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Notizie 1-15 gennaio 2023



La grazia di Dio insegna

di Marcello Cicchese

Dalla lettera di Paolo apostolo a Tito,  cap. 2

  1. Ma tu esponi le cose che si convengono alla sana dottrina:
  2. i vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, sani nella fede, nell'amore, nella pazienza;
  3. allo stesso modo le donne anziane abbiano un portamento convenevole a santità, non siano maldicenti né dedite a molto vino, siano maestre di ciò che è buono,
  4. affinché insegnino alle giovani ad amare i mariti, ad amare i figli,
  5. a essere assennate, pure, dedite ai lavori domestici, buone, soggette ai loro mariti, affinché la parola di Dio non sia bestemmiata.

  6. Esorta ugualmente i giovani a essere assennati,
  7. dando te stesso in ogni cosa come esempio di opere buone, mostrando nell'insegnamento purezza incorrotta, dignità,
  8. parlare sano, irreprensibile, affinché l'avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire di noi.

  9. Esorta i servi a essere sottomessi ai loro padroni, a compiacerli in ogni cosa, a non contraddirli,
  10. a non frodarli, ma a mostrare sempre lealtà perfetta, per onorare in ogni cosa la dottrina di Dio, nostro Salvatore.

"Esortazioni morali a diverse categorie di persone",  potrebbe essere il titolo di questo passo della Scrittura. Si va in ordine di età e di gerarchia sociale. Si comincia dai vecchi, uomini e donne, poi si passa ai giovani, e infine ci si rivolge ai servi. Le esortazioni non invitano a comportamenti straordinari o eroici, ma riguardano la vita di tutti i giorni, e probabilmente molte di quelle raccomandazioni facevano parte del "comune senso della morale" di quel tempo.
  Oggi invece farebbero discutere. O forse no, perché qualcuno penserà che non ne vale proprio la pena. Parlare di lavori domestici,  soggezione di mogli ai mariti, sottomissione di servi ai padroni: che senso ha parlare oggi di queste cose? Roba d'altri tempi.
  E il credente in Cristo, a cui queste parole sono precisamente rivolte, che cosa pensa? Beh, anche lui tutto sommato preferisce accantonare il discorso... per evitare faticose discussioni.
  E' vero che la forma (non la sostanza) di alcuni inviti dipende dal tipo di vita di quel tempo; è vero che bisogna guardarsi dal trasformare la fede in un elenco di moralistici  precetti; è vero che discutere di cose che toccano la vita pratica delle persone può far emergere differenze di vedute che rischiano di incrinare la comunione fraterna, ma se per timore di perdere l'unità si decide di non prendere in seria considerazione parti importanti della Bibbia, forse si è già perso quel "medesimo sentimento" che la Scrittura  invita ad avere (2 Corinzi 13:11, Filippesi 2:2).
  Tornando al testo, non si tratta di generici "mi raccomando, siate buoni!" in stile papale, ma di "cose che convengono alla sana dottrina". Dunque c'è una dottrina, che l'apostolo Paolo ha già esposto ampiamente anche in altre lettere; una dottrina che è rivelazione di ciò che Dio ha fatto nel passato, sta facendo nel presente e farà nel futuro; rivelazione di ciò che Dio offre agli uomini, si aspetta da loro e un giorno chiederà loro conto di che cosa ne hanno fatto.
  Osserviamo quali sono i motivi che sostengono le raccomandazioni.
  I vecchi, uomini e donne, sono esortati ad essere assennati "affinché la parola di Dio non sia bestemmiata": il che significa che un comportamento diverso mette in gioco il nome di quel Dio che a parole si professa.
  Anche i giovani sono esortati ad essere assennati "affinché l'avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire di noi": il che significa che si è in guerra, una guerra spirituale, in cui c'è un avversario. Testimoniare di Cristo in parole e fatti significa brandire l'arma della verità che è nella Parola di Dio contro un nemico che proverà a ribattere colpo su colpo ricercando il male in chi la brandisce. E se lo trova, il colpo di risposta arriva a segno. E l'avversario non resta affatto confuso, ma piuttosto baldanzoso.
  Infine si passa ai servi, che sono invitati ad essere sottomessi, non per aderire al motto popolare "attacca l'asino dove vuole il padrone", cioè per umano opportunismo, ma "per onorare in ogni cosa la dottrina di Dio, nostro Salvatore". Anche in questo caso dunque, davanti al dubbio su come comportarsi la domanda fondamentale non sarà "che cosa mi conviene fare per trarne il massimo vantaggio?", ma "che cosa è bene fare per dare onore a Dio?"
  Nell'applicazione pratica i problemi indubbiamente non mancano, ma la giusta soluzione non sta nello scansarli o nel cercare di venirne fuori con espedienti pragmatici, ma nel riflettere attentamente su tutta la "dottrina di Dio" che è il fondamento di ciò che sostiene quelle esortazioni.
  La "dottrina di Dio", si sa bene, è basata sulla grazia. Su questo, penserà qualcuno, sappiamo già tutto:

    "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna" (Giovanni 3:16).

Verissimo, ma è tutto qui? La grazia di Dio si limita a farci il dono gratuito della vita eterna? Certamente non è così, ma allora che altro fa la grazia?
  Una risposta  si può trovare nel seguito di questo capitolo 2:

  1. Poiché la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, è apparsa
  2. e ci insegna a rinunciare all'empietà e alle mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente,
  3. aspettando la beata speranza e l'apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù,
  4. il quale ha dato se stesso per noi al fine di riscattarci da ogni iniquità e di purificarsi un popolo suo proprio, zelante nelle opere buone.
  5. Insegna queste cose, esorta e riprendi con ogni autorità. Nessuno ti disprezzi.

Paolo qui riprende a parlare di quella dottrina di Dio che nei versetti di prima aveva citato due volte per sostenere le sue esortazioni. Naturalmente si limita ad indicare quegli aspetti della dottrina che possono appoggiare il suo discorso.
  Per Paolo la grazia di Dio non è un concetto, ma Dio in azione. Dio porta a compimento il progetto che esprime la sua volontà: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati (1 Timoteo 2:4).
  Chi ha creduto in Lui può osservare lo svolgersi di questa volontà guardando al passato, al presente e al futuro.
  Nel passato la grazia di Dio è apparsa nella venuta di Gesù (v. 11);
  Nel presente la grazia di Dio insegna (v. 12);
  Nel futuro la grazia di Dio si manifesterà nell'apparizione della sua gloria (v. 13).
  E' dunque all'interno di un quadro dottrinale di fatti salvifici del passato e del futuro che si svolge l'opera pedagogica della grazia nel presente. Se si toglie il quadro, ciò che resta diventa generico moralismo, da confrontare o mescolare con altri moralismi, e di valore puramente pragmatico.
  Ma se è la grazia di Dio che insegna, allora ogni sua esortazione prende valore dall'aggancio che ha con l'opera che Dio fa mediante la sua Parola.
  E' bene anzitutto sottolineare che chi insegna è proprio la grazia di Dio in Gesù, non spezzoni residui della legge di Mosè, perché anche in fatto di precetti e comandamenti pratici è sempre la parola di Gesù ad avere l'ultima autorità. E' questo che si intende quando si dice che la grazia di Dio insegna, perché è grazia che si manifesta nella persona e nell'opera di Gesù.
  Ma vediamo che cosa insegna.
  La grazia "ci insegna a rinunciare...", a che cosa? Qui le cose cominciano a farsi scottanti perché in ogni rinuncia è sempre presente un limite, che raramente è gradevole. Anche in questo caso è così,  ma non è un limite imposto all'uomo dall'esterno in nome della legge, ma un limite che l'uomo impone a se stesso dall'interno in nome della grazia. Se sono io che rinuncio a qualcosa, vuol dire che decido liberamente di non fare quella tal cosa per motivi che ritengo validi, senza che nessuno me lo imponga.
  La grazia di Dio dunque insegna a "rinunciare all'empietà e alle mondane concupiscenza" per motivi validi, anzi validissimi, contenuti nella "dottrina di Dio, nostro Salvatore" (v. 10).
  La grazia di Dio  insegna a rinunciare all'empietà perché la grazia si basa sulla verità, che è "secondo pietà" (Tito 1:1). E se la pietà esprime un atteggiamento di devota sottomissione a Dio, l'empietà esprime l'esatto contrario, cioè un vivere in arrogante indipendenza da Dio, etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse.  A questo bisogna assolutamente rinunciare. Con convinzione e decisione. Chi invece preferisce fare l'esatto contrario, cioè rinuncia a Dio disinteressandosi totalmente della Sua volontà, può avere la sensazione di vivere in piena  autonomia il suo essere libero, ma prima o poi le "mondane concupiscenze" trascinano chi si gloria della sua empietà in impreviste forme di schiavitù. Liberi? Certo. Liberi di rotolarsi nel fango come porci senza avere più la possibilità di uscire dal porcile. Non tutti arrivano a questo punto, ma la via per arrivarci è tracciata.
  Gesù l'aveva detto:

    “In verità, in verità vi dico che chi commette il peccato è schiavo del peccato" (Giovanni 8:34).

Ma Gesù ha anche detto:

    “Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:31-32).

E' la grazia di Dio presente in questa parola di Gesù che insegna a rinunciare alle mondane concupiscenze che spingono a entrare o rientrare nel porcile, e all'empietà che ne costituisce la forza.
  Ma oltre all'ammonimento negativo, la grazia di Dio possiede anche le caratteristiche di un insegnamento positivo. E' un insegnamento per vivere. Per vivere in questo mondo, non in un mondo ideale. Un mondo in cui il male è presente e va riconosciuto per quello che è, e combattuto per quello che Dio può fare con la sua grazia. Per questo  è indispensabile fare riferimento continuo all'intera "dottrina di Dio, nostro Salvatore", come presentata nella Sacra Scrittura. Nulla di meno può bastare.
  L'apostolo Paolo elenca poi tre settori di istruzione della grazia di Dio, che insegna a "vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente" (v. 12).
TEMPERATAMENTE. Si è preferita questa traduzione della Diodati perché esprime una virtù oggi molto trascurata: la temperanza,  come capacità di porsi dei limiti in modo cosciente e responsabile. Sinteticamente si può dire che la grazia di Dio insegna ad avere un giusto rapporto con se stesso.
GIUSTAMENTE. Riferita al comportamento, qui potrebbe voler dire che la grazia di Dio insegna ad avere un giusto rapporto con gli altri, in tutti i sensi.
PIAMENTE. In senso esteso può sottolineare che la grazia di Dio insegna ad avere un giusto rapporto con Dio nelle concrete forme della pietà praticata: preghiera, comunione fraterna, testimonianza di fede.
  Più avanti Paolo ricorda a Tito quello che la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, ha operato nel mondo dopo essere apparsa nella persona di Gesù:

    Perché anche noi eravamo una volta insensati, ribelli, traviati, servi di varie concupiscenze e piaceri, vivendo nella cattiveria e nell'invidia, odiosi e odiandoci gli uni gli altri. Ma, quando la benignità di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore verso gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste che noi avessimo fatte, ma secondo la sua misericordia, mediante il lavacro della rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha copiosamente sparso su noi per mezzo di Gesù Cristo, nostro Salvatore, affinché, giustificati per la sua grazia, noi fossimo fatti eredi secondo la speranza della vita eterna (Tito 3:3-7).

Da questa incisiva presentazione della grazia salvifica di Dio, Paolo trae l'istruzione per indicare al suo discepolo qual è il comportamento che si addice a quelli che hanno creduto in Dio, e che Tito deve affermare con forza:

    Certa è questa parola e queste cose voglio che tu affermi con forza, affinché quelli che hanno creduto in Dio abbiano cura di attendere a buone opere. Queste cose sono buone e utili agli uomini (Tito 3:8).

Se siamo tra quelli che hanno creduto in Dio, queste parole sono rivolte anche a noi.

(Notizie su Israele, 15 gennaio 2023)



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Il green bond decennale di Israele in dollari per ridurre le emissioni di CO2

Israele è diventato il 24esimo stato al mondo ad essere sbarcato sul mercato di obbligazioni verdi. Lo ha fatto questa settimana con la sua prima emissione del genere, denominata in dollari. Ha così raccolto 2 miliardi, attirando ordini per 12 miliardi da 200 investitori da 35 paesi. Le chiamate sono state incredibilmente alte per la scadenza a 10 anni. Il tasso di interesse annuo lordo è stato fissato al 4,50%. Il rendimento è stato di 95 punti base o dello 0,95% superiore al T-bond statunitense di pari durata.
  Come sappiamo, i green bond sono titoli di debito il cui funzionamento è esattamente uguale a quello delle obbligazioni ordinarie, ma con la differenza che l’emittente si impegna a utilizzare il ricavato per fini ambientali. In questo caso specifico, Israele ha aderito a un’iniziativa della Casa Bianca per puntare a zero emissioni nette entro il 2050 in relazione a tutte le attività statali. I 2 miliardi di dollari raccolti contribuiranno effettivamente a ridurre le emissioni di CO2 del 27% entro il 2030, rispetto alle emissioni del 2015.
  Per raggiungere l’obiettivo, lo Stato punterà su: trasporto pubblico ecosostenibile; energie rinnovabili, con particolare attenzione all’installazione di pannelli solari su edifici pubblici; dissalazione; compostaggio e costruzione di edifici pubblici a emissioni zero.
  Il capo del ministero delle Finanze, Yali Rothenberg, si è detto soddisfatto dell’esito del collocamento. Ha ammesso che il green bond è servito a diversificare le fonti di finanziamento e allo stesso tempo a raccogliere capitali a basso costo. È noto, ha ricordato, che il mercato è disposto a finanziare il debito a tassi inferiori nel caso di emissioni “verdi”.

• Green bond israeliani, rischi di cambio
  Sicuramente hanno aiutato voti alti sovrani assegnati al debito sovrano israeliano: AA- per S&P, A+ per Fitch e A1 per Moody’s. Il rischio di credito corso dagli investitori è quindi molto basso. Poco prima della pandemia, nel gennaio 2020 Israele ha emesso titoli in dollari a 10 e 30 anni per un totale di 3 miliardi di dollari. Pochi mesi dopo è stata la volta del suo primo Obbligazione di 100 anni per un importo di 5 miliardi di dollari.
  Questo numero ha raccolto fondi per sostenere la lotta contro il Covid-19.
  Curiosamente, il green bond a 10 anni ha la stessa cedola del centenario emesso nel 2020, quando le condizioni di mercato erano molto più favorevoli. Quest’ultimo, infatti, questa settimana è sceso a circa 86 centesimi. A ottobre aveva toccato un minimo di 73 centesimi, anche se a dicembre era risalito sopra i 91 centesimi. Un’obbligazione a 10 anni al 4,50% si sta rivelando piuttosto interessante considerando che i rendimenti statunitensi sono in calo da settimane. Il vero fattore di rischio è dato da scambio. Un dollaro più debole rispetto all’euro svaluterebbe il capitale investito. E il margine offerto dal green bond sul titolo Usa non sembra compensare adeguatamente le attese variazioni del cambio.

(Italy 24, 14 gennaio 2023)

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Sequals, il ristoratore Polegato alla tv di Israele: «Ebrei strozzini, io ce l'ho con voi»

di Marco Agrusti

PORDENONE - Il marchio è quello di una delle più note e seguite televisioni commerciali del Paese. Si chiama “Reshet 13”. Trasmette dal centro di Tel Aviv, Stato di Israele. La voce, in lingua ebraica, quella dell’inviato. A tratti incuriosito, molto più probabilmente inorridito. Di certo professionale, azzimato. Il luogo? È qui che nascono alfa e omega della storia, perché la televisione israeliana è entrata non in un ristorante a caso, ma “Da Teodora”. Sequals, pedemontana pordenonese, la “casa” di Ferdinando Polegato, il criticato ristoratore che pubblicamente non ha mai rinnegato la definizione di «fascista». Così, tra busti del duce e canzoni del Ventennio (ma arriverà pure di peggio), ecco la fotografia scattata dall’emittente israeliana. È vero, il girato conteneva anche immagini della tomba di Mussolini a Predappio. Ma il cuore del servizio batteva a Sequals. 

• LE FRASI CHOC
Chi va a “trovare” Ferdinando Polegato, si potrà pensare, sa a cosa sta andando incontro. Ma stavolta anche il ristoratore di Sequals si è spinto probabilmente oltre il suo “standard”. Di fronte all’inviato della televisione israeliana, infatti, si è lasciato andare a una prima frase: «Io ce l’ho un po’ su con gli ebrei».Tutto sottotitolato in ebraico dall’emittente, un momento seguito dall’immagine di un avventore del ristorante con il braccio destro teso per il classico (almeno in quel locale) saluto romano d’ordinanza. Subito dopo Polegato ha provato a stemperare: «Speriamo che la “13” (riferendosi all’emittente, ndr) mandi in onda qualcosa di buono, altrimenti vadano a quel paese». Sempre a favore di telecamera. Ma è bastato scorrere fino alla seconda parte del lungo servizio, per trovare un secondo momento agghiacciante, con frasi pesantemente antisemite: «Noi siamo mille volte meglio di Israele - ha detto Polegato dialogando faccia a faccia con l’inviato della televisione di Tel Aviv -. Israele non ha niente, avete occupato una terra. Noi abbiamo portato la civiltà. L’ebreo è considerato uno strozzino. Le banche sono ebree». «Come ci vedi?», ha chiesto l’inviato. «Non ce l’ho con l’ebreo che lavora, ma con il sistema ebraico», ha sentenziato Polegato. 
  Un obiettivo, quello del canale israeliano, che si è soffermato a lungo anche sui cimeli che campeggiano da sempre nel ristorante gestito da Polegato e dalla moglie Teodora: quadri del duce, frasi del duce, raffigurazioni del duce. E gli ormai noti momenti - per così dire - di folklore, come lo stesso Polegato che imita pedissequamente il discorso di piazza Venezia con cui nel 1940 Mussolini sancì l’ingresso dell’Italia in guerra con l’Asse. Poi le bottiglie con il volto del duce, tenute in mano dall’inviato israeliano. Tutto nel campionario degli orrori. 

• LA POLITICA
Le immagini scorrono e diventa sempre più chiaro l’intento dell’emittente di tracciare un parallelo - azzardato - tra Giorgia Meloni e i nostalgici del Ventennio. I clienti del locale però su questo punto sono molto meno abbottonati: «Tutti noi fascisti abbiamo votato la Meloni», dicono senza problemi. «E oggi chi tocca un fascista muore», ha rincarato Polegato. Chiusura con l’ennesimo sproloquio: «Dobbiamo marchiare i comunisti sulla fronte, così li riconosciamo». Poi la porta del ristorante si è chiusa. E con lei, il servizio. La brutta figura invece resta, con un video che ha già iniziato a circolare. 

(Il Gazzettino, 14 gennaio 2023)

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Crollano gli investimenti nelle startup israeliane

Aziende e startup di cybersecurity hanno subito un calo dei finanziamenti del 60%, mentre gli investimenti di avviamento sono cresciuti del 22% nel 2022.

Il settore tecnologico israeliano guarda al 2022 come all’inizio di una crisi, con i fondi raccolti dalle startup quasi dimezzati, scendendo a $15,5 miliardi di dollari. Le aziende di cybersecurity sono state le più colpite, mentre sono aumentati gli investimenti nelle startup locali. Il valore degli investimenti dell’anno scorso è crollato del 43% rispetto al 2021, un periodo di grande slancio in cui le aziende israeliane hanno raccolto in totale ben $27 miliardi di dollari di capitale privato, facendo lievitare le valutazioni delle operazioni. Nello stesso periodo comparativo, il numero complessivo di round di investimenti è diminuito di circa un terzo, passando a 826 nel 2022 rispetto ai 1.103 dell’anno precedente.
  Il flusso record di fondi raccolti nel 2021, che è proseguito nei primi mesi dell’anno scorso, ha portato a valutazioni elevate – e talvolta a sopravvalutazioni – di aziende che non erano prossime a generare profitti. A metà del 2022 il mercato ha iniziato a girare, le valutazioni e le azioni quotate in borsa hanno subito una flessione, con l’aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse e la guerra russa in corso contro l’Ucraina che hanno avuto un impatto sulle catene di approvvigionamento e sull’economia globale, e gli investitori si sono ritirati. “Il 2022 è in realtà una combinazione di due anni. Se si guarda alla prima metà, si vede più la vicinanza al 2021, un mercato più rialzista, e se si passa alla seconda metà del 2022, si vede già il rallentamento”. “Il balzo quantico irrealistico degli investimenti, del market cap e dei multipli delle transazioni nel 2021 si è corretto nel 2022, insieme alle tendenze macroeconomiche globali” ha osservato Hasson CEO di SNC.
  La contrazione del mercato ha visto il licenziamento di migliaia di impiegati del settore tecnologico, innescando una riduzione dei finanziamenti e un forte calo del valore delle aziende tecnologiche quotate in borsa. Ciò ha creato un mercato ribassista per le nuove offerte, con una sensazione generale che la “festa selvaggia” sia finita e che l’economia sia in pericolo. “Negli Stati Uniti, il settore tecnologico è stato quello che ha registrato il maggior numero di licenziamenti. Il numero di licenziamenti nell’high tech è stato di poco inferiore a 100.000 unità, mentre in Israele non è neanche lontanamente paragonabile”, ha osservato Hasson CEO di SNC. “In Israele, abbiamo visto aziende rallentare la loro crescita o tagliare dal 5% al 10% del personale. Si tratta di una maggiore ottimizzazione o di lavorare con la rotazione del personale”.
  Negli ultimi mesi, Intel Israel, il più grande datore di lavoro del settore tecnologico privato del Paese, ha licenziato decine di dipendenti. SodaStream, il produttore di macchine per la produzione dell’acqua minerale a casa, ha licenziato 120 dipendenti. Isracard taglierà 250 dipendenti, pari al 12% della sua forza lavoro, mentre la più grande società israeliana di carte di credito ha avviato un piano di razionalizzazione dei costi e delle operazioni. Il produttore statunitense di motori a reazione Pratt & Whitney interromperà la produzione di pale per compressori presso la Blades Technology Ltd. (BTL) di Nahari. (BTL) di Nahariya, dopo oltre 40 anni, lasciando senza lavoro 900 dipendenti.
  “Non abbiamo ancora visto, con pochissime eccezioni, aziende che guardano in profondità nel loro business, tagliando ad esempio fino al 30%, e penso che ne vedremo ancora di più nel prossimo anno, perché le aziende non avranno scelta”, ha fatto presente Hasson.  Nella seconda metà del 2022, il numero di operazioni di investimento azionario in aziende tecnologiche è sceso a 313 dai 519 dei primi sei mesi dell’anno, il secondo dato semestrale più basso mai registrato. “Quando analizziamo le linee di tendenza, non è che il 2022 sia stato un anno negativo o peggiore del previsto, ma è il 2021 che ha rappresentato un’enorme anomalia in termini di tutti gli indicatori che si possono esaminare”, ha detto Hasson. “Se si esclude il 2021 e si traccia una linea di crescita dal 2015 al 2022, risulta che l’anno scorso sono stati investiti oltre 15 miliardi di dollari in startup israeliane”. Il calo degli investimenti non è un fenomeno unico in Israele ed è in linea con quanto sta accadendo nella Silicon Valley, dove gli investimenti in aziende tecnologiche sono diminuiti del 40%.

• Investimenti iniziali in controtendenza
  Mentre la flessione dei mercati finanziari ha determinato un calo degli investimenti totali nella maggior parte dei round di investimento nel 2022 in Israele, la tendenza più positiva è stata registrata dalle startup in fase iniziale o seed, che hanno visto un aumento degli investimenti. Gli investimenti in startup israeliane di tipo seed sono cresciuti del 22%, raggiungendo 1,62 miliardi di dollari nel 2022 rispetto a 1,32 miliardi di dollari nel 2021. Gli investitori che tradizionalmente investivano solo in aziende in fase avanzata hanno spostato gli investimenti verso il finanziamento delle startup, soprattutto a causa delle valutazioni estremamente elevate nei round delle aziende in fase avanzata.
  Come negli anni precedenti, i settori tecnologici israeliani che nel 2022 hanno attratto la maggior parte dei capitali sono stati quelli basati sul software, tra cui principalmente il software aziendale, la tecnologia della sicurezza (compresa quella informatica) e il fintech, oltre alle scienze della vita e alla tecnologia sanitaria. Il settore più colpito, che ha subito il maggior calo di investimenti nel 2022, è stato quello della cybersecurity. Gli investimenti in startup di cybersecurity nel 2022 sono scesi del 60% a $2,7 miliardi di dollari rispetto ai 6,6 miliardi dell’anno precedente, a fronte di un calo annuale del 43% dell’intero settore high-tech. Tuttavia, il numero di round di finanziamento è rimasto stabile rispetto al 2021.
  Nel corso del 2022, ci sono state 20 exit – definite come fusioni e acquisizioni o IPO – di aziende israeliane di cybersecurity. L’operazione più importante è stata quella del fondo d’investimento britannico Liberty Strategic Capital che ha acquisito la società di soluzioni di sicurezza mobile Zimperium, fondata in Israele, per $525 milioni di dollari. La seconda operazione più importante è stata l’acquisizione della società israeliana di cybersecurity Medigate da parte di Claroty, sostenuta da Softbank, per $400 milioni di dollari, mentre la terza è stata l’acquisto di Cider Security da parte di Palo Alto Networks, società statunitense di cybersecurity, per $300 milioni di dollari. Alla fine del 2022, in Israele si contano 676 aziende di cybersecurity attive.
  “Il 2021 ha mostrato l’appetito degli investitori e il cyber è stato in testa al gruppo, e man mano che le cose si sono raffreddate, il cyber si sposta verso il basso”, ha dichiarato Hasson. Gli investimenti e il numero di round di finanziamento in tutti i settori tecnologici coperti dal rapporto sono diminuiti nel 2022, ad eccezione del settore agroalimentare che ha visto aumentare il numero di deal a 87 dagli 84 del 2021, mentre l’importo totale degli investimenti è rimasto stabile tra i due anni. Ciò suggerisce che il settore delle tecnologie agroalimentari potrebbe essere stato più resistente a fattori esterni come la recessione economica. Questo settore è relativamente piccolo, ma negli ultimi anni ha registrato una rapida crescita con 624 startup attive”.
  Secondo Hasson, l’investitore straniero VC più attivo nelle aziende israeliane nel 2022 è stato Insight Partners, una società di private equity e investimenti con sede a New York che ha partecipato a 40 round nel 2022, in calo rispetto ai 49 del 2021. Tiger Global, che ha iniziato a operare in Israele solo nel 2019, è stato il secondo più attivo e ha investito in 26 startup. Durante i primi anni di attività in Israele, Tiger si è concentrata su aziende più mature, pronte per l’IPO o per la valutazione di unicorni. Nel 2022, la sua strategia di investimento si è spostata su aziende in fase iniziale, con 13 operazioni di finanziamento di tipo A e tre di tipo seed. Nel 2021, il fondo ha effettuato il 75% dei suoi investimenti in Israele in round C+, e il resto in round B. La società di venture capital israeliana più attiva è stata OurCrowd, che ha investito in 84 startup nel 2022, seguita da Viola (tutti i fondi) con 47 round e Pitango, che ha investito in 21 startup diverse.

• IPO e attività di M&A
  Il 2022 ha segnato un ritorno ai numeri “normali” di 10-20 nuove offerte pubbliche iniziali (IPO) annuali che hanno caratterizzato l’industria high-tech israeliana negli ultimi anni, dopo il fenomenale numero record di 77 IPO (comprese le società di acquisizione a fini speciali, o SPAC) che hanno avuto luogo nel 2021, secondo il rapporto SNC. L’anno scorso, solo 14 società israeliane si sono quotate in borsa, mentre altre quattro lo hanno fatto tramite SPAC, rispetto alle 22 IPO registrate nel 2020.
  Il numero di fusioni e acquisizioni è diminuito del 45% nel 2022, rispetto all’anno precedente, e la somma complessiva delle operazioni è scesa del 40%. In totale sono state vendute 89 aziende tecnologiche per un totale di $5,3 miliardi di dollari. L’attività di fusione e acquisizione si è esaurita nella seconda metà del 2022, con la somma aggregata delle operazioni classificata come la quarta più bassa. Una delle operazioni più importanti del 2022 è stata quella del gigante statunitense dei semiconduttori Intel che ha acquistato la startup israeliana Granulate per $650 milioni di dollari, segnando la settima acquisizione di una società israeliana da parte della multinazionale dei chip in poco più di cinque anni. Un’altra startup fintech israeliana, Finaro, precedentemente nota come Credorax, è stata acquisita dall’azienda tecnologica di pagamenti integrati e commercio Shift4 per $575 milioni di dollari.
  Guardando a ciò che accadrà nel 2023, Hasson vede un anno di attività economica lenta, con investimenti ed exits che continueranno ma in modo molto più “prudente e misurato”. Qualche difficoltà nei finanziamenti VC che potrebbe avere un impatto sul capitale disponibile per gli investimenti nel 2024 e 2025. “Assisteremo a un’enorme riduzione delle uscite, molto meno di quanto siamo abituati a vedere, e questo di per sé avrà un’implicazione sulla capacità dei fondi di raccogliere capitali”, ha dichiarato Hasson. Mentre tutti rallentano in termini di investimenti, i fondi avranno difficoltà a raccogliere denaro, il che significa che nel 2024 assisteremo a una carenza di capitale nelle aziende”.
  “La buona notizia è che l’industria israeliana dell’alta tecnologia sta affrontando questa situazione con le tasche piene, poiché sia le aziende che i fondi sono entrati nell’attuale crisi con una maggiore quantità di denaro raccolto nel 2020 e nel 2021, in modo da poter superare la tempesta per i primi sei-dodici mesi”, ha proseguito. “Ma a un certo punto, l’anno prossimo, le startup avranno bisogno di più denaro e quando ciò accadrà, assisteremo a down round e a molti consolidamenti, perché in questo momento è molto conveniente per tutti rimandare la discussione e non fare aggiustamenti di valutazione se non necessari”.
  Si parla di down round quando una società privata raccoglie capitali a un prezzo inferiore o a una valutazione più bassa rispetto a un precedente round di finanziamento. Il mese scorso, la startup statunitense di cybersecurity Snyk, fondata da imprenditori israeliani, ha raccolto $196,5 milioni di dollari di fondi dagli investitori con una valutazione dell’azienda di $7,4 miliardi di dollari, in calo rispetto agli 8,5 miliardi di dollari del precedente round di finanziamento. “I fondi di private equity, che hanno disponibilità di denaro, troveranno opportunità davvero interessanti sul mercato, perché avremo meno liquidità, meno M&A e meno IPO”, ha detto Hasson. “Vedremo anche un maggior numero di operazioni secondarie, in cui i VC vendono le loro quote di società ai fondi di private equity”.

(Israele 360, 10 gennaio 2023)

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Da SS ad attori di Cinecittà: un libro racconta come veri nazisti parteciparono ai più famosi film del dopoguerra

di Esterina Dana

ROMA -  Anni Sessanta: sono gli anni d’oro del cinema italiano. Cinecittà, risorta dalle ceneri lasciate dall’occupazione tedesca, produce alcuni tra i più significativi film del dopoguerra che contribuirono a costruire una coscienza nazionale e politica.
  Nel 1961 si gira “Una vita difficile” di Dino Risi su soggetto e sceneggiatura di Rodolfo Sonego; nel cast con Alberto Sordi compare un certo Borante Domizlaff.
  L’anno precedente erano usciti due film in cui lo stesso appare accanto a Sophia Loren e Jean-Paul Belmondo, ne  “La Ciociara” di Vittorio De Sica, su soggetto tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, e in “Tutti a casa” di Luigi Comencini accanto ad Alberto Sordi, Serge Reggiani e Eduardo De Filippo.
  Al 1969 risale “La caduta degli dèi”, il capolavoro di Luchino Visconti prodotto da Ever Haggiag e Alfred Levy. Tra “stelle” come Dirk Bogarde, Ingrid Thulin, Helmut Griem, Helmut Berger c’è la “comparsa” Karl Hass.
  Chi sono, quali ruoli interpretano e perché sono state scritturate queste “comparse”? È ciò, e non solo ciò, che viene indagato in Nazisti a Cinecittà, il bel libro di Mario Tedeschini Lalli edito da Nutrimenti. Con piglio narrativo da spy story e ampio supporto documentale, l’autore ricostruisce il ritratto di questi (e altri) personaggi e, al contempo, getta luce sullo sfondo storico-politico poco edificante di un’immemore Italia del Dopoguerra.
  Borante Domizlaff e Karl Hass erano entrambi ex ufficiali nazisti delle SS, comandanti maggiori del Dipartimento III (Gestapo), l’uno e del Dipartimento VI (Intelligence interna) delle RSHA, l’altro. Entrambi furono protagonisti attivi dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944) dove morirono 335 italiani per ordine del comandante Herbert Kappler. Hass fu coinvolto anche nell’estorsione dei 50Kg d’oro alla Comunità ebraica di Roma (16 ottobre 1943).
  Tedeschini Lalli incappa nel nome del primo per serendipità, nel 2015, durante le sue ricerche sulla black propaganda dei servizi segreti americani in Italia durante la guerra. Tale nome risulta, però, sorprendentemente associato a un film, Una vita difficile appunto, dove interpreta un ufficiale tedesco vero che imbraccia un mitra MP-40 vero: lui, il vice di Kappler, interpreta (quasi) se stesso in un film sulla Resistenza. Una coincidenza strana se si pensa allo sceneggiatore bellunese Rodolfo Sonego, ex comandante partigiano del “battaglione Fratelli Bandiera”, garibaldino, comunista, che nel film racconta mutatis mutandis la sua personale esperienza.  Da qui parte la ricerca dell’autore che rincorre parenti ancora in vita, biografie, documenti d’archivio anche privati, carte dei servizi segreti e indagini militari nonché cineteche in una catena a ritroso che lo porta, con effetto domino, al secondo nazista: Karl Hass.
  Costui “entra” nella storia del cinema con due apparizioni nel ruolo di guardia delle SS in Londra chiama Polo Nord diretto da Duilio Coletti (1956). Nel 1969 lo ritroviamo con una partecipazione in prima persona ne La caduta degli dèi di Luchino Visconti, ma il suo nome non compare nei titoli di testa e di coda. Hass appare nella scena della “notte dei lunghi coltelli” dove interpreta un ufficiale delle SA. La compresenza sul set dell’ex agente nazista dell’intelligence e del regista Visconti, antifascista sempre impegnato politicamente a sinistra, è sconcertante se si pensa  che il primo era stato attivo a Roma nel ‘44, proprio quando il secondo, cercava di nascondersi per sfuggire ai Tedeschi.
  La presenza di Karl Hass nelle produzioni italiane, tuttavia, non fu occasionale. Il suo nome è presente  nei titoli di testa ne La parola, il fatto: Anarchia (1975) che segna la sua consacrazione di “attore”, e ne La linea del fiume (1976) diretto dal torinese Aldo Scavarda, anch’egli ex partigiano. Hass interpreta un generale tedesco in divisa. Nel film, dove  recita anche Leontina Levi Segré, madre della scrittrice Lia Levi, l’accento è posto sull’ebraismo del protagonista e sulle responsabilità delle leggi razziali del 1938. La Comunità ebraica di Roma era stata coinvolta nel progetto fin dall’inizio, d’accordo con il rabbino capo Elio Toaff e la scuola ebraica Vittorio Polacco. Le riprese iniziano al Portico d’Ottavia con la scena del 16 ottobre 1943; sul set un bambino ebreo interpreta la parte del protagonista.  Nessuno ha mai saputo che nel film recitava uno dei responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
  Anni Novanta. Il clima politico italiano è cambiato. Erich Priebke, fuggito come molti nazisti tedeschi in Argentina, viene segnalato dal Centro Wiesenthal di Los Angeles, catturato ed estradato in Italia dove viene sottoposto a un lungo iter processuale che si conclude con la condanna all’ergastolo nel 1997. Nel contempo, anche Karl Hass viene scoperto, processato e condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Sono passati cinquant’anni dalla fine della guerra.
  Al Festival di Venezia di quell’anno, il  regista Carlo Lizzani rivela che quel Karl Hass era stato consulente per vari film di De Laurentiis, il quale glielo aveva segnalato per il suo film Il processo di Verona (1962). Entrambi erano allora ignari di chi fosse in realtà.

• Come fu possibile?
  A questo punto resta lecita la domanda ancora inevasa su come sia stato possibile, a gerarchi nazisti mai pentiti, vivere “invisibili” per anni e partecipare, sia pure con piccole parti e in vario altro modo, alla realizzazione di questi e altri film.
  Nel caso di Borante Domizlaff, una chiave sta nel processo a Kappler del 1948, laddove quest’ultimo viene condannato all’ergastolo per crimini di guerra. Il nostro, contrariamente al suo comandante, viene assolto per aver eseguito un ordine che non sapeva essere illegittimo (sic). Da allora libero cittadino, visse per anni a Roma dove, per sbarcare il lunario, lavorò (anche) ripetutamente per il cinema interpretando se stesso, si creò una famiglia italiana e infine si trasferì in Germania, ad Hannover, dove visse distribuendo polizze assicurative porta a porta. Restò sempre in contatto con gli ex commilitoni e fedele al suo ex comandante, che aiutò a fuggire dall’Italia nel 1977.
  Il  caso di Karl Hass è ancor più stupefacente. Spia per tre diversi servizi di intelligence come ex agente segreto delle SS, del controspionaggio militare americano (Counter Intelligence Corps-Cic) in funzione anticomunista, dell’Ufficio degli Affari riservati del  Ministero degli Interni italiano e come “free lance dello spionaggio” (dal ‘52 al ’56), visse inizialmente sotto copertura; poi con il suo vero nome che appariva, con l’indirizzo, sull’elenco telefonico. Più volte prigioniero e più volte evaso, attraversò mezzo secolo di storia, nascosto in bella vista, fino al 1996. Nel 1954 la sua carriera di spia è conclusa. Dal 1956 al 1966 lavorò stabilmente presso le Onoranze funebri tedesche, quindi visse tranquillamente in Italia, ricevendo una pensione dall’Inps.
  Questi, e altri citati nel libro di Tedeschini Lalli, sono i nazisti tedeschi ingaggiati a Cinecittà come attori di parti esigue e marginali, comparse, traduttori, interpreti, esperti militari. Una sorta di “mercato per tedeschi ‘autentici’, ex militari”, scrive l’autore, “il nazista della porta accanto” che torna utile per raccontare il nazismo, un piccolo gruppo di ex SS ed ex militari che non avevano mai rinnegato le loro idee politiche e che si aiutavano a vicenda per sopravvivere. Nel cinema era facile trovare occasioni di lavoro,  confusi nella massa in attesa di comparsate.
  D’altra parte, negli anni Cinquanta e Sessanta, se c’era il desiderio di dimenticare il passato, c’era anche la volontà politica e giudiziaria di ignorarlo  consapevolmente. Il perché viene rivelato nel 1994  con la scoperta dell’ ‘armadio della vergogna’, un archivio “provvisorio” di centinaia di fascicoli sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti tra il 1943 e il 1945.  Ma questa è un’altra storia.

(Bet Magazine Mosaico, 13 gennaio 2023)

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Israele: dove va il nuovo governo Netanyahu

Conversazione con il prof. Andrea Yaakov Lattes

Il 29 dicembre 2022 si è insediato il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, il sesto a guida del leader del Likud che con brevi interruzioni guida Israele da 12 anni. Il nuovo esecutivo di coalizione tra il Likud e vari partiti ortodossi e quello della destra più estrema si Sionismo religioso guidato da Itamar Ben-Gvir.
  A poco più di due settimane non è possibile esprimere giudizi sul nuovo esecutivo che nasce dopo la quinta elezione in tre anni e mezzo. Si può per ora prendere atto delle dichiarazioni che il premier ha fatto alla presentazione dell’esecutivo alla Knesset.
  Gli obiettivi che lo stesso ha posto come prioritari sono tre e quello che ha descritto come prioritario   è il contrasto per neutralizzare gli sforzi dell’Iran  per sviluppare un arsenale di bombe nucleari.
  Gli altri due punti - come riporta l’agenzia euronews - vertono sullo sviluppo di infrastrutture nazionali, fra cui una ferrovia fra la Galilea ed Eilat per treni molto veloci e l'estensione degli accordi di Abramo con i Paesi arabi per mettere fine al conflitto nella Regione. 
  Tra gli altri obiettivi - sottolinea ancora euronews - figura anche il rafforzamento dell'identità ebraica, la lotta alla criminalità nella comunità araba, l'incoraggiamento all'uso dei trasporti pubblici, aumenti salariali per i soldati insieme al congelamento dei prezzi di elettricità, acqua e tasse comunali.
  Per fornire una prima interpretazione sui molteplici e complessi punti su cui è chiamato il governo Netanyahu, dopo le lunghe trattative con i partiti che con il Likud formano la maggioranza di 64 voti su 120 della  Knesset, Agenzia Radicale ne parla con il prof. Andrea Yaakov Lattes docente presso il Yaad Academic College di Terl Aviv.

(Agenzia Radicale, 13 gennaio 2023)

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È utile per Israele il collasso della Autorità Palestinese?

La decisione del nuovo governo israeliano di trattenere milioni di dollari di entrate fiscali palestinesi potrebbe avere un effetto devastante sull'Autorità Palestinese, già in difficoltà. Conviene veramente a Israele?

di Keren Setton

Dopo mesi di tensioni e violenze tra Israele e i palestinesi, una nuova realtà politica minaccia di spingere l’Autorità Palestinese (AP) sull’orlo del collasso.
  Da tempo entrambe le parti avvertono di un imminente collasso. Sebbene questi avvertimenti non siano nuovi, le circostanze sono cambiate e potrebbero rappresentare una minaccia significativa per la stabilità della già fragile entità palestinese.
  «Tali minacce sono state sentite per anni, ma non si sono ancora concretizzate», ha dichiarato il dottor Nimrod Goren, presidente del Mitvim – Istituto israeliano per le politiche estere regionali e senior fellow per gli affari israeliani presso il Middle East Institute. «Pertanto, la gente potrebbe non crederci più e diventare indifferente agli eventi drammatici che si stanno profilando».
  L’AP è stata istituita nel 1994 ed è controllata dal partito Fatah dopo una scissione da Hamas nel 2007. Guidata dal presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), l’AP ha il pieno controllo del territorio della Cisgiordania, denominato Area A, e un parziale controllo civile sulle aree B e C, sulle quali Israele mantiene la maggior parte del controllo. Hamas controlla la Striscia di Gaza.
  Nel corso del tempo, il potere di Abbas si è eroso. Una politica guidata dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha costantemente indebolito l’Autorità palestinese e rafforzato Hamas a Gaza. La legittimità di Abbas tra il popolo palestinese è gradualmente diminuita. Il suo continuo rinvio delle elezioni nell’AP ha danneggiato in modo significativo la sua posizione.
  Le minacce per l’Autorità palestinese sono quindi numerose e il suo crollo potrebbe avvenire in seguito a diversi scenari. Un’escalation di violenza con Israele o la decisione di Abbas di annunciare lo scioglimento dell’Autorità Palestinese, come ha spesso minacciato, potrebbero entrambi segnare la fine. Nel frattempo, il caos interno dovuto a una lotta per il potere dopo la partenza di Abbas potrebbe far crollare l’AP. Questo potrebbe accadere prima o dopo la morte del leader 87enne.
  «Finché Abbas sarà vivo, l’Autorità palestinese sopravviverà. Quando non sarà più al potere, l’AP sarà sull’orlo del collasso», ha detto Mkhaimar Abusada, professore associato e presidente del dipartimento di scienze politiche dell’Università di Al-Azhar a Gaza. «Potremmo assistere a lotte intestine palestinesi e all’intervento di Israele. Questo è il punto più spaventoso, in cui la preoccupazione per il futuro dell’AP è molto reale».
  Non sono solo le azioni israeliane, ma anche la spaccatura interna palestinese tra Fatah e Hamas ad aver intaccato il potere e la legittimità dell’Autorità palestinese.
  Inoltre, dopo un lungo periodo di violenza tra le parti, un nuovo governo israeliano di destra potrebbe avere una politica che intacca la stabilità dell’area.
  La decisione della scorsa settimana del nuovo governo di sanzionare l’Autorità palestinese per il suo ricorso alla Corte internazionale di giustizia (CIG) sulla legalità della presenza di Israele in Cisgiordania potrebbe indebolire ulteriormente l’Autorità.
  Nel frattempo, il coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità palestinese è rimasto sostanzialmente inalterato. Per Abbas, contribuisce a mantenere il suo potere e, per Israele, consente l’accesso ai territori e alle infrastrutture del terrorismo. Questi interessi reciproci hanno finora fornito una solida garanzia per la loro continuazione, nonché un’ancora di salvezza critica per l’Autorità palestinese.
  Tuttavia, dopo un anno di violenze mortali in Cisgiordania, le prospettive sono fosche.
  «A un certo punto, quando il numero di incidenti si accumulerà, il coordinamento della sicurezza non sarà più efficace e il graduale collasso a cui stiamo assistendo potrebbe portare a un collasso completo», ha dichiarato a The Media Line il dottor Ely Karmon, ricercatore senior presso l’International Policy Institute for Counter Terrorism dell’Università Reichman.
  Il coordinamento della sicurezza con Israele è un argomento spinoso tra i palestinesi e le nuove sanzioni israeliane, tra cui la revoca dello status di VIP per gli alti funzionari palestinesi, rendono l’AP più vulnerabile.
  «Non importa cosa l’Autorità palestinese faccia per Israele, questo è ciò che ottiene in cambio», ha detto Abusada. «Nonostante la cooperazione con Israele, l’Autorità palestinese non può sfuggire alle misure punitive israeliane – è così che la vedono i palestinesi».

