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Notizie 1-15 maggio 2021


Scritte pro Palestina sulla sede di un circolo Pd: "Criminali, servi di Israele"

La sede del Pd di via Giacomo Dina a Torino è stata coperta di scritte. “Criminali servi di Israele” si legge sulla persiana della finestra della sede dem in cui è iscritto Stefano Lo Russo, capogruppo Pd e candidato alle primarie del centrosinistra per le prossime amministrative che denuncia l’episodio sui social. “Noi andiamo avanti, senza timori, a testa alta e convinti delle nostre idee”, scrive in un post.
    Il raid è rivendicato dall’Osa, opposizione studentesca d’alternativa. “Pd complice del genocidio, Palestina libera”, si legge sulla porta del circolo. Con la vernice rossa sono state imbrattate anche il campanello e le targhe dem sulla facciata. L’episodio è stato scoperto questa mattina da chi frequenta il circolo ed è successivo al corteo che ieri ha portato tremila persone a sfilare per il centro al grido di “Free Palestine”.
    I manifestanti erano partiti da piazza Castello per dirigersi poi verso Porta Palazzo, una protesta pacifica per esprimere solidarietà al popolo palestinese, promossa dall’associazione “Progetto Palestina” dopo l’escalation di violenza registrata nella Striscia di Gaza. Le scritte, invece - secondo quanto denunciato da Lo Russo - sono comparse nella notte sulla facciata del circolo del Pd Santa Rita.
    Nella scia di Lo Russo arriva anche la presa di posizione della Federazione metropolitana del Pd: "Condanniamo fermamente quanto è accaduto stanotte e nello specifico presso il Circolo di Santa Rita-Mirafiori Nord. Ennesimo gesto vile commesso ai danni di una nostra sede imbrattata da facinorosi".
    E anche il candidato sindaco del centrodestra Paolo Damilano interviene con un messaggio di solidarietà al Pd "dopo l'increscioso atto di vandalismo di questa notte. Azioni come questa vanno condannate con fermezza. La politica non deve mai essere violenza, ma solo dialogo e confronto".

(la Repubblica, 15 maggio 2021)



Rallegrati pure, o giovane

di Marcello Cicchese
    Rallegrati pure, o giovane, durante la tua adolescenza, e gioisca pure il cuor tuo durante i giorni della tua giovinezza; cammina pure nelle vie dove ti mena il cuore e seguendo gli sguardi degli occhi tuoi; ma sappi che, per tutte queste cose, Iddio ti chiamerà in giudizio! Bandisci dal tuo cuore la tristezza, e allontana dalla tua carne la sofferenza; poiché la giovinezza e l'aurora sono vanità. Ma ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i cattivi giorni e giungano gli anni dei quali dirai: 'Io non ci ho più alcun piacere'.
    Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo. Poiché Dio farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia in bene, sia in male.

    (Ecclesiaste 12:1-4,15-16)
Rallegrati pure, o giovane, perché Dio ha piacere che i giovani siano allegri e si divertano; vuole che per quanto possibile tengano lontano da loro la tristezza e la sofferenza; vuole che abbiano il coraggio di desiderare la loro felicità e di ricercarla. I giovani sani ridono, scherzano e si divertono perché Dio ha voluto farli così. La naturale allegria dei giovani ci ricorda che in origine Dio ha fatto l'uomo per la gioia. La gioventù sana e allegra ci parla di un Dio che è vita, gioia, bellezza, e di un Dio che desidera ardentemente trasmettere qualcosa di queste sue qualità alle sue creature.
  Il profeta Zaccaria annuncia la pienezza di vita che negli ultimi tempi tornerà a pulsare in Gerusalemme con queste parole:
    "E le piazze della città saranno piene di ragazzi e di ragazze che si divertiranno nelle piazze" (Zaccaria 8:5).
Ma se è volontà di Dio che i giovani siano allegri e si divertano, questo significa che i giovani non hanno alcun bisogno di cercare il loro divertimento fuori di Dio e della sua volontà. L'immagine classica di Dio come di un austero vegliardo con la barba bianca, serio e rispettabile, ma alla lunga anche un po' noioso, è difficile da cancellare dalle pieghe profonde del nostro animo. E così anche i giovani cristiani si abituano a pensare che per divertirsi hanno bisogno di "distrarsi", cioè di "tirarsi fuori" dalle cose riguardanti Dio, che per loro natura sono serie e impegnative. Si sentono un po' come a scuola: le cose serie appartengono al mondo degli adulti, e loro le accettano perché un giorno toccherà anche a loro di entrare in quel mondo, ma finita la lezione, si ricordano di essere giovani e ricominciano a scherzare.
  Il giovane quindi corre il rischio di considerare il suo giovanile divertirsi come una zona sua propria, un momento di distacco da quel mondo degli adulti in cui ha relegato anche Dio e tutto ciò che ha a che fare con Lui.
  Corre il rischio di volersi divertire dimenticando la presenza di Dio e della sua legge. E questo lo mette in una situazione infida e pericolosa, che precede l'avvicinarsi di un'infinità di dolori.
  Un efficace rimedio sta proprio nel permettere a Dio di rinnovare continuamente il suo invito: "Rallegrati". Il giovane che si diverte nell'ambito della legge di Dio può farlo con la buona coscienza di star ubbidendo a un ordine. Dio vuole che il giovane si rallegri.
  Ma forse è proprio questo che fa sembrare meno divertente il divertimento in Dio. Non è forse vero che il divertimento dei giovani è spesso legato all'idea di trasgressione? e che uno dei giochi più eccitanti sta proprio nell'infrangere le norme fissate dagli adulti? e che si ride più di gusto quando si ride in luoghi e in momenti in cui non si dovrebbe? Come si fa a divertirsi per ordine di Dio? Molto più bello è divertirsi alle spalle di Dio.
  Per questo è necessario che dopo aver detto: "Rallegrati", si dica anche: "Ma sappi".

Sappi, o giovane, che per tutto quello che fai Dio ti chiamerà in giudizio. Se per divertirti hai bisogno di stordirti, di dimenticare che esiste un Dio che ha una sua precisa volontà per te, un giorno sarai costretto a ricordare che i comandamenti di Dio non si possono trasgredire impunemente. Dio è misericordioso, ma non è un bonaccione. L'immagine del vecchio con la barba, oltre a dare l'idea di un Dio che non ha niente da spartire con l'allegria e il divertimento, favorisce anche il pensiero che con un po' di scaltrezza e furberia si possa riuscire a raggirare e abbindolare Dio, proprio come si fa con un vecchio professore rincitrullito. Ma questo è un errore fatale. Dio è misericordioso, ma per conoscere la sua misericordia l'uomo ha soltanto una possibilità: giocare a carte scoperte. Con Dio non si può barare. E neppure si può fingere, o sperare che sia distratto da questioni più importanti.
    "Egli farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male" (Ecclesiaste 12:16).
Non è forse venuto il tempo di ricordare anche ai giovani, anche a loro che ritengono di avere il diritto di non pensarci perché vogliono essere liberi di godersi la loro gioventù, che esiste un giudizio eterno, e che ad esso nessun uomo può scampare?
  Ma questo non è attuale, né sul piano evangelistico né su quello educativo. Oggi nessuno è disposto a stare a sentire qualcuno che gli parli di giudizio. Le persone sono al più disposte a subire un'opera di persuasione. Accettano di ascoltarci quando tentiamo di convincerle che quello che gli stiamo proponendo, sia esso l'ultimo modello di aspirapolvere o la salvezza eterna, è proprio quello che ci vuole per loro. E naturalmente si riservano di decidere se accettare o no le nostre proposte.
  Qualcosa di simile può succedere anche con i nostri figli, che, se va bene, ci stanno a sentire fino a che ci affatichiamo a spiegare loro quanto è bello e vantaggioso seguire il Signore, ma che ritengono chiuso il discorso quando, non essendo convinti dalle nostre parole, pensano di avere il diritto di cercare a modo loro la via che ritengono più consona alla loro felicità. Forse non avremo né la forza né il diritto di trattenerli, ma a noi spetta il compito di dire loro: "Sappi". Sappi che Dio ti chiamerà in giudizio, perché le cose stanno così, che tu ne sia convinto o no. Così sta scritto.
  Anche nel suo amore e nel suo abbassamento in Cristo, Dio resta Dio. E l'uomo resta uomo. Per questo è necessario che la testimonianza cristiana non trascuri di annunciare il giudizio di Dio, perché anche se adesso sembra che sia l'uomo ad avere la possibilità di giudicare se è il caso o no di prendere in considerazione la parola di Dio, verrà il giorno in cui le cose saranno rimesse al loro posto, e sarà la parola di Dio a giudicare le azioni e le parole dell'uomo, e non viceversa.
  Ma perché lasciarsi andare a pensieri tetri? Perché non godersi in pace la gaia spensieratezza giovanile, visto che alla "gioconda gioventù" segue ineluttabilmente la "molesta vecchiaia"?
  Chiediamoci allora: perché s'invecchia? Perché siamo fatti in modo che si comincia bene e si finisce male? Perché non avviene il contrario? Perché non avviene che col passar del tempo gli uomini diventano sempre più sani, più belli, più radiosi?
  Evitando di cercare risposte profonde, l'uomo di oggi si accontenta della spiegazione tecnologica: il pezzo si usura. E nonostante le amorevoli cure, si logora sempre di più fino a che, prima o poi, qualcosa cede definitivamente e il meccanismo si rompe. E' triste, ma è così. Tanto vale quindi non pensarci troppo e godersi il più possibile gli anni migliori. Vecchiaia e morte vengono visti soprattutto come sgradevoli problemi tecnici con ripercussioni in campo sociale; e la ricerca dei rimedi viene lasciata agli esperti di settore: i medici, i politici, gli assistenti sociali.
  Ma per la Bibbia le cose non stanno così. Se la giovinezza ci parla della vita, della gioia, della bellezza che sono in Dio, la vecchiaia ci parla della morte, della sofferenza, della bruttezza che sono conseguenza del peccato dell'uomo. Se la gioventù è un invito a glorificare il Signore per la grandezza delle sue opere, la vecchiaia è un invito a fare cordoglio per la devastazione che ha compiuto il peccato dell'uomo. Per questo l'Ecclesiaste dice: "Ricordati".

Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza. Dunque non dice: ricordati che devi morire, ricordati che un giorno dovrai soffrire. Non instilla nel giovane lo spauracchio dei dolori di domani per rovinargli i piaceri di oggi. Al contrario dice: ricordati del tuo Creatore. Ricordati, mentre stai godendo di cose buone, di Colui che te le sta dando e ti permette di goderne; ricordati di chi ha preparato per te cose piacevoli prima ancora che tu nascessi; ricordati di chi ti sta esprimendo il suo amore concedendoti tutte le cose belle che hai.
  Ma tu sei un peccatore, e quindi sperimenterai anche tu il giudizio di Dio sugli uomini superbi e ribelli, e te ne tornerai alla terra da cui sei uscito, percorrendo una strada di rinunce e dolori. Tutto questo ti apparirà chiaro quando vedrai le cose belle e buone della giovinezza abbandonarti una dopo l'altra. Ma ricordati ora del tuo Creatore, perché anche se le cose che oggi ti allietano un giorno ti abbandoneranno, Lui non ti abbandonerà.
  Quindi, non essere spensierato e distratto: non hai bisogno di dimenticare per essere allegro; al contrario, hai bisogno di ricordare. Perciò, ricordati del tuo Creatore.
  Ma se il ricordo di Dio e della sua bontà agiscono come una forza di attrazione verso il bene, c'è anche qualcosa che agisce come una forza di repulsione nei confronti del male: il timore di Dio. Per questo l'Ecclesiaste dice anche: "Temi".

Temi Dio, cioè abbi la consapevolezza che Dio è il Creatore e tu sei una creatura; che Lui ha il diritto di parlare e tu hai il dovere di tacere e ascoltare; che Lui conosce la realtà e sa qual è il tuo vero bene, mentre tu sei ottuso e cieco proprio quando presumi di saperla lunga. E se ti viene in mente l'idea di provare a vedere quello che succede a trasgredire le leggi di Dio, allora spaventati. Spaventati al pensiero che una piccola creatura come te possa disprezzare l'amore che il Creatore gli manifesta facendogli conoscere quello che è bene per lui, e decida di agire di testa sua su questioni in cui Dio ha già fatto sapere qual è la sua volontà. Spaventati pure, perché ne hai motivo; e questo spavento ti trattenga dal compiere atti insensati che inevitabilmente si ritorceranno contro di te.
  Ma anche questo è inattuale. Non ci hanno forse detto e ripetuto gli "esperti" che la paura non è mai educativa? Ma non è il caso di farsi intimidire dalle affermazioni sicure degli esperti: sulla base della parola di Dio possiamo tranquillamente dire che non è vero. Siamo così ciechi e presuntuosi, giovani e vecchi, che senza qualche limite esterno che si presenti a noi in forma di spavento non saremmo mai capaci di evitare certi mali da cui ci sentiamo fortemente attratti.
  Ai piedi del monte Sinai, in un terrificante scenario di lampi e tuoni, accompagnati da un assordante suono di tromba che continuamente e minacciosamente cresce di intensità, il popolo di Dio assiste tremante alla consegna da parte di Dio delle "dieci parole". Mosè si rivolge al popolo e dice:
    "Non temete, poiché Dio è venuto per mettervi alla prova, e affinché il suo timore vi stia dinanzi, e così non pecchiate" (Esodo 20:20).
Al popolo giustamente terrorizzato dalla manifestazione della santità di Dio, Mosè comunica una parola di grazia: Non temete. E tuttavia aggiunge che il timore dell'Eterno deve restare "dinanzi a loro", perché sarà proprio quel timore che li tratterrà dal peccare contro Dio.
  Il timore di Dio serve quindi all'uomo per evitare i peccati futuri, e non per disperarsi di quelli passati. La tattica di Satana consiste nel dare all'uomo sicurezza e spavalderia prima di peccare, e terrore e disperazione dopo aver peccato. Dio fa il contrario: ci dice "temi" prima che compiamo il male, affinché ce ne asteniamo, e "non temere" dopo che abbiamo peccato, se andiamo a Lui per essere perdonati.
  L'Ecclesiaste conclude il suo discorso con un'ultima, fondamentale esortazione: "Osserva i comandamenti".

