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Notizie 16-31 luglio 2025


Cibo per Gaza lasciato marcire al sole, il servizio Rai sugli aiuti incastra le Nazioni Unite

Ma la politica si scaglia contro il giornalista Brunori

di Noà Bentura

Domenica scorsa l’inviato Rai Giovan Battista Brunori, da due anni corrispondente dal Medio Oriente, ha firmato un reportage che ha fatto deflagrare un vaso di Pandora mediatico e politico. Le immagini trasmesse sono inequivocabili: tonnellate di aiuti umanitari destinate alla popolazione palestinese, stipate da giorni al valico di Karem Shalom, lasciate a marcire sotto un sole implacabile. Secondo quanto documentato, i camion carichi di generi alimentari avevano già superato la frontiera israeliana.

Le accuse dopo il servizio di Brunori
  Lo Stato ebraico, infatti, aveva rimosso le restrizioni e consentito il passaggio degli aiuti, eliminando ogni pretesto di ostacolo da parte propria. Eppure, dall’altro lato del confine, il nulla: nessuna organizzazione internazionale, a partire dalle Nazioni Unite, si è presentata a ritirare quei beni fondamentali. Una distanza di pochi chilometri ha separato cibo e acqua dalla popolazione palestinese affamata, senza che nessuno intervenisse.
All’interno dell’enclave, Brunori raccoglie le parole di un portavoce dell’esercito israeliano che, davanti alle telecamere, pone la domanda più semplice quanto scomoda: «Perché le Nazioni Unite non distribuiscono questo cibo?». Quello che dovrebbe essere il cuore della notizia è stato rapidamente messo in ombra dalle reazioni politiche e istituzionali. Il consigliere di amministrazione della Rai, Roberto Natale, ha accusato il servizio di «fare da megafono alla propaganda israeliana». Ancora più grave l’uscita del Movimento 5 Stelle, che ha parlato di «complicità con un criminale di guerra».

Contraddittorio bandito
  Questo episodio, oltre a denunciare una gestione scandalosa degli aiuti umanitari, mette a nudo una verità più scomoda: il nostro sistema mediatico è ostaggio di una narrazione polarizzata, dove il contraddittorio non solo è bandito, ma viene criminalizzato. Il reportage di Brunori ha mostrato fatti che avrebbero dovuto indignare e spingere all’azione. Invece ha acceso un fuoco incrociato di accuse e processi mediatici, dove lo spazio per una voce fuori dal coro è stato messo sotto attacco. Difendere la libertà di chi racconta significa difendere la possibilità di un giornalismo libero, che non si piega alle pressioni né alle narrazioni di comodo. Perché senza voci indipendenti, la verità resta ostaggio del potere.

(Il Riformista, 31 luglio 2025)

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Meghnagi: “L’antisemitismo cresce dappertutto, anche a Milano. Ma dobbiamo continuare a essere fieri di quello che siamo e non dobbiamo avere paura”

di Ilaria Myr

«La Comunità ebraica di Milano si è subito costituita parte civile contro i delinquenti che hanno aggredito il padre francese ebreo e il figlio di sei anni all’Autogrill Villoresi il 27 di luglio e siamo molto soddisfatti della velocità con cui stanno procedendo le indagini. Poche ore fa abbiamo infatti saputo che sono state individuate quattro delle persone che hanno assalito anche fisicamente l’uomo, mentre il bambino terrorizzato piangeva sotto shock. Tutto ciò è imperdonabile e mi auguro che la giustizia non perdoni».
Parla con molta determinazione Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, dopo l’episodio scioccante che ha visto un uomo ebreo francese assalito da sedicenti sostenitori della causa palestinese semplicemente perché fisicamente riconoscibile in quanto ebreo. Un fatto che purtroppo si aggiunge ai moltissimi, sempre più frequenti, che vedono ebrei aggrediti in Europa, e non solo, in nome della difesa dei diritti palestinesi. Qualche giorno prima dei fatti all’Autogrill, per esempio, 50 adolescenti ebrei francesi erano stati fatti scendere molto brutalmente da un aereo Vueling perché, a detta del capitano “mettevano a rischio la sicurezza”, mentre più testimoni hanno confermato che stavano solo cantando in ebraico. Per non parlare dei continui episodi, che riportiamo anche su questo sito, di attacchi a israeliani in vacanza solo perché israeliani.
Che si sia israeliani o ebrei si è sempre bersagli legittimi per chi fomenta l’odio e usa la violenza – ben diverso da sostenere una causa – in nome della questione palestinese: a dimostrazione che l’antisionismo è la nuova faccia dell’odio antiebraico.

Purtroppo negli ultimi mesi anche a Milano è un susseguirsi di episodi e fatti contro Israele e gli ebrei. Dopo il cartello apparso su una merceria in centro che diceva “Israeliani sionisti non sono i benvenuti” e i manifesti apparsi a fine giugno nel quartiere ebraico su cui era scritto “Israeli not welcome”, questa settimana ne sono apparsi altri firmati da Azione Territorio Metropolitano per la Palestina in cui si denuncia il “genocidio” a Gaza, che però utilizzano senza alcun permesso e connessione il logo dell’azienda di trasporti milanesi ATM, che ha subito proceduto a rimuoverli.
«Oggi sono apparsi degli adesivi in via Raffaello Sanzio e ieri in via Buonarroti con su scritto “ieri vittime oggi carnefici” – continua Meghnagi -. Ma sappiamo che questi, come i manifesti di giugno, sono messi dai giovani dei centri sociali, che si preparano e pianificano queste azioni. Per questo devo ripetere la mia condanna a quella sinistra che, con distinguo e dichiarazioni, sta favorendo l’odio contro gli ebrei».
Per questo motivo proprio di recente sono venuti in visita alla Comunità ebraica di Milano alcuni consiglieri del Comune di Milano per portare la propria solidarietà e prendere impegni per azioni efficaci conto l’antisemitismo.
Meghnagi però non risparmia anche quei media che invitano ospiti a dire falsità su Israele senza un contraddittorio preparato, come martedì 29 luglio Francesca Albanese che su La 7 ha dichiarato che i soldati israeliani sparano alle teste e ai testicoli dei bambini palestinesi per rendersene conto. Oppure gli attacchi che sta subendo il giornalista Rai Giovan Battista Brunori che di recente ha fatto  un servizio al valico di Kerem Shalom, testimoniando che tonnellate di aiuti umanitari sono fermi al sole senza che nessuno li ritiri: per questo reportage il consiglio di amministrazione della Rai Roberto Natale ha accusato il servizio pubblico di fare da “megafono alla propaganda israeliana” e il Movimento 5 Stelle ha parlato di “complicità con un criminale di guerra”.
Nonostante questo clima sempre più incandescente e difficile, il presidente della Comunità ebraica milanese invita i suoi iscritti a non avere paura. «Dobbiamo continuare a condurre la nostra vita, certo con attenzione, ma senza avere timore né tantomeno vergognarci, ma anzi essendo fieri di quello che siamo – dichiara convinto -. Abbiamo la protezione continua e costante delle forze dell’ordine e dei migliori aiuti legali. Chiederemo sicuramente di assisterci ancora di più e di applicare con più durezza leggi contro l’antisemitismo».

(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2025)

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La destra americana (MAGA) contro Israele

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha recentemente avvertito un importante donatore ebreo che la sua base MAGA sta iniziando a rivoltarsi contro Israele. Lo riporta il Financial Times.
“La mia gente sta iniziando a odiare Israele”, avrebbe detto Trump al donatore anonimo, citando un esperto di Medio Oriente, anch’egli anonimo, con contatti all’interno dell’amministrazione Trump.
Il rapporto descrive il donatore come “di spicco”.
“Ci sono persone alla Casa Bianca che stanno osservando lo sviluppo di questa narrativa nell’ala destra, nel mondo MAGA, che è molto anti-israeliana, molto anti-ebraica”, avrebbe detto l’esperto.
I commenti arrivano mentre Israele è oggetto di crescenti critiche, anche da parte di Trump e di altri repubblicani, a causa delle immagini di fame che emergono da Gaza.
Lunedì, la deputata di estrema destra Marjorie Taylor Greene della Georgia, una fedele sostenitrice di MAGA che ha diffuso teorie cospirative antisemite e chiede regolarmente la fine degli aiuti esteri, ha definito ciò che sta accadendo a Gaza “genocidio”.
“È la cosa più vera e più facile da dire che il 7 ottobre in Israele è stato orribile e che tutti gli ostaggi devono essere restituiti, ma lo stesso vale per il genocidio, la crisi umanitaria e la fame che stanno avvenendo a Gaza”, ha scritto su X.
Martedì, l’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee ha negato l’esistenza di una frattura tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendola una “falsa” narrazione dei media.
“La disconnessione è con i media [che] vogliono che ci sia un messaggio anti-Israele che continuano a trasmettere; ma è un messaggio falso”, ha detto Huckabee.

(Rights Reporter, 31 luglio 2025)
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Notizie di questo tipo stanno arrivando da tempo anche da altre fonti. Qualcuno ha davvero pensato che Israele potesse contare fino in fondo sugli Stati Uniti?

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“Vergognati. Così premi i terroristi”

L’ex ostaggio Emily Damari contro Starmer per l’annuncio sul riconoscimento della Palestina

di Samuel Capelluto

La Gran Bretagna ha ufficialmente annunciato che, se la situazione a Gaza non cambierà, procederà con il riconoscimento di uno Stato palestinese entro settembre. A poche ore dall’annuncio, anche altri dieci Paesi hanno espresso l’intenzione di seguire la stessa strada: Malta (che formalizzerà a settembre), Andorra, Islanda, Nuova Zelanda, San Marino, Australia, Canada, Finlandia, Lussemburgo e Portogallo. Si tratta di un fronte occidentale sempre più compatto, che risponde all’appello dell’ONU e dell’Unione Europea per una soluzione “a due Stati”. Ma proprio da Londra arriva una delle reazioni più nette. Emily Damari, cittadina britannico-israeliana che è stata ostaggio di Hamas per 471 giorni, ha attaccato il premier britannico Keir Starmer in un post virale su X:
   “Questa decisione non promuove la pace — premia il terrorismo. Invia un messaggio pericoloso: che la violenza merita legittimità. Dare riconoscimento a uno Stato mentre Hamas controlla ancora Gaza significa rafforzare gli estremisti e distruggere ogni speranza di pace autentica. Vergognatevi”.
   Emily Damari
Emily Damari

è diventata uno dei volti simbolo degli ostaggi israeliani. La sua lunga prigionia, durata quasi un anno e mezzo nelle mani di Hamas, l’ha trasformata in una voce ascoltata nell’opinione pubblica anglosassone. Con doppia cittadinanza e un’esperienza diretta dell’orrore, Damari rappresenta oggi quel ponte morale, tra Israele e l’Occidente, che rifiuta di cedere al cinismo diplomatico.
   Nel suo messaggio, Damari ha sottolineato come il riconoscimento dello Stato palestinese — in un momento in cui Hamas continua a detenere ostaggi e a bombardare Israele — non sia un atto di pace, ma un incoraggiamento al terrorismo. La sua denuncia si fa portavoce di un sentimento diffuso in Israele: l’Europa, secondo molti, non riesce più a distinguere tra vittima e carnefice.
   In un mondo in cui le capitali occidentali sembrano affrettarsi a offrire legittimità a una leadership palestinese divisa, corrotta e violenta, la voce di Emily Damari risuona come un monito: senza verità e giustizia, non ci sarà mai pace.

(Shalom, 31 luglio 2025)

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Olanda, Europa e Israele: la frattura morale si allarga

di Samuel Capelluto

Di fronte al rifiuto dell’Olanda di consentire l’ingresso ai ministri israeliani Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, si apre una nuova crepa nelle relazioni tra Israele e parte dell’Europa. Ma dietro l’episodio diplomatico, c’è molto di più: una divergenza di valori, una crisi di visione, una domanda scomoda che l’Europa preferisce ignorare.
   Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha convocato per un richiamo ufficiale l’ambasciatrice olandese a Gerusalemme. Secondo Sa’ar, “la pressione internazionale su Israele ha già portato Hamas a irrigidire le sue posizioni nei negoziati, danneggiando le possibilità di raggiungere un accordo”. In un momento in cui i terroristi trattengono ancora ostaggi israeliani, Israele si trova accusata proprio da chi dovrebbe sostenerla. “Il mondo dovrebbe esercitare pressione su Hamas, non su Israele”, ha detto il ministro. “Stiamo lavorando duramente per far entrare aiuti umanitari, in condizioni complesse. Parlare di ‘politica della fame’ è una menzogna pericolosa”.
   Ben Gvir ha commentato con fermezza la decisione olandese, affermando che continuerà a difendere la sicurezza dei cittadini israeliani, indipendentemente dalle restrizioni politiche esterne. Secondo il ministro, chi chiede a Israele di fare concessioni a Hamas non può essere considerato un vero alleato.
   Anche Smotrich ha espresso disappunto per la scelta del governo olandese, sottolineando che la priorità rimane la sicurezza del popolo ebraico. A suo avviso, l’Europa sta smarrendo la capacità di garantire la protezione delle proprie comunità ebraiche, mentre chiede a Israele di abbassare la guardia.
   Nel frattempo, in alcune capitali europee si firma una lettera congiunta che condanna Israele, senza una parola di condanna per Hamas. Una lettera che, secondo Sa’ar, “è stata già rimpianta da più di un ministro europeo degli Esteri”, perché ha solo rafforzato Hamas e reso più difficile il raggiungimento di una tregua.
   Israele chiede verità. E mentre continua a lanciare aiuti umanitari sopra Gaza, mentre permette a centinaia di pazienti palestinesi di ricevere cure fuori dalla Striscia, mentre combatte un nemico che usa i bambini come scudi umani, Israele viene giudicata da chi non sa più distinguere tra vittima e carnefice.
   L’Europa dovrebbe chiedersi: quale valore difendiamo quando premiamo chi realmente incita al genocidio (del popolo ebraico) e condanniamo chi si difende? Israele non cerca approvazione. Cerca giustizia. E continua a combattere — con le armi, con gli aiuti umanitari, con la sua stessa esistenza —in un contesto sempre più ostile.
   In un mondo che spesso si volta dall’altra parte, il popolo ebraico difende solo il diritto di esistere, di difendersi.

(Shalom, 30 luglio 2025)

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Odio antisemita nelle università, l’appello dell’Unione giovani ebrei contro il boicottaggio accademico

di Luca Spizzichino

Nelle ultime settimane abbiamo assistito, con crescente inquietudine, al moltiplicarsi di mozioni di boicottaggio nei confronti di università israeliane. I casi più recenti sono quelli dell’Università di Pisa, dove il rettore Riccardo Zucchi ha annunciato la fine della collaborazione con la Reichman University e la Hebrew University; dell’Università di Firenze, dove cinque dipartimenti hanno deciso di aderire a quella che è stata definita una forma di “boicottaggio accademico”; e, più recentemente, della Scuola Normale Superiore di Pisa che, pur non avendo in essere accordi con enti di ricerca o istituzioni universitarie israeliane, ha visto il Senato accademico stabilire che l’ateneo “si impegna a valutare con la massima attenzione ogni accordo istituzionale e collaborazione scientifica che possa riguardare lo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari” o che “risultino implicati, direttamente o indirettamente, nelle violenze e nell’occupazione a danno delle popolazioni civili di Gaza e della Cisgiordania”.
Queste iniziative, mascherate da attivismo politico, troppo spesso si traducono in pratiche di esclusione identitaria e discriminazione. E quando l’università, lo spazio che per definizione dovrebbe garantire libertà di pensiero, confronto critico e cooperazione internazionale, si trasforma in luogo di divisione e delegittimazione, non possiamo rimanere in silenzio. Per questo, come Unione giovani ebrei d’Italia abbiamo deciso di aderire con convinzione all’appello contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani. Tutto il Consiglio Ugei ha firmato questo appello, e invitiamo chiunque abbia a cuore il valore della libertà accademica e della dignità individuale a fare lo stesso.
In una democrazia, il dissenso è un diritto sacrosanto. Ma esiste una linea sottile, che in troppi contesti è stata ormai oltrepassata, tra critica legittima e discriminazione. Quando si arriva a boicottare un’università per la sua appartenenza a un determinato Stato, allora si entra nella pericolosa logica della colpa collettiva. E a pagarne il prezzo non sono solo le istituzioni, ma le persone: studenti, ricercatori e docenti che vengono etichettati, emarginati, esposti alla gogna pubblica. Troppo spesso, se ebrei o israeliani, vengono trattati come bersagli politici, a prescindere dalle loro idee.
Tutto questo lo abbiamo già visto, troppe volte. Lo abbiamo letto nei rapporti sull’antisemitismo, lo abbiamo ascoltato nelle testimonianze di studenti che si sono sentiti esclusi, emarginati, censurati nei loro stessi atenei. E lo abbiamo vissuto in prima persona al Campus Einaudi di Torino, durante un evento dedicato al diritto allo studio e all’antisemitismo, dove siamo stati aggrediti fisicamente e verbalmente. Chiunque abbia a cuore il destino delle nostre università e del nostro Paese deve porsi oggi una domanda essenziale: vogliamo davvero che i luoghi della conoscenza diventino spazi di esclusione ideologica e che la protesta prenda il volto della discriminazione? La risposta deve essere un “no” fermo e responsabile. Il dialogo non si costruisce mettendo a tacere l’altro, ma ascoltando. L’educazione non è militanza selettiva, ma apertura al confronto. E la libertà accademica non è un privilegio, ma un principio irrinunciabile che va difeso con forza.
La pace, anche in Medio Oriente, non si costruisce boicottando le università, ma mettendo in contatto studenti, idee, progetti, culture. E contrastare l’antisemitismo oggi significa anche avere il coraggio di riconoscerlo quando si presenta con nuovi volti e nuove parole. L’università italiana deve dimostrare di essere all’altezza della sua missione civile e costituzionale. Come giovani ebrei italiani, siamo pronti a fare la nostra parte.

(Il Riformista, 30 luglio 2025)

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“Emmanuel Macron è l'utile idiota di Hamas e del Qatar”, secondo Emmanuel Navon

Durante il suo intervento su i24NEWS, Emmanuel Navon, esperto di relazioni internazionali, ha duramente criticato la decisione della Francia e della Gran Bretagna di riconoscere uno Stato palestinese, definendola “malafede” dettata da pressioni interne. Secondo lui, questi paesi agiscono sotto l'influenza delle loro popolazioni musulmane e dei loro elettori di sinistra, come dimostra il rapporto pubblicato da Le Figaro sui Fratelli Musulmani in Francia.
Il documento raccomandava esplicitamente il riconoscimento di uno Stato palestinese per placare i musulmani e i Fratelli Musulmani, un messaggio che Macron ha seguito e che Starmer ora fa proprio.
Emmanuel Navon sostiene che questo riconoscimento è solo una scusa per calmare le tensioni interne, senza alcun legame con la sicurezza in Medio Oriente. E si chiede: come potrebbe la creazione di un ventiduesimo Stato arabo nel cuore di Israele portare la pace in una regione dilaniata da guerre civili tra sciiti e sunniti, come in Siria, Libia, Libano o Iraq? Questi conflitti non hanno nulla a che vedere con l'assenza di uno Stato palestinese in Giudea-Samaria o a Gaza. Del resto, quando questi territori erano controllati dalla Giordania e dall'Egitto, nessuno sosteneva che un tale Stato avrebbe pacificato la regione. Per Emmanuel Navon, Macron parla in malafede o per totale incomprensione del Vicino Oriente.
Egli solleva una questione cruciale: se Hamas vincesse le elezioni in questo Stato riconosciuto, la Francia lo riconoscerebbe ancora? Nel 2006, durante le uniche elezioni dell'Autorità palestinese, Hamas ha trionfato, uno scenario non teorico. I sondaggi mostrano un sostegno maggioritario a Hamas in Giudea-Samaria, anche per i massacri del 7 ottobre. Mahmoud Abbas evita le elezioni da allora per questo motivo. Navon paragona l'OLP a Hamas: «bianco e nero», tranne che Hamas non nasconde le sue carte. L'OLP, creata nel 1964, mira alla «liberazione» di tutta la Palestina, con Gaza e la Cisgiordania come primo passo, secondo il suo piano del 1974. «Pensare che l'OLP sia più affidabile è un errore», sottolinea.
“Emmanuel Macron è l'utile idiota di Hamas e del Qatar”, secondo Emmanuel Navon
Durante il suo intervento su i24NEWS, Emmanuel Navon, esperto di relazioni internazionali, ha duramente criticato la decisione della Francia e della Gran Bretagna di riconoscere uno Stato palestinese, definendola “malafede” dettata da pressioni interne. Secondo lui, questi paesi agiscono sotto l'influenza delle loro popolazioni musulmane e dei loro elettori di sinistra, come dimostra il rapporto pubblicato da Le Figaro sui Fratelli Musulmani in Francia.
Il documento raccomandava esplicitamente il riconoscimento di uno Stato palestinese per placare i musulmani e i Fratelli Musulmani, un messaggio che Macron ha seguito e che Starmer ora fa proprio.
Emmanuel Navon sostiene che questo riconoscimento è solo una scusa per calmare le tensioni interne, senza alcun legame con la sicurezza in Medio Oriente. E si chiede: come potrebbe la creazione di un ventiduesimo Stato arabo nel cuore di Israele portare la pace in una regione dilaniata da guerre civili tra sciiti e sunniti, come in Siria, Libia, Libano o Iraq? Questi conflitti non hanno nulla a che vedere con l'assenza di uno Stato palestinese in Giudea-Samaria o a Gaza. Del resto, quando questi territori erano controllati dalla Giordania e dall'Egitto, nessuno sosteneva che un tale Stato avrebbe pacificato la regione. Per Emmanuel Navon, Macron parla in malafede o per totale incomprensione del Vicino Oriente.
Egli solleva una questione cruciale: se Hamas vincesse le elezioni in questo Stato riconosciuto, la Francia lo riconoscerebbe ancora? Nel 2006, durante le uniche elezioni dell'Autorità palestinese, Hamas ha trionfato, uno scenario non teorico. I sondaggi mostrano un sostegno maggioritario a Hamas in Giudea-Samaria, anche per i massacri del 7 ottobre. Mahmoud Abbas evita le elezioni da allora per questo motivo. Navon paragona l'OLP a Hamas: «bianco e nero», tranne che Hamas non nasconde le sue carte. L'OLP, creata nel 1964, mira alla «liberazione» di tutta la Palestina, con Gaza e la Cisgiordania come primo passo, secondo il suo piano del 1974. «Pensare che l'OLP sia più affidabile è un errore», sottolinea.
Inoltre, Emmanuel Navon denuncia anche l'ipocrisia delle condanne arabe del 7 ottobre all'ONU, influenzate dalla Francia. Il Qatar, che finanzia Hamas, condanna il proprio protetto: un messaggio di malafede. Questi paesi non condannano l'immoralità degli attacchi, ma le loro conseguenze controproducenti. La Francia e la sua leadership stanno diventando gli “utili idioti” di Hamas e del Qatar, favorendo un'ideologia jihadista che minaccia l'Occidente. Per Emmanuel Navon, questo approccio ingenuo o cinico esacerba le tensioni, senza risolvere le radici del conflitto.

(i24, 30 luglio 2025)

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E alla fine cominciarono a molestare gli ebrei. Ma sempre in buona fede

di Filippo Piperno

Ci sono persone che, conclamandosi in buonafede, dicendosi solo degli oppositori di Netanyahu e del suo governo, negando qualsiasi pregiudizio antiebraico, hanno propagandato convintamente la balla del genocidio palestinese.
   Una balla, quella del genocidio, costruita ad arte dalla propaganda palestinese da almeno 40 anni e non da oggi. Una balla sublime dal punto di vista semantico perché consente alla cattiva coscienza del mondo di mondarsi dal genocidio degli ebrei e ai più estremisti e arrabbiati di poter dire che in fondo gli ebrei quel genocidio se lo erano anche meritato, “alla luce di quanto sta avvenendo a Gaza”. Insomma, un capolavoro.
   Il progetto di criminalizzazione sistematica del governo d’Israele è stato per di più eseguito in modo maldestro e approssimativo (perché vogliamo riconoscere per tesi la loro buona fede), confondendo tra lo Stato d’Israele, i suoi cittadini ed il governo, pretendendo che gli ebrei della diaspora si dissociassero dai “crimini” d’Israele, certificando così l’equazione tra Israele ed ebrei.
   Di errori nella narrazione ce ne sarebbero altri ma limitiamoci a questi. Costoro, sempre in buona fede, hanno irriso e insolentito quanti paventavano la pericolosità di certe argomentazioni ed il clima che contribuivano a creare.
   Si sono fatti beffe di chi lamentava la rinascita di un “pericolo antisemita”. Hanno bellamente ignorato che la loro campagna in buona fede potesse essere strumentalizzata da chi in buona fede non era e da quanti non possedevano la sottigliezza del loro argomentare.
   Oggi, negli autogrill, all’entrata di qualche esercizio commerciale, per la strada si cominciano a raccogliere i frutti di questa maldestra campagna di criminalizzazione del governo d’Israele con annessi gli ebrei di ogni età, credo e nazionalità. Sempre auspicando che non sia solo l’inizio di qualcosa di peggiore e irreparabile.
   Oggi, dunque, fa un po’ effetto leggere i messaggi di condanna per l’aggressione di un padre e di un figlio di sei anni colpevoli di essere ebrei da parte di chi ha, in buona fede, contribuito a costruire questo clima attraverso un approssimativo progetto di criminalizzazione del governo d’Israele che ha finito, ma in buona fede, per coinvolgere tutti gli israeliani e tutti gli ebrei.

(InOltre, 30 luglio 2025)
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Probabilmente l’autore non crede alla buona fede delle persone che indica, ma dice di volerla assumere “per tesi”. È difficile condividere questa indulgenza, almeno nella maggioranza dei casi, perché l’odio autentico non è troppo difficile da riconoscere, soprattutto da chi lo subisce o da chi è profondamente onesto. E avvertire l’esalazione di questo odio che viene dal profondo, molto profondo, unito a tenere frasi di commozione per i poveri bambini palestinesi è un disgusto davvero difficile da sopportare. M.C.

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Gaza: saccheggiati più della metà dei camion di aiuti egiziani

Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano britannico Al-Araby Al-Jadeed, di proprietà del Qatar, più della metà dei camion con aiuti umanitari egiziani entrati domenica nella Striscia di Gaza sono stati saccheggiati da ignoti e il loro contenuto è stato successivamente venduto nei mercati locali.
Dei 130 camion, 73 sono stati saccheggiati nei pressi dell’asse Morag, che separa Rafah da Khan Younis ed è controllato dall’IDF, secondo quanto riportato dall’articolo.
Secondo il rapporto, solo 37 camion sono arrivati ai magazzini della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese e del gruppo di aiuto del Comitato Egiziano.
Domenica è stata la prima volta che l’Egitto ha inviato aiuti a Gaza attraverso il valico di Rafah da quando Israele ne ha assunto il controllo nel maggio 2024. Era il primo giorno della nuova politica di aiuti di Israele, che prevede “pause umanitarie” di 10 ore nei combattimenti per consentire l’ingresso di ulteriori aiuti. La politica è stata adottata a seguito delle crescenti pressioni internazionali sulla crisi alimentare a Gaza.
In un’intervista rilasciata all’inizio di questa settimana al Times of Israel, l’ex inviato umanitario statunitense David Satterfield ha affermato che, a differenza degli aiuti delle Nazioni Unite, che sono in gran parte contabilizzati, gli aiuti delle società della Mezzaluna Rossa sono più esposti al furto da parte di Hamas e delle bande criminali.
“La catena di custodia, dall’ispezione da parte di Israele ai siti di distribuzione, mantenuta e documentata dall’ONU e dalle principali organizzazioni internazionali, è stata e continua ad essere gestita con attenzione, poiché queste organizzazioni sono tutte responsabili nei confronti degli Stati che le finanziano, compresi gli Stati Uniti”, ha affermato Satterfield.
“Sebbene i saccheggi e l’autodistribuzione compromettano questa responsabilità, la maggior parte degli aiuti entrati a Gaza grazie a questi attori è stata contabilizzata”, ha continuato. “L’assistenza della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese, al contrario, non ha alcuna responsabilità internazionale”.

(Rights Reporter, 29 luglio 2025)

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Gaza, quando la menzogna è virale e la verità silenziosa

di Samuel Capelluto

Da mesi l’opinione pubblica internazionale è inondata da immagini drammatiche di bambini emaciati, madri disperate e scene di caos attorno ai centri di distribuzione degli aiuti nella Striscia di Gaza. Il messaggio è sempre lo stesso: Israele affama i palestinesi. Ma è davvero così? O siamo di fronte all’ennesima campagna di disinformazione orchestrata da Hamas e rilanciata da media e organismi internazionali compiacenti?
   A smentire con forza questa narrazione è il reverendo Dr. Johnnie Moore, presidente della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), una ONG americana che da mesi distribuisce cibo direttamente alla popolazione di Gaza. “Non c’è alcuna indicazione che l’IDF violi il diritto internazionale o i suoi obblighi”, afferma Moore, sottolineando che le accuse di stragi nei pressi dei centri di aiuto della fondazione sono “propaganda di Hamas, ripulita e rilanciata da voci amiche nei media e nelle organizzazioni internazionali”.
   Moore rivendica che negli ultimi due mesi la GHF ha distribuito 100 milioni di pasti a circa 800.000 gazawi, senza che un solo camion sia stato rubato o che un singolo pasto sia finito nelle mani sbagliate. “Il nostro sistema è stato progettato per evitare che Hamas si impossessi degli aiuti. A differenza dell’ONU, i nostri lavoratori locali sanno a chi stanno consegnando il cibo. Non lo diamo ai membri di Hamas”, afferma.
   Secondo Moore, proprio l’efficacia del modello GHF ha scatenato la reazione ostile dell’ONU, che — accusa — ha ostacolato l’espansione delle operazioni per motivi politici. “Hanno preferito boicottarci e sabotarci, invece di collaborare per salvare vite. È una vergogna. Ci sono 950 camion fermi a Gaza che l’ONU si rifiuta di distribuire, mentre continua a parlare di crisi umanitaria”, denuncia Moore.
   Nel frattempo, anche Israele ha moltiplicato gli sforzi per facilitare l’ingresso degli aiuti. Lo stesso primo ministro Netanyahu ha dichiarato: “Israele continuerà a collaborare con le agenzie internazionali, così come con gli Stati Uniti e i paesi europei, per garantire un ampio flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza”.
   Il portavoce dell’IDF ha poi aggiunto in una dichiarazione ufficiale dal sud di Israele: “Continuiamo a guidare l’ingresso di aiuti umanitari mentre combattiamo. Non c’è affamamento nella Striscia di Gaza. Operiamo secondo il diritto internazionale, monitoriamo quotidianamente lo stato nutrizionale della popolazione e agiamo di conseguenza. Le immagini scioccanti diffuse negli ultimi giorni fanno parte di una campagna di menzogne. Gaza resta l’arena principale della guerra. Lì sono ancora trattenuti 50 ostaggi, vivi o caduti. Continueremo a combattere finché non avremo raggiunto tutti gli obiettivi della guerra.”
   E infatti, non è Israele a ostacolare gli aiuti. È Hamas. Il gruppo terroristico saccheggia i convogli, li rivende o li usa per reclutare combattenti. Usa la fame come arma. Usa i civili come scudi. E quando la comunità internazionale chiude gli occhi, diventa complice.
   Israele non combatte il popolo palestinese. Combatte chi lo opprime. In mezzo a una delle guerre più difficili della sua storia, continua ogni giorno a distinguersi: non solo sul campo di battaglia, ma anche nei valori. Mentre Hamas trasforma il dolore in propaganda, Israele continua a salvare vite.
   Mentre altri moltiplicano le falsità, Israele sceglie la via della trasparenza e del diritto.
   La forza di Israele non è solo nei mezzi militari. È nel non perdere mai la propria coscienza, anche quando tutto intorno brucia. Chi cerca davvero giustizia, dovrebbe partire da qui. La forza di Israele non è solo nei mezzi militari. È nel non perdere mai la propria coscienza, anche quando tutto intorno brucia. Chi cerca davvero giustizia, dovrebbe partire da qui.

(Shalom, 29 luglio 2025)

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Dateci il nostro antisemitismo quotidiano

L’antisemitismo è in crescita. Si moltiplicano gli episodi, si sovrappongono. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Qui in Italia, tutto sommato ce la caviamo ancora bene, tutto sommato. Qualche bel cartello contro Israele e gli israeliani, mica ce l’abbiamo con gli ebrei, affisso in un ristorante partenopeo o in una merceria milanese, e poi si alza il tiro e si aggredisce insultandolo un turista ebreo francese in un autogrill alle porte di Milano. Non come a Washington dove si ammazzano gli ebrei o a Boulder in Colorado dove si ustionano, qui siamo brava gente. Fino a quando vedremo, però ancora bene, e poi lo sappiamo, ce lo hanno detto il direttore de Il Fatto Quotidiano, l’irridente Marco Travaglio e Vincenzo De Luca, la macchietta stentorea che guida la regione Campania, l’antisemitismo è colpa di Netanyahu.
   Oggi, sul Riformista, in un editoriale magistrale, Claudio Velardi scrive, “Ora, chi mette in atto comportamenti del genere pensa davvero di star combattendo Netanyahu? A meno che non li si ritenga tutti degli strateghi raffinati, è evidente  che chi compie questi atti non sta colpendo uno Stato. Sta colpendo una identità. Non si sta opponendo a una politica, ma a un popolo. Sta dicendo, ‘Tu sei ebreo, dunque sei colpevole. Dunque sei il nemico’”.
   È il “nuovo” antisemitismo à la page, come sottolinea Fiamma Nirenstein su Il Giornale, “Ormai vi siete abituati all’antisemitismo, lo declinate più o meno elegantemente a seconda dello strato sociale, una volta all’ONU, una volta all’autogrill”.
   Ma non dobbiamo abituarci e non possiamo abituarci. È già successo, tempo fa, quando nell’assuefazione e nell’indifferenza, si precipitava dentro il baratro.
   Ormai la bandiera palestinese è diventata un gadget non più da centro sociale occupato ma glamour, ogni occasione è buona per esporla e poi è un tonico, fa stare bene chi la espone, attori, attrici, musicanti, tutti dalla parte “giusta” della storia, anche se no, non si aggrediscono gli ebrei negli autogril, tuttavia dovrebbero andare a Gerusalemme a chiedere ragione…

(L'informale, 29 luglio 2025)

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Sono uno studioso di guerra, non c'è alcun genocidio a Gaza

Le azioni militari di Israele sono dirette contro i terroristi. La morte di civili è tragica, ma nella Striscia di Gaza fa parte della strategia di Hamas.

(JNS) Nella sua rubrica sul New York Times intitolata “Sono uno studioso di genocidio. Riconosco il genocidio quando lo vedo”, Omer Bartov ha accusato Israele di commettere genocidio a Gaza. In qualità di professore di studi sul genocidio alla Brown University, dovrebbe saperlo meglio. Il genocidio non si definisce con qualche commento estrapolato dal contesto, con stime delle vittime o delle distruzioni o con l'immagine della guerra riportata dai titoli dei giornali o dai social media. Si definisce con l'intenzione concreta di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Si tratta di un ostacolo giuridico molto difficile da superare. Bartov non ci ha nemmeno provato.
Non sono un giurista né un attivista politico. Sono un esperto di guerra. Ho guidato soldati in combattimento. Ho addestrato per decenni unità militari alla guerra urbana e mi sono occupato per anni di storia militare, strategia e diritto bellico. Dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023, sono stato quattro volte a Gaza, dove ho accompagnato le forze armate israeliane. Ho intervistato il primo ministro israeliano, il ministro della Difesa, il capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, i vertici del Comando Sud e decine di comandanti e soldati al fronte. Ho verificato i loro ordini, osservato il loro processo di attacco e visto come i soldati hanno corso rischi reali per non ferire i civili. Nulla di ciò che ho visto o esaminato assomiglia a un genocidio o a un intento di questo tipo.
Bartov sostiene che cinque dichiarazioni di politici israeliani dimostrano un intento genocida. Inizia con la dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu del 7 ottobre, secondo cui Hamas e i terroristi palestinesi avrebbero pagato «un prezzo alto» per il massacro di 1.200 persone e il rapimento di altre 251. Questo non è un appello al genocidio. Lo direbbe qualsiasi capo di Stato dopo il peggior attacco terroristico nella storia del proprio Paese.
Cita anche le dichiarazioni di Netanyahu secondo cui Hamas sarebbe stata distrutta e i civili avrebbero dovuto lasciare le zone di combattimento. Questo non è una prova del desiderio di sterminare un popolo. È ciò che fanno i soldati professionisti quando combattono contro un nemico che si nasconde tra i civili.
Bartov presenta il riferimento di Netanyahu a “Ricordatevi di Amalek” come una prova inequivocabile. Ma questa è un'espressione della storia e della tradizione ebraica. È incisa nel memoriale dell'Olocausto di Israele – Yad Vashem: The World Holocaust Remembrance Center a Gerusalemme – e appare anche sul memoriale dell'Olocausto all'Aia. In entrambi i luoghi serve come monito a rimanere vigili di fronte alle minacce e non come invito al genocidio.
Il professore sottolinea anche che l'ex ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha usato il termine “animali umani” per descrivere i combattenti di Hamas. Questo non è un crimine di guerra. Dopo il massacro, gli stupri e le atrocità commesse contro i civili il 7 ottobre, molti capirebbero o addirittura condividerebbero questa reazione.
Non riuscendo a vedere alcuna intenzione in coloro che guidano effettivamente la guerra, Bartov si rivolge a politici di estrema destra come Bezalel Smotrich e Nissim Vaturi. Queste persone non comandano truppe, non danno ordini e non prendono decisioni sul campo di battaglia. Ho studiato gli ordini effettivi. Si concentrano sullo smantellamento dell'organizzazione terroristica Hamas, sul salvataggio degli ostaggi rimasti e sulla protezione della popolazione civile di Gaza, ove possibile. La loro retorica è irrilevante per il caso giuridico.
Israele ha adottato misure eccezionali per limitare i danni alla popolazione civile. Avverte degli attacchi tramite SMS, telefonate, volantini e annunci radiofonici. Apre corridoi sicuri e interrompe le operazioni per consentire ai civili di lasciare le zone di combattimento. Monitora la presenza di civili fino al livello dei singoli edifici. Ho visto operazioni ritardate o annullate perché c'erano bambini nelle vicinanze. Ho visto soldati israeliani sotto il fuoco nemico ricevere l'ordine di non rispondere perché avrebbero potuto ferire dei civili.
Israele ha fornito più aiuti umanitari a Gaza di quanto qualsiasi esercito nella storia abbia mai fornito a una popolazione nemica in tempo di guerra. Più di 94.000 camion con oltre 1,8 milioni di tonnellate di aiuti umanitari sono entrati nel territorio. Israele ha fornito assistenza agli ospedali, riparato le condutture dell'acqua, migliorato l'accesso all'acqua potabile e permesso a oltre 36.000 pazienti di lasciare Gaza per ricevere cure all'estero.
Le forze armate israeliane hanno coordinato milioni di dosi di vaccini, fornito carburante agli ospedali e alle infrastrutture e facilitato il flusso di cibo e medicinali attraverso le Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie e i partner privati. La sola Gaza Humanitarian Foundation, un'organizzazione statunitense-israeliana, ha fornito più di 82 milioni di pasti – da 1 a 2 milioni al giorno – indebolendo al contempo il controllo di Hamas sugli aiuti umanitari. Questo non è genocidio. È una politica umanitaria responsabile e storica in tempo di guerra.
Bartov cita senza discutere il bilancio delle vittime fornito dalle autorità sanitarie di Hamas. Egli afferma che sono state uccise 58.000 persone, tra cui 17.000 bambini. Tuttavia, queste cifre provengono da un'organizzazione terroristica. Esse confondono civili e combattenti e considerano bambini tutti i minori di 18 anni, nonostante Hamas utilizzi adolescenti e bambini più piccoli come combattenti. Le cifre non sono state verificate in modo indipendente e contengono informazioni palesemente false, tra cui nomi, età e sesso. Le vittime civili sono tragiche, ma a Gaza fanno anche parte della strategia di Hamas.
Nessuna operazione militare viene giudicata solo in base al numero di vittime o alle distruzioni. Se applicassimo la logica di Bartov, ogni guerra di grande portata dovrebbe essere definita genocidio. Nella guerra di Corea sono morti in totale 2 milioni di civili, una media di 54.000 al mese. Nelle guerre in Iraq e Afghanistan sono state uccise centinaia di migliaia di persone. La lotta contro l'ISIS ha raso al suolo diverse città e ucciso decine di migliaia di persone. Nessuna di queste guerre è stata considerata un genocidio. La guerra viene valutata in base alle azioni dei comandanti, agli obiettivi fissati dai leader e al rispetto delle leggi di guerra da parte dei militari, non in base a statistiche estrapolate dal contesto.
La guerra è un inferno. È disumana, distruttiva e orribile. Ma non è automaticamente un crimine. Le nazioni non possono attaccare i civili. Devono rispettare le regole della distinzione e della proporzionalità e prendere tutte le precauzioni possibili per evitare vittime civili. Israele lo fa. L'ho visto con i miei occhi.
A Rafah, quest'estate, Israele ha preparato le evacuazioni per settimane. Ha istituito nuove zone di sicurezza e ha aspettato che i civili fossero evacuati prima di attaccare gli obiettivi di Hamas. Durante questa operazione è stato ucciso il comandante in capo di Hamas, sono stati liberati ostaggi e il numero di vittime civili è stato ridotto al minimo. Questo è stato un chiaro esempio dell'intenzione e delle misure straordinarie di Israele per proteggere la popolazione civile, mentre solo Hamas veniva attaccato – una parte della storia che viene ignorata da coloro che riducono la guerra a titoli di giornale e numeri.
Quello che sta accadendo a Gaza è tragico. Ma non è un genocidio. E non è illegale.
Il genocidio richiede un intento chiaro e dimostrabile di distruggere un popolo attraverso azioni prolungate e deliberate. Questo onere della prova non è stato soddisfatto. Bartov e altri non ci hanno nemmeno provato.
Allo stesso modo, le leggi della guerra non vietano la guerra in sé. Le leggi della guerra richiedono che nelle operazioni militari si distingua tra combattenti e civili, che la forza sia proporzionata all'obiettivo e che i comandanti prendano tutte le precauzioni possibili per proteggere la vita dei civili. Ho osservato che le forze armate israeliane stanno facendo proprio questo. Ho visto moderazione, aiuti umanitari e il rispetto consapevole delle norme giuridiche, spesso con perdite tattiche.
Questa non è una campagna di sterminio. È una guerra contro Hamas, un esercito terroristico che si è deliberatamente trincerato in zone civili.
Il diritto è importante. La precisione è importante. E soprattutto, la verità è importante.
 