  • I funzionari palestinesi sono chiaramente preoccupati per il futuro
  «Le misure adottate dall’attuale governo israeliano… mirano a minare l’Autorità e a spingerla sull’orlo del baratro dal punto di vista finanziario e istituzionale», ha dichiarato all’inizio di questa settimana il Primo Ministro dell’AP Mohammad Shtayyeh.
  Anche se l’attuale governo israeliano vuole cambiare la situazione sul campo, resta da chiedersi se il Paese sia pronto ad affrontare il collasso dell’Autorità palestinese e le sue implicazioni di vasta portata.
  L’AP sta già lottando per fornire i servizi di base ai suoi cittadini. Un crollo non lascerebbe il vuoto a lungo. Che si tratti di Israele o di Hamas, qualcuno dovrà farsi carico della vita dei palestinesi in Cisgiordania, e a caro prezzo.
  «Israele ha bisogno di stabilità da parte palestinese, stabilità che deve mantenere», ha detto Goren. «Una situazione di caos che costringa Gerusalemme a prendere il controllo dei territori non è positiva per Israele».
  L’acquisizione della Cisgiordania da parte di Hamas sarebbe un effetto disastroso del collasso dell’Autorità palestinese a cui Israele non è assolutamente interessato. Hamas, che si rifiuta di riconoscere lo Stato ebraico, ha combattuto diverse guerre contro Israele dalla Striscia di Gaza.
  «Il crollo dell’Autorità palestinese come risultato del caos interno porterà a un rafforzamento di Hamas», ha detto Karmon.
  Il controllo di Hamas sarà certamente la fine del coordinamento della sicurezza con Israele in Cisgiordania.
  L’annuncio nel fine settimana che Israele tratterrà milioni di dollari di entrate fiscali palestinesi potrebbe avere un effetto paralizzante su un’autorità già in difficoltà. Parte del denaro confiscato da Israele sarà devoluto alle famiglie delle vittime israeliane uccise da assalitori palestinesi.
  «È l’Autorità palestinese che si sta indebolendo da sola, essendo coinvolta e incoraggiando il terrorismo contro Israele», ha dichiarato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich durante la conferenza stampa di annuncio delle sanzioni.
  Smotrich è un nazionalista di ultradestra che non ha nascosto il suo obiettivo di far sì che Israele recuperi il controllo di tutti i territori della Cisgiordania, noti anche con il nome biblico di Giudea e Samaria. Ciò va di pari passo con lo smantellamento dell’AP. Pertanto, quando gli è stato chiesto se le sue mosse avrebbero fatto cadere l’AP, la sua risposta è stata impassibile.
  «L’Autorità palestinese deve decidere se vuole continuare ad esistere e continuare a prendersi cura degli arabi in Giudea e Samaria… o se preferisce cessare di esistere e tornare ad essere un nemico dello Stato di Israele contro il quale combatteremo», ha detto.
  L’Autorità palestinese paga una somma significativa di denaro ai prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane dopo essere stati condannati per attività terroristiche. Fornisce inoltre sostegno finanziario alle famiglie dei prigionieri e dei combattenti morti o feriti.
  Negli anni passati, Israele ha trattenuto le entrate fiscali dai palestinesi a intermittenza, danneggiando ulteriormente una situazione finanziaria dell’Autorità palestinese già molto critica.
  «Se le sanzioni creeranno una situazione più acuta, ci sarà una controreazione da parte dei palestinesi», ha detto Goren. «Si tratta di vedere fino a che punto il governo israeliano si spingerà. L’AP è già debole come Netanyahu vuole, come può essere indebolita ulteriormente?».
  Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) del 2022, l’economia palestinese sta affrontando “sfide formidabili”, con un elevato deficit di bilancio che non accenna a diminuire. Anche gli aiuti internazionali sono diminuiti in modo significativo negli ultimi anni.
  Le vite dei palestinesi e degli israeliani sono profondamente intrecciate, soprattutto nei territori della Cisgiordania. Si stima che mezzo milione di coloni ebrei viva tra circa tre milioni di palestinesi.
  Ci sono già alcune aree nel nord della Cisgiordania in cui il controllo dell’AP è inconsistente. La presenza di milizie organizzate localmente, senza affiliazione a Fatah o Hamas, che operano contro le forze israeliane è stata favorita inizialmente dalla debolezza dell’Autorità palestinese e ora è alimentata dai continui attriti con Israele.
  Ciò ha già indotto l’esercito israeliano ad aumentare la propria presenza nell’area, distogliendo forze da altre zone. La sostenibilità di tale diversione potrebbe essere messa in discussione se Israele fosse costretto ad agire altrove, tra la miriade di minacce che affronta quotidianamente.
  Le nomine che Netanyahu ha fatto nei ministeri della Difesa e degli Esteri di alleati politici del suo stesso partito Likud, che non sono considerati di estrema destra come i suoi partner di coalizione, potrebbero indicare che Netanyahu sta giocando un gioco di calcolata astuzia.
  «Netanyahu vuole creare una certa stabilità e difficilmente farà grandi mosse; solidificherà gradualmente la posizione di Israele in Cisgiordania senza annunci roboanti», ha detto Goren.
  «Tutte le misure porteranno a un deterioramento dell’immagine dell’AP agli occhi dei palestinesi», ha detto Abusada.
  Il governo Netanyahu ha anche deciso nei giorni scorsi di congelare i piani di costruzione per i palestinesi nell’Area C.
  «La percezione israeliana è quella di poter contenere il deterioramento e qualsiasi escalation violenta», ha detto Goren.
  Non è necessariamente così, ma è una scommessa che l’attuale governo israeliano sembra disposto a fare.

(Rights Reporter, 13 gennaio 2023)

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Shivat Zion: la nuova organizzazione che aiuta gli ebrei europei ad emigrare in Israele

di Roberta Di Neris Schultz

Shivat Zion è una nuova organizzazione israeliana che facilita il trasferimento degli ebrei europei e sudamericani in Israele. Abbiamo parlato con Shraga Evers, che ha fondato  Shivat Zion insieme con  un gruppo di persone che si erano trasferite in Israele da sole. Ci ha raccontato dei molti ostacoli incontrati, senza trovare  chi li aiutasse nei tanti problemi che stavano affrontando. Ma una volta arrivati in Israele e dopo essersi integrati, hanno usato la loro esperienza per aiutare gli altri olim hadashim (nuovi immigrati) che stavano attraversando la stessa situazione. Capiscono le difficoltà e le sfide di iniziare una nuova vita in Israele e vogliono renderla più facile per gli altri.
  Cresciuto nei Paesi Bassi, Shraga Evers è emigrato in Israele undici anni fa. La famiglia di Shraga è sempre stata molto coinvolta nella vita delle comunità ebraiche in cui è vissuta. Dopo aver servito come Rabbino in comunità ebraiche in Olanda per 40 anni, suo padre ha ricoperto la posizione di Rabbino Capo di Düsseldorf dal 2016 al 2021.

- Che cos’è esattamente Shivat Zion?
  Shivat Zion è un’organizzazione che offre aiuto attivo agli immigrati, provenienti da paesi in cui non esiste un’organizzazione del genere. Gli olim possono rivolgersi a Shivat Zion per domande e problemi relativi all’immigrazione e alla vita in Israele. Siamo facilmente raggiungibili tramite WhatsApp, telefono e email, e forniamo aiuto agli olim nella loro lingua. Il servizio è fornito in 7 lingue: italiano, ebraico, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese e inglese. Non poniamo limiti agli argomenti, abbiamo un’attenzione particolare per ogni domanda del futuro immigrato, dall’inizio del percorso fino alla sua conclusione, quando cioè si è trasferito in Israele e si sente sicuro. Tuttavia, ci sono alcune domande e preoccupazioni comuni sollevate dagli olim, per esempio sull’idoneità necessaria (chiare radici ebraiche), aiuto con i documenti, comprensione dei diritti e dei benefici, creazione di un piano di immigrazione, eventuali ostacoli burocratici, soluzioni educative, lavoro e alloggio… Prima di lanciare Shivat Zion, abbiamo condotto un’approfondita ricerca sui servizi già disponibili e su ciò che mancava. Di conseguenza, abbiamo iniziato a trovare soluzioni adeguate per colmare questa significativa lacuna. È da notare che attribuiamo grande importanza alla cooperazione con le organizzazioni esistenti. Non siamo interessati a rivoluzionare il sistema e non vogliamo ostacolare quelle già operanti, come l’Agenzia ebraica e Misrad HaKlita. Noi, invece, miriamo a offrire servizi complementari e ad agire come risorsa proattiva e facilmente accessibile per chiunque stia considerando l’immigrazione o sia in procinto di farla. Siamo qui per qualsiasi dubbio e guideremo le persone alle soluzioni, alle organizzazioni o alle persone più idonee a aiutarle.

- Qual è la vostra visione? Perché avete fondato Shivat Zion?
  “Shivat Zion” significa “ritorno a Sion”, e si riferisce al ritorno a Gerusalemme o in generale in Israele. Viviamo in un momento di grande opportunità. Dopo aver vissuto nella diaspora per migliaia di anni e aver perso molti dei nostri, perseguitati o assimilati, ora possiamo tornare nella Terra d’Israele. Israele è casa per gli ebrei, che siano religiosi o no. Anche se riconosciamo che spostarsi e vivere in Israele può essere difficile all’inizio, l’immigrazione è relativamente facile al giorno d’oggi. Oggi non dobbiamo affrontare molti dei problemi che gli immigrati hanno dovuto affrontare prima dell’esistenza dello Stato di Israele o nei primi decenni dalla sua fondazione. Il termine “Shivat Zion” è stato usato per la prima volta quando il popolo ebraico ha ricevuto il permesso dall’Impero Persiano di tornare in Israele dopo il loro primo esilio. Profeti come Ezra, Nechemiah e Haggai avevano grandi difficoltà a convincere il popolo ebraico ad emigrare. Grazie ai loro sforzi, molti ebrei alla fine hanno deciso di trasferirsi in Israele e ricostruire il paese.

- Che tipo di aiuto offrite esattamente? E chi aiutate?
  Siamo qui per aiutare per qualsiasi problema si presenti – dal momento in cui inizi a considerare l’immigrazione in Israele, fino a quando non ti sei stabilito con successo. Offriamo assistenza attraverso il nostro Helpdesk (persone a loro volta già immigrati e che parlano la tua lingua), guide facili da capire, tutorial video, FAQ e fornendo soluzioni adeguate a problemi specifici. Il nostro obiettivo è quello di offrire soluzioni reali, sia in senso pratico, fornendo le informazioni e le guide giuste, sia indirizzando l’immigrato a una terza parte, organizzazione o volontario che possa fornire l’aiuto specifico di cui ha bisogno. Inoltre, aiutiamo gli immigrati a pianificare la loro vita e a creare un piano realistico che si adatti alle loro esigenze specifiche. Siamo qui per chiarire eventuali dubbi, preoccupazioni e domande, cercando di aiutarli ad integrarsi e prosperare. È importante notare che un’immigrazione di successo dipende molto dalla preparazione che dovrebbe precedere il percorso di immigrazione. Tuttavia, voglio sottolineare che ci aspettiamo che l’immigrato compia il passo finale da solo. Cerchiamo di guidarli verso la soluzione di cui hanno bisogno, fornendo loro un aiuto concreto, informazioni e soluzioni, ma alla fine non possiamo fare il lavoro per loro.

- Ci sono costi per utilizzare il vostro aiuto?
  Tutto il nostro supporto è fornito gratuitamente. Tuttavia, coloro che desiderano sostenere la nostra missione e ne sono in grado, sono i benvenuti per fare una donazione, poiché ci affidiamo interamente alle donazioni per sostenere il nostro lavoro. È possibile effettuarne di deducibili dalle tasse in gran parte dei paesi europei, Israele, USA, Regno Unito e Canada.

- Come possono le persone contattarti e ottenere ulteriori informazioni?
  Vai su www.shivat-zion.com e seleziona la tua lingua (per l’italiano: https://shivat-zion.com/?lang=it) Puoi contattarci direttamente tramite WhatsApp o email, o prenotare un appuntamento telefonico e ti chiameremo. Se hai dei dubbi sull’idoneità, puoi compilare un modulo per verificarla. Inoltre, puoi iniziare a raccogliere informazioni sui documenti necessari e sulla vita in Israele o trovare risposte alle domande frequenti nella nostra pagina FAQ.

- Ci sono persone che vorrebbero fare l’aliyah, ma i dubbi impediscono loro di farlo. Puoi fornire loro qualche parola di incoraggiamento?
  Non chiudiamo gli occhi sul fatto che non è facile lasciarsi alle spalle l’ambiente familiare, la lingua e la routine quotidiana. È molto difficile per alcune persone cambiare abitudini. Inoltre, la vita in Israele è generalmente percepita come più difficile rispetto a quella nei paesi europei occidentali. Vorremmo sottolineare che è molto importante cercare di far parte di una comunità, soprattutto se si fa l’aliyah con la propria famiglia. Ricevere supporto e aiuto nella vita quotidiana è di grande importanza. Naturalmente, faremo ogni sforzo per trovare una comunità adatta per te e per consigliarti sui programmi di supporto esistenti. Nonostante tutte le sfide che richiede un trasferimento in una nuova vita e in un nuovo paese, l’aliyah è più di questo. Fare l’aliyah significa imprimere una grande svolta nella tua vita, in quella dei tuoi figli e delle generazioni future. La vita in Israele, sebbene frenetica, è anche allegra e dolce. Potresti non averla ancora assaporata, ma se sai coglierne questi aspetti, non vorrai più cambiarla per nulla al mondo! L’importante è che tu voglia davvero fare l’aliyah. Possiamo darti molte ragioni tecniche, pratiche, religiose per farla, ma alla fine, devi veramente volerlo. Come ha detto qualcuno una volta, “Se vuoi, puoi”

(Bet Magazine Mosaico, 13 gennaio 2023)

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Israele, scoperte nel deserto del Negev otto uova di struzzo di 4.000 anni fa

di Jacqueline Sermoneta

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Rinvenute otto uova di struzzo, risalenti a più di 4mila anni fa, fra le dune di sabbia di Nitzana, nel deserto del Negev, durante uno scavo guidato dall’Autorità israeliana per le Antichità (IAA).
  Il team di ricercatori ha trovato le uova accanto a un antico focolare di un accampamento, usato da nomadi del deserto fin dal periodo preistorico. Portati alla luce anche strumenti di pietra, selce, pietre bruciate e frammenti di ceramica “ma la scoperta davvero speciale sono le uova di struzzo. - ha detto la responsabile degli scavi dell’IAA, Lauren Davis - Sebbene i nomadi non abbiano costruito una struttura permanente in questo sito, i reperti ci permettono di capire la loro presenza nel deserto. L’accampamento è stato rapidamente coperto dalle dune e poi è riaffiorato a causa dello spostamento della sabbia nel corso di centinaia e migliaia di anni. Questo spiega l'eccezionale conservazione delle uova, permettendoci di dare uno sguardo alla vita dei nomadi che vagavano nel deserto in tempi antichi”.
  Gli struzzi erano diffusi nella regione fin dal periodo preistorico ma si estinsero nel corso del XIX secolo. Secondo gli studiosi, il ritrovamento delle uova in siti e in periodi diversi dimostra l’importanza che avessero come materia prima. "Troviamo uova di struzzo in contesti funebri, come oggetti preziosi o contenitori. Naturalmente, venivano utilizzate anche come cibo: un uovo di struzzo ha il valore nutrizionale di circa 25 uova di gallina!. - ha spiegato l’archeologo Amir Gorzalczany dell'IAA - Talvolta venivano decorate e incise e ciò dimostra il loro utilizzo anche a scopo decorativo. È interessante notare che non è raro scoprire uova di struzzo durante gli scavi, mentre le ossa dei grandi uccelli non vengono trovate. Ciò potrebbe indicare che anticamente le persone evitavano di cacciare lo struzzo e si accontentavano di raccogliere le loro uova”.
  I ricercatori ritengono che la vicinanza delle otto uova al focolare non sia una scoperta casuale naturale, ma una raccolta intenzionale. Un uovo di questi è stato ritrovato direttamente all’interno del focolare: ciò confermerebbe l’ipotesi del loro utilizzo come cibo. “Le uova di struzzo sono frammentate ma ben conservate, nonostante lo strato superficiale sia scoperto. - ha spiegato Davis - Inoltre, l’esame scientifico rivelerà informazioni sull’età esatta del sito”. “Quando lo scavo sarà concluso – continua la studiosa - ricostruiremo le uova, proprio come un puzzle. Le uova ricomposte ci potranno far capire la specie e per cosa esattamente siano state usate".

(Shalom, 13 gennaio 2023)

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L’effetto dei vaccini anti COVID contro l’infezione peggiora la situazione

Secondo la Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi)

I dati dell’Istituto Superiore di Sanità/ISS del 4 gennaio 2023 continuano a mostrare, nei vaccinati con i vaccini a mRNA in uso, tassi di diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 maggiori rispetto ai non vaccinati.
  I bambini di 5-11 anni si infettano il 45% in più; con booster i giovani-adulti di 12-39 anni il 44% in più, gli adulti di 40-59 anni il 67% più dei non vaccinati. Anche gli anziani fino ai 79 anni si infettano di più. Si registra un ulteriore peggioramento dei dati rispetto al precedente Bollettino ISS.malati
  Molti continuano a parlare di efficacia (ancorché parziale) dei vaccini nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, con effetti utili alla comunità, ma i dati ISS raccontano altro, come appunto dimostrato dal più recente bollettino ISS. Solo nella fascia d’età di 80 e più anni i dati ISS mostrano nei vaccinati con booster meno infezioni dei non vaccinati, ma il monitoraggio nei mesi mostrerà se tale protezione si mantiene.
  Si conferma che la protezione da ricoveri, accessi in terapia intensiva e decessi da COVID-19 resta migliore nei vaccinati (salvo che per i bambini di 5-11 anni, dove comunque i numeri sono molto piccoli). Si consideri, però, che il vantaggio si erode nel tempo (specie verso Omicron, l’unica variante con cui si debbano al momento fare i conti) negli adulti e in età pediatrica, benché più lentamente rispetto al vantaggio verso l’infezione. Ormai con la variante Omicron (che si è dimostrata meno letale di un’influenza stagionale i rischi più gravi da COVID-19 sono grandemente ridotti, mentre i dati inglesi (dell’Ufficio Nazionale per le statistiche UK) relativi al 2022, purtroppo pubblicati per stato vaccinale solo da gennaio a non oltre maggio 2022, mostrano un’allarmante tendenza all’aumento dei tassi di mortalità in tutte le fasce di età nei vaccinati rispetto ai non vaccinati, con grandi differenze rispetto al 2021, quando i tassi di mortalità totale dei vaccinati erano nettamente inferiori rispetto a quelli dei non vaccinati.
  La CMSi/Commissione Tecnico Scientifica indipendente, che da gennaio 2022 emette periodici aggiornamenti, anche a commento dei dati ISS, chiede di essere audita nelle sedi istituzionali idonee e insiste perché i sanitari e tutti gli interessati attuino le semplici verifiche proposte sulle tabelle dei Bollettini ISS, in modo didascalico e alla portata di chiunque (documento allegato). Si potrà così comprendere quali contenuti siano davvero aderenti alla Scienza e ai dati ufficiali e perché ciò che la CMSi continua a ripetere merita seria attenzione. “Continueremo comunque a far sentire la nostra voce pacata e ragionevole, finché non otterremo un confronto basato sui dati”.

La Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi) è nata dopo 20 mesi dall’inizio della pandemia da Covid-19 e dopo che, in questo periodo di tempo, sono state prese decisioni ad altissimo impatto sanitario e sociale, in sostanziale assenza di un reale e aperto dibattito sui loro fondamenti scientifici. Attualmente la CMSi è composta da: dott. Alberto Donzelli, prof. Marco Cosentino, prof. Giovanni Frajese, dott.ssa Patrizia Gentilini, dott. Eugenio Serravalle, prof. Eduardo Missoni, dott. Sandro Sanvenero, Panagis Polykretis, Ph.D. in biologia strutturale.
   La scienza, libera da interessi e pressioni, sa risolvere i problemi non con pregiudizi o esclusioni a priori da parte degli scienziati numericamente prevalenti in un certo periodo, ma basandosi sulla ricerca osservazionale e sperimentale e ricorrendo a validi metodi di indagine, raccolta e analisi dei risultati, verifica periodica degli effetti delle decisioni sanitarie effettuate e comunicazione libera e trasparente delle conclusioni. Occorre quindi essere sempre aperti a rivedere le attuali convinzioni e anche i paradigmi, se nuove osservazioni li mettono in discussione o ampliano le conoscenze. Ciò trova anche riscontro nell’art. 33 della Costituzione: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, e implica che un dibattito fondato sull’accettazione del metodo scientifico non può essere soppresso, neppure dalle Istituzioni."


(PRESSKIT, 13 gennaio 2023)

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12 gennaio 1493. Memoria della cacciata degli ebrei dalla Sicilia

Con l'editto emanato a Granada in data 31 marzo del 1492, il re Ferdinando il Cattolico ordina l’espulsione dai territori del suo regno di tutti gli ebrei che si rifiutano di convertirsi alla religione cristiana. L’editto viene immediatamente attuato nei territori ispanici. Nonostante le rimostranze e tutte le riserve manifestate dall’aristocrazia e dal popolo siciliani, il 18 giugno 1492, il Senato di Palermo si vede costretto alla sua promulgazione, rendendo l’Editto di Granada esecutivo anche in Sicilia. Forti pressioni e diversi tentativi esercitati nei confronti della corona, per ottenere la revoca del provvedimento, riescono a sortire soltanto alcuni rinvii.
  Il 12 gennaio 1493 è l’ultimo giorno entro il quale gli ebrei siciliani devono scegliere: abiurare, cioè rinnegare la propria fede e convertirsi al cristianesimo, oppure partire. Alcuni si convertono, i così detti “marrani”, altri fanno finta di farlo e iniziano a praticare il “criptogiudaismo”, ma molti di questi furono scoperti e furono perseguitati, torturati e condannati a morte dal Tribunale d’Inquisizione. Tanti altri decisero di partire pur di non rinnegare la propria fede. Così, intere famiglie dovettero interrompere le loro attività, lasciare tutti i loro beni e andare verso altri lidi, raggiungere altre terre dove la loro religione era ancora tollerata, dove avrebbero iniziato una nuova vita con grandi sacrifici e il profondo rimpianto per la loro terra, la Sicilia. Perché gli ebrei siciliani non erano diversi dagli altri, non appartenevano ad un’altra etnia, non erano stranieri in terra straniera. Loro erano Siciliani a tutti gli effetti, da quasi 1500 anni.
  Per ricordare il 530° anniversario della cacciata degli ebrei dalla Sicilia, l’Istituto Siciliano di Studi Ebraici ha promosso un incontro, che sarà tenuto a Palermo il 12 gennaio 2023, alle 16.30 presso la sede dell’Officina di Studi Medievali (via del Parlamento 32).
  Luciana Pepi (Dipartimento Culture e Società, Università degli Studi di Palermo) presidente dell’ISSE, parlerà dell’Editto di Granada. Al termine sarà presentato il ciclo di lezioni “Ebrei e Sicilia” in programma per il 2023.

(Università degli Studi di Palermo, 12 gennaio 2023)

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Il Piemonte al Governo: tutelare Israele e riconoscere Gerusalemme come capitale

Ricca (Lega): "L'ordine del giorno è un gesto importantissimo che ribadisce che qui l'antisemitismo non ha cittadinanza".

Il 10 gennaio il Consiglio Regionale del Piemonte ha approvato un ordine del giorno che impegna il Presidente e la Giunta regionale ad attivarsi nei confronti del Governo italiano affinché si renda promotore di un’azione politica e diplomatica alle Nazioni Unite, nell'Unione Europea e in ogni altra sede multilaterale e bilaterale per avviare iniziative concrete che diano esecuzione agli impegni assunti dal Governo Italiano con l’adozione della definizione operativa di antisemitismo dell’Ihra e alla nuova strategia Ue 2021-2030 per la prevenzione e la lotta contro tutte le forme di antisemitismo.
  Nello specifico, il Consiglio Regionale piemontese chiede di assicurare che l’espressione del voto italiano in tutte le sedi internazionali contrasti e censuri le nuove forme di antisemitismo volte, al di là di ogni legittima critica all’azione di governo, a delegittimare e demonizzare lo Stato di Israele ed anzi riconosca e tuteli il diritto di questo Stato ad esistere in sicurezza, ad autodeterminarsi, a difendersi e difendere la vita, l’incolumità e la libertà dei propri cittadini.
  Chiede inoltre che ne ribadisca e ne difenda il carattere di nazione libera e democratica e rifugga, ora e per sempre, dall’applicazione di doppi standard finalizzati a processare e condannare lo Stato di Israele a prescindere, per isolarlo a livello internazionale, ricordando che la delegittimazione dello Stato Ebraico alimenta l’antisemitismo in tutto il mondo, offende e pregiudica la civiltà e il mondo libero.
  Il Consiglio chiede inoltre al Governo di farsi portavoce di istanze finalizzate ad ottenere la completa destituzione e il disarmo di Hamas, di Hezbollah e di tutte le organizzazioni che si ispirano alla Jihad e al radicalismo islamico, condannando tutti i movimenti che in Italia e in Europa sostengono queste organizzazioni condividendone le ideologie come il Bds per boicottare lo Stato d’Israele.
  Si vuole poi assicurare che, sempre in ottemperanza alla nuova strategia Ue per la prevenzione e la lotta contro ogni forma di antisemitismo, fondi Ue non siano indebitamente assegnati ad attività che incitano all'odio e alla violenza nei confronti degli Ebrei e dello Stato di Israele. Infine, non per ultimo, chiede di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.
  “Questo Ordine del Giorno è un gesto importantissimo che ribadisce ancora una volta che in Piemonte l’antisemitismo non ha cittadinanza. Lo abbiamo detto come assessorato alle Politiche Giovanili istituendo un percorso di formazione per i ragazzi, intitolato ‘Ogni giorno è il Giorno della Memoria’, lo ribadisce oggi il Consiglio Regionale con questo voto - afferma l’assessore regionale Fabrizio Ricca, consigliere della Lega Salvini Piemonte - Troppo spesso il nuovo antisemitismo si nasconde dietro il velo di un antisionismo pregiudiziale e di facciata, l’Ordine del Giorno votato dal Piemonte sgombera il campo dalle ambiguità e sancisce parole ferme e destinate a lasciare traccia”.

(vcnews.it, 12 gennaio 2023)


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La Regione Piemonte vota per spostare l’ambasciata italiana a Gerusalemme

di Ugo Volli

Qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento della politica italiana verso Israele. Lo testimoniano i voti del nostro paese sulle ricorrenti mozioni dell’Onu contro lo stato ebraico, molto diversi rispetto al passato; ma anche le scelte degli enti locali. Un esempio importante è quello della regione Piemonte, il cui Consiglio ha approvato ieri una mozione che “impegna La Giunta Regionale e gli assessori competenti:
  1. ad assumere iniziative per adottare integralmente la definizione operativa contro l'antisemitismo formulata dall’International Holocaust Remembrance Alliancei, inclusi gli esempi quale parte integrante della definizione, e promuoverne l’adozione presso le istituzioni locali (es. università e associazioni sportive);
  2. a ribadire il rifiuto della Regione di ogni forma di antisemitismo che sotto false maschere (es. l’antisionismo) ha come finalità la messa in discussione l’esistenza di Israele delegittimandone e demonizzandone l’esistenza;
  3. a fare riferimento, nelle interlocuzioni tra la Regione Piemonte e lo Stato di Israele, a Gerusalemme come capitale dello stato, in quanto simbolo unificante e non divisivo, inclusivo e non emarginante di democrazia, di rispetto e di tutela della libertà di culto e dei diritti di ogni minoranza etnica e/o religiosa.
  4. a non finanziare in alcun modo organizzazioni che a vario titolo partecipino al boicottaggio dello Stato d'Israele.”
È un gesto molto importante, il cui merito va al primo firmatario, Fabrizio Ricca, assessore ai giovani e all’internazionalizzazione nella giunta di centrodestra presieduta da Alberto Cirio e al vicepresidente del Consiglio Regionale, Franco Graglia.
  E non si tratta solo di parole: dal luglio scorso la Regione Piemonte, sempre sotto l’impulso dell’assessore Ricca, ha aperto un ufficio a Gerusalemme per la promozione del commercio estero e degli investimenti in Israele, con un accordo ufficiale con l’ambasciata di Israele in Italia e il comune di Gerusalemme, gestito da Ceipiemonte, società regionale presieduta da Dario Peirone, che è anche il presidente dell’Associazione Italia-Israele di Torino e partecipata da tutto il sistema delle camere di commercio e dalle università che si occupa di supportare il processo di internazionalizzazione delle imprese locali e di attrarre investimenti esteri sul territorio. Questo ufficio di rappresentanza, nelle speranze di chi l’ha promosso, è un primo passo per convincere il governo italiano a spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
  Vedremo se questa scelta, che riconoscerebbe dopo gli Usa e molti altri stati il dato di fatto inconfutabile che la capitale di Israele, con il governo, la presidenza della repubblica, il parlamento e tutti gli organismi centrali dello stato si trova a Gerusalemme, si realizzerà. Giorgia Meloni ha annunciato un prossimo viaggio in Israele, che potrebbe portare novità anche in questo campo.
  Insomma, anche in questo caso, al di là degli schieramenti politici e ideologici, ciò che conta è la possibilità di sviluppare collaborazioni utili fra società economicamente e scientificamente avanzate. Dispiace solo che, a differenza di casi come la Toscana, dove la mozione Ihra è stata sottoscritta all’unanimità, nel consiglio regionale piemontese ci sia stata una divisione per linee politiche: su antisemitismo e Israele tutta l’opposizione (PD, 5stelle, sinistra ecc.) si è espressa contro, i moderati si sono astenuti, i partiti di destra hanno votato a favore.

(Shalom, 12 gennaio 2023)


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Israele-Italia: l'ambasciata a Roma accoglie con favore la decisione della Regione Piemonte

Comunicato Stampa

ROMA - L'ambasciata d'Israele in Italia accoglie con favore l'importante decisione approvata ieri, martedì 10 gennaio, dal Consiglio Regionale del Piemonte, che chiede il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, a seguito dell'apertura dell'ufficio economico del Piemonte a Gerusalemme nel luglio 2022. Lo riferisce oggi un comunicato stampa dell'ambasciata d'Israele in Italia. L’ambasciata esprime inoltre sentito apprezzamento per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (Ihra): con essa la Regione assume una chiara posizione morale di denuncia dell'antisemitismo, quest’anno quanto mai significativa vista la ricorrenza dell'85esimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali italiane. In materia di sicurezza nazionale, Israele e Italia sono partner nella lotta al terrorismo, e l'ambasciata d’Israele accoglie con favore la netta presa di posizione del Piemonte sulla necessità della completa destituzione e del disarmo delle organizzazioni terroristiche di Hamas e Hezbollah, e della lotta contro tutte le entità che li sostengono.

(Agenzia Nova, 11 gennaio 2023)

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Baruch Spinoza, straordinario teologo messianico

Qabbalah e mistica ebraica nel pensiero del filosofo olandese

di Massimo Giuliani

La straordinaria attualità del pensiero di Barukh Spinoza (1632-1677) salta all’occhio appena si consideri la quantità di libri su di lui che escono ogni anno, oltre alla continua ripubblicazione dei suoi scritti, sempre nuovamente tradotti e spiegati e chiosati da nuove generazioni di studiosi. Come può un ebreo, figlio di mercanti portoghesi ex marrani e seguace del matematico francese René Descartes, essere divenuto un vessillo della modernità e al contempo del pensiero post-moderno? Proprio nel mondo ebraico, poi, il suo nome è ‘segno di contraddizione’ e ancor oggi si discute sulla sua infausta scomunica, il kerem del 1656 (emesso dai leader politici della sua comunità) – a soli 24 anni e senza aver pubblicato una riga – che resta uno dei grandi enigmi della storia ebraica (sebbene lo studioso statunitense Steven Nadler abbia cercato di scioglierlo circa vent’anni fa nel volume L’eresia di Spinoza. L’immortalità e lo spirito ebraico, tradotto nel 2005 da Einaudi). Ma quanto davvero ebraica è la filosofia spinoziana?
  Una risposta a questa domanda viene da un recente libro dello studioso Marco Cassuto Morselli, intitolato La teologia messianica di Spinoza (Castelvecchi 2022, pp.124, 16 euro), che può essere letto ad almeno due livelli innovativi: anzitutto come introduzione ‘generale’ al di lui pensiero filosofico, con enfasi sulla dimensione teologico-politica piuttosto che su quella logico-metafisica o razionalista, come si usa in molti manuali liceali; non secondariamente, il libro illumina in ‘particolare’ alcuni passi della sua opera che difficilmente possono essere compresi da chi non conosca a fondo la tradizione rabbinica, alla quale Spinoza appartiene, specie la sua corrente mistica (vale a dire, la qabbalà). Soprattutto in questa spiegazione sta l’originalità del volume, che viene così a correggere una lunga storia di interpretazioni che tendono a trascurare – per ignoranza, solitamente – la profonda radice ebraica dell’opera del famoso ‘pulitore di lenti’ di Amsterdam.
  Caso emblematico è la controversa espressione spinoziana Deus sive natura, che si trova nella versione in latino della sua Ethica more geometrico demonstrata, apparsa nell’anno della sua morte, espressione da sempre letta (in modo superficiale) come l’attestazione di un ‘sostanziale’ panteismo, in forza di quel sive, dell’ovvero, grazie al quale non vi sarebbe distinzione tra la natura e il divino, essendo l’una e l’altro la medesima sostanza, appunto. Cassuto Morselli spiega che quel famoso sintagma ha da essere inteso invece in chiave qabbalistica:

    La formula Deus sive natura è stata interpretata come espressione del naturalismo spinoziano, come se volesse dire: Dio non è altro che la Natura, non esiste niente di soprannaturale, per cui Spinoza sarebbe un radicale negatore della trascendenza e l’assertore di una immanenza assoluta. Ora, Deus sive natura è un detto qabbalistico tradotto in latino. Una delle più importanti tecniche qabbalistiche è la ghematriyah, che consiste nello stabilire rapporti tra parole che hanno lo stesso valore numerico [poiché a ogni lettera dell’alfabeto ebraico corrisponde un numero]. E uno dei nomi divini, Eloqim, ha lo stesso valore numerico della parola ebraica Hatevà che indica appunto [nell’ebraico medievale] la natura, il mondo naturale.

I mistici ebrei avevano creato questo link già secoli prima di Spinoza, e non certo per sostenere un panteismo filosofico (o l’ateismo, come sostenne il romantico Friedrick H. Jacobi alla fine del XVIII secolo). Un accostamento simile potrebbe essere fatto anche tra ratio e Scriptura, entrambe di origine divina, ma non certo per suffragare un banale razionalismo. In ogni caso, rimarca Cassuto Morselli, lo stesso Spinoza avrebbe smontato la querelle e sdrammatizzato, dato che ai suoi occhi quel che conta non è la divergenza di idee e credenze, ma la coerenza dei comportamenti con i valori di giustizia e carità, coerenza che il filosofo ebreo-olandese chiama semplicemente, in latino, oboedientia, ossia osservanza pratica dei precetti. C’è qualcosa di più ebraico?
  Anche Nadler, naturalmente, ha offerto una spiegazione al famoso detto spinoziano che si trova nella prefazione della parte IV dell’Ethica, definendolo “una frase ambigua, quasi si potesse dire altrettanto bene che Spinoza divinizza la natura o naturalizza Dio. Ma un lettore attento non può comunque fraintendere il suo pensiero” (tra l’altro, l’espressione si trova solo nell’edizione latina e quel ‘sive natura’ venne omesso dall’edizione in olandese, ovviamente assai più accessibile che in latino, curata dai suoi amici dopo la morte del filosofo). Nadler infatti spiega che la natura è altrove assunta da Spinoza in due sensi, uno attivo, chiamato natura naturans, e uno passivo, detto natura naturata, ed è quest’ultima a portare i segni di quella necessità naturale che deriva dalla necessità degli stessi attributi divini… teologia scolastica allo stato puro, come si intuisce. Ma allora perché Cassuto Morselli parla di ‘teologia messianica’ in Spinoza?
  Rivendicando la dignità della natura, che viene da Dio, Spinoza ha di fatto riscattato questo concetto dalla teologia agostiniana che parlava di natura lapsa o corrotta: in Spinoza la natura è tutt’altro che lapsa, caduta per via del peccato originale; essa è invece il libro del divino, l’altra via della rivelazione, assai vicina alla concezione di Abraham Herrera (qabbalista pure portoghese, di pochi decenni più anziano di Spinoza), influenzata a sua volta dalla mistica di Itzchaq Luria (XVI secolo): il mondo è pieno di scintille divine – nizozot – che attendono di essere riscattate, come le anime degli ebrei marrani. Solo una tale concezione di natura permetterà di accedere alla vera religio, quella ispirata a giustizia e carità, la religione universale della Torà.
  In fondo, Marco Cassuto Morselli propone una lettura di Spinoza assai vicina a quella proposta a suo tempo dal rabbino livornese Elia Benamozegh (1823-1900) il quale ebbe a scrivere qualcosa di grandioso, in tema di rapporti tra Dio e mondo/natura:

    Credo che Dio non sia il mondo stesso ma neppure che gli sia estraneo, o che sia fuori dal mondo. Il mondo, e in generale il creato o meglio la creazione, consiste in un limite che Dio impose a Se stesso. Per cui anziché dire ‘creazione dal nulla’ bisognerebbe dire ‘creazione del nulla’, ossia del limite, del finito, anzi della finitezza.

Ora, non è chi non veda come questi pensieri siano in piena sintonia con tutta la metafisica post-moderna contemporanea o, più semplicemente, con la sensibilità etica odierna, che ha posto la finitudine e la fragilità dell’umano al suo centro. Se il desiderio o il conato di riscatto dell’umana fragilità è una qualità del messianico, quale teologia è più messianica di questa?

(JoiMag, 12 gennaio 2023)
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Le anime degli ebrei marrani come esempi di scintille divine sparse nel mondo che aspettano di essere "riscattate" (che vuol dire?). Il conato di riscatto dell'umana fragilità come "qualità del messianico". Il tutto appare come un conato di messianismo filosofico di cui non si sentiva davvero la mancanza. M.C.

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La lezione dello zio Alex che fuggì per le leggi razziali ma tornò a liberare l'Italia

Sbarcò negli Usa nel 1938 e con l’esercito fu protagonista dell’offensiva contro nazisti e fascisti: il ricordo nel racconto della nipote

di Linda Laura Sabbadini

Uno dei miei supereroi da piccola si chiamava Alex Sabbadini. E lo era anche per i miei cuginetti della grande Sabbadini family. Un motivo c'era. La sua è una storia bellissima, dipanatasi in quegli anni di barbarie fascista e nazista. Lui, mio zio, era per tutti noi, il liberatore dell'Italia, il liberatore della nostra grande famiglia. Quello che di fronte alla tragedia si è impegnato in prima persona per il suo Paese e la sua gente, mettendo a rischio la sua vita. La sua è stata una grande avventura.
  Nel 1938 il governo fascista vara le leggi razziali, tutti gli ebrei vengono perseguitati, espulsi dal settore pubblico, dalle scuole, dalle università, i bambini messi in classi differenziate. Non che negli anni precedenti avesse fatto di meglio, il regime fascista ben prima del 1938 aveva avviato la sua feroce politica razzista. Alex in quanto ebreo viene cacciato dall'esercito italiano dall'oggi al domani. Decide di scappare.
  Nel 1939 si imbarca a Napoli per l'America per paura che intervenissero nuove restrizioni a uscire dal Paese, puntualmente varate poco tempo dopo la sua partenza. Arriva negli Usa dopo dieci giorni di traversata, a Ellis Island, e ci rimane per quattro giorni in attesa di tutti i controlli da parte delle autorità americane. Finalmente riesce a entrare e si reca dalla sorella, che abitava a New York.
  Ma ha un disegno in mente, chiaro e nitido, vuole entrare nell'esercito americano per liberare l'Italia e la sua famiglia. Decide di mettere in gioco se stesso, non vuole assistere passivamente alla barbarie che avanza. Riceve due rifiuti, veniva considerato enemy alien.
  Ci ironizzava, si trovava a essere persona non gradita, né in Italia, né in America. Ciò che purtroppo succede non raramente agli ebrei. Ma poi la spunta, si unisce alla 5 armata Usa per liberare l'Italia e, con essa, la sua famiglia, con cui aveva perso tutti i contatti.
  È questa cosa che ci colpiva, a noi cuginetti che ci riunivamo tutte le estati nel villino di famiglia a Nettuno, il villino Silvia, dal nome della mia bisnonna, la mamma di Alex. Ebbene, il soldato Alex partecipa allo sbarco di Anzio e dove approda? A 200 metri dal villino Silvia, dove anche lui per tanti anni aveva passato le sue vacanze. E dove noi bimbetti scavavamo nell'orto, molti anni dopo, alla ricerca, fortunata spesso, di reperti di guerra. Elmetti, proiettili, di tutto trovavamo. Anche forchette e coltelli con le svastiche.
  Alex voleva liberare l'Italia, il suo Paese e la sua famiglia dai fascisti e dai nazisti. Era G-2 intelligence officer e aveva un compito preciso, documentare tutto quello che trovava nei posti di comando nemici, raccogliere informazioni dai prigionieri, fotografare tutto ciò che potesse essere prezioso per il prosieguo della guerra, ma anche per il post guerra. Raccogliere tutti i documenti trovati. Documentare la barbarie nazifascista e dialogare con i partigiani. Era la persona giusta, visto che conosceva bene l'italiano. E così prima va in Nord Africa, poi sbarca in Sicilia, poi a Salerno, e poi prende parte allo sbarco di Anzio. Ma non solo. Arriva anche alla villa sul lago di Garda da dove Mussolini era appena scappato, lasciando oggetti personali, documenti a iosa, libri.
  Gli americani puntavano a catturare Mussolini prima dei partigiani, ma non ci riuscirono. Entrava per primo in tutti i posti di comando fascisti e nazisti per garantire che tutta la documentazione non andasse distrutta. Arriva anche a Mauthausen, campo di sterminio vicino Innsbruck. Terribile. Ed è proprio lì che ebbe la grande notizia, la guerra in Europa era finita. Era l'8 maggio del 1945. Erano passati solo sei anni da quando si era imbarcato per gli Stati Uniti. Di documenti ne ha raccolti tanti. Scambi epistolari e telegrammi tra Mussolini e Hitler, tutti donati all'Holocaust Museum di Washington, insieme alle innumerevoli foto scattate. Il 14 settembre scorso all'ambasciata italiana di Washington si è svolta la cerimonia del passaggio dell'archivio di famiglia. Presente Roger Sabbadini, il figlio, che ha anche scritto un libro su questa bellissima storia, Unavoidable Hope, l'ambasciatrice Mariangela Zappia, Natalia Indrimi del Centro Primo Levi.
  Alex è un simbolo di riscatto e di riscossa degli ebrei italiani. E io da piccolina riflettevo e imparavo. Avrebbe potuto rimanere negli Usa e aspettare la fine della guerra, mi dicevo. Ha sentito il dovere di agire per il bene di tutti. E in questo mi e ci ha dato una lezione di vita. Dentro ognuno di noi c'è un piccolo Alex che sa mettere davanti al suo personale interesse, l'amore per la sua famiglia, per la sua gente, per la democrazia e la libertà. Bisogna solo trovarlo. E farlo vivere nella quotidianità.