Osserva i comandamenti, cioè prendi sul serio la volontà di Dio; e quando essa è espressa in modo chiaro ed univoco nelle Scritture, non metterti a ragionare: mettila in pratica, punto e basta. Abbi insomma, nei confronti dei comandamenti di Dio, un atteggiamento semplice. Ma - si dice oggi, usando un'argomentazione molto diffusa ma anch'essa tutta da dimostrare sulla base della Scrittura - per ubbidire bisogna prima capire. E per capire bisogna che qualcuno spieghi. E se chi spiega non viene giudicato sufficientemente chiaro e convincente, è ovvio che chi deve capire si sente libero di non ubbidire. Questo potrà anche essere vero in tanti casi, ma certamente non vale per i comandamenti di Dio. Per questi è vero esattamente il contrario: chi vuole capire deve prima ubbidire. Il cammino per fede di cui si parla tanto, spesso in modo teorico e astratto, comincia proprio da qui. Quando Dio ha dato un ordine chiaro nella Sua parola, noi che diciamo di credere in Lui dobbiamo essere convinti di due cose:
    1) che l'ordine dato è giusto e buono;
    2) che abbiamo da Dio la forza di metterlo in pratica.
Adamo ed Eva hanno cominciato a peccare quando hanno fatto del comandamento di Dio un oggetto di discussione. Se avessero ubbidito senza discutere avrebbero capito sempre più profondamente il motivo dell'ordine di Dio, ma avendo cercato di capire quando bisognava soltanto ubbidire, non hanno capito né allora né poi, perché dopo aver trasgredito il comandamento di Dio la strada della sua comprensione è sbarrata, come era sbarrata per Adamo ed Eva la strada del rientro nel giardino di Eden. Chi non si ravvede del suo peccato si immerge sempre di più nella menzogna, perché continua a elaborare teorie giustificative che lo avvolgono sempre di più nelle tenebre della falsità. In quelle condizioni, parlare di "capire prima di ubbidire" è solo un inganno diabolico.
  In conclusione, rallegrati pure, o giovane, negli anni della tua giovinezza, ma ricordati di Dio e della sua legge nel tempo in cui sono più evidenti i segni della sua bontà verso di te. E soprattutto, ricordati di quello che Dio ha fatto per te in Gesù Cristo. Dio si è ricordato di te. Non commettere il delitto, proprio a causa della forza e del benessere che Dio ti sta concedendo, di dimenticarti di Lui.
   
(da “Credere e Comprendere”, febbraio 1989)




Offensiva contro Hamas. Bluff di Israele sui media per preparare l’attacco

Salgono i morti nella Striscia. Ucciso un miliziano di Hezbollah in Libano Dai Territori richiesta di tregua. Netanyahu: "Non è ancora finita"

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Si moltiplicano i fronti delle ostilità per Israele: nell’ultima giornata, oltre al durissimo scontro con Hamas, la tensione monta in Cisgiordania, al confine libanese e non si placano i violenti scontri interni che stanno sconvolgendo i precari equilibri della società israeliana. Mentre continuano i lanci di missili da Gaza sulle città israeliane, Israele sferra un bombardamento dietro l’altro: il palazzo Ansar, il ministero degli Interni e della Sicurezza nazionale di Hamas, si aggiunge alla lista di oltre 750 obiettivi legati a Hamas e alla Jihad Islamica che l’esercito ha già colpito in quattro giorni di combattimenti. Ed è proprio in quei momenti, mentre atterra in Israele Hady Amr, l’inviato americano incaricato da Biden di mediare tra le parti, che arrivano le prime voci su una possibile tregua in arrivo. Khaled Mashal tramite l’agenzia di stampa turca dice che Hamas è pronto al cessate il fuoco. Negli stessi istanti la tv israeliana cita "fonti governative" secondo cui «Israele ora potrebbe cominciare a discutere di una tregua, ma ci vorrà ancora qualche giorno». Poco prima Netanyahu aveva dichiarato: «Non è finita. Stanno pagando e continueranno a pagare un caro prezzo per averci attaccato nella capitale e lanciato missili sulle nostre città». Se vuoi la tregua, cerca la guerra.
   Il lancio di sei missili di Hamas lunedì verso Gerusalemme aveva dato il via a bombardamenti senza precedenti dell’aviazione israeliana sulla Striscia e a incessanti lanci di missili da Gaza, che hanno puntato l’area metropolitana di Tel Aviv come mai in passato. Nella notte di giovedì, Israele cambia le carte in tavola e avvia la più massiccia offensiva dall’Operazione Margine Protettivo del 2014, mettendo in campo per la prima volta dall’inizio degli scontri anche forze di terra. Per 40 minuti 160 aerei bombardano il Nord della Striscia, mentre corazzati, artiglieria e fanteria sono schierati a ridosso del confine in uno schema di cui solo il giorno dopo si capirà il meccanismo. Il portavoce internazionale dell’Idf ha tratto in inganno la stampa estera, con un comunicato ambiguo che ha fatto credere ad alcuni giornalisti che Israele stesse invadendo via terra. L’ Afp rilancia, il Wsj cita anche fonti palestinesi che intravedono i carri in mobilitazione. Nulla di tutto ciò è vero e dopo un’ora arriva una «precisazione» del portavoce militare: le truppe israeliane non sono nella Striscia di Gaza. La mossa ottiene l’obiettivo stabilito: una trappola per gli uomini di Hamas che prendono postazione all’interno della "Metro". Così chiamano gli ufficiali dell’Idf il sistema di tunnel sotterranei.
  Sotto le macerie dopo i bombardamenti, secondo l’esercito israeliano, si trovano decine di operativi di alto di livello di Hamas. Con loro, anche diverse vittime civili, che secondo le stime del ministero della Salute palestinese di Gaza, portano il bilancio dei morti dall’inizio delle ostilità a 126, tra cui 31 bambini. Israele sostiene che almeno 75 tra le vittime siano combattenti e che una parte delle vittime siano il risultato di "fuoco amico", razzi esplosi all’interno della Striscia. Il portavoce militare riporta che in quattro giorni sono stati lanciati su Israele oltre 2mila missili, intercettati al 90 percento dal sistema antimissilistico Iron Dome. Le vittime israeliane sono 9. «L’obiettivo di Israele è infliggere un colpo duro a Hamas che ripristini la deterrenza », ci dice il professor Uzi Rabi, direttore del centro Dayan dell’Università di Tel Aviv. «L’azione di giovedì notte è stata un game changer , e per questo ora si può cominciare a parlare di tregua». Ma ci sono ancora altri obiettivi che Israele intende ancora colpire per stroncare lo scheletro dell’organizzazione, «spostando il prossimo round di scontri il più lontano possibile», dice Rabi. La conferma di Biden «al diritto d’Israele di difendersi», espresso in una telefonata a Netanyahu, garantisce ancora qualche giorno di manovre, probabilmente fino a dopo la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu prevista domenica.
  Mentre molta della concentrazione dell’establishment politico e delle forze di sicurezza è volta a cercare di gestire la situazione di guerriglia interna che dilaga nelle città a popolazione mista musulmana ed ebraica, ora il focus rischia di spostarsi su altri fronti. In vista del giorno della Nakba, "la Catastrofe", come definiscono i palestinesi quella che per gli israeliani è la data civile dell’indipendenza dello Stato, le tensioni si sono fatte sentire anche al Nord e in Cisgiordania. Al confine con il Libano dei sostenitori di Hezbollah hanno varcato il confine con la cittadina di Metulla, imbattendosi nel fuoco dei soldati israeliani che hanno provocato un morto, il 21enne Muhammad Tahhan. Un altro giovane è rimasto ferito. In Cisgiordania si sono tenute per la prima volta dall’inizio dell’escalation con Gaza manifestazioni nelle città palestinesi, coordinate da Hamas. Gli scontri con l’esercito hanno provocato 9 morti tra i palestinesi. Abu Mazen ha chiesto alla comunità internazionale di condannare Israele e ha invocato la mediazione americana per fermare «"la brutale aggressione israeliana». Si apre per l’amministrazione Usa il primo banco di prova sulla questione israelo-palestinese dall’insediamento di Biden.

(la Repubblica, 15 maggio 2021)


Israele e Gaza, Eydar: «Ci hanno attaccato loro noi siamo pronti a tutto»

di Gianluca Perino

- Dror Eydar, ambasciatore di Israele in Italia, era necessario l'attacco a Gaza?
  «Israele è sotto attacco missilistico da più di quattro giorni. Hamas ha iniziato la sua offensiva lunedì alle ore 18:00 israeliane, lanciando missili verso la nostra capitale, Gerusalemme. E ognuno di quei duemila missili era destinato alle famiglie, ai bambini e agli anziani israeliani. Ne abbiamo neutralizzata una parte considerevole, ma alcuni sono caduti all'interno di Israele e hanno recato danno alle case e hanno colpito le famiglie. Questa è una situazione impossibile, che nessun paese civile potrebbe accettare. Hamas non è un'organizzazione militare, ma un'organizzazione terroristica, il cui documento fondante, la Convenzione di Hamas, è un documento nazista, che parla della distruzione dello Stato di Israele e sostiene l'uccisione di tutti gli ebrei ovunque si trovino. Oltretutto, circa un quarto dei missili lanciati da Hamas è caduto nella stessa Striscia di Gaza e ha ucciso bambini e donne innocenti. Non abbiamo lanciato l'attacco, ma abbiamo risposto ai feroci attacchi di Hamas. E faremo di tutto per proteggere i nostri cittadini. È un ordine categorico supremo».

- Quali sono le vere ragioni dietro questa guerra e chi sono i responsabili dell'escalation?
  «Hamas si ispira all'Iran, che gli fornisce denaro, armi, tecnologia e addestramento. L'interesse dell'Iran è quello di minare la stabilità in tutto il Medio Oriente, aumentando così la sua influenza e il suo controllo in questa regione: è il caso di Siria, Iraq, Libano, Yemen, ma anche della Striscia di Gaza. Hanno interesse a minare la stabilità all'interno dell'Autorità Palestinese e anche tra i cittadini arabi di Israele. E hanno pianificato questo attacco con molte settimane di anticipo».

- Per quale motivo?
  «Non hanno bisogno di particolari ragioni per nuocere agli ebrei. Hanno approfittato del sentimento religioso e infiammato il clima con l'antico falso slogan: Al-Aqsa è in pericolo. In pratica, mentre decine di migliaia di musulmani pregavano sul Monte del Tempio, gli ebrei non potevano accedere al Muro Occidentale per pregare, perché dalla moschea venivano lanciate contro di loro pietre, pezzi di ferro e molotov. Facendo così, Hamas ha anche profanato la santità del luogo. Il loro piano era di infiammare Gerusalemme, Samaria e Giudea, e di lasciare Gaza da parte. Ma hanno sbagliato i calcoli».

- L'abilità offensiva di Hamas è aumentata notevolmente. Hanno armi più potenti, razzi a lungo raggio e un servizio di intelligence preparato. Chi ha costruito questo apparato? E con il supporto di chi?
  «La formazione proviene dall'Iran, anche il denaro, le armi e l'addestramento. Hamas utilizza tutti i rifornimenti che entrano nella Striscia di Gaza per ragioni umanitarie, per i suoi scopi terroristici. Il cemento, ad esempio, destinato alla costruzione di case, viene utilizzato quasi interamente per la costruzione di tunnel terroristici. Le strutture portanti per costruire le case, vengono invece usate per costruire missili. I fertilizzanti progettati per migliorare l'agricoltura, per preparare degli esplosivi. Anche i soldi che arrivano a Gaza dalle organizzazioni umanitarie o da Israele vengono spesi principalmente per i bisogni militari di Hamas. A proposito, Israele fornisce elettricità a Gaza dalla centrale elettrica di Rotenberg ad Ashkelon e fornisce loro acqua dalla stazione Simcha vicino a Sderot. Entrambi i luoghi sono stati colpiti dai missili di Hamas. Il salto di qualità è avvenuto nel 2012, quando i Fratelli Musulmani hanno preso il potere in Egitto per circa un anno, trasferendo a Gaza macchinari pesanti per la lavorazione dei metalli e la produzione di missili».