(Israel Heute, 29 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“È uno schiaffo in faccia alle vittime del 7 ottobre”: Israele risponde alla decisione di Macron di riconoscere lo Stato palestinese

di Pietro Baragiola

Il presidente francese Emmanuel Macron ha pubblicato un post sulla piattaforma X (giovedì 24 luglio)  annunciando che Parigi intende riconoscere la legittimità dello Stato palestinese alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite prevista per settembre, fatto che ha attirato le critiche di numerosi ministri israeliani.
“Una mossa del genere premia il terrorismo e rischia di creare un altro proxy iraniano, proprio come è successo con Gaza” ha affermato il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Uno Stato palestinese in queste condizioni sarebbe un trampolino di lancio per annientare Israele, non per vivere in pace al suo fianco.”
Se non si discosta da questa decisione la Francia, che al momento ospita la più grande comunità ebraica d’Europa, diventerà il più importante paese occidentale a riconoscere lo Stato palestinese. Ad appoggiarla ci sono già 140 nazioni come la Spagna, la Norvegia e l’Irlanda, mentre la maggior parte dei ministri occidentali, tra cui il premier italiano Giorgia Meloni, continuano ad opporsi, affermando la necessità di una soluzione negoziata a due Stati e definendo ‘controproducente’ il riconoscimento di uno Stato palestinese prima della sua costituzione.
Il tweet, pubblicato in francese, inglese, arabo ed ebraico è stato affiancato da una lettera rivolta al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas in cui Macron spiega la sua intenzione di convincere altri Paesi europei ad aderire alla sua causa, ma a soli tre giorni dalla notizia le critiche sono state molto numerose e Israele sta già preparando una contromossa.

Le risposte al tweet di Macron
  Come ritorsione alla decisione del presidente francese, diversi membri di spicco del governo israeliano hanno chiesto l’annessione della Cisgiordania a Gerusalemme.
“Questa è una degna risposta alla vergognosa decisione di Macron” ha affermato il ministro della Giustizia Yariv Lenin su X, sostenuto dall’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett.
C’è anche chi non ha esitato a commentare con ironia la mossa di Macron, come il ministro della Diaspora Amichai Chikli che ha twittato una gif del presidente francese mentre viene schiaffeggiato dalla moglie o come il ministro per la Protezione ambientale Idit Silman che ha postato una foto generata dall’AI in cui Macron bacia l’ex leader di Hamas Yahya Sinwar sopra la didascalia “bacio alla francese”.
Il leader dell’opposizione Yariv Lapid ha utilizzato il suo profilo social per denunciare questi commenti ‘infantili’, invitando il governo israeliano ad investire il proprio tempo nell’elaborare una strategia a lungo termine per porre fine al conflitto. “Ritengo comunque che la decisione della Francia sia stata un errore morale e diplomaticamente nocivo in quanto i palestinesi non dovrebbero essere ricompensati per il 7 ottobre e per aver sostenuto Hamas” ha aggiunto Lapid.
Persino il segretario di Stato americano Marco Rubio ha concordato con i commenti di Lapid, ritenendo la decisione di Macron ‘avventata’ e ‘utile solo alla propaganda di Hamas per ostacolare la pace’.
“È uno schiaffo in faccia alle vittime del 7 ottobre”, ha scritto Rubio su X, aggiungendo che gli Stati Uniti respingono con forza la decisione del presidente francese.
In molti però ritengono che la mossa della Francia sia puramente simbolica se non verrà accompagnata dalla cooperazione di Israele, in quanto uno Stato palestinese può esistere solo come risultato dei negoziati tra le due parti in conflitto.
Per questo motivo, il ministro degli esteri francese Jean-Noel Barrot ha invitato le principali organizzazioni ebraico-americane a discutere della situazione al nuovo incontro delle Nazioni Unite che si sta tenendo in questi giorni a New York.Invito che, però, è stato rifiutato.

Il rifiuto delle organizzazioni ebraiche
  Sono sette le organizzazioni ebraiche statunitensi che hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale, rifiutando l’invito di Barrot: la Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, l’Anti-Defamation League, l’American Jewish Committee, l’American Israel Public Affairs Committee, B’nai B’rith International, UJA- Federation of New York e il World Jewish Congress.
“Siamo delusi dal fatto che le nostre organizzazioni siano state invitate a discutere una politica che sembra già essere stata definita, invece di essere consultate in anticipo in qualità di partner impegnati per una pace sostenibile” afferma la dichiarazione congiunta. “Con questo passo unilaterale, la Francia non solo incoraggia gli estremisti ma mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo, allontanando le voci moderate.”
Il rifiuto di queste organizzazioni è dipeso anche dal fatto che Macron solo pochi mesi prima aveva dichiarato che non avrebbe mai preso una decisione del genere prima della resa di Hamas e del rilascio degli ostaggi in suo possesso.
“Le misure unilaterali della Francia non faranno altro che spingere Israele a prendere ulteriori provvedimenti” ha confermato il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar su X. “L’iniziativa francese compromette la possibilità di raggiungere un accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco e ciò non favorirà in alcun modo alla stabilità della regione.”
A fomentare questi sospetti è stata anche la dichiarazione dei portavoce di Hamas che hanno elogiato la mossa di Macron come ‘un passo positivo nella giusta direzione’.
Barrot ha respinto tali commenti, chiarendo che considera l’Autorità palestinese, e non Hamas, come il leader di un futuro Stato palestinese.
“Hamas ha rifiutato la soluzione dei due Stati, dunque, riconoscendo la Palestina, la Francia dimostra che questo movimento terroristico ha torto” ha spiegato il ministro degli esteri francese durante la sua intervista alla Jewish Telegraphic Agency. “Ci schieriamo dalla parte della pace contro la guerra”.
Secondo Barrot, in occasione della riunione delle Nazioni Unite a New York i Paesi Arabi condanneranno per la prima volta Hamas, chiedendone il disarmo e definitivo isolamento, una mossa volta ad attirare un maggior numero di Paesi europei a riconoscere lo Stato palestinese. Durante l’evento sarà anche presentata una proposta postbellica con una soluzione a due Stati che copra la sicurezza, la ricostruzione e il governo in Medio Oriente, compatibile con gli accordi di Abramo negoziati dal presidente americano Trump.
William Daroff, amministratore delegato della Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, ha affermato che la decisione di respingere l’invito di Barrot può non rappresentare una politica permanente e se in futuro i leader delle comunità ebraiche vedranno che gli obiettivi del governo francese rispecchieranno i loro, allora ci sarà modo di fissare un punto di incontro tra le parti.

(Bet Magazine Mosaico, 29 luglio 2025)

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L’oscena nuova banalità del male che moltiplica le ragioni di Israele

di Claudio Velardi

Poniamo, per assurdo, che abbiano ragione loro. Che le accuse più folli rivolte a Israele da professionisti dell’indignazione, attivisti da corteo e pacifisti a senso unico, siano tutte vere. Poniamo che Israele abbia pianificato lo sterminio sistematico dei palestinesi. Che l’esercito israeliano spari volontariamente ai bambini, alle madri, ai civili inermi. Che impedisca l’arrivo di acqua e cibo per affamare un intero popolo. Che distrugga ospedali, ambulanze, scuole. Che colpisca deliberatamente i giornalisti per impedire che si racconti la verità. Che abbia come obiettivo finale non la difesa, ma la pulizia etnica di Gaza. Che tutto questo sia parte di un piano sionista, coloniale, razzista, suprematista.
   Che Israele sia uno Stato canaglia, un regime di apartheid, una reincarnazione contemporanea del nazismo. Che Netanyahu sia un criminale peggiore di Putin o di Hitler. Tutte cose scritte, dette, urlate nei cortei, affisse sui muri delle università, dei negozi e dei luoghi di lavoro.
   Poniamo che i fatti siano questi, abbracciando senza vergogna l’intera impalcatura accusatoria dell’anti-israelismo più radicale. Poi proviamo a chiederci che rapporto c’è tra ogni possibile nefandezza di Israele e il fatto che un bambino ebreo con la kippah non viene fatto entrare in una piscina pubblica in Francia. O che una donna ebrea viene aggredita per strada a Berlino, con l’urlo “assassina”. O che aumentano i ristoranti che rifiutano clienti “sionisti”, ovvero ebrei. Che le sinagoghe vengono vandalizzate, le scuole ebraiche sono presidiate dai militari, nelle università si consiglia agli studenti ebrei di restare a casa per “evitare tensioni”. O che, giusto l’altro ieri, in un autogrill vicino Milano, un uomo e suo figlio con la kippah sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente al grido di “Free Palestine” e “assassini”.
   Ora, chi mette in atto comportamenti del genere pensa davvero di star combattendo Netanyahu? A meno che non li si ritenga tutti degli strateghi raffinati, è evidente che chi compie questi atti non sta colpendo uno Stato. Sta colpendo un’identità. Non si sta opponendo a una politica, ma a un popolo. A una storia. A una memoria. Sta dicendo: “Tu sei ebreo, dunque sei colpevole. Dunque sei il nemico”. E quindi sta — più o meno consapevolmente — adottando l’antisemitismo come approccio, come attitudine profonda, come una propria intima forma mentis.

L’antisemitismo pervasivo e tossico
   Questo antisemitismo quotidiano, ordinario, apparentemente spontaneo, è molto più pervasivo e tossico di quello ideologico, organizzato, teorizzato. Peggiore dell’odio freddo di chi scrive che Israele non ha diritto a esistere, che la terra va restituita “dal fiume al mare”, che il progetto sionista è criminale in sé. Perché chi grida queste cose — per quanto deliranti — almeno finge di combattere un’idea. Ma chi caccia un padre e un bambino da un bar, chi insulta una donna ebrea in metropolitana, non combatte un’idea: proietta su una persona, su un volto, su un nome, una quota di odio atavico, ancestrale, irrazionale. Gli editorialisti che girano la faccia dall’altra parte e gli untorelli politici che seminano odio, dovrebbero sapere che stanno davvero giocando con il fuoco. Se nel 2025 l’antisemitismo diventa diffuso e fisiologico, manifestandosi nei gesti comuni, nei linguaggi del quotidiano, nei riflessi della cosiddetta gente normale; se diventa un’abitudine sociale, un automatismo culturale, un odio che non si annuncia ma si pratica, significa che la lezione di Hannah Arendt si fa di nuovo viva, attuale, tremenda, che è la nuova banalità del male che avanza. Chi caccia un bambino con la kippah da un locale non è un criminale ideologico. Non è un fanatico da manuale. Non ha letto Herzl né conosce la storia di Israele.

L’oscena banalità del male
   È l’uomo qualunque, che compie quel gesto senza pensarci troppo, con l’approvazione implicita del contesto. Non si sente colpevole. Crede di stare dalla parte della giustizia, dei diritti, della pace, mentre sta praticando l’antisemitismo senza nemmeno rendersene conto. Mette in scena il Male impersonale, “giusto”, compiuto nel nome del Bene, con la coscienza tranquilla. E proprio per questo più pericoloso. Più infame e autentico. Perché non nasce da un’ideologia. Nasce dal profondo. Ma se è così, bisogna anche capire che più si demonizza Israele, più si colpiscono gli ebrei nei mercati, nei bar, nei quartieri, più si dà ragione a Israele. Anzi: più si dà ragione alla sua autodifesa più implacabile, intransigente, identitaria, più diffidente verso il mondo. Quella che dice: ci odieranno comunque, anche se fossimo innocenti, anche se fossimo santi. Ci odieranno perché siamo ebrei. E dunque non possiamo che difenderci. Sempre, e con ogni mezzo. L’oscena banalità del male, quindi, non solo legittima ma moltiplica le ragioni di Israele. E anche quelle di Netanyahu. Perché dice, semplicemente: avevamo ragione ad aver paura. E abbiamo ragione a chiuderci, a difenderci, a non fidarci. Abbiamo ragione a costruire uno Stato forte, armato, determinato a sopravvivere. E chi gliela toglie più, quella ragione?

(Il Riformista, 29 luglio 2025)

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Come un bambino malato è diventato un'arma contro Israele

Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner svela la verità dietro l'immagine del bambino palestinese emaciato: non è prova di carestia, ma parte di una campagna di propaganda globale. 

di Itamar Eichner

FOTO
GERUSALEMME - Un'immagine sconvolgente di un bambino palestinese emaciato, che il 23 luglio 2025 ha fatto il giro del mondo come presunta prova di una “carestia a Gaza”, si rivela fuorviante a un esame più attento. La foto è stata scattata dal fotografo Ahmad Jihad Ibrahim al-Arini a Gaza e diffusa dall'agenzia di stampa turca Anadolu. È apparsa per la prima volta sulla prima pagina del quotidiano britannico Daily Express. Nel giro di poche ore, i principali media come CNN, The Guardian, The New York Times e la BBC hanno ripreso la foto, dipingendo un quadro di fame diffusa nella Striscia di Gaza.
Tuttavia, un'approfondita ricerca del giornalista britannico David Collier dimostra che l'immagine non racconta la storia di una carestia, ma quella di un bambino gravemente malato, strumentalizzato da Hamas e dai media occidentali a fini propagandistici.
La foto virale mostra Muhammad Zakariya Ayoub al-Matouq, di circa 18 mesi, che sembra soffrire di grave malnutrizione. Ma altre immagini non pubblicate rivelano che suo fratello di tre anni, Jud, e la madre, Huda Yassin al-Matouq, sono ben nutriti.
Queste immagini, che sono state deliberatamente nascoste, mostrano che solo Muhammad è malato, mentre la sua famiglia è in buona salute. I media hanno volutamente ignorato il fratello sano, tagliandolo fuori o rendendolo irriconoscibile per rafforzare l'immagine di una fame diffusa.
Secondo l'indagine di Collier, Muhammad è nato il 23 dicembre 2023 con gravi malattie genetiche, tra cui paralisi cerebrale (cerebral palsy) e carenza di ossigeno nel sangue (ipossiemia), probabilmente causate da un disturbo genetico recessivo ereditario. Un referto medico dell'organizzazione umanitaria Basma di Gaza, firmato dal dottor Sa'id Muhammad al-Nasan il 20 maggio 2025, lo conferma. Muhammad ha bisogno di integratori alimentari speciali sin dalla nascita. Le sue condizioni non sono il risultato della fame, ma l'espressione di una malattia cronica.
Ciononostante, i media come la BBC hanno omesso questi fatti medici. In un'intervista di 64 secondi con la madre, quest'ultima ha menzionato i gravi problemi di salute del figlio e la sua fisioterapia, ma il giornalista ha omesso tutto ciò e ha presentato le condizioni di Muhammad come conseguenza della fame. Secondo Collier, questa pratica giornalistica solleva gravi interrogativi sull'integrità dei media e sul fatto che essi servano consapevolmente o inconsapevolmente Hamas.
Anche sulla morte del padre di Muhammad, Zakariya Ayoub al-Matouq, circolano versioni distorte. Media come The New York Times hanno riferito che è stato ucciso il 28 ottobre 2024 mentre cercava di procurarsi del cibo. Tuttavia, le ricerche di Collier dimostrano che è stato ucciso nei pressi di al-Kassasib Street a Jabaliya in un attacco mirato dell'IDF, in concomitanza con i combattimenti tra Hamas e l'esercito israeliano in quella zona. Questa settimana sono morti sei soldati israeliani. Hamas stessa ha pubblicato filmati dei combattimenti nella zona. Queste prove rendono dubbia l'affermazione secondo cui il padre sarebbe morto mentre cercava semplicemente del cibo, un altro tassello nella narrativa propagandistica di Hamas.
Collier sottolinea che Hamas abusa sistematicamente della popolazione civile come strumento di propaganda. Il controllo degli aiuti umanitari è una fonte di reddito lucrativa per l'organizzazione terroristica. Per questo motivo cerca di screditare il programma di aiuti congiunto di Stati Uniti e Israele (GHF). Le ripetute affermazioni secondo cui gli attacchi israeliani avrebbero ucciso centinaia di civili nei centri di distribuzione degli aiuti rimangono ancora oggi senza prove, nonostante la fitta sorveglianza e la documentazione nella Striscia di Gaza.
Collier muove invece gravi accuse alle organizzazioni delle Nazioni Unite e alle ONG che operano a Gaza: alcune di esse avrebbero collaborato con Hamas, ad esempio imponendo condizioni eccessive ai trasporti di aiuti, con conseguente deterioramento dei carichi. In singoli casi, l'ONU ha persino chiesto a Hamas di garantire la protezione degli operatori umanitari, una misura che rafforza il controllo dell'organizzazione sui beni di prima necessità. Per Collier, questo è un chiaro segno che queste istituzioni non agiscono in modo neutrale, ma promuovono un'agenda politica che mantiene Hamas al potere.
Il rapporto non solo mette in luce il fallimento di molti media, ma anche la loro bancarotta morale. Per motivi ideologici, ignoranza o paura, si sono trasformati in portavoce di Hamas. Invece di smascherare le informazioni false, media come la BBC o The Guardian sono diventati essi stessi parte della macchina della disinformazione. Una dichiarazione di fallimento giornalistico e morale che alla fine danneggia anche la popolazione di Gaza.
La madre di Muhammad, che cercava solo aiuto per suo figlio, ha detto apertamente la verità a tutti. Ma i giornalisti, che hanno sfruttato le sue condizioni come strumento di propaganda e hanno taciuto sulla sua malattia, non hanno mostrato alcun interesse a fornire sostegno o chiarimenti. Secondo Collier, li interessava solo una domanda: “Come può questa immagine danneggiare Israele?”
Giovedì scorso, il quotidiano italiano Il Fatto Quotidiano ha pubblicato in prima pagina l'immagine di un bambino apparentemente affamato con il titolo “È un bambino?”, un chiaro riferimento all'opera di Primo Levi sull'Olocausto “Se questo è un uomo”. Il reportage conteneva un'intervista a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi, che accusava l'Italia di “complicità nella politica di fame di Israele”.

(Israel Heute, 28 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Aggressione verbale a un rabbino con il figlio piccolo in un Autogrill di Milano al grido di “Assassini” e “Free Palestine”

di Anna Balestrieri

In un Autogrill nei pressi di Milano, un rabbino accompagnato dal figlio piccolo è stato oggetto di un’aggressione verbale da parte di un gruppo di persone che hanno urlato contro di loro slogan legati alla causa palestinese, tra cui “Free Palestine” e “Assassini”. L’episodio, riportato da alcuni testimoni sui social, ha assunto toni sempre più violenti, con espressioni come “Tornate a casa vostra” e “Finirete all’inferno”, con un crescendo di toni e violenza verbale rivolte al religioso e al bambino, colpevoli unicamente di una visibile identità ebraica. Un uomo si è avvicinato minacciosamente alla famiglia ricordando “Qui non siamo a Gaza, qui siamo in Italia, siamo a Milano. Assassini”. Il bambino, che avrà avuto circa otto anni, assisteva attonito.

La reazione all’aggressione
  Il rabbino ha tentato di rispondere alle offese proteggendo il figlio visibilmente spaventato, ma il clima è rapidamente degenerato. Nel video da lui girato, commenta “voilà l’Italie” e risponde con voce ferma “Am Israel Chai” alle urla scomposte del gruppo minaccioso che li ingiuria.
La vicenda solleva preoccupazioni profonde sul livello crescente di tensione e intolleranza presente anche in luoghi pubblici del nostro Paese.
Confondere l’appartenenza ebraica con una presa di posizione politica, o peggio con una colpa collettiva, è un segnale allarmante che ricorda pagine buie della nostra storia. L’antisemitismo, in qualunque forma si manifesti, è inaccettabile. Non è una posizione ideologica, né una “opinione”: è un reato.
È fondamentale che le autorità facciano chiarezza sull’accaduto, identifichino i responsabili ed intervengano con determinazione. Ma è altrettanto essenziale che la società civile – in tutte le sue espressioni – respinga senza ambiguità ogni forma di odio razziale, a maggior ragione quando prende di mira bambini e famiglie inermi.
Nel dibattito pubblico sul Medio Oriente, la libertà di espressione deve restare salda. Ma non può mai diventare un alibi per l’intolleranza o la violenza. La democrazia non può tollerare chi la usa per negare la dignità e la sicurezza altrui.

(Bet Magazine Mosaico, 28 luglio 2025)

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Il branco, i genitori e l’ebreo assassino

di Alessandra Libutti

Andrea Sparaciari, giornalista de La Notizia e collaboratore del mensile FQ Millenium, ha scritto su Twitter una frase che non lascia spazio a interpretazioni:
“Se sanno che i loro genitori possono impunemente uccidere donne e bambini, figurati quanti problemi si fa un branco di ragazzini a mettere a rischio la sicurezza di un volo aereo…”
Il riferimento è al recente episodio del volo Vueling, da cui sono stati fatti sbarcare 50 adolescenti francesi di origine ebraica. Un caso su cui è stata aperta un’inchiesta, ma che qui interessa meno dei presupposti ideologici impliciti nel tweet di Sparaciari. Secondo lui, il comportamento dei ragazzini andrebbe ricondotto al fatto che i loro genitori “uccidono impunemente donne e bambini”. Non che siano responsabili di non educare bene i loro figli: uccidono impunemente donne e bambini. Una frase diretta, che attribuisce responsabilità criminali precise.
Ora, poiché non esistono elementi o accuse individuali a carico dei genitori coinvolti, e dato che Sparaciari non parla di singoli casi ma fa un riferimento generalizzato, bisogna decostruire il ragionamento implicito nel suo tweet. Il sillogismo è chiaro quanto inquietante:

  1. I ragazzi prima di essere francesi sono ebrei.
  2. Quindi i loro genitori non importa che siano francesi sono innazitutto ebrei.
  3. Gli ebrei, in quanto tali, sono colpevoli di uccidere donne e bambini perché ogni ebreo è responsabile di quanto avviene a Gaza.

Non si tratta di una critica a Israele o a una specifica politica militare. Non si parla di ideologia, di complicità o di silenzio, infatti, non abbiamo assolutamente idea neanche delle posizioni politiche di questi genitori che non sono neanche israeliani ma francesi: Sparaciari scrive che i “genitori” uccidono, in prima persona, “impunemente”. La frase si fonda su un’accusa collettiva rivolta a un’intera identità, trasformando la condizione di ebreo in una prova sufficiente di colpevolezza. È questo il nucleo del pensiero antisemita: l’associazione automatica tra ebraicità e crimine, tra nascita e colpa.
Che tale concetto venga espresso pubblicamente da un giornalista è un segnale allarmante. Non solo per il contenuto, ma per l’indifferenza con cui si bypassa ogni distinzione tra individuo e collettivo, tra accusa e identità, tra fatti e pregiudizio. E questo, purtroppo, non è più un lapsus o una provocazione maldestra: è una deriva.
Ma non è tutto: il tweet di Andrea Sparaciari aderisce in modo inquietante ad alcuni dei principi fondamentali della propaganda elaborati da Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich.
Non conosciamo Sparaciari, e non esprimiamo un giudizio né sulle opinioni né sull’individuo. Non è una questione ideologica o personale, ma di parole da lui usate e rese pubbliche su Twitter il 25 luglio.
Vediamo, a rigor di semplice analisi concettuale e semantica, limitatamente al tweet, in che modo rispecchi alcuni elementi centrali dei principi di Goebbels:

  1. Semplificazione estrema: ridurre tutto a un unico nemico
    Goebbels insisteva sulla necessità di semplificare la realtà in una narrazione binaria: buoni contro cattivi. Nel tweet, Sparaciari riduce l’intera questione — un comportamento problematico da parte di alcuni adolescenti — a un’unica causa: il fatto che i loro genitori (perché ebrei) sarebbero assassini impuniti. Nessuna complessità, nessun contesto: un collegamento diretto, brutale, tra etnia e crimine.

  2. Colpa collettiva: attribuire responsabilità a un intero gruppo
    Secondo la logica di Goebbels, la propaganda funziona meglio quando si incolpa un’intera categoria sociale, etnica o religiosa. Sparaciari non parla di individui, ma di un intero gruppo: i genitori ebrei — non israeliani, non soldati, non politici — ma semplicemente “ebrei”. Tutti colpevoli, per natura, e quindi anche i figli sarebbero moralmente corrotti. È la stessa logica utilizzata dalla propaganda antisemita nazista: l’ebreo come colpevole “per nascita”.

  3. Appello all’odio e alla disumanizzazione
    Goebbels sapeva che per rendere accettabile l’odio, bisognava togliere umanità all’altro. Parlare di “un branco di ragazzini” non è un’espressione neutra: disumanizza, riduce a bestiame, prepara il terreno a un giudizio collettivo. L’uso del termine “impunemente uccidono donne e bambini” ha la funzione di evocare una figura diabolica, crudele, al di là di ogni redenzione. Non si tratta più di individui, ma di archetipi da odiare.

  4. Proiezione: accusare gli altri di ciò che si sta facendo
    La propaganda goebbelsiana spesso accusava gli ebrei di essere pericolosi, corrotti, criminali, proprio per giustificare le politiche violente del regime. Nel tweet, Sparaciari accusa i genitori ebrei di impunità e crudeltà, quando in realtà è lui stesso ad avanzare una calunnia collettiva senza prove, contribuendo alla normalizzazione dell’odio.

  5. Ripetizione e saturazione mediatica
    Goebbels puntava sulla ripetizione di slogan semplici e scioccanti. Anche se il tweet è una singola frase, il suo impatto è costruito come un “titolo da propaganda”: breve, potente, immediato. In un contesto social come Twitter, dove tutto viene rilanciato, amplificato e condiviso, anche un singolo messaggio può diventare uno slogan virale.

  6. La menzogna strategica: affermare ciò che non è vero per plasmare la percezione
Goebbels sosteneva che una menzogna ripetuta abbastanza a lungo finisce per essere creduta. La verità, per lui, era irrilevante: ciò che contava era l’effetto della narrazione. Il tweet di Sparaciari contiene una menzogna implicita ma gravissima: l’accusa infondata che “i genitori” — identificati esclusivamente in quanto ebrei — uccidano impunemente donne e bambini. Non si tratta di un’opinione, ma di una falsità travestita da constatazione. È una menzogna costruita per colpire l’emotività, per suscitare indignazione e giustificare il disprezzo verso un intero gruppo. È, esattamente come nella propaganda nazista, l’uso della bugia come arma.
In sintesi, il tweet non è solo offensivo: è strutturato secondo le stesse logiche tossiche che la propaganda totalitaria ha affinato nel Novecento. Quando si incolpa un intero popolo di crimini non commessi, e lo si fa senza prove, senza pudore e con linguaggio disumanizzante, non si sta semplicemente “commentando un fatto”: si sta riproducendo, consapevolmente o meno, l’ossatura ideologica dell’odio.

(InOltre, 28 luglio 2025)

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Italia-Israele – «Aiutare il dialogo tra i nostri Paesi»

Alla Ben Gurion University del Negev, in Israele, un’aula gremita ospita ogni settimana oltre cento studenti iscritti al corso Discovering Italy: A Journey through Its History, Society, and Culture, ideato e tenuto in inglese dalla professoressa Cristina Bettin, storica, docente di Italianistica e presidente dell’Associazione degli Accademici e Scienziati Italiani in Israele (Aissi). Il corso esplora la storia, la società e la cultura italiane dalle origini ai giorni nostri, con un approccio multidisciplinare.
   «In Israele non esistono programmi strutturati dedicati alla storia italiana», spiega Bettin, «eppure l’interesse per l’Italia è enorme. Gli studenti qui impazziscono per la nostra cultura. Così ho pensato di creare un corso generale che toccasse tutti gli aspetti fondamentali: storia, arte, letteratura, musica, società. Non si può studiare qui storia medievale italiana, o storia romana, in modo sistematico. Questo corso nasce proprio per colmare quella mancanza».
   Il percorso è organizzato in modo cronologico, con lezioni settimanali dedicate a diversi periodi storici. «Ogni settimana affronto un’epoca e ne esploro tutte le dimensioni: dall’Impero romano alla Shoah italiana, dal Rinascimento al Futurismo. Con uno spazio sempre aperto alla Jewish experience, con attenzione alla microstoria, agli ebrei italiani, alla Brigata Ebraica, ai Giusti, a tutto ciò che di solito non si studia in Israele».
   All’interno del corso è previsto l’intervento di esperti italiani e internazionali, tra i quali anche il regista Fred Kudjo Kuwornu. «È importante che gli studenti sentano voci diverse, che allarghino lo sguardo oltre i manuali», osserva Bettin. Per la docente, portare questo tipo di contenuto accademico, e soprattutto ospiti, a Beersheva, nel sud d’Israele, è una sfida. «Tutti vogliono venire a Tel Aviv o Gerusalemme. Ma io voglio che la cultura italiana arrivi anche qui, nella periferia. Chi studia a Beersheva spesso resta escluso da eventi culturali. Il corso è anche una risposta a questa disuguaglianza».
   L’entusiasmo degli studenti non basta a nascondere le difficoltà legate alla guerra. Molti sono stati richiamati per il servizio militare. «In questo momento diversi ragazzi sono a Gaza. Non potranno sostenere l’esame nella sessione regolare e dovranno farne una straordinaria. Eppure partecipano, mi scrivono, si scusano se non riescono a venire. Si impegnano. Hanno voglia di imparare, nonostante tutto». Un’altra sfida riguarda i rapporti con l’Italia. «Oggi abbiamo solo quattro accordi attivi, tutti in ambito ingegneristico. In scienze umane non c’è nulla. I miei studenti vorrebbero andare in Italia per un semestre, ma non esistono Erasmus disponibili. Senza una borsa, è impossibile permettersi un soggiorno di studio». Come presidente Aissi, Cristina Bettin lavora per rafforzare i legami accademici tra i due paesi. «Abbiamo costruito una rete con oltre ottanta ricercatori italiani. Organizziamo webinar bilingui – in inglese e in italiano – per mantenere vivo il dialogo. Parliamo di archeologia, fisica, giustizia, startup. Abbiamo molto seguito anche dall’Italia».
   Oggi invitare docenti italiani in Israele è più difficile. «Non tutti vogliono o possono venire. Alcuni temono ripercussioni nei loro ambienti accademici. Altri non ricevono il supporto delle loro università, non necessariamente per motivi ideologici, ad esempio per la mancanza di coperture assicurative. Non è semplice, purtroppo ». Nonostante tutto, la professoressa mantiene un atteggiamento propositivo. «Non credo che tutto il mondo accademico sia contro Israele. Ma servono strumenti concreti. Come Aissi stiamo facendo il massimo. Abbiamo contatti, costruiamo progetti comuni, cerchiamo di avviare workshop o pubblicazioni congiunte. Facciamo quel che possiamo, con le risorse che abbiamo. E la porta è aperta a ogni collaborazione».

(moked, 28 luglio 2025)

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La settimana di Israele. La fine delle trattative su Gaza

di Ugo Volli

La malafede di Hamas
  È stata molto poco sottolineata dai giornali italiani, ma è probabile che la decisione di Hamas di mandare a monte le trattative con Israele per un cessate il fuoco rappresenti una svolta nella vicenda di Gaza. Quel che è successo è semplice. Hamas aveva ricevuto dai mediatori (Egitto e Qatar, certamente più amici del movimento “palestinese” che di Israele) una nuova e “definitiva” versione della proposta americana. La novità del documento era che, in cambio della liberazione della metà dei rapiti ancora vivi, Israele rinunciava anche alla sua presenza nel corridoio che taglia trasversalmente la parte sud della Striscia. Questo presidio sembrava necessario per consentire di allestire una zona di sicurezza in cui gli abitanti di Gaza avrebbero ricevuto aiuti alimentari dalla fondazione americana GHF. Un’iniziativa importantissima per Israele, ma l’esercito ha capito di poter difendere i punti di distribuzione anche ritirandosi ulteriormente. Era dunque un’offerta che superava tutte le condizioni precedenti, tanto da suscitare contestazioni in seno al governo israeliano. Hamas però “non ha perso l’occasione di perdere un’occasione”, secondo la famosa battuta di Golda Meir, e ha replicato indurendo le sue richieste, cioè in sostanza chiedendo che Israele si ritirasse del tutto da Gaza e gliene consegnasse il governo, ha rifiutato ogni forma di disarmo, ha aumentato il numero di detenuti da liberare in cambio dei rapiti. In sostanza ha chiesto la resa di Israele. Era una controproposta così surreale che gli stessi mediatori l’hanno definita inaccettabile e si sono rifiutati di trasmetterla ad Israele, mentre il rappresentante americano Witkoff se n’è tornato a casa dichiarando finita la trattativa perché “non c’è nessuno con cui negoziare, Hamas non è in buona fede”. Trump ha commentato: “È chiaro che Hamas non vuole un accordo e preferisce morire. Ora tocca a Israele concludere il lavoro”.

La strategia del terrorismo
  Quella di Hamas è una posizione così poco corrispondente alla situazione sul terreno, dove Israele continua ad avanzare e ad eliminare catene di comando e infrastrutture terroristiche, che è necessario analizzarla con cura. Vogliono davvero morire i terroristi di Hamas? Individualmente molti sono disposti a farlo per la loro causa, di questo va dato loro atto, anche se naturalmente negli scontri agiscono in modo da salvaguardarsi il più possibile. Ma collettivamente Hamas non ha affatto voglia di morire, è anzi convinta di poter vincere e si muove con molta accortezza e abilità politica verso i suoi fini. E l’ha fatto anche questa volta.

Il primo obiettivo di Hamas: il pubblico israeliano
  La strategia della guerriglia presuppone la consapevolezza di non poter vincere sul piano militare; non a caso i movimenti palestinisti, tutti dediti al terrorismo, nascono sulla base delle sconfitte degli eserciti arabi contro Israele. L’obiettivo della guerra asimmetrica (o terroristica) dunque non è mai da individuare sul piano militare (specificamente non lo era il 7 ottobre e non lo è ora), ma va compreso su quello politico. In primo luogo, i terroristi mirano a uno scopo interno allo schieramento dei loro nemici: disarticolarlo, produrre conflitti, terrorizzare il pubblico generale, opponendolo al governo, dividere la politica dall’esercito, produrre nel pubblico richieste di compromessi, pacificazioni o addirittura rese. Questo primo obiettivo di discordia faceva parte delle condizioni precedenti al 7 ottobre (basta ricordare che il movimento di protesta contro la riforma giudiziaria giunse al punto non solo di invadere il parlamento, ma di promuovere il rifiuto della leva e del servizio dei militari di riserva, in particolare in settori strategici come l’aviazione e i reparti per la guerra elettronica). Ma dal 7 ottobre funziona soprattutto sfruttando il dolore delle famiglie dei rapiti, che vogliono salvare i loro cari a ogni costo, anche al prezzo di compromettere di nuovo la sicurezza del paese con una pace senza condizioni. Mentre ciò è più che comprensibile per i parenti, chi governa lo Stato deve evidentemente pensare al futuro e può chiudere la guerra solo quando potrà dare la garanzia che prevedibilmente non saranno possibili nuove incursioni, pogrom e rapimenti. La strategia di Hamas di prolungare la guerra mira anche a esacerbare questo conflitto e finora ha avuto un certo successo in questo ambito.

La guerra dei media
  Il secondo obiettivo politico dei terroristi è l’isolamento internazionale di Israele, la sua condanna generalizzata, l’attribuzione allo Stato (e in genere al popolo) ebraico della colpa per la distruzione di Gaza anche se provocata dalla tattica degli scudi umani di Hamas; per la morte di numerosi civili, la quale era stata dall’inizio non solo messa in conto ma pubblicamente auspicata dai dirigenti terroristi; e per la fame della popolazione, anche se essa pure è provocata da Hamas, sia per trarre profitto economico e potere politico dal filtro che esso esercita dal monopolio sul flusso degli aiuti, sia per suscitare l’indignazione delle persone per bene per la pretesa atrocità delle operazioni dell’esercito israeliano. Una gigantesca campagna di stampa, costruita per lo più su un pompaggio continuo di terribili notizie e immagini false è condotta con lo scopo di deturpare l’immagine di Israele e di fare dei tagliagola di Hamas i difensori dell’umanità, della pace, dei bambini, dei diritti del popolo palestinese.

Le conseguenze politiche
  Bisogna ammettere che su questo piano della propaganda Hamas ha vinto largamente la sua guerra. Se non ci fosse in Israele un governo guidato con determinazione da Netanyahu e negli Usa una presidenza Trump non disposta a cadere nei loro trucchi, avrebbero già vinto la battaglia iniziata il 7 ottobre. Questa secondo la tattica della guerriglia, infatti, è solo una tappa di una “lunga marcia” per la distruzione di Israele. Quali che siano i danni subiti da loro e dalla popolazione, se i terroristi riuscissero a uscire da questa guerra restando a Gaza con l’organizzazione ancora funzionante e le armi sufficienti a controllare la Striscia, probabilmente pure col consenso della popolazione fanatizzata che li porterebbero prima o poi a controllare anche l’Autorità Palestinese, allora avrebbero vinto sul piano politico pur perdendo su quello militare. Per questo reazioni “umane” come le ricorrenti denunce dei media della distruzione e della fame di Gaza, dell’“omicidio dei bambini” (che riattiva le calunnie medievali contro gli ebrei) e soprattutto le prese di posizione politiche come il riconoscimento da parte del Francia dell’oggettivamene inesistente “Stato di Palestina” promesso da Macron o anche la lettera dei 28 capi di stato contro le “atrocità di Gaza” sono insieme un grande successo di Hamas e un incoraggiamento a continuare la guerra, anche al costo di subire nuove perdite militari.

Una battaglia difficile ma necessaria
  Israele è riuscita a modificare il quadro strategico del Medio Oriente, eliminando le proiezioni imperialistiche dell’Iran soprattutto in Libano e in Siria. Questa rottura delle trattative sui rapiti lo indurrà a concentrare la propria potenza su Gaza per cercare di dare il colpo di grazia a Hamas. È ragionevole, per una nazione attaccata a tradimento su sette fronti da parte di uno schieramento di paesi cento volte più estesi e dieci volte più numerosi, pensare di regolare la situazione prima di tutto sul piano militare. Da questo punto di vista, probabilmente, oltre a finire Hamas, sarà ancora necessario per Israele chiudere i conti con l’Iran, che conserva una certa potenza militare a sostegno di una politica aggressiva che non si è moderata. Ma il problema della propaganda d’odio suscitata da Hamas e ripresa con entusiasmo da tutti i nemici dell’Occidente e gli antisemiti in Europa e negli Usa fino a coinvolgere buona parte della popolazione, non riguarda solo Israele, ma anche gli ebrei cittadini di altri stati. Gli atti antisemiti che si moltiplicano ogni giorno in Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Usa e altrove mostrano che la guerra islamista a Israele riguarda tutti gli ebrei. È difficilissimo, in una tempesta di menzogne come quella che viviamo, cercare di restaurare un minimo di verità su quel che accade a Gaza e intorno a Israele. Ma questo è il nostro compito non solo per difendere lo Stato ebraico, ma anche per tutelare noi stessi e la democrazia nei nostri paesi.

(Shalom, 27 luglio 2025)

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L'odio di Caino

L'odio di oggi contro Israele, per la natura e l’intensità con cui si presenta, non trova spiegazioni umanamente ragionevoli. Oppure ne trova a iosa e di tutti i tipi, il che è la stessa cosa.

di Marcello Cicchese

    «Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: “Ho acquistato un uomo con l'aiuto dell'Eterno”. Poi partorì ancora Abele, suo fratello. E Abele fu pastore di pecore; e Caino, lavoratore della terra. E avvenne, di lì a qualche tempo, che Caino fece un'offerta di frutti della terra all'Eterno; e anche Abele offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. E l'Eterno guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. E Caino ne fu molto irritato, e il suo viso fu abbattuto. E l'Eterno disse a Caino: “Perché sei irritato? perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene non rialzerai il volto? ma, se agisci male, il peccato ti sta spiando alla porta, e i suoi desideri sono rivolti verso di te; ma tu lo devi dominare!” (Genesi 4:1-6).

