti relativamente contenuto sta aiutando Israele ad avere numeri elevati nelle vaccinazioni.
  In più, Israele ha una superficie di circa 21.600 chilometri quadrati: è grande più o meno come l’Emilia-Romagna ed è oltre 13 volte più piccola di tutto il territorio italiano. Da un punto di vista logistico, come hanno osservato altri commentatori, questa caratteristica sta contribuendo ad avere numeri alti.

 La data di partenza
  Un altro elemento da tenere in considerazione quando si confronta Israele con l’Italia, o altri Paesi europei, riguarda la data di avvio della campagna vaccinale e il numero delle dosi a disposizione. Partiamo dal primo punto.
  Israele ha iniziato le vaccinazioni lo scorso 20 dicembre, ma va sottolineato un fatto non da poco. Come riportano fonti stampa israeliane e internazionali, il 9 dicembre - quindi 11 giorni prima - erano arrivate in Israele circa 4 mila dosi del vaccino Pfizer-BioNTech, per testare la logistica, seguite il giorno dopo da altre 110 mila dosi circa.
  Dunque, Israele non ha iniziato subito a vaccinare, pur avendo migliaia di dosi a disposizione, e già il 9 dicembre era noto che l’obiettivo di somministrare i primi vaccini era quello del 20 dicembre. Il motivo di questo ritardo è che Israele stava aspettando l’approvazione del vaccino Pfizer-BioNTech da parte della Food and drug administration americana - come stabilito dal contratto con la casa farmaceutica, siglato il 13 novembre - arrivata l’11 dicembre.
  In Italia, il Vaccination day è stato invece il 27 dicembre ma, come vedremo tra poco, le vaccinazioni vere e proprie sono iniziate qualche giorno dopo. Il nostro Paese - così come tutti i Paesi Ue - aveva dovuto aspettare il via libera dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) al vaccino Pfizer-BioNTech, arrivato il 21 dicembre.
  Nella corsa alle vaccinazioni, Israele è dunque partita prima. Secondo i dati del governo israeliano, il 20 dicembre Israele aveva comunque vaccinato 10 mila medici - un numero in linea con quello del primo giorno italiano - con l’impegno ad aumentare il ritmo nei giorni seguenti, per raggiungere la popolazione più anziana. In 15 giorni di vaccinazioni, ha tenuto una media quotidiana di circa 80 mila iniezioni, arrivate a 150 mila negli ultimi giorni.
  Al momento, riportano fonti stampa israeliane, Israele ha già dato la prima dose al 46 per cento degli over 60, ma ora corre il rischio di dover fermare l’inoculazione delle prime dosi, concentrandosi sulle seconde per i già vaccinati, poiché non è chiaro se saranno rispettate le consegne da parte dei fornitori. «Israele sta vaccinando così velocemente che sta esaurendo le dosi», ha scritto il 4 gennaio il Washington Post in un articolo che riconosce i meriti israeliani, ma anche i limiti, per esempio sulle scorte a disposizione.

 Il numero delle dosi
  Un altro elemento da tenere in considerazione è infatti quello relativo alla quantità di dosi contrattate e acquistate da Israele. Secondo alcuni, come il New York Times e il Financial Times, non c’è stata trasparenza su numero e prezzo dei vaccini contrattualizzati dal governo di Benjamin Netanyahu. Altri progetti che monitorano l’approvvigionamento di vaccini a livello mondiale - come il Launch and Scale Speedometer del Duke Global Health Innovation Center - non hanno raccolto una cifra definitiva.
  Oltre a Pfizer-BioNTech, da cui dovrebbe ricevere in totale 8 milioni di dosi, il 5 gennaio Israele ha autorizzato il vaccino Moderna (non ancora disponibile in Europa, ma autorizzato negli Stati Uniti e in Canada) da cui si aspetta 6 milioni di dosi. Insomma, una quantità sufficiente per coprire l’intera popolazione israeliana.
  Per quanto riguarda le sole dosi ricevute da Israele, queste sono sicuramente superiori a quelle arrivate all’Italia visto il numero di vaccinati. Tra l’altro, la gestione dell’approvvigionamento dei vaccini tra gli Stati membri dell’Ue è stata affidata alla Commissione e l’Italia da Pfizer-BioNTech si aspetta di ricevere oltre 26 milioni di dosi entro il terzo trimestre del 2021.
  Il 27 dicembre il nostro Paese ha ricevuto 9.750 dosi simboliche del vaccino Pfizer-BioNTech e altre 469.950 dal 30 dicembre al 1° gennaio. Al momento ne sono state usate circa 180 mila, poco più del 37 per cento, ma c’è un’ampia differenza territoriale: in alcune regioni, come il Lazio, è stato utilizzato il 63 per cento delle dosi ricevute; in regioni come la Lombardia (che ha di fatto iniziato le vaccinazioni il 4 gennaio) meno: circa l’11 per cento.
  Va comunque ricordato che una parte delle dosi va conservata per poi avere a disposizione le scorte per iniziare le seconde iniezioni. Per il 5 gennaio è atteso l’arrivo in Italia di altre 470 mila dosi circa del vaccino Pfizer-BioNTech.

 L’organizzazione delle vaccinazioni
  C’è poi la questione relativa a chi è responsabile della logistica e della gestione della campagna vaccinale. Dal piano italiano dei vaccini contro il coronavirus, è evidente che nel nostro Paese le responsabilità siano abbastanza sparpagliate, tra il Ministero della Salute, le Regioni e le Province autonome, e la struttura del commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri. Questa suddivisione dei compiti sta alimentando un dibattito per nulla nuovo, quello sullo scontro tra Stato e autorità locali nella gestione della sanità. Criticità ce ne sono, come abbiamo evidenziato di recente, ma vedremo nei prossimi giorni come si evolveranno i numeri.
  Dall’altra parte, Israele ha un approccio alla sanità molto più centralizzato e, cosa non da poco, digitalizzato. In questi giorni si fa spesso riferimento alla storia di Israele, alle sue capacità militari e a quelle di gestire situazioni di emergenza. È vero, ma come hanno evidenziato fonti stampa internazionali, per il momento il ricorso a membri dell’esercito è stato più di supporto logistico.
  «La struttura unica del sistema sanitario sta aiutando Israele», ha scritto l’Economist il 4 gennaio. «Il governo fornisce una protezione universale attraverso quattro organizzazioni di assicurazioni sanitarie, che devono accettare qualunque cittadino. Per mantenere i costi bassi, queste organizzazioni hanno investito molto nella digitalizzazione e nella medicina preventiva, con l’obiettivo di tenere i propri scritti lontano da trattamenti costosi». Un sistema, dunque, che ben si sposa con le necessità di una campagna vaccinale di massa.
  Curiosità: nelle ultime ore in molti in Italia hanno ripetuto, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori (Pd) in un'intervista con La Repubblica, che Israele vaccina 24 ore al giorno. Ma questa notizia è stata smentita (min. 13:40) il 5 gennaio da Raffaele Genah, corrispondente della Rai da Gerusalemme, ospite a Radio anch’io su Rai Radio 1. I centri che dispensano i vaccini chiudono, infatti, alle 22, secondo quanto riportato da Genah.

 Il contesto politico
  Prima di concludere, merita un breve accenno anche la situazione attuale che sta vivendo Israele a livello politico. Come ha sottolineato il quotidiano britannico The Guardian lo scorso 30 dicembre, il primo ministro Netanyahu sta investendo parecchio dal punto di vista politico su questa campagna vaccinale. Il che spiegherebbe, in parte, anche il forte ritmo che sta tenendo il Paese sulle vaccinazioni. Il prossimo 23 marzo in Israele ci saranno le quarte elezioni in due anni, dopo che l’esecutivo di unità nazionale è durato soltanto 7 mesi. Tra le altre cose, il 4 gennaio 2021 è stata avanzata la proposta, dalle autorità sanitarie, di introdurre in Israele una sorta di "passaporto vaccinale", per permettere a chi ha ricevuto due iniezioni del vaccino di poter prendere aerei e partecipare ad assembramenti. Una scelta che fa discutere, ma che potrebbe incentivare ancora di più il ricorso al vaccino.
  Altri commentatori hanno osservato che il governo abbia deciso di vaccinare il maggior numero di persone possibile per evitare di aumentare le misure di contenimento attualmente in vigore nel Paese, già inasprite a fine dicembre, ma comunque meno restrittive di quelle dei due precedenti lockdown. Secondo fonti stampa israeliane, il governo starebbe prendendo in considerazione l’ipotesi di inasprire i provvedimenti, per esempio chiudendo le scuole.
  In tutto questo, non sono mancate le polemiche per quanto riguarda l’esclusione di una parte della popolazione palestinese - quella che non ha la cittadinanza israeliana e quindi non è protetta dalla copertura sanitaria - dalla campagna vaccinale israeliana.

 In conclusione
  Nelle ultime ore, in molti - tra cui il leader di Italia viva Matteo Renzi - hanno chiesto al governo italiano di prendere a modello Israele per la gestione della campagna vaccinale contro il coronavirus.
  Al momento Israele ha dato la prima dose di vaccino a oltre 1,2 milioni di cittadini, circa il 14 per cento della popolazione, contro le circa 180 mila dosi inoculate in Italia, pari allo 0,3 per cento circa della popolazione.
  È vero: Israele è tra gli Stati che ha fatto più vaccini in rapporto alla popolazione, ma ci sono diversi elementi da tenere in considerazione quando lo si confronta con l’Italia o altri Paesi europei, al di là delle legittime critiche al governo Conte.
  Innanzitutto, Israele ha circa 9 milioni di abitanti ed è grande come l’Emilia-Romagna, una caratteristica che aiuta dal punto di vista logistico. In secondo luogo, ha iniziato la campagna vaccinale ben prima dei Paesi europei, aumentando di giorno in giorno il numero dei vaccini somministrati. A tal punto che ora corre il rischio di doversi fermare per le prime dosi, vista l’incertezza sulle prossime forniture. In ogni caso, le dosi a disposizione di Israele sono state molto di più rispetto a quelle degli altri Paesi europei, Italia compresa.
  Al momento, la sostanziale differenza in Israele sembra farla il suo sistema sanitario, più centralizzato e digitalizzato di quello, per esempio, italiano, dove le responsabilità sono sparpagliate tra Stato e Regioni.
  Infine, non va dimenticato il contesto politico in cui si trova Israele: di fatto, oltre al successo a livello sanitario, il primo ministro Benjamin Netanyahu si sta giocando molto, in vista delle elezioni del prossimo 23 marzo.

(Pagella Politica, 5 gennaio 2021)


Il podestà e il falegname che misero in salvo il rabbino di Acqui

Il memoriale della Shoah ha nominato tre eroi dimenticati del Monferrato "Giusti fra le Nazioni"

di Federica Cravero

Giorgio Polacco (a sinistra) con la famiglia Badarello
La storia è così avventurosa, a tratti da brivido, che quando Meir Polacco e Paola Fargion la raccontavano alle presentazioni del loro libro, molti pensavano che fosse una fiction. Una storia di ebrei ricercati dai tedeschi e nascosti dagli italiani, di bambini che portavano loro il cibo perché insospettabili, di albergatori che nelle camere ospitavano i gerarchi nazisti mentre nelle cantine nascondevano una dozzina di ebrei.
   Invece era tutto vero quello che avevano scoperto setacciando gli archivi e intervistando chi era bambino negli anni Quaranta e lo dimostra il fatto che dopo due anni di scrupolose verifiche il Memoriale della Shoah Yad Vashem di Gerusalemme ha concluso il complesso e rigoroso iter per attribuire il titolo di " Giusti tra le Nazioni" a tre eroi dimenticati dell'Alto Monferrato "che durante il periodo più buio della storia dell'umanità, hanno saputo scegliere ciò che era giusto e non ciò che forse sarebbe stato più facile", indica la motivazione del riconoscimento, che verrà consegnato agli eredi attraverso l'ambasciata di Israele.
   Il primo dei tre eroi è Angelo Moro, che era podestà di Acqui dopo l'8 settembre 1943 e che fornì documenti falsi ad Adolfo Yehoshua ben Yehudà Ancona, a lungo rabbino capo di Alessandria, Asti e Acqui, salvato assieme al nipote Giorgio Polacco ( padre di Meir) e ad altri familiari. Gli altri due sono Enrico Giuseppe Badarello e Mafalda Bosio, che ospitarono il rabbino, i suoi familiari e altri fuggiaschi nella cascina "Zapota" che avevano a Terzo, a pochi chilometri da Acqui Terme.
   A raccontare questa storia nel libro "Il Vescovo degli Ebrei" sono moglie e marito: Paola Fargion si è occupata della narrazione mentre Meir Polacco, pronipote del rabbino, si è dedicato alle ricerche di chi salvò la sua famiglia, sia persone delle istituzioni che persone semplici. Come Enrico Giuseppe Badarello. Era un falegname e aveva conosciuto il rabbino quando aveva costruito i banchi della sinagoga. E nel momento in cui un maresciallo dei carabinieri, passato dalla parte dei partigiani, avvertì il rabbino che i tedeschi lo stavano cercando, il falegname e la sua famiglia non esitarono a ospitare lui, il nipote e altri fuggiaschi ebrei. E li protessero così a lungo che per sfamarli Badarello fu costretto a ipotecare la cascina e, poiché non riuscì mai a restituire il prestito, perse la casa ed emigrò in Francia, dove ancora oggi vivono quattro dei suoi sei figli e i molti eredi nati Oltralpe. Ora, dunque, l'onorificenza di "Giusto" - in ebraico "Chasidei Umot HaOlam", la più importante a livello mondiale per gli eroi della Shoah - restituisce la memoria di una grande azione. " Stiamo lavorando perché venga riconosciuta alla famiglia Badarello non solo la cittadinanza onoraria di Terzo ma anche la cittadinanza italiana - spiega la scrittrice - Dopo tanti decenni la memoria è un dovere imperativo, ma è anche un gesto di riparazione, anche spirituale oltre che storica".
   Da Terzo gli ebrei andarono via su un carro, si riunirono con altri rami della famiglia, poi si nascosero in un hotel a Stresa, protetti dagli albergatori. Altri eroi per caso. Per Meir Polacco scoprire chi salvò la sua famiglia è stato importante per conoscere meglio quel padre morto quando lui aveva tre anni. Giorgio Polacco, dopo aver ricevuto una nuova identità con i documenti falsi del podestà Moro, non solo rimase in Italia ma si arruolò con i partigiani di Giustizia e libertà. Per il suo impegno politico fu arrestato e portato Villa Merli, a Cremona. Dunque scampò come ebreo ai campi di concentramento ma non alle torture nel carcere repubblichino. Solo dopo la fine della guerra, negli anni Cinquanta, Giorgio Polacco decise che il suo posto era in Israele e si trasferì nel kibbutz di Givat Brenner, dove si sposò e nacque il figlio Meir. Ma il fisico fragile dell'uomo non superò mai le conseguenze delle sevizie patite dai fascisti e morì prematuramente. Ed è toccato tanti anni dopo al figlio Meir, tornato in Italia, scrivere la storia della sua famiglia e contribuire al ricordo di chi, lavorando nell'ombra, la salvò dall'Olocausto.