(la Repubblica, 12 gennaio 2023)

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Perché il governo israeliano deve cambiare la Legge del Ritorno

di Miky Steindler

מדינת ישראל תהא פתוחה לעליה יהודית ולקיבוץ גלויות

“Lo stato di Israele sarà aperto all’aliyah ebraica e al ritorno dalla diaspora”: questa frase è tra le più note della dichiarazione di indipendenza dello Stato Ebraico. E così fu per ebrei provenienti da tutto il mondo compreso il sottoscritto. 
  La Legge del Ritorno prevede che possa ‘’salire’’ non solo chi è ebreo nel senso rituale del termine, ma anche chi ha semplicemente origine ebraica o abbia fatto una conversione non conforme alla tradizione ebraica codificata nei secoli. La conseguenza di questa diacronia sta portando a una riflessione del nuovo governo, ovvero, se modificare la Legge del Ritorno.
  Israele non è uno stato teocratico, ovvero è uno stato con istituzioni e leggi laiche. In tanti anni che vivo in questo paese ho visto che la sua popolazione ha una chiara identità ebraica; personalmente credo che religiosi o laici, la maggioranza degli israeliani, vorrebbero che lo stato continui ad avere una popolazione con una religione comune (banale scrivere nel rispetto di ogni altra confessione) ovvero quella codificata e tramandata nei secoli, salvo la libera scelta di osservarne e praticarne poca o tanta; gli esempi sono vari da chi arriva con la macchina di Shabat per fare il bar mizva, le coppie che dopo anni di convivenza si sposano sotto la Chuppà, i figli che anche se non religiosi fanno il kadish per i propri genitori, i Templi che si riempiono la sera di Kippur, anche con la partecipazione di chi non ha digiunato, e potrei dilungarmi ancora... 
  Negli ultimi trent’anni stiamo assistendo ad un dato che io ritengo preoccupante, la maggior parte di coloro che richiedono di poter usufruire della Legge del Ritorno non sono ebrei. Andiamo con ordine: 
  l numero degli olim dai paese dell’ex blocco sovietico ebrei è pari a circa al 25%, a ciò si aggiunge la scelta di molti di lasciare il paese quando hanno ottenuto il passaporto israeliano. E ci sono anche coloro che sono di ‘’origine ebraica’’ che hanno solo un nonno o una nonna ebrea.
  Vi è inoltre il tema delle conversioni, mentre i Tribunali Rabbinici Ortodossi agiscono di concerto con il Rabbinato centrale di Israele, quelli Conservative e Reformer hanno un approccio aperto completamente avulso dalla tradizione ebraica; creando un pericoloso sillogismo: “mi sento ebreo, divento ebreo; dunque, posso essere cittadino israeliano”; mi chiedo, e temo, quando una qualche rete di immigrazione clandestina possa sfruttare questa situazione.
  È evidente che questa riflessione possa portare a dei conflitti con parte dell’ebraismo diasporico, specialmente americano, e le pressioni sono già iniziate, con ‘’caldi avvisi’’ alle organizzazioni sionistiche. Io credo che lo stato di Israele non debba cedere ad alcuna pressione, per vari motivi, in primis etici. Sappiamo tenere separati religione e stato, e vogliamo decidere quale sia la nostra religione.  
  Vi è infine un’altra considerazione personale: tranne poche isole felici – e Roma è tra queste – l’ebraismo al di fuori di Israele sta purtroppo collassando, i numeri ci raccontano di intere comunità che stanno scomparendo, molti Templi sono trasformati in musei, congregazioni che non hanno più alcun rapporto con la tradizione ebraica; la ‘’salita’’ in Terra di Israle deve e può diventare anche un momento di riscoperta delle radici e della plurimillenaria tradizione ebraica; sia per coloro ai quali la dittatura comunista ha imposto l’abbandono della fede, sia per quelli che, travolti da inesistenti scorciatoie, sono oggi di ‘’origine ebraica’’. Facciamo sì che il ritorno dalla diaspora sia anche spirituale e non solo fisico.

(Shalom, 10 gennaio 2023)

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Marcello che vestì la camicia nera, per salvarsi la vita

Paolo Salom scrive la storia vissuta da suo padre

di Ester Moscati

Paolo Salom,
Un ebreo in camicia nera,
Solferino editore, pp. 207, 16,00 euro.
Marcello, Mordechai, Marseo: sono i tre nomi e le tre identità di un ragazzo italiano, ebreo, veneto che vive i traumi personali e quelli collettivi di una generazione negli anni del fascismo e della guerra. È il protagonista della storia vera, anche se romanzata in alcuni dettagli, della famiglia Salom. Galeazzo -il padre di Marcello – è un giovane ebreo italiano di origini padovane che per lavoro si trasferisce in Romania; lì incontra una bellissima ragazza di una famiglia ortodossa, Golditza (ma anche Aurina e infine Dorina… i nomi sono importanti in questa vicenda, dove l’identità, per scelta o per forza, muta negli anni), e la sposa. Nascono tre figli: Marcello, Myriam e Paolo e tutta la famiglia vive per i primi anni con i nonni Nathansohn in un contesto ebraico-orientale che subisce un diffuso antisemitismo di popolo.
  Per Galeazzo l’ebraismo è un inutile fardello, si sente italiano e fascista, medita la conversione per liberare (illuso!) se stesso e la famiglia dalla “diversità” e dalla persecuzione religiosa. Ma Golditza, in Romania, forte del sostegno della sua famiglia, riesce a bloccare sul nascere con durezza anche i vaghi accenni del marito a questo progetto. Così Galeazzo decide di riportare la famiglia in Italia. È il 1938. Se nell’Europa dell’Est gli insulti antisemiti erano all’ordine del giorno, per strada, nei villaggi… in Italia la “difesa della razza” diventa una Legge dello Stato.
  È questo il contesto in cui cresce Marcello, in cui matura una rabbia crescente, che alla fine lo porterà alla fuga dalla famiglia e all’ingresso nella milizia fascista delle Camicie Nere. Non è una adesione ideologica, è solo il tentativo di un ragazzino di 15 anni di salvarsi la vita.
La storia si dipana per le strade di un’Italia devastata, in cui si incontrano personaggi che a diverso titolo contribuiranno alla salvezza di Marcello.
  A raccontare la storia di Marcello e della sua famiglia, in questo libro che si legge d’un fiato (Un ebreo in camicia nera, Solferino), è Paolo Salom, firma del Corriere della Sera, a cui è stato dato il nome del fratello minore di suo padre. Perché ha deciso di raccontare una vicenda spinosa e dolorosa (un ebreo “fascista”, anzi due: nonno Galeazzo per convinzione, il padre Marcello per salvarsi; ma anche la conversione al cristianesimo, che provoca una profonda crisi coniugale tra i nonni, e il successivo “ritorno” alla fede dei Padri) ce lo spiega lui stesso. «È una storia che ha atteso tanti anni per essere raccontata. Erano almeno 10 anni che ci pensavo e che provavo ad iniziare a scriverla. Mio padre era mancato da poco e c’era anche una specie di pudore nei suoi confronti. E ho fatto molta fatica negli anni a capire e a sapere, perché mio padre era anche molto reticente a raccontare le vicende di questa guerra. C’era una sensazione di vergogna da parte sua.
  In realtà lui non aveva alcuna colpa, era solo un ragazzino di 15 anni che ha cercato di salvarsi la vita, e non ha mai fatto del male a nessuno. Tutto quello che ho raccontato è esattamente quello che è successo. Si è trattato di incontri fortuiti e di una vicenda che si è sviluppata piano piano. Non si può dare la colpa a un ragazzino, la colpa è di chi ha creato quel contesto, di chi lo ha costretto a fuggire e a nascondersi. Ma in mio padre la vergogna è nata soprattutto ‘dopo’, quando si è saputo che cosa era stata la persecuzione antiebraica, la Shoah e il ruolo delle Camicie Nere. Quindi il fatto di aver indossato, anche se non certo per adesione ideologica ma per un camuffamento, quella divisa, è stato difficile da sopportare. Quando tutto è emerso, allora ha capito di aver fatto qualcosa di inaccettabile e ha cercato di rimuoverlo. Ma sono cose che sono rimaste in famiglia come un peso. Quindi ho deciso di scrivere questa storia una volta per tutte, per raccontare quello che è accaduto. Raccontare apertamente è stato un modo per accettarlo e, infine, per «‘assolvere’ mio padre».

(Bet Magazine Mosaico, 11 gennaio 2023)

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Brasile, Lula uscirà rafforzato. Ora la vera sfida è salvare l’Amazzonia

Si direbbe che il prestigio di cui gode l'autore di questo articolo, comparso ieri su "Repubblica", abbia esentato il direttore del giornale dal verificare in anticipo quello che poi sarebbe apparso in stampa. Il risalto in colore è aggiunto. NsI

di Jeffrey D. Sachs *

BELÉM (BRASILE) - Il Brasile riparte, con l'insediamento del presidente Lula da Silva. I suoi sostenitori in tutto il Paese sono espressione di una nuova speranza per il Brasile dopo quattro anni di governo disastroso sotto il suo predecessore di destra, Jair Bolsonaro, fuggito in Florida alla vigilia dell'insediamento di Lula.
  Bolsonaro si è lasciato alle spalle una massa di facinorosi che hanno preso d'assalto le sedi delle istituzioni prima di venire arrestati in gran numero dalla polizia. È una strategia che non fermerà Lula, né avrà impatto a lungo termine negli Stati Uniti, dove manovre del genere da parte di Donald Trump il 6 gennaio 2021, sono state bloccate. In entrambi i casi, politici demagoghi hanno usato i social media per aizzare la folla, che, in entrambi i casi, è stata sedata in giornata. 
  Il vero problema, a mio avviso, non sono i facinorosi, ma i cambiamenti più profondi che sono fonte di crescenti tensioni in ambito politico ed economico a livello mondiale, cambiamenti che non possono essere fermati da queste masse. La vera sfida che dobbiamo affrontare è comprendere i cambiamenti in atto in modo da poterli gestire per il bene comune. Capire, è questo l'obiettivo dei miei futuri articoli. 
  Il più grande degli sconvolgimenti ha carattere geopolitico. Non viviamo più in un mondo guidato dagli Stati Uniti, e neppure diviso tra gli Stati Uniti e la rivale Cina. Siamo già entrati in un mondo multipolare, in cui ogni regione ha problemi propri e un proprio ruolo nella politica globale. Nessun Paese e nessuna regione possono più determinare, da soli, il destino degli altri. È uno scenario complesso e tumultuoso, in cui nessun Paese, regione o alleanza è in grado di controllare il resto del mondo. 
  Uno dei motivi per cui il ritorno di Lula alla presidenza riveste tanta importanza è che il Brasile sarà un attore chiave a livello regionale e globale nei prossimi anni. Lula lavorerà a stretto contatto con i presidenti progressisti come lui in Cile, Colombia, Argentina e altrove in Sudamerica. Nel 2024 la presidenza del G20 andrà al Brasile nell'ambito di un quadriennio in cui saranno le principali economie emergenti a rivestirla (l'Indonesia nel 2022, l'India nel 2023 e il Sudafrica nel 2025). 
  La gestione di un mondo multipolare è irta di difficoltà. Abbiamo urgente bisogno di intensificare il dialogo con gli altri Paesi e di andare oltre la propaganda semplicistica dei nostri governi. Qui in Occidente siamo bombardati quotidianamente da narrazioni ufficiali ridicole, per lo più provenienti da Washington: la Russia è il male puro, la Cina è la più grande minaccia per il mondo e solo la Nato può salvarci. Queste dabbenaggini, imbastite all'infinito dal Dipartimento di Stato americano, sono di grande ostacolo alla soluzione dei problemi globali. Ci intrappolano in mentalità sbagliate e persino in guerre che non avrebbero mai dovuto verificarsi e che devono essere fermate con i negoziati piuttosto che con l'escalation. 
  Quando accetteremo la realtà di un mondo multipolare, saremo finalmente in grado di risolvere i problemi che finora ci sono sfuggiti. In primo luogo, capiremo che le alleanze militari come la Nato non danno risposta alle vere sfide che dobbiamo affrontare. Le alleanze militari sono infatti un pericoloso anacronismo, non una vera fonte di sicurezza nazionale o regionale. Dopo tutto, è stato il tentativo degli Stati Uniti di espandere la Nato alla Georgia e all'Ucraina a scatenare le guerre in Georgia (nel 2010) e in Ucraina (dal 2014 a oggi). Né il bombardamento di Belgrado da parte della Nato nel 1999, né i quindici anni di missione fallita in Afghanistan, né il bombardamento della Libia nel 2011 hanno centrato reali obiettivi. 
  Neppure la Cina è una grave minaccia come viene dipinta oggi in Occidente. Gli Stati Uniti cercano di dare a intendere che viviamo ancora in un mondo guidato dagli Usa e che la Cina è un pericoloso contendente da bloccare. Ma la realtà è diversa. La Cina è un'antica civiltà di 1,4 miliardi di persone (quasi un individuo su cinque nel mondo è cinese) che punta a sua volta ad alti standard di vita e all'eccellenza tecnologica. Non risolveremo i nostri problemi globali tentando invano di "contenere" la Cina, ma attraverso il commercio, la cooperazione e, sì, anche la concorrenza economica con quel Paese. 
  Altre grandi sfide globali ci attendono in altri campi: i gravi rischi di catastrofe ambientale, le crescenti disuguaglianze nelle nostre società e l'incalzare di nuove tecnologie in grado di sconvolgere il mondo se non adeguatamente sfruttate e controllate. 
  Il Brasile è l'epicentro della sfida ambientale. È possibile salvare l'Amazzonia, che costituisce la metà delle foreste pluviali del mondo? Lula è salito al potere promettendo di fare proprio questo. Ha conquistato i voti degli Stati amazzonici del Brasile. A livello globale, l'Europa è all'avanguardia in campo ambientale con il Green Deal europeo. La principale opportunità geopolitica che ha l'Europa è di incoraggiare altre regioni, tra cui l'Unione Africana, la Cina e l'India, ad adottare proprie coraggiose iniziative per la neutralità climatica. Questo compito è molto più importante per l'Europa dell'espansione della Nato, della guerra infinita in Ucraina o del confronto con la Cina. 
  Il Brasile è anche un epicentro della disuguaglianza, registrandone uno dei livelli più alti al mondo. Tale disuguaglianza è frutto dell'imperialismo europeo, che ha soppresso le popolazioni indigene e ridotto in schiavitù milioni di africani. I loro discendenti continuano a pagarne il prezzo. La giustizia sociale è la missione di Lula e la nostra missione globale, dopo secoli di ingiustizia razziale e sociale. 
  Il Brasile può essere epicentro di nuove tecnologie, ad esempio un Paese leader nella nuova bioeconomia in cui le meraviglie della biodiversità dell'Amazzonia e del territorio brasiliano non vengano distrutte per aumentare gli allevamenti di bestiame, ma utilizzate per produrre nuovi farmaci salvavita, alimenti ricchi di proprietà nutritive (come l'açaí, ora in pieno boom mondiale) o biocarburanti avanzati per l'aviazione "verde". 
Il cambiamento tecnologico è forse il motore più potente del cambiamento globale. Abbiamo bisogno delle nuove tecnologie per affrontare le crisi del cambiamento climatico e della fame nel mondo.
  Tuttavia, le nuove tecnologie digitali producono effetti negativi se utilizzate in modo improprio, come nel caso della mobilitazione delle masse di facinorosi o dei droni killer in Ucraina. Il virus all'origine del Covid-19 potrebbe essere stato frutto di biotecnologie avanzate (ancora non lo sappiamo). Ogni giorno ci confrontiamo con gli sconvolgimenti e le disuguaglianze causati dall'intelligenza artificiale, dalla robotica e dalle rapide mutazioni del mercato del lavoro. 
  Assistiamo a una sorprendente convergenza di cambiamenti, sconvolgimenti e pericoli globali. Le soluzioni risiedono nella comprensione, nella cooperazione e nella risoluzione dei problemi. Capire meglio la Nuova economia mondiale sarà l'obiettivo di questa rubrica nei prossimi mesi.

(la Repubblica, 10 gennaio 2023)

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L’abiura di “Repubblica” sulla guerra ucraina

Il prestigioso economista Sachs debutta sul quotidiano e critica Alleanza atlantica, Usa e guerra a Mosca, auspicando negoziati. Sono posizioni opposte alla linea del giornale, che si rifugia in un titolo sull'Amazzonia.

di Francesco Bonazzi 

Livello altissimo, per carità. Mettete in un solo articolo la deforestazione in Amazzonia, il bene comune (mondiale), il mondo multipolare, i rischi di catastrofe ambientale e la «neutralità climatica», le diseguaglianze (crescenti, ovvio), la fame nel mondo, «l'imperialismo europeo», la giustizia sociale, la rivoluzione tecnologica, la robotica e l'intelligenza artificiale. Vi viene un po' lungo e fumoso? Non c'è da preoccuparsi. Mica tutti sono come l'economista americano Jeffrey Sachs, che ieri ha messo tutto questo ben di Dio del pensiero liberal, globale e multilaterale in una pagina per il quotidiano La Repubblica e gli è pure avanzato dello spazio. Già, perché la vera notizia di questo suo esordio da collaboratore del giornale della famiglia Agnelli Elkann è che Sachs ha infilato nel suo pezzo un'incredibile tirata contro il Dipartimento di Stato Usa, contro la Nato, contro la guerra in Ucraina e ha pure invitato a migliori scambi con la Cina. Il risultato è che uno dei quotidiani che più si è infilato l'elmetto dopo l'invasione del 24 febbraio scorso ha cucinato l'indigesto polpettone dell'economista illuminato facendo sparire dalla titolazione qualunque riferimento alle sparate in stile Manifesto. E ha titolato così: «La vera sfida è sull'Amazzonia» . 
  La vera sfida è come gestire un collaboratore d'eccezione che fa uno scherzo del genere. Per il direttore Maurizio Molinari, poi, sincero atlantista, è proprio una cattiveria. Sachs aveva cominciato con una sua lettura dei fatti brasiliani e l'auspicio che Lula dia «una nuova speranza, dopo quattro anni di governo disastroso». E pienamente in linea con il suo nuovo giornale aveva usato la categoria dei «politici demagoghi» per attaccare Donald Trump e Jair Bolsonaro: «Entrambi hanno usato i social media per aizzare la folla, che in entrambi i casi è stata sedata in giornata». Sedati gli oppositori, l'economista di Harvard e Columbia ne approfitta subito per suggerire che «non viviamo più in un mondo guidato dagli Stati Uniti, e neppure diviso tra gli Stati Uniti e la rivale Cina. Siamo già entrati in un mondo multipolare». Va bene, noi che viviamo in Italia e in un'Unione europea poco multipolare siamo decisamente sollevati di fronte al nuovo scenario. 
  Ben prima che il lettore possa chiedersi dove ha già letto questi concetti, però, Sachs molla il Brasile e l'India e si regala un'autentica scorribanda sulla guerra in Ucraina. Comincia con i compatrioti: «Qui in Occidente siamo bombardati quotidianamente da narrazioni ufficiali ridicole, per lo più provenienti da Washington: la Russia è il male puro, la Cina è la più grande minaccia per il mondo e solo la Nato può salvarci». «Queste dabbenaggini», continua, «imbastite all'infinito dal Dipartimento di Stato americano, sono di grande ostacolo alla soluzione dei problemi globali». Sachs osserva che siamo intrappolati «in guerre che non avrebbero mai dovuto verificarsi e che devono essere fermate con i negoziati, piuttosto che con l'escalation». Per inciso, questo giornale ha scritto più volte che la guerra in Ucraina andrebbe risolta con dei negoziati di pace dove ognuno, per definizione, rinuncia a qualcosa. 
  Le critiche dell'economista chiamato nel 2021 da papa Bergoglio a sedere nella Pontificia Accademia delle scienze sociali sono anche per la Nato, che sulle colonne di Repubblica è solitamente il Bene assoluto. Sachs la manderebbe volentieri in soffitta: «Le alleanze militari come la Nato non danno risposta alle vere sfide che dobbiamo affrontare (... ) Sono un pericoloso anacronismo, non una vera fonte di sicurezza nazionale o regionale». E impietosamente ricorda le decisioni di estendere la Nato alla Georgia e all'Ucraina come mosse che avrebbero portato allo scontro con la Russia. Tutte queste critiche alla guerra in Ucraina, alla Nato e al Dipartimento di Stato Usa, almeno in Italia, ce le si aspetterebbe di vederle solo su un foglio comunista o, magari un po' più velate, su Avvenire, il giornale dei vescovi. Invece ieri sono comparse a pagina quattro di un giornale che fino a ieri ha custodito l'ortodossia interventista e la narrazione di Vladimir Putin come Male assoluto. 
  Per mesi, sul quotidiano diretto da Molinari, sono comparsi articoli riccamente illustrati con la descrizione quasi compiaciuta degli armamenti usati in Ucraina. Per mesi, qualunque politico od opinionista si fosse distaccato dalla linea della Nato è stato coperto dal silenzio, o attaccato come un nemico dell'Occidente. Adesso arriva il compagno economista Sachs e in un colpo solo apre una nuova pagina. 
  Forse. Una pagina anche piena di critiche al paradigma americano, laddove Sachs invita anche tutti quanti a dialogare con la Cina, che «è un'antica civiltà di 1,4 miliardi di persone, che punta a sua volta ad alti standard di vita e all'eccellenza tecnologica». Sull'eccellenza democratica, per questa volta, neppure una parola. 
  E a proposito di Cina, Sachs sembra saperla lunga: «Il virus all'origine del Covid 19 potrebbe essere stato frutto di biotecnologie avanzate (ancora non lo sappiamo)». Biotecnologie di chi? Di Bolsonaro, Trump o del Dipartimento di Stato Usa? Alla fine, con tutte le parole in libertà che Sachs ha consegnato a Repubblica, finalmente si è capito a che serve la foresta amazzonica: a coprirle tutte quante. 

(La Verità, 11 gennaio 2023)
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Le «dabbenaggini, imbastite all’infinito dal Dipartimento di Stato americano» sono quelle che i nostri giornaloni ci fanno bere ogni giorno a grandi dosi. E a molti piacciono. Le critiche di Jeffrey D. Sachs sembrano comunque spingere verso un globalismo ecologico planetario. E il riferimento a una "Nuova economia mondiale" non è molto rassicurante. M.C.

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Liao Yiwu. La verità sul “virus di Wuhan”

L’autore dichiarato dal regime cinese “nemico del popolo” spiega perché ha deciso di indagare sui misteri del Covid. E su come Pechino abbia usato la pandemia per realizzare il più avanzato sistema di sorveglianza della storia.

di Leone Grotti

La pandemia è stata sfruttata dal regime comunista per realizzare in Cina un esperimento tanto crudele quanto inedito: imporre a 1,4 miliardi di persone «il più avanzato sistema di monitoraggio della storia dell’umanità». Più che di Covid-19 bisognerebbe dunque parlare di Covid-1984, con la differenza che il progetto attuato «dall’impero di Xi Jinping supera la fantasia di George Orwell». E oggi che dopo tre anni di tamponi obbligatori e lockdown di massa il governo di Pechino, incalzato dalle proteste di piazza, sembra aver fatto bruscamente marcia indietro rinnegando la strategia“zero Covid” e lasciando la popolazione alla mercé del virus, l’unico peccato capitale sarebbe l’oblio.
  Non si possono scordare i dubbi e le domande sull’origine del nuovo coronavirus, né la modalità, violenta e repressiva, con cui il Partito comunista ha trasformato la Cina in un grande carcere a cielo aperto con la scusa di preservare la salute della gente. E neanche si possono dimenticare i nomi dei tanti cinesi coraggiosi, fatti sparire dal regime, che cercarono di capire da dove provenisse il virus e di avvertire la Cina e il mondo del pericolo che correvano.
  È per queste e per molte altre ragioni che Liao Yiwu, scrittore e poeta dissidente, ha scritto Wuhan. Il romanzo documentario (Guerini e associati), lettura imprescindibile per comprendere in che cosa consiste davvero il “modello cinese”. L’opera, per importanza, ricalca quella di Massacro, il poema che l’autore compose per commemorare le vittime della strage di Piazza Tienanmen e che gli valse l’arresto e quattro anni di torture in carcere. Dall’esilio in Germania, dove vive dopo essere fuggito dalla Cina nel 2011, Liao ha risposto alle domande di Tempi.

- Attraverso l’odissea del protagonista Ai Ding, che parte da Berlino per raggiungere la sua famiglia a Wuhan, sfidando restrizioni e lockdown, lei racconta la brutalità delle misure sanitarie imposte alla popolazione cinese dal regime. Allo stesso tempo, indaga scientificamente l’origine del Covid-19, rivelando informazioni poco note al pubblico occidentale. Perché ha deciso di scrivere Wuhan?
  Il 23 gennaio 2020, le autorità del Partito comunista hanno imposto il lockdown alla città di Wuhan. Allora rimasi senza parole e percepii subito che era come se fosse scoppiata una guerra. Ogni quartiere, ogni strada, ogni incrocio, ogni ponte, la riva del fiume, le stazioni e anche il porto sono finiti sotto il controllo dell’esercito. Solo le ambulanze con le loro sirene e i veicoli delle pompe funebri erano autorizzati a circolare. L’aria era pervasa da qualcosa di velenoso, voci e notizie delle vittime si alternavano su internet. Plotoni di soldati ben equipaggiati con tute anticontaminazione blu o bianche, come automi spaziali senza volto, si occupavano di far rispettare l’isolamento e la quarantena. Pochi privilegiati indossavano maschere antigas speciali o altri dispositivi di protezione per il volto, mentre la maggior parte delle persone acquistava freneticamente cibo e beni di prima necessità, soprattutto mascherine, ore o minuti prima che tutti i supermercati e i negozi venissero chiusi. A causa della mancanza di mascherine, tutti usavano salviettine, pannolini di carta, bucce di pomelo, bottiglie di plastica e molto altro al posto delle mascherine. Da quel giorno, come d’impulso, ho lavorato tutte le notti scaricando freneticamente centinaia di migliaia di informazioni.

- Che genere di informazioni?
  Le mie fonti sono state l’Istituto di virologia di Wuhan, l’Accademia cinese delle scienze, i principali siti di informazione cinesi, quelli locali, Weibo, Wechat, blog, compresi Twitter e i media indipendenti. I contenuti che ho raccolto sono dei più vari: le forme passate del coronavirus; la modalità con cui questo “virus dei pipistrelli” ha infettato la città, l’intero paese e poi tutto il mondo; gli ospedali sovraffollati; i crematori attivi giorno e notte 24 ore su 24; i cittadini di Wuhan scappati dalla città che venivano arrestati dappertutto; la guerra di opinioni tra gli esperti sull’origine del morbo; le discussioni e gli insulti tra la gente comune e ancora le morti improvvise, i suicidi, la gente che si gettava dalla finestra, che fuggiva, le strade bloccate…

- La censura del regime è famigerata per la capacità di bloccare la fuoriuscita dal paese e sul web di qualsiasi notizia scomoda. Che cosa non ha funzionato questa volta?
  Bisogna provare a immaginare decine di milioni di persone in tutta la Cina imprigionate in casa loro, terrorizzate e bloccate dal panico e dalla paura, che si sono riversate su internet facendo a gara per raccontare, pubblicare foto e video. La polizia cibernetica cinese è più che decuplicata in quel periodo, eppure esausta non riusciva a stare dietro a tutti i “contenuti proibiti” e al crescente oceano di “voci” da censurare. Nessuno osava andare ad arrestare la gente. Per circa 20 giorni, il sistema di monitoraggio e censura più avanzato al mondo è finito fuori controllo fino a quando, un giorno, il mio computer è stato attaccato dagli hacker e il mio schermo è diventato nero e il mio pc si è paralizzato. Fortunatamente avevo salvato tutti i dati su un hard disk esterno.

- Il suo romanzo inizia da una storia vera: l’arresto in live streaming di Li Zehua, in arte Kcriss, ex conduttore della televisione di Stato cinese che pubblicò numerosi video da Wuhan durante il lockdown.
  Le prime cose che ho scritto, e che sono state pubblicate sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, le ho fatte su di lui. Subito dopo, sono passato dal prendere nota dei video di Kcriss a creare il personaggio principale del romanzo, Ai Ding, e ho scritto una elegia dedicata a tutte le persone che sono scomparse a Wuhan. Kcriss, Ai Ding, Zhang Wenfang, Zhang Zhan, Fang Bin, Chen Qiushi, Wang Zang, la moglie di Ai Ding… tutti i personaggi reali o inventati di questo libro finiscono per essere arrestati. E quelli che non vengono arrestati, muoiono per il virus o aspettano di morire in prigione. E tutto per aver solo cercato di capire, sotto la minaccia del Covid-19, da dove questo virus fosse uscito fuori.

- Nella nota introduttiva del libro, lei spiega che “Covid-19” è un termine politico e che bisognerebbe parlare di “virus di Wuhan”. Perché?
  Perché Covid-19 non indica il luogo di origine del virus o dove il virus è stato scoperto per la prima volta. È il risultato di un compromesso da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità con una ideologia autoritaria. Ma quello che è davvero incredibile è che secondo le statistiche dell’Oms, nei due anni dall’1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2021, il virus di Wuhan ha fatto all’incirca 14,9 milioni di morti. L’84 per cento delle morti in eccesso è concentrato nell’Asia sudorientale, in Europa e nelle Americhe. Circa il 68 per cento delle morti in eccesso è concentrata in soli 10 paesi e gli Stati Uniti sfortunatamente sono tra i primi in questa classifica. In questo rapporto pubblicato in moltissime lingue e citato dai media di ogni paese come il “rapporto degli esperti”, non si trovano dati sui morti in Cina. Ancora più difficile è stato per me, in questo romanzo documentario, rintracciare l’origine di quei morti.

- Crede che il virus sia davvero fuoriuscito dal laboratorio P4 di Wuhan, dove venivano studiati i coronavirus derivati da pipistrelli?
  Sì, come tante altre persone credo che quella sia la sua origine, ma come ha fatto a fuoriuscire? Nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai. Il laboratorio è come il castello del romanzo di Franz Kafka: nessuno può entrare, eppure tutti sanno che le cause di tutto ciò che avviene fuori si trovano lì dentro. Ma i “rompiscatole” che hanno provato ad avvicinarsi e ad entrare nel “castello P4” assomigliano al personaggio K. di Kafka: sono scomparse e non appariranno mai più. La verità affonderà nel mare sotto il controllo dell’impero di Xi Jinping.

- Molti in Italia pensano che la Cina non abbia adottato strategie così diverse dagli altri paesi europei per contrastare il Covid. Che cosa ne pensa?
  Sono passati già tre anni dal lockdown di Wuhan e le parole principali a cui è ancora legata la Cina nelle ricerche su internet sono: lockdown, zero Covid, tamponi, quarantena, codice sanitario, notifiche pop up, bollettino, sorveglianza, avviso, censura, controllo, detenzione, scomparso… In Europa le ricerche popolari sono altre, mi sembra.

- Il Partito comunista sembra aver finalmente abbandonato la politica “zero Covid”. In Wuhan lei racconta nel dettaglio i soprusi e le sofferenze ai quali è stata sottoposta la popolazione cinese. La strategia è stata davvero ideata per proteggere la salute dei cinesi o il regime aveva altri scopi?
  Questa domanda è molto complessa e per rispondere bisogna guardare nel suo insieme alla strada intrapresa dal Partito comunista, che può essere divisa in quattro tappe. Prima che nel luglio del 2011 scappassi dalla Cina, le autorità del Partito comunista si stavano già attrezzando per costruire il più avanzato sistema di monitoraggio della storia dell’umanità. Allora veniva chiamato progetto “Rete del cielo”. Poi hanno condotto il primissimo “beta test”, cioè il tentativo di unire il sistema di sorveglianza alla vita quotidiana delle persone sulle piattaforme online. Questa è stata la prima tappa. Nella seconda hanno testato il sistema di monitoraggio, che ha ricevuto ingenti investimenti da aziende tecnologiche occidentali, nel Xinjiang. Con la scusa di tenere a bada i terroristi “indipendentisti”, accusati di dividere il paese, hanno monitorato le persone residenti in una vasta area di oltre 1,6 milioni di chilometri quadrati e più di 12 milioni di uiguri sono stati sottoposti al “test allargato” dei campi di concentramento in stile gulag.

- Qual è stata la tappa successiva?
  Dopo il successo del test dei “campi di rieducazione”, il Partito comunista ha pensato di estendere progressivamente a tutta la Cina l’esperienza del Xinjiang attraverso il lockdown, a partire da quello di Wuhan. È usando la prevenzione del virus come scusa, attraverso l’imposizione dei tamponi all’intera popolazione come previsto dalla strategia “zero Covid”, che alla fine l’esperienza del Xinjiang è diventata la legge sopra ogni legge a cui tutti i cinesi hanno dovuto obbedire. E così si è arrivati all’atto finale.

- A che cosa si riferisce?
  L’impero di Xi Jinping, che supera anche la fantasia di George Orwell in 1984, ha sviluppato e imposto nella quarta tappa il “codice sanitario” a tutti i cittadini. Chiunque, quando prende un mezzo di trasporto, esce o entra da ogni luogo, deve ripetutamente mostrare il codice sanitario. Se è verde, significa che sei un cittadino obbediente e ti sei sottoposto al test Covid giornaliero. Se è rosso o giallo, sei un potenziale rivoltoso che resiste alla prevenzione epidemica. La polizia ha quindi il diritto di arrestarti e isolarti a tempo indefinito, come avvenuto a Shanghai e a Chengdu nel 2022. E come durante il lockdown di Wuhan, tutte le azioni dei “giornalisti non riconosciuti dal governo” sono state azzerate come il Covid.

- Ai Ding sembra un eroe omerico: simboleggia le sofferenze di tutti i cinesi, comprese le sue personali?
  Il protagonista di Wuhan non vuole essere un eroe. Torna in aereo in Cina da Berlino per celebrare la Festa di primavera ma non può tornare a casa perché abita a Wuhan, perché vuole sapere che cosa si nasconde dietro la pandemia e mentre cerca di interrogarsi sull’origine del virus parlando su internet con un amico, viene insultato, messo in quarantena, intercettato, picchiato, portato via e infine arrestato per scomparire nel nulla. La sua storia ricorda quella degli ebrei, che prima della fine della Seconda Guerra mondiale furono fatti sparire dai loro paesi.

- Dopo tre anni i cinesi hanno inscenato una protesta senza precedenti per manifestare contro la strategia “zero Covid” e hanno ottenuto qualche successo. Che significato hanno queste manifestazioni?
  Al XX Congresso del Partito comunista cinese Xi Jinping si è fatto rieleggere per un terzo mandato, proprio come Yuan Shikai alla fine dell’impero Qing, che nei primi anni della Repubblica si autoproclamò imperatore. Alla vigilia del Congresso, un uomo coraggioso di nome Peng Zaizhou, che viene dalla stessa città di Mao Zedong, ha appeso questo striscione nella zona di grande traffico sul ponte Sitong a Pechino: «Non vogliamo fare test per il Covid, vogliamo mangiare. Non vogliamo essere controllati, vogliamo la libertà. Non vogliamo bugie, vogliamo dignità. Non vogliamo la Rivoluzione culturale, vogliamo riforme. Non vogliamo un leader, vogliamo votare. Non siamo schiavi, siamo cittadini. Boicottate le elezioni, scioperate, rimuovete il dittatore traditore Xi Jinping». In qualsiasi paese, sia esso una democrazia o una dittatura, il pensiero, la dignità e il sublime spirito della ricerca della verità della gente non possono essere azzerati. «L’uomo valoroso può essere ucciso ma non umiliato» è uno dei grandi insegnamenti dei nostri antenati trasmesso fino ad oggi. Le proteste dimostrano che il Partito comunista non può “azzerare” il mondo intero. Per quanto mi riguarda, non possono neanche più farmi ciò che mi fecero 30 anni fa, quando per la poesia Massacro mi misero in prigione e cercarono di implementare la loro politica di azzeramento torturandomi. Anche se sognano di applicare il loro “codice sanitario comunista” in tutto il mondo; anche se riescono a occupare un angolo del porto di Amburgo nel nome del business, io e molti occidentali amanti della libertà (inclusi gli ucraini) siamo “usciti dal lockdown”.

- Che conseguenze avrà la rielezione di Xi Jinping per la Cina e il mondo intero?
  A maggio avevo predetto che Xi Jinping al Congresso si sarebbe dimesso, perché il lockdown di Shanghai da lui voluto aveva inferto un colpo fatale all’economia cinese, e che il regime comunista sarebbe entrato in crisi per colpa della propria stupidità. Xi inoltre ha scelto di sostenere e incoraggiare l’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, isolando Cina e Russia e rovinando l’immagine internazionale dei due paesi.

- Non è andata così.
  No, mi sbagliavo. Xi è stato rieletto e come lo zar Putin non mollerà mai il potere. Il Partito comunista però sta affrontando un grande momento di crisi e non potrà fare a meno di crollare in futuro. L’abisso è su di loro. Dopo la fine del regime fortemente centralizzato di Mao Zedong, Deng Xiaoping si sforzò di salvare la dittatura comunista e di riguadagnare legittimità, ma il suo tentativo si infranse quando ordinò il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989. Tutti i pesi e contrappesi introdotti per limitare il potere supremo di una sola persona ora sono stati sbriciolati.

- Che cosa può accadere?
  La storia lo ha dimostrato più volte: solo nell’oscurità più estrema si intravvede la luce.

(Tempi, gennaio 2023)

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La morte di Adolfo Kaminsky, falsario per giusta causa

Il più grande creatore di documenti contraffatti del Novecento se ne è andato a 97 anni. Figlio di ebrei russi, parigino d'adozione, fu un eroe della Resistenza.

di Anais Ginori

Il falsario Adolfo Kaminsky in uno scatto del 2012 nella sua casa di Parigi: è scomparso il 9 gennaio a 97 anni
PARIGI - La sua vita non è ancora diventata un film o una serie tv ma prima o poi qualcuno ci penserà. Intanto si può rileggere il libro di Adolfo Kaminsky, Una vita da falsario, pubblicato in italiano da Angelo Colla editore nel 2011, per ripercorrere l'eroismo del fotografo che partecipò alla Resistenza francese, morto ieri all'età di 97 anni. È stata la figlia, Sarah Kaminsky, che alla straordinaria e avventurosa vita del padre aveva dedicato una biografia, a dare l'annuncio della scomparsa di uno dei più grandi esperti nella falsificazione dei documenti di identità del Novecento.
  Figlio di ebrei russi emigrati in Argentina, Kaminsky seguì la sua famiglia a Parigi nel 1932, dove suo padre lavorava in una tintoria. "Ho imparato con lui le tecniche per smacchiare i vestiti, scoprendo di avere un certo talento per la chimica" ricordava. Arrestato con la famiglia dai nazisti il 22 ottobre 1943 e condotto nel carcere di Caen, fu poi trasferito nel campo di internamento di Drancy, vicino a Parigi, da cui partivano i treni per Auschwitz.
  Rilasciato nel gennaio 1944 grazie all'intervento del consolato argentino, entrò in contatto con i partigiani della Resistenza francese. Un responsabile della rete clandestina ebraica gli chiese: "Sai togliere le macchie d'inchiostro?". Rispose di sì. L'uomo aggiunse: "E le macchie indelebili?". Niente è indelebile, azzardò il giovane che stava per compiere diciotto anni. Fu così che Kaminsky venne reclutato nel laboratorio clandestino della rue des Saint-Pères, nel quartiere latino.
  Con lo pseudonimo di Julien Keller, divenne l'esperto più noto per recuperare documenti falsi nella capitale. "Facevo tutto in modo artigianale. Avevo fabbricato un macchinario per stampare i falsi passaporti, sono riuscito a costruire una centrifuga con una ruota di bicicletta. Lavoravo spesso a casa e per giustificare con i vicini l'odore forte dei prodotti chimici raccontavo a tutti di essere pittore". Soprannominato durante la seconda guerra mondiale "il falsario di Parigi", i suoi instancabili sforzi per falsificare certificati di matrimonio, di battesimo, tessere alimentari, consentirono a innumerevoli ebrei di sfuggire ai rastrellamenti. Non ha mai fatto un calcolo preciso di quante vite ha salvato. "Nei periodi più duri - raccontava - ho fabbricato fino a trenta nuove identità ogni ora. Sapevo che un piccolo errore poteva essere fatale. A volte, mi davo schiaffi in faccia per non dormire. Sapevo che la mia era una corsa contro il tempo, o forse sarebbe più giusto dire contro la morte".
  Nonostante il suo coraggio, riconosciuto solo in tempi recenti, continuava a portarsi dentro il senso di colpa di non aver fatto abbastanza. "Una sera - ricordava a proposito della sua attività durante l'Occupazione - sono andato a trovare una vedova che viveva in rue Oberkampf per portarle dei nuovi documenti ma lei li ha rifiutati. Mi ha risposto che era francese, non aveva nulla da rimproverarsi. Ho provato in ogni modo a convincerla. Per mandarmi via ha persino minacciato di avvertire la polizia. Qualche giorno dopo ho saputo che era stata trasferita a Drancy". Del campo da dove transitavano gli ebrei francesi prima di essere deportati Kaminsky aveva conservato immagini che popolavano i suoi incubi. "Come quella donna di 104 anni portata in barella per andare a "lavorare", così dicevano allora, in Germania. Un altro ricordo è quello di una coppia di anziani. La moglie era in lacrime accanto al marito che era stato completamente rasato. Era un modo per togliergli la sua dignità. È in memoria di quell'uomo che porto la barba lunga".
  Il laboratorio parigino di Adolfo Kaminsky ha continuato a funzionare anche nel dopoguerra. Bussavano combattenti anticolonialisti, oppositori contro le dittature, gruppi politici di vario tipo. "Falsario per il bene altrui", diceva sorridendo il diretto interessato, considerandosi semplicemente "al servizio della libertà". Molti dei suoi amici sono emigrati in Palestina per la creazione dello stato di Israele. Lui decise di non andare. "Ho esitato a lungo, ma anche se sono ebreo non sono mai stato sionista". Dalla Ville Lumière ha continuato a regalare false identità per disertori americani che volevano scappare dal Vietnam, vittime delle dittature in America Latina, oppositori dei regimi di Franco, Salazar o dei colonnelli in Grecia. "Durante un viaggio in Algeria sono rimasto scioccato dalla discriminazione nei confronti di quelli che allora venivano chiamati "musulmani dell'Algeria". E così ho aiutato gli indipendentisti del Fln". Con l'Algeria aveva un rapporto particolare, era il paese dove aveva conosciuto sua moglie Leïla, la madre di Sarah.
  "Quando durante gli anni Settanta sono stato contattato da alcuni gruppi di estrema sinistra che praticavano la lotta armata, ho rifiutato". Aveva incontrato anche l'editore Giangiacomo Feltrinelli. "Ho collaborato anche con lui ma poi le nostre strade si sono separate" aveva raccontato tre anni fa quando ci aveva ricevuto nella sua casa parigina dove fino a qualche tempo fa conservava una camera oscura. Osservava con una punta di amarezza il mondo contemporaneo: "Oggi chiunque s'improvvisa falsario, il mondo è pieno di fake, ma molti lo fanno solo per soldi". Anche se non praticava più l'attività di falsario dagli anni Settanta, s'immaginava di regalare documenti ai sans papiers. "C'è anche questo clima di odio che torna" commentava. "Il mondo sembra impazzito. Io ormai sono vecchio, ma ci sarebbe ancora tanto da fare". Pur avendo aderito a cause in apparenza contraddittorie, è rimasto fedele alle sue convinzioni umanitarie, alla sua aspirazione a costruire un mondo di giustizia e di libertà, come ha spiegato la figlia Sarah nel libro. Kaminsky ha sempre rifiutato di farsi pagare per falsificare o documenti, guadagnandosi da vivere come fotografo. Molti dei suoi scatti nelle strade della Ville Lumière erano stati esposti nel 2019 al Museo d'arte e di storia del giudaismo del Marais. "Ho vissuto a lungo nascosto, andare a caccia di volti e paesaggi è stato un modo di sentirmi meno solo".

