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Notizie 1-15 luglio 2020


Israele, ricerca e sviluppo per la crescita economica

Massimo Maria Amorosini intervista il Presidente della Camera di Commercio Italiana in Israele, Ronni Benatoff.

Quale è la situazione covid19 oggi in Israele? Si è ritornati regolarmente tutti al lavoro o ci sono ancora restrizioni? In che modo durante l'emergenza Covid-19 il governo israeliano ha affrontato l'emergenza? Come ha supportato il sistema imprenditoriale delle piccole e medie aziende? Quali vantaggi ci sono nel fare impresa oggi in Israele? Quali sono gli scenari d'investimento che si stanno delineando? Quali le opportunità per il made in Italy? In che modo la Camera di Commercio Italiana in Israele dà assistenza agli imprenditori italiani che vogliono cogliere le opportunità di business in Israele? Ci sono delle "regole d'oro" che un'impresa italiana, che punti ad avere successo sul mercato Israeliano, deve rispettare per evitare amare sorprese? Questi alcuni dei quesiti a cui ha risposto il Presidente Benatoff.

(Italplanet, 15 luglio 2020)


Santa Sofia infiamma le relazioni fra la Turchia e Israele

di Emanuel Pietrobon

Il 10 luglio il Consiglio di Stato della Turchia si è riunito per emettere il verdetto sul destino della fu cattedrale di Santa Sofia (Ayasofya), museo del 1935, dando semaforo verde alla sua riconversione in moschea. La sentenza è giunta al termine di un lungo mese caratterizzato da un acceso scontro diplomatico fra Ankara, i patriarcati della cristianità ortodossa e diversi governi occidentali, e ha consacrato ufficialmente la candidatura della Turchia quale primo e principale sfidante dell'Arabia Saudita per la guida del mondo musulmano (dar al-islam).
  Nelle ore successive alla sentenza i fedeli musulmani hanno riempito le strade per celebrare l'evento e Recep Tayyip Erdogan, il vero regista dell'intera opera, ha voluto inviare un messaggio alla nazione e al mondo intero per spiegare la natura messianica del ritorno di Ayasofya ad uso islamico. Un passaggio in particolare del discorso ha messo in allarme Israele: "la resurrezione di Santa Sofia è precorritrice della liberazione della moschea al-Aqsa". Quest'ultima si trova a Gerusalemme e sorge sul monte del Tempio, luogo che i musulmani chiamano la "spianata delle moschee", e riveste un'importanza fondamentale all'interno dell'escatologia islamica.
  La reazione israeliana non si è fatta attendere: il 13 luglio, tre giorni dopo la sentenza sulla riconversione, degli attivisti hanno "assaltato" il consolato turco di Gerusalemme Est in segno di solidarietà verso la comunità cristiano ortodossa.

 L'assalto
  Nella giornata di lunedì un gruppo composto da nove persone, tutti israeliani, ha circondato il consolato turco di Gerusalemme Est con l'obiettivo di strappare dall'asta la bandiera con mezzaluna e stella turca e sostituirla con quella greca. Il gruppo, che con il passare del tempo si è allargato fino a contare più di una ventina di persone, si è reso protagonista di canti anti-turchi, dello sventolamento di bandiere della Grecia e dell'impero bizantino e dell'affissione di manifesti contro la riconversione in moschea di Santa Sofia sui muri esterni del consolato.
  Il personale diplomatico del consolato ha dovuto chiedere l'intervento delle forze dell'ordine poiché spaventato dall'aumento dei manifestanti, dallo sbarramento dell'edificio e, soprattutto, poiché indignato dal rogo della bandiera turca da parte loro, che è stato filmato ed è diventato rapidamente virale. Una volta giunta sul posto, la polizia ha identificato gli attivisti, prendendo in custodia il presunto incendiario e scoprendo che uno di loro possedeva un'arma da fuoco.

 Chi sono gli assalitori?
  I manifestanti appartengono ad un gruppo noto come "Jerusalem Initiative" (Iniziativa di Gerusalemme, Ndr), il cui capo è Elias Zarina, un personaggio pubblico e lobbista noto per il suo impegno nel dialogo interreligioso fra ebrei e cristiani, già a capo dell'Associazione del Patto Fraterno (Brotherly Covenant Association).
  Zarina, che è stato raggiunto dall'Agenzia Anadolu per fornire la propria versione sull'accaduto, ha spiegato che il gruppo è formato da ebrei e cristiani, fra i quali un membro delle forze armate, e che l'azione è stata condotta per protestare contro la decisione del Consiglio di Stato della Turchia. Il lobbista ha anche spiegato che Israele dovrebbe prendere posizione sulla questione dell'ex cattedrale e ha invitato il primo ministro Benjamin Netanyahu a condurre una politica estera che "supporti e protegga i cristiani in tutto il mondo".

 Il significato della protesta
  Come denunciano i membri di Jerusalem Initiative, nessun paese occidentale ha preso le difese dei cristiani turchi e della Grecia, che sul complesso di Santa Sofia continua a fare delle rivendicazioni in virtù del legame storico e spirituale che lega Atene al defunto impero bizantino, perciò Israele dovrebbe farsi carico della responsabilità e cogliere la Turchia in contropiede.
  I rapporti fra Grecia e Turchia sono stati tradizionalmente caratterizzati dalla conflittualità e neanche la loro comune appartenenza all'Alleanza Atlantica ha placato l'astio reciproco. Atene è la prima vittima del piano di rinascita imperiale neo-ottomano di Erdogan, per ragioni di contiguità geografica, e negli ultimi mesi si è assistito ad una vera e propria escalation il cui apogeo si è avuto a fine maggio con una micro-invasione da parte turca di un lembo di terra sotto sovranità greca.
  L'immobilismo degli alleati di Atene, ovvero Unione europea e Stati Uniti, ha spinto l'esecutivo a valutare le ipotesi di un riavvicinamento con la Russia e di un sodalizio con Israele. Il 17 giugno, il primo ministro greco e il presidente israeliano si sono incontrati a Gerusalemme per pattuire i termini del partenariato e nell'arco di un solo mese sono stati raggiunti dei traguardi importanti, fra i quali un accordo nel campo della difesa ed un accordo di cooperazione nella sicurezza cibernetica.
  L'entrata in scena di Jerusalem Initiative e l'appello a Netanyahu del lobbista Zarina potrebbero essere il segno che la collaborazione fra i due paesi sia destinata ad espandersi anche nel versante diplomatico. Sia Israele che la Grecia hanno bisogno di contenere l'espansionismo turco nella regione e un sodalizio stretto sarebbe funzionale allo sbarramento delle manovre di Ankara nel Mediterraneo orientale.

(Inside Over, 15 luglio 2020)


Il diario di Ernesta Bittanti-Battisti sull'orrore delle leggi razziali

 
Ernesta Bittanti al centro con i figli
Le leggi razziali imposte da Benito Mussolini nell'autunno del 1938 sono una pagina tristissima ma ancora abbastanza oscura nella storia della nostra Nazione. In questa sorta di limbo della conoscenza spiccano gli scritti, forse poco noti, di Ernesta Battisti la vedova di Cesare Battisti che a Trento, all'alba del Novecento, nel giornale "Il Popolo" di fede socialista era stata collega di Benito Mussolini con il quale aveva rotto ogni rapporto alla vigilia della Marcia su Roma. Addirittura il 22 giugno del 1924, e questo lo si legge sulle pagine del "Nuovo Trentino" diretto da Alcide De Gasperi, otto giorni dopo l'omicidio del socialista Giacomo Matteotti, appreso che i fascisti di Trento stavano per recarsi in corteo al Castello del Buonconsiglio, li precedette nella fossa detta "dei Martiri" e inginocchiata davanti al cippo che segna il luogo dell'impiccagione del marito, lo ricoprì con quel grande velo nero di pizzo donato nel luglio del 1918 dalle donne di Cantù, che era solita portare sulle spalle in segno di lutto perpetuo.
   I fascisti si indignarono; a qualsiasi altra donna avrebbero fatto bere l'olio di ricino, ma nessuno poteva alzare la mano sulla vedova più importante d'Italia che a Milano, dove si era trasferita, cominciò a scrivere quel diario attorno alle leggi razziali. "La grande massa ne è sbalordita. Non comprende. La stampa che è tutta statale e vuole avere uno spirito anti ebraico, dà uno spettacolo pietoso, ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli… è l' obbedienza [di Mussolini] a Hitler in cambio della intangibilità dell'Alto Adige".
   Da oltre Brennero arrivavano con il vociferare dai membri delle gerarchie naziste, notizie allarmanti raccolte dal Sim, il Servizio informazioni militari, puntualmente riportate nei Diari di Galeazzo Ciano, il Ministro degli Esteri dell'Italia fascista. Volevano "portar via agli italiani Trieste per il porto che dava ai tedeschi l' accesso all' Adriatico, quindi al Mediterraneo; occupare le ricche pianure settentrionali d' Italia, trasformare il Lago di Garda in un paradiso per le vacanze e luogo di cura e riabilitazione dei soldati feriti". E il passaggio del Brennero e del Sudtirolo al Terzo Reich che sembrava imminente, spaventava il Duce. Ben consapevole che non poteva opporsi alle armate naziste, cercava di seguire le orme del camerata tedesco. Per tenerselo amico.
   Si legge negli scritti di Ernesta Bittanti-Battisti: "I documenti dei modi delle interdizioni [degli ebrei dai pubblici impieghi] sono sui giornali. I quali sono specchio della viltà d'obbedienza dei non ebrei nella persecuzione. Molti ebrei emigrano. Scienziati e professionisti valenti e noti, hanno trovato pronto e favorevole collocamento soprattutto in regioni che ancora abbisognano di forze culturali". Un altro capitolo: "L'antisemitismo germanico è sorto dall'orgoglio tedesco che ha voluto addossare ingiustamente agli ebrei la sconfitta nella Grande Guerra… noto sul "Popolo d'Italia" (il giornale fondato da Mussolini e diretto dal suo fratello Arnaldo) la fotografia di un negozio di Cortina d'Ampezzo che porta la scritta: Gli ebrei non sono desiderati in questo locale". Accadrà nel 1948 e in Belgio, che all'ingresso di molti locali comparirà la scritta " E' vietato l'ingresso ai cani e agli italiani" mentre a Torino c'erano i cartelli "Non si affitta ai meridionali" e a Trento, ai tempi dell'Asar, le scritte "Via i teroni da Trent".
   Dal canto suo, padre Agostino Gemelli il confessore del generale Luigi Cadorna dal 1915 al giorno di Caporetto, l'autore del libro "Il soldato nostro" che è un succedersi di elogi al comandante in capo del Regio Esercito, il sacerdote che a Trento il 22 novembre del 1918, ai piedi del monumento a Dante celerò il Te Deum della vittoria, il fondatore della Cattolica di Milano, "chiama l'ebreo il popolo deicida su cui non si placherà l'ira del Signore". Bittanti, accennando al discorso fatto da Hitler il 30 gennaio a Berlino "solennizzando il sesto anniversario del nazionalsocialismo, ha insistito sulle sue minacce: la distruzione della razza ebraica in Europa. Potrebbe essere dovuta all'obbedienza di Mussolini a Hitler la persecuzione degli ebrei in Italia" tesi sostenuta dal conte Alessandro Casati senatore nel 1923 e l'anno dopo Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Mussolini, ruolo abbandonato dopo solo sei mesi quando ruppe la collaborazione al fascismo: "Le leggi razziali [sono la conseguenza] dell'obbedienza del Duce a Hitler, in cambio dell'Alto Adige".
   Le note della Bittanti raccontano le persecuzioni subite dagli ebrei. Ecco la "crocerossina ebrea Vitale, durante guerra infermiera negli ospedaletti da campo, radiata dalla Croce Rossa… Bice Cammeo fondatrice da quarant' anni di un asilo benefico a Firenze, cacciata dal suo impegno mentre partono per l'America "un'ebrea con il marito, fascisti della prima ora. Lei lavorava nella rivista "Gerarchia"… il marito dismesso dall'Università". Fra il novembre e il dicembre del 1938 "si annoverano in questo smarrimento dei suicidi, che vogliono essere una protesta morale. Quello dell'editore Angelo Fortunato Formiggini, di un colonnello dinnanzi ai propri soldati, chiamati a rapporto, di un generale che si sparato sulla tomba del Milite Ignoto sulla quale ha gettato le proprie decorazioni, di un ufficiale decorato della Grande Guerra che si tolto la vita dinnanzi al Quirinale dopo il rifiuto del re a riceverlo".
   Riuscì a far pubblicare sul "Corriere della Sera", il 18 febbraio del 1939, l'annuncio della morte dell'ingegnere Augusto Morpurgo. Questo il testo pubblicato su un quotidiano, dell'ultimo necrologio comparso su un quotidiano, di un ebreo: "La vedova di Cesare Battisti annuncia in pianto ai superstiti amici dell'eroica vigilia di Trento e Trieste la morte del figlio di Salomone Morpurgo e Laura Franchetti, l'ingegnere Augusto volontario decorato della grande guerra come l'unico fratello caduto ventenne sulle montagne trentine".
   Sulla prima pagina del giornale "Il Brennero" di venerdì 11 novembre 1938, il titolo è "L'azione antisemita nel Reich - nella dichiarazione di Alfredo Goebbels" e come sottotitolo "Il problema sarà risolto presto e in modo radicale". Il ministro della propaganda di Hitler non aveva sopportato l'enciclica di Papa Pio XI (Achille Ratti) "Mit brennender Sorge" (Con cocente preoccupazione) per denunciare la situazione religiosa nel Terzo Reich, scritta il 10 marzo 1937 non in latino ma in tedesco perché doveva essere diffusa e compresa dai fedeli nelle chiese germaniche. Un anno dopo gli serviva un pretesto per "giustificare" di fronte al resto del mondo l' inizio dello stermino degli ebrei. Che arrivò il 7 novembre del 1938 quando a Parigi e negli uffici dell'ambasciata tedesca venne ucciso il funzionario Ernst Eduard von Rath da Herschel Grynszpan un polacco di 17 anni. Delitto politico? Forse no. Nel 2001 il professor Hans-Jürgen Döscher autore del libro "La notte dei cristalli" pubblicò alcuni documenti per dimostrare che Grynszpan e von Rath fossero stati amanti e che l'omicidio venne compiuto per una questione sentimentale.
   Von Rath era conosciuto a Parigi come omosessuale; soprannominato nel circoli gay della capitale francese "Madame Ambassadeur" e "Notre Dame de Paris". Secondo Döscher aveva incontrato Grynszpan nel locale omosessuale "Le Bouef surf le Toit" anche se non è chiaro se Grynszpan fosse realmente omosessuale o volesse sfruttare la sua indubbia avvenenza per conquistare un amico influente. Nel libro di Döscher, von Rath avrebbe promesso il proprio interessamento per regolarizzare la posizione di Grynszpan in Francia, ma quando il giovane polacco capì che non avrebbe mantenuto la parola, sarebbe andato all' ambasciata di Germania, dove aveva libero accesso, per ucciderlo.
   Arrestato, Grynszpan dichiarò alla polizia parigina: «Essere ebreo non è un crimine. Io non sono un cane. Io ho il diritto di vivere ed il popolo ebraico ha il diritto di esistere su questa terra. Dovunque sono stato, sono stato inseguito come una bestia».
   Nonostante gli sforzi congiunti dei medici francesi e tedeschi, tra cui Karl Brandt medico personale di Hitler, Rath morì il 9 novembre nel quindicesimo anniversario del Putsch di Monaco del 1923 e nel ventesimo della sconfitta tedesca nella Grande Guerra. La morte del diplomatico venne usata per giustificare il pogrom contro le comunità ebraiche tedesche, passato alla storia come la Notte dei Cristalli che segnò il barbaro inizio della strage degli ebrei.
   Proprio in quel giorno di novembre mentre in Germania si scatenava l'assalto alle sinagoghe, il Quotidiano Fascista Tridentino annunciava a titoli cubitali, l'approvazione delle leggi razziali nate dalla decisione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre che travolgerà anche quegli ebrei iscritti al fascio, chiamati "della prima ora" perché erano stati quelli che fra i primi avevano dato il via alla rivoluzione.

(l’Adige, 15 luglio 2020)


"Crime minister": a Gerusalemme in migliaia chiedono le dimissioni di Netanyahu

La folla si è riunita sotto la residenza ufficiale del primo ministro rimasto al potere malgrado sia sotto processo per corruzione

 
Ha vinto le elezioni ma non è più amato e sostenuto come prima: migliaia di manifestanti si sono riuniti a Gerusalemme sotto la residenza ufficiale del primo ministro Benyamin Netanyahu, chiedendo le sue dimissioni.
La protesta si è svolta dopo che ieri la polizia ha rimosso le tende di un sit in contro il premier, rimasto al potere malgrado sia sotto processo per corruzione.
I dimostranti, che erano muniti di torce e soffiavano dentro dei corni, hanno tentato di superare le barricate erette dalla polizia, si vede in un video diffuso dall'emittente Kan.
Nel resto del paese si sono svolte altre manifestazioni, dagli ultra ortodossi che protestavano contro il lockdown nei loro quartieri, agli scout arrabbiati per la riduzione dei fondi statali. A Tel Aviv è sceso in piazza il movimento per una giustizia sociale nato nove anni fa.
Oltre ai problemi giudiziari, Netanyahu è sempre più criticato per la sua gestione della pandemia del coronavirus, che nelle ultime ore ha raggiunto un numero record di 1681 nuovi contagi. Sabato sera migliaia di persone avevano manifestato a Tel Aviv per le conseguenze economiche della crisi.

(globalist, 14 luglio 2020)


*


Israele: Rivlin preoccupato dalle violenze, 'fermare l'odio'

Le immagini degli incidenti in corso a Gerusalemme presso la residenza del premier israeliano Benyamin Netanyahu hanno allarmato il capo dello Stato Reuven Rivlin. "Non possiamo far finta di nulla di fronte ad episodi del genere", ha affermato.
"Questo non è il nostro comportamento. Nessuno deve sentirsi minacciato per le proprie posizioni politiche, sia esso un comune cittadino, il primo ministro, un ministro, un deputato o un giornalista", ha aggiunto Rivlin, riferendosi ad attacchi verbali di militanti del movimento di protesta delle 'Bandiere nere' contro un giornalista televisivo ritenuto vicino al Likud. "Gli animi si devono calmare, occorre fermare l'odio".
Rivlin ha anche messo in guardia dal consiglio giunto oggi da un deputato dell'opposizione di ignorare alcune misure di sicurezza contro il coronavirus predisposte dal governo. "Gli appelli alla disobbedienza civile - ha sottolineato il presidente israeliano - minano alla base la democrazia". Nella lotta al coronavirus tutti devono essere uniti, ha concluso.

(swissinfo.ch, 14 luglio 2020)


Un neonato palestinese di 12 giorni con problemi cardiaci muore per il Covid-19

Il bambino era stato inizialmente giudicato negativo al virus.

Martedì 14 l'Autorità Palestinese (AP) ha comunicato che in Cisgiordania un bambino di 12 giorni è morto a causa del coronavirus. È la più giovane vittima palestinese del virus.
Il ragazzo è morto nella città di Yatta, a sud-ovest di Hebron, ha detto il ministero della Sanità. In un primo momento era stato testato negativo per il coronavirus, e poi è risultato positivo quattro giorni dopo, ha dichiarato Kamal al-Shakhra, portavoce del ministero della salute dell'AP.
Ha precisato che il bambino soffriva di problemi cardiaci.
Anche se l'AP ha come politica di non rivelare l'identità delle vittime del coronavirus, i media palestinesi hanno riferito che il nome del ragazzo è Amir Shattat.
Questo decesso ha portato il numero totale delle vittime Covid-19 nel territorio dell'AP a 42, mentre altri tre palestinesi sono morti a Gerusalemme. L'AP include Gerusalemme est al suo attivo, anche se la città rimane sotto il controllo israeliano.
Hebron e l'area circostante sono diventati l'epicentro di una nuova epidemia di coronavirus in Cisgiordania, che ha registrato 6.692 casi. Di questi, 1.025 persone si sono riprese dalla malattia, secondo i dati AP. A Hebron ci sono almeno 5.138 casi e 38 morti, quasi tutti avvenuti nelle ultime settimane.
La Striscia di Gaza, controllata dal gruppo terroristico Hamas, ha avuto ufficialmente 72 casi di coronavirus e una morte dall'inizio dell'epidemia.
Domenica scorsa Al-Shakhra ha riferito alla TV palestinese che un bambino di 6 anni è stato trasferito in terapia intensiva a causa di un'infezione acuta da coronavirus.
Il virus sembra colpire più gravemente le persone anziane e i disabili, mentre provoca sintomi più lievi nei portatori più giovani. Tuttavia, ci sono stati alcuni casi di bambini gravemente colpiti dal virus, con alcuni decessi. Il bambino è tra le vittime più giovani di Covid-19 al mondo. Domenica le autorità indiane hanno riferito che un bambino di 8 giorni è morto a causa del virus a Pune.

(Times of Israel, 14 luglio 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Startup israeliana presenta la bistecca stampata in 3D

La start-up israeliana attiva nel settore della tecnologia alimentare, Redefine Meat, presenta la prima alternativa vegetale, a livello mondiale, alla carne stampata in 3D, che l'azienda chiama "Alt-Steak". Redefine Meat rende noto che, verso la fine dell'anno, il prodotto verrà sottoposto alla prova del cuoco, prima di essere disponibile sul mercato, entro il 2021.
   Utilizzando la tecnologia della stampa in 3D, la start-up israeliana è in grado di creare diversi "inchiostri" a base vegetale, che vengono utilizzati per formare il prodotto (Alt-Steak) e altri prodotti alternativi alla carne. Arricchendo la ricetta Alt-Steak con i prodotti Alt-Blood, Alt-Muscle, e Alt-Fat di proprietà dell'azienda, il processo ricrea facilmente un'alternativa a base vegetale, senza carne, che fornisce sani livelli di colesterolo, e cosa ancora più importante, ha un aspetto, un odore e un sapore uguale, se non migliore, rispetto al suo parente che muggisce.
   Sfruttando le conoscenze degli esperti del settore della carne, la Redefine Meat è riuscita a definire 70 parametri sensoriali, attraverso i quali la stampante in 3D è in grado di creare un taglio ottimale senza carne, che come menzionato precedentemente, spunta tutte le caselle per quanto riguarda sapore, aroma, aspetto, tenerezza e molto altro.
   Alt-Steak non è solo una possibile soluzione positiva per il nostro ecosistema naturale, e per la forte dipendenza dal costoso settore della massiccia produzione di bestiame, ma l'alternativa alla carne stampata in 3D è anche molto più economica rispetto alle bistecche di manzo, e consente una produzione su vasta scala, ed è un'opzione economica, sia per ristoranti, sia per macellai. Oltre al fatto che le mucche tradizionali impiegano alcuni anni per crescere prima di essere pronte per la carne, mentre Alt-Steak può trovarsi sul vostro piatto in una frazione del tempo.
   Ciò ha già entusiasmato i ristoratori, dal momento che recentemente Redefine Meat ha chiesto allo chef israeliano delle celebrità, Assaf Granit, di mettere alla prova Alt-Steak, e Granit ha notato che la bistecca non è diversa da quella di manzo, aggiungendo, inoltre, che non pensa che la maggior parte dei clienti noterebbe neanche la differenza.
   Alla fine di quest'anno, Alt-Steak la farà provare a ristoranti di chef stellati e macellerie, in vista del lancio del prodotto sul mercato, nel 2021. Chef e macellai offriranno dei feedback riguardo alla consistenza, al gusto, ecc. della Alt-Meat, in modo tale che la società possa lanciare, nel 2021, l'alternativa più simile a una bistecca di manzo che abbia mai adornato le nostre grigliate e i nostri piatti.

(Agrapress, Rassegna della stampa estera, 10 luglio 2020)


Israele, l'opzione lockdown è sul tavolo

"Stiamo considerando i pro e i contro, per determinare come agire. Un lockdown generale è senza dubbio uno degli strumenti che stiamo cercando di evitare ma è un'opzione sempre sul tavolo". Non arrivano parole rassicuranti in queste ore dal direttore generale del ministero della Salute israeliano Hezi Levi. Intervistato dall'emittente radiofonica Reshet Bet, Levi ha spiegato che il sistema per tracciare i contagi è stato rafforzato in questi ultimi giorni: "Abbiamo reclutato cento infermieri, 300 ricercatori che si occupano di indagini statistiche e 240 studenti di medicina". L'obiettivo è quello di avere più persone in grado di analizzare i dati sulla diffusione del virus nel paese, che da alcune settimane ha registrato un aumento vertiginoso.
   Negli ultimi giorni il numero di positivi ha superato più volte quota mille (tra il 13 e il 14 luglio, i nuovi contagi sono stati 1681, un triste record per Israele da inizio pandemia) mentre il totale parla di 40mila casi confermati. "Il 25% sono sotto i 18 anni e l'8% sopra i 65 anni. - ha spiegato Levi - Attualmente ci sono 525 persone ricoverate in ospedale, di cui più di 100 sono gravemente malate e 54 sono sottoposte a ventilatori. 354 persone sono morte. Il tasso di infezione è in crescita e in aumento, e il numero di esami giornalieri che stiamo conducendo è in aumento. Ne stiamo eseguendo circa 28.000, di cui circa il 6% è positivo".
   In una conferenza stampa pubblica, il direttore generale del ministero ha sottolineato di voler evitare un nuovo lockdown integrale. "Per noi è chiaro che un isolamento generale significa ulteriori danni economici, emotivi e alla salute. Stiamo cercando di creare delle restrizioni che impediscano l'affollamento, che sono la radice di tutti i mali dell'infezione". Per questo lo stesso Levi aveva chiesto al governo di non procedere all'apertura di palestre come invece ha deciso la Commissione parlamentare per il Coronavirus. "La decisione è infelice e faremo altre raccomandazioni", le parole del funzionario del ministero della Salute. "Come medico, chiedo alle persone di prestare molta attenzione alle istruzioni. È una nostra responsabilità reciproca verso l'altro. Indossare una mascherina, mantenere le distanze e l'igiene. Chi non indossa una mascherina mette in pericolo tutti quelli che lo circondano. Siamo responsabili l'uno per l'altro. Non sono sicuro che tutti capiscano quanto sia importante l'aumento e la necessità di prevenire i casi gravi. Insieme possiamo ridurre la diffusione del virus, conviverci nel modo corretto e abbassare il tasso di infezioni".
   Sempre a Reshet Bet, l'ex capo scienziato della Commissione per l'energia atomica, il professor Dov Schwartz, ha fatto un quadro della situazione del sistema sanitario. "Entro tre settimane e mezzo tutte le sale di terapia intensiva per i pazienti da coronavirus saranno completamente piene". la sua previsione. Per Schwartz sarebbe utile imporre una chiusura "ogni giorno a partire dalle 19:00, e tutti gli anziani dovrebbero essere messi in isolamento volontario".
   In questa complicata situazione, il gradimento del pubblico rispetto alla gestione dell'emergenza da parte del Premier Benjamin Netanyahu è crollata: secondo i sondaggi del Canale 13 il 61% degli intervistati non è soddisfatto di come si sta muovendo il capo del governo. Il 19% è abbastanza soddisfatto mentre solo il 15 si dice soddisfatto. E intanto continuano le manifestazione di protesta, dal mondo laico fino a quello haredi, contro le misure restrittive e per la mancanza di un piano economico a tutela delle fasce di popolazione più colpite dalla crisi socio-sanitaria.
   
(moked, 14 luglio 2020)


Tytohome: un'app contro il covid-19. In Italia grazie da un giovane ebreo romano

di Giacomo Kahn

 
TytoHome è un'app che consente di effettuare diagnostiche a distanza e videoconsulti con cui misurare i parametri cruciali per il monitoraggio del virus: temperatura corporea, ritmo cardiaco e respiratorio, suono cardiaco e polmonare. Permette anche di registrare immagini in HD di gola, orecchio e pelle.
   Come raccontato dal Corriere della Sera, questa nuova tecnologia applicata alla cura e prevenzione anche per altre patologie - già introdotta in Italia dalla Regione Piemonte e dall'Asl 1 di Vercelli - è il frutto dello studio e dell'applicazione di un giovane ingegnere di 24 anni, ebreo romano trasferitosi in Israele alcuni anni fa, Ilan Misano.
   «Il sistema si connette via bluetooth allo smartphone del paziente - ha spiegato Misano al Corriere - e comunica con l'app TytoHome: le mamme invece di andare dal medico effettuano una videotelefonata e poggiano il device sul polmone del bambino o dell'anziano. A distanza il medico sente il battito del cuore e i polmoni e capisce se il bimbo o l'anziano hanno febbre o il coronavirus». «Il medico - spiega Misano - rischia poco, perché gestisce i pazienti e visualizza i parametri a distanza, tramite la piattaforma sul suo pc, proponendo cure o azioni preventive. Qualsiasi operatore sanitario può utilizzare il sistema di telemedicina: basta una connessione a Internet per accedere alla piattaforma, comunicare col paziente tramite videoconsulto e visualizzare i parametri. E il dato - cosa importante - non esce mai dal telefono del paziente».
   TytoHome è già utilizzato in Israele e Usa su migliaia di pazienti con centinaia di visite giornaliere.
   Misano ha pubblicato studi presso l'Università Technion di Haifa e all'Eth di Zurigo, e visiting scholar alla Changzhou University ed è stato indicato fra i venti Under 20 dalla Maker Faire Rome nel 2014 per una startup che ha fondato a 17 anni.

(Shalom, 14 luglio 2020)


Dhimmitudine

''Mentre l'occidente si scusa per il proprio passato, l'islam politico si riprende Santa Sofia". Parla Bat Ye'or.

di Giulio Meotti

ROMA - "E' un evento tragico, che illumina l'appropriazione e l'islamizzazione con la conquista e la guerra di un prestigioso patrimonio cristiano". Così al Foglio la studiosa della dhimmitudine e della cristianità orientale, Bat Ye'or, definisce il ritorno a moschea e all'islam della basilica di Santa Sofia a Istanbul, che fu per 916 anni la più grande chiesa al mondo e la casa della cristianità ortodossa orientale, per altri cinquecento moschea e negli ultimi novanta museo. Il trauma è tale, come ha detto Michael Talbot, professore di Storia all'Università di Greenwich, al Wall Street Journal, che "è come se San Pietro fosse stato trasformata in una moschea".
  "Dopo la Prima guerra mondiale e la campagna intrapresa da Atatùrk per modernizzare e secolarizzare la Turchia, questa magnifica cattedrale era diventata un museo", prosegue Bat Ye'or. "In un momento in cui l'Europa non smette di ruminare nelle proprie conquiste coloniali, non si sente alcuna scusa per le guerre jihadiste genocide, l'islamizzazione delle chiese, la schiavitù dei bambini cristiani da parte degli ottomani, i genocidi ai danni di armeni, greci e assiri, prima e durante la Prima Guerra mondiale. La decisione su Santa Sofia è una dimostrazione di legittimità e forza jihadista che contrasta con l'atteggiamento passivo dell'Europa negli ultimi 40 anni. Può sembrare un avvertimento".
  Prima le chiese di Cipro, occupate dai turchi e distrutte, poi la guerra a bassa intensità contro quel che resta delle chiese in Turchia, e ora Santa Sofia. "Erdogan ha adottato una politica molto severa nei confronti degli eredi dell'Impero bizantino. Questo ennesimo atto dimostra il suo disprezzo per il cristianesimo orientale e un ritorno alla politica e al governo islamici tradizionali nei confronti del popolo cristiano" .
  Non è sorpresa dalla passività occidentale questa storica di origini ebraiche, nata in Egitto col nome di Gisèle Orebi e che da anni vive in Svizzera. "Gli occidentali continueranno a sprofondare nella routine che essi stessi si sono scavati attraverso le bugie. Hanno fatto la scelta politica nel novembre 1973 di allearsi con la Lega araba e il mondo islamico contro Israele e abbandonando i cristiani d'oriente. Questo è il prezzo di questa alleanza. La re-islamizzazione di Santa Sofia nel 21esimo secolo attesta il ritorno al jihadismo dei primi tempi della conquista con la riattivazione e la concretizzazione ideologica dei suoi concetti che rendono essenziale la natura malvagia di 'Dar al harb', il mondo della miscredenza. Vi è, tuttavia, un precedente per questa riconquista jihadista dell'eredità storica di un altro popolo non musulmano".
  Bat Ye'or si riferisce alle mozioni dell'Unesco sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee a Gerusalemme di cui ha disconosciuto il legame con l'ebraismo. "E' l'islamizzazione dei luoghi santi del popolo di Israele a Hebron, a Gerusalemme, in Giudea e Samaria. Se l'occidente condivide la concezione islamica sullo status degli ebrei, quello della dhimmitude, perché non dovrebbe essere la sua stessa storia cancellata dai suoi territori, dai suoi luoghi santi, dai suoi monumenti commemorativi? Perché dovrebbe essere risparmiata?".
  Cosa accadrà ai numerosi mosaici cristiani all'interno della Basilica di Santa Sofia dopo la decisione del governo turco di rifarne una moschea e aprire al culto islamico il prossimo 24 luglio? Si parla di tende e schermi che saranno utilizzati per coprire dipinti, icone e simboli cristiani durante le preghiere musulmane, come il mosaico dell'abside, che decora la cupola dietro all'altare e che mostra la Vergine Maria, o il "Pantokrator", sulla Porta Imperiale e che mostra Gesù che benedice con la mano destra e che porta le Scritture in quella sinistra. Nessuno scandalo o stupore. Lo abbiamo fatto anche noi, a Roma, quando coprimmo con dei pannelli i nudi capitolini in occasione della visita del presidente iraniano Rohani. La dhimmitudine occidentale.

(Il Foglio, 14 luglio 2020)


La crisi dei palestinesi al di là della linea verde

di Michele Giorgio

BETLEMME - «In questi ristoranti non c'è alcun controllo, né dell'Autorità nazionale palestinese né degli israeliani, sono pieni di clienti che sfuggono al lockdown, non rispettano il distanziamento e le altre regole anti-Covid ma i proprietari non temono sanzioni. Noi che siamo a Betlemme invece da giorni siamo obbligati a tenere la saracinesca abbassata». Maryam Daoud gestisce con il fratello una trattoria non lontana dalla Basilica della Natività e non trattiene la rabbia indicandoci i ristoranti situati tra il "Dco" (posto di collegamento) di Beit Jalla e il posto di blocco israeliano all'ingresso meridionale di Gerusalemme. La musica ad alto volume e le risate dei clienti nei due locali accrescono la sua frustrazione.
   La polizia dell'ANP - dice Maryam - non ha autorità qui e l'esercito israeliano da queste parti, dove vivono solo palestinesi, ci viene solo per motivi legati all'occupazione militare, non per far rispettare le regole sulla pandemia. lo intanto devo tenere chiuso il mio locale».
In realtà i palestinesi "fortunati" di questi tempi sono ben pochi. Solo in questa e poche altre situazioni riescono a sottrarsi alle restrizioni imposte dal corona virus. Come Maryam e suo fratello soffrono un po' tutti gli abitanti del distretto di Betlemme.
   Il turismo motore dell'economia della città è fermo da mesi. Gli hotel sono in gran parte chiusi e così come ristoranti e negozi di souvenir. Dati aggiornati sulla disoccupazione non ci sono ma si parla di almeno un 50% della forza lavoro costretta a restare a casa.
   Se dall'al tra parte della "linea verde", in Israele, centinaia di migliaia di piccoli imprenditori e lavoratori autonomi rovinati dalla crisi protestano contro il governo, comunque il premier Netanyahu ha risorse pubbliche da investire per contenere la crisi economica. Al contrario in Cisgiordania il governo dell'Anp ha le casse vuote, anche a causa dello scontro con Israele sui fondi palestinesi derivanti dai dazi doganali e altre imposte (circa 170 milioni di dollari al mese).
E ci sono le prime proteste.
   Autisti di taxi e autobus lamentano di non aver ancora avuto gli indennizzi promessi - poche decine di euro in valuta locale - mentre i dipendenti pubblici ricevono, e neanche tutti i mesi, metà dello stipendio. La Cisgiordania economicamente non è mai stata tanto vicina alla poverissima Gaza come in questi mesi.
   Le prospettive sono nere. La pandemia è riesplosa forte nei Territori occupati, così come in Israele. A marzo e aprile in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est si erano registrati meno di 600 positivi e cinque morti. Nell'ultimo mese i contagi sono saliti a quasi 6mila e i morti a 40. Numeri che tengono sulle spine il ministro della salute Mai al Keile che teme il collasso degli ospedali.
L'ANP in primavera era stata più rigida di Israele nell'imporre misure di contenimento. E al termine della prima ondata aveva allentato le redini molto lentamente. Ma poi, per salvaguardare la fragile economia palestinese, è rimasta a guardare quando la popolazione ha creduto finita la pandemia. Con in testa gli abitanti di Hebron - città con il maggior numero di nuovi positivi - sono stati organizzati matrimoni con centinaia di invitati, non si sono più rispettate le restrizioni ai funerali, e in strada, nei ristoranti, nei locali pubblici e al lavoro, pochi hanno continuato a indossare la mascherina. In breve i contagi sono saliti a centinaia al giorno.
   Dopo il lockdown attuato nelle due settimane passate, il governo di Mohammed Shtayyeh ha vietato in Cisgiordania qualsiasi movimento per altri 14 giorni tra le città e tra le 20 di sera e le 6 del mattino.
   
(il manifesto, 14 luglio 2020)


Il dramma degli ebrei nel film girato tra Bari, Palese e Cozze

L'indimenticabile pellicola del 1948. Tra gli sceneggiatori anche Carlo Levi.

Il centro storico di Bari divenne il cuore del paesaggio palestinese. Un altro set tra le baracche dei profughi. Molte giovanissime comparse vennero reclutate nelle quinte classi delle scuole elementari di Palese.

di Franco Petrelli

Numerose comparse vestite all'araba nell'estate del 1948, sapientemente guidate dal regista cinematografico Duilio Coletti, concorrono a ricostruire una zona di Gerusalemme e di Haifa, che altro non è che il fantastico Arco delle Meraviglie di Bari Vecchia. Qui vengono girate alcune scene di un grande film, il quarto nel dopoguerra, intitolato «il Grido della Terra», realizzato anche tra Bari, Palese Macchie e Cozze. Una pellicola d'avventura piuttosto che un film politico, secondo il progetto del produttore Alberto Salvadori. La politica doveva essere tenuta il più lontano possibile, ma questo film si serve di una sfondo di evidente attualità, il tragico dramma degli ebrei, e la tuttora irrisolta, dai governi succedutesi nei vari continenti, relativa alla questione della Palestina.
  Ma torniamo sul set. Mentre il centro storico di Bari vecchia proponeva il cuore degli ambienti palestinesi, già le prime scene sarebbero state effettuate nelle baracche di metallo in Palese, all'interno del campo di raccolta dei profughi ebrei, solamente, da qualche tempo inutilizzate. Molte giovanissime comparse vennero reclutate nelle quinte elementari delle scuole di Palese, ma ben 250 figuranti di nazionalità ebrea vennero ricaricati sui camion dal campo «International Refugee Organisation» di Trani e riportate, in questo caso come comparse nella struttura di prigionia palesina.
  Questo era l'ambiente esterno della prima parte del film. La troupe era costituita da un significativo cast internazionale di attori. In attesa del ciak, dell'imbarco «clandestino» previsto dalla trama, attori e tecnici trascorsero il tempo libero sulla splendida spiaggia di Cozze, tra gli estuari delle antichi lame.
  I personaggi: il professore, (impersonato da Filippo Scelzo), noto chirurgo israelita, e Dina (Marina Berti, pseudonimo di Elena Maurene Bertolino) la sua futura nuora, e poi gli altri profughi diretti in Palestina, coordinati da Ariè (Andrea Checchi). In Palestina è in corso la guerriglia fra partigiani ebrei e inglesi occupanti. Uno dei coraggiosi israeliti è David Taumen, figlio del professore e ancora ufficialmente legato sentimentalmente a Dina, ma la trama d'amore è in agguato con la bella Judith (Vivi Gioi), anch'essa pronta a mettere in discussione la sua esistenza per l'indipendenza ebraica. Informato dell'arrivo del padre, David Taumen, che non sperava più di rivedere, va a trovarlo in una colonia agricola, che ha prestato accoglienza ai profughi, ma viene addirittura turbato dall'imprevista presenza di Dina. Ecco allora un nuovo colpo di scena. David Taumen si rivede con Ariè, entrambi hanno combattuto con gli alleati, ma i due, dopo i primi amicali convenevoli vanno in rotta di collisione. il figlio del professore è diventato un pericoloso terrorista, mentre Andrea Checchi, nel ruolo di Ariè, predica la moderazione. Un distaccamento inglese accerchia la colonia agricola, alla ricerca degli immigrati clandestini. Taumen e Dina potrebbero evitare la cattura. Ma il giorno dopo David avrebbe commesso un attentato contro il quartier generale britannico, viene fermato e fatto prigioniero, ma scatta una terribile rappresaglia dei terroristi: acciuffano e prendono in ostaggio un tenente inglese Bikmore, impersonato dall'attore londinese Peter Trend, già compagno d'armi di David. E a questo punto accade la tragedia. Entrambi vengono fucilati.
  Tra gli sceneggiatori de «il Grido della Terra», oltre a Giorgio Prosperi (importante autore televisivo di Roma) e Alessandro Fersen (un drammaturgo polacco di religione ebraica) c'è l'indimenticabile scrittore e pittore torinese Carlo Levi, molto legato a questi territori, che nel 1945, aveva scritto il romanzo «Cristo si è fermato ad Eboli», nel quale rievocava quella civiltà rurale lucana, conosciuta durante il periodo di confino a queste latitudini. Non a caso il regista abruzzese Duilio Coletti, laureato in medicina e chirurgia, che esercitò per poco tempo la professione prima di diventare un regista di grande professionalità, si avvalse tra gli sceneggiatori del meridionalista Levi, che concorse nel fìlm «il Grido della Terra», uscito nelle sale cinematografiche il 1949, a comporre un'accurata riproposizione storica degli avvenimenti. La produzione, in contemporanea alla risoluzione del caso palestinese, sarebbe risultato un modello di «cinema in diretta», accordato con il neorealismo, si aggiunse al positivo risultato di una pellicola di azione e di evidente portata spettacolare, girato nella meravigliosa bellezza del territorio pugliese, Da Palese, ricco di tante testimonianze antiche, torri e masserie fortificate, al centro storico di Bari, la città delle chiese e delle fortificazioni, a Cozze di Mola di Bari, dai colori del mare verde e azzurro, a qualche chilometro dalla abbazia di San Vito con la splendida loggia cinquecentesca e di origine benedettina, accanto alla meraviglia delle spiagge di San Vito e di San Giovanni. Ricordiamo diversi attori di primo piano del film a cominciare da Marina Berti, moglie del cineasta Claudio Gora, pseudonimo di Emilio Giordana e madre degli attori Andrea. Marina, Carlo, Luca e Cristina Giordana. Questa bellissima attrice italiana ha girato quasi 80 film, tra cui importanti produzioni internazionali, specialmente riferiti a grandi kolossal hollywoodiani, oltre ad una serie di sceneggiati televisivi Nel «Grido della Terra» troviamo ancora la livornese Vivi Gioi, una delle più popolari e attraenti attici italiane negli anni' 40 e '50. E come non ricordare l'attore Carlo Ninchi, che apparteneva ad una famiglia di interpreti teatrali e del cinema italiano, tra il fratello Annibale, la cugina Ave, anche conduttrice televisiva e il nipote Alessandro, che successivamente abbracciò la carriera di regista. In questo periodo vengono diffuse da «Radio Bari» le trasmissioni tanto agognate dell'Italia libera. Con le voci di due celebrità cinematografiche, di origine ebraica, Arnoldo Foà e Cesare Polacco, notevoli interpreti de «Il Grido della Terra». Non sfugga il coinvolgimento nella pellicola di due attori puglìesi: il leccese Nino Marchesini che partecipò nella sua carriera a circa 70 film e il barese Claudio Perone, che in seguito si sarebbe esaltato sul set lavorando con Pietro Germi, Mario Camerini e Dino Risi, prima di segnalarsi come amministratore di teatro.
  Va detto che «Il Grido della Terra» esiste una versione ristrutturata dalla Cineteca nazionale venne proposta attraverso la retrospettiva «Questi fantasmi: Cinema Italiano ritrovato (1946 - 1975») alla 65esima mostra internazionale cinematografica del 2008 a Venezia.