(la Repubblica, 7 gennaio 2021)


Israele e Grecia verso la firma di un accordo ventennale sulla difesa

Il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato che firmerà un accordo di sicurezza con la Grecia, dal valore 1,68 miliardi di dollari, valido per 20 anni. Secondo il comunicato, rilasciato martedì 5 gennaio, il governo greco avrebbe appena approvato i termini del patto. Tuttavia, non è stata ancora stabilita la data della firma dell'accordo, che coinvolgerà rappresentanti di entrambi i Ministeri della Difesa e della Elbit Systems, la società internazionale di elettronica per la Difesa, con sede in Israele.
   Secondo quanto riferito dal quotidiano al-Monitor, l'accordo include l'acquisto, da parte della Grecia, di 10 aeromobili M-346, la manutenzione degli aeromobili T-6 e la fornitura di simulatori, mezzi di addestramento e di supporto logistico, tutti parte di una scuola di volo per l'Aeronautica ellenica che sarà gestita da Elbit Systems. La scuola sarà modellata sull'accademia di volo dell'aeronautica militare israeliana.
   La società internazionale di elettronica per la Difesa, commentando la notizia, ha twittato: "Come parte di un accordo tra il Ministero della Difesa israeliano e il Ministero della Difesa greco, siamo stati selezionati per il Programma di addestramento al volo da 1,68 miliardi di dollari dell'Aeronautica Militare ellenica". Il generale, Yair Kulas, capo della Direzione per la cooperazione internazionale per la difesa del Ministero israeliano, si è congratulato con entrambi i Paesi per la conclusione dell'accordo e ha dichiarato: "L'approvazione di questo patto da parte del governo greco è un passo storico per approfondire ulteriormente le eccellenti relazioni di difesa tra i nostri due Paesi. Questo non è solo un accordo di esportazione della Difesa, ma piuttosto una partnership che durerà per almeno altri 20 anni. Vorrei ringraziare il Ministero della Difesa Nazionale greco per la sua fiducia e per aver assegnato questo importante compito al Ministero della Difesa israeliano e alla nostra eccellente industria della Difesa".
   Il ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz, ha affermato, dal canto suo: "Questo accordo riflette le relazioni eccellenti e in via di sviluppo che abbiamo con la Grecia. È un partenariato a lungo termine che servirà gli interessi di Israele e della Grecia, creerà centinaia di posti di lavoro in entrambi i Paesi e promuoverà la stabilità nel Mediterraneo". Gantz ha sottolineato di essersi confrontato per telefono con la sua controparte greca, Nikolaos Panagiotopoulos, dopo l'approvazione dell'accordo, lodando il rafforzamento dei legami tra Atene e Tel Aviv nel settore della Difesa. "Sono lieto di aggiornarvi che, in seguito alla mia precedente intesa con la controparte greca, sarà presto lanciato un accordo bilaterale di cooperazione in materia di sicurezza tra i nostri due Paesi, inclusi 1,68 miliardi di dollari per l'istituzione e il funzionamento di una struttura di addestramento per l'aviazione militare greca per i prossimi 20 anni", ha scritto più tardi Gantz su Twitter.
   Il ministro israeliano ha incontrato l'ultima volta l'omologo Panagiotopoulos il 12 novembre, quando entrambi i ministri si erano recati a Nicosia per discussioni strategiche trilaterali su questioni di sicurezza insieme alla loro controparte cipriota. Gantz, il ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, e il primo ministro, Benjamin Netanyahu, hanno tutti investito notevoli sforzi diplomatici negli ultimi due anni per approfondire i legami bilaterali con la Grecia e l'alleanza strategica con Atene e Nicosia.
   I leader di Grecia, Israele e Cipro stanno lavorando insieme alla costruzione del nuovo gasdotto sottomarino EastMed, che trasporterà gas naturale dalle riserve presenti nel Mediterraneo sudorientale all'Europa continentale. EastMed si estenderà per 1900 chilometri circa e, secondo quanto sottolineato dai tre Paesi, si pone quale alternativa per l'Europa, attualmente dipendente dalla Russia e dalla regione caucasica per quanto riguarda l'offerta di gas. Secondo il progetto presentato, il gasdotto partirà dalle riserve di gas naturale israeliane del bacino del Mar di Levante, per poi dirigersi verso Cipro, Creta e terminare in Grecia. Successivamente, dalla Grecia il gas giungerà in Italia attraverso un ulteriore gasdotto. Il progetto, secondo le stime, ha un valore di circa 6 miliardi di euro e, nel giro di 7 anni, soddisferà il 10% del fabbisogno di gas naturale dell'Unione Europea.
   L'EastMed ha portato con sé tensioni a livello politico tra Grecia e Cipro da un lato e Turchia dall'altro. Tali tensioni risultano collegate alla disputa territoriale tra Ankara e Nicosia in merito alla sovranità sulle acque a largo di Cipro, ricche di gas naturale, dove la Turchia conduce operazioni di trivellazione dallo scorso maggio.
   Turchia e Grecia, entrambi membri della NATO, sono in disaccordo sui diritti di sfruttamento delle risorse di idrocarburi nella regione del Mediterraneo orientale, per via di opinioni contrastanti sull'estensione delle loro piattaforme continentali. Le acque, punteggiate principalmente da isole greche, sono ricche di gas e la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive è fonte di controversia tra Turchia, Grecia e Cipro.
   Ankara sostiene di avere la costa più lunga del Mediterraneo orientale, ma la sua zona marittima è racchiusa in una stretta striscia di acque a causa dell'estensione della piattaforma continentale greca, caratterizzata dalla presenza di molte isole vicine alla frontiera turca. L'isola greca di Kastellorizo, che si trova a circa 2 km dalla costa meridionale della Turchia e a 570 km dalla Grecia continentale, è una delle principali fonti di frustrazioni per Ankara, che rivendica quelle acque come proprie.

(Sicurezza Internazionale, 6 gennaio 2021)


Coronavirus in Israele, approvato il vaccino di Moderna

Il Paese diventa il terzo, dopo Stati Uniti e Canada, ad autorizzarlo. Continua la corsa all'immunizzazione, ma si continuano a registrare picchi di contagi.

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV - Il vaccino anti-Covid di Moderna è stato approvato dal ministero della Salute israeliano, anticipando così la distribuzione delle prime dosi entro la fine di gennaio. E' stata la stessa azienda farmaceutica americana a confermarlo in un comunicato. Israele diventa così il terzo Paese, dopo Stati Uniti e Canada, ad autorizzare anche questo vaccino, attualmente ancora in esame nell'Unione europea.
   Moderna è la prima produttrice del vaccino anti-Covid con cui Israele aveva chiuso un contratto per l'approvvigionamento già a giugno, triplicandolo a inizio dicembre per arrivare a un totale di 6 milioni di dosi la cui distribuzione inizierà nelle prossime due settimane, secondo quanto dichiarato oggi dal professore Chezy Levy, direttore generale del ministero della Salute. Secondo le valutazioni del ministero della Salute, la prima tranche dovrebbe rifornire il Paese di un milione di vaccini, fondamentali per non interrompere il ritmo attuale di vaccinazione che conta 150 mila inoculazioni al giorno. La campagna vaccini in Israele è iniziata il 20 dicembre con il vaccino Pfizer, del quale a oggi è stata somministrata la prima dose a quasi un milione e mezzo di ultrasessantenni, persone con malattie pregresse e personale sanitario, israeliani così come stranieri che si trovano nel Paese.
   
La risposta sopra le aspettative della popolazione, che è accorsa a richiedere l'iniezione, ha portato a un esaurimento delle scorte a disposizione prima del previsto. Per poter garantire la somministrazione della seconda dose, prevista dopo 21 giorni, il ministero della Salute stava prospettando una riduzione delle nuove inoculazioni. L'arrivo anticipato del vaccino di Moderna - inizialmente previsto entro marzo - potrebbe non rendere necessaria la misura.
   Contestualmente alla corsa per l'immunizzazione che ha portato Israele in cima alle classifiche mondiali per numero di vaccinati in rapporto alla popolazione (9,2 milioni di abitanti), il Paese continua a registrare picchi di contagi, 8.311 nella giornata di ieri su un totale di 111 mila tamponi effettuati (percentuale di postivi del 7,4% e un totale di 3.448 deceduti dall'inizio della pandemia). Israele si trova da quasi due settimane in un terzo lockdown, considerato estremamente inefficace in quanto le scuole sono rimaste aperte, dopo che la commissione parlamentare per l'istruzione aveva ribaltato la decisione del governo di chiudere almeno parte delle classi. Nel pomeriggio di oggi, il governo deciderà se inasprire le misure restrittive per almeno altre due settimane, in primis chiudendo l'intero sistema scolastico, ad eccezione degli asili.
   A causa della stretta del lockdown, il ministero della Salute ha deciso di rimandare la presentazione dell'app "Passaporto Verde", che sarebbe dovuta partire oggi in via sperimentale. L'app è volta a coordinare la mobilità all'interno del Paese per i vaccinati che hanno ricevuto entrambe le dosi, i guariti dal virus e chi ha effettuato un tampone risultato negativo. Nella prima fase verrà sperimentata per agevolare l'ingresso a Eilat e al Mar Morto, che a novembre sono state definite "isole verdi", le località dove la ripresa delle attività turistiche e di intrattenimento era consentita previa presentazione di un test negativo per accedervi. Successivamente l'app verrà utilizzata negli eventi culturali, sportivi, nei congressi, nel tentativo di portare a una ripresa dei settori rimasti paralizzati in un anno di pandemia.
   Inoltre, ogni vaccinato riceverà un certificato valido per sei mesi a partire dalla settimana successiva alla somministrazione della seconda iniezione, che esonererà chi è già stato immunizzato dalla necessità di quarantena in caso di contatti con positivi o rientrando dall'estero. Israele è in trattative con diversi Stati per consentire ai propri cittadini vaccinati l'esenzione dalla quarantena, nonché dalla necessità di presentare un tampone negativo per accedere a queste destinazioni.
   Se il ritmo delle vaccinazioni rimarrà costante, Israele sostiene di poter arrivare all'immunizzazione di gregge entro la primavera. Prima di allora, il Paese va incontro alla sfida delle elezioni fissate per il 23 marzo - le quarte in meno di due anni. La commissione elettorale nazionale stima che sarà necessario un 30% di seggi in più per garantire la possibilità di voto in sicurezza ai positivi e alle persone in isolamento. Secondo quanto dichiarato dalla presidente della commissione, queste categorie di elettori voteranno in seggi distribuiti all'interno degli ambulatori delle quattro casse mutua nazionali, nonché in postazioni drive-in.

(la Repubblica, 6 gennaio 2021)


Anche Israele dà l'autorizzazione al vaccino di Moderna

di Carlo Banda

Moderna ha reso noto che il Ministero della Salute di Israele ha concesso l'autorizzazione all'uso del proprio vaccino per il Covid-19 nel Paese. «L'autorizzazione rappresenta un momento-chiave per la storia della nostra società e per la lotta globale contro il Covid-19», ha commentato in una nota Stephane Bancel, amministratore delegato della società di biotecnologie statunitense, aggiungendo che «questa rappresenta la terza autorizzazione normativa per il vaccino di Moderna e la prima al di fuori del Nord America. Voglio ringraziare il ministero della Salute di Israele per i loro sforzi», ha continuato il ceo, dicendosi speranzoso sul fatto che ci saranno «altre autorizzazioni del farmaco in altri mercati nei prossimi giorni, settimane e mesi». Israele si è assicurato 6 milioni di dosi del vaccino di Moderna e l'inizio delle prime consegne atteso a breve.
   Israele è il terzo Paese in cui Moderna ha ricevuto l'autorizzazione per il vaccino, dopo il via libera dagli Stati Uniti il 18 dicembre e dal Canada il 23 dicembre 2020. Al momento sono in corso ulteriori processi di revisione del farmaco nell'Unione Europea, a Singapore, in Svizzera e nel Regno Unito. Sempre ieri, intanto, Moderna ha fatto sapere di aver alzato le proprie stime relative alla produzione globale del vaccino per il Covid-19 a 600 milioni di dosi per il 2021 contro le 500 milioni di unità previste in precedenza. La società farmaceutica sta continuando a investire e ad assumere personale per incrementare la propria capacità e produrre fino a un miliardo di dosi del farmaco nel corso del 2021. Nel dettaglio, Moderna si aspetta di rendere disponibili circa 100 milioni di unità negli Stati Uniti entro la fine del primo trimestre, con un totale di 200 milioni di dosi consegnate entro la fine di giugno. A oggi sono 18 milioni le dosi inviate al governo statunitense. Il vaccino ha ricevuto l'autorizzazione per l'uso d'emergenza della Food and Drug Administration (Fda) statunitense il 18 dicembre scorso e Moderna ha iniziato a spedire le dosi negli Stati Uniti poco dopo.

(MF, 6 gennaio 2021)


Il segreto di Israele? Ha fatto da sé

Il Paese ha già inoculato fiale a 1,37 milioni di abitanti: è partito in anticipo, negoziando in autonomia con Pfizer per ottenere subito le dosi sufficienti al 20% della popolazione.

di Gabriele Carrer

«Non servono primule rosse, con sobrietà e organizzazione si può sconfiggere il virus». Così Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, alcuni giorni fa lanciava il suo «appello alle istituzioni italiane: prendiamo esempio da Israele» nella campagna di vaccinazione contro il Covid-19.
   Nel Paese sono già stati vaccinati, con la prima delle due dosi del vaccino sviluppato da Pfizer e Biontech, 1,37 milioni di cittadini (dati aggiornati a ieri), grazie a una massiccia campagna con ritmi da record, iniziata lo scorso 19 dicembre. Ma già il 9 dicembre Israele aveva accolto 4.000 dosi per testare la logistica, seguite a ruota da altre 110.000. Il direttore generale del ministero della Salute, Chezy Levy, ipotizza che Israele, la cui popolazione è di 9,3 milioni di abitanti, raggiungerà l'«immunità di gregge» quando il numero complessivo di vaccinati, di guariti e infetti toccherà i 5 milioni. Una quota superiore alla metà della popolazione totale. Ed è sempre di ieri l'annuncio dell'autorizzazione concessa al vaccino di Moderna, che aveva incassato già il via libera di Stati Uniti e Canada, mentre rimane ancora in esame nell'Unione europea. Israele aspetta 6 milioni di dosi di questo vaccino. A cui si sommano le 8 milioni che dovrebbe ricevere da Pfizer e Biontech. In attesa delle 10 milioni del vaccino Oxford-AstraZeneca. In sostanza, gli israeliani sono partiti in anticipo, con uno stock di dosi bastante al 20% della popolazione e con la prospettiva di ricevere, in tempi brevi, fiale sufficienti all'intera cittadinanza. Come spiega il Times of Israel, la campagna di vaccinazioni leader al mondo è frutto di diversi fattori, «tra cui una popolazione relativamente piccola ma densamente popolata e servizi sanitari altamente professionali e ben integrati nelle comunità». Senza dimenticare la forza di un sistema sanitario centralizzato e altamente digitalizzato.
   Sono però necessarie due precisazioni. La prima: le vaccinazioni non sono 24 ore su 24, bensì i centri chiudono alle 22. La seconda: l'esercito non ha avuto che compiti logistici. Diverso é il discorso che riguarda il Mossad, il servizio segreto israeliano per l'estero, che ha avuto un ruolo cruciale (ma ovviamente silenzioso). L'ha avuto nella corsa alle forniture mediche e ai dispositivi di protezione dai Paesi del Golfo nelle prime settimane della pandemia, cioè prima della normalizzazione dei rapporti diplomatici, avvenuta ad agosto. E l'ha avuta nella corsa al vaccino: basti pensare che gli 007 agli ordini di Yossi Cohen, che a giugno lascerà l'incarico, pare abbiano portato in Israele alcune dosi di uno dei quattro vaccini cinesi per studiarlo.
   Non sembra, dunque, soltanto questione di efficienza. Il successo della campagna vaccinale di Israele deriva anche dagli sforzi della diplomazia e dei servizi segreti israeliani nell'approvvigionamento. Senza guardare in faccia a nessuno. Senza aspettare via libera internazionali o negoziazioni di Bruxelles. Una rivincita dello Stato nazionale.

(La Verità, 6 gennaio 2021)


Fra escort di lusso e marijuana israeliani alla scoperta di Dubai

È uno degli effetti collaterali della normalizzazione dei rapporti con gli Emirati. Ora i voli tra Tel Aviv e Dubai sono 15 al giorno. Ed è boom di viaggiatori che dallo Stato ebraico arrivano nella "New York del Golfo" dove si stima lavorino 45 mila prostitute.

di Carlo Pizzati

 
Dubai
DUBAI - Far aumentare il giro di affari di prostitute, escort service e protettori forse non era tra gli obiettivi primari degli Accordi di Abramo che hanno portato alla storica apertura dei rapporti commerciali tra Israele e gli Emirati arabi uniti. Ma pare proprio che a Dubai stia succedendo anche questo. All'uscita degli alberghi di lusso e dei nightclub della New York del Golfo si possono incrociare gli intermediari che puntano in particolar modo sui nuovi arrivati da Israele infilando sotto ai loro occhi vere e proprie brochure o, in alternativa, facendo scorrere su un iPad le photogallery con le immagini delle ragazze in vendita per qualche ora o per una notte. «Viene tutto fatto abbastanza alla luce del sole, come se fosse un menu per la pizza», ha dichiarato Benny, uomo d'affari che visita Dubai frequentemente.
   «Il turismo sessuale israeliano va a gonfie vele qui a Dubai», ammette un altro businessman di Tel Aviv. Secondo il sito israeliano Ynet News il turismo del sesso di Dubai è una delle grande attrattive che spinge molti israeliani, con il pretesto del viaggio d'affari, a visitare la metropoli finanziaria dove si stima lavorino attualmente almeno 45 mila prostitute, nonostante questa attività sia illegale e punita severamente dalla legge emiratina.
   In dicembre più di 50 mila turisti israeliani hanno visitato gli Emirati Arabi Uniti, con un picco di 8 mila visite per le feste di Capodanno, alcune delle quali si sono concluse con l'arresto di ragazzi israeliani che fumano hashish e marijuana in albergo, in un Paese dove si rischia fino a 20 anni di galera o la pena di morte per detenzione di droga. Ci sono ora 15 voli al giorno tra Tel Aviv e Dubai, per la durata di appena tre ore e mezza. Tanti turisti, sempre più rischi.
   La editorialista del quotidiano israeliano «Haaretz», Amalia Rosenbloom, ne ha scritto un «j'accuse» senza peli sulla lingua, mettendo in guardia gli israeliani che viaggiano negli Emirati: «Dubai è uno dei posti più duri ed uno dei più noti centri della schiavitù e del traffico di umani dei nostri giorni. Prima di fare i bagagli è importante sappiate che tutti quegli alberghi luccicanti di Dubai, quelle shopping-mall strabilianti e quelle spiagge perfette sono costruite e mantenute da gente i cui diritti umani sono stati sottratti in modo violento. E tra questi, il problema della prostituzione è tra i più gravi. Uno dei principali progetti di collaborazione tra Israele e gli Emirati arabi uniti iniziato da poco è, difatti, la fornitura di clienti da parte di Israele, mentre Dubai procura i servizi di prostituzione».
   Tra le ipotesi dei più informati c'è anche la possibilità che i gruppi della criminalità organizzata israelo-russa di Tel Aviv cerchino di ampliare le attività con accordi e partnership negli Emirati, dove molte prostitute provengono dalla Russia e dall'Ucraina. Tra le donne sfruttate, molte anche le sopravvissute dal conflitto in Siria e Iraq, anche se Dubai attira escort da tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Nigeria.
   La storia dello sfruttamento delle donne schiavizzate per rapporti sessuali a pagamento è di lunga data, in questa regione. Ma l'afflusso di un numero sempre più alto di stranieri, e il «divertimentificio» che è diventato Dubai, hanno inevitabilmente fatto crescere il giro di affari. Nel 2007 fu chiuso uno dei bordelli più famosi, vicino all'aeroporto di Dubai, il «Cyclone». Lo avevano soprannominato «Le Nazioni Unite della prostituzione», perché nel club c'erano 500 escort dalla Cina, l'Azerbaigian, il Kazakhstan, il Kyrgyzstan, il Tajikistan, l'Uzbekistan, la Bulgaria e Taiwan. Il «Cyclone» divenne talmente famoso che finì in un film di Ridley Scott con Leonardo Di Caprio e Russel Crowe., «Nessuna verità».
   È risaputo che gli Emirati, soprattutto negli ultimi anni, stanno impegnandosi per contenere il traffico della prostituzione, anche se non adempiono pienamente agli standard minimi, secondo il Dipartimento di Stato americano. Leggendo gli ultimi dati disponibili, si vede che nel 2016 ci sono stati 22 processi per traffico di prostitute portati avanti nei tribunali emiratini. Con l'arrivo di un nuovo genere di clientela da Israele, c'è il rischio che i casi aumentino, creando non poche complicazioni nei delicati e importanti Accordi di Abramo.
   Ma anche i ragazzi che, lo scrive il «Jerusalem Post», sono stati arrestati per detenzione di marijuana a Capodanno rischiano ora di complicare la situazione di questo nuovo détente. «Sono droghe leggere», si è lamentato uno degli arrestati. «Non è cocaina. La pena di morte per un po' di grammi in valigia che abbiamo fumato solo in stanza d'albergo? Non credo». Ma la legge emiratina non fa distinzione tra stranieri e cittadini, come sanno gli stranieri finiti in prigione negli Eau con sentenze molto pesanti.