È l’inizio della storia degli uomini dopo il “peccato originale”. Non è un bell’inizio. Come sappiamo dal seguito, il primo essere umano corporalmente generato da un uomo e una donna è un assassino; e il primo uomo che sperimenta la morte fisica è un uomo ucciso.
   Ma perché Dio gradì l’offerta di Abele e non quella di Caino? Non lo sappiamo, Dio non lo dice. E questo un po’ ci irrita. Proprio come è capitato a Caino. Forse dipende dall’idea che abbiamo di Dio. Forse pensiamo a un Dio che osserva gli uomini come un arbitro osserva i giocatori di una partita. Se l’arbitro fischia, vuol dire che qualcuno ha commesso un fallo e deve arrivare una punizione. E chi è punito, squadra o giocatore, pretende spiegazioni.
   Nel nostro caso non ci sono spiegazioni: Dio non le dà, ma neanche Caino le pretende. E non si sa perché. A questo punto abbiamo due possibilità: o ci mettiamo a protestare contro Dio perché non si spiega, oppure… ci viene il dubbio che forse abbiamo qualcosa da imparare. E cominciamo a riflettere.
   Notiamo allora che il contrasto verte sulla modalità con cui i due fanno un’offerta a Dio. Un fatto “religioso” dunque, pensa l’evoluto uomo occidentale, non un fatto “serio”, come potrebbe essere per esempio una contesa sulla proprietà di un terreno agricolo. Il Dio della Bibbia però appare più attento ad osservare come l’uomo si comporta verso di Lui, prima di osservare come gli uomini si comportano fra di loro.
   Dopo la delusione di Adamo ed Eva, che scelsero di dare fiducia al serpente invece che al Creatore; dopo il dolore che Dio provò nell’osservare gli uomini che nella loro “libertà” si rotolavano in un porcile morale (Genesi 6:5); la prima soddisfazione che Dio ricevette dall’uomo fu l’odore soave che gli arrivò dall’altare che spontaneamente Noè aveva costruito in suo onore dopo essere uscito dall’arca (Genesi 8:21). Un fatto di religiosa devozione dunque: spontaneamente offerto dall’uomo a Dio
   Eccezionali sono poi parole che Dio ordinò a Mosè e ad Aaronne di dire al Faraone: “Così dice l’Eterno, l’Iddio di Israele: ‘Lascia andare il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto’” (Esodo 5:1). Dio chiede che il popolo gli celebri una festa in suo onore: un fatto di religiosa devozione dunque, che Dio richiede al suo popolo.
   Da notare che Dio non si mostra scandalizzato dal rapporto di schiavitù con cui gli egiziani opprimono gli ebrei; non dice al Faraone di lasciar andare il suo popolo affinché goda della libertà di cui è privato; non parla di “diritti umani”, ma invoca il suo diritto: diritto che Egli ha sul suo popolo.
   Dopo la caduta di Adamo ed Eva, Dio non ha interesse a misurare il grado di malvagità con cui gli uomini si rapportano tra loro, ma è attento al modo in cui l’uomo guarda a Lui dalla posizione in cui è caduto. L’atto di culto sinceramente espresso è il termometro con cui Dio misura il grado di attenzione dell’uomo verso di Lui.
   Ecco dunque perché la questione Caino-Abele ruota intorno a un’offerta resa a Dio in suo onore. La Bibbia dice soltanto che Dio gradì l’offerta di Abele e non gradì l’offerta di Caino. Non è detto perché, e anche se si possono fare congetture sul tipo di offerte, una senza sangue e l’altra con il sangue, il fatto che non è detta in modo esplicito la ragione fa capire che non è lì che si deve porre l’attenzione. Se si pensa a Dio non come a un arbitro o a un giudice, ma come a un maestro, allora la differenza di gradimento può semplicemente esprimere una diversa valutazione dei risultati ottenuti dallo svolgimento di un compito: uno ha fatto bene, l’altro deve migliorare. Così infatti si possono intendere le parole affettuose che Dio rivolge a Caino dopo aver notato la sua irritazione: “Perché sei irritato? perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene non rialzerai il volto?” (Esodo 4:6-7).
   A Caino però non interessa la possibilità di un recupero: per lui qualcosa si è rotto in termini di primato. È lui il primogenito ed è stato lui il primo a presentare l’offerta: se Dio non gradisce la sua offerta, allora Caino dimostra a Dio di non gradire Lui uccidendo Abele, la cui offerta Dio ha gradito. L’odio di Caino per Abele è odio per Dio.
   Dello stesso tipo è l’odierno odio del mondo per Israele.
   Non si tratta di stabilire punto per punto analogie fra i due fatti, ma di riconoscere la ragione profonda di una situazione che presenta caratteri di sovrumana eccezionalità. Fino a pochi mesi fa mai si sarebbe potuto immaginare un’ondata così alta e violenta di odio contro gli ebrei.
   Odio. Così dev’essere denominato questo mondiale accanimento, lasciando anche cadere i termini ormai consunti di antisemitismo e antisionismo. Perché di puro odio si tratta, cioè di un sentimento omicida che si appaga soltanto nella sparizione dell’oggetto odiato. Si odiano gli ebrei in senso lato, ma l’astio è più precisamente diretto contro l’ebreo collettivo, cioè contro l’elemento unificante che in questo momento della storia è costituito dallo Stato d’Israele.
   È odio, bisogna ripetere. Odio che non sopporta l’esistenza dell’oggetto odiato. È odio di Caino, che non accetta la scelta di Dio. Perché Dio ha scelto Israele, e questo per molti è intollerabile.
   Non stiamo qui a esporre le ragioni di una presa di posizione così netta: sono conseguenza di quello che si scrive da anni su queste pagine. Ma se ne possono trarre alcune osservazioni.
   L'odio di oggi contro Israele, per la natura e l’intensità con cui si presenta, non trova spiegazioni umanamente ragionevoli. Oppure ne trova a iosa e di tutti i tipi, il che è la stessa cosa. E’ un odio che non dipende da fatti avvenuti o da fatti che avvengono o dal timore di fatti che potrebbero avvenire, ma dipende da una volontà che si dirige contro un’altra volontà: quella di Dio. È dunque una volontà di natura diabolica. Perché chi si oppone fin dall’origine alla volontà di Dio è lo stesso che ha preso la parola in Eden nella forma di un serpente; è lo stesso che ha spinto Caino ad uccidere il fratello; è lo stesso che spinge gli uomini ad odiare e voler distruggere Israele.
   Da questo seguono alcune conseguenze.
   È vano per Israele sperare che con atteggiamenti amorevoli ed esemplari verso il resto del mondo possa ottenere da esso maggiore consenso. Essere i primi a soccorrere nazioni in difficoltà per calamità terrestri; essere i primi a trovare medicine per combattere malattie; essere i primi a cercare soluzioni pacifiche in situazioni di contrasto fra popoli, non dovrebbe forse contribuire a riscuotere maggiori simpatie da chi sta intorno e favorire così un pacifico collocamento di Israele tra le nazioni? Sì, dovrebbe, se fosse soltanto una questione di rapporti umani, ma poiché le cose sono conseguenza di una scelta voluta da Dio, ogni accentuazione, voluta o non voluta, del primato di Israele, o anche soltanto della sua singolarità, aumenta l’irritazione degli altri. E l’odio ne è conseguenza, come nel caso di Caino.
   È pericoloso per Israele immaginarsi come pioniere delle nazioni nella lotta contro il male, come per esempio è accaduto per breve tempo nella lotta sanitaria contro il Covid. Questo significa cadere in una trappola diabolica. Soprattutto quando, come in questo caso, la presentazione stessa del male è una trappola.
   È ancora più pericoloso per Israele immaginare se stesso come pioniere del mondo nell’individuazione di nuovi valori morali, come per esempio la difesa dei cosiddetti “diritti umani”, in cui è inserito anche il diritto alla determinazione autonoma e variabile del sesso: il diritto transgender. È cominciato tutto con Tel Aviv “capitale dei gay”. L’avevamo scritto anni fa: «Essere riuscito a far sì che il mondo considerasse Tel Aviv la capitale degli omosessuali e nello stesso tempo scegliesse Tel Aviv come capitale d'Israele al posto di Gerusalemme è un capolavoro del Diavolo».
   Il capolavoro sta anche in questo: che il transessualismo è andato avanti fino a livelli ripugnanti di perversione e nello stesso tempo ha espulso Israele dalla cordata accodandosi al comune odio antiebraico.
   Per i sionisti laici potrebbe essere venuto il momento di riconoscere che il transgender è un movimento blasfemico diretto contro Colui che ha creato l’uomo maschio e femmina, e ha creato anche la nazione ebraica distinta dalle altre nazioni. Se non ci si mette decisamente dalla parte di Dio, si scivola inevitabilmente dalla parte del suo Avversario, con tutte le conseguenze per Israele. Tertium non datur
   Il sionismo laico, che ha sperato di poter inserire una nazione ebraica tra le altre e con pari dignità, ha avuto una funzione storica sostenuta da Dio stesso, ma ha ormai esaurito il suo compito. Per sua natura, Israele non può continuare a vivere tranquillamente in mezzo agli altri mettendo Dio tra parentesi.
   Perché, come abbiamo detto all’inizio, il Dio della Bibbia appare più attento a osservare come l’uomo si comporta verso di Lui, prima di osservare come gli uomini si comportano fra di loro.

(Notizie su Israele, 27 luglio 2025)


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Caso Vueling, le famiglie dei 50 giovani ebrei denunceranno

Conferme sul pilota: addestrò i terroristi dell’11 settembre

di Aldo Torchiaro

Vueling contro Vueling. La compagnia aerea è finita nella bufera dopo aver scaricato a forza un gruppo di cinquanta giovani ebrei francesi all’aeroporto di Valencia. Ufficialmente perché quei boy scout che tornavano a Parigi da un campo estivo in Spagna – di età compresa tra i 10 e i 15 anni – “rappresentavano una minaccia per la sicurezza del volo”. Secondo gli interessati, ancora sotto shock, il motivo è diverso. E a suo modo grave: intonavano canzoni in ebraico.

Vueling, ombre su ombre
  Di questi tempi, viene detto, è una provocazione. L’ammanettamento fin troppo sbrigativo della professoressa, ventunenne, che guidava il gruppo – descritta dai testimoni come una persona civile e pacata – aggiunge ombre su ombre. E anche a voler concedere il beneficio del dubbio alla replica che fa la compagnia Vueling, va detto che è la stessa compagnia a non aiutarsi. Perché da due giorni il customer care della low cost spagnola sta contattando i passeggeri del volo uno a uno per chiedere di cancellare foto e video dell’accaduto. Le riprese a bordo sono vietate per norme sulla sicurezza aerea, ne va della privacy degli altri passeggeri, e poi ci sono dei minori coinvolti: non si devono vedere i loro volti. Scaricarli sulla pista dell’aeroporto, però, sì.

La ricerca del video
  A voler cercare qualche video che davvero incastri quei rumorosi passeggeri, però, non se ne trovano. Niente dimostra che c’è stata una azione di disturbo vera e propria, a bordo: nessuna ragazzata, nessun illecito uso dei materiali in dotazione dell’aeromobile, come recita un algido mattinale distribuito da Vueling. Che prega di ripetere la nota del suo ufficio legale ma si rifiuta di rispondere alle domande che abbiamo posto già 48 ore fa ai responsabili dell’ufficio stampa. Vueling non aiuta Vueling: fa muro. Intima ai passeggeri la cancellazione di foto e video. Intimorendoli, quasi, dal parlarne. Ecco cosa detta la compagnia aerea spagnola: «Durante il volo VY8166, Valencia-Parigi, un gruppo di adolescenti ha adottato un comportamento dirompente e un atteggiamento di sfida, violando quanto previsto dall’articolo 41 della legge 21/2003, sulla sicurezza aerea».

La notizia del comandante
  Una ricostruzione totalmente diversa da quella delle testimonianze raccolte dai telegiornali francesi. Il verbale del vettore aereo è impietoso: «Gli equipaggi di volo hanno l’obbligo di intervenire in qualsiasi situazione che possa compromettere la sicurezza dei passeggeri». Di cosa si starebbe parlando, posto che nessuno dei passeggeri ha notato niente? Quell’alto rischio in cosa consisterebbe, posto che nessuno ne ha avuto sentore? La nota stampa parla di «atteggiamento apertamente di sfida verso la sicurezza e disobbedienza ripetuta alle istruzioni dell’equipaggio. Il comandante si è visto obbligato a richiedere l’intervento della Guardia Civil». C’è da rimanere a bocca aperta. Anche perché, ad aggiungere sale sulla ferita, la notizia che ieri ci è stata confermata: il comandante in questione è Iván Chirivella, pilota della Vueling che ha adottato la linea dura con i temibili quattordicenni ebrei ma in passato aveva condiviso il velivolo con personalità addirittura più pericolose: era stato lui ad addestrare due dei terroristi dell’11 settembre 2001, Mohamed Atta e Marwan al-Shehhi.

Vola l’odio
  Vueling dovrebbe sperare di trovare riscontri alle sue accuse. E invece sta chiedendo di cancellare qualsiasi prova utile. La questione finirà in tribunale: le famiglie dei ragazzi hanno deciso di denunciare l’accaduto, mentre si moltiplicano gli appelli – anche della politica – affinché venga fatta piena luce. La notizia, riportata in beata solitudo dal Riformista per l’Italia, era ieri su radio e Tg di mezza Europa. Un testimone ha mandato un dettagliato racconto: si dice incredulo per l’accanimento contro quei bambini – o poco più che bambini, si sa che a quattordici anni ci si sente già grandi – ed è pronto a testimoniare in aula. Il tribunale della rete però ha già deciso: «Erano bambini sionisti, chissà cosa cantavano. Morte agli arabi?». E non servono vettori low cost: l’odio è il motore che fa volare sempre più in alto la fantasia dei più.

(Il Riformista, 26 luglio 2025)

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Quando i media usano immagini di altre tragedie umane per manipolare l’informazione contro Israele

Il caso Repubblica e l’esposto all’ODG

FOTO
Questa foto non è stata scattata a Gaza, né nel 2025. È un’immagine d’archivio, risalente al 2016, scattata nello Yemen nel pieno della guerra civile.

Il 20 luglio 2025, il quotidiano la Repubblica ha pubblicato un articolo sulla presunta crisi di fame nella Striscia di Gaza. In apertura, campeggiava una fotografia drammatica: una donna dallo sguardo stremato stringe tra le braccia un bambino visibilmente malnutrito. La didascalia era chiara: “Una madre a Gaza nel 2025”.
  Solo che quella foto non è stata scattata a Gaza, né nel 2025. È un’immagine d’archivio, risalente al 2016, scattata nello Yemen nel pieno della guerra civile. A pubblicarla per la prima volta fu il New York Times, in un contesto del tutto diverso.
  Il suo riutilizzo da parte di la Repubblica, senza alcuna indicazione della sua reale origine, non è un semplice errore. È un atto di manipolazione consapevole, volto a generare un impatto emotivo, rinforzare una narrativa politica e indurre il lettore a credere a una realtà visiva che non corrisponde ai fatti.

Una questione di fiducia
  In un’epoca in cui le immagini influenzano profondamente la percezione pubblica, falsare l’origine di una fotografia significa minare il principio stesso dell’informazione: l’affidabilità. Quando un grande quotidiano nazionale sceglie deliberatamente di usare immagini fuori contesto senza spiegarlo al lettore, la fiducia si spezza. E con essa si incrina uno dei pilastri della democrazia.

Gaza: che cosa dicono i fatti
  Da mesi, numerose organizzazioni umanitarie — tra cui l’ONU, la FAO e Save the Children — hanno lanciato l’allarme sulla situazione umanitaria a Gaza. Segnalano carenze di cibo, difficoltà logistiche nella distribuzione degli aiuti e una popolazione sempre più dipendente dagli approvvigionamenti esterni. In alcuni rapporti si è parlato apertamente di rischio fame, in particolare nelle aree più colpite dai combattimenti.
  Tuttavia, queste stesse organizzazioni riconoscono la complessità del contesto e non tutte parlano di “carestia conclamata”. Alcune fonti parlano di una situazione grave ma ancora sotto la soglia tecnica di fame generalizzata. Altri, come Save the Children, denunciano gravi ostacoli posti da Hamas alla distribuzione equa degli aiuti umanitari.
  In questo quadro già difficile, l’uso di foto false contribuisce a confondere ulteriormente il pubblico e delegittima il lavoro di chi, sul campo, cerca di documentare i fatti con precisione.

La posizione ufficiale di Israele
  Il 22 luglio, in risposta alle crescenti accuse da parte di governi europei e della Casa Bianca, l’IDF (Esercito israeliano) ha pubblicato un comunicato ufficiale: “Non esiste una crisi di fame a Gaza. Sappiamo con precisione quante calorie contenga ogni camion che entra nella Striscia, e quante persone può sostenere. I nostri dati, basati sul monitoraggio quotidiano condotto da COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori), non indicano una carestia in corso.”
  Sempre secondo le autorità israeliane, parte delle immagini diffuse sui social e dai media internazionali — compresa quella utilizzata da la Repubblica — proverrebbero in realtà dallo Yemen, e sarebbero utilizzate da Hamas per costruire un racconto di vittimismo funzionale alla propria propaganda.

Un esposto all’Ordine dei Giornalisti contro Repubblica
  Per denunciare questa manipolazione dell’informazione da parte di Repubblica è stato presentato un esposto all’Ordine dei Giornalisti: lo scopo non è censurare l’informazione né di negare che a Gaza la popolazione stia vivendo gravi difficoltà. Il punto non è il contenuto dell’articolo, ma il metodo: l’uso di una foto falsa, senza avvertire il lettore, per generare empatia e orientare l’opinione pubblica. Questo è inaccettabile. Chi informa ha il dovere della precisione. Chi pubblica immagini ha la responsabilità di non mentire con gli occhi degli altri.
  In democrazia, il diritto a informarsi correttamente vale più di qualsiasi schieramento.
Per questo invitiamo a firmare l’esposto presentato all’Albo dei Giornalisti contro la Repubblica. Non per prendere posizione su Gaza, ma per difendere qualcosa di più ampio: la verità, anche visiva, nell’informazione.
  Perché quando la realtà viene truccata, l’informazione smette di essere un diritto.

(Bet Magazine Mosaico, 25 luglio 2025)

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Il cristianesimo: un movimento ebraico!

Come l'influenza impressionante di un Giuseppe dei tempi moderni ha cambiato il mondo.

di Charles Gardner 

Nel 1799 un uomo di nome Joseph Frey fu battezzato in una chiesa luterana nella Germania settentrionale. Niente di strano, direte voi. Ma Joseph proveniva da una famiglia ebrea molto devota, e questo evento si rivelò un punto di svolta nella lunga storia del cristianesimo.
In un certo senso, probabilmente contribuì anche all'attuale conflitto mediorientale, poiché aprì gli occhi dei non ebrei alla promessa restaurazione di Israele, sia della terra che del loro Signore.
Quando Giuseppe abbracciò la fede in Cristo, infatti, non accettò la norma degli ultimi quindici secoli, assimilandosi alla cultura cristiana non ebraica e rinunciando alla sua eredità ebraica, ma disse: «Fin qui e non oltre».
Giuseppe era convinto che Yeshua – Gesù – non fosse il fondatore di una nuova religione, ma il Messia di Israele a lungo promesso; e che non avesse abbandonato l'ebraismo, ma fosse entrato nella sua pienezza, proprio come ha spiegato Mordechai Veberman nel mio recente articolo “Yeshua rivelato”.
Nel 1799 era un'idea radicale – e lo è ancora oggi. La Chiesa primitiva era nata come movimento ebraico, radicato nelle Scritture ebraiche e permeato dall'identità ebraica. Ma nel IV e V secolo questo legame si era in gran parte spezzato. Gli ebrei che in seguito credevano in Gesù erano tenuti ad abbandonare la loro eredità, il loro popolo e spesso anche il loro nome. Ma Frey rifiutò questo quadro.
Nel giro di dieci anni fondò a Londra l'attuale Church's Ministry among Jewish People (CMJ), una missione mondiale che incoraggia gli ebrei ad accettare il loro Messia senza rinnegare il loro retaggio.
E fu proprio la CMJ, insieme ad altre organizzazioni, tra cui importanti evangelici del XIX secolo, a contribuire in modo determinante a spingere il governo britannico ad adottare la cosiddetta Dichiarazione Balfour del 1917, in cui prometteva di fare tutto il possibile per restituire al popolo ebraico il territorio allora noto come Palestina.
Erano infatti convinti, sulla base di scritture profetiche, che gli ebrei di tutto il mondo sarebbero presto tornati dal loro lungo esilio e che era di fondamentale importanza riportare il Vangelo a coloro che ce lo avevano dato, soprattutto alla luce della promessa (Romani 11:26; Zaccaria 12:10; Apocalisse 1:7), che indicano che negli ultimi giorni prima del Suo ritorno un gran numero di ebrei si sarebbe convertito al loro Messia.
Sebbene la CMJ si concentrasse sul Vangelo, l'organizzazione era anche molto pratica nel suo amore per l'antico popolo di Dio. Si stabilì circa 100 anni prima della rinascita dello Stato moderno in Israele, fondò una scuola, un ospedale e una scuola professionale e si impegnò persino nella formazione agricola dei nuovi arrivati ebrei che avevano scarse conoscenze in materia.
Erano chiaramente guidati dalla Parola di Dio, che diceva, ad esempio, che “il deserto e la terra arida si rallegreranno; il deserto gioirà e fiorirà” (Isaia 35,1).
Il loro complesso della Christ Church nella città vecchia di Gerusalemme, oggi luogo di pace in mezzo alla guerra, ospita tre comunità che celebrano le loro funzioni in ebraico, inglese e arabo. La funzione in arabo viene trasmessa nella finestra 10/40, che copre gran parte del mondo musulmano. Secondo il reverendo Aaron Eime, direttore britannico della CMJ, che vive a Gerusalemme da 26 anni, “ci sono persone che seguono il messaggio da paesi lontani come l'Uzbekistan e si confrontano con esso”.
Inoltre, ogni giorno gruppi di israeliani e altri turisti visitano l'Heritage Centre della struttura, dove incontrano credenti messianici che spiegano loro la ricca storia del loro movimento e come Yeshua ha cambiato la loro vita. Il centro gestisce anche un Mercy Fund che si occupa delle persone bisognose della zona, tra cui arabi ed ebrei.
Daryl Fenton, direttore di CMJ Israel, mi ha detto: “In una città segnata dalle divisioni, questi incontri non sono insignificanti.
Fanno parte di uno sforzo lento e costante per seminare la pace, radicato nella verità e fondato sull'ospitalità”.
Israele è oggi la patria delle prime comunità di seguaci di Gesù di lingua ebraica dai tempi biblici. I credenti messianici si riuniscono in tutto il paese, molti dei quali con cristiani arabi tra le loro fila. E nonostante la guerra, che purtroppo ha alimentato così tanto antisemitismo, anche nel Regno Unito cresce l'interesse per le radici ebraiche.
Quando gli ebrei di Gerusalemme erano in difficoltà nei primi tempi della Chiesa, l'apostolo Paolo spiegò come i Macedoni e gli Achei li avevano aiutati volentieri (allora soffrivano la povertà, oggi soffrono il terrore costante) – vedi Romani 15:27. Siamo ancora in debito con loro e la nostra gratitudine deve manifestarsi!
Nel frattempo, ci giungono da tutto il mondo nuove testimonianze di ebrei che diventano discepoli di Gesù, anche dall'Australia, dove una donna di nome Adi era rimasta sconvolta e depressa dai terribili eventi del 7 ottobre 2023.
Adi, un'israeliana cresciuta in Australia, da giovane adulta si era arruolata volontaria nell'esercito israeliano per il profondo amore verso il suo popolo e voleva tornare a combattere allo scoppio della guerra, ma ora aveva dei bambini piccoli da accudire.
L'odio la consumava. «Mi trovavo in un luogo buio e avevo bisogno di un miracolo per voler tornare a vivere. Ho pregato: ‘Ti prego, Dio, anche solo per il bene dei miei figli’“.
Non ci volle molto perché Dio le rispondesse. ”Un giorno, mentre ero abbattuta e sola, ho sentito una voce che diceva: ‘Vieni, ti darò pace’".
In qualche modo sapeva che era Gesù, così ha cercato su Internet e ha chiamato l'ufficio di “Ebrei per Gesù”. Si è unita a una comunità ed è diventata convinta che Yeshua è il Messia ebraico! È stata guarita dal suo odio e anche suo marito è diventato credente.
Il Messia è venuto! Di questo si tratta!
* Charles Gardner è autore di “Israel the Chosen” (Israele, il popolo eletto), disponibile su Amazon; “Peace in Jerusalem” (Pace a Gerusalemme), disponibile su olivepresspublisher.com; “To the Jew First” (Prima ai Giudei), “A Nation Reborn” (Una nazione rinata) e “King of the Jews” (Re dei Giudei), tutti disponibili presso Christian Publications International.

(Israel Heute, 25 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Shimrit Maman, la prima donna alla guida dell’Agenzia Spaziale Israeliana

di Jacqueline Sermoneta

È la prima donna a dirigere l’Agenzia Spaziale Israeliana (Isa), l’agenzia civile che opera sotto il ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia. Shimrit Maman è stata nominata presidente, assumendo così la direzione della politica spaziale dello Stato ebraico. Succede a Dan Blumberg per un mandato di tre anni.
   “La dott.ssa Shimrit Maman è una scienziata autorevole e rispettata con una comprovata esperienza nella promozione di collaborazioni intersettoriali e internazionali, nell’avvio e nella gestione di programmi spaziali innovativi e nella guida di processi di coinvolgimento strategico con un’ampia gamma di partner – ha affermato la ministra per l’Innovazione, la Scienza e la Tecnologia, Gila Gamliel – Sono certa che guiderà l’Agenzia spaziale israeliana verso una nuova era di innovazioni scientifiche e tecnologiche e rafforzerà la posizione internazionale di Israele come potenza spaziale”.
   La nomina arriva in un momento in cui Israele si sta concentrando sempre di più sulla tecnologia spaziale, grazie alla quale ha ottenuto numerosi successi, fra i quali il recente lancio in orbita del satellite Dror-1, il più avanzato mai realizzato, che coprirà tutte le esigenze di comunicazione satellitare dello Stato ebraico per almeno i prossimi 15 anni.
   Un altro importante risultato raggiunto è stato ciò che è considerato il primo scontro avvenuto nello spazio ovvero quando il sistema di difesa a lungo raggio Arrow è riuscito ad abbattere un missile balistico Houthi al di fuori dell’atmosfera terrestre.
   Maman ha diretto l’Ufficio israeliano del Programma UN-SPIDER (United Nations Platform for Space-based Information for Disaster Management and Emergency Response) per il monitoraggio satellitare dei disastri naturali e la gestione rapida delle emergenze e ha ricoperto l’incarico di rappresentante di Israele presso il Comitato delle Nazioni Unite sugli Usi Pacifici dello Spazio extra-atmosferico (COPUOS). Attualmente, è direttore del Centro di immagini planetarie e della Terra dell’Università Ben-Gurion del Negev.
   Ma il ruolo più significativo è quello di pioniera nella lotta per la partecipazione delle donne allo spazio. Ha guidato ‘SheSpace’, un’iniziativa di fama internazionale per ispirare e sostenere le donne che desiderano entrare nel settore spaziale.
   “Sono entusiasta dell’opportunità di guidare l’Agenzia spaziale israeliana – ha detto Maman – e di dare vita, insieme ai partner in Israele e in tutto il mondo, alla prossima generazione di operazioni spaziali israeliane”.

(Shalom, 25 luglio 2025)

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La follia mondiale contro Israele

L'ossessione per lo Stato ebraico ha sostituito la razionalità con una propaganda letale.

di Melanie Phillips

Negli ultimi giorni, il sentimento anti-israeliano e antisemita si è trasformato in una vera e propria follia. Ogni poche ore sembra emergere un nuovo scandalo.
A Londra, un famoso presentatore ebreo è stato seguito per strada da un uomo che gridava “fascista sionista feccia”. A una donna che stava cenando in un ristorante ebraico della città è stato chiesto se fosse ebrea e poi le è stato rovesciato addosso il cibo.
Sull'isola greca di Rodi, una folla armata di coltelli ha aggredito un gruppo di giovani ebrei. Circa 50 bambini ebrei francesi di ritorno da un campo estivo in Spagna sono stati cacciati da un aereo all'aeroporto di Valencia dopo aver cantato canzoni in ebraico; la loro accompagnatrice è stata arrestata e spinta a terra.
L'ossessione della BBC di demonizzare e delegittimare Israele ha assunto connotati patologici. Questa settimana ha dedicato ampio spazio al suo programma radiofonico di punta, “Today”, ad accuse sempre più grottesche e leggende di omicidi rituali che dipingono Israele come uno Stato malvagio e assassino, tra cui l'affermazione di un medico britannico che lavora nella Striscia di Gaza secondo cui l'esercito israeliano starebbe giocando a un gioco in cui ogni giorno prende di mira una parte diversa del corpo dei ragazzi in fila per il cibo.
L'emittente britannica non è riuscita a nascondere il proprio entusiasmo quando i giornalisti e gli intervistati hanno annunciato all'unisono che “la resa dei conti” era imminente, con la fine della guerra di Gaza, dopo la quale sarebbero stati rivelati i “crimini di guerra” di Israele e la richiesta di uno Stato palestinese sarebbe diventata schiacciante.
Questa offensiva propagandistica si basa su tre grandi calunnie: che l'IDF uccide deliberatamente i gazawi in fila per il cibo, che Israele sta affamando la popolazione della Striscia di Gaza e che la “violenza dei coloni” contro gli arabi in Giudea e Samaria è in aumento.
Tutte e tre le affermazioni hanno lo scopo di trasformare Israele da vittima di un genocidio a Stato assassino che non ha più diritto di esistere. Questa ondata di propaganda è orchestrata da Hamas insieme ai suoi alleati alle Nazioni Unite e all'intera scena umanitaria globale, diffusa dai media e ripetuta da politici malintenzionati o ignoranti.
Basta un attimo di riflessione per rendersi conto di quanto sia assurdo accusare l'IDF di uccidere deliberatamente persone in fila per il cibo. Dopo tutto, gli israeliani hanno contribuito a creare la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) e ne supervisionano il lavoro per garantire la distribuzione sicura di cibo ai civili. Perché mai dovrebbero voler uccidere questi civili?
Nel caso di alcuni abitanti di Gaza uccisi nei pressi dei punti di distribuzione degli aiuti, si è trattato chiaramente di una conseguenza involontaria dei colpi di avvertimento sparati in aria dai soldati per fermare una folla, apparentemente infiltrata da Hamas, che sembrava intenzionata ad assalire le truppe israeliane.
È Hamas che ha deliberatamente ucciso centinaia di abitanti di Gaza per impedire loro di raggiungere i punti di distribuzione gestiti da americani e israeliani, perché è proprio grazie al furto di questi aiuti che Hamas è rimasta al potere.
Per sopravvivere, gli aiuti devono invece essere distribuiti dal suo alleato all'ONU. Ecco perché Hamas, nell'ambito dei negoziati di cessate il fuoco, chiede che la distribuzione degli aiuti sia effettuata dall'ONU e dalla Mezzaluna Rossa Palestinese.
Questa settimana i media hanno pubblicato immagini sconvolgenti di bambini emaciati come prova di una carestia nella Striscia di Gaza. Ma gli adulti nelle stesse immagini erano chiaramente ben nutriti. È probabile che solo i bambini soffrano la fame mentre gli adulti sono sazi?
Gli israeliani sostengono che queste immagini, diffuse regolarmente da anni con la falsa accusa di mostrare la brutalità israeliana, in realtà ritraggono bambini affetti da malattie degenerative o genetiche.
Potrebbe esserci una crescente fame nella Striscia di Gaza, ma dare la colpa a Israele è grottesco. Il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha accusato Israele di bloccare gli aiuti umanitari. Questo è completamente falso.
Secondo il COGAT, il dipartimento di assistenza dell'IDF, recentemente sono arrivati nella Striscia di Gaza quasi 4.500 camion con aiuti umanitari, tra cui farina per panifici, e 2.500 tonnellate di alimenti per neonati e alimenti speciali ad alto contenuto calorico per bambini.
Il punto cruciale, però, è che 950 di questi camion sono bloccati all'interno della Striscia di Gaza perché le Nazioni Unite e le loro organizzazioni si rifiutano di distribuire il cibo e gli aiuti umanitari che trasportano. La GHF ha implorato l'ONU di distribuire queste scorte nella Striscia di Gaza, ma invano.
Questo perché l'ONU lavora fianco a fianco con Hamas, che usa la fame come arma di guerra, proprio come usa la popolazione civile di Gaza come scudo umano e carne da cannone.
Questa strategia ripugnante si basa sul calcolo infernale che più gazawi muoiono, più l'Occidente condannerà Israele. Il presunto segnale morale dell'Occidente contro un presunto “affamamento” israeliano diventa così una condanna a morte per la popolazione di Gaza.
Nel frattempo, la macchina per delegittimare Israele ha inventato un'altra potente arma: la “violenza dei coloni”. Questa denigra gli abitanti ebrei della Giudea e della Samaria come aggressori e terroristi nei confronti dei loro vicini arabi.
Come spesso accade, la realtà è esattamente l'opposto. Certo, una minoranza di giovani radicali “giovani delle colline” ha vendicato gli attacchi contro gli arabi – questo è da condannare. Tuttavia, la maggior parte della violenza in queste zone è perpetrata dagli arabi locali contro gli abitanti ebrei, che sono vittime di aggressioni quasi quotidiane.
Secondo un rapporto dell'ONG Regavim, il 90% degli incidenti classificati dalle Nazioni Unite come “violenza dei coloni” erano in realtà qualcosa di completamente diverso: scontri tra arabi e l'IDF, autodifesa ebraica contro attacchi arabi o persino attività pacifiche come visite guidate al Monte del Tempio a Gerusalemme o escursioni a siti storici.
Questa settimana è stato rivelato che l'affermazione secondo cui i “coloni” avrebbero dato fuoco alla chiesa bizantina di San Giorgio a Taybeh, vicino a Ramallah, era falsa. L'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, che aveva visitato la chiesa e aveva inizialmente dichiarato che la profanazione di un luogo di culto era un crimine contro l'umanità e contro Dio, ha ritirato la sua dichiarazione. Ha confermato che la chiesa era intatta, come si poteva vedere fin dall'inizio dalle mura di pietra intatte. Tuttavia, questa falsa affermazione, avanzata da sacerdoti e attivisti, si era diffusa in tutto il mondo.
Invece di contribuire a fare chiarezza, sostenere Israele nella lotta contro i nemici islamisti dell'umanità e proteggere gli ebrei della diaspora dall'odio fomentato da questa campagna mediatica, i politici britannici ed europei continuano a gettare benzina sul fuoco.
Una dichiarazione congiunta del ministro degli Esteri britannico David Lammy e dei suoi omologhi di altri 27 Stati ha accusato Israele di “uccisione disumana di civili, tra cui bambini, che cercavano solo acqua e cibo”, di “negare aiuti umanitari essenziali alla popolazione civile” e di un'escalation della “violenza dei coloni”.
Come si spiega questa spaventosa caduta dalla ragione nell'abisso della propaganda mortale? Come è possibile che nel Regno Unito i fatti sulla guerra di Gaza siano accolti con incredulità, che “sionista” sia diventato un insulto e che l'antisemitismo sia considerato poco più che una manovra diversiva ebraica per nascondere i presunti “crimini” israeliani?
Ci sono molte ragioni: ideologia, ignoranza, wishful thinking. E la convinzione diffusa che l'ONU e l'industria dei diritti umani – ormai dotate di uno status quasi religioso – agiscano con assoluta integrità e siano incapaci di mentire o di commettere ingiustizie.
Ma agiscono anche impulsi più profondi e oscuri: il bisogno di smascherare gli ebrei come i cattivi, di attribuire loro un potere unico e distruttivo sul mondo e di negare loro il ruolo di vittime.
Ecco perché in Occidente le minacce provenienti dalla Russia, dalla Cina o dall'Iran, le atrocità commesse contro i drusi in Siria o i cristiani in Africa, le carestie in Sudan, sembrano tutte secondarie rispetto all'ossessione sfrenata e malvagia per il piccolo Israele. Questa ossessione è espressione di una malattia della civiltà che non distrugge lo Stato ebraico, ma l'Occidente stesso.

(Israel Heute, 25 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele mostra gli aiuti bloccati a Gaza: “L’ONU non li distribuisce, Hamas ostacola”

di Luca Spizzichino

Circa 800 camion carichi di generi alimentari, medicinali e beni di prima necessità risultano da giorni fermi sul lato palestinese del valico di Kerem Shalom. A mostrarli alla stampa internazionale è stato il Colonnello Abdullah Halabi, capo della Divisione del COGAT per Gaza, che ha puntato il dito contro le Nazioni Unite e altre organizzazioni umanitarie, accusandole di non svolgere adeguatamente il proprio compito nella distribuzione degli aiuti.
   x   Mentre Israele continua a essere accusata dalla comunità internazionale, le stesse Nazioni Unite ammettono di non avere piena visibilità su ciò che accade ai valichi. Jens Laerke, portavoce dell’OCHA, ha affermato che l’ONU “non ha accesso” al valico di Kerem Shalom e che “molte missioni vengono respinte o ostacolate”. Inoltre, alcune agenzie umanitarie rifiutano di collaborare con strutture alternative di distribuzione perché sostenute dallo Stato ebraico.
   Le pressioni internazionali, in particolare da parte dell’Unione Europea, hanno spinto Israele a riaprire il valico di Zikim, nel nord della Striscia, e a consentire l’ingresso di aiuti anche attraverso la Giordania e l’Egitto. È stato inoltre autorizzato l’ingresso di carburante per garantire il funzionamento delle infrastrutture critiche gestite dall’ONU. Tuttavia, Hamas continua a tentare di sabotare queste aperture per conservare il controllo sull’assistenza.
   “Vediamo le immagini drammatiche che arrivano da Gaza, ma non è Israele a causare la catastrofe. Al contrario, stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per evitare ulteriori sofferenze”, ha dichiarato un alto funzionario della sicurezza israeliana. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione d’urgenza con i vertici della sicurezza, del Ministero degli Esteri e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale per affrontare la crisi umanitaria in corso. “Stiamo combattendo Hamas, non la popolazione civile”, ha ribadito un alto ufficiale. “Israele non è la causa del disastro, ma sta facendo di tutto per evitarlo”.

(Shalom, 25 luglio 2025)

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Il 7 ottobre dei drusi: «Il silenzio non è più un’opzione»

Israeliani e drusi accomunati nella tragedia. Il 7 ottobre 2023 nel primo caso, il 15-16 luglio 2025 nel secondo. Comune la sorte di oltre un migliaio di civili uccisi da terroristi armati, comune il mandante di tali eccidi: il fanatismo islamico di matrice sunnita. A trucidare oltre 1.200 fra uomini, donne e bambini nei kibbutzim al confine con Gaza e a Sderot sono stati i terroristi di Hamas, temibile braccio armato palestinese della Fratellanza Musulmana. A Sweida e dintorni – nel sud della Siria – a uccidere oltre mille civili drusi sono stati clan beduini di fede sunnita supportati, secondo le denunce della comunità drusa siriana, dalle forze regolari siriane che rispondono al nuovo uomo forte di Damasco, quell’Ahmad al-Shara (già noto come al-Joulani) oggi ricevuto da Donald Trump ed Emmanuel Macron quale uomo di pace ma fino a ieri leader del Fronte al-Nusra, declinazione siriana di al Qaeda. Cittadini drusi e cittadini ebrei, che vivono fianco a fianco in Israele, vittime della stessa guerra di religione, un odio per il diverso che non si ferma davanti al civile indifeso, sia questo una donna ebrea in un kibbutz o un anziano druso ricoverato in ospedale.
   Del 7 ottobre conosciamo già i dettagli, le violenze indicibili largamente ignorate dalla comunità internazionale. Comunità che oggi fa lo stesso con i drusi salvo poche eccezioni.
   Documenta l’orrore avvenuto in Siria e interrotto dall’intervento di Israele il rapporto “Atrocità sistematiche contro i drusi a Sweida” a cura del Druze Documentation Nexus. pubblicato sul sito dell’istituto Memri. Nel rapporto vengono dettagliati i crimini compiuti da parte delle forze del regime siriano insieme ad alcune milizie terroristiche e alle tribù beduine locali e si fornisce anche una prima lista con i nomi di 245 vittime tra drusi e cristiani. Oltre mille morti, centinaia di feriti e rapiti. Violenze sessuali, umiliazioni e torture mirate. Blocchi medici. E come già in Israele ai tempi del 7 ottobre, decine di migliaia di persone sfollate. «Il silenzio non è più un’opzione. I drusi e altre minoranze chiedono solo per il diritto di vivere in pace sulla loro terra ancestrale», si legge all’inizio del rapporto, nel quale si sollecitano le istituzioni internazionali a intervenire con fermezza. Vengono chieste in particolare quattro azioni: l’istituzione di una inchiesta urgente su mandato delle Nazioni Unite «per indagare su crimini contro l’umanità», l’accesso umanitario immediato «per valutare e rispondere ai bisogni dei sopravvissuti», l’adozione di sanzioni e provvedimenti da applicare contro individui e organismi «che operano all’interno del governo di Al-Joulani, in quanto complici delle violenze», l’attivazione da parte della comunità internazionale di «meccanismi di protezione per le minoranze vulnerabili in Siria, per prevenire il ripetersi di tali episodi».

(moked, 25 luglio 2025)

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Bologna – De Paz e il messaggio congiunto con Zuppi: «Si torni alla via del dialogo»

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«Tacciano le armi, le operazioni militari in Gaza e il lancio di missili verso Israele. Siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi. Si sfamino gli affamati e siano garantite cure ai feriti. Si permettano corridoi umanitari. Si cessi l’occupazione di terre destinate ad altri. Si torni alla via del dialogo, unica alternativa alla distruzione. Si condanni la violenza».
   La dichiarazione congiunta del presidente della Comunità ebraica bolognese Daniele De Paz e dell’arcivescovo della città Matteo Zuppi, che è anche il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha incassato nelle scorse ore l’adesione della senatrice a vita Liliana Segre.
   In fondo all’appello in cui si chiedono di rafforzare «in tutti i modi vie coraggiose di pace» avrebbero dovuto esserci tre firme e non le due comunicate. Almeno questa era l’intenzione di Zuppi e De Paz, spiega il secondo a Pagine Ebraiche. «Volevamo coinvolgere tutte le tre comunità religiose che dal 2021 partecipano al progetto per una casa dell’incontro e del dialogo tra religioni e culture», sottolinea. Però Yassine Lafram, il presidente della comunità islamica cittadina, che è anche il presidente dell’Ucoii, «ha deciso di non aderire, nonostante le molte sollecitazioni di Zuppi». A tenerlo distante, secondo de Paz, «l’assenza della parola “genocidio” associata a Gaza: una formulazione alla quale ci siamo opposti in modo netto e che neanche Zuppi condivide». Malgrado questa defezione, la scelta è stata quella di parlare lo stesso all’opinione pubblica, «perché c’era bisogno di dare un segnale» anche a causa delle «molte sollecitazioni che si sono consolidate sul territorio dopo la sospensione dei rapporti con Israele da parte della regione Emilia-Romagna, la scelta analoga del Comune, la mozione dell’università nella stessa direzione; sono eventi scatenanti che producono un fortissimo disagio nella società, in un momento segnato da toni sempre più accesi verso le comunità ebraiche».
   Nella dichiarazione si attesta che «la giustizia per il popolo palestinese, come la sicurezza per il popolo israeliano, passano solo per il riconoscimento reciproco, il rispetto dei diritti fondamentali e la volontà di parlarsi». De Paz svela di aver ricevuto messaggi di contestazione duri «ma le testimonianze di sostegno sono state molte di più di quelle di chi ha cercato di mettermi in cattiva luce, anche nel mondo ebraico». Zuppi e Lafran sono rappresentanti di comunità a livello nazionale. «Ma», precisa De Paz, «mi sono rivolto a loro per il ruolo svolto sul territorio».

(moked, 24 luglio 2025)
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Non ci sono parole per commentare una presa di posizione come questa, firmata dal presidente della Comunità ebraica bolognese, dall'arciverscovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale italiana Matteo Zuppi, con l'adesione della senatrice a vita Liliana Segre, ma senza l'adesione del presidente della comunità islamica bolognese perché non si nomina il "genocidio". E' proprio vero, come qualcuno ha detto, che la questione ebraica è una cosa troppo seria da lasciare che a interessarsene siano soltanto gli ebrei e i loro nemici. M.C.

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50 bambini ebrei rimossi da volo Vueling La compagnia invoca «questione di sicurezza»

«Cinquanta bambini ebrei francesi, di età compresa tra 10 e 15 anni, cantavano canzoni ebraiche. L’equipaggio di Vueling ha dichiarato che Israele è uno stato terrorista e ha costretto i bambini a scendere dall’aereo».
   Lo denuncia Amichai Chikli, il ministro israeliano della Diaspora, in un intervento su X in cui pubblica il video di una donna arrestata dalla polizia spagnola all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portare i giovani da Valencia a Parigi. Quella donna, sottolinea il ministro, «è la direttrice del campo estivo Kinneret».
   L’episodio è stato tra gli altri commentato dalla parlamentare francese Caroline Yadan, che ha rilanciato un articolo della stampa israeliana sulla vicenda. Scrive Yadan, sempre su X: «Cinquanta bambini ebrei sono stati rimossi da un aereo. La loro direttrice ventunenne è stata ammanettata con violenza. Se i fatti riportati in questo articolo fossero veri, la compagnia aerea spagnola Vueling dovrebbe risponderne in tribunale».
   La compagnia low cost ha smentito in una nota questa ricostruzione, sostenendo che i giovani sono stati fatti sbarcare per via del loro comportamento «molto aggressivo» e che l’iniziativa è stata presa «per garantire la sicurezza di tutti i passeggeri». Vueling aggiunge di rifiutare categoricamente «qualsiasi forma di discriminazione, senza eccezioni». L’organizzazione Acom – Acción y Comunicación sobre Oriente Medio, che promuove il rafforzamento delle relazioni tra Spagna e Israele, ha annunciato l’intenzione di procedere per vie legali. Secondo Acom, «questo inaccettabile incidente conferma, ancora una volta, il preoccupante declino della sicurezza degli ebrei in Spagna».