(Gazzetta di Bari, 14 luglio 2020)


Coronavirus: esponente del Likud chiede una nuova serrata

GERUSALEMME - Il governo israeliano deve ristabilire una nuova serrata di dieci giorni per contenere la seconda ondata della diffusione del virus Sar-CoV-2. Lo ha dichiarato il ministro dell'Energia israeliano ed esponente del partito Likud, Yuval Steinitz, al sito internet del quotidiano "Yedioth Ahronoth". Nel paese, infatti, il contagio è tornato a crescere nelle ultime due settimane con una media di circa mille contagi al giorno. Finora i casi totali sono 38.670, mentre i decessi sono stati 362. Steinitz ha chiesto una serrata parziale, in base alla quale soltanto le persone che devono recarsi al lavoro o hanno altre necessità possono uscire da casa. Secondo l'esponente del Likud, sarebbe meglio prendere dei provvedimenti rigidi per un periodo di tempo limitato per bloccare il contagio invece che facilitarlo. Il governo di Gerusalemme aveva imposto una serrata totale tra la fine di marzo e l'inizio di aprile. Successivamente, malgrado il virus responsabile della Covid-19 continuasse a circolare, le autorità hanno deciso di sollevare le restrizioni ed evitare un pesante impatto sull'economia. "Dobbiamo prima ridurre le infezioni da 1.500 a circa una decina al giorno. Questa volta impareremo una lezione e saremo in grado di aprire non solo l'economia, ma anche i collegamenti aerei con il mondo", ha detto Steinitz. L'esponente del Likud ha criticato la velocità con cui sono state riaperte le attività economiche nel paese lo scorso maggio, dopo la diminuzione dei contagi. La scorsa settimana il primo ministro e leader del Likud, Benjamin Netanyahu, ha ammesso che il governo ha riaperto troppo rapidamente alcuni settori dell'economia.

(Agenzia Nova, 13 luglio 2020)


Il satellite militare israeliano Ofek 16 e il controllo strategico del territorio

di Giancarlo Elia Valori

Netanyahu ha affermato, sibillinamente, che questo nuovo satellite "rafforza significativamente le difese di Israele contro gli avversari vicini e lontani".

 
Ofek 16
Il 6 luglio scorso, alle ore 4 della notte, dalla base aerea di Palmachim, quasi al centro dello stato ebraico, l'Agenzia Aerospaziale Israeliana e la Israel Aerospace Industries hanno lanciato il satellite Ofek ("Orfeo") 16.
  Il vettore era un razzo Shavit 2 e, dopo 90 minuti circa di viaggio, il satellite è entrato regolarmente in orbita secondo i calcoli. Al programma, organizzato dalla divisione Mlm della Iai, collaborava anche la Elbit System, che ha fornito la telecamera Jupiter Space ad alta risoluzione spettrale, fino a 50 centimetri e da una altezza di 600 chilometri, mentre la fotocamera di Ofek-16 può fotografare 15 chilometri quadrati in un solo scatto, oltre alle altre aziende c'era la Rafael Advanced Defense System e la Tomer, che hanno costruito i motori di lancio, poi ha collaborato anche la Baer System e la Cielo Inertial Systems, per i sistemi di navigazione e la piena autonomia del satellite.
  Ofek-16 è un satellite pensato per le ricognizioni optoelettroniche avanzate, che porta a bordo una versione, molto migliorata, del sistema elettro-ottico di Imaging ad alta definizione della già utilizzata telecamera Jupiter, che è ancora presente nel satellite Opsat-3000, con una risoluzione ulteriormente aumentata a 0,5 metri.
  Finora Israele ha già operativi dieci satelliti Ofek, ma solo 13 Paesi al mondo sono capaci di lanciare questo tipo di veicoli spaziali, di cui il primo israeliano è stato inviato nello spazio il 19 settembre 1988.
  Israele, comunque, non rivela mai il numero esatto dei satelliti evoluti che ha in orbita, ma sappiamo che sono ancora operativi l'Ofek 9, che rientrerà a terra tra due mesi, oltre all'Ofek-11, ma è ancora in attività anche l'Ofek-8 (TechSAR 1) e l'Ofek-10 (TechSar 2) che sono satelliti con radar ad apertura sintetica, cosa che permette il continuo controllo strategico del terreno.
  Le immagini prodotte dagli Ofek saranno, come al solito, analizzate dall'Unità di Intelligence 9900, da non dimenticare sono anche i satelliti per la comunicazione militare Amos, la cui rete copre tutte le aree strategicamente rilevanti del globo.
  L'Unità 9900, ricordiamo, fa parte delle Forze di Difesa di Israele, e si occupa unicamente di Imint, Imagery Intelligence e compone, insieme all'Unità 8200, che si occupa di Sigint, Signal Intelligence, e alla Unità 504, che fa una ottima Huminit, Human Intelligence e invia peraltro agenti in copertura ovunque nel mondo, l'intera Intelligence militare, Aman.
  Netanyahu ha affermato, sibillinamente, che questo nuovo satellite "rafforza significativamente le difese di Israele contro gli avversari vicini e lontani".
  Ovvio che qui il riferimento sia soprattutto alla Repubblica Islamica dell'Iran, ma la capacità di controllo del territorio, dei movimenti, delle strutture è essenziale a Israele per monitorare tutto il Medio Oriente, e non solo.
  Ora infatti, con l'Ofek-16, Israele può osservare con grande precisione tutto il Medio Oriente e oltre.
  Il riferimento israeliano qui è all'invio del primo satellite spia di Teheran, lanciato alla fine dell'aprile scorso dopo vari tentativi non riusciti.
  I "Guardiani della Rivoluzione" iraniani hanno infatti inviato nello spazio il loro primo moderno satellite-spia, il Noor ("luce")1, che è stato portato in orbita dal vettore Ghased, mai, peraltro, prima citato dalle autorità e dalla stampa iraniane.
  Indubbiamente, Ofek-16 è pensato per monitorare attentamente il programma nucleare iraniano, ma la corsa all'Imint satellitare ha ormai contagiato tutto il Medio Oriente e il Maghreb, infatti la Tunisia lancerà tra pochi giorni il suo satellite autoprodotto e di progettazione tunisina, denominato Challenge One, inviato nello spazio dallo storico cosmodromo russo (anzi, kazakho) di Baikonur, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato perfino una loro Mars Mission.
  Gli Emirati hanno ricostituito la loro Agenzia spaziale nel 2014, poi è stato anche costituito un Arab Space Coordination Group nel marzo 2019, con la partecipazione, oltre all'Uae, della Giordania, del Bahrein, dell'Algeria, del Sudan, del Libano, del Kuwait, del Marocco e dell'Egitto.
  Un nuovo satellite, che sarà chiamato "813", verrà sviluppato nell'Università degli Emirati ad Al Ayn e sarà operativo tra tre anni. E i dati verranno rielaborati da un centro posto nel Bahrein.
  L'obiettivo dell'agenzia spaziale panaraba sarebbe però, a loro dire, quello di costruire satelliti che monitorino il cambiamento climatico e le trasformazioni ambientali. 813 è comunque l'anno in cui venne costituita la Casa della Sapienza a Baghdad, durante il regno di Al Ma'mun.
  In Egitto, il sistema satellitare si basa sul Tiba-1, un satellite militare progettato e costruito da Thales, Alenia Space e Airbus, nelle storiche fabbriche di Tolosa.
  Poi, il Cairo possiede anche EgyptSat 2, detto anche MisrSat 2, costruito e progettato dai russi di Energia e dalla società egiziana Narss, un satellite che è in attività dal 2013. I sauditi possono inoltre contare sui Saudisat 2,3, 5A e 5B, per le comunicazioni, oltre ai WorldViewScout 1,2,3,4,5,6. I satelliti cinesi, di vario genere, sono oggi in orbita in numero di ben 363.
  Pechino vuole il dominio spaziale rispetto agli Usa, e non farà nessuno sconto né agli Stati Uniti né, tanto meno, agli europei, mentre potrebbe, in futuro, sostenere gli alleati in Medio Oriente.
  La Cina possiede un mezzo di notevole rilievo, come sistema anti-satellite, il SC-19, un veicolo Asat a energia cinetica che è lanciato da un missile balistico a media gittata, operante già dal 2007, che colpisce direttamente un satellite nemico.
  Poi la Cina possiede il Dong-Neng-3, ovvero lo Hongqi-19, degli antisatellite missilistici già sperimentati nel 2015, mentre Pechino ha inoltre già sperimentato satelliti Asat con braccia robotiche per le ispezioni e le riparazioni, e tra poco la Cina lancerà perfino la sua missione su Marte detta "Tianwen-1", che sarà in linea tra pochi giorni.
  Per quel che riguarda l'Iran, al quale abbiamo già fatto ampio riferimento, la base più utilizzata dai Pasdaran e dalle strutture spaziali è quella denominata "Imam Khomeini", che è la principale tra gli otto siti satellitari e missilistici nazionali iraniani, situato nella provincia di Semnan ad est di Teheran.
  Tra il 2009 e il 2015 sono stati inviati nello Spazio circa 45 satelliti, dai vari siti iraniani, ma nessuno di questi è durato in orbita più di pochi mesi. Certo, i vettori iraniani per lo spazio si basano soprattutto sul perfezionamento degli Icbm di Teheran, inoltre l'Iran ha fondato recentemente anche un "Centro per il Monitoraggio dello Spazio", che utilizza soprattutto i radar, le tecnologie radio-ottiche e i tracciamenti radio.
  C'è già un centro, operativo dal 2018, che svolge il tracciamento, con i radar specifici, di tutti i satelliti in Leo, Low Earth Orbit, l'orbita terrestre bassa. Fino a ora, l'Iran possiede soprattutto due veicoli da lancio, il Safir 1 e il Safir 2, ma questo secondo è spesso denominato Simorgh.
  Nel sistema spaziale di Teheran, l'Agenzia specializzata, fondata nel 2004, è sottoposta al controllo del Ministero delle Informazioni e della Tecnologia delle Comunicazioni, ma dipende soprattutto dal Supremo Consiglio dello Spazio, che è presieduto dal presidente della Repubblica Islamica dell'Iran.
  Come è peraltro già noto, l'Iran può riprodurre i missili e le armi Icbm e Lcbm in grande quantità, data la tecnologia che, spesso, deriva, anche oggi dai Taepo Dong, No Dong e dagli altri missili elaborati dalla Corea del Nord.
  Peraltro, l'Iran ha svelato, durante una parata militare alla fine del 2019, un missile balistico autoctono, il Labbayk-1, che dovrebbe trasformare sia lo Zelzal che il Fateh-110, tradizionali missili balistici iraniani, in armi guidate e vettori per l'invio di satelliti.
  Le tecnologie laser che "bucano" l'atmosfera e permettono di colpire satelliti o armi cinetiche, ad energia elettronica, con altre tecnologie evolute o le armi per il jamming elettroniche, è molto probabile che l'Iran le abbia già ricevute da Cina e Russia.
  Fu nel 1990 che Mosca accettò di costruire e progettare, insieme agli scienziati di Teheran, la prima centrale nucleare militare e civile moderna.
  Nel 2012, l'Iran e la Corea del Nord hanno comunque siglato un accordo "per la Cooperazione Scientifica Civile e Tecnologica", che è stato, fino a oggi, un grande trasferimento di tecnologia militare e, soprattutto, nucleare. L'Iran ha, poi, dimostrato una notevole capacità di modificare o accecare i sistemi GPS.
  Nel 2011, Teheran ha affermato di aver costretto un drone Usa, uno RQ-170, ad atterrare entro i suoi confini, avendo interrotto e manipolato le sue comunicazioni con il satellite di riferimento e, anche, manipolato il suo ricevitore GPS.
  Da tempo, una base iraniana in una delle tante isole dello Stretto di Hormuz modifica le comunicazioni di aerei e navi in modo da farli inavvertitamente arrivare in acque territoriali iraniane per poi catturarli.
  Sempre nel 2019, l'allora Comandante in Capo delle Guardie della Rivoluzione ha notificato al resto del mondo la costruzione e l'inizio delle attività di un sistema autonomo di hardware per la cyberwar e la copertura dal jamming avverso, un sistema chiamato Seperh 110, che dovrebbe coprire tutte le unità operative da azioni di guerra cibernetica.
  Quest'anno, il "Centro per la Ricerca e il Jihad Autonomo dell'Iran" ha poi annunciato di aver costruito un sistema portatile anti-jamming che, così dicono gli iraniani, avrebbe la possibilità perfino di identificare e distruggere i droni.
  Per quel che riguarda le sue capacità cyber, l'Iran le ha già dimostrate: già sono avvenute alcune operazioni contro le infrastrutture critiche Usa, poi anche l'attacco del 2012 di tipo Ddos, Distributed Denial of Service, contro alcune banche statunitensi e compagnie di telecomunicazione, il che portò a una perdita di oltre 5 milioni di Usd.
  Sempre nel 2019, l'Fbi fu fatto segno ad operazioni di accesso coperto e asportazione di dati che riguardavano, e probabilmente venivano dall'Iran, le tecnologie satellitari Usa.
  L'Iran ha inoltre costruito il virus informatico Shamoon, che è capace di distruggere di cancellare interi sistemi interni ai computer, ma gli attacchi iraniani alle reti informatiche, in certi periodi dell'anno 2019, sono stati calcolati in quasi 500 milioni al giorno.
  Intanto, Israele elabora, ma siamo ancora in una fase non-operativa, il modello dell'intelligence saturated combat, mettendo insieme l'intelligenza artificiale, la data fusion da varie fonti, la realtà aumentata, la big data.
  La mappatura 3D che viene fornita è assolutamente realistica, e ricordiamo che è stato Israele a rispondere, per la prima volta, ad un attacco cyber con un contro-attacco convenzionale, per distruggere la sede cyber di Hamas, all'inizio di maggio 2019.
  Ecco, l'equilibrio mediorientale delle armi satellitari e dei sistemi d'arma che dipendono dalle reti spaziali è, oggi, infinitamente più complesso di quanto non si immagini.

(Formiche.net, 13 luglio 2020)


Israele: proteste contro il governo sulla gestione della pandemia

di Nathan Greppi

Sono migliaia gli israeliani che sabato 11 luglio sono andati alla manifestazione tenutasi in Piazza Rabin a Tel Aviv, per protestare contro il modo in cui il governo ha gestito i danni economici dovuti al lockdown e alla pandemia da coronavirus.
   Come spiega Algemeiner, la polizia ha posto dei limiti al numero di persone che potevano recarsi in piazza, per rispettare le distanze di sicurezza; ciò nonostante, le vie parallele si sono riempite di manifestanti che indossavano le mascherine. La manifestazione ha riunito tante categorie diverse, tutte colpite duramente dalla quarantena: disoccupati, lavoratori autonomi e imprenditori.
   "Ho 40 dipendenti senza stipendio, che non hanno più un soldo," ha spiegato Michal Gaist-Casif, vicepresidente di una compagnia che produce luci e suoni per gli eventi. "Abbiamo bisogno che il governo ci elargisca dei soldi finché non torniamo alla normalità. Non lavoriamo da metà marzo, e ci aspettiamo che ad agosto ci sarà una catastrofe." Altrettanto indignato era un altro manifestante, Daniel Tieder, che ad Euronews ha spiegato: "Ormai non lavoriamo da quasi 5 mesi, e purtroppo molti di noi non hanno ancora ricevuto alcun rimborso dal governo israeliano. Questa è una vera tragedia. Come puoi sfamare la tua famiglia e pagare i tuoi dipendenti dopo 5 mesi senza nessun guadagno?"
   Da quando Israele si è trovata nel lockdown la disoccupazione è cresciuta enormemente: al momento è circa al 21%, mentre ad aprile ha toccato il picco del 23%. Questo dopo una lunga fase di benessere in cui era solo al 4%. Finora bonus e sussidi governativi sono arrivati lentamente, portando gran parte della popolazione a temere di non riuscire a superare la crisi economica.
   In seguito a una recente impennata nei nuovi casi di contagiati, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha imposto una nuova serie di restrizioni, chiudendo locali notturni ed eventi culturali dal vivo.
   Giovedì 9 luglio Netanyahu ha annunciato una serie di misure di welfare per sostenere economicamente chi ne ha bisogno. Questo dopo che in precedenza si era impegnato a stanziare un fondo da 29 miliardi di dollari, dei quali tuttavia ne sono stati dati meno della metà.
   
(Bet Magazine Mosaico, 13 luglio 2020)


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La classe media israeliana contro Israele

di Andrea Muratore

 
Israele è in fibrillazione dopo che nelle ultime settimane la recrudescenza del Covid-19 e l'inizio di una problematica crisi economica hanno innescato un senso di spaesamento e creato incertezze e timori nella società dello Stato ebraico. Sotto accusa è caduto principalmente il primo ministro Benjamin Netanyahu, che dopo un lungo stallo a cavallo tra aprile 2019 e marzo 2020 (con tre elezioni politiche) era riuscito a trovar l'accordo per l'esecutivo-staffetta tra il suo Likud e la formazione di Benny Gantz, Hosen LeYisrael.
  Netanyahu è colpito dal fuoco di fila della protesta degli esponenti della classe media. Lo scorso fine settimana decine di migliaia di persone (alcune fonti dicono fino a 80mila) hanno invaso le piazze delle principali città del Paese per criticare la risposta alla pandemia e alla recessione, ritenuta insufficiente. Il coronavirus è tornato a colpire Israele con forza maggiore rispetto alla primavera, quando le chiusure imposte dal governo ebbero un discreto successo e i nuovi casi giornalieri superano mediamente le mille unità. Il governo Netanyahu-Gantz ha chiuso bar, palestre, piscine e discoteche e contingentato l'affluenza a mezzi di trasporto e luoghi di culto; l'allarme per una possibile rinascita della pandemia è stato lanciato anche dal professor Eli Waxman, fisico dell'Istituto Weizmann, a capo di uno dei team di esperti che hanno coadiuvato il governo durante la crisi. Ma la questione più grave è la sovrapposizione tra il ritorno in campo del Sars-Cov-2 e il tracollo economico, con il doppio fallimento della strategia della riapertura precoce delineata cinque settimane fa per evitare un calo eccessivo di Pil e occupazione.
  "Alle manifestazioni", sottolinea Asia News, hanno aderito numerosi esponenti di quella classe media lavoratrice e produttrice che è la spina dorsale di Israele: "professionisti del settore agroalimentare e della ristorazione, personalità del mondo dello spettacolo, dello sport, addetti del comparto del turismo e altri ancora. Il crollo delle attività ha fatto impennare il tasso di disoccupazione" fino a circa il 27% a marzo (ora è sceso al 21%); "alcune famiglie", pare, "sarebbero sull'orlo della fame". L'Ocse stima in oltre il 6% il crollo del Pil per l'anno in corso, mentre nella giornata di domenica 12 luglio la Banca centrale ha reso note le stime sul deficit per il 2020 e la sua valutazione della risposta del governo.
  Amir Yaron, governatore della Bank of Israel, ha ritenuto plausibile un deficit/Pil del 13% nell'anno in corso e appoggiato con forza l'idea di un secondo piano di stimolo dopo che il governo ha messo sul campo circa 100 miliardi di shekel (29 miliardi di dollari) per sostenere l'economia in affanno, metà dei quali sono rimasti però inutilizzati. I protestanti denunciano una scarsa attenzione nei confronti delle attività delle imprese e dei disoccupati, reclamando una tutela salariale e occupazionale paragonabile a quella dei dipendenti del settore pubblico.
  Come prosegue Asia News, "il ministro israeliano delle Finanze Yisrael Katz ha detto di capire "le accuse e il dolore dei manifestanti", annunciando una "rete di sicurezza economica" per dipendenti e lavoratori autonomi entro il prossimo anno". Katz, compagno di partito del premier, sa che Netanyahu rischia di essere il grande sconfitto della crisi. Per anni il premier si è concentrato sulla difesa del Paese dalle minacce securitarie, compattando attorno a sè una maggioranza silenziosa che apprezzava lo stato di sostanziale normalità in cui Israele viveva nonostante la retorica da "fortezza assediata" più volte portata avanti. Investimenti, innovazione tecnologica, crescita dei servizi, crescita del settore energetico hanno prodotto sviluppo e occupazione; la pandemia crea un problema economico ma, al tempo stesso, anche psicologico portando la battaglia sul fronte interno e creando insicurezze non legate al precario equilibrio del Medio Oriente.
  Gantz, che a ottobre 2021 si alternerà al governo con Netanyahu, ha mantenuto dritta la barra del timone sull'emergenza pandemica e respinto al mittente il tentativo del premier di accelerare sulle annessioni in Cisgiordania nella fase più acuta della pandemia e della recessione. Junior partner della coalizione, il ministro della Difesa e vicepremier punta sulla risposta pragmatica per acquisire visibilità e centralità nell'esecutivo prima della sua ascesa alla guida del governo. La piazza, indirettamente, gli dà una mano: ma un fallimento nella prevenzione di ulteriori casi di Covid-19 e, soprattutto, nel tamponamento della recessione rischia sul lungo periodo di travolgere entrambi. Messo di fronte a un'emergenza interna, e non di matrice internazionale, il governo di Israele deve passare a una strategia di governance basata su risposte pragmatiche, e non di matrice securitaria, che implicano il dare una risposta, e fondi adeguati, alle domande di sicurezza di buona parte della popolazione. Con un quinto della popolazione disoccupata e le piazze calde, è l'intero assetto di governo su cui Netanyahu ha scommesso la sua ultima fase della sua carriera istituzionale e Gantz il suo debutto in area governativa a rischiare il naufragio.

(Inside Over, 13 luglio 2020)


Lettere d'amore dall'Olocausto. Ecco l'epistolario di Daniele Israel

Recuperati in Israele 250 messaggi inviati da un ebreo triestino deportato ad Auschwitz

Scrive sui fogli di un quaderno e li infila nel colletto delle camicie I due figli li hanno ritrovati solo dopo la morte della madre Anna

di Enrico Franceschini

Il primo messaggio, Inviato clandestinamente da una cella di prigione, comincia cosi: «Vi voglio tanto, tanto bene e prego sempre di potervi rivedere », L'ultimo, affidato a un ferroviere amico sul treno che sta entrando ad Auschwitz, si conclude con parole che suonano come un addio: «li fumo si vede anche da lontano. Questo è l'Inferno », Ci sono echi del Diario di Anna Frank nella storia di Daniele Israel, ebreo italiano incarcerato dai nazisti a Trieste nel 1943, che riuscì a spedire 250 lettere alla moglie nascondendole nel colletto delle camicie destinate alla lavanderia La sua drammatica testimonianza sulla Shoah è stata recuperata grazie a My Heritage, un'organizzazione britannica di ricerche genealogiche, entrata in contatto per caso con i figli Dario e Vittorio, oggi ultraottantenni, sopravvissuti alla "soluzione finale" ed emigrati in Israele dopo la Seconda guerra mondiale.
  Daniele Israel ha 33 anni quando l'esercito tedesco, che controlla l'Italia del nord dopo la creazione della repubblica di Salò, lo arresta insieme ai suoceri in un rastrellamento nella città giuliana. Rinchiuso nel carcere cittadino di Coroneo, vede altri ebrei catturati con lui partire per una destinazione sconosciuta. Ben presto capisce di cosa si tratta: finiranno nei campi di concentramento in Germania. Ma lui viene trattenuto in virtù delle sue mani d'oro: è uno dei migliori tappezzieri della città, il comandante della prigione e gli ufficiali nazisti ricorrono ai suoi servigi per materassi e poltrone. La partenza per il lager viene ritardata per otto mesi, durante i quali il detenuto escogita un rischioso sistema per comunicare con i familiari: scrive messaggi sui fogli di un quaderno a quadretti o sulla carta strappata da un giornale e li infila nell'interno del colletto delle proprie camicie, quando vengono portate alla lavanderia della prigione. Li può contare sull'aiuto cruciale di due ex-dipendenti del suo negozio, che rischiano la vita per fare pervenire le camicie alla moglie Anna, fuggita con i bambini in campagna presso un cugino, il quale fa credere ai vicini che siano degli sfollati da Pola. Recuperati i messaggi, Anna lava gli indumenti, nasconde a sua volta una risposta nel colletto e rispedisce tutto al carcere. La corrispondenza non sarà mai scoperta. Dopo la guerra, la moglie cerca invano di scoprire che fine ha fatto Daniele: l'ultima tappa conosciuta è Auschwitz. I suoi resti non verranno mai rintracciati, potrebbe essere morto in una marcia verso un altro campo, nei giorni finali del Terzo Reich.
  Anna e figli si trasferiscono nel neonato stato di Israele: un desiderio espresso più volte da Daniele, ma fatalmente rinviato per restare vicini ai parenti di lei. «Aspettavamo le lettere di papà con trepidazione, la mamma le leggeva insieme a noi e poi le ha conservate per tutta la vita come il suo più importante tesoro», ricorda il primogenito Dario «ma non ne ha mai più voluto parlare, forse per risparmiarci nuovo dolore». Soltanto nel 2008, alla morte di Anna a 96 anni, i figli hanno recuperato quei fogli di carta ingialliti dal tempo. E solo nel 2017 si sono resi conto dell'importanza che avevano, mostrandoli agli esperti di My Heritage che stavano effettuando ricerche genealogiche sugli ebrei di Corfù, molti dei quali provenienti da Trieste. «È davvero un tesoro storico, non credo che troveremo mai più qualcosa del genere», dice alla Bbc Elisabeth Zetland, ricercatrice di My Heritage. Ora gli originali sono custoditi allo Yad Vashem di Gerusalemme.
  Nel suo epistolario dalla prigionia, Daniele Israel esprime incredulità, paura, speranza e disperazione. «Fammi avere, se puoi, mezzo litro di Marsala per lo zabaione » , scrive in una delle prime lettere alla moglie. In un'altra, verso la fine, si rammarica di avere sgridato aspramente i figli, perché non si erano difesi quando i compagni di scuola li avevano chiamati "porci ebrei": ormai teme di non vederli più. Quest'anno Dario e Vittorio sono tornati a Trieste per la posa delle pietre d'inciampo in ricordo del padre e dei nonni scomparsi nel lager, "Daniele Israel", recita quella del genitore, "Trieste, 1910 - Auschwitz, data sconosciuta".

(la Repubblica, 13 luglio 2020)


Fuga dall'Italia: chi sono gli ebrei che emigrano in Israele e perché lo fanno

A dispetto dei numerosi episodi, non è l'antisemitismo che spinge gli ebrei italiani verso Israele: prevalgono dimensione religiosa e voglia di costruire una vita, una carriera nella terra d'elezione

di Carlo Andrea Finotto

Il 2 giugno 2019 Raffaele Terracina ha realizzato il suo secondo sogno: aprire una pizzeria a Gerusalemme. La data dell'inaugurazione non è casuale, la ricorrenza della Festa della Repubblica è stata scelta apposta per testimoniare il legame con il suo Paese natale, l'Italia.
  Il primo sogno, invece, Terracina l'ha realizzato circa due anni e mezzo fa: trasferirsi a vivere in Israele e compiere così la sua Aliyah, con questo termine ebraico viene infatti definita l'emigrazione degli ebrei verso la loro patria d'elezione. Raffaele Terracina, però, ha dovuto attendere fino ai 50 anni per realizzare il progetto che cullava sin dai tempi del liceo: «All'epoca non ci fu modo di convincere i miei genitori» ricorda.

 Scelta di vita più che fuga dall'antisemitismo
 
Claudia De Benedetti, prima da sinistra, insieme a una famiglia di origine etiope che ha compiuto l'Aliyah. Ultimo a destra è Richard Prasquier, presidente di Keren Hayesod Francia (associazione tra i principali sostenitori dell'Agenzia ebraica)
  Terracina è uno dei numerosi italiani che - Covid-19 permettendo - ogni anno decidono di compiere l'Aliyah, emigrando in Israele. Sono stati 153 nel 2017, 86 nel 2018, 62 nel 2019 secondo i dati raccolti dalla Jewish Agency, l'Agenzia ebraica che si occupa degli aspetti legati all'immigrazione degli ebrei nello Stato ebraico.
  L'epidemia di coronavirus che si è diffusa nel mondo nella prima parte del 2020 ha avuto ripercussioni anche sulla "salita in Israele", tanto che a luglio erano circa una quarantina gli ebrei italiani - giovani studenti, famiglie con bambini - che avevano programmato di trasferirsi e si sono visti bloccati e costretti a cambiare temporaneamente i loro piani.
  «Per quanto riguarda le motivazioni che stanno alla base dell'Aliyah degli italiani, non si può parlare di antisemitismo» spiega Claudia De Benedetti, presidente onoraria dell'Agenzia ebraica.
  Nonostante il numero crescente di episodi registrati - i primi mesi del 2020 sembrano proseguire un trend preoccupante: 251 casi nel 2019, +38,7% rispetto al 2018 che a sua volta segnava un incremento del 39% sul 2017 - la paura e l'insicurezza non rappresentano la spinta principale a lasciare l'Italia, come invece accade sempre più spesso in altri Paesi: Francia e Germania in testa.
  «Quella italiana è una Aliyah per scelta, non per necessità» chiarisce De Benedetti. «Fino a qualche anno fa l'identikit corrispondeva principalmente a giovani famiglie che decidevano di trasferirsi anche con l'idea di far crescere i figli in Israele, oppure si trattava di persone al termine dell'attività lavorativa, intenzionate a trascorrere il periodo della pensione e magari svolgere attività di volontariato». Ultimamente, invece, il profilo è cambiato e a emigrare dall'Italia sono soprattutto «giovani che decidono di completare i loro studi in Israele o di costruirvi la loro carriera» spiega Claudia De Benedetti.

 Giornalista al Jerusalem Post
  Corrisponde a questa descrizione Rossella Rachel Tercatin, giovane giornalista con un passato da redattrice al periodico Pagine ebraiche e collaborazioni con la Rai e il Corriere della Sera. Da aprile 2019 lavora al Jerusalem Post, dove è approdata dopo una serie di esperienze come free lance. «Mi occupo di archeologia, mondo ebraico, ma anche di politica internazionale» racconta.
  Il cambio di vita di Rossella Rachel Tercatin ha un prologo nel 2014: «Ho deciso di trascorrere un anno in Israele per seguire un corso superiore di studi ebraici». L'idea - spiega - «era di tornare in Italia dopo quella specie di anno sabbatico. In realtà la vita in Israele mi è piaciuta molto e ho cominciato a immaginare di rimanerci». Così, dopo una parentesi di un altro anno a Milano, nel 2016 c'è stato il trasferimento definitivo e poi il matrimonio con un ragazzo di origine americana.

 Rimettersi in gioco a 50 anni
 
Raffaele Terracina nella cucina del suo locale, Partigiano, a Gerusalemme
  Tra i posti che Rossella frequenta a Gerusalemme c'è anche la pizzeria di Raffaele Terracina. Anche per lui c'è un "prima", che risale a quando aveva 19 anni. Terracina fa parte del movimento sionista, e dopo la maturità ha svolto «un periodo di volontariato in un kibbutz. Avrei voluto compiere l'Aliyah già allora, ma i miei genitori non erano d'accordo». In Italia, all'epoca, l'economia girava e l'immaginario collettivo nei confronti della nazione ebraica non era quello di oggi: «Che ci vai a fare, a raccogliere le arance»?
  Il "dopo", con l'Aliyah che si realizza, è arrivato, come detto, un paio di anni fa. In mezzo ci sono stati un matrimonio, tre figli, i negozi di abbigliamento in centro a Roma e un locale che negli anni è diventato punto di ritrovo di vip internazionali legati al mondo del cinema e dello spettacolo: da Bonolis a Woody Allen.
  «Ho ceduto i negozi di abbigliamento e ho deciso di rimettermi in gioco - racconta Raffaele Terracina - e ho raggiunto i miei figli. La prima è partita già otto anni fa, dopo la maturità: ha svolto il servizio militare, si è laureata e ora insegna inglese. La seconda ha studiato a Tel Aviv e adesso è manager alberghiera. Il terzo figlio fa il grafico e ha già creato una sua azienda a Gerusalemme». La moglie di Raffaele lavora ancora: «È direttore del dipartimento educativo della Comunità ebraica di Roma. Fa la "pendolare" e ci raggiunge appena può».

 Un "Partigiano" a Gerusalemme
  Terracina ha frequentato sin da subito il corso di ebraico che Israele prevede per gli immigrati per favorirne l'integrazione: tre-quattro lezioni settimanali per un anno. «Ma un conto è parlare a scuola, un conto è padroneggiare la lingua nella vita reale. Così ho accettato il consiglio dei miei figli che mi hanno parlato di un conoscente che cercava un aiutante in pizzeria». Già, perché Raffaele Terracina nella sua vita oltre al lavoro di commerciante ha fatto anche lo scenografo e coltivato l'hobby della cucina.
  Così si è arrivati al 2 giugno 2019. «Aprire una pizzeria romana era il mio sogno e ci sono riuscito in collaborazione con due amici: Alberto che era a Gerusalemme già da 8 anni, e Daniel». Il dibattito sul nome da dare al locale lo ha risolto il figlio grafico: «Chiamiamolo Partigiano». Un suggerimento non casuale: «Io - sottolinea - Raffaele - sono nipote di Alberto Terracina e Marco Moscati», due partigiani veri, durante la Seconda guerra mondiale. L'idea del nome è piaciuta a tutti.

 Supplì e Roma nel cuore
 
  Il locale si è affermato in fretta: «È diventato una specie di riferimento per la comunità di italiani che si sono trasferiti in Israele e anche per i turisti. Dopo qualche giorno all'estero all'italiano manca il cibo di casa: non resistono senza pizza o supplì». Una passione un po' come quella calcistica per la Roma che Raffaele Terracina non ha lasciato in Italia: «Ho avuto per 25 anni l'abbonamento allo stadio. Ora seguo "la Magica" a distanza, grazie al Roma club di Gerusalemme». L'amore per il calcio va oltre la Serie A e il campionato italiano: «Qui ci sono sei squadre di bambini israeliani e arabi: un'esperienza molto bella».

 La dimensione religiosa come spinta a partire
  Più recente rispetto a quella di Raffaele Terracina è l'Aliyah di David Spizzichino, che di anni ne ha 35. A spingerlo all'emigrazione verso Israele sono state le prospettive professionali e, soprattutto , la dimensione religiosa.
  «Io sono medico e qui le possibilità professionali ed economiche sono migliori rispetto all'Italia e a fine aprile dovrò sostenere l'esame di stato per l'esercizio della professione» dice David Spizzichino, che in Israele è arrivato a metà 2019 con una decisione supportata dalla famiglia e guidata soprattutto «dall'osservanza dei precetti dell'ebraismo, che nel corso degli anni è progressivamente aumentata».
  Oltre all'Ulpan Etzion - l'istituto che prevede l'insegnamento intensivo dell'ebraico - David Spizzichino ha frequentato anche una scuola talmudica. «In Israele è indubbiamente più semplice vivere rispettando tutte le regole, compresa ad esempio l'endogamia».
  Anche Rossella Rachel Tercatin è ebrea osservante, «e - chiarisce - la dimensione che pure può essere ottima anche in Italia, è però migliore in Israele. Per me è stata la spinta principale a compiere l'Aliyah».

 Spirito di solidarietà
 
David Spizzichino, al centro. La prima a sinistra è Ziva Avrahani, direttrice dell'Ulpan Etzion; il terzo da sinistra è il sindaco di Gerusalemme, Moshè Lion
  L'approccio di Israele nei confronti degli ebrei che decidono di trasferirsi da altri Paesi è di grande accoglienza: «Lo Stato offre dei servizi e condizioni di vantaggio per i nuovi immigrati - testimonia David Spizzichino - è previsto un contributo mensile per i primi sei mesi, sconti sulle tasse e lo spirito di solidarietà è un denominatore comune che coinvolge anche i nuovi immigrati». Raffaele Terracina evidenzia anche un altro aspetto positivo legato alla nuova vita: «La burocrazia israeliana non è paragonabile a quella italiana. Qui ci abbiamo impiegato molto meno tempo ad aprire l'attività di quanto sarebbe stato necessario in Italia».
  Lo spirito di solidarietà è diffuso nell'intera comunità italiana: «Chiunque arrivi è sempre ben voluto. Ti senti a casa» sottolinea Terracina. Un'impressione confermata da Spizzichino che ricorda di aver ricevuto «un'ottima accoglienza e consigli» e di essere stato coinvolto durante le feste con «inviti a cena e a pranzo».

 Giovane Kehilà
  Fulcro della vita sociale e culturale degli italiani in Israele è la Giovane Kehilà, l'associazione attiva principalmente a Gerusalemme e fondata nel 2014 da Michael Sierra - nato in Israele ma figlio di italiani - e da Dario Sanchez (italiano immigrato in Israele).
  «Sono iscritti 246 giovani ebrei di origine italiana - spiega Sierra - e l'idea è di mantenere vivo l'ebraismo italiano fra i giovani». Spizzichino, che ha partecipato all'attività dell'associazione, sottolinea come tra gli scopi principali vi sia quello di «favorire l'aggregazione dei giovani ebrei italiani in Israele, sia i nuovi, sia quelli di seconda generazione che sono nati qui ma sono cresciuti in un contesto familiare e sociale anche italiano».
  «Volevamo preservare la cultura e le tradizioni ebraico-italiane dando vita a molte attività tra le quali gite, presentazioni di libri, fine settimana e altri eventi culturali» dice Michael Sierra.

 Vita da "pendolari" del Mediterraneo
  Il legame con l'Italia, comunque, non si interrompe mai, anzi resta intenso. «Spostarsi oggi non è più complicato come poteva essere nei decenni scorsi. Ci sono collegamenti aerei diretti anche low cost che permettono viaggi frequenti per ritornare a trovare parenti e amici» chiarisce Raffaele Terracina. Il flusso tra le due sponde del Mediterraneo è nei due sensi, come spiega Rossella Rachel Tercatin: «In Italia ho i genitori, un fratello: spesso vengono loro in Israele, altrimenti torno io a Milano a trovarli».

(Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2020)


Coronavirus: Israele, 1.148 casi in 24 ore

TEL AVIV, 12 lug - Il numero dei casi positivi è cresciuto in Israele di 1.148 unità nelle ultime 24 ore, che rappresentano il 6,4% dei test condotti ieri. Lo ha riferito il ministero della Sanità precisando che di conseguenza il numero complessivo dei casi positivi registrati dall'inizio della pandemia è salito a 38.213. Al momento 18.940 persone contagiate si trovano in isolamento: 18.430 sono a casa o in alberghi messi a disposizione dalle autorità, mentre altri 510 sono ricoverati in ospedale. I malati gravi sono 141, e di questi 48 sono in rianimazione. Il numero dei decessi è intanto salito a 358.

(ANSAmed, 12 luglio 2020)


Israele: ancora niente aiuti, gli imprenditori protestano contro Netanyahu

di Cristiano Tassinari

30.000 persone secondo le autorità, addirittura 80.000 secondo gli organizzatori della protesta: tutti contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, considerato il colpevole dei mancati indennizzi per superare la crisi del Covid-19, indennizzi promessi e non ancora erogati.
Presentato come apolitica, la manifestazione "per il lavoro" diventa, di fatto, un atto d'accusa al governo-Netanyahu.
"Senza aiuti di stato, siamo finiti"
È il grido d'allarme degli imprenditori, ma anche dei lavoratori autonomi di Israele.
Lo lanciano all'indirizzo di un governo finora sordo alle loro richieste, con un'imponente manifestazione che si è svolta sabato sera.
Fra i loro slogan: "Corrotti, siamo stufi di voi!".
Alla manifestazione degli imprenditori indipendenti hanno aderito organizzazioni sindacali di ristoratori, dello spettacolo, dello sport, del settore turistico ed altre ancora.
Il crollo delle loro attività, hanno avvertito, ha molto alzato il tasso di disoccupazione.
In oltre cento incroci stradali di Tel Aviv, picchetti di protesta organizzati dal movimento delle ''Bandiere Nere'' hanno chiesto le dimissioni di Netanyahu, in quanto incriminato in alcuni procedimenti per corruzione, frode ed abuso di potere.
Oltre a Tel Aviv, manifestazioni parallele si sono svolte in tutte le principali città israeliane.

(euronews, 12 luglio 2020)


Seconda ondata e crisi nera, Israele scende in strada

Indice di contagio oltre il 5%, il lockdown aleggia su Netanyahu. In tilt anche lo Shin Beit

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - «Il governo pensa che i lavoratori autonomi siano ricchi e in grado di reggere la crisi, ma non è così, molti di noi sono rovinati, io non so dove sbattere la testa. La fame ci ucciderà più del coronavirus, le promesse non si possono mangiare». Un commerciante raccontava ieri sera con queste parole a una tv locale il suo dramma, simile a quello che vivono le molte migliaia di dimostranti che si sono radunati a Tel Aviv per la prima protesta di massa contro il governo Netanyahu dall'inizio dell'emergenza sanitaria.
   A inizio settimana Netanyahu e il ministro delle finanze Katz hanno annunciato il piano "Rete di sicurezza 2020-2021". «Sono pronti 50 miliardi di shekel (circa 13 miliardi di euro, ndr) in sussidi diretti e altri 30 miliardi di shekel per i prestiti. Il piano durerà un anno, perché il coronavirus rimarrà con noi per un anno», ha spiegato Katz.
   L'impegno non è stato giudicato sufficiente da chi è più esposto alla crisi: piccoli imprenditori, lavoratori indipendenti, trasportatori, ristoratori, operatori turistici, senza dimenticare gli artisti. Persone che contribuiscono al forte aumento della disoccupazione, ora intorno al 21% - 850.000 persone -, dopo aver toccato il 25% a marzo e aprile, i mesi del lockdown durante la prima ondata della pandemia. E la loro protesta adesso scende nelle strade di Israele. Netanyahu, elogiato in primavera per la sua gestione della crisi sanitaria, ora è apertamente criticato. La sua popolarità è in forte calo. Anche per questo ha messo da parte, per ora, l'annessione di una porzione di Cisgiordania palestinese, attesa il primo luglio, per dedicarsi all'emergenza sanitaria ed economica in cui si ritrova paese. Ed è di fronte a un dilemma: è prioritario fermare con misure drastiche la diffusione del virus oppure è più importante evitare la catastrofe economica (il Pil israeliano scenderà deI 6%)? L'evoluzione della crisi probabilmente deciderà per lui.
   Escluso categoricamente fino alla scorsa settimana dal governo, il lockdown aleggia di nuovo su Israele investito dalla seconda ondata della pandemia. I casi positivi hanno superato nell'ultima settimana ogni record - intorno ai 1500 al giorno con l'indice di contagio oltre il 5%. «Se si dovessero raggiungere i duemila pazienti al giorno, si accenderebbe una luce rossa. Stiamo cercando di non arrivarci ma questo probabilmente ci porterà a un lockdown generale», ha avvertito il ministro della sanità, Yuli Edelstein. Scienziati, medici e virologi da tempo denunciano come «insensata» la decisione presa dal governo di riaprire quasi tutto a maggio, quando l'epidemia si riteneva sconfitta e la popolazione ha cominciato a comportarsi come se il nuovo coronavirus non fosse mai esistito. Ad ingannare è stata anche la bassa mortalità registrata a marzo e aprile: poco più di 200 decessi su circa 15mila casi positivi. A giugno la situazione è precipitata. Ora siamo a circa 36mila positivi e 351 morti. I malati gravi sono in aumento e le terapie intensive che si erano svuotate adesso accolgono decine di ammalati. Netanyahu questa settimana ha riconosciuto che la riapertura totale del paese a maggio è stata «affrettata».
   Un lockdown parziale è già in vigore. Quartieri di Gerusalemme, Beit Shemesh, Lod, Ramle e Kiryat Malachi sono stati dichiarati "zone rosse" per sette giorni. E il virus colpisce anche il governo e il mondo politico.
   Due ministri - tra cui quello della difesa Benny Gantz - e tre deputati sono in quarantena precauzionale a seguito di contatti con persone risultate positive al Covid-19. In isolamento di trova anche il capo di stato maggiore Aviv Kochavi.
   Ed è andato in tilt persino lo Shin Bet, il servizio di sicurezza incaricato da Netanyahu di monitorare il contagio tra la gente. Migliaia di israeliani hanno ricevuto, per errore, un messaggio di allerta-contagio e sono entrati senza motivo in quarantena.

(il manifesto, 12 luglio 2020)


Obiettivo Natanz: la guerra segreta contro la marcia nucleare dell'Iran

Due settimane di strani incidenti. Così Usa e Israele ritardano il programma atomico di due anni.

di Guido Ollmplo

E' la strategia della prevenzione. 7 giugno 1981. Operazione Opera. I caccia israeliani distruggono il reattore nucleare di Osirak, in Iraq. 6 settembre 2007. Operazione Outside The Box. Israele riduce in macerie un sito atomico a Deir Ez Zour, in Siria.
   Ora la sfida ritorna contro l'avversario del momento, l'Iran. Il 2 luglio un'esplosione devasta il padiglione per l'assemblaggio delle centrifughe nucleari a Natanz, in Iran. Il regime conferma, sostiene di sapere le cause ma non le rivela per motivi di sicurezza. Fonti interne sono convinte di un atto ostile, analisi condivisa in Occidente e rafforzata dalla rivendicazione di un gruppo sconosciuto, i Ghepardi della Madrepatria. Può essere la prova del loro coinvolgimento oppure solo un modo per creare incertezze.
   Su Nour News, sito vicino al Consiglio di Sicurezza Nazionale iraniano, sono meno reticenti. Accreditano l'ipotesi dell'attacco deliberato, sottolineano l'impatto, escludono un'incursione dal cielo perché «Natanz è ben protetta». New York Times e Washington Post, citando ambienti della sicurezza, avallano la pista della bomba, probabilmente piazzata dal Mossad vicino ad un sistema del gas.
   Scenario alternativo a quello di un sabotaggio cyber - eseguito dall'unità 8200 israeliana - che avrebbe innescato una reazione a catena. Al lavoro di analisi, svolto in diretta e sui social, si uniscono gli analisti con l'interpretazione delle foto trapelate e di quelle satellitari. E c'è chi è convinto che si sia trattato davvero di uno strike dell'aviazione. Forse è così o è solo un pezzo della battaglia di informazione. Anche perché di cose ne sono accadute e non solo a Natanz.
   La sequenza terribile per l'Iran si apre il 26 giugno e si chiude, temporaneamente, il 9 luglio. Incidenti e deflagrazioni coinvolgono siti strategici, un ospedale, impianti elettrici e petroliferi. Misterioso quanto avviene, secondo le autorità, nel deposito di gas a Parchin. Un incendio. Gli esperti, confrontando mappe e scatti, indicano invece che potrebbe essere stata coinvolta una fabbrica di missili a Khojir. Il giornale kuwaitiano Al larida ritenuto una piattaforma attraverso cui Israele fa filtrare dettagli, rìlancia l'azione di aerei. Nessuno ha la prova che tutto sia collegato, però giustifica gli interrogativi.
   Primo. Atti dolosi o meno, l'insieme permette di presentare l'Iran sotto pressione, al centro della guerra segreta. Reale e psicologica.
   Secondo. Se a Natanz è stato un ordigno è evidente che è stato violato un bersaglio di assoluta importanza. Cercheranno le talpe, gli eventuali complici, gli agenti nemici. Le rivendicazioni servono ad aumentare la confusione.
   Terzo. È un messaggio, noto, all'Iran: ostacoleremo con ogni mezzo i vostri progetti. Israele e gli Usa - racconta il New York Times - hanno riattivato la missione per eliminare alti ufficiali e ostacolare il programma nucleare. È la continuazione dell'Operazione Olympic Game, atto cyber con l'uso del virus Stuxnet (2010) e di altre mosse della guerra segreta, compresa l'uccisione di scienziati. I due alleati sono convinti di poter osare, l'eliminazione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte di un drone americano è stata considerata un rischio calcolato. Hanno tolto di mezzo una figura chiave e la ritorsione dei mullah è stata contenuta.
   Ora ci si chiede quale sarà l'impatto sulla tabella di marcia atomica. Le devastazioni a Natanz - valutano tecnici occidentali - ritarderanno i lavori per molti mesi, anche 2 anni. Gli ayatollah, pero, potrebbero aumentare lo scudo per gli impianti, una parte dei quali sono già in bunker e gallerie nelle montagne. Diventerà ancora più arduo colpire. E torniamo così al blitz su Osirak nell'81, La dottrina preventiva israeliana ha insegnato agli iraniani che è meglio «seppellire» le cose che contano sotto rocce e cemento. Insieme alla difesa, verrà la risposta. Molti sono convinti che l'Iran reagirà con una rappresaglia. Visibile e segreta. Come tutto in questo lungo duello.
   
(Corriere della Sera, 12 luglio 2020)


Israele: entra in vigore il divieto di prostituzione

Scatta l'applicazione del "modello svedese": incriminazione dei clienti e investimenti per la riabilitazione ed il reinserimento delle donne che si prostituiscono.

Da venerdì scorso è entrata in vigore in Israele la legge approvata nel dicembre del 2018 che impone il divieto di frequentare prostitute. La novità più rilevante è che per la prima volta la responsabilità della prostituzione ricadrà anche sui clienti . Che verranno sanzionati.
I n sostanza, chiunque venga sorpreso con una sex worker sarà passibile di una multa di 580 dollari, In casi di reiterazione la multa può arrivare a mille dollari. Se poi le violazioni della nuova legge dovessero essere multiple, allora la sanzione amministrativa arriva fino a ventimila dollari e nei casi più gravi potrebbe scattare anche l'incriminazione penale.
   Come riportato da Haaretz, Ayelet Dayan, capo della task force contro la tratta delle donne, ha detto che "la legge è una dichiarazione storica in cui lo Stato afferma che l'uso delle donne per la prostituzione non è più accettabile. L'effetto della legge è già percepibile, c'è una riduzione del consumo di prostituzione e un aumento delle richieste di riabilitazione. Lo Stato deve riconoscere a tutte le donne rapite e sfruttate come lavoratrici del sesso lo status di vittime della tratta di esseri umani e garantire loro tutti i diritti che meritano".
   Con questa legge, Israele si unisce ad altri Paesi che hanno adottato il modello svedese, che si basa sull'incriminazione dei clienti e su un massiccio investimento nella riabilitazione delle donne che lavorano nella prostituzione.
   A questo proposito, Eunews.it riporta l'opinione di Simon Häggström, l'ispettore di polizia svedese che ha raccontato l'applicazione del modello nordico nel libro Shadow's Law: The True Story of a Swedish Detective Inspector Fighting Prostitution: "Legale o illegale che sia, la prostituzione è connessa al crimine organizzato, in quanto prostituzione e traffico di esseri umani vanno a braccetto e anche in un Paese come la Germania, dove il fenomeno oramai è assolutamente legale, l'80/90% delle donne è vittima di traffico di esseri umani. Ci sono centinaia di migliaia di uomini che comprano il sesso abitualmente e legalizzare il fenomeno non è la risposta giusta. Finché ci saranno Paesi in cui la prostituzione è legale ci saranno sempre organizzazioni criminali pronte a sfruttarla".

(JoiMag, 10 luglio 2020)



«Sforzatevi di entrare per la porta stretta»

Gesù attraversava città e villaggi, insegnando e avvicinandosi a Gerusalemme. Un tale gli disse: «Signore, sono pochi i salvati?» Ed egli disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché io vi dico che molti cercheranno di entrare e non potranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, stando di fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici”. Ed egli vi risponderà: “Io non so da dove venite”. Allora comincerete a dire: “Noi abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!” Ed egli dirà: “Io vi dico che non so da dove venite. Allontanatevi da me, voi tutti, malfattori”. Là ci sarà pianto e stridor di denti, quando vedrete Abraamo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi ne sarete buttati fuori. E ne verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e staranno a tavola nel regno di Dio. Ecco, vi sono degli ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi».

Dal Vangelo di Luca, cap. 13

 


Un'altra esplosione notturna a Teheran. Pista sabotaggio, tensione con Israele

Dagli impianti nucleari a quelli petroliferi, colpiti i siti sensibili del regime. Gerusalemme: «Nostre azioni? Meglio non dire nulla».

Nessun problema
Le autorità hanno negato lo scoppio:
«È soltanto un problema elettrico».
La sequenza
Gli altri episodi il 26 e il 30 giugno. L'ultimo incidente risale al 4 luglio scorso.

Un grande boato ha svegliato per la terza notte consecutiva gli iraniani. Gli abitanti dei sobborghi occidentali di Teheran hanno riferito di aver sentito tre o quattro esplosioni simili a quelle di un mortaio. Ma la misteriosa deflagrazione nella capitale è soltanto l'ultima di una serie di incidenti misteriosi che colpiscono il Paese da settimane. Molti sui social media hanno confermato di aver sentito esplosioni nelle cittadine di Garmdareh e Qods. Il forte rumore ha creato panico tra i residenti. Al boato sono seguiti gli ululati delle sirene di veicoli antincendio e delle ambulanze. In diverse abitazioni è venuta a mancare l'elettricità.
   Voci dell'ultimo incidente hanno iniziato a circolare online intorno alla mezzanotte di giovedì, anche se le immagini di incendi e edifici danneggiati che sono circolate online sono risultate vecchie e non riferibili a questi incidenti. Teheran ha in un primo momento smentito. Il parlamentare iraniano, Hossein Haghverdi, ha negato che l'esplosione si sia verificata, affermando che l'interruzione di corrente era dovuta a un problema in una centrale elettrica vicina. Il sindaco di una città vicina, tuttavia, ha confermato che c'era stata un'esplosione, ma ha precisato che proveniva da una fabbrica di bombole di gas.
   Una serie di misteriosi disastri hanno colpito siti iraniani sensibili nelle ultime settimane, ciò ha portato a supporre che gli incidenti potessero essere il risultato di una campagna di sabotaggio architettata da Israele. Infatti diversi punti nevralgici, tra cui impianti nucleari e raffinerie di petrolio, sono stati danneggiati di recente. Il 2 luglio un'esplosione ha compromesso l'impianto nucleare di Natanz. L'incidente pare abbia rallentato il programma nucleare dell'Iran. Una settimana prima si è verificata una forte esplosione a Teheran, apparentemente causata da un'esplosione nel complesso militare di Parchin, che ha un sistema di tunnel sotterraneo e strutture di produzione missilistica.
   Il 26 giugno un incendio nella centrale elettrica di Shiraz, ha provocato un blackout. Il 30 giugno in una esplosione in una clinica medica a Teheran 19 persone sono morte. Martedì, un'altr'a esplosione ha danneggiato una fabbrica a sud di Teheran. Il 4 luglio è stata la volta di un'esplosione che ha danneggiato una centrale elettrica nella città iraniana di Ahvaz. Alcune ore dopo, una perdita di gas di cloro in un centro petrolchimico nel sud-est dell'Iran ha fatto ammalare 70 lavoratori. Questa serie di incidenti arriva in un momento particolarmente difficile per Teheran. La Repubblica islamica si trova in mezzo alla pandemia da coronavirus, con una valuta in caduta libera e gravi difficoltà economiche innescate anche dalle sanzioni americane.
   Quando è stato chiesto se Israele fosse dietro l'incidente, il ministro degli Esteri dello Stato ebraico ha risposto «è meglio che le nostre azioni in Iran siano lasciate non dette». Una rete televisiva israeliana ha anche affermato che Israele si preparava a una possibile rappresaglia dall'Iran se la Repubblica islamica avesse appurato che Gerusalemme era dietro queste esplosioni. Sabotaggio o semplici incidenti, l'atmosfera è rovente tra i due arcinemici.
   
(il Giornale, 11 luglio 2020)


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Una lunga serie di esplosioni in Iran, che intanto si aggrappa alla Cina

di Luciana Borsatti

 
Luciana Borsatti
Ci risiamo. Un'altra esplosione "misteriosa" in Iran ha svegliato lo scorsa notte gli abitanti della capitale e accresciuto l'allarme per quella che sembra essere una vera e propria guerra non dichiarata nei confronti di strutture militari e nucleari della Repubblica Islamica. Risvegliati stavolta alcuni quartieri occidentali di Teheran, come segnalato subito dall'agenzia Mehr senza ulteriori informazioni su eventuali vittime e feriti. Si tratta dell'ultima di una serie di esplosioni e incidenti avvenuti a partire da fine giugno , e che hanno interessato fra l'altro, nell'ordine, la struttura missilistica di Khoijr vicino a Parchin; una clinica dove si sono contate 19 vittime; la struttura nucleare di Natanz; una centrale energetica di Ahvaz e un impianto petrolchimico a Mahshahr. Sebbene nessuno abbia rivendicato la paternità di questi episodi, e le autorità iraniane minimizzino o siano perlomeno reticenti sulla loro origine e natura, gli occhi di tutti sono puntati su Israele. Che a sua volta, come si usa in questi casi, non ha confermato né smentito.
  L'esplosione apparentemente più grave è avvenuta il 2 luglio nel sito nucleare di Natanz, il più importante per la produzione di uranio arricchito, e nel quale, hanno poi ammesso fonti ufficiali, si sono verificati danni tali da ritardare quel programma nucleare, dichiaratamente civile, riavviato da Teheran nel maggio 2019. E cioè un anno dopo l'uscita degli Usa dall'accordo multilaterale del 2015, e rispetto al quale la Repubblica Islamica ha annunciato di ritenersi quasi del tutto libera da limitazioni, dopo l'uccisione del generale Qassem Soleimani da parte di un drone Usa a Baghdad. Ad esplodere sarebbe stata una bomba sul posto, aveva detto nei giorni scorsi una fonte di intelligence mediorientale informata sui fatti. Ma il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Abbas Mousavi ha oggi dichiarato che è troppo presto per stabilire qualunque conclusione sulle cause.
  Certo è che l'incidente mette per l'ennesima volta alla prova non solo gli iraniani, che dalla fine della guerra con l'Iraq nel 1980 vivono con la paura costante di una nuova guerra, ma anche la dirigenza della Repubblica Islamica: dirigenza che - a differenza che in passato, quando le minacce esterne la portavano a rinserrare i ranghi - sta ora vivendo accese divisioni interne, come trapela dall'intervento odierno del già citato Mousavi. E lo stesso ministro Javad Zarif nei giorni scorsi, messo sulla graticola dai deputati del nuovo parlamento ultraconservatore, aveva detto: l'America non riconosce la differenza tra liberali, riformisti, conservatori o rivoluzionari, "siamo tutti nella stessa barca".
  A notarlo oggi, in un articolo sul Washington Post, è Jason Rezaian, ex corrispondente da Teheran, che trascorse 544 giorni in carcere, con l'accusa di spionaggio, fino ad essere liberato il 16 gennaio 2016, giorno dell'implementazione dell'accordo sul nucleare. Vista questa sua terribile esperienza, che lo accumuna a molti altri iraniani con doppia nazionalità tenuti in carcere con improbabili accuse per essere usati come merci di scambio politico internazionale, non può esservi forse analista migliore per spiegare quanto la strategia di Trump abbia fatto soffrire inutilmente gli iraniani senza offrire loro un' alternativa politica alla Repubblica Islamica. La quale, ancora apparentemente lontana dal cadere o dal cambiare linea come auspicato dai falchi della Casa Bianca e constatando quanto mal riposta sia stata la sua fiducia nell'Occidente, si sta invece gettando tra le braccia di Pechino grazie ad un venticinquennale accordo economico e militare che pare ormai in dirittura d'arrivo, benché molto controverso sul piano interno per le sue possibili ricadute in termini di sovranità nazionale e giudicato da molti come una vera e propria svendita del Paese. Sbagliano dunque negli Usa quanti pensano che le divisioni interne all'Iran preludano ad una "imminente caduta del regime", osserva Rezaian nel suo editoriale perché non fa che confermare il fallimento della strategia di "massima pressione" di Trump contro l'Iran. Quest'ultima infatti "non ha fatto nulla per preparare alternative praticabili" , mentre il pur diffuso dissenso verso i governanti non ha una leadership - decapitata dalla repressione interna - e, come si è visto con la dura soppressione delle proteste degli ultimi due anni, "non rappresenta alcuna minaccia significativa per il sistema". Inoltre, secondo il giornalista irano-americano, neanche la ricca e altamente istruita diaspora iraniana all'estero è in grado di offrire un'alternativa credibile alla Repubblica Islamica. La sola cosa che la Casa Bianca è stata finora in grado di fare, prosegue, è "creare il caos in un'economia già debole", con le sanzioni "a devastare la sussistenza di chiunque sia abbastanza sfortunato da vivere in un Paese che ne sia colpito". Irrealistico infatti pensare che proprio la sofferenza indotta dalle sanzioni nella popolazione la spinga a sollevarsi e sbarazzarsi del regime, sostiene Rezaian, visto che queste invece "acuiscono i peggiori comportamenti delle elite corrotte" e "privano di risorse proprio quanti vorrebbe il cambiamento". Insomma, la politica di Trump contro l'Iran, tutto bastone e niente carota, ha messo gli iraniani in un vicolo cieco, mentre la loro dirigenza si prepara a grandi concessioni verso la Cina, che certo non mette al primo posto le libertà né i diritti umani di nessun cittadino.

(L'HuffPost, 11 luglio 2020)


Visita al cimitero ebraico di Livorno dove riposano

Al suo interno le sepolture delle famiglie Chayes, Corcos, Franco e Madame Sitrì

 
LIVORNO - Anche domani, 12 luglio, siti ebraici aperti per visite guidate a cura di Amaranta Service. Alle ore 10, su prenotazione, sarà possibile accedere al Cimitero ebraico di via Don Aldo Mei.
   Inaugurato nel 1901, come riporta l'iscrizione in marmo posta sopra un bacile, a destra del cancello d'ingresso, è stato realizzato su progetto dell'architetto Adriano Padova, molto attivo nel progetto di urbanizzazione del quartiere della Stazione. Ospita al suo interno le più antiche sepolture dei primi Ebrei sefarditi, venuti a Livorno, provenienti dagli antichi cimiteri scomparsi. Questi sepolcri in marmo bianco hanno la forma a tumulo e riportano l'iscrizione in portoghese ed ebraico, molti sono adornati da stemmi familiari. Questa tipologia di sepolcro la troviamo a Livorno, anche, nell'antico cimitero degli Inglesi in Largo Donegani.
   Al cimitero ebraico sono seppelliti gli Ergas, i Chayes, i Corcos, i Franco: le più importanti famiglie della città portuale vivace e ricca, che era La Livorno medicea. Tra le sepolture più moderne vi è quella di Elio Toaf, un rabbino molto stimato ed amato in tutto il mondo, Isidoro Kahn, l'ultimo grande saggio di Livorno, Gastone Orefice, giornalista apprezzato a livello internazionale. Il Cimitero ospita anche le antiche sepolture del piccolo cimitero ebraico di Portoferraio smantellato nel 1964.
   Tra le varie cappelle familiari spicca quella della famiglia Chayes, in stile eclettico con il suo portone in legno , due leoni stilofori, vetrate colorate. Questa cappella è stata scelta da Francesca Archibugi per la serie prodotta dalla RAI Romanzo famigliare.
   Qua riposa anche Madame Sitrì, celebre maitresse, che gestì, per anni la più elegante casa di piacere di Livorno, immortalata da Bobo Rondelli nella sua bellissima canzone Bella Livorno. Sulla parete della camera mortuaria due lapidi ricordano i caduti della prima guerra mondiale e i livornesi morti nei campi di sterminio. Il signor Filippi, impagabile custode e memoria storica del Cimitero accompagnerà i visitatori e aprirà la cappella Chayes e la Cappella mortuaria.

(Livornosera, 11 luglio 2020)


Iran, Ahmadinejad si oppone a un accordo con la Cina mentre il rial precipita ai minimi

di Vittorio Da Rold

L'Iran degli ayatollah starebbe per siglare un accordo valido per 25 anni di cooperazione economica con la Cina di Xi Jinping per uscire dalla morsa economica in cui è precipitata a causa del Covid e delle sanzioni americane. Ad annunciarne i pericoli di "vassallaggio economico" dell'accordo segreto tra il "Leone e il Dragone" dove il leone sarebbe l'Iran e il dragone la Cina è stato Mahmoud Ahmadinejad che secondo il Jerusalem Post avrebbe denunciato l'intesa nel corso di un comizio politico tenuto dall'ex presidente iraniano nella provincia di Gilan. Ahmadinejad si è apertamente schierato contro la firma di questo accordo e delle clausole segrete che metterebbe a suo dire l'Iran alla mercé della Cina consentendo a Pechino di prendere ciò che desidera dell'economia iraniana.Cioè gas e petrolio.
  Negli ultimi giorni i media iraniani hanno messo in evidenza la possibilità di un accordo della durata di 25 anni con la Cina che vedrebbe l'Iran beneficiare della forza dell'economia cinese e contribuire ad aumentare il partenariato tra i due paesi. L'Iran e la Cina hanno già da tempo relazioni molto strette e la Cina è desiderosa di coinvolgere l'Iran nei suoi vari piani economici di espansione, come la Belt and Road Initiative che ultimamente stanno subendo rallentamenti. L'Iran del premier Hassan Rohani e del ministro degli Esteri Zarif si è dimostrata aperta alla partecipazione a queste iniziative cinesi e ha cercato di aprirsi economicamente anche alla Turchia di Erdogan e la Russia di Putin.a causa delle sanzioni statunitensi. Ma Ahmadinejad, che gode di una vasto seguito nelle fasce più povere della popolazione soprattutto di Teheran sud si oppone all'accordo e brandisce il vessillo del nazionalismo sostenuto dal quotidiano Tasnim.

 Il rial ai minimi
  A complicare la drammatica situazione economica iraniana c'è anche la svalutazione del rial che ormai è "carta straccia" nei confronti di dollaro ed euro. Il rial iraniano è sceso a un nuovo minimo rispetto al dollaro USA sul mercato non ufficiale, poiché l'economia iraniana è sotto pressione dalla pandemia di coronavirus e dalle sanzioni statunitensi. Il dollaro è stato offerto il 4 luglio a un massimo di 215.500 rial, diminuendo ancora da quota 208.200 del giorno prima, secondo il sito di cambio Bonbast.com. Il sito web del quotidiano economico Donya-e-Eqtesad, ha fissato il tasso in dollari a 215.250, rispetto ai 207.500 del 3 luglio. Nel maggio 2018, il presidente Donald Trump ha ritirato gli Stati Uniti da un accordo multilaterale denominato dei 5+1 volto a frenare il programma nucleare iraniano e ha reintrodotto pesanti sanzioni economiche e finanziarie che da allora hanno colpito pesantemente l'economia del paese.
  Un forte calo dei prezzi del petrolio e un crollo dell'economia globale hanno approfondito ulteriormente la crisi economica nel paese, che ha anche il più alto numero di morti in Medio Oriente a causa della pandemia. Il declino del rial è continuato senza freni nonostante le rassicurazioni del governatore della Banca centrale iraniana Abdolnaser Hemmati la scorsa settimana, che la banca aveva iniettato centinaia di milioni di dollari per stabilizzare il mercato valutario. Ma senza successo. Il rial ha perso circa il 70% del suo valore nei mesi successivi a maggio 2018. Ovviamente il tasso di cambio ufficiale è di 42.000 rial per dollaro e viene utilizzato principalmente per le importazioni di alimenti e medicine sovvenzionati dallo Stato. Ma gli operatori del bazar sanno che non ha nessun significato economico.

(Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2020)


Quando Morricone diresse i canti sacri della sinagoga

Furono interpretati da Alberto Pavoncello, un tenore appartenente a una delle più antiche famiglie della comunità ebraica romana, che il futuro premio Oscar scoprì durante un'esibizione al Tempio Maggiore.

di Giuseppe Serao

Ennio Morricone
Eclettico, curioso, profondo conoscitore della musica colta, ma attento studioso anche di arie, canzoni, ballate di origine popolare (risaputo il suo interesse per la musica leggera), Ennio Morricone, scomparso lo scorso 6 luglio, nella sua lunga vita di compositore ed esecutore si occupò anche di musica religiosa.
   Ne è un esempio una sua pubblicazione discografica che risale al 1960 (il maestro, in quell'anno del miracolo economico, aveva solo 32 anni, ma già si era ritagliato stima e notorietà): accompagnato dalla sua orchestra, Morricone registrò in studio "I canti della Sinagoga", un vinile di 9 minuti che raccoglieva quattro canti liturgici ebraici interpretati dal tenore Alberto Pavoncello.
   Il cantante lirico, appartenente a una delle più antiche famiglie della comunità ebraica romana, si era esibito due mesi prima nel Tempio Maggiore: nel programma alcuni tradizionali canti liturgici che commossero il pubblico. Nella sinagoga, tra gli spettatori, anche il giovane compositore che rimase entusiasta del timbro vocale del tenore. Nacque così tra il cantante e il futuro Premio Oscar un rapporto di stima e amicizia che si concretizzò poco tempo dopo nel progetto discografico.
   La copertina del vinile, sopravvissuta agli anni, suscita subito nostalgia tra chi ha conosciuto la grande epoca dei dischi. L'immagine scelta è il candelabro a sette braccia del tempio di Gerusalemme. Ma ancora più significativo è il retro di copertina dove, come si usava, si dava spiegazione narrativa del contenuto musicale proposto: " In copertina - si legge sul contenitore cartaceo del vinile, dove compare anche un foto di profilo di Pavoncello - un particolare dei bassorilievi ornanti l'Arco di Tito di Roma. Non è un caso che per questo disco si è scelto un tale soggetto.
   Se questa immagine che raffigura il candelabro a sette braccia del tempio di Gerusalemme, preda di guerra delle milizie romane vittoriose, rammenta uno dei momenti più tragici della storia d'Israele, essa è anche simbolo della forza della fede di un popolo che, disperso e perseguitato per quasi due millenni, è riuscito a tornare alla sua terra. Di questa fede sono espressione i quattro canti presentati nel disco ".
   Brani che affondano le loro radici nella più sentita storia ebraica: sul lato 1, "Vesciamerù" di Salvatore Saya (2:27) e "Escteka" di Heinrich - Schalit ( 2: 21); sul lato 2, " Iom Ascisci" di Salvatore Saya ( 2: 02) e " Lo Amut", canto tradizionale (2:46). Tutto questo con la direzione di Morricone che, sempre nel segno di una geniale duttilità, due anni dopo arrangerà il primo successo di Edoardo Vianello, " Guarda come dondolo"; poi, nel 1964, "Per un pugno di dollari", la prima colonna sonora per Sergio Leone.

(la Repubblica - Roma, 10 luglio 2020)


Come è successo che Israele è di nuovo "a un passo dal lockdown"

Nuovi focolai di coronavirus nelle scuole e ai matrimoni, due ministri in isolamento, locali di nuovo chiusi e polizia nelle strade.

di Beatrice Guarrera

 
GERUSALEMME - La colpa dell'aumento dei casi di Covid-19 in Israele sarebbe la scarsa disciplina del popolo israeliano. A sostenerlo è uno stretto collaboratore del primo ministro Benjamin Netanyahu, Natan Eshel, che lunedì scorso in un comunicato ha indicato come responsabile di questa situazione "un'alta percentuale di popolazione che non si attiene alle istruzioni, non indossa mascherine, partecipa a feste nei locali e sui terrazzi, in spiaggia e in altri luoghi pubblici. Ora ne pagheremo tutti il prezzo economico e personale", ha detto Eshel, ex capo dello staff di Netanyahu, più volte protagonista di dichiarazioni poco appropriate. Era soltanto il 14 giugno quando il governo aveva concesso l'approvazione per eventi fino a 250 persone, eppure a poche settimane di distanza la situazione è precipitata. Dall'inizio di luglio sono stati registrati oltre mille casi di infezione al giorno, che hanno costretto alla reintroduzione di alcune restrizioni a partire da lunedì scorso. Sono stati chiusi di nuovo locali notturni, piscine e palestre, mentre i luoghi di culto rimangono aperti con un numero limitato di persone e gli autobus viaggiano al 50 per cento della capacità passeggeri.
   Sulla centrale via Giaffa a Gerusalemme, luogo di shopping e vita notturna, sono decine i poliziotti messi a distanza di pochi metri, per far rispettare la norma che obbliga i cittadini a indossare le mascherine nei luoghi pubblici, sanzionando anche quanti la portano abbassata. Fuori dai ristoranti che hanno ottenuto di rimanere in attività, vengono contate una a una le persone che siedono all'aperto, perché non superino le trenta.
   La severità dei controlli di questi giorni è una conseguenza dello stato di allarme in cui è entrato Israele, dopo l'impennata dei casi di Covid-19. Non ci sono statistiche certe a confermarlo, ma diversi quotidiani israeliani hanno citato come possibile causa di questa ondata l'aumento di eventi pubblici nelle ultime settimane. Matrimoni, feste di fidanzamento e cerimonie per la consegna dei diplomi di fine anno nelle scuole sarebbero stati i luoghi più frequenti di contagio, con invitati che potrebbero anche aver viaggiato per il paese. Questo spiegherebbe un diffondersi tanto repentino dei contagi, su cui nel frattempo continuano a indagare gli agenti dello Shin Bet, i servizi segreti interni. Il provvedimento che permette allo Shin Bet di rintracciare gli spostamenti di una persona infetta (e ordinare la quarantena a tutti coloro che si trovavano nelle sue vicinanze) è stato ripristinato all'inizio di luglio, dopo essere stato sospeso per tre settimane.
   Israele è "a un passo dal lockdown totale", ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu. Nel frattempo i media israeliani hanno rivelato mercoledì sera una lista di aree che potrebbero essere interessate da provvedimenti di chiusura, tra cui tre quartieri ultraortodossi di Gerusalemme. Il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion si è però schierato contro la chiusura "che porterà a un'infezione di massa all'interno della comunità e peggiorerà la situazione". Le comunità ultraortodosse infatti hanno famiglie molto numerose e vivono in piccoli appartamenti, condizione che li può esporre a un forte rischio di contagio. Nel frattempo, dopo l'annuncio dell'isolamento del ministro della Difesa Benny Gantz, ieri anche il Ministro Rafi Peretz è entrato in quarantena per essere stato a contatto con un infetto.
   Secondo un sondaggio della televisione israeliana Channel 12, il 49 per cento degli intervistati si dice insoddisfatto di come il governo Netanyahu-Gantz sta affrontando la pandemia di Covid-19 in questo momento. Lo stesso presidente israeliano Reuven Rivlin mercoledì ha lamentato che il Governo non abbia una chiara "strategia di combattimento" contro il Covid-19.

(Il Foglio, 10 luglio 2020)


Ciclismo - Froome lascia anzi raddoppia: da Ineos a Israel. Ma prima il Tour

Ufficiale il cambio a fine stagione, ma resta l'obiettivo maglia gialla

Il commiato
Brailslord: «Lui è un leader, noi non potevamo dargli certezze».
Il benvenuto
Adams: «È un momento» storico per il team, per Israele e per me».

di Francesco Ceniti

 
Chris Froome. 35 anni, in maglia Ineos: dal 2021 l'inglese correrà per Israel Start-Up Nation
Fatte le dovute proporzioni, la vicenda Chris Froome ricorda da vicino quella di Cristiano Ronaldo. Due fuoriclasse che dopo aver vinto tutto rilanciano la sfida, cambiando casacca e facendo molto rumore. Certo, la storia finita di CR7 col Real Madrid ha motivazioni e sfumature diverse rispetto al capitolo finale tra Froome e Sky-Ineos, ma resta uguale l'impatto mediatico dell'addio e del nuovo matrimonio annunciati ieri nel giro di pochi minuti con due comunicati ufficiali. I panni della Juventus li ha indossati il team Israel Start up Nation, nato sulle ceneri della Katusha-Alpecin e finanziato dal miliardario israelo-canadese Sylvan Adams, appassionato di ciclismo a tal punto da riuscire a portare la partenza del Giro 2018 a Gerusalemme. A tanto entusiasmo, però, non sono seguiti risultati di rilievo, ma ora le cose cambiano: Froome fa rima con ambizione e Israel farà di tutto per coltivare sogni di gloria. Quindi è lecito attendersi ulteriori colpi di mercato per arricchire il gruppo e dare al nuovo capitano il supporto necessario, specie nelle grandi corse a tappe. «È un momento storico e di grande orgoglio per la squadra, per Israele e per me», ha dichiarato Adams. E Froome ha subito usato parole al miele: «Sono emozionato di raggiungere la famiglia della Israel Start-Up Nation. Non vedo l'ora di correre e sento che insieme possiamo realizzare grandi cose».

 Missione Tour
  A proposito: l'addio a Ineos avverrà a dicembre, prima Froome ha ottenuto la certezza di poter andare al Tour per cercare il quinto sigillo personale. Non sarà semplice: a parte l'età (35 anni), le incertezze legate al lungo periodo di inattività dopo il tremendo infortunio subito nel giugno 2019 al Delfinato (con scia di operazioni e voci sul possibile ritiro), una inattività interrotta solo a inizio stagione col debutto soft all'Uae Tour, le difficoltà maggiori Chris le incontrerà proprio all'interno del suo quasi ex team: correrà alla Grande Boucle da separato in casa, con i gregari che daranno una mano ai due candidati alla maglia gialla, il campione in carica Egan Bernal e lo sfidante ufficiale (a sua volta ex re del Tour nel 2018) Geraint Thomas. Ecco, Froome dovrà sovvertire le gerarchie, dimostrando di poter vincere anche in queste condizioni. Una bella e complicata sfìda. Ma il fatto che l'inglese abbia già pensato al futuro, dimostra quanto si senta in grado di scrivere ancora pagine importanti nella storia del ciclismo. E non si può neppure escludere che decida in corso d'opera di puntare sul Giro, magari dopo aver corso una decina di giorni al Tour in modo da "scaldare" la gamba. Lo scopriremo strada facendo.

 I successi
  Nessuno in ogni caso potrà cancellare quanto l'inglese ha dato a Sky-Ineos nei 10 anni di matrimonio. Ieri nel comunicato di commiato Dave Brailsford, general manager della Ineos, ha spiegato: «Stiamo facendo questo annuncio per porre fine alle recenti speculazioni e consentire al team di concentrarsi sulla stagione. Chris è comprensibilmente desideroso di avere una leadership di squadra unica, cosa che noi non siamo più in grado di garantirgli. Un allontanamento dalla Ineos può dargli quella certezza». E Froome ha ricordato: «È stato un decennio fenomenale, abbiamo raggiunto così tanto insieme e farò sempre tesoro dei ricordi. Ma ora il mio obiettivo è vincere un quinto Tour con Ineos». Già, i trionfi. Numeri impressionanti: dal 2010 Chris ha vinto 46 volte portando a casa 4 Tour, un Giro, due Vuelta. Roba da CF7.