(La Stampa, 6 gennaio 2021)


Israele, il 2021 riparte da sicurezza e ottimismo

Il Paese ha lavorato molto sulla propria immagine in tutto l'anno 2020 e, con molto ottimismo, è pronto a far ripartire in sicurezza il mondo del travel.

Israele è pronto a rilanciare il turismo per l'anno 2021. Dopo il brusco calo legato al turismo internazionale causato dalla pandemia da Covid-19 (che ha messo un segno negativo pari all'81% sull'anno 2020) il Ministero del Turismo israeliano ha stilato una serie di strategie finalizzate a preservare l'infrastruttura turistica, sia in termini di logistica che di marketing.
Due saranno le chiavi del successo per la ripresa: ottimismo e sicurezza. Tutto visto in un'ottica di rilancio del Paese al fine di accogliere al meglio i turisti che vorranno conoscere aspetti inediti della multi-sfaccettata Israele. Per il 2021, dunque, si punta a mostrare luoghi inediti e sconosciuti, a guidare i viaggiatori verso esperienze uniche, che siano adrenaliniche o da sogno, verso cammini in luoghi spirituali o alla pratica di sport estremi o, ancora, alla scoperta dei sapori, dei profumi e dei colori di questo prezioso luogo.
   "Siamo motivati dalle dimostrazioni di sostegno al Paese da parte dei turisti di tutto il mondo che affermano con convinzione la volontà di tornare a visitarlo quanto prima" ha detto Kalanit Goren Perry, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
   Del resto il Ministero del Turismo d'Israele negli scorsi mesi ha attivato diverse attività a sostegno del turismo che, nel corso nel 2021, verranno intensificate. Ad esempio, insieme al Ministero della Salute, ha designato la città di Eilat e il Mar Morto come "zone turistiche speciali" permettendo agli israeliani di trascorrere le vacanze in queste zone anche durante il periodo di restrizioni. Questo è stato possibile restringendo l'ingresso nelle aree solo a chi ha presentato di un risultato negativo del test Covid permettendo però alle attività locali di riaprire e lavorare nel rispetto di tutte le norme di sicurezza.
   Tra le altre attività interessanti promosse da Israele riguardo al turismo anche il piano di visite guidate gratuite nelle riserve naturali, nei parchi nazionali e nelle città grazie alla collaborazione con la Israel Nature and Parks Authority. In questo modo, ancora fino a marzo di quest'anno, il pubblico israeliano sarà incentivato a visitare il proprio Paese. Un'attività che potrebbe essere aperta anche a viaggiatori stranieri non appena si potrà tornare a viaggiare.
   Per quanto riguarda, invece, il turismo internazionale Israele ha lavorato moltissimo sui propri canali social con campagne marketing, webinar e altre azioni mirate utili a far conoscere il Paese in tutto il mondo al fine di mostrare i bellissimi luoghi di questo Paese e per incentivare il ritorno dei turisti.
   Tutto questo, se non ci saranno sorprese, potrà essere possibile già dal 2021 grazie anche alla campagna vaccinale partita in tutto il mondo che offre fiducia al mondo del turismo e lo incoraggia a ripartire con grande serenità.
   Azioni, queste, che aiuteranno Israele a ritornare una delle mete più desiderate dai viaggiatori di tutto il mondo.

(Si Viaggia, 6 gennaio 2021)


Restituzioni agli ebrei svolta storica

Dopo anni finisce l'umiliazione di dover dimostrare di avere subito violenze e persecuzioni.

di Umberto Gentiloni

Tra le pieghe nascoste della legge di bilancio (dal 30 dicembre 2020 in Gazzetta Ufficiale) compaiono misure che intervengono su una pagina controversa del nostro passato: la restituzione di beni a favore di chi è stato colpito dagli effetti della persecuzione razziale; le cosiddette "benemerenze", come merito acquisito e riconosciuto elargito dallo Stato verso cittadini italiani di religione ebraica. Un piccolo grande gesto, importante e qualificato, che giunge dopo decenni di discussioni, diverse commissioni di lavoro, sollecitazioni e pressioni di varia natura (a partire dall'impulso dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane).
   Negli ultimi anni, dopo che la questione più generale delle restituzioni dl guerra è tornata prepotentemente di attualità In vari paesi del mondo (soprattutto dopo la fine della guerra fredda, nello scorcio conclusivo del Novecento), il confronto si è fatto serrato andando al merito della questione. Il punto di partenza richiama un giudizio consolidato grazie alle ricerche di archivisti e storici: «La legislazione riparatoria, avviata dal governo del Sud e sviluppata nell'immediato dopoguerra, per la spoliazione dei beni subita dagli ebrei, è stata tempestiva, ma non esente da gravi limiti che ne resero difficile l'applicazione, ulteriormente complicata da una puntigliosa interpretazione delle norme fortemente orientate a un'asettica analisi contabile dei dati» (Paola Carucci, "Restituzione in Italia", Dizionario dell'Olocausto a cura di W. Laqueur e A. Cavaglion, Einaudi 2004).
   La spinta recente del legislatore tende a chiarire aspetti ambigui per proporre una nuova cornice capace di superare limiti e condizionamenti stratificati nella normativa vigente. II riferimento di partenza è una legge del 10 marzo 1955 (primo firmatario Umberto Terracini) "Provvidenze a favore dei perseguitati politici o razziali e dei loro familiari superstiti". Le discontinuità introdotte si concentrano soprattutto su due plani.
   Il primo riguarda il quadro cronologico con il superamento del perimetro temporale dell'8 settembre 1943: un richiamo esplicito alla storia del biennio cruciale della guerra civile (1943-45). Tale estensione dilata lo spazio delle persecuzioni subite comprendendo l'intera fase di occupazione nazifascista coinvolgendo con tempi e modalità variabili diverse zone del territorio italiano conteso. L'assunzione piena di una periodizzazione condivisa come asse storico di riferimento: dalle origini delle discriminazioni alla conclusione della Seconda guerra mondiale, dalle leggi del 1938 alla liberazione del 25 aprile 1945. Può sembrare persino banale, ma non lo è, il tempo più ampio racchiude le scelte del regime, le forme di collaborazionismo, le dinamiche plurali delle persecuzioni a sfondo razziale.
   Il secondo piano riguarda l'aspetto delicato delle motivazioni, la controversa questione dell'onere della prova. Il provvedimento di fine anno ribalta i termini del problema. Fino a oggi, nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle, l'interessato o l'interessata doveva dimostrare, prove alla mano, di aver subito una forma di discriminazione persecutoria: un atto di violenza, di sopraffazione, un'intimidazione finalizzata al conseguimento di obiettivi ben precisi. Con la nuova impostazione si mette da parte l'impianto soggettivo considerando centrale la permanenza della legislazione anti ebraica del 1938 applicata con rigore e convinzione negli anni successivi.
   Finisce quindi l'umiliazione di dover mostrare le tracce dell'esito positivo della propria persecuzione e si restringe progressivamente lo spazio delle interpretazioni su cosa possa essere considerato come «una prova» di efficacia della macchina persecutoria.

(la Repubblica, 6 gennaio 2021)


Zofia Kossak, la polacca antisemita che salvò migliaia di ebrei

Zofia Kossak (1890-1968), polacca, scrittrice, all'inizio fu antisemita, ma dopo l'occupazione nazista della Polonia cambiò idea.

di Silvana Rapposelli

Ci fu una donna polacca, affermata scrittrice, cattolica, che divenne figura di spicco della resistenza antinazista quando aveva ormai 50 anni, che fu redattrice di giornali e autrice di opuscoli clandestini e fondò un movimento politico, il Fronte per la Rinascita della Polonia; che non aveva fatto mistero del suo antisemitismo, eppure creò un'organizzazione di soccorso sottraendo alla morte migliaia di ebrei, ragione per cui fu deportata ad Auschwitz; che fu costretta dopo la guerra dal nuovo potere comunista all'esilio, per essere infine riconosciuta nel 1982 come una dei "Giusti tra le nazioni" dello Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di Gerusalemme.
   Il suo nome è Zofia Kossak (1890-1968). Un libro ne ricostruisce le vicende, Il tempo dell'odio e il tempo della cura di Carla Tonini.
   Quella dei Kossak era una famiglia dell'antica nobiltà, che concepiva come un impegno morale tramandare la cultura, gli usi e lo stile di vita della Polonia difendendoli di volta in volta contro gli ucraini, i tedeschi e gli ebrei. Va ricordato che, essendo la Polonia un regno piuttosto debole, aveva subito in passato vari attacchi da parte delle potenze confinanti. Russia, Austria e Prussia, proprio quando in altre parti d'Europa la cultura illuministica difendeva e diffondeva i principi di libertà e di nazionalità, in tre momenti successivi giunsero a spartirsi tutti i suoi territori fino a cancellarla nel 1795 dalla carta geografica.
   Zofia era una scrittrice già conosciuta negli anni Venti soprattutto per i suoi romanzi storici che incontravano un notevole successo di pubblico. I temi centrali della sua produzione letteraria erano: un convinto nazionalismo soprattutto antitedesco, il mito della Polonia come "baluardo della cristianità", la Chiesa cattolica vista come l'unica istituzione capace di garantire l'unità nazionale.
   Nel biennio 1936-1937 Zofia Kossak pubblicò degli articoli sulla questione ebraica. Infatti in Polonia, oltre al secolare antigiudaismo di matrice cristiana che vedeva nel popolo ebraico il responsabile della morte di Cristo, si stava diffondendo l'idea che gli ebrei fossero i detentori del potere economico e ostacolassero l'ascesa dei polacchi in molti settori lavorativi. A metà degli anni Trenta si verificò un'ondata senza precedenti di aggressioni agli ebrei, soprattutto nelle università e a Varsavia, pur senza arrivare all'approvazione di leggi razziali.
   La Kossak appoggiò pubblicamente l'idea di introdurre tali misure, sostenendo che non era tanto la religione che distingueva gli ebrei dai polacchi, ma proprio la razza. Tuttavia grandi cambiamenti stavano per verificarsi.
   Il primo settembre 1939 gli eserciti tedeschi invasero la Polonia e conquistarono in due settimane metà del paese. Nel frattempo, da est arrivavano gli eserciti sovietici, colpendo di sorpresa i polacchi, all'oscuro dell'accordo russo-tedesco che prevedeva la spartizione del loro paese. Ancora una volta la Polonia come Stato indipendente cessò di esistere.
   I nazisti instaurarono un regime di terrore e di sfruttamento che non aveva uguali negli altri territori occupati, destinato a durare cinque anni.
   Per la Kossak, come per molti altri polacchi, l'unica reazione possibile fu la partecipazione alla resistenza, da lei stessa definita "il sacro dovere di ogni polacco". Una resistenza civile, consistente in attività di informazione, di propaganda, volta al boicottaggio dell'invasore, una vita fatta di nomi e documenti falsi, di fughe e nascondigli. Nell'estate del 1941 fu lei a fondare il Fronte per la rinascita della Polonia (Fop), che, basandosi sulla dottrina sociale della Chiesa, si poneva come obiettivo la rinascita morale della nazione e fu capace di attirare subito molti aderenti, cattolici e non solo. Grazie al Fop venivano stampati tre giornali e numerosi opuscoli, di cui gran parte redatti dalla scrittrice.
   Per quanto riguarda gli ebrei, i tedeschi crearono a Varsavia il più grande ghetto del paese, nel quale vivevano stipati fino a mezzo milione di persone, molte provenienti da altre città. Fu sempre il senso del dovere a spingere Zofia ad intervenire in favore degli ebrei che, quando nel luglio 1942 iniziarono le deportazioni verso il campo di sterminio di Treblinka, fuggivano dal ghetto in migliaia. Ospitò ebrei in casa propria, si prodigò per permettere loro di vivere nella parte ariana della città, procurando loro documenti falsi, viveri, alloggi, sistemò molti bambini - a volte cacciati dal ghetto dalle loro stesse madri per evitarne la deportazione - nei conventi di suore o presso famiglie ariane.
   Agli inizi di agosto del 1942 Zofia scrisse e fece distribuire Protest, un volantino in cui descriveva in modo indignato e commosso le atrocità che avvenivano nel ghetto, denunciava la colpevole indifferenza del mondo di fronte all'Olocausto e chiamava i polacchi, i cattolici polacchi, a protestare.
   La pubblicazione di Protest mise in moto un processo che ben presto avrebbe portato ad una organizzazione per l'aiuto agli ebrei, la cui formazione fu affidata dai capi della resistenza proprio alla Kossak.
   Tale organizzazione, chiamata Zegota, permise di aiutare, grazie a contatti e iniziative personali, circa la metà degli ebrei che si nascondevano nella capitale. Zegota è stato il più grande atto di resistenza contro il progetto di sterminio di un intero popolo. Molti dei suoi appartenenti rischiarono la vita. La stessa Zofia nell'ottobre 1943 fu arrestata dalla Gestapo e deportata ad Auschwitz dove lavorò come guardiana notturna e si ammalò di tifo. Fu salvata dalla resistenza che ottenne la sua liberazione corrompendo i nazisti.
   Alla fine della guerra non ebbe alcun riconoscimento, anzi il nuovo potere, di stampo comunista e sovietico, la invitò a lasciare la Polonia, cosa che la Kossak a malincuore fu costretta a fare nel 1945. Poté tornare nella sua patria tanto amata solo dopo 12 anni di esilio forzato. Morì il 9 aprile 1968.

(ilsussidiario.net, 4 gennaio 2021)


Oltre un milione di iniezioni. Israele resta al primo posto

di Barbara Uglietti

GERUSALEMME - Israele è al primo posto nel mondo per numero di vaccini somministrati. Ieri il ministro della SanitàYuli-Yoel Edelstein ha annunciato che 1.224.000 cittadini hanno già ricevuto la prima dose del farmaco di Pfizer-BioNTech: quasi il 13% dell'intera popolazione (circa 9 milioni di persone). La campagna vaccinale è iniziata il 20 dicembre non si è mai interrotta, neanche durante lo Shabbat. Sono state allestite più di 300 postazioni di somministrazione in tutto il Paese. Si procede al ritmo di circa 150mila iniezioni al giorno. Il governo, che si è mosso con largo anticipo per garantire un adeguato approvvigionamento di dosi, continua le trattative con le case farmaceutiche.
   Alcune interpretazioni liquidano questo risultato come il tentativo del premier Benjamin Netanyahu di conquistarsi un bonus elettorale da spendere nelle elezioni del 23 marzo. Ora: è certo che a marzo ci saranno le elezioni ed è altrettanto certo che un buon esito della campagna vaccinale aiuterà Bibi nella rimonta. Ma non c'è lettura superficiale o malevola che possa modificare i dati di fatto. E i dati di fatto, almeno fino a qui, parlano di un successo. Il Jerusalem Post ha individuato con molta precisione nove ragioni per cui Israele guida la classifica delle somministrazioni: un sistema sanitario di eccellenza, assicurazioni che funzionano, prevenzione, tecnologia, comunicazione eccetera. Alla base c'è, soprattutto, un Paese molto bene addestrato a reagire all'emergenza. Esercizio a cui tutti gli Stati si dovrebbero applicare quando c'è di mezzo la salute. Se tutto procede così, a marzo Israele avrà protetto gran parte della sua popolazione. Sarà il primo Paese ad aver fatto elezioni in piena pandemia, un anno fa, e il primo a (ri)farle senza Covid.