(la Repubblica, 11 gennaio 2023)

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Israele addestra mucche per spiare i palestinesi: la folle ‘rivelazione’ del giornale dell’AP

di Sofia Tranchina

In Cisgiordania un abitante palestinese del villaggio Khirbet Yanun ha raccontato al quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese, Al-Hayat Al-Jadida, che Israele addestrerebbe il bestiame a spiare i palestinesi.
  Rushd Morrar, definito come l’anziano del villaggio, avrebbe – secondo quanto raccontato dal Jerusalem Post – incontrato delle mucche di allevatori israeliani nel suo terreno e avrebbe dunque «inventato una storia» su come Israele, segretamente, addestri il bestiame per spiarli.
  Nonostante l’originalità della notizia, l’intervista è stata ripresa da diversi media, tra cui il Palestine Media Watch, che traduce le affermazioni di Morrar: «Questi sono bovini reclutati e addestrati. Sul collo di ogni mucca appendono un medaglione con un dispositivo di intercettazione e registrazione e talvolta telecamere, al fine di monitorare ogni dettaglio a Khirbet Yanun, grande o piccolo».
  Morrar prosegue poi a raccontare come gli israeliani «rilascino mandrie di cinghiali» per distruggere i raccolti palestinesi.
  Si ricorda che già in passato erano state mosse accuse contro Israele di utilizzare animali contro la popolazione araba: secondo quanto riportato, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità palestinese Wafa nel luglio del 2008 raccontava che Israele avrebbe rilasciato un tipo di “super topo” immune al veleno a Gerusalemme: «I topi sono diventati un’arma israeliana per spostare ed espellere i residenti arabi della Città Vecchia di Gerusalemme occupata» con l’obbiettivo di «aumentare la sofferenza degli arabi».
  Il portavoce del comune di Gerusalemme Gidi Schmerling aveva al tempo risposto affermando che il rapporto, redatto dal Dr Khattar, era pura finzione e non aveva alcun collegamento con la realtà. D’altronde, come notato dall’agenzia di notizie israeliana Omedia, il rapporto mancava di spiegare come i suddetti ratti sarebbero stati addestrati da Israele a distinguere tra le case degli ebrei e le case degli arabi a Gerusalemme. 

(Bet Magazine Mosaico, 10 gennaio 2023)

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Nasce un partito ebreo e arabo: «Per un Israele di tutti i suoi cittadini»

di Michele Giorgio

Sami Abu Shahadeh ci accoglie al Cafè Paul, una storica caffetteria di Giaffa dove il leader del partito arabo Balad/Tajammo rilascia interviste e spesso discute di politica con amici e conoscenti. Abu Shahadeh non è più un deputato. La sua formazione politica, nazionalista di sinistra, parte fino alla scorsa estate della Lista unita araba, alle elezioni del primo novembre, ha ottenuto 140mila voti, un buon risultato ma non sufficiente per superare la soglia di sbarramento ed entrare nella Knesset. Una sorte toccata anche al Meretz, storico partito della sinistra sionista. «Non mi pento della scelta di correre da soli», esordisce Abu Shahadeh. Ora la Knesset è dominata dalla destra in tutte le sue espressioni laiche e religiose e da essa a fine dicembre è nato il governo estremista guidato da Benyamin Netanyahu. «In questo clima – aggiunge il leader di Balad – in cui forze fanatiche minacciano la democrazia e i diritti delle minoranze a cominciare da quella araba, il dialogo tra gruppi, organizzazioni e formazioni politiche di sinistra è utile e va favorito il più possibile».
  Con questo spirito Abu Shahadeh ha accolto l’invito a partecipare, in qualità quasi di ospite principale, al primo incontro pubblico del partito ebraico-arabo «Di tutti i suoi cittadini», nato da poche settimane, che nei giorni scorsi ha riunito nell’Abraham Hostel di Tel Aviv circa 250 persone di varie ramificazioni della sinistra sionista e antisionista, incluso il Meretz. A presiedere il nuovo partito sono l’ebreo Avraham Burg, ex speaker laburista della Knesset che anni fa ha annunciato di non essere più sionista, e l’arabo (palestinese) Faisal Azaiza, preside della facoltà di previdenza sociale dell’università di Haifa. L’attore protagonista comunque è Burg che da tempo cercava senza successo di fondare una formazione politica. L’ascesa al potere del governo più a destra della storia di Israele, con evidenti venature razziste e antidemocratiche, la scomparsa quasi totale della sinistra in Parlamento e l’appetito per nuove idee unito al desiderio di colmare le divisioni, hanno finito per creare interesse intorno al suo progetto. Ispirati dal nome del partito di Burg e Azaiza, sul palco allestito all’Abraham Hostel esponenti della società civile, attivisti locali, intellettuali, accademici e personalità politiche hanno discusso dell’idea di un Israele non più Stato ebraico e democratico ma Stato di tutti i suoi cittadini, ebrei e arabi in completa uguaglianza.
  Ad eccezione di quelli arabi, i leader dei partiti israeliani sionisti di qualsiasi orientamento difendono la definizione di Israele come Stato ebraico e democratico. Che nel 2018 è stata scritta in una legge fondamentale: Israele è lo Stato della nazione ebraica e in cui (anche nei territori occupati nel 1967) il popolo ebraico ha diritti esclusivi. «Israele – aggiunge Abu Shahadeh – è fondato sulla separazione, con la supremazia assegnata agli ebrei. Tutto ruota intorno a questo principio. Faccio un esempio. Come può essere democratico uno Stato che mentre sviluppa la rete ferroviaria non pianifica la costruzione di una stazione in un centro abitato arabo? Lo stesso vale per gli ospedali pubblici. Eppure gli arabi compongono più del 20% della popolazione».
  La formula Israele Stato di tutti i suoi cittadini è considerata da molti israeliani l’incarnazione dell’antisionismo che respingono. «Per questo è difficile dire quanta strada potrà fare il partito di Burg e Azaiza» dice al manifesto il giornalista Meron Rapoport intervenuto al dibattito all’Abraham Hostel. Secondo Rapoport «‘Di tutti i suoi cittadini’ più che un partito dovrebbe essere un cantiere di idee per far maturare le coscienze». Il giornalista vede l’aspetto più positivo dell’incontro a Tel Aviv nel numero e nella varietà delle presenze politiche. «Un segnale interessante», afferma.
  Avraham Burg ha spiegato che il nuovo partito non si definisce sionista o antisionista e sarà «una federazione di tendenze che concordano su una cosa: tutti gli israeliani devono essere uguali». Ma le differenze ideologiche tra le varie forze potenzialmente interessate restano ampie. Appare assai difficile che possa concretizzarsi una collaborazione tra «Di tutti i suoi cittadini» e il Meretz che resta ancorato ai principi del Sionismo. L’attrice ebrea Einat Weizman, compagna di partito di Sami Abu Shahadeh, ha alzato il tiro spiegando che non è possibile un partenariato tra ebrei e arabi in una realtà asimmetrica come quella israeliana e, pertanto, è necessaria una lotta guidata dai palestinesi per la decolonizzazione. All’Abraham Hostel inoltre non è sfuggita l’assenza di Ayman Odeh, leader di Hadash l’unico partito israeliano che si definisce di sinistra con un carattere arabo-ebraico. Nel vago sono rimaste questioni centrali. Israele Stato di tutti i suoi cittadini dovrà includere o escludere i cinque milioni di palestinesi che da 55 anni vivono sotto occupazione in Cisgiordania e Gaza? Quale sarà il destino degli altri cinque milioni di palestinesi profughi nel mondo arabo?

(Pagine Esteri, 10 gennaio 2023)

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M. Gli ultimi giorni dell'Europa" (Bompiani) di Antonio Scurati

di Michelle Zarfati

Dopo “M. Il figlio del secolo”, vincitore del Premio Strega 2019, e “M. L'uomo della provvidenza”, il terzo romanzo di Antonio Scurati pone l’attenzione sugli anni che vanno dal 1938 al 1940. È il maggio del 1938 e Mussolini è in attesa del convoglio che accompagnerà Hitler nella Capitale. L’Italia è da poco uscita dalla Società delle Nazioni e si accinge a proclamare una serie di leggi che cambieranno la vita degli ebrei. Sono in molti, tuttavia, ad avere ancora un barlume di speranza nel credere ancora che la Storia può cambiare. È con toni giornalistici ma incredibilmente narrativi che Antonio Scurati porta per mano il lettore in quei giorni febbricitanti che cambiarono per sempre la storia del Novecento. È un racconto quasi corale, che analizza con dovizia di particolari il punto di vista di tutti coloro che gravitarono attorno a Mussolini. Accuratezza storica e analisi quasi chirurgica fanno di questo romanzo storico un testo monumentale.

(Shalom, 10 gennaio 2023)

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Cattolici ed ebrei verso l’annuale Giornata

L’appuntamento il 17 gennaio nella Sala Tiberiade del Seminario Romano. A confrontarsi, il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Di Segni e la biblista Virgili.

di Michela Altoviti

Il tema della consolazione, «quella donata da Dio e, una volta ricevuta dagli uomini, offerta da loro ai propri simili», orienterà a Roma la riflessione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, in programma il prossimo 17 gennaio, alle 17.30, nella Sala Tiberiade del Seminario Romano. «Il testo di Isaia al capitolo 40, “Consolate, consolate il mio popolo” – spiega monsignor Marco Gnavi, incaricato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – affronta un tema preciso e apre lo sguardo a dei momenti drammatici vissuti dal popolo eletto di Israele».
  A confrontarsi sul significato del brano dell’Antico Testamento saranno il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni e la biblista Rosanna Virgili, docente di esegesi all’Istituto teologico marchigiano. L’incontro, che dopo tanti anni tornerà a svolgersi negli ambienti del Seminario Romano, «come avvenne nel 2002, quando il rav Di Segni era da poco stato nominato rabbino capo della Comunità ebraica di Roma – ricorda monsignor Gnavi -, è aperto a tutti e vedrà in particolare la partecipazione dei seminaristi del Maggiore e anche degli studenti degli altri seminari di Roma». Il sacerdote osserva come «tanti anni sono passati e molte cose sono cambiate» ma primariamente «sono cresciuti i rapporti fraterni tra noi», realizzando l’auspicio della Conferenza episcopale italiana che nel settembre 1989 volle istituire la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (dandole cadenza annuale il 17 gennaio, alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani) alla luce delle indicazioni scaturite dal Concilio ecumenico Vaticano II, in particolare con il decreto Nostra aetate.
  Verso la Giornata del 17 gennaio, si è svolto anche il terzo appuntamento del ciclo di incontri promosso dalla diocesi e dalla Comunità ebraica per “Comprendere il tempo alla luce della Parola”, il 9 gennaio, ricorda ancora Gnavi. Esprimendo «stupore felice per il gradimento di questa proposta sia per la partecipazione in presenza sia per il seguito online», il sacerdote mette in luce «l’approccio nuovo di questi incontri: discutere insieme senza voler giungere a delle conclusioni ma per capire qualcosa che ancora non conosciamo, aperti all’esegesi e provocati dalla lettura del testo sacro».

(RomaSette, 10 gennaio 2023)

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La guerra per otto miliardi di menti

Questo è un nuovo tipo di guerra contro i civili per il controllo delle loro menti. I governi fanno sempre più affidamento sul controllo delle "narrazioni" pubbliche e sulla stigmatizzazione del dissenso. 

di J.B. Shurk

Tra i pericoli che ci troviamo ad affrontare oggi figurano il controllo capillare della società da parte dei governi centralizzati, la crescente prospettiva di una guerra globale, la crescente possibilità di una resa forzata e il rimpiazzo del dibattito sereno e della libertà di espressione con "narrazioni" e censure approvate dallo Stato: la governance totalitaria non sembra molto distante. Questo è un nuovo tipo di guerra contro i civili per il controllo delle loro menti.
  I fiumi che ci travolgono sembrano essere potenzialmente catastrofici. Nel giro di pochi anni, il mondo ha dovuto far fronte alla pandemia di Covid-19, ai lockdown imposti dai governi, all'estrema volatilità economica, alla carenza di materie prime e ai tentativi del World Economic Forum (Forum Economico Mondiale) di sfruttare questa serie di emergenze come scusa per inaugurare un "Great Reset" strutturale in cui il consumo mondiale di cibo ed energia può essere rigorosamente regolamentato secondo gli obiettivi in materia di "cambiamento climatico" di una combriccola non eletta. I governi fanno sempre più affidamento sul controllo delle "narrazioni" pubbliche e sulla stigmatizzazione del dissenso.
  Se i burocrati e i politici della sanità hanno affermato di "seguire la scienza", l'osservanza obbligatoria delle regole unilaterali ha precluso un dibattito leale e sereno. Come prevedibile, ne è risultato che le conseguenze letali del virus di Wuhan sono state esacerbate dalle ripercussioni fatali di politiche pubbliche sbagliate imposte per combattere il virus. Gli studenti le cui scuole sono state chiuse ora subiscono gli effetti permanenti della perdita di apprendimento. I pazienti le cui diagnosi tempestive e le cure preventive sono state impedite ora subiscono gli esiti debilitanti di una malattia non curata. Le piccole imprese incapaci di sopportare chiusure prolungate spariscono per sempre. I risparmi delle classi medie un tempo riservati a fondi per "le emergenze" o per la futura istruzione dei figli si sono prosciugati. Le carte di credito in rosso sono in aumento, mentre sempre più persone lottano per sopravvivere con meno. Le "reti di sicurezza" dei programmi di welfare realizzati dai governi sono lievitate per lasciare gli Stati-nazione più indebitati che mai, ma sono anche risultate piene di falle (spesso prosciugando le risorse necessarie direttamente nei conti bancari di finanziatori di campagne aziendali, di lobbisti rappresentanti di gruppi d'interesse, e di hackers stranieri) per mantenere a galla i più vulnerabili della società. Le motivazioni addotte dai governi per sostenere delle sconsiderate politiche fiscali, monetarie e creditizie durante le emergenze a breve termine hanno indebolito le prospettive delle nazioni per la solvibilità a lungo termine e la probabilità che saranno in grado di preservare valute stabili. Tuttavia, nonostante tutti i danni causati dalle loro azioni, i governi non si sono scusati per aver applicato tali politiche che alterano la vita, mettendo a tacere i detrattori. È come se "i pianificatori della narrazione" avessero adottato una posizione ufficiale che è irrefutabile.
  Il conflitto geopolitico sta facendo a pezzi l'ordine internazionale successivo alla Seconda guerra mondiale. Se le politiche sul "cambiamento climatico" dell'America e dell'Unione Europea hanno già gonfiato i costi dell'energia, del cibo e di molto altro, l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia non ha fatto altro che aumentare i problemi finanziari dei comuni cittadini europei e mettere a repentaglio la sicurezza del continente più in generale. Le ambizioni territoriali della Cina minacciano la pace a Taiwan, in Giappone, e in tutto il Sud-Est asiatico e oltre. Gli sforzi degli Stati Uniti per allargare l'adesione europea alla NATO, pur espandendo gli obiettivi di quest'ultima nell'Indo-Pacifico, pressoché garantiscono che Stati Uniti, Cina e Russia continuano ad essere in rotta di collisione.
  I responsabili delle decisioni politiche non possono non cogliere i parallelismi con il rapido effetto-domino geopolitico che dette inizio alla Prima e alla Seconda guerra mondiale nel corso di poche fatidiche settimane. Tali decisori non possono non notare l'accumulo insostenibile del debito pubblico in tutto il mondo e la valanga di investimenti nei derivati che si bilanciano instabilmente su fragili valute disancorate da qualsiasi valore reale in oro o argento e temendo i rischi di una grave depressione. Non possono non considerare il revanscismo russo e l'espansione territoriale cinese come segnali che le grandi potenze hanno imboccato una strada pericolosa. Più i decisori politici sono nervosi riguardo al futuro, più sembrano impegnati a far rispettare una "narrativa" standard che possono controllare.
  Ovviamente, fu il lancio di due bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki a porre fine ai combattimenti nell'area del Pacifico e a concludere la Seconda guerra mondiale con un punto esclamativo.
  Ora ci troviamo in un nuovo tipo di campo di battaglia. Così come con le armi nucleari, i civili non hanno alcun posto dove nascondersi dagli effetti di questa guerra. I sistemi di armamento sono diffusi su Internet, utilizzati sui telefoni cellulari e attivi su ogni chip di computer, tracciando, condividendo e rilanciando informazioni digitali in tutto il mondo. Al posto di esplosivi e proiettili, abbiamo "narrazioni" contrastanti che ci sfrecciano davanti agli occhi. L'ampiezza della campagna per controllare quali informazioni vediamo, come le elaboriamo e, in definitiva, ciò che pensiamo e diciamo fa sembrare obsolete e rudimentali anche le più efficaci operazioni psicologiche del passato. Se "la distruzione reciproca assicurata" ha finora avuto successo come deterrente contro una guerra nucleare, le allettanti opportunità per i governi di utilizzare programmi di sorveglianza e comunicazione digitale di massa per diffondere menzogne, manipolare l'opinione pubblica e influenzare il comportamento umano hanno creato una sorta di distopia reciproca assicurata, "dove le persone conducono vite disumanizzate e nel terrore".
  Negli anni Trenta, Adolf Hitler parlava con veemenza e decisione gesticolando ampiamente davanti a decine di migliaia di soldati, di membri della Gioventù Hitleriana e di fedelissimi del Partito nazista. Oggi, il palco sopraelevato del dittatore è stato rimpiazzato da Twitter, Facebook, YouTube, TikTok e da qualsiasi altro posto dove si possa trovare una platea online pop-up. Gli stimoli visivi che affascinarono le folle di Hitler sono ora riprodotti con il rilascio di endorfine, ormoni del piacere, prodotte dal cervello dopo che ogni affermazione online "politicamente corretta" viene "premiata" con l'approvazione da parte di estranei che forniscono fama immediata. Gli "influencer" online sono diventati mediatori a gamba tesa per campagne di propaganda di massa che raggiungono in un solo giorno più persone di quante ne abbiano raggiunte in un decennio i discorsi di Hitler. In un'epoca in cui le informazioni non sono mai state così facilmente accessibili, il mondo è inondato di menzogne.
  Invece di incoraggiare il dibattito politico e le argomentazioni razionali, i governi promuovono più di ogni altra cosa il costante rullo di tamburi della "narrazione". Un cittadino o accetta mitemente le estese e invadenti norme sul Covid-19 imposte dal governo oppure viene etichettato come "negazionista del Covid". Un cittadino o accetta docilmente le estese e invadenti norme sul "cambiamento climatico" imposte dal governo oppure viene bollato come "negazionista climatico". Un cittadino o accetta il "laptop (pc portatile) dall'inferno" di Hunter Biden così come la "disinformazione russa" oppure viene tacciato di essere "simpatizzante della Russia". Osare dire il contrario potrebbe far sì che si venga banditi dai social media, sanzionati professionalmente o addirittura licenziati dal lavoro. Ma nessuna di queste "narrazioni" prestabilite si è dimostrata vera.
  A posteriori, è chiaro che i lockdown hanno scatenato più problemi sanitari, educativi ed economici di quanti ne abbiano risolti. Mentre l'Europa affronta un'ampia crisi energetica che rende le sue popolazioni vulnerabili al freddo e al gelo, è ovvio che le politiche del "cambiamento climatico" possono uccidere coloro che dovrebbero presumibilmente proteggere. E come dimostra il recente invio di e-mail ai dipendenti di Twitter da parte di Elon Musk, il laptop di Hunter Biden non era solo una notizia vera censurata dall'opinione pubblica durante un'elezione presidenziale. Anche i discorsi politici sono stati censurati grazie agli sforzi collaborativi dell'FBI e di oltre 50 agenti della comunità dell'intelligence in violazione del Primo Emendamento. In ogni caso, la "narrazione" si è rivelata una propaganda fuorviante o una vera e propria menzogna. Eppure, sono stati creati e sostenuti da piattaforme di comunicazione online che hanno imposto le menzogne e precluso le verità.
  Poiché gli eventi globali minacciano sempre più la stabilità occidentale, i governi non hanno mostrato alcuna inclinazione a nutrire o intrattenere una diversità di punti di vista o di discussioni lungo il percorso. Invece, più la questione è seria, più sembrano impegnarsi in un'unica "narrazione" onnicomprensiva. Il dissenso è disprezzato. Le argomentazioni ragionate sono ridicole. Ci si aspetta che un cittadino accetti di buon grado i messaggi approvati dal governo e diffusi online, altrimenti rischia l'ira della tecnocrazia.
  Questa guerra per otto miliardi di menti implica che i cittadini devono essere più vigili che mai nell'elaborare e valutare ciò che vedono e leggono. Che piaccia loro o no, sono sempre sotto attacco da parte di coloro che cercano di manipolarli e controllarli. Come nel secolo scorso, siamo circondati da propaganda totalitaria abitualmente camuffata da "verità". In questo secolo, tuttavia, la portata e le proporzioni dell'indottrinamento di massa sembrano espandersi all'infinito.

(Gatestone Institute, 8 gennaio 2023 - trad. di Angelita La Spada)

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Varianti e sacro siero, il Wall Street Journal costretto ad ammettere che aveva ragione il Nobel Montagnier

Anche il Wall Street Journal dubita dei vaccini? Se solo omettessimo la fonte, in molti tra gli oltranzisti del Covid-19 e tra i “professionisti dell’informazione” griderebbero alle solite teorie complottiste dei cosiddetti No Vax. E invece è addirittura il Wall Street Journal, punta di diamante della stampa mainstream internazionale, a chiedersi: Are vaccines fueling new Covid variant? (“i vaccini alimentano nuove varianti Covid?”)
  L’articolo è a cura di Allysia Finley, una delle firme più prestigiose del quotidiano newyorkese, membro del comitato editoriale del giornale. La Finley cita nell’editoriale una serie di articoli pubblicati su Nature, sul New England Journal of Medicine, nonché una ricerca condotta dalla Cleveland Clinic circa la possibile associazione tra più dosi di vaccino e un rischio maggiore di contrarre il virus. 
  Sono pressoché le medesime argomentazioni da subito proposte da Luc Montagnier, il premio Nobel oggi scomparso, che venne vergognosamente insultato da più parti. Ricordiamo, per fare solo un nome, che il virostar Matteo Bassetti lo definì “rincogl*****o”
  L’articolo del Wall Street Journal è del primo gennaio, mentre – come si è potuto ascoltare nel focus di Francesco Borgonovo e Fabio Duranti su RadioRadio – in Italia è ripartito il consueto allarmismo, di cui, francamente, non sentivamo la mancanza: oggi il Corriere della sera, ad esempio, scrive che “Si temono 1,7 milioni di morti in 4 mesi in Cina”, fermandosi solo alla proverbiale punta dell’iceberg. 
  Va molto più in profondità il quotidiano di Wall Street, citando uno studio condotto su un gruppo di sanitari, che ha dimostrato che, pur se i vaccini bivalenti hanno ridotto del 30% il rischio di infettarsi mentre la variante “BA 5” era più diffusa, i sanitari che hanno ricevuto tre o più dosi avevano più del triplo delle probabilità di infettarsi come i non vaccinati. 
  Chi abbia ricevuto due dosi infine avrebbe 2,6 volte più probabilità di essere contagiati. Il fatto, poi, che la variante “XBB” sia nata a Singapore, conclude l’articolo di Allysia Finley, potrebbe non essere affatto casuale: si tratta di “una delle regioni più vaccinate al mondo”.
  Chissà come mai, ma il clamoroso articolo, così come lo studio che viene citato, è stato allegramente snobbato (censurato) dai principali organi di stampa.

(DocNews, 7 gennaio 2023)

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Polonia: Scoperti a Łódź centinaia di oggetti ebraici sepolti nel 1939

di Michelle Zarfati

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A Łódź, in Polonia, sono stati recentemente rinvenuti centinaia di oggetti ebraici durante i lavori di scavo per isolare le fondamenta di un caseggiato. Gli addetti ai lavori si sono imbattuti in una scatola di legno piena di oltre 400 oggetti antichi, tra cui candelabri, posate, bicchieri e altri utensili. Si ritiene che molti degli oggetti, realizzati in vetro, metallo o argento, abbiano un valore storico e religioso. “Questo è il più grande ritrovamento ebraico del genere negli ultimi anni nell'area di Lodz", ha detto Daria Błaszczyńska, portavoce dell'Ufficio provinciale per la protezione del patrimonio di Łódź.
  “Durante l'ispezione, si è ipotizzato che potrebbero esserci più artefatti; quindi, l’area di scavo sarà d’ora in poi esaminata meticolosamente. Sono più di 70 gli oggetti ritrovati, incluse Channukiot, un set da toeletta in vetro, posate e un anello” ha aggiunto Daria Błaszczyńska. Si ritiene che gli oggetti, che includono candelabri di Hanukkah e oggetti personali come boccette di profumo e un portasigarette, siano stati nascosti da una famiglia ebraica all'inizio della Seconda guerra mondiale per evitare la confisca da parte degli occupanti tedeschi. A provare tutto ciò il fatto che alcuni degli oggetti sono stati ritrovati avvolti in giornali con scritte in polacco, yiddish e tedesco, segnati con data di ottobre 1939 visibile. "Questi oggetti devono essere stati sepolti in fretta, probabilmente quando agli abitanti è stato ordinato di presentarsi nel ghetto", ha detto Bartłomiej Gwóźdź, l’archeologo che ha condotto ricerche sul sito.
  "Gli operai di Warbud stavano scavando le fondamenta della cantina per isolarla, e ad un certo punto forchette, coltelli e candelabri hanno iniziato a uscire da sotto le loro vanghe", ha detto Gwóźdź. Il caseggiato, che si trova nel centro di Łódź vicino al Palazzo Poznański, fu costruito alla fine del XIX secolo e non aveva subito ristrutturazioni significative prima dei recenti lavori. Sebbene non sia ancora noto chi abbia nascosto gli oggetti, si suggerisce che all'indirizzo potesse trovarsi una sinagoga specialmente perché molte tra le cose trovate sono di natura religiosa. "La natura degli oggetti consente di presumere che il patrimonio sia stato depositato una volta, molto probabilmente all'inizio della Seconda guerra mondiale, da una persona di origine ebraica", ha spiegato l'Ufficio provinciale per la protezione dei monumenti di Łódź. “Questa è una delle scoperte archeologiche più importanti e più grandi fatte a Łódź negli ultimi anni", ha aggiunto.
  L'ufficio per la protezione del patrimonio ha informato che la comunità ebraica di Łódź è stata tempestivamente avvisata del ritrovamento. Gli oggetti sono stati messi in sicurezza e puliti. Successivamente, saranno donati al Museo di Archeologia ed Etnografia di Łódź.

(Shalom, 9 gennaio 2023)
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Netanyahu e il Golfo come obiettivo: l’asse tra monarchie sunnite e nazionalisti israeliani

di Andrea Muratore 

Il governo iper-nazionalista di Benjamin Netanyahu, il più identitario e divisivo sul piano etno-sociale della storia di Israele, ha come primo obiettivo di politica estera espandere gli Accordi di Abramo e consolidare le relazioni diplomatiche coi Paesi del Golfo.
  Può sembrare una contraddizione solo a chi non conosce i tempi, i modi e gli obiettivi della politica estera di Tel Aviv, che sull’asse con le petromonarchie sunnite (Emirati Arabi, Arabia Saudita e Bahrain) costruisce degli assi portanti del suo sviluppo. E non è un caso che il neoministro degli Esteri israeliano Eli Cohen sia già al lavoro per organizzare proprio negli Emirati Arabi Uniti la prima visita all’estero del sesto governo Netanyahu. “Bibi” voleva visitare il Paese già a fine 2021, ma la caduta del suo quinto governo ha reso Naftali Bennett il primo premier della storia a giungere ad Abu Dhabi. In quest’ottica, l’obiettivo appare il contenimento della presenza dell’Iran nella regione e il rafforzamento dei vincoli energetici, securitari e commerciali.
  Le relazioni ufficiali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sono state stabilite due anni fa ai sensi degli Accordi di Abramo. E ora sono un pivot che la divisa politica israeliana ha adottato in forma trasversale. I bilaterali sono costanti. “Nel giugno 2022, l’allora primo ministro Naftali Bennett è volato ad Abu Dhabi” per una seconda volta “per incontri sull’Iran” con le autorità emiratine, ricorda il Times of Israel, “e il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Al Nahyan ha visitato Israele a settembre per celebrare il secondo anniversario degli accordi di Abramo. Ha incontrato l’allora primo ministro Yair Lapid e Netanyahu. Anche il presidente Isaac Herzog ha visitato gli Emirati Arabi Uniti”.
  Dopo le elezioni dell’1 novembre che avevano visto la vittoria del campo largo nazionalista centrato sulla destra del Likud e sui suoi alleati “c’erano state preoccupazioni che i legami tra Israele e la nazione del Golfo potessero essere influenzati dall’elezione del governo intransigente di Netanyahu“, ma così non sembrerebbe, almeno finora. Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, forti dei loro toni anti-islamici e anti-arabi, non hanno mai goduto delle simpatie dei Paesi del Golfo, ma Abu Dhabi e gli altri Stati della regione guardano al ruolo di Netanyahu come “pontiere”.
  Nei primi giorni del governo nato il 29 dicembre gli Emirati Arabi Uniti hanno condannato “fortemente” la visita di Ben Gvir alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme ma di fatto non hanno chiuso alla visita di Netanyahu. Troppo importante l’apertura di credito bilaterale e troppo cogente la sfida all’Iran per mettere in primo piano una causa, come quella palestinese, che oggi non ha più la valenza strategica di un tempo per le monarchie del Golfo.
  Netanyahu si muoverà in continuità con Lapid e Bennett nel tentativo di separare al massimo politica interna e politica estera nell’approccio al mondo arabo. Troppo ghiotte le opportunità della relazione con gli Stati della regione per sacrificarle in nome di un nazionalismo fine a sé stesso che aiuta, però, a consolidare come questione puramente interna la faglia tra sionisti e arabi nello Stato Ebraico. Anzi, l’obiettivo è ottenere nuove adesioni agli Accordi di Abramo sul riconoscimento bilaterale e puntare alla triangolazione con gli Usa per contenere i rivali regionali delle potenze filoccidentali. Dopo Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan, Netanyahu vuole puntare al più grande dei risultati: fare del suo governo nazionalista quello che riuscirà, in nome dell’inimicizia comune per Teheran, a conquistare il Santo Graal diplomatico del pieno riconoscimento bilaterale tra Tel Aviv e l’Arabia Saudita. Il 15 dicembre 2022 l’allora premier nominato ha promesso un “salto di qualità” nei rapporti con Riad.
  Dal 2015 a oggi Netanyahu ha aumentato d’intensità i contatti con Riad, e la diplomazia delle spie e dei militari, informalmente, prosegue attiva da diversi anni soprattutto sul tema iraniano. Il commentatore di politica estera di Al Arabiya Tony Badran sul sito della nota emittente araba ha analizzato l’intervista concessa da Netanyahu prima dell’insediamento alla Tv con sede a Dubai ricordando che “Netanyahu ha presentato fermamente la possibilità di una normalizzazione diplomatica con l’Arabia Saudita”, che ha descritto come “il grande premio” di “una discussione bilaterale saudita-israeliana” attiva nei fatti da anni.
  Tutto questo, ed è la grande novità, andando oltre i rapporti della nazione che controlla i luoghi santi dell’Islam con il broker maggiore degli Accordi di Abramo, gli Stati Uniti: Netanyahu ha sottolineato che “Israele ha agito e continuerà ad agire indipendentemente dagli Stati Uniti, specialmente quando sono in gioco questioni fondamentali della sicurezza del paese, come la minaccia posta dall’Iran a Israele e alla regione”. Una svolta sostanziale che potrebbe portare, dunque, il governo più anti-arabo sul fronte interno della storia di Israele a diventare il più filo-arabo nei fatti in chiave geopolitica. Tutto questo ha senso se letto nel quadro della contrapposizione geostrategica e della “guerra ombra” tra l’Iran e i suoi rivali che da anni anima il Medio Oriente e in cui sia Israele che le monarchie del Golfo sono pronte, pur di non soccombere, a quelli che solo pochi anni fa avrebbero considerato veri e propri “patti col Diavolo”, ma che ora appaiono scelte realistiche e strategiche.

(Inside Over, 8 gennaio 2023)

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Modena ebraica

A testimonianza della storia ebraica della città emiliana, in pieno centro cittadino si erge la maestosa sinagoga, affacciata su piazza Mazzini, nel cuore di quello che è stato il ghetto.

di Camilla Marini

La sinagoga di Modena
All’epoca dell’emancipazione la comunità ebraica di Modena contava circa mille membri. Oggi gli ebrei modenesi sono solo poche decine, ma non per questo la città emiliana ha dimenticato il proprio passato. Anzi. A testimonianza della sua importante storia ebraica, in pieno centro cittadino si erge la maestosa sinagoga, affacciata su piazza Mazzini, nel cuore di quello che era stato il ghetto. Istituito nel 1638 dai duchi d’Este, che pure fino a quel momento avevano favorito gli ebrei che fin dal Quattrocento abitavano nei territori da loro amministrati, il quartiere si sviluppava entro le attuali via Coltellini, via Blasia, via Torre, vicolo Squallore e, appunto, piazza Mazzini. I portoni si trovavano su via Emilia, allo sbocco di quella che era la contrada Squaroa (poi diventata vicolo Squallore), in via del Taglio, in contrada San Biagio (oggi vicolo Blasia) e in contrada San Domenico (ora via Cesare Battisti).
  Chi volesse oggi ritrovarne le antiche atmosfere rimarrebbe in parte deluso, visto che tutta l’area è stata trasformata nel 1903, con lo sventramento dell’intero quartiere e la creazione dell’attuale piazza Mazzini, precedentemente piazza della Libertà e prima ancora centro del ghetto. L’unica via nella quale si possono rintracciare le caratteristiche medievali è vicolo Squallore, strada che termina con la chiesa di San Giorgio e che conserva le sue case addossate e le finestre disallineate. Altra memoria di quegli anni tanto dolorosi sono i segni dei cardini di uno dei portoni, nel punto in cui via Blasia confluisce in via del Taglio.
  Pur rinunciando a individuare gli antichi edifici, si può comunque farsi un’idea di quale fosse lo spazio in cui gli ebrei modenesi condussero gran parte delle loro vite per oltre due secoli percorrendo via Coltellini, stradina nota nel Seicento come contrada degli Ebrei. A questo riguardo va ricordato che qui come altrove il ghetto era stato istituito nel quartiere in cui già risiedeva prevalentemente la popolazione ebraica, con la drammatica differenza che ora i suoi abitanti non avevano altra scelta, non potevano uscirne la notte e gli era vietata la contiguità con i cristiani. Si stima che 336 cristiani furono costretti ad abbondonare le proprie abitazioni da 35 case che si trovavano appunto accanto a quelle degli ebrei, e che gli edifici furono quindi divisi e le porte e finestre che si affacciavano fuori dal ghetto murate. Tornando a un itinerario ebraico nella Modena di oggi si può ricordare che l’attuale via Torre era un tempo chiamata contrada del “Mezo gheto”, perché le sue case erano state incluse solo per un lato al ghetto quando questo fu ampliato nel 1783.  Nonostante il degrado e la miseria, va comunque detto come gli oltre duecento anni di segregazione non impedirono alla comunità di sviluppare i talenti dei suoi membri né tanto meno ne inibirono la religiosità. Furono tre le sinagoghe che continuarono a funzionare, rispettivamente di rito tedesco, spagnolo e italiano, senza contare gli oratori nelle case private. Anche sul fronte accademico vi fu una fioritura, con il ghetto divenuto centro di studi ebraici e cabalistici con la partecipazione di luminari provenienti da tutta la diaspora.
  Come altrove in Europa, la segregazione avrebbe conosciuto una sospensione con l’arrivo dei francesi napoleonici nel 1796 per poi essere ripristinata fino alla definitiva liberazione del 1859. È a questa epoca che risale la costruzione della bella sinagoga che ancora oggi conosciamo.
  Al pari delle altre sinagoghe dell’emancipazione, anche il Tempio Israelitico di Modena sostituiva le vecchie e oscure scole con un edificio che nella grandiosità e rilevanza nel tessuto urbano voleva affermare la posizione e l’importanza della comunità ebraica dell’epoca e la sua integrazione nella vita cittadina a tutti i livelli, sociali, politici ed economici. A progettarlo era stato chiamato lo stesso architetto che aveva disegnato la stazione delle ferrovie provinciali di Modena, Ludovico Maglietta, mentre per le decorazioni interne era stato coinvolto Ferdinando Manzini. Il risultato, che si può tuttora ammirare in occasione delle aperture al pubblico o delle funzioni religiose annuali più importanti, è caratterizzato non solo dalla posizione dominante sugli edifici circostanti, ma anche per lo stile neoclassico, timpanato, che lo distingue e le decorazioni a carattere non figurativo che lo abbelliscono. L’interno, a pianta rettangolare, è caratterizzato da una cupola ellittica decorata a cielo stellato e dalla presenza di dodici colonne che rappresentano presumibilmente le tribù di Israele e che sorreggono il matroneo, che corre tutto intorno all’ellisse disegnata dalla cupola. L’area destinata all’officiante è sopraelevata rispetto al resto della sala e chiusa da una cancellata, l’aron è chiuso invece da colonne neoclassiche, con antine rivestite di foglie. Di rito italiano, la sinagoga è utilizzata solo per le grandi ricorrenze, mentre per le altre funzioni esiste nello stesso edificio un piccolo oratorio originariamente di rito tedesco. Si apre su via Coltellini, lo stesso lato in cui un tempo si trovava anche la facciata del Tempio, che all’epoca della sua inaugurazione non era come oggi così visibile nella zona più centrale della città.
  Spostandosi di poco da piazza Mazzini ci si trova in un altro dei luoghi chiave della storia più recente della comunità modenese. In piazza Torre, grazie a una lapide che ne ricorda la storia, si può individuare quella porzione di selciato che da sempre è conosciuto dai modenesi come Al tvajol ed Furmajin, ossia “il tovagliolo del Formaggino”. Memoria degli anni cupi del fascismo, questo è il luogo in cui Angelo Fortunato Formiggini, importante editore modenese, si tolse la vita con un salto di 60 metri dall’alto della torre della Ghirlandina. Ritenuto il padre spirituale della Enciclopedia Treccani (del quale però non ottenne la direzione, affidata a Giovanni Gentile, più vicino all’ideologia fascista) con il suo sogno di una biblioteca senza confini e l’ideazione di una enciclopedia italiana in 18 volumi, si era gettato con le tasche piene di soldi, per provare che non erano i problemi economici ad affliggerlo, e con due lettere, una per il re e l’altra per Mussolini. Gesto disperato di un uomo che aveva fatto invece dell’ironia e della risata un vero culto, il suicidio di Formiggini avveniva il 29 novembre del 1938, all’indomani della promulgazioni delle leggi razziali.
  Per chi desiderasse conoscere la storia degli altri ebrei modenesi, nonché delle vicine comunità di Reggio Emilia (oggi sezione di quella di Modena) e di Carpi, ormai estinta, nello stesso edificio della Sinagoga, nei locali dove un tempo si trovava il forno delle azzime si trova oggi l’Archivio della Comunità Ebraica. Tra i pochi nel suo genere a essersi conservato integralmente, l’archivio raccoglie materiali a partire dal XVI secolo strutturati in cinque sezioni, collegate a loro volta alla vita della Comunità e agli eventi storici. Importante fonte per gli studiosi così come per chiunque sia interessato a questa importante parte della vita e della cultura cittadina, l’archivio conserva soprattutto documenti di carattere amministrativo, anche se non mancano atti anagrafici, scolastici e medici, in buono stato di conservazione. Per accedervi è possibile scrivere alla Comunità Ebraica di Modena e Reggio Emilia (comebraica-sinagoga-synagogue.business.site/), mentre gli inventari sono consultabili sulle pagine dedicate del Siusa (https://siusa.archivi.beniculturali.it).
  Passando alla Biblioteca Estense, anche qui non mancano importanti testimonianze della vita ebraica locale e non solo, in questo caso con particolare attenzione alle pergamene e ai manoscritti antichi. Nell’Archivio di Stato di Modena sono stati catalogati 274 frammenti di codici ebraici, per lo più fogli e bifogli ricomposti in 124 manoscritti. Oltre a molti testi di Bibbie, alcune copiate nel secolo XI in Italia meridionale, probabilmente dalle accademie di Otranto e di Bari, compaiono anche preziosi testi della Mišnah, del Talmud babilonese, opere normative, filosofiche, cabalistiche e qualche raro testo scientifico.
  Passando dalle carte alle pietre, vale la pena uscire dal centro cittadino e recarsi in strada cimitero San Cataldo, presso il camposanto comunale del quale il cimitero ebraico è parte dagli inizi del Novecento. Tra le diverse lapidi con incisioni in ebraico e italiano, merita una particolare attenzione quella del deputato socialista ebreo Pio Donati. È posta accanto al muro di cinta che divide il reparto ebraico da quello cattolico, dove si trova quella del suo amico Francesco Ferrari, antifascista che con lui era espatriato per sfuggire al regime. Nel muro che separa le due sezioni è stato inserito un vetro, in modo che le tombe, idealmente collegate, possano essere viste da entrambi i reparti. Nell’attuale cimitero sono conservate anche alcune delle lapidi provenienti dai più antichi cimiteri della città, dal più antico, che si trovava alle Fosse, lungo le antiche mura, a quello successivo, utilizzato fino alla fine dell’Ottocento, fra via Pelusia e via Emilia.
  Si trova nel cuore di quello che era stato il ghetto anche la sinagoga di Reggio Emilia, la cui comunità è oggi una sezione di quella di Modena. Restaurato e riaperto al pubblico ma non al culto nel 2008, il tempio si affaccia su via dell’Aquila, quasi un vicolo all’interno di quella manciata di strade entro le quali gli israeliti erano stati costretti a risiedere per due secoli. Presenti fin dal Quattrocento, gli ebrei reggiani avevano subito l’istituzione del ghetto a partire dal 1669, per volere della duchessa reggente Laura Martinotti. A differenza di Modena, qui la struttura originaria è più facilmente riconoscibile e per quanto i palazzi siano stati restaurati, passeggiando tra le vie Caggiati, della Volta, Monzermone, San Rocco e la stessa dell’Aquila ci si può fare un’idea di quali fossero gli spazi in cui si muovevano i quasi mille ebrei reggiani dell’epoca. Confinanti da una parte con via Emilia e dall’altro con via San Rocco, le strette vie del ghetto costringevano chi le volesse percorrere a uscire sulla via Emilia, di giorno, o sulla via interna San Rocco se era notte. Per poter lasciare il ghetto nelle ore diurne era stato imposto come segno distintivo un nastro rosso, da appuntare al cappello per gli uomini e in vita per le donne. Per evitare di dover scendere in strada per passare da una casa all’altra, all’interno degli edifici era stata creata una fitta rete di passaggi.
  La reclusione e le condizioni di vita precarie non impedirono anche qui lo sviluppo degli studi, delle attività professionali e della cultura. In particolare si ricorda l’istituzione della scuola per gli alti studi ebraici, frequentata da eminenti rabbini provenienti da tutta Italia, e le attività di stampa, con Anania Coen, letterato vissuto a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, che impiantò a casa propria una vera e propria tipografia, stampando opere di carattere didattico ebraico. Tornando alla sinagoga, questa fu inaugurata nel 1858 in via dell’Aquila 3, nello stesso luogo in cui sorgeva una precedente sinagoga seicentesca, ormai caduta in rovina. Progettato da un architetto ai tempi piuttosto in voga quale Pietro Marchelli, il tempio aveva richiesto diversi anni di lavoro per essere riaperto nonché consistenti spese.
  Bombardata nel 1944, avrebbe perso la sua funzione religiosa mentre i suoi arredi principali sarebbero stati trasferiti altrove. Tra questi, l’aron risalente alla metà del Settecento e realizzato dallo scultore Agostino Canciani si trova oggi presso un oratorio ad Haifa, in Israele. Trasformata in tipografia, fu poi abbandonata a partire dalle metà degli anni Cinquanta dopo il crollo della cupola. Il restauro di questa così come degli interni si è concluso in tempi relativamente recenti e l’edificio è stato riaperto nel 2008. Purtroppo l’assenza di mobilio rende oggi lo spazio piuttosto asettico, ma in occasione di eventi e di visite è possibile comunque apprezzarne l’elegante struttura interna, con la sala dominata al centro da una cupola a crociera chiusa da un lucernario, le pareti su cui si alternano pilastri e colonne e i matronei su tre piani. Sulla facciata esterna, accanto all’ingresso, si trova una lapide che ricorda i dieci ebrei reggiani vittime della deportazione.