(La Gazzetta dello Sport, 10 luglio 2020)


Virus, caccia alla cura: accordo con Israele

Protocollo fra Careggi, Tls e libr per la ricerca sugli anticorpi monoclonali: «Collaborazione per individuare una terapia efficace». Tutto è nato da una telefonata fra i premier Conte e Netanyahu.

di Lisa Ciardi

FIRENZE - Un protocollo internazionale cercare una cura per il Covid-19. Lo hanno siglato il direttore generale dell'lsrael lnstitute for Biological Research (Iibr) Shmuel Shapira, il direttore generale dell'azienda ospedaliero universitaria di Careggi Rocco Damone e il presidente della Fondazione Toscana Life Science (Tls) Fabrizio Landi. L'obbiettivo è effettuare studi sierologici su campioni di plasma di persone colpite e poi guarite dal virus, per mettere a punto una terapia efficace basata sull'individuazione e clonazione di anticorpi monoclonali. L'Istituto Israeliano di Ricerca Biologica è infatti uno dei centri di eccellenza mondiali nel campo della ricerca biologica e fautore di un rivoluzionario sviluppo scientifico per la cura al covid19, «L'Ambasciata di Israele in Italia - ha detto l'ambasciatore Dror Eydar - ha avviato questa cooperazione scientifica nello spirito di collaborazione e amicizia con l'Italia, per superare la crisi del Coronavirus. Ringrazio il presidente del Consiglio Conte, che ha risposto alla richiesta del primo ministro Netanyahu, e ha contribuito a concretizzare questo momento».
   «L'accordo tra Istituti di primissimo livello dei due Paesi - ha proseguito l'ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti . è frutto di una collaborazione avviata durante un colloquio telefonico tra il presidente del Consiglio Conte e il primo ministro Netanyahu e costituisce la punta di diamante di una vasta rete di contatti tra le due comunità scientifiche, risultato di una politica di cooperazione ultradecennale».
   «Sono onorato di aver contribuito al raggiungimento dell'accordo - ha commentato il console onorario di Israele, Marco Carrai - e sono convinto che il lavoro dei due istituti possa rappresentare un passaggio decisivo nella lotta al Covid-19». «Per l'Aou Careggi e per il sistema sanitario della Toscana di cui fa parte - ha detto il direttore generale Rocco Damone - essere chiamati a partecipare a un progetto di ricerca di rilievo internazionale, è un importante riconoscimento. Insieme all'orgoglio c'è poi la grande responsabilità di affrontare l'emergenza Coronavirus con il massimo impegno». «Siamo onorati di prendere parte a un protocollo di intesa internazionale, con due realtà di questo calibro, nell'intento di favorire la ricerca scientifica contro la diffusione del Coronavirus - ha concluso Fabrizio Landi, presidente di Fondazione Toscana Life Sciences -. La nostra Fondazione è molto interessata a collaborare con libr e Careggi».
   
(La Nazione, 10 luglio 2020)


Unanimità

di Gadi Luzzatto Voghera

A me pare semplice. Ci sono temi che non vedono una unanimità di giudizio all'interno delle comunità ebraiche. Nel contempo, tutti coloro che esprimono la loro opinione in quanto ebrei (che siano giudizi storici, politici o perfino religiosi) lo fanno credendo profondamente di perseguire il bene e desiderando un futuro positivo per il mondo ebraico e per le sue comunità. A fronte di questa situazione - molto comune e ricorrente - esistono altri ebrei singoli o gruppi organizzati che ritengono inopportuno che vengano espresse opinioni differenziate e pensano possa esistere una linea comune unica e condivisa da parte degli ebrei del mondo su tutta una serie di questioni. Recentemente sono due i temi che con forza vengono proposti, chiedendo unitarietà di giudizio e di azione: il giudizio sulla natura dell'antisemitismo contemporaneo e la valutazione sulle iniziative politiche del governo israeliano. Sulla prima questione si ritiene legittimamente di sostenere che la principale forma di antisemitismo oggi sia l'antisionismo e che la fonte più pericolosa di tale antisemitismo sia il fondamentalismo islamico (a volte estendendo all'intero Islam questa dinamica). Sulla seconda questione si sostiene apertamente, sempre in maniera più che legittima, il percorso proposto dal piano Trump di annessione da parte di Israele di ampie aree della sponda occidentale del Giordano. Si dà tuttavia il caso che su queste due importanti questioni il dibattito sia assai vivace all'interno del mondo ebraico, sia nella diaspora sia in Israele. C'è chi trova insensato ridurre l'antisemitismo contemporaneo alla sola fattispecie dell'antisionismo, facendo notare l'ampia letteratura di studi sociologici che offrono un quadro molto più articolato. Sul piano politico, poi, relativamente alla dinamica mediorientale e ai passi che starebbe compiendo il governo di Israele il confronto è serrato, sia in Israele sia nella diaspora. A proposito di quest'ultimo punto mi è parso di grande interesse ascoltare l'intera registrazione dell'audizione dell'ambasciatore israeliano alla Camera questa settimana.
   In definitiva, come sostiene il noto wiz ebraico: due ebrei, tre opinioni. Si tratta, per l'appunto, di opinioni, tutte meritevoli di essere ascoltate, valutate, discusse, perché espresse con sincerità, per il bene delle future generazioni. Prospettare un presente e un futuro di unanimità mi sembra pericoloso e pochissimo ebraico.
   
(moked, 10 luglio 2020)


La verità non esiste, esistono solo opinioni. E tutte sono meritevoli di essere ascoltate. Sta in questo l’essenza del pensiero autenticamente ebraico? Se è così, si dovrebbe dire che il pensiero occidentale si sta ebraicizzando. Perché è quello che dicono un po’ tutti. M.C.


Tensione tra Hezbollah e Israele

Il leader del partito di Dio Nasrallah critica il piano di annessioni del governo Netanyahu.

«Siamo pronti a tutto pur di fermare Israele. La parole del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che ha parlato ieri da Beirut, fanno capire che la tensione con Israele è tornata pericolosamente a crescere nelle ultime ore. Hezbollah si oppone al piano di annessioni unilaterali di parte dei Territori palestinesi annunciato dal governo Netanyahu. Solo alcune settimane fa, Hezbollah — membro del governo libanese — aveva diffuso un video in cui affermava di avere «missili in grado di colpire città israeliane dal Libano». Com'è noto, il piano di annessioni israeliano doveva scattare il primo luglio, ma è stato rinviato.
   Il ministro della difesa e vice premier, Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e leader del partito Bianco e Blu, ha più volte espresso perplessità chiedendo di trovare un compromesso con gli altri paesi della regione. Solo due giorni fa Giordania, Egitto, Francia e Germania hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per chiedere a Israele di rinunciare alle annessioni considerate una «violazione della legge internazionale».
   
(L'Osservatore Romano, 9 luglio 2020)


Aumentano le molestie a studenti ebrei nelle università americane

di Nathan Greppi

Martedì 7 luglio l'Iniziativa AMCHA, associazione no-profit che dal 2012 monitora l'antisemitismo nelle università americane, ha pubblicato il suo rapporto annuale per il 2019. I dati del rapporto confermano una tendenza già rilevata nei rapporti degli anni precedenti: una maggiore presenza di attività antisraeliane nei campus universitari va di pari passo con atteggiamenti discriminatori nei confronti degli studenti ebrei.
   Come spiega lo studio, l'associazione ebraica antisionista Jewish Voice for Peace (JVP), che in passato ha anche ospitato terroristi che avevano ucciso studenti ebrei, ha aumentato del 45% le sue attività nei campus, che dalle 118 del 2018 sono passate a 171 nel 2019.
   Sono emerse in particolare 2 tendenze opposte nelle università americane: se l'antisemitismo di matrice neonazista è sceso del 49% (passando da 203 casi nel 2018 a 104 nel 2019), quello legato all'antisionismo di estrema sinistra invece è aumentato del 60% (passando dai 121 casi nel 2018 ai 192 nel 2019).
   Secondo il rapporto ci sono vari tipi di incidenti: oltre alle aggressioni fisiche e agli insulti online, si sono registrati diversi casi in cui gli studenti ebrei sono stati esclusi da determinate attività o incarichi per la loro identità, o di eventi su Israele in cui sono stati messi a tacere relatori con posizioni filoisraeliane.
   Un altro fattore registrato riguarda il legame tra le università e il BDS: gli incidenti di matrice antisemita avvengono soprattutto dove il corpo docenti e le associazioni studentesche sono fortemente schierate con il BDS. Questo avviene perché, sebbene dicano di prendere di mira solo Israele e non gli ebrei, spesso l'hanno fatto prendendosela con quegli studenti che difendevano pubblicamente o volevano andare a studiare in Israele, e che sono per la maggior parte di origini ebraiche.
   Le attività antisioniste e antiebraiche si sono adattate all'assenza di eventi fisici dovuta alla pandemia, con il fenomeno "Zoom-bombing": diversi eventi su Zoom sono stati infiltrati da persone che hanno postato contenuti antisemiti e/o antisionisti.
   Alcune scuole e atenei hanno cercato di contrastare questi fenomeni adottando la definizione di antisemitismo dell'IHRA, che riconosce anche l'antisionismo come forma di discriminazione. Tuttavia, laddove ciò è avvenuto gli studenti ebrei sono stati ancora più oggetto di aggressioni e minacce.

(Bet Magazine Mosaico, 9 luglio 2020)


Venezia apre una porta sull'acqua al ghetto

di Fabio Perugia

 
Veduta aerea del Ghetto di Venezia
Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha firmato l'ok all'ampliamento e alla ristrutturazione del Museo Ebraico della città. Sicuramente un fatto importante per gli ebrei del posto e per chi vorrà godere delle meraviglie ebraiche della città. Ma mi spingo a scrivere di questo evento non tanto per sottolineare il nobile gesto del sindaco che dimostra sensibilità e visione culturale, bensì perché questo progetto è l'atto che mette la vera parola «fine» al ghetto di Venezia, grazie all'apertura di una porta sull'acqua.
  Gli ebrei a Venezia risiedono da secoli e il ghetto della città è il più antico al mondo, istituito nel 1516 molto tempo prima di quello più famoso romano datato 1555. La delimitazione geografica del ghetto privò agli ebrei l'acqua. I veneziani di religione ebraica furono rinchiusi in una zona senza accesso all'acqua. Un fatto limitante per chi viveva sulla laguna, una costrizione sia in termini professionali sia in termini di vivibilità, nonché di esigenze sanitarie. Il rapporto tra i veneziani e l'acqua è del resto una condizione essenziale.
  Ma cos'è l'acqua nell'ebraismo? Seguendo la linea delle similitudini del Talmud, la Torah - ovvero il testo fondamentale che disegna l'identità ebraica - è paragonata all'acqua. L'acqua è vita e vitale, la Torah è lo stesso per gli ebrei. Non si può vivere senza acqua, si morirebbe senza acqua e ugualmente un ebreo morirebbe senza il suo rapporto con la Torah. Ecco allora spiegato, in una delle tante riflessioni rabbiniche, perché è ordinato di leggere pubblicamente la Torah almeno una volta ogni tre giorni: perché l'uomo non può vivere senza acqua per più di tre giorni.
  C'è poi la straordinaria storia che narra di come nei nove mesi di gravidanza il fanciullo ancora in pancia passi il suo tempo a studiare tutta la Torah, con degli angeli che gliela insegnano. Poi succede che al momento del parto le acque si rompono e il piccolo dimentica tutta la Torah studiata nel tempo della gravidanza, cosicché possa passare la vita a studiare nuovamente il Pentateuco - la Torah, appunto - ricostruendosi idealmente quel rapporto primordiale con il testo sacro.
  I racconti e gli esempi che mettono insieme l'acqua alla Torah sono numerosi. E allora ecco che comprendiamo meglio l'importanza di questo progetto di ampliamento del Museo Ebraico di Venezia, che nella sua pratica realizzazione aprirà una porta sull'acqua. Ponendo fine alla costrizione del ghetto e restituendo agli ebrei veneziani, idealmente, il loro rapporto con l'identità ebraica.

(Panorama, 9 luglio 2020)


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Un nuovo polo museale ebraico al Ghetto di Venezia

E' il più importante complesso di sinagoghe rinascimentali che esista.
Se poi ci aggiungiamo un museo, un'antica biblioteca , un appartamento che verrà riportato a come era stato concepito nel '500, nuovi spazi per concerti e simposi e interspazi per passare da una sinagoga all'altra, ecco che abbiamo il nuovo polo museale ebraico veneziano nel campo del Ghetto nuovo.
  Un grande progetto di riqualificazione e ampliamento di cui si è fatta completamente carico la Comunità ebraica veneziana e internazionale, e adottato dalla Giunta comunale che nei giorni scorsi ha approvato una variante al Piano degli interventi.
  Il progetto, che ha già ottenuto il nulla osta della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, ora passa al vaglio del Consiglio comunale.

 Il nuovo Polo Museale ebraico
 
Il presidente della Comunità ebraica mondiale Ronald Lauder alla videoconferenza di presentazione del progetto del polo museale ebraico
  Il complesso del Museo ebraico è attualmente composto da undici unità immobiliari situate in otto unità edilizie: con il progetto vengono integrate altre cinque unità immobiliari.
  Un progetto del valore di 9 milioni di euro, raccolti già al 60 percento tra una ventina di donatori di cui metà europei e metà americani.
  "Con questi si possono già iniziare i lavori. Il rimanente si troverà strada facendo" afferma sicuro il responsabile del progetto museale David Landau, che si è preso il carico di reperire i fondi in tutto il mondo e che ha l'ambizione alla fine dei lavori di "raddoppiare i visitatori del ghetto ebraico attualmente sulle 70 mila unità".
  Tra i nuovi spazi acquisiti ci sarà un appartamento del 1528, che verrà riportato alla sua struttura originale, com'erano gli alloggi degli ebrei rifugiati dall'est Europa, dove si ammassavano numerosi in posti angusti. Verrà ricreata l'atmosfera di quei tempi per capire come si viveva. Con i soffitti alti 170 centimetri, dove le persone più alte dovevano camminare abbassando la testa. Senza servizi igienici. Con l'afa che rendeva l'aria irrespirabile d'estate e il freddo umido d'inverno. Con aperto il passaggio verso la sinagoga, lo sbocco dove respirare un po' d'aria non viziata e vedere la luce. Insomma. non è solo visitare un museo, ma vivere direttamente un'esperienza.

 Il ghetto: un museo diffuso
  "Quella di Venezia e della sua comunità ebraica è una storia di mutuo soccorso, anche se è partita da alcune discriminazioni" spiega , accennando all'obbligo degli ebrei di restare confinati di notte nel ghetto, fondato nel 1516, in cambio della libertà di culto e protezione in caso di guerra da parte della Serenissima.
  "Sono tre le prime sinagoghe cinquecentesche: la tedesca, l'italiana e Cantòn, cuore del Museo ebraico che nasce nel dopoguerra a dimostrare che l'ebraismo non poteva finire con la Shoah - dice ancora Ansaldi -. Il ghetto è un museo diffuso e in questo progetto la parola chiave sarà "apertura" verso l'esterno. Il museo si aprirà simbolicamente agli affacci del campo e, di conseguenza, alla città. Ma aprirsi a tutti - ha sottolineato - vuol dire anche abbattere le barriere architettoniche".

 Un importante lavoro di restauro
 
La direttrice del Museo ebraico di Venezia Marcella Ansaldi
  Il complesso sarà accessibile ai disabili, con due ascensori, per la salita e la discesa. I bagni saranno rinnovati.
  Verranno utilizzati degli interspazi per avere un percorso museale collegato internamente, senza uscire e rientrare in campo come si fa ora.
  Il restauro strutturale sarà consistente. Si sa che a Venezia la statica degli edifici è compromessa, "con un piede sull'acqua e uno sul campo", perché quando arriva l'acqua alta, i muri soffrono. Bisognerà intervenire sulle crepe, alcune così grandi che ci passa una mano e sui pavimenti dai dislivelli significativi.
  Caffetteria e biblioteca verranno spostate al piano terra in sicurezza, a prova di acqua alta al di sopra di 220 centimetri.
  Sono circa quattromila i preziosi volumi conservati che potranno essere consultati dagli studiosi. Alcuni sono i libri sacri con le note manoscritte appuntate dai rabbini che si sono succeduti nei secoli. Per questo verrà garantito un controllo dell'umidità e della temperatura necessari per la loro conservazione.
  Ultimo, ma non meno importante di questi tempi, saranno potenziati i servizi di sicurezza.

 I lavori inizieranno a fine ottobre e dureranno tre anni circa.
  La riqualificazione del museo guarda al turismo internazionale ma anche alla città e ai suoi residenti: "Ringrazio l'Amministrazione comunale per aver compreso le nostre esigenze di allargamento del compendio - ha affermato il presidente della Comunità ebraica Paolo Gnignati - Questo è un progetto che desideriamo far conoscere a tutti i veneziani. Il Ghetto è un luogo importantissimo dal punto di vista artistico, ma vogliamo che diventi anche un luogo di produzione culturale".

 La rinascita di una comunità
  "E' un sogno che diventa realtà - ha voluto precisare il presidente della Comunità ebraica mondiale Ronald Lauder - Avevo visitato anni fa le tre sinagoghe ed ero restato a bocca aperta. Onorato che questa giunta abbia autorizzato questo ampliamento ora che il Ghetto compie 504 anni. La missione della mia vita è aiutare le comunità ebraiche a ricostruire ciò che è stato perso. Con l'ampliamento le persone vedranno tornare alla vita le sinagoghe, il canto e il sorriso dei bambini, una comunità che si ravviva, e vedranno il bene più prezioso, la vita. La storia di Venezia e la comunità ebraica sono sempre state connesse. Ora, con questo museo diffuso, lo saranno ancora di più".
  Parole che sono state molto apprezzate dal sindaco Brugnaro. "Per noi è un onore aiutare un museo che si sviluppa e si consolida avendo alle sue spalle un'intera comunità. Questo progetto completamente autofinanziato -ha detto il primo cittadino - è uno splendido esempio di sussidiarietà, un dono per le generazioni future e un messaggio di fratellanza e solidarietà".

(metropolitano, 8 luglio 2020)


Singer contro Singer

Israel e Isaac: fratelli coltelli. Da noi il premio Nobel è il meno famoso dei due: "colpa" di Adelphì che ha creato un caso sulla "Famiglia Karnowski".

di Antonio Armano

Se qualcuno nomina le sorelle Brontè, dire che era più bravo il fratello Branwell. Se qualcuno nomina Giorgio de Chirico, dire che era più bravo il fratello Alberto Savinio, come scrittore e come pittore. Se qualcuno nomina lsaac B.Singer, dire che era più bravo il fratello Israel, anzi la sorella Esther. In un ipotetico manuale di conversazione letteraria, quello dei fratelli o sorelle meno conosciuti ma più bravi costituisce un filone di sicuro successo, dal vago sapore snobistico.
   In Italia, oltre ai De Chirico, ci sono i Pontiggia. Giampietro, fratello meno noto di Giuseppe, ha cambiato nome diventando Giampiero Neri e affermandosi come poeta. È ancora vivo e a novanta e passa anni considera il fratello "un grande letterato, ma uno scrittore incompiuto". Ambisce a terminare la vita con un solo libro in casa, mentre l'altro ha lasciato un'eredità di 50.000 volumi.
   Per i Singer in Italia la situazione si è rovesciata da quando Adelphi ha pubblicato nel 2013 La famiglia Karnowski, un caso editoriale grazie al tocco magico di Roberto Calasso e alle grandi doti narrative di Israel J. Singer, fratello maggiore - in senso anagrafico - del premio Nobel Isaac. E siccome quest'ultimo era finito in un momento di relativa oscurità, nella ciclica alternanza di polvere e luce che tocca la vita post mortem di tutti gli autori, si può concludere che il meno conosciuto a livello mondiale (Israel) qui è il più conosciuto.
   Per non fare torto a nessuno, ma soprattutto fare catalogo, Adelphi sta portando avanti anche la pubblicazione di Isaac (sempre a cura di Elisabetta Zevi) mentre, con il successo, su Israel è arrivata anche Newton &Compton, per la serie "I capolavori': nonché Emons. La famiglia Karnowski esiste infatti anche in versione audiolibro, letto molto bene, persino nei molti nomi e termini yiddish, polacchi e tedeschi, da Paolo Pierobon. Isaac si difende con Nemici. Una storia d'amore, ("Ad alta voce", Radio Tre).
   I rapporti di forza tra Isaac e Israel non si sono invertiti, ma a dirla tutta sono tornati verso il valore iniziale. Isaac è cresciuto all'ombra di Israel nella Polonia tra le due guerre. Sarà lui a chiamarlo a New York e a farlo collaborare con riviste yiddish, introducendolo nel mondo letterario, come già era accaduto a Varsavia. Isaac deve a Israel non solo i primi passi nella scrittura, ma forse la vita tout court perché restare poteva voler dire morire. Solo dopo la scomparsa di Israel, avvenuta nel '44, il futuro premio Nobel Isaac oserà uscire allo scoperto. Nel '50 pubblica il suo primo romanzo di successo, La famiglia Moskat, nel solco evidente delle grandi saghe ebraiche del fratello maggiore, La famiglia Karnowski e La famiglia Ashkenazi. Non smetterà mai di riconoscere il suo debito e sarà sempre vicino al nipote, cioè al figlio di Israel, utilizzandolo come traduttore.
   C'è un racconto in cui Isaac rievoca la grande curiosità provata per un caso di trigamia approdato alla corte rabbinica del padre. Per ascoltare la storia senza dare nell'occhio - era troppo piccolo per contaminarsi con i peccati del mondo - ha fatto finta di leggere un libro. Nessuna ricostruzione a posteriori di un'infanzia tra i classici, ma un volume usato come copertura per ascoltare storie di vita. Far parte del "popolo del libro", crescere in mezzo a storie di vita e malavita, ma anche agli stimoli spirituali del misticismo hassidico, essere l'ultimo testimone di un mondo in fase di cancellazione: difficile pensare a un terreno più fertile per la scrittura.
   Più tormentata la sorte della sorella. Finita ad Anversa con il marito, il tagliatore di diamanti Avraham Kreitman, e poi sotto al bombardamento di Londra, chiede invano al fratello Isaac di aiutarla a trasferirsi negli Stati Uniti. Abbandonata dalla madre per tre anni a una balia, come primogenita e femmina badava ai fratelli e alla loro educazione, finendo relegata a un ruolo marginale. Sarà il modello di Yentl, la ragazza che voleva accedere all'educazione religiosa riservata ai maschi. In Italia Bollati Boringhieri ha pubblicato alcuni suoi titoli, tra cui L'uomo che vendeva diamanti e Debora. Non risulta che Isaac e Israel l'abbiano mai incoraggiata o aiutata letterariamente. Isaac le fa un complimento che oggi suonerebbe ambiguo definendola "best female Yiddish writer" ... E le biografie notano come sul Forward, rivista yiddish per cui i fratelli scrivevano, mai sia apparsa una recensione a lei dedicata.
   
(il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2020)


Coronavirus: Israele, 1.500 casi in 24 ore

Gantz in quarantena volontaria, attende l'esito del test

La diffusione del coronavirus prosegue a ritmo elevato anche oggi in Israele.
Nelle ultime 24 ore si sono avuti 1.528 contagi e di conseguenza il numero dei casi positivi rilevati dall'inizio della pandemia è salito a 32.714. Lo ha riferito il ministero della Sanità. Il numero dei malati è adesso 14.104: erano 5.460 due settimane fa.
I decessi sono saliti a 343, cinque in più rispetto alle 24 ore precedenti. Nel Paese finora sono guarite 18.267 persone.
Oggi intanto il ministro della Difesa (e premier alternato) Benny Gantz ha annunciato di essere entrato volontariamente in quarantena avendo incontrato domenica una persona risultata poi positiva. In un comunicato Gantz ha aggiunto di essere in buone condizioni fisiche ed in attesa dell'esito di un test.
Da oggi, nel tentativo di circoscrivere un preoccupante focolaio di contagio, l'insediamento ortodosso di Betar Illit (in Cisgiordania, 60 mila abitanti) è stato proclamato 'zona rossa'. Altri focolai di entità minore sono pure segnalati nella cittadina ortodossa di Bney Braq (Tel Aviv), nonchè a Gerusalemme, Tel Aviv, Ashdod e Petach Tikwa.

(ANSAmed, 8 luglio 2020)


I palestinesi preferiscono Israele all'Anp

Lo svela un reportage della tv israeliana Channel 13

di Giacomo Kahn

L'Autorità nazionale palestinese ha più volte minacciato scenari di violenza e rabbia nelle strade, fino a prospettare una nuova intifada con bombe, attentati e lanci di missili su la popolazione civile israeliana, nel caso in cui Israele dovesse procedere con il suo atto, definito "illegale", di "occupazione".
   Molte le voci a livello internazionali che hanno criticato il piano del premier israeliano Benjamin Netanyahu. In Italia è nato un intergruppo per la Pace in Medio Oriente, presieduto dall'onorevole Laura Boldrini, secondo cui l'annessione spegnerebbe "la speranza di pace".
   Posizioni simili - con minacce poi cadute nel vuoto - erano state espresse anche all'indomani della decisione del governo israeliano di dichiarare Gerusalemme capitale unica ed indivisibile dello Stato ebraico e con la decisione del presidente statunitense Donald Trump di trasferire l'ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Hamas aveva incitato all'intifada, l'Autorità nazionale palestinese evocato una nuova ondata di violenza. Niente di tutto questo si è realizzato. Anzi la decisione del trasferimento dell'ambasciata è stata poi seguita da altri Paesi.
   Alcune settimane fa Channel 13, rete televisiva israeliana, ha mandato in onda un reportage firmato da Zvi Yehezkeli, tra i più apprezzati giornalisti e documentaristi sulla questione israelopalestinese, volto a comprendere - al di là della retorica dei capi di Hamas e di Fatah - quale sia il reale sentimento della popolazione palestinese, cosa pensa concretamente l'uomo della strada sul progetto israeliano di annettere alcune aree.
   Yehezkeli è andato in giro per alcuni dei villaggi palestinesi al centro del piano di annessione dello Stato ebraico in Cisgiordania munito di una telecamera nascosta negli occhiali. Ha intervistato diverse persone, molti palestinesi alcuni dei quali già lavorano in Israele o negli insediamenti, che hanno raccontato come i loro stipendi siano più alti e che sarebbero pronti anche a pagare tasse più alte pur di godere dei diritti garantiti dallo Stato ebraico.
   "Più di 100.000 palestinesi vivono nell'Area C, sotto il governo di Israele", spiega Yehezkeli. "In caso di annessione, probabilmente otterranno le carte d'identità blu. Che cosa farebbero in tal caso?". Il reportage giornalistico ha messo in evidenza che la distanza tra quello che dice la leadership palestinese e quello che desidera la popolazione è ormai "grande come mai prima d'ora".
   Molti hanno paura di esporsi ma chi lo fa non ha dubbi: tutti, tra un governo israeliano e un governo palestinese sceglierebbero il primo. "Israele è più clemente di loro", dice un intervistato riferendosi all'Anp. "Gli israeliani ci trattano come fossero nostri amici. Da noi, tutti vogliono tutto. Ciascuno pensa a sé stesso. Per questo non avremo mai uno Stato". Alcuni hanno scelto perfino di metterci la faccia: ma le loro accuse non sono piaciute all'Anp così, dopo la messa in onda del reportage, le forze di sicurezza palestinesi li hanno individuati e portati in prigioni a Gerico e Betlemme.
   "In Israele c'è una legge, c'è ordine e autorità, e si vive bene", racconta ancora un poliziotto dell'Anp. "La bella vita è con gli israeliani", dice invece un uomo d'affari accusando l'Anp di non aver fatto nulla per il popolo palestinese e dimostrando a Yehezkeli che l'opinione è comune e trasversale. Il poliziotto e l'uomo d'affari sono legati da un tema: la corruzione della politica palestinese. "Arriva denaro da Israele e da Paesi dell'Unione europea, lo rubano e a noi ne danno soltanto un po'". Basti pensare a quanto rivelato da Yasser Jadallah, ex direttore del dipartimento politico dell'Anp che ora sta cercando asilo politico in Belgio, che ha accusato il presidente Mahmoud Abbas e alti altri ufficiali dell'esecutivo palestinese di aver rubato gli aiuti (anche quelli provenienti dall'Unione europea): una volta arrivati, i soldi finiscono direttamente su conti personali o vengono utilizzati per corruzione.

(Shalom, 8 luglio 2020)


Cremona, la pietra trilingue: l'enigma senza traduzione da sei secoli

Una pietra incastonata nella facciata della chiesa di San Giovanni in Croce dal 1500. Le iscrizioni sono in tre lingue, mischiate tra loro: latino, greco ed ebraico. Un ricercatore sta cercando di decifrare quel misterioso idioma

di Giovanni Cardani

 
La pietra misteriosa al centro della facciata della chiesa di San Giovanni in Croce
«He yoy vav thet». Da queste parole è partito tutto, tanto che Giorgio Borghetti, ricercatore con la sua ex insegnante Ivana Brusati (i due hanno pure firmato un opuscolo sul tema), le ha scritte sul suo profilo WhatsApp. Capire l'enigma dietro quella pietra, eccolo l'appello: novelli Robert Landgon, il professore di storia e simbologia lanciato dalla penna di Dan Brown, fatevi avanti, perché a San Giovanni in Croce troverete pane per i vostri denti. «Mi piacerebbe decifrare quella pietra — spiega Borghetti -—ammesso che sia possibile. Non escludo che, essendo un marmo del periodo umanista, chi l'ha scolpita abbia inserito rimandi che solo gli eletti dell'epoca potevano capire. Del resto Leonardo da Vinci, contemporaneo di quel periodo, era un maestro dell'esoterismo e del simbolismo».
E Leonardo a San Giovanni, dove si trova Villa Medici del Vascello, dimora di Cecilia Gallerani, la celebre «Dama con l'ermellino», è di casa. La pietra sorge sulla facciata della chiesa dell'Oratorio della Santa Trinità, non lontano proprio da Villa Medici. «È una pietra trilingue — illustra Borghetti — con le quattro parole in ebraico riferite a Jahvè (il Dio del popolo ebraico, descritto nella Bibbia ebraica, e il Dio Padre della Trinità del cristianesimo, ndr) trascritte malamente, come tanti epigrafisti contattati hanno supposto; in greco, con la parola "Soter", ossia Salvatore; infine in latino. Mescolare idiomi era una sciccheria nel 1400-1500, quando la Scuola di Firenze rilanciò la Cabala cristiana, riprendendola da quella ebraica. Dopo il Concilio di Trento, a metà 1500, i riferimenti all'ebraico scomparvero. E pure la presenza del Sole di San Bernardino, simbolo diffuso in quell'epoca, conferma».

 Tre lingue, tre piani
  «Il primo è il riferimento a Jahvè, il secondo a Cristo, con la presenza di un triangolo col vertice basso: più che la Trinità, che ha sempre il vertice in alto, potrebbe rappresentare la donna. Il terzo piano è "terreno": troviamo lo stemma dei Cusatri, nobile famiglia scomparsa nel 1700 presente a Crema e Mantova. San Giovanni, infatti, è a metà tra le due città».

 Supposizioni?
  «Potrebbe trattarsi di un monumento funebre di una donna, vista la presenza di due stemmi (per l'uomo, bastava quello della sua casata, ndr). Il secondo stemma, purtroppo consunto, potrebbe richiamare le famiglie Gabbioneta e Susio, del mantovano. E poi troviamo due lettere, LC».

 LC come Ludovico Carminati, il conte che sposò Cecilia Gallerani e la fece entrare a Villa Medici.
  «È la lettura più affascinante, ma con poche prove. È più probabile il riferimento a Ludovica o Lucrezia Cusatri. Beltramino Cusatri, che concluse alla corte dei Gonzaga il matrimonio tra Isabella d'Este e il duca Francesco, conobbe Leonardo da Vinci. Quest'ultimo dipinse Beatrice d'Este, sorella di Isabella e poi sposa di Ludovico il Moro, amante di Cecilia Gallerani, la dama con l'ermellino. Insomma, con Leonardo figura centrale dell'intrigo, è una partita tutta da giocare».

(Corriere della Sera - Milano, 8 luglio 2020)


L'antisemitismo è (anche) un riflesso del malessere sociale

In rete il Rapporto annuale dell'Osservatorio antisemitismo

di Sergio Paolo Ronchi

L'Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea) svolge un lavoro di monitoraggio quotidiano dei media circa ogni espressione antiebraica tramite l'Antenna Antisemitismo e sottolinea attenzione e relative misure da parte delle Istituzioni.
   La lettura del Rapporto 2019 tiene conto della situazione generale di crisi della società italiana - «da molti decenni interessata dalla presenza di percentuali sostanzialmente stabili di pregiudizio antisemita» - stretta tra un presente instabile e un futuro nebbioso come fotografata dalla Relazione Censis 2019 («una collettività che ha smarrito il senso dell'investimento nel futuro»). Dunque, antisemitismo e razzismo sono cifra di un malessere sociale, «riflesso di subculture e movimenti intolleranti: gli ebrei, nell'immaginario collettivo, rappresentano il potere e la ricchezza ma soprattutto la coesione, la solidarietà intra-gruppo che fa sì che "si aiutino tra loro" e "si avvantaggino a scapito degli altri, dei non ebrei". Non importa che gli ebrei di cui si parla siano cittadini italiani, la malevolenza si riaccende sul piano identitario e culturale». Se si sta male, la colpa è di qualcuno; l'ebreo, allora, riassume in sé, sulla base di luoghi comuni semplificazioni e distorsioni il prototipo del Nemico - un nemico indotto da minimizzazioni sottovalutazioni silenzi e discorsi (anche pubblici, istituzionali e non) che veicolano il discorso di odio.
   L'Osservatorio classifica come episodi di antisemitismo quanto presenta «motivazioni o contenuti antisemiti». Però, gli episodi antiebraici sono superiori a quelli denunciati che variano rispetto alla tipologia: di rado vengono segnalati insulti o minacce verbali scritte. Comunque, «in termini generali si può affermare che il fenomeno dell'antisemitismo è in aumento così come la sua visibilità». E si esprime attraverso episodi relativi a singoli o gruppi estremisti (dai neo-nazisti ai fanatici religiosi) attivi sui social media. Da indagini demoscopiche diverse scaturisce una conferma della persistenza dei pregiudizi giudeofobici degli italiani: dall'accusa di deicidio a quella di "autoreferenzialità" religiosa, dal potere economico-finanziario concentrato nelle loro mani al genocidio dei palestinesi da parte di Israele. Né meno anche una diffusa convinzione che per gli episodi di violenza si tratti di casi isolati goliardate bravate provocatorie o scherzose... D'altro canto, si registrano anche dati positivi: per un'alta percentuale il "movente" antisemita è indotto da un più generico linguaggio di odio e dal razzismo; un alto livello di consapevolezza circa Il Giorno della memoria, che si discosta nettamente da un risultato relativo al 2016. Il quadro complessivo va facendosi più fosco se si va su Twitter. «Il picco dell'intolleranza» precisa il Rapporto «si è raggiunto nel periodo delle minacce ricevute dalla senatrice Liliana Segre e dell'istituzione della sua scorta». In definitiva, nel 2019 si sono registrati 251 episodi antisemiti contro i 197 dell'anno precedente, con una tipologia che va dai post a discriminazioni, passando attraverso diffamazione e insulti (anche nei mass media), a banalizzazioni, aggressioni… con un dato esemplare: dei 251 episodi, 171 sono stati segnalati da non-ebrei; i restanti 80 da membri di Comunità ebraiche.
   Altro dato non poco inquietante riguarda «la crescita di atti di antisemitismo della scuola e tra i più giovani»; per non dire di medie superiori e Università (docenti compresi). Ci si ritrova sul fertile terreno di stereotipi (dall'accusa del sangue al cannibalismo rituale…) mai sopiti - anzi, riformulati sul presente - e magistralmente "alimentati" anche da una confusione "sub-culturale" (emerge anche una abissale ignoranza delle Scritture) tra antisionismo e antigiudaismo cristiano: «la propaganda antisionista viene ibridata con miti antigiudaici». Così, «l'antisemitismo legato a Israele è il tema più presente in quanto trasversale alle aree ideologiche del cospirativismo del neonazismo e di estrema sinistra».
   Anche la galassia delle case editrici, infine, contribuisce ad alimentare sentimenti e cultura antiebraici. L'Osservatorio ha registrato per il 2019 «la pubblicazione di 50 libri con contenuti antisemiti (49 nel 2018), di cui 15 sono classici giudeofobici e 35 novità».
   
(il Riformista, 8 luglio 2020)


Israele, un pullman rischia di precipitare dalla scogliera

Il video degli attimi di terrore

Siamo nei pressi di Safed, in Israele, dove l'autista di un pullman con diversi passeggeri a bordo dimentica di inserire il freno a mano durante una breve sosta. Le conseguenze sono pericolosissime perché il mezzo inizia a muoversi rapidamente su una strada che costeggia una scogliera. Fortunatamente l'uomo riesce a risalire sul mezzo e a evitare una tragedia.

(Il Mattino, 8 luglio 2020)


Allah a Santa Sofia

"Erdogan prende la storia più sul serio dei cristiani e vuole riportare la basilica all'islam". ''I turchi hanno fatto ai cristiani quello che gli americani fecero agli indiani".

di Giulio Meotti

ROMA - "Nella mente di questo specialista del ricatto diplomatico, la riconversione di Santa Sofia in moschea è una dichiarazione di guerra e si aspetta una Monaco della civiltà". Così sul Figaro scriveva ieri lo storico delle religioni Jean-François Colosimo. Nel 324, l'imperatore Costantino, dopo essersi convertito al cristianesimo e aver decretato la libertà di culto, spostò la capitale dei Cesari a Bisanzio, sulle rive del Bosforo. Sei anni dopo, sul modello del Pantheon, vi costruì una basilica e la chiamò Hagìa Sophia, il "tempio della divina Sapienza". Un secolo dopo Giustiniano vi intraprese l'erezione del più grande luogo di culto "che sia mai esistito".
   Il 29 maggio 1453 gli ottomani conquistarono Costantinopoli. E la prima visita di Mehmed II fu all'altare della basilica, di fronte al quale rese grazie ad Allah e la convertì in moschea. Tale resterà fino ad Ataturk, il "padre" della Repubblica laica turca fondata sulle rovine dell'impero dei sultani, che nel 1935 fece di Santa Sofia un museo. "Dopo la pulizia etnica, le chiese museizzate, per quanto già infinitamente circondate da moschee nuove, devono essere 'restituite' al culto coranico", scrive Colosimo.
   Gli appelli a preservare lo status quo di Santa Sofia sono arrivati dal patriarcato di Costantinopoli, dal segretario di stato americano Mike Pompeo, dall'Unione europea e dal Patriarca di Mosca Kirill, che definisce la riapertura di Santa Sofia al culto islamico "una minaccia per l'insieme della civilizzazione cristiana". Il braccio di ferro sul futuro di Santa Sofia è destinato a durare fino alla pronuncia del Consiglio di stato, attesa per il 15 luglio.
   "Erdogan è un islamista e vuole che il medio oriente sia più ìslamizzato", dice al Foglio lo storico israeliano Benny Morriso "Santa Sofia è un grande simbolo della cristianità ed Erdogan lo sa bene". Spicca la timidezza occidentale su questa conversione. "Il cristianesimo significa molto poco per gli europei e molto più per i musulmani, che prendono la storia più seriamente dei cristiani", continua Morris. "Alla gran parte dei cristiani occidentali non importa di Santa Sofia".
   Sette anni fa, Erdogan aveva invitato gli oltranzisti a "lasciare stare Santa Sofia". Ma il clima politico da allora è molto cambiato. Le altre ultime due basiliche di Santa Sofia ancora adibite a museo in Turchia, a Trebisonda e a Nicea, sono state già riconvertite in moschee, a cominciare da quella sul Mar Nero, che era un museo dal 1960. Un mese fa, nell'anniversario della conquista ottomana di Costantinopoli, Erdogan ha aperto simbolicamente le porte di Santa Sofia, per far recitare la preghiera islamica del venerdì per la prima volta in quasi un secolo.
   "Il presidente Erdogan sa di essere parte di un vasto fenomeno di decristianizzazione della Turchia condotta dai suoi antenati, gli ottomani", ci dice Benny Morris. "E' come se ora con Santa Sofia volesse cancellare anche le ultime tracce della cristianità in Turchia". Quella Turchia dove si sono svolti i sette consigli ecumenici che hanno riunito i vescovi della cristianità. La turca Malatya, dove nel 2007 furono sgozzati alcuni missionari che stampavano Bibbie, era la famosa metropoli cristiana di Melitene.
   Benny Morris ha dedicato il suo ultimo libro alla distruzione del cristianesimo turco, The thirty years genocide (Harvard University Press e Rizzoli in Italia). "Il medio oriente è stato scristianizzato quasi completamente negli ultimi due secoli", dice lo storico israeliano. "Il caso turco è però unico, perché i turchi hanno ucciso due milioni di cristiani, è stato quindi un processo di sterminio. E' come quello che gli americani hanno fatto con gli indiani". Quando, tre anni fa, il governo israeliano fece installare dei metal detector sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, che è anche il luogo più santo per l'ebraismo, si parlò di violazione dello status quo, mentre Erdogan invitò i musulmani a "proteggere" Gerusalemme. "Erdogan serve all'occidente per fermare gli immigrati, ha un grande esercito nella Nato, mentre dall'altro lato Israele e gli ebrei sono più deboli" conclude Morris. "Solo così posso spiegarmi la condanna dei metal detector a Gerusalemme e il silenzio sulla riconversione a moschea di Santa Sofia". Ma anche in Turchia c'è chi non vede bene questa reislamizzazione. Su Hurriyet, l'analista Ertugrul Özkök scrive: "Un paese che ha già 80 mila moschee deve andare alla riconquista di uno dei grandi simboli del mondo cristiano? Vi avrebbe fatto piacere se una moschea in Europa oggi fosse trasformata in chiesa?". Senza contare, da Berlino ad Amsterdam passando per l'Alsazia, il grande attivismo turco nella costruzione di mega moschee in Europa.