(Avvenire, 5 gennaio 2021)


*


«Regole da privati e team di squadra. Ecco i segreti del successo di Israele»

L'esperto: il medico è tra i «padri» del sistema sanitario del Paese. «Diventa cruciale l'efficienza sul territorio»

di Gian Micalessln

«Mia madre ha 86 anni e martedì scorso è stata convocata per la vaccinazione. All'ospedale l'attendevano all'ingresso per accompagnarla in sala. Quindici minuti dopo era di nuovo all'ingresso in attesa del taxi per tornare a casa. Questa rapidità ed efficienza sono il nostro segreto». Il dottor Enrico Mairov, 68 anni vissuti tra Israele e Milano, racconta così il segreto del suo paese. Un segreto che ha permesso ad Israele di vaccinare un milione e 250mila persone in due settimane. Un record che nessun paese occidentale ha eguagliato. Una parte di quel segreto appartiene anche a lui. «Dal 1981 ai primi anni 90 ho lavorato con il Ministero della Sanità israeliano e con la Maccabi, una delle 4 grandi aziende sanitarie del paese. In quel periodo sono stato uno degli architetti responsabili della creazione delle cosiddette strutture intermedie ovvero di tutto quello che c'è tra ospedale e territorio. Poi da quando mi sono sposato con una collega italiana fino al 2019, ho lavorato a Milano con la Regione Lombardia contribuendo alla creazione del 118 sperimentando la realizzazione delle cure domiciliari a Milano e dintorni».

- Dunque come si vaccinano 1millone250mila persone in 14 giorni?
  «Bisogna disporre, come Israele, di un sistema socio-sanitario pubblico strutturato sul territorio, efficiente ed organizzato. Fondamentale è l'efficienza di Klalit, Maccabi, Meuhedet e Leurnit le quattro grandi aziende sanitarie che - pur essendo pubbliche e dando lavoro a 45mila persone - vengono gestite con le regole del privato ovvero privilegiando competizione, meritocrazia e risultati. Senza quella struttura non sarebbe stato possibile vaccinare 150mila persone al giorno».

- Anche l'Italia ha un sistema sanitario grande e pubblico, ma non funziona. ..
  «Perché l'avete diviso in 20 sotto-sistemi regionali organizzati ognuno a modo suo. E poi avete puntato su delle enormi strutture ospedaliere che - pur fornendo servizi medici di altissimo livello - restano lontane dal territorio. I vostri medici di base gestiscono esclusivamente i loro spazi, ma non creano sistema. Infatti contribuiscono poco o nulla al sistema di vaccinazione. In Israele i medici di famiglia forniscono le liste di tutti quelli che devono essere vaccinati e li indirizzano agli ospedali o alle strutture territoriali dove riceveranno il vaccino».

- E poi c'è il famoso spirito israeliano...
  «Certo la solidarietà è estremamente diffusa e la gente è addestrata a vivere nelle emergenze. Quando si è deciso di combattere il virus e sconfiggerlo con l'arma del vaccino tutti gli israeliani si sono messi a disposizione. Ma non è stato necessario far lavorare di più il personale sanitario. La differenza l'ha fatta la digitalizzazione».

- I computer non fanno le iniezioni...
  «Ma ti aiutano a sapere l'ordine e i tempi in cui farle. In Israele le cartelle cliniche sono tutte digitalizzate e gestite da un sistema unico che fornisce ai vertici della sanità, ma anche ai medici di base, tutti i dati sulla popolazione e sui loro progressi sanitari. Ogni cittadino può inserire i dati o accedere alla propria
cartella medica utilizzando la tessera sanitaria o le impronte digitali».

- Ma senza le dosi di vaccino non avreste combinato nulla...
  «A quello ci hanno pensato i vertici politici. Il premier Benjamin Netanyahu si è impegnato fin dall'inizio della pandemia per ottenere la disponibilità delle case farmaceutiche. Il ministro dell'Economia ha trovato i fondi. Molti israeliani che girano il mondo e sono impegnati nel settore dell'alta tecnologia hanno contribuito alle trattative con la Pfìlzer e con le altre aziende farmaceutiche. E hanno garantito le dosi in tutti i modi possibili. Perché quando si tratta di salvare le vite dei propri cittadini Israele non guarda in faccia nessuno».

(il Giornale, 5 gennaio 2021)


*


Israele costretto a rallentare. Protetto il 12%

Israele sarà costretto la settimana prossima a rallentare il ritmo delle vaccinazioni, o addirittura a sospenderle, per garantire la seconda dose a chi ha già ricevuto la prima, in attesa che arrivino nuovi rifornimenti, hanno riferito i media. Ieri il ministro della Sanità Yuli Edelstein ha annunciato che già 1,22 milioni di cittadini hanno ricevuto la prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech, circa il 12% della popolazione. Israele ha iniziato la campagna vaccinale il 20 dicembre.

(Corriere della Sera, 5 gennaio 2021)


*


Proteste contro il vaccino corona e il cosiddetto "Passaporto verde"

Un piccolo gruppo di israeliani si è riunito lunedì fuori dalla Knesset per protestare contro la vaccinazione della popolazione.

 
 
Israeliani fuori della Knesset protestano contro il cosiddetto "Passaporto verde" e lo chiamano "Passaporte delle bugie"      
GERUSALEMME - Anche se gli israeliani non sono affatto obbligati a vaccinarsi contro il coronavirus, c'è uno stigma sociale in rapida crescita contro coloro che si oppongono categoricamente alla vaccinazione. Israele ha talmente sofferto per i ripetuti blocchi che adesso le persone vogliono soltanto poter uscire dalle loro case.
   È' in qualche modo sorprendente che Israele sia stato in grado di procurarsi così tante dosi di vaccino mentre paesi più grandi e più ricchi stanno ancora lottando per ottenere la stessa cosa . Sembra quasi che Pfizer, Moderna e altri produttori di vaccini stiano usando lo stato ebraico come una sorta di banco di prova. D'altra parte, questa è la terra dei miracoli.
   Ad ogni modo, la stragrande maggioranza degli israeliani sta facendo le corse per farsi vaccinare e c'è stata un po' di delusione nell'aria quando è stato annunciato che la campagna di vaccinazione potrebbe essere un po' rallentata per assicurarsi che ci sia una seconda dose per coloro che hanno già avuto la prima.
   Quello che ha veramente fatto arrabbiare i manifestanti lunedì è stata una seduta del Comitato della Knesset che si è tenuta in contemporanea per discutere l'iniziativa del cosiddetto "Passaporto verde" che dovrebbe consentire agli israeliani vaccinati di tornare ad una vita quasi normale.
   Gli israeliani fuori della Knesset hanno rifiutato questo "Passaporto verde", chiamandolo il "Passaporto delle bugie".
   Il "Passaporto verde" è in realtà un'App mobile che verifica se il titolare ha ricevuto entrambe le dosi di vaccino, permettendogli così di entrare in luoghi pubblici, partecipare eventi culturali, sportivi e viaggiare all'estero senza dover entrare in quarantena . Stando ai rapporti che arrivano, gli israeliani riceveranno altri incentivi per indurli a farsi vaccinare e ottenere così il loro "Passaporto verde".

(israel heute, 5 gennaio 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Israele registra un boom di arrivi da tutto il mondo

Dagli Usa alla Francia

Un livello tecnologico e un sistema sanitario diffuso e digitalizzato, le elezioni alle porte, che il discusso presidente Benjamin Netanyahu vuole vincere, fatto sta che Israele è il Paese al mondo con la più alta percentuale di vaccinati. Oltre il 12,5% degli israeliani ha ricevuto in meno di due settimane la prima dose di vaccino per il Covid.
   Morale: tutti vogliono tomare o andare in Israele lo scrive il Jerusalem Post, secondo cui ad Israele la crisi da Covid ha fatto più per il Paese di quanto non abbiano fatto decenni di governi e campagne pubblicitarie.
   L'Agenzia Ebraica per Israele stima che entro la fine dell'anno avrà assistito più di 20.000 olim (nuovi immigrati) provenienti da 70 paesi diversi a fare l'aliya (stabilirsi in Israele) nonostante la pandemia.
   Durante il periodo gennaio-novembre 2020, sono arrivate circa 10.200 persone: 3120 dall'ex Unione Sovietica; per quanto riguarda l'Europa, 2.220 dalla Francia; 2.850 dal Nord America, di cui 2550 dagli Stati Uniti;1.500 dall'America Latina; 280 dal Sud Africa; e 90 dall'Australia e dalla Nuova Zelanda. L'Agenzia afferma di aver ricevuto circa 160.000 richieste sino ad ora da potenziali immigrati e stima che nei prossimi 3-5 anni potrebbero arrivare 250mila migranti.

(Libero, 5 gennaio 2021)


Rilasciata su cauzione la dj palestinese Abdulhadi

Era stata arrestata dopo una festa techno in un luogo sacro all'Islam. La scarcerazione dopo l''ondata internazionale di solidarietà e la mobilitazione Ue. Una petizione sui social aveva raggiunto 100 mila firme in pochi giorni. L'avvocato della donna: "Sama' stava solo cercando di promuovere la causa del suo popolo attraverso la musica".

di Sharon Nizza

TEL AVIV - La popolare Dj palestinese Sama' Abdulhadi è stata rilasciata domenica su cauzione dalle autorità di Ramallah. Fino al completamento delle indagini, dovrà presentarsi una volta a settimana alla stazione di polizia e non potrà lasciare il Paese per fare rientro a Parigi dove vive dal 2017.
  Abdulhadi, 29 anni, nome di fama internazionale nella scena della musica elettronica e nota per essere la prima Dj donna palestinese, era stata arrestata il 27 dicembre dalla polizia palestinese a seguito di una festa techno svoltasi la sera precedente nel sito di Nabi Musa, sulla strada tra Gerusalemme e Gerico.
  Secondo la tradizione musulmana il sito custodisce la tomba del profeta Mosè e vi si trova anche una moschea. Tuttavia, secondo la ricostruzione dei fatti, gli organizzatori dell'evento avevano ottenuto un permesso dal ministero del Turismo palestinese per tenere la festa in un'area separata dalla parte religiosa del complesso. Nella stessa area si trova inoltre un albergo ristrutturato di recente nell'ambito di un progetto del valore di 5 milioni di dollari finanziato dall'Unione Europea con l'obiettivo di incentivare il turismo locale.
  Il coinvolgimento della Ue nel sito e l'ondata di solidarietà internazionale sorta nella comunità dei musicisti e degli attivisti per i diritti umani, hanno contribuito a ottenere il rilascio su cauzione, nonostante l'arresto fosse stato prolungato per altri 15 giorni martedì scorso. In una petizione diffusa sui social, che aveva raggiunto 100 mila firme in pochi giorni, si chiedeva l'immediato rilascio della popolare musicista e "il rispetto per la libertà culturale e artistica da parte dell'Autorità Palestinese".
  "Siamo molto grati alla comunità internazionale per aver fatto sentire la propria voce", conferma a colloquio con Repubblica Hadi Mashal, l'avvocato di Abdulhadi. "Sama' sta pagando un prezzo molto alto per questa situazione imprevedibile e del tutto involontaria. Non è ammissibile che una parte della comunità possa decidere ciò che è morale e accettabile per l'altra parte della comunità. Questo non è lo Stato che voglio per me e per i miei figli. Spero che questa vicenda contribuisca a fare realizzare la sacralità della libertà e dei diritti civili. Spero anche che chi ha attaccato Sama' capisca che stava solo cercando di promuovere la Palestina attraverso la musica: che piaccia o meno questo genere di musica, questo era il suo obiettivo e non si sarebbe mai immaginata che l'evento avrebbe causato questa reazione".
  L'evento organizzato da Sama' e altri artisti era stato commissionato da Beatport, nota piattaforma di streaming per la musica elettronica, nell'ambito di un progetto volto a "richiamare l'attenzione internazionale sull'importanza del patrimonio culturale e della storia della Palestina" come ha affermato a Repubblica la portavoce di Beatport.
  Le prove dell'autorizzazione ottenuta dalle autorità rilevanti erano state esibite dalla famiglia della dj, ma nonostante ciò, martedì il giudice aveva deciso ugualmente di prolungare la detenzione di Sama', citando tra le motivazioni il fatto che "la musica techno non fa parte del patrimonio culturale palestinese", si legge nella petizione a favore dell'artista. Sama' è tuttora accusata di profanazione di un luogo sacro e di simboli religiosi, oltre che di infrazione delle restrizioni Covid. Se le indagini in corso portassero a un rinvio a giudizio, Abdulhadi potrebbe scontare fino a due anni di carcere. Le voci che si sono sollevate in favore della Dj sostengono che sia un "capro espiatorio", accusata strumentalmente per "domare la rabbia popolare".
  Le immagini della festa che circolavano online sabato sera sui social hanno suscitato infatti grande sdegno, tanto che un gruppo di palestinesi, prevalentemente di Gerusalemme Est, aveva fatto irruzione nel sito e interrotto l'evento cacciando con prepotenza e minacce i partecipanti. Il giorno seguente, una folla di fedeli giunta per la preghiera aveva poi dato alle fiamme gli arredi delle camere dell'hotel, sostenendo che vi si fossero svolti "atti impuri".
  Una commissione d'inchiesta istituita dal premier palestinese Mohammad Shtayyeh ha stabilito giovedì che il ministero del Turismo è responsabile per aver autorizzato un evento non opportuno, e ha incaricato la procura di portare in giudizio tutti quanti siano stati coinvolti sia nella violazione della santità del luogo, sia alla vandalizzazione del sito il giorno seguente. Nell'ambito delle indagini in corso, ci conferma l'avvocato di Sama', sono state arrestate altre quattro persone attualmente ancora detenute.
  Contattato da Repubblica sabato, il portavoce della rappresentanza dell'Unione Europea nei Territori Palestinesi ha affermato che la rappresentanza "sta seguendo da vicino il caso ed è in contatto con l'Autorità Palestinese (Anp). Abbiamo preso atto dei risultati della commissione d'inchiesta e confidiamo nel rispetto dello Stato di diritto e nel mantenimento della libertà di espressione. Abbiamo anche seguito con preoccupazione gli atti di vandalismo e distruzione del sito. L'UE ha finanziato la ristrutturazione del sito di Nabi Musa in stretta collaborazione con l'Anp. L'obiettivo era quello di rendere questo luogo storico più accessibile al pubblico e trasformarlo in un centro culturale e turistico nel rispetto della sua natura, poiché include una moschea. Si tratta di investimenti che vanno a vantaggio del popolo palestinese. Ci aspettiamo da tutte le parti, inclusa l'Anp, di proteggere gli investimenti dell'Ue in Palestina. Tutti i danni dovranno essere riparati e vanno individuati i responsabili. Il sito si trova nell'Area C e i lavori di ristrutturazione sono in linea con il nostro sostegno alla presenza palestinese nell'Area C, minacciata dalla politica israeliana degli insediamenti".
  In un comunicato rilasciato attraverso Beatport, Abdulhadi ha detto di stare bene e di voler trascorrere ora del tempo con la sua famiglia. Ha ringraziato "colleghi musicisti, artisti, attivisti e tutti quanti si sono mobilitati in mio sostegno e per aver chiesto il mio rilascio immediato".

(la Repubblica, 5 gennaio 2021)


Villa Emma. Ritrovati 96 libri di bimbi ebrei salvati

Una parte dei libri ritrovati
BOLOGNA - Erano conservati in due casse di legno. Erano 96 libri dei bambini ebrei salvati a Villa Emma di Nonantola durante gli anni bui della persecuzione razziale e della guerra, tra il 1942 e il 1943. Sono stati ritrovati in una cantina di Modena, restaurati da Formula Servizi di Forlimpopoli e affidati alla Fondazione Villa Emma in accordo con la Soprintendenza archivistica e bibliografica dell'Emilia Romagna, con il sostegno dell'Ibc. Si tratta di testi di studio odi svago in lingua tedesca, che forniscono un quadro degli interessi culturali della comunità ebraica tra gli anni '30 e'40, con saggi storici e sociologici, politici, studi su ebraismo, femminismo, romanzi di formazione, dizionari, libri di preghiera. La testimonianza di un alto momento di solidarietà.

(Corriere di Bologna, 5 gennaio 2021


"Israele corre. Prendete esempio"

«Sul vaccini prendiamo esempio da Israele». Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, invita l'Italia a guardare a quanto sta facendo il governo di Netanyahu. «In queste ore - afferma - Israele sta dando una grande dimostrazione al mondo con una campagna di vaccinazione senza precedenti contro il Covid. Come spesso accade lo Stato ebraico è un'eccellenza nel campo medico-scientifico e nell'organizzazione logistica che sta permettendo di vaccinare circa 150 mila persone al giorno.
Nonostante la demonizzazione e le campagne di odio a cui è sottoposta, Israele sta riuscendo a superare questa pandemia.»

(la Repubblica, 4 gennaio 2021).