- Come possono queste armi entrare nella Striscia di Gaza?
  «La maggior parte dei missili sono di produzione propria e, come dicevo prima, i materiali e il denaro per la loro produzione provengono dagli aiuti umanitari che Hamas sottrae ai suoi residenti per finanziare il terrorismo».

- L'Europa, e non solo, sostiene la popolazione di Gaza con tanti fondi: come vengono utilizzati questi soldi? E chi li gestisce?
  «Per anni abbiamo avvertito gli europei che il denaro che danno agli abitanti di Gaza - miliardi di euro dei contribuenti - viene utilizzato principalmente per il terrorismo. Hamas e altre organizzazioni stanno sfruttando la generosità degli europei, rubando la maggior parte dei soldi e rifornendo così la loro macchina del terrore. L'ultimo attacco dell'IDF, la scorsa notte, ha rivelato alcune strutture della città che Hamas aveva costruito non per turismo ma per terrorismo. E in gran parte i finanziamenti per questa farsa sono stati presi da fondi europei. Si può tranquillamente seguire la strada che hanno fatto questi fondi da quando sono stati erogati fino a quando sono stati collocati sulla testata di un missile».

- Crede che questa operazione possa creare problemi nella convivenza tra ebrei e arabi israeliani in tante città?
  «Israele è uno stato di diritto e non accetterà alcuna condotta brutale da parte di qualsiasi settore della sua popolazione. Hamas, l'Iran e mezzi di comunicazione come Al-Jazeera disseminano ormai da anni odio e rabbia fra i cittadini arabi di Israele. La maggior parte dei cittadini arabi è interessata a far parte del tessuto sociale in Israele, e abbiamo già visto molte iniziative di ebrei e arabi che hanno manifestato vicinanza e cooperazione, invitando ad opporsi alla polarizzazione durante i difficili eventi che abbiamo vissuto. Il Primo Ministro e altri leader del Paese, fra cui i leader religiosi, hanno invitato tutti i cittadini a restare uniti e a ricordare che abbiamo tutti il destino comune di vivere insieme. Purtroppo, una piccola ma significativa parte ha ceduto all'istigazione, fatta di toni religiosi apocalittici. Israele non consentirà una situazione di anarchia tra i diversi gruppi della popolazione e sta lavorando per ripristinare la legge e l'ordine nelle città coinvolte. Siamo una società in fase storica di formazione, anche i dolori e le ferite fanno parte della creazione delle fondamenta di una società».

- Cosa ne pensa della posizione del governo italiano su questa situazione?
  «Siamo stati lieti di vedere il sostegno trasversale al diritto di Israele di proteggere i suoi cittadini e la condanna radicale del brutale attacco terroristico che Israele sta subendo. Ringraziamo il Ministro degli Esteri Di Maio e il suo vice Della Vedova per i messaggi di vicinanza e sostegno nei nostri confronti. Siamo stati anche felici di vedere le manifestazioni di sostegno nelle principali città italiane. I nostri due popoli storicamente condividono un destino comune».

- La comunità internazionale chiede il cessate il fuoco: quando vi fermerete?
   «Non capisco perché questa richiesta sia rivolta a noi, mentre tutti sanno che è Hamas che ha iniziato questa offensiva prepianificata. Questa è una situazione insostenibile e inaccettabile, in cui deve essere fatto ogni sforzo per far sì che il nemico non voglia proseguire».

(Il Messaggero, 15 maggio 2021)


Hanno ragione quelli de Il Post: quella tra Israele e terroristi non è una guerra alla pari

di Franco Londei

Sulla guerra tra Israele e terroristi arabi si è letto di tutto e di più, ma l’articolo più “originale” l’hanno scritto quelli de Il Post, nome altisonante che rievoca testate importanti.
   L’articolo, del quale mi sfugge la firma, si intitola «Non è una guerra alla pari» ed è l’ennesimo banalissimo spiegone su come i poveri (poverissimi) terroristi palestinesi si trovino a combattere il potentissimo esercito israeliano usando “solo” missiletti racimolati qua e là oppure costruiti in cantina.
   L’articolo tuttavia ci offre la possibilità di spiegare a coloro che poco sanno del conflitto tra Israele e terroristi arabi, perché quelli de Il Post hanno ragione, anche se non è per i motivi da loro addotti.
   Prima di tutto non è una guerra alla pari perché da un lato, quello israeliano, si fa di tutto per proteggere i propri civili e anche per limitare le perdite di civili dall’altra parte, mentre i terroristi arabi fanno di tutto per colpire i civili israeliani e usano i propri come scudi umani.
   Detta così sembra una cosuccia da niente, ma è proprio questo il motivo per cui si chiama “guerra asimmetrica” non quello raccontatoci da Il Post.
   Non voler colpire i civili per gli israeliani vuol dire limitare di molto il proprio potenziale bellico, vuol dire non combattere alla pari
   Perché? Ma perché proteggere i civili di ambo le parti costa moltissimo. Non voler colpire i civili per gli israeliani vuol dire limitare di molto il proprio potenziale bellico, vuol dire non combattere alla pari.
   Tecnicamente potrebbero annientare Hamas in una giornata ma non lo possono fare perché Hamas si nasconde tra i civili, lancia i missili da postazioni posizionate deliberatamente tra palazzoni abitati, scava i tunnel sotto abitazioni civili e ospedali.
   Nel contempo gli israeliani devono difendere i propri di civili, che invece sono il target dei terroristi. Per farlo usano un sistema chiamato Iron Dome (cupola di ferro), il quale intercetta quasi tutti i missili che potenzialmente possono provocare danni ai civili.
   I terroristi arabi non si curano del problema dei civili, anzi, più civili israeliani uccidono e più diventano eroi.
   Come può, una guerra fatta così, essere alla pari? Semplicemente non può perché da una parte c’è chi si difende con tutte le attenzioni per i civili, gli israeliani, mentre dall’altra c’è chi vuole sterminare i civili, i terroristi arabi. Da un lato c’è la legittima difesa, dall’altro l’illegittima offesa.
   E poi, come può essere alla pari un conflitto dove sistematicamente chi si difende finisce sotto accusa e chi attacca passa per “poverello” e da attaccante finisce per passare da vittima?
   Quindi no, cari amici del Il Post, non è una guerra alla pari, avete perfettamente ragione.

(Rights Reporter, 15 maggio 2021)


La TV palestinese ammette che Israele preavverte i civili prima di colpire un obiettivo

Mentre i terroristi di Gaza attaccano i civili israeliani facendosi scudo dei civili palestinesi

Per evitare vittime innocenti, prima di colpire un palazzo usato come base operativa dai terroristi le Forze di Difesa israeliane avvertono per tempo i civili di sgomberare mediante sia telefonate sia colpi di avvertimento. Ora lo ammette persino la televisione ufficiale dell’Autorità Palestinese.
    Reporter della tv ufficiale dell’Autorità Palestinese: «Quando sono stati informati che questo palazzo sarebbe stata attaccato… il sito è stato completamente evacuato. L’isolato, la strada, gli edifici civili e gli edifici residenziali della zona, completamente, compresi bambini e donne, e l’abbiamo visto… Il guardiano che lavora in questo palazzo è stato avvertito tramite una telefonata dell’agenzia di sicurezza israeliana. Gli hanno detto testualmente: “Evacuate il palazzo e dite loro che questo palazzo sarà attaccato. Sarà attaccato in qualsiasi momento”. Dopo questa conversazione, il palazzo è stato attaccato circa due ore dopo.»
    (TV ufficiale dell’Autorità Palestinese, 11.5.21)
(israele.net, 15 maggio 2021)



L’irrilevante

Dov’è Abu Mazen? E’ impopolare tra i palestinesi e poco credibile all’estero

di Micol Flammini

ROMA - Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità nazionale palestinese, è l’assente, o addirittura il primo sconfitto, nello scontro che da lunedì sera vede fronteggiarsi Gaza e Israele. Con i suoi ottantacinque anni di età e quindici di presidenza, Abu Mazen aveva pensato che l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca avrebbe coinciso con una maggiore apertura americana verso la causa palestinese. Per farsi vedere ben disposto e per compiacere Biden aveva anche indetto per la prima volta delle elezioni che poi, per paura di perdere, ha cancellato. Avrebbe vinto Hamas, il gruppo che ha il controllo della Striscia di Gaza e che ha lanciato l’offensiva contro Israele. Abu Mazen, dopo aver cercato di proporre a Hamas un governo di unità nazionale, ha annullato le elezioni. Non avendo intenzione di assumersi la responsabilità della cancellazione di un voto così atteso, ha detto che non si sarebbe tenuto per colpa di Israele, che non avrebbe permesso ai palestinesi che risiedono a Gerusalemme est di votare nella capitale.
   La cancellazione delle elezioni è stata uno dei tanti fattori scatenanti di questo conflitto, ha messo Hamas in una posizione di forza e Mahmoud Abbas nella condizione di aver perso comunque le elezioni, senza neppure averle svolte. Le prime proteste a Gerusalemme durante lo scorso fine settimana non erano soltanto contro Israele, ma anche contro Abu Mazen e giovedì alcuni dei fedeli che si sono recati alla moschea di al Aqsa per la preghiera portavano con loro le bandiere di Hamas e davano del traditore ad Abu Mazen. Hamas è stata rapidissima a trasformare i razzi in uno show a suo favore e la debolezza di Abu Mazen gli sta rendendo il compito semplice. Il leader dell’Autorità palestinese e il suo partito Fatah in questi giorni hanno deciso di non assumere una propria linea riguardo al conflitto, di limitarsi, come accaduto ieri, a chiedere a Biden “di intervenire per fermare l’aggressione israeliana”.
   Oltre ad aver perso da tempo il sostegno dei palestinesi, Abu Mazen ha anche perso l’interesse della comunità internazionale che lo considerava un interlocutore. Il segretario di stato americano, Antony Blinken, il presidente francese Macron, il turco Erdogan e il re giordano Abdallah II si sono rivolti a lui, ad Abu Mazen, per parlare del conflitto, ma più per prassi che per convinzione. In questi anni si è dimostrato un fallimento agli occhi dei palestinesi ma anche dei leader internazionali, perché Abu Mazen non ha mai lavorato per favorire pace e integrazione, né per migliorare le condizioni di vita del suo popolo. In questo momento la comunità internazionale ha ancora meno ragioni per essere interessata a un leader che non soltanto non ha avuto successo, ma che oggi è anche irrilevante. Non ha influenza né su Hamas né sugli altri gruppi armati che imperversano a Gaza, come il Jihad islamico. Non può mediare, non è ascoltato, i suoi rapporti con la Striscia erano complicati prima, non ci mette piede dal 2007, e dopo il voto annullato lo sono ancora di più.
    E’ il primo sconfitto di questa guerra, che lui ha contribuito a causare e probabilmente il governo di Abu Mazen sarà la prima cosa che cambierà dopo la fine degli scontri, perché il capitale politico che Hamas sta guadagnando chiederà il conto. il leader di Fatah ora è impegnato a proteggere il suo potere, il Jerusalem Post racconta che aveva ordinato alle sue forze di sicurezza di impedire che nelle aree controllate dall’Autorità palestinese in Cisgiordania si svolgessero scontri e manifestazioni a favore di Hamas. Ma le violenze tra arabi ed ebrei sono cominciate venerdì ed erano fomentate da Hamas. Un commentatore palestinese ha detto al Times of Israel una cosa che dà la misura del successo dell’organizzazione terrorista: “Hamas ha guadagnato molta popolarità. In Cisgiordania, di sicuro, e altrove nella diaspora palestinese. Forse un po’ meno a Gaza”, dove le conseguenze della politica di Hamas le stanno subendo.

Il Foglio, 15 maggio 2021)


Israele-Gaza, Biden sbaglia a sottovalutare l’Iran. Parla Panella

Carlo Panella, giornalista e scrittore, commenta l’escalation di violenze in Medio Oriente sottolineando le responsabilità di Netanyahu ma anche l’errore Usa di sottovalutazione dell’espansionismo iraniano

di Gabriele Carrer

Le violenze di questi giorni in Medio Oriente hanno colto alla sprovvista un po’ tutti. Compresi gli Stati Uniti di Joe Biden, secondo Carlo Panella, giornalista e scrittore, grande esperto di Medio Oriente. - Siamo davanti a una nuova intifada?
   No. Soprattutto quella delle stragi è stata un’ondata di attacchi terroristici appoggiata e organizzata centralmente sia da al Fatah sia da Hamas.

- Allora a che cosa stiamo assistendo?
   In Israele stiamo assistendo, purtroppo per la prima volta dal 1948, al fatto che settori marginali ma importanti della popolazione araba si scagliano contro gli ebrei israeliani. È la conseguenza di un radicale errore del governo Netanahyu, che ha puntato sulla marginalizzazione della popolazione araba.

- È guerra civile?
   Non siamo assolutamente ai livelli di una guerra civile, che è qualcosa di drammaticamente più serio e complesso. Siamo però alla rottura iniziale di un patto di convivenza tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba che aveva retto in maniera pregevole per 70 anni.