(Il Foglio, 8 luglio 2020)


Schoeps tra Kafka e il cristianesimo ebraico

Quarant'anni fa moriva lo storico delle religioni, cocuratore con Brod dell'opera postuma dell'autore del "Processo", figura esemplare della complessità della cultura tedesca tra le due guerre.

di Vito Punzi

Hans-Joachim Schoeps, ebreo tedesco di cui ricorrono domani i 40 anni dalla morte, è stato uno storico delle religioni di rilievo nella Germania del secolo scorso, ma poco noto in Italia (segnalo l grandi fondatori di religioni e le loro dottrine, Sansoni 1956, e Lo spirito prussiano, Oaks Editrice 2018).
   Poco noto è soprattutto il suo ruolo di cocuratore, insieme a Max Brod, della prima edizione postuma (1931) delle opere di Franz Kafka, Già in adolescenza avido lettore delle opere edite del praghese, Schoeps ne rimase "straordinariamente colpito" (sue parole). Raccolte subito alcune riflessioni in un saggio (La statura spirituale di Franz Kafka), ne fece partecipe Brod, l'amico dello scrittore e curatore del suo lascito, che, apprezzatolo molto, lo fece pubblicare sulla rivista "Christliche Welt" del 17 agosto 1929. Riflessioni di un ventenne il cui nucleo, come ricordato successivamente dallo stesso Schoeps, era questo: «Non c'è conciliante azione d'amore di Dio che abbia sottratto alla morte il suo aculeo e alla vita la sua minacciosità. L'essenza più intima del cielo è per Kafka la giustizia, non l'amore. Se si vuole tipizzare la visione della vita di Kafka, allora si può dire che essa è barthianesimo [il riferimento è a Karl Barth] senza mediatore. Non solo la strada dalla terra al cielo, ma anche quella dal cielo alla terra è troppa perché lui potesse mai percorrerla».
   La stima di Brod verso Schoeps s'espresse anche con l'invito a collaborare con lui alla pubblicazione degli inediti kafkiani. Il lascito era conservato nel caveau di una banca di Praga «in una condizione catastrofica». «Ricordo una fila di quaderni in tela cerata», ha scritto Schoeps nel 1974, «di formato in quarto e in ottavo. Il primo in quarto che aprii iniziava con il racconto La tana, ma già dopo otto pagine s'interrompeva, proseguendo in un terzo quaderno, per poi concludersi in un quaderno in ottavo. [ ... ] Il tutto era come un puzzle, un intricato domino letterario».
   Oltre a essere stato il primo a mettere sistematicamente mano al lascito-puzzle kafkiano, Schoeps fu anche colui che si premurò, sempre su richiesta di Brod, di trovare un nuovo editore. E grazie a lui nel 1931 il berlinese Gustav Kiepenheuer pubblicò Beim Bau der chinesischen Mauer ("Durante la costruzione della muraglia cinese"), contenente appunto "racconti e prosa dal lascito di Franz Kafka",
   La collaborazione tra i due curatori, appena avviata, si trovò subito di fronte un ostacolo insormontabile. «Le differenze tra me e Brod - ha scritto Schoeps - riguardavano la sua assurda idea di reclamare Kafka al sionismo politico». Se Brod infatti era un convinto sionista (nel 1939 si sarebbe trasferito nella Palestina britannica), Schoeps, di fede luterana e convinto monarchico, già allora era un sostenitore dell'integrazione (la Prussia degli Hohenzollern era per lui il modello di stato cui gli ebrei dovevano guardare), tanto da dedicare poi l'intera sua vita di studioso al cristianesimo ebraico, alla figura di Cristo, all'apostolo Paolo e al polisemitismo in epoca barocca.
   Dopo aver effettuato studi filosofici in varie università, nel 1932 Schoeps conseguì il dottorato con il lavoro Storia della filosofa della religione ebraica nell'età moderna. Sionismo e fede ebraica in età moderna erano i temi che più agitavano i dibattiti all'interno del mondo ebraico europeo, di lingua tedesca in particolare. Quella del ventitreenne Schoeps (che pure pagò con l'esilio in Svezia dal 1938 e con la morte del padre nel campo di concentramento di Theresienstadt e della madre ad Auschwitz) è stata in qualche modo una "voce fuori dal coro". Testimoni ne sono state la sua estromissione, dopo il 1931, dal lavoro sugli inediti kafkiani, ma anche le dure attenzioni critiche (anche aprioristiche) rivolte ai suoi scritti da parte di personaggi di primo piano dell'ebraismo tedesco come Gershom Scholem e Walter Benjamin. Nel carteggio tra i due, da poco riproposto (Archivio e camera oscura, Adelphi), si può leggere, per esempio, come il secondo, alla data 28 febbraio 1932, «senza conoscere il lavoro di Schoeps», ritenesse, anche solo attraverso la Lettera aperta che Scholem aveva indirizzato al giovane studioso sul tema "fede ebraica nel nostro tempo", di «poter confermare con convinzione profondissima quanto sia necessario farla finita con gli orribili precursori dei teologhemi protestanti all'interno del giudaismo». Una "convinzione" che nel carteggio viene ribadita più volte se possibile con toni ancor più acri e che segna, in qualche modo, quello che sarebbe stato il destino di marginalità, se non di censura, che Schoeps (che pure tornò a vivere in Germania) avrebbe subito nella comunità ebraico-tedesca sopravvissuta al nazismo.

(Avvenire, 8 luglio 2020)


Coronavirus, in Israele è di nuovo emergenza per una seconda ondata

di Sharon Nizza

A due mesi dalle aperture, Israele fa un passo indietro. Nelle ultime settimane i contagi sono aumentati drasticamente, superando anche i picchi raggiunti nel periodo del lockdown. Nella giornata di ieri si sono registrati 806 nuovi casi, ma l'elemento preoccupante è il raddoppio dei casi gravi nell'arco di una settimana, giunti oggi a 86, mentre il numero dei pazienti intubati rimane stabile, 27. I morti totali dall'inizio della crisi sono 331. L'allarme è stato lanciato anche dal professor Eli Waxman, fisico dell'Istituto Weizmann, a capo di uno dei team di esperti che hanno coadiuvato il governo durante la crisi. E' uno dei consiglieri più ascoltati da Netanyahu perché le sue previsioni sono state le più precise sin dagli inizi della pandemia.
  Secondo Waxman, se oggi stesso non si prendono delle misure restrittive, nel giro di tre settimane ci saranno in Israele 300 malati gravi con il rischio di sovraccarico delle terapie intensive. Il "gabinetto Corona" ha varato quindi un dietrofront in particolare sugli assembramenti in luoghi chiusi, che da lunedì saranno limitati a 50 persone massimo. Solo tre settimane fa il governo aveva autorizzato assembramenti fino a 250 persone, per la gioia anche di 25 mila coppie in attesa di celebrare il matrimonio che ora dovranno nuovamente riconsiderare il da farsi. Anche per i luoghi di culto e di intrattenimento vige il limite di 50 persone. Il governo deve ancora decidere se restringere a 20 il numero di persone consentite in un ristorante e limitare l'accesso alle spiagge, come richiede il Ministero della Salute.
  La speranza è che si riesca a riappiattire la curva in modo da non dover considerare una nuova chiusura totale del Paese. "Non sono a favore di un nuovo lockdown, la situazione non è paragonabile con quella di aprile", dice a Repubblica il professor Nadav Davidovitch, direttore della Scuola di Salute Pubblica dell'Università Ben Gurion e anche lui tra i consulenti del governo. "L'incremento dei contagi è da inquadrare anche nell'ambito del drastico aumento di tamponi effettuati ogni giorno". Per fare un paragone: all'apice della pandemia ad aprile sono stati effettuati 31,117 tamponi, con una percentuale di positivi del 14,7%. La settimana scorsa ne sono stati effettuati 98,116, che hanno rilevato una percentuale di contagiati più bassa, solo intorno al 4%. "E' chiaro che dobbiamo imparare a convivere con il virus e il lockdown di marzo-aprile ci ha dato gli strumenti per capire come affrontare la malattia, che ora sappiamo curare meglio, e soprattutto c'è molta più consapevolezza tra la popolazione vulnerabile su come proteggersi".
  Anche nell'Autorità Nazionale Palestinese vi è un drammatico aumento dei contagi, con 472 nuovi casi nelle ultime 24 ore e 4722 casi attivi. I morti dall'inizio della pandemia sono 20, di cui uno soltanto nella Striscia di Gaza. L'epicentro è Hebron, dove si registrano più della metà dei casi. Il governatore di Hebron, Jabarin al-Bakri, ha spiegato che una delle cause del focolaio è l'interazione con la popolazione israeliana: "Ci sono 50 mila palestinesi che ogni giorno vanno in Israele a lavorare e oltre 270 mila beduini del Negev che vengono qui con regolarità". Venerdì è stato dichiarato un lockdown generale in Cisgiordania (aperti solo farmacie, panifici e supermercati) fino a mercoledì, ma potrebbe essere ulteriormente prolungato.

(la Repubblica, 7 luglio 2020)


Incidente nucleare in Iran, Israele nega coinvolgimenti

L'incendio della scorsa settimana nel sito nucleare di Natanz ha causato danni significativi» e «potrebbe rallentare la produzione di centrifughe utilizzate per arricchire l'uranio». Lo ha confermato un portavoce dell'Agenzia iraniana per l'energia atomica. E ora i sospetti cadono su Israele. Il New York Times cita una fonte secondo cui l'incendio è il risultato di una potente bomba, piazzata nel sito dai servizi israeliani. Un membro dei pasdaran, dietro l'anonimato, ha confermato che si è trattato di una bomba. L'incidente è avvenuto giovedì in un magazzino in costruzione nel complesso situato nell'Iran centrale, ma non ha provocato vittime o inquinamento radioattivo, secondo l'ente nucleare della Repubblica islamica. II ministro della Difesa israeliano Benny Gantz intanto ha negato un coinvolgimento: Non tutti gli incidenti in Iran sono colpa di Israele, ha detto.

(il Giornale, 7 luglio 2020)


Hacker; sabotaggi e satelliti spia. E' cyber-guerra tra Israele e Iran

Escalation nel conflitto tra i due rivali storici del Medio Oriente: oltre ai razzi, ora le armi tecnologiche puntano alle infrastrutture. Teheran tenta di manomettere le pompe dell'acqua potabile, Gerusalemme risponde distruggendo le centrifughe di Natanz.

Gli attacchi non sono mai rivendicati, ma potrebbero portare a uno scontro aperto Il blitz contro il sito dei Pasdaran ha rallentato di un anno il programma nucleare

di Giordano Stabile

E' una guerra senza missili o cacciabombardieri, ma può fare altrettanto male e mettere in ginocchio un intero Paese. «Un inverno cibernetico». È la guerra condotta senza esclusioni di colpi da Iran e Israele. Ha il vantaggio di non essere dichiarata ma rischia di essere il preludio di un conflitto aperto. In campo ci sono le unità cibernetiche dei due principali rivali in Medio Oriente. Hacker di Stato, che però non puntano tanto a raccogliere informazioni o a disseminare fake news. L'obiettivo sono le infrastrutture vitali. La sfida dura da decenni e ha subito un'accelerazione paurosa negli ultimi mesi.
   Tutto comincia con un'anomalia a una stazione di pompaggio in Israele. Siamo alla metà di marzo. I flussi cambiano di intensità di colpo e impediscono la normale miscela con il cloro. Mezzo Paese rischia di trovarsi senz'acqua potabile, un disastro tanto più serio nel pieno della pandemia di coronavirus. I Servizi fiutano qualcosa e allertano il reparto di cyber war. L'intervento è immediato e i computer che regolano la stazione vengono «ripuliti» e riportati alla normalità.
   Per un mese e mezzo lo Stato ebraico non dice nulla sull'attacco. I sospetti sono tutti sull'Iran. La guerra ibrida è salita di un altro gradino. Da anni Teheran arma le milizie sciite nella regione, colpisce gli alleati degli Stati Uniti e di Israele con razzi, droni suicidi, missili sofisticati come nel caso dell'attacco agli impianti petroliferi sauditi del 14 settembre 2019. Senza mai rivendicare. Lo stesso fa Israele, con centinaia di raid in Siria, e anche in Iraq, contro le milizie addestrate dai Pasdaran, mai ammessi apertamente. Adesso però a essere messa in pericolo è la popolazione israeliana e la risposta non può che essere dello stesso tenore. Una campagna martellante, affidata all'Unità 8200, gli hacker d'élite israeliani, la bestia nera dei Pasdaran. Il primo assaggio è il 26 giugno, quando un'esplosione in un contenitore di gas investe l'impianto missilistico a Khojar. E una fabbrica dove, secondo il Mossad, vengono prodotte componenti sofisticate, esportate poi anche in Siria e Libano.
   Sei giorni dopo, giovedì 2 luglio, arriva l'attacco più importante, nel sala di assemblaggio delle centrifughe del sito per l'arricchimento dell'uranio a Natanz. Una deflagrazione devastante. Le foto mostrano una parete dell'edificio, vicino al perimetro esterno del complesso, sventrata, il tetto collassato. Questa volta le autorità non possono parlare di una «fuga di gas». E ammettono di essere sotto attacco. Il capo delle Forze di difesa popolare, Gholamreza Jala I, specifica che la causa dell'incidente è stata «identificata» e minaccia rappresaglie: «Rispondere ad attacchi cibernetici è uno dei nostri compiti. Lo faremo». Non nomina Israele ma fonti anonime dei Pasdaran fanno trapelare che agenti «stranieri» sarebbero riusciti a infiltrarsi nel sistema di controllo del complesso. Ma non è finita, perché il 4 luglio altre due esplosioni sospette danneggiano la centrale elettrica di Zargan e l'impianto petrolchimico di Karoun. L'offensiva è a tutto campo e l'obiettivo sembra quello di indebolire l'intera struttura industriale della Repubblica islamica.
   La leadership iraniana doveva aspettarselo. Se ha azzardato tanto è perché si sente sotto assedio, tradita dall'uscita dell'America di Donald Trump dal Trattato sul nucleare firmato nel 2015. Una coltellata alla schiena, seguita da sanzioni senza precedenti, «terrorismo economico», come l'ha definito il ministro degli Esteri Javad Zarif, intervistato ieri al Med Dialogue dell'Ispi, quest'anno in teleconferenza per via del coronavirus.
   L'esponente dell'ala pragmatica del regime è stato uno degli architetti dell'intesa e di fronte alla «massima pressione» ordinata da Trump ha ribadito che «i popoli non si piegano con la fame, non cambiano». Zarif, come il presidente Hassan Rohani, vuole restare ancora nel Trattato, ma l'ala oltranzista intende usare tutti i mezzi per rompere l'assedio. Compresa la cyber war. Il 7 maggio i Pasdaran hanno messo a segno un altro colpo, con il lancio in orbita del loro primo satellite militare di spionaggio, il «Nour». C'è da credere che ha gli occhi già puntati su Israele e anche questo ha spinto lo Stato ebraico a reagire
   Il colpo è arrivato al cuore del programma nucleare iraniano. Dopo il ritiro degli Usa dal Trattato, Teheran ha accelerato la produzione di uranio arricchito e ha superato i limiti accettati nel 2015. Per Israele si tratta di una minaccia intollerabile e il premier Benjamin Netanyahu ha ripetuto più volte che è pronto a colpire. Adesso il blitz a Natanz, già messo in ginocchio nel 2010 con il virus Stuxnet, ha fatto danni seri e potrebbe bloccare «la produzione di nuove centrifughe», come hanno ammesso ieri ufficiali dei Pasdaran. Gli esperti israeliani stimano in «un anno» il ritardo inflitto al programma nucleare. Sempre ieri il ministro della Difesa Benny Gantz ha puntualizzato che «non tutti gli eventi che filtrano dall'Iran sono da attribuire per forza a noi». Una mezza ammissione. Gantz assisteva alla messa in orbita di «Ofek», un satellite spia lanciato dal deserto del Negev. «Un risultato straordinario» ha ribadito.
   Ma il rischio resta quello di ulteriori rappresaglie iraniane. Per Sima Shine, a capo del programma dell'Iran all'Institute for National Security Studies, la leadership iraniana è in questo momento «sotto pressione» sul se e sul come reagire. «Difficile immaginare», che non ci sarà alcuna reazione ma più complicato anticipare il tipo risposta. Che faranno? «Un'escalation militare non è auspicabile per nessuno, ma un attacco cyber potrebbe fallire, come già accaduto in precedenza". Il riferimento è al tentativo di sabotaggio della rete idrica. Da non sottovalutare perché, come ha rivelato il capo delle unità cibernetiche israeliane, Yigal Unna: «Se i cattivi ce l'avessero fatta, ci saremmo ritrovati senz'acqua, o forse anche peggio». Lo stesso Unna ha lanciato un avvertimento agli iraniani: «Le cose cambiano a una velocità folle. L'inverno cibernetico sta arrivando». Per loro, s'intende

Khamenei a Hamas: 'Sosteniamo la Palestina'

Mentre per l'incendio nel sito nucleare di Natanz, che ha causato «danni significativi», i sospetti iraniani cadono su Israele, la Guida suprema Ali Khamenei ha scritto una lettera al capo dell'ufficio politico di Hamas, Isrnail Haniyeh assicurandogli che la Repubblica islamica «non risparmierà sforzi nel sostegno al popolo oppresso della Palestina e nella difesa dei suoi diritti ». La missiva, inviata in risposta a un precedente messaggio di Haniyeh e citata dall'Irna, condanna «l'assedio della Striscia di Gaza e l'inganno del piano di pace e dei negoziati» e «i complotti di Stati Uniti e sionisti», augurandosi che "la Resistenza e il popolo palestinese non cederanno alle minacce e alle estorsioni, proprio come hanno fanno finora, ma perseguiranno la strada dell'onore e dell'orgoglio».

(La Stampa, 7 luglio 2020)


Discorsi d'odio ai tempi Covid. Cresce il contagio antisemita

L'analisi dei testi su Twitter tra marzo e maggio rispetto alle responsabilità "occulte" della pandemia evidenzia un boom di riferimenti al mondo ebraico. Santerini: ostilità e denigrazione.

di Paolo Lambruschi

La pandemia ha cambiato anche l'odio in rete. Soprattutto l'antisemitismo, che sta cambiando aspetto adeguandosi al nuovo secolo e ai social media. Non è più il tradizionale razzismo biologico, che prevede di sterminare le razze inferiori - rimasto triste esclusiva dei mai morti gruppi neonazisti - ma un razzismo culturale e pervasivo alimentato da teorie complottiste al quale il coronavirus ha offerto il fianco. Una ricerca curata dall'Osservatorio Mediavox dal Centro di Ricerca sulle relazioni interculturali della Cattolica di Milano e sostenuta dall'Unar, l'ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, ha esplorato in particolare l'odio antireligioso su twitter (Facebook non concede accesso ai dati). Si tratta di una indagine qualitativa analizzando 900 tweet utilizzati da un pubblico mediamente più colto di quello del social creato da Mark Zuckerberg. Mediavox ha analizzato il social tra marzo e maggio 2020. I "cinguettii" italiani di odio erano il 16,3%. Tre quarti erano riferiti al potere ebraico sulla finanza con l'accusa agli ebrei come singoli o collettività di avere il controllo della finanza mondiale, dei media, delle banche, dell'economia, del governo o di altre istituzioni e quindi di avere un ruolo anche nello sfruttamento del Covid-19. Il magnate George Soros è sempre citato come grande vecchio della politica mondiale, sostituendo i Rothschild. Il 9% dei tweet aveva contenuti antisionisti e di odio verso Israele collegandolo alla pandemia e alla diffusione del virus. Sono risultati invece minoritari i tweet legati alle forme di odio antisemita tradizionali come il negazionismo della Shoah, l'inferiorità della "razza" ebraica e l'antigiudaismo. Va ricordato che l'hate speech' ha assunto molta rilevanza anche in Italia in campo politico e sociale negli ultimi 4 anni con l'ampliarsi dell'influenza dell'''infosfera'' e attraverso l'enorme diffusione dei social media. Dalla campagna britannica per la Brexit e poi da quella per le presidenziali statunitensi che hanno portato Trump alla Casa Bianca l'odio online è stato sdoganato come forma di propaganda ed è usato nella lotta politica. In Italia la conflittualità sociale legata alla presenza delle diverse identità religiose è minore che altrove. Ma, come concludeva la relazione finale della Commissione Io Cox sull'intolleranza e il razzismo della Camera del 2017, c'è una accettazione troppo lenta del pluralismo confessionale e religioso. Inoltre la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, deve girare con la scorta e nel trimestre ottobre-dicembre 2019 l'Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec - centro di documentazione ebraica contemporanea - ha registrato 61 casi di antisemitismo contro i 42 del 2018 e i 39 del 2017.
   «In questo ambito - spiega Milena Santerini, direttrice di Mediavox - si è sviluppata la riflessione sull'odio riferito a presunti motivi religiosi. Fenomeni come questi apparentemente assumono la caratteristica di ostilità verso una religione. In realtà non è facile distinguere il bersaglio dell'odio, dato che molti ebrei e musulmani possono non essere credenti o praticanti, ma vengono colpiti per quello che rappresentano. Altre ricerche hanno analizzato l'odio su twitter, ma ho trovato i risultati poco convincenti perché esaminano solo linguaggi più aggressivi e volgari. Quelli sono la punta di un iceberg». Cambia in sostanza il capro espiatorio. L'islamofobia ha raggiunto il culmine durante la crisi finanziaria, dopo gli attentati terroristici e la crisi degli sbarchi dei migranti del 2015-2018. Con la pandemia, dice lo studio, si è acutizzato su twitter l'antisemitismo che collegava Israele e gli ebrei al virus.
   «In Italia - conclude Santerini - l'odio online legato al Covid riemerge non tanto per alludere a una cospirazione ebraica che volutamente diffonde il virus, quanto per denigrare il mondo ebraico attribuendogli il suo sfruttamento economico o politico». Il problema non è solo italiano. Gli esiti almeno in parte coincidono con la ricerca curata dall'università di Oxford secondo cui il 20% degli inglesi credono che il virus sia stato creato dagli ebrei per sfruttamento economico.

(Avvenire, 7 luglio 2020)


Il giorno in cui Abu Mazen passò dal rifiuto di Trump all'abbraccio coi terroristi

Il messaggio trasmesso in tv a reti unificate è inequivocabile: no a Israele e ad ogni possibilità di riconciliazione, sì a Hamas e al terrorismo

Giovedì scorso, durante una conferenza stampa congiunta, Jibril Rajoub di Fatah e Saleh al-Arouri di Hamas hanno promesso di lavorare insieme contro le preannunciate scelte unilaterali d'Israele in fatto di estensione della sovranità e per "abbattere" la proposta di pace dell'amministrazione Trump. "Metteremo in atto tutte le misure necessarie per garantire l'unità nazionale - ha proclamato Rajoub da Ramallah, mentre al-Arouri assisteva in collegamento video da Beirut - Oggi vogliamo parlare con una sola voce". Il loro coordinamento aprirà "una nuova fase che assicurerà un servizio strategico al nostro popolo" ha esordito al-Arouri, aggiungendo minacciosamente che Hamas "userà tutte le forme di lotta e resistenza contro il progetto di annessione"....

(israele.net, 7 luglio 2020)


Israele, lanciato nuovo satellite spia per monitorare l'Iran

ROMA - "Il successo del lancio del satellite Ofek 16 nella notte un altro risultato straordinario per l'industria della Difesa nel suo insieme e per le industrie aerospaziali israeliane in particolare", ha dichiarato il ministro della Difesa Benny Gantz. "La superiorità tecnologica e l'intelligence sono essenziali per la sicurezza dello Stato d'Israele. Continueremo a rafforzare e mantenere le capacità di Israele ovunque e su tutti i fronti", ha aggiunto il ministro.
Sulla specifica missione del satellite non sono state fornite spiegazioni. Ma secindo la radio pubblica israeliana, il satellite dovrebbe svolgere una funzione di sorveglianza delle controverse attività nucleari iraniane.

(Yahoo Notizie, 6 luglio 2020)


Sabotato l'impianto di Natanz, sospetti iraniani su Israele

"Danni ingenti" in strutture legate al programma d'arricchimento nucleare

di Sharon Nizza

 
Una centrale elettrica nella città iraniana di Ahvaz prende fuoco a seguito di un'esplosione.
GERUSALEMME - Diverse esplosioni misteriose avvenute in Iran nell'arco di otto giorni, di cui tre in strutture legate al programma nucleare, potrebbero elevare il livello di tensione nella regione. La prima è del 26 giugno: immagini satellitari indicano che ha riguardato la base missilistica di Khojir alla periferia di Teheran. IL 2 luglio una deflagrazione al complesso nucleare di Natanz e due giorni dopo un incendio nella centrale elettrica di Zargan ad Ahvaz, che rifornirebbe la centrale nucleare di Darkhovin. inizialmente la reazione iraniana è stata "incidenti". Ma ieri il portavoce dell'Organizzazione per l'energia atomica iraniana ha riconosciuto il «danno ingente all'impianto nucleare di Natanz, che potrebbe rallentare la produzione di nuove centrifughe» e specificato che la crucialità del sito impone di fare "attente valutazioni in vista di decisioni strategiche». Venerdì la Reuters ha riportato i commenti di tre funzionari iraniani, anonimi, secondo cui l'esplosione a Natanz sarebbe il risultato di un cyberattacco israeliano. Un altro alto funzionario ha parlato di «reazioni» se fosse confermata un'azione di sabotaggio.
   «Per quanto sia suggestivo parlare di attacchi seriali, io mi concentrerei su Natanz, il cuore del programma nucleare iraniano», ci dice il profèssor Uzi Rabi, dell'Università di Tel Aviv. «Sarebbe il risultato di una meticolosa attività di intelligence. E il messaggio: sappiamo che state portando avanti l'arricchimento di uranio con centrifughe più potenti, vi controlliamo». L'edificio andato in fiamme giovedì ospitava una fabbrica di centrifughe di nuova generazione. Nel 2010 la stessa centrale fu colpita da cyberattacchi di Usa e Israele, tra cui il virus Stuxnet, neutralizzando mille centrifughe. Sulla possibile reazione Rabi dice che potrebbe manifestarsi sul fronte cyber o attraverso Hezbollah al nord. "Gli iraniani sono preparati, non li sottovalutiamo». Ad aprile Israele aveva sventato un attacco cyber iraniano al sistema idrico del Paese.
   Da Israele nessun commento ufficiale. Ma ieri il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, rispondendo a un cronista, ha lasciato poco spazio all'immaginazione: «Non consentiremo all'Iran di ottenere il nucleare e per questo intraprendiamo una serie di azioni cui si addice il silenzio».

(la Repubblica, 6 luglio 2020)


Da Israele all'Australia è allarme per i focolai

Netanyahu: "Stato di emergenza". Chiusi palazzoni popolari a Melbourne Spagna, isolata provincia in Galizia. Nel mondo 212.326 contagi in 24 ore

di Gabriella Colarusso

Lo shock di marzo, quando nel giro di pochi giorni si è trovato a dover chiudere il Paese con gli ospedali sovraccarichi, ha insegnato al premier spagnolo Pedro Sanchez che la velocità è cruciale nella partita con il coronavirus: spegnere i focolai prima che divampino. Nel giro di 36 ore nel fine settimana, due regioni in Spagna hanno messo in isolamento migliaia di cittadini: 'sabato sono finiti in quarantena 38 comuni della provincia di Segrià, in Catalogna, dove vivono circa 200 mila persone, e ieri in Galizia, nel nord ovest, è toccato ad altre 70 mila persone nella provincia di Lugo, che conta 117 dei 258 casi registrati nella regione. I focolai sono collegati ad alcuni bar della zona, per almeno cinque giorni i residenti non potranno né uscire né entrare e i locali potranno accogliere un numero molto limitato di clienti.
   Anche se le 'zone monitorate in tutto il Paese sono alcune decine, il caso spagnolo per ora è sotto controllo, ma i numeri globali della pandemia e la recrudescenza in alcuni Paesi preoccupano l'organizzazione mondiale della Sanità. I contagi nel mondo sono più di 11 milioni, i morti oltre 530 mila e due giorni fa il dato delle nuove infezioni in un giorno è stato il più alto dall'inizio della pandemia: 212.326 in 24 ore, l'ultimo aumento globale giornaliero più consistente c'era stato martedì scorso ed era stato di 189.000 nuovi casi.
L'ondata viene soprattutto dagli Stati Uniti, dal Brasile, dal Messico e dall'India, ma anche l'Australia, che finora sembrava aver retto abbastanza bene l'impatto della pandemia - 104 morti a livello nazionale - combatte con una serie di piccoli focolai. A Melbourne sono state messe in quarantena le persone che vivono in nove palazzoni popolari, sono circa tremila e non potranno uscire per almeno cinque giorni,
   In Israele nell'ultima settimana ci sono stati circa un migliaio di nuovi casi al giorno, un numero più alto del picco dell'ondata precedente e questo ha spinto il governo di Netanyahu a dichiarare lo stato di emergenza e a mettere in quarantena circa 30 mila persone da giovedì scorso, secondo il quotidiano Haaretz. Sono tornati operativi anche gli agenti dello Shin Bet, l'agenzia di sicurezza interna, con il sistema di monitoraggio e tracciamento digitale dei contagiati che aveva sollevato molte critiche nei mesi scorsi.
   In America gli amministratori locali della sunbelt, la cintura degli Stati del sud, combattono per riportare la situazione sotto controllo ma la risposta sanitaria al virus è finita nel frullatore della battaglia politica. Nel discorso per la festa dell'Indipendenza, sabato, Trump ha minimizzato la crisi sanitaria. «Siamo sulla buona strada per una straordinaria vittoria, siamo sul punto di uscirne», ha detto - ma in Texas, Florida, Arizona i numeri spengono ogni ottimismo. Negli ultimi giorni la Florida è stata travolta da un'ondata di nuovi casi, 11.400 solo sabato. In Arizona quasi il 90% dei posti letto delle terapie intensive è occupato e in Texas i sindaci di Austin e Houston hanno denunciato una situazione simile a quella di New York di un mese fa: se non si riesce ad appiattire la curva dei contagi entro due settimane gli ospedali potrebbero essere saturi.
   
(la Repubblica, 6 luglio 2020)


«Le ossa non sono del cimitero ebraico». Il cantiere per la scuola può proseguire

Sopralluogo della sovrintendenza con i rabbini ultra ortodossi: presto renderemo noto il nostro studio sull'area

di Sandro Mortari

 
MANTOVA - «Presto renderemo nota una relazione molto approfondita che metterà fine alle polemiche». Il sovrintendente Gabriele Barucca si riferisce alla vicenda del ritrovamento di ossa umane nel cantiere dell'ex ceramica, a Fiera Catena, dove il Comune sta realizzando la nuova scuola.
   Lì, in una porzione di terreno che una volta era di proprietà dell'Università degli ebrei, gli scavi hanno fatto riemergere resti di vecchie sepolture. Vista la zona (poco distante c'è l'antico cimitero ebraico della città, un'ampia fetta che occupa buona parte dell'area su cui sorgono i capannoni di Mantova hub, a San Nicolò, in via di ristrutturazione da parte del Comune, oltre il muro di via Argine Maestro), si è pensato subito a scheletri di ebrei. Circostanza che ha fatto alzare la temperatura politica in Via Roma considerate le recenti polemiche scatenatesi tra opposizione e maggioranza sulla salvaguardia o meno di quel luogo di sepoltura.
«Stiamo facendo una valutazione di alto profilo scientifico su quei ritrovamenti - dice Barucca - ma siamo già in grado di dire che quelle ossa nulla c'entrano col cimitero ebraico». Gli scheletri sono stati trovati, infatti, nell'area tra l'ex ceramica e via Santa Marta, «fuori dall'antico cimitero», ritiene la sovrintendenza archeologica, belle arti e paesaggio.
   Una delegazione della comunità israelitica ultra ortodossa proveniente da Londra, che rivendica la proprietà dell'area cimiteriale e chiede che i lavori in corso siano bloccati, è venuta a Mantova di recente: «Insieme - racconta Barucca - abbiamo fatto un sopralluogo sull'area dove sono stati trovati i resti umani e l'abbiamo informata degli esiti dei nostri studi. Presto le faremo avere la nostra relazione attraverso il Comune. Se la comunità vorrà potrà confutarla, ma con un altro studio altrettanto approfondito».
   Per la sovrintendenza quelle ossa sono state ritrovate in una fossa comune e potrebbero avere a che fare con un'epidemia scoppiata secoli fa (la datazione precisa farà parte dello studio preannunciato). Il cantiere per la nuova scuola va avanti («anzi, stiamo accelerando» assicura l'assessore Martinelli), anche se la parte della fossa comune è stata dichiarata off-limits: le ossa continueranno a restare lì fino a quando non sarà del tutto chiarita la disputa con gli ebrei ultra ortodossi.
   Da quelle zolle di terra vicine all'ex ceramica, intanto, sono emerse altre vestigia del passato. D'altronde, quell'area nei secoli è tutta una stratificazione di insediamenti, dalla chiesa paleocristiana che ricorda il martirio di san Longino al cimitero ebraico, dalle testimonianza delle occupazioni asburgiche e napoleoniche fino al lager nazi-fascista. «Abbiamo ritrovato delle ceramiche molto interessanti risalenti alla fine del '400 e sino ai primi del '600 - annuncia il sovrintendente -. Sono pezzi quasi integri che faremo restaurare. Sono ritrovamenti importanti che accrescono le conoscenze del periodo. Siamo molto contenti di questa scoperta: è un modo per conoscere meglio la storia molto complessa e lunga di una parte importante della città».

(Gazzetta di Mantova, 6 luglio 2020)


No alle annessioni di Israele, ma le sanzioni sono un errore

di Yair Lapid*

Caro direttore, l'annessione unilaterale di zone della Cisgiordania è una cattiva idea. Tra l'altro, non rientra nemmeno nel piano proposto da Donald Trump. Ho lavorato personalmente con gli americani sul progetto in questione, e lo conosco da cima a fondo. L'annessione unilaterale sconfessa in tutto e per tutto il principio ispiratore del piano di Trump. Netanyahu si è limitato a selezionare due pagine dell'intera proposta, quelle che servono ai suoi scopi, e fa di tutto per farle approvare. Si direbbe quasi un programma economico che prevede unicamente spese, senza tener conto minimamente di dove si dovranno reperire le risorse.
  Secondo il piano originale, estendere la sovranità israeliana alla valle del Giordano e ai principali insediamenti dovrebbe far parte di un iter destinato a culminare nella creazione di due Stati, che vivranno affiancati: uno Stato palestinese smilitarizzato e uno Stato israeliano non più sottoposto alle minacce del terrorismo islamico. In un certo senso, il presidente Trump è riuscito in un'impresa che i suoi predecessori avevano ripetutamente mancato. Nel gennaio di quest'anno ha invitato Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca per una cerimonia ufficiale e l'ha convinto a riprendere in considerazione la soluzione dei due Stati. Da allora Netanyahu si sforza in ogni modo di fare marcia indietro: di qui le sue pressioni per l'annessione unilaterale di quei territori.
  I palestinesi respingono l'annessione perché respingono anche il piano di Trump. Io respingo l'annessione perché sono favorevole alle sue motivazioni di fondo, ovvero che la soluzione dei due Stati resta l'unica soluzione realistica al conflitto.
  La reazione europea alla possibilità di un'annessione si è tradotta in un'aspra protesta. Sono state dette molte cose, e non tutte lusinghiere nei nostri confronti. Ma lo accetto. Gli amici hanno il diritto, e spesso il dovere, di manifestare le proprie opinioni, e questo è quanto ho espresso di persona ai leader e ai diplomatici europei con i quali mi sono confrontato sull'argomento. Tuttavia, due sono le contestazioni che trovo inaccettabili.
  La prima è il tentativo di convogliare questo problema nell'area più vasta delle proteste globali contro il razzismo, innescate dalla tragica morte di George Floyd. Coloro che partecipano alle proteste per reclamare giustizia hanno però il dovere di attenersi ai fatti: il conflitto israelo-palestinese è una storia del tutto diversa. Israele non mette in campo i controlli di sicurezza perché è uno Stato poliziesco o per attuare una qualche versione di colonialismo moderno: l'unico e reale motivo è che in mancanza di una ferrea sicurezza in quest'area, noi israeliani saremmo tutti sterminati. Le organizzazioni terroristiche deIl'Islam radicale non hanno mai fatto mistero della loro volontà di cancellare Israele dalla faccia della Terra, e noi non possiamo dubitare della loro sincerità.
  Il confronto tra le vittime del razzismo e i sostenitori del terrorismo è un insulto alla lotta contro il razzismo. Nell'ultima occasione in cui ci siamo ritirati da parte dei territori occupati - dalla Striscia di Gaza nel 2005 - la reazione palestinese si è tradotta nel lancio di oltre quindicimila razzi contro i nostri cittadini. Ci tengo a ribadirlo, io sostengo la separazione dai palestinesi in due Stati distinti, ma nessuno ha il diritto di chiederci di rinunciare a proteggere il nostro popolo, lasciandolo in balia di coloro che hanno giurato di uccidere. Presupposto fondamentale alla creazione di uno Stato palestinese sarà il suo impegno a stabilire relazioni pacifiche e a controllare il terrorismo islamico all'interno dei suoi confini. È questa la nostra richiesta principale: l'onere della prova spetta ai palestinesi.
  La seconda iniziativa che trovo intollerabile è la minaccia di sanzioni. Israele non è l'Iran, né la Corea del Nord. Il semplice tentativo di classificarci tra quei Paesi appare demenziale: la Corea del Nord è il più vasto campo di prigionia del mondo intero, l'Iran il più grande esportatore di terrorismo. Israele, invece, è un piccolo Paese democratico che lotta per la sua sopravvivenza in circostanze incredibilmente difficili. L'idea che sette milioni di ebrei possano rappresentare un regime oppressivo in una regione popolata da un miliardo di musulmani, molti dei quali vogliono il nostro annientamento, risulta completamente assurda.
  Le sanzioni porteranno a una reazione diametralmente opposta alle intenzioni europee. I palestinesi diranno, e non per la prima volta, che non c'è motivo di tornare al tavolo dei negoziati perché sarà il mondo a occuparsene, applicando pressioni su Israele. L'impatto economico sarà limitato, perché Stati Uniti e gran parte dell'Asia non aderiranno alle sanzioni, e l'Europa resterà tagliata fuori, nell'impossibilità di esercitare una qualsiasi influenza sul conflitto.
  Peggio ancora, le sanzioni andranno a rafforzare l'estrema destra israeliana, che da molto tempo ormai va dicendo che non bisogna ascoltare i nostri amici in giro per il mondo, perché non abbiamo amici in giro per il mondo. Il loro mantra preferito è un versetto del Libro dei Numeri 23:9, che recita: «Ecco, è un popolo che dimora solo e non è contato nel numero delle nazioni». È, questa, una visione del mondo xenofobica e pericolosa, e mi auguro che l'Europa non intenda rafforzarla.
  Israele ascolta volentieri l'Europa, perché l'Europa sa fornire proposte intelligenti. Siamo partner commerciali delle nazioni europee e ne condividiamo i valori. Israele vede nell'Europa, e nell'Italia, un importante attore globale con forti legami con il Medio Oriente. Proprio perché respingo l'annessione unilaterale dei territori, mi adopero affinché il pubblico israeliano ascolti i messaggi lanciati dall'Europa, e lo faccio regolarmente. Coloro che ci minacciano di sanzioni non solo perderanno l'occasione di esercitare la loro influenza sul conflitto, ma dimostrano inoltre di non averne una chiara comprensione.
* Leader del partito israeliano Yesh Atid

(Corriere della Sera, 6 luglio 2020 - trad. Rita Baldassarre)



Duro attacco della Bild al "grottesco" voto anti-israeliano del Bundestag

"Quale pace metterebbe in pericolo Israele? Non c'è pace finché Hezbollah, Iran, Siria e Hamas mirano a cancellare lo stato ebraico dalla mappa, e l'Autorità Palestinese paga vitalizi ai terroristi".

Bild-Zeitung, il quotidiano tedesco a più larga diffusione, ha attaccato venerdì il parlamento di Berlino per la sua formale condanna di Israele a causa dell'intenzione di Gerusalemme di esercitare la sovranità su alcune parti del territorio conteso di Cisgiordania. "Un commento sulla decisione contro la politica di Israele: gli amici si trattano in un altro modo" recita il titolo del duro editoriale di Louis Hagen, che accusa il Bundestag (il parlamento federale tedesco) di aver preso di mira una sola disputa territoriale, quella israelo-palestinese, fra le oltre cento che si contano in tutto il mondo....