(moked, 24 luglio 2025)

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Le foto di bimbi e madri che arrivano da Gaza sono vere?

Anche la pietà può essere manipolata, non fermatevi alla prima impressione

di Claudio Velardi

È un discorso molto difficile da fare, ma qualunque persona voglia mantenere un minimo di lucidità deve chiedersi che cosa sono le immagini che ci arrivano da Gaza e che vengono sparate in prima pagina sui giornali (non solo italiani) e perché improvvisamente arrivano decine di foto.
   Sono immagini di madri dolenti con bambini smagriti e sofferenti in braccio, con gli occhioni grandi, gambe e braccia a penzoloni. Sono immagini che fanno molto male, ma sono vere? Chiunque può capire, mettendoci un po’ d’attenzione, che sono immagini accuratamente preparate, pose studiate, sguardi in camera, corpi esposti alla luce come su un set.

Foto filtrate da Hamas
  Allora non si tratta di negare il dolore, il dramma della guerra e dei bambini, è questione di capire chi ci mostra che cosa e perché. Quelle immagini non arrivano da fotoreporter indipendenti, vengono filtrate da Hamas, dalle sue agenzie media, da Al Jazeera, però questo nessuno lo dice mai. Nessuno si chiede chi ha scattato queste foto, quando, a chi, perché, per veicolare quale messaggio.

Anche la pietà può essere manipolata
  E allora, vedete, purtroppo anche la guerra ha una regia e anche la pietà può essere manipolata. Certo che soffrono i bambini, come in ogni guerra, e le loro sofferenze ci toccano al cuore, ma se diventano icone, strumenti, comparse, allora tutto diventa più tragico, più sporco, più disumano, perché vuol dire che alle spalle di tutto questo c’è chi lavora cinicamente sui nostri sentimenti.
   Allora io vi chiedo solo di pensarci, di non fermarvi alla superficie, alla prima impressione. Fatevi qualche domanda in più.

(Il Riformista, 24 luglio 2025)

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Il Libano mette al bando Al-Qard Al-Hassan, la banca di Hezbollah

di Luca Spizzichino

La Banca Centrale del Libano ha emesso una circolare con cui vieta a banche e istituzioni finanziarie di condurre transazioni con una struttura creditizia legata a Hezbollah e considerata da anni il pilastro finanziario dell’organizzazione terroristica. Lo riferisce Reuters.
   La decisione segna un passo significativo nel contrasto al sistema economico parallelo che Hezbollah ha consolidato in Libano dagli anni ’80. Fondata proprio in quel decennio, Al-Qard Al-Hassan serve circa 300.000 persone ed è stata più volte definita dagli Stati Uniti come la “spina dorsale finanziaria” non solo di Hezbollah, ma anche di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese. Washington ha imposto sanzioni sull’istituto già nel 2007, seguita dall’Arabia Saudita nel 2021 e da Israele nell’ottobre 2024, quando il governo israeliano ha anche colpito alcune filiali dell’organizzazione con raid mirati. La mossa della Banca Centrale arriva in un momento di fragilità per Hezbollah, dopo i duri colpi subiti da Israele durante l’autunno 2024, culminati con l’eliminazione del leader Hassan Nasrallah, che era considerato il vero regista delle attività di Al-Qard Al-Hassan.
   Secondo l’esperto di intelligence Haig Melkessetian, ex operativo dei Dipartimenti della Difesa e di Stato degli Stati Uniti, l’annuncio libanese sarebbe stato influenzato anche dalla recente conferenza del Law Enforcement Coordination Group (LECG), nato da una collaborazione tra Stati Uniti ed Europol e che coordina da un decennio gli sforzi internazionali per smantellare le reti finanziarie di Hezbollah. Durante la conferenza, è stato evidenziato il crescente stato di difficoltà economica del gruppo sciita libanese, che potrebbe spingerlo a intensificare le attività di raccolta fondi in America Latina, Africa e altrove. Il Dipartimento di Stato americano ha sottolineato l’importanza di azioni concrete per bloccare i “meccanismi finanziari e gli schemi criminali” del gruppo. Tuttavia, Melkessetian avverte che il provvedimento contro Al-Qard Al-Hassan è solo un primo passo. Il vero ostacolo alla riforma del sistema finanziario libanese, secondo l’ex analista, sarebbe il presidente del Parlamento Nabih Berri, in carica ininterrottamente dal 1992. “È l’ultimo residuo di una corruzione sistemica che il Libano sembra voler finalmente abbandonare”, afferma Melkessetian, sostenendo che il Tesoro statunitense dovrebbe sanzionare anche Berri per colpire davvero al cuore il sistema finanziario parallelo di Hezbollah. “Berri si presenta come amico dell’Occidente, ma in realtà sta cercando di ostacolare le riforme nominando suoi uomini all’interno della Banca Centrale, per proteggere le sue responsabilità passate”, spiega Melkessetian. “È come se la mafia mettesse un poliziotto corrotto a capo di un’indagine dell’FBI”.
   Nel mirino ci sarebbero inoltre anche altri attori bancari: tra cui il Middle East & Africa Bank (MEAB), 15° istituto per volume di depositi in Libano, accusato di aver facilitato l’accesso di Al-Qard Al-Hassan al sistema bancario internazionale e che, secondo Melkessetian, avrebbe agito come canale di intermediazione per aggirare le sanzioni internazionali.

(Shalom, 23 luglio 2025)

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“I bambini piangevano, mia figlia temeva che ci facessero del male”: il dramma dei turisti israeliani bloccati al porto di Siro

di David Zebuloni

“Siamo in vacanza con la famiglia – siamo salpati per la Grecia, ma non ci hanno permesso di scendere dalla nave”. Con queste parole inizia il racconto di Yariv Lev, 44 anni, di Petah Tikva, padre di tre figli. “Al porto ci attendevano decine di manifestanti pro-palestinesi, che ci hanno impedito di sbarcare”, racconta in un’intervista a Makor Rishon.
L’episodio è avvenuto la mattina di martedì 22 luglio, quando una nave da crociera israeliana è attraccata sull’isola greca di Siro. Tuttavia, invece di ricevere una calorosa accoglienza con bandiere greche, i 1.600 passeggeri israeliani si sono trovati davanti a una scena sconvolgente: decine di manifestanti agitavano bandiere palestinesi bloccando l’accesso al porto.
Per evitare il rischio di un’escalation, è stato deciso di non consentire ai passeggeri di scendere dalla nave. “Non era una protesta spontanea quella, ma una manifestazione ben pianificata”, sottolinea Yariv. “I manifestanti sapevano del nostro arrivo e sono venuti appositamente per impedirci di mettere piede sull’isola”.
Secondo quanto riportato, al porto erano presenti anche forze dell’ordine locali, nel tentativo di contenere la situazione. I loro sforzi si sono rivelati insufficienti: i manifestanti si sono rifiutati di andarsene e hanno continuato a impedire ai turisti israeliani di sbarcare e di godersi la vacanza.
“Abbiamo sentito cori ostili contro Israele, ma non siamo rimasti in silenzio”, racconta Yariv. “Abbiamo preso le bandiere israeliane, ci siamo riuniti sul ponte superiore della nave e abbiamo organizzato una contro-manifestazione. Abbiamo sventolato con orgoglio le nostre bandiere, finché l’equipaggio non ci ha invitati a fermarci e a spostarci in un’area più sicura”.
Secondo Yariv, la tensione ha colpito duramente soprattutto i bambini. Molti di loro sono scoppiati in lacrime, inclusi i suoi tre figli: Liraz, Nofar e Peleg. “Erano molto delusi”, racconta. “Volevano solo scendere, fare una passeggiata, godersi un po’ di vacanza, ma non è stato possibile”.
Particolarmente sofferta è stata la reazione della figlia più piccola di Yariv, che ha vissuto il momento con grande paura. “Era molto spaventata”, ricorda. “Temeva davvero che i manifestanti potessero salire a bordo e farci del male. Non riusciva a capire perché non potessimo semplicemente sbarcare come previsto. Per lei è stato un momento davvero molto difficile”.
Per ore, la famiglia Lev e oltre mille turisti israeliani sono rimasti chiusi nella nave, senza sapere cosa sarebbe accaduto. “Eravamo bloccati, senza alcuna risposta”, conferma Yariv. “Non sapevamo se saremmo tornati in Israele o se avremmo proseguito per un’altra destinazione. Eravamo certi che avremmo dovuto aspettare a lungo. Ci sentivamo completamente impotenti. Nessuno ci dava risposte chiare, la sensazione era di totale mancanza di controllo”.
Dopo ore di attesa, è finalmente arrivata la tanto anelata notizia: la nave avrebbe lasciato Siro per dirigersi verso Limassol, a Cipro. “Ce l’hanno comunicato tramite l’altoparlante”, racconta Yariv. “Subito si sono levate grida di gioia, cori di ‘Am Israel Chai’ e applausi da ogni parte”.
Quando la nave ha ripreso la navigazione, i passeggeri si sono riversati sul ponte per celebrare la fine della tensione. “C’è stata una grande festa in piscina”, conclude Yariv. “L’atmosfera è di pura gioia”. Un epilogo sicuramente felice per questa disavventura, ma anche un amaro promemoria: il clima di odio che cresce nel mondo non ha risparmiato nemmeno un piccolo porto greco, lontano chilometri e chilometri dai confini d’Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 23 luglio 2025)

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Appena a sud dell’Artico una sinagoga ha un approccio unico allo Shabbat

‘Probabilmente non troverai una comunità come la nostra da nessun’altra parte’. Ora celebra il suo centenario, la Sinagoga di Trondheim è finora sopravvissuta ai nazisti, all’antisemitismo moderno, all’isolamento geografico – e ad alcune sfide halakhiche particolari.

di Dan Fellner

FOTO
Trondheim

TRONDHEIM (Norvegia)— Se mai ci fosse stata una sinagoga che si è guadagnata il diritto di organizzarsi una festa di compleanno, è questa elegante e intrigante casa di preghiera nella Norvegia centrale, a sole 220 miglia a sud del Circolo Polare Artico. Nel corso del secolo passato, la Sinagoga di Trondheim ha resistito all’isolamento dal resto del mondo ebraico; all’Olocausto, che ha sterminato metà della sua comunità; alle sfide legate all’osservanza dello Shabbat a causa della sua latitudine molto settentrionale, e al persistente antisemitismo che è solo peggiorato da quando è iniziata la guerra contro Hamas a Gaza nel 2023.
  Quest’autunno, la sinagoga celebrerà il suo centenario con una celebrazione di tre giorni, culminando con un evento il 26 ottobre a cui dovrebbero partecipare membri della famiglia reale norvegese, il primo ministro del paese, il sindaco di Trondheim e altre personalità. “Ci saranno discorsi, canzoni e, naturalmente, racconteremo la storia della comunità“, dice John Arne Moen, presidente della Comunità Ebraica di Trondheim. “Siamo ai margini del mondo ebraico, viviamo vicino al circolo polare. Probabilmente non troverai una comunità come la nostra da nessun’altra parte al mondo.“
  Con una popolazione di circa 200.000 abitanti, Trondheim è la terza città più grande della Norvegia, dopo Oslo e Bergen. Situata sulle rive di un fiordo che è un’insenatura nel Mare di Norvegia, la città fu fondata nell’anno 997 e fu la capitale della Norvegia durante l’Era Vichinga. Il sito più famoso della città è la Cattedrale di Nidaros, completata nel 1300 nel luogo di sepoltura del Re Olav II, a cui è attribuito il merito di aver portato il Cristianesimo in Norvegia.

La storia improbabile della vita ebraica a Trondheim
  La storia improbabile della vita ebraica a Trondheim iniziò alla fine del XIX secolo, quando gli immigrati ebrei iniziarono ad arrivare da Polonia e Lituania, solitamente perché non potevano permettersi di andare in America. Molti lavoravano come mercanti ambulanti. Nel 1900, c’erano più di 100 ebrei che vivevano a Trondheim e fu stabilita la prima sinagoga della città. Durante i successivi 20 anni, la comunità crebbe fino a più di 300 membri, richiedendo la necessità di una sinagoga più grande.
  Nel 1923 una vecchia stazione ferroviaria in Arkitekt Christies Gate 1 fu acquistata con il sostegno finanziario di circa 200 ebrei di Oslo e convertita in sinagoga. Fu inaugurata nel 1925 e rimane – insieme alla sinagoga di Oslo – una delle sole due sinagoghe del paese. L’edificio, progettato in stile Neoclassico, è caratterizzato da una facciata azzurra con finestre ad arco e modanature bianche. All’interno, il santuario a due piani presenta anch’esso un motivo blu. Originariamente, le donne sedevano nel balcone durante le funzioni. Ora, il balcone non viene più utilizzato; uomini e donne siedono insieme al piano principale.

L’occupazione nazista e l’Olocausto
  La Germania occupò la Norvegia dal 1940 al 1945. I nazisti confiscarono la sinagoga e la utilizzarono come caserma, sostituendo le Stelle di Davide nelle finestre con svastiche. Si crede che 165 ebrei locali – circa la metà della popolazione ebraica di Trondheim dell’epoca – morirono nell’Olocausto, alimentato dalla decisa collaborazione delle autorità locali. La maggior parte delle vittime fu deportata in treno al campo di sterminio di Auschwitz in Polonia, dove solo pochi sopravvissero.
  I primi sforzi per commemorare gli ebrei assassinati di Trondheim furono intrapresi dai resti della comunità che sopravvisse. Ma a metà degli anni ’90, la città intraprese la propria iniziativa memoriale, scegliendo Cissi Klein – che aveva 13 anni quando fu presa dalla sua scuola, deportata ad Auschwitz e uccisa all’arrivo – per diventare un simbolo delle vittime naziste di Trondheim.
  Una statua di Cissi si trova in un parco tranquillo a breve distanza dalla Sinagoga di Trondheim. Costruito nel 1997 come parte delle commemorazioni del millennio della città, il memoriale si trova fuori dal palazzo dove Cissi viveva con i suoi genitori e fratello. Una strada accanto al parco è stata nominata in suo onore.

Una sfida halakhica unica
  Oggi, Moen stima che ci siano 200 ebrei che vivono a Trondheim; circa tre quarti sono membri della sinagoga. I servizi dello Shabbat si tengono tipicamente ogni due venerdì. Il rabbino capo della Norvegia, Michael Melchior, vive in Israele ma viaggia periodicamente a Oslo e Trondheim per condurre le funzioni (Il padre di Melchior è stato il rabbino capo della Danimarca per lungo tempo.) Quando Melchior non è in città, le funzioni sono solitamente condotte da Asher Serussi, nato in Israele, un leader religioso nella comunità che vive a Trondheim da 30 anni. Serussi descrive la Sinagoga di Trondheim come “ortodossa ma molto flessibile e moderna.
  “La maggior parte delle persone qui non sono ebrei osservanti“, ha detto. “I nostri membri sono interessati alla cultura e alle tradizioni ebraiche, ma non mantengono la kashrut e non osservano lo Shabbat. Si divertono molto quando abbiamo celebrazioni per le festività. Allora qui è tutto pieno.“
  Per i più religiosi che seguono la halakha, o legge ebraica tradizionale, la questione su come gestire gli orari di inizio e fine dello Shabbat è stata un argomento di dibattito fin da quando la congregazione fu fondata nel 1905. Secondo la halakha, lo Shabbat inizia pochi minuti prima del tramonto e dura fino a circa un’ora dopo il tramonto del giorno seguente. Ma Trondheim è situata così a nord che la quantità di luce diurna può variare tra 20 ore in estate e solo quattro ore in inverno. Quindi cosa deve fare una congregazione ortodossa in un paese conosciuto come “la terra del sole di mezzanotte”?
  Altre comunità nelle latitudini molto settentrionali gestiscono la questione in vari modi. Alcune impostano l’orologio dello Shabbat basandosi sull’ora di Gerusalemme, mentre altre dividono il giorno equamente in due segmenti di 12 ore. Alcune iniziano lo Shabbat al momento tradizionale, anche se questo significa accendere le candele intorno a mezzanotte.
  Moen dice che la congregazione ha sviluppato il proprio approccio nei suoi primi anni di esistenza che sembrava essere accettabile per i suoi membri e benedetto dalla maggior parte dei rabbini ortodossi che hanno esaminato la questione. Per la Sinagoga di Trondheim, lo Shabbat inizia alle 17:30 di venerdì e finisce alle 18:30 di sabato, indipendentemente dal periodo dell’anno e dalla presenza o meno di luce solare o oscurità polare. “È stata la nostra regola per 120 anni”, dice Moen. “Siamo cresciuti con essa. Siamo l’unica sinagoga ortodossa al mondo che lo fa in questo modo.“

L’aumento dell’antisemitismo porta alla paura della violenza fisica
  Le relazioni tra Norvegia e Israele sono tese – l’anno scorso la Norvegia ha riconosciuto formalmente la Palestina come stato sovrano. Per quanto riguarda l’antisemitismo, Serussi dice che mentre è stato a lungo una parte accettata della società norvegese, le cose sono peggiorate da quando è iniziata la guerra a Gaza. Secondo un recente rapporto del Ministero degli Affari della Diaspora d’Israele, c’è stato un forte aumento degli incidenti antisemiti in Norvegia dall’ottobre 2023, con il 69% della comunità ebraica che ha personalmente sperimentato ostilità legata alla propria identità ebraica.
  Nel 2024, il cimitero ebraico di Trondheim è stato vandalizzato e qualcuno ha lanciato una molotov contro la sinagoga. L’attacco non ha causato danni e l’autore non è mai stato trovato. “Stiamo dicendo alla nostra comunità di non mostrare simboli ebraici quando camminano per le strade“, ha detto Serussi. “Quindi stiamo prendendo alcune precauzioni. Sentiamo che non è come i giorni normali.“

Il museo e il futuro della comunità
  Progettato in parte per combattere l’antisemitismo, c’è un piccolo museo nello stesso edificio della sinagoga. Il Museo Ebraico di Trondheim ha aperto nel 1997 e attira 7.000 visitatori all’anno, molti dei quali sono bambini delle scuole locali. Vengono in gita per imparare sull’Olocausto e sulla storia della vita ebraica a Trondheim. Una mostra particolarmente commovente dedicata all’Olocausto racconta le storie di diverse vittime della città e include uno scaffale con 165 grucce vuote, ognuna rappresentante uno degli ebrei che perirono durante la guerra.
  Il seminterrato del museo ha un piccolo mikveh, o bagno rituale, che non è stata utilizzata da prima dell’occupazione tedesca. Su sollecitazione di due famiglie ortodosse che ora vivono a Trondheim, il mikveh è in fase di restauro e Serussi dice che l’obiettivo è averla funzionante nei prossimi uno o due anni.
  Trondheim non è il posto più facile da raggiungere per i viaggiatori. La maggior parte dei voli nel suo piccolo aeroporto provengono da Oslo e altre città nazionali. Ma Trondheim attira un buon numero di visitatori sulle navi da crociera. Holland America e Hurtigruten (con base norvegese) sono due delle compagnie di crociere più grandi che offrono itinerari che includono soste portuali a Trondheim.
  La Sinagoga di Trondheim una volta si proclamava orgogliosamente come “la sinagoga più a nord del mondo“. Nuovi luoghi di culto più settentrionali a Fairbanks, Alaska, e Arkhangelsk, Russia, hanno da allora soppiantato Trondheim. Titoli geografici a parte, Moen dice che nonostante le sue molte sfide, la Comunità Ebraica di Trondheim ora si trova su basi solide e guarda avanti per continuare a soddisfare i bisogni spirituali e culturali dei residenti e turisti mentre si dirige verso il suo secondo secolo.
  “Siamo sopravvissuti alla Shoah e ora stiamo crescendo“, ha detto Moen. “Abbiamo molti giovani e non abbiamo visto così tanta attività nella nostra comunità da prima della guerra. Abbiamo una bella sinagoga. Se vuoi un posto per pregare, la sinagoga è aperta a qualsiasi ebreo che voglia venire.“

(Kolòt - Morashà, 11 luglio 2025)

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Squali manta e balene in aumento nel Golfo di Eilat

Negli ultimi giorni, un numero inusualmente alto di squali manta, squali balena e balenottere è stato avvistato nel Golfo di Eilat. Lo riporta l’organizzazione “Sharks in Israel”, che monitora gli incontri con squali e mante da oltre dieci anni.
Almeno quattro grandi mante giganti e diversi squali balena sono stati ripresi quest’estate. Di particolare interesse è stato l’avvistamento di una mobula, un batoide affine alla manta ma appartenente a una specie diversa, osservata solo per la seconda volta nella regione.
La ricercatrice Dott.ssa Adi Barash, direttrice dell’associazione e post-doc allo Steinhardt Museum of Natural History, ha commentato che questi avvistamenti potrebbero essere legati al deterioramento delle condizioni del Mar Rosso, esacerbato dalla pesca intensiva, dal turismo, dalla navigazione e dalle complesse dinamiche politiche nella regione.
Meron Segev, fotografo per Sharks in Israel, ha raccontato a Ynet: “Stavo facendo il bagno all’alba e mi sono imbattuto in una manta oceanica gigantesca. Ha girato la pancia bianca verso di me, cosa che mi ha abbagliato e reso difficile fotografarla. Non è stato facile, ma è stata un’esperienza incredibile”. È già stata confermata la presenza di almeno quattro mante distinte nelle ultime settimane; una, inoltre, era stata osservata anche nel 2020 e nel 2022, suggerendo un possibile comportamento riproduttivo. Tre anni fa un giovane esemplare era stato avvistato in acque basse vicino alla spiaggia nord di Eilat.
Anche gli squali balena, i pesci più grandi al mondo, sono stati filmati a Eilat: gli individui avvistati misurano generalmente tra i 6 e i 7 metri. Shir Bar dell’Inter-University Institute for Marine Sciences ha spiegato: “Fino a qualche tempo fa si presumeva che fossero molto giovani questi esemplari. Ma abbiamo recentemente associato uno avvistato quest’anno a Eilat a un esemplare visto a Sharm El-Sheikh nel 2012: era quindi un adulto, non un giovane”.
Barash ha riflettuto molto sull’aumento degli avvistamenti: “Non si può dire con certezza, ma spesso seguono il plancton. Abbiamo registrato molte nuove specie nel golfo. E ora, grazie alle fotocamere e ai social media, possiamo imparare molto – e in fretta”.

(Shalom, 23 luglio 2025)

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Lettere dal Libano – L’odissea delle armi di Hezbollah

di Hazem El Amin*

Ogni volta che l’inviato americano Tom Barrack atterra a Beirut, riemerge il dibattito sulle armi di Hezbollah, con l’aggiunta di un nuovo elemento. Inizialmente, la discussione si concentrava sulla presenza di armi a sud e a nord del fiume Litani, poi sulla distinzione tra armi pesanti e leggere. A un certo punto, ha incluso anche le armi nei campi profughi palestinesi. L’ultima novità di questa annosa questione è arrivata sulla scia degli scontri a Suwayda, introducendo un nuovo presunto ruolo per le armi di Hezbollah: proteggere il Libano dalle “tribù arabe” che hanno “invaso” il governatorato di Suwayda.
Quest’ultima missione, respingere potenziali incursioni delle tribù beduine, pone Hezbollah in una posizione che probabilmente non avrebbe mai voluto: combattere al fianco dell’esercito israeliano, che aveva già lanciato la propria campagna per contrastare questi attacchi.
Questo paradosso logico ma irrealistico fa parte dell’attuale narrativa che circonda le armi di Hezbollah. La recente guerra tra Israele e Hezbollah ha causato una grande confusione sullo scopo e la legittimità di questo arsenale. È diventato sempre più difficile per Hezbollah convincere chiunque che le sue armi possano dissuadere Israele dal bombardare, per non parlare di distruggere, il Libano. L’idea che Hezbollah possa occupare la Galilea, un tempo propagandata dal gruppo, non fa più nemmeno ridere. La retorica militante – le canzoni, le dichiarazioni sui missili e sulla prontezza – è diventata solo rumore vuoto.
Oggi le armi di Hezbollah non hanno più una storia. Sono solo armi. È vero, a differenza degli israeliani, noi libanesi non sappiamo molto delle loro condizioni, dei luoghi in cui sono conservate o di quante persone le trasportano, ma sappiamo, e sentiamo, che non hanno più una missione chiara. Anche i rivali libanesi di Hezbollah, che spesso sono stati bersaglio di questo arsenale, ora percepiscono che le armi stanno arrugginendo e sono incapaci di modificare l’equilibrio politico interno. La questione va oltre un semplice attacco israeliano. Il crollo del regime di Assad in Siria ha reso quasi impossibile la ricostruzione della capacità militare di Hezbollah.
Si tratta di armi senza un progetto, né nazionale né regionale. Solo armi. Quindi, quando Tom Barrack afferma che le armi di Hezbollah sono un problema libanese, intende proprio questo. Non sono più una preoccupazione israeliana o siriana. Si potrebbe persino sostenere che non sono più un problema per tutti i libanesi, ma solo per alcuni. I sunniti libanesi, ad esempio, non sono più intimiditi dalle armi di Hezbollah; ora sono schierati con qualcosa di più forte dello stesso Hezbollah. Anche se le armi possono ancora destabilizzare i cristiani libanesi, essi sanno anche che i cambiamenti regionali hanno indebolito la minaccia che esse rappresentano nei loro confronti.
È probabile che Hezbollah, tra le altre perdite, abbia perso la capacità di sfruttare le sue armi in cambio di vantaggi politici interni, in altre parole, di scambiare armi con potere costituzionale o politico. Il valore di queste armi è diminuito. E quando erano preziose, Hezbollah ha scelto di dare priorità alla loro funzione regionale, optando per il dominio dello Stato libanese dall’esterno delle sue strutture amministrative e politiche formali. Oggi, tuttavia, quelle fazioni libanesi che un tempo erano disposte a pagare il prezzo delle armi di Hezbollah non credono più che valgano la pena.
Nonostante questo vicolo cieco, l’alleanza Amal-Hezbollah sta combattendo la sua ultima battaglia in Libano, anche se nessuno può dire con certezza dove sta andando o quale sia il suo orizzonte.
Quando Hezbollah rischia il futuro del Libano e il futuro della comunità sciita per difendere armi che non hanno più alcuna utilità politica, l’unica spiegazione può essere che la sua leadership sta aspettando un fallimento in Siria.
Quando tale fallimento sembrava imminente, come dimostrato dalla caduta di Ahmad al-Sharaa a Suwayda, è improvvisamente emersa una nuova missione per le armi: proteggere il Libano dalle tribù invasori. Ma questa missione richiede un cambiamento rispetto a quella originaria: combattere Israele. E ora, Israele stesso ha intrapreso la stessa missione a Suwayda!
Quindi, combattere le tribù potrebbe ora significare combattere al fianco di Israele.
La seconda funzione dell’aggrapparsi alle armi risiede nel loro ruolo nella creazione di una base sociale strettamente legata a Hezbollah, una base che si sente superiore alle altre comunità libanesi. Rinunciare alle armi segnerebbe l’inizio di una nuova fase: esplorare la possibilità di una più ampia rappresentanza politica sciita al di là dell’attuale alleanza Hezbollah-Amal.
Tom Barrack aveva ragione quando ha detto che le armi di Hezbollah sono un problema libanese.
* Scrittore e giornalista libanese

(Rights Reporter, 23 luglio 2025)

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Hamas spara sui civili in fila per il cibo? Non importa, è comunque colpa dell'ldf

Polito sul Corriere se la prende con Israele: «In ogni caso ha la responsabilità politica»

di luri Maria Prado

“E’ certo importante ma non decisivo - scriveva Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri - stabilire se sulle persone in fìla per il pane si spari deliberatamente o per errore, o se addirittura non siano affatto i soldati israeliani a sparare". Anche solo immaginare un simile costrutto - figurarsi metterlo nero su bianco - denuncia che il pregiudizio si è impadronito dell'intelligenza che lo ha generato. Perché la stampa - a cominciare dal Corriere - è da mesi impegnata a fare esattamente il contrario: e cioè a escludere persino l'ipotesi che gli incidenti ai margini dei centri di distribuzione - trasfigurati puntualmente nei ricetti del deliberato assassinio della gente "in fila per il pane" - possano essere attribuiti a qualcosa di diverso. È - senza mai poter essere null'altro, nulla di spiegabile altrimenti - lo stillicidio di una pratica sicaria che attira gli affamati in quei punti di distribuzione degli aiuti e poi "li prende a mitragliate", come l'altro giorno scriveva sempre il Corriere della Sera.
  In questa situazione è davvero coraggioso uscirsene con l'argomento secondo cui è "importante ma non decisivo" stabilire se quelle persone sono uccise deliberatamente dall'esercito israeliano, come si scrive ogni giorno dappertutto, o invece in modo accidentale o addirittura per responsabilità altrui, come nemmeno per sogno è possibile leggere da nessuna parte. Non sorprende, dunque, che un ragionamento del genere finisca per evocare la "geometrica potenza" (dicitura dell'apologìa del terrorismo brigatista) quando discute delle responsabilità del "governo di Gerusalemme". Arriva a questo, Polito. I soldati israeliani come i terroristi che in una via romana rapivano Aldo Moro dopo averne sterminato la scorta. E ovviamente un'impostazione così contaminata non ha timore se difetta un tantino di originalità: "Israele Stato terrorista" si legge un po' ovunque, a cominciare dai cartelli nelle manifestazioni che finiscono a disegnare stelle gialle e svastiche sulle case degli ebrei. Perché distinguersi, perché mettersi di traverso quando una battaglia - quella contro il terrorismo israeliano - è tanto giusta e popolare? Così come è popolare discutere di genocidio, un argomento su cui Antonio Polito si esercita osservando che non avrebbe mai pensato di dover difendere lo Stato ebraico dall'accusa di commetterlo. Che, tradotto, significa che il genocidio c'è. E pace se Polito, che non avrebbe mai pensato di dover difendere Israele da quell'accusa, nell'adempiere al dovere di difenderlo ha pensato bene di non difenderlo punto e basta.
  Tutto ciò che accade nella Striscia, conclude Polito, "è in ogni caso responsabilità politica di Israele", perché "quella terra è comunque occupata e controllata dalle forze armate di Gerusalemme". Le responsabilità di Hamas, lì, non ci sono: come non ci sono nell'articolo di Polito.

(Il Riformista, 23 luglio 2025)

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“Vogliono annientarci”: il grido di aiuto dei drusi in Siria ai loro famigliari in Israele

“Gli attacchi sono coordinati: alcuni avvengono tramite incursioni armate, altri con l’impiego di mezzi pesanti – spiega Fadi Maklida, tra i fondatori del movimento Mizan – Generazione Drusa per l’Uguaglianza -. È un’invasione in piena regola, un massacro sistematico accompagnato da slogan jihadisti recuperati dai tempi dell’ISIS e di Jabhat al-Nusra”.

di David Zebuloni

Spari riecheggiano per le strade, le forze del regime irrompono nelle abitazioni private, anziani vengono umiliati pubblicamente. Il sud della Siria è di nuovo in fiamme, e la situazione nella provincia drusa di Suwayda appare sempre più fuori controllo. Gli scontri, inizialmente circoscritti, si sono trasformati in vere e proprie battaglie sanguinose tra le milizie sunnite affiliate al regime di Damasco e le formazioni armate locali della comunità drusa.
“Gli attacchi sono coordinati: alcuni avvengono tramite incursioni armate, altri con l’impiego di mezzi pesanti”, spiega l’avvocato Fadi Maklida, tra i fondatori del movimento Mizan – Generazione Drusa per l’Uguaglianza, in un’intervista a Makor Rishon. “È un’invasione in piena regola, un massacro sistematico accompagnato da slogan jihadisti recuperati dai tempi dell’ISIS e di Jabhat al-Nusra. Frasi come ‘Esercito di Maometto’ e insulti alla fede drusa si levano a giustificare atrocità in nome della religione. È una profanazione del nome del Profeta e dell’Islam stesso”.
Secondo Maklida, le ragioni del conflitto sono più ideologiche che militari. “Il pretesto ufficiale è che i drusi si rifiutano di consegnare le armi, ma si tratta di una giustificazione costruita ad arte”, afferma deciso. “In realtà, l’obiettivo è indebolire la comunità drusa e costringerla a piegarsi a un regime islamista fondato sulla shari’a”.
La brutalità delle operazioni è documentata da numerosi video circolati sui social negli ultimi giorni. In essi si vedono forze del regime siriano radere con violenza la barba agli anziani drusi – un atto considerato un oltraggio gravissimo alla dignità e all’identità religiosa della comunità. “Agli occhi dei jihadisti, i drusi sono infedeli,” continua Maklida. “Già in passato avevano espresso la volontà di ‘riportarli sulla retta via’, ovvero convertirli con la forza all’Islam secondo la loro interpretazione”.
Il baffo è infatti un simbolo culturale e religioso tra i drusi: gli uomini di fede sono tenuti a non radersi, e solo in fasi avanzate della loro vita spirituale possono farsi crescere la barba. “Radere questi simboli equivale a un atto di annientamento culturale, simile a quanto fecero i nazisti tagliando le ciocche degli ebrei senza alcuna ragione”, denuncia Maklida. “La paura è ovunque. Riceviamo continuamente notizie da drusi dispersi in Siria: le dimensioni reali del massacro sono ancora sconosciute e molti sono irraggiungibili”.
Tra le voci che portano alla luce la sofferenza dei drusi siriani c’è anche quella di Marwan Jabar, 16enne di Daliyat al-Karmel e influencer con centinaia di migliaia di follower su Instagram. “Parte della mia famiglia vive ancora in Siria”, racconta. “Mi mandano video strazianti, chiedono aiuto. Io posso solo ripubblicare questi drammatici contenuti, far sapere al mondo cosa sta accadendo. Il mio profilo è diventato la loro voce”.
I racconti sono agghiaccianti. “Mi dicono che li stanno finendo, che vengono torturati, che vogliono sterminarli. Le milizie di Jolani hanno ucciso bambini e ragazzi, hanno sequestrato case di famiglie druse. Ma Suwayda è la loro terra, il potere deve restare nelle mani druse”. Secondo Jabar, alcuni cittadini hanno imbracciato le armi per difendersi, mentre altri si sono chiusi in casa, terrorizzati. “Molti abitanti del luogo sono armati, anche le donne sanno usare le armi. Vogliono difendere la loro terra, ma da soli non ce la fanno. L’offensiva contro di loro è troppo potente”.
Proprio per contenere la minaccia, Israele è intervenuta militarmente. Le Forze di Difesa Israeliane hanno pubblicato il video dell’attacco a un carro armato siriano, motivandolo con la necessità di “impedire l’arrivo di mezzi corazzati nella zona”, sottolineando che la loro presenza nel sud della Siria potrebbe rappresentare una minaccia diretta anche per Israele. Due carri armati del regime sono stati colpiti da droni e aerei da caccia dell’aeronautica israeliana. Immediata la reazione di Damasco, che ha condannato l’azione come “una grave violazione della sovranità siriana”.
Intanto, anche la realtà nelle comunità druse si fa sempre più tesa. Per questo motivo il Magen David Adom (il servizio nazionale di emergenza medica, protezione civile, ambulanze e banca del sangue dello Stato di Israele) ha innalzato il livello di allerta del servizio di emergenza al massimo grado. Tutti i mezzi di soccorso, con a bordo dipendenti e volontari qualificati, sono infatti pienamente operativi e pronti a intervenire in caso di necessità.
“Parlo a nome di tutti i drusi israeliani nel ringraziare l’esercito israeliano per essere intervenuto, ma la missione non è finita: serve altro aiuto”, dice con urgenza Jabar. “Dopo l’attacco israeliano, il regime è diventato ancora più crudele. Non possiamo lasciarli soli. Non possiamo permettere il loro annientamento”. Anche Maklida rilancia l’appello. “Senza un intervento deciso di Israele, i drusi sono in pericolo di estinzione”, afferma. “La loro capacità di difendersi è estremamente limitata: le armi leggere dei drusi non possono competere con le armi pesanti del regime. Un’azione israeliana decisa è per loro vitale. Senza Israele, non esisteranno più drusi in Siria”.

(Bet Magazine Mosaico, 22 luglio 2025)

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Più religiosi, meno ebrei. Il paradosso dell’ebraismo americano

Nonostante siano più religiosi sulla carta, gli ebrei americani sembrano essere molto meno ebrei dei loro omologhi britannici

di David Graham 

Gli ebrei americani parlano a Dio. Gli ebrei britannici parlano tra loro.
  Con circa sei milioni di anime, la popolazione ebraica degli Stati Uniti rappresenta due su cinque ebrei in tutto il mondo. Supera di gran lunga la comunità ebraica del Regno Unito, che è 20 volte più piccola. Ma quando si tratta di identità ebraica, la dimensione non è tutto. Nonostante siano più religiosi sulla carta, gli ebrei americani sembrano essere molto meno ebrei dei loro omologhi britannici.

Fede religiosa vs appartenenza e comportamento
  Iniziamo con la fede. Solo uno su sei ebrei americani dice di non credere in Dio. Nel Regno Unito, è notevolmente più alto, al 25%. Ma mentre potrebbero essere credenti più forti, la fede made in America non si traduce automaticamente in risultati ebraici significativi. In termini di appartenenza, gli ebrei americani hanno molte meno probabilità dei loro omologhi britannici di essere membri di una sinagoga (il 64% non appartiene rispetto al 29% nel Regno Unito). E comportamentalmente, hanno solo la metà delle probabilità degli ebrei britannici di frequentare regolarmente la sinagoga (20% vs. 41% nel Regno Unito).

Mentre gli ebrei americani mostrano livelli impressionanti di fede religiosa, gli ebrei britannici mostrano livelli molto maggiori di appartenenza e comportamento.
  Guardando più da vicino a queste differenze, possiamo vedere che gli ebrei americani che partecipano alle funzioni hanno molte più probabilità di dire di farlo perché “lo trovano spiritualmente significativo” (92% vs. Regno Unito 56%). E la ragione principale che gli ebrei americani danno per non andare più spesso? “Non sono religioso”. Questo da parte del 67% degli ebrei americani rispetto al 44% degli ebrei britannici. Ma per gli ebrei britannici, la ragione principale per partecipare non è affatto spirituale: è che “sentono un senso di appartenenza”. Gli ebrei britannici vanno in sinagoga perché è lì che c’è la loro gente.
  Questo è un punto affascinante e importante. L’ebraismo in America ha assunto una connotazione più “cristiana”: radicata nella fede, nella preghiera e nella spiritualità personale. In Gran Bretagna, l’impegno ebraico è spesso visto come un’esperienza più sociale, culturale e collettiva.

La devozione religiosa americana non si è tradotta in un’identità ebraica più profonda
  Eppure questa devozione religiosa americana non si è tradotta in un’identità ebraica più profonda. Su qualsiasi numero di misure, l’ebreo americano medio risulta carente. Sono meno attaccati a Israele (58% vs. 73%), meno propensi a mantenere una casa kosher (17% vs. 40%), più propensi al matrimonio misto e molto meno propensi a dire che la maggior parte dei loro amici sono ebrei. Meno ebrei americani hanno frequentato scuole ebraiche. Meno vivono in quartieri ebraici. Meno condividono la vita ebraica con altri ebrei.
  Perché? Forse perché in America, l’individuo regna supremo. La religione è vista come una questione privata e, per molti, sembra che sia virtualmente divorziata dall’essere ebreo, almeno nel senso sociale-comunitario della parola. L’America è una società iper-personalizzata, dove essere ebreo è solo una scelta di vita tra molte altre e, vista in questo modo, chiaramente non riesce a competere efficacemente. Inoltre, nel Regno Unito, la vita ebraica è geograficamente più concentrata, socialmente interconnessa e intrisa di tradizione condivisa. Perché l’identità ebraica prosperi, ha bisogno di tutti e tre i pilastri: non solo la fede ma anche l’appartenenza e il comportamento.
  È un paradosso: più fede religiosa, eppure meno ebreo. Mentre vale la pena notare che il 50% degli ebrei britannici dice che credere in Dio è importante per la loro identità ebraica, alla fine, essere ebreo non significa solo credere, ma anche appartenere – a un popolo, una storia, una comunità – e comportarsi in modi ebraici, non perché è una scelta di vita ma perché è una grande parte di ciò che fanno gli ebrei e di chi sono gli ebrei. Sembra che i britannici possano avere qualcosa di piuttosto importante da discutere con i loro cugini americani, e forse anche qualcosa da insegnare.

(Kolòt - Morashà, 5 luglio 2025)

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Belgio: quando i concerti diventano focolai di odio per Israele

di Nathan Greppi

Negli ultimi giorni, si sono verificati in Belgio diversi episodi d’odio nei confronti degli israeliani, aventi come comune denominatore l’essersi verificati durante dei concerti.

Propal contro Amir
  Il cantante franco-israeliano Amir Haddad, che ha rappresentato la Francia all’Eurovision Song Contest 2016, venerdì 18 luglio ha tenuto un concerto al festival Francofolies nella città di Spa, in Belgio, che secondo l’EJ Press è stato caratterizzato da una certa tensione in seguito alle accuse di “sostegno all’azione militare israeliana a Gaza” da parte di una dozzina di artisti, tra cui la franco-svizzera Yoa, che ha annullato la sua esibizione.
  Hanno denunciato il fatto che Amir abbia espresso il suo sostegno all’IDF dopo gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023. Lui stesso ha fatto il servizio militare in Israele. “Le mie convinzioni sociali, politiche e umanitarie sono incompatibili con il condividere il palco con un’artista che nega il genocidio in corso in Palestina e ha partecipato a eventi a sostegno dell’esercito israeliano”, ha dichiarato Yao sui social.
  In tutta la città sono stati lanciati slogan ostili, come “Spa complice” e “Amir macchina per uccidere”. Ma nonostante le polemiche, gli organizzatori hanno deciso di proseguire con lo spettacolo. Secondo Marc Radelet, addetto stampa del festival, durante il concerto un adolescente che portava una bandiera palestinese è stato brevemente messo da parte dalla sicurezza, così come una bandiera israeliana è stata confiscata in precedenza.
  Amir non si è lasciato abbattere e ha chiarito le cose durante il suo discorso. “Sono passati alcuni giorni da quando ho scoperto che l’amore può dividere le persone. Eppure mi sono sempre sentito vicino a chi soffre, a chi piange, a chi dubita, a chi chiede scusa. I dolori del mondo passano attraverso di voi come passano attraverso di me”, ha detto, aggiungendo: “Rispetto chi si oppone a me, ma penso che per poter andare avanti dobbiamo ascoltarci a vicenda, dobbiamo essere in grado di dialogare. Il dialogo è chiaramente preferibile agli anatemi e ai boicottaggi. Credo sia importante usare la nostra posizione di artisti per dare l’esempio”.
  Ha concluso dicendo: “La mia unica risposta all’odio è l’arte e la musica. Poiché siamo tutti qui insieme stasera, vorrei che cantassimo con una sola voce, e che quella canzone si levi al di sopra del tumulto”. I suoi fan presenti hanno chiesto che la musica fosse separata dai dibattiti politici. “Lasciamo da parte le opinioni e godiamocela”, ha detto uno di loro all’emittente belga RTBF.
  Gli organizzatori hanno difeso la loro decisione di far sì che Amir continuasse a esibirsi come da programma. Hanno detto di non essere in grado di “valutare moralmente il suo percorso personale”, se non attraverso le sue canzoni che trattano “temi universali e condivisi come l’amore, la celebrazione, la ricerca di sé e la resilienza”.