- I fatti di questi giorni come potrebbero impattare sull’eventuale adesione della formazione araba Ra’am a un governo senza Benjamin Netanyahu con i centristi i Yair Lapid e la destra di Naftali Bennett?
   Il fenomeno Ra’am è molto interessante: è un’organizzazione legata ai Fratelli musulmani, integralista e in qualche senso oltranzista, ma che evidenzia un dato positivo: per la prima volta nella comunità arabo israeliana una componente sceglie la strada della trattativa politica. Ra’am è estremamente duttile e malleabile, l’ha dimostrato in quei giorni quando il leader Mansour Abbas ha dato la disponibilità a riprendere i negoziati appena cessano i disordini. Ma è importante sottolineare che le trattative condotte con il Likud di Netanyahu nelle scorse settimane sono fallite non per le condizioni poste dagli arabi ma perché l’estrema destra religiosa che, ahimè il primo ministro ha favorito fino a farle ottenere una rappresentanza parlamentare, si è rifiutata di aver qualsiasi rapporto con una formazione araba.

- Gli Stati Uniti di Joe Biden possono avere un ruolo nel riportare la situazione sotto controllo?
   Gli Stati Uniti non hanno nessun ruolo perché non capiscono nulla. La posizione di Biden è sbalorditiva: considera il Medio Oriente marginale, balbetta nei confronti di questa crisi. È palese che Hamas sia, come la Jihad islamica, eterodiretta dall’Iran. Basti pensare agli armamenti iraniani schierati in questi giorni, che sono di difficile utilizzazione e che dunque rivelano l’esistenza di addestratori iraniani. Il che fa saltare completamente la visione idilliache che aveva Biden di riprendere l’accordo nucleare con l’Iran la cui Guida suprema Ali Khamenei ha appena ribadito la necessità di distruggere Israele e sostenere Hamas.

- Gli Stati Uniti sono colti alla sprovvista?
   È un disastro di dottrina che non si vedeva ai tempi di Jimmy Carter. Persino osservatori progressisti e filo Biden rilevano il balbettio incredibile dell’amministrazione in questa crisi.

- Da dove nasce tutto questo?
   Deriva da una dottrina sbagliata, che è stata quella di Barack Obama di cui Biden è stato vice: l’amministrazione rifiuta di vedere come l’Iran, attraverso i Pasdaran e una componente oltranzista palestinese, Jihad islamica, Hezbollah e Houthi, abbia il progetto strategico di esportare la rivoluzione in Medio Oriente. E negli ultimi anni ha fatto enormi progressi.

(Formiche.net, 15 maggio 2021)


Klein: "In Germania antisemitismo alimentato dalle parole di Erdogan"

L’intervista con il sottosegretario agli Interni del governo Merkel

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO — Da giorni, centinaia di persone stanno scendendo in piazza in Germania per manifestare contro Israele. Ma lo fanno urlando «ebrei di merda», tirando pietre contro sinagoghe, bruciando bandiere israeliane. Per Felix Klein, sottosegretario all’Interno e responsabile per la lotta contro l’antisemitismo, non si tratta di legittime proteste contro Netanyahu, ma di manifestazioni di odio contro gli ebrei organizzate da «ambienti islamisti e arabi». Alimentati anche, nel Paese in cui vive la più grande comunità turca al mondo, dalla presa di posizione di Erdogan contro Tel Aviv.

- Klein, cosa pensa delle manifestazioni contro Israele di questi giorni?
  «Questo odio sfrenato è spaventoso. E in alcuni casi sono stati commessi anche dei reati. È una situazione che ricorda quella del 2014, quando esplose una tensione simile tra Israele e la Striscia di Gaza. Allora ci furono manifestazioni e rivolte con slogan anti-israeliani. Ma anche inviti a gasare gli ebrei. Che una cosa del genere venisse urlata nelle strade tedesche dopo il 1945, è qualcosa che nessuno avrebbe ritenuto possibile. Anche allora sono state bruciate bandiere israeliane. Per questo ho chiesto, appena insediato come Responsabile alla lotta contro l’antisemitismo, che dare fuoco alle bandiere fosse considerato un reato penale. Dall’anno scorso quella norma è legge e la polizia può intervenire, nel caso».

- Ma la polizia non lo ha fatto in varie occasioni, negli ultimi giorni.
  «È vero. E non va bene. Anche se penso che la polizia possa averlo fatto per evitare un’ulteriore escalation».

- Che lei sappia chi è che sta manifestando, gridando "ebrei di merda", bruciando le bandiere israeliane e attaccando le sinagoghe? Sono neonazisti?
  «Per quanto ne so, gli autori provengono principalmente dall’ambiente islamista e arabo. Saranno i servizi segreti interni a chiarire se ci siano dietro organizzazioni pericolose. Non sappiamo ancora quanto queste proteste siano pilotate. Ma ciò che è abbastanza chiaro è che le associazioni musulmane dovrebbero condannare questo antisemitismo».

- Non l’hanno ancora fatto?
  «Per quanto ne so, non ancora. Mi aspetto che dicano chiaramente che il dissenso non può essere espresso in questa forma, con roghi di bandiere israeliane e insulti contro gli ebrei. Quando si lanciano pietre contro le sinagoghe, è antisemitismo».

- La dichiarazione di Erdogan contro Israele (dobbiamo dargli «una lezione») può aver influenzato le piazze?
  «Nella mia opinione sì, penso che Erdogan le abbia influenzate. In alcune delle manifestazioni sono spuntate anche bandiere turche. Credo che la presa di posizione di Erdogan sia caduta su un terreno molto problematico. E l’influenza di Erdogan su alcune parti della comunità turca in Germania è ben nota. Ed è naturale che ciò abbia delle conseguenze».

- Pensa che la situazione possa peggiorare?
  «Se la situazione a Gaza si aggrava, gli attacchi in Germania potrebbero aumentare. L’esperienza del 2014 lo dimostra. D’altra parte, la polizia e la magistratura sono in grado di affrontare meglio questi incidenti. E hanno rafforzato le misure di sicurezza intorno alle istituzioni ebraiche».

- Dov’è il confine tra le proteste legittime contro il governo israeliano e l’antisemitismo?
  «L’equiparazione degli ebrei in Germania e Israele è già, di per sé, un esempio di antisemitismo. Incolpare gli ebrei e le loro istituzioni, come le sinagoghe o le scuole, per ciò che il governo israeliano sta facendo, è di per sé antisemita. Come se i cittadini tedeschi potessero influenzare in alcun modo il governo Netanyahu».

(la Repubblica, 15 maggio 2021)


Israele attacca Gaza. Pioggia di fuoco da aerei e carri armati

Le notizie di "la Repubblica" su Israele a firma Sharon Nizza si susseguono continuamente. Ne riportiamo la prima in versione cartacea e due in versione online. NsI

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Nella notte l'esercito israeliano ha lanciato un massiccio attacco con forze aeree e di terra nella Striscia di Gaza. Si tratta dei bombardamenti più duri dall'Operazione Margine Protettivo del 2014. L’attacco a tenaglia è partito da Nord e da Sud con un bombardamento da aerei, elicotteri e tank. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per gli i lanci di missili contro la popolazione israeliane e che ''l'operazione continuerà per tutto il tempo necessario''. ''Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all'esterno e contro i fuorilegge all'interno per riportare la calma nello Stato di Israele''. Media locali parlavano di famiglie palestinesi stanno scappando dal Nord della Striscia a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco.
    La giornata di ieri, la terza di combattimenti tra Israele e Hamas, è stata segnata da una costante escalation su tre fronti, con la novità a ora di cena quando tre razzi lanciati dal Libano cadono nel Mar Mediterraneo. Non suonano le sirene e la comunicazione è diffusa da un reporter della Tv filo Hezbollah Al Manar, confermata in seguito dall'esercito israeliano. Il corrispondente di Al Jazeera in Libano diffonde una dichiarazione di una fonte di sicurezza libanese secondo cui non c'è Hezbollah dietro, e i razzi sono stati lanciati dal campo profughi palestinese Rashidieh. Ci sarebbero degli arresti da parte delle forze di sicurezza libanesi. Uno sviluppo che potrebbe rimescolare le carte in tavola e che arriva a corollario di una giornata scandita dalle notizie sui due fronti principali: le incessanti sirene che annunciano i lanci di missili da Gaza, sul Negev come su Tel Aviv, si accavallano alle comunicazioni di nuovi bombardamenti sulla Striscia.
    Il terzo fronte riguarda lo scenario politico. Ieri sera infatti Naftali Bennett annuncia il congelamento dei colloqui con il ''campo del cambiamento'' guidato da Yair Lapid, e in un clamoroso dietrofront torna a negoziare con Netanyahu per formare un governo di destra. Con oltre 1800 missili lanciati sulle città israeliane, il portavoce dell'esercito aveva annunciato di primo mattino che l'esercito sta valutando piani per un possibile ingresso via terra a Gaza. Più tardi, arriva il dispiegamento di alcune unità combattenti al confine con la Striscia e l'arruolamento di 9000 riservisti. Nel corso nella giornata si apprende che parte dei riservisti saranno impiegati per rimpiazzare unità della polizia di frontiera dislocate nelle città stravolte dagli scontri violenti. La mossa è ''qualcosa di mezzo tra deterrenza e previdenza'', ci dice il prof Eyal Zisser, mediorientalista e vicerettore dell'Università di Tel Aviv in un Medioriente dalle dinamiche spesso sorprendenti, ''dove tutto può succedere'', così come un lancio da Gaza di sei missili sulla capitale nel pieno dei festeggiamenti del ''Giorno di Gerusalemme'', l'azione che ha aperto la campagna in corso lunedì. Israele ha sorpreso a sua volta Hamas colpendo da subito duramente la Striscia.
   In tre giorni, con oltre mille attacchi, ha colpito 750 obiettivi, tra cui 33 tunnel di Hamas, 160 rampe di lancio, la Banca Islamica Centrale. L’esercito ha allertato i residenti palestinesi affinché evacuassero l'area prima degli attacchi. Ma in serata è stato colpito un villaggio a nord della Striscia, con i media locali che hanno parlato di 11 morti, compresa una madre incinta e i suoi 4 figli. Il portavoce dell'esercito comunica che sono stati eliminati 60 operativi delle varie organizzazioni militari. Tra questi, figure chiave di Hamas come Bassem Issa, il comandante della Brigata di Gaza City, Jomaa Tahla, capo dell'unità cyber, e figure altamente qualificate come Nazzem Hatib, capo dell'unità di ingegneria. Ma anche Manelis rimane cauto: il rischio che le parti rimangano invischiate nella spirale delle rappresaglie infinite è alto e nulla può essere escluso.

(la Repubblica, 14 maggio 2021)


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L'esercito israeliano attacca Gaza con aviazione e carri armati

Il portavoce delle forze armate: "Nessuna truppa ha varcato il confine". Il premier israeliano: "Ho detto che avremmo fatto pagare un prezzo molto alto ad Hamas. Lo facciamo e continueremo a farlo con grande intensità". Il presidente francesce Macron: "Faccio un forte appello al cessate il fuoco e al dialogo. Vi chiedo calma e pace".

di Sharon Nizza

A tre giorni dall'inizio dell'escalation, poco dopo la mezzanotte l'esercito israeliano ha lanciato un massiccio attacco con forze aeree e di terra contro la Striscia di Gaza. Si tratta dei bombardamenti più duri dall'Operazione Margine Protettivo del 2014. Per due ore, aerei, artiglieria e carri armati israeliani hanno attaccato circa 150 obiettivi nelle aree settentrionali e orientali della Striscia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che "l'operazione continuerà per tutto il tempo necessario". "Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all'esterno e contro i fuorilegge all'interno per riportare la calma nello Stato di Israele". Media locali riferiscono di famiglie palestinesi che stanno scappando dal Nord della Striscia verso Gaza City a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco. L'agenzia stampa palestinese Wafa riferisce di due morti e una dozzina di feriti a Beit Lahia. Ieri l'esercito aveva dispiegato al confine con la Striscia unità di fanteria e corazzati e richiamato 9,000 riservisti. L'esercito ha ordinato alla popolazione israeliana nel raggio di 4 chilometri dalla Striscia di rimanere chiusi nei rifugi fino a nuova comunicazione. Nel corso della notte si è registrata un'altra vittima israeliana a Sderot.
    Secondo alcune testimonianze raccolte dal Wall Street Journal, le truppe israeliane sono avanzate da nord con i carri armati. Il portavoce dell'esercito ha tuttavia smentito la presenza di truppe all'interno della Striscia. La notizia dell’ingresso via terra era stata inizialmente comunicata da diversi media internazionali che si basavano su una conferma del portavoce dell’esercito data in inglese, Jonathan Conricus, creando grande confusione tra i cronisti. Secondo il corrispondente militare della televisione israeliana Kan11, potrebbe trattarsi di un tentativo di trarre in inganno Hamas, in una sorta di “battaglia psicologica”.
    Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che "l'operazione continuerà per tutto il tempo necessario". "Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all'esterno e contro i fuorilegge all'interno per riportare la calma nello Stato di Israele", ha detto il premier. Che ha parlato anche dell'altro fronte, quello delle rivolte nelle città israeliane: "Appoggiamo al cento per cento la polizia ed il resto delle forze di sicurezza per riportare la legge e l'ordine nelle città di Israele. Non tollereremo l'anarchia".
    Lanci di missili da parte di Hamas e della Jihad Islamica non sono cessati per tutta la notte, raggiungendo anche Ashkelon e Beersheva. "La spirale di violenza in Medio Oriente deve finire", twitta il presidente francese Emmanuel Macron pochi minuti dopo la notizia dell'attacco di terra lanciato da Israele. "Faccio un forte appello al cessate il fuoco e al dialogo. Vi chiedo calma e pace".