(JoiMag, 9 gennaio 2023)

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«Cambiare la legge del Ritorno può portare a conseguenze catastrofiche»

Intervista al professor Sergio Della Pergola

di Luca Spizzichino

Con una lettera diretta al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’Agenzia Ebraica insieme alle Federazioni Ebraiche del Nord America (JFNA), il Keren Hayesod e l’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO) hanno espresso la loro preoccupazione su questioni delicate come la Legge del Ritorno e la conversione, che come hanno spiegato le associazioni ebraiche “potrebbero minacciare i rapporti di lunga data tra Israele e la Diaspora”.
  Per capire quali potrebbero essere gli effetti di un’eventuale modifica di queste leggi, Shalom ha intervistato il professore Sergio Della Pergola, demografo e statistico naturalizzato israeliano. Titolare della cattedra di Studi sulla popolazione e le Comunità ebraiche all'Università Ebraica di Gerusalemme, è considerato tra i massimi esperti sulla popolazione ebraica mondiale.
  La Legge del Ritorno spiega Della Pergola «è stata approvata all'inizio degli Anni Cinquanta ed emendata nel 1970 a seguito di un caso che era sorto, per il quale c’è stato bisogno di definire chi fosse ebreo secondo la legge dello Stato».
  «È una vecchia consuetudine nello Stato Ebraico di non cambiare le cose se non c'è un motivo. - prosegue - Ora il motivo che è stato addotto, è che negli ultimi anni c'è un numero eccessivo di non ebrei, in particolari i nipoti non ebrei, che fanno l'Aliyah e che secondo alcuni, in particolare dai circoli nazionalisti e religiosi che fanno parte dell'attuale coalizione, mettono in pericolo l'ebraicità dello Stato d’Israele».
  «Se uno guarda attentamente ai numeri però è molto difficile dire che questi immigrati non ebrei possano mettere in dubbio l'ebraicità dello Stato, dove nel 2022 sono oltre 7 milioni gli ebrei secondo la halachà. Invece sono poco più di mezzo milione gli olim non ebrei, con i loro discendenti, in particolare mariti, mogli e figli di matrimonio misto, ai quali il Rabbinato d’Israele è restio a fare il ghiur».
  Di questo mezzo milione di non ebrei, circa 250mila hanno un’origine ebraica patrilineare. Una situazione simile è quella dei Beta Israel, ossia gli olim provenienti dall’Etiopia, dove una parte della popolazione, i Falash Mura, è stata convertita al cristianesimo e quindi non è più ebrea. «Ma in questo caso lo Stato ha deciso di riconoscerli, facendogli il ghiur e li ha fatti salire in Israele quasi tutti - sottolinea il professore - non è questo il caso di coloro che provengono dall’ex Unione Sovietica, e quindi dall’Ucraina e della Russia, dove all’interno delle famiglie ci sono membri che sono considerati a tutti gli effetti non ebrei. La presenza di non ebrei fra gli olim dai paesi occidentali è invece scarsa».
  «Cambiando la legge il non ebreo non potrebbe fare l’Aliyah, di conseguenza anche il membro della famiglia ebreo non la farà, perché chiaramente le famiglie non si divideranno» prosegue.
  «Questo contraddice in maniera plateale l'ideale sionista e dello Stato Ebraico: l'apertura alla Diaspora e la riunione di esse. - sostiene Della Pergola - Riunendo le Diaspore bisogna inevitabilmente tener conto delle caratteristiche delle diverse comunità, compresa una certa assimilazione. C'è poco da fare, bisogna prendere le Comunità così come sono, altrimenti discrimini all'interno della Diaspora. Spetta semmai a Israele educare queste persone all'ebraismo».
  «La questione quindi è questa: Possono decine di migliaia di non ebrei su 7 milioni “inquinare” l'ebraicità dello Stato d’Israele? Oppure questa piccola goccia in qualche modo scompare in questo mare? Avendo accesso ai dati io sono senz'altro dalla parte di coloro che dicono che è meglio non toccare la Legge del Ritorno» afferma.
  «Il paradosso è che gli stessi circoli non ritengono sia problematico incorporare nello Stato d’Israele la Giudea e la Samaria, in cui vivono due milioni e mezzo di Palestinesi».
  Secondo il demografo le conseguenze legate al cambiamento di questa legge rispetto ai benefici sono estremamente negative, dal punto di vista politico, economico ma soprattutto d’immagine. Da questo punto di vista, la seconda comunità ebraica più grande dopo quella in Israele, ovvero quella americana, gioca un ruolo determinante sia dal punto di vista economico, con gli aiuti economici del governo americano e delle donazioni, che da quello politico. «Se uno guarda da un lato i benefici, il non avere alcune migliaia di goym, che peraltro fanno il servizio militare e si inseriscono bene nella produzione e nell’economia, e dall’altro la perdita dell'appoggio degli Stati Uniti e dell'ebraismo americano; mettendo sulla bilancia queste due cose, la risposta sembra ovvia» sottolinea.
  Ma è possibile questo grande cambiamento della Legge del Ritorno? «Netanyahu si è dichiarato contrario alla riforma, questo perché è un uomo di mondo e conosce perfettamente gli Stati Uniti e l'ebraismo americano. - spiega - Si rende conto che è una decisione molto problematica». La questione però è: Netanyahu oggi ha la forza politica per dirigere le cose secondo le sue intenzioni, oppure non è piuttosto prigioniero della coalizione che si è creato? Difficile saperlo, sostiene Della Pergola, «Netanyahu non ha più la forza di una volta, è come un viaggiatore che si trova all’interno di un aereo che è stato dirottato».

(Shalom, 8 gennaio 2023)

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La Sicilia avrà una sinagoga e un rabbino: l'ebraismo torna nell'isola

A 531 anni dall’Inquisizione che nel 1492 costrinse gli ebrei a lasciare la Sicilia, Gilberto Ventura  è il primo rabbino chiamato a svolgere un ruolo di riferimento per la comunità ebraica locale. 

di Franca Antoci

«Sono nato in Brasile nel 1974, in una famiglia ebrea, con padre egiziano e madre polacca. Il mio bisnonno materno, Moses Zeev Pintchowsky, è stato uno dei fondatori di una delle sinagoghe ashkenazite più antiche del Brasile, chiamata Ahavat Reim». Gilberto Ventura, rabino chefe di Catania, sta trascorrendo il suo arrivo nella campagna chiaramontana in attesa di trasferirsi e iniziare il suo lavoro. «Sono stato invitato ad assumere l'incarico di rabbino capo della città di Catania a nome della Comunità ebraica locale e di tutti coloro, discendenti e non, che hanno il desiderio di saperne di più sull'ebraismo, sia in termini di conversione (ritorno), sia semplicemente per apprendere e arricchire la propria cultura storica e spirituale». 
  A 531 anni dall’Inquisizione che nel 1492 costrinse gli ebrei a lasciare la Sicilia, lui è il primo rabbino chiamato a svolgere un ruolo di riferimento per la comunità ebraica locale.  E non solo. «Il nostro lavoro, in collaborazione con rabbi Amsalem e rabbi Scialom Mino Bahbout, si svolgerà nella Sinagoga di Catania dove, oltre alla liturgia e alle feste dello Shabbat, si svolgeranno studi sulla Torah, corsi di ebraico, cultura». Si racconta in inglese riuscendo a intercalare le frasi con termini portoghesi, ebraici, italiani e persino siciliani, con gli occhi che a tratti si perdono nel sorriso accogliente della sua inseparabile moglie Jacqueline, madre dei suoi tre figli adulti rimasti in Brasile, che con lui condivide naturalmente pensieri e giorni. Rab Gilberto, abbigliamento europeo e kippah (lo zucchetto rituale che i maschi ebrei portano in testa, per rispettare la prescrizione di non presentarsi a capo scoperto dinanzi a Dio che è obbligatoria in sinagoga), si fa capire anche con i gesti che rimarcano le sue origini italiane. Ama la musica e canta predicando love and peace in una band multietnica e multireligiosa. Usa i social per scambiare opinioni con la sete di sapere e soprattutto convinto che «comunicare cambia l’ottica, le persone e il mondo». Non conosce confini fisici né mentali e l’essere straniero non gli appartiene perché l’accoglienza rende casa ogni luogo. E’ per questo molto orgoglioso del mix delle sue origini. «Per quanto riguarda l'origine paterna, è importante sottolineare che entrambi i cognomi sono di origine italiana, Ventura e Mattatia, famiglie che hanno lasciato l'Italia secoli fa, sicuramente a causa delle persecuzioni, e che sono arrivate a Corfù, in Grecia e successivamente in Egitto. Dall'Egitto, una parte della famiglia è arrivata a Milano, dove vivono ancora oggi (ancora non li conosco), e l'altra, dopo qualche mese in Italia, è immigrata in Brasile».
  E lui è brasiliano di San Paolo anche se si affretta a precisare che qui in Sicilia si è sentito subito a casa perché «oltre all'accoglienza della gente, mi sono imbattuto nelle stesse espressioni che sento usare da mio padre fin dalla mia infanzia - Mamma mia bella! Mangia che ti fa bene! Abbastanza! - e così via. La lingua italiana era ancora parlata dai miei nonni in Egitto dopo secoli di esilio, ed è così che mi è giunta. Un'altra coincidenza importante riguarda il mio test del Dna che ha indicato il 20% di origine italiana, di cui il 14% proprio dalla regione Sicilia, dove io e mia moglie Jacqueline abbiamo ricevuto l'invito a lavorare per conto di coloro che hanno ritrovato le proprie origini ebraiche e cercano di risvegliare le radici ebraiche della Sicilia». 
  La sua formazione rabbinica iniziò a 18 anni a Gerusalemme. Anni di studio fino all’ordinazione. «Dopo esserci sposati, io e mia moglie siamo tornati in Brasile, dove abbiamo insegnato a bambini e adolescenti per oltre 20 anni in alcune delle principali sinagoghe e scuole ebraiche di San Paolo». Non vuole guardare indietro se non per arricchirsi culturalmente e spiritualmente: «Le storie del passato non devono essere il fulcro, ma strumenti per costruire una realtà migliore per tutti, indipendentemente dalla religione o dall'origine». Purtroppo, non tutti la pensano come lui. L’antisemitismo rimane un inspiegabile virus che il tempo non riesce a estirpare. Anche se è guardandosi negli occhi che ci si vede uguali. «Lo sguardo ha il potere di annullare la violenza - dice rav sorridendo - and I am a dreamer . Circa 20 anni fa sono stato oggetto di un attacco antisemita all'angolo della strada in cui vivo a San Paolo. L'aggressore mi ha definito straniero, in quanto ebreo. Dopo avergli risposto che oltre ad essere brasiliano ero anche tifoso del Corinthians (una delle squadre di calcio più seguite del Brasile) cosa che lo ha letteralmente lasciato senza parole, ho capito che dovevo trovare una risposta migliore. I 1.200 studenti ebrei a cui insegnavo avrebbero dovuto essere meglio attrezzati di me per rispondere a questo tipo di provocazioni. Fu allora che mi ricordai di aver sentito dire che i primi portoghesi arrivati in Brasile erano accompagnati da due o tre ebrei. Quindi a chi ci chiamava stranieri bastava dimostrare che siamo stati qui sin dalla "scoperta". Con il supporto dei discendenti, furono svolte da mia moglie Jacqueline ricerche genealogiche e studi documentali negli archivi dell'inquisizione. Nel frattempo, abbiamo continuato con le nostre campagne a favore dei bisognosi, le azioni sociali nelle periferie e la creazione di legami di amicizia e interazione con altre comunità».
  Le ricerche di Jacqueline sono diventate quel libro che rigira tra le mani, mentre supporta le parole del marito, intitolato “Elevation of the soul and the jews with badges” e scritto in inglese e portoghese. Ma riguardo ai Bnei Anousim (i discendenti) mancava ancora una cosa: fornire l'ufficialità del loro ritorno al giudaismo. Secondo la legge ebraica, perché ciò avvenga, oltre allo studio della Torah e alla pratica dei precetti, occorre un tribunale rabbinico capace e disposto a farlo. 
«Ed è qui - dice rav Ventura - che entra in gioco l'importante figura del rabbino Haim Amsalem, uno dei massimi esperti in materia di conversione all'ebraismo. Autore di decine di opere e di una vera e propria enciclopedia, il rabbino Amsalem ha difeso l'importanza dell'accoglienza dei discendenti per decenni, anche durante i due mandati che ha tenuto alla Knesset d’Israele come parlamentare. Una volta stabilita la partnership, abbiamo iniziato a preparare coloro che erano interessati e qualificati alla conversione, con lezioni online di Torah, storia, filosofia e diritto ebraico e decine di visite alle comunità. Da allora, Rabbi Amsalem è stato in Brasile, accompagnato da altri rabbini di Israele, quattro volte, per compiere le conversioni. E così, oltre al tanto sognato ritorno spirituale, sono state aperte le porte a decine di membri del nostro movimento affinché potessero studiare in Israele e approfondire ancora di più i loro studi e l'integrazione». Il pomeriggio scorre facile. E la notte scende a chiudere l’incontro tra due mondi diversi che vivono un tempo uguale. 

(La Sicilia, 8 gennaio 2023)


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A Catania sinagoga dopo 500 anni, ma è polemica

Dopo aver messo in rete l'articolo pubblicato in data 8 gennaio da "La Sicilia, ci è arrivata oggi, 9 gennaio, la segnalazione del seguente articolo pubblicato dallo stesso giornale nell'ottobre scorso. NsI

CATANIA – E’ stata inaugurata a Catania la sinagoga al secondo piano del Castello di Leucatia, in locali concessi dal Comune. E’ l’unica da Napoli in giù. Sarà il luogo di culto della piccola comunità ebraico-catanese, che ha ricevuto la delegazione di Washington con in dono la Torah.
  Ma la costituzione della ‘Comunità ebraica di Catania’ è contestata dall’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) perché “non è stata mai stata presentata alcuna richiesta per la sua costituzione”. L’Ucei spiega che “non può consentire in alcun modo che chiunque si appropri della dicitura “Comunità ebraica” o costituisca una comunità prima inesistente, in aperta violazione della normativa prevista nell’intesa e nello statuto”. Baruch Triolo, segretario Bet Kenesette, la comunità ebraica di Catania, prova a spegnere le polemiche: “Nell’Unione delle comunità ebraiche ci sono persone amiche che hanno un loro modo di vedere la nascita di nuove realtà, ma, suppongo, che prima o poi si troverà la possibilità di incontrarsi e comprendersi”.
  Nella sinagoga oggi è stata celebrata una festa per l’arrivo del Sefer Torah, il testo sacro degli ebrei che furono cacciati dalla Sicilia nel 1492 dai sovrani cattolici di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. “E’ un momento di gioia – aggiunge Triolo – che ricostituisce un momento di studio che a Catania mancava da 530 anni, dove una volta c’erano due sinagoghe, che sono state seppellite dalla lava e dopo che gli ebrei sono dovuti andare via. Questo è un doppio ritorno: degli ebrei che risorgono alla fede e la rinascita di un luogo dove si può, finalmente, stare insieme e pregare. Sarà un faro nell’area mediterranea e molti verranno qui dall’estero sapendo che in Sicilia c’è finalmente un luogo dove ritrovarsi”.

(lasiciliaweb, 22 ottobre 2022)

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Gesù è nato. E poi? (3)

di Marcello Cicchese


DAL VANGELO DI LUCA, cap.2

  1. Quando ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città.
  2. Il bambino cresceva e si fortificava, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra lui.

  3. I suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
  4. Quando egli fu giunto ai dodici anni, salirono a Gerusalemme, secondo l'usanza della festa;
  5. passati i giorni della festa, come se ne tornavano, il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme all'insaputa dei genitori,
  6. i quali, pensando che egli fosse nella comitiva, camminarono una giornata, poi si misero a cercarlo fra i parenti e i conoscenti
  7. e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme alla sua ricerca.
  8. Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, che li ascoltava e faceva loro delle domande;
  9. tutti quelli che lo udivano stupivano del suo senno e delle sue risposte.
  10. Vedutolo, sbigottirono e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena”.
  11. Ed egli disse loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?”.
  12. Ed essi non compresero la parola che egli aveva detto loro.

  13. Poi discese con loro, andò a Nazaret e stava loro sottomesso; e sua madre serbava tutte queste cose in cuor suo.
  14. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini.

Un pittore che volesse rappresentare la storia di Gesù prima del suo ministero pubblico, come raccontata nel secondo capitolo del Vangelo di Luca, potrebbe dipingere un quadro con tre scene, oppure formare un trittico in modo da legare insieme le tre parti in un tutto. Nel primo quadro appare la grotta con lo sfondo dei campi, negli altri due si vede il Tempio sullo sfondo di Gerusalemme. Nell'ultimo però c'è  anche una cornice: Nazaret. 
  Nel passo sopra citato fanno da cornice quattro versetti, due all'inizio (39,40) e due alla fine (51,52),  dove compare il nome di Nazaret. All'inizio e alla fine del racconto si vedono i membri della sacra famiglia che tornano o scendono da Gerusalemme e si muovono in direzione di Nazaret, loro città. E' come se l'Editor celeste avesse voluto farci sapere che è inutile porsi tante domande sulla vita di Gesù prima della sua entrata nella scena pubblica, perché dopo il ritorno di Giuseppe dall'Egitto  (Matteo 2:19-23) la vita della sacra famiglia si è svolta tutta in quella cittadina della Galilea. 
  Per due volte, in alto e in basso nella cornice del quadro (vv. 40,52), si dice che Gesù cresceva. Cresceva fisicamente, in forza e statura, e spiritualmente, in sapienza e grazia di Dio. 
  Nient'altro ci viene detto. Questo significa che nulla di ciò che non si trova scritto si deve cercare di sapere o immaginare. E su quel che è detto si deve invece attentamente riflettere e meditare.
  Una semplice osservazione allora si può fare intorno alle quattro qualità in cui Gesù si distingueva nella crescita: due di esse, forza e sapienza,  dipendono in parte anche dall'uomo, mentre statura e grazia dipendono esclusivamente da Dio.  Riflettere in modo umile e attento su parole bibliche come queste, inserite nel loro contesto e paragonate con altre, può utilmente sostituire astratte discussioni teologiche sul mescolamento di sostanze, divina e umana, quando si vuol discettare su Gesù uomo e Dio, 
  L'angelo Gabriele aveva detto a Giuseppe:

    "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo" (Matteo 1:20).

E a Maria aveva detto:

    "Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra; perciò anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio" (Luca 1:35).

Lo Spirito Santo che è venuto su Maria e l'ha coperta dell'ombra dell'Altissimo, è rimasto all'opera anche dopo la nascita del Santo bambino. Si è interessato alla sua crescita fisica e spirituale, come uomo e Figlio di Dio. E al momento opportuno ha organizzato la visita di Gesù al Tempio di Gerusalemme.
  Il quadro che si trova dentro la cornice, Luca 2:41-50, è di un'importanza eccezionale. Oltre ad essere l'unico scorcio della vita di Gesù prima del suo ministero pubblico, le parole da Lui pronunciate in quella occasione sono le prime in assoluto ad essere riportate nella Bibbia. Tenuto presente che ciò che si presenta per la prima volta nella Scrittura ha di solito un'importanza particolare, sorprende che nei commenti questa priorità delle parole di Gesù dodicenne non sia stata molto sottolineata. L'episodio appare piuttosto come una curiosità che colora la vita del personaggio, più che come parte significativa della rivelazione che Dio fa di Sé proprio in quel preciso avvenimento e nel modo in cui  ne riferisce la Sacra Scrittura. 
  Ci si sofferma su domande che nascono dal nostro modo di vivere come uomini sulla terra: come mai Gesù non era coi suoi genitori? sarà stata colpevole indisciplina da parte sua? o piuttosto comprensibile desiderio di indipendenza di un giovane che si avvicina all'età adulta? O forse carenza di attenzione da parte dei genitori, che solo dopo tre giorni s'accorgono che il ragazzo non c'è e non sanno dove trovarlo? Sorgono allora difese d'ufficio: no, non si può accusare Gesù perché ecc.,  ma neanche i genitori sono colpevoli perché ecc.  Qualcuno si chiede anche come mai è la madre che interroga Gesù, e non il padre. C'è chi vi ha visto un'espressione della tipica preoccupazione possessiva delle mamme ebree verso i loro figli, un'anticipazione della proverbiale Yiddishe Mame; ma è un anacronismo, come quello di collegare in qualche modo quell'esperienza di Gesù dodicenne con l'attuale Bar Mitzvah, una tradizione che risale al Medio Evo. Come in altri casi, non si tiene presente che l'ebraismo del tempo dei Vangeli è ben diverso da quello che è diventato poi nei secoli successivi.
  Si fanno anche osservazioni gratuite o domande che non possono ottenere risposta per il semplice fatto che la Bibbia risponde solo a domande che essa stessa pone, invitando a cercare in se stessa la giusta risposta, secondo la vecchia massima oggi purtroppo molto trascurata, che "la Bibbia si spiega con la Bibbia". La Bibbia è rivelazione di Dio, e più precisamente rivelazione di come Dio è intervenuto nella storia degli uomini con parole e fatti. 
  Un esempio si può trovare nel secondo quadro del trittico natalizio del Vangelo di Luca. Per tre volte è nominato lo Spirito Santo: è sopra Simeone (v. 25); gli rivela qualcosa sul tempo della nascita del Messia (v. 26); lo  spinge ad andare al Tempio proprio nel momento in cui lì si trova il bambino Gesù (v. 27). 
  Qui si vede Dio in azione che interviene nella storia per dirigere i momenti della nascita  dell'uomo che poi  chiamerà "mio figlio": Gesù (Matteo 17:5). 
  Ed è lo stesso Dio che secoli prima è intervenuto nella storia per dirigere i momenti della nascita del Popolo che poi chiamerà "mio figlio": Israele (Esodo 4:22).
  Questo mostra l'indissolubilità del legame storico fra Israele e Gesù. Lascino pure ogni speranza coloro che vorrebbero rompere questo legame, sia da una parte, sia dall'altra: non ci riusciranno mai (cfr. Osea 11:1, Matteo 2:15, Ebrei 11:24-26).
  Si possono avere utili spunti di riflessione facendo accostamenti, notando somiglianze e diversità tra la nascita di Gesù e l'uscita di Israele dall'Egitto. Esempio: Erode che vorrebbe uccidere Gesù subito dopo la nascita (Matteo 2:1-18), e Amalec che voleva fare una cosa simile con Israele (Esodo 17:8-14). E naturalmente nessuno dei due ci riuscì. Dio sa come difendere suo figlio.
  Si può osservare Dio in azione nei due quadri del trittico natalizio che hanno come centro il Tempio. 
  Nel primo, Simeone, che appare come "parte buona" di Israele, viene spinto dallo Spirito ad andare nel Tempio e lì vi trova il bambino Gesù. 
  Nel secondo, il dodicenne Gesù  viene spinto dallo Spirito ad andare nel Tempio e lì vi trova dei dottori della legge, che appaiono anche loro come "parte buona" di Israele. 
  In entrambi i casi l'incontro è presentato in termini del tutto positivi. Nel piano di Dio era arrivato il momento in cui il ragazzo Gesù doveva entrare in relazione personale con la società, cosa che implica sempre una prima forma di allontanamento dalla famiglia. Così doveva essere, dunque Dio ha fatto in modo che la cosa avvenisse. 
  Le circostanze che hanno portato a questa prima uscita pubblica di Gesù sono descritte in modo molto sintetico, questo significa che i pochi particolari riportati  sono importanti, non come colorita descrizione del modo in cui sono avvenute le cose, ma per quello che possono dire intorno al motivo essenziale che ha determinato l'avvenimento. Non è  l'eventuale umana sbadataggine di genitori o figlio che dev'essere sottolineata, ma il fatto che il colloquio di Gesù nel Tempio è avvenuto perché "i suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua". Questo non è un semplice particolare descrittivo, ma una precisa informazione  con cui la Parola di Dio rende noto che Gesù è cresciuto in una pia famiglia israelita, fedele osservante dei costumi del suo popolo. E con il resto della cornice dei quattro versetti fa sapere che il loro figlio non si comportava come un contestatore giovanile dell'ambiente paterno, ma era serenamente inserito nella sua famiglia ebrea.
  Uscendo dalla cornice, si  riconosce che il centro del racconto è costituito dagli scambi in simultanea che Gesù ha coi dottori della legge e con i genitori.
  Il ragazzo Gesù, che tutti gli anni andava a Gerusalemme con la famiglia per la festa di Pasqua, la dodicesima volta si è sentito spinto da qualcosa o da Qualcuno a fermarsi nel Tempio per parlare con esperti dottori della legge. Di questo scambio viene soltanto detto che Gesù ascoltava, poneva domande, e che "tutti quelli che lo udivano stupivano del suo senno e delle sue risposte". Se ne deduce che già a quell'età Gesù conosceva la legge tramandata nel suo popolo e poneva domande a chi ne sapeva di più non per metterli in imbarazzo da saccente, ma perché era desideroso di saperne di più. I dottori si saranno accorti della sua competenza proprio dal tipo di domande che poneva, dalle quali si poteva riconoscere che lui aveva davvero capito quello che era stato detto fin a quel punto ed era capace di formulare domande pertinenti o indicare eventuali conseguenze. Si può dire dunque che questo primo incontro all'interno  tra Gesù e esponenti della legge è riportato dal Vangelo in modo del tutto positivo. Il ragazzo Gesù si muove pienamente a suo agio nell'ambiente del Tempio, ma dello scambio intercorso con i dottori della legge non viene riportato nulla, né di una parte né dell'altra. E sì che la cosa ci sarebbe interessata molto oggi, viste le discussioni che si sono fatte in seguito sul rapporto fra legge e Gesù.
  Viene riportato invece lo scambio tra Gesù e i suoi genitori. Questo significa che proprio qui sta il centro del racconto, anche perché è qui che si trovano le prime parole di Gesù riportate dalla Bibbia. Le battute sono poche, ma appunto per questo sono da considerare essenziali, perché il Regista celeste dell'avvenimento, che è anche l'Editor del racconto, ha pesato le parole a cui voleva affidare una particolare rivelazione.
  Sono i genitori a parlare per primi, ed è la madre che prende la parola:

    “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena”  (v. 48).

Maria non chiede che cosa è successo, dove è stato, come mai si trova lì, non cerca l'eventuale responsabilità. Poteva essere stato un disguido, o una leggerezza di qualcuno che non aveva fatto quello che doveva fare. No, Maria attribuisce subito tutta la responsabilità a Gesù. Non gli chiede come, ma perché. Dà per scontato che Gesù aveva l'età per sapere quello che faceva, dunque ne aveva anche la responsabilità. Il sottotono inespresso delle sue parole può essere stato questo: "Tu sapevi che noi ti avremmo cercato e saremmo stati in pena per te, dunque perché l'hai fatto?" E per appesantire la gravità del fatto fa riferimento ai rapporti  di famiglia cominciando con un solenne Figlio!, come a dire: Ragazzo, ricordati che noi siamo i tuoi genitori. 
  Non usa però la parola "genitori", ma nomina padre e madre. E qui forse si può capire perché il Regista celeste ha fatto in modo che fosse Maria a prendere la parola: perché in questo modo può venir fuori il riferimento esplicito al padre: "tuo padre ed io ti cercavamo..." 
  Questo dà a Gesù il punto d'appoggio per la sua risposta. Alla domanda della madre: ".. perché ci hai fatto così?" Gesù risponde in perfetto stile ebraico, con un'altra domanda: "Perché mi cercavate?" Adesso sono loro in debito di risposta. E al sottotono con cui Maria voleva dire: "Tu sapevi che ti avremmo cercato..." Gesù risponde in chiaro tono: "Perché mi cercavate, non sapevate che..." 
  Cos'è che i genitori avrebbero dovuto sapere e non sapevano? La domanda completa di Gesù è questa:

    "Perché mi cercavate, non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio" (v. 49).

Quel "Padre mio" di Gesù è la risposta a quel "tuo padre" di Maria. E questo può dare l'avvio a riflessioni bibliche sulla persona di Gesù come uomo e come Dio, ma non ci vogliamo qui addentrare. 
  Non si registrano reazioni alle parole di Gesù e il resoconto del colloquio si conclude con uno sguardo sui genitori:

    "Ed essi non compresero la parola che egli aveva detto loro" (v. 50).

Il fatto è che anche noi, a secoli di distanza, facciamo fatica a capirla. Vogliamo manifestare anche la nostra fatica avvertendo che la traduzione del versetto 49 non è letterale: non è che una delle tante traduzioni che cercano affannosamente di dare un significato alla frase di Gesù.
  Ne indichiamo alcune, anche in altre lingue, in una tabella in cui sono indicati con colori uguali termini che si riferiscono allo stesso originale:

Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio" Riveduta 2020
Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Nuova Diodati
Non sapevate voi ch'egli mi conviene attendere alle cose del Padre mio? Diodati
Non sapevate, come nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? Martini
Wist ye not that I must be about my Father’s business? King James
Do you not know that it was fitting for me to be in my Father's house?” Aramaic Bible
Wisset ihr nicht, daß ich sein muß in dem, das meines Vaters ist? Luther
Wußtet ihr nicht, daß ich im Eigentum meines Vaters sein muß? Textbibel
Ne saviez-vous pas qu'il faut que je m'occupe des affaires de mon Père? Louis Segond
Ne saviez-vous pas qu'il me faut être aux affaires de mon Pere? Darby

L'oscillazione di traduzione riguarda tre termini che nella nostra traduzione sono, nell'ordine, dovevo, trovarmi, casa. 
  Il primo termine (e i corrispondenti nelle altre lingue) viene usato da quasi tutti quelli elencati tranne la Diodati (mi conviene) e la Aramaic Bible (was fitting).
  Il secondo termine viene tradotto sostanzialmente in due modi: uno che indica luogo (trovarmi, to be, sein. être) e l'altro che indica attività (occuparmi, attendere, m'occupe).
  Il terzo termine viene tradotto in quattro modi: uno che indica luogo (casa, house), un altro che indica attività (business, affaires), un terzo generico (cose, dem das),  un quarto, unico in questa lista, che indica proprietà (Eigentum).
  La difficoltà sta nel fatto che due di questi termini, il secondo e il terzo nell'elenco, hanno un significato comune molto ampio: il verbo tradotto  con trovarmi è il verbo εἰμί (essere, esistere), il termine tradotto con casa non viene neanche indicato in modo a sé stante nei dizionari perché si può considerare come la declinazione di un articolo che acquista significato soltanto accostato a qualche altra cosa. Per questo può essere tradotto anche con il generico cose. Il termine più adatto per tradurlo in italiano potrebbe essere "ciò che". Viene tradotto in questo modo soltanto nella Bibbia di Lutero: dem, das.
  Anche il termine tradotto comunemente (e sbrigativamente) con devo, must, muß, il faut, ha un significato più sfumato che si trova soltanto nella Diodati (mi conviene) e nella Aramaic Bible (was fitting).
  Si è dunque davanti a una difficoltà di traduzione che potrebbe essere di per se stessa indicativa. Ricorda la difficoltà che si trova nella traduzione del versetto di Esodo 3:14: Io sono colui che sono. In entrambi i casi si tratta di attributi di Dio, e in questo caso gli attributi riguardano il rapporto fra Dio Padre e Dio Figlio.
  Si propone qui una traduzione molto letterale:

    "Perché mi cercavate, non sapevate che mi si addice essere in ciò che è del Padre mio?"

Il pronome ciò non indica qui necessariamente casa, ma potrebbe indicare anche di più,  cioè tutto quello che appartiene a Dio, quindi anche la casa. Questo significato è reso bene dalla traduzione tedesca Textbibel, che usa il termine Eigentum, che significa proprietà. 
  Se Gesù è Figlio di Dio, come vogliono annunciare i racconti della nascita, è naturale pensare che al Figlio erede appartenga tutta la proprietà del Padre. E poiché il Tempio è il centro di questa proprietà, avrebbe dovuto essere chiaro ai genitori che se Gesù non era con il suo padre terreno, non poteva che essere al centro della proprietà del Padre suo celeste. "Questo è il mio posto - sembra dire Gesù ai genitori -; è il posto che mi si addice come erede di tutto ciò che è del Padre mio. 
  Davvero non sorprende che Giuseppe e Maria non abbiano capito quella parola: ci sentiamo molto vicini a loro.  Ma è chiaro che quella parola doveva essere detta, per i contemporanei di Gesù e per noi che leggiamo.

(3. fine)

(Notizie su Israele, 8 gennaio 2023)


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Le autorità statunitensi vietano ai piloti israeliani con doppia cittadinanza di pilotare aerei da combattimento F-35

di Ilya Polonsky

Le autorità statunitensi vietano ai piloti israeliani con doppia cittadinanza di pilotare aerei da combattimento F-35
  I piloti militari israeliani che, oltre alla cittadinanza israeliana, hanno passaporti di paesi terzi, non potranno più svolgere le funzioni di pilotaggio degli ultimi caccia F-35. Questa decisione è stata presa dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti al fine di proteggere le informazioni e la tecnologia.
  Va notato che in Israele un numero piuttosto elevato di cittadini del paese ha, di norma, una seconda cittadinanza, i cosiddetti "paesi di origine". Tra loro potrebbe esserci anche la Russia, che oggi gli Stati Uniti considerano un avversario. L'esercito americano nutre dubbi sulla "affidabilità" di tali militari israeliani, e quindi ha deciso di andare sul sicuro con le questioni relative alla protezione della sicurezza delle informazioni.
  È interessante notare che anche il dipartimento militare americano ha attirato l'attenzione sul fatto che molti ufficiali dell'esercito israeliano, compresi i militari aviazione, hanno proprie auto prodotte in Cina. I funzionari del Pentagono temono che i veicoli cinesi con sistemi multimediali avanzati possano contrassegnare informazioni sensibili sui telefoni cellulari degli ufficiali dell'IDF.
  L'aeronautica militare israeliana, secondo la stampa americana, avrebbe già condiviso la decisione del Pentagono e si sarebbe rifiutata di assegnare piloti con doppia cittadinanza agli aerei F-35 Adir. Ricordiamo che i caccia F-35 Adir sono stati a lungo in servizio con l'aviazione israeliana. L'aeronautica militare israeliana ha attualmente 50 di questi velivoli e prevede di acquistare altri 25 caccia in futuro.
  È interessante notare che gli Stati Uniti, avendo venduto caccia a Israele, mantengono la capacità di dettare a uno stato sovrano le condizioni alle quali verranno utilizzati questi aerei. Dopotutto, alla fine, è Israele, non gli Stati Uniti, che dovrebbe determinare quali ufficiali saranno in grado di far volare i suoi caccia dell'aeronautica e quali no.

(Top War, 7 gennaio 2023)

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Fuga in Svizzera: un angolo di pace o l'anticamera della deportazione? 

Quale fu il vero ruolo della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale? Quali le sue politiche di accoglienza così altalenanti e contraddittorie? Chi fu respinto e chi accolto, chi fu salvato e chi "sommerso"? Lo narrano innumerevoli storie e resoconti, alcuni felici altri funesti. Eccone alcuni, quelli dei Gandus, degli Ascoli, dei Bonfiglioli... E una analisi di Liliana Picciotto.

di Ilaria Myr 

Il 25 e 26 settembre 1942, a Montreux si tenne la conferenza annuale dei direttori cantonali e federali delle polizie degli stranieri. In agenda c'era la politica svizzera nei confronti del crescente numero di rifugiati che tentavano di entrare nel paese, in particolare ebrei in fuga dai nazisti. «Qui da noi, come altrove, non è auspicabile che la popolazione ebrea superi una certa proporzione; la Svizzera non intende farsi guidare dagli ebrei, non più di quanto non vorrebbe essere guidata da un qualsiasi altro straniero…
  L’ebreo è difficilmente assimilabile…
  Non bisogna nemmeno dimenticare che molti di loro sono dei soggetti pericolosi per le nostre istituzioni, degli individui che hanno vissuto a lungo in paesi disorganizzati o mal approvvigionati nei quali si vive di espedienti. Sono abituati a condizioni in cui l'istinto affarista dell'ebreo tende a sfogarsi». Queste le parole pronunciate, in quel contesto, da Heinrich Rothmund capo dell'Ufficio federale della migrazione. 
  Ma quale fu la realtà dell'accoglienza elvetica verso gli ebrei in fuga dal nazifascismo? Quali le luci e le ombre? Dove e quanto l'aiuto reale o il respingimento? Lo abbiamo chiesto a Liliana Picciotto, storica della Fondazione CDEC. 

- Quanti ebrei si sono rifugiati in Svizzera durante quel periodo? 
  Il grande esperto dell'argomento gli ebrei italiani in Svizzera era Silvano Longhi, studioso italo-tedesco, purtroppo scomparso nel 2021 che veniva, per decine di giorni alla volta, a studiare in via Eupili e con il quale si era creato un bel sodalizio. Quello che so sull'argomento, l'ho appreso da lui. I numeri che riguardano il rifugio svizzero per i profughi sono, secondo gli standard cui siamo abituati oggi, ridicolmente bassi. Si ricordi che nel 1940-1945 non si conoscevano i grandi flussi migratori determinati da guerre o da problemi economici. Fino ad allora, le popolazioni che avevano conosciuto l'esilio erano soprattutto ebrei dei Paesi dell'Est Europa che erano migrati verso le Americhe, spinti dagli antisemitismi locali. 
  I profughi civili presenti in Svizzera, alla fine del 1944, erano tra 41.000 e 51.000, mentre molti di più erano i profughi militari, quelli cioè entrati in Svizzera con la loro divisa, desiderosi di non servire nei loro Paesi, oppressi dal nazismo: circa 105.000. Dall'Italia, tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, attraversarono la frontiera circa 14-15.000 persone: in maggioranza perseguitati politici (alti funzionari dello Stato, leader di partiti politici, noti intellettuali). Di questi, gli ebrei erano 4.265. Il che non è molto, ma non è neanche poco, dato che gli ebrei in Italia erano allora circa 40.000. Si può dire perciò che il 10% dell'ebraismo italiano si salvò grazie all'accoglienza da parte della Svizzera. 

- Quali erano le condizioni in cui si trovavano a vivere? 
  Il disagio principale dei profughi ebrei dall'Italia era, in generale, di non sapere più che cosa stesse succedendo in Italia. In patria, parenti e famigliari continuavano ad essere arrestati e a sparire nel nulla, e di questo, qualche sentore si aveva anche in Svizzera. 
  Dopo l'arrivo e le procedure di accoglimento (ma non sempre, come si sa, si era accolti), la maggioranza dei profughi italiani, come i rifugiati dagli altri Paesi, passavano mesi nell'arcipelago dei campi svizzeri. Cattività assistenziale nei loro confronti era vasta e molto ben organizzata. Essi, pur nelle ristrettezze economiche in cui versavano, riuscirono a sviluppare una intensa attività nel campo della cultura, nella pubblicistica e nell'istruzione, dove erano attivi sia come organizzatori, sia come insegnanti, sia come scolari e studenti universitari. Gli ebrei italiani venivano da 5 anni di persecuzioni razziste e l'esilio svizzero fu per loro una boccata d'aria e una possibilità di intravedere un futuro migliore, una volta che la guerra fosse finita e fossero ritornati in Italia.

- Luci e ombre della fuga in Svizzera, e dell'atteggiamento della Svizzera nei confronti degli ebrei. 
  Per gli ebrei, la fuga nella neutrale Svizzera divenne presto, dopo l’8 settembre del 1943, una necessità vitale. Ma i rischi nell'intraprendere quella decisione erano molto alti. Il solo avvicinamento alla frontiera, con posti di blocco e controlli sui treni, era molto pericoloso. Inoltre, lo sconfinamento avveniva a piedi, con guide talvolta infide. La frontiera era guardata sia dalla parte italiana, sia dalla parte svizzera e ci furono molti arresti in territorio italiano prima ancora del tentativo di sconfinamento. La politica svizzera verso l'accoglimento degli ebrei non fu lineare: variava non solo secondo il periodo, ma anche secondo il cantone di frontiera. I segnali ufficiali di apertura o chiusura raggiungevano difficilmente chi desiderava passare in Svizzera e l'opzione accolto/respinto restava sempre drammaticamente aperta. 
  Inoltre, al confine ticinese c'erano questioni di competenza e di interpretazione di disposizioni non chiare, soprattutto se diramate da Berna solo verbalmente. La politica altalenante svizzera cessò nell'estate del 1944 quando, finalmente, tutti i fuggitivi ebrei vennero, senza eccezioni, accolti.