Bob Vylan in Belgio
  Un altro festival musicale in Belgio, il Rock Herk, ha recentemente suscitato polemiche quando gli organizzatori sono stati esortati dall’EJA (European Jewish Association) a non far suonare il duo punk-rap britannico Bob Vylan, in seguito alle controverse dichiarazioni della band ad un concerto a Glastonbury nel Regno Unito. In quell’occasione, il duo ha urlato slogan come “Morte all’IDF”, “Palestina libera” e “Dal fiume al mare”.
  “Non si tratta di mettere a tacere le critiche verso Israele, ma di mettere a tacere un fiero e indomito sostenitore dell’incitamento all’odio contro gli ebrei”, ha scritto il presidente dell’EJA, Rav Menachem Margolin, in una lettera agli organizzatori del festival. “Non è obbligatorio sostenere Israele. Si può, anche scegliendo di farlo, sostenere la causa palestinese. Viviamo in una democrazia. Ma l’incitamento all’odio è una cosa completamente diversa. Quello che sta facendo Bob Vylan è istigare all’omicidio”, ha aggiunto. Ma gli organizzatori hanno confermato il concerto.

Israeliani arrestati
  Un altro episodio riguarda due soldati dell’IDF che sono stati arrestati e interrogati dalle autorità belghe in seguito a una denuncia presentata dalla Hind Rajab Foundation (HRF), un’organizzazione legale antisraeliana che persegue azioni legali contro i militari israeliani, ha confermato lunedì il Ministero degli Esteri israeliano.
  Secondo HRF, i ragazzi che stavano prendendo parte al festival musicale Tomorrowland nella città di Boom, in Belgio, sarebbero stati accusati di aver commesso crimini di guerra, ma sono stati rilasciati poco dopo l’indagine. Le Forze di Difesa Israeliane e il Ministero degli Esteri sono in contatto con i due soldati.
  La denuncia legale è stata presentata da HRF e dal Global Legal Action Network (GLAN). HRF ha affermato che i due individui stavano sventolando al festival le bandiere della Brigata Givati dell’IDF, che secondo loro sarebbe stata “coinvolta nella distruzione sistematica delle infrastrutture civili a Gaza e nel compimento di atrocità di massa contro la popolazione palestinese”.
  Secondo la ricostruzione del Jerusalem Post, nel complesso l’atmosfera del festival Tomorrowland è stata descritta come amichevole nei confronti degli israeliani. Giovani israeliani si sono filmati mentre sventolavano le loro bandiere, e chiacchieravano con palestinesi che indossavano la kefiah. Israeliani e iraniani presenti a Tomorrowland sono stati fotografati mentre sventolavano insieme la bandiera israeliana e quella iraniana.
  La sede centrale dell’HRF si trova a Bruxelles, la capitale del Belgio, il che garantisce all’organizzazione un vantaggio nello svolgimento delle proprie attività nel paese.

La reazione dell’European Jewish Association
  L’Associazione Ebraica Europea (EJA) esprime profonda preoccupazione per il comportamento delle autorità belghe nei confronti di due partecipanti israeliani a un festival tenutosi in Belgio, che sono stati interrogati da funzionari belgi a seguito di una denuncia secondo cui, in quanto soldati dell’IDF, avrebbero commesso crimini di guerra.
  Il presidente dell’EJA, il rabbino Menachem Margolin, ha osservato che l’indagine politicamente motivata riflette una bussola morale distorta e sbagliata, poiché i soldati dell’IDF operano nell’ambito dei loro doveri legali di difesa del Paese – doveri paragonabili a quelli di qualsiasi soldato in servizio in una nazione democratica. Nel frattempo, l’individuo che ha presentato la denuncia è noto per il suo sostegno pubblico a Hezbollah, un’organizzazione terroristica responsabile della morte di numerosi civili.
  “Concedere legittimità a tali attori mina la credibilità delle istituzioni belghe preposte all’applicazione della legge e incoraggia l’estremismo”, ha dichiarato il rabbino Margolin. “Ancora una volta, siamo testimoni di un preoccupante doppio standard. Non vediamo la stessa ansia di avviare indagini quando si tratta di personaggi di regimi come l’Iran, la Turchia o la Cina, o persino di democrazie occidentali coinvolte in conflitti esteri. Perché viene sempre preso di mira Israele?”.
  Il deputato belga Michael Freilich, che ricopre anche il ruolo di inviato speciale dell’EJA per la lotta all’antisemitismo, ha aggiunto che il Belgio deve rimanere un Paese in cui gli ebrei e gli israeliani si sentano al sicuro e benvenuti, non un luogo in cui vengano perseguitati politicamente con la scusa dei diritti umani.

(Bet Magazine Mosaico, 22 luglio 2025)

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 I palestinesi hanno i migliori nemici

Senza Israele non ci sarebbe eco. La narrativa palestinese funziona solo all'ombra dello Stato ebraico.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - La verità è scomoda, ma inevitabile: senza lo Stato ebraico di Israele come presunto oppressore, occupante o nemico, il “problema palestinese” non avrebbe quasi alcuna rilevanza a livello internazionale. Non è solo la miseria dei palestinesi ad attirare la compassione globale, è il loro ruolo di avversari di Israele che li rende un “progetto morale” per molti. Se il destino dei palestinesi fosse inserito in un altro contesto geopolitico, ad esempio come minoranza etnica interna in un paese arabo o come gruppo di rifugiati in Africa, sarebbe degno al massimo di una nota a margine.
“Sapete perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi (gli israeliani) siete nostri nemici”, chi è che l'ha detto? Uno dei più importanti poeti nazionali palestinesi, Mahmud Darwish (1941-2008), in una conversazione con una giovane israeliana. "L'interesse per noi deriva dall'interesse per la questione ebraica. Sì, l'interesse è per voi, non per noi. Quindi abbiamo la sfortuna che Israele sia nostro nemico, perché Israele gode di un sostegno illimitato nel mondo. E allo stesso tempo abbiamo anche la fortuna che Israele sia nostro nemico, perché gli ebrei sono al centro dell'interesse mondiale per la questione ebraica. Quindi: voi ci avete sconfitto e ci avete dato la gloria. Ci avete sconfitto e ci avete dato la fama. Perché il mondo è più interessato a voi che a noi. E su questo non ho illusioni».
Mahmoud Darwish è stato una figura centrale della poesia araba moderna e le sue poesie hanno influenzato generazioni di palestinesi. Darwish era più di un poeta: era la voce poetica dei palestinesi. Le sue opere riflettono il dolore per la perdita della patria, la lotta per l'identità, la vita in esilio e, allo stesso tempo, una profonda umanità. Nato nel 1941 ad al-Birwa, in Galilea, fuggì con la sua famiglia in Libano a seguito della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la Nakba (catastrofe) palestinese.
Significativo è il fatto che i palestinesi sono l'unico popolo al mondo per il quale le Nazioni Unite hanno creato un'organizzazione umanitaria esclusiva: l'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi. Tutti gli altri gruppi di rifugiati nel mondo, che si tratti di Rohingya, sudanesi, sfollati interni siriani o rifugiati ucraini, sono assistiti dall'UNHCR, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Solo i palestinesi hanno un'istituzione speciale. Questa posizione speciale non è segno di maggiore bisogno, ma di strumentalizzazione politica.
Mentre milioni di persone in tutto il mondo soffrono in condizioni brutali – in Corea del Nord, Eritrea, Venezuela o nelle zone di guerra civile in Africa – non ricevono né risoluzioni regolari delle Nazioni Unite né dibattiti settimanali nei parlamenti occidentali.
Nessun organo a New York o Ginevra si riunisce regolarmente per discutere dei campi di lavoro forzato in Cina o dell'uccisione dei cristiani in Nigeria. Nessun popolo al mondo gode di un'attenzione così esclusiva come i palestinesi. Basta un posto di blocco israeliano e subito si leva un grido di protesta all'ONU. Un attacco aereo mirato contro i terroristi di Hamas e i ministri degli Esteri occidentali si precipitano davanti ai microfoni come se fosse in corso un genocidio. Mentre i terroristi di Hamas impediscono ai civili nella Striscia di Gaza di accedere agli aiuti umanitari, la rabbia dell'Occidente si scaglia proprio contro Israele, come se fosse lui la causa della fame. Mentre i cristiani in Iraq, i curdi in Siria o gli uiguri in Cina vengono sistematicamente oppressi o assassinati, nel caso dei palestinesi prevale un allarmismo quasi isterico. Quello che per altri è un tragico destino, qui viene dichiarato una priorità della politica mondiale.
Perché? Perché al centro c'è lo Stato ebraico, come ha ammesso lo stesso scrittore palestinese Mahmud Darwish. Israele non solo è al centro dell'attenzione mondiale, ma è anche l'unico Stato liberale e democratico del Medio Oriente in cui, nonostante ciò – o proprio per questo – ogni atto di difesa necessaria viene messo sotto accusa morale. Israele, l'eterodinamico dell'Occidente, è diventato la pietra di paragone del buonismo globale. I palestinesi ne traggono vantaggio.
Traggono vantaggio dal fatto che la loro narrativa si è fusa con la lotta contro il sionismo. Vengono etichettati come “vittime della storia coloniale”, mentre i loro leader politici hanno rifiutato per decenni, sotto la propria responsabilità, ogni opzione realistica di pace e allo stesso tempo hanno dirottato miliardi di aiuti in missili, tunnel e propaganda.
Senza Israele, il destino dei palestinesi sarebbe insignificante per i media. Sarebbero un altro punto dimenticato sulla mappa mondiale della sofferenza. Lo Stato ebraico, loro nemico giurato, è allo stesso tempo il loro più grande amplificatore di risonanza – e sapete una cosa? Forse anche una benedizione. Riconoscere questa verità non significa minimizzare la sofferenza. Significa solo comprendere il palcoscenico politico su cui questa sofferenza viene messa in scena.

(Israel Heute, 22 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Genocidio e apartheid, le parole contro Israele

L'informazione dell'Occidente ignora i morti israeliani e parla solo di donne e bambini palestinesi, e i jihadisti?

di Marco Del Monte

Dal 7 ottobre 2023 sta andando in scena "il mondo al contrario": in un battibaleno gli aggrediti sono diventati nazisti e aggressori, il tutto aggravato dal fatto che l'aggressore sarebbe Israele, che sta mettendo in atto un genocidio pur avendo patito la Shoah. Con un po' di raziocinio e anche da quello che risulta in documenti ritrovati nei cunicoli di Gaza si capisce che era già stato tutto organizzato e pianificato. Dati alla mano è chiaro che Israele è una superpotenza locale che dispone di armi nucleari e non si può battere sul campo, perciò la strategia per sconfiggerlo è cambiata radicalmente. Si tratta infatti del diverso valore che gli uni e gli altri danno alla vita umana. Gli ebrei la celebrano ogni settimana e in ogni festa comandata, non ammettono il suicidio e il martìrio volontario, mentre gli islamisti dicono esplicitamente di amare la morte rituale, categoria nella quale si iscrive chi si fa saltare in aria per uccidere il maggior numero possibile di ebrei.
   Chi ha prefigurato ed organizzato questa guerra è partito proprio da questa diversa filosofia di vita, tradotta in un algoritmo: il numero di morti israeliani, uccisi nelle maniere più atroci e la presa di ostaggi avrebbero provocato una reazione di Israele dura e sanguinosa, al punto tale da "nauseare" il mondo cosiddetto civile. Il bersaglio è stato centrato in pieno e oggi, con "soli" cinquantamila morti (notare che il numero è fornito da Hamas) Israele viene accusato di genocidio. Ma viene accusato pure di praticare l'apartheid, quando in Israele il Presidente di una corte di giustizia e il Rettore dell'Università di Haifa sono due arabe israeliane. Per quanto riguarda i rapporti con alcune popolazioni locali, i drusi israeliani e anche quelli fuggiti dalla Siria prestano servizio nell'Idf, dove raggiungono anche gradi elevati. In questa guerra sono morti in battaglia anche dei colonnelli drusi. La dimostrazione sta anche nel fatto che in questi giorni Israele ha quasi rinunciato ad intessere relazioni con la nuova Siria, proprio per difendere i drusi, cercando di fermare un conflitto che in pochi giorni ha già fatto più di duecentocinquanta morti, nel silenzio generale, dell'ONU in particolare.
   La reazione, subito etichettata come eccessiva, ha provocato un alto numero di vittime; l'informazione nei paesi occidentali ignora completamente i morti israeliani e parla sempre di prevalenza di donne e bambini, come se ci fossero solo questi. Dove siano finiti i jihadisti combattenti, che si mostrano in luccicanti divise solo nei giorni di festa (visto che le indossano solo negli show in favore di telecamere) nessuno lo sa. Il numero dei morti fornito dal ministero della salute di Hamas non fa distinzione tra civili e uomini armati, per cui la confusione è totale e la propaganda gioca proprio su questo. L'argomento è pesante, ma va trattato con razionalità, per avere contezza che l'accusa di genocidio è qualcosa di aberrante e destituita di fondamento. È triste essere costretti a parlare di vite spezzate con la calcolatrice in mano.
   Il primo elemento che configura un genocidio non è il numero di morti provocato, ma la volontà di eliminare un'etnia e allora vanno considerati tutti gli elementi in gioco. Molti membri di Hamas (tra cui Yahya Sinwar) e loro famigliari sono stati curati negli ospedali israeliani e Sinwar è stato addirittura operato per un tumore al cervello, cosa che gli ha salvato la vita. Chi avrebbe potuto accusare di omicidio il chirurgo che l'ha operato nel caso fosse morto "sotto i ferri"?
   Oltre questi dati di fatto, Israele, come detto, possiede l'arma nucleare e, se avesse veramente voluto lo sterminio dei Gazawi, avrebbe potuto utilizzare soltanto un paio di "bombe sporche" provocando un milione di vittime, senza perdere un solo militare (invece ne sono morti più di ottocento).
   I dati, come detto, sono forniti dal Ministero della Salute di Hamas, ma questo fa sorgere un altro dubbio sull'organizzazione della "cosa pubblica" e cioè ci si deve porre la domanda su come mai esista un tale Ministero, ma non si è mai sentito parlare di governo. Dal 2005 a Gaza non c'è un ebreo e non è mai venuto in mente a nessuno che poteva essere proclamato uno Stato sovrano che avrebbe certo evitato la tragedia in atto. Il problema è che per sedici anni Hamas ha governato un'entità allo sbando, con l'unico obiettivo di distruggere Israele costruendo una Gaza multipiano, difficile da localizzare ed espugnare.

(Il Riformista, 22 luglio 2025)

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Israele e il mercimonio del dolore

di Iuri Maria Prado

FOTO
Ci hanno messo un bel po’ il Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Avvenire, il Sole24Ore, l’Ansa e non si sa più quanti altri ad accorgersi di Yazan: il bambino di due anni penosamente ischeletrito le cui immagini giravano da almeno dieci giorni senza che nessuna di quelle gloriose testate se ne curasse.
Avevano bisogno di quella più artistica e ben confezionata – con gli occhi della mamma verso il vuoto mentre tiene in braccio il piccolo, quell’essere fatto solo di pelle e ossa ed ormai esausto di forza – avevano bisogno di questa icona coreograficamente più efficace per mettere in pagina la sofferenza di Gaza.
E in realtà neppure, perché l’uso porno-doloristico di quell’immagine – adoperata a mani basse e in solerte unanimità da quella stampa così occhiuta sulla fame nella Striscia – non serve a onorare quella sofferenza, ma ad addebitarla alla crudeltà di chi pretesamente la provoca.
Vale a dire Israele, che deliberatamente starebbe attuando il programma di sterminio per fame messo a punto – con qualche inefficacia, pare – sin dal pomeriggio del 7 ottobre 2023.
Di fatto, parecchie fotografie del piccolo Yazan atrocemente smagrito, come dicevo, circolavano da giorni e giorni. L’archivio Getty Images ne ha fatto un florilegio. In una si vede il piccolo con un uomo (il padre?) che lo sostiene per gli omeri e tre fanciulli in salute (i fratelli?) seduti accanto. In un’altra mangia una specie di focaccia.
Ma, appunto, non erano abbastanza evocative – o forse evidenziavano dettagli inopportuni – non erano abbastanza efficaci da meritare l’attenzione invece dedicata all’immagine di cui faceva abuso domenica scorsa quel consorzio giornalistico.
L’esigenza che si trattasse di fame, e di fame prodotta deliberatamente dallo Stato genocidiario, ha fatto accantonare qualsiasi interrogativo sulla mancanza di una diagnosi medica che attribuisse a quella causa – cioè la mancanza di cibo – l’orribile dimagrimento del bambino, che inopinatamente non affligge i familiari.
Che possa trattarsi di una patologia è ipotesi che non renderebbe meno atroce la condizione di sofferenza di quel bambino, ma renderebbe la sua storia meno suadente, e sostanzialmente inservibile al fine desiderato. Una storia che non è raccontata per proteggerlo e tentare di salvarlo, ma per essere sbattuta in faccia all’opinione pubblica affamata di genocidio.
Questa è la verità di quella fotografia. Questa è la verità dell’uso osceno che se ne è fatto.

(InOltre, 22 luglio 2025)

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I mercati scommettono su Israele nonostante la guerra

A quasi due anni dall’inizio del conflitto con Hamas, e dopo un’escalation culminata in uno scontro diretto con l’Iran, l’economia israeliana continua a sorprendere per solidità e capacità di attrarre capitali. «Un’anomalia» nel panorama globale, l’ha definita sul Financial Times Ruchir Sharma, presidente di Rockefeller International. «Dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 il mercato azionario che ha avuto la performance migliore al mondo è stato… Israele», ha scritto Sharma, sottolineando lo stupore per un dato in netto contrasto con lo scenario bellico. Dopo un calo iniziale, l’indice della Borsa di Tel Aviv si è ripreso completamente in appena quattro settimane, segnando da allora un balzo dell’80%. Anche con l’apertura del fronte iraniano, i mercati hanno continuato a puntare sullo stato ebraico, «ritenendo che il conflitto sarebbe finito presto, con Israele vincente sia sul piano militare che economico».
   La fiducia non nasce solo dai numeri della Borsa, ma da un percorso economico lungo decenni. Israele, ricorda Sharma, è «uno dei pochi paesi a essere passato da economia in via di sviluppo a economia avanzata», l’unico in Medio Oriente classificato come sviluppato sia dal Fondo monetario internazionale sia dall’indice globale MSCI. Una transizione resa possibile da riforme strutturali iniziate negli anni Ottanta, con la riduzione della spesa pubblica dal 50 al 40% del Pil e un contenimento del debito sotto il 70%.
   Decisivo, in questo processo, è stato l’investimento in tecnologia. Israele destina oggi oltre il 6% del Pil alla ricerca e sviluppo – più di qualsiasi altro paese al mondo e più del doppio della media globale – e circa la metà di questi fondi arriva da multinazionali straniere. «Il loro lavoro ha creato l’Iron Dome e la rete di razzi intercettori», scrive Sharma, «che hanno distrutto più dell’85% dei missili e una quota ancora maggiore dei droni lanciati contro Israele nei recenti conflitti».
   Le ricadute tecnologiche del comparto difesa hanno contribuito a fare di Israele un protagonista globale nella cybersicurezza e nell’innovazione. Il paese conta 73 start-up attive nell’intelligenza artificiale generativa, il terzo numero più alto al mondo, e circa il 50% delle sue esportazioni è costituito da prodotti e servizi hi-tech. Una struttura produttiva, osserva Sharma, «più simile a quella della California che a quella del Medio Oriente».
   Più cauto il giudizio dell’economista Howard Rosen, che in un’analisi sul Times of Israel mette in guardia sui rischi legati all’aumento della spesa pubblica in tempo di guerra. Tra il 2023 e il 2025, la spesa per la difesa ha già superato i 100 miliardi di shekel (24,5 miliardi di euro), mentre quella civile, tra ricostruzione e assistenza ai feriti, potrebbe far salire la spesa complessiva al 38% del Pil. «Il deficit potrebbe toccare il 14,5% e il debito superare il 66%», scrive Rosen, «con il rischio di una spirale come quella degli anni ’80». Secondo lui, la fiducia dei mercati non basta: servono riforme per contenere le uscite e tutelare i servizi essenziali. «Senza una gestione oculata della spesa pubblica e senza riforme, il miracolo rischia di diventare una trappola».
   D’altro lato, il governo di Gerusalemme guarda con favore alla fiducia degli investitori. A maggio 2025, riporta Ynet, la Banca d’Israele ha segnalato un aumento record degli investimenti esteri. «I rischi per il nostro paese stanno diminuendo», ha dichiarato Avi Hasson, responsabile di un’organizzazione che promuove il settore tech israeliano. Grazie ai colpi inferti a Hezbollah e all’Iran, lo stato ebraico, aggiunge, «ha rafforzato la propria posizione».

(moked, 21 luglio 2025)

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Quanto sono reali gli accordi di pace in Medio Oriente?

Termini come “accordo di pace” o “normalizzazione” riflettono una mentalità occidentale che però non corrisponde alle realtà politiche e culturali di un contesto arabo.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Nella nostra regione, gli accordi sono considerati dall'altra parte come uno strumento temporaneo, sempre basato sul potere, sull'onore e sugli interessi. Le concessioni sono interpretate come una debolezza. Israele non dovrebbe farsi illusioni al riguardo e non dovrebbe contare sul fatto che gli accordi siano considerati vincolanti in modo permanente anche dalla controparte. È invece fondamentale agire con forza, anche attraverso un'efficace deterrenza.
Nei media occidentali, compresi quelli israeliani, i termini normalizzazione e accordo di pace sono spesso usati come sinonimi. Ma sono davvero una via verso la pace in Medio Oriente? Non rivelano piuttosto la fondamentale incomprensione dell'Occidente nei confronti della cultura araba?
Gli accordi di pace sono un costrutto occidentale che non è necessariamente in armonia con il mondo arabo. Sin dall'epoca coloniale, l'Occidente ha cercato di imporre al resto del mondo il concetto di Stato nazionale con le sue norme politiche. Tuttavia, le lealtà tribali e le leggi nomadi che caratterizzano questa regione da secoli non hanno potuto essere spezzate.

Concetti islamici
   Nella tradizione islamica esistono diversi concetti che spesso vengono erroneamente equiparati al concetto occidentale di pace.

    Sulh – trattato di pace: si tratta di un accordo in cui è possibile che vi sia una riserva segreta. Un esempio è il trattato di Hudaybiyya, che Maometto poi violò.
    Hudna – tregua: Questa misura tattica viene adottata per guadagnare tempo necessario per rafforzarsi.
    Taqiyya – Paura, cautela, inganno: si nascondono le proprie vere intenzioni adattandosi temporaneamente.

L'uso moderno del termine normalizzazione, in arabo “Tatbi'a”, è respinto nel mondo arabo, in particolare in relazione a Israele. Anche in Egitto e Giordania, che hanno accordi di pace ufficiali con Israele, quest'ultimo è ancora considerato un nemico in molti luoghi. Nel corso della guerra “Spade di ferro” e degli sviluppi in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza, le richieste di annullamento di questi accordi sono diventate sempre più forti.
Gli accordi di pace in Medio Oriente sono quindi un'illusione? Il concetto occidentale di pace stabile e duratura non ha alcun fondamento nella regione, non perché Israele non voglia la pace, ma perché l'Islam non conosce un vero accordo di pace con i “miscredenti”. Lo studioso di Islam Prof. Moshe Sharon lo spiega così: “Nell'Islam non esiste il concetto di pace con i non musulmani. La pace può esistere solo all'interno della comunità islamica. Una pace duratura con i non musulmani è impossibile, perché significherebbe rinunciare al principio della jihad e al dovere di conquista”.
Anche tra gli Stati arabi musulmani non esistono accordi di pace nel senso occidentale del termine. Non c'è alcun “accordo di pace” tra l'Egitto e la Libia dopo la guerra del 1977. Non esiste alcun accordo di pace tra l'Iran e l'Iraq, né tra il Kuwait e l'Iraq. Non c'è alcun trattato di pace tra la Giordania e la Siria, anche se entrambi i paesi, dopo decenni di relazioni complesse, sono stati spesso sull'orlo della guerra.

Pace adesso?
   Israele deve essere cauto. Slogan come “pace adesso” possono essere popolari in Occidente, ma in Medio Oriente sono solo un segno di debolezza e ingenuità. Chi vuole imporre la pace, come un tempo le potenze coloniali volevano imporre i confini politici, è destinato a fallire. Un accordo di pace con l'Arabia Saudita legato alla creazione di uno Stato palestinese non solo è irrealistico, ma anche pericoloso. Israele non ha bisogno di un accordo ufficiale con Riad, ma dovrebbe piuttosto puntare su una cooperazione silenziosa e pragmatica basata sul rispetto reciproco, sugli interessi comuni e sulla deterrenza.
L'Arabia Saudita, uno Stato governato dalla sharia, che pratica le esecuzioni pubbliche, discrimina le donne e nega l'accesso ai luoghi sacri ai non musulmani, non è comunque una destinazione turistica per i turisti israeliani. Perché Israele dovrebbe fare concessioni per raggiungere un accordo che non durerà a lungo?
Israele deve tenere conto delle realtà della regione e smettere di proiettare concetti occidentali di pace sul Medio Oriente. Solo un Israele forte, unito e determinato può affermare il proprio posto nella regione. Non deve segnalare alcuna disponibilità a «compromessi dolorosi a qualsiasi prezzo», perché proprio questo invita a ulteriori ricatti e ostilità.
Il mondo arabo rispetterà Israele solo quando capirà che non può sconfiggerlo. In questa regione l'onore ha più peso di qualsiasi trattato scritto.
Già secoli fa lo scrittore romano Vegezio lo esprimeva in modo appropriato: "Chi vuole la pace, prepari la guerra. Chi vuole la vittoria, non tema l'addestramento duro dei suoi soldati. Chi vuole il successo, combatte le sue guerre con strategia, senza affidarsi al caso. Nessuno osa minacciare un avversario la cui superiorità militare è indiscussa".
Israele dovrebbe imparare dal passato ed evitare gli errori della politica occidentale, perché la vera sicurezza in Medio Oriente non è garantita dagli accordi di pace, ma dalla forza, dalla deterrenza e da una profonda comprensione delle realtà della regione.

(Israel Heute, 21 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Liceali israeliani realizzano un risultato storico alle Olimpiadi internazionali di matematica

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La squadra israeliana alle Olimpiadi di matematica 2025

La squadra israeliana di matematica ha appena ottenuto il miglior risultato della sua storia alle Olimpiadi internazionali di matematica, che si sono svolte quest'anno in Australia. Per la prima volta da quando il Paese partecipa a questa competizione nel 1979, tutti e sei i partecipanti hanno vinto una medaglia.
   Il bilancio è eccezionale: quattro medaglie d'oro, una d'argento e una di bronzo. Questo risultato colloca Israele al sesto posto su 110 paesi partecipanti, con 639 concorrenti provenienti da tutto il mondo. Si tratta della 66ª edizione di questa prestigiosa competizione creata nel 1959.
   I medagliati d'oro sono Raz Dvora (quarto anno, liceo Shalit di Rehovot), Itan Greinzeid (quarto anno, liceo Ahad Ha'am di Petah Tikva), Shahar Blumentsvayg (terzo anno, liceo Atid Lamadaim di Lod) e Yotam Bodnik (terzo anno, liceo Shalit di Rehovot). Nadav Dan Tamari (quarto anno, liceo Ohel Shem di Ramat Gan) ha ottenuto l'argento, mentre Ariel Doron (quarto anno, Kfar Hayarok di Ramat Hasharon) ha conquistato il bronzo.
   Il ministro dell'Istruzione Yoav Kisch si è congratulato per questi risultati: “In una settimana, gli studenti israeliani ricordano al mondo ciò che è possibile quando un sistema educativo crede nell'eccellenza e agisce con costanza per coltivarla”. Ha sottolineato che, dopo il successo in chimica, la squadra di matematica ha stabilito “un nuovo standard con quattro medaglie d'oro e una classifica senza precedenti”.
   Questo successo è il risultato della collaborazione tra il Ministero dell'Istruzione, il Centro dei Scienziati del Domani della Fondazione Maimonide e l'Istituto Weizmann. La squadra è stata preparata sotto la direzione del dottor Dmitri Novikov e dell'allenatore principale Lev Radzivilovsky, affiancati dal dottor Dan Carmon e dal suo team tecnico.
   Yoram Ariav, presidente del Centro per gli scienziati del futuro, lo considera “un risultato storico e stimolante che pone Israele all'avanguardia delle nazioni mondiali”. Il professor Alon Chen, presidente dell'Istituto Weizmann, sottolinea che questi risultati testimoniano “l'enorme potenziale della giovane generazione israeliana” e costituiscono “molto più che medaglie: una pietra miliare verso il futuro”.
   La stagione olimpica proseguirà prossimamente con le competizioni internazionali di fisica e biologia.

(i24, 21 luglio 2025)

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EasyJet estende la sospensione dei voli da e per Israele fino al marzo 2026

I portavoce dell’azienda avevano precedentemente annunciato che tutte le rotte da e per Tel Aviv sarebbero state ripristinate alla fine di ottobre 2025 ma una nuova decisione interna ha prolungato la sospensione fino al 28 marzo 2026. Le altre compagnie che hanno prolungato la sospensione sono: Delta e Air India fino al 31 agosto; British Airways e Ryanair fino al 25 ottobre e  KLM fino a nuovo avviso. 

di Pietro Baragiola

Martedì 15 luglio la nota compagnia aerea EasyJet ha annunciato ufficialmente che non riprenderà i voli verso Israele prima del prossimo anno. I portavoce dell’azienda avevano precedentemente annunciato che tutte le rotte da e per Tel Aviv sarebbero state ripristinate alla fine di ottobre 2025 ma una nuova decisione interna ha prolungato la sospensione fino al 28 marzo 2026.
   Lo spazio aereo israeliano è stato chiuso il 13 giugno con lo scoppio della guerra con l’Iran lasciando così decine di migliaia di Israeliani bloccati all’estero. Le linee sono state ripristinate solo 12 giorni dopo con la fine dei combattimenti raggiunta grazie ad un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti.
   Eppure, nonostante l’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea (EASA) abbia revocato l’avviso che raccomandava ai piloti di evitare i cieli sopra Israele e molte compagnie abbiano ripreso i voli verso Tel Aviv, EasyJet non è tra quelle.
   Ci scusiamo per gli eventuali disagi causati e rimaniamo impegnati a riprendere i voli da e per Tel Aviv a partire dall’anno venturo” ha affermato la compagnia aerea nella dichiarazione rilasciata via email ai suoi clienti.

I voli rinviati
  EasyJet però non è l’unica ad aver rinviato i propri voli verso Israele e in molti hanno seguito il suo esempio. Tra le numerose compagnie che hanno rinviato i propri voli per motivi di sicurezza vi sono: l’americana Delta e  Air India che hanno esteso la sospensione fino al 31 agosto; British Airways e Ryanair fino al 25 ottobre e l’olandese KLM che ha sospeso tutti i voli da e per l’aeroporto di Ben Gurion fino a nuovo avviso motivando con “la situazione di sicurezza in corso”.
   Molte altre compagnie aeree, invece, hanno già ripreso i loro voli verso Israele come: la francese Air France, la greca Aegean Airlines e la spagnola Air Europa.
   Anche il gruppo Lufthansa (che comprende Lufthansa, SWISS, Austrian Airlines, Brussels Airlines ed Eurowings) intende riaprire le rotte il 1° agosto mentre l’americana United Airlines riprenderà i voli da New York a Tel Aviv a partire dal 21 luglio, 10 giorni prima del previsto.

L’espansione del Ben Gurion
  Per far fronte all’aumento del traffico di passeggeri previsti nei prossimi mesi, il governo israeliano ha preparato nuovi progetti per l’aeroporto di Ben Gurion. All’inizio di questa settimana, la Ministra dei trasporti Miri Regev insieme all’Autorità Aeroportuale Israeliana ha annunciato il lancio di piani di espansione di Ben Gurion in modo da “affrontare le sfide in materia di sicurezza e operatività”.
   Nel mese di luglio sono attesi circa 1,5 milioni di passeggeri e 1,9 milioni in agosto. Questo traffico è ancora ben inferiore ai 2,5 milioni e ai 2,8 milioni registrati nell’estate 2023, prima dello scoppio del conflitto con Hamas, ma rimane comunque un aumento notevole rispetto alla situazione attuale.
   A partire dal 3 agosto, Ben Gurion riaprirà il Terminal 1 utilizzato principalmente dalle compagnie aeree low cost per i voli internazionali e dalle compagnie aeree israeliane come la EL AL, Arkia, Israir e la Georgian Airways.
   Il 14 agosto, invece, aprirà un nuovo terminal di sicurezza e check-in all’avanguardia nel Terminal 3, il principale terminal internazionale dell’aeroporto, che si estenderà su una superficie di 3,900 metri quadrati. Costruita con un investimento di 50 milioni di NIS (14,9 milioni di dollari), la nuova area comprenderà 22 banchi check-in e sistemi avanzati di controllo di sicurezza e smistamento bagagli.
   Solo nel mese di agosto sono previsti circa 500 voli internazionali in questo terminal.
   “Siamo lavorando duramente per riportare le compagnie aeree in Israele e, allo stesso tempo, stiamo mettendo all’opera progetti che consentiranno all’aeroporto Ben Gurion di accogliere un maggior numero di passeggeri, mantenendo un elevato livello di servizio” ha dichiarato il direttore generale del Ministero dei Trasporti Moshe Ben Zaken. “Questa è l’infrastruttura di cui Israele ha bisogno per gli anni a venire”.

(Bet Magazine Mosaico, 21 luglio 2025)

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La settimana di Israele – La guerra si prolunga

di Ugo Volli

Notizie significative (e non)
  Come in tutte le guerre, anche in quella di Gaza la maggior parte del tempo passa in movimenti di truppe, piccoli scontri, incidenti minori, senza che vi siano cambiamenti decisivi, quelli che per il giornalismo sono notizie. Così è andata anche l’ultima settimana. Grande attenzione mediatica è stata dedicata ai danni (fra cui purtroppo a quanto sembra tre morti) provocati a una chiesa di Gaza dai detriti di un colpo imperfetto di un carro armato israeliano. La chiesa non è stata colpita direttamente né distrutta, l’attività liturgica continua. Il colpo ha fatto cadere un pezzo del frontone, che involontariamente e sfortunatamente è finito su alcuni fedeli. Tutt’altra cosa dall’assalto con le bombe da parte di islamisti a una chiesa di Damasco che fece 27 morti il 22 giugno o dalle stragi che i gruppi armati dell’Isis compiono quotidianamente ai danni dei cristiani in Africa centrale, un vero e proprio genocidio programmato. Ma si sa, “no Jews no news”, se non si possono incolpare gli ebrei la notizia non è interessante.

A Gaza l’avanzata continua
  Resta il fatto che a Gaza le cose procedono lentamente, anche se con costanza. L’esercito israeliano conquista terreno secondo la nuova strategia di occupazione (ormai è al 65%) e continua a eliminare i capi che individua; i terroristi di Hamas non hanno la forza di sostenere battaglie ma tentano aggressivamente di tendere agguati ai soldati e ogni tanto purtroppo riescono a colpirli; la Gaza Humanitarian Foundation prosegue nel distribuire soccorsi alimentari alla popolazione (milioni di pasti al giorno) con l’appoggio di Israele e soprattutto sottraendo gli aiuti al pizzo di Hamas, nonostante i tentativi dei terroristi di creare disordini e impedire alla popolazione di ricevere i soccorsi.

Perché la guerra non finisce
  Ormai insomma è evidente che Israele ha vinto anche questa battaglia. Perché dunque non finisce questa guerra, come tutti, gli israeliani prima di chiunque altro, vorrebbero? La ragione è che perché una guerra finisca bisogna che gli sconfitti depongano le armi e Hamas non è disposto a farlo, preferisce continuare a insidiare l’esercito israeliano con la guerriglia, anche se paga un costo notevole in termini di combattenti uccisi e ne fa pagare uno anche più grave agli abitanti di Gaza. Perché non si arrende, anche se ha ricevuto offerte informali assai generose (esilio e non morte per i capi, amnistia per i combattenti che si consegneranno)? Perché questa ostinazione continua anche dopo che i maggiori capi dei terroristi sono stati eliminati, testimoniando di una volontà diffusa in tutto il gruppo? Una ragione è la cultura islamica dell’“onore” che lo impedisce. Un’altra è l’idea maoista che una guerriglia che perde le battaglie contro un esercito superiore ma non si scioglie, in realtà sta vincendo. E poi c’è la questione dei rapiti. Finché potrà ricattare la società israeliana con coloro che ha sequestrato, Hamas ritiene di avere le carte per sopravvivere. Il fatto è che chi è lucido in Israele, a partire da Netanyahu ma inclusi anche settori importanti dell’opposizione, sa benissimo di non poter permettere una fine della guerra che permetta la continuità di Hamas al governo di Gaza, perché questo non solo vorrebbe dire sprecare i sacrifici fatti finora, ma far sì che nel giro di qualche anno i terroristi siano di nuovo in grado di assaltare Israele quando lo riterranno più opportuno, con la certezza di altre stragi e un’altra guerra, probabilmente ancora più difficile di quella in corso. E questa sarebbe un incoraggiamento non solo per Hamas, ma per tutti coloro che odiano lo Stato ebraico. Israele non può permetterselo. Le trattative dunque e anche le eventuali tregue sono soprattutto mosse di relazioni pubbliche, che non possono interrompere davvero il braccio di ferro in corso.

Siria
  Durante la settimana appena trascorsa vi sono stati altri episodi significativi al di fuori di Gaza. Uno è il problema dei curdi in Siria, che Israele sta cercando di aiutare possibilmente senza farsi coinvolgere in una guerra sul terreno. Le ragioni dell’aiuto sono la fraternità coi drusi molto importante anche all’interno di Israele e la necessità di impedire che si solidifichi al confine del Golan una zona di guerriglia come quella del Libano meridionale. La situazione è resa complicata dal fatto che il presidente autonominato della Siria, Al Jolani (un nome che allude al Golan…) gioca due parti in questa storia. Da un lato è in ultima istanza lui il capo delle truppe sunnite e beduine che hanno devastato con violenza criminale nei mesi scorsi le terre alawuite e ora vogliono fare lo stesso con i drusi; dall’altro si atteggia a capo di stato che vuole ristabilire la legge in Siria e in quanto tale è stato assai troppo facilmente accreditato dalla diplomazia internazionale, fino a incontrare Macron e Trump, che ora premono su Netanyahu. Il risultato è un meccanismo di tira-e-molla fra tregue e combattimenti, che rischia di lasciar sterminare i drusi o di obbligare Israele all’intervento.

Governo in crisi
  Un secondo tema caldo è la crisi del governo israeliano. Con varie formule e in varia misura i partiti “charedim” hanno dichiarato di voler uscire dal governo e forse dalla maggioranza. La ragione è che reclamano una legge che confermi l’esenzione dalla leva degli studenti talmudici. È una condizione che fu decisa da Ben Gurion alla fondazione dello stato e confermata dai governi di tutti gli schieramenti politici. La corte suprema ha però obiettato che essa manca di base giuridica e c’è una forte corrente di opinione pubblica, anche fra i sostenitori della maggioranza di governo, che vorrebbe che tutti i ragazzi charedim, non solo i volontari che ci sono, condividessero i rischi e il costo della guerra. Negli accordi di fondazione del governo (prima della guerra) la legge per l’esenzione almeno parziale era prevista. I partiti charedim ora la pretendono, parte del Likud e dei sionisti religiosi non vogliono concederla. Se Netanyahu non riuscirà a trovare una mediazione, il governo cadrà. Ma questo può avvenire solo quando il parlamento è in sessione e ormai manca solo una settimana alla pausa estiva che durerà fino a dopo le feste ebraiche, alla fine di ottobre. La questione è dunque rimandata, ma non sciolta. Potrebbe portare a elezioni fra gennaio e febbraio dell’anno prossimo. Ma il parlamento scade comunque in autunno del 2026 e ormai il clima elettorale incombe. Nel frattempo chissà quante svolte e sorprese ci attendono, magari anche lo sbando definitivo di Hamas e la pace.