 La gaffe dell'invasione via terra annunciata e poi negata   
   Il Times of Israel prova a spiegare la clamorosa gaffe dell'esercito israeliano, che stanotte attraverso un suo portavoce ha prima annunciato l'avvio delle operazioni di terra a Gaza e dopo un paio d'ore ha precisato che invece le truppe non erano mai entrate nella Striscia, adducendo "un problema interno di comunicazione". "Le forze di difesa israeliane - scrive il giornale sul suo sito web - sembrano aver indotto erroneamente i media stranieri a credere che l'esercito avesse lanciato un'invasione di terra nella Striscia durante il suo massiccio bombardamento del nord di Gaza. Nella sua dichiarazione iniziale in inglese, l'esercito ha espresso in modo ambiguo dove si trovavano le sue forze di terra durante l'attacco, dicendo che "le truppe aeree e di terra dell'Idf stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza". Quando è stato chiesto di chiarire la questione, ovvero se ci fosse stata un'invasione di terra, il portavoce dell'esercito Jonathan Conricus ha risposto: 'Sì. Come è scritto nella dichiarazione. In effetti, le forze di terra stanno attaccando a Gaza. Questo vuol dire che sono nella Striscia'". Ma, continua Times of Israel, sebbene dire che l'esercito era dentro Gaza "fosse tecnicamente corretto", è stato fuorviante: "Alcune truppe dell'Idf erano effettivamente posizionate in un'enclave tecnicamente all'interno del territorio di Gaza, ma a tutti gli effetti sotto il controllo israeliano. Per questo la loro presenza lì non poteva rappresentare un'invasione di terra".

 Oltre 1.800 razzi lanciati dall'inizio del conflitto, Israele risponde con i raid
   Sono oltre 1.800 i razzi lanciati da Gaza in direzione delle città israeliane da quando sono iniziate le ostilità fra Hamas e Israele. Secondo il portavoce militare, circa il 90 per cento di quelli diretti verso aree abitate sono stati intercettati dal sistema antimissilistico Iron Dome. Mercoledì mattina le stesse forze armate avevano spiegato che da lunedì alle 18 – inizio delle ostilità con il lancio di sei missili su Gerusalemme - mille razzi erano stati lanciati da Gaza.
    In parallelo, Israele sta portando avanti una pesante offensiva militare nella Striscia di Gaza. In più di mille attacchi aerei in tre giorni sono stati centrati 750 obiettivi e sono stati uccisi almeno 60 operativi di Hamas e della Jihad Islamica, tra cui alcuni leader appartenenti allo Stato maggiore di Hamas, come Bassem Issa, il comandante della Brigata di Gaza City, Jomaa Tahla, capo dell’unità cyber, e figure altamente qualificate come Nazzem Hatib, capo dell’unità di ingegneria. Secondo un rapporto fornito dal portavoce dell’esercito, sono stati colpiti anche 33 tunnel di Hamas, 160 rampe di lancio, la Banca Islamica Centrale, arteria economica di Hamas. L’aviazione israeliana ha bombardato con attacchi senza precedenti diversi palazzi residenziali che ospitavano infrastrutture logistiche e di intelligence di Hamas. L’esercito ha allertato i residenti palestinesi affinché evacuassero l’area prima degli attacchi.
    In serata, i media arabi hanno denunciato una strage nel villaggio Um el-Nasser, presso Sheikh Zayed, nel nord della Striscia di Gaza. Secondo i media locali sarebbero 11 i palestinesi rimasti uccisi e 50 i feriti da un bombardamento israeliano. Sei sono membri della famiglia locale Tanani. Fra i morti, secondo i media, ci sono anche bambini. Queste informazioni non hanno però avuto una conferma da parte delle autorità sanitarie di Hamas. In Israele l'episodio non è stato ancora commentato.

 Scontri nelle città a popolazione mista, due persone linciate
   L’escalation militare con Gaza si sta ripercuotendo anche all’interno del Paese, provocando scontri senza precedenti in particolare nelle città a popolazione mista, musulmana ed ebraica. Grande shock per due linciaggi avvenuti mercoledì sera ad Akko e a Bat Yam, al confine sud con Giaffa. Ad Akko un uomo di 30 anni è in condizioni critiche dopo essere stato assalito brutalmente da manifestanti arabi. A Bat Yam invece, una folla di manifestanti ebrei ha attaccato un conducente arabo, prelevandolo dall’auto e picchiandolo selvaggiamente. A Lod, dove nei giorni scorsi si erano registrati gli scontri più duri, il coprifuoco notturno annunciato dalla polizia è stato violato da molti e si sono registrati numerosi incidenti violenti. A Haifa, 59 inquilini di una palazzina sono stati curati in ospedale per inalazioni di fumo, dopo che cinque veicoli dati alle fiamme hanno provocato un massiccio incendio che ha coinvolto il parcheggio residenziale.

 Timori per sabato, anniversario della nascita di Israele
   Oltre 370 persone coinvolte nelle violenze sono state arrestate negli ultimi 2 giorni. Vi è timore che nuovi pesanti scontri possano avvenire nella giornata di sabato, per i palestinesi il Giorno della Nakba, la “Catastrofe”, ossia la data che indica la nascita dello Stato d’Israele nel 1948. Il ministro della difesa ha dispiegato 10 unità di riserva della polizia di frontiera per contenere la situazione. “Ai cittadini d’Israele dico: questa anarchia è ingiustificabile: non mi interessa se vi ribolle il sangue. Non avete nessun diritto di prendere la legge in mano”, ha detto Netanyahu in un messaggio alla popolazione. “Nulla giustifica il linciaggio di cittadini arabi da parte di ebrei né quello di ebrei da parte di arabi”. Il presidente Rivlin si è detto “estremamente preoccupato” e ha supplicato i leader, i cittadini, i genitori a fare tutto il possibile per mettere fine agli episodi di violenza. “Siamo sotto la minaccia di continui lanci di missili e ci occupiamo di una guerra civile senza ragione”. Anche il leader del partito islamico Ra’am, Mansour Abbas, ha condannato le violenze e invitato i manifestanti a rispettare la legge e l’ordine. Abbas ha annunciato la sospensione delle trattative per la formazione di un governo “fino a che la situazione non si placherà”.

 Ancora stallo nella formazione del governo
   Israele è nel pieno dello stallo politico, dopo quattro elezioni in due anni. Messo in secondo piano dall’escalation di sicurezza, lo scenario politico torna improvvisamente alla ribalta quando ieri sera Naftali Bennett annuncia il congelamento dei colloqui con il “campo del cambiamento” guidato da Yair Lapid, e in un clamoroso dietrofront torna a negoziare con Netanyahu per formare un governo di destra.

 Domenica riunione all'Onu per discutere dell'escalation
   L'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Linda Thomas Greenfield, ha annunciato che domenica si riunirà il Consiglio di sicurezza Onu per discutere dell'escalation in corso tra Israele e la Striscia di Gaza. "Il consiglio di sicurezza dell'Onu si riunirà domenica per discutere della situazione in Israele ed a Gaza", ha scritto su Twitter, evidenziando che "gli Stati Uniti continueranno ad impegnarsi attivamente in azioni diplomatiche al più alto livello per cercare di far rientrare le tensioni". Nelle scorse ore il segretario di stato Usa, Antony Blinken, aveva fatto sapere che gli Stati Uniti sarebbero stati disponibili a prender parte alla riunione all'inizio della settimana prossima.

(la Repubblica online, 14 maggio 2021)


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L'esercito israeliano attacca Gaza con aviazione e truppe di terra

Il premier israeliano: "Ho detto che avremmo fatto pagare un prezzo molto alto ad Hamas. Lo facciamo e continueremo a farlo con grande intensità". Il presidente francese Macron: "Faccio un forte appello al cessate il fuoco e al dialogo. Vi chiedo calma e pace".

di Sharon Nizza

L'esercito israeliano ha lanciato un massiccio attacco con forze aeree e di terra nella Striscia di Gaza. Si tratta dei bombardamenti più duri contro la Striscia dall'Operazione Margine Protettivo del 2014. L'attacco sta avvedendo in contemporanea al Nord e al Sud della Striscia. Famiglie palestinesi stanno scappando dal Nord della Striscia a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per gli i lanci di missili contro la popolazione israeliane che "l'operazione continuerà per tutto il tempo necessario". "Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all'esterno e contro i fuorilegge all'interno per riportare la calma nello Stato di Israele".
    Sono circa 1.600 i razzi che sono stati lanciati da Gaza in direzione delle città israeliane da quando sono iniziate le ostilità fra Hamas e Israele. Lo ha reso noto la Radio militare israeliana, spiegando che di quelli diretti verso aree abitate ne è stato intercettato circa il 90 per cento. Mercoledì mattina le stesse forze armate avevano spiegato che da lunedì mattina mille razzi erano stati lanciati da Gaza. Sono quindi stati circa 500 i razzi lanciati nelle ultime 24 ore.
    C'è poi un ulteriore elemento che fa temere un innalzamento del livello dello scontro: per la prima volta le forze militari israeliane hanno lanciato un allarme razzi anche nella parte nord del Paese, un'area in cui finora non erano risuonate le sirene antiaeree. Anche se le autorità militari israeliane precisano che si è trattato solo di una misura precauzionale e nessun razzo è caduto nel Nord. Nella tarda serata italiana era stata confermata la notizia che le forze armate israeliane stavano ammassando truppe al confine.
    In parallelo, Israele sta portando avanti una pesante offensiva militare nella Striscia di Gaza. Negli attacchi aerei sono stati centrati 600 obiettivi e sono stati uccisi almeno 10 alti esponenti militari di Hamas. Distrutti un paio di grattacieli che ospitavano esponenti dell'organizzazione palestinese: in particolare, sostiene l'esercito, una struttura dell'intelligence di Hamas con "dozzine di terroristi operativi", che serviva "come comando principale per la sua rete di sorveglianza". Non è stato precisato quanti membri di Hamas fossero all'interno.
    In serata i media arabi hanno denunciato una strage nel villaggio Um el-Nasser, presso Sheikh Zayed, nel nord della Striscia di Gaza. Secondo i media locali sarebbero 11 i palestinesi rimasti uccisi e 50 i feriti da un bombardamento israeliano. Sei sono membri della famiglia locale Tanani. Fra i morti, secondo i media, ci sono anche bambini. Queste informazioni non hanno però avuto una conferma da parte delle autorità sanitarie di Hamas. In Israele l'episodio non è stato ancora commentato.
    Il ritorno alla calma sembra lontano, anche a sentire le dichiarazioni di Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, al quotidiano Haaretz: "Israele ha superato il limite. Gerusalemme rappresenta una linea rossa e non ci sarà pace né stabilità senza la fine dell'occupazione". Il presidente Usa Joe Biden ha dato aperto sostegno al premier israeliano Benjamin Netanyahu, mentre il suo segretario di Stato Antony Blinken ha avuto un colloquio proprio con Abu Mazen, al quale ha chiesto di fermare il lancio di razzi.
    "La spirale di violenza in Medio Oriente deve finire", twitta il presidente francese Emmanuel Macron pochi minuti dopo la notizia dell'attacco di terra lanciato da Israele. "Faccio un forte appello al cessate il fuoco e al dialogo. Vi chiedo calma e pace".

 Bersagliata Sderot
   Intensi lanci di razzi da Gaza sono ripresi stamane in direzione della vicina città israeliana di Sderot e dei villaggi agricoli della zona. La popolazione è stata costretta più volte a correre nei rifugi. In un villaggio ebraico di confine i razzi hanno colpito edifici, ma non si hanno notizie di vittime. Lo ha reso noto l'esercito. La scorsa notte un razzo palestinese ha centrato un condominio a Petach Tikwa, città popolosa ad est di Tel Aviv. Secondo i servizi di soccorso, otto persone sono rimaste ferite.

 Il bilancio: almeno 83 morti palestinesi, tra cui 17 bambini. Sette uccisi israeliani
   È di almeno 83 morti, tra cui 17 bambini e 7 donne, l'ultimo bilancio dei raid aerei compiuti dalle forze di Israele nella Striscia di Gaza dall'inizio delle ostilità, secondo il ministero della Salute di Gaza, gestito dal movimento palestinese Hamas. Sono invece almeno 388 i feriti, che secondo il gruppo palestinese comprendono 115 minori e 50 donne. Durante la notte i lanci di razzi dall'enclave si sono interrotti per almeno tre ore, mentre stamattina le sirene d'allarme hanno ripreso a suonare in diverse località israeliane (Kerem Shalom, Sderot, She'ar Hanegev, e varie citta' lungo il confine di Gaza). Finora i morti israeliani sono 7. Tra loro, un soldato ucciso da un missile anti-tank e un bambino di 6 anni colpito da un razzo.
    Ieri sera nuovi razzi sono stati lanciati in direzione di Tel Aviv, anche nelle vicinanze dell'aeroporto Ben Gurion. E tutti i voli diretti a Tel Aviv sono stati deviati.