La campagna record di Israele: in coda per le iniezioni

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Ieri Israele è entrato nel terzo lockdown. Dicono sarà l'ultimo, dopo l'avvio della campagna vaccini a ritmo serrato, con l'obiettivo dichiarato di festeggiare senza restrizioni la Pasqua ebraica, a fine marzo. Il via l'aveva dato in diretta televisiva il premier Netanyahu otto giorni fa e, da allora, la prima dose del vaccino Pfizer è stata somministrata ad altri 300.000 israeliani, portando il Paese in testa alle classifiche mondiali per numero di vaccinati.
   La risposta della popolazione è stata immediata e più entusiastica del previsto: i centralini delle quattro casse mutua sono stati presi d'assalto, con il calendario degli appuntamenti che si allunga fino a marzo, gente che accetta appuntamenti anche in città a ore di viaggio da casa, file che si formano già dall'alba per essere i primi a ricevere l'agognata iniezione. Al momento possono accedere al vaccino solo i cittadini sopra i 60 anni, persone con malattie pregresse e personale medico, tra due settimane il vaccino verrà esteso ad altre categorie. Ma c'è chi ha scoperto, così ha raccontato un gruppo di giovani, che se si arriva verso la fine del turno degli ambulatori, si può ricevere le dosi avanzate, che non possono essere ricongelate. Le casse mutua hanno arruolato personaggi famosi per invitare la gente a prendere appuntamento. La foto a spalla nuda e iniezione è la nuova moda.
   Da ieri anche gli ospedali sono coinvolti nell'operazione per alleggerire il carico sulle casse mutua. Alcuni centri hanno iniziato a lavorare non stop, notti e sabati inclusi, con l'imprimatur dato dai rabbini che hanno invitato i fedeli a vaccinarsi «senza perdere tempo, per prevenire il pericolo per sé e per gli altri». Il sindaco di Gerusalemme Moshè Leon ieri si è recato, insieme agli imam locali, in uno degli ambulatori di Sheikh Jarrah, quartiere est della città, per sensibilizzare la popolazione che, stando ai dati finora, è la più esitante a vaccinarsi. Netanyahu ha alzato la puntata annunciando che entro la fine di questa settimana si arriverà a 150.000 vaccini al giorno (ieri ne sono stati somministrati 80.000) e che l'obiettivo è in due mesi vaccinare metà del Paese, che conta 9 milioni di abitanti. Con le quarte elezioni in meno di due anni fissate per il 23 marzo, il premier in carica ha fatto dell'operazione vaccini e della promessa che questo sarà l'ultimo lockdown il proprio cavallo di battaglia. La campagna elettorale si giocherà tutta tra l'uscita dalla pandemia e — sul fronte delle opposizioni, a sinistra come a destra — l'uscita di scena del premier più longevo della storia del Paese.

(la Repubblica, 4 gennaio 2021)


“Vogliamo attirare turisti israeliani in Marocco”

Nadia Fettah Alaoui
"Ho sentito che molti israeliani si sono recati a Dubai, da quando sono stati firmati gli accordi di pace. Non ne sono sorpresa, ma intendo portare il Marocco in cima alla lista delle destinazioni preferite dagli israeliani e ho intenzione di lavorare sodo per superare il Dubai". Lo ha detto a YnetNews la ministra marocchina del turismo Nadia Fettah Alaoui. Alaoui stima che almeno 50.000 israeliani hanno già visitato il Marocco prima della normalizzazione dei rapporti annunciata lo scorso dicembre. Infatti, molti israeliani di origine marocchina visitano i parenti che ancora vi si trovano o si recano a visitare i cimiteri ebraici \ in Marocco. "Vogliamo che il numero dei visitatori salga fino a 200.000 all'anno - afferma la ministra Alaoui - Sono in corso colloqui per formalizzare accordi sui viaggi aerei e intendiamo garantire che la procedura per il visto sia rapida e semplice, in modo che i turisti israeliani ricevano il visto d'ingresso elettronico al loro arrivo".

(israele.net, 4 gennaio 2021)


Nonostante il Covid, boom di aliyah

E' stato record di arrivi nello Stato ebraico. Se avessimo affrontato la pandemia dieci anni fa sarebbe stato un anno ben peggiore. Solo merito del vaccino. In attesa del proprio turno, Niall Ferguson dice cosa fare per non impazzire. Un anno di partenze per Israele.

Scrive il Jerusalem Post (29/12)

Secondo i dati forniti dall'Agenzia Ebraica per Israele (JAFI), nel 2020 hanno fatto l'aliyà (cioè sono venuti a stabilirsi in Israele) più di 20.000 nuovi immigrati ebrei da quasi 70 paesi diversi. Che sia perché la situazione economica globale è così grama a causa della pandemia di Covid-19 o perché Israele è diventato un'alternativa davvero allettante per gli ebrei del mondo, le cifre sono impressionanti. "E' successa una cosa meravigliosa - ha detto il presidente dall'Agenzia Ebraica, Isaac Herzog, durante un incontro con bambini immigrati quest'anno in Israele da tutto il mondo - Ventimila ebrei sono immigrati nello stato d'Israele durante questo anno di pandemia. Ventimila persone disposte a lasciarsi tutto alle spalle, in un difficile periodo di turbolenze globali, per venire a costruire una nuova vita in Israele".
   Circa 10.200 sono partiti dalla Comunità degli Stati Indipendenti (nove ex repubbliche sovietiche), di cui 6.260 dall'Ucraina e 2.660 dalla Russia. Altri 3.120 sono arrivati dall'Europa occidentale, di cui 2.220 dalla Francia e 460 dalla Gran Bretagna. Alla fine di novembre, circa 2.850 immigrati giungevano dal Nord America: 2.550 dagli Stati Uniti e il resto dal Canada. Altri 1.500 dall'America Latina, di cui 510 dall'Argentina e 460 dal Brasile. L'aliyà dall'Etiopia è destinata a superare quota 1.200, per lo più Falash Mura portati in Israele nel quadro di un'operazione speciale gestita congiuntamente dall'Agenzia Ebraica e dal ministero dell'Aliyà e dell'Integrazione. Un gruppo di 219 è arrivato con un volo il 22 dicembre, altri mille sono in attesa nel paese. Inoltre, vi sono stati 280 immigrati dal Sud Africa e 90 da Australia e Nuova Zelanda.
   L'Agenzia Ebraica afferma d'aver ricevuto circa 160.000 richieste da potenziali immigranti, e d'aver aperto più di 41.000 pratiche per aliyà, di cui 28.000 provenienti da paesi occidentali, il doppio di quelle aperte nel 2019. Si è anche registrato un aumento del 41 % dei file aperti per giovani adulti fra i 18 e i 35 anni provenienti da paesi occidentali. I funzionari dell'immigrazione stimano che nei prossimi tre-cinque anni potrebbero arrivare in Israele altri 250 mila immigrati, supponendo che il governo attui un piano nazionale per una così grande ondata di immigrazione e assorbimento. Si tratterebbe di un forte aumento rispetto agli anni precedenti. In tempi normali Israele assorbe una media di 30.000 immigrati all'anno.Nel 2019 avevano fatto l'aliyà circa 34.000 persone, ed era il dato annuale più alto dell'ultimo decennio. E' vero che Israele sta attraversando un periodo di disordine politico, sta andando incontro alla sua quarta tornata di elezioni anticipate nell'arco di due anni e che le difficoltà mediche, economiche e psicologiche causate da Covid-19 sono profonde e dolorose. Tuttavia, sebbene sia entrato nel suo terzo lockdown, Israele è in testa nel mondo con il suo programma di vaccinazione contro il coronavirus, avendo inoculato in una sola settimana 500.000 dei suoi nove milioni di residenti. E' un dato impressionante".

(Il Foglio, 4 gennaio 2021)


La vedova di Arafat: 'Il suo errore maggiore fu la seconda intifada'

Affermazioni di Suha Arafat ad un documentarista israeliano

 
Suha Arafat
"L'errore maggiore di Yasser Arafat", secondo la sua vedova Suha, fu il coinvolgimento nella seconda intifada, che iniziò nel settembre 2000 e proseguì negli anni seguenti.
In un intervento su Instagram, citato dal Jerusalem Post, Suha Arafat ha confermato di aver rilasciato una intervista in merito ad un documentarista israeliano e ha aggiunto: "Ho espresso la mia opinione che la intifada fu un errore, perché noi abbiamo perso molto e perché la nostra guerra con loro (gli israeliani, ndr) era asimmetrica".
"Io non ho paura di esprimere le mie opinioni" ha aggiunto riferendosi a commenti polemici già apparsi in Cisgiordania. In risposta ad una domanda Suha Arafat ha anche affermato di non disporre di prove relative ad un ruolo di Israele nella morte del marito.
Secondo il Jerusalem Post il documentario si intitola: 'Nemici', ed è prodotto dalla televisione pubblica israeliana Kan.

(ANSAmed, 3 gennaio 2021)


«Possibili esercitazioni congiunte israelo-emiratine nel 2021»

Intervenendo a un evento che ha avuto luogo presso l'Istituto Weizmann, Norkin ha sottolineato l'impegno delle forze armate dello Stato ebraico nella prevenzione degli sforzi profusi dall'Iran al fine di stabilire un proprio punto d'appoggio a nord di Israele

Lo ha riferito Debka, il sito web israeliano specializzato in materia di Difesa e Intelligence, che ha riportato le parole pronunciate mercoledì 30 dicembre dal capo di stato maggiore dell'aeronautica militare israeliana (IASF, Israel Air and Space Force) Amikam Norkin.
   L'alto ufficiale ha infatti dichiarato che la prevista cessione di caccia stealth F-35 da parte degli Stati Uniti agli Emirati Arabi Uniti è in grado di incidere sulla sicurezza regionale, aggiungendo inoltre che «non siamo lontani dal vedere esercitazioni congiunte con le forze aeree delle monarchie del Golfo Persico», definendo questa possibilità come «una straordinaria opportunità».
   Egli ha quindi ricordato come un anno fa i piloti militari israeliani abbiano volato assieme a quelli emiratini durante un'esercitazione congiunta svoltasi in Grecia, «una cooperazione che rafforza la stabilità regionale».
Intervenendo a un evento che ha avuto luogo presso l'Istituto Weizmann, Norkin ha sottolineato l'impegno delle forze armate dello Stato ebraico nella prevenzione degli sforzi profusi dall'Iran al fine di stabilire un proprio punto d'appoggio a nord di Israele.
   «Non permetteremo all'Iran di trasferire proprie risorse militari sul nostro confine e neppure lo schieramento dei suoi missili in Libano».
   L'anno scorso Tsahal ha attaccato cinquanta obiettivi in territorio siriano, per lo più di forze filo-iraniane, l'ultimo dei quali colpito il 30 dicembre scorso presso la città di Zabadani, nella parte occidentale del Paese arabo, dove viene segnalata la presenza militare della milizia sciita libanese Hezbollah.
   La scorsa settimana alcuni bombardieri B-52 dell'USAF e due sottomarini (uno statunitense uno Israeliano) erano stati rischierati nelle acque del Golfo Persico.

(Israeltrend, 4 gennaio 2021)


Mutue, prenotazioni digitali e zero sprechi. La corsa di Israele verso l'immunità di gregge

Già coperto il 12% della popolazione. Il governo ha pagato 30 dollari a dose per garantirsi abbondanza. Oltre un milione le persone già coinvolte. Entro fine aprile tutti saranno protetti.

di Fabiana Magri

 
TEL AVIV - In Israele, come ovunque, è ancora il coronavirus a monopolizzare l'attenzione. Ma nei primi giorni del 2021l'argomento è motivo di orgoglio nazionale. Il paese punta all'immunità di gregge entro fine marzo. E procede a tappe forzate tanto da lasciare il mondo a bocca aperta. Israele ha il più alto numero di somministrazioni pro capite e tutti si chiedono: «Come hanno fatto?». È la classica «win win case history», una situazione in cui ciascuno vince. E in cui non manca la spettacolarizzazione.
   Come la cerimonia nella cittadina a prevalenza araba di Umm Al-Fahm, nel nord di Israele, alla presenza del primo ministro Benjamin Netanyahu e a favore di telecamere, per celebrare la milionesima persona vaccinata, il 1° gennaio.
   Vincono i cittadini. Partita il 20 dicembre con 100 mila iniezioni al giorno, in poco più di una settimana l'operazione "Porgi la spalla" ha raggiunto quota 150 mila. Il 12% della popolazione ha ricevuto sia la prima iniezione del vaccino Pfizer sia l'appuntamento per il richiamo, a 21 giorni di distanza. È stato tutto così veloce che a metà gennaio, come precauzione, le nuove vaccinazioni potrebbero fermarsi per due settimane, per assicurare la seconda dose a chi è già immunizzato. Ma, garantisce il ministero della Salute, è in arrivo a febbraio un nuovo carico, almeno 3 milioni di nuove dosi. E altrettante tra marzo e aprile. Hanno avuto la precedenza gli operatori sanitari e gli over 60. Oltre ai cittadini israeliani, può vaccinarsi anche la comunità internazionale. E alcuni centri, a fine giornata, aprono a chiunque, per evitare lo spreco delle fiale scongelate. Tutti ricevono il vaccino gratuitamente, negli ospedali e attraverso la capillare presenza delle principali mutue - Clalit, Maccabi, Meuhedet e Leumit - finanziate dallo Stato. Sono state allestite strutture provvisorie: sotto una tenda da campo in Piazza Rabin, a Tel Aviv, gli infermieri dell'ospedale Ichilov sono operativi da domenica a giovedì dalle 8 alle 22 e venerdì fino alle 15. Il Comune consente la somministrazione agli over 55 che soffrono di malattie croniche. La prenotazione dell'appuntamento, così come tutte le procedure mediche in Israele sono - e già da 20 anni - digitalizzate, con evidenti vantaggi.
   Vince la casa farmaceutica, il tandem Pfizer-BioNTech, che cercava un luogo per dimostrare la validità del vaccino. Israele è un laboratorio perfetto: è piccolo, ha una superficie compatta, un sistema sanitario efficiente e una popolazione etnicamente eterogenea. Inoltre ha pagato un prezzo doppio - si parla di 30 dollari a dose - rispetto a Usa e paesi Ue. Il governo israeliano ha preferito sborsare di più per garantirsi abbondanza e precedenza. È pur sempre un risparmio rispetto alle perdite causate dal prolungarsi della paralisi o alla spesa pubblica per milioni di test.
   Infine, vince la politica. Il 23 marzo Israele torna al voto per la quarta volta in 2 anni. La campagna elettorale, almeno per Netanyahu, si gioca sul blocco (è in vigore il terzo lockdown nazionale dall'inizio della pandemia), sulle vaccinazioni e sul suo processo per corruzione, frode e abuso di potere. «Ho parlato 13 volte con l'amministratore delegato di Pfizer», ha fatto sapere il premier, riscuotendo il credito per la disponibilità dei vaccini in tempi record. E in varie circostanze ha evocato il momento in cui riapriranno negozi e ristoranti e gli israeliani potranno di nuovo viaggiare, anche nei Paesi arabi. Se la campagna vaccinale si conferma un successo entro la data delle elezioni e l'economia torna a crescere, almeno due ostacoli, per Netanyahu, si trasformano in cavalli di battaglia.

(La Stampa, 3 gennaio 2021)


*


La forza di un popolo sempre in emergenza

di Elena Loewenthal

Piazza Rabin, che prima dell'assassino del grande leader si chiamava "Re d'Israele", è il cuore di Tel Aviv. Qui ci si raduna per protestare, per commemorare. Qui è il traguardo della maratona, qui ha luogo la fiera del libro a cielo aperto. Oggi una buona parte della piazza è occupata da una tensostruttura venuta su in pochi giorni che è l'icona di una campagna vaccinale ai confini dell'incredibile. È iniziata due settimane fa e ad ora il 12% della popolazione ha ricevuto la prima dose, oltre all'appuntamento per la seconda.
   L'impresa "Porgi la spalla" prosegue con una media di 120mila iniezioni al giorno: personale sanitario e ultrasessantenni cittadini dello stato ebraico - ebrei, arabi o altro che siano. Ma anche addetti ai servizi aeroportuali e da qualche giorno persino chi non è cittadino né residente ma si trova in Israele e ha più di sessant'anni può prenotarsi per la dose. Avanti così e in una manciata di settimane tutta la popolazione del paese che ha più di sedici anni sarà vaccinata - fornendo con ciò un prezioso campo di studi per l'immunità indotta, oltre che la salvezza dal Covid.
   Ci si vaccina in una vasta gamma di luoghi: scuole, ospedali, strutture provvisorie. Ci si vaccina anche senza la prenotazione: chi accompagna un anziano, chi si mette in fila perché di passaggio può ricevere il vaccino che avanza da una fiala aperta, giusto per non sprecare niente. Si vaccina sette giorni su sette.
   Come si spiega questo passo così diverso da tutto il resto del mondo, che fa balzare Israele in testa a tutte le classifiche del caso, con un distacco incolmabile? Le ragioni sono tante e diverse, ma in fondo stanno tutte racchiuse in quell'immagine iconica che è il padiglione di piazza Rabin. Questa campagna vaccinale si svolge nel pieno di una nuova ondata di contagi - con conseguente "light lockdown" - ma anche in stagione elettorale: Israele a marzo va al voto per la quarta volta in due anni e se Bibi porta a casa l'immunità il gioco è quasi sicuramente fatto.
   Ma, prima ancora, in Israele l'emergenza è da sempre parte della quotidianità, che si tratti di assorbire ondate di profughi dall'Europa della Shoah o dai paesi islamici nell'immediato dopoguerra o di affrontare una catena di guerre. Qui la tracciabilità è tanto coperta da una cybersecurity all'avanguardia quanto ovvia, cioè sinonimo di tutela: ogni israeliano ha sullo smartphone una app che lo avverte quando parte un missile da Gaza o dalla Siria e a seconda di dove si trova gli dice quanti secondi ha per raggiungere il rifugio più vicino. Qui vige un sistema sanitario pubblico cui si accede tramite assicurazioni semi-private. E c'è una logistica allenata che coinvolge tutto il sistema: nell'organizzazione della campagna vaccinale una parte importante l'hanno svolta l'esercito e l'intelligence.
   Pianificare, trasportare, informare, costruire, gestire verso un unico obiettivo, quello di annientare il virus, è anche una missione che riporta ai valori ancestrali incarnati dallo Stato ebraico quando dà il meglio di sé, come in questi giorni. Il primo è quello della "responsabilità", parola che in ebraico riconduce al concetto di "alterità": siamo tutti legati da un impegno reciproco. Agire insieme per il bene è un dettato morale che presuppone la consapevolezza di un destino comune.
   Ma c'è soprattutto il precetto ebraico archetipico, da cui tutto si dipana: quello di scegliere la vita invece della morte. La vita, parola ebraica che si esprime con un nome plurale, viene prima di tutto. E quando c'è uno strumento che garantisce la salvezza bisogna impiegarlo fino in fondo. Senza dubbi, senza risparmi di energie.