(israele.net, 6 luglio 2020)


Nel feudo Hezbollah a Beirut miseria e culto dei martiri. "Ma poi Teheran ci sfamerà"

Un intellettuale vicino al Partito di Dio: "Il Golan? Per ora va bene così"

BEIRUT - Gli edifici si fanno improvvisamente più malconci, alzi gli occhi e tra le case penzolano centinaia di fili elettrici mentre molti bambini che vedi giocare in strada sono scalzi. Appena varcato l'ultimo check-point verso il quàrtiere controllato da Hezbollah, nel settore meridionale della capitale libanese, il cambio di scenario è radicale. In questa zona di Beirut che conta un milione di abitanti la normalità è fatta di degrado, con paesaggi che dirigendosi verso la periferia si fanno sempre più miseri e più opprimenti. Risplendono soltanto ritratti del tanti leader e dei tanti martiri riconosciuti dall'organizzazione politico-militare sciita del Partito di Dio, dall'ayatollah Khomeini all'«eroe delle due guerre contro Israele» Imad Mughniyah. Li incroci ovunque, sulle pareti dei palazzi, sulle T-shirt che indossano i ragazzi o sul cruscotto delle auto, raramente sorridenti ma sempre con un'espressione assorta o accigliata, raffigurati in gigantografie, poster, murales o santini da tasca.
  Questo quartiere grande come una città si chiama Al Dahieh e a farci da guida è Ali Chahrour, proprietario di un negozio di articoli sportivi che in passato ha ricoperto un ruolo di amministratore locale. In ogni bar, negozio o famiglia dove ci accompagna raccogliamo le stesse drammatiche testimonianze sulle conseguenze della crisi finanziaria che da mesi strangola l'economia del Libano. «I prezzi di tutte le merci sono schizzati alle stelle e se le riparazioni e le manutenzioni possono aspettare, si deve pur mangiare due volte al giorno, perciò a casa mia da settimane ci nutriamo solo di riso e cetrioli», si lamenta un giovane meccanico. Ogni volta, prima di congedarci, Chahrour promette a tutti che entro un paio di settimane i problemi alimentari saranno finalmente risolti: «Hezbollah ha detto che distribuirà ai nostro popolo il cibo che sta arrivando dall'Iran».
  Con il Paese in bancarotta è fortemente cresciuto il numero di libanesi che vive sotto la soglia della povertà, passando dal 30% del 2019 al 45% di quest'anno e raggiungendo cioè statistiche da quarto mondo. Ed è in questo vasto quartiere che molti nuovi poveri sono appena stati recensiti. «Ma Hezbollah ci aiuta fornendo farmaci gratis e consentendoci dei prestiti a tassi ridicoli, e ciò non dall'inizio della crisi attuale ma da decenni » , aggiunge Chahrour che nutre nei confronti del Partito di Dio una sorta di venerazione mista a una buona dose di paura. Tanto che non osa neanche avvicinarsi al suo quartier generale con a bordo della sua auto un giornalista occidentale, per di più senza il permesso d'ingresso nel quartiere rilasciato dal servizio stampa dell'organizzazione. Finalmente lo convinciamo a fermarci davanti a una sorta di sala concerti dove Hezbollah organizza i suoi meeting pubblici. Tre uomini dall'aspetto ferino ma dai modi cordiali ci parcheggiano per più un'ora in un ufficio polveroso, nella sede che in un'altra era ospitava il Collège Saint Joseph, per poi Informarci che nessun rappresentante è autorizzato a incontrarci. Lo stesso accade poco dopo alla sede dell'emittente di Hezbollah, l'Al Manartv, riconosciuta come «entità terroristica globale» e bandita dagli Stati Uniti nel 2004.
  Riusciamo finalmente a intercettare Kassem Kassir, un intellettuale molto vicino a Hezbollah, secondo il quale tutte le colpe della crisi sono ascrivibili alla perfidia di Washington: "Vuole punire il governo di Hassan Diab perché è appoggiato da Hezbollah, ma così facendo colpisce tutti i libanesi. Ciò significa che per trovare una soluzione ci rivolgeremo a Paesi quali Russia, Cina e Iran». Quando gli chiediamo se, dopo la vittoria in Siria dove assieme a Mosca e Teheran ha salvato il presidente Bashar al Assad. L'esercito di Hezbollah aprirà un secondo fronte contro Israele sul Golan, Kassir è categorico: «No, in quella regione c'è una stabilità che ci soddisfa Entreremo in guerra solo se saranno gli israeliani a cambiare le carte. Quanto alla Siria, siamo determinati a rimanerci, anche se i russi vorrebbero limitare le nostre azioni militari e quelle dei nostri amici iraniani», L'ultimo martire entrato nel pantheon sciita è il generale iraniano Qasem Soleimani che, secondo voci non confermate, gli americani avrebbero ucciso lo scorso gennaio all'aeroporto di Bagdad perché stava preparando un grosso attentato proprio a Beirut per poi addossarne la colpa agli Stati Uniti. Convocato dalla guida suprema Ali Khamenei, sempre più preoccupata per le rivolte sociali che in autunno agitavano oltre all'Iran anche gli altri due Paesi satelliti della Repubblica islamica, ossia il Libano e Iraq, Soleimani le avrebbe proposto con un attacco particolarmente' cruento di dirottare la rabbia nata contro le autorità verso il nemico di sempre, ossia l'America.

(la Repubblica, 6 luglio 2020)


Coronavirus, Netanyahu: Israele in stato emergenza

Israele si trova "in stato di emergenza". Lo ha detto il premier Benjamin Netanyahu a fronte dell'attuale seconda ondata di infezioni da coronavirus.
"Siamo in stato di emergenza - ha sottolineato in apertura della riunione di governo a Gerusalemme - e non possiamo ritardare la legislazione sulle misure da adottare. Dobbiamo andare avanti e fermare la diffusione".
La pandemia di coronavirus si estende in questi giorni con un ritmo molto simile sia in Israele sia fra i palestinesi in Cisgiordania, destando analoga apprensione fra i rispettivi responsabili sanitari.
In Israele, precisa il ministero della sanità, i casi positivi sono saliti oggi a 29.366: sono seimila in più rispetto ad una settimana fa e 1.800 in più rispetto a due giorni fa. I malati sono adesso 11.189: fra i casi più gravi se ne sono aggiunti 40 dall'inizio di luglio. I decessi sono adesso 330 mentre le guarigioni sono arrivate a 17.847. Nei test condotti fra ieri e oggi è stato rilevato un tasso di contagio di circa il 5%. Due settimane fa era del 2%.
Situazione simile fra i palestinesi di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est dove, secondo l'agenzia di stampa Wafa, il numero dei casi positivi è salito a 4.250, il doppio di una settimana fa. I malati sono pure raddoppiati e sono ora 3.594. Nello stesso lasso di tempo i decessi sono quasi triplicati, passando da 7 a 19. La maggioranza assoluta di questi casi è in Cisgiordania, mentre a Gaza la situazione resta sotto controllo.

(swissinfo.ch, 5 luglio 2020)


Più dell'odio online è da temere la censura del web

di Ugo Volli

La pandemia ha evidenziato a tutti l'importanza della comunicazione online e dei social: non fabbriche di "fake news" o di "demenza digitale", come hanno pontificato alcuni ignoranti (o interessati) nostalgici del tempo passato, ma strumenti essenziali di comunicazione, che rimediano all'inadeguatezza dei media tradizionali, ormai quasi tutti dediti non a informare i loro lettori ma a "educarli", naturalmente in favore della vecchia egemonia politica globalista e per questa ragione non creduti dal pubblico (due italiani su tre non si fidano dei giornali) e in totale collasso di diffusione (le vendite dei quotidiani italiani sono calate del 75% circa negli ultimi quindici anni). Il meccanismo della rete e soprattutto dei social media è diverso, perché temi, notizie e tesi diffuse non sono scelti dall'alto, ma dipendono dalla "votazione continua" dei lettori che li condividono o meno. Il risultato, naturalmente è pluralista e magari anche confuso e cacofonico, con punte interessantissime e utili e altre disgustose. Di fronte a questa possibilità di diffusione di pensieri incontrollati, dittature come l'Iran o la Cina hanno subito organizzato censura e repressione. Ora però anche nelle democrazie occidentali si sollecita la censura, con il pretesto di reprimere "l'odio" (che però compare secondo una recente ricerca solo sul 3,7% dei post su Twitter, con una netta maggioranza di insulti privati o sportivi e una presenza assai di contenuti razzisti o antisemitici.
   E' accaduto perfino che un gruppo importante di aziende internazionali (fra cui Coca Cola, Starbucks, Verizon ecc.) hanno dichiarato il boicottaggio di Facebook perché non ha censurato dei post di Trump contro le agitazioni violente delle ultime settimane in Usa. E' un fenomeno su cui bisogna riflettere, perché segna una inedita scivolata verso la politica di aziende commerciali, e perché questo impegno non è altro che una richiesta di censura. Alcune organizzazioni ebraiche americane hanno appoggiato questo boicottaggio, probabilmente con l'illusione di bloccare l'antisemitismo. E' un errore. Chi vuole il boicottaggio di Trump sono gli antisemiti di Black Lives Matter. Come sempre, la sicurezza degli ebrei non è separabile dalla libertà di tutti.

(Shalom, 5 luglio 2020)


Quel rastrellamento dell'élite ebraica

Parigi, 1941

di Beda Romano

In un libro di poco più di 100 pagine la giornalista francese Anne Sinclair è tornata a scavare nei destini drammatici della sua famiglia per illuminare un episodio della Seconda guerra mondiale caduto nell'oblio. In 21, rue de la Boétie, pubblicato in Italia da Skira nel 2012, aveva raccontato la vita affascinante e avventurosa del nonno materno, il commerciante d'arte Pierre Rosenberg.
   In La rafle des notables affronta un particolarissimo rastrellamento di ebrei nella Francia occupata, di cui fu vittima questa volta il nonno paterno, Léonce Schwartz.
   Il 12 dicembre 1941, 743 ebrei, tutti uomini, furono arrestati a Parigi dalla polizia francese e da soldati della Wehrmacht, inviati nel campo di concentramento tedesco di Compiègne, la cittadina a 90 chilometri dalla capitale in cui 20 anni prima era stato firmato l'armistizio della Grande guerra. Non ebrei qualsiasi, ma notabili (einflussreiche Juden). Tra i prigionieri, c'erano 390 commercianti e direttori d'impresa, 322 artigiani, 91 ingegneri, 63 medici, 33 farmacisti, 31 studenti, 27 professioni liberali, 16 avvocati, 11 professori e 53 senza professione.
   La scelta tedesca era eminentemente politica: confermare il ruolo influente della borghesia ebraica e alimentare l'idea di un suo presunto complotto per dominare il mondo. Dei 743 prigionieri, 13 erano polytechniciens e 55 insigniti della Legion d'Onore. Pur di raggiungere la cifra simbolica di l.000 prigionieri, i tedeschi decisero di aggiungere al gruppo dei notabili francesi altri 25o ebrei giunti in Francia nei mesi e negli anni precedenti, in fuga dai pogrom dell'Europa orientale.
   Oltre alle terribili condizioni fisiche e sanitarie, Anne Sinclair racconta nel suo breve volume le incomprensioni tra due comunità molto diverse tra loro, in termini di classe sociale, di esperienza personale, ma anche nel loro rapporto al giudaismo. Più laici e francesi i primi, più religiosi ed erranti i secondi. Addirittura, notava Edouard Laemlé, ai tempi presidente di sezione della Corte d'Appello di Parigi: «Siamo ebrei solo dal momento in cui ce lo viene rimproverato». Molti israeliti francesi reagirono increduli e risentiti al nuovo antisemitismo nel loro Paese.
   Noto avvocato d'assise, insignito della Croce di Guerra e della Legion d'Onore, Pierre Masse si rivolse al Maresciallo Pétain: «Le sarei grato - scrisse - di indicarmi se devo andare a ritirare i galloni di mio fratello, sottotenente nel 36° reggimento di fanteria, ucciso a Douaumont nell'aprile del 1916; di mio genero sottotenente del 14° reggimento dei dragoni, ucciso in Belgio nel maggio del 1940; di mio nipote J.P. Masse, tenente nel 23° coloniale, ucciso a Rethel nel maggio del 1940».
   Nei tre mesi di prigionia, tra il dicembre del 1941 e il marzo del 1942, i detenuti organizzarono conferenze serali, quasi a esorcizzare la crudeltà e l'orrore. Il geografo Jacques Ancel analizzò per i suoi compagni di detenzione l'idea Classe 1948. La giornalista e scrittrice Anne Sinclair di nazione; l'ingegnere Louis Engelmann dette una lezione sull'elettricità; l'uomo di teatro René Blum, fratello di Léon, si concentrò sulla letteratura di Alphonse Allais, Tristan Bernard e Georges Courteline; il romanziere Jean-Jacques Bernard optò per la poesia francese del Medioevo.
   «La fame e la malattia provocavano le stesse devastazioni che nei campi in Polonia - analizzò lo storico e avvocato francese Serge Klarsfeld -. Ma in un Paese che non aveva una attiva politica di stermino e dove la popolazione era più o meno ugualmente educata, Cornpiègne era un campo nel quale si scriveva molto. Era uno dei pochi modi per non impazzire». Nella sede del Memoriale della Shoah di Parigi sono custodite decine di lettere e di testimonianze dal "campo della morte lenta", per usare il titolo delle memorie scritte nel 1944 dallo stesso Jean-Jacques Bernard.
   Dei rappresentanti dell'élite ebraica francese incarcerata per oltre tre mesi a Compiègne, alcuni furono liberati, la maggioranza fu inviata ad Auschwitz. Il nonno dell'autrice, Léonce Schwartz, era un commerciante all'ingrosso di pizzi e merletti che aveva i suoi uffici in rue d'Aboukir, nel 2° arrondissement di Parigi. Fu liberato perché troppo malato, spossato dalle condizioni faticosissime della detenzione. Mori delle conseguenze della prigionia all'età di 67 anni, il 16 maggio 1945, giusto in tempo per celebrare la fine del conflitto.
   
(Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2020)


Yemen, "La tempesta perfetta" creata dalla guerra civile tra sciiti e sunniti e dalla pandemia

Il terribile quadro disegnato dal report dell'UNICEF, concentrato sulla sorte di oltre 2 milioni e mezzo di bambini, divenuti "carne da macello" in quello scenario.

  ROMA - A scadenza periodica, sempre più ravvicinata, si susseguono dossier e richiami riferiti alla catastrofe umanitaria inimmaginabile che si sta consumando nello Yemen nell'indifferenza, tra l'attonito e il cinico, del resto del mondo. La "tempesta perfetta" è stata definita in un articolo di Piero Orteca su RemoContro - il blog aperto che si avvale di numerosi contributi, coordinato da Ennio Remondino - una tempesta maturata in cinque anni di guerra civile, serviti a formare una miscela micidiale di eventi devastanti che, al conflitto interno si sono sommati: la pandemia dilagante aggiunta all'impossibilità delle organizzazioni umanitarie di svolgere anche al minimo il loro lavoro di aiuto e assistenza alla popolazione. Un report recente dell'Unicef, segnala tutto questo e sottolinea soprattutto il coinvolgimento di oltre 2 milioni e mezzo di bambini.

 Religione: scusa di potere, per una partita mortale.
  "Lo scontro titanico tra l'Universo sciita e la galassia sunnita - scrive Piero Orteca* - messo in moto dalla deriva delle Primavere arabe, sta creando grossi grattacapi alla diplomazia internazionale. Basta guardare le cartine geografiche per rendersi conto di come l'area di crisi si sia progressivamente spalmata fino a coinvolgere paesi e regioni diversissimi. In un primo momento era sembrato che la politica internazionale avesse messo una pezza. Ma poi tutto è tornato ad andare a gambe per aria. Nella penisola arabica le superpotenze giocano una partita mortale, in una sorta di terra di nessuno. I mutevoli equilibri delle Cancellerie internazionali provocano spesso crisi di sistema e vuoti di potere che difficilmente si riescono a riempire".

 Schieramenti noti e partite occulte
  "Gli schieramenti dietro le quinte sono arcinoti - si legge ancora su RemoContro - e rendono conto e ragione dell'estrema difficoltà di ritrovare il bandolo della matassa. Da un lato l'Iran tira la corda sperando di mettere l'Arabia Saudita con le spalle al muro, ma proprio per questo le tensioni che circondano il conflitto sono sempre più esacerbate. Strategicamente stiamo parlando di un'area in cui passa almeno il 40 per cento dell'energia mondiale. Dallo Stretto di Hormuz a quello di Bab- el- Mandeb tutta l'area geografica sottoposta a quotidiane tensioni rischia di esplodere improvvisamente, determinando potenziali conflitti di cui non si intravede la fine. Nel ballo c'entrano tutti, per motivi diversi, a cominciare dagli israeliani. Per questo, spesso siamo costretti ad assistere a rovesciamenti di alleanze e a prese di posizione che fino a dieci anni fa sarebbero stati inimmaginabili".

 Vergogna del mondo
  "Adesso - sottolinea Orteca - il rapporto dell'Unicef mette un punto fermo per una catastrofe che definisce, senza esitazioni, 'la peggiore del mondo'. Il problema vero è che l'emergenza pandemica ha fatto saltare il banco della diplomazia, alterando tutta la scala delle priorità. Ormai si parla solo di straforo e negli articoli di 'piede' della situazione in Medio Oriente e dei conflitti che lentamente, ma inesorabilmente, covano sotto la cenere della storia. Tutti i servizi segreti occidentali sono in allarme, perché per i jihadisti proprio questo della pandemia è il momento migliore per colpire. Ogni Paese è indaffarato incredibilmente con l'emergenza sociale e sanitaria e spazi per preoccuparsi delle altre crisi ne restano veramente pochi".

 Massa di profughi interni
  Tra le altre cose, il rapporto dell'Unicef, molto dettagliato, analizza anche la situazione degli 'Internally Displaced (gli sfollati interni) cioè di quella ingente massa di profughi che hanno abbandonato le loro case. Naturalmente - prosegue l'articolo di RemoContro - il problema principale, in questa fase, è quello delle risorse alimentari e delle medicine. Si parla di un pacchetto di aiuti da stanziare immediatamente che potrebbero arrivare quasi fino a 60 milioni di dollari. Certo, inutile nascondersi il fatto che la soluzione umanitaria è legata a filo doppio a quella politica e che se non verranno raggiunti accordi onnicomprensivi anche su altri scacchieri, pure la guerra Yemenita rischia di durare fino alle calende greche".

 Medio Oriente follia e prepotere
  "In questa fase - scrive ancora Orteca - il principale ostacolo diplomatico sembra essere quello di trovare un'intesa affidabile sul dopo Siria. Una volta scompaginata la Nazione di Assad dalla terribile guerra intestina, diventa difficile rimetterne assieme i cocci. Anche perché sul terreno sono prepotentemente ricomparse realtà, come quella dei Curdi che è assolutamente impossibile ignorare. E anche qui il gioco si fa incredibilmente complicato. Tira di qua e tira di là, nella partita sono entrati nuovi attori di cui bisogna tenere conto, a cominciare dai Turchi. Di questo passo, i bambini yemeniti, purtroppo sembrano destinati a diventare carne da macello".

(la Repubblica, 5 luglio 2020)


Tradizione ebraica in Uzbekistan

Lettera da Bukhara. Abram Ishakov guida una delle più antiche sinagoghe del mondo: insegna la tolleranza e preserva la memoria, anche pubblicando su Facebook preghiere e canti nella loro particolare lingua «Ho sofferto rigidità e chiusure, non voglio vedere un ebreo imporle ad altri».

di Laura Leonelli

Abram Ishakov
Leggi le cronache dei viaggiatori e immagini il labirinto di stradine, sempre più piccole, sempre più oscure anche in una mattina di cielo terso, e immagini di perderti perché è così che si raggiunge la meta, finché per caso arrivi davanti a una porta bianca, chiusa naturalmente, e ti guardi smarrita alla ricerca di qualcuno, bambino o bambina, hai letto anche di loro, che ti permetta di entrare in quel tempio di fede e resistenza. Invece basterebbe partire dalla piazza principale, la storica Lyabi-Hauz, e alla splendida sinagoga di Bukhara e ai suoi quattrocento anni di storia si arriva in un attimo, senza fatica. Di questa vicinanza al centro culturale, politico e religioso, visto che intorno alla stessa piazza si aprono due madrase meravigliose, ne parla con impagabile tranquillità Abram Ishakov, settant'anni, giornalista da quando ne aveva trenta e dal 2018 capo della comunità ebraica di Bukhara, in Uzbekistan, una delle più antiche al mondo, discendente da due delle tribù perdute di Israele, Neftali e Issachar, fuggite alla distruzione di Gerusalemme nell'VIII secolo a.C. Duemila e ottocento anni di storia e mai una volta che sia comparsa la parola ghetto, neppure ai tempi del comunismo. «Il nostro è il quartiere ebraico», dichiara il rabbino.
  Quando si aprono le famose porte, incorniciate da greche di mattoni al vivo e quasi ripensi allo straordinario Mausoleo di Ismail Samani a pochi minuti da lì, appare un cortile su cui si affacciano la sinagoga invernale, sulla destra, e quella estiva sul lato opposto, e la prima persona che Ishakov presenta è il custode, musulmano, come il collega che si prende cura dell'antichissimo cimitero ebraico, questo sì non facile da raggiungere. Sulle pareti all'ingresso del tempio appaiono le fotografie dei visitatori celebri, e accanto a uno straripante Gérard Depardieu sorridono Hillary Clinton, Christine Lagarde, Madeleine Albright. Leggenda vuole, e di questo aveva scritto in un articolo l'allora giornalista Ishakov, che Albright, ai tempi Segretario di Stato degli Stati Uniti, durante l'incontro a Sharm et Sheik nel 2000 avesse invitato Ehud Barak e Yasser Arafat «a imparare a vivere insieme come fanno gli ebrei e i musulmani di Bukhara».
  Fosse stato un memorialista del XVII secolo, Abram avrebbe raccontato di una comunità di quasi 25mila ebrei e delle sessanta sinagoghe che benedivano ogni parte della città. Qualche secolo dopo avrebbe scritto dei discendenti di quegli stessi ebrei che dominavano i banchi del bazar, possedevano il segreto per tingere la seta e alla testa di infinite carovane di cammelli attraversavano l'Afghanistan, superavano il Pamir e raggiungevano la Cina. Le persecuzioni coincidono con il lungo potere degli emiri, quando agli ebrei non è permesso neppure andare a cavallo e camminare all'ombra.
  A metà dell'ottocento arrivano i russi, gli ebrei riprendono a vivere, quindi è la volta dei comunisti e a questo punto Abram Ishakov parla in prima persona: «Il periodo più brutto della nostra storia è stato sotto l'Unione Sovietica. Nessuno, tranne i vecchi, poteva andare in sinagoga, e mi ricordo che mia madre si svegliava alle due di notte per andare di nascosto a comprare carne kosher. Ti scoprivano, finivi in prigione». E questo spiega perché a partire dagli anni 70, quando la pressione si alleggerisce, inizia l'esodo verso Israele e gli Stati Uniti. «I miei genitori sono partiti nel 1979, io invece non sono mai potuto andare a trovarli. Qualche tempo prima la sorella di mio padre, che aveva raggiunto Tel Aviv alla fine della Seconda guerra mondiale, era riuscita a mandarci qualcosa: una maglietta e un paio di occhiali da sole. Come tutta la posta dall'estero, anche quel pacco era stato controllato, un ufficiale del Kgb si era presentato a casa nostra e ci aveva obbligato a rispedire al mittente quel semplice regalo, e scrivete ai vostri amici capitalisti imperialisti che qui non abbiamo bisogno di niente».
  Cinquant'anni dopo, oggi, gli ebrei di Bukhara sono poche centinaia, un nulla se paragonati ai 50mila abitanti della Bukharlem newyorkese, nel Queens, o ai 100mila che vivono in Israele. Ma se l'indipendenza dell'Uzbekistan non ha scatenato la violenza contro le minoranze come ci si aspettava - e di questo Ishakov ringrazia apertamente Islom Karimov, che nei suoi venticinque anni di dittatura «ci ha trattato bene» - paradossalmente la minaccia è diventata interna, ed è da un lato la perdita di memoria e dall'altro la presenza askenazita sempre più consistente. E intollerante. «La nostra storia inizia con la nostra Torah, che nel 1200 è partita da Babilonia, è passata dall'Iraq all'Iran, all'Afghanistan, ed è arrivata qui», prosegue Ishakov. Nel 1793 da Safed, nell'Alta Galilea, era giunto nella stessa sinagoga e aveva letto quegli stessi rotoli in pelle di daino il rabbino Joseph Mamam al-Maghribi, spinto dai suoi concittadini a cercare aiuto in tempi di carestia. Ma dopo aver viaggiato in Siria, in Turchia, in Persia, qualcuno lo aveva convinto a visitare gli ebrei di Bukhara, così isolati da aver dimenticato i fondamenti del culto. Accompagnato dal mullah in veste di interprete, al Maghribi, nel nome la nascita a Tetouan, accetta l'invito, rimane a Bukhara trent'anni, apre diverse scuole e grazie a lui la comunità rinasce nel segno della tradizione sefardita. «In qualche modo sono ripartito da questa figura straordinaria - riprende Abraham - perché oggi il problema non è l'isolamento, mala dispersione e ogni giorno sulla mia pagina Facebook pubblico le preghiere e i canti tradizionali nella nostra lingua, che è un misto di persiano, ebraico, con un po' di russo e uzbeko».
  I lettori più assidui sono gli americani, e Ishakov s'indirizza a loro con enfasi perché più di tutto teme il movimento ortodosso di Chabat-Lubavitch, che ha il suo quartier generale a Brooklyn e che cerca proseliti in Asia Centrale. «Non è così che vediamo le cose da noi, non è questo lo spirito che anima la nostra scuola, aperta a tutti, quattrocento allievi ebrei e musulmani che studiano insieme. La rigidità, la chiusura, l'intolleranza le ho viste, le ho sofferte, e non voglio vedere un ebreo che le impone agli altri». Forse per questo quando il rabbino della sinagoga di Bukhara riceve una lettera da sua figlia che vive in Australia, da suo fratello che si è trasferito a Tel Aviv, o da altri parenti in America, risponde che no, grazie, non vuole partire. «Lontano da qui, dice, sarei un Abram come milioni di altri». A Bukhara la situazione è interessante. E se lo dice un ex giornalista c'è da credergli.

(Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2020)



Antisemitismo e omofilia

Antisemitismo e omofilia
sono due binari paralleli
su cui l'umanità ribelle e peccatrice
corre veloce verso la resa dei conti
con l'unico Dio Creatore e Legislatore.


*


Salvatevi da questa perversa generazione

“E Pietro disse a loro: Ravvedetevi, e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Poiché per voi è la promessa, e per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore Dio nostro ne chiamerà. E con molte altre parole li scongiurava e li esortava dicendo: Salvatevi da questa perversa generazione.”
dal libro degli Atti, cap.2

 


Fatah e Hamas uniti contro le annessioni israeliane

Le due fazioni palestinesi pronte a presentare un loro piano di pace.

 
«Annunciamo oggi un'intesa per abbattere il piano di pace del presidente statunitense Donald Trump». Queste le parole pronunciate ieri a Ramallah da Jibril Rajoub, il segretario del Comitato centrale di Fatah (il partito del presidente Mahmoud Abbas). In collegamento da Beirut c'era il vice capo di Hamas Saleh al-Arouri. I due esponenti delle principali fazioni palestinesi hanno spiegato che presenteranno un piano comune per combattere le annessioni israeliane unilaterali di parte dei Territori palestinesi e rilanciare l'opzione dei due stati.
   Si è trattato di un fatto inedito. Fatah e Hamas sono da molti anni fazioni rivali. Un fatto che ha determinato la spaccatura amministrativa dei Territori della Palestina, con Hamas al comando nella striscia di Gaza e Fatah nel resto dei Territori.
   A fronte delle intenzioni del nuovo governo Netanyahu, le due fazioni hanno ripreso a dialogare. «Lo sforzo — ha detto Rajoub chiamando "fratelli" i membri di Hamas — si basa sulla resistenza popolare con la partecipazione di Fatah, Hamas e di tutte le fazioni in modo da fronteggiare nella prossima fase l'annessione se l'occupatore decide di metterla in pratica». Rajoub ha poi sottolineato che «il momento attuale è il più pericoloso per il popolo palestinese» e che «la battaglia va combattuta tutti insieme». L'obiettivo, oltre la sconfitta del piano Trump, «è uno stato palestinese indipendente e sovrano nei confini del '67 e la risoluzione della questione dei rifugiati conformemente alle risoluzioni internazionali» ha affermato l'esponente di Fatah. L'esponente di Hamas ha dal canto suo sottolineato che la riunione di Ramallah è «l'opportunità per avviare una nuova fase a servizio del popolo palestinese in questo tempo pericoloso». «Il nostro forte e chiaro messaggio ai palestinesi, ai nostri nemici e al mondo intero che parte da questo incontro è che noi — ha insistito — siamo uniti contro l'annessione. Noi, dall'interno dell'intera Palestina e da fuori, stiamo combattendo contro l'annessione. Questa è la posizione dell'intera leadership di Hamas». «Occorre sconfiggere il piano del presidente Trump. Lo abbiamo fatto in passato — ha concluso — e lo faremo di nuovo».
   Da segnalare che all'incontro ha preso parte anche Ayman Odeh segretario della Lista Araba Unita, terzo partito alla Knesset, il Parlamento israeliano. Odeh ha chiarito che la sua presenza alla conferenza di Ramallah è a «sostegno della riconciliazione palestinese. Questa è un passo necessario per combattere l'annessione, mettere fine all'occupazione e raggiungere una pace giusta». Queste parole sono state duramente contestate dal partito Likud guidato dal premier Netanyahu.

(L'Osservatore Romano, 4 luglio 2020)


Si conferma ancora una volta che l’unico sentimento che affratella il “popolo palestinese” e la "Lista Araba Unita" è l’odio per Israele.


Israele: seconda ondata covid, restrizioni per bar e sinagoghe

di Giacomo Kahn

La seconda ondata di coronavirus che ha colpito Israele ha costretto il governo a riadottare misure restrittive: sinagoghe, bar, club e sale per eventi potranno ospitare al massimo 50 persone, mentre negli altri spazi al chiuso, case comprese, il numero ammesso scendera' a 20. Quanto ai ristoranti, la decisione e' stata rinviata di alcuni giorni dal momento che non c'e' accordo tra il ministero della Salute e quello delle Finanze. "Il virus non se ne e' andato, e' ancora qui e colpisce", ha sottolineato il premier Benjamin Netanyahu, presentando le nuove misure. "Cerchiamo sempre un equilibrio tra il virus e l'economia: la piu' semplice e' lasciare le cose come stanno, tutto aperto, tutti soddisfatti ma se lo facciamo, perderemo ben presto il controllo", ha sottolineato, conscio delle preoccupazioni per le conseguenze economiche di nuove chiusure. "Al ritmo attuale, quelli che sembrano numeri ragionevoli si trasformeranno decine di migliaia di contagi. Non possiamo permettercelo", ha concluso.
Secondo i dati forniti dal ministero della Salute israeliano, citati dal 'Jerusalem Post', ieri sono stati diagnosticati 1.107 contagi da Covid-19 ed altri 76 casi sono stati accertati dopo la mezzanotte. Inoltre si sono contati altri 325 decessi legati al virus. Tra i 9.618 pazienti, circa 70 sono in gravi condizioni. In Israele finora ci sono stati in tutto 27.047 casi di Covid-19 e 324 morti.

(Shalom, 3 luglio 2020)


Israele, Storico accordo con azienda degli Emirati Arabi

La lotta al coronavirus fa tranquillamente a meno della politica.

La lotta al coronavirus fa tranquillamente a meno della politica. Israele ed Emirati Arabi Uniti - che da sempre, nonostante recenti avvicinamenti, non hanno alcun rapporto diplomatico ufficiale - hanno appena raggiunto un accordo per sviluppare ricerche e tecnologie comuni nella battaglia contro l'infezione da Covid-19. Il nuovo scenario è passato attraverso la firma di una intesa tra aziende di primo piano dei rispettivi Paesi: 'Gruppo 42' (G42), di stanza ad Abu Dhabi e che si occupa di intelligenza artificiale, e 'Rafael Advanced Defense Systems' insieme alle 'Israel Aerospace Industries' (Iai), ovvero la punta di diamante, anche militare, della tecnologia dello stato ebraico. Un accordo definito "storico" da tutte le parti in causa ma di cui per ora non si sa molto per contenuti e sostanza, visti i rispettivi campi di intervento dei gruppi coinvolti.
   "A G42 - ha detto l'azienda degli Emirati, riferita dai media - abbracciamo in pieno la cooperazione internazionale come maniera di sviluppare soluzioni tecnologiche innovative per il bene pubblico. Siamo onorati di seguire l'esempio, condividere risorse e conoscenze con Rafael e Iai per una causa così significativa". Non da meno è stata l'Iai: "Abbiamo firmato un storico accordo di cooperazione - ha sottolineato la società - La lotta al coronavirus attraversa i continenti, le nazioni e le religioni. E noi assegniamo la massima importanza alla cooperazione nell'ottenere soluzioni innovative"."Siamo fieri di unirci a G42 degli Emirati e ci auguriamo che questo - ha concluso Iai - conduca ad una futura collaborazione tra le nostre due nazioni".

(ANSA, 3 luglio 2020)


Genio compreso

Intervista a Noma Bar, da Israele al mondo: «Uso il graphic design per raccontare la vita e la nostra modernità. L'esistenza è fatta di opposti, siamo chiamati a farli convivere».

di Ilaria Myr

Noma Bar
Le sue immagini sono il "catalogo illustrato" della nostra contemporaneità. Immediate, fulminee, capaci di colpire al cuore un personaggio, una situazione: una sensibilità simbolica unica. Nato in Israele, 47 anni, Noma Bar è tra i graphic-designer più celebrati al mondo, un talento sbocciato dall'humus di un Paese in cui convivono parti contrapposte in cerca di un punto d'incontro: la dimensione degli opposti e del "positivo/negativo", la lettura sia da destra, sia da sinistra, sono la chiave della sua "estetica". Ha firmato campagne per la Coca Cola, sono sue le copertine dei libri di Murakami Haruki e Margaret Atwood, solo per fare due nomi, e quelle di grandi magazine internazionali, oltre a manifesti per iniziative sociali e di charity. Un'intervista.
La faccia di Saddam Hussein in cui campeggia il simbolo della radioattività; Donald Trump con il ciuffo biondo con la forma dell'uccellino di Twitter (social adorato dal presidente Usa). E ancora: il volto di Ahmadinejad con il naso a forma di missile. Ma anche sagome di cani da cui emerge la forma di un gatto, profili di agnelli da cui spunta un lupo affamato… Chi non ricorda di aver visto almeno una di queste illustrazioni, tanto divertenti e curiose quanto eloquenti, sulle copertine di magazine, di libri (primi fra tutti quelli di Haruki Murakami), o in campagne pubblicitarie? Ad accomunarle, il tratto inconfondibile del geniale illustratore e designer israeliano Noma Bar, al secolo Avinoam Bar, da vent'anni sempre più richiesto da editori e agenzie pubblicitarie. Ha firmato campagne per la Coca-Cola - raffigurando anche le città italiane sulle bottiglie -, ha ritratto politici e dittatori (oltre ai già citati, anche Condoleeza Rice, Angela Merkel, Vladimir Putin, Adolf Hitler) - cantanti e attori (Michael Jackson, Bob Marley, Audrey Hepburn, Charlie Chaplin), ma anche protagonisti delle fiabe (Cappuccetto Rosso che spunta dalla bocca del lupo) e tanti animali (conigli in cui si nascondono tartarughe, elefanti con topolini…). Nel periodo della pandemia, con grande gesto di generosità, ha donato alla Comunità ebraica di Milano una sua immagine per illustrare la raccolta fondi post Coronavirus, e per questo gli siamo profondamente grati. Non potevamo quindi lasciarci sfuggire la possibilità di intervistarlo e di conoscere direttamente dalla sua viva voce (letteralmente) come nasce il suo lavoro e quanto di Israele e della sua identità ebraica vi è contenuto. Qui il resoconto di una piacevole chiacchierata su Zoom.

- Innanzitutto, grazie per averci donato l'immagine per la nostra raccolta fondi…
  Ci mancherebbe. Appena me lo avete chiesto ho subito accettato, è la mia donazione per la vostra comunità ebraica. Il graphic design ha anche questa funzione: sostenere le persone.

- Come definiresti il ruolo dell'illustratore nella società contemporanea?
  Ci sono diverse funzioni. La prima è fare informazione, creare awareness: ad esempio, come nella copertina che ho realizzato per Internazionale, con la forma del coronavirus creata da tanti individui che si tengono per mano. Quando ho realizzato quella cover - il cui articolo era scritto da Yuval Noah Harari - la pandemia era all'inizio e la situazione non era affatto buona. L'immagine rappresenta il virus come una specie di sole distorto: ed è interessante vedere quante nuove icone e parole siano nate in questo periodo. Chi l'ha mai visto il virus? Ho quindi scelto di crearlo con l'unione delle mani di tante persone messe in cerchio, che si uniscono in un messaggio di speranza, un "power to the people" contro questo nemico invisibile, come se stessero vincendo. O anche nella campagna "Superhero" per la compagnia assicurativa Mucinex destinata agli adolescenti: un invito a stare in casa durante la quarantena (cosa difficile per i teenager) e, salvando così delle vite umane impedendo la diffusione del contagio, diventare degli eroi. Un altro aspetto del mio lavoro è intrattenere le persone con immagini che riflettono la situazione come attraverso uno specchio: mostrare come in tutto ci possano essere due aspetti diversi, spesso contrapposti.

- Positivo e negativo sono appunto molto presenti in tutti i tuoi lavori: sempre due prospettive diverse, spesso opposte. Da dove ti viene questo approccio?
  Io vengo da Israele, un paese in cui da sempre convivono due parti, e in cui dobbiamo sempre confrontarci con "l'altro". Già quando ero studente ho realizzato alcuni progetti sul conflitto israelo-palestinese, con animazioni dominate dagli opposti: il bianco e il nero che si scontrano e che reinventano l'ordine. Se ci pensi, succede sempre così anche nella vita: quando respiriamo l'aria, ad esempio, si incontrano il dentro e il fuori del nostro corpo. Sono molto attirato dal trovare sempre il punto di incontro fra gli opposti, la vita e la morte, il dentro e il fuori, il bianco e il nero. E sì, sicuramente questo approccio ha le radici nella mia identità ebraico-israeliana. Se poi si pensa che sono nato durante la guerra di Yom Kippur, si capiscono meglio i disegni che facevo già a cinque anni: soldati a terra, ossa che cadono dagli aerei… Probabilmente c'è un trauma che mi porto dietro e che oggi si traduce nelle mie opere, nella compresenza di humour e surrealismo. È lo spirito agro-dolce, che ci fa sorridere e fare humour anche nei momenti difficili.

- È vero che una delle tue illustrazioni più note, quella di Saddam Hussein "radioattivo", è stata realizzata mentre eri in un rifugio mentre il dittatore iracheno bombardava Israele?
  Assolutamente sì. Avevo 17 anni, ero nel rifugio, con la maschera sulla faccia e con la penna ho disegnato il simbolo della radioattività. Quando poi sono venuto a Londra, nel 2001, a 24 anni, ho ricreato questa immagine con Saddam Hussein e l'ho mandata al Guardian e Time Out. È diventata una delle mie opere più note.

- Il tuo è un linguaggio puramente visivo, senza parole. Da dove nasce?
  Avevo studiato tipografia ebraica e quando sono arrivato a Londra con un portfolio di lettere ebraiche da me realizzate ai colloqui mi chiedevano cosa volessi da loro…. Ancora non padroneggiavo così bene l'inglese da poterci lavorare. Così ho iniziato a fare quello che faccio, con una specie di "linguaggio dei segni" grafici che era l'unico con cui potevo comunicare. Esaminavo ogni cosa: le mie mani, gli spazi e tutto ciò che poteva ispirare delle storie senza parole. Un'altra cosa curiosa è che, essendo di madrelingua ebraica, sfoglio i libri anche dalla destra: l'abilità di leggere sia dalla destra che dalla sinistra è un esercizio molto interessante di come si può osservare la realtà da due punti di vista diversi. Questo mio approccio grafico alla lingua è evidente anche nel progetto "Chinese", un sistema grafico che ho sviluppato e che viene utilizzato per insegnare il mandarino. Pur non parlando la lingua, dal momento che è basata su ideogrammi posso illustrarne il significato.

- Qual è oggi la tua relazione con Israele e l'identità ebraica? Che cosa ti manca del tuo Paese?
  Vivo a Londra ormai da vent'anni e qui sto molto bene, ma mi piace andare in Israele (mi manca l'hummus!), e mi sento privilegiato ad avere due posti del cuore e poter sentire la mancanza dell'uno quando sono nell'altro e viceversa. Questo crea una tensione che è per me di grande ispirazione. In Israele vive la mia famiglia di origine, mentre a Londra ho costruito il mio nucleo famigliare e sto bene: è una città molto internazionale e ti senti a casa, ovunque tu vada. In Israele è diverso: quando arrivo lì cambio lingua, la mia mascella si rilassa, il mio corpo comincia a muoversi diversamente, nel caldo afoso che mi investe appena scendo dall'aereo. E poi, dopo una settimana in cui sono ancora molto British, mi lascio andare! Mi piace questa tensione delle due parti che formano una stessa unità.

- Per concludere, c'è qualcosa che vuoi dire alla Comunità ebraica di Milano e in generale a chi ama il tuo lavoro?
  Sì. La vita tornerà come prima, dobbiamo solo essere pazienti, e accettare gli opposti. Oggi è il negativo che domina ma non sarà così per sempre. Tornerà il positivo.