(Shalom, 20 luglio 2025)

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Accento romano e piatti italiani: il segreto di Pakino e di Rafter Chef

Fino a una decina di anni fa la vita di Raffaele Terracina, romano di Trastevere, classe 1966, si divideva tra il settore dell’abbigliamento e l’attività di scenografo e coreografo. Poi la svolta. Nel 2016, insieme alla moglie, Lidia Calò, direttrice del Dipartimento educativo della Comunità ebraica, decide di fare l’aliyah. «D’altronde è quello che avevano già fatto, uno dopo l’altro, i nostri tre figli Sarah, Michal e Samuel», racconta. «Li abbiamo educati allo stesso modo in cui siamo stati formati noi, con il medesimo percorso: scuola ebraica, Hashomer Hatzair, una forte impronta sionista». E così Israele è stato «un approdo abbastanza inevitabile, anche se reinventarsi a 50 anni è stato arduo».
   Terracina risponde da Gerusalemme, dove sei anni fa ha aperto Pakino: due pizzerie che sono anche bistrot, un pezzo di Belpaese nel cuore della capitale d’Israele. Tutto, spiega, è nato un po’ per caso. Nei suoi primi mesi israeliani, mentre studiava in un corso (ulpan) per migliorare la conoscenza dell’ebraico, ha avuto l’opportunità di lavorare in una pizzeria nel quartiere Rechavia.
   Era stata una delle figlie a suggerirglielo, perché «niente meglio della pratica per prendere confidenza con la lingua». L’intuizione è stata giusta e nuove strade si sono aperte. «Come si dice, da cosa è nata cosa. Mi sono appassionato al mestiere, ho trovato un socio in Alberto Moscati, un romano come me, ed è nato Pakino».
   I locali sono al momento due, entrambi a Gerusalemme, anche se c’è l’ambizione di aprire in futuro anche a Tel Aviv e Netanya. «Servono braccia, ma sono ottimista», sottolinea Raffaele, conosciuto in città anche come Rafter Chef. Terracina è un entusiasta: «Finché c’è il divertimento, finché c’è la passione, tutto gira di conseguenza». Nel menù di Pakino, oltre alla pizza, «ci sono tanti piatti di pasta tipici della tradizione italiana, tutti fatti a mano, come le fettuccine alla puttanesca; e poi il supplì alla romana, rigorosamente con l’alloro; e le melanzane alla parmigiana, che vanno a ruba; gli israeliani sono pazzi per la cucina italiana, anche se non tutti i miei colleghi in Israele sembrano rispettarne l’autenticità: c’è ad esempio chi la cacio e pepe la fa con il parmigiano. Inconcepibile».
   Poi i dolci, un must quelli tipici della tradizione ebraico-romana. «I dolci di piazza Giudia», sospira Terracina, cui Roma (e la Roma) «un po’ mancano, a volte». L’ultima sua collaborazione in ambito cinematografico risale al 2016, per il remake del kolossal Ben Hur, girato in parte a Cinecittà. Per il piccolo schermo invece ha allestito alcune scene della fiction Rai Un medico in famiglia. Ma quello è il passato. Il presente è Israele, «una vita appagante, ricca di stimoli».
   Finite le scuole superiori, Terracina “scoprì” il paese insieme ad altri ragazzi dell’Hashomer prestando servizio nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, al confine con il Libano. «Però mentre loro rimasero per un periodo più lungo, io dovetti tornare poco dopo in Italia per via della chiamata al servizio militare».
   Uno dei prossimi progetti in cantiere è la creazione di un canale YouTube di cucina italiana, affiancato da una pagina Instagram. «Sarà in italiano ed ebraico insieme, un ebraico un po’ imperfetto quale è il mio. Agli israeliani, ho scoperto vivendo qui, piace moltissimo la nostra pronuncia». Intanto, a gennaio, a Tel Aviv, Rafter Chef e il suo socio hanno illustrato la loro attività a una delegazione dell’Accademia Italiana della Cucina, fondata nel 1953 da Orio Vergani. Un viaggio nei sapori della gioventù di entrambi tra baccalà fritto, pasta e ceci, concia e panzerotti. a.s.

(moked, 9 luglio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 8

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Gli strani racconti del libro della Genesi
   Poi Giuseppe morì, in età di centodieci anni; e fu imbalsamato
   e posto in una bara in Egitto
(Genesi 50:26).
Con queste parole termina il primo libro della Bibbia. Essendo posto all’inizio di quella che ebrei e cristiani considerano rivelazione di Dio, è lecito chiedersi dov’è la sua importanza. Se si esclude che sia pura favola, oppure semplice “mito fondativo”, come anche molti ebrei credono, e si ritiene invece che sia resoconto di fatti realmente avvenuti e riportati in modo adatto sotto il controllo di Dio stesso, qualcuno si potrebbe chiedere qual è l’interesse di venire a conoscere i complicati rapporti e gli strani avvenimenti di una tribù familiare di beduini mediorientali di millenni fa. Un ebreo non vi trova agganci diretti con precise indicazioni della Torà; un cristiano non vi trova particolari spunti esortativi per la sua vita spirituale. Al contrario, oltre alla stranezza dei costumi usuali di quel tempo, con quelle intricate vicende di poligamia e concubinaggio che mettono in imbarazzo i lettori di oggi, anche in fatto di moralità universalmente accettata non si può proprio dire che i personaggi di quella storia avessero un comportamento esemplare.
   Partiamo dal capostipite Abramo. Dopo aver ricevuto direttamente da Dio una solenne investitura, con la promessa di fare di lui una grande nazione, e di rendere grande il suo nome, e di benedirlo, e di farlo essere fonte di benedizione per tutte le famiglie della terra, ci saremmo aspettati da lui un inizio di carriera che desse un segnale di nobiltà e grandezza d’animo. Abramo invece si comporta da normalissimo uomo di buon senso pratico.
   In Canaan arriva la carestia, e se continua così - pensa Abramo - si rischia di morire di fame. Da uomo pratico cerca una soluzione e la trova: trasloca in Egitto per soggiornarvi (Genesi 12:10), dunque per rimanerci in forma stabile. Ma non aveva detto il Signore che a lui e alla sua progenie avrebbe dato il paese di Canaan? Dunque era Canaan la terra che gli era stata promessa, non l’Egitto. Abramo certamente lo sapeva, ma in mancanza di precise indicazioni in merito, prende la decisione che gli sembra in quel momento più adatta ai suoi interessi familiari: va dove si può non morire di fame. Abramo aveva già costruito due altari in onore dell’Eterno : uno a Sichem e uno a Betel, ma bisogna pur vivere. E in Egitto si sopravvive, in Canaan invece no.
   Abramo dunque scende in Egitto. Una volta arrivati, si rende conto che per sopravvivere non basta non morire di fame, bisogna anche non morire uccisi. Ed è quello che potrebbe capitargli a causa della moglie Sarai, che è straordinariamente bella. Gli abitanti del luogo se ne sarebbero certamente accorti, e allora, per impadronirsene, il modo più semplice per loro poteva essere, secondo i costumi del luogo, quello di uccidere il marito. Cioè lui, Abramo. Decide allora di far dire alla moglie che lui è suo fratello, dunque di sua proprietà, sotto la sua custodia; in questo modo gli eventuali pretendenti della “sorella” avrebbero dovuto contrattare con lui il prezzo della cessione. La trattativa avrebbe potuto essere tirata in lungo, a tempo indefinito, cercando nel frattempo una soluzione.
   Per sua sventura però accade che su Sarai mettono gli occhi anche i notabili del Faraone, probabilmente attraverso uomini sguinzagliati alla ricerca di belle donne da aggiungere all’harem. E con le autorità non si contratta: bisogna ubbidire e basta. Abramo deve cedere Sarai al Faraone, che è talmente contento di questa new entry nel suo harem da ricolmare Abramo di “pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli” (Genesi 12:15-16).
   A questo punto bisogna spostare l’attenzione su Dio. Abramo si era messo nei guai, costringendo così il Signore a entrare direttamente in scena. Il suo intervento non è pedagogicamente rivolto ad Abramo, ma politicamente rivolto al Faraone: gli fa capire che Sarai è la moglie di Abramo con un metodo efficace: lo colpisce con una tale quantità di piaghe da convincerlo a restituire subito Sarai al marito. Dopo di che, come per liberarsi di uno scomodo intruso, il Faraone spinge Abramo fuori dall’Egitto, lasciandogli anche tutti i beni che gli aveva donato in cambio di Sarai. Così Abramo, che era venuto in Egitto per soggiornarvi, è “ripescato” dal Signore e riportato “in patria” insieme a sua moglie.
   La cosa si ripete, in forma moralmente ancora più grave, con Abimelec, re di Gherar (Genesi 20: 1-18). Questa volta è lo stesso Abraamo (nuovo nome datogli da Dio) a mentire dicendo a tutti che Sara (nuovo nome datole da Dio) è sua sorella. Così quando il re manda a prenderla, Dio deve immediatamente intervenire. E lo fa con decisione: rende sterili tutte le donne della casa di Abimelec e costringe il re sotto minaccia a restituire Sara ad Abraamo “perché è profeta”, dice il Signore. E poiché è profeta, sarà proprio Abraamo, il mentitore, a ricevere l’incarico di pregare Dio per la guarigione della casa reale.
   Quale generico insegnamento morale si potrebbe trarre da episodi come questi? Si potrebbe trarne forse l’esortazione a non dire bugie, e sottolineare che ci possono essere conseguenze sgradevoli. Ma Abraamo, che è l’uomo scelto da Dio per benedire le genti, non avrebbe dovuto essere lui a dire a tutti, e in modo particolare alle autorità di governo, che non si deve mentire? Avviene invece il contrario: è il re pagano che chiama da parte il profeta e gli fa una bella ramanzina:

    “Poi Abimelec chiamò Abraamo e gli disse: “Che ci hai fatto? E in cosa ti ho io offeso, che tu abbia fatto venire su di me e sul mio regno un peccato così grande? Tu mi hai fatto cose che non si devono fare. Poi Abimelec disse ancora ad Abraamo: “A che miravi, facendo questo?” (Genesi 20:9-10).

“Tu mi hai fatto cose che non si devono fare”, dice il re pagano, mostrando così di avere una concezione morale dei rapporti tra uomini più alta di quella di Abraamo. Quasi umoristica appare la risposta:

    “E Abraamo rispose: “L'ho fatto, perché dicevo fra me: 'Certo, in questo luogo non c'è timore di Dio; e mi uccideranno a causa di mia moglie'“ (Genesi 20:11).

Si può immaginare il commento derisorio di qualcuno: il prescelto da Dio riceve una lezione di morale da chi era considerato privo di timor di Dio. Ma la cosa più sconcertante è proprio l’atteggiamento di Dio, che non punisce il mentitore, ma anzi lo innalza agli occhi di chi crede alla sua menzogna, il quale viene punito per averci creduto e averne voluto trarre un “onesto” vantaggio personale.
   Ho detto “sconcertante”, ma appare così soltanto a chi cerca nella totalità del testo biblico quello che non c’è e non sa vedere quello che c’è.

Quello che non c’è
   Nel libro della Genesi manca del tutto la componente dell’istruzione morale, sia per i personaggi dei racconti, sia per i lettori del testo. In termini colti, è assente la categoria teologica della legge, sia in senso ebraico, sia in senso cristiano. Non c’è un Dio che parla affinché gli uomini ubbidiscano; c’è un Dio che parla agli uomini affinché dei fatti avvengano. E in questi fatti sono coinvolti uomini normali che vivono nel loro stato di umana carnalità, ma che Dio non rimprovera, né minaccia, né tanto meno punisce. Dio li ha scelti come strumenti per il suo servizio, e sapeva bene di che pasta sono fatti. E l’ha messo in conto. Sta proprio in questo l’abilità bellica del Signore: portare avanti un’azione di recupero del creato servendosi di uomini che sono ancora sotto il dominio del Nemico, ma ai quali Egli fa arrivare la sua parola con l’indicazione delle mosse da fare per portare avanti la guerra. Appare in visione o rivolge la parola ai patriarchi e a Mosè, ma sono istruzioni di lavoro per il proseguimento dell’opera, non ordinamenti sociali o precetti morali di comportamento personale: da questi capitoli infatti non si potrebbe trarre nessuna universale regola di condotta valida per tutti i tempi e tutti gli uomini. Gli ebrei direbbero che questa non è halachah (normativa religiosa), ma pura haggadah (racconto).
   Vana sarebbe dunque la ricerca di esempi halachici, o spiritualmente edificanti, in senso sia positivo che negativo. I personaggi che compaiono nei coloriti racconti del libro sfuggono all’inquadramento in precise categorie morali. Accade così che spesso personaggi storicamente trasmessi come “buoni” risultano a chi legge meno simpatici di quelli cattivi, come nel caso di Giacobbe rispetto a Esaù, che appare essere un tipo gagliardo, esperto nella caccia, buona forchetta e anche generoso, non vendicativo: dunque certamente più simpatico di Giacobbe sul piano umano. E’ imbarazzante, per esempio, la scena della riconciliazione tra i due fratelli (Genesi 32:1-21): Giacobbe vi fa una pessima figura.
   Anche nel racconto di Abele e Caino, non è facile mettersi subito dalla parte del personaggio “buono”. Viene in mente un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, in cui un popolano della Roma ottocentesca esprime comprensione per il povero Caino:

    Nun difenno Caino io, sor dottore,
    ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino:
    dico pe ddí che cquarche vvorta er vino
    pò accecà l’omo e sbarattajje er core.

    Capisch’io puro che agguantà un tortore
    e accoppacce un fratello piccinino,
    pare una bbonagrazia da bburrino,
    un carciofarzo de cattiv’odore.

    Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
    e a le su’ rape je sputava addosso,
    e nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,

    a un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
    aveva assai da inacidijje er fiele:
    e allora, amico mio, tajja ch’è rosso.

Qualcuno dirà forse che bisogna stare attenti a presentare le cose in questo modo, perché si rischia di mettere Dio in cattiva luce. Ma questo avviene proprio quando cerchiamo di capire Dio illuminandolo con la nostra lampada, invece di essere noi a porci sotto la luce della lampada di Dio, così come essa si presenta letteralmente nella totalità della Sacra Scrittura.

Quello che c’è
  Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è il racconto di come Dio inizia ad adempiere la promessa fatta ad Abraamo: “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione”. Detto in altro modo, e attenendoci alle sole parole del testo, è la descrizione del procedimento seguito da Dio per generare la progenie di Abraamo con cui inizierà a formare il popolo della nazione attraverso cui avrebbe benedetto tutte le famiglie della terra.
   Alcuni passaggi possono confermare questa lettura.

    “L’Eterno disse: “Nasconderò io ad Abraamo quello che sto per fare, dato che Abraamo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?” (Genesi 18:17).

Davanti al dubbio se distruggere o no le città corrotte di Sodoma e Gomorra, il Signore si ricorda del suo impegno a far diventare Abraamo una nazione, ed è da questo che fa dipendere la sua scelta operativa di quel momento.

    Dio apparve ancora a Giacobbe, quando questi veniva da Paddan-Aram; e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe; tu non sarai più chiamato Giacobbe, ma il tuo nome sarà Israele”. E lo chiamò Israele. Poi Dio gli disse: “Io sono l'Iddio Onnipotente; sii fertile e moltiplicati; una nazione, anzi una moltitudine di nazioni discenderà da te, e dei re usciranno dai tuoi lombi;  e darò a te e alla tua progenie dopo di te il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco” (Genesi 35:9-12).

A Giacobbe, progenie di Abraamo, Dio conferma che da lui discenderà una nazione e, inoltre, una moltitudine di nazioni, dunque con una distinzione tra i due casi. Quell’una nazione è quella che poi prenderà il nome di Israele. E’ per questa nazione che Dio rivolge a Giacobbe l’invito: sii fertile e moltiplicati, che ha la stessa forma dell’invito fatto a Noè: “Crescete, moltiplicatevi, e riempite la terra” (Genesi 9:1). In questo caso, invece della terra c’è da “riempire” il popolo che dovrà formarsi.
   Dio inoltre conferma che a quella nazione darà “il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco”, cioè la terra su cui si trova ora Giacobbe quando Dio gli appare.
   Molto più avanti negli anni, Dio appare un’altra volta a Giacobbe:

    Dio parlò a Israele in visioni notturne, e disse: “Giacobbe, Giacobbe!”. Ed egli rispose: “Eccomi!”. E Dio disse: “Io sono Dio, l'Iddio di tuo padre; non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione.  Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi” (Genesi 46:2-3).

Contrariamente a quella volta in cui Dio aveva “ripescato” Abraamo, che per paura di morire di fame in Canaan si era trasferito in Egitto, questa volta è Dio stesso che invita Giacobbe a scendere in Egitto, promettendogli che là lo avrebbe fatto diventare una grande nazione.
   Ma per formare una nazione ci vuole un popolo, e la famiglia allargata di Abraamo non è un popolo. Che fare? È un problema. Ma è un problema di Dio. E’ Lui che aveva detto ad Abraamo: farò di te una grande nazione”, dunque è Lui che deve darsi da fare. E avendo detto di te, con questo s'intendeva che la nazione sarebbe cresciuta geneticamente come progenie di Abraamo. Nel libro della Genesi si vede infatti come questa progenie si allarga gradualmente fino a diventare una tribù familiare.
   Ma lo sviluppo della progenie in questa forma per generazioni e generazioni avrebbe inevitabilmente portato a una totale dispersione nel mondo della discendenza di Abraamo, senza poter più recuperare l’originaria unità, e quindi senza poter formare una nazione.
   Ecco allora la soluzione: la progenie di Abraamo crescerà e si manterrà unita nel grembo della più potente nazione del mondo di quel tempo: l’Egitto. E’ lì infatti che i 70 componenti della tribù familiare di Abraamo di quel momento scendono (Genesi 46:27) e si moltiplicano, per arrivare a trasformarsi, nell’arco di quattrocento anni (!), nel popolo di una nuova nazione.
   Ripercorrendo allora i passaggi temporali, si vede Dio che scende di persona in Egitto, prima con Giuseppe (Genesi 39:3, 21), poi con Giacobbe (Genesi 46:2-3), per curare “da vicino” lo svolgimento del programma di formazione della nazione. Questo prevedeva non soltanto la sopravvivenza della famiglia di Abraamo, ma anche la sua crescita fino a diventare un “popolo numeroso”. Questo può essere confermato dalle parole con cui Giuseppe rassicura i fratelli che temono la sua vendetta dopo la morte di Giacobbe:

    “E Giuseppe disse loro: 'Non temete; poiché sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me; ma Dio ha pensato di convertirlo in bene, per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso'” (Genesi 46:3-4).

Sapendo come poi sono proseguite le cose, non si può che ammirare la sapienza di Dio, che ha usato prima un Faraone per accogliere la famiglia di Abraamo e farla crescere in Egitto fino a farla diventare un popolo; e ha usato poi un altro Faraone per costringerlo a far uscire quel popolo, affinché andasse formare una vera nazione, con la sua propria terra: la terra di Canaan, come Dio aveva promesso ad Abraamo.
   Del resto, Dio l’aveva detto chiaramente a Giacobbe: “Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire”. Cosa che Giacobbe ha personalmente sperimentato, anche se soltanto da morto. Ma nella risalita dall’Egitto del corpo di Giacobbe è preannunciata la risalita della nazione di Israele dall’Egitto in direzione di Canaan.

(8. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 20 luglio 2025)


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«Dagli all'ebreo collettivo»

I confini sempre più sfumati tra antisemitismo e antisionismo

Ieri a Roma, presso la Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati, si è svolto un convegno promosso da Azione e coordinato dal consigliere comunale di Milano Daniele Nahum, dal titolo “Antisemitismo e antisionismo: due facce della stessa medaglia?”. Al centro del convegno è stato posto il legame tra il “vecchio” antisemitismo etnico-religioso e il “nuovo” antisemitismo politico-ideologico sullo sfondo delle crescenti tensioni nell’area mediorientale, della tragedia di Gaza e – soprattutto – dell’effetto che il pogrom del 7 ottobre 2023 ha suscitato in tutti i mondi politici, culturali e religiosi storicamente più sensibili all’odio anti-ebraico. Come ha spiegato Nahum introducendo i lavori, il rischio è oggi che l’attenzione per la guerra a Gaza e le polemiche sulle responsabilità dell’attuale governo israeliano rispetto alla situazione nella Striscia e in Cisgiordania porti a considerare la recrudescenza di fenomeni di odio e di violenza contro gli ebrei come una conseguenza della congiuntura internazionale e a giustificare il ritorno degli stereotipi antisemiti come un inevitabile effetto collaterale delle cosiddette colpe di Israele.
   La Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Noemi Disegni ha spiegato come, per quanto per gli ebrei possa essere comprensibile la persistenza di un antisemitismo viscerale e fondato su pregiudizi atavici, sia incomprensibile e intollerabile l’antisemitismo di parte delle élite accademiche e culturali che oggi ripropongono i cliché del passato, riattualizzandoli e conferendo loro una dignità morale e una giustificazione politica.
   Il presidente dell’Ugei (Unione dei giovani ebrei d’Italia), Luca Spizzichino, recentemente aggredito all’Università di Torino proprio nel corso di un convegno che aveva organizzato sull’antisemitismo, ha sostenuto che, cambiando mezzi e modi, antisionismo e antisemitismo sono uniti dall’obiettivo di impedire agli ebrei di essere e di sentirsi parte della società e di essere accettati e riconosciuti nei propri diritti, se non attraverso il sacrificio della propria stessa identità.
   Sono poi seguiti gli interventi di Pasquale Angelosanto, Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gadi Luzzatto Voghera, Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec), David Meghnagi, docente di psicologia clinica presso l’Università degli Studi Roma Tre, Milena Santerini, docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Dina Porat, già Chief Scientist del Dipartimento di Storia Ebraica presso l’Università di Tel Aviv.
   Da queste relazioni è emerso che l’antisemitismo rimane oggi come ieri non un mero sentimento, ma un linguaggio politico largamente utilizzato per fini di consenso. Gli addebiti al nuovo “ebreo collettivo” (espressione utilizzata da molti dei relatori), oggi rappresentato dallo stato di Israele, sono grosso modo gli stessi che in precedenza colpivano il popolo ebraico: l’abitudine al complotto e il desiderio di dominio; la dissimulazione della violenza nella recriminazione vittimistica; l’incapacità di avere rapporti leali e non strumentali con l’umanità non ebraica. Da qui deriva la ricorrente richiesta agli ebrei di doversi giustificare, rinnegando parte della propria identità, per essere accettati. Da qui deriva anche il disconoscimento o riconoscimento condizionato del diritto all’esistenza di Israele, come se l’identità politica ebraica, alla pari di quella culturale e religiosa, dovesse essere ripulita, prima di potere essere considerata compatibile con altre identità.
   Le “tre D” che qualificano l’antisemitismo – diffamazione, delegittimazione, doppio standard – si applicano integralmente all’antisionismo. Israele è uno stato su cui si può mentire per finalità apertamente diffamatorie, e le cui responsabilità – come quelle contestate durante la guerra di Gaza – non sono addebitate a chi esercita i poteri di governo, ma allo stato in quanto tale, a pregiudizio del suo stesso diritto a esistere.
   L’antisionismo è diventato anche la maschera democraticamente legittimata dell’antisemitismo. Se l’antisemitismo era un’idea razzista, segnata da questo peccato originale, l’antisionismo lo trasforma in un’ideologia anti-razzista, facendo coincidere Israele con un avamposto del vecchio potere coloniale occidentale e i palestinesi come i rappresentanti dell’intero Sud del mondo discriminato e sfruttato.
   A seguire, l’ex direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ha indagato le radici dell’antisionismo di sinistra, che ha portato nell’immediato dopoguerra socialisti e comunisti, alleati degli ebrei perseguitati nel periodo fascista, e sostenitori con l’Urss della costituzione dello Stato di Israele nel 1948, a sposare sempre più fortemente la causa araba e palestinese in funzione anti-imperialista e al fondo anti-occidentale.
   Il convegno si è chiuso con un dialogo tra il senatore del Partito democratico Graziano Delrio e il Segretario di Azione Carlo Calenda, d’accordo nel giudizio circa la scarsa consapevolezza della sinistra su ciò che il 7 ottobre ha rappresentato per gli ebrei di tutto il mondo: non un semplice attentato terroristico, ma la radicale messa in discussione del “Mai più”, con cui si pensava di avere lasciato alle spalle l’orrore della Shoah. Entrambi hanno inoltre insistito sulla necessità di riconoscere nel sionismo un ideale risorgimentale, analogo a quello che tra Ottocento e Novecento ha unito molti popoli attorno ai principi di indipendenza nazionale e libertà politica.
   Sia per Del Rio sia per Calenda il giudizio molto severo che merita il governo Netanyahu, nel momento in cui diventa un verdetto negativo sulla legittimità e democraticità dello stato ebraico, incentiva uno scontro che favorisce la polarizzazione estremistica e allontana la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

(LINKIESTA, 19 luglio 2025)

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Perché Israele ha bombardato la Siria dopo gli scontri drusi-sunniti

La deterrenza militare che fa tremare Al Jolani

di Luciano Tirinnanzi

«Avevamo due opzioni: una guerra aperta con l’entità israeliana a spese del nostro popolo druso, della sua sicurezza e della stabilità della Siria e dell’intera regione, oppure dare agli anziani drusi e agli sceicchi l’opportunità di tornare in sé e dare priorità all’interesse nazionale». A chiarire il perché del ritorno alla calma in Siria è lo stesso presidente ad interim Ahmed al Sharaa, già noto con il nome di battaglia Al Jolani, quando, al fianco di Al Qaeda, brigava per dare la spallata definitiva al governo degli Assad. Ora che è lui a governare, ha compreso che la violenza sui civili non conduce che alla rovina. Dopo le oltre 250 vittime negli scontri scoppiati questa settimana tra drusi locali e beduini sunniti appoggiati dalle Forze di Damasco, e soprattutto dopo l’intervento militare di Israele – che ha attaccato lo stesso palazzo presidenziale – al Sharaa ha avuto un assaggio della logica che sottende alle azioni del governo Netanyahu: ogni scontro al confine sarà considerato un atto ostile. Questa è la linea rossa israeliana, e varcarla significa accettare una ritorsione immediata.
Ecco allora che il passo indietro di Al Jolani è un bagno di realtà per la nuova Siria. Sebbene gli attacchi di Israele possano apparire come un’aggressione indebita, o peggio rispecchiare la necessità di «distrarre l’opinione pubblica dalle operazioni a Gaza» (come per l’Iran, questa è una lettura davvero banale e semplicistica), in realtà rivelano qualcosa in più. Chiarito che i drusi sono un gruppo etno-religioso arabo la cui fede incorpora credenze dell’Islam, dell’ebraismo e del cristianesimo, e detto che sono distribuiti tra Siria, Libano e lo stesso Israele, la loro difesa da parte di Gerusalemme è presto spiegata: in Israele vivono circa 150mila drusi che, a differenza della maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria. Anzi, rappresentano una componente essenziale per le Forze armate israeliane: molti di loro sono ufficiali di alto rango dell’Idf, membri dei reparti speciali o comunque funzionari di prim’ordine della pubblica sicurezza.
Ecco dunque che per Gerusalemme (un po’ come i turcomanni siriani per la Turchia) difendere «i fratelli drusi» è funzionale al mantenimento di un’unità d’intenti interna, ed è strategico per mantenere una zona cuscinetto al confine con un Paese altamente instabile: i drusi siriani sono, dunque, un piede israeliano all’interno della Siria. Bisogna poi considerare che il nuovo governo siriano è ancora agli albori: l’esercito e le Forze di sicurezza sono debolissimi e faticano ad affermare il proprio controllo su un territorio interetnico e interconfessionale, sommatoria di quella che era e rimane una no man’s land, con sacche tanto di assadisti quanto di jihadisti ancora sparsi a macchia d’olio su tutto il Paese, Damasco compresa. Del resto, gestire le macerie di una guerra civile decennale che ha fatto oltre 400mila morti non è banale.
Ecco anche perché, all’indomani della caduta dell’ex dittatore Assad lo scorso dicembre, Israele ha lanciato un’ondata di attacchi aerei devastante, distruggendo oltre 400 siti militari in sole 48 ore e annichilendo sia la contraerea sia la flotta navale e aeronautica. L’intento era palese: impedire qualsiasi rapida ricostruzione di un esercito che possa un giorno minacciare la sicurezza al confine. Dal punto di vista siriano, invece, come spiega l’analista Lorenzo Trombetta, autore del saggio geopolitico Damasco (in uscita a novembre per Paesi Edizioni), il motivo dell’attacco ai drusi era «prendere il pieno controllo della regione di Sweida, da secoli considerata dalle altre forze tribali locali un ostacolo allo sviluppo delle loro attività economiche. In più, i drusi durante la guerra civile non si sono mai schierati apertamente contro Assad, preferendo attendere – noi diremmo “democristianamente” – gli esiti dello scontro. Questo, insieme a un retaggio ideologico che dipinge i drusi come “miscredenti”, è sufficiente agli occhi dei radicali sunniti per muovergli guerra». Gli attacchi israeliani, in definitiva, rappresentano un deterrente militare tanto quanto un avvertimento

(Il Riformista, 18 luglio 2025)

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Il lento crollo delle zone sicure di Israele

Gli attacchi missilistici stanno riducendo le aree protette di Israele, lasciando migliaia di profughi interni senza rifugio.

di Neli Shoifer

Natalie Grinberg non avrebbe mai immaginato di diventare una profuga nel proprio Paese. Insieme al marito, ai figli gemelli di nove anni e ai due cani, è fuggita da Tel Aviv dopo che il suo quartiere è stato colpito da missili iraniani.
  Davanti a un semplice hotel che ora funge da campo profughi provvisorio, Natalie riflette sulla svolta surreale della sua vita. “Abbiamo sempre pensato che i profughi del nord e della Striscia di Gaza fossero persone povere e tragiche che avevano perso le loro case, i loro averi, la loro sicurezza... ma ora mi trovo nella stessa situazione e mi chiedo: sono una profuga? È questa la mia vita adesso?”
  Per mesi, città come Tel Aviv e Ramat Gan sono state un rifugio per chi fuggiva dal nord devastato dalla guerra e dal sud bombardato. Ma i recenti attacchi missilistici dall'Iran hanno distrutto questa fragile illusione. Il centro di Israele è diventato un campo di battaglia e anche le regioni più urbane e sviluppate del Paese sono sotto attacco.

Una nazione di sfollati
  Secondo il Centro per l'amministrazione locale, circa 15.000 persone sono state ufficialmente evacuate dopo che gli attacchi iraniani hanno colpito le infrastrutture civili. La stragrande maggioranza – nove su dieci – proviene dall'area metropolitana di Gush Dan, che comprende Tel Aviv, Petach Tikva, Ramat Gan e Bnei Brak. Oltre 1.000 edifici sono stati danneggiati o distrutti.
  Con una mossa straordinaria, le comunità del nord bombardato, come Metula e Kiriat Schmona, hanno invitato le famiglie del centro a soggiornare per alcuni giorni per riprendersi. Nonostante le loro sofferenze, questi luoghi sono stati risparmiati dai recenti attacchi iraniani.
  Secondo “UN Watch”, dall'ottobre 2023 più di 200.000 israeliani sono stati sfollati a causa di attacchi missilistici indiscriminati. Gli abitanti delle località ufficialmente designate come “zone di evacuazione” ricevono aiuti statali. Per molti altri, soprattutto nelle comunità direttamente colpite ma non ufficialmente riconosciute, la sopravvivenza comporta costi personali notevoli.
  L'Associazione israeliana dei costruttori riferisce che oltre il 50% delle abitazioni israeliane non dispone di un rifugio privato. Gli abitanti devono ricorrere a bunker pubblici, spesso in cattive condizioni.

Aumento dei canoni di locazione
  A causa delle condizioni inabitabili di molti rifugi, del pericolo di raggiungerli durante le sirene e della distruzione su vasta scala, negli ultimi tre anni i canoni di locazione per gli appartamenti con rifugio privato sono aumentati dell'11%. La domanda è aumentata anche nelle città considerate relativamente sicure.
  Secondo un recente rapporto del Ministero delle Finanze, tra ottobre 2023 e maggio 2025 lo Stato ha speso circa 3,1 miliardi di euro per alloggi e assistenza ai civili sfollati. Solo nei primi cinque mesi del 2025 sono stati spesi circa 586,5 milioni di euro. Queste cifre non includono i costi dei lavori di ricostruzione dopo i recenti attacchi iraniani. Anche le spese per la difesa sono aumentate notevolmente, passando dal 4,3% del prodotto interno lordo nel 2022 all'8,4% nel 2024. Mentre l'economia nel suo complesso rimane stabile, questi costi gravano pesantemente sui servizi pubblici e sui contribuenti.
  Una conseguenza del programma di austerità del governo è l'annuncio della sospensione del sostegno finanziario agli sfollati fino ad agosto 2025, ad eccezione dei casi di estrema difficoltà. Questa misura ha incontrato una forte opposizione da parte dei leader locali.
  Inoltre, non è ancora chiaro quando saranno stanziati i fondi promessi per la ricostruzione del nord. Di conseguenza, la regione dipende attualmente in larga misura dagli aiuti filantropici, senza che sia visibile un piano realistico a lungo termine.

“Non è sicuro. Non è giusto”.
  Uno dei critici più accesi è Uri Epstein, capo del consiglio regionale di Scha'ar HaNegev. Dopo la decisione del governo del 29 giugno di classificare come “sicure” alcune zone della regione di confine con Gaza, ha preso la parola. “Chi ha preso questa decisione non era qui il 7 ottobre e non c'è nemmeno adesso”, afferma. “Gli abitanti di Nachal Os dovrebbero tornare in una zona militare chiusa a soli 600 metri dal confine con Gaza. È inabitabile. Le conseguenze della mancanza di coordinamento e della confusione ricadono su una comunità che ha subito uno dei peggiori crimini nella storia di Israele e il cui membro Omri Miran è ancora tenuto in ostaggio da Hamas”.
  Con un importante passo giuridico, i sindaci e i leader delle comunità delle città al confine con Gaza e il Libano hanno presentato ricorso alla Corte Suprema israeliana per chiedere la sospensione delle decisioni sul ritorno. L'obiettivo è quello di ritardare la rivalutazione delle aree come zone sicure e costringere lo Stato a rispettare i suoi impegni finanziari, in particolare per la ricostruzione di strade, asili e altre importanti infrastrutture civili. Finora la Corte ha deciso di non intervenire.
  Le autorità locali criticano il governo per aver spinto le persone a tornare troppo presto per motivi di costo, mentre importanti misure di protezione e servizi pubblici rimangono incompleti o non finanziati.

Quando le regioni sicure non sono più sicure
  In questa guerra nessuna parte di Israele è stata risparmiata. Persino Eilat, la città più meridionale di Israele, a 304 chilometri da Gerusalemme, è diventata un bersaglio. Dopo aver accolto 50.000 profughi, la città stessa è stata attaccata con missili e droni provenienti dall'Iran, dall'Iraq, dalla Siria e dallo Yemen. La maggior parte è stata intercettata, ma alcuni hanno causato danni ingenti.
  Tel Aviv, un tempo rifugio, è oggi parte della linea del fronte. Nel momento più caldo del conflitto, la città ha offerto protezione a oltre 15.000 sfollati. Oggi sono gli stessi abitanti della città a essere sfollati.

La domanda che nessuno osa porre
  Se i razzi cadono a nord, a sud e al centro, dove possono andare gli israeliani? Cosa succederà in caso di un prossimo attacco, probabilmente massiccio, dell'asse? Nonostante il cessate il fuoco nel nord e un accordo in vista a Gaza, i cittadini sanno per esperienza decennale che i terroristi non rispettano gli accordi diplomatici.
  Il futuro è incerto. L'unica certezza è che Israele sta per affrontare una crisi non solo militare, ma anche civile, di proporzioni senza precedenti.

(Israelnetz, 18 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gaza, gli “attacchi contro i civili che Israele sta portando avanti da mesi” non esistono

di Iuri Maria Prado

Si sapeva poco o nulla, ieri mattina, del presunto attacco israeliano che avrebbe colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza. Un vuoto di informazioni che non impediva a giornali e agenzie di stampa di dare per certo ogni dettaglio dell’attacco israeliano, a cominciare dal fatto che avesse fatto due vittime e una pluralità di feriti. Quei mezzi di informazione, sul fresco della notizia, parlavano ora di “bombe”, ora di un drone, ora vagamente di un “raid”. Più tardi, dopo che i suoi uffici avevano rilasciato un comunicato secondo cui non c’erano state vittime, il Cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, denunciava invece la morte di due persone per effetto del colpo di un tank contro la chiesa. Un effetto, precisava Pizzaballa, del cui carattere non intenzionale lui non era sicuro (per capirsi, alludeva all’ipotesi che l’esercito israeliano avesse mentito comunicando che si sarebbe trattato di un incidente non voluto).
   Sul fronte delle vittime, ieri, per ore, giornali online e agenzie di stampa continuavano a riferire di due morti, in particolare “due donne”, il cui decesso sarebbe stato certificato “dal personale medico dell’ospedale Al Ahli di Gaza”. Una certificazione magari anche rispondente, alla fine, ma di origine abbastanza improbabile alla luce della notizia (possibilmente infondata, ma comunque incompatibile) che ieri dava, per esempio, Vatican News (poi seguita da tutti): e cioè che le vittime sarebbero “Saad Issa Kostandi Salameh, portinaio della parrocchia, e una donna di nome Foumia Issa Latif Ayyad”. Naturalmente è possibile che l’agenzia vaticana avesse preso un granchio, così come è possibile che il personale medico avesse scambiato il portinaio per una donna, o che avessero capito male quelli che ne riportavano i referti. Alcuni, poi, come Euronews, tagliavano corto spiegando che il portinaio era in realtà anche lui una donna (“Le due donne morte sono Saad Issa Kostandi Salameh e Foumia Issa Latif Ayyad”), e che a colpire la chiesa era “un raid aereo”.
   Che fosse successo qualcosa a quella chiesa era abbastanza probabile mentre quei mezzi di informazione si esibivano in quella girandola di notizie contraddittorie, smentite e contro-smentite. Il problema è che era il vento di quella girandola, e non una decente base di accertamento (che non c’era), a smuovere le dichiarazioni dei politici sulla vicenda. A cominciare da quelle della presidente del Consiglio, la quale alle 10 del mattino riteneva di condannare non già l’incidente di cui si sapeva poco o nulla, bensì “gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi”. Una dichiarazione in stile sudafrican-onusiano che fa poco onore a chi, del tutto legittimamente, avrebbe potuto manifestare solidarietà alla parrocchia e alla comunità religiosa, rincrescimento per le possibili vittime e anche disappunto nei confronti degli ipotetici responsabili, ma senza lasciarsi andare a quella pretestuosa requisitoria di incolpazione del Paese che combatte contro chi vuole distruggerlo.
   Non esistono gli “attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi”. E non sarebbe il caso di una chiesa colpita (nemmeno se fosse colpita intenzionalmente) a farli esistere. Sulla guerra di Gaza è possibile avere – e manifestare – ogni opinione. Sarebbe utile per tutti se le opinioni si formassero, e fossero manifestate, tenendo conto del fatto che è una guerra. Con le tragedie, gli errori e gli orrori di ogni guerra. Che devono essere denunciati e puniti, quando sono accertati. Ma senza dimenticare la responsabilità di chi quella guerra ha scatenato, trasformando Gaza e le sue chiese in un campo di battaglia.

(Il Riformista, 18 luglio 2025)

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Grenoble, incendiata la casa del rabbino Lahiani

di Luca Spizzichino

L’appartamento del rabbino Yhia Lahiani e della sua famiglia, a Grenoble, nel sud-est della Francia, è stato completamente distrutto da un incendio doloso nella serata di sabato 5 luglio. Il rogo è divampato poco dopo che la famiglia si era allontanata per recarsi a una cena di Shabbat in sinagoga. Tre esplosioni successive hanno squarciato la quiete del quartiere e distrutto in pochi minuti la loro abitazione.
   A raccontare l’accaduto sono stati i familiari stessi. “Qualcuno ha cercato di uccidere la mia famiglia”, ha dichiarato la figlia, Sarah Perets Lahiani, alla francese Radio Shalom. Pochi minuti prima dell’esplosione, ha detto, le sue sorelle e uno dei loro figli si trovavano ancora nell’appartamento: “È un miracolo che fossero già in sinagoga”. Gli investigatori avrebbero trovato tracce di accelerante – probabilmente cherosene – sulle pietre del giardino davanti all’abitazione. Secondo le prime ricostruzioni, ignoti avrebbero dato fuoco alla zona del barbecue dove si trovava una bombola di gas, contribuendo a innescare l’esplosione che ha devastato anche l’appartamento del piano superiore. Un vicino ha riferito che il figlio avrebbe visto dei giovani lanciare oggetti verso la casa pochi istanti prima del rogo. Sarah Perets Lahiani ha espresso tutta la sua frustrazione per il rifiuto delle autorità francesi di qualificare l’attacco come antisemita. “Continuano a parlare solo di ‘incendio doloso’, ma nessuno vuole usare la parola ‘antisemitismo’. Questo ci ferisce profondamente. Perché altrimenti proprio la casa del rabbino è andata in fiamme durante lo Shabbat e proprio all’ora del pasto?” ha chiesto.
   La distruzione ha lasciato la famiglia senza nulla. “Mio padre mi ha chiesto un vestito. Era sotto shock. Ci sono voluti due giorni perché realizzasse che non aveva più neanche i vestiti” ha raccontato Sarah. La comunità ebraica locale si è mobilitata per aiutare la famiglia, offrendo indumenti, alloggio e supporto emotivo. Anche Eric Hattab, referente regionale del CRIF, si è attivato in loro favore.
   “La metà della comunità ebraica è già andata via. Le famiglie con bambini non si sentono più al sicuro. C’è chi parte per Israele, chi per altre città, chi per gli Stati Uniti o il Canada. Temiamo per i nostri figli, nelle scuole, per strada” ha sottolineato il rabbino capo di Grenoble, Nissim Sultan, tracciando un bilancio amaro. Dopo il 7 ottobre, l’atmosfera si è ulteriormente inasprita. “Non era più ‘Rabbi Jacob’, era ‘ebreo bastardo’” racconta Sarah. Gli pneumatici dell’auto del padre sono stati bucati più volte. Una telecamera vicino alla scuola ha ripreso un giovane armato. “E dopo l’incendio – aggiunge – sono passati dei ragazzi urlando ancora ‘ebrei bastardi’. Ma per le autorità è tutto un caso, un’esagerazione”.
   I dati confermano l’esodo: nei primi sei mesi del 2024, oltre 6.400 cittadini ebrei francesi hanno presentato domanda di aliyah verso Israele. Un aumento vertiginoso rispetto allo stesso periodo del 2023. Caroline Yadan, deputata dell’ottava circoscrizione dei francesi all’estero, è drastica: “Gli ebrei non si chiedono se andarsene, ma quando”. Il rabbino Yaacov Bitton, da Sarcelles, profetizza: “Agli ebrei restano dieci anni in Francia. Poi sarà finita”.

(Shalom, 18 luglio 2025)

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380 milioni di cristiani perseguitati per la "loro fede": dov'è l'indignazione?