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"Un angolo di pace": la salvezza dei genitori narrata da Valeria Gandus in un libro

di Esterina Dana

Furono 28.000 gli ebrei in fuga dalle persecuzioni nazifasciste accolti dalla neutrale Svizzera negli anni cruciali del Secondo conflitto mondiale. Molti non ebbero la medesima fortuna, ma quella raccontata da Valeria Gandus (Un angolo di pace. Un ebreo in fuga nella Svizzera del '43, Calamospecchia, Ostuni, 2022) è una storia di salvezza e gratitudine della sua famiglia che lì trovo ricovero. E' l'11 settembre 1943 quando il padre Riccardo cerca clandestinamente rifugio in Svizzera con il fratello Aldo e la cognata Annie. Nel suo intenso memoir, Gandus redige un meticoloso reportage della difficile vita in Svizzera, basandosi sul carteggio tra i vari membri della famiglia, sull'agendina blu di Riccardo e sul diario di Aldo ed Annie, ricco di informazioni sulla guerra e sui drammi di oltre confine. Vi si parla di trasferimenti in diversi campi di smistamento e di lavoro, di faticose attività nei campi come boscaioli o contadini, gli uomini, di "lavori femminili" (bucato, cucina, giardinaggio), le donne. E di nostalgia: quella di Riccardo per la propria città, Milano, e per "la sua Herry''. I toni sobri della narrazione rimandano al linguaggio quotidiano di persone comuni costrette talora a sopportare anche l'insofferenza razzista della popolazione locale. Ma si raccontano pure momenti di divertimento e di incontri con amici di famiglia come il violoncellista Vittorio Basevi e il violinista Gualtiero Morpurgo.
  II testo è corredato da fotografie: dei protagonisti di questa avventura a lieto fine, di cartoline postali e di ritagli di giornale. E' introdotto da una prefazione di Gioele Dix, al secolo David Ottolenghi, i cui nonni vissero un'analoga esperienza di fuga e salvezza.
  Una nota dell'editore chiude il volume mettendo in luce la capacità dell'autrice di spostare a intermittenza lo sguardo sul presente e di indurre una riflessione empatica su quanto accade alle migliaia di profughi di oggi.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, gennaio 2023)

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Nelle capanne di Sukkot la bellezza abita la precarietà

In libreria il trattato del Talmud sulla festa delle capanne, curato dal rabbino Riccardo Di Segni. Ricorrenza gioiosa, in cui si legge il Qohelet a ricordare la fragilità umana

di Massimo Giuliani 

Il nuovo trattato del Talmud, appena tradotto e pubblicato con testo ebraico a fronte, porta il titolo Sukkà che significa capanna. È dedicato all’omonima festa di pellegrinaggio a Gerusalemme, detta Sukkot, la terza dopo Pasqua e Pentecoste. Essa cade nel periodo autunnale che coincide con la vendemmia e le ultime attività agricole prima dell’inverno. Con il tempo le è stato sovrapposto un significato storico-esistenziale: il ricordo del lungo soggiorno dei figli e delle figlie di Israele nel deserto, nel loro uscire dall’Egitto e camminare verso la terra della promessa, allorché vissero in capanne. Un tempo di prove e privazione, e di inevitabili lamenti, certo, ma anche di grazia, visto che mai mancò loro la manna, anche quando trasgredirono, e soprattutto dato che nel deserto Mosè consegnò loro la Torà e rinnovò con loro l’alleanza divina. Tale ricordo si concretizza nel precetto di costruirsi una capanna in cui mangiare e, come fanno alcuni, dormirvi. La festa dunque fa respirare un misto di precarietà, di cui la sukkà è simbolo, ma anche di gioia, che è addirittura un comando esplicito che accompagna questi giorni, allietati da rami di palma, mirto e salice, nonché da un bel frutto che la tradizione identifica con il cedro. Neanche a dirlo, queste quattro specie vegetali sono state a loro volta caricate di molta simbologia e la festa si conclude con una giornata detta Simchat Torà ovvero “la gioia della Torà”. Chi non ha visto la gioia di come si celebra la festa della Torà in una sinagoga ortodossa non sa cosa sia la gioia, religiosamente parlando. 
  A differenza delle altre due feste summenzionate, Sukkot non ha un corrispettivo nel calendario liturgico cristiano (e il perché può avere molte risposte). Il trattato talmudico che se ne occupa non può che apparire tecnico, nei suoi aspetti pratici, a chi non conosca lo spirito del giudaismo, che ama i dettagli, li ragiona e ne discute a fondo: trattandosi poi di un’abitazione sì temporanea ma assai carica di valore esistenziale, come potrebbero essere trascurati i dettagli? Nella sua dimensione di simbolo ogni sukkà è aperta ad ospitare sette figure illustrissime, detti in aramaico ushpizin (i tre patriarchi ossia Abramo, Isacco e Giacobbe, insieme a Giuseppe il vicerè d’Egitto, Mosè e Aronne e il re Davide), a significare che non si tratta soltanto di una costruzione nello spazio ma anche di un memento temporale, che marca la continuità teologico-politica dell’intera storia ebraica. Inoltre, dopo averla costruita con le proprie mani, e ogni anno da capo, si è soliti abbellire la sukkà e decorarla con frutta di stagione: precarietà non significa aspetto sgradevole, men che meno bruttezza. Al contrario, la bellezza è un tratto che non manca in questa festa, ad esempio nell’uso estetico, ossia senza consumo alimentare, dell’etrog, l’agrume di cui nel Talmud si descrivono le qualità essenziali ai fini del suo uso liturgico. 
  Qualcuno può chiedere: perché non si mangia (come la melagrana a capodanno, ad esempio)? La ragione sta forse nel fatto che il bello estetico, si pensi alla sfera dell’arte, non va consumato ma serve al bisogno di elevarsi spiritualmente; così anche il bello naturale tipico dell’etrog maturo, con il suo giallo sgargiante, va usato in tal caso per elevarsi e va apprezzato senza altro scopo. In realtà nella Torà non si parla di cedri o di limoni, ma i rabbini hanno identificato il perì ‘etz hadar di Levitico 23,40 (traducibile con “frutto dell’albero bello”) con l’etrog, scientificamente noto come cidrus medica, il cedro nostrano. Anche qui, i maestri di Israele ragionano alle pagine 35a-36b del testo talmudico, su come debba essere questo frutto per servire adeguatamente al culto: la sua forma, la grandezza, l’integrità, e se un prodotto d’innesto sia altrettanto adatto. Essendo un comando divino, chi non soppeserebbe i modi giusti per adempierlo? In queste discussioni eccelle un famoso rabbino che visse tra I e II secolo della nostra èra, rabbi ‘Aqivà, che si mostra sempre assai rigoroso e più esigente nelle sue opinioni rispetto ai suoi colleghi. Credo che ciò sia dovuto all’inclinazione mistica di questo grande maestro (che morì martire per mano dei romani, per essersi opposto al loro divieto di insegnare Torà), un’inclinazione tesa a cogliere ogni particolare della Parola divina, inclusi i valori estetici, che secoli dopo nella qabbalà verranno associati a tiferet, l’emanazione divina che veicola bellezza e splendore. Forse rabbi ‘Aqivà cercava esattamente questa dimensione nella perfezione dell’etrog, un riflesso nel “frutto bello” della bellezza e dello splendore del Creatore. 
  Ciò spiega e giustifica la meticolosità e la passione con cui molti chassidim del cuore cercano il cedro perfetto con cui pregare, senz’altro scopo che celebrare con gioia la gloria, altra possibile traduzione di tiferet, del loro Creatore. Come ricorda rav Riccardo Di Segni, curatore del volume (come gli altri del grande progetto di traduzione in italiano del Talmud babilonese, edito da Giuntina con molteplici apparati, pagine 594, euro 65,00), oltre alle parti halakhiche o normative per la corretta costruzione della capanna, il trattato racconta di come la festa veniva celebrata a Gerusalemme «quando funzionava il Santuario: mentre di notte vi era un’illuminazione straordinaria, di giorno una solenne processione accoglieva l’acqua che era attinta dalla fonte viva e serviva [oltre al vino, forse novello] per la libagione». Il canto dei leviti si accompagnava al suono dei flauti e di altri strumenti musicali come lire, arpe, cembali e corni, mentre i sacerdoti “salivano e scendevano” (come gli angeli visti in sogno da Giacobbe) sui quindici gradini che nel Tempio portavano dal cortile degli israeliti al cortile delle donne, quindici come i salmi delle ascensioni. E via descrivendo. 
  Ultima nota, a Sukkot viene letta liturgicamente la meghillà o rotolo di Qohelet, forse perché in questo scritto biblico, al versetto 11,2, si allude a tale festa; o forse solo perché tale lettura, con i suoi toni pessimisticonaturalistici, è in sintonia con il senso di precarietà di cui è intriso il precetto di risiedere nella sukkà, e a ben vedere l’intera nostra esistenza, dove fragilità e speranza, timore e gioia sono sempre inseparabili.

(Avvenire, 7 gennaio 2023)

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L'esercito israeliano rifiuta i poteri militari concessi ai ministri

TEL AVIV - L'esercito israeliano ha respinto i poteri concessi ai ministri ultranazionalisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che hanno ricevuto responsabilità per vari aspetti militari al di fuori della catena di comando, ha rivelato oggi Channel 12.
  Lo ha comunicato il Capo di Stato Maggiore uscente, Aviv Kohavi, al premier Benjamin Netanyahu ed al ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha evidenziato l'emittente televisiva.
  Kohavi ha affermato che il trasferimento delle responsabilità relative alle Forze Armate a qualsiasi ministro diverso da quello della Difesa è una violazione inaccettabile della catena di comando.
  Non lavoreremo con nessun altro funzionario, ha avvertito il militare, secondo Channel 12.
  Come parte degli accordi di condivisione del potere della coalizione di governo, Ben Gvir è stato incaricato del portafoglio della sicurezza nazionale, con poteri ampliati per includere il controllo della polizia di frontiera, fino a quel momento controllata dalla Difesa.
  Questo ministero è stato anche privato dei poteri sulla Cisgiordania che sono stati consegnati al partito Sionismo religioso, guidato da Smotrich.

(Prensa Latina, 6 gennaio 2023)

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Israele: l’Università di Tel Aviv lancia tre rivoluzionari nanosatelliti

di Luca Spizzichino

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La Tel Aviv University (TAU) ha raggiunto un nuovo traguardo tecnologico in ambito aerospaziale. In meno di due anni infatti ha lanciato nello spazio tre nanosatelliti. L’ultimo, il TAU-SAT3, è stato lanciato ieri con il Falcon 9 di SpaceX.
  Secondo i ricercatori, quest’ultimo nanosatellite rappresenta una svolta scientifica per quanto riguarda i canali di comunicazione satellitare basati su tecnologie ottiche e quantistiche. TAU-SAT3, è stato il primo ad essere completamente progettato, sviluppato e costruito presso l’Università di Tel Aviv.
  “La Facoltà di Ingegneria è orgogliosa del successo del lancio del nanosatellite TAU-SAT3. - ha dichiarato il Preside della Facoltà di Ingegneria, il Prof. Noam Eliaz - Questo nanosatellite realizza una serie di pietre miliari sulla nostra strada per raggiungere la comunicazione quantistica dallo spazio per mezzo di un nanosatellite quantistico, che sarà costruito in futuro presso l'Università di Tel Aviv”. Ad oggi, la Facoltà di Ingegneria dell'Università di Tel Aviv è leader in questo campo.
  Il nanosatellite dovrebbe orbitare intorno alla Terra per circa cinque anni e svolgere diversi compiti scientifici. La sua missione sarà quella di comunicare con la nuova stazione terrestre ottica allestita sul tetto dello Shenkar Physics Building nel campus dell'università.
  Si tratta di una delle pochissime al mondo in grado di agganciare, tracciare e raccogliere dati da un nanosatellite che, visto dalla Terra, è più piccolo di un singolo pixel. Il TAU-SAT3 infatti è un nanosatellite di 20 cm al cui interno trasporta un dispositivo ottico lungo solo pochi centimetri.
  “Quando il satellite passerà sopra Israele, il dispositivo emetterà luce a varie lunghezze d'onda che il telescopio della stazione ottica terrestre identificherà, aggancerà e seguirà” ha spiegato il Prof. Meir Ariel, Capo del Center for Nanosatellites dell’Università di Tel Aviv.
  “Ci auguriamo che TAU-SAT3 consenta per la prima volta la comunicazione tra una stazione terrestre ottica e un satellite, facendoci fare un significativo passo avanti per quanto riguarda la dimostrazione di una comunicazione quantistica affidabile" ha aggiunto il Prof. Yaron Oz, capo del Centro per la scienza e la tecnologia quantistica della TAU ed ex rettore dell’università.

(Shalom, 5 gennaio 2023)

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Nessuna risoluzione dopo la riunione del Consiglio di sicurezza sulla visita di Ben-Gvir ad Al Aqsa

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha discusso della situazione sul Monte del Tempio/Spianata delle moschee e dello status dei luoghi santi a Gerusalemme in una riunione speciale indetta dopo la visita ad Al Aqsa del ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, all’inizio della settimana. La sessione si è conclusa senza alcuna votazione su una proposta di risoluzione e senza una dichiarazione congiunta. L’inviato israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha criticato i palestinesi per i “veleni e le bugie” pronunciate durante la sessione d’emergenza del Consiglio di sicurezza.
  I membri del Consiglio, inclusi gli Stati Uniti, hanno ripetutamente sottolineato l’importanza di mantenere lo status quo nel luogo sacro, mentre i palestinesi hanno avvertito della violenza e hanno negato qualsiasi pretesa israeliana sul sito religioso. Erdan ha definito l’incontro “assurdo” e ipocrita. La visita di 13 minuti di Ben-Gvir al sito di Al Aqsa è stata accolta con condanne internazionali ed espressioni di preoccupazione. “Siamo qui a discutere della visita pacifica di 13 minuti di un ministro ebreo al luogo sacro ebraico sotto la sovranità della democrazia liberale di Israele”, ha detto Erdan, che ha criticato i 15 membri del Consiglio di sicurezza per non aver tenuto riunioni simili in risposta ad azioni russe in Ucraina, ad attacchi terroristici palestinesi o attacchi iraniani contro navi nel Golfo.
  L’incontro presso il quartier generale delle Nazioni Unite a New York è stato formalmente richiesto dalla Cina e dagli Emirati Arabi Uniti, in qualità di rappresentante della Lega araba al Consiglio di sicurezza. La richiesta è stata fatta a nome delle missioni palestinese e giordana, che non sono membri del Consiglio. “La recente visita del ministro Ben-Gvir al Monte del Tempio non è stata un’incursione ad Al Aqsa o un’altra invenzione”, ha continuato Erdan. “Era in linea con lo status quo”. “Agli ebrei è permesso visitare il luogo più sacro del giudaismo. È il diritto di ogni ebreo. Israele non ha danneggiato lo status quo e non ha intenzione di farlo”. Da parte sua, l’ambasciatore palestinese presso le Nazioni Unite, Riyad Mansour, ha dichiarato: “Al Haram al Sharif non cadrà. Resisterà per le generazioni a venire”.
  Rivolgendosi all’estrema destra israeliana, ha affermato: “Ascoltami attentamente. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe fermarti. È loro responsabilità. È responsabilità di questo Consiglio e di tutti gli Stati sostenere il diritto internazionale e lo status quo storico. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe fermarti, ma non commettere errori. Se non lo farà, lo farà la nostra gente”. Mansour ha affermato che “le azioni di Israele non hanno nulla a che fare con la libertà religiosa, ma con il tentativo illegale di alterare il carattere, lo status e l’identità della città” di Gerusalemme. “Non c’è pace senza Gerusalemme. Il futuro del conflitto e della pace nella nostra regione sarà determinato a Gerusalemme, non in qualsiasi altra capitale del mondo. Chiunque dica il contrario o delira o mente”, ha sottolineato.

(Agenzia Nova, 6 gennaio 2023)


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Il falso scandalo della visita di Ben Gvir al Monte del Tempio

Una strana riunione

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Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il massimo organismo esecutivo della comunità internazionale, dovrebbe riunirsi oggi venerdì per una sessione di emergenza. Si tratta della guerra in Ucraina? Delle minacce cinesi a Taiwan? Della inumana repressione cui il regime iraniano sottopone la sua stessa popolazione, in particolare le donne? O del fatto che lo stesso regime iraniano sta allestendo un’arma atomica e un dispositivo missilistico per trasportarla che minacciano non solo il Medio Oriente, ma anche l’Europa? No, l’oggetto della riunione di emergenza è invece il fatto che l’avvocato Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nel nuovo governo israeliano, abbia fatto un giro qualche mattina fa sul Monte del Tempio, badando bene a non entrare nella moschea di Al Aqsa, senza che vi fosse alcuna reazione dei musulmani presenti né delle “piazze arabe”, salvo un razzo sparato da Hamas a Gaza verso Israele ma ricaduto sullo stesso territorio controllato dai terroristi, come spesso accade.  

• Perché i potenti del mondo si riuniscono per una questione così marginale?
  La risposta formale è semplice: perché l’hanno chiesto Giordania e Autorità Palestinese. Quella sostanziale deve tener conto del fatto che anche la diplomazia americana e quella europea si sono disturbate a condannare la visita e che perfino i paesi arabi la cui sicurezza è legata alla potenza israeliana, come gli Emirati e il Bahrein, hanno prestato alla faccenda il tributo di una condanna tanto effimera quanto sdegnata nei toni. Un punto da tener presente è che Ben Gvir aveva visitato il Monte del Tempio parecchie volte, negli ultimi anni, prima di diventare ministro; e anche la sua carica non cambia le cose, dato che parecchi deputati e ministri hanno fatto lo stesso in passato.  

• Gli ebrei sul Monte del Tempio
  È chiaro che per i palestinesi gli ebrei non dovrebbero assolutamente “sporcare” quella che loro chiamano “spianata delle Moschee” con i loro “luridi piedi” (l’espressione ovviamente è loro), ma del resto secondo loro non avrebbero neanche il diritto di pregare al Kotel (il “muro occidentale” o “del Pianto” che essi chiamano muro di “Al Buraq”, cioè del cavallo magico con cui Maometto sarebbe arrivato in una notte dalla Mecca a Gerusalemme e che il profeta avrebbe parcheggiato lì prima di usare il Monte come base di una veloce ascensione al cielo). Ma che il luogo di questa impresa miracolosa fosse proprio Gerusalemme è dubbio, non risulta chiaramente neppure dal testo del Corano; non solo gli storici e gli archeologi tutti gli studiosi islamici del passato hanno del resto riconosciuto che in quel luogo sorgeva il Tempio di Gerusalemme, come dimostra il bel libro appena uscito da Guerini: “Il monte del tempio” di Yitzhak Reiter e Dvir Diamant.

• Perché lo scandalo
  Bisogna dire che anche un’opinione rabbinica largamente maggioritaria proibisce agli ebrei la salita al Monte. Ma vi sono anche opinioni diverse e comunque di questo agli estremisti musulmani non interessa nulla. Quel che conta per loro è contestare il legame del popolo ebraico con Israele, Gerusalemme e il Tempio. Che per farlo debbano invocare una posizione francamente razzista (gli ebrei in quanto tali, al di là della loro posizione religiosa non hanno per loro diritto di accedere al Monte) che non ha paragoni in altre parti del mondo: come se chi non è cattolico non potesse entrare in Piazza San Pietro. La sola eccezione è La Mecca, città dove i non musulmani non sono ammessi; ma si tratta di nuovo dell’Islam ed anche questo è certamente un fatto che dovrebbe far riflettere.

• Lo status quo
  Il Monte del Tempio è comunque da tremila anni il luogo più sacro per gli ebrei e non si vede perché non dovrebbero accedervi. Quando nel ‘67 Israele liberò Gerusalemme, prese anche il Monte, con grande commozione di tutto il popolo ebraico. Con un gesto di pace che qualcuno oggi gli rimprovera, Moshé Dayan decise di continuare a farlo gestire a un ente religioso musulmano controllato dalla monarchia giordana, un Waqf o fondazione; ma questo non significava affatto una rinuncia alla sovranità israeliana, solo una delega dell’amministrazione. E in effetti da allora gli ebrei hanno sempre  potuto salire al Monte, in orari piuttosto limitati, ma non pregarvi. Vi salì anche Ariel Sharon ventidue anni fa, e oggi abbiamo le prove che la sua presenza non fu la causa dell’ondata terroristica della “seconda intifada” ma solo il pretesto cavalcato da Arafat per farla partire, come aveva già deciso.  A questo status quo si è riferito Netanyahu, in seguito alle reazioni di sdegno, confermando alla comunità internazionale di non voler cambiare sostanzialmente la situazione, anche se è prevedibile che per ragioni di uguaglianza democratica sarà consentita in un prossimo futuro un accesso più agevole e magari anche la preghiera ebraica (e cristiana, visto che il Monte è un luogo importante anche per loro). In conclusione, anche la visita di Ben Gvir è un pretesto, ma probabilmente non della rivolta contro Israele, come accadde vent’anni fa, bensì solo di un tentativo di delegittimare il nuovo governo di Israele, sgradito ai palestinesi come alla sinistra interna e internazionale.

(Shalom, 6 gennaio 2023)

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In agenda a Gerusalemme nuovi scavi archeologici alla Piscina di Siloam nella Città di Davide

di Ilaria Ester Ramazzotti

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Fu costruita circa 2.700 anni fa e faceva parte del sistema idrico di Gerusalemme durante il regno del re Ezechia (VIII sec. a. C.). Denominata piscina di Siloam (Siloe), fungeva da serbatoio per la sorgente di Gihon, da cui l’acqua veniva deviata e immagazzinata in tunnel sotterranei. Oggi è un sito archeologico localizzato nella parte inferiore del fianco meridionale del monte Ophel, l’antico sito di Gerusalemme, che ora si trova a sud est e fuori dalle mura cittadine della Città vecchia, nell’ambito dell’area della Fondazione Città di Davide. L’Autorità Israeliana per le Antichità ha annunciato il 3 gennaio che nel sito verranno intrapresi nuovi scavi archeologici finalizzati a riportare completamente alla luce la piscina per la prima volta da quando venne costruita e che l’area dei lavori sarà visitabile dal pubblico. La Piscina di Siloam si aggiungerà tramite un percorso che inizierà nella Città di Davide e terminerà ai piedi del Kotel, il Muro del Pianto.
  L’area è da tempo oggetto di studi. Nel 1880 venne scoperta un’iscrizione scritta in ebraico antico che indicava come l’acqua venisse deviata alla piscina dalla sorgente di Gihon. Il reperto, che risale ai tempi di Ezechia, è attualmente al Museo Archeologico di Istanbul. Alcuni archeologi ritengono che la piscina fosse usata per fare il mikveh, il bagno rituale, dai pellegrini che volevano purificarsi prima di continuare a visitare il Tempio. La struttura è menzionata diverse volte nella Torah. In Isaia 8:6 vengono citate le acque della piscina, mentre il versetto 22:9 fa riferimento alla costruzione del tunnel di Ezechia.
  “La Piscina di Siloe nel Parco Nazionale della Città di Davide a Gerusalemme è un sito di importanza storica, nazionale e internazionale – ha dichiarato al Jerusalem Post il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion -. Dopo molti anni di attesa, meriteremo presto di poter scoprire questo importante sito e di renderlo accessibile ai milioni di visitatori che visitano Gerusalemme ogni anno”.

(Bet Magazine Mosaico, 6 gennaio 2023)

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Il gruppo terroristico Hamas si congratula con Lula: “Combattente per la libertà”

Il gruppo terroristico Hamas, che controlla la Striscia di Gaza ed è nato con lo scopo di attuare una lotta armata contro Israele, si è congratulato questo lunedì con il presidente eletto Luiz Inácio Lula da Silva (PT) (31).
In una dichiarazione ufficiale, Basim Naim, membro dell’Ufficio politico di Hamas, ha definito Lula un “combattente per la libertà”.
Nel testo, l’elezione del PT è definita “una vittoria per tutti i popoli oppressi del mondo, in particolare per il popolo palestinese, poiché è noto per il suo forte e continuo sostegno ai palestinesi in tutti i forum internazionali”.
Naim ha anche dichiarato che Hamas “si aspetta che il presidente Lula mitighi tutti gli effetti del sostegno illimitato allo stato di occupazione israeliano”.

(Collesano.org, 6 gennaio 2023)

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Israele, abbiamo un problema

La crisi più pericolosa degli ultimi decenni è tutta interna, scrive Matti Friedman. L’estrema destra al potere e Netanyahu sempre più distante dalla promessa di sicurezza che lo aveva accompagnato.

di Matti Friedman

Punto primo. Israele è una società in crisi e la sua politica è in crisi. Gli ultimi anni di ripetute elezioni e di caos politico, seguiti dalla costituzione del nuovo governo radicale di Benjamin Netanyahu, dimostrano che il sistema politico non è in grado di offrire ai cittadini un modo per progredire insieme, o qualsiasi tipo di visione unificante che abbia senso per la maggioranza della popolazione. La sensazione che si respira nel paese in questo momento, e non solo al centro e a sinistra, è che il sistema politico sia finalmente riuscito a infrangere qualcosa di importante nel legame che ha sempre in qualche modo tenuto insieme le parti, pagando (la maggior parte delle) tasse e (per lo più) servendo nell’esercito, nonostante le politiche che avremmo potuto vedere come troppo di destra o troppo di sinistra o semplicemente mal ponderate.
  I vincitori di queste elezioni, i lealisti di Netanyahu e gli alleati settoriali che si sono attaccati alla sua stella, si ritengono in guerra con i perdenti. “E’ tempo che la sinistra si abitui alla nuova realtà: non ci interessa più quello che pensate”, ha twittato un parlamentare del partito di Netanyahu Likud, riassumendo l’atmosfera generale. La “sinistra” qui comprende quasi la metà della popolazione che non ha votato per questa coalizione, molti israeliani che si definiscono di destra, le persone che pagano la maggior parte delle tasse del paese e forniscono la maggior parte dei nostri soldati, e un partito guidato da due ex capi di stato maggiore dell’esercito nominati da Netanyahu. Nella retorica e nei suoi provvedimenti, il nuovo governo sta chiarendo che non è in cerca di unità, ma di vendetta.
  Alcune parti del nuovo apparato statale, compresi alcuni ministri del governo, si ritengono in guerra con altre parti dello stato, in particolare con la magistratura. I nemici principali di questo nuovo governo israeliano sono altri israeliani. Ci sono già stati in passato risultati negativi per il centro e la sinistra. I liberali israeliani hanno avuto a che fare per anni con quel senso di delusione. Ma questa volta è diverso.

Punto secondo. Il segnale più importante di una vera rottura con il passato è la decisione del primo ministro Netanyahu di nominare un criminale ideologico come ministro responsabile delle forze dell’ordine. La reputazione di Netanyahu nel mainstream israeliano, anche tra coloro che non avrebbero mai votato per lui, si è sempre basata sulla consapevolezza che egli è in definitiva attento e abile nelle questioni di sicurezza. Itamar Ben-Gvir, la cui fazione “Potere Ebraico” ha un totale di sette seggi su 120, è un provocatore razzista ai margini della destra, che di recente era fuori dalla portata anche degli elettori del Likud. Le sue minacce allo status quo sul Monte del Tempio mettono a rischio i nostri nuovi preziosi legami con parte del mondo musulmano sunnita, e potrebbero provocare uno spargimento di sangue. La sua nomina rappresenta un pericolo per i 9 milioni di cittadini, ebrei e arabi, che rientrano nella sfera di competenza della polizia israeliana (che comprende ebrei e arabi), e farà crollare la fiducia dell’opinione pubblica in un’istituzione senza la quale non possiamo funzionare. Netanyahu ha bisogno di Ben-Gvir e dei suoi alleati ideologici per il suo tentativo di ridurre il sistema giudiziario, dove Netanyahu deve affrontare accuse di corruzione. La sicurezza ha sempre goduto di una fiducia sacra qui, e non è esagerato dire che questa nomina è la più sconsiderata nella storia dello stato. Se l’asso nella manica di Netanyahu era la sicurezza, ecco: non ce l’ha più.

Punto terzo. Alcuni cercheranno di sostenere che tutto è normale, primo fra tutti Netanyahu, che si è imbarcato in un giro di interviste con i giornalisti americani evitando le loro controparti israeliane. Sa che alcuni americani potrebbero ancora credere alla sua immagine di conservatore familiare e non di politico il cui ego si è gonfiato a tal punto da non riuscire a prendere sul serio il piccolo paese che guida o a distinguerne gli interessi collettivi dai propri. Per i difensori di Israele, ci sarà la tentazione di minimizzare questa crisi come il tipico funzionamento della democrazia. Questa è già la linea dei nostri poveri diplomatici del ministero degli Esteri, molti dei quali non ci credono nemmeno loro, e alcuni dei quali stanno tranquillamente valutando altre linee di lavoro piuttosto che difendere l’indifendibile. Nelle scorse settimane ho parlato con gli ufficiali delle riserve dell’esercito che sono alle prese con pensieri simili: Che responsabilità hanno nei confronti di leader irresponsabili? L’idea che questo sia un comportamento normale del governo è falsa. Il corpo politico israeliano, che ne ha passate tante, rischia seriamente di essere spaccato per sempre.

Punto quarto. Un’altra tentazione sarà quella di far notare che molti altri paesi sono alle prese con una situazione politica terribile, come la Francia (dove alle ultime elezioni il 41 per cento ha votato per Le Pen), o come gli Stati Uniti. Il numero di israeliani che ha votato direttamente per l’estrema destra è di poco superiore al 10 per cento. Questo è vero ma irrilevante. In Israele ci sono 6 milioni di ebrei. Viviamo in mezzo a 300 milioni di arabi e 1,5 miliardi di musulmani, molti dei quali, purtroppo, sono votati allo sradicamento del nostro stato. La crisi autogenerata di oggi è un lusso, il genere di cose che la gente si concede quando non vive una catastrofe esistenziale da molto tempo, forse nei 50 anni trascorsi dal terremoto della guerra dello Yom Kippur nel 1973. Non possiamo permettercelo, e il politico al centro della crisi, l’uomo che potrebbe risolverla, ne è invece responsabile. Un leader che ha a cuore il suo paese si farebbe da parte dopo anni di potere e permetterebbe a qualcun altro del suo partito di guidare un governo di larghe intese con le forze politiche centriste, che sono disposte a governare sotto il Likud ma non a farlo sotto Netanyahu, dopo essere state ingannate troppe volte. Un governo simile potrebbe essere formato entro pochi giorni dalle dimissioni di Netanyahu.

Punto quinto. Negli anni Novanta, Israele si è fatta abbindolare da una fantasia occidentale come gli accordi di Oslo. L’idea era che il mondo si stesse muovendo verso la stabilità e la democrazia, quindi la creazione di vuoti di potere nei territori palestinesi avrebbe creato più libertà per loro e più pace per noi. Questo equivoco ha provocato ondate di attacchi terroristici che hanno ucciso più di mille israeliani e distrutto la sinistra come forza politica. Adesso una parte dell’elettorato sta cedendo a un’altra fantasia, questa volta proveniente dal medio oriente, secondo la quale ciò di cui abbiamo bisogno è più religione fondamentalista e più milizie tribali libere dai vincoli della legge.
  I fondatori di Israele, persone come David Ben-Gurion e Menachem Begin, erano troppo vicini all’Olocausto per credere alle fantasie europee e troppo europei per credere alle fantasie mediorientali. La loro comprensione delle cose spiega molto del successo dello stato che hanno costruito. L’ascesa della cultura mediorientale in Israele va celebrata. L’ascesa della politica mediorientale renderà il nostro destino identico a quello dei nostri vicini.

Numero sei. Capire cosa sta succedendo è complicato dalle isterie degli oppositori internazionali di Israele e dalla retorica di una parte del centrosinistra israeliano che, come alcune delle sue controparti americane, ha iniziato a vedere le proprie idee politiche come “democrazia” e i loro oppositori come persone che si oppongono alla “democrazia”. I media della sinistra progressista occidentale, la cui copertura è ormai per lo più una finzione ideologica, hanno dipinto ingiustamente Israele come un incubo illiberale per così tanto tempo, e Netanyahu come un estremista fuori di testa, che molte persone simpatizzanti di Israele si limiteranno a liquidare la notizia di questa crisi come un’altra delle solite. Sarebbe un errore. La crisi è reale. Non minaccia la “democrazia” o il “processo di pace”, che non esiste più da oltre vent’anni. Sta smantellando la capacità degli ebrei israeliani, e forse del mondo ebraico nel suo complesso, di agire insieme nel nostro interesse comune. Per noi questa minaccia è più grave di qualsiasi arma iraniana o di qualsiasi gruppo di terroristi palestinesi. Gli oppositori di Netanyahu hanno esacerbato la situazione dipingendolo come una figura demoniaca, riferendosi a lui come “l’imputato” e rifiutandosi di far parte di qualsiasi governo da lui presieduto, un errore politico che ha contribuito a trasformare la nostra politica in un circo.

Punto settimo. La campagna internazionale contro Israele, che mira a criminalizzare il paese e a sostituirlo con uno stato arabo, sarà energizzata dal nuovo governo, che a sua volta sarà energizzato dall’aumento delle ostilità. Naturalmente la campagna non si è attenuata durante il mandato del nostro ultimo governo, che era eterogeneo, liberale e comprendeva un partito arabo, ma che è stato comunque bollato come regime di apartheid. Le persone solidali con Israele avranno sempre più difficoltà a distinguere tra i vari tipi di critica. Il modo per farlo è chiedersi se un critico sta cercando di migliorare Israele o di farla sparire.

Punto ottavo. La crisi non è tanto il risultato delle elezioni, quanto di ciò che i nostri leader hanno fatto con quei risultati. Il blocco del centrosinistra ha ottenuto un risultato rispettabile nel voto popolare, che non era lontano da una divisione paritaria. Le vecchie questioni che dividevano la destra e la sinistra israeliane, in primo luogo la questione della pace con i palestinesi, non sono più valide. La stragrande maggioranza degli israeliani ha capito, fin dall’ondata di terrore della Seconda Intifada, che i nostri nemici vedono il conflitto a somma zero e che al momento non si possono rischiare ulteriori ritiri. Con diverse personalità in gioco, le stesse elezioni avrebbero potuto portare a un’ampia coalizione tra i partiti della destra sionista e del centro, che avrebbe facilmente ottenuto più di 70 seggi su 120 e avrebbe potuto governare correttamente per un intero mandato. Una maggioranza israeliana solida e sana esiste, anche se è malconcia e confusa. Attende una leadership che meriti questo nome.

Il Foglio, 6 gennaio 2023)

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L’israeliana delle energie rinnovabili quotata a Tel Aviv

Solegreen, rifinanzia il portafoglio italiano con un green loan da140 mln euro

di Francesca Vercesi

La società israeliana delle energie rinnovabili quotata alla Borsa di Tel Aviv Solegreen si è assicurata prima di Natale un finanziamento sotto forma di green loan da quasi 140 milioni di euro da UniCredit, ING Bank e Société Générale, che servirà a rifinanziare il portafoglio di impianti italiani e a finanziare ulteriori investimenti nel paese (si vedano qui il post su Linkedinqui il comunicato stampa). Nel dettaglio, l’operazione ha coinvolto 30 impianti, dislocati in diverse regioni italiane, e 20 società, per una capacità installata complessiva di oltre 30 MWp.
  GMB Consulting ha coordinato il processo di estinzione dei contratti di finanziamento e curato tutti gli aspetti di negoziazione dei costi. Solegreen è stata assistita inoltre da Ashurst, per la documentazione finanziaria, ValeCap, come advisor finanziario, Rödl & Partner per la due diligence legale, fiscale e corporate e DLA Piper per i profili fiscali e legali.
  L’accordo è un’importante pietra miliare nella realizzazione delle iniziative strategiche di Solegreen in Italia, fa sapere la società. Che afferma: “Questo finanziamento ci permetterà di rafforzare la nostra posizione e di accelerare le nostre attività nella regione. I progetti acquisiti beneficiano di tariffe elevate e, in combinazione con un finanziamento interessante, si prevede che genereranno per Solegreen un flusso di cassa stabile e forte, con alti rendimenti sul capitale investito”.
  SolGreen costruisce, gestisce e mantiene progetti di energia solare fotovoltaica. Attualmente la società possiede un portafoglio di 80 MW di attività a reddito, con decine di megawatt di progetti in costruzione, circa 1,4 GMW di progetti in fase di sviluppo in tutti i territori in cui opera, cioè Israele, gli Stati Uniti, Italia, Germania e Grecia.
  La società è controllata dal fondo Generation Capital, che vanta una vasta esperienza nei settori delle infrastrutture, dell’energia e del mercato dei capitali. La società è partecipata poi da una serie di enti istituzionali di primo piano come Clal Insurance, Migdal, Meitav Dash e The Phoenix.
  Generation Capital, fondata da Yossi Singer e Erez Balasha, era andata al controllo di Solegreen nell’agosto del 2019 (si veda qui la notizia), acquisendone il 70% per 11,7 milioni di euro (ovvero 44 milioni di shekel). A oggi possiede circa il 56% del capitale. Con un piccolo margine, Generation Capital all’epoca aveva superato l’offerta di Lahav LR Real Estate, che aveva messo sul piatto 41 milioni di shekel. Le due società detenevano congiuntamente una quota di controllo del 70% di Solegreen, in parti uguali.  Generation Capital ha poi acquistato nel 2021 la società israeliana della soluzioni per l’ambiente Ges per circa 29 milioni di euro che, a sua volta, aveva acquisito la società impegnata nel riciclo dell’acqua Aqwise.

(Be Beez, 6 gennaio 2023)

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Nuovi immigrati in Israele

Come ogni anno, è tempo di bilanci; in questo caso, vediamo come in Israele è andato l’andamento dell’emigrazione ebraica da parte della diaspora

L’aliya (l’emigrazione in Israele degli ebrei della diaspora, n.d.r.) in Israele è aumentata in modo esponenziale rispetto al 2021. Lo scorso anno ha infatti raggiunto una cifra record, che non si vedeva da 23 anni, con 70.000 nuovi immigrati provenienti da 95 paesi.
  Di questi, la maggior parte arriva dalla Russia e dall’Ucraina, ed è ovvio il motivo: la guerra, in corso dallo scorso 24 febbraio. Seguono olim dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Bielorussia, dall’Etiopia – in questo caso grazie all’operazione Tzur Israel – , dall’Argentina, dalla Gran Bretagna, dal Sud Africa e dal Brasile.

• Che identikit hanno i nuovi immigrati?
  Si tratta soprattutto di giovani tra i 18 e i 35 anni, dunque per lo più forze nuove, che probabilmente potranno contribuire a rafforzare la capacità innovativa del paese (conosciuto in economia per le sue start up)  dando un apporto significativo allo sviluppo della società e dell’economica israeliana.
  Ricordiamo infatti che Israele è un paese dove, nonostante il tasso di crescita sostenuto, mancano risorse, soprattutto in alcuni campi, come la sanità, l’alta ingegneria, l’educazione.
  E’ per questo che il presidente dell’Agenzia Ebraica, Doron Almog, ha dichiarato che l’aliya è di importanza strategica per lo Stato di Israele, sia a livello pratico che morale, come legame tra Israele e tutto il mondo ebraico.
  “Le migliaia di olim che sono venuti in Israele quest’anno aiuteranno a costruire la resilienza della società israeliana e saranno fonte di una maggiore crescita del motore dell’economia israeliana”, ha aggiunto.
  Tuttavia, il successo e i numeri ottenuti lo scorso anno non permette di sentirsi ancora soddisfatti; c’è infatti sempre molto da fare.
  Sulla base della recente straordinaria esperienza costituita dall’ondata di profughi ebrei ucraini, l’Agenzia ebraica sta così mettendo a punto un nuovo modello di accoglienza, con nuove tipologie di centri, dove i giovani immigrati potranno vivere negli appartamenti di uno stesso edifico e ricevere i servizi di supporto dalla comunità locale.

• Infine, ancora un po' di numeri
  A fine settembre 2022 la popolazione totale israeliana è stata stimata ora raggiungere il numero di 9.593.000 persone, di cui il 74% ebrei, il 21% arabi e il 5% residuale composto da cristiani o membri di altre religioni.
  Le stime demografiche prevedono che gli abitanti dello Stato di Israele saranno 10 milioni per la fine del 2024, 15 milioni nel 2049 per arrivare a 20 milioni per la fine del 2065.
  Ancora più che in altre occasione, è il caso di dire: Am Israel Hay! (Il popolo d'Israele vive!)

(Riflessi Menorah, 5 gennaio 2023)

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Il piano del governo israeliano per limitare i poteri della Corte Suprema

Attraverso una riforma che sancisce un netto controllo della politica sul più alto tribunale del paese, tra le proteste dell'opposizione.

Mercoledì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che guida il governo più di destra della storia di Israele, ha annunciato una riforma del sistema giudiziario che limiterà i poteri della Corte Suprema, il più alto tribunale del paese. La riforma, contestatissima dalle opposizioni, prevede che la Knesset (il parlamento israeliano) possa annullare una decisione della Corte con una semplice maggioranza assoluta dei voti (61 membri su 120), stabilendo di fatto un controllo politico sulla magistratura. L’annuncio è stato fatto due giorni dopo un altro evento che aveva provocato grossa agitazione dentro e fuori Israele: cioè la contestata visita del nuovo ministro israeliano della Pubblica sicurezza, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, che aveva fatto temere nuove tensioni e violenze tra ebrei israeliani e palestinesi (la versione completa della storia si può leggere qui).
  Il ministro della Giustizia autore della riforma, Yariv Levin, ha presentato la proposta poco prima che la Corte Suprema si riunisse per esaminare i ricorsi arrivati contro la nomina di Arye Dery a ministro dell’Interno e della Salute. Dery è del partito ultraortodosso Shas, e l’anno scorso era stato processato per evasione fiscale, uscendone con una sospensione della pena in seguito a un patteggiamento. Secondo la legge israeliana non avrebbe potuto essere nominato ministro, ma il governo ha modificato la legge esistente appositamente per rendere la nomina di Dery legittima.
  Il caso ha comunque provocato forti polemiche. Secondo l’opposizione al governo, che è sostenuto da una maggioranza composta da partiti conservatori e di estrema destra, annunciare la riforma prima della decisione sul caso Dery è un modo per mettere pressione alla Corte. Yair Lapid, leader dell’opposizione e del partito centrista Yesh Atid, ha scritto su Twitter che i ministri del governo hanno agito «come una banda di criminali», mettendo «sul tavolo una pistola carica» il giorno prima dell’udienza.
  Inoltre, sempre secondo Lapid, la riforma mina il sistema democratico del paese: «Quella che Levin ha presentato oggi non è una riforma legale, è una lettera minatoria. Minacciano di distruggere l’intera struttura costituzionale dello stato di Israele».
  La riforma non è stata criticata soltanto dall’opposizione, ma anche dalla procuratrice generale israeliana Gali Baharav-Miara, secondo cui potrebbe mettere a rischio i principi democratici del paese. Tra le altre cose, la riforma prevede che i giudici della Corte vengano nominati o rimossi da una commissione composta diversamente da quella attuale, con una maggioranza di parlamentari e una minoranza di giudici e di professionisti del settore.
  Se la riforma dovesse passare, i partiti di maggioranza potrebbero dar seguito alla loro intenzione di annullare alcune importanti sentenze della Corte Suprema, tra cui quella che rende illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, in una porzione di terra che la gran parte della comunità internazionale ritiene palestinese.

(il Post, 5 gennaio 2023)

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Israele - Katz: "Investiremo nel turismo in Giudea e Samaria"

Haim Katz, nuovo ministro del Turismo israeliano e membro del governo di Benjamin Netanyahu, ha deciso come riportato da Preferente di promuovere il turismo nei territori della Cisgiordania.
  "Investiremo in aree che non ricevono sufficiente attenzione, compresa la ‘nostra Toscana’ in Giudea e Samaria" ha detto il ministro Katz durante la cerimonia con la quale il suo predecessore gli ha consegnato il comando del dicastero.
  “Miglioreremo le infrastrutture e aumenteremo l'offerta di posti letto. Ogni israeliano deve godere delle bellezze del Paese” ha aggiunto, riferendosi a quella parte del territorio ancora oggetto di contesa.
  Attualmente, altri territori palestinesi sono visitati dai turisti, sebbene le infrastrutture siano spesso due qualità non elevata.

(TTG Italia, 5 gennaio 2023)

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S. E. Alon Bar: «L’Italia può diventare uno dei migliori amici di Israele» 

Intervista a Alon Bar, nuovo Ambasciatore di Israele in Italia. Dal miglioramento dei rapporti con i palestinesi alla stabilizzazione della regione sul fronte energetico, passando per la cooperazione economica: sono molti gli ambiti in cui il nostro Paese può svolgere un ruolo di primo piano. In uno scenario in cui il nucleare iraniano e l’antisemitismo sono una minaccia a Israele e al mondo ebraico.

di Francesco Paolo La Bionda

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Alon Bar, l’attuale Amba­sciatore d’Israele in Italia, si è insediato a Roma a settembre 2022 in sostituzione di Dror Eydar, i cui tre anni di mandato erano giunti al termine. Classe 1957, nato nel kibbuz di Sasa, Bar è un diplomatico di carriera che ha ricoperto negli ultimi decenni un’ampia gamma di ruoli di prestigio, compreso un mandato come Ambasciatore in Spagna. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistarlo per Bet Magazine/Mosaico, per raccogliere il suo pensiero sullo scenario internazionale, sui rapporti bilaterali tra i nostri Paesi e sulla relazione tra Israele e le comunità ebraiche italiane, sul processo di pace.