(Bet Magazine Mosaico, 3 luglio 2020)


Greenblatt: Il mondo è bloccato negli schemi dei decenni passati

Dershowitz: "Un'occupazione militare è perfettamente legittima finché non cessa ogni belligeranza, e non credo che qualcuno possa dire che è finita la belligeranza contro Israele"

Diversi importanti esperti di Medio Oriente ed ex alti funzionari hanno discusso il piano "Pace per la prosperità" dell'amministrazione Trump e la prospettata decisione israeliana di esercitare la sovranità su porzioni di Giudea e Samaria (Cisgiordania) in una tavola rotonda on-line organizzata dallo Shurat HaDin Israel Law Center.
Fra gli ospiti intervenuti Jason Greenblatt, ex rappresentante speciale degli Stati Uniti per i negoziati internazionali, che innanzitutto ha osservato come nessuno possa presentare un piano per la soluzione del conflitto arabo-israelo-palestinese "che venga accettato da tutti". Tuttavia, ha continuato Greenblatt, l'obiettivo dell'amministrazione Trump era quello di crearne uno "che fosse realistico, attuabile e di cui entrambe le parti potessero servirsi per avviare un negoziato in buona fede". Greenblatt ha sottolineato la reazione positiva di alcuni paesi arabi, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein i quali, ha detto, dovrebbero essere elogiati per il loro sostegno al piano. Greenblatt ha poi affermato che, mentre alcuni altri paesi hanno avuto un atteggiamento positivo, il resto del mondo sembra "bloccato negli schemi dei decenni passati: pensano che ripetere più e più volte le stesse cose possa portare a un accordo di pace, ma questo non succederà mai"....

(israele.net, 3 luglio 2020)


Palestina al verde, tagli agli stipendi pubblici

Il governo palestinese non ha abbastanza fondi per pagare regolarmente i 180 mila dipendenti pubblici. Dimezzati gli stipendi. Pesa la crisi con Israele sul tema dell'annessione. Anche l'Unrwa è messa male.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh
Per il mese di giugno non è ancora stato pagato lo stipendio ai 180 mila dipendenti pubblici dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Per la mensilità di maggio, invece, il governo guidato dal primo ministro Mohammad Shtayyeh - in carica dal 17 gennaio 2019 - si limita a versare agli stessi lavoratori la metà del dovuto. Lo ha comunicato ieri, 2 luglio 2020, nel corso di una conferenza stampa, il ministro delle Finanze Sukri Bishara.
  La quota minima di paga assicurata per maggio è di 1.750 shekel (circa 450 euro). Secondo quanto riferisce l'agenzia palestinese Wafa, il ministro Bishara ha spiegato che nel corso dell'ultimo quadrimestre si è registrato un declino nelle entrate del bilancio pubblico. Tanto più ora che, per protestare contro i progetti di annessione israeliana di territori della Cisgiordania, l'Anp ha sospeso le rodate forme di collaborazione con lo Stato di Israele. Questa linea di non collaborazione, in maggio ha indotto il governo Shtayyeh a rifiutare una cifra pari a circa 200 milioni di dollari derivanti dalle imposte e tasse (ad esempio sull'import/export dei Territori e sui redditi di lavoratori palestinesi generati sul suolo israeliano o negli insediamenti) riscosse da Israele ma dovute all'Anp, in virtù degli accordi di Oslo del 1993-94. Il mancato trasferimento riguarderà anche il mese di giugno, così che le entrate dell'Anp subiscono un calo dell'80 per cento.
  In un momento in cui vengono meno anche alcuni degli aiuti finanziari esterni il governo deve ricorrere a prestiti bancari per finanziarsi. Il ministro delle Finanze assicura comunque il pagamento degli stipendi pubblici in misura ridotta, come per la mensilità di maggio, sino alla fine del 2020.

 Anche l'Unrwa boccheggia
  Un campanello d'allarme squilla anche dall'Unrwa, l'Agenzia Onu che dal 1950 assiste i profughi palestinesi sparsi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Libano, Siria e Giordania. Il Commissario generale Philippe Lazzarini - italo-svizzero, nominato il 18 marzo scorso - ha presentando alla Commissione consultiva dell'agenzia la sua prima relazione il primo luglio.
  In questa fase di grandi incertezze e turbolenze - Lazzarini menziona la guerra in Siria, il crollo economico del Libano, la paventata annessione israeliana di parte dei Territori palestinesi, il Covid-19 - l'Unrwa si trova ad operare con risorse finanziarie inadeguate. Va ricordato che nel 2018, con Donald Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di non versare più la loro quota di finanziamenti all'agenzia, criticata dal governo di Israele perché non farebbe che perpetuare la condizione precaria dei profughi palestinesi in Medio Oriente, anziché agevolare la loro piena integrazione nelle terre e nazioni che li hanno accolti. Le scelte di revisione di spesa adottate dal 2015 hanno consentito all'Unrwa di risparmiare in media 100 milioni di dollari ogni anno anche riducendo la qualità dei servizi, annota Lazzarini. I conti comunque non tornano più e l'organismo Onu, che ha uno staff di 30 mila membri, è sull'orlo del collasso finanziario. Se le cose non cambiano, e cioè se gli Stati membri dell'Onu non versano altri fondi, l'Unrwa potrebbe non condurre a termine tutte le attività previste da qui alla fine dell'anno.

(Terrasanta.net, 3 luglio 2020)



Sigilli babilonesi post esilio rinvenuti a Gerusalemme

di Daniele Mancini

 
 
Una coppia di sigilli attribuibili al periodo neo babilonese, uno insolitamente grande e un manufatto su cui è impresso un altro sigillo, sono la prima prova certa della ricostruzione di Gerusalemme dopo che fu rasa al suolo dalle forze babilonesi circa 2.600 anni fa.
   Secondo gli archeologi, entrambi i reperti, rinvenuti tra le macerie di un'abitazione con segni di incendio e riutilizzata dai gruppi gerosolimitani torni in città dopo l'esilio, nel 538 a.C., potrebbero indicare il ripristino di una normale amministrazione nel centro urbano in piena ricostruzione.
   Gerusalemme era sopravvissuta come la capitale della monarchia unita e poi del solo Regno di Giuda per circa 400 anni, resistendo persino all'assalto delle forze assire nell'VIII secolo a.C., che grazie al Re Ezechia risparmiarono la città dietro elargizione di un enorme tributo. Con la successiva ascesa di Babilonia, Gerusalemme fu definitivamente sottomessa nel 597 a.C. circa e i Babilonesi misero sul trono un re vassallo, Sedechia.
   Ma Sedechia tentò di ribellarsi e la rappresaglia babilonese fu brutale. Dopo aver riconquistato la città, i Babilonesi di Re Nabucodonosor punirono l'insubordinazione Sedechia, massacrarono la popolazione, deportarono la classe dirigente giudaica a Babilonia e rasero al suolo Gerusalemme e il suo tempio: correva l'anno 586 a.C.
   Con la presa del potere in tutta la regione, inclusa la Palestina, dei Persiani Achemenidi di Ciro il Grande, la popolazione ebraica fu lasciata libera di tornare nella loro "terra promessa" e, tra mille difficoltà, ricostruirono, in parte, il loro tempio.
   E' recentissimo il ritrovamento di alcune "prove" della distruzione babilonese di Gerusalemme in alcune abitazioni con importanti tracce di distruzione e incendio, al di fuori della cinta muraria del periodo. Anche se le poche zone non occupate dalle costruzioni più moderne sono state sottoposte a intense e difficoltose indagini archeologiche negli ultimi 150 anni, non sono mai state trovate preziose prove del ritorno dall'esilio babilonese o delle ricostruzioni della città in epoca achemenide.
   Due piccoli manufatti, un amuleto con un sigillo impresso e un sigillo di produzione locale costituirebbero le prove che il centro urbano al tempo Esdra e Neemia stava risorgendo dalle sue rovine.
   I due manufatti attribuiti al periodo achemenide sono stati trovati, dopo circa 2.600 anni, all'interno delle rovine di alcuni edifici segnati dalla distruzione babilonese, oltre la Cittadella di Davide, a sud del Monte del Tempio, già noto come parcheggio Givati.
   I sigilli sono stati utilizzati per contrassegnare documenti o contenitori, dalle lettere alle anfore in ceramica contenenti vino o prodotti agricoli. Il loro scopo era quello di mostrare al destinatario che il documento o l'anfora erano rimasti sigillati durante il viaggio verso la loro destinazione.
   Il sigillo, lungo circa 8 cm, era sicuramente utilizzato per essere utilizzato sul vasellame da trasporto; l'impronta sull'amuleto, lunga poco più di 4 cm, mostra una persona seduta con una o forse due colonne poste davanti a lui.
   Yiftach Shalev, della Israel Antiquities Authority, ritiene che nonostante sia abbastanza consunti, i manufatti sono di lavorazione babilonese e il personaggio rappresentato sia probabilmente un re. Le colonne possono simboleggiare le stele dedicate agli dei protettori di Babilonia, Nabu e Marduk. Per quanto riguarda il sigillo, ha una cornice circolare incisa sul lato esterno ed è diviso in due registri contenenti diverse iscrizioni lineari non identificate.
   Gli archeologi spiegano che il periodo persiano resta misterioso, un buco nero nella documentazione archeologica. Gli scavi nella Cittadella di Davide hanno portato alla luce diversi manufatti: ceramiche, sigilli, elementi metallici del periodo del Primo Tempio associabili a monetazione], ma nulla è stato rinvenuto della ricostruzione di Gerusalemme durante il periodo achemenide, a parte due piccoli lacerti murari.
   Le nuove scoperte testimoniano che Gerusalemme potrebbe essere tornata a normale vita, nel periodo achemenide e i manufatti attestano il ripristino dell'amministrazione cittadina.
   Altri reperti nell'area della Cittadella di David di questo periodo dell'età del ferro includono una figurina del dio egizio Bes, un reperto unico risalente a circa 2.500 anni fa e attestante la presenza di culti diversi da quello di Yahweh!

(Daniele Mancini Archeologia, 3 luglio 2020)


Covid, in Israele superati i 1100 casi in un giorno

Per la prima volta in Israele sono stati registrati oltre mille nuovi casi di coronavirus in un giorno. Secondo i dati forniti dal ministero della Salute israeliano, citati dal 'Jerusalem Post', ieri sono stati diagnosticati 1.107 contagi da Covid-19 ed altri 76 casi sono stati accertati dopo la mezzanotte.
Tra i 9.618 pazienti, circa 70 sono in gravi condizioni. Nel corso di un punto stampa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha spiegato che il numero di quest'ultimi è aumentato del 50% nell'ultima settimana. A seguito dell'impennata di casi, il governo ha imposto nuove restrizioni, imponendo un limite massimo di 50 persone per sale pubbliche, sinagoghe, bar e ristoranti. Netanyahu ha detto che Israele "deve agire ora" per fermare i contagi e che "dobbiamo tornare alla realtà delle restrizioni per appiattire la curva".

(Adnkronos, 3 luglio 2020)


Se l'antisemita è di sinistra

Intervista all'esperto britannico professor Dave Rich sull'antisemitismo di sinistra

di Enrico Franceschini

- Esiste davvero un "problema ebraico" tra i progressisti? Secondo lo storico britannico Dave Rich sì. Ed è tutto da risolvere
  Inutile negarlo: la sinistra ha storicamente un "problema ebraico". L'ultima prova è il tweet dl Rebecca Long-Bailey, ministra del governo ombra laburista britannico, che ha accusato falsamente Israele di addestrare la polizia Usa al soffocamento con le ginocchia, pratica costata la vita all'afroamericano George Floyd, l'evento che ha scatenato le proteste e le rivolte del movimento Black Lives Matter. Ma il problema viene da lontano. «Quel tweet è il sintomo di un vecchio pregiudizio che spinge alcuni progressisti, in tutto il mondo, a vedere negli ebrei e nello Stato ebraico la fonte di ogni male», afferma il professor Dave Rich, direttore del Pears Institute for the Study of Antisemitism alla Birkbeck University di Londra e autore di The Left's Jewish problem: il problema ebraico della sinistra. Che il suo libro analizza,nella speranza di poterlo risolvere.

- Esiste un antisemitismo di sinistra, professor Rich, e che cos'è?
  «L'antisemitismo di sinistra non ha niente a che vedere con il ben noto, razzista e violento antisemitismo di destra. Deriva piuttosto da un modello di pensiero che divide il mondo in oppressi ed oppressori, assegnando quest'ultima etichetta agli ebrei, visti come popolo ricco, potente e manipolatore. Se vi si aggiunge l'ostilità verso il sionismo e verso Israele, è un sentimento che sconfina in qualcosa di molto più di una legittima opposizione alle politiche dello Stato ebraico, incorporando gli antichi stereotipi antisemiti e le classiche teorie della cospirazione».

- II tweet di Rebecca Long-Bailey ne rappresenta un degno esempio?
  «È un episodio rivelatore dell'atteggiamento diventato una norma completamente accettabile nel Labour sotto la leadership di Jeremy Corbyn. Non si tratta soltanto del fatto che Long-Bailey ha ritwittato un'affermazione antisemita senza pensarci due volte: anche la sua giustificazione a posteriori evidenzia l'incomprensione di fondo della questione. La deputata ammette che nel tweet c'era qualcosa di sbagliato, ma insiste che ciò non deve cancellare gli altri validi aspetti del messaggio: come se l'antisemitismo fosse una minuzia. Beninteso, non penso che Long-Bailey sia antisemita. Ma è incapace di vedere il problema della sinistra riguardo all'ebraismo. Licenziandola immediatamente dal governo ombra dell'opposizione, Keir Stanner, il successore di Corbyn, ha dimostrato cosa sia la tolleranza zero verso l'antisemitismo».

- Invece Corbyn è antisemita?
  «No. Ma per cinque anni non ha risolto il problema del crescente antisemitismo nel suo partito. E il motivo è chiaro: il background politico del radicalismo di sinistra anni 70 da cui proviene Corbyn include quella visione degli ebrei di cui dicevo prima, i banchieri potenti e manipolatori, la lobby ebraica che trama dietro le quinte, l'ossessione di dare tutte le colpe a Israele».

- Sul social media, anche in Italia, alcuni militanti di sinistra affermano che, se uno dice qualcosa di spiacevole su Israele, viene subito tacciato d antisemitismo.
  «Una reazione tipica di una certa sinistra, incapace di riconoscere in sé stessa la predisposizione automatica a vedere Israele come l'origine di ogni male. Perfino davanti a un caso così lampante come il razzismo in America, con la sua lunga e atroce storia di oppressione, qualcuno riesce vedere lo zampino dello Stato ebraico in un atto orribile come l'omicidio di George Floyd».

- Pure dentro al movimento Black Lives Matter non mancano voci che dicono: In Gran Bretagna non si può parlare male di Israele, la lobby ebraica lo impedisce.
  «Black Lives Matter è un vasto movimento che si batte per un nobile ideale, con cui tutti dovrebbero essere d'accordo. Ma al suo interno ci sono gruppi con un'agenda più ampia, che include posizioni antisemite. In Gran Bretagna le associazioni ebraiche sono state dall'inizio in prima fila a sostenere Black Lives Matter. Così come gli ebrei furono da sempre a fianco delle lotte per i diritti civili dei neri americani, considerando Martin Luther King un alleato nella lotta contro tutti i razzismi. Ciò non deve impedire tuttavia di segnalare una posizione antisemita, se la vediamo, come nel caso del tweet di Rebecca Long-Bailey».

- L'antisemitismo di sinistra deriva anche dal legame storico che la sinistra europea he avuto durante la guerra fredda con l'Unione Sovietica?
  «Sicuramente. Nel conflitto medio-orientale, l'Urss sosteneva i paesi arabi, osteggiava Israele e aveva posizioni antisioniste, che spesso diventavano antisemite. Così il legante con Mosca di partiti e gruppi della sinistra radicale europea ha finito per andare oltre la fratellanza comunista, adottando posizioni in linea con il vecchio antisemitismo stalinista. Del resto, la controversa risoluzione dell'Onu del 1975 che equiparava il sionismo con il razzismo fu uno dei colpi meglio riusciti della propaganda sovietica».

- A sinistra c'è chi distingue, sostenendo che essere antisionisti non significa essere antisemiti.
  «In teoria è una distinzione possibile. Si può essere ostili al sionismo, cioè all'esistenza dello stato di Israele, senza per questo essere antisemiti, cioè ostili agli ebrei. Ma un paio di anni fa abbiamo fatto un grande sondaggio in Gran Bretagna per verificare i sentimenti dell'opinione pubblica sugli ebrei: è risultato che chi ha una visione fortemente anti-israeliana, l'idea che Israele non dovrebbe nemmeno esistere, tende ad essere anche antisemita, a detestare gli ebrei in quanto tali».

- E come giudica il caso di quegli israeliani di sinistra così ostili verso Israele da venire accusati d antisionismo?
  «Uno è Gideon Levy, famoso giornalista del quotidiano israeliano Haaretz. Le sue posizioni possono essere discutibili, ma sono perfettamente legittime e sicuramente non antisemite. Ma un conto è avere posizioni simili in Israele, all'interno del dibattito politico israeliano, un altro è sostenerle da migliaia di chilometri di distanza in tutt'altro contesto. Inoltre, un conto era mettere in discussione il sionismo prima del 1948, prima che nascesse lo stato di Israele, un conto è farlo quando questo stato esiste da settant'anni e ha 8 milioni di abitanti. Affermare oggi, da posizioni di sinistra, che forse non dovrebbe esserci uno Stato ebraico, mi sembra antistorico o peggio. Per l'Olocausto non doveva più esistere un popolo ebraico. Per gli antisionisti odierni non dovrebbe più esistere lo stato del popolo ebraico. Due concetti pericolosamente vicini».

(la Repubblica, 1 luglio 2020)


Associazioni pro-Israele improvvisano corteo per rispondere alla manifestazione pro-pal

di Paolo Castellano

 
Il 30 giungo anche in Finlandia si sono svolte proteste contro l'annessione israeliana di alcune zone della Cisgiordania. Le attività delle associazioni pro-pal sono però state arginate dalle manifestazioni a favore d'Israele.
   Sono infatti giorni decisivi per una possibile estensione della sovranità israeliana sui territori della Giudea e Samaria. Benjamin Netanyahu, attuale premier dello Stato di Israele, sta cercando di convincere la propria coalizione per ottenere l'approvazione dei suoi piani durante il prossimo voto alla Knesset. Tutto ciò ha contribuito a creare un acceso dibattito che è giunto non solo nelle piazze israeliane ma anche in quelle occidentali, Europa compresa.
   All'inizio della settimana, un gruppo di cittadini che supportano Israele è riuscito a organizzare una manifestazione per le strade di Helsinki, capitale della Finlandia, raccogliendo l'adesione di 200 partecipanti. Come riporta il Jerusalem Post, il corteo è stata preparato in 30 ore per rispondere a una protesta anti-israeliana organizzata dall'ICAHD Finlandia e da associazioni giovanili di sinistra e dei verdi, in dissenso con i piani di annessione di Netanyahu.
   ICAHD Finlandia è la sezione finlandese del Comitato israeliano contro le demolizioni domestiche. Questa associazione organizza campagne anti-israeliane e supporta il BDS, il movimento di boicottaggio contro Israele, messo fuori legge in alcuni paesi. I militanti di ICAHD Finlandia hanno ripetutamente accusato lo Stato ebraico di attuare una pulizia etnica, un genocidio, una punizione collettiva e un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi. Nel 2015, la sede israeliana dell'ICAHD è stata chiusa dopo una sentenza del tribunale a causa di sospetti finanziamenti provenienti da paesi stranieri.
   Risto Huvila, presidente della Federazione delle associazioni Finlandia-Israele, ha organizzato la contro-protesta nel giro di pochissimo tempo, dopo aver appreso la notizia delle manifestazioni anti-Israele nelle vie di Helsinki. All'appello di Huvila hanno risposto 200 persone (il doppio dei manifestanti pro-pal), che si sono presentate nel corteo con bandiere israeliane, shofar e striscioni. I manifestanti pro-Israele hanno percorso diversi chilometri sotto un'intensa pioggia estiva.
   «Questa manifestazione ci testimonia l'attaccamento e la fedeltà della comunità filo-israeliana in Finlandia, che mostra il proprio sostegno anche con un brevissimo preavviso», ha sottolineato Huvila.

(Bet Magazine Mosaico, 2 luglio 2020)


Israele: slitta l'annessione della Cisgiordania

L'annessione di una parte della Cisgiordania, che doveva avvenire il 1° luglio, è slittata. Ciò che sembrava destino manifesto non è più. Netanyahu ha perso, come non gli accadeva da decenni. Una sconfitta non di poco conto, dal momento che scalfisce la sua immagine di invincibilità sulla quale ha costruito la sua lunga carriera politica.
  Ma cosa è successo di tanto importante da evitare l'inevitabile? Secondo quanto scrive Anshel Pfeffer su Haaretz, i tanti che si ascrivono il merito dell'impresa non hanno credibilità.
  Appelli a non procedere sono arrivati da vari ambiti della comunità ebraica della diaspora, da partiti della coalizione di governo - cioè Benny Gantz - e da politici di tutto il mondo, che hanno messo in guardia sulle conseguenze devastanti dell'iniziativa che, anche se ridotta nelle dimensioni - alla fine si parlava di un passo simbolico riguardante due o tre colonie -, avrebbe segnato per sempre il destino di Israele.
  Eppure, secondo Pfeffer, tutto ciò non avrebbe avuto peso. La svolta sarebbe frutto di un ripensamento di Netanyahu.

 L'annessione come specchietto per le allodole
  Netanyahu, scrive Pfeffer, si era innamorato dell'idea dell'annessione, arrivando a immaginare che ampliare "i confini di Israele in modo da includere almeno parte della patria biblica, sarebbe diventata la sua eredità storica".
  Ma è durato poco e "l'entusiasmo di Netanyahu per l'annessione sta ormai diminuendo", anche se non abbandonerà mai pubblicamente la prospettiva, dato che ciò lederebbe la sua immagine.
  Secondo Pfeffer, quando Netanyahu ha cominciato a comprendere le difficoltà, avrebbe tenuto il punto ma senza crederci, usando l'annessione come uno specchietto per le allodole per stornare l'attenzione interna e internazionale dalla disastrosa gestione del coronavirus e dalle sue conseguenze nefaste per l'economia israeliana.
  Inoltre, secondo Pfeffer, Netanyahu, portando il mondo a focalizzarsi sull'annessione, ha di fatto annullato il dibattito internazionale sul regime di "occupazione" delle terre palestinesi, che in tal modo sarebbe accettato come un male minore da preservare per evitare il peggio.

 Netanyahu e l'Iran
  Convince meno, ma nonostante ciò è di interesse, il passaggio successivo dell'articolo, nel quale Pfeffer spiega che ad avere avuto un peso decisivo sulla scelta di Netanyahu sono state le vicende americane.
  La prospettiva di una sconfitta di Trump, infatti, avrebbe messo il premier israeliano in ambasce, perché il suo rivale, Joe Biden, dato per vincente, si è più volte dichiarato contrario all'annessione.
  Non solo, Biden potrebbe riprendere il filo del dialogo con l'Iran per ripristinare un accordo sul nucleare, dato che l'intesa fu sottoscritta dall'amministrazione Usa di cui egli era vice-presidente.
  L'annessione, tagliando i rapporti con l'eventuale nuova amministrazione Usa guidata da Biden, avrebbe così impedito a Netanyahu di interloquire con essa, lasciando campo libero a un nuovo negoziato Washington-Teheran.
  Cenno di interesse, dato che è vero che Netanyahu è ossessionato dal confronto con l'Iran, che resta il punto focale della sua agenda.
  E appare simbolico in tal senso che, nel giorno in cui la prospettiva dell'annessione si allontana siano divampati degli incendi nei pressi della centrale atomica iraniana di Natanz (il reattore, per fortuna, è rimasto intatto, evitando il dilagare delle radiazioni).
  Tutto vero, se non che anche l'attuale amministrazione Usa ha frenato non poco sull'annessione, anche se in maniera tacita, per evitare pubbliche rotture con lo Stato israeliano che avrebbero avuto conseguenze nefaste nei rapporti tra Trump e il suo elettorato di destra, in particolare gli evangelical.
  Non solo, Netanyahu sapeva benissimo fin dal principio che le prospettive di una rielezione di Trump erano ridotte e che l'eventuale successore democratico sarebbe stato più oppositivo alla sua iniziativa, tanto che ha affrettato i tempi dell'annessione a prima delle elezioni Usa.
  Così lo scenario descritto da Pfeffer, pur se ha cenni condivisibili riguardo l'Iran, convince fino a un certo punto.

 L'azione frenante della comunità ebraica
  In realtà, sembra più convincente altro: a frenare Netanyahu è stata la comunità ebraica internazionale, che ben comprende le conseguenze nefaste dell'annessione per l'immagine di Israele.
  Pubblicamente le più importanti istituzioni ebraiche americane ed europee hanno mantenuto un silenzio assordante sul punto, anche qui, come per l'amministrazione Usa, per evitare rotture pubbliche lesive per l'immagine di Israele e foriere di dialettiche aspre in seno alla comunità ebraica. Ma sottotraccia hanno esercitato pressioni enormi per impedire l'iniziativa.
  Pressioni che il premier israeliano può far finta di snobbare, ma che non può affatto ignorare.
  Detto questo, restano due punti. Il primo è che seppur evitata, l'ipotesi di un'annessione limitata resta in campo, e potrebbe risultare come esito di un compromesso tra il premier, che comunque deve dare un qualche compimento alle sue promesse elettorali, e gli ambiti avversi all'iniziativa.
  Secondo, resta fermo che impedire il peggio, cioè l'annessione, non può comunque far apparire come normale l'attuale status quo, che vede "l'occupazione" (per stare all'espressione di Pfeffer) israeliana di alcune terre palestinesi e gravami enormi per la residua Palestina.

(piccole note, 2 luglio 2020)



Israele avverte la Siria (e l'Iran)

di Futura D'Aprile

I rapporti tra Israele e Iran si sono fatti sempre più tesi negli ultimi anni, da quando cioè Teheran ha inviato le proprie milizie e soldati in Siria per aiutare il presidente Bashar al-Assad nella guerra civile che dal 2011 sconvolge il Paese. La presenza iraniana e filo-sciita in uno Stato così vicino al proprio ha allarmato Israele, che non ha esitato a ricorrere all'uso della forza per proteggersi da quella che percepisce come una delle maggiori minacce alla propria esistenza. La tensione sembra destinata ad aumentare.

 L'avvertimento israeliano
  In un'intervista rilasciata il 30 giugno alla vigilia dell'incontro con il rappresentante speciale statunitense per l'Iran, Brian Hook, il premier Benjamin Netanyahu ha usato parole dure contro Siria e Iran, ribadendo ancora una volta la posizione di Israele rispetto all'espansione dell'influenza iraniana nella regione.
  "Siamo assolutamente decisi a impedire all'Iran di radicarsi militarmente nelle nostre immediate vicinanze (…) Dico questo agli ayatollah di Teheran: Israele continuerà a prendere le misure necessarie per impedirvi di creare un altro fronte terroristico e militare contro Israele". Il timore dello Stato ebraico è che l'Iran riesca a dar vita al progetto della Mezzaluna sciita, che prevede la proiezione dell'influenza iraniana fino al Libano, passando per Afghanistan e Siria.
  Nel suo discorso alla stampa, Netanyahu ha lanciato un avvertimento anche al presidente siriano: "E dico a Bashar al-Assad: stai rischiando il futuro del tuo paese e del tuo regime". Parole inequivocabili che fanno seguito ad un aumento degli attacchi aerei contro postazioni filo-sciite sul territorio siriano e la cui responsabilità è stata sempre addossata a Israele, che dal canto suo ha solo in alcuni casi confermato le accuse siriane. Generalmente infatti le autorità israeliane preferiscono non commentare le operazioni militari condotte in Siria contro Iran ed Hezbollah, anche se la strategia di pressione di Israele contro le milizie filo-sciite non è certo un mistero. Una strategia che, secondo l'ex ministro della Difesa Naftali Bennett, avrebbe dato ultimamente i suoi frutti: fonti israeliane a inizio maggio avevano diffuso la notizia del ritiro delle forze iraniane dalla Siria e della relativa chiusura di alcune basi operative. L'approccio israeliano quindi sembra aver dato i suoi frutti - complice anche la morte per mano americana del generale Qasem Soleimani - e le parole di Netanyahu lasciano intendere nemmeno troppo velatamente che le operazioni militari continueranno anche nel prossimo futuro.

 Le sanzioni
  La pressione contro la Repubblica islamica tuttavia non passa solo per il fronte militare. Il primo ministro israeliano il 30 giugno ha incontrato il rappresentante speciale Usa Hook anche per discutere del rinnovo delle sanzioni contro l'Iran, in scadenza ad ottobre 2020. Secondo il premier Netanyahu la fine dell'embargo rappresenta una minaccia non solo per Israele, ma in generale per tutta la regione mediorientale e i suoi timori sono stati confermati anche dal rappresentante speciale. "L'Iran sarebbe in grado di esportare armi e tecnologie ai propri proxy come Hezbollah, Jihad islamica (in Palestina), Hamas, ai gruppi sciiti in Iraq e Bahrein e agli houthi in Yemen", ha dichiarato Hook. Perché le sanzioni vengano rinnovate è però necessario anche l'appoggio di Russia e Cina all'interno del Consiglio di sicurezza dell'Onu e nessuno dei due Paesi ha intenzione di appoggiare la posizione degli Stati Uniti. Da qui la condanna del premier Netanyahu, secondo cui la comunità internazionale da una parte è collusa con l'Iran, dall'altra non riesce a farsi valere contro un Paese che a suo dire ha continuato fino ad oggi a lavorare per ottenere l'atomica, mentendo quindi al mondo circa le proprie reali intenzioni.
  L'incontro con Hook è stata anche l'occasione per Netanyahu per attaccare il ministro della Difesa nonché alleato Benny Gantz. "Ci sono delle questioni importanti di cui dobbiamo discutere e che non hanno a che fare con il coronavirus", ha affermato il premier, in piena contraddizione con le ultime parole dell'ex generale, secondo cui tutto ciò che non riguarda la lotta al Covid per il momento può aspettare. Molto probabilmente l'ex generale si riferiva al piano di annessione della Valle del Giordano che Netanyahu voleva portare avanti a partire dal primo luglio e che è stato invece rimandato, con grande disappunto del primo ministro in carica.

(Inside Over, 2 luglio 2020)


Israele davanti a tutti nella produzione di energia solare

Sorpresa! Israele davanti a tutti nella produzione di energia solare.

 
Il rapporto della Agenzia Internazionale per l'Energia svela che Israele è il primo paese dell'OECD e il secondo del mondo nello sfruttamento dell'energia solare.
Con l'8,7% di elettricità prodotta dal Sole supera paesi come Germania, Australia e Grecia.
Il dato è sorprendente sotto due punti di vista:
  • Perché solo nel 2015 Israele era ai valori più bassi nel mondo e ancora l'anno scorso produceva solo il 5% del fabbisogno elettrico nazionale con impianti solari.
  • Perché il valore raggiunto è integrato in un piano generale da 23 miliardi di dollari che in nove anni porterà l'elettricità solare al 30% del fabbisogno e lo coprirà al 100% nelle ore pomeridiane durante le quali parte dell'energia verrà accumulata per uso notturno.
Il ministro dell'energia Yuval Steinitz, che si è fortemente impegnato dal 2015 ad oggi per lo sviluppo di questo grande programma energetico /tecnologico/ ecologico, sottolinea che i progressi nel settore dei pannelli solari e la costante discesa dei costi potranno consentire maggiore stabilità all'ambizioso programma e soprattutto si potrà procedere senza aumenti del costo dell'elettricità.

(Il Corriere Israelitico, 2 luglio 2020)


Ebrei in Svizzera segnalano una maggiore discriminazione

Gli ebrei in Svizzera sono spesso vittime di molestie e discriminazioni sulla base della loro fede

Gli ebrei in Svizzera sono spesso vittime di molestie e discriminazioni sulla base della loro fede. Lo rileva uno studio della Scuola universitaria di scienze applicate di Zurigo (ZHAW), secondo cui si tratta di un problema crescente soprattutto in internet.
Circa la metà degli intervistati ha dichiarato di essere stata oggetto di molestie antisemite reali o online negli ultimi cinque anni, ha comunicato oggi la ZHAW.
Quasi i tre quarti degli intervistati ipotizzano che l'antisemitismo rappresenti un problema crescente. "Queste cifre dimostrano chiaramente che l'antisemitismo esiste in Svizzera e plasma la vita quotidiana degli ebrei che vivono qui", indica il direttore dello studio e capo dell'Istituto di delinquenza e prevenzione della criminalità della ZHAW, Dirk Baier, citato nel comunicato.

 Più odio nei social media
  Quasi nove intervistati su dieci ritengono che l'antisemitismo sia aumentato in internet e soprattutto nei social media. Circa la metà degli intervistati sono stati testimoni di come gli ebrei siano stati minacciati o insultati online.
Tuttavia, raramente hanno sperimentato la violenza fisica. A riferire più frequentemente di aggressioni sono stati gli ebrei rigorosamente ortodossi. Quasi tutti loro sono stati esposti a qualche forma di molestia negli ultimi cinque anni.
Al sondaggio hanno partecipato 487 persone. L'analisi è stata prevalentemente condotta online ed è realizzata in collaborazione con la Fondazione contro il razzismo e l'antisemitismo.

(swissinfo.ch, 2 luglio 2020)


Netanyahu prende tempo sull'annessioni dei Territori

Il premier prolungherà le consultazioni con l'inviato Usa mentre Gantz chiede di intensificare la lotta al coronavirus

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu prende tempo: oggi non si recherà alla Knesset, il parlamento dello stato israeliano, per presentare il piano di annessioni unilaterali di parte dei Territori palestinesi, come inizialmente previsto.
   «Israele e Usa continueranno nei prossimi giorni a lavorare sul dossier annessioni» ha detto ieri il premier, leader del Likud, confermando de facto le tensioni nel suo esecutivo. «Ho parlato oggi della questione della sovranità con l'emissario Usa Avi Berkowitz, con l'ambasciatore David Friedman e con la loro delegazione. Ci stiamo lavorando sopra in questi giorni e continueremo a lavorarci anche nei prossimi» ha aggiunto. Netanyahu ha quindi rilevato che «la pandemia di coronavirus si sta propagando in tutto il mondo e anche in Israele». Israele, ha assicurato, «continuerà ad adottare tutte le misure necessarie in merito, in parallelo a tutti gli altri impegni di politica estera e di sicurezza. Non ci riposiamo nemmeno un minuto». In questo modo - rilevano i media - Netanyahu ha replicato alle tanti critiche piovute in questi giorni circa l'opportunità di affrontare altri problemi concreti ben più urgenti delle annessioni.
   Un rinvio delle annessioni era stato chiesto anche dal ministero della difesa e vice premier, Benny Gantz, leader del partito di governo Bianco e Blu. «Un milione di disoccupati non sanno di cosa stiamo parlando. La maggior parte si preoccupa di cosa farà domani mattina» ha detto Gantz ieri chiedendo che l'esecutivo si concentri «prima di tutto sul contrasto all'epidemia di coronavirus» che sta dando segni di ripresa, «e sulle sue conseguenze economiche». Gantz aveva già detto due giorni fa che il primo luglio «non è una data sacra per le annessioni».
   Secondo il titolare della Difesa, che fra un anno e mezzo prenderà la guida dell'esecutivo (la "staffetta" fa parte degli accordi di governo), il piano di pace presentato dall'Amministrazione Usa «è un' opportunità storica». Tuttavia, Gantz ha chiesto a Netanyahu di evitare passi unilaterali e di cercare invece un accordo con la comunità internazionale e con i palestinesi. «Dobbiamo farlo per bene coinvolgendo il maggior numero di partner nella discussione e se possibile con il sostegno internazionale» ha detto ieri in un'intervista. Anche il suo compagno di partito Gabi Ashkenazi, ministro degli esteri e come lui ex capo di stato maggiore, è contrario ad un passo unilaterale che rischia - a suo avviso - «di isolare Israele internazionalmente».
   Com'è noto, tanto l'Onu quanto l'Ue si sono espresse in maniera molto negativa sulla questione delle annessioni e sulle intenzioni del governo Netanyahu. «È doloroso per l'Ue vedere a rischio la soluzione della soluzione a due stati. L'annessione non è il modo per creare la pace e migliorare la sicurezza di Israele. Avrebbe conseguenze negative per la sicurezza e la stabilità della regione» si legge in un tweet postato dall'alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune Josep Borrell.
   E sempre ieri si è registrata la posizione fortemente contraria del governo britannico. L'esecutivo considera qualsiasi eventuale «ulteriore annessione israeliana nei Territori palestinesi un atto contrario al diritto internazionale e controproducente per la pace» si legge in una dichiarazione congiunta alla Camera dei Comuni del ministro degli Esteri, Dominic Raab, e del suo vice James Cleverly, rispondendo alle sollecitazioni dell'opposizione laburista sull' argomento.
   
(L'Osservatore Romano, 2 luglio 2020)


Israele, il picco più alto di sempre. Betlemme torna in lockdown

La seconda ondata di contagi. verso l'istituzione di nuove zone rosse. Casi in aumento anche in Cisgiordania. Ma a Gaza migliaia in strada contro le annessioni Che slittano. Parolin: no ad azioni unilaterali.

di Fiammetta Martegani

Le spiagge di Tel Aviv sono piene. Le strade di Gerusalemme trafficate. Il lockdown in Israele sembra essere solo un ricordo. Ma presto il Paese potrebbe ritrovarsi a fare di nuovo i conti con regole, restrizioni e zone rosse. Ieri i contagi hanno fatto registrare il dato più alto dall'inizio dell'epidemia: 859 casi in più in sole 24 ore, che portano il totale a quota 24.547. I decessi restano invariati: 320. Ma la paura cresce parallelamente alla tensione negli ospedali. Per adesso, il sistema sanitario israeliano, tra i più efficienti del mondo, tiene perfettamente. Ma non è escluso che a breve il governo imponga nuove chiusure per evitare che la situazione precipiti. Si parla di blocchi a Tel Aviv (che per la sua vitalità è particolarmente esposta al contagio), a Gerusalemme (occhi puntati sui quartieri ultraortodossi, come Mea Shearim, da dove sono partiti i primi focolai), e ad Ashdod, nel sud del Paese (150 positivi rilevati domenica).
   Nei giorni scorsi, conferendo priorità proprio al rischio Covid, Benny Gantz, ministro della Difesa e futuro premier del governo a rotazione, aveva suggerito uno slittamento dell'annuncio sul piano di annessioni che il governo aveva messo in agenda per ieri. E ieri l'ufficio dell'attuale premier Benjamin Netanyahu ha confermato il rinvio, motivandolo però con la necessità di procedere a ulteriori discussioni sul tema con l'Amministrazione Usa, promotrice del piano. Il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, incontrando gli ambasciatori degli Stati Uniti e di Israele, ha espresso la «preoccupazione della Santa Sede circa possibili azioni unilaterali che potrebbero mettere ulteriormente a rischio la ricerca della pace» e ha sollecitato la ripresa del «negoziato diretto» fra le parti.
   Per protestare contro la road map americana, ieri le fazioni politiche di Gaza hanno mobilitato migliaia di persone nelle città e a ridosso del confine. Non ci sono stati incidenti. Ma ci sono stati, come ovvio, assembramenti. E questo nonostante la curva di contagi stia aumentando nell'enclave palestinese come in tutta la Cisgiordania. Nelle aree sottoposte al controllo dell'Anp i casi positivi sono saliti a 2.698. A metà giugno erano solo 700. I morti sono otto. Il focolaio più preoccupante si trova nel governatorato di Hebron (199 nuovi contagi). A Betlemme e nel resto dei territori palestinesi è scattato il lockdown a partire da venerdì.

(Avvenire, 2 luglio 2020)


"Tehran", la fiction sul nemico che conquista Israele

La nuova serie tv dopo il successo di "Fauda".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Venerdì scorso una misteriosa esplosione ha colpito Teheran, nei pressi della base militare di Parchin e in contemporanea a Shiraz andava in tilt la centrale elettrica. Fonti governative iraniane hanno parlato di «incidenti», ma c'è chi vocifera di un nuovo possibile round nella cyberguerra tra Iran e Israele. Chi aveva visto il lunedì precedente le prime due puntate della nuova serie tv israeliana Tehran non ha potuto non soffermarsi sull'analogia tra fiction e realtà. La miniserie segue in 8 puntate le vicende di una hacker Israeliana in missione per il Mossad a Teheran - proprio alla centrale elettrica della capitale - città dove è nata e dove entrerà in contatto con quell'universo di giovani attivisti anti-regime che, dall'Onda Verde del 2009 alle manifestazioni dell'inverno scorso, riempiono le piazze. In una scena vi è un omaggio all'iconica ragazza che durante una protesta si toglie l'hijab e lo sventola come una bandiera bianca
   «I governi prendono spunto dalla serie tv?». In molti hanno commentato divertiti sui social di Radio Ran, diffuso canale in lingua persiana, diretto da Rani Amrani. Nato a Teheran nel 1995, a 20 anni è scappato per intraprendere un viaggio di due mesi che l'ha portato clandestinamente prima in Afghanistan, da lì in Pakistan (dove agenti del Mossad fornivano lasciapassare agii esiliati) e infine, tramite la Svizzera, in Israele. È stato consulente sul set di Tehran, ricreato fedelmente ad Atene. «Ho messo su Facebook una mia foto sul set e tutti mi hanno chiesto come fossi riuscito a entrare in Iran», racconta dal suo studio a Gerusalemme. Il sito di Radio Ran ha circa 700 mila accessi mensili, trasmette in farsi e si rivolge agli oltre 100 mila israeliani di origine iraniana che vivono In Israele. E non solo ebrei. «Riceviamo una valanga di commenti anche da ascoltatori musulmani. Non censuriamo nessuno, anzi più di una volta sono riuscito a creare un dialogo con uno che parlava di Israele come "Piccolo Satana"».
   La serie Tehran - trasmessa dal canale pubblico israeliano Kanll e acquistata da AppleTv che la distribuirà in 135 paesi - ha suscitato grande clamore in Iran ancora prima che andasse in onda, anche perché recitata quasi interamente in persiano. «Un giornale filo-regime ha parlato di propaganda sionista che tenta di lavare il cervello all'opinione pubblica iraniana», racconta Amrani. «In un canale Telegram circolano le prime 5 puntate che hanno già riscosso enorme successo. Persino un nostro ascoltatore fllogovernativo ha scritto: "L'establishment non è dipinto cosi male"».
   Anche la critica israeliana ha approvato. Trama intricata, tensione alle stelle e offuscamento della dicotomia buoni/cattivi ricordano la prima stagione di Fauda. Ma mentre Fauda descrive una realtà che è una ferita aperta (il conflitto israelo-palestinese), Tehran spalanca una finestra su un mondo sconosciuto e forse sorprendente.