(La Stampa, 3 gennaio 2021)


Israele registra il più grande furto di munizioni della sua storia

Il quotidiano in lingua ebraica Yediot Aharonot (Ynet) ha riferito questa mattina che, nonostante le misure di sicurezza nelle basi militari israeliane, i trafficanti sono riusciti a prendere d'assalto una base militare e mettere a segno uno dei più grandi furti nella storia di Israele.
Il giornale ha riferito che i trafficanti hanno ricevuto assistenza dall'interno della base militare israeliana e sono riusciti a rubare 93.000 proiettili la scorsa settimana dal sito di Tsalim, che si trova nella parte meridionale del Paese.
Secondo il quotidiano, gli autori del furto non sono stati identificati e non sono disponibili informazioni su di loro.
Il giornale ha confermato che i ladri, dopo aver preso conoscenza dei tempi o dei turni di guardia alla base militare, sono riusciti a raggiungere il deposito di munizioni ottenendo l'aiuto di alcuni soldati dall'interno del sito.
Il giornale ha stimato che questo furto di munizioni equivale a milioni di shekel e causerà gravi danni materiali all'esercito israeliano.
Inoltre, nell'articolo si sottolinea che questo furto non è stato il primo e non sarà l'ultimo, poiché una base militare era stata precedentemente presa di mira vicino al confine libanese nel 2020.
Nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità del raid alla base militare israeliana vicino al confine libanese.

(l'AntiDiplomatico, 3 gennaio 2021)


Lo sceicco compra la squadra. La rivolta dei tifosi israeliani

di Simona Verrazzo

Il Beitar Jerusalem è noto per la tifoseria ultranazionalista. Tra i sostenitori anche Netayahu. Rivlin ne fu manager. L'annuncio: «Porte aperte anche a giocatori arabi»: Incidenti e arresti. Il proprietario: «svolta politica».

gERUSALEMME - In Israele è alta tensione tra i tifosi del Beitar Jerusalem, squadra di calcio tra le più importanti del Paese e nota per le sue posizioni ultranazionaliste: sono ormai giornaliere le proteste e le minacce verso la dirigenza del club, che da dicembre è per il 50 per cento di proprietà dello sceicco Hamad Bin Khalifa Al Nahyan, imprenditore e membro della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti.
   La notizia è stata presa malissimo dalla tifoseria, famosa in Israele per la sua intolleranza, così come lo erano, in passato, anche i suoi proprietari, tanto che la squadra non ha mai avuto un giocatore arabo, sebbene ne abbia avuti di religione islamica. In queste settimane si sono moltiplicati gli slogan "Morte agli arabi" durante gli allenamenti a porte aperte, che adesso sono riferiti non ai calciatori ma allo sceicco. Il nuovo corso del Beitar Jerusalem si può meglio capire inscrivendolo nel più ampio quadro degli Accordi di Abramo, con cui - grazie alla mediazione degli Stati Uniti - sono state poste le basi formali per l'avvio di relazioni diplomatiche tra Israele da un lato ed Emirati Arabi Uniti e Bahrain dall'altro. Una svolta per l'intero mondo arabo, tanto poi da essere seguiti da intese simili prima con Sudan e poi con Marocco.

 Gli Accordi di Abramo
  Lo sceicco Hamad Bin Khalifa Al Nahyan è stato uno dei principali fautori della stretta di mano tra lo Stato ebraico e Abu Dhabi. E a riprova del dialogo intrapreso è arrivata l'intesa sul piano sportivo, con l'entrata dello stesso Al Nahyan nel Beitar Jerusalem. La notizia è diventata subito virale, anche per la cifra, 90 milioni di dollari in dieci anni, che lo sceicco intende investire nella squadra israeliana. Una vera rivoluzione, di risorse finanziarie e umane, visto che Al Nahyanha ha dichiarato che «la porta è aperta» ai giocatori arabi e «a tutti i talenti», senza alcuna distinzione. Tanto è bastato per scatenare la rabbia della tifoseria.
 
   Durante la prima sessione di allenamenti subito dopo l'acquisto sono stati vandalizzati i muri del club e quattro persone sono state arrestate, tutte aderenti al gruppo ultrà La Familia. La mobilitazione del Beitar Jerusalem, fondato nel 1936, è seguita con grande attenzione nel Paese, per il profondo legame anche con l'élite politica: tra i suoi tifosi c'è il premier Benjamin Netanyahu, mentre il presidente Reuven Rivlin ne è stato manager e portavoce. La squadra è tra le più famose, non ultimo per le controversie che spesso accompagnano la sua tifoseria. La Familia, fondata nel 2005, non ha mai fatto nulla per nascondere le sue posizioni razziste contro gli arabi, questo perché il gruppo ultrà è composto da discenti delle comunità ebraiche che vivevano nei paesi arabi del nord Africa e del vicino e medio oriente (sefarditi e mizrahi). Alcuni giocatori di fede islamica, provenienti da Tajikistan, Albania e Cecenia, sono stati "accettati", mentre ha fatto il giro del mondo una delle ultime polemiche. Nel 2019 La Familia ha chiesto ad Ali Mohamed, giocatore cristiano proveniente dal Niger, di cambiare il proprio nome perché "troppo musulmano".
   Nonostante le proteste e le minacce, la dirigenza sembra voler andare avanti nel progetto di distensione diplomatica e inclusione sportiva. Moshe Hogeg, imprenditore israeliano di criptovaluta che ha acquisito la squadra nel 2018, ha detto al settimanale britannico Observer che lui e lo sceicco «vogliono mostrare al mondo che ebrei e musulmani possono fare cose belle insieme e ispirare le giovani generazioni». Lo stesso Hogeg aveva annunciato la notizia dell'entrata del nuovo socio come «il frutto degli Accordi di Abramo». Vero banco di prova per la neo-dirigenza saranno il calcio mercato, con l'entrata nella rosa di nuovi giocatori, e il comportamento della tifoseria sugli spalti sia nelle partite del campionato nazionale sia in quelle delle competizioni internazionali Uefa.

(Il Messaggero, 3 gennaio 2021)


La sfida degli ayatollah a Biden: "Uranio arricchito fino al 20 per cento"

L'annuncio di Teheran nell'anniversario dell'uccisione di Soleimani: è una soglia che permette di costruire l'atomica. L'Iran preme così sul presidente eletto per un ritorno all'accordo sul nucleare con l'obiettivo di un taglio delle sanzioni.

di Federico Rampini

NEW YORK — L'Iran ricomincerà ad arricchire uranio fino al 20%, cioè a livelli tali da poter costruire una bomba atomica, «il più presto possibile». L'annuncio arriva da Teheran nell'anniversario dell'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli americani, mentre tutte le forze militari nel Golfo Persico sono in stato di allerta. L'annuncio fa salire la tensione ai massimi e viene interpretato come un segnale a Joe Biden. Il regime degli ayatollah mette sotto pressione il prossimo presidente a due settimane dal suo insediamento, perché annunci il ritorno degli Stati Uniti nell'accordo nucleare e quindi la levata delle sanzioni. Intanto la previsione di un atto di vendetta nell'anniversario dell'uccisione di Soleimani, induce gli Stati Uniti a lanciare un monito a Teheran: «Nessuno deve sottovalutare - dice il comandante capo delle forze Usa in Medio Oriente, generale Frank McKenzie - la nostra capacità di reagire a qualunque attacco». Il Pentagono ha mandato due bombardieri strategici R-52 a sorvolare l'area del Golfo Persico. È diretto nel Golfo anche un sottomarino Usa dotato dl missili Tomahawk. Ma in un gesto di segno opposto, il segretario alla Difesa Christopher Miller ordina il rientro negli Stati Uniti della portaerei Nimitz. Annunciato alla vigilia dell'anniversario della morte di Soleimani, ll ritorno a casa della Nimitz viene interpretato come un gesto di "de-escalation", per non fornire pretesti agli iraniani e ridurre l'ampiezza dei possibili bersagli americani.
   La minaccia atomica torna però in primo piano. Il capo del programma nucleare iraniano, Ali Akbar Salehl, usa un'immagine di tipo militare: «Siamo come soldati con il dito sul grilletto, agli ordini dei nostri capi siamo pronti a produrre uranio arricchito al più presto». La decisione dell'Iran di arricchire uranio al 20% scatenò l'allarme un decennio fa. Allora Israele fu sul punto di colpire gli impianti nucleari iraniani con l'appoggio degli Stati Uniti. Lo scenario di una guerra fu scongiurato, o congelato, dall'accordo sul nucleare raggiunto nel 2015 per volontà di Barack Obama, poi abbandonato da Donald Trump. L'accordo prevedeva un forte ridimensionamento dei preparativi sull'uranio iraniano per dieci anni in cambio di una progressiva levata delle sanzioni economiche contro Teheran. Trump dopo la denuncia dell'intesa ha inasprito quelle sanzioni e l'economia iraniana ha visto peggiorare le sue difficoltà. Biden era il vice di Obama e favorevole all'accordo, anche se ultimamente ha adottato una posizione più cauta, accogliendo alcune delle critiche contro quell'accordo mosse da Israele, Arabia saudita, nonché da Trump e anche da alcuni europei: la durata breve dello stop iraniano sull'uranio arricchito; l'assenza di impegni sul riarmo missilistico di Teheran o l'appoggio a milizie terroristiche come gli Hezbollah in Medio Oriente. Ora l'annuncio sulla ripresa imminente dell'arricchimento di uranio sembra voler costringere Biden a sciogliere le riserve e ad accelerare i tempi per un ritorno all'accordo, quindi una levata delle sanzioni.
   Il centro dove l'Iran ha annunciato di voler riprendere l'arricchimento dell'uranio si trova a Fordo, vicino alla città santa di Qom, a 90 km a sudovest da Teheran. L'area ha la protezione naturale delle montagne, a cui si aggiungono batterie anti-aeree e altre fortificazioni militari. Finora l'arricchimento di uranio è stato portato dal 3,67% al 4,5%, un livello che già costituisce una violazione degli accordi del 2015. Firmatari di quegli accordi, oltre agli Stati Uniti, sono Cina, Russia, Germania. Francia e Regno Unito.
   Un anno fa l'eliminazione del generale Soleimani da parte di un drone americano fu un colpo micidiale, decapitando i corpi di élite delle Guardie Rivoluzionarie di un leader leggendario. Gli iraniani reagirono con un missile contro una base americana in Iraq che ferì decine di soldati. L'Iran ha subito un altro colpo duro a novembre: l'uccisione dello scienziato fondatore del suo programma nucleare, in un raid attribuito ai servizi israeliani.

(la Repubblica, 3 gennaio 2021)


Ricerca, progetti bilaterali Italia-Israele: pubblicato il bando 2021

 
Nell'ambito dell'accordo intergovernativo Italia-Israele sulla cooperazione industriale, scientifica e tecnologica in R&S, e' stato pubblicato il Bando 2021 per progetti bilaterali di traccia scientifica. Quest'anno, vengono accettate proposte di ricerca congiunta nelle seguenti aree:
  1. Applicazioni sanitarie dell'intelligenza artificiale;
  2. Sviluppo di colture resilienti al clima nello scenario del cambiamento globale del bacino del Mediterraneo.
Il termine per la presentazione delle domande congiunte in Italia e in Israele è mercoledi' 10 febbraio 2021.
Il testo del Bando e tutte le informazioni utili per la preparazione della domanda sono disponibili sul sito web del Ministero degli Affari Esteri e dalla Cooperazione Internazionale (Maeci) e sul sito web del Ministero israeliano della Scienza, della Tecnologia e dello Spazio (MOST).
Gli scienziati italiani e israeliani che intendono presentare candidature per progetti di ricerca congiunti sono invitati a fare riferimento al bando sui rispettivi siti web per conformarsi alle specifiche regole e ai requisiti di presentazione.

(Il Denaro, 3 gennaio 2021)


A un anno da Soleimani Stati uniti e Israele nel cortile dell'Iran

Navi da guerra e sottomarini nel Golfo nel primo anniversario dall'assassinio del generale. Teheran provoca ma solo a parole. La Repubblica islamica in attesa del cambio alla Casa bianca per resuscitare l'intesa.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - La portaerei USS Nimitz è stata richiamata a Bremerton ma nel Golfo resta il sottomarino a propulsione nucleare USS Georgia. E nessuno sa dove si trovi il sommergibile israeliano della classe Dolphin, capace di lanciare missili nucleari, che il mese scorso è passato per il canale di Suez.
   Pochi dubitano che sia a breve distanza da Hormuz, una dimostrazione di forza con gli Usa in occasione del primo anniversario dell'uccisione, il 3 gennaio di un anno fa a Baghdad, di Qasem Soleimani, capo della Forza Qods dei Pasdaran iraniani, compiuta da droni statunitensi. Questa settimana due B-52 Usa, i bombardieri più potenti al mondo, hanno sorvolato il Golfo lanciando un altro ammonimento all'Iran. Da giorni le basi americane nella regione sono in stato di allerta. È arduo credere che Teheran realizzi proprio oggi la dura rappresaglia che promette da un anno. Finora non è andata oltre i lanci di missili contro le basi Usa in Iraq seguiti all'uccisione di Soleimani e le azioni di disturbo dei gruppi suoi alleati in quel paese.
   Piuttosto è Teheran che accusa i suoi nemici di cercare il pretesto per un conflitto. «Stai attento alla trappola, informazioni di intelligence indicano che agenti israeliani stanno operando per organizzare attacchi agli americani». È l'avvertimento mandato a Trump dal ministro degli esteri iraniano Zarif, per cui Israele vorrebbe creare «un casus belli».
   E se guerra sarà, aggiunge Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aerospaziali dei Pasdaran, l'Iran è pronto a colpire le basi americane «dalla Giordania all'Iraq al Golfo e le loro navi da guerra nell'Oceano Indiano». Un conflitto di cui pagherebbero lo scotto anche i paesi arabi alleati di Washington e naturalmente Israele. Una minaccia diretta a Trump è giunta qualche giorno fa dal generale Esmail Ghaani, il sostituto di Soleimani.
   «Qualcuno — ha detto — potrebbe emergere dall'interno della vostra casa per vendicarsi del vostro crimine». Toni forti, linguaggio esplicito, eppure è improbabile che Teheran faccia il gioco dell'amministrazione Usa uscente in attesa di un pretesto per scatenare un'offensiva militare prima che Biden entri alla Casa bianca e cerchi — almeno questo è quello che si prevede — di rilanciare l'accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015 da cui Trump è uscito nel 2018.
   Certo il desiderio di vendicarsi alla leadership iraniana non manca. L'assassinio di Soleimani è stato un colpo durissimo. Il generale stratega della ragnatela di alleanze iraniane nella regione, dalla Siria al Libano fino allo Yemen, e tenace avversario di Israele, fu ucciso alle prime luci dell'alba di un anno fa da un drone statunitense assieme al capo delle Kataib Hezbollah, Abu Mahdi al Muhan dis, all'aeroporto di Baghdad. Trump spiegò la decisione di eliminare Soleimani come una «difesa preventiva».
   Più di tutto fu un regalo a Israele a sua volta responsabile, secondo l'opinione di molti, dell'attentato dello scorso 27 novembre in cui è morto il fisico Mohsen Fakhrizadeh, a capo del programma nucleare iraniano. La posizione dell'Iran l'ha spiegata qualche giorno fa con toni insolitamente accesi il presidente Rohani. «Tra pochi giorni, la vita di questo criminale (Trump) finirà e andrà nella pattumiera della storia», ha detto Rohani secondo il quale «uno degli effetti di questo atto stupido e vergognoso (l'assassinio di Soleimani, ndr) è stata la fine del trumpismo. Di questo siamo felici e crediamo che il periodo dopo Trump risulterà in una migliore condizione per la stabilità regionale e globale». Teheran, dove pure l'ala dura sta avendo il sopravvento sul più flessibile Rohani, non intende perdere, entrando in guerra, la possibilità di testare le reali intenzioni di Biden e di considerare un dialogo con la nuova amministrazione per un recupero dell'accordo nucleare.
   Partendo però da una base più elevata come indica l'annuncio di Ali Akbar Salehi, capo del programma dell'energia atomica: l'Iran «comincerà la produzione dell'uranio arricchito al 20% a Fordow». Un livello quasi 6 volte la soglia del 3,67% fissata dalle intese del 2015.