- Ambasciatore, la tensione tra Israele e i palestinesi resta alta. Gli ultimi mesi del 2022 sono stati caratterizzati da nuovi attentati e lanci di razzi. Che prospettive vede per il processo di pace e che contributo può dare l’Italia?
    l processo di pace così come lo intendiamo convenzionalmente è qualcosa che appartiene al passato. Sia l’attuale governo israeliano sia il precedente hanno dibattuto intensamente sulla soluzione a due stati, ma la presenza di Hamas a Gaza e la scarsa credibilità di Abu Mazen in Cisgiordania rendono impossibile qualsiasi accordo. Dovremmo cercare di far sì che le condizioni di vita e la situazione economico-finanziaria dei palestinesi migliorino ed evitare scontri inutili da una parte e migliorare la nostra capacità di affrontare le minacce belliche dall’altra.
Nella seconda parte del 2022 in Israele abbiamo visto crescenti tensioni e un aumento del terrorismo, e abbiamo compiuto notevoli sforzi per affrontare queste minacce, compreso il network di ONG che fornisce supporto a Hamas. Quest’ultimo comunque sta evitando di provocare una nuova escalation nella Striscia di Gaza, e questo grazie al fattore di deterrenza che ha rappresentato l’Operazione Guardiano delle Mura del 2021. Spero che continuerà a prevalere la calma, così da poter lavorare su concessioni quali i limiti nautici per la pesca e il numero di guest worker ammessi in Israele. In questo scenario, l’Italia potrebbe incoraggiare l’Autorità Palestinese a focalizzare il proprio impegno per progetti rivolti al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e far sì che ci sia un sostegno internazionale per iniziative realizzate congiuntamente. Il vostro Paese inoltre può promuovere un’analisi più attenta della destinazione d’uso dei fondi europei ai palestinesi, che in passato spesso sono finiti nelle mani sbagliate.

- In passato l’Italia in più occasioni ha votato a favore di risoluzioni delle Nazioni Unite contro Israele o si è astenuta. Recentemente però sembra aver adottato un atteggiamento maggiormente favorevole nei vostri confronti.
  Sì, l’Italia, come altri paesi europei, ha mostrato un cambio di atteggiamento verso Israele all’ONU e ci fa piacere. Purtroppo il multilateralismo non aiuta né noi né tantomeno l’Autorità Palestinese, e provoca più scontri che cooperazione.

- A giugno scorso l’allora primo ministro italiano Draghi ha ricevuto l’apertura di Israele a diventare un fornitore di gas naturale, la cui produzione potrebbe aumentare dopo lo storico accordo sui giacimenti offshore stretto col Libano. Ma permangono anche delle sfide: il progetto del gasdotto EastMed da Israele alla Grecia ha incontrato l’opposizione della Turchia, mentre l’export sotto forma di GNL tramite l’Egitto deve fare i conti con la capacità limitata di rigassificazione del nostro paese. Quali pensa saranno i prossimi sviluppi in tal senso?
  Non ci sono soluzioni univoche, ma ventagli di possibilità. I progetti energetici non si realizzano nel giro di pochi mesi. Ci vorrebbero comunque anni perché si cominci a estrarre gas dai giacimenti al confine col Libano, sempre che ne varrà la pena, così come per costruire un gasdotto come EastMed. Gli annunci di questi progetti però servono a infondere ottimismo tra gli investitori e contribuire così a rivitalizzare l’economia.
L’Italia sicuramente potrà e dovrà diversificare le proprie fonti di approvvigionamento e giocare un ruolo maggiore nel Mediterraneo orientale, contribuendo a stabilizzare la regione e facendo leva anche su iniziative ormai consolidate quali i progetti dell’ENI in Egitto e facendo tesoro di esperienze quali la partecipazione decennale alla missione UNIFIL in Libano. Vedo inoltre opportunità anche nello sviluppo delle energie rinnovabili.

- Riguardo alla stabilità regionale, uno dei maggiori fattori di rischio è rappresentato dall’Iran. Il nuovo accordo sul nucleare, anche se sempre più improbabile, non è ancora fuori questione. Israele è sempre stato molto critico su questa possibilità e ha ripetutamente lanciato l’allarme sui progressi di Teheran verso la bomba atomica. Come vorreste che si posizionassero i paesi occidentali su questo tema?
  L’Iran è la principale minaccia del Medio Oriente, sia per la corsa agli armamenti nucleari sia per la sua rete di milizie e movimenti terroristici affiliati. Un nuovo accordo sul nucleare non contribuirebbe affatto a migliorare la sicurezza regionale, ma in compenso permetterebbe a Teheran di migliorare la propria situazione finanziaria. E, soprattutto, l’Iran non sembra intenzionato a firmare alcunché.
L’unico modo in cui gli Stati Uniti e l’Europa possono davvero ricondurre il regime iraniano alla ragione è di aumentare la pressione e l’isolamento internazionale, anche ricorrendo a credibili minacce militari se necessario. Il sostegno fornito dall’Iran alla Russia e la brutale repressione delle proteste in patria creano le condizioni giuste per promuovere una maggior pressione europea sul paese. Quanto a Israele, non vogliamo la guerra ma dobbiamo tener conto di tutte le possibili opzioni.

- Passando dalla politica all’economia, cosa possono fornire le aziende israeliane all’Italia e quali opportunità ci sono da voi per le aziende italiane?
    l valore aggiunto del settore economico israeliano risiede nella capacità tecnologica e di innovazione, in ambiti che spaziano dalla lotta al cambiamento climatico e la gestione delle risorse idriche all’agricoltura, alla cybersecurity, alle energie rinnovabili. Israele quindi può offrire un elevato know-how, mentre l’Italia possiede la capacità produttiva e un accesso al mercato europeo. Ci sono inoltre possibilità di cooperare anche in ambito di sicurezza e di difesa e su questo si può prendere esempio dalle aziende americane, che hanno più o meno tutte delle joint venture con controparti israeliane.

- Dopo gli Accordi di Abramo, Israele può fungere da tramite per le aziende italiane che vogliono incrementare i propri affari con il mondo arabo?
  Credo che gli Accordi di Abramo abbiano creato un cambio di paradigma: Israele ora non è più visto come un’entità separata dal resto della regione. Ad esempio, al COP27 uno degli accordi più importanti è stato stretto tra Israele, Giordania ed Emirati per uno scambio di risorse idriche ed energetiche. Inoltre abbiamo formato proprio quest’anno il gruppo I2U2, che ci vede collaborare con India, Stati Uniti e nuovamente con la monarchia del Golfo in molteplici ambiti, dall’industria aerospaziale alla sicurezza alimentare. Sarebbe bello dar vita a qualche iniziativa congiunta con l’Italia simile a queste al COP28 del prossimo anno.

- Sia Israele sia l’Italia alle ultime elezioni hanno dato la preferenza a schieramenti di orientamento conservatore. Prevede quindi che ci saranno cambiamenti nelle priorità delle relazioni bilaterali?
  Auspichiamo che il nuovo governo italiano possa creare un clima ancora migliore per Israele. Tutte le formazioni politiche che ne fanno parte ci hanno già espresso in passato supporto e sostegno e sono coscienti delle minacce alla nostra sicurezza. Oggi il vostro paese potrebbe diventare uno dei nostri migliori e più sinceri amici. Ci piacerebbe se Gerusalemme venisse anche riconosciuta come capitale di Israele da parte dell’Italia, ma non intendiamo farne un motivo di contenzioso tra i nostri paesi. Infine, la vittoria sia da noi sia da voi di ampie maggioranze di governo potrebbero garantire stabilità politica dopo anni di incertezze, il che sarebbe un fattore positivo sotto tutti gli aspetti.

- L’antisemitismo è in aumento a livello globale, spesso nascosto sotto le spoglie dell’antisionismo. Come vede la situazione in Italia e cosa il nostro Paese può fare per contribuire a combattere l’odio per gli ebrei?
  L’antisemitismo continua a essere un’importante sfida per le comunità ebraiche di tutto il mondo e noi ci impegniamo a combatterlo insieme a loro. Bisogna affrontarlo lavorando in ogni ambito: dalle scuole alle istituzioni, attraverso lo strumento legale e tramite la normativa. Non è un fenomeno purtroppo destinato a sparire, ma dobbiamo continuare a lavorare insieme, ebrei e non ebrei, per combatterlo. Quando si parla del conflitto con i palestinesi, è naturalmente legittimo anche esprimersi a favore di questi ultimi, ma non se si usa retorica antisemita o se si mette in discussione il diritto di Israele ad esistere. Come ambasciata, svolgiamo un lavoro importante confrontandoci con le autorità italiane, con cui siamo molto ben coordinati. Supportiamo le comunità ebraiche italiane per assicurarci che possano vivere liberamente e in sicurezza e a loro volta ci aiutano a difenderci dalle polemiche contro Israele.

- Come si articola dunque il vostro rapporto con le comunità ebraiche in Italia?
  Ci tengo a sottolineare che in Italia le comunità ebraiche sono molto vivaci, anche più che in paesi dove numericamente vi è una presenza ebraica maggiore. Uno dei nostri diplomatici si occupa specificamente dei rapporti con loro. Noi forniamo il nostro supporto per diverse tipologie di attività e mettiamo a disposizione la nostra rete di relazioni e di informazioni quando ne hanno bisogno, ma lasciamo che siano loro a valutare quando possa essere utile un nostro intervento.
C’è poi una folta comunità di espatriati israeliani in Italia, in particolare giovani e studenti, e ci sono tante opportunità di scambi culturali.

- Vuole aggiungere qualcosa per i nostri lettori?
    Il prossimo anno celebreremo il settantacinquesimo anniversario di Israele e speriamo di riuscire a mettere in campo molte attività celebrative anche qui in Italia. Intanto, vorrei porgere i miei migliori auguri per le prossime festività a tutte le comunità ebraiche in Italia e in particolare alla comunità ebraica di Milano, che è stata la prima città italiana in cui mi sono recato in visita dopo il mio arrivo a Roma. Mi auguro che il prossimo anno possa essere ricco di opportunità per tutti noi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 gennaio 2023)

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Il ministro turco Cavusoglu sente al telefono il suo omologo israeliano Cohen

Secondo un comunicato reso dal Ministero degli Esteri, Cavusoglu si è congratulato con il suo omologo Cohen per la sua nomina a questo incarico...

Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, che ha avuto una conversazione telefonica con il nuovo ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, ha sottolineato che è inaccettabile l'azione provocatoria del ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir nei confronti della moschea di Al-Aqsa.
Secondo un comunicato reso dal Ministero degli Esteri, Cavusoglu si è congratulato con il suo omologo Cohen per la sua nomina a questo incarico.
Nel comunicato in questione si legge quanto segue:
    "Il ministro Cavusoglu ricordando a Cohen le sensibilità e le aspettative del nostro Paese riguardo alla questione palestinese, ha dichiarato che, in tale contesto, è inaccettabile l'azione provocatoria del ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir, il giorno precedente verso la moschea di Al-Aqsa.
    Il ministro Cavusoglu sottolineando l'importanza che la Türkiye attribuisce al mantenimento dello status della moschea di al-Aqsa, ha portato all'attenzione del suo interlocutore le aspettative del nostro Paese, chiedendogli che venga evitata ogni tipo di azione provocatoria.”
Durante il colloquio telefonico i due ministri hanno convenuto di lavorare insieme per migliorare i rapporti bilaterali.

(TRT italiano, 5 gennaio 2023)

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Una nuova mozione contro Israele all’Onu

di Ugo Volli

• LA MOZIONE

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Nei giorni scorsi c’è stata un’ennesima risoluzione dell’Onu contro Israele. Questa volta è stata l’Assemblea Generale ad approvare una mozione proveniente dalla commissione per i diritti umani che invita la Corte di giustizia internazionale (ICJ) a emettere un "parere consultivo" sulla "prolungata occupazione, insediamento e annessione del territorio palestinese" da parte di Israele. La Corte internazionale di giustizia, nota anche con il nome di Tribunale internazionale dell'Aia, è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Non va confusa con la Corte Penale Internazionale, anch’essa con sede all’Aia nei Paesi Bassi. L'ICJ è l'unico tribunale internazionale che giudica controversie generali tra paesi, con le sue sentenze e opinioni che fungono da fonti primarie del diritto internazionale. 
 
• UN PASSO GRAVE
  A differenza di tante altre delibere anti-israeliane dell’Onu, questa mozione più pericolosa, perché le sentenze della IGJ fanno precedente legale e dunque possono avere conseguenze pratiche in futuro. La domanda di parere alla corte è del resto scritta in termini fortemente distorsivi: non esiste un “territorio palestinese” che Israele avrebbe “occupato” o “annesso” o su cui si sarebbe “insediato”. Non c’è mai stato nella storia uno stato palestinese indipendente, non ci sono dispositivi legali che l’abbiano stabilito, il territorio su cui sorge Israele, inclusa la Giudea e la Samaria, che molti vorrebbero diventassero il territorio di un futuro stato di Palestina, è stato per secoli territorio ottomano, dopo la prima guerra mondiale fu incorporato dalla Società delle Nazioni nel Mandato britannico di Palestina, con lo scopo esplicito di favorire l’insediamento ebraico e di costituire una patria per il popolo ebraico, poi vi fu proclamato lo stato di Israele. I trattati di Oslo non contengono affatto la stipulazione di un nuovo Stato di Palestina. Dunque le pretese di questa mozione e di molte altre indicano non un dato giuridico ma una volontà politica. Indurre la IGJ, i cui membri sono nominati dall’assemblea dell’Onu con la solita maggioranza terzomondista, a prendere posizione su tale falsa premessa è certamente un passo grave e pericoloso per Israele e per la pace.
 
• LA VOTAZIONE
  La gravità della decisione è stata confermata anche dalla votazione, che è stata più divisa delle solite deliberazioni anti-israeliane. I favorevoli sono stati meno della maggioranza assoluta dell’assemblea, cioè 87. I contrari sono stati 26, gli astenuti 53, mentre 22 stati non hanno partecipato alla votazione. Fra i contrari ci sono tutti gli stati musulmani, inclusi quelli che secondo una logica geopolitica dovrebbero essere in qualche modo amici ed alleati di Israele, come gli Emirati e il Marocco. Oltre ad essi hanno votato sì la Russia, la Cina e i loro satelliti più o meno comunisti (Bielorussia, Cuba, Corea del Nord ecc.). Bisogna notare che fra i favorevoli ci sono alcuni paesi europei come Polonia, Irlanda, Malta, Slovenia. Fra i contrari, oltre agli Usa e a Israele, c’è la maggior parte dei paesi europei, come la Germania, la Repubblica Ceca, la Croazia, la Gran Bretagna e per fortuna l’Italia, che conferma così un netto cambiamento di atteggiamento rispetto ai governi precedenti, il cui merito va attribuito alle scelte di schieramento di Giorgia Meloni e all’amicizia per Israele del nuovo ministro degli estero Antonio Tajani. Fra gli astenuti, diversi altri paesi europei fra cui Grecia, Cipro, la Bulgaria, la Svezia, la Svizzera, la Norvegia, la Danimarca e con grande scandalo della comunità ebraica locale anche la Francia. Bisogna notare che l’Ucraina, che spesso negli ultimi tempi aveva votato contro Israele (paradossalmente come la Russia), questa volta non ha votato.

(Shalom, 4 gennaio 2023)

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Ofra Haza, la regina della musica mizrahi, tra i cantanti più grandi di sempre

“La sua musica tradizionale era in anticipo sui tempi”

di Luca Spizzichino

Ofra Haza è stata inserita dalla rivista musicale Rolling Stone nella lista dei 200 artisti più grandi di tutti i tempi. La cantante israeliana si è classificata al 186esimo posto, mentre Aretha Franklin è stata nominata la più grande.
  Haza, scomparsa nel 2000, è stata inserita in questa lista per essere stata in grado di “combinare le convenzioni vocali tradizionali con la tecnica moderna per creare qualcosa che sembrava allo stesso tempo antico e in anticipo sui tempi" spiega la rivista, elogiando anche uno dei suoi più grandi successi, ‘Im Nin’Alu’ del 1984, come “una canzone capace di trasportare lontano l’ascoltatore grazie alla voce di Ofra Haza”, evidenziando “l’originalità e la profonda influenza che il suo contributo artistico ha avuto sulle generazioni successive”.
  Infatti, la cantante, che era di origini yemenite, è stata la prima ad aver esportato in tutto il mondo la musica mizrahi, quello stile musicale che combina elementi e sapori tipici della musica araba, turca e greca con i ritmi e le melodie della musica sefardita.
  Nata a Tel Aviv nel 1957 nel quartiere di Hatikva, Haza scoprì fin da piccola l'amore per la musica. Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 raggiunse l’apice venendo definita dapprima "regina d'Israele" e poi la "Madonna di Israele" incidendo una sua versione della canzone della popstar americana ‘Open Your Heart’ che la fa conoscere anche negli States.
  Considerata una delle cantanti più importanti della storia d’Israele, Ofra Haza nella sua breve vita ha lasciato in eredità tantissime canzoni iconiche. Una delle più importanti è ‘Chai‘(Vita), arrivata seconda all’Eurovision del 1983 a Monaco. Con il testo della canzone, la coreografia e anche gli abiti, Ofra Haza ricordava a chi voleva distruggere il popolo ebraico un chiaro messaggio: siamo qui in Germania a cantare e siamo vivi.
  Senza tempo sono anche le splendide versioni di ‘Yerushalaim shel zahav’ (Gerusalemme d’oro), classico della canzone israeliana scritto dalla poetessa Naomi Shemer, e di ‘Eli Eli’, versione cantata della poesia di Hannah Szenes, ‘A Walk to Caesarea’.
  Durante la sua carriera, tempestata di grandissimi successi, dischi d’oro e di platino, nel 1995 Ofra Haza venne contattata da DreamWorks per realizzare la colonna sonora de ‘Il principe d'Egitto’, accanto a star come Whitney Houston e Mariah Carey. La canzone ‘Ascoltaci’ (titolo originale ‘Deliver Us’) è stata interpretata da lei in ben 17 lingue diverse, ogni volta con il testo riadattato nella lingua in questione.
  La presenza di Ofra Haza in questa classica rappresenta un notevole risultato per la musica israeliana e in particolare per la sua scena pop, capace di guardare al futuro senza però dimenticarsi delle sue radici.
Ofra Haza
"Balada la melek"






. (Shalom, 4 gennaio 2023)

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Visita di Ben Gvir al monte del tempio: convocato consiglio di sicurezza ONU

In realtà Ben Gvir con la sua visita al monte del tempio non ha violato alcun accordo, tuttavia è indiscutibile che una provocazione ci sia stata, provocazione che non aiuterà Netanyahu nel suo lavoro di avvicinamento ai paesi arabi.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite convocherà una sessione d’emergenza per discutere della visita del Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir al Monte del Tempio di Gerusalemme che ha suscitato una serie di condanne internazionali, ha dichiarato martedì una fonte.
  Non è stata fissata una data per la riunione del Consiglio di Sicurezza – che è stata formalmente richiesta dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Cina per conto delle missioni palestinesi e giordane delle Nazioni Unite – ma potrebbe aver luogo già giovedì, ha dichiarato al Times of Israel un diplomatico che fa parte del gruppo di vertice.
  Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ha visitato il complesso martedì mattina, denunciando il presunto “razzismo” contro gli ebrei nel sito e disprezzando gli avvertimenti di una significativa reazione.
  La visita ha alimentato le preoccupazioni nel mondo musulmano che il governo israeliano si muova per cambiare lo status quo che vieta la preghiera ebraica nel santuario – considerato il sito più sacro dell’ebraismo e il terzo più sacro per i musulmani, che lo chiamano Moschea di Al Aqsa o Nobile Santuario – nonostante le ripetute promesse che le norme rimarranno in vigore.
  Ben Gvir è da tempo un sostenitore della modifica formale dello status quo del Monte del Tempio, in cui i musulmani sono autorizzati a pregare e a entrare con poche restrizioni, mentre gli ebrei possono visitarlo solo in fasce orarie limitate attraverso un unico cancello e percorrere un percorso predeterminato, strettamente accompagnati dalla polizia.
  I palestinesi e la maggior parte della comunità internazionale rifiutano con veemenza qualsiasi modifica alla situazione attuale, sebbene la maggior parte dei palestinesi si opponga anche a qualsiasi presenza di ebrei israeliani nel sito, compresa quella degli gli agenti di polizia incaricati di preservarne la sicurezza.
  La visita di martedì si è svolta il 10 di Tevet, giorno di digiuno ebraico in cui si piangono gli eventi che hanno portato alla distruzione del Tempio che un tempo sorgeva in quel luogo.
  Molti palestinesi rifiutano l’idea che il sito sia sacro agli ebrei, avendo accusato Israele e i sionisti per circa un secolo di complottare per distruggere la moschea e sostituirla con un tempio ebraico – una mossa che non è sostenuta dalla società israeliana tradizionale.
  È improbabile che la riunione del Consiglio di Sicurezza sulla visita porti a un’azione concreta o a una condanna formale, ma servirà comunque a sottolineare la significativa disapprovazione internazionale della visita di Ben Gvir.
  L’ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Ben Gvir non ha violato lo status quo con la visita.
  Israele rimane impegnato a “mantenere rigorosamente lo status quo” nel sito, ha dichiarato il premier in un comunicato. “L’affermazione che sia stato fatto un cambiamento nello status quo è priva di fondamento”.
  Ben Gvir ha tuttavia riconosciuto, durante un’intervista di martedì sera a Channel 12, che negli ultimi anni gli ebrei sono stati solo occasionalmente autorizzati a pregare nel sito, mentre la polizia guardava senza intervenire.
  Nei contatti con gli alleati all’estero, l’Ufficio del Primo Ministro e il Ministero degli Esteri hanno sottolineato che altri ministri hanno visitato il sito in passato, compreso un precedente ministro della Pubblica Sicurezza del partito Likud.
  Ma nessuno di loro aveva una reputazione come quella di Ben Gvir, che si ispira al defunto rabbino razzista Meir Kahane ed è stato condannato in passato per incitamento e sostegno a un gruppo terroristico ebraico. Da tempo chiede di cambiare lo status quo del sito per consentire la preghiera ebraica, ma martedì sera ha esitato quando gli è stato chiesto se mantiene ancora questa posizione, probabilmente a causa delle direttive di Netanyahu, che teme un contraccolpo internazionale mentre cerca di costruire gli accordi di normalizzazione con i Paesi arabi ottenuti durante il suo ultimo mandato.
  In qualità di ministro della Sicurezza nazionale, Ben Gvir ha la responsabilità della polizia, che è stata incaricata dai tribunali israeliani di definire e far rispettare le politiche sul Monte del Tempio.
  In un video girato durante la visita di martedì mattina, Ben Gvir ha denunciato quella che ha definito “discriminazione razzista” nei confronti dei fedeli ebrei ai quali è vietato pregare in cima al sito. Con la Cupola della Roccia sullo sfondo e agitando le dita verso la telecamera, ha affermato che le visite continueranno.
  “Il governo israeliano non si arrenderà a un’organizzazione assassina, a una vile organizzazione terroristica”, ha dichiarato Ben Gvir in risposta alle minacce di Hamas e di altri gruppi terroristici, che avevano avvertito di ripercussioni se la visita fosse andata avanti.
  Tra i Paesi che hanno condannato la visita ci sono Stati Uniti, Regno Unito e Francia, oltre a gran parte del Medio Oriente, tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Qatar, Kuwait, Turchia, Egitto, Giordania e Autorità Palestinese.
  Interpellata sulla visita, la segretaria stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha dichiarato che “gli Stati Uniti sono fermamente a favore del mantenimento dello status quo per quanto riguarda i luoghi sacri di Gerusalemme”.
  “Qualsiasi azione unilaterale che metta a rischio lo status quo è inaccettabile”, ha aggiunto.
  L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Tom Nides ha fatto commenti simili, anche se non sollecitati, martedì; il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha detto che gli Stati Uniti sono “profondamente preoccupati” per la mossa di Ben Gvir, che ha “il potenziale per esacerbare le tensioni e provocare la violenza”.
  Un alto funzionario dell’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato al sito di notizie Ynet che Ben Gvir stava “cercando di provocare il caos”. Secondo il sito, la Casa Bianca era stata informata del viaggio in anticipo e le era stato detto che sarebbe stato breve e non avrebbe violato lo status quo, ma Washington ha comunque protestato.
  Ben Gvir ha visitato il Monte del Tempio numerose volte in passato, ma il funzionario dell’amministrazione ha osservato che la sua posizione all’interno del governo israeliano rende ora la mossa più importante.
  “Perché salire sul Monte del Tempio? Solo per avere altre vedute su Tiktok?”, ha accusato il funzionario.
  Israele ha cercato di calmare anche gli altri alleati, che hanno reagito mettendo in guardia Gerusalemme dalle potenziali ripercussioni che tali visite potrebbero avere in tutta la regione, anche se di breve durata e senza violare lo status quo, secondo quanto riportato da Channel 12 news.
  Israele ha a sua volta risposto che se i palestinesi sceglieranno di istigare la violenza, riterrà Hamas o chiunque altro coinvolto responsabile.
  Prima della visita, Hamas aveva avvertito Israele che sarebbe servito da “detonatore”.
  Ben Gvir ha comunque visitato il sito, ma il fatto che inizialmente sembrasse tirarsi indietro e non avesse pubblicizzato il tour è stato visto da Hamas come una prova che le sue minacce avevano funzionato, hanno dichiarato funzionari del gruppo ai media arabi.
  I palestinesi considerano il complesso, che ospita la Moschea di al-Aqsa e il santuario della Cupola della Roccia, un simbolo nazionale e considerano queste visite come provocatorie e come un potenziale precursore del cambiamento della realtà del sito da parte di Israele, nonostante agli ebrei sia permesso di visitarlo secondo lo status quo. Molti rabbini ultraortodossi proibiscono agli ebrei di pregare nel sito, ma negli ultimi anni è cresciuto un movimento di ebrei che sostengono il culto in quel luogo.
  La visita ha alimentato i timori di disordini e i gruppi terroristici palestinesi hanno minacciato di agire in risposta. Martedì sera, l’esercito israeliano ha dichiarato che i combattenti di Gaza hanno tentato di lanciare un razzo nel sud di Israele, ma il proiettile è caduto all’interno del territorio controllato da Hamas.
  Il Monte del Tempio è stato teatro di frequenti scontri tra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane, l’ultimo dei quali nell’aprile dello scorso anno.
  Le tensioni nel complesso conteso hanno alimentato in passato episodi di violenza. Una visita dell’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon nel settembre 2000 è stata seguita da significative rivolte e scontri palestinesi che sono sfociate nella seconda intifada palestinese. Gli scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i rivoltosi palestinesi che volevano impedire agli ebrei di entrare nel sito hanno alimentato una guerra di 11 giorni con Hamas nel 2021.
  Netanyahu è tornato in carica la scorsa settimana per il suo sesto mandato come primo ministro, guidando il governo più religioso e di destra nella storia del Paese. I suoi obiettivi includono l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e la legalizzazione di avamposti in tutto il territorio conteso.
  Israele ha conquistato il Monte del Tempio e la Città Vecchia di Gerusalemme dalla Giordania nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, quasi due decenni dopo che Amman l’aveva conquistata durante la Guerra d’Indipendenza del 1948. Tuttavia, Israele ha permesso al Waqf giordano di continuare a mantenere l’autorità religiosa sul Monte.
  Israele considera Gerusalemme la sua capitale indivisibile, avendo annesso Gerusalemme Est con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale, mentre i palestinesi cercano Gerusalemme Est, compresa la Città Vecchia, come capitale di un potenziale futuro Stato. Le rivendicazioni concorrenti su Gerusalemme sono al centro del conflitto israelo-palestinese.

(Rights Reporter, 4 gennaio 2023)

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Le prime mosse del governo Netanyahu, tra Emirati e Accordi di Abramo

Gli Accordi di Abramo e il Negev Forum hanno un valore strategico fondamentale per la regione Mena. A dicembre, il controverso neo-ministro Ben-Gvir è stato ospitato dall’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Tel Aviv. E il nuovo ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha dichiarato di voler partecipare a marzo a un vertice in Marocco con le controparti dei Paesi arabi che hanno normalizzato i legami con Israele.

di Emanuele Rossi

Con il nuovo governo israeliano appena insediato, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha già annunciato di avere in programma una visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti per il suo primo viaggio all’estero da leader dello stato ebraico.
  I dettagli sono ancora in fase di definizione, ma per quanto noto il premier dello stato ebraico potrebbe visitare gli Emirati Arabi Uniti già la prossima settimana. L’agenda sarà fitta e prevedrà incontri di massimo livello. Tra l’altro, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed, ha già chiamato Netanyahu sabato 1 gennaio per congratularsi con lui dopo la cerimonia di giuramento. Già in quell’occasione (stando al readout israeliano) si è parlato della visita.
  Un viaggio negli Emirati Arabi Uniti sarebbe una vittoria simbolica per Netanyahu, che si è presentato, vincendo per l’ennesima volta le elezioni, come uno statista indispensabile per Israele. Durante il suo precedente mandato, Netanyahu ha firmato gli Accordi di Abramo, sostenuti dagli Stati Uniti, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan.
  Un processo diplomatico che segna presente e futuro della regione Medio Oriente e Nord Africa, ottenuto anche grazie al sostegno della precedente amministrazione statunitense guidata da Donald Trump e senza dover cedere terreno sul conflitto con la Palestina. Il clima a Washington non è cambiato: gli accordi vengono considerati un fattore chiave della stabilità regionale — e dunque di parte della strategia statunitense.
  Tuttavia, l’amministrazione di Joe Biden sembra maggiormente interessata a tornare sulla questione palestinese, come ha dimostrato il segretario di Stato Antony Blinken che nel raccontare la sua recente telefonata con il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, ha sottolineato “il continuo impegno degli Stati Uniti per una soluzione a due stati e l’opposizione alle politiche che ne mettono in pericolo la fattibilità”.
  Nel readout americano tra l’altro non si parla degli Accordi di Abramo direttamente, ma del più ampio formato del Negev Forum, un tavolo di confronto diplomatico e securitario che mira anche ad allargare la partecipazione ad altri Paesi arabi oltre quello degli Accordi di Abramo, offrendo un sistema multilaterale e senza che essi debbano accettare la normalizzazione con Israele, ma offrendo la possibilità per un colloquio diretto con Gerusalemme. Anche perché alcuni Paesi, come recentemente l’Oman, mostrano ostilità ideologiche davanti alla formalizzazione dei rapporti con Israele.
  Mentre la normalizzazione con Bahrein e Sudan è stata lenta, i legami di Israele con gli Emirati Arabi Uniti sono fiorenti. I turisti israeliani sono affluiti a Dubai e l’anno scorso i due Paesi hanno firmato uno storico accordo di libero scambio.
  Netanyahu ha dichiarato di voler fare dell’espansione degli Accordi di Abramo una priorità del suo nuovo governo. Tuttavia, analisti ed ex funzionari statunitensi avvertono che la sua dipendenza da alleati di estrema destra e religiosi sionisti potrebbe ostacolare l’impegno, in particolare con l’obiettivo di Netanyahu di normalizzare i legami con l’Arabia Saudita.
  Il tentativo di Netanyahu di visitare gli Emirati Arabi Uniti nel marzo 2021 è stato considerato da alcuni come uno stratagemma per prendersi il merito dei risultati di politica estera di Israele a pochi giorni dalle elezioni che avrebbero rimosso Netanyahu dal potere. Il suo viaggio è stato infine cancellato dopo che la Giordania ha ritardato l’approvazione del suo percorso di volo come ritorsione per la cancellazione da parte di Israele del viaggio del principe ereditario giordano alla Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme.
  Tuttavia, al di là di misure e posizioni più di rito che di sostanza, il tema palestinese ha finora pesato poco sulle dinamiche in corso, Tant’è che il governo israeliano apre la sua rinnovata politica estera con la visita di Abu Dhabi. E nonostante Netanyahu ha già dichiarato che l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, considerati illegali dal diritto internazionale, è uno dei principali obiettivi del suo governo.
  Prima delle elezioni dello scorso anno, il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed, avrebbe messo in guardia Netanyahu dall’includere nel suo governo persone di estrema destra. Alla fine Netanyahu ha nominato come ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e come ministro delle finanze Bezalel Smotrich, due figure con posizioni radicali.
  A dicembre, Ben Gvir è stato comunque ospitato dall’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Tel Aviv per l’evento del 51° National Day degli Emirati. Sempre lunedì, il nuovo ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha dichiarato di voler partecipare a marzo a un vertice in Marocco con le controparti dei Paesi arabi che hanno normalizzato i legami con Israele. Lo scorso marzo, Israele ha ospitato i ministri degli Esteri di Emirati, Bahrein, Marocco ed Egitto, insieme al segretario di Stato degli Stati Uniti, per un evento simile, denominato “Vertice del Negev”. Un incontro successivo è stato previsto.
  L’allineamento nell’ottica della normalizzazione arabo-israeliana è un interesse condiviso da tutte le parti. Nella sostanza, la visita stessa di Netanyahu — e l’importanza che essa assume come prima tappa diplomatica del premier israeliano — rappresenta un segnale su come la regione abbia intrapreso un processo di dialogo e distensione per provvedere in modo autonomo alle esigenze, sia di sviluppo e sia (presupposto) di sicurezza. Il valore strategico degli Accordi e del Negev Forum è confermato da questa consapevolezza raggiunta dagli attori regionali che c’è da superare differenze e divisioni — che tuttavia resteranno, almeno nel breve termine — per guardare a un’ottica più ampia.

(Formiche.net, 3 gennaio 2023)

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Un documento confidenziale smaschera il comportamento dell’Unione Europea contro Israele

di Ugo Volli

Documento confidenziale dell'Unione Europea
Che la politica europea si schieri in genere contro Israele nelle istituzioni internazionali come l’Onu e l’Unesco, non è una novità. Purtroppo il riflesso condizionato degli appoggi all’Autorità Palestinese e alle sue richiesta schiera quasi sempre l’Unione Europea e gli stati membri dalla parte della maggioranza terzomondista di queste istituzioni, tanto che le astensioni o i voti per Israele di alcuni paesi, fra cui il nuovo governo italiano, fa notizia e colpisce favorevolmente.
  Ciò corrisponde a esplicite e costanti prese di posizione dei “ministri degli esteri” dell’Unione Europea (UE), come l’italiana Federica Mogherini, che ha ricoperto queta carica fino al 2019 e il suo successore attualmente responsabile, lo spagnolo Josep Borrell. Bisogna certamente interrogarsi sulle ragioni per cui l’Europa sostiene a spada tratta una dittatura che sostiene il terrorismo contro la sola democrazia del Medio Oriente, soprattutto alla luce del fatto che l’Unione non fa nulla per contrastare l’occupazione turca a Cipro, la pirateria dell’Iran nel golfo persico e il suo imperialismo, la repressione cinese dei Uiguri eccetera eccetera.
  L’Unione Europea, come l’amministrazione Biden, del resto, ha recentemente rifiutato la richiesta ben documentata di Israele di inserire nella sua lista nera dei terroristi cinque ONG (organizzazioni non governative) che sono usate come strumento di finanziamento e di influenza politica dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina; anche l’Italia (sotto il precedente governo) si è adeguata. Ancora un paio di settimane fa la direzione esteri dell’Unione ha ordinato agli ambasciatori all’Onu dei paesi europei che erano stati invitati da Israele a visitare in paese di non andare a vedere il Kotel (il “muro occidentale” o “del Pianto”), perché non ne riconosce l’appartenenza allo Stato ebraico – e l’ambasciatore italiano ha obbedito. Difficile sottrarsi alla convinzione che in questo atteggiamento dell’Unione Europea non riemerga il vecchio odio per gli ebrei che ha avuto tanta parte nella storia del continente.
  Ma fino a qui siamo nell’ambito se non certo della legittimità storica e morale, almeno della legalità politica. Quel che pochi sanno è che l’Unione Europea agisce attivamente contro Israele sfidando le sue leggi anche all’interno del territorio israeliano (o affidato all’amministrazione israeliana da accordi internazionali sottoscritti anche dall’Europa come quello di Oslo). Per chi gira il paese, è facile vedere il marchio azzurro con le stelle dell’Unione Europea sui prefabbricati che compongono i villaggi illegali eretti dai beduini in varie zone dell’ “Area C” di Giudea e Samaria, cioè di quel territorio che gli accordi di Oslo del 1995 attribuiscono all’ “esclusivo controllo” di Israele, almeno fino al raggiungimento della pace. Vi sono state addirittura degli scontri fisici, come quando alcuni anni fa una funzionaria dell’ambasciata francese prese a schiaffi un soldato israeliano che stava sgomberando un insediamento arabo illegale nella valle del Giordano, il quale fra l’altro era stato costruito con finanziamenti della stessa ambasciata.
  Si tratta di una situazione di grave illegalità, contraria non solo alla legge israeliana ma a tutte le convenzioni internazionali: immaginatevi se l’Italia favorisse con soldi e materiali a una campagna di occupazioni in Istria o a Nizza, con l’intento di riaffermarne l’italianità a danno di Croazia o Francia. Ma seguendo le cronache poteva sembrare che queste fossero iniziative locali, frutto del fanatismo anti-israeliano di singoli funzionari. Recentemente è invece emersa la prova del contrario, di un progetto unitario e di alto livello dell’Unione Europea finalizzato a insidiare il controllo di Israele sull’Area C, di intesa con l’Autorità Palestinese.
  Un documento “confidenziale, da non far circolare” redatto dalla Commissione europea chiede di aiutare l’Autorità palestinese a prendere attivamente il controllo del territorio nell’Area C, che dovrebbe essere sotto il pieno controllo israeliano in base agli Accordi di Oslo. Da esso risulta che l’UE lavora per mappare il territorio al fine di dimostrare i diritti degli arabi palestinesi in queste zone- senza lasciare tracce delle sue attività. Il documento fra l’altro sembra implicare l’uso da parte dell’UE di organizzazioni di sinistra in Israele per questo scopo.
  L’UE chiede inoltre ai suoi funzionari e ai diplomatici europei di “seguire e monitorare l’attività archeologica israeliana nell’area” – sulla base del fatto che viene utilizzata come pretesto per la costruzione di insediamenti in Giudea e Samaria. Il documento afferma inoltre che è necessaria una visione europea comune e un approccio più coordinato tra le parti in Europa al fine di massimizzare la capacità di espandere il coinvolgimento nell’Area C.
  Il piano di costruzione palestinese segreto dell’UE per l’Area C di Giudea e Samaria squalifica l’Europa come organo di mediazione equo e professionale nel conflitto in Medio Oriente, che era stato stabilito dagli Accordi di Oslo. Questo piano “confidenziale” dell’UE per aiutare l’Autorità Palestinese a costruire nell’Area C è una grave violazione degli Accordi di Oslo e un’abrogazione del ruolo di mediazione dell’UE come testimone garante di accordi firmati e testimoniati a livello internazionale. E’ un dato politico importante, che non risulta sia stato discusso con gli stati nazionali e che certamente non è a conoscenza dell’opinione pubblica italiana.

(Progetto Dreyfus, 28 dicembre 2022)

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Israele, acqua marina desalinizzata per alimentare il lago di Tiberiade

di Jacqueline Sermoneta

Inaugurato un impianto per convogliare l’acqua desalinizzata nel lago di Tiberiade. Il progetto, dal costo di 900 milioni di shekel (240 milioni di euro), ha lo scopo di mantenere costante il livello dell’acqua del lago soprattutto durante i periodi di siccità. Il lago di Tiberiade, noto anche come Mar di Galilea o Kinneret, è la principale riserva d’acqua dolce d’Israele e si trova a 200 metri sotto il livello del mare.
  Il piano, avviato sette anni fa, è stato concepito dopo diverse ondate di siccità che hanno colpito lo Stato ebraico tra il 2013 e il 2018, quando il bacino d’acqua aveva raggiunto livelli minimi storici.
  Il progetto è destinato ad affrontare molteplici questioni, come il mantenimento di un adeguato livello dell'acqua sia per uso agricolo che pubblico d’emergenza e la fornitura di acqua dissalata alla Giordania, che, come da accordi, fornirà in cambio elettricità verde a Israele. Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana, ha costruito una conduttura sotterranea di 13 km che connette il lago all’infrastruttura a sua volta collegata agli altri cinque impianti di desalinizzazione situati sulla costa mediterranea. L’acqua desalinizzata viene, poi, convogliata nel fiume Tzalmon, che si getta direttamente nel lago di Tiberiade, vicino al kibbutz Ginosar sulla sponda nord-occidentale, garantendo costantemente la riserva idrica. Nei prossimi anni, il piano ha come obiettivo la costruzione di altre condutture.
  Attualmente vengono riversati nel lago 10 – 20 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata, per arrivare in seguito a 120 milioni di mc. “Il progetto – ha detto Yechezkel Lifshitz, a capo del ministero per l’Energia e per l’Acqua – dimostra che Israele è all’avanguardia nell’innovazione e nella pianificazione creativa per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici, garantendo al contempo un approvvigionamento idrico sostenibile, salvaguardando le risorse naturali di Israele e mantenendo il lago come serbatoio strategico”.
  "Questo progetto – ha affermato il presidente di Mekorot, Yitzhak Aharonovitch - passerà alla storia della gestione idrica israeliana. La capacità di convogliare acqua desalinizzata proteggerà il nostro lago nazionale e Mekorot potrà controllare per operare in modo rapido ed efficiente in tempi difficili".

(Shalom, 3 gennaio 2023)

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Netanyahu l'equilibrista, sul filo dell'identità 

È il "primo governo di destra-destra" ha dichiarato Benyamin Netanyahu all'indomani delle elezioni. Una compagine politica del tutto inedita, che mira a rafforzare l'identità ebraica del Paese con un programma basato sui principi dell'halachà, sulla revisione della Legge del Ritorno e della definizione del Chi è ebreo. Ma quali saranno i veri rapporti di forza all'interno del nuovo governo? 

di Giorgio Raccah 

L'esito delle ultime elezioni israeliane, col marcato rafforzamento dei partiti della destra estrema e di quelli religiosi ultraortodossi (haredim), ha suscitato in Israele e altrove, in seno ad alcune parti delle comunità ebraiche nella diaspora, molte domande. Principalmente, in seguito all'ingresso nella Knesset del Partito dei Sionisti Religiosi (PSR), terza forza politica per numero di deputati (14 su 120), nata dall'alleanza tra tre formazioni con connotazioni razziste, omofobe, di acceso nazionalismo militante con una forte impronta religiosa. L'ingresso nella stanza dei bottoni di partiti che si fanno attivamente custodi degli interessi di quel mezzo milione di israeliani che vivono nei 140 insediamenti cisgiordani (più altri 200mila a Gerusalemme est), rischia di avere, in prospettiva, un effetto dirompente sulla società dello stato ebraico. 
  La verità vuole che si riconosca che nei 74 anni di vita di Israele la presenza al governo o nelle coalizioni al potere di rappresentanti di partiti religiosi è stata quasi ininterrotta. Da una parte però, si aveva a che fare con partiti ortodossi che condividevano l'ideale sionista espresso da Teodoro Herzl ma al tempo stesso volevano evitare che lo stato cadesse in eccessive forme di laicismo a spese di un'identità ebraica inseparabile da quella religiosa. Dall'altra, c'erano nella Knesset anche rappresentanti dei partiti religiosi ultraortodossi, teologicamente contrari al sionismo, che in cambio di politiche governative a tutela degli interessi particolari delle comunità di haredim erano disposti a sostenere la coalizione dominante, in ogni dato momento. Il peso numerico di questi partiti alla Knesset non era tuttavia mai stato tale da imporre ai vari governi di diverso colore le politiche da adottare su questioni centrali più "spinose" o aspramente dibattute. 
  Diversa però è la situazione emersa dalle ultime elezioni. Per la prima volta Israele si ritrova con un governo che, per usare la definizione dell'ex e nuovo premier Benyamin Netanyahu, "è ora di destra-destra''. Un governo in cui è il Likud a rappresentare l'ala più moderata rispetto ai partiti alleati. Questi ultimi, insieme, hanno per numero di deputati (32) la stessa forza parlamentare del Likud. È un governo perciò che, potendo contare su una solida maggioranza con un'ideologia condivisa, seppure con accenti diversi, non ha bisogno per sopravvivere di complicate alchimie politiche e nemmeno di alleanze con partiti di orientamenti politici più moderati. 
  Una migliore comprensione della serietà del problema riguarda l'accesso dell'estrema destra e del radicalismo religioso ebraico nel sancta sanctorum dello Stato; e deve necessariamente partire dall'approccio ideologico alle questioni centrali sull'agenda del paese. 
  La prima vexata quaestio investe i rapporti interni al mondo ebraico. Sulla definizione del Chi è ebreo, per esempio, non è mai stato possibile arrivare a una risposta condivisa con le correnti riformiste (Reform) e Conservative dell'ebraismo. E ciò ha un'importanza cruciale per l'applicazione della Legge del Ritorno che riconosce a ogni ebreo il diritto di stabilirsi in Israele e di prenderne subito la cittadinanza. Incoraggiati dal successo elettorale, esponenti ultraortodossi cominciano a chiedere una revisione della Legge, in modo da limitarne 
  l'applicazione solo ai figli di genitori ebrei (perciò non a nipoti o pronipoti) e a chi si sia convertito ma solo se in conformità con i riti di una rigida ortodossia religiosa, rifiutando perciò le conversioni effettuate da rabbini riformisti, considerati esponenti di una vera e propria "eresia". E c'è ora chi propone di adottare la definizione di "Stato ortodosso di Israele". È il caso del rabbino Yitzhak Goldknopf, leader dell'UTJ (acronimo inglese di United Torah Judaism), che si oppone a spada tratta all'insegnamento nelle yeshivot, cui vanno sussidi statali, di materie fondamentali in qualunque sistema scolastico, come l'inglese, la matematica, la fisica. In un'intervista al Canale 12 della tv israeliana, Goldknopf ha dichiarato "di non aver mai constatato che l'insegnamento della matematica e dell'inglese abbia davvero contribuito al progresso economico del Paese". E c'è chi si fa domande sul futuro, chiedendosi per quanto tempo ancora Israele resterà la Start Up Nation. 