Secondo la World Watch List 2025, "in Nigeria, vengono uccisi per la loro fede più cristiani che in qualsiasi altro Paese al mondo" .

di Raymond Ibrahim

Nel 2024, in tutto il mondo, 4.476 cristiani, in media più di 12 al giorno, sono stati "uccisi per motivi legati alla fede". Altri 4.744 cristiani sono stati arrestati o detenuti illegalmente e 7.679 chiese e altre strutture cristiane sono state attaccate, spesso distrutte.
Globalmente, la persecuzione globale dei cristiani ha raggiunto livelli senza precedenti. "Oltre 380 milioni di cristiani sperimentano alti livelli di persecuzione e discriminazione a motivo della loro fede", secondo la World Watch List 2025 (WWL), pubblicata all'inizio di quest'anno dall'organizzazione internazionale per i diritti umani Open Doors.
Ogni anno, la WWL stila una classifica delle 50 nazioni in cui i cristiani sono maggiormente perseguitati per la loro fede. I dati sono raccolti da migliaia di operatori locali ed esperti esterni. L'ultima edizione della WWL copre il periodo che va dal 1° ottobre 2023 al 30 settembre 2024.
Secondo la World Watch List, in tutto il mondo, un cristiano su sette (14 per cento) è perseguitato. In Africa, la percentuale sale a uno su cinque (20 per cento). In Asia, la percentuale è addirittura di due su cinque, il che significa che il 40 per cento di tutti i cristiani è perseguitato.
La lista segnala tre gradi di persecuzione: "estrema", "molto alta" e "alta".
I primi 13 Paesi dei 50 presenti nella lista sono caratterizzati dalla peggiore forma di persecuzione: "estrema". E sono: 1) Corea del Nord, 2) Somalia, 3) Yemen, 4) Libia, 5) Sudan, 6) Eritrea, 7) Nigeria, 8) Pakistan, 9) Iran, 10) Afghanistan, 11) India, 12) Arabia Saudita e 13) Myanmar.
Le forme di persecuzione subite lì spaziano dall'aggressione, allo stupro, alla prigionia e persino all'omicidio, se si viene identificati come cristiani o se si frequentano chiese (solitamente clandestine).
Al primo posto troviamo la Corea del Nord:
"Se la tua fede cristiana viene scoperta in Corea del Nord, potresti essere ucciso immediatamente. Se non vieni giustiziato, verrai deportato in un campo di lavoro e trattato come un criminale politico, punito con anni di lavoro forzato ai quali pochi sopravvivono. E non sarai l'unico: le autorità nordcoreane probabilmente arresteranno anche i tuoi familiari, e li puniranno, anche se non sono cristiani. In Corea del Nord, non esiste una vita ecclesiale. È impossibile riunirsi per il culto o la preghiera, e persino il culto e la preghiera in segreto comportano grandi rischi. Spie del governo potrebbero denunciarti, nel caso avessero il minimo sospetto che tu sia cristiano, e così potrebbero fare i tuoi vicini o i tuoi insegnanti".
Non sorprende che la maggior parte della "persecuzione estrema" inflitta ai cristiani in nove di questi 13 Paesi peggiori continui a derivare dall'oppressione islamica o a verificarsi in nazioni con una larga maggioranza di musulmani. Sostanzialmente, questo significa che circa il 70 per cento della peggiore persecuzione inflitta ("estrema") in tutto il mondo avviene sotto l'egida, o in nome, dell'Islam.
Questa tendenza influenza l'intera classifica: il resto dei livelli di persecuzione "molto alta" o "alta" che i cristiani subiscono in 37 dei 50 Paesi presenti nella lista (ovvero il 74 per cento, deriva anch'esso dall'oppressione islamica o si verifica in nazioni con una popolazione a maggioranza musulmana o con una larga maggioranza di musulmani. Molte di queste nazioni sono governate da una qualche forma di sharia (legge islamica). A imporre la persecuzione può essere il governo o la società o, più frequentemente, entrambi, sebbene le società, in particolare i familiari indignati dai parenti convertiti, tendano ad essere più zelanti nell'applicazione della sharia.
Ciò significa che, sebbene la persecuzione in Corea del Nord sia peggiore, c'è almeno una luce alla fine del tunnel: i maltrattamenti dei cristiani sono interamente collegati al regime di Kim Jong-un. "Riconoscere qualsiasi divinità al di fuori della famiglia Kim è considerato una minaccia per la leadership del Paese", osserva il report. Una volta scomparsa la famiglia Kim, il che è inevitabile, la Corea del Nord potrebbe diventare come la Corea del Sud, dove il Cristianesimo è fiorente.
Al contrario, la persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani è perenne, esistenziale e trascende di gran lunga questo o quel governante o regime. La persecuzione "dell'altro" nell'Islam fa parte della sua storia, delle sue dottrine e della sua struttura socio-politica, da qui la sua tenacia e onnipresenza. Qui di seguito, in sintesi, i pericoli dell'essere cristiani nei nove Paesi musulmani in cui si verificano livelli "estremi" di persecuzione.
Al secondo posto nella lista figura la Somalia, dove si ritiene che ci siano poche centinaia di cristiani:
"(...) seguire Gesù è una questione di vita o di morte. Al-Shabab, un violento gruppo militante islamista (...) impone una forma rigorosa di sharia (legge islamica) ed è impegnato a sradicare il Cristianesimo dalla nazione. Spesso i suoi militanti hanno ucciso i cristiani somali quando li trovavano. I pericoli sono aumentati nel corso degli anni, perché i militanti si sono concentranti sempre più nella ricerca ed eliminazione dei responsabili cristiani".
Al terzo posto lo Yemen:
"Il Paese è ora diviso in territori governati da tre diverse forze governative [musulmane], oltre ad alcune aree controllate da al-Qaeda e dallo Stato Islamico. Nessuna delle forze coinvolte è favorevole ai cristiani, e la costituzione ufficiale sostiene la sharia (legge islamica) senza garantire alcuna libertà di religione. L'1 per cento degli yemeniti che appartengono a religioni minoritarie è gravemente emarginato. Gli aiuti umanitari vengono distribuiti principalmente attraverso gruppi musulmani locali e moschee, che si presume discriminino chiunque non sia considerato un musulmano devoto. Chi viene denunciato come cristiano o coinvolto in attività cristiane potrebbe essere soggetto a severi controlli, detenzione arbitraria, tortura, maltrattamenti e persino omicidio".
Al quarto posto la Libia:
"(...) seguire Gesù è un rischio enorme per chiunque. I cristiani libici con un passato musulmano affrontano pressioni violente da parte delle loro famiglie e comunità affinché rinuncino alla loro fede. I cristiani stranieri, specialmente quelli provenienti dall'Africa subsahariana, sono presi di mira da gruppi militanti islamisti e gruppi criminali. Questi gruppi rapiscono e a volte uccidono brutalmente i cristiani. Anche se tale minaccia non si concretizza, i cristiani subsahariani affrontano molestie e minacce da parte di musulmani radicali. I cristiani che esprimono apertamente la loro fede o cercano di condividerla con altri rischiano l'arresto e violenti opposizioni".
Al quinto posto il Sudan:
"Il Sudan stava compiendo un cammino verso la libertà religiosa, ma un colpo di Stato e una devastante guerra hanno infranto queste speranze. I cristiani sono di nuovo in pericolo. (...) Il conflitto ha offerto agli estremisti islamici maggiori opportunità per prenderli di mira. Più di 100 chiese sono state danneggiate e dei cristiani sono stati rapiti e uccisi. I cristiani sudanesi che hanno abbracciato la fede provenendo da un contesto musulmano subiscono forti reazioni da parte delle loro famiglie e comunità. Questi credenti tendono a mantenere la loro fede segreta, persino ai propri figli. I cristiani affrontano inoltre difficoltà eccezionali nella crisi alimentare, poiché le comunità locali li discriminano e si rifiutano di offrire loro supporto".
La Nigeria si piazza al settimo posto:
"La violenza jihadista continua a intensificarsi in Nigeria, e i cristiani sono particolarmente esposti ad attacchi mirati da parte di militanti islamisti, tra cui i combattenti Fulani, Boko Haram e ISWAP (Islamic State West Africa Province) (...) Gli attacchi sono di una brutalità sconvolgente. Molti cristiani vengono uccisi, uomini in particolare, mentre le donne sono spesso rapite e prese di mira con violenze sessuali. In Nigeria, vengono uccisi per la loro fede più cristiani che in qualsiasi altro Paese al mondo. [Complessivamente, 3.100 cristiani nigeriani 'hanno pagato il prezzo più alto per la loro fede' nel 2024.] I militanti distruggono anche case, chiese e mezzi di sussistenza. Nell'Africa subsahariana oltre 16,2 milioni di cristiani sono stati costretti a lasciare le loro case a causa della violenza e dei conflitti. Tra questi un alto numero di nigeriani. In milioni vivono ora in campi per sfollati. I cristiani che abitano negli stati settentrionali nigeriani, in cui vige la sharia (legge islamica), possono anche affrontare discriminazioni e oppressioni perché ritenuti cittadini di seconda classe. I convertiti dall'Islam spesso vengono rifiutati dalle loro stesse famiglie e subiscono pressioni per rinunciare alla nuova fede. Sovente devono fuggire dalle loro case per paura di essere uccisi".
La carneficina cristiana è così endemica in Nigeria che, solo di recente, il 13 aprile, Domenica delle Palme, 54 cristiani sono stati massacrati dopo le celebrazioni religiose in un solo villaggio. E per quanto grave sia la situazione in Nigeria, "purtroppo, altri cristiani sono stati uccisi fuori dalla Nigeria, molti in Paesi dell'Africa subsahariana come la Repubblica Democratica del Congo, il Burkina Faso, il Camerun e il Niger". Il report continua affermando:
"Diversi Paesi dell'Africa subsahariana hanno registrato un aumento della violenza contro i cristiani. Attualmente, 8 dei 10 luoghi con il più alto tasso di mortalità per i cristiani si trovano nell'Africa subsahariana, e tutti (tranne la Nigeria) hanno registrato più omicidi per motivi religiosi rispetto al periodo di riferimento della World Watch List del 2024".
Il Pakistan è all'ottavo posto:
"Le famigerate leggi sulla blasfemia in Pakistan vengono spesso utilizzate per colpire i gruppi minoritari. I cristiani ne sono colpiti in maniera spropositata. Circa un quarto di tutte le accuse di blasfemia riguarda i cristiani, che costituiscono solo l'1,8 per cento della popolazione. Tali leggi comportano la pena di morte. Sebbene questo genere di sentenze vengano raramente eseguite, le persone accusate di blasfemia sono vulnerabili agli attacchi o agli omicidi da parte della folla. Nel giugno 2024, un uomo anziano è stato ucciso da una folla dopo essere stato accusato di aver dissacrato il Corano. (...) Le chiese storiche (...) sono molto sorvegliate e spesso prese di mira con attentati dinamitardi. Il numero di ragazze cristiane (o appartenenti ad altre religioni minoritarie) rapite, abusate e forzate a convertirsi all'Islam (spesso con il supporto di alcuni tribunali) è in aumento. (...) Tutti i cristiani subiscono discriminazioni istituzionalizzate. Le occupazioni considerate umili, sporche e degradanti, come la pulizia delle fogne o il lavoro nelle fornaci di mattoni, sono riservate dalle autorità ai cristiani. Molti sono definiti "chura", un termine dispregiativo che significa sporco. I cristiani possono anche essere intrappolati in lavori forzati".
Al nono posto l'Iran:
"I convertiti dall'Islam al Cristianesimo non sono riconosciuti e affrontano gravi violazioni della libertà religiosa principalmente da parte del governo e, in misura minore, dalla società e dalle loro famiglie. Il governo considera questi convertiti una minaccia, credendo che siano influenzati dai Paesi occidentali per minare l'Islam e il regime. Sia i responsabili che i normali membri dei gruppi cristiani vengono spesso arrestati, perseguiti e condannati a lunghe pene detentive per 'crimini contro la sicurezza nazionale'. Le comunità storiche riconosciute, come i cristiani armeni e assiri, sono protette dallo Stato ma trattate come cittadini di seconda classe. Fanno fronte a numerose disposizioni legali discriminatorie e non possono celebrare il culto in persiano né interagire con i convertiti cristiani. Coloro che sostengono i convertiti possono anch'essi essere incarcerati".
L'Afghanistan si colloca al decimo posto:
"La maggior parte dei cristiani afghani sono convertiti dall'Islam; praticare apertamente la propria fede cristiana è sostanzialmente impossibile. In Afghanistan, abbandonare l'Islam (...) e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica. Applicazione sempre più rigorosa da quando i talebani hanno preso il controllo del Paese nel 2021. Se i convertiti vengono scoperti, la famiglia, il clan o la tribù potrebbero cercare di preservare il proprio 'onore' attuando pressioni, violenze o persino omicidi. Se la fede di un convertito viene scoperta dal governo una delle poche scelte è quella di cercare di fuggire. Le donne e le minoranze etniche subiscono pressioni aggiuntive, quindi i cristiani appartenenti a questi gruppi vivono sotto pressioni inimmaginabili".
Al 12mo posto l'Arabia Saudita:
"Diventare cristiani in Arabia Saudita è estremamente rischioso. Non solo è illegale abbandonare la fede islamica, ma i nuovi credenti affrontano anche una forte opposizione da parte delle loro famiglie e comunità. (...) Per questi motivi, la maggior parte dei cristiani sauditi tende a seguire la propria fede in modo silenzioso e segreto. Tale scelta può includere la decisione di non rivelare la propria fede nemmeno al coniuge o ai figli, per paura che i membri della famiglia allargata o il personale scolastico possano scoprire l'abbandono dell'Islam. Non esistono edifici o incontri di chiesa legali. (...) La maggior parte dei cristiani che vivono in Arabia Saudita è composta da lavoratori temporanei provenienti da altri Paesi. È loro vietato condividere la fede con i sauditi e le riunioni di culto sono limitate. Violare queste regole può comportare l'arresto e l'espulsione".
In particolare, i nove Paesi musulmani sopra elencati dove il grado di persecuzione è "estremo" sono diversi sotto molti aspetti: razziali, sociali, economici e governativi. Alcuni sono ricchi (Arabia Saudita), mentre altri sono incredibilmente poveri (Somalia); qualcuno è evoluto (Iran), mentre altri sono tutt'altro che evoluti (Yemen); sono rappresentati da una varietà di forme di governo (repubbliche, monarchie, teocrazie); e in essi figurano diverse etnie: arabi, africani subsahariani, pakistani, persiani e afghani. L'unico elemento comune, il denominatore comune, è l'Islam.
La diversità aumenta se si esamina la lista completa delle 50 nazioni, che include anche Paesi sinici e turchi, come Maldive (al 16mo posto), Uzbekistan (al 25mo), Turchia (al 45mo) e Brunei (al 48mo), che condividono poco in comune a parte l'Islam. Il Kirghizistan, che non entrava nella top 50 dal 2013, è rientrato prepotentemente al 47mo posto:
"C'è stato un netto aumento della violenza contro la Chiesa, molte chiese registrate e istituzioni cristiane sono state costrette a chiudere e la pressione sui cristiani è aumentata in quasi tutti gli ambiti della vita".
Al di fuori del mondo musulmano, tuttavia, l'ostilità verso il Cristianesimo è di fatto diventata una pandemia. Come osserva il rapporto:
"Diversi Paesi presenti nella World Watch List hanno registrato un aumento della violenza anticristiana. Sebbene i contesti fossero differenti: Stati autocratici rigidamente controllati o Paesi instabili a causa di governi deboli o guerre civili, il risultato è stato lo stesso, prendere di mira le comunità cristiane, distruggere vite, case e chiese, e fare ingenti pressioni sui credenti".
L'aumento del nazionalismo indù ha reso l'India (all'11mo posto) un focolaio di persecuzioni:
"In India, gli estremisti indù considerano tutti i cristiani come estranei e mirano a purificare la nazione da Islam e Cristianesimo, spesso utilizzando violenza estrema. Tale ostilità è spesso alimentata dall'Hindutva, una corrente del nazionalismo indù secondo la quale gli indiani debbano essere induisti e che nessun'altra fede possa essere tollerata. Questa mentalità è stata causa di violenti attacchi in tutto il Paese e ha prodotto impunità per coloro che li perpetrano, specialmente nei luoghi in cui anche le autorità sono sostenitori dell'induismo radicale. In tali aree, i cristiani che frequentano chiese domestiche rischiano attacchi da parte di folle estremiste che prendono di mira i servizi religiosi. Inoltre, 12 Stati hanno approvato leggi anti-conversione, che minacciano la libertà religiosa individuale dei credenti".
Anche nel buddista Myanmar ( che occupa il 13mo posto), l'ultima nazione a rientrare nella top 13 dei Paesi con il più alto tasso di persecuzione, i cristiani subiscono livelli "estremi" di persecuzione:
"Dal colpo di Stato militare del febbraio 2021, i cristiani hanno incontrato maggiore violenza e maggiori restrizioni. Credenti sono stati uccisi e chiese attaccate in maniera indiscriminata. Eventi accaduti anche negli Stati con la maggiore presenza cristiana, come Chin, Kayah e Kachin, e in regioni con minoranze cristiane significative, tra cui le regioni di Sagaing, Yagon e Irrawaddy. Più cristiani che mai sono stati cacciati dalle proprie abitazioni e hanno trovato rifugio presso chiese o campi per sfollati. Alcuni sono stati costretti a nascondersi nella giungla, dove spesso vengono privati del cibo e delle cure mediche. Le forze governative hanno continuato ad attaccare in modo sproporzionato villaggi e chiese cristiane. Hanno anche ucciso operatori umanitari e pastori cristiani, durante attacchi aerei. Al di là del conflitto, i convertiti al Cristianesimo si trovano perseguitati dalle loro famiglie e comunità buddiste, musulmane o tribali perché hanno abbandonato la loro precedente fede. Le comunità che mirano a rimanere 'solo buddisti' rendono la vita impossibile alle famiglie cristiane".
Anche in nazioni che sembrerebbero amichevoli o almeno neutrali nei confronti del Cristianesimo, come Cuba, Nicaragua e Messico, i cristiani vengono abusati per la loro fede da una serie di attori e per svariate ragioni.
Nella Cuba comunista (al 26mo posto):
"I leader e gli attivisti cristiani che denunciano il regime possono essere interrogati, arrestati e imprigionati. Subiscono anche campagne di diffamazione, restrizioni ai viaggi e molestie (che possono includere violenza fisica sulle persone e danni agli edifici delle chiese)".
Sebbene non comunista, in Nicaragua (al 30mo posto):
"L'ostilità verso i cristiani continua a intensificarsi: coloro che si oppongono al presidente Ortega e al suo governo sono considerati come agenti destabilizzanti. (...) Leader cristiani sono stati molestati e arrestati, proprietà cristiane sequestrate, scuole, stazioni TV e associazioni caritatevoli cristiane chiuse, mentre le chiese sono monitorate e intimidite".
In Messico (al 31mo posto), i cartelli della droga prendono di mira i cristiani, soprattutto se si esprimono contro le loro attività o cercano di allontanare i giovani da loro; nel sud del Messico, soprattutto "in alcune comunità indigene, chi decide di abbandonare le credenze ancestrali per seguire Gesù affronta ostracismo, multe, incarcerazione e dislocamenti forzati".
Forse la tendenza più preoccupante è che la persecuzione dei cristiani continua a crescere ogni anno, ed è quasi raddoppiata dal 1993, anno in cui la WWL fu pubblicata per la prima volta. All'epoca, solo 40 Paesi ottennero punteggi sufficientemente alti da giustificare un monitoraggio adeguato. Oggi, quasi il doppio di quel numero si qualifica, sebbene la lista comprenda solo i primi 50.
Quanto tempo ci vorrà prima che questa tendenza in corso si metastatizzi anche in quelle nazioni occidentali un tempo osannate per le loro libertà religiose?

(Gatestone Institute, 18 luglio 2025 - trad. di Angelita La Spada)

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«Le sanzioni all’Albanese sono fondate sulla legge» 

L’esperto di diritto internazionale: «Gli Stati Uniti sono tenuti a tutelare le loro imprese dalle iniziative ostili».

di Claudia Osmetti

David Elber è una di quelle persone abituate a usare le parole con la precisione chirurgica di chi sa che anche una virgola fa la differenza. Ha la formazione di uno storico, la preparazione di un ricercatore e la puntualità di un analista che prima valuta, s’informa e poi parla. Da anni si occupa di antisemitismo, è coautore del recentissimo Ritorno a Sion: breve storia dello Stato di Israele dalle origini a oggi (Marcianum press) ed è un esperto di diritto internazionale.

- Dottor Elber, si sente ripetere che le sanzioni Usa verso Francesca Albanese vìolino il diritto internazionale. È così?
«É una falsità. Non esiste un trattato che precluda a uno Stato di imporre sanzioni a società o organizzazioni o anche individui. Non si può neanche invocare il diritto all’immunità, altra cosa che è stata sollevata, non essendo Albanese un funzionario dell’Onu».

- Cosa ha mosso gli Stati Uniti?
«Albanese ha accusato e ha ventilato l’ipotesi di prendere provvedimenti non solo verso Israele ma anche verso realtà statunitensi come alcune compagnie legate al ministero della Difesa americana. Le dico di più. Questa sanzione si avvale di una legge statunitense del 2002».


- Ben prima dell’era trumpiana...
«Esatto. Si tratta dell’American service members protection act, è riferita in modo specifico al Tribunale penale internazionale e prevede, da 23 anni, cioè non da questa amministrazione, la possibilità di prendere provvedimenti anche di carattere sanzionatorio».

- Senta, ma di cosa parliamo quando parliamo di diritto internazionale? Perché a me sembra che sia l’utile giustificazione di chi accusa Gerusalemme e basta. Israele-viola-il-diritto-internazionale, Netanyahu-è-un-criminale-di-guerra: in concreto, cosa vuol dire?
«Niente. Si tratta di una falsa accusa che si smonta velocemente proprio nei termini che indica lei: chi la lancia non cita mai a quale diritto internazionale si riferisce. A quale legge? A quale articolo? A quale trattato? Lo fa sempre in modo generale».


- Mi viene in mente Laura Boldrini, un mese fa, a Rafah ,che impartiva lezioni sul diritto umanitario...
«È la stessa cosa. Il diritto umanitario è un’alterazione semantica delle leggi di guerra che già esistevano. Non è mai stato codificato».

- Faccio l’avvocato del diavolo. Va bene in punta di diritto, ma nella realtà di un conflitto come si coniuga?
«La verità è che il diritto internazionale e il diritto umanitario vengono invocati soltanto quando c’è di mezzo Israele. In Crimea, nelle mille guerre di cui non ci si occupa nessuno li ricorda».

- La Corte penale internazionale ha ribadito la procedibilità delle accuse a Netanyahu. Cosa ne pensa?
«A proposito delle violazione del diritto internazionale...».

- In che senso?
«Israele non fa parte della Convenzione di Roma con cui è stato istituito il Tribunale penale internazionale. Che di conseguenza non ha nessuna autorità, non può decidere mandati di arresto sulle autorità israeliane».

- E dei tre membri della Commissione d’inchiesta permanente alle Nazioni unite che si sono dimessi in questi giorni?
«Me lo lasci dire: quella Commissione è un altro obbrobrio che non ha giustificazione nel diritto internazionale. La sua presenza afferma che Israele, per il Consiglio per i diritti umani, è ontologicamente criminale. Ma il discorso diventa complesso».

- Perché?
«Pensi a chi fa parte di questo Consiglio: è composto da 47 Paesi che vengono nominati ogni tre anni, caso strano son sempre gli stessi. Israele non ha mai fatto parte del Consiglio per i diritti umani, come non ha mai fatto parte del Consiglio di sicurezza o di tantissime altre commissioni. Nessun israeliano ha mai fatto parte della Corte di giustizia internazionale, se vogliamo dirla tutta. Accusano Israele di apartheid, è all’Onu che c’è l’apartheid».

- Il diritto internazionale, il 7 ottobre del 2023, dov’era?
«Non esisteva per tante figure all’Onu che dicono che essendo Hamas un’organizzazione terroristica, definizione che viene usata solo quando fa comodo, Israele non possa invocare l’articolo 51 della Carta dell’Onu per autodifesa. Cosa che è una balla clamorosa».

- Come mai?
«In quell’articolo non c’è alcuna specifica sulla natura dell’aggressore. Si dice, semmai, che lo Stato aggredito, può difendersi. È quello che è successo dopo l’11 settembre del 2001 quando non una ma almeno due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza hanno ribadito il concetto. Com’è che quando c’entra Israele tutto questo non vale più?».

Libero, 18 luglio 2025)

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Musicista cesenate: "Compongo per gli ebrei"

Il cesenate Davide Caprelli ha realizzato la colonna sonora per un cartone animato dedicato ai bambini nei lager vittime degli esperimenti di Mengele.

di Raffaella Candoli

Dopo la composizione di musiche per il teatro, di colonne sonore per il cinema, per documentari e sigle televisive, con riconoscimenti di rilievo in Italia e all’estero, Davide Caprelli, accompagna con le sue creazioni anche un cartone animato di recente produzione.
Il versatile compositore cesenate, insegnante di scuola superiore, laureato in pianoforte al Conservatorio Maderna, è stato infatti chiamato dal centro i produzione video e cinematografica Larcadarte di Palermo, a realizzare la soundtrack di "Storia di Sergio". Si tratta di un toccante film di animazione per la regia di Rosalba Vitellaro, tratto dal libro delle sorelle Andra e Tatiana Bucci (sopravvissute alla Shoah), e della scrittrice e giornalista Alessandra Viola, pubblicato da Rizzoli, che racconta la storia di venti bambini ebrei vittime degli esperimenti di Josef Mengele, tra cui appunto Sergio, che durante le persecuzioni razziali della seconda guerra mondiale, fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz.
Unico bimbo italiano tra tanti piccoli sfortunati cui toccò la medesima sorte, Sergio De Simone, a sei anni fu separato dalla famiglia e alloggiato in un kinderblok, una delle baracche riservate ai bambini usati per gli esperimenti medici dei nazisti, in quel caso per "studiare" gli effetti della tubercolosi e poi barbaramente impiccati.
Il cartoon ’Storia di Sergio’ segue ’La stella di Andra e Tati’, il primo film di animazione europeo a narrare la tragedia dei campi di concentramento. "Le sorelle Bucci – ha dichiarato Mario De Simone, fratello di Sergio, nato dopo la guerra – sono instancabili, ed io con loro, nella volontà di onorare la memoria e mantenere vivo il ricordo di Sergio, al cui nome è dedicata una Fondazione. Oggi più che mai con le loro testimonianze intendono contrastare la diffusione, soprattutto tra i giovani, di ideologie e comportamenti ispirati ai tragici eventi dell’ultimo conflitto mondiale, promuovendo la memoria storica e i valori della Costituzione democratica".
"La soundtrack – dice dal canto suo Caprelli -, è il frutto di una lunga gestazione; raccontare la sofferenza dei bambini è uno dei temi più complessi da affrontare, sia a parole che in musica. Ho cercato un tema che potesse unire la speranza di questi bambini di incontrare nuovamente le loro madri, così in modo ingannevole era stato loro detto, e la malvagità di questa terribile bugia che doveva indurli a salire sul treno, mentre invece sarebbero andati incontro a sofferenze e alla morte. La musica del film è disponibile sui principali store digitali di musica".

(il Resto del Carlino, 18 luglio 2025)

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Pinechàs. La vera leadership continua anche dopo la fine dell’incarico

di Ishai Richetti

Nella Parashà di Pinchas, che leggeremo questo Shabbat, assistiamo ad un momento storico e decisivo, il momento in cui D-o informa Moshè della fine del suo ruolo. Moshè, il primo leader del popolo d’Israele, che liberò il popolo dalla schiavitù in Egitto, che fece da mediatore tra D-o e il popolo nell’evento unico dell’Apocalisse sul Monte Sinai e che lo guidò nel deserto per 40 anni, riceve il seguente messaggio: “Sali su questo monte di Avarim e contempla la terra che Ho dato ai figli d’Israele. Dopo averla vista, anche tu sarai riunito al tuo popolo, come fu riunito tuo fratello Aharon” (Bamidbar 27:12-13). Come detto, D-o attraverso queste parole informa Moshè: il tuo ruolo è terminato. Hai guidato il popolo fedelmente per gli ultimi 40 anni e ora, poco prima che il popolo raggiunga la sua destinazione ed entri nella Terra d’Israele, sei chiamato a farti da parte. Ti è data l’opportunità di vedere la terra da lontano, dal Monte Avarim, dal Monte Nevò, ma non ci potrai entrare.
Possiamo concludere da questo versetto che Moshè abbia fallito nel suo ruolo? Che abbia intrapreso un lungo viaggio ma non abbia raggiunto la destinazione? Che il viaggio di Moshè sia stato vano?
Potremmo giudicare la storia di Moshè in questo modo se Moshè, ricevuto questo comandamento, avesse reagito con rabbia o con un senso di opportunità persa. Se questa fosse stata la reazione di Moshè, potremmo in effetti concludere che sì, a suo avviso, si sia trattato di un fallimento. Ma Moshè risponde diversamente. Chiede a D-o che il popolo non rimanga senza guida usando delle espressioni particolari e degne di essere approfondite: “Il Signore, il D-o degli spiriti di ogni essere vivente, costituisca a guida della comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nell’entrare, li faccia uscire e li faccia rientrare, perché la comunità del Signore non sia come un gregge senza pastore” (Bamidbar 27:16-17). Questo versetto dimostra come Moshè non considerava la fine del suo ruolo un fallimento. Moshè comprese di trovarsi di fronte a una sfida su come reagire all’annuncio di cui D-o lo aveva informato. Avrebbe potuto concentrarsi sulla sua storia personale, rimanere deluso per il fatto di non poter entrare nella Terra d’Israele, sentirsi offeso, umiliato, piangere o discutere. Ma Moshè non fece nulla di tutto ciò. Scelse di concentrarsi sulla storia del popolo. Sentiva di avere la responsabilità di guidare il popolo, e questa responsabilità non lo abbandonò nemmeno per un istante. Certo, avrebbe presto cessato il suo ruolo di leader, e questo avrebbe potuto essere deludente e molto triste, ma al momento era ancora al suo posto, ed era sua precisa responsabilità garantire che il popolo non rimanesse “come pecore senza pastore”.
La conclusione del ruolo di Moshè come leader del popolo ebraico non fu un fallimento, ma bensì la conquista di un’altra vetta. Tramite le sue azioni e tramite le sue parole, Moshè dimostrò di aver svolto il suo ruolo nel miglior modo possibile, con totale fedeltà e dedizione, ignorando la sua storia personale e concentrandosi sull’aspetto della guida del popolo, sulla leadership, sul bisogno collettivo. Come descritto dai Chachamim nel Midrash: “Per far conoscere la lode dei giusti, affinché, quando se ne vanno, mettano da parte i propri bisogni e si dedichino al bisogno del pubblico” (Sifri Numeri 138).
Dalle parole che usa Moshè, inoltre, possiamo comprendere come egli concepisse il suo ruolo. Quando descrive le sue aspettative sul prossimo leader, dice: “…chi uscirà e entrerà prima di loro, chi li condurrà fuori e chi li introdurrà”. Cosa significa?
I Chachamim del Midrash interpretano la prima parte della frase come segue: “Non come fanno gli altri leader, che mandano le loro truppe e arrivano alla fine, ma… ‘chi uscirà e entrerà prima di loro’ – in prima linea, ‘chi uscirà e entrerà prima di loro’ – in prima linea” (Sifri Bamidbar 139). L’esempio personale è il modo per guidare il popolo. E cosa significa il seguito della frase “e chi li condurrà fuori e chi li introdurrà”? Non sempre l’esempio personale ma distaccato è sufficiente. Il leader non può sperare che il pubblico lo segua solo con il suo esempio personale. Il leader ha la responsabilità di garantire che, effettivamente, il pubblico lo segua. Il leader deve essere non solo “davanti al popolo”, ma anche “con il popolo”, deve essere lì con loro, vicino.
Rav Hirsch, commentando le parole “Il Signore, il D-o degli spiriti di ogni essere vivente” scrive che lo stesso D-o che dà origine a ogni spirito che entra nel suo corrispondente involucro terreno, è D-o che assegna l’anima, lo spirito, a ciascuna persona, ogni essere vivente. «Poiché da Me», dice Isaia. 57, 16, “lo spirito entra nel suo guscio, e Io ho formato le anime“, Rabbì Eliezer aggiunge tuttavia: tieni presente questo: finché all’uomo è data la vita, la sua anima è preservata nella mano del suo Creatore e Proprietario, poiché è detto: nella cui mano è l’anima di ogni essere vivente. Se è morto, sarà custodito tra i tesori di D-o, poiché è detto: la tua anima sarà custodita nel tesoro della vita. Secondo questo, D-o è duplice: è Colui attraverso il quale lo spirito diventa carne in ogni carne, ed è Colui attraverso il quale lo spirito rimane in ogni carne. Egli invia lo spirito nel corpo terreno e, finché lo spirito rimane in questa connessione terrena, lo mantiene in questa connessione, proteggendolo, rafforzandolo e nutrendolo con talento e progresso, ed è quindi personalmente vicino a ogni spirito nella vita terrena per questa vita terrena in una modalità molto più grande di quando, dopo il suo pellegrinaggio terreno, l’anima è preservata nel “patto della vita” con tutte le altre anime raccolte per un nuovo futuro. Una verità che Rabbì Eliezer considerava così significativa e importante per la nostra coscienza qui sulla terra, da esortarci a tenerla sempre presente come punto di riferimento per il nostro cammino della nostra vita.
Ne consegue che D-o, in quanto Colui che essendo in ogni dove risiede nella terra d’Israele, conosce e sovrintende a tutti gli spiriti da Lui inviati nei corpi terreni, sa come trovare l’uomo adatto a succedere a Moshè; Può nominarlo. Anche se non c’è più bisogno di Mosè e di Aharon, c’è ancora bisogno di un uomo che realizzi il compito divino che ora sta giungendo a compimento, l’entrata del popolo di Israele nella terra promessa.
Questa invocazione di Moshè, oltre a dimostrare ancora una volta quanto fosse un grandissimo leader ineguagliato nella storia, l’unico meritevole del dono della profezia “faccia a faccia con D-o”, cela anche un’esortazione ed un insegnamento per tutti noi. D-o, creatore del mondo, e, come dice Moshè, che assegna gli spiriti in ogni essere vivente, sa benissimo chi possa essere capace e degno di essere leader e chi possa guidare il popolo. Tuttavia, proprio per questa Sua immensa conoscenza, D-o sa anche di cosa è capace ogni anima e di come, potenzialmente, ogni anima abbia la capacità di elevarsi, di mettere in campo le peculiarità della persona cui è stata assegnata. Non occorre essere leader per dare il meglio di noi stessi, non occorre essere leader per migliorarci, non occorre essere leader per ispirare il prossimo con il buon esempio e con la condotta corretta, guidata dai valori ebraici della Torà e delle mitzvot. Il vero influencer, non è colui che ha centinaia di migliaia se non milioni di seguaci (o di like), ma è colui che attraverso il suo buon esempio ispira anche qualche centinaio di persone, o anche qualche decina o anche meno. Attraverso un circolo virtuoso, questa persona sarà capace, a catena, di creare una rete di positività, di luce, di benessere che potrà influenzare a sua volta la società e la comunità in cui vive.

(Kolòt - Morashà, 18 luglio 2025)

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E’stato il nostro 7ottobre”, dicono i drusi che chiedono aiuto a Israele

di Micol Flammini

Sono rari i momenti in cui la politica israeliana si unisce e ieri è stato uno di questi, con una tempistica ancora più inaspettata visto che il governo ha perso la maggioranza in Parlamento per l’uscita dei partiti ultraortodossi contrari alla leva per gli studenti haredim. In mattinata il ministro della Difesa Israel Katz aveva annunciato di aver ordinato all’esercito di attaccare gli uomini e le armi del regime siriano. Prima che parlasse, il suo predecessore, Yoav Gallant, aveva scritto su X che il governo israeliano non stava facendo abbastanza per i drusi. Poi sono arrivati gli attacchi israeliani contro Damasco, al Sharaa si è dovuto nascondere, ricordando la fuga della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Khamenei, che vive tuttora nascosto per paura di essere scovato dagli israeliani. Dalla maggioranza all’opposizione, tutti in Israele hanno condiviso l’azione a sostegno dei drusi, il leader del Partito democratico israeliano, contrario al protrarsi della guerra nella Striscia di Gaza, ieri ha mostrato i colori della bandiera dei drusi per testimoniare la solidarietà con la minoranza in Siria. Se da Suwayda i drusi hanno iniziato a fuggire, ieri dal confine tra Israele e Siria circa mille drusi, tra coloro che vivono nel territorio israeliano, sono partiti per andare a difendere le loro famiglie minacciate dal regime siriano. I legami da una parte all’altra del confine sono stretti, sono famigliari, e nonostante l’appello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a tornare indietro, chi ha varcato il confine ha continuato a marciare. Chi è rimasto in Israele ha cercato di contattare parenti e amici a Suwayda: “Mi hanno raccontato della violenza, della caccia all’uomo. E’ stato un 7 ottobre per noi”, racconta Khalifa Khalifa, druso, analista esperto di medio oriente, ex consigliere dell’esercito israeliano. Al telefono Khalifa continua a ringraziare Israele per essere l’unico stato democratico a non essersi lasciato abbindolare dai cambiamenti cosmetici di al Sharaa. L’analista ritiene che solo Tsahal sia disposto ad aiutare i drusi, l’unico capace di capire la Siria. Altri analisti sono invece scettici e credono che gli attacchi al centro di Damasco possano creare una divisione profonda e pericolosa tra la popolazione siriana e Israele.
   Israele si sente il demiurgo dei cambiamenti dentro al territorio siriano: la caduta di Bashar el Assad non sarebbe stata possibile senza la guerra di Tsahal contro Hezbollah in Libano. Se il gruppo libanese armato e finanziato dall’Iran non fosse stato decimato da Israele, al Sharaa non avrebbe potuto compiere la sua marcia sbaragliando l’esercito siriano per nulla pronto a combattere. Damasco è passata da un regime all’altro e Israele vuole dettare le regole al nuovo arrivato, e ha continuato a compiere azioni militari dentro al territorio siriano per due motivi: spogliare i nuovi gruppi armati degli arsenali del regime di Assad e far capire che qualsiasi sgarro militare sarebbe stato punito. Israele vuole che il sud della Siria sia demilitarizzato, vuole tenere gli uomini di Sharaa lontani dai suoi confini e ieri colpendo luoghi molto significativi di Damasco ha dimostrato di essere disposto ad arrivare ovunque e a usare ogni mezzo. “Questo è l’unico modo per evitare la pulizia etnica contro i drusi”, commenta Khalifa.
   Dopo il 7 ottobre Israele ha cambiato il suo principio di azione: non aspetta le minacce, le previene e così si sta comportando in Siria, un paese con cui gli Stati Uniti spingono per la normalizzazione dei rapporti, a cui non tiene soltanto Donald Trump, ma anche il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che ha ospitato nel suo palazzo l’incontro storico tra il presidente americano e il nuovo autoproclamato presidente siriano. Per Trump la normalizzazione è tanto importante da aver deciso di togliere le sanzioni alla Siria, senza imporre filtri. “Trump ha fretta e non si rende conto che la spina dorsale di questo governo è fatta di jihadisti che aspettano soltanto che cali l’attenzione per togliersi la giacca e la cravatta, gli abiti di scena, e continuare i massacri contro tutte le minoranze”, dice Khalifa, convinto che le tenebre sulla Siria saranno un problema anche per Israele, non soltanto per i drusi di Suwayda che si rifiutano di cedere le armi all’esercito centrale di al Sharaa. Per bloccare lo scontro tra Israele e Siria, gli Stati Uniti si sono mossi subito, chiedendo a Tsahal di fermarsi e all’esercito siriano di ritirare le forze da Suwayda. Washington si aspetta che, dopo il cessate il fuoco tra drusi e Damasco, la tensione diminuisca, ma come con la guerra contro Teheran, non è detto che Israele ascolti l’Amministrazione americana.

Il Foglio, 17 luglio 2025)

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Israele interviene in difesa dei drusi siriani

di Ugo Volli

L’attacco siriano ai Drusi
  Un nuovo focolaio di guerra si è aperto ai confini di Israele, in Siria, e sta progressivamente coinvolgendo le forze israeliane. Si tratta dell’attacco che prima beduini e irregolari sunniti talvolta coi simboli dell’Isis (il sanguinoso “Stato Islamico” che dieci anni fa occupava buona parte della Siria e dell’Iraq), poi direttamente l’esercito siriano, stanno portando ai drusi. L’attacco mira particolarmente la città drusa più importante, Suwadya, che si trova a sudest di Damasco, un centinaio di chilometri a est del Golan, vicino al territorio del confine con la Giordania, ma si espande anche agli altri villaggi drusi sparsi in tutta la Siria meridionale. Durante l’invasione sono state documentate numerose atrocità, con un centinaio di morti. Durante la giornata di ieri, il governo israeliano ha accolto gli appelli provenienti dai dignitari drusi sia in Siria sia in Israele e ha prima mandato messaggi al dittatore siriano Ahmad al-Shara (detto al-Jolani) chiarendo che non avrebbe sopportato che i drusi fossero molestati e che la zona meridionale della Siria doveva restare demilitarizzata. In seguito ha iniziato ad attaccare con bombardamenti aerei le truppe siriane e beduine che cercavano di conquistare Suwayda. Non avendo ottenuto risposte soddisfacenti, ha portato la minaccia sulla capitale Damasco, all’inizio colpendo solo in maniera simbolica alcuni luoghi del potere e poi bombardando il ministero della difesa e il palazzo presidenziale. Dato che durante la presa del potere di Al-Shara l’esercito israeliano ha lavorato per eliminare razzi, antiaerea e aviazione siriana, Israele non ha problemi ad approfondire l’offensiva anche, se ve ne sarà bisogno, facendo passare il confine alle truppe che sta spostando sul Golan.

Una minoranza abituata alle persecuzioni
  I drusi nascono come eresia dell’Islam sciita in Egitto circa mille anni fa. In seguito la loro religione si è decisamente staccata dall’Islam, accogliendo elementi ebraici, cristiani, perfino induisti; il suo contenuto è noto solo superficialmente dagli stessi drusi, perché mantenuto segreto salvo che a pochi iniziati. Perseguitati da subito e per tutto il corso della loro storia, obbligati a frequenti migrazioni nel Medio Oriente, spesso costretti alla clandestinità, rifugiati sulle montagne della Siria, del Libano, della Giordania e di Israele (sul Carmelo, in Galilea e sul Golan), eccellenti guerrieri, i drusi sono ormai più un popolo che solo una religione, anche se etnicamente arabi. Oggi sono circa un milione in tutto, mantengono in generale la politica di essere fedeli allo Stato cui appartengono, finché questo sussiste e ne rispetta i diritti. Per esempio, i drusi israeliani, a differenza degli altri arabi, fanno il servizio militare e spesso si arruolano nei corpi d’élite e raggiungono posizioni di responsabilità; ma quelli del Golan fino alla guerra civile sono rimasti fedeli alla Siria.

Perché sono attaccati
  Anche se immediatamente accettato dalla comunità internazionale quando ha sostituito l’impresentabile regime degli Assad, il governo di Ahmad al-Shara è tutt’altro che rassicurante. Il suo capo e molti quadri sono ex combattenti dell’Isis sostenuti dalla Turchia e sotto i decorosi abiti occidentali e le dichiarazioni pacifiche molti intravvedono una nuova forma della jihad islamista, intollerante di chiunque non appartenga all’Islam sunnita: insomma una minaccia dissimulata di lungo periodo. Poco dopo essere andati al potere e aver ottenuto lo scioglimento delle organizzazioni di autodifesa delle varie comunità della Siria, le milizie di Ahmad al-Shara attaccarono con estrema violenza gli insediamenti alawuiti (una variante degli sciiti, gruppo minoritario insediato sulla costa del Mediterraneo nel nordovest della Siria, cui apparteneva la famiglia Assad), facendo stragi tali da distruggere in sostanza queste comunità. Le persecuzioni ai danni di quel che resta dei cristiani in Siria sono state numerose, anche in questi ultimi giorni; ora è la volta degli Drusi, assaliti dalle stesse truppe e con le stesse modalità degli alawiti. Dopo di loro, se il progetto di distruggere le minoranze e di unificare religiosamente ed etnicamente il paese con la forza non sarà fermato, probabilmente toccherà ai curdi, stanziati nel nordest del paese. Non a caso essi hanno già proclamato la loro alleanza coi drusi e chiesto alleanza a Israele.