 Deviati tutti i voli passeggeri in arrivo all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv
   Dopo la decisione di alcune compagnie aeree di evitare l'atterraggio all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, stamane, a causa del lancio di razzi da Gaza, tutti i voli passeggeri in arrivo all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv sono stati dirottati verso lo scalo di Ramon vicino Eilat, nel sud del Paese. Lo hanno fatto sapere i responsabili dello scalo aggiungendo che gli aerei torneranno poi vuoti al Ben Gurion per imbarcare i passeggeri diretti all'estero.

 Oggi saranno presentati i piani per l'invasione di terra di Gaza
   Il comando meridionale delle forze armate israeliane presenterà nelle prossime ore al comando generale dell'esercito dello Stato ebraico un piano per l'invasione da terra della Striscia di Gaza. Lo riferisce il portavoce della Difesa israeliana, Hadai Zilberman. Il piano sarà poi sottoposto alle autorità politica perché lo prenda in considerazione. Le forze di terra al confine con la Striscia sono già aumentate e sono state mobilitate per una potenziale incursione, tra le altre, la brigata paramilitare, la brigata di fanteria del Golan e la settima brigata corazzata.

 Scontri nelle città, la condanna di Netanyahu: "Anarchia ingiustificabile"
   Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu condanna "l'anarchia" della violenza ebraico-araba nelle città di tutto il paese dopo una giornata di tumultuosi disordini. Netanyahu ha detto che "nulla giustifica" gli ebrei che attaccano gli arabi o gli arabi che attaccano gli ebrei. Giura di ristabilire l'ordine dopo due giorni di violenze non controllate dalla polizia. "Non mi importa che il tuo sangue stia bollendo - è stato il suo appello ai cittadini israeliani - . Non puoi prendere la legge nelle tue mani". Poco dopo il suo intervento, la polizia ha denunciato due persone ferite in una sparatoria nella città di Lod, uno dei luoghi in cui gli scontri sono più feroci. Nonostante la grande mobilitazione della polizia in uno stato di emergenza e un coprifuoco notturno, Lod è stata teatro di scontri di strada tra folle ebraiche e arabe.

 Colloquio Biden-Netanyahu: "Israele ha diritto di difendersi"
   Joe Biden ha avuto un colloquio con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il presidente Usa, informa la Casa Bianca, ha condannato gli attacchi missilistici di Hamas e di altri gruppi terroristici, anche contro Gerusalemme e Tel Aviv. Biden inoltre ha espresso il suo sostegno alla sicurezza di Israele e al legittimo diritto di Israele di difendere se stesso e il suo popolo, proteggendo i civili, auspicando un percorso verso un nuovo clima di calma nella regione al più presto. Per Biden, Gerusalemme, deve essere un luogo di pace. L'inquilino della Casa Bianca ha aggiornato Netanyahu sull'impegno diplomatico degli Stati Uniti con i paesi della regione, tra cui Egitto, Giordania e Qatar, oltre che con funzionari palestinesi.

 Onu, venerdì terzo tentativo di prendere una posizione sul conflitto
   Tunisia, Norvegia e Cina hanno chiesto un'altra riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu sul conflitto israelo-palestinese, questa volta in pubblico, hanno riferito fonti diplomatiche. La sessione, alla quale dovrebbero partecipare Israele e i palestinesi, sarà la terza riunione del Consiglio di sicurezza da lunedì. Durante le prime due videoconferenze, tenute a porte chiuse, gli Stati Uniti si sono opposti all'adozione di una dichiarazione congiunta del Consiglio di sicurezza volta a fermare gli scontri, ritenendola "controproducente" in questa fase, hanno detto i diplomatici.
    Intanto alcuni funzionari egiziani si sono incontrati con i leader di Hamas a Gaza e poi con gli israeliani a Tel Aviv, in quello che viene considerato uno sviluppo significativo nel tentativo di arrivare a un cessate il fuoco.

(la Repubblica online, 13 maggio 2021)


L'incubo della guerra civile tra vicini di casa

Non solo il conflitto esterno con Gaza. Esplode la violenza tra ebrei e arabi-israeliani

GERUSALEMME - La guerra è su due fronti: ormai oltre alla pioggia di missili un feroce scontro interno fra cittadini ebrei e arabi tormenta Israele. Certo, i missili di Hamas non distinguono fra cittadini israeliani dell'una o dell'altra etnia o religione: Khalid e Nadin Awad, un padre di 56 e la figlia di 16 anni, arabi, sono stati uccisi insieme a Lod da un missile proprio come il bambino di cinque anni ebreo che ha lasciato la vita mercoledì a Ashdod proprio nello stesso modo. Ma episodi come questi ormai corrono paralleli alla frattura della vita quotidiana dei cittadini di Lod, Acco, Kfar Kassem, Jaffa, Bat Yam... E cento altre cittadine. "Il mio caro vicino arabo" -racconta una donna ebrea di Acco- “non mi guarda più negli occhi dopo tanti anni di buoni rapporti, né io a lui. L'ho visto dalla finestra dare fuoco alla mia macchina qui nel parcheggio".
   Ci sono ebrei che tolgono la mesusà, la benedizione della casa, dalla porta, perché gli arabi non sappiano. Vetrine sfondate, inseguimenti e tentativi di linciaggio, e gruppi di giovani ebrei che diventano violenti bulli, c'è di tutto: in un grande ospedale Assaf ha Rofè, gli arabi hanno assalito medici e infermieri ebrei chiamandoli "collaborazionisti", un ebreo è stato pugnalato stamani a Acco per strada verso la sinagoga, c'è chi, terrorizzato, lascia la città e cerca ospitalità altrove...
   Per Israele è una frattura dell'ispirazione pluralistica e democratica, e soprattutto è un danno per gli arabi israeliani che vivono una condizione unica. La festa di Ramadan, la rivendicazione della difesa di Al Aqsa sono diventate, insieme al fatto che il Partito arabo centrale, la Lista Unita, si è accodato all'incitamento una tromba di battaglia. Ieri Abu Obeida, il portavoce dell'ala militare Izzedin al Kassam, l'ha detto da Gaza: "La nostra arma oggi sono gli arabi israeliani". Ma i politici arabi danno segno di avvertire il pericolo e chiedono con gli ebrei di abbandonare la violenza. Tuttavia ci vorrà tempo, così anche sul fronte bellico: il messaggio del Gabinetto di Sicurezza è che sarà compiuto senza remissione e senza sconti il lavoro di tagliare le gambe all'apparato bellico di Hamas, uomini e missili. L'obiettivo è troncare la struttura missilistica, i suoi ingegneri, i suoi generali.
   Una ventina ne sono già stati eliminati, e fra loro personaggi di primo grado come Jamal Tahla, vice del superterrorista Muhammed Deif, una prestigiosa primula rossa che ha anche inventato il sistema degli ultimatum ("Se non vi ritirate alle 8 bombardiamo Gerusalemme.E poi Tel Aviv" e lo fa). Ma il ritmo deve aumentare e si capisce il perché. Prima di tutto, i missili continuano a piovere a centinaia. Poi, se l'atteggiamento di Biden segnala a Israele comprensione perché Hamas ha aggredito la popolazione israeliana, e il Paese deve difendersi via via che i morti aumentano e la guerra asimmettrica costringe gli israeliani a colpire i siti dei missili nascosti fra i civili facendo vittime anche fra di loro, sorge la solita protesta internazionale sulla "reazione sbilanciata". Aumenterà di giorno in giorno, tagliando i tempi.
   Ieri dopo una micidiale raffica di razzi Cornet che ha mandato nei rifugi il 75 per cento della popolazione israeliana e la sorpresa a Tel Aviv di un grosso missile "Yehie Ayash", una nuova creatura che può fare 250 chilometri, Israele ha colpito a Rafiah un altro grosso edificio che come quello di 14 piani a Gaza città, conteneva uffici e abitazioni fondamentali per il funzionamento di Hamas. Ma l'organizzazione è molto strutturata e flessibile nella parte militare e molto aiutata all'estero, come si vede anche dal fatto che leader come Ismail Hanjye non si trovano certo in sede e che di nuovo un alto dirigente ha ringraziato l'Iran delle armi. Il fine di Netanyahu adesso è colpire al cuore l'organizzazione, smantellandone le armi e gli uomini; e dall'altra parte ridurre alla quiete con mezzi "senza precedenti" alla polizia, come afferma, lo scontro interno. Tutto insieme.

(il Giornale, 14 maggio 2021)


Bassem Eid: “Non bevetevi le loro falsità”

Corriere Israelitico vi propone la testimonianza di Bassem Eid, un palestinese di Gerusalemme Est fondatore del Palestinian Human Rights Monitoring Group. Purtroppo certo “mainstream” ignora che esistono Palestinesi democratici, vittime anche loro del terrorismo.

di Robert Hassan

“Mentre scrivo queste righe, piovono razzi da Gaza su Israele e vengono fomentate proteste violente nelle città del paese. Si contano già dei morti a causa di questa violenza insensata, e ne seguiranno sicuramente altri nei prossimi giorni. Come palestinese che vive a Gerusalemme sono frustrato e infuriato, e non posso che incolpare Hamas. I fanatici che governano Gaza con pugno di ferro non sanno resistere all’opportunità di aizzare violenze anti-ebraiche per il loro tornaconto politico. Se nel farlo muoiono innocenti ebrei e musulmani, per loro è tanto di guadagnato.Il pretesto per quest’ultimo fuoco di fila missilistico e per l’istigazione sui social network è Sheikh Jarrah, dove era prevista un’udienza in tribunale su una controversia legale di antica data: una questione privata tra ebrei in possesso di un vecchio atto di proprietà risalente al XIX secolo e gli abitanti arabi di quattro case che ci vivono da decenni e non vogliono pagare l’affitto.
   È il genere di causa che dovrebbe essere definita da un tribunale locale. Il che potrebbe accadere in qualsiasi altro paese senza alcun interessamento pubblico. Ma questa è Gerusalemme, quindi tutto deve essere visto nel contesto della situazione politica. E bisogna anche chiedersi: chi può trarre vantaggio dalla violenza politica in questo momento?Bandiere di Hamas venerdì scorso nella spianata delle moschee sul Monte del Tempio a Gerusalemme. Dopo che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annullato le tanto attese elezioni, Hamas ha semplicemente intravisto un’occasione che non poteva lasciarsi sfuggire, sfruttando la situazione di Sheikh Jarrah in un’atmosfera già tesa tra la festività musulmana di Leylat Al Qadr e la Giornata di Gerusalemme.
   Hamas ha lanciato una campagna sui social network esortando i palestinesi a fomentare violenze durante le proteste a Gerusalemme e altrove. Spingono i giovani palestinesi a gettare via la loro vita lanciando pietre e ordigni incendiari contro la polizia.I tumulti capeggiati da Hamas davanti dalla moschea di al-Aqsa dimostrano che non è la polizia israeliana quella che mette in pericolo i fedeli impedendo ai musulmani di pregare. Hamas ha aizzato le folle e ha provocato le violenze con il preciso intento di intrappolare Israele nell’accusa di pulizia etnica. Cosa ancora più eloquente, i capi di Hamas hanno poi ordinato il lancio di centinaia di razzi sulle principali città israeliane. Molti di loro lo hanno comodamente fatto dalle loro lussuose ville a Doha, Damasco o altrove, sapendo benissimo di essere al sicuro da qualsiasi contraccolpo. È importante ricordare che la propensione di Hamas per l’assassinio di innocenti è quasi pari alla sua inetta incompetenza, che è in parte la ragione per cui uno su tre dei loro razzi si schianta all’interno della striscia di Gaza, dove le uniche vittime possibili sono palestinesi.
   A quanto risulta, hanno anche bombardato Abu Ghosh, un antico villaggio arabo (e presso Lod hanno ucciso un padre e la figlia arabi musulmani ndr). Questo scontro in realtà non è dovuto a quattro case a Gerusalemme est. E’ dovuto a Hamas, che vede la possibilità di tornare al centro della scena e aumentare la propria influenza e il proprio controllo sui palestinesi a Gerusalemme e altrove. Non bevetevi le loro notizie false, non permettetegli di minimizzare la loro responsabilità. Nelle prossime ore, purtroppo, è assai probabile che sia ebrei che musulmani moriranno perché Hamas ha individuato nella violenza il suo vantaggio politico. Non dimenticatelo.”

(Il Corriere Israelitico, 14 maggio 2021)


Milano, manifestazione contro Israele: bruciata bandiera dello Stato ebraico

Migliaia di persone, tra cui moltissimi giovani, hanno manifestato contro Israele, gridando “Allah u Akbar” e arrivando, addirittura, a bruciare una bandiera dello Stato ebraico: gesto denso di significato che afferma senza parole che Israele deve bruciare e non deve esistere.