(il manifesto, 3 gennaio 2021)



Come cerva che assetata

PREDICAZIONE
Marcello Cicchese
gennaio 2008
Dalla Sacra Scrittura

SALMO 42
  1. Come la cerva desidera i corsi d'acqua,
    così l'anima mia anela a te, o Dio.
  2. L'anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente;
    quando verrò e comparirò in presenza di Dio?
  3. Le mie lacrime sono diventate il mio cibo giorno e notte,
    mentre mi dicono continuamente: «Dov'è il tuo Dio?»
  4. Ricordo con profonda commozione il tempo in cui camminavo con la folla
    verso la casa di Dio, tra i canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa.
  5. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.
  6. L'anima mia è abbattuta in me; perciò io ripenso a te dal paese del Giordano,
    dai monti dell'Ermon, dal monte Misar.
  7. Un abisso chiama un altro abisso al fragore delle tue cascate;
    tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati su di me.
  8. Il Signore, di giorno, concedeva la sua grazia,
    e io la notte innalzavo cantici per lui come preghiera al Dio che mi dà vita.
  9. Dirò a Dio, mio difensore: «Perché mi hai dimenticato?
    Perché devo andare vestito a lutto per l'oppressione del nemico?»
  10. Le mie ossa sono trafitte dagli insulti dei miei nemici
    che mi dicono continuamente: «Dov'è il tuo Dio?»
  11. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.
SALMO 43
  1. Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa contro gente malvagia;
    liberami dall'uomo falso e malvagio.
  2. Tu sei il Dio che mi dà forza; perché mi hai abbandonato?
    Perché devo andare vestito a lutto per l'oppressione del nemico?
  3. Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino,
    mi conducano al tuo santo monte e alle tue dimore.
  4. Allora mi avvicinerò all'altare di Dio, al Dio della mia gioia e della mia esultanza;
    e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio!
  5. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.

2 RE 18
  1. Non date dunque ascolto a Ezechia, quando cerca d'ingannarvi dicendo: "Il SIGNORE ci libererà".
  2. Qualcuno degli dèi delle nazioni ha forse liberato il suo paese dalle mani del re d'Assiria?
  3. Dove sono gli dèi di Camat e di Arpad? Dove sono gli dèi di Sefarvaim, di Ena e d'Ivva? Hanno forse liberato Samaria dalla mia mano?
  4. Fra tutti gli dèi di quei paesi quali sono quelli che hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Il SIGNORE potrà forse liberare Gerusalemme dalla mia mano?»

2 RE 19
  1. «Dite così a Ezechia, re di Giuda: "Il tuo Dio, nel quale confidi, non t'inganni dicendo: 'Gerusalemme non sarà data nelle mani del re d'Assiria'.
  2. Ecco, tu hai udito quello che i re d'Assiria hanno fatto a tutti i paesi, come li hanno distrutti; e riusciresti a scampare?
  3. Gli dèi delle nazioni che i miei padri distrussero, gli dèi di Gozan, di Caran, di Resef, dei figli di Eden che erano a Telassar, riuscirono forse a liberarle?
  4. Dove sono il re di Camat, il re di Arpad, e il re della città di Sefarvaim, di Ena e d'Ivva?"»
  5. Ezechia prese la lettera dalle mani dei messaggeri e la lesse; poi salì alla casa del SIGNORE, e la spiegò davanti al SIGNORE.
  6. Ezechia pregò davanti al SIGNORE dicendo: «SIGNORE, Dio d'Israele, che siedi sopra i cherubini, tu solo sei il Dio di tutti i regni della terra; tu hai fatto il cielo e la terra.
  7. SIGNORE, porgi l'orecchio, e ascolta! SIGNORE, apri gli occhi, e guarda! Ascolta le parole che Sennacherib ha mandato per insultare il Dio vivente!
  8. È vero, SIGNORE; i re d'Assiria hanno devastato le nazioni e i loro paesi,
  9. e hanno dato alle fiamme i loro dèi; perché quelli non erano dèi; erano opera di mano d'uomo: legno e pietra; li hanno distrutti.
  10. Ma ora, SIGNORE nostro Dio, salvaci, te ne supplico, dalla sua mano, affinché tutti i regni della terra riconoscano che tu solo, SIGNORE, sei Dio!»

 

Bilancio 2020 delle Forze di Difesa israeliane

Nel 2020 l'aeronautica militare israeliana ha effettuato 50 attacchi contro obiettivi ostili in Siria.
E' quanto risulta da un rapporto di fine anno delle Forze di Difesa israeliane pubblicato giovedì. Sempre sul fronte siriano, rivela il rapporto, sono stati sventati due attacchi con mine anti-uomo, mentre sul confine libanese sono stati sventati almeno due tentativi di infiltrazione terroristica da parte di Hezbollah.
   Sul fronte della striscia di Gaza, nel 2020 sono stati registrati 176 lanci di razzi da parte di organizzazioni terroristiche palestinesi. Di questi, 90 si sono abbattuti su zone non edificate e 80 sono stati intercettati in tempo dai sistemi anti-missile israeliani sopra aree abitate. Per reazione, le forze israeliane hanno colpito circa 300 obiettivi terroristici nella striscia di Gaza.
   Nel 2020 è stato anche scoperto un nuovo tunnel terroristico scavato da Hamas verso il territorio israeliano. In Cisgiordania lo scorso anno ci sono stati circa 1.500 incidenti con lanci di pietre, un po' di più dei 1.469 segnalati nel 2019, e 229 lanci di ordigni incendiari Molotov, contro i 290 dell'anno precedente. Si sono registrati 31 inciderti con uso di armi da fuoco, 12 in più rispetto al 2019. Le aggressioni con armi bianche sono state nove, tre in meno rispetto all'anno prima.
   Complessivamente, il 2020 è stato per gli israeliani l'anno più sicuro degli ultimi dieci per quanto riguarda i rischi terroristici e militari. L'esercito ha anche dettagliato il suo contributo alla lotta contro la pandemia, grazie a una task force specifica e a due centri militari di ricerca e sviluppo convertiti in strutture covid-19, mentre il centro di comando anti-coronavirus "Alon" delle Forze di Difesa ha condotto più di 236.000 indagini epidemiologiche grazie alla mobilitazione di 3.000 riservisti.
   
(israele.net, 2 gennaio 2021)


Israele primo nell'immunizzazione: Netanyahu porta il siero alle urne

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Procede ad alta velocità, circa 150mila vaccinazioni al giorno, la campagna di immunizzazione in Israele. Con la dose inoculata ieri ad Ahmed Jabarin, della città di Um el-Fahem, è stata superata la milionesima vaccinazione. Un dato che pone Israele al primo posto nel rapporto tra immunizzati e popolazione, all'11,55%.
   Alla milionesima vaccinazione ha partecipato anche Benyamin Netanyahu che ha fatto della campagna vaccinale un propulsore di quella elettorale. «Provo una emozione grande — ha detto il premier israeliano — Ci siamo procurati milioni di dosi, abbiamo preceduto il mondo intero e procediamo ad alta velocità per immunizzare l'intera popolazione». Netanyahu fa spesso riferimento alla sua abilità nel procurare al paese milioni di dosi dei vaccini Pzifer e Moderna e lascia intendere di aver svolto un'efficace operazione di pubbliche relazioni sui due colossi dell'industria farmaceutica.
   Israele vanta una buona organizzazione sanitaria sul territorio alla quale si deve il successo della campagna di vaccinazioni. E conta la disponibilità della maggioranza degli israeliani. L'obiettivo di Netanyahu è vaccinare al più presto anche gli under 60 in modo da raggiungere almeno 4 milioni di immunizzati entro fine febbraio. Se a marzo il quadro dell'epidemia migliorerà sensibilmente consentendo al paese di uscire dall'emergenza, il premier non mancherà di attribuirsi gran parte dei meriti a scopo elettorale. Non è certo però che quel traguardo sarà raggiunto. Netanyahu ripete che saranno disponibili milioni di dosi dei vaccini. Quello Pfizer immunizza con due dosi e alcuni media locali sostengono che il ministero potrebbe essere costretto a congelare parzialmente la campagna vaccinale per due settimane a gennaio, per consentire a chi ha ricevuto la prima dose di ottenere la seconda: nel frattempo non verranno inoculate nuove prime dosi. Qualche giorno fa era stato annunciato che Moderna consegnerà un milione di dosi del suo vaccino entro la prossima settimana, in largo anticipo rispetto a quanto concordato nei mesi scorsi. Il ministero della sanità però dichiara di non saperne nulla.
   Se la campagna vaccinale va bene, quella di contenimento del contagio non funziona. I casi positivi salgono rapidamente, ben oltre i 5mila al giorno, e così quelli dei casi dei malati gravi e in terapia intensiva. A metà gennaio, prevede qualche esperto, i contagi potrebbero toccare gli 8mila al giorno. A conferma dell'ampia circolazione del virus si è appreso che 240 vaccinati sono rimasti ugualmente contagiati (il vaccino Pfizer diventa efficace 10 giorni dopo la prima dose e garantisce una forte immunizzazione solo dopo la seconda). Vengono lanciati appelli al rispetto delle misure di prevenzione ma il terzo lockdown in cui Israele è entrato nei giorni scorsi non pare destinato a dare risultati significativi: non si tratta di una chiusura vera.
   Resta vaga la situazione dei vaccini nei territori palestinesi occupati di Cisgiordania e Gaza. Un funzionario del ministero della salute a Ramallah ha annunciato che in un paio di settimane sarà disponibile un quantitativo di dosi ma non ha precisato di quale vaccino. Con mini probabilità è il russo Sputnik V, nel quadro del programma Covax dell'Oms. Israele in quanto potenza occupante dovrebbe prendersi cura della popolazione occupata ma un rappresentante del governo ha detto che la priorità è data ai cittadini israeliani. Solo dopo si prenderà in considerazione l'eventuale fornitura ai palestinesi.
   
(il manifesto, 2 gennaio 2021)


*


Nessuno come Israele: tour de force per i vaccini, un milione in 13 giorni.

di Sharon Nizza

Muhammad Jabarin di Umm al-Fahm è stato ieri il milionesimo israeliano a ricevere il vaccino Pfizer. Con l'11% della popolazione vaccinato in soli 13 giorni, l'obiettivo di festeggiare a fine marzo la Pasqua ebraica senza restrizioni si fa ogni giorno più reale. «Saremo il primo Paese a uscire dalla pandemia» ha annunciato Netanyahu, che si gioca anche il suo futuro politico, con le quarte elezioni in meno di due anni fissate per il 23 marzo.
   È una campagna senza sosta, frenetica, quella che dal 20 dicembre ha portato il Paese in cima alle classifiche mondiali per numero di vaccinati. I centri di inoculazione, a oggi oltre 300, si moltiplicano ogni giorno sfruttando ogni angolo di suolo pubblico: ieri in piazza Rabin, nel cuore di Tel Aviv, c'era la coda all'enorme tendone allestito in pochi giorni. Logistica, previdenza e fiducia nella scienza sono alla base del modello israeliano. «Israele è un Paese abituato a pensare fuori dagli schemi» ci dice il professor Nadav Davidovitch, direttore della scuola di sanità pubblica dell'università Ben Gurion e membro del team di esperti che assiste il governo nell'emergenza Covid. «Abbiamo seguito da subito gli sviluppi nella ricerca del vaccino con la nostra rete di contatti, che è molto ampia perché Israele da sempre investe nella ricerca vaccinale. Nel 1913, ben prima della fondazione dello Stato, è stato creato qui il primo istituto del genere». I rapporti hanno fatto la loro parte - il direttore scientifico di Moderna, Tal Zaks, è un israeliano che ha studiato alla stessa università di Davidovitch - ma c'è stata anche la lungimiranza di puntare su tutti i cavalli: Israele ha chiuso contratti con Pfizer, Moderna e AstraZeneca prima delle autorizzazioni, per 22 milioni di dosi (ci sono trattative sottobanco per un trasferimento di una parte del surplus all'Autorità Palestinese), pagandole il doppio e assicurandosi potere negoziale.
   In due mesi Netanyahu ha chiamato 13 volte il Ceo di Pfizer, Andrea Bourla, e i vaccini arrivano a ritmo serrato con un ponte aereo continuo. A oggi siamo a quota quattro milioni che per metà gennaio copriranno gli over 60. Ora, siccome l'alta domanda ha portato a più inoculazioni del previsto - 150.000 al giorno - Netanyahu preme per anticipare la prossima tranche, prevista per febbraio. La logistica, affidata alle quattro casse mutua semi-private che gestiscono il sistema sanitario, è coadiuvata dagli ospedali, dalle retrovie dell'esercito e dal Magen David Adom. «Ogni istituzione vuole dare il proprio contributo e sono tutti pronti perché Israele da 15 anni conduce esercitazioni congiunte tra sistema militare e attori civili in previsione di eventi che richiederebbero immunizzazione di massa», ci spiega Davidovitch, specificando che un ruolo chiave l'ha giocato anche la digitalizzazione dei servizi sanitari, in cui il Paese investe da oltre un decennio.
   Martedì verrà inaugurata l'app "Passaporto verde" per agevolare il ritorno alla routine con il procedere della campagna. Ma alla radice del successo c'è la risposta della gente. Gruppi whatsapp a fine giornata indicano in quali ambulatori trovare dosi avanzate, accessibili a tutti, ed è gara a chi arriva prima.

(la Repubblica, 2 gennaio 2021)


«Saremo il primo Paese a uscire dalla pandemia» ha annunciato Netanyahu. Stia attento Israele a presentarsi al mondo come il primo della classe. Il mondo ascolta e accoglie le parole come un’arma in più da usare al momento opportuno. Del resto, anche la Sacra Scrittura mette in guardia: “Altri ti lodi, non la tua bocca; un estraneo, non le tue labbra”, ammonisce il libro dei Proverbi (27:2). M.C.


Covid-19, in Israele oltre 200 persone positive dopo il vaccino

Questo perché il vaccino di Pfizer - BioNTech non fornisce l'immunità immediata al coronavirus.

Il vaccino di Pfizer-BioNTech non fornisce l'immunità immediata al coronavirus. Di conseguenza, oltre 200 cittadini israeliani, a cui è stata diagnosticata la malattia dopo avere ricevuto la prima dose, sono risultati positivi al Covid-19. Ne dà notizia RT.com.
   In totale, sono risultati positivi al Covid-19 dopo il vaccino circa 240 persone. Il vaccino Pfizer / BioNTech, su cui fanno affidamento le autorità sanitarie israeliane, non contiene il coronavirus e non può infettare il ricevente. Ma è necessario del tempo affinché il codice genetico del farmaco alleni il sistema immunitario a riconoscere e attaccare la malattia.
   Inoltre, il vaccino prodotto negli Stati Uniti d'America richiede due dosi. Secondo gli studi, l'immunità al Covid-19 aumenta solo da otto a dieci giorni dopo la prima iniezione e alla fine raggiunge il 50%.
   La seconda dose viene somministrata 21 giorni dopo la prima, mentre l'immunità dichiarata del 95% viene raggiunta soltanto una settimana dopo. E, naturalmente, c'è ancora una probabilità del 5% percento di essere infettati.
   I notiziari israeliani che hanno riportato le cifre hanno esortato la cittadinanza a restare vigili e a seguire scrupolosamente tutte le precauzioni durante il mese successivo alla somministrazione della prima dose del vaccino.
   Lo stato ebraico sta intraprendendo una massiccia campagna di vaccinazione, che ha già visto oltre un milione di persone o quasi il 12% della popolazione ricevere il farmaco.
   La prima fase del programma mira a immunizzare medici e anziani prima di espandersi ad altre categorie.
   Circa una persona su mille ha riportato lievi effetti collaterali dopo l'iniezione, tra cui debolezza, vertigini e febbre, nonché dolore, gonfiore e arrossamento nel punto in cui è stata somministrata l'iniezione. Solo poche dozzine di loro hanno dovuto ricorrere alle cure mediche.
   