Perché Israele li difende
  Vi sono due ragioni dell’intervento israeliano, che è stato rapido e deciso, nonostante le trattative semi-segrete in corso per la normalizzazione col regime siriano, fortemente sponsorizzare dall’amministrazione Trump. La prima è il legame con i drusi israeliani, che sempre sono stati fedeli allo Stato ebraico (e anche i caduti militari drusi a Gaza sono stati parecchi). Essi richiedono con forza a Israele un intervento e in folti gruppi i loro giovani addestrati da Israele hanno già attraversato la frontiera per combattere a fianco dei loro “fratelli”. La seconda e principale è che Israele non vuole avere ai propri confini forze jihadiste che potrebbero prima o poi tentare aggressioni anche in stile 7 ottobre. La zona autonoma drusa è dunque un importante cuscinetto di sicurezza, che il regime siriano sta cercando di cancellare. Al-Shara si era impegnato coi drusi a mantenerla e il fatto che alla prima occasione abbia violato gli impegni presi (o non sia stato in grado di tenere sotto controllo i propri miliziani, secondo un’interpretazione più benevola) è un campanello d’allarme per Israele. L’operazione in corso dunque difende non solo la sopravvivenza di un gruppo vicino allo Stato ebraico minacciato di genocidio, ma costituisce anche un segnale molto preciso a chi (per esempio la Turchia) pensasse di iniziare un nuovo periodo di minacce e di logoramento di Israele: la nuova carta geografica del Medio Oriente che Israele sta costruendo non deve contenere minacce del genere.

(Shalom, 17 luglio 2025)

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Il report che incastra gli uomini dell'Anp Partecipano al terrorismo contro Israele

Il rapporto del Palestinian Media Watch fa luce sul ruolo delle Forze di sicurezza dell'Autorità palestinese Molti alti ufficiali hanno compiti di comando nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e glorificano i terroristi.

di Davide Romano

Quando si parla di Medio Oriente, l'ideologia prevale sempre rispetto alla realtà sul campo. Tutti sanno che, se in questi decenni ci fossero state elezioni in Cisgiordania, le avrebbe vinte Hamas a causa della corruzione della Anp. Ciononostante, ancora oggi le grandi istituzioni internazionali puntano a lasciare Gaza nelle mani del corrottissimo Abu Mazen, invece di puntare sull'autogoverno delle famiglie e dei clan palestinesi secondo le loro tradizioni. Follia pura. Il mondo intero pervicacemente dimentica che l'Autorità palestinese non solo è corrotta, ma fomenta il terrorismo. A questo proposito, è appena uscito il rapporto del Palestinian Media Watch di Itamar Marcus, che documenta come le Forze di sicurezza dell'Autorità palestinese (Pasf), finanziate dall'Occidente, non solo falliscono nel combattere il terrorismo ma partecipano attivamente ad esso. Diversi alti ufficiali Pasf ricoprono infatti contemporaneamente ruoli di comando nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, organizzazione terroristica internazionalmente riconosciuta.
   Il documento presenta casi emblematici di questa ambiguità. Il 1 ° maggio 2025 il terrorista Pasf Naji Arrar, rilasciato dopo 18 anni di carcere, è stato accolto con una cerimonia ufficiale dalle Pasf in uniforme. Il governatore di Ramallah, Laila Ghannam, ha pubblicamente posato per delle foto con il terrorista.
   Le Pasf non solo onorano i terroristi al rilascio, ma li sostengono economicamente durante la detenzione. Il Maggiore Generale Majed Faraj, capo dell'Intelligence generale PA, ha ordinato pagamenti speciali alle famiglie di 28 "martiri" e 10 prigionieri Pasf nel marzo 2025, definendo i terroristi "i più onorevoli" e "supremi". Il Brigadiere Generale Anwar Rajab, attuale portavoce Pasf, ha scritto nel 2023 che "i membri delle Forze di sicurezza sono sempre stati sui campi di battaglia, molti cadono come martiri e riempiono le prigioni israeliane".
   La partecipazione di membri Pasf in operazioni terroristiche è la norma. Le statistiche pubblicate da Fatah mostrano che oltre il 65% dei "martiri" in Cisgiordania è membro del movimento politico e delle Forze di sicurezza. Il rapporto documenta come PA e Fatah producano poster e banner celebrativi per onorare i membri Pasf morti combattendo Israele. Nell'agosto 2023 Fatah ha pubblicato un poster con 30 "Martiri delle Forze di sicurezza palestinesi", di cui 23 identificati come terroristi. Fatah esalta apertamente il doppio ruolo con lo slogan: "Di giorno Forze di sicurezza, di notte combattenti che si sacrificano".
   Il rapporto conclude che le Pasf sono dunque "profondamente e fondamentalmente coinvolte nel terrorismo". Tutto questo non è condannato dall'Autorità palestinese o da Fatah, ma glorificato come parte essenziale ed eroica del loro ruolo. I terroristi-ufficiali non sono emarginati, ma onorati con funerali militari quando uccisi e accolti come eroi quando rilasciati. L'idea di far governare l'Autorità palestinese anche su Gaza non è dunque solo folle, ma pericolosa per chiunque volesse la pace in quella martoriata terra. È pazzesco vedere quante istituzioni internazionali puntino ancora sui terroristi palestinesi per cercare la pace. L'epoca dell'Olp, di Hamas e degli altri gruppi che rappresentano il peggio della società palestinese deve finire. È tempo di voltare pagina e lasciare i palestinesi liberi di governarsi da soli, non più oppressi da movimenti totalitari e terroristi calati dall'alto. Mai come oggi siamo a un passo dal far nascere un nuovo Medio Oriente dove a governare sia chi conta le teste, non chi le taglia.

(Il Riformista, 17 luglio 2025)

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Il peso dei clan arabi in Cisgiordania e a Gaza, Chorev: “La pace con Israele è già realtà” ma Hamas rema contro

Da anni lo Stato ebraico ha un’intesa pacifica con le comunità arabe della Samaria e della Giudea. Il ricercatore: “Coordinamento perfetto con la leadership degli insediamenti”.

di Andrea B. Nardi

Il dottor Harel Chorev è ricercatore senior, storico esperto dei territori arabi in Cisgiordania (Samaria e Giudea) e in particolare dei clan, specie del clan Jabari, retto dallo Sceicco Wadee’ al-Jaabari, detto Abu Sanad, che di recente ha proposto di riconoscere Israele e instaurare rapporti pacifici.

- Che ne pensa della proposta dello Sceicco Jaabari di riconoscere lo Stato di Israele e di instaurare rapporti di pace?
  «Penso che non si tratti di riconoscere Israele. La cosa importante è che lo Sceicco e i suoi colleghi capoclan, in quattro, stiano offrendo una pace che già esiste con Israele in Cisgiordania, ossia Samaria e Giudea. Israele da tempo è perfettamente coordinata con la leadership degli insediamenti arabi e con persone con cui hanno rapporti di lunga data. Non è una cosa di ieri. Questa famiglia ha avuto una lunga tradizione di legami con Israele. Anche se ogni tanto ci sono terroristi, Hamas, o cose simili che compiono attentati terroristici. Ma in generale, direi che hanno un rapporto speciale con Israele. La vera questione è: ha qualche possibilità di funzionare? E la mia risposta è probabilmente no, perché significherebbe che gli arabi dei territori stanno rinunciando alla loro identità “palestinese”, al loro sentimento nazionale, e non vedo come possa funzionare. Ma lasciamo stare i termini di sentimenti e identità; dal punto di vista pratico, invece, questi clan non possono resistere a un movimento nazionale di massa, che sia Hamas, o Fatah o l’Autorità Palestinese: Fatah domina totalmente l’Anp. I clan non hanno alcuna possibilità contro di esso. Quindi non vedo la possibilità che la cosa maturi. E devo anche dire che nel 2011, e nel 2012, gli stessi clan hanno offerto più o meno la stessa cosa e non ha funzionato allora. Non credo che funzionerà adesso».

- Che ruolo hanno i clan e gli sceicchi nella popolazione della Cisgiordania? Anche a Gaza hanno lo stesso ruolo?
  «I clan sono l’unità sociale di base sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza; sono molto importanti nella politica locale, ma anche in ogni aspetto della vita, nel benessere economico, nel matrimonio e così via. Di solito gli occidentali non sono consapevoli della loro importanza, e quindi vedono i movimenti politici come se fossero tutto, ma la verità è che ogni cosa nella vita dell’individuo è gestita dalla sua famiglia allargata, o clan o hamula, in arabo».

- I clan sono pacifici oppure no? Hanno attività illegali (narcotraffico, contrabbando, violenze)?
  «Ogni clan è diverso: ci sono clan noti per le loro attività criminali, altri noti per avere al loro interno molti dottori e persone istruite, ci sono clan di autisti di autobus; c’è una differenza tra un clan e l’altro, e più il clan è grande, e più, probabilmente, vedrete attività diversificate svolte da questo clan. Quindi non si può generalizzare: hanno attività legali che sono molto importanti in quel senso di risoluzione dei conflitti nella sfera palestinese, il diritto consuetudinario noto come sulkha. È il meccanismo principale per risolvere i problemi e le questioni in luogo del sistema statale. Anche nella routine quotidiana i clan sono importanti, perché – a differenza del sistema moderno in Occidente, dove i tribunali si occupano di individui – qui quando hai un problema è un problema interfamiliare: se hai ucciso qualcuno di una famiglia diversa, devi risarcire la famiglia nel suo insieme, hai danneggiato la famiglia nel suo insieme e viceversa, e quindi solo il diritto consuetudinario – noto come sulkha – può risolvere questo tipo di questioni. Questo ci mostra quanto siano importanti i clan come rete di sicurezza per l’individuo; ciò che si vede ora nella Striscia di Gaza ne è un tipico riflesso: quando l’intera organizzazione e il governo sono in crisi, storicamente all’interno della società araba le persone si rivolgono sempre ai loro clan, che rappresentano la loro rete di sicurezza, che si prenderà cura del loro benessere e così via».

- Che rapporti hanno con gli islamisti radicali, con Hamas…?
  «Le relazioni con gli elementi radicali come Hamas e altri movimenti politici e ideologici sono complesse e c’è una differenza tra un clan e un altro: ci sono clan che si identificano con Fatah, ci sono clan che si identificano con Hamas (come il clan Kasme a Hebron), ci sono clan che hanno sia Fatah che Hamas e altre identificazioni politiche. Spesso dipende da quanto è grande il clan, perché ci sono clan di decine di migliaia di membri, 20, 30, 40mila persone che si considerano un unico clan, anche se in realtà sono un gruppo di diverse famiglie organizzate sotto lo stesso nome di clan».

- Che rapporti hanno i clan con la popolazione israeliana?
  «Il clan Jarber, che ora vedete sui titoli dei giornali mentre offre la pace a Israele nell’ambito di questo cosiddetto piano emiratino, ha relazioni di lunga data con Israele dal 1967, quando vissero, direi, l’età dell’oro sotto lo sceicco Muhammad. Ali al-Jabari era il sindaco di Hebron e collaborava con Israele, ed essi, in sostanza, hanno tratto grandi benefici da questa connessione, considerandosi abbastanza forti da avere una propria politica indipendente per Israele, il che è generalmente positivo dal punto di vista israeliano. Ma ci sono altri clan noti per i loro problemi con Israele, ci sono clan noti per le loro radici ebraiche, sebbene oggi siano musulmani, come gli Elmakham della zona di Hebron, che hanno costantemente bisogno di dimostrare di essere più musulmani degli altri musulmani a causa delle loro note radici ebraiche, quindi ci sono terroristi che escono da questa famiglia. Tutto appartiene all’identità collettiva di quei clan: non vieni giudicato in base ai tuoi meriti come individuo, ma piuttosto in base alla reputazione della tua famiglia. Se provieni da una “buona” famiglia, questo è tutto ciò che devo sapere su di te; probabilmente sarai anche una brava persona, anche se hai una cattiva reputazione. È la famiglia a contare, questo è tutto».

- Il governo israeliano come si comporta con la popolazione araba pacifica non violenta e non militante?
  «Bene: Israele non ha alcun interesse a disturbare o molestare le popolazioni pacifiche, e penso che sia qualcosa che è stato ulteriormente sviluppato dalla Seconda Intifada, perché fino alla Seconda Intifada inclusa Israele era solita utilizzare molte misure collettive, non necessariamente punitive, ma se aveva un problema con un villaggio, lo chiudeva, bloccava gli ingressi al villaggio, e controllava tutti. Cose che fondamentalmente tendevano a dire alla popolazione: “Non fate come loro”. Ma questa politica è cambiata dalla consapevolezza che a volte è stato controproducente».

(Il Riformista, 17 luglio 2025)

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Serach Bat Ascher – una santa locale persiano-ebraica

Serach, nipote di Giacobbe, è appena menzionata nella Bibbia. Tuttavia, nella tradizione degli ebrei persiani riveste un ruolo importante.

di Gundula Madeleine Tegtmeyer

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Questo cimitero in Iran prende il nome dalla santa persiana Serach

I musulmani iraniani chiamano i loro connazionali ebrei kalimi. La parola deriva da kalimullah e può essere tradotta con “il profeta che parlava con Dio”. Secondo la concezione sunnita e sciita, questo si applica al profeta Mosè e spiega perché anche nell'Islam egli sia oggetto di grande venerazione. Tra la popolazione iraniana prevale inoltre l'idea, per noi un po' strana ma molto diffusa, che gli ebrei autoctoni siano più vicini all'Islam rispetto agli ebrei di altri luoghi.
  L'ebraismo in Iran risale a Ciro II. Il re persiano pose fine all'esilio babilonese degli ebrei con la conquista di Babilonia. Circa 75.000 ebrei iraniani sono emigrati finora in Israele. Circa la metà è arrivata subito dopo la fondazione dello Stato, l'altra metà è emigrata dopo la rivoluzione iraniana del 1979.
  Secondo Jehuda Gerami, rabbino capo dell'Iran dal 2011, nel 2022 vivevano in Iran circa 20.000 ebrei. La comunità ebraica rappresenta quindi la minoranza ebraica più numerosa in un Paese a maggioranza musulmana. Oltre a Teheran, uno dei centri della comunità ebraica è Isfahan, antica capitale della dinastia safavide.
  A 20 chilometri a sud-ovest di Isfahan si trova Pir-i-Bakran, chiamata anche Linjan. Questo tranquillo luogo ospita il cimitero ebraico più antico dell'Iran e un memoriale dedicato alla santa locale Serach Bat Ascher.

Memoriale come sinagoga

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La più antica Sinagoga dell'Iran ricorda Serach Bat Ascher

Molti miti e leggende circondano questa figura femminile biblica, anche in Iran. Nel luogo in cui Serach Bat Ascher, nipote del patriarca biblico Giacobbe, passò in Iran, fu eretto un memoriale chiamato “Santuario del profeta Giacobbe”. Nel corso del tempo questo luogo è diventato una sinagoga. Anche i musulmani venerano la nipote di Giacobbe, chiamando rispettosamente la santa locale chanume Sarah, in italiano “Signora Sarah”. Si recano in pellegrinaggio a Pir-i-Bakran per recitare preghiere personali.
  Da un devastante incendio, la sinagoga e il cimitero portano il suo nome, scritto con la lettera ebraica Chet. Secondo la tradizione ebraica, l'ottava lettera dell'alfabeto ebraico simboleggia la “vita”.
  La vita di Serach è strettamente legata alla migrazione degli Israeliti in Egitto, alla schiavitù, alla liberazione e al ritorno in “Erez Israel”. La Torah la menziona in Genesi 46,17, quando i discendenti di Giacobbe si trasferiscono in Egitto: E i figli di Ascher: Jimna, Jischwa, Jischwi, Beri e loro sorella Serach. E i figli di Beria: Heber e Malkiël. (Bibbia di Eberfelder)
  Un'altra menzione si trova in Numeri 26,13, nell'elenco degli Israeliti nelle steppe di Moab: di Serach, la tribù dei Serachiti; di Shaul, la tribù degli Shauliti. (Bibbia di Elberfeld)
  I midrash, interpretazioni di testi religiosi nel giudaismo rabbinico, dedicano ampio spazio alla nipote di Giacobbe. Dopo che Giuseppe si era ricongiunto con i suoi fratelli e li aveva mandati in Canaan per portare il padre in Egitto, Giuseppe raccomandò ai fratelli di non spaventare il padre anziano.

Giacobbe viene informato che Giuseppe è vivo
  Secondo il Midrash Ha-Gadol, citato nel Targum Jonatan a Genesi 46,17, fu Serach a informare Giacobbe che suo figlio Giuseppe, che credeva morto, non era stato sbranato da una bestia feroce: «Prese la sua cetra, si sedette accanto a Giacobbe e cantò: Giuseppe, mio zio, è vivo e regna su tutto l'Egitto“. Il Targum Jonathan è una traduzione aramaica della Bibbia ebraica.
  Quando Serach portò la lieta notizia a Giacobbe, suo nonno, egli espresse la sua gratitudine con una preghiera per lei: ”Mi hai ridato la vita con la tua bella voce, perciò desidero che tu rimanga in vita per sempre". Il patriarca benedisse sua nipote Serach con la promessa della vita eterna.
  La storia del ricongiungimento di Giuseppe con suo padre Giacobbe è entrata anche nella letteratura persiana. Si ritrova nella poesia dei poeti Hafiz, Ferdowsi, Nezami, Saadi e altri.
  Il passo biblico Genesi 46,17 annovera Serach tra i 70 membri della famiglia, mentre i rabbini ne contano solo 69. Una certa logica suggerisce che il patriarca Giacobbe fosse il settantesimo membro della famiglia che si trasferì in Egitto. Un midrash sostiene invece che Serach fosse il settantesimo membro del seguito.
  Seguendo l'interpretazione rabbinica e anche un'antica tradizione, Serach non fu annoverata tra i settanta discendenti perché, dopo la morte dei suoi genitori naturali, era stata adottata dal figlio di Giacobbe, Ascer, e quindi non era considerata una discendente. Questa interpretazione si trova nel libro Sefer ha-Yashar, nella sezione settimanale Va-Yeshev (capitolo 14).

Ruolo chiave nella conferma della funzione di Mosè
  I rabbini attribuiscono a Serach un ruolo chiave nella conferma di Mosè come salvatore che avrebbe condotto gli Israeliti dall'Egitto alla libertà. Il Midrash Rabbah (Schemot Rabbah 5,13) spiega che Serach Bat Asher era ancora viva al tempo dell'Esodo dall'Egitto.
  In Genesi 50,25 leggiamo: E Giuseppe fece giurare i figli d'Israele e disse: «Quando Dio vi avrà visitato, portate le mie ossa da qui!
  Il Midrash stabilisce il seguente nesso: il segreto della redenzione era stato rivelato ad Abramo, che lo trasmise a Isacco, Isacco a Giacobbe e Giacobbe a Giuseppe.
  Ascer trasmise il segreto alla figlia adottiva Serach. Secondo il Midrash, fu Serach ad aiutare Mosè a trovare il luogo di sepoltura di Giuseppe, per mantenere la promessa di portare le sue ossa fuori dall'Egitto.

Midrash: Serach ebbe una lunga vita
  Altri Midrashim trattano di questa sorprendente figura femminile biblica. Uno di essi narra che era ancora viva ai tempi del re Davide (Bereshit Rabbah 94,9). Quando Joab, generale di Davide, le chiese: “Chi sei?”, Serach rispose: “Sono una di coloro che cercano il benessere dei fedeli [schelomei emunei] in Israele”.
  Secondo l'interpretazione rabbinica, Serach disse a Joab: “Sono una degli Israeliti che si sono trasferiti in Egitto. Ho completato il numero di Israele [schelumai]. Vuoi uccidere tutta la città, anche me che sono una donna importante?”. Serach salvò la vita di tutti gli abitanti della sua città (Kohelet Rabbah 9:18:2).
  Una tradizione esegetica continua: Serach non morì, ma entrò in paradiso come vivente, proprio come Enoch (Genesi 5,24): E Enoch camminò con Dio; e non fu più, perché Dio lo prese con sé.  La Bibbia racconta lo stesso del profeta Elia. Anche secondo la tradizione cristiana, il profeta Elia vive ancora e difenderà la vera fede in Dio fino alla seconda venuta di Cristo sulla terra.
  A questa tradizione dell'immortalità si ricollega un racconto rabbinico in cui Serach appare in un Beit Midrasch (scuola). Il rabbino Jochanan Ben Sakkai interpretò Esodo 14,22: Allora i figli d'Israele entrarono in terra asciutta in mezzo al mare, e l'acqua era loro un muro a destra e a sinistra con una rete impenetrabile. Serach, testimone della divisione del Mar Rosso durante la fuga dagli Egiziani: “Io ero lì, l'acqua non era una rete, ma una finestra trasparente”.
  La tradizione narrativa relativa alla sua vita straordinariamente lunga si basa su due eventi: uno è la sua menzione tra i 70 discendenti di Giacobbe che si trasferirono in Egitto. Inoltre, era tra gli israeliti dell'Esodo che entrarono in «Eretz Israel».
  Inoltre, gli ebrei iraniani tramandano da molte generazioni che Serach Bat Ascher abbia attraversato la Persia e si sia stabilita a Isfahan nel IX secolo secondo il calendario gregoriano. È saldamente radicata nella credenza popolare ebraica locale l'idea che un profondo passaggio sotterraneo conduca dal memoriale di Serach Bat Asher direttamente a Gerusalemme. Il giorno della venuta del Messia, i morti di Pir-i-Bakran saranno tra i primi ad arrivare al Giorno del Giudizio.

(Israelnetz, 17 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Striscia di Gaza settentrionale: nuovi caduti tra i militari israeliani

di Davide Cucciati

Lunedì 14 luglio 2025, tre soldati dell’esercito israeliano sono morti, mentre si trovavano all’interno di un carro armato, in seguito a un’esplosione verificatasi durante una missione nella zona di Jabalya, nel nord della Striscia di Gaza. A darne notizia è stata la stessa Tzahal, come riportato dal Jerusalem Post. Le vittime sono il sergente maggiore Shoham Menahem, di 21 anni, originario del moshav Yardena, il sergente Shlomo Yakir Shrem, di 20 anni, residente a Efrat, e il sergente Yuliy Faktor, 19 anni, di Rishon Lezion. Tutti appartenevano alla 401esima brigata corazzata. Nello stesso incidente è rimasto gravemente ferito anche un ufficiale.
Secondo quanto riferito da Army Radio, l’esplosione è avvenuta intorno a mezzogiorno mentre l’unità era impegnata in un’operazione contro una cellula locale di Hamas e le relative infrastrutture terroristiche. In un primo momento si era ipotizzato che a colpire il carro armato fosse stato un missile anticarro. Tuttavia, nelle ore successive, Tzahal ha valutato come altamente probabile che si sia trattato di un incidente operativo causato dall’esplosione accidentale di un proiettile all’interno del mezzo. Le indagini sull’accaduto sono ancora in corso.
Pochi giorni prima dell’esplosione a Jabalya, un altro grave attacco ha colpito le forze israeliane nel nord della Striscia. Secondo quanto riferito da Ynet e dal Times of Israel, la sera del 7 luglio cinque soldati sono stati uccisi e altri quattordici feriti, due dei quali in modo grave, in un’imboscata avvenuta nei pressi della città di Beit Hanoun. Le truppe coinvolte operavano a piedi in una zona dove erano presenti anche mezzi corazzati e veicoli del genio militare. Una serie di ordigni esplosivi è stata fatta detonare a distanza, da miliziani di Hamas, colpendo inizialmente un primo gruppo di soldati e poi coloro che accorrevano in soccorso. Un terzo ordigno è esploso mentre una cellula di terroristi palestinesi apriva il fuoco in quello che il Comando Sud ha descritto come un agguato coordinato. I cinque soldati caduti sono il sergente di prima classe Benyamin Asulin, 28 anni, di Haifa, riservista in servizio nella Gaza Division, il sergente maggiore Noam Aharon Musgadian, 20 anni, di Gerusalemme, il sergente maggiore Meir Shimon Amar, 20 anni, anche lui di Gerusalemme, il sergente maggiore Moshe Shmuel Noll, 21 anni, di Beit Shemesh, e il sergente Moshe Nissim Frech, 20 anni, sempre di Gerusalemme. Quattro di loro prestavano servizio nel battaglione Netzah Yehuda della brigata Kfir, un’unità fondata per accogliere soldati haredim e composta ancora oggi prevalentemente da militari osservanti.
Come sottolineato da un precedente reportage pubblicato proprio su Mosaico, già a maggio 2025 i militari israeliani affermavano che la zona settentrionale della Striscia di Gaza fosse l’area più insidiosa: “Parlando con due soldati appena usciti dalla Striscia di Gaza, avevo ricevuto un’anticipazione chiara: il nord della Striscia resta l’area più ‘calda’, con scontri più intensi rispetto al sud”. Jabalya e Beit Hanoun, teatri degli ultimi attacchi mortali, confermano tragicamente quell’analisi.
Secondo il Times of Israel, il numero totale dei militari israeliani uccisi dal 7 ottobre 2023 è salito a 893. La fonte riporta che sei colonnelli figurano tra le vittime, il numero più alto di ufficiali di grado così elevato uccisi in combattimento negli ultimi decenni. Dei caduti, 329 sono morti durante l’attacco iniziale di Hamas il 7 ottobre, mentre 449 sono stati uccisi durante l’operazione terrestre nella Striscia di Gaza o in operazioni lungo il confine. A questi si aggiungono ventinove soldati uccisi nel nord di Israele da Hezbollah e gruppi affiliati, cinquantuno durante operazioni di terra in Libano, dodici in attacchi terroristici in Giudea e in Samaria e in territorio israeliano e cinque in operazioni antiterrorismo sempre in Giudea e in Samaria. Due soldati sono morti in un attacco con droni partito dall’Iraq, uno in un attacco missilistico balistico proveniente dall’Iran. Vi sono infine almeno 15 caduti per fuoco amico, malfunzionamenti di armamenti e incidenti non direttamente legati ai combattimenti.

(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2025)

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Israele bombarda la Siria: "Per difendere i drusi"

E nella Striscia evacuazioni a Gaza City e Jabalia. A rischio il governo Netanyahu

di Chiara Clausi

Israele bombarda la Siria mentre le forze governative di Damasco entrano nella città a maggioranza drusa di Sweida, nel Sud. Il raid arriva dopo due giorni di sanguinosi scontri settari in Siria tra milizie druse e tribù beduine. È un attacco inaspettato quello di Tel Aviv anche perché lo Stato ebraico considerava la nuova leadership siriana, che ha fatto fuggire Bashar al-Assad, un potenziale alleato. Già lunedì l'Idf aveva effettuato alcune incursioni contro carri armati che si stavano avvicinando a Sweida. Israele, occorre ricordare, ha al suo interno popolazione drusa, ad esempio sulle alture del Golan, e per questo motivo ha cercato di presentarsi sempre come suo protettore in Siria.
Netanyahu e Katz hanno spiegato subito la ragione del bombardamento, ovvero che l'ingresso di soldati e armi nell'area di Sweida viola "la politica di smilitarizzazione decisa e mette in pericolo Israele". Circa 100 persone sarebbero state uccise da quando, domenica, sono scoppiati i combattimenti, ma come vedremo il dato è controverso. Il ministro della Difesa siriano Murhaf Abu Qasra ha annunciato un cessate il fuoco, e ha chiarito che è stato raggiunto un accordo con i notabili e i dignitari di Sweida. Tuttavia, un leader spirituale druso ha esortato i guerriglieri locali a resistere. Dall'arrivo delle forze governative in città, infatti, gli scontri hanno contrapposto quest'ultime ai drusi.
È la prima volta che l'esercito di Damasco viene dispiegato a Sweida da quando i ribelli islamisti hanno rovesciato Assad a dicembre. Ma le comunità minoritarie sono sospettose del governo ad interim di Ahmed al-Sharaa, detto Al-Jolani, nonostante le sue promesse di proteggerle. Finora la provincia di Sweida era rimasta in gran parte sotto il controllo delle milizie druse, che hanno resistito alle richieste di unirsi alle forze di sicurezza. Ma perché sono scoppiate le violenze? Sono iniziate domenica quando uomini armati beduini hanno rapito un venditore di frutta e verdura druso sull'autostrada per Damasco. Da quel momento sono cominciati rapimenti e scontri di rappresaglia che si sono estesi in tutto il governatorato di Sweida. L'Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede nel Regno Unito, ha riferito di circa 99 morti dall'inizio dei combattimenti. L'organizzazione però - come anticipato - è stata regolarmente accusata dagli analisti militari siriani di aver diffuso dati falsi e gonfiato il numero delle vittime. I drusi, seguaci di una religione esoterica sciita, si trovano principalmente in Siria, Libano e Israele. La popolazione drusa siriana prima della guerra era stimata in circa 700.000 persone, molte delle quali concentrate nella provincia di Sweida.
Israele intanto è impegnato pure su un altro fronte, la Striscia, dove la battaglia continua a imperversare. L'esercito di Tel Aviv ha esortato la popolazione di Gaza City e Jabalia, nel nord, a "evacuare immediatamente" a sud verso al-Mawasi. Ma anche dentro lo Stato ebraico la situazione è critica, pare che scricchioli la maggioranza di Netanyahu. Il partito israeliano Shas ha annunciato che il Consiglio dei Saggi della Torah si riunirà oggi a Gerusalemme e definirà il suo futuro all'interno del governo. Senza gli 11 seggi di Shas, l'esecutivo potrebbe cadere.
La dichiarazione arriva in seguito alla decisione presa lunedì dall'United Torah Judaism di uscire dalla maggioranza, dopo che il progetto di legge per rendere esenti gli haredim dalla coscrizione non è stato presentato.

(il Giornale, 16 luglio 2025)

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Il governo e noi nel caos

Mentre il popolo combatte in prima linea, la leadership si perde in lotte ideologiche e nessuno fa il primo passo verso l'unità.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Il risultato è un quadro paradossale: tutti sentono che non si può andare avanti così, ma ognuno dà la colpa all'altra parte. Nessuno fa il primo passo per riportare la calma. Tutti si lamentano della situazione, ma nessuno si ferma. E mentre in alto si litiga, il popolo ne porta il peso: al fronte, nelle riserve, nella vita quotidiana.
A proposito: secondo i dati ufficiali dell'IDF, fino a settembre 2024 sono stati mobilitati circa 300.000 riservisti, il che significa che solo uno su dieci in età di leva (dai 22 ai 45 anni) e appena il 3% della popolazione totale sta attualmente sostenendo il peso maggiore della difesa del Paese. Sì, avete capito bene: solo il 3%! Questo va detto, e ne scriverò in modo approfondito in un altro momento.
Mi chiedo: come può un governo che in un momento come questo, invece di invitare all'unità, continua a dividere, parlare di leadership? Non è il momento di fare i conti, quelli li possiamo fare più tardi. È semplicemente incredibile su cosa stiamo litigando. Adesso? Proprio durante la guerra?
Un governo responsabile non promuoverebbe una riforma della giustizia nel bel mezzo di una guerra su sette fronti, anche se alcuni punti di questa riforma possono essere giustificati. Tutto ciò che in giorni come questi crea divisioni dovrebbe essere messo da parte. Soprattutto quando i soldati vanno in battaglia ogni giorno, quando le madri pregano per la vita dei loro figli, quando i comandanti hanno sulle spalle decisioni di vita o di morte. In questi momenti, a mio avviso, non c'è spazio per indebolire le istituzioni statali, attaccare la magistratura o creare inutili disordini. Non solo è irresponsabile, ma è anche un rischio strategico.
Un governo responsabile non penserebbe mai, nemmeno in sogno, di promuovere una legge che, proprio in tempo di guerra, esenta dall'obbligo di leva 80.000 giovani idonei al servizio militare, ricompensandoli con agevolazioni fiscali, sussidi per l'alloggio e borse di studio a spese dei cittadini che lavorano e prestano servizio. Questo messaggio è devastante, soprattutto ora che l'esercito ha urgente bisogno di 10.000 soldati in più per aiutare i coscritti e soprattutto i riservisti. Questi ultimi stanno crollando sotto il peso della guerra. L'anno scorso, alcuni rappresentanti dei riservisti hanno cercato di convincere il governo a porre fine a questi accordi politici che esentano gli ebrei ortodossi dal servizio militare. Ma non c'è stata alcuna reazione.
Per correttezza va detto che gli ortodossi che si sottraggono al servizio militare sono particolarmente visibili perché hanno una rappresentanza forte e influente nel governo, ma non sono gli unici. Ci sono anche numerosi israeliani laici e religiosi che hanno prestato il servizio militare regolare, ma oggi non prestano servizio nella riserva.
La verità è che il peso ricade sulle spalle di pochi. L'onere sarebbe notevolmente inferiore se tutto il popolo, uomini e donne tra i 18 e i 45 anni, facesse la sua parte. Io stesso conosco molti giovani che nella vita civile parlano a voce alta di politica, ma quando si fa sul serio preferiscono distogliere lo sguardo. Non prestano servizio di riserva, anche se potrebbero e dovrebbero farlo.
Particolarmente evidenti sono i due figli del primo ministro, Yair (33) e Avner (30) Netanyahu, che non sono in servizio. Perché? Invece di prestare servizio, Yair viaggia con papà e mamma a Washington, posa nelle foto con Trump, mentre i suoi coetanei sono in trincea. Questo non è solo un segnale sbagliato, è vergognoso. La leadership inizia con l'esempio. Chi sostiene politicamente la guerra non può sottrarsi moralmente. Chi chiede sacrifici deve anche dimostrare di essere disposto a compierli, in famiglia, non solo a parole.
Già nel maggio 2022, la sottocommissione per gli affari esteri e la difesa della Knesset hanno reso noti per la prima volta dati concreti sul servizio di riserva. Il generale di brigata Amir Vadmani, responsabile della pianificazione del personale dell'IDF, parlò allora di circa 490.000 israeliani ufficialmente classificati come riservisti, pari a circa il 17% della popolazione di età compresa tra i 22 e i 45 anni e al 5% della popolazione totale. Il numero effettivo di riservisti attivi era tuttavia nettamente inferiore: solo circa 120.000 prestavano regolarmente servizio, pari a circa il 4% della fascia d'età e appena l'1% della popolazione totale.
Nel corso dell'attuale guerra, questo quadro è cambiato: secondo i dati dell'IDF, fino a settembre 2024 sono stati mobilitati circa 300.000 riservisti, pari a circa il 10% della fascia di età idonea al servizio militare o al 3% della popolazione totale. In realtà, sebbene il servizio di riserva sia obbligatorio per legge, nella pratica si basa spesso solo sulla disponibilità volontaria. In realtà, solo una piccola parte della società sostiene attualmente l'enorme peso della difesa nazionale, volontariamente e con grandi sacrifici personali.
Ancora più vergognoso è vedere i rappresentanti del popolo che fanno di tutto per tenere insieme la coalizione, anche se questo significa esentare dal servizio interi gruppi di studenti della yeshiva, mentre i loro coetanei si stancano nel fango di Gaza o in Libano sotto il peso del servizio di riserva. Dove trovano il tempo e l'energia per occuparsi di questioni secondarie mentre l'essenziale va a fuoco? Come si può pensare al potere, al controllo, ai privilegi e alla legislazione quando è in gioco la nostra stessa esistenza?
E come se non bastasse, questo governo continua a lacerare il tessuto sociale della nostra società. Invece di guarire, lacera. Invece di invocare l'unità, incita all'odio. Invece di guidare il popolo, lo trascina nell'abisso. Abbiamo dimenticato le lezioni della nostra storia?
Non di rado abbiamo perso la nostra sovranità non a causa della forza dei nostri nemici, ma a causa delle lotte intestine. Come è possibile che proprio in un momento di prova così esistenziale il governo israeliano si rifiuti di imparare dalla storia e ripeta gli stessi errori? A sua difesa, sostiene che la colpa è tutta dei media di sinistra, dell'élite e del sistema giudiziario. Naturalmente anche questi hanno una parte di responsabilità. Ma il governo dovrebbe essere un modello e, in quanto responsabile, guidare la riconciliazione. Invece di mobilitare tutte le forze per la vittoria, mobilita le sue energie per la lotta interna.
Un governo che litiga nel bel mezzo di una guerra contro il proprio popolo ha perso di vista la vera battaglia. In un momento di minaccia esistenziale, il governo non dovrebbe dividere, ma unire. Non fare tattica, ma mostrare responsabilità. Le questioni politiche secondarie devono essere messe da parte. Ora conta ciò che ci unisce, non ciò che ci divide. Anche l'opposizione ha delle responsabilità, ma le sue possibilità sono limitate. Il primo e più grande dovere spetta al governo. È lui che ha il peso della leadership e quindi la responsabilità nei confronti del popolo.
Il caos politico a Gerusalemme deve finire una volta per tutte, per il bene della popolazione del Paese.

(Israel Heute, 16 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il lato oscuro della nuova teologia

di Rav Riccardo Di Segni

Il deterioramento dei rapporti ebraico-cristiani è uno degli effetti negativi collaterali del conflitto iniziato il 7 ottobre 2023. In gran parte si è trattato di questioni politiche, differenti visioni sul conflitto, giudizi severi e mancanza di empatia. Ma la teologia non è rimasta estranea a questo processo e sono stati segnalati fenomeni regressivi, ritorno a vecchi schemi di contrapposizione. Su una scena già preoccupante è comparso ora un ulteriore affondo, a firma del teologo Vito Mancuso nella Stampa del 13 luglio. Partendo da una critica severa nei confronti di un ministro di Israele, cosa certamente legittima, il teologo si è spinto in un’analisi tanto affrettata quanto sconcertante della natura stessa dell’ebraismo e della Bibbia. Il teologo ha scoperto che l’ebraismo non è solo una religione ma anche una nazione. Cosa a tutti ben nota, peraltro. Solo che per il teologo la religione ebraica contiene degli elementi assolutamente positivi (quelli ripresi da Gesù), laddove la nazione è di per sé negativa. La parte nazionale dell’ebraismo, che con un suo neologismo chiama “israelismo”, è presente nella Bibbia e ne inquina il linguaggio umanitario religioso, chiamando a massacri e distruzioni, come il terribile capitolo 7 del Deuteronomio.
   Dunque, l’ebraismo, per il teologo, nel momento in cui è nazione è malato, e questo spiega bene gli eventi attuali e le posizioni di alcuni ministri israeliani che alla Bibbia si richiamano.
   Prima di spiegare perché questa analisi sia essa stessa malata e sconcertante, va messa in evidenza la catena logica e dottrinale che la precede e la ispira. Il cristianesimo fin dall’inizio ha avuto un rapporto ambiguo con le sue origini ebraiche, da una parte rivendicandole come annuncio e realizzazione delle promesse bibliche, dall’altro cercando di stabilire una distanza sempre più profonda. La Bibbia ebraica (l’Antico Testamento) serve ad annunciare e confermare l’evento messianico, ma la sua parte normativa, la “Legge”, è negativa, fonte di peccato, e va eliminata; gli ebrei che seguono la legge biblica sono legalisti e ipocriti, e ciechi perché non vedono la realizzazione delle sue promesse. La Chiesa a questo punto è il Vero Israele, mentre quello antico, che si ostina a non credere, ha perso la sua dignità. Il Dio della Bibbia ebraica, come teorizzava Marcione, è quello della giustizia, della vendetta e della guerra; il Dio del cristianesimo è amore, perdono e pace. Ci sono voluti sessant’anni di faticoso dialogo per purificare il pensiero cristiano da queste teorie di contrapposizione che per secoli, in nome del Dio dell’amore, hanno seminato odio e persecuzioni. Ma ora c’è Mancuso e si ricomincia. Se non c’è proprio il Dio della guerra, c’è la nazione che per sua natura ha bisogno della guerra e si inventa un Dio crudele e sterminatore che detta le pagine sanguinolente del Deuteronomio.
   Mancuso non contesta ai francesi di essere francesi, agli italiani di essere italiani e così via, e non dice che il loro essere nazione equivale a predicare odio e distruzione, ma agli ebrei l’essere nazione è rinfacciato come un peccato originale, indissociabile da una violenza istituzionale. Si è dimenticato, con svista non veniale per un teologo, che gli ebrei diventano popolo alle pendici del monte Sinai, quando ricevono i dieci comandamenti. Si è dimenticato che per gli ebrei accanto a una Torà scritta esiste una Torà orale, che mette in discussione ogni parola e lettera di quella scritta, in una continua evoluzione dialettica e che spiega in tanti modi possibili e sofferti anche le pagine più problematiche (per la nostra sensibilità evoluta) della Bibbia. Mentre Mancuso pensa che l’israelismo, cioè l’essere nazione, ha contaminato la pura religione ebraica, gli ebrei pensano che la religione ha forgiato la nazione ebraica e le ha dato una missione di civiltà, pace e giustizia per il mondo. Forse non farebbe male a rileggersi, in questa chiave, la profezia di Isaia all’inizio del capitolo 2.
   La domanda ora è se questo pensiero sia l’espressione di un nuovo trend del cattolicesimo, o sia solo una scheggia isolata che altri teologi cattolici, si spera, metteranno in discussione.

(Shalom, 16 luglio 2025)
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E' vero purtroppo che nel cristianesimo in senso lato sta crescendo l'astio verso gli ebrei come nazione. Anche in campo evangelico, anche là dove si dà importanza a Israele come nazione, aumentano le insistenze di chi vuole distinguere nettamente tra l'Israele biblico e l'Israele politico di oggi. La questione in fondo è squisitamente teologica, quindi è inutile pensare di affrontarla in poche battute. In ogni caso, è riduttivo affrontarla in termini di cristianesimo contro ebraismo. A questo riguardo vorrei rispettosamente dire a Rav Di Segni che forse è un po' superficiale contrapporre all'ebraismo un cristianesimo marcionico che professa un Dio che è amore, perdono e pace. Non potrebbe essere anche questa una caricatura, corrispondente a quella che presenta il Dio ebraico come crudele e vendicatore? In ogni caso, che ci si creda o no, per l'odio a cui oggi è esposto Israele ci sono cristiani che intimamente soffrono, in modo non direi uguale, che non è possibile, e neanche di più o di meno, ma quanto meno paragonabile a quello di altri ebrei. M.C.

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luglio 2025

Notizie archiviate



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