Non siamo a Gaza, non siamo in qualche altre città del Medio Oriente, dove i giovani vengono educati all’odio.
    Siamo a Milano, una delle città traino del paese. Siamo in Italia, nel nostro paese. Quel paese che attaccato più volte dal terrorismo palestinese, come nei due attentati all’aeroporto di Fiumicino (1973 e 1985) o come nell’attacco terroristico avvenuto davanti alla Sinagoga Maggiore di Roma (1982), senza dimenticare i numerosi altri tentativi di attentati, che sono sepolti negli atti delle varie Commissioni parlamentari fatte in Italia, che hanno tentato e tentano di far luce sugli Anni 70 e 80.
    Siamo a Milano, 13 maggio, Gaza Free Style, Assopace Palestina e altre associazioni hanno organizzato un presidio per le ore 18. Un’ora prima, però, diversi giovani si sono ritrovati nei pressi del Duomo e solo l’intervento delle forze dell’ordine gli ha impedito prima di arrivare a via Mazzini e poi entrare in Galleria.
    Alle 18 è iniziata la manifestazione vera e propria e come sempre i presenti si sono contraddistinti più per l’odio nei confronti di Israele che per vicinanza al popolo palestinese. Quel popolo che da anni è soggetto alla sete di potere delle loro leadership, che lo utilizzano per combattere una guerra che hanno nel loro DNA e non è in alcun modo dovuta a ciò che fa Israele.
    La differenza che c’è lo Stato d’Israele e Hamas sembra riversarsi nelle piazze. Mentre il giorno precedente, Roma era stata teatro di una manifestazione in sostegno di Israele senza che alcun vessillo palestinese venne dato alle fiamme, Milano è stata fatta diventare, suo malgrado, la città dove l’odio contro Israele sembrerebbe essere normale.
    Per chiarezza si è voluto sottolineare il diverso carattere delle due manifestazioni e non le città in cui si sono svolte.
    Perché l’odio palestinese per Israele non ha confini ed è arrivato anche in Italia.

(Progetto Dreyfus, 14 maggio 2021)


Lega Giovani: "Il diritto di esistere di Israele non si tocca"

"La comunità internazionale deve prendere con decisione una posizione a difesa dell'unica vera democrazia nel Medio Oriente"

"Più di mille missili contro Israele, silenzio assordante da parte dell'Europa e dell'ONU e dei troppi governi sulla violenza islamista. Aspetto ferma condanna anche da parte del governo italiano. Lunga vita a Israele che difende il diritto di esistere, viva la pace e la convivenza fra i popoli", così oggi Matteo Salvini sulla recente escalation di violenza scoppiata successivamente agli attacchi di Hamas nei confronti di Israele.
    Come Lega Giovani, spiegano in una nota - vogliamo aggiungerci al coro di sostegno nei confronti di Israele, attaccato per l'ennesima volta dalle forze islamiste di Hamas che da anni impediscono il raggiungimento della pace nella regione. Alla manifestazione che si è tenuta nella giornata di ieri all'interno della Sinagoga di Genova per dimostrare solidarietà alla comunità ebraica, erano presenti Marco Ghisolfo, consigliere municipale della Lega Giovani Liguria, l'onorevole Sara Foscolo, il consigliere regionale Alessio Piana e il capogruppo della Lega in consiglio comunale Lorella Fontana.
    "Il diritto di esistere di Israele non si tocca e la comunità internazionale deve prendere con decisione una posizione a difesa dell'unica vera democrazia nel Medio Oriente".
    Come giovani attivi in politica, auspichiamo che la situazione si risolva il prima possibile e con il minor numero di morti e vogliamo esprimere vicinanza ai giovani israeliani a cui auguriamo un futuro di pace, senza guerra e terrorismo - concludono - La nostra amicizia con il popolo israeliano è stata dimostrata anche nei recenti webinar con i rappresentanti dei giovani del Likud, durante i quali abbiamo avuto uno scambio di opinioni molto interessante e serrato sulle situazioni politiche del nostro paese e sull'amicizia tra Italia e Israele".

(La Voce di Genova, 14 maggio 2021)


Razzi, bombe e scontri Da Tel Aviv a Gaza la guerra dei due fronti

Viaggio a Lod, la città teatro della rivolta della minoranza araba: bruciate le sinagoghe Uccisi nella Striscia 4 capi militari di Hamas. Morti almeno 65 palestinesi e 6 israeliani

di Sharon Nizza

LOD — Nelle ore drammatiche in cui il confronto tra Israele e Hamas degenera senza ancora assumere formalmente il titolo di guerra, la battaglia per lo Stato ebraico si divide su due fronti: la Striscia di Gaza, da dove continua ad arrivare una pioggia di missili, mentre non si placano i pesanti bombardamenti israeliani. Ma c’è anche il fronte domestico, con rivolte violente a Lod, Gerusalemme, Ramla, Acri, Haifa, le città a popolazione mista da dove arrivano immagini che rievocano l’inizio della Seconda Intifada dell’ottobre 2020. Le scene degli scontri nella Moschea di Al Aqsa, virali sui social, fanno scendere per le strade folle di giovani arabi arrabbiati.
   A Lod, 80,000 anime, ebrei e musulmani che convivono a fasi alterne, sembra si concentrino tutte le tensioni che il Paese sta vivendo nelle ultime settimane. Scene di vera e propria guerriglia urbana hanno portato il premier Netanyahu a dichiarare lo stato di emergenza. Dalle 20:00 di ieri è in vigore un coprifuoco notturno, proprio mentre ha inizio Eid al Fitr, la festività che chiude il mese del Ramadan. La polizia si prepara a usare il pugno duro. Trenta auto, una sinagoga e due scuole di studi ebraici sono stati dati alle fiamme, presi d’assalto dalla folla che lancia sassi e molotov e issa una bandiera palestinese al posto di quella israeliana in un parco pubblico. Ebrei barricati in casa lamentano l’assenza della polizia fino a che parte lo sparo che fa una vittima tra gli assalitori. Il giovane ebreo che ha sparato è agli arresti, e la sua comunità protesta perché invece «tra gli arabi non è stato arrestato nessuno». La polizia in serata comincia a effettuare i primi fermi anche tra gli arabi.
   Come previsto, diversi giovani sfidano il coprifuoco, e nuovi scontri sono inevitabili. Anche Akko brucia e in un tentativo di linciaggio rimane ferito gravemente un ebreo. Pogrom, li ha definiti il presidente Rivlin, chiedendo una chiara condanna da parte della leadership araba. Nel clima avvelenato che si respira, un gesto importante arriva da Mansour Abbas, leader del partito islamista Ra’am, che, in arabo, invita i manifestanti a fermare le violenze. Mantiene così il suo potere negoziale nelle trattative per la formazione di un governo che Yair Lapid cerca di mandare avanti mentre il Paese dà segnali di andare verso una campagna più lunga e fatale di quanto ci si aspettasse. In un messaggio diretto ai palestinesi tramite i social media, il ministro della Difesa Benny Gantz minaccia che «se Hamas non cessa le violenze, Gaza subirà un colpo più duro di quanto inflitto nel 2014».
   Nella seconda giornata dall’inizio dell’escalation, l’aviazione israeliana riduce in macerie altri palazzi interi nella Striscia di Gaza, da cui vengono fatti evacuare per tempo gli inquilini. Secondo quanto riferito dal portavoce dell’esercito, gli obiettivi ospitano quartier generali dell’intelligence di Hamas, che continua nella pratica di stabilire le proprie infrastrutture nel cuore della popolazione civile. Il ministero della Salute di Gaza riporta 65 vittime, tra cui 16 bambini. Israele rivendica ieri l’uccisione di quattro operativi tra i vertici di Hamas, appartenenti alla cerchia di Mohammad Deif, il comandante delle Ezzedin al-Qassam. Tra questi anche Bassem Issa, il comandante della divisione di Gaza City e Jomaa Tahla, capo dell’unità cyber. A oggi, più di mille missili hanno colpito Israele, raggiungendo anche la periferia di Tel Aviv e provocando 6 morti, con un bambino di 5 anni in fin di vita. Le sirene non cessano di suonare per tutto il giorno, anche mentre siamo a Lod, a pochi chilometri dall’aeroporto Ben Gurion. Qui, la notte di martedì, durante uno degli attacchi più pesanti, un missile aveva fatto due nuove vittime: padre e figlia sedicenne, arabi israeliani. Come dice Umm Yousef, con cui ci troviamo a cercare riparo mentre suona nuovamente la sirena, «i missili non distinguono tra ebrei e musulmani. Hamas dovrebbe tenerlo a mente».

(la Repubblica, 13 maggio 2021)


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"Diamo una lezione a Gerusalemme" Erdogan attacca e chiama Putin

Ankara cerca la leadership nel mondo islamico. Usa e Europa per la "de-escalation" Berlino: "Al fianco dello Stato ebraico"

«Bisogna dare una lezione a Israele ». Le parole del presidente Erdogan rispecchiano il cambiamento di ogni scenario nel Medio Oriente. Fino a pochi anni fa la Turchia era un alleato solido di Israele, adesso Ankara impugna la bandiera palestinese per legittimare le sue ambizioni di potenza e rievoca i fasti del Sultanato ergendosi a difensore di Gerusalemme musulmana. Un piano che da una parte mira a conquistare il consenso dell’Islam radicale in patria e nel mondo; dall’altro punta a obiettivi molto più concreti: la partita per il controllo dei giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Non a caso, Erdogan si rivolge al partner che condivide con lui lo stesso interesse economico: la Russia, che sta stendendo una ragnatela di influenza e capisaldi militari dalla Siria alla Libia, proprio nell’area dei fondali più ricchi di risorse energetiche.
   Erdogan e Putin ieri si sono consultati sulla nuova crisi. Più cauta la posizione del Cremlino, concentrata sulla ricerca di un modo per fermare l’escalation. Durissima la linea turca, che ha invocato l’intervento armato delle Nazioni Unite per proteggere Gaza con lo schieramento di caschi blu nei Territori. Per poi ribadire la necessità che la comunità internazionale dia «una lezione forte e deterrente a Israele ».
   I paesi occidentali invece si allineano con gli Stati Uniti, impegnati nel tentativo di impedire un conflitto, interrompendo i lanci di razzi palestinesi e i bombardamenti israeliani. Il segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto a Israele di farsi carico di «un impegno straordinario » per evitare vittime civili nel rispondere agli attacchi di Hamas. «Israele — ha dichiarato — ha il diritto pieno di difendere i suoi cittadini ma deve prendere tutte le misure possibili per proteggere i palestinesi innocenti ». Blinken ha annunciato che una delegazione statunitense sta partendo per spingere entrambe le parti a fermare la violenza. Nel condannare i raid missilistici di Hamas, ha ribadito che «israeliani e palestinesi hanno il diritto a vivere in pace e in sicurezza ». Parole simili a quelle di Boris Johnson: «È vitale che ogni azione siano proporzionata, in linea con le leggi umanitarie internazionali e si faccia di tutto per evitare vittime civili».
   Anche Luigi Di Maio ha domandato «misure immediate di de-escalation ». Il ministro degli Esteri, oltre alla «ferma condanna degli inaccettabili lanci indiscriminati di razzi» ha però anche invitato a «rispettare rigorosamente lo status quo dei luoghi sacri»: «L’Italia resta convinta che una soluzione a due Stati, negoziata con entrambe le parti in linea con il diritto internazionale e le risoluzioni del consiglio di sicurezza sia l’unica via per evitare conflitti e garantire una stabilizzazione duratura, che consenta a israeliani e palestinesi di vivere in sicurezza gli uni accanto agli altri, con Gerusalemme capitale di entrambi».
   Tra i paesi della Ue, l’unico distinguo è arrivato da Berlino. Dove la ministra della Giustizia Christine Lambrecht ha condannato gli attacchi di Hamas e ha detto che «la Germania è con decisione al fianco di Israele». Una posizione comune all’intero governo. La ministra ha poi denunciato le manifestazioni antisemite davanti alle sinagoghe tedesche, in cui sono state bruciate le bandiere di Israele: «Questi gesti non mostrano altro che un orribile disprezzo per la dignità umana».

(la Repubblica, 13 maggio 2021)


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"Hamas ha ingaggiato lo scontro per ottenere la leadership islamista"

Il generale: "Non è ancora la resa dei conti, ci saranno altri round. Ma Israele ha il dovere di proteggere il proprio popolo"

di Fiamma Nirenstein

No, lo scontro di queste ore fra Israele e Hamas non è una resa dei conti definitiva: è soltanto un round, anche se molto importante. Lo dice il generale Yossi Kuperwasser, uno degli esperti più importanti del Jerusalem Center for Public Affairs, famoso esperto di strategia, di sicurezza e di mondo arabo. Dall'esercito dove ha diretto il settore ricerca, è passato a direttore generale del ministero degli Affari Strategici occupandosi con taglio nuovo di antisemitismo. Adesso fra un incontro e l'altro ci affida i suoi pensieri, molto diretti e privi di illusioni o ideologie.