(CronacaSocial, 2 gennaio 2021)


L'iran minaccia vendetta per il generale Soleimani. Trump pronto alla guerra

Teheran vuole colpire obiettivi Usa, ma il tycoon punta ad annientare gli ayatollah.

di Fiamma Nirenstein

La tradizionale festa di capodanno al «Mar a Lago club», in Florida, si è svolta senza Donald Trump. Col suo stile da D'Artagnan che non chiede il permesso a nessuno, un giorno prima del previsto il Presidente che lascia la Casa Bianca il 20 di questo mese per passarla a Joe Biden, ha abbandonato gli amici e se ne è tornato a Washington.
   Nessuno sa perché, ma quando si parla di Trump si parla sempre di svolte fatali, di gesti super grandiosi e, naturalmente, super discutibili, specie ora che Biden poi se li dovrebbe buscare. La scacchiera del villaggio internazionale è molto drammatica e riguarda una possibile guerra con l'Iran.
   Domani, 3 gennaio, ricorre l'anniversario dell'eliminazione di Qassem Soleimani: il generale, rappresentato su tutti i muri di Teheran e ovunque allignino i suoi ammiratori, da Hamas a Gaza, al Libano degli hezbollah, allo Yemen dei Houty, all'Irak delle varie milizie sciite, è una delle proclamazioni continue, da un anno, della volontà di una vendetta terribile che deve investire gli Stati Uniti e Israele.
   Il rumore di questa intenzione è diventato un tuono col trascorrere degli ultimi giorni: Nasrallah ha tenuto un discorso furioso, Hamas ha voluto dimostrare con un drill militare senza precedenti e con un bombardamento a Sderot di essere pronto alla guerra. Infine ieri Teheran ha ribadito i propositi di vendetta per l'uccisione di Soleimani: i suoi killer «non saranno al sicuro sulla Terra», ha assicurato il capo dell'autorità giudiziaria della Repubblica islamica, Ebrahim Raisi, sottolineando che neanche il presidente Trump, che ordinò l'attacco con un drone, è «immune dalla giustizia».
   L'ultimo episodio che ha creato una forte reazione americana, (i B52 hanno bombardato obiettivi iraniani sul territorio iracheno il 29 dicembre), è stato la presa di mira con missili balistici iraniani del compound americano di Baghdad il 20 di quel mese. È stato allora che Trump ha avvertito gli iraniani che ogni danno a cittadini americani avrebbe destato la sua reazione. Dal 25 dicembre anche l'esercito israeliano è in stato di allerta. È plausibile che l'Iran intenda realizzare la sua vendetta tramite i suoi numerosi «proxy» in Siria, Libano, Irak, Yemen, i Paesi in cui Soleimani aveva costruito la sua strategia di dominazione. E facile che la vendetta, oltre agli Usa e Israele, investa i paesi arabi sunniti come gli Emirati, il Bahrain, l'Arabia Saudita, più filoamericani.
   Ma Trump in un mese ha inviato nella regione, per tre volte i B52, un sottomarino nucleare e due navi da guerra. Anche un sottomarino israeliano si è diretto in zona. L'Iran potrebbe compiere la sua vendetta proprio alla vigilia del mandato di Biden per non scuotere troppo il nuovo presidente, da cui sperano un nuovo trattato. Ma anche per lui potrebbe essere difficile trovare un terreno comune con Teheran: le notizie dell'Aiea (agenzia internazionale per l'energia atomica), dicono che l'Iran ha accresciuto la sua riserva di uranio 12 volte oltre la quantità permessa dall'accordo di Obama del 2015; la continua minaccia terrorista ha consolidato un fronte mediorientale antiraniano e filoamericano, su cui Trump potrebbe contare se intende concludere il suo mandato con un gesto spettacolare. Forse vuole suggellare il suo mandato ponendo fine alla minaccia iraniana, da decenni ormai incombente sul Medio Oriente.
   Cosa farebbe Biden? Tutti gli scenari sono possibili. L'America ne sarebbe sconvolta ma gli Ayatollah si troverebbero nel momento più difficile della loro storia di feroce dominio dal '79, quando andarono al potere.

(il Giornale, 2 gennaio 2021)


Nucleare, Iran: "Arricchimento uranio al 20 per cento"

L'Iran ha comunicato all'Aiea l'intenzione di voler arricchire l'uranio al 20%, quota suscettibile di utilizzi del nucleare anche a livello militare.

di Fabio Acri

TEHERAN - L'Iran fa sul serio sul nucleare. Il Paese persiano ha già comunicato all'Aiea l'intenzione di portare l'arricchimento dell'uranio al 20%.

 L'ordine di Rohani: "Uranio al 20%"
  "L'Iran comincerà la produzione dell'uranio arricchito al 20% nel sito sotterraneo di Fordow subito dopo l'ordine del presidente Hassan Rohani" lo ha detto oggi il capo dell'Organizzazione per l'energia atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, ai microfoni della tv statale.

 Iran e nucleare
  L'iniziativa - ha spiegato ancora Salehi - seguiterà a una recente legge approvata dal Parlamento che mette fine alle ispezioni dell'Aiea e prevede la creazione di uno stock di 120 chili di uranio arricchito al 20%.

 L'accordo dell'Aiea
  L'arricchimento dell'uranio al 20% è quasi sei volte la soglia del 3,67% fissata dall'accordo sul nucleare iraniano del 2015. Pertanto, si tratta di una percentuale suscettibile di un utilizzo anche militare.
L'abbandono unilaterale dal trattato effettuato dagli Stati Uniti nel maggio 2018 ha portato anche Teheran a sentirsi sciolta da qualunque vincolo. In base a quanto raggiunto nell'intesa tra Iran e P5+1 il Paese sciita aveva accettato di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per tredici anni. Al tal fine, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica avrebbe avuto accesso regolare a tutti gli impianti nucleari iraniani.

(News Mondo, 2 gennaio 2021)



Il giorno della prosperità e il giorno dell'avversità

di Marcello Cicchese

"Vale più la fine di una cosa, che il suo principio; e lo spirito paziente vale più dello spirito altero. Non ti affrettare a irritarti nello spirito tuo, perché l'irritazione riposa in seno agli stolti. Non dire: «Come mai i giorni di prima erano migliori di questi?», poiché non è da saggio domandarsi questo" (Ecclesiaste 7:8-10).
"Considera l'opera di Dio; chi potrà raddrizzare ciò che egli ha reso curvo? Nel giorno della prosperità godi del bene, e nel giorno dell'avversità rifletti. Dio ha fatto l'uno come l'altro, affinché l'uomo non scopra nulla di ciò che sarà dopo di lui" (Ecclesiaste 7:13-14).


"Vale più la fine di una cosa che il suo principio."

Ogni inizio è accompagnato da speranza. Chi comincia qualcosa ha in mente un obiettivo che spera di raggiungere. Spesso l'inizio è promettente, sia perché chi ha cominciato l'impresa è sorretto dal forte desiderio di ottenere quello che ha in mente, sia perché i veri grossi ostacoli non si sono ancora presentati.
   E quando le cose vanno bene lo "spirito altero" è portato a inorgoglirsi. I successi ottenuti nel recente passato lo spingono a mostrare sicurezza anche per il futuro. "Oggi o domani andremo nella tale città, vi staremo un anno, trafficheremo e guadagneremo" (Giacomo 4:13). L'uomo sicuro di sé è convinto di riuscire a raddrizzare molte cose che prima erano storte (Ecclesiaste 1:15); è convinto di poter riuscire là dove altri hanno fallito. E pensa così perché paragona i suoi successi dell'inizio con i fallimenti di tanti che si trovano alla fine delle loro imprese. Se altri hanno fallito, nel matrimonio o nel lavoro, lui è convinto di riuscire. E il suo promettente inizio sembra dargli ragione.
   Ma l'Ecclesiaste avverte che il valore autentico di un'opera si riconosce alla fine, non all'inizio dell'opera. Anche il valore di una vita, che in gioventù non si può ancora capire, risalta molto meglio al tempo della vecchiaia, quando tutti i nodi vengono al pettine e la trama dei fili con cui è stata intessuta la vita è molto più facilmente riconoscibile.

"...e lo spirito paziente vale più dello spirito altero"

Prima o poi, chi è partito con l'orgogliosa sicurezza di riuscire a raddrizzare ciò che è storto deve prendere atto che anche a lui le cose possono "andare storte". E a questo punto lo "spirito altero" si "irrita". Si irrita perché è convinto che se le cose vanno male, non dipende da lui: la colpa è della moglie, del marito, dei figli, dei genitori, dei fratelli, dei colleghi, del padrone, dei dipendenti, dei politici, del governo. E se proprio non può attribuire a nessuno la causa delle sue disgrazie, allora la colpa è del destino, della sfortuna, e quindi, in ultima analisi, di Dio.
   Lo spirito altero si irrita perché gli sembra che la sua saggezza si scontri con l'insipienza degli altri e con la cecità del destino. Si ricorda che all'inizio, quando tutto girava come voleva lui, le cose andavano bene, ma poi gli altri hanno smesso di starlo a sentire, fatti imprevisti e spiacevoli sono accaduti, e adesso si trova nei guai. Come si fa a non essere irritati?
   L'Ecclesiaste risponde:

"Non ti affrettare a irritarti nello spirito tuo, perché l'irritazione riposa in seno agli stolti".

La tua irritazione - sembra dire l'Ecclesiaste - non è dovuta alla tua saggezza, ma alla tua stoltezza. Quindi:

"Non dire: 'Come mai i giorni di prima erano migliori di questo?' poiché non è da saggio domandare questo".

Ti lamenti dei giorni di adesso e rimpiangi i giorni di prima, ma si capisce come hai vissuto i giorni di prima dal modo in cui vivi i giorni di adesso. Se adesso dici che prima era meglio, vuol dire che prima non vivevi con saggezza e adesso devi prenderne atto. Se vedi nero nel presente e nel futuro, e vedi rosa solo nel passato, vuol dire che hai vissuto il passato con uno spirito altero e non con uno spirito paziente, perché la pazienza produce speranza (Romani 5:4), e non disperazione. Tu pensi di star male perché ti sembra che le persone e le cose ti resistano, e invece è Dio che ti resiste, perché "Dio resiste ai superbi, e dà grazia agli umili" (Giacomo 4:6).
   La pazienza biblica non è ottusa rassegnazione davanti a un destino cieco e crudele, ma è la capacità di sopportare patendo, nell'umile e fiduciosa attesa del compimento dell'opera di Dio. Per questo l'Ecclesiaste invita chi si trova nel giorno dell'avversità ad essere saggio adesso, se non lo è stato prima, dicendogli:

"Considera l'opera di Dio".

Qual è l'oggetto delle nostre considerazioni quando siamo nei guai? A che cosa pensiamo? "Ai miei problemi", risponderà subito qualcuno. Certo, è naturale e comprensibile che nel momento della difficoltà la nostra mente sia spinta a considerare tutti gli aspetti del problema che ci turba: ne cerchiamo le cause nel passato, ne valutiamo gli effetti nel presente, tentiamo di prevedere le conseguenze nel futuro, distribuiamo responsabilità e colpe a chi si deve, cerchiamo possibili vie d'uscita. E' comprensibile, come già detto, ma la Scrittura ha qualcosa di diverso da dirci. Nel giorno dell'avversità l'Ecclesiaste ci invita, come prima cosa, a considerare l'opera di Dio. Questo significa che quando le cose "mi vanno storte", il mio primo pensiero non deve essere: "Che cosa devo fare io per raddrizzarle?", ma: "Che cosa si propone di fare Dio attraverso quello che mi accade?" Devo pensare all'opera che Dio vuol fare ricordando le parole dell'Ecclesiaste:

"chi potrà raddrizzare ciò che egli ha reso curvo?

Se nel Suo piano di grazia e di misericordia Dio ha deciso di "rendere curve" certe cose che a me piacerebbe tanto fossero diritte, sarebbe da stolti insistere nel tentativo di raddrizzarle. Dio mi invita a riflettere, e a occupare il posto (forse a me non molto gradito) in cui è già pronta per me la Sua particolare benedizione.
   Ma allora, penserà qualcuno, è proprio vero che il responsabile dei miei guai è Dio: se le cose vanno male è colpa sua. Quando attribuiamo a Dio la colpa del male, non facciamo che proseguire la velata accusa di Adamo a Dio: "La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell'albero, e io ne ho mangiato" (Genesi 3:12). Si parla di colpa là dove c'è trasgressione, reato; colpevole, quindi, è soltanto l'uomo, che con il suo peccato ha volontariamente interrotto la comunione d'amore e di vita con il suo Creatore. Naturalmente Dio non vuole il peccato, ma vuole che il peccato abbia certe conseguenze. Dio aveva avvertito Adamo che il peccato avrebbe prodotto la morte, e così è stato, con tutto il seguito di corruzione, disordine, sofferenze. Ma queste conseguenze, nonostante il loro aspetto sgradevole, rientrano nel piano misericordioso predisposto da Dio per la salvezza degli uomini, e il loro significato salvifico si esprime nel modo più completo nelle sofferenze e nella morte del Signore Gesù. L'"opera di Dio" che l'uomo deve dunque considerare è, innanzitutto, l'opera di redenzione che Egli ha fatto in Cristo, con la quale ha veramente "raddrizzato" ciò che era stato "reso curvo" dal peccato dell'uomo.
   Ma fino a che il piano di redenzione non sarà stato portato a termine, fino a che durerà il tempo della grazia, gli uomini non devono illudersi di riuscire a "raddrizzare ciò che è curvo" con i soli loro sforzi.
   Per questo Dio ha stabilito che sulla terra ci sia un giusto equilibrio di gioia e dolore, di riso e pianto, di luce e tenebre, di vita e morte. Dio concede all'uomo la prosperità, affinché arrivi a conoscerlo come un Dio d'amore e a confidare in Lui; e permette l'avversità, affinché non si adagi nella fiducia in sé stesso e nelle sue capacità.

"Nel giorno della prosperità godi del bene".

Quando tutto fila liscio e le cose vanno bene, ricordati che tutto questo è dono di Dio. Ringrazialo dunque, e godi del bene che ti viene concesso, senza morbosi complessi di colpa, perché "Dio ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo" (1 Timoteo 6:17). Se dunque Dio vuole farti conoscere la Sua bontà permettendoti di godere dei Suoi doni, sarebbe colpevole ingratitudine disprezzare la gioia che ti viene offerta rimanendo triste e preoccupato.
   
"... e nel giorno dell'avversità rifletti".

Quando tutto gira storto e le cose vanno male, rifletti. C'è un tempo per godere e un tempo per pensare, un tempo per cantare e un tempo per pregare (Giacomo 5:13). Ricordati che se nel giorno della prosperità la bontà di Dio è manifesta, nel giorno dell'avversità la bontà di Dio è nascosta, ma è sempre lì, a tua disposizione. Rifletti dunque, e non dire che il giorno della prosperità l'ha voluto Dio e il giorno dell'avversità l'ha voluto il diavolo, perché

"Dio ha fatto l'uno come l'altro".

Se oggi ti viene tolto un bene che possiedi e conosci, certamente Dio te ne vuol dare un altro maggiore che ancora non possiedi e non conosci. Rifletti dunque, e prega, affinché tu sappia riconoscere il bene che Dio ha in serbo per te, e tu possa goderne e ringraziarlo.
   Rifletti anche sul peccato degli uomini e sul tuo peccato, per non dimenticare mai che la causa originaria di ogni male, la sua radice profonda, sta proprio nella ribellione della creatura contro il suo Creatore. Medita sulla persona di Cristo, considera la Sua opera e le Sue sofferenze, e ricordati che Gesù ha sofferto prima di noi e più di noi, anche Lui a causa del peccato, ma del peccato nostro, e non del Suo.
   Ricordati infine che Dio ha fatto il giorno della prosperità e il giorno dell'avversità

"affinché l'uomo non scopra nulla di ciò che sarà dopo di lui".

Questo significa che devi smettere di voler uscire dai tuoi guai cercando affannosamente di prevedere, programmare, assicurare il tuo futuro. Così facendo, ti assumi responsabilità che non ti competono e ti carichi di pesi che Dio vorrebbe risparmiarti. Dio ti promette la forza per sopportare il peso dell'avversità di oggi, ma non ti promette nulla per quanto riguarda il peso della preoccupazione del domani. La tua preoccupazione deve essere l'ubbidienza a Dio oggi: il domani è un problema Suo.
   Gesù ha detto: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia" (Matteo 6:33), e questo si può fare ogni giorno, sia esso bello o brutto ai nostri occhi. Se ubbidiremo a questa parola, ogni giorno sarà per noi un giorno di prosperità, perché riconosceremo che Dio è fedele anche quando dice: "... e tutte le altre cose vi saranno sopraggiunte".
   
(Notizie su Israele, 1 gennaio 2021)



"Il palestinese Gesù". Un programma radiofonico della BBC riscrive la storia del Medioriente

di Paolo Castellano

Il 18 dicembre, durante il programma radiofonico Heart and Soul della BBC World Service, si è parlato di Gesù definendolo "palestinese" ed evitando qualsiasi menzione esplicita alla sua identità ebraica. La puntata era stata intitolata Black Jesus dal presentatore Robert Backford che ha attribuito al simbolo religioso un'identità palestinese, peccato che il termine Palestina sia entrato in uso soltanto 100 anni dopo la crocifissione di Cristo.
   Durante il suo programma, lo speaker radiofonico ha polemizzato sulle rappresentazioni europee di Gesù che lo raffigurano in molti casi come un uomo dalla pelle chiara e dai capelli biondi, definendo questo atteggiamento storicamente inaccurato. Parlando delle origini di Cristo, Backford ha più volte parlato di "ebreo palestinese del I secolo", ma il termine palestinese, come ricorda il Jerusalem Post, è entrato nel vocabolario un secolo dopo la sua morte, dopo la rivolta del condottiero ebreo Bar Kokhba contro l'Impero romano.
   La Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America (CAMERA) aveva già smontato l'inesattezza storica ripetuta in onda dalla BBC all'interno di un report pubblicato all'inizio del 2020. L'organizzazione aveva criticato il New York Times per la medesima osservazione.
   «Durante il tempo di Gesù, Betlemme e Gerusalemme si trovavano in quelle zone che erano comunemente chiamate Giudea e Nazareth e che si trovavano in un'area che era comunemente chiamata Galilea. La terra in cui visse Gesù non prese il nome di Palestina fino al II secolo, ben dopo la sua morte. Quindi, la definizione di "Palestina del I secolo" è totalmente una finzione», hanno scritto gli esperti della CAMERA.
   «Nel 132 dell'era volgare, più o meno 100 anni dopo la crocifissione di Gesù, gli ebrei combatterono per la seconda volta contro il predominio romano con la rivolta di Bar Kokhba. Dopo la sconfitta nel 135 dei ribelli ebrei da parte dei romani, l'Impero ribattezzò Palestina la terra del popolo ebraico per punirlo e per dare un segnale alle altre popolazioni sovversive. I romani cancellarono il nome ebraico, Giudea, e lo sostituirono con il nome di un antico nemico che gli ebrei disprezzavano. I Filistei erano un popolo estinto dell'Egeo che gli ebrei avevano detestato per la barbarie e l'ignoranza», si legge nel report.

(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2021)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.