• NUOVE ALLEANZE
  C'è una convergenza di intenti tra haredim e estrema destra. Ambedue mirano ad accentuare l'identità religiosa dello stato rispetto a quella chilonì israeliana. Tra due poli, laico e haredita, il fatto che molti degli elettori del Likud osservino le tradizioni ebraiche rende più facili i collegamenti tra questi e i partiti harediti. Bezalel Smotrich, che assieme a Itamar Ben Gvir guida il PSR, è stato chiaro: "Sì, a tutti noi piacerebbe avere uno Stato che si comporti in conformità con la Torà e la halacha”.  Ad accomunare gli ultraortodossi e i seguaci del PSR, inoltre, c'è il rifiuto assoluto di ogni aperta manifestazione di sessualità diversa da quella che si considera nella norma. Non sorprende perciò che Smotrich si definisca "orgogliosamente omofobo" o che Ben Gvir, in reazione al Gay Parade a Tel Aviv proponga una "sfilata di animali". 
  Sia Smotrich che Ben Gvir sono stati per anni sotto osservazione dello Shin Bet a causa del loro estremismo. Ambedue hanno un passato di ripetuti arresti e scontri con le forze dell'ordine. Smotrich, il cui servizio militare è stato breve e chiuso dentro un ufficio, avrebbe voluto per sé il Ministero della Difesa ma andrà invece al Tesoro da cui dipendono tra l'altro gli stanziamenti per gli insediamenti. Ben Gvir, di scuola kahanista (da Meir Kahane, il leader del Kach), ha ottenuto il Ministero della sicurezza interna con poteri allargati anche sulla polizia. 

• RAPPORTI CON LA DIASPORA 
  Sin dalla sua costituzione, lo stato di Israele ha sempre attribuito enorme importanza ai rapporti con le comunità ebraiche degli Stati Uniti, dove le correnti Conservative e Reform hanno un peso dominante rispetto a quella Orthodox. Un peso dovuto soprattutto - ma non soltanto -, all'influenza che si suole attribuire alla cosiddetta lobby ebraica sulle politiche delle amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca. Ora però - scrive il giornalista Anshel Pfeffer, in un commento sul quotidiano Haaretz - si avverte "una crescente tendenza a considerare la diaspora, con la sola eccezione della sua minoranza di ebrei ortodossi, come nemica dello stato ebraico''.  "C'è una marea in salita di odio da parte della destra religiosa israeliana - afferma ancora Pfeffer - per quella che essa considera essenzialmente una diaspora antiebraica', includendo in questa non solo sostenitori di organizzazioni antisioniste e ebrei riformisti americani, ma anche migranti (da Russia, Ucraina, ad esempio) che, potendo rivendicare antenati ebrei, hanno il diritto di stabilirsi in Israele grazie alla Legge del Ritorno. In questo clima, anche i primi timidi tentativi di una parte della minoranza araba israeliana (21% ) di integrarsi nella vita dello stato si scontrano con posizioni di rifiuto dell'estrema destra con espressioni anche intimidatorie, come l'intento di ripristinare la pena di morte per i colpevoli di terrorismo (solo arabi o anche ebrei?) e di cacciare arabi "sleali" nei confronti dello stato.

• GOVERNARE CON LE LEGGI DELLA HALACHÀ 
  Molti osservatori si pongono perciò una domanda: la democrazia israeliana è a rischio? La preoccupazione c'è. Prima di tutto perché la fedeltà alla concezione socialdemocratica di stampo occidentale dello stato non è necessariamente condivisa dall'estrema destra nazionalista religiosa. Anzi, influenti rabbini come Haim Drukman, ritenuto guida spirituale di Smotrich, affermano apertamente che essendo Israele uno stato ebraico è logico che debba essere governato secondo le leggi della halachà. "Non vedo dove sia il problema" afferma Drukman, assicurando che in ogni caso non si vuole interferire nella vita privata del cittadino. Non ricorda tuttavia i poteri di cui gode il rabbinato in materie che investono la vita privata, come matrimoni, divorzi, sepolture, leggi culinarie. 
  Per la prima volta è stata creata, in seno all'ufficio del Premier, una "Direzione per l'Identità Ebraica" affidata a un altro esponente del PSR, il rabbino Avi Maoz, con poteri di indirizzare programmi di orientamento ebraico ortodosso anche per le scuole laiche statali. Il fine, da lui stesso espresso, è di evitare che "Israele diventi uno Stato come tutti gli altri". "Il mio compito è di fare in modo che vi siano programmi di identità ebraica al posto di quelli di 'uno stato di tutti i cittadini'.  È nel mirino anche il principio della separazione tra i tre fondamenti dello Stato su cui ogni democrazia si basa. Si assiste con crescente frequenza ad attacchi all'indipendenza della magistratura, con la proposta di riforme che, all'estremo limite, di fatto finirebbero col trasformare i giudici in docili strumenti del potere politico. Obiettivo primario è la Corte Suprema, accusata di un eccesso di "attivismo giudiziario" e di essersi posta al di sopra della volontà della Knesset, invalidando leggi giudicate inconciliabili con i principi enunciati nella Dichiarazione di Indipendenza. Il nuovo governo non nasconde di volere al più presto una legge che, senza nemmeno esigere una maggioranza speciale, sancisca in ogni caso la superiorità della Knesset sui verdetti della Corte. Se ciò avvenisse, diverrebbe per esempio più facile modificare in senso restrittivo la definizione di reati per i quali più volte ministri e alti funzionari dello stato sono stati processati per corruzione, interessi privati in atti pubblici e abuso della fiducia a loro concessa nell'esercizio degli incarichi. 

• IL FUTURO DEI TERRITORI 
  La questione palestinese e del futuro dei Territori su cui Israele, dal 1967, esercita la sua autorità è un tema, come quelli appena sfiorati in questo articolo, che meriterebbe ampia e separata trattazione. Ci si limita qui a osservare che subito dopo il conflitto del 1967 la linea iniziale dei governi israeliani era stata di considerare questi territori merce da barattare in cambio di accordi di pace con gli stati arabi. Fu sfortunatamente il vertice arabo di Khartum (1967) con i suoi famosi tre no - NO ai negoziati, NO al riconoscimento di Israele e NO alla pace - a congelare la situazione. Ma nulla resta perennemente statico. Quella che era merce da baratto ha assunto, col trascorrere degli anni, un valore diverso. Le trasformazioni in seno alla società israeliana hanno portato al prepotente emergere di una destra religiosa e radicale, ispirata da rabbini animati da visioni messianiche, con largo seguito di fedeli, che attribuiscono alle bibliche terre della Giudea e Samaria, di cui vogliono l'annessione, una dimensione sacrale, quasi fossero altari sui quali tutto è lecito sacrificare. Il filosofo e scienziato ortodosso Yeshayahu Leibowitz, poco dopo il conflitto del 1967, aveva ammonito contro il rischio di "idolatria dei Territori". Aveva pure previsto l'impatto nefasto che avrebbe avuto sulla società e sulla democrazia israeliana il contatto con una popolazione palestinese ostile, guidata da una dirigenza politica incapace dei necessari compromessi per una soluzione del conflitto e senza sincera volontà di pace. La profezia di Leibowitz sembra si stia ora progressivamente avverando, se è vero che nelle ultime elezioni il 20% dei soldati in servizio di leva ha votato PSR. Una visione messianica della biblica Eretz Israel da cui deriverebbe, come logica conseguenza, anche il rifiuto di ogni soluzione politica del conflitto israelo-palestinese che comporti una cessione di terre considerate inalienabili. Già nel 1985 il Consiglio degli Insediamenti Ebraici in Cisgiordania e Gaza aveva avvertito che un governo che dovesse aprire un negoziato sul futuro dei Territori occupati "sarebbe da noi considerato illegale e trattato esattamente come il generale De Gaulle trattò il regime di Vichy del Maresciallo Petain, traditore del popolo francese". Da allora la situazione si è ancora più inasprita con la moltiplicazione degli insediamenti ebraici e l'aumento della popolazione dei coloni. 

• UNA SOCIETÀ IN TRASFORMAZIONE 
  Da una società di immigrati composta da un centinaio di etnie diverse nei suoi primi anni di vita, la società ebraica israeliana è oggi formata per il 70% da giovani nativi del paese; molti di loro non hanno conosciuto realtà diverse e altre culture. Studi e ricerche, in anni recenti, analizzando le risposte ottenute nei sondaggi, rilevano che il 49% degli israeliani si definisce laico, il 29% Masortiim (tradizionalisti nel senso di rispetto della religione e delle sue festività), il 22% religiosi ortodossi, l’8% haredim (12% secondo altri sondaggi). Le divisioni emergono chiaramente su questioni sia di identità (l’89% dei laici si dice prima israeliano e poi ebreo, vale l'opposto per i religiosi), sia in tema di rapporti tra Stato e religione. Pur dichiarandosi in maggioranza favorevoli a un sistema democratico di governo, gli israeliani restano fortemente divisi in risposta alla domanda se in caso di conflitto debbano prevalere i principi democratici su quelli religiosi o viceversa. Il contrasto è emerso di recente in tutta la sua gravità sulla questione della partecipazione di soldati di ambedue i sessi in alcune unità delle forze armate. Influenti rabbini hanno preso apertamente posizione contro la partecipazione delle donne in unità combattenti al fianco di soldati, delle 'yeshivot hesder' (dove il servizio militare è abbinato a quello degli studi talmudici). Un'aperta interferenza dei rabbini nella vita delle forze armate; ma anche una questione etica, quella di porre il giovane militare, formatosi nelle yeshivot, davanti a dilemmi laceranti nel caso di ordini contrari alla sua formazione religiosa. "Il sionismo socialdemocratico - afferma il sociologo Ian Lustick - si trova davanti a sfide senza precedenti da parte di un'ideologia irredentista con una base escatologica, che si può caratterizzare come integralismo ebraico". Il quadro che emerge non è perciò rassicurante agli occhi di un liberale progressista. Si è davanti a un confronto/scontro che investe l'identità e il destino attuale dello stato ebraico.

(Bet Magazine Mosaico - Bollettino, gennaio 2023)
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Il contrasto in Israele tra Stato democratico e Stato ebraico sembra avviarsi su uno stretto sentiero senza vie d'uscita. Gli israeliani democratici si vantano di ciò che per gli ebrei religiosi è un abominio. I democratici per ora sembrano in vantaggio: il nuovo Presidente della Knesset, Amir Ohana, è fiero della sua dichiarata omosessualità, comunica il portale dell'ebraismo italiano. E la Torà? le mitzvot? chiede il religioso con qualche argomento dalla sua parte (Levitico 20:13,22). Che c'entra la Torà? risponde spazientito il democratico. Non si chiede qui come va a finire, ma semplicemente come andrà avanti. M.C.

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La contestata visita di Ben-Gvir alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme

L’ha fatta uno dei ministri più estremisti del nuovo governo Netanyahu, i palestinesi l’hanno definita una «provocazione senza precedenti»


Martedì il nuovo ministro israeliano della Pubblica sicurezza, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, noto per le sue posizioni razziste nei confronti dei palestinesi e dei cittadini arabo-israeliani, ha visitato la Spianata delle Moschee, il complesso dove si trova la moschea al Aqsa a Gerusalemme, il terzo più importante luogo sacro per le persone di religione musulmana: è stata la sua prima visita da quando è diventato ministro, pochi giorni fa, incarico che tra le altre cose gli permette di avere il controllo della polizia israeliana.
  La Spianata è importante anche per la religione ebraica: qui quasi duemila anni fa sorgeva il Secondo Tempio, il principale luogo sacro per gli ebrei, che fu distrutto dai Romani nell’assedio di Gerusalemme del 70 d.C. e mai più ricostruito. Del Tempio rimane solamente un muro esterno che oggi è diventato il luogo di culto più importante per gli ebrei, e che è situato pochi metri più in basso della moschea al Aqsa: il cosiddetto Muro del pianto.
  Nella Spianata negli ultimi anni si sono concentrati molti degli scontri e delle tensioni tra israeliani e palestinesi. Fin dalla conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele, nel 1967, alle persone di religione ebraica è infatti concesso di visitare il sito ma non è concesso pregare, cosa che è consentita solo alle persone di religione musulmana; di fatto però negli anni diversi gruppi di ebrei radicali hanno pregato nella Spianata con sempre maggiore frequenza, a volte sotto la protezione della polizia israeliana, che gestisce l’accesso al luogo.
  Sempre qui il 28 settembre del 2000 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, del partito di destra Likud, fece una visita che provocò l’inizio di un lungo periodo di proteste violente da parte dei palestinesi, conosciuto come “seconda intifada”. Da allora le visite dei politici israeliani a questo luogo sono considerate dai palestinesi delle provocazioni, e così è successo anche oggi. Il ministero degli Esteri palestinese ha condannato duramente la visita di Ben-Gvir, definendola una «provocazione senza precedenti» e parlando di una «reale minaccia di escalation per cui sarà responsabile [Benjamin] Netanyahu», cioè il primo ministro israeliano, anche lui del Likud come Sharon.
  Durante la sua visita, Ben-Gvir ha detto: «Il Monte del Tempio (il nome usato dagli israeliani ebrei per indicare la Spianata) è il luogo più importante per le persone di Israele, dove si mantiene libertà di movimento per i musulmani e i cristiani. Ma anche gli ebrei andranno sul Monte, e chi ci minaccerà avrà a che fare con il nostro pugno di ferro». Ben-Gvir si è riferito proprio al divieto per le persone di religione ebraica di pregare nel complesso della Spianata, divieto contro cui ha fatto attività di lobbying per molti anni.
  La sua posizione è considerata riconducibile alla destra più radicale israeliana e non è condivisa da molte autorità religiose ebraiche di Israele
  Alla visita di Ben-Gvir alla Spianata non ha risposto solo l’Autorità nazionale palestinese, l’organismo politico di governo della Palestina che esercita il suo potere in Cisgiordania, ma anche Hamas, gruppo radicale che controlla la Striscia di Gaza.
  La scorsa settimana, nei giorni in cui Netanyahu stava formando il suo nuovo governo, definito il più a destra della storia di Israele, Hamas aveva fatto sapere che una visita come quella di Ben-Gvir alla Spianata sarebbe stata interpretata come il superamento di «una grande linea rossa» che avrebbe portato a conseguenze serie. Non sarebbe la prima volta che eventi che succedono alla Spianata e alla moschea di al Aqsa provocano conseguenze nel territorio della Striscia di Gaza. Nel maggio del 2021 israeliani e gruppi della Striscia combatterono per esempio una guerra di undici giorni dopo scontri violenti tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane avvenuti proprio nel complesso della Spianata.
  Ben-Gvir è stato criticato anche da qualche politico israeliano, tra cui Yair Lapid, leader dell’opposizione, che ha scritto: «Questo è quello che succede quando un primo ministro debole è costretto a fare affidamento sull’uomo più irresponsabile del Medio Oriente nel posto più esplosivo del Medio Oriente». I riferimenti erano rispettivamente a Netanyahu e Ben-Gvir.
  Sono arrivate anche diverse critiche da parte di rappresentanti di altri paesi: le ambasciate in Israele di Stati Uniti e Francia hanno criticato genericamente qualsiasi azione pregiudichi il mantenimento di una situazione tranquilla, mentre il ministero degli Esteri turco ha invitato più direttamente Israele a evitare provocazioni che possano danneggiare «la santità dei siti religiosi a Gerusalemme».
  Da settimane ci sono molte preoccupazioni riguardo al nuovo governo israeliano, che è formato da una coalizione guidata dal Likud e che include anche partiti di estrema destra e ultra-ortodossi, a cui sono stati affidati ministeri molto importanti. La maggioranza è composta da Likud, Shas (conservatore, che rappresenta gli ebrei ortodossi di origine nordafricana e mediorientale), Ebraismo della Torah unito (conservatore e ultra-ortodosso), Potere ebraico, Sionismo religioso e Noam (tre partiti di estrema destra).
  Uno dei nomi più controversi del nuovo governo è proprio quello di Ben-Gvir, che ha sempre sostenuto l’espulsione da Israele degli arabo-israeliani ritenuti «sleali» nei confronti dello stato e l’annessione della Cisgiordania occupata. Fino a pochi anni fa Ben-Gvir aveva nel suo salotto un ritratto di Baruch Goldstein, che nel 1994 massacrò 29 fedeli palestinesi in una moschea di Hebron, città della Cisgiordania.

(il Post, 3 gennaio 2023)

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Guerra in Ucraina/Turchia e Israele, come cambiano le alleanze

Quasi un anno di guerra, dall’invasione russa in Ucraina del 24 febbraio 2022. E le alleanze cambiano, i rapporti economici si stringono e la condanna del gesto lascia il posto agli affari di Stato. In cima c’è la Turchia: il ministro dell’energia turco Fatih Donmez, durante una lunga intervista alla rete turca TVNet, ha annunciato contratti a lungo termine con la Russia per le forniture di gas e ha annunciato che la Turchia ha già iniziato a lavorare sul progetto dell’hub del gas proposto dalla Russia: “Intendiamo trarre vantaggio da questo progetto, ci sono opportunità e terminali per questo”, ha detto Donmez. Secondo il ministro, Ankara ha già avviato un lavoro concreto. “Il nostro tempo di preparazione preliminare è di un anno, ora stiamo valutando l’infrastruttura e i dettagli”. Il ministro ha osservato che nel tempo l’interesse dei paesi europei per il progetto potrebbe aumentare e ha aggiunto: “La Turchia firmerà domani un accordo per vendere gas alla Bulgaria. La Bulgaria vuole riservare capacità nei terminali turchi fino al 2036 per importare 1 miliardo di metri cubi di GNL all’anno”. Un paradosso perché la Bulgaria non ha rinnovato il contratto di fornitura di gas russo per il prossimo anno, scaduto domenica 1 gennaio. Dunque, Sofia non comprerà più gas dalla Russia ma comprerà gas russo dalla Turchia.

• Israele, il nuovo corso invita alla prudenza
  Anche Israele fa i conti con la guerra, nel senso letterale della parola e promette di adottare una linea più vicina alla Russia. Il nuovo ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha segnalato un cambiamento di politica sull’Ucraina nel suo primo discorso e ha annunciato che oggi (martedì) parlerà con il ministro degli esteri russo Lavrov. Si tratterebbe della prima chiamata del genere dall’invasione russa dell’Ucraina. Nel suo discorso, Cohen ha lasciato intendere che, a differenza del suo predecessore Yair Lapid, non condannerà pubblicamente la Russia. “Sulla questione di Russia e Ucraina faremo sicuramente una cosa – parlare meno in pubblico”. Il nuovo ministro degli esteri israeliano ha detto che elaborerà una nuova politica “responsabile” sulla guerra in Ucraina e ha annunciato che “preparerà una presentazione dettagliata al gabinetto di sicurezza su questo tema”. In ogni caso il governo ha confermato che gli aiuti umanitari israeliani all’Ucraina continueranno ad arrivare.

(Quotidiano Sociale, 3 gennaio 2023)
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La Turchia si è conquistata un suo spazio d'azione nella guerra Russia-Nato e cerca i suoi interessi. L'Italia invece, insieme ad altri paesi europei, si è legata mani e piedi agli interessi USA in nome della "libertà" dell'Occidente. Israele, che sembra legarsi sempre di più all'Occidente americano, militarmente, economicamente e moralmente, forse potrebbe cominciare a chiedersi se gli USA sono, come l'Egitto biblico, "un sostegno di canna rotta" . M.C.

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Raid israeliano sull’aeroporto di Damasco. Distrutto avamposto iraniano

Secondo il regime di Damasco due militari siriani sarebbero morti nell'attacco attribuito a Israele. Ma fonti di intelligence parlano di diverse vittime tra le milizie iraniane.

Domenica notte l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco contro l’aeroporto internazionale di Damasco, mettendolo temporaneamente fuori servizio, uccidendo due soldati e ferendone altri due, ha riferito l’agenzia di stampa statale siriana SANA.
  Una fonte militare citata da SANA ha dichiarato che intorno alle 2 del mattino Israele ha effettuato un attacco aereo con “raffiche di missili, prendendo di mira l’aeroporto internazionale di Damasco e i suoi dintorni”.
  L’attacco ha causato “la morte di due soldati… mettendo fuori servizio l’aeroporto internazionale di Damasco”.
  Secondo una nota ufficiale inviata dalle autorità siriane, entrambe le piste dell’aeroporto di Damasco sono state chiuse in seguito all’attacco.
  Ma in un comunicato successivo, il ministero dei Trasporti siriano ha dichiarato che l’aeroporto è stato riaperto alle 9:00, dopo che le autorità avevano rimosso “i danni causati dall’aggressione israeliana” e avevano effettuato le riparazioni ai siti danneggiati.
  Secondo fonti di intelligence il raid israeliano ha colpito un avamposto vicino all’aeroporto appartenente alla Forza Quds iraniana e alle milizie che sostiene uccidendo diversi miliziani.
  Come al solito non ci sono commenti ufficiali da parte israeliana, né di conferma né di negazione.

(Rights Reporter, 2 gennaio 2023)

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Israele-Turchia, tornano i diplomatici

di Fulvio Scaglione

Un nuovo, piccolo, segnale distensivo merita di essere registrato: il ritorno dell'ambasciatore di Israele in Turchia, dopo anni di assenza e nervi tesi tra i due Paesi. Le manovre di riavvicinamento sono iniziate mesi fa.
  Proviamo ad accogliere il 2023 con una notizia che sa di buoni auspici. Dopo quattro anni di sede scoperta, la nuova ambasciatrice di Israele in Turchia, Irit Lillian, ha presentato le credenziali al presidente Recep Tayyip Erdogan. I rapporti tra questi due Paesi, così “pesanti” e importanti per la stabilità del Medio Oriente, erano precipitati nel 2010, quando gli israeliani, per fermare la cosiddetta Gaza Freedom Flotilla che cercava di violare il blocco marittimo imposto alla Striscia di Gaza, assaltarono la nave Mavi Marmara uccidendo dieci cittadini turchi.
  Le relazioni diplomatiche erano poi state ripristinate nel 2016, per precipitare un’altra volta nel 2018, a causa della repressione israeliana della cosiddetta Grande Marcia del Ritorno organizzata a Gaza. Ankara richiamò il proprio ambasciatore ed espulse quello israeliano. Una specie di paradosso storico, visto che nel 1949 proprio la Turchia fu il primo Paese a maggioranza islamica a riconoscere il neonato Stato di Israele.
  Nel 2022 è arrivato il cambio di passo. In marzo il presidente israeliano Isaac Herzog si è recato in visita di Stato ad Ankara, la prima visita di tal genere dal 2008. E l’economia ha subito preso atto del nuovo clima: nei primi dieci mesi del 2022, 632 mila israeliani sono arrivati come turisti in Turchia, un aumento del 448 per cento rispetto al 2021 (anno in cui gli spostamenti internazionali risentivano, comunque, ancora dell’emergenza Covid-19 – ndr).
  La distensione durerà? La domanda è lecita, perché i colpi di scena in negativo non sono mai mancati tra due Paesi intransigenti per natura e guidati da leader non sempre inclini alla diplomazia. Ma di questi tempi possiamo permetterci di sottovalutare un segnale positivo?

(Terrasanta.net, 2 gennaio 2023)

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Israele - Il governo di estrema destra programma provocazioni contro i palestinesi

Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha confermato che intende visitare prossimamente il Monte del Tempio (la Spianata delle Moschee per gli arabi) in Città Vecchia a Gerusalemme. «Il Monte del Tempio – ha detto citato dai media – è un argomento importante e intendo visitarlo».
  Ben Gvir, esponente di destra radicale e convinto sostenitore della possibilità per gli ebrei di poter pregare sul posto – ha incontrato nella sua nuova veste di ministro del governo Netanyahu il capo della polizia, annunciandogli la sua intenzione. La sua decisione come ministro – in passato è già stato più volte sul sito – è considerata da molti un passo potenzialmente pericoloso per gli equilibri del luogo con i palestinesi. Le norme dello Status quo vietano agli ebrei di pregare sul posto.

(globalist, 2 gennaio 2023)
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Il ministro israeliano ha detto soltanto di voler visitare il Monte del Tempio, non di volerci andare a pregare. Ma si sa che nel rapporto tra ebrei e arabi, in Israele tutto può essere fatto o interpretato come una provocazione. M.C.

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Israele rinuncia alla tassa sulla plastica

Il nuovo governo israeliano abbandonerà la tassa su piatti e utensili di plastica monouso. La decisione, in contrasto agli sforzi globali per ridurre la quantità di rifiuti di plastica che inquinano gli oceani, arriva dopo l’opposizione alla tassa da parte dei partiti religiosi, indispensabili per sostenere la maggioranza, che sostenevano che colpisse la loro comunità. Un rapporto parlamentare del novembre 2021 ha rilevato che le famiglie ultraortodosse usano posate di plastica tre volte di più rispetto al resto della popolazione, perché hanno famiglie numerose e redditi bassi, e molte non possiedono lavastoviglie.

(Adnkronos, 2 gennaio 2023)

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Chi sono i principali ministri del governo Netanyahu

di Ugo Volli

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Nonostante appelli, manifestazioni, articoli di giornale che prevedono il caos e la guerra civile  il nuovo governo israeliano è al lavoro e i ministri ora devono, come ha detto Netanyahu, “rimboccarsi le maniche”  per affrontare i molti problemi che stanno di fronte allo stato ebraico e soprattutto per realizzare l’ambizioso programma che gli accordi di coalizione hanno stabilito. Quest’inizio è una buona occasione per chiedersi chi sono i politici che gestiranno Israele nei prossimi anni. 

• IL PRIMO MINISTRO
  Partiamo dal più importante di tutti, Benjamin (chiamato da tutti Bibi) Netanyahu. Settantatrè anni compiuti il 21 ottobre, figlio di Benzion Netanyahu (nato a Varsavia col nome di Bensyjon Milejkowski,  un grande storico che si è occupato di Inquisizione e ha insegnato nelle migliori università americane ma ha fatto anche il segretario del fondatore del sionismo revisionista Vladimir Žabotinskij); fratello dell’eroe di Entebbe Yoni Netanyahu, Cresciuto a Gerusalemme e in parte negli Usa, Bibi ha militato nelle forze speciali Sayeret Matkal  per diversi anni, partecipando alla guerra del Kippur e a varie operazioni segrete. Dopo gli studi economici entra in politica, è nominato dal primo ministro Yitzhak Shamir ambasciatore all’Onu (1984-88), tornato in Israele viene subito eletto deputato e diventa nel 1993 leader del Likud, che porta alla vittoria nel 1996, conquistando così il posto di primo ministro. Lo riotterrà altre cinque volte, con vari passaggi all’opposizione, diventando il premier più longevo di Israele. Molto apprezzato dall’elettorato e nella politica internazionale, è anche molto odiato nella politica israeliana. È in corso un processo contro di lui per imputazioni di corruzione e di abuso di potere, ma si tratta di accuse che al momento sembrano piuttosto difficili da provare. 

• IL MINISTRO DELLA DIFESA
  Il secondo posto per importanza è quello della Difesa. Lo tiene Yoav Gallant  Maggior generale dell’esercito israeliano, proveniente dagli incursori di Marina, già comandante della regione meridionale e responsabile dell’operazione “Piombo fuso”, fu designato da Barak e Netanyahu nel 2010 come nuovo capo di stato maggiore delle forze armate israeliane. La sua carriera fu però travolta dalla pubblicazione di un dossier che lo accusava di scorrettezze, rivelatosi poi del tutto falso. Ma nel frattempo Gallant si era dimesso e al suo posto venne nominato Benny Gantz, oggi capo di uno dei partiti di opposizione. Gallant ha fama di stratega audace; a lui potrebbe toccare la responsabilità dell’attacco al nucleare iraniano.

• GLI ESTERI
  Eli Cohen (da non confondere con l’omonima spia israeliana in Siria) è ministro degli esteri. Sposato con quattro figli, residente a Holon, membro del Likud,  ha una formazione economica ed è stato già ministro dell’economia e dell’industria e soprattutto è stato responsabile ministeriale dei servizi di intelligence.

• LA GIUSTIZIA
  Ministro della Giustizia è Yair Levin, avvocato, 53 anni sposato con tre figli, già Ministro della sicurezza interna, del Turismo e dell’immigrazione in precedenti governi di Netanyahu, è stato per due volte presidente della Knesset, prima fra il 2018 e il 2020, poi per pochi giorni la settimana scorsa, nominato provvisoriamente per permettere l’approvazione di alcune leggi necessarie alla formazione della maggioranza. Sul tema delicatissimo della Giustizia Levin ha spesso espresso l’opinione che bisogna trovare un nuovo equilibrio che rispetti il primato del parlamento.

• GLI AFFARI STRATEGICI
  L’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti (per una lunghissima durata rispetto agli standard diplomatici, dal 2013 al 2021) Ron Dermer è il Ministro agli affari strategici del nuovo governo, con l’incarico di seguire la fondamentale relazione fra Israele e Usa. Nato A Miami, con una laurea ad Oxford, Dermer, 51 anni, prima di diventare uno dei  più fidi uomini di Netanyahu è stato assistente di Nathan Sharanski. 

• L’ECONOMIA
  All’Economia è stato destinato Nir Barkat, imprenditore, già sindaco di Gerusalemme, uno dei possibili successori di Netanyahu, alla Diaspora va Amichai Chikli, 41 anni, nato a Gerusalemme da genitori tunisini. E’ di famiglia ed educazione conservative, anche se personalmente non si dichiara aderente a questa tendenza: anche questa è una scelta pensata per aprire un dialogo con gli Stati Uniti, in particolare con gli ambienti non ortodossi che vi prevalgono. Fra gli altri membri del Likud bisogna almeno nominare Yoav Kisch all’Educazione, Avi Dichter all’Agricoltura, Shlomo Karhi  alla Comunicazione, Miri Regev ai Trasporti. Haim Katz al Turismo. 

• I MINISTRI SIONISTI RELIGIOSI
  Per gli altri partiti, le due personalità dominanti nel mondo del sionismo religioso sono Itamar Ben Gvir alla sicurezza nazionale, e  di Bezalel Smotrich  al Tesoro con competenza su Giudea e Samaria. Entrambi sono molto contestati dalla stampa internazionale e dagli avversari politici del governo. Ben Gvir, 46 anni, è avvocato, di carattere molto combattivo e spesso provocatorio, sposato con cinque figli, vive nell’insediamento di Kiriat Arba sopra Hebron. E’ considerato vicino alla linea politica nazionalista del rabbino Meir Kahane, il cui movimento Kach fu sciolto a metà degli anni Ottanta sotto l’accusa di razzismo. Ben Gvir ha ripetutamente dichiarato di non condividere più le posizioni di Kach e di volere soprattutto un atteggiamento più duro di Israele nella lotta al terrorismo. Avrà ora la responsabilità politica delle forze di sicurezza, che spesso lo hanno perseguito per le sue idee e le sue mobilitazioni per la difesa dei diritti degli ebrei in Giudea e Samaria. Sarà interessante vedere come si svilupperà il conflitto fra le sue idee e le pratiche conciliatorie che la polizia israeliana ha usato spesso nei confronti dei movimenti palestinisti. Lo stesso si può dire di Bezalel Smotrich, 41 anni, sette figli, abitante nel villaggio di Kedurim in Samaria,  anche lui avvocato, difensore molto deciso delle comunità ebraiche oltre la linea verde  contro le iniziative per bloccarne l’espansione spesso prese da parte dell’amministrazione civile delle forze armate israeliane, di cui ora è responsabile.

• I MINISTRI DEL MONDO CHAREDÌ
  Bisogna citare infine due ministri del mondo charedì (quello che i giornali chiamano con un termine inappropriato e un po’ offensivo “ultraortodosso”):  Aryeh Deri Ministro della Salute e dell’Interno è membro dello Shas, il partito religioso sefardita. Nato in Marocco, 63 anni, leader politico storico degli ebrei sefarditi, è stato ministro in molti governi. Ha avuto diversi guai con la giustizia, essendo stato condannato per evasione fiscale e corruzione, ma è sempre riemerso alla guida del suo partito. Yitzhak Goldknopf, 72 anni e dieci figli, nato a Gerusalemme, è il leader del gruppo Agudat Israel, che è maggioritario nella lista United Torah Judaism è stato nominato ministro dell’edilizia e degli affari di Gerusalemme. E’ un seguace della dinastia chassidica forse più importante in Israele, quella di Gur e al governo rappresenta i religiosi askenazisti.

(Shalom, 1 gennaio 2023)

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Gesù è nato. E poi? (2)

di Marcello Cicchese


DAL VANGELO DI LUCA, cap.2

  1. Vi era a Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra lui
  2. e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima di aver visto il Cristo del Signore.
  3. Egli, mosso dallo Spirito, andò al tempio e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge,
  4. se lo prese anch'egli nelle braccia, benedisse Dio e disse:
  5. “Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola,
  6. perché gli occhi miei hanno visto la tua salvezza,
  7. che hai preparato dinanzi a tutti i popoli
  8. per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”.

  9. Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che dicevano di lui.
  10. Simeone li benedisse e disse a Maria, sua madre: “Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione
  11. (e a te stessa una spada trapasserà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati”.

  12. Vi era anche Anna, profetessa, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, la quale era di età avanzata. Dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità,
  13. era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. Ella non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere.
  14. Sopraggiunta in quella stessa ora, lodava anch'ella Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Le notizie che danno i Vangeli sulla vita di Gesù prima del suo ministero pubblico sono scarsissime. Su una persona come Gesù, che comunque lo si giudichi ha occupato e occupa tuttora un posto di enorme rilievo nella storia, qualcuno forse avrebbe voluto sapere qualcosa di più sui particolari della sua vita. Ma anche in questo racconto, come in tutti gli altri nella Bibbia, l'autore del testo, cioè lo Spirito Santo, non è un semplice reporter del fatto che vede avvenire, ma è un editor che forma il racconto del fatto dopo aver partecipato all'avvenimento del fatto. Il racconto così formatosi diventa, nelle mani dell'Editor, un altro fatto destinato a produrre nuovi effetti in chi lo legge. Se dunque le notizie sembrano poche, vuol dire che ad esse si deve dare particolare importanza, perché l'Editor ha scelto punti essenziali da far conoscere e ha omesso di proposito altri dettagli che avrebbero potuto portare fuori strada.
  E' Dio in azione che si deve vedere nei racconti della nascita e dell'infanzia di Gesù; gli uomini intervengono come reazione all'agire di Dio, che è il principale attore in tutta la scena, dall'inizio alla fine, non solo nei fatti che sono accaduti, ma anche nel modo in cui ha deciso che siano narrati.
  I tratti della vita di Gesù prima del suo ministero pubblico sono contenuti tutti in due capitoli della Bibbia: Matteo 2 e Luca 2.
  In Matteo, che si dice essere stato scritto per gli ebrei, il bambino Gesù viene messo in una relazione di attrazione e repulsione con i gentili. I magi d'Oriente cercano il posto dove si trova Gesù per adorarlo; Erode cerca anche lui quel posto, ma per ammazzarlo. Anche tra i gentili Gesù è stato fin dall'inizio un "segno di contraddizione".
  In Luca, che si dice essere stato scritto per i gentili, il bambino Gesù è messo in relazione con gli ebrei. Gli episodi presentati sono tutti in chiave positiva, ma con diverse accentuazioni. I luoghi in cui avvengono sono in tutto tre: uno nei campi: l'annuncio degli angeli; due nel Tempio: l'intervento di Simeone e Anna e il colloquio di Gesù dodicenne coi dottori della legge.
  Poiché l'Editor che ha formato il racconto dei fatti è anche Colui che ha provocato e diretto i fatti, non si può far a meno di notare che il Tempio di Gerusalemme occupa un posto di assoluto rilievo nel racconto di Luca. Non sono curiosità colorite, ma comuncazioni importanti che richiedono attenzione per essere percepite nel loro valore.
  Il Tempio è un elemento molto sottovalutato nelle due religioni scaturite dalla Bibbia. Gli ebrei ordinano di osservare la Torà per camminare da giusti sulla terra; i cristiani invitano a credere nel Vangelo per andare da salvati in cielo, e non si pensa che fin dal tempo di Caino Dio progetta di scendere dal cielo per venire ad abitare sulla terra in una Sua casa, in una creazione da Lui rinnovata, in mezzo ad uomini riconciliati con Lui. C'è un netto contrasto tra la scala di valori posta da ogni religione umana, che mette prima l'uomo e poi Dio, e la fede cristiana fondata su radici ebraiche, che rettamente intesa pone la giusta graduatoria: prima Dio e poi gli uomini.
  Il concetto di "casa di Dio" (בית אלהים Beit Elohim) compare la prima volta proprio all'inizio della storia della salvezza, nel sogno che fa Giacobbe mentre è in viaggio verso Paddan-Aram in cerca di moglie (Genesi 28:10-22). 
  La casa di Dio è il preciso luogo in cui Dio vuole incontrare gli uomini per abitare in un dato tempo e in un certo modo in mezzo a loro. 
  Nel deserto:

    «Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio» (Esodo 29:45-46).

In Israele, al tempo di Gesù:

    «La Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità» (Giovanni 1:14).

Nella nuova creazione:

    «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio». (Apocalisse 21:1-3)

Nel racconto di Luca, dopo l'annuncio degli angeli nei campi la scena si sposta all'interno del Tempio di Gerusalemme, che Dio stesso indica come "la mia casa" (Isaia 56:7, Matteo 21:13)
  Notiamo allora lo svolgimento dei fatti. Giuseppe e Maria portano il loro figlio primogenito al Tempio per consacrarlo al Signore; lì si aspettavano di trovare le braccia di un sacerdote a cui consegnare il bambino per essere consacrato a Dio e benedetto. Ma di sacerdoti nel racconto non si vede neppure l'ombra. Compare invece un uomo. Un uomo qualsiasi, senza curriculum. Si dice soltanto che era giusto e timorato di Dio. Non è a lui che i genitori dovevano presentare il bambino, ma lui, con un atto di sua volontà, si prende il bambino tra le braccia. Ma non lo benedice, come avrebbe fatto un sacerdote: benedice invece i suoi genitori. Come mai? Alla madre Maria poi non fa le congratulazioni, ma rivolge parole gravi: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione (e a te stessa una spada trapasserà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati» (v. 34).
  Sono parole profetiche pesanti. Maria ne avrà avvertito il suono cupo, ma non avrà potuto coglierne tutto il significato. Si parla di rialzamento, ma perché c'è stata una caduta, di spada che trapassa l'anima, di pensieri svelati che dietro il velo probabilmente non erano molto edificanti. Senza poter esaminare qui il profondo significato di queste parole, quello che si può dire è che fino a questo punto del racconto il posto centrale della risposta umana all'azione di Dio si trova nella persona di Maria. Questo anche perché le notizie riguardanti il periodo non pubblico della vita di Gesù possono essere arrivate a Luca soltanto attraverso Maria; Giuseppe infatti quando Gesù fu crocifisso era già morto. Si pensi per esempio al versetto che si trova più avanti: "... e sua madre serbava tutte queste cose in cuor suo" (v. 51); solo Maria avrebbe potuto riferire quello che passava in cuor suo. 
  Questo non divinizza la figura di Maria, ma ne sottolinea il fatto di essere presente nel Tempio di Gerusalemme come serva del Signore (Luca 1:46-55) in Israele, perché - sia detto per inciso - la Maria biblica non è madre della Chiesa, come sostiene un certo cristianesimo, ma "figlia di Israele" (ved. "Maria figlia di Israele").
  Resta da prendere in considerazione la figura di Anna. 
  Era una profetessa, e con questo si può intendere che aveva ricevuto da Dio la facoltà di comprendere e trasmettere ad altri le rivelazioni della Sua parola, cosa che al popolo nel suo complesso era stata negata da Dio (Isaia 6:9-10, Matteo 13:13-15). 
  Era una vedova, quindi appartenente a una delle tre classi deboli particolarmente protette dal Signore: lo straniero, l'orfano e la vedova (Deuteronomio 27:19). 
  Era assidua al Tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere, dunque un'autentica pia israelita, come l'istruito Natanaele incontrato da Gesù (Giovani 1:45-51) all'inizio del suo ministero. 
  Sulle due persone che in questo momento si trovano intorno alla "sacra famiglia" di Gesù, ci sono due cose che le accomunano: il Tempio e Israele. 
  E' lo Spirito Santo che muove il giusto e timorato Simeone ad andare al Tempio; ed è la fervida pietà di Anna che la mantiene notte e giorno assidua Tempio. Ed è proprio lì che, come "per caso", incontrano Gesù.   
  E' Israele che tutti e due hanno nel cuore e di cui fanno il nome nel loro parole. Simeone vede in Gesù la consolazione di Israele, dunque la fine delle sofferenze del passato, come le profezie avevano annunciato; Anna vede in Gesù la redenzione di Israele, dunque l'apertura verso un futuro glorioso che le profezie promettono. 
  E tutto questo avviene all'interno del Tempio, nella casa di Dio. Si potrebbe dire allora che proprio lì, in quella particolarissima casa, è avvenuta una nascita: è spuntato un germoglio. "Germoglio", uno dei nomi con cui nelle profezie si indica il Messia. Un nome che non per nulla è messo in relazione con il Tempio:

    «Così parla l'Eterno degli eserciti: 'Ecco un uomo, che si chiama il Germoglio, germoglierà nel suo luogo e costruirà il tempio dell'Eterno; egli costruirà il tempio dell'Eterno, riceverà la gloria, si siederà e dominerà sul suo trono» (Zaccaria 6:12-13).

"Germoglierà nel suo luogo". Dunque il luogo è importante, in relazione alla venuta del Messia. Nell'ultima parte del racconto di Luca si vedrà che anche per Gesù dodicenne il luogo è importante.

(2. continua)

(Notizie su Israele, 1 gennaio 2023)


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