(la Repubblica, 2 luglio 2020)


L'Anpi vuole che Israele liberi i terroristi arabi

Smantellare gli insediamenti israeliani, definiti «coloniali», liberare i «prigionieri palestinesi e i leader dell'intifada che giacciono in carcere da quasi 20 anni».
L'ultimo appello massimalista contro Israele non è di Hamas ma del presidente provinciale dell'Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis, intervenuto sabato scorso in Campidoglio a una manifestazione di sigle propal, nello sventolio di bandiere che chiedevano fra l'altro un solo stato in Palestina per arabi ed ebrei.
Un progetto che, associato col ritorno auspicato da De Sanctis nei confronti dello Stato ebraico di alcuni milioni di profughi palestinesi, equivale a chiedere la fine di Israele. A nulla sono valse le proteste della comunità ebraica di Roma.
Anche Emanuele Fiano ha ricordato all'Anpi che in carcere in Israele si finisce dopo regolare processo se si è ucciso qualcuno. Ma nulla incrina il muro ideologico dell'antisionismo per cui un terrorista che uccide un bambino israeliano è considerato al pari di un combattente antinazista. Le parole di De Sanctis, ha ribadito la numero uno dell'Anpi Carla Nespolo, «le condivido».

(Libero, 2 luglio 2020)


Israele: record di 859 contagi in 24 ore

Verso la proclamazione di 'zone rosse'

Continuano a salire con forte accelerazione i casi di coronavirus in Israele, che nelle ultime 24 ore - secondo il ministero della Sanità - hanno raggiunto quota 25.547 (+859 rispetto alle 24 ore precedenti). Secondo i media si tratta di un record giornaliero, almeno per quanto riguarda la seconda ondata di pandemia attualmente in corso.
Allo stesso tempo, i decessi sono rimasti invariati a quota 320.
Il numero dei malati è adesso 7.838: oltre il doppio del totale di appena due settimane fa. La pressione sugli ospedali sta crescendo in proporzione. Le guarigioni sono state 17.272.
Nell'esame dei test cresce intanto la percentuale dei risultati positivi: ieri si era attestata sul 3,9%, mentre nella mattinata di oggi si aggira sul 5,2%.
Dato l'aggravarsi della situazione, secondo i media, è prevedibile che il governo sarà costretto a proclamare diverse 'zone rosse'. Fra queste potrebbe essere inclusa la città di Ashdod, a sud di Tel Aviv, che ha oltre 200mila abitanti.

(ANSAmed, 1 luglio 2020)


Israele, slitta l'annessione degli insediamenti della Cisgiordania

La delegazione americana torna negli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri Ashkenazi: "Il piano di Trump è la cosa giusta da fare". A Gaza è stata indetta una "giornata della collera" mentre l'Autorità palestinese gioca la carta diplomatica.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - L'ora X è arrivata. Il primo luglio è la data indicata nell'accordo Netanyahu-Gantz per portare al voto dell'esecutivo o del Parlamento una proposta che permetta di estendere la legge israeliana in alcune aree, ancora non definite, della Cisgiordania.
   Nei giorni scorsi Netanyahu aveva sminuito il ruolo di Blu e Bianco - il partito di Gantz - nella partita dell'annessione. E invece si può dedurre che il freno alla mossa sia proprio frutto delle consultazioni che gli alleati di governo hanno avuto con gli americani nelle ultime settimane.
   A Blu e Bianco, proprio in vista dell'attesa data, hanno interrotto un lungo silenzio stampa: questa mattina il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi in un'intervista ha affermato che "il Piano di Trump, nella sua interezza, è la cosa giusta da fare. È un percorso lungo che va portato avanti attraverso il dialogo con i nostri vicini, senza minare la stabilità regionale e gli accordi esistenti". E ha dato seguito alle dichiarazioni di Gantz di ieri per cui "l'1 luglio non è una data sacra, ora il Paese deve pensare alla crisi economica".
   O all'apertura dei cieli, con l'Unione Europea che per adesso non ha inserito Israele nella lista dei "Paesi verdi" - un punto dolente perché la politica dell'aumento dei test adottata dal nuovo ministro della Sanità Yuli Edelstein sta rischiando di penalizzare il Paese a livello internazionale (è vero che il numero dei contagi si aggira ogni giorno intorno ai 400 a fronte di un raddoppiato numero di test, ma gli intubati sono stabili da due mesi, sempre intorno ai 25).
   L'ultimo riferimento di Netanyahu alla spinosa questione risale a un brevissimo passaggio della conferenza stampa di ieri al termine dell'incontro con ben due inviati speciali di Trump, Brian Hook, inviato per l'Iran e Avi Berkowitz, per i negoziati internazionali: "Con Brian Hook ho discusso della nostra costante attività contro la minaccia iraniana. Con Avi Berkowitz della questione della sovranità, su cui stiamo attualmente lavorando e su cui continueremo a lavorare nei prossimi giorni".
   Quindi il tutto è rimandato a un vago "i prossimi giorni". La delegazione americana è tornata negli Stati Uniti senza risultati: nessuna comunione di intenti tra Netanyahu e Gantz, con il primo che vorrebbe sfruttare l'occasione storica fornita da una Casa Bianca amichevole e portare avanti anche solo una ridotta annessione unilaterale, e il secondo che invece spinge per includere qualsiasi azione nel più ampio contesto di trattative, come previsto dal "Piano del secolo" di Trump.
   Il Presidente stesso non ha ancora deciso quanto una mossa sullo scacchiere mediorientale potrebbero giovargli o danneggiarlo, nel momento in cui i sondaggi lo danno sotto Biden di ben 12-14 punti.
   Nonostante sia oramai chiaro che oggi non accadrà nulla, a Gaza è stata convocata comunque una giornata della collera e l'esercito è in allerta. Anche a Ramallah potrebbero svolgersi dei raduni, ma l'Autorità nazionale palestinese è concentrata soprattutto sulla partita della diplomazia, incassando preventivi appoggi internazionali, ai quali si aggiunge stamane anche quello del premier Boris Johnson, che in un editoriale pubblicato sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot ha affermato la sua opposizione a qualsiasi annessione.
   Inoltre, nelle scorse settimane l'Anp ha presentato, sollecitata da alcuni stati europei, una controproposta al Quartetto per il Medioriente. La proposta non è innovativa, ripresenta gli stessi principi già annunciati dall'Olp nel lontano 1988 e mai mutati.
   Netanyahu domenica invece aveva invitato "i palestinesi a sedersi e negoziare in buona fede un compromesso storico che possa portare la pace. Israele è pronto a negoziare". E ha aggiunto che il piano "Pace per prosperità" presentato dal Presidente Trump a gennaio "mette fine all'illusione dei due stati, parlando invece di una realistica soluzione a due stati". Un gioco di parole che non nasconde che il divario tra i due potenziali interlocutori è ancora tutto da colmare, ma che ribadisce il principio dei due stati, da delineare intorno al tavolo delle trattative. Rimane solo da capire chi riuscirà a far sedere i due a quel tavolo.
   
(la Repubblica, 1 luglio 2020)


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L'annessione della Cisgiordania non comincerà oggi. Le tappe del piano di Netanyahu

Le fazioni interne e quelle esterne, le minacce dei palestinesi e sostegno americano. Come si muove il premier israeliano per realizzare la sua eredità.

di Beatrice Guarrera

GERUSALEMME - "Il governo continuerà a lavorare sull'annessione nei prossimi giorni": così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato ieri, alla vigilia del primo luglio. Era questa la data a partire dalla quale, secondo quanto stabilito dall'accordo di governo tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, poteva essere presentato in Parlamento il progetto di legge per l'annessione a Israele di parte della Cisgiordania. Già lunedì il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva affermato che quella del primo luglio non era "una data sacra" per l'annessione. Le due dichiarazioni, giunte a seguito di due incontri separati con l'inviato del presidente Trump Avi Berkovitz e l'ambasciatore degli Stati Uniti David Friedman, sembrano dunque suggerire la volontà di Israele di guadagnare tempo. "Qualunque cosa che non abbia a che fare con la lotta al coronavirus può aspettare", aveva detto Gantz. Israele, sebbene si trovi a dover fare i conti con un aumento esponenziale di contagi da Covid-19 nell'ultima settimana, non sembra voler rinunciare ai suoi piani di annessione. Come e quando verranno attuati concretamente però è difficile dirlo. Secondo alcune indiscrezioni, riportate venerdì scorso dalla tv israeliana Channel 12, Israele avrebbe comunicato al presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas di aver ridimensionato i suoi piani di annessione, limitandosi a due o tre insediamenti israeliani, escludendo la Valle del Giordano. Lo ha riferito un alto funzionario di Ramallah, secondo il quale la notizia sarebbe giunta dal re Abdallah II di Giordania, a seguito dell'incontro avuto in settimana con Yossi Cohen, il capo del Mossad, i servizi segreti israeliani.
  Non è chiaro quali saranno le prossime mosse di Israele, ma nel caso in cui venisse dichiarata l'annessione, potrebbero verificarsi momenti di tensione e già negli ultimi giorni la polizia sembra essere aumentata per le strade di Gerusalemme. "L'annessione ci costerà sangue" diceva una scritta lasciata lunedì alla base di una fontana a Petaeh Tiqwa, cittadina vicino a Tel Aviv. La fontana, che si trova nella piazza intitolata un anno fa a Trump in onore del suo impegno per aver riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, è stata riempita di liquido rosso sangue. E' solo una delle iniziative di protesta contro l'annessione. In Israele in Piazza Rabin a Tel Aviv si sono già svolte due grandi manifestazioni contro l'annessione, organizzate dai partiti israeliani di sinistra, a cui hanno preso parte migliaia di persone. In Cisgiordania la più grande manifestazione contro l'annessione si è svolta lunedì 22 giugno nella Valle del Giordano, organizzata dall'Autorità palestinese e dal partito Fatah guidato dal presidente Mahmoud Abbas . Tra i partecipanti di rilievo anche l'inviato speciale dell'Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, il capo missione Ue per la Cisgiordania e Gaza Sven Kuhn von Burgsdorff, e altri tra ambasciatori e consoli.
  L'accordo tra Gantz e Netanyahu sull'annessione prevede il pieno consenso degli Stati Uniti in questo processo e l'attivo coinvolgimento della comunità internazionale. Sarà anche per questo che il premier israeliano Netanyahu ha fretta di chiudere la questione prima di novembre, in cui si svolgeranno le elezioni negli Stati Uniti e l'attuale Presidente Donald Trump, suo fido alleato, potrebbe non essere rieletto. Il progetto di annessione di parte dell'Area C (così chiamata dagli "Accordi di Osio"), e quindi di circa il 30 per cento della Cisgiordania, si inserisce proprio sulla linea del "Piano di Pace" proposto da Trump, che prevede l'annessione della Valle del Giordano e il riconoscimento di uno stato palestinese.

 Le reazioni internazionali
  Sembra che lo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump voglia intervenire direttamente con un "grande annuncio" sui piani di annessione. Lo ha riferito mercoledì scorso Kellyanne Conway, principale consigliera di Donald Trump, specificando che il presidente americano "sta provando a essere un agente di pace per il medio oriente". La scorsa settimana il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto invece a Israele di abbandonare i suoi piani di annessione di parte della Cisgiordania occupata. Anche Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani, ha denunciato lunedì che "qualsiasi annessione, sia che si tratti del 30 per cento della Cisgiordania, sia che si tratti del 5 per cento è illegale". L'Italia si è detta pronta a lavorare per prevenire l'annessione e passi unilaterali, come ha riferito la settimana scorsa la viceministro degli Affari esteri Marina Sereni, in occasione di un incontro alla Farnesina, con una delegazione di otto ambasciatori della Lega araba. Proprio la Lega Araba nella risoluzione 8522, emessa il 30 aprile al Cairo, ha dichiarato l'annessione come un "crimine di guerra". Mercoledì scorso Ahmed Aboul Gheit, segretario generale dell'organizzazione composta dai 22 paesi arabi, ha affermato che l'annessione di parti della Cisgiordania infiammerebbe le tensioni, metterebbe in pericolo la pace in medio oriente e potrebbe innescare "una guerra religiosa dentro e fuori la nostra regione". Anche il re Abdallah II di Giordania (con oltre il 50 per cento della popolazione di origine palestinese) ha avvertito da tempo che se Israele proseguirà con il suo piano di annessione, entrerà in conflitto politico e diplomatico con il regno ashemita.

 L'opposizione interna
  Oltre all'opposizione esterna, Netanyahu deve anche affrontare l'ostilità al suo progetto da parte di alcune componenti della società israeliana. Nei territori che Netanyahu vorrebbe annettere a Israele, oltre a circa 100 mila palestinesi, vivono infatti 450.000 coloni negli insediamenti israeliani. Secondo molti di loro, un voto all'annessione degli insediamenti potrebbe poi portare al riconoscimento di uno stato palestinese, così come previsto dal Piano di Trump. Riconoscimento per loro inconcepibile, guidati dall'idea che la biblica "Terra di Israele" appartenga soltanto agli ebrei. "Non accetteremo mai la creazione di uno stato palestinese", sostiene David El Hayani, presidente di Yesha, il consiglio delle colonie ebraiche in Cisgiordania, che per la sua campagna di manifesti ha scelto lo slogan: "Sovranità - Fallo nel modo giusto!". Tra gli stessi coloni, circolano però anche idee differenti, come nel caso di Oded Ravivi, il capo del consiglio locale di Efrat che si è detto molto più possibilista sull'accettare l'annessione e il Piano di Trump. "Non possiamo dire di no a tutto avrebbe detto a fine maggio, secondo il quotidiano Haaretz - Penso che il Piano si riferisca innanzi tutto a ciò che è possibile in un prossimo futuro, ovvero estendere la sovranità, e quindi da lì si potrà iniziare a negoziare e vedere il resto".

 L'Autorità palestinese
  L'Autorità palestinese da parte sua rifiuta ogni trattativa sul tema e già da un mese ha annunciato la sua decisione di rinunciare agli accordi con Israele e con gli Stati Uniti, a causa della volontà di annessione e del Piano di Pace di Trump. "Da istituzione ad interim, l'Autorità palestinese passerà ad una manifestazione dello stato sul campo con un Consiglio di fondazione, una Dichiarazione costitutiva - ha affermato il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh in una conferenza stampa del 9 giugno - La Palestina si estenderà lungo i confini del 67 con Gerusalemme capitale". Giovedì scorso il portavoce delle brigate Izzaldin al Qassam, braccio armato di Hamas, ha dichiarato in un comunicato che l'annessione, se attuata, verrà interpretata come una "dichiarazione di guerra". Sabato, Hamas ha fatto sapere che gli ultimi bombardamenti da parte di Israele nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di alcuni razzi venerdì notte, "aumentano la nostra determinazione a gestire il piano di annessione". Nel frattempo i servizi di sicurezza palestinesi hanno distrutto documenti segreti, temendo possibili incursioni israeliane nei loro uffici, così come avvenne nel 2000 durante la Seconda Intifada. Lo conferma anche una fonte interna ai servizi di sicurezza che ha riferito all'AFP in condizione di anonimato di aver ricevuto "ordini dall'alto, di distruggere i documenti riservati in nostro possesso". I documenti sarebbero stati salvati su dispositivi elettronici, prima che le copie cartacee fossero distrutte, Il Presidente dell'Autorità Palestinese Abbas, in un discorso in videoconferenza davanti al parlamento arabo (l'organo della Lega araba), ha affermato che se il piano di annessione venisse attuato, sarebbe il momento in cui Israele dovrebbe "assumersi le proprie responsabilità sui territori occupati in conformità con la Quarta Convenzione di Ginevra!. Dichiarazione che - secondo quanto detto da un ufficiale dell 'Ap al quotidiano Jerusalem Post - sarebbe un chiaro messaggio della sua intenzione di sciogliere l'Autorità palestinese nel caso in cui venisse attuato il piano di annessione.
  Secondo l'agenzia di stampa palestinese Wafa, Israele si starebbe preparando da tempo all'annessione. Sotto accusa sono le demolizioni di abitazioni e pozzi di acqua nella zona della Valle del Giordano, intensificate negli ultimi anni, oltre che il via libera alla costruzione di colonie illegali sempre più numerose.

 L'eredità di Bibi
  Secondo una analisi del quotidiano Haaretz, ci sono alcuni fattori specifici che determineranno la buona riuscita del progetto di annessione di Netanyahu. L'annessione potrebbe essere la sua eredità politica, pagata a un prezzo nemmeno così alto, visto che la comunità internazionale è concentrata al momento su altri problemi (pandemia in primis). La possibilità di scaricare la colpa sui suoi avversari politici in caso di fallimento del piano è una carta a suo favore, così come l'eventualità che questo diventi motivo di rottura del suo accordo di governo con il partito di Gantz. La questione dell'annessione è inoltre un ottimo diversivo che allontani i cittadini dal pensiero del suo processo imminente per corruzione e dalla sua mancanza di strategia per sopperire alla crisi post Covid-19. In ultimo ma fondamentale, sarà poi il fattore "Americani": quale posizione assumerà il presidente Trump e davvero Netanyahu potrebbe mai rinunciare al suo piano?

(Il Foglio, 1 luglio 2020)


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L'azzardo del 30 per cento

L'annessione è molto controversa, dentro e fuori Israele. Oggi che le relazioni con i vicini sono più stabili, la decisione unilaterale può essere molto rischiosa. Parla lo scrittore israeliano Yossi Klein Halevi.

Quando noi israeliani dicevamo di sì alle proposte di Clinton, Arafat rispondeva con quattro anni di attacchi terroristici. La nostra responsabilità ora è sostenere l'integrità di un processo di pace che abbiamo approvato, i no lasciamoli ai palestinesi.

di Micol Flammini

La tentazione dell'annessione di parte della Cisgiordania non è difficile da capire per un israeliano, lo ammette anche Yossi Klein Halevi, scrittore e condirettore dello Shalom Hartman Institute di Gerusalemme, nato negli Stati Uniti e oggi uno dei più influenti intellettuali in Israele. E' una tentazione antica, che ha anche a che fare con un senso intimo di insicurezza perenne, di precarietà geografica. Dalla finestra di Yossi Klein, che vive nella parte nordest di Gerusalemme, si estendono tre entità politiche che lui descrive così: "Lo stato sovrano di Israele, che termina appena oltre la mia finestra; l'Autorità palestinese; poi in lontananza le montagne della Giordania, il tutto a un'ora di macchina da casa mia".
  Quello che Klein Halevi vede dalla finestra potrebbe cambiare se i piani dell'annessione andranno avanti, il primo ministro Benjamin Netanyahu intende annettere allo stato di Israele circa il 30 per cento della Cisgiordania, una mossa che sembra interessare poco ai suoi stessi cittadini, che in questo momento sono presi da altre questioni, come la crisi sanitaria, e seguono con disattenzione quella che, secondo molti, è ormai un'ossessione del premier e non più una battaglia della nazione. "Soltanto il quattro per cento della popolazione crede che l'annessione sia una delle priorità dello stato ebraico, in questo momento sono tutti presi da altre questioni e da molte difficoltà", dice al Foglio Yossi Klein Halevi.
  Per lo scrittore israeliano sono tante le motivazioni per le quali bisognerebbe evitare l'annessione che, dopo il piano di pace proposto dall'Amministrazione Trump, ha acceso in Netanyahu questa fretta di muoversi verso est e di portare avanti un progetto che ha molte resistenze interne, a cominciare dal ministro della Difesa Benny Gantz, e tantissime esterne. Ci sono ragioni strategiche, di sicurezza, di alleanze, ma soprattutto ci sono questioni morali contro l'annessione unilaterale della Cisgiordania, dice lo scrittore che racconta di aver trascorso vent'anni, dalla Seconda Intifada, a difendere Israele soprattutto "nei tempi i del pensiero liberal e di fronte ai leader progressisti, un pubblico incline a dare la colpa agli israeliani" per la situazione di tensione nell'area. "Una delle più grandi risorse del nostro stato è la nostra credibilità morale. Con credibilità ci siamo sempre dimostrati pronti a negoziare, di fronte alla comunità internazionale noi eravamo quelli che ragionavano sulle offerte che ci venivano fatte. Mentre noi dicevamo di sì alle proposte di Clinton, Arafat rispondeva con quattro anni di attacchi terroristici. La nostra credibilità morale è data dal fatto che siamo stati sempre a favore di tutte le opzioni, compresa l'eventuale creazione di uno stato palestinese, noi abbiamo sempre resistito alla tentazione di determinare con la forza la natura giuridica dei territori" e l'annessione, dice Klein Halevi, sarebbe questo: agire come Israele non ha mai voluto agire. "Questo era il nostro modello, ed ora stiamo mettendo in pericolo la nostra credibilità morale. Il progetto di Netanyahu di annettere unilateralmente parte di Giudea e Samaria ha anche un lato ironico. Se Israele procede con l'annessione, se estende la legge israeliana agli insediamenti, non ci saranno grandi cambiamenti sul piano pratico, non cambierà la realtà sul campo, piuttosto la nostra posizione nella comunità internazionale. La nostra moralità, appunto. Con l'annessione si creerà una dinamica internazionale in cui Israele sarà sempre di più sulla difensiva". Non vede risvolti positivi dal piano che Netanyahu avrebbe voluto attuare da oggi, ma che invece è stato rimandato. Eppure Israele si è sempre ritrovata di fronte ai "no" dei palestinesi, alla loro contrarietà di fronte a qualsiasi forma di negoziato, sembra impossibile trovare un compromesso e l'annessione sembra quasi l'unica strada, l'unica alternativa. Non è d'accordo Yossi Klein: "Non sta a noi cambiare il modo di pensare palestinese e non è questo il momento di giocare con lo status quo, Ora Israele dovrebbe pensare a rafforzare le sue relazioni internazionali. Questo è un momento storico in cui la paura condivisa dell'imperialismo iraniano sta mettendo insieme gli stati arabi e noi, è un momento importante per tutto il medio oriente e l'annessione è una risposta selvaggia".
  In una lettera inviata a Benny Gantz e al ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi dalle colonne del Times of Israel, Klein Halevi chiede ai due esponenti del governo di guardarlo con attenzione quel piano di pace da cui tutto è partito, perché quel piano non è l'invito a un'annessione unilaterale sotto qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, è piuttosto un suggerimento, l'invito a negoziare e trovare un accordo. "La nostra responsabilità ora è fare di tutto per sostenere l'integrità di un piano che abbiamo approvato, i no lasciamoli ai palestinesi. lo credo che sia un buon piano, soprattutto se lo interpretiamo come un patto di transizione e non come uno status quo definitivo per il futuro. Ma potrebbe essere un punto di svolta per far ripartire i negoziati. Quello che trovo davvero positivo di questo piano è la sua capacità di suonare come un campanello d'allarme, sia per la leadership palestinese sia per i leader della destra israeliana. Il piano deve far capire ai palestinesi che ogni volta che rifiutano un accordo, la possibilità per loro di vedere nascere uno stato si fa sempre più piccola. La destra israeliana invece deve comprendere che anche un'Amministrazione americana comprensiva, repubblicana, vicina alle loro idee sostiene la necessità di creare uno stato palestinese, allora anche per loro è arrivato il momento di fare i conti con la realtà".
  A preoccupare Yossi Klein è anche la sicurezza dello stato ebraico, "l'idea di procedere con l'annessione mette in pericolo la cooperazione che abbiamo con l'autorità palestinese, che è molto importante per la sicurezza israeliana, e anche l'accordo di pace con la Giordania. Mantenere posizioni militari nella Valle del Giordano è essenziale per proteggere Israele dagli attacchi che vengono da est. E, per mantenere una presenza di sicurezza sul confine orientale di Israele, non è necessaria l'annessione". Le speranze di Klein Halevi che fosse la parte blu e bianca del governo con il suo leader Benny Gantz a cambiare le sorti di questo processo si sono trasformate in delusioni. Anche Gantz, quando ancora era l'uomo dell'opposizione, prima della terza elezione in un anno, aveva approvato il piano di Trump, era stato anche accolto alla Casa Bianca dal presidente americano - gli aveva chiesto però di non sottoporlo allo strazio di una photo opportunity accanto al rivale Bibi, ancora non sapeva che avrebbe acconsentito a formare un governo di unità nazionale - ma ha cercato di non pronunciarsi mai apertamente a favore dell'annessione. In queste ultime settimane aveva chiesto a Netanyahu di attendere, di pensare alla crisi sanitaria, ma il primo ministro aveva risposto che non spettava a lui decidere, ma alla Knesset, il Parlamento. "Sono molto deluso da Gantz, potrebbe fare molto, dovrebbe dire con fermezza che non è questo il momento di danneggiare le relazioni internazionali di Israele, i suoi rapporti economici. Capisco perché ha accettato di formare un governo con il Likud, il partito di Netanyahu, ha evitato al paese una quarta elezione con poche speranze di portare a un risultato netto, ha risparmiato al paese una campagna elettorale durante una pandemia, e gli sono grato. Ma credo sarebbe il momento di sfruttare la sua posizione".
  Ieri, dopo un incontro con l'ambasciatore americano in Israele Friedman e l'inviato speciale per il medio oriente Avi Berkowitz, Netanyahu ha detto che il governo continuerà a lavorare sulla questione della sovranità in Cisgiordania, la decisione è stata rimandata, segno del fatto che forse anche il sostegno degli Stati Uniti non è più così sicuro. "Credo che questo indichi una certa dose di caos dentro all'Amministrazione americana. C'è una fazione che sostiene l'annessione e un'altra che la vede come un'alterazione del piano di pace. Penso però che uno dei motivi per i quali Washìngton ha detto di essere a favore abbia a che fare con la frustrazione che deriva dal fatto che la leadership palestinese non ha nemmeno accettato di incontrarsi per discutere il piano. C'è molta rabbia, da tutte le parti. Ma non può essere la rabbia il motore della nostra politica". Non per Israele, dice Yossi Klein Halevi, la credibilità morale di un popolo che per decenni ha mostrato la sua disponibilità a negoziare sul territorio conteso non può reggersi sulla rabbia.

(Il Foglio, 1 luglio 2020)


Coronavirus: un segno per la prossima generazione

Riflessioni su Ecclesiaste e Coronavirus

di Scialom Bahbout

L'epidemia dovuta al Coronavirus ha riportato in prima pagina l'esperienza della morte, che è rientrata improvvisamente e prepotentemente nella vita del singolo e della società. La morte era stata quasi bandita dalle case e confinata negli ospedali. La riflessione sulla morte e sulle epidemie ha spinto molte persone a cercare ispirazione nella lettura dei testi classici: ecco quindi che si tornano a leggere I promessi Sposi di Manzoni, il Decameron di Boccaccio o La Peste di Camus.
   Davvero strano che tra questi testi non trovi posto nessuno dei libri della Bibbia. Pur senza averle inserite nelle proprie leggi costitutive, l'Europa dichiara di ispirarsi alle radici giudaico-cristiane: ci saremmo quindi aspettati di trovare tra i testi proposti alla lettura e su cui riflettere qualcuno dei testi biblici. Ecclesiaste è un libro con molte domande e con qualche risposta per chi lo legge in momenti di crisi con la dovuta attenzione.
   Certo leggere Ecclesiaste, senza avere un supporto interpretativo, può gettare nella disperazione. "È migliore il giorno della morte di quello della nascita", "tutto è vanità", "non c'è niente di nuovo sotto il sole" e "la fatica operosa dell'uomo è vana": queste e molte altre affermazioni ci inducono a pensare che contrastare il Virus sia del tutto inutile.
   Ecclesiaste è stato tradito dalle traduzioni e dall'incapacità di interpretazione della maggior parte dei lettori occidentali. Hèvel, la parola che viene tradotta con vanità, ha molti significati e per capire cosa significa dobbiamo collegarla con la prima volta che essa compare nella Bibbia. Hèvel (Abele) è il nome del primo uomo che, appena uscito dall'Eden, viene ucciso dal fratello Caino: anche se la vita è temporanea, bastano pochi giorni di vita per svolgere un ruolo importante nella storia dell'uomo. Infatti, il testo biblico testimonia che l'offerta di Abele fu accolta dal Signore: Abele portando un dono al Signore, aveva concepito la sua vita come dono e non come strumento per ottenere qualcosa. Inoltre, Abele, come i Leaders biblici più importanti, era un pastore di greggi, un lavoro che rende veramente libero. Gli Egiziani traevano la propria sopravvivenza dalla terra della quale erano schiavi, schiavi del Faraone cui appartenevano tutte le terre e consideravano gli ebrei come abominevoli proprio in quanto pastori. Il pastore è un uomo libero che può muoversi a suo piacimento nelle praterie, mentre Caino, uomo della terra, non riesce a liberarsi della terra dalla quale riceve il proprio sostentamento. A Caino, abbattuto perché la sua offerta non fu accolta con favore, viene detto: "se ti comporterai bene potrai andare a testa alta": la sua reazione lo rende schiavo dei suoi istinti e uccide Abele.
   La vita seppure breve di Abele lascia un segno nella storia: egli è stato il primo uomo ad aver concepito la propria vita come dono, cosa che lo salva dal destino riservato a Caino, che sarà additato come primo assassino ovunque egli vada. Quindi Abele lascia alla generazione successiva l'idea della vita concepita come dono.
   Quando i Maestri d'Israele si sono trovati di fronte al dilemma se includere o meno Ecclesiaste nella Bibbia, si sono divisi, ma alla fine ha prevalso l'opinione che il testo fosse sacro e quindi dovesse essere interpretato in modo che fosse inserito nella Bibbia. Il lettore moderno rimane stupito di fronte a questa decisione coraggiosa, che rientra nell'atteggiamento della tradizione ebraica, tesa a non ignorare le domande, anche e soprattutto, quando sono scomode. L'importante è non fraintendere ciò che vuole trasmetterci il testo. Hèvel, che siamo abituati a tradurre con vanità, significa in realtà che tutto è temporaneo e questo vale per il bene come per il male.
   Si parla spesso in questi giorni che dobbiamo essere consapevoli che siamo destinati a convivere con il Coronavirus, ma Ecclesiaste ci dice che tutto è temporaneo e che non bisogna aver paura della morte, ma utilizzare la vita nel migliore dei modi.
   C'è un Tempo per vivere e un tempo per morire: per Ecclesiaste rendersi conto che la morte è parte integrante della vita dà un senso alla stessa vita. La sapienza, la gioia e l'operosità, benché temporanei, sono momenti importanti della vita che lasciano un segno nella storia e questo non va sminuito.
   Una generazione va e una generazione viene e questa raccoglierà il segno lasciato dalla generazione che l'ha preceduta. Ecclesiaste sostiene in fondo che l'importante è capire e riconoscere che vi sono regole entro le quali l'uomo deve muoversi, che i risultati raggiunti da una generazione verranno trasmessi alla generazione successiva. L'opera di un uomo può sembrare temporanea, ma non tutta la sua opera, perché una sua parte lascerà un segno.
   Compito di ogni generazione è lasciare in eredità un segno a quella che avanza e così facendo dare un significato alla propria vita.
   
(Kolòt, 29 giugno 2020)

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La morte è parte integrante della vita?

di Marcello Cicchese

"La morte è parte integrante della vita", è un ossimoro che indubbiamente colpisce e induce a riflettere". Finalmente c'è qualcuno che in questo tempo di pandemia non si chiede "che cosa dobbiamo fare" ma "come dobbiamo pensare". Ed è notevole che rav Scialom Bahbout si rivolga alla Bibbia, un documento che per il momento è ancora considerato un patrimonio storico della cultura europea, in attesa che si abbattano anche su di lui i colpi della furia "iconoclasta" che sta investendo il mondo occidentale.
   E' interessante il collegamento tra vanità (Hevel) e Abele. Il termine vanità dell'Ecclesiaste acquisterebbe dunque un colore positivo e sarebbe usato per indicare una vita che si presenta come dono per gli altri, un segno benefico lasciato alle future generazioni. Caino invece resta schiavo dell'interesse per la sua terra e non si apre alla libertà del dono come fa il fratello. Ma perché ammazza Abele? Anche l'omicidio è parte integrante della vita? Abele avrebbe dovuto pensare che tra le parti integranti della sua vita c'era anche la possibilità di essere ucciso dal fratello? Bisogna dire allora che in questo quarto capitolo della Bibbia non si presenta il problema della morte, ma quello dell'omicidio. In linguaggio filosofico si potrebbe dire che è il problema del male; in linguaggio teologico si direbbe che è il problema del peccato.
   Bahbout propone invece un modo puramente orizzontale di guardare al problema della morte, che non sembra molto diverso da tanti altri. Di molti personaggi del passato si ama dire, senza bisogno di fare riferimenti biblici, che anche dopo la morte continuano a "vivere nella memoria dei posteri" perché hanno lasciato un segno imperituro nella storia. Che bisogno c'è di far intervenire la Bibbia a sostegno di una simile visione morbida e pacificante della morte?
   La morte non è un generico male che si è costretti a subire, non è la semplice stazione di arrivo di un viaggio più o meno interessante e produttivo. La prima morte non è stata il "naturale" concludersi di una vita destinata all'estinzione, ma l'interruzione violenta della vita di un uomo, provocata dall'odio di un altro uomo. Nella storia del mondo la prima morte di un uomo è stata data da un altro uomo. E quindi è una morte che per prima cosa non mette in evidenza l'imperfezione della natura fisica dell'uomo, ma la sua malvagità.
   E il fattaccio fra i due fratelli non è avvenuto per un "comprensibile" litigio fra uomini, non è stato provocato da un contrasto per questioni di pecore o buoi, ma per l'odio provocato in Caino dalla scelta di Dio, prima ancora che dal comportamento di Abele. Di questo, dice la Bibbia, Caino "fu molto irritato e il suo volto ne fu abbattuto"; e non potendo colpire Dio, colpì la Sua immagine nella persona del fratello.
   C'è una lettura della Bibbia che l'immagina come un paesaggio di dolci colline e ombrose valli, come si trovano in Toscana. I colli non sono molto alti e le valli non molto profonde; i colli sono vita e le valli sono morte; ma con la dovuta attenzione si possono percorrere gli uni e le altre senza troppi drammi. Un po' di buon senso, suvvia!
   Ma una lettura corretta della Bibbia porta a riconoscere che il paesaggio biblico è fatto di picchi altissimi e baratri spaventosi. Ci sono contrasti taglienti e umanamente insanabili tra fatti di vita e fatti di morte, tra fatti di amore e fatti di odio. Chi cerca di smussarli e ammorbidirli deforma il testo biblico tentando di adattarlo al suo preconcetto sistema di pensiero.
   C'è poi una domanda che può far capire il tipo di approccio biblico che si adotta. Esiste nella Bibbia un soggetto principale a cui tutto il resto si riferisce? O non esiste, perché si tratta di una raccolta di fatti e istruzioni con vari centri e senza veri collegamenti? E se esiste, chi può essere? Abramo? Mosè? Davide? il popolo d'Israele? Gesù? L'ultima risposta è quella che molti evangelici darebbero, ma qui si vuol fare riferimento al testo così come letteralmente si presenta, non al significato teologico che trasmette. La risposta è semplice, ma tutt'altro che scontata: Dio stesso. Sembra una risposta banale, in cui tutti dovrebbero essere d'accordo; non si tratta però di trarre conclusioni teologiche, ma di osservare il muoversi dei vari personaggi all'interno della narrazione biblica. Il Dio di molti lettori della Bibbia, a cui si è pronti a riconoscere il primo posto, resta sempre fermo lì, in quel primo posto, e dall'alto si preoccupa di dare ordini e istruzioni, di fare promesse e minacce agli uomini che si muovono nel basso. E l'attenzione dei lettori è tutta rivolta ad osservare come si muovono in basso gli uomini del testo biblico, a chiedersi se fanno bene o fanno male, a cercare di trarre dagli ordini di Dio e dal comportamento degli uomini ammonimenti e istruzioni su come ci si debba muovere oggi nel presente. Ma quanto a Dio stesso, pochi si chiedono con passione: ma perché fa così? perché si è mosso così nel passato? che intenzioni aveva? ha ottenuto quello che voleva? In altre parole, pochi sono interessati a conoscere in profondità quel Dio a cui si dice di concedere il primo posto.
   La Bibbia comincia così: "Nel principio Dio creò i cieli e la terra", punto. Fino a qui l'unico personaggio della storia è Dio. Sorge allora la domanda: perché l'ha fatto? Se il racconto finisse qui, a nessuno si potrebbe chiedere di rispondere a questa domanda. Il racconto però continua, e fino alla fine del terzo capitolo si riconosce facilmente che il personaggio principale resta Dio, anche perché finisce con un atto di sovranità con cui caccia fuori dal giardino di Eden la prima coppia umana da Lui creata.
   Stranamente però, dal quarto capitolo in poi l'attenzione dei lettori della Bibbia (non il testo biblico stesso) si concentra quasi esclusivamente sugli uomini. E i primi uomini di cui si parla sono appunto Caino e Abele. Il primo uccide il secondo: nulla di strano per noi fino a questo punto. Ne sentiamo molti di fatti come questo, e spesso concludiamo con un sospiro: siamo uomini! L'umana compassione per i delinquenti è comprensione di sé e preventiva autoassoluzione. Anche Caino merita comprensione, come esprime anche il poeta romanesco G.G. Belli in un suo sonetto:
   Nun difenno Caino io, sor dottore,
   ché lo so ppiò dde voi chi ffu Caino:
   dico pe ddí che quarche vorta er vino
   pò accecà l'omo e sbarattaije er core.
Gli uomini sono uomini, e questo si sa. Ma anche Dio è Dio, e di Lui, che si sa? Perché ha approvato il sacrificio di Abele e non quello di Caino? Perché ha commesso il gravissimo errore, secondo i nostri canoni pedagogici, di preferire un figlio ad un altro, provocando in questo modo la furia omicida? Sono domande che anche il poeta Belli si pone nei suoi versi, e con parole di implicito rimprovero a Dio così continua:
   Ma quer vede ch'Iddio sempre ar zu' mèle
   e a le su' rape je sputava addosso,
   e nò ar latte e a le pecore d'Abbele,
   a un omo come nnoi de carne e dd'osso
   aveva assai da inacidije er fiele.
Belli comprende bene Caino, ma non comprende Dio. Ed è così per molti. Si preferisce allora mettere tra parentesi la persona di Dio nella sua inesplicabilità e rivolgere tutta l'attenzione ai movimenti degli uomini. E questo dà la possibilità di far intervenire nella spiegazione una quantità di valori morali e considerazioni culturali che gli uomini stessi hanno elevato a paradigmi di valutazione. Ma in tutto questo il Dio della Bibbia non c'entra.
   La presentazione di Caino e Abele come un invito sdrammatizzare il problema della morte, presentandolo, com'è di moda oggi, "non come un problema ma come un'opportunità", si adatta bene ai paradigmi di pensiero che abbiamo autonomamente scelto, ma non ha basi bibliche.
   Ma la morte non è la semplice fine di un viaggio, non manifesta soltanto la temporaneità di ogni cosa che si muove sulla terra: la morte è una catastrofe finale in se stessa irreversibile, è l'espressione più compiuta del male che ha invaso il creato dopo la disubbidienza dei nostri progenitori.
   La morte non può essere sdrammatizzata. Non ha senso dire che la morte è parte integrante della vita, come non ha senso dire che il furto è parte integrante dell’onestà. La morte è una catastrofe a cui soltanto Dio, che è il Personaggio principale di tutta la storia biblica e non biblica, può porre rimedio. Ed è proprio in Gesù che Dio si rivela agli uomini come il Personaggio principale della storia che risolve il problema della morte, perché si fa carico del problema del peccato. E lo risolve in un modo umanamente incomprensibile: morendo sulla croce come "Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo" (Giovanni 1:29) e risuscitando il terzo giorno "per la nostra giustificazione" (Romani 4:25).

(Notizie su Israele, 1 luglio 2020)


-> Una presentazione del libro dell'Ecclesiaste


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