- Netanyahu e il ministro Gantz sembrano promettere alla popolazione bombardata, tormentata da Hamas, lo smantellamento definitivo dell'organizzazione.   «Si tratta di un altro capitolo di una lunga storia, un capitolo con caratteri di estrema durezza data la smodata aggressività di Hamas che ha bombardato Gerusalemme e Tel Aviv, terrorizza la popolazione civile del sud giorno dopo giorno, ha fatto morti e feriti a tutte le latitudini con un attacco premeditato e sanguinoso».

- Sta però pagando un duro prezzo, come se ci fosse una risposta non proporzionale. Ci sono crolli imponenti e bambini uccisi durante le eliminazioni mirate dei capi di Hamas.
  «Penso che stavolta chi non ha un pregiudizio incancrenito e pesante contro Israele capisce che sotto un attacco di migliaia di missili, Israele ha il dovere di fermare l'attacco e di proteggere la popolazione. Israele deve attaccare gli edifici in cui si nascondono i capi di Hamas, e tuttavia noi avvertiamo uno a uno gli abitanti prima di colpire; quanto ai bambini che cerchiamo in tutti i modi di non colpire, secondo Defense for Children Palestine alcuni sono stati uccisi da missili palestinesi mal costruiti e sparati (Dcip). Detto questo, l'escalation di Hamas deve fermarsi».

- Lei stesso dice che è solo un round. Presto ci saranno gli stessi problemi?
  «Perché presto? Dal 2014, dopo l'ultima guerra abbiamo avuto poche aggressioni. Si tratta di garantire la messa fuori giuoco delle armi e dei leader terroristi per un bel pezzo. È quello che stiamo facendo».

- Perché Israele non cerca di smantellare Hamas?
  «Perché nessuno ha intenzione di governare di nuovo la striscia di Gaza; non lo vuole l'Egitto, non lo vuole Fatah, non vedo perché dovremmo metterci noi in questo guaio».

- L'ipotesi «stivali sul terreno» non è contemplata?
  «Ci sono tanti modi di vincere una guerra, quella è la più rischiosa, si cerca di evitarlo».

- Hamas lo sa. Perché ha intrapreso una guerra perduta?
  «Ne sta ricavando altissimi riconoscimenti nel mondo in cui ambisce alla leadership ideologica, quello islamista che mette la Moschea di Al Aqsa e Gerusalemme in testa ai suoi interessi. Ha intrapreso la guerra perché questo le garantisce di battere Abu Mazen e poi perché deve sperimentare i missili nuovi preparati con l'aiuto dell'Iran».

- E questo li compensa dalle distruzioni in corso.
  «Reputano i guadagni ideologici maggiori delle perdite».

- Hamas conta anche sul sostegno di Iran e Turchia.
  «E non solo. Sente anche che i commenti dell'amministrazione americana gli consentono margini di manovra. Si è sentito rassicurato».

- Intanto i moti degli arabi israeliani a Lod sono molto preoccupanti. Una nuova Intifada di cittadini israeliani musulmani contro gli ebrei?
  «Difficile dirlo. Noi sopravvalutiamo sempre l'integrazione, il senso di comunanza nella democrazia. La loro leadership alla Knesset ha rifiutato il giuramento di fedeltà al Paese, gli abitanti delle case di Lod vedono stupefatti i vicini dare fuoco alle auto nei comuni parcheggi. Storia molto difficile».

- Quanto dura ancora questa guerra?
  
«Se è una guerra, dura ancora settimane. Se invece è solo un grande scontro e possiamo accontentarci di risultati che garantiscano la quiete, poco. Per ora, Hamas ha ancora i missili nascosti, e i terroristi che li lanciano a centinaia».

(il Giornale, 13 maggio 2021)


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Per Hamas i razzi sui civili israeliani sono uno show politico

I rivali di Fatah immobili

di Daniele Raineri

ROMA - Il secondo giorno di guerra tra i gruppi armati di Gaza e le forze militari di Israele è stato intenso come le prime ventiquattro ore ma ci sono stati un po’ meno lanci di razzi – giusto qualche decina in meno, un cambiamento non percettibile sul totale di milleduecento registrati alle sei di sera. Prima o poi entrambe le parti dovranno cercare il rallentamento e poi il termine delle operazioni. Sanno che alla fine questo conflitto non avrà alcun risultato pratico se non parecchi morti e la distruzione di molti edifici. Secondo il ministero della Sanità di Gaza finora i bombardamenti aerei hanno ucciso 56 palestinesi, dei quali 14 minorenni, e dall’altra parte i lanci di razzi hanno ucciso sei israeliani, incluso un bambino di sei anni. Tuttavia secondo Defense for Children, una ong palestinese che si occupa di protezione dei bambini e registra le vittime e le circostanze della loro morte, alle sei del pomeriggio di martedì un razzo sparato da un gruppo palestinese – e non una bomba israeliana – è caduto corto nella Striscia di Gaza vicino alla moschea al Omari a Jabalia e ha ucciso otto palestinesi, inclusi due bambini.
    Ogni attacco e ogni raid aereo a questo punto è dettato dalla necessità di non apparire deboli mentre si attende il giorno del cessate il fuoco. Ieri mattina Hamas ha ucciso con un missile controcarro un soldato israeliano dentro a un veicolo blindato sul confine della Striscia e poi con colpi di mortaio ha ostacolato per un po’ i soccorsi. Poche ore dopo un bombardamento israeliano ha centrato grazie a informazioni di intelligence una riunione di Hamas e ha ucciso alcuni leader – uno di prima fila, non succedeva a quel livello dal 2014. Gli israeliani hanno abbattuto un altro palazzo di una decina di piani – usato da Hamas – e il gruppo armato ha risposto con altri lanci a sciame. Questi colpi reciproci per ora bloccano ogni possibile mediazione. Se il ritmo degli attacchi riprende e accelera, allora si va verso una escalation che fino a una settimana fa sembrava impensabile e dopo verso l’intervento di terra da parte di Israele dentro la Striscia. Hamas e gli altri gruppi di appoggio non ricevono alcun vantaggio pratico da questa fiammata di violenza.
   Non porta loro nulla se non il progressivo esaurirsi dei razzi a disposizione, che secondo le stime dell’intelligence israeliana sono circa cinque-seimila. A questo ritmo corrispondono a dieci giorni di guerra, meno se si considera i raid aerei israeliani che distruggono depositi e uccidono lanciatori. La grande maggioranza di questi razzi inoltre è a corto raggio e quindi non offre la possibilità di attacchi come quello contro Tel Aviv che martedì sera ha fatto il giro del mondo. Ma Hamas e gli altri stanno ricevendo un altro tipo di vantaggio, incassano prestigio, credibilità e seguito nell’opinione pubblica palestinese. Sui loro canali telegram addirittura annunciano i lanci degli sciami di razzi con qualche minuto di anticipo, che da un lato vanifica l’efficacia ma dall’altro è un modo di ostentare la capacità di essere una minaccia coordinata contro gli israeliani. E’ tutto capitale politico che guadagnano a discapito di Fatah, l’altro grande schieramento palestinese.
    Due settimane fa Hamas era pronta a vincere contro Fatah le prime elezioni palestinesi dopo quindici anni, ma le elezioni sono state annullate dall’Autorità nazionale palestinese, che fa capo a Fatah e non vuole perdere. Adesso Fatah vede Hamas occupare tutta la scena e non può fare nulla perché in queste circostanze è debole e poco rilevante. I giovani arabi che in queste notti scendono nelle strade delle città miste per scontrarsi con la polizia israeliana non guardano a Fatah, ma ai gruppi armati di Gaza.
    Ieri Hamas ha pubblicato un video di propaganda che s’intitola “La battaglia della spada di Gerusalemme” e spiega come fa a lanciare decine di razzi in sequenze rapidissime dalla Striscia contro le città israeliane. Sono razzi pesanti che hanno una gittata di 120 chilometri e gli uomini di Hamas protetti da un telone che blocca la vista dall’alto – quindi a droni e satelliti – li piazzano molto in anticipo dentro rampe di lancio metalliche seppellite nella sabbia e già orientate verso i bersagli, come Tel Aviv e Ashdod. Il numero di lanci in due giorni di guerra ci dice che ci sono migliaia di queste rampe nascoste nel terreno, sparpagliate in tutto il nord della Striscia e riempite con razzi. Quando viene il momento di sparare, Hamas e le altre fazioni ne lanciano a decine in modo da creare un effetto sciame che può mettere in difficoltà le difese degli israeliani. Nel video di Hamas si dà enfasi ai lanci ma le postazioni sono oscurate per non farle vedere e Hamas ha ordinato agli abitanti di Gaza di non mettere sui social video delle partenze di razzi per non aiutare gli israeliani. Si tratta di una precauzione inutile perché l’intera Striscia è sempre sotto osservazione e i radar individuano subito il punto di partenza dei razzi.

(Il Foglio, 13 maggio 2021)


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La violenza dei bombardamenti di Hamas e il rischio di un secondo fronte interno

di Ugo Volli

Siamo arrivati al quarto giorno dell’attacco missilistico di Hamas e della Jihad Islamica al territorio di Israele e la situazione non è sostanzialmente cambiata rispetto ai giorni precedenti. Dalla striscia di Gaza partono centinaia di proiettili contro le città israeliane, spesso a raffiche molto fitte, pensate, per saturare le possibilità di difesa di Iron Dome. L’antimissile riesce per lo più a reggere la sfida, bloccando l’ottantacinque o il novanta per cento dei tiri destinati ad arrivare su case, scuole, ospedali, autobus: tutti obiettivi civili. Ma non è possibile ottenere una sicurezza assoluta: qualche tiro riesce a passare. E ogni razzo che arriva a colpire il suo obiettivo causa distruzione, feriti, terrore, talvolta vittime innocenti. Fra queste, ricordiamo due donne anziane, una badante indiana, un bambino di cinque anni: Ivo Avigal, ucciso a Sderot dalle schegge di un razzo che gli è entrato in casa; anche sua madre Shani Avigal che lo teneva in braccio è grave all’ospedale. Israele risponde colpendo obiettivi militari e di governo della Striscia, dopo aver preso tutti i provvedimenti per evitare di colpire i civili. Ha distrutto depositi e fabbriche d’armi, lanciarazzi, centri di comando, caserme e uffici militari ed eliminato un buon numero di comandanti terroristi di alto livello.
   Ma, come era successo nel 2014, con tutta la sua forza non riesce a bloccare il lancio dei missili su Israele. Si parla ora di un’operazione terrestre, ma l’esperienza mostra che essa è costosa in termini di vite umane e difficilmente e solo lentamente è in grado di eliminare la capacità offensive di Hamas. Questa impossibilità deriva dalla natura asimmetrica di queste guerre: da un lato gruppi terroristi che sparano sui civili e sono indifferenti alle leggi internazionali, ben contenti se colpiscono donne e bambini, indifferenti alle perdite del proprio popolo, anzi ansiosi di sfruttarle per fini propagandistici, con centinaia di lanciarazzi, annidati in mezzo alle case, alle moschee, agli asili. Dall’altra parte un esercito regolare che fa attenzione alla liceità di ogni sua azione e cerca soprattutto di difendere i civili. Da una parte gruppi consistenti, se non la totalità della popolazione, che appoggia la “lotta armata”. Dall’altro un popolo che vuole solo vivere in pace e godersi la libertà riconquistata dopo l’incubo del Covid.
   È importante capire che dunque l’iniziativa della guerra è in mano ai terroristi, i quali l’hanno iniziata, ne hanno deciso l’escalation, potrebbero terminarla se volessero solo interrompendo l’aggressione, smettendo di sparare i loro missili. L’esercito di Israele difende il paese, risponde alle aggressioni, procede a rappresaglie proporzionali agli attacchi. Non ha iniziato questa guerra e non è nelle sue possibilità decidere quando concluderla, senza concedere ai terroristi una vittoria che produrrebbe presto nuovi attacchi. Ci sono spinte internazionali per una tregua, come è sempre accaduto in tutti questi episodi di terrorismo missilistico massiccio che si ripetono regolarmente da una ventina d’anni. Ma Israele non può fermarsi prima di aver ottenuto sul campo o con la diplomazia che l’aggressione cessi davvero.
   L’elemento nuovo e preoccupante che si è manifestato nelle ultime ore è però l’apertura di un altro fronte oltre a quello missilistico. Vi sono state cioè in molte parti di Israele, non solo a Gerusalemme e in Giudea e Samaria ma anche nella parte centrale del paese, numerosi casi di aggressione e di violenza collettiva, degenerati fino ad alcuni tentativi di linciaggio: alberghi e ristoranti distrutti ad Acco, con ferimenti e cacce all’uomo; sinagoghe distrutte a Lod; pestaggi, lanci di pietre, roghi di macchine a Haifa e a Gerusalemme, accoltellamenti e bombe incendiarie. Questi episodi provengono in gran parte da parte di gruppi di arabi israeliani contro gli ebrei, anche se vi sono stati casi di reazione violenta in senso opposto. Sono segnali molto gravi.
   La società israeliana è plurale, comprende fra le tantissime differenze che la arricchiscono anche una minoranza araba consistente (intorno al venti per cento) che fruisce di tutti i diritti politici, civili e sociali, ha esponenti in tutti i settori professionali, economici, politici, istituzionali e gode dunque di una libertà e di un benessere che non si possono neppure lontanamente paragonare con le popolazioni degli stati circostanti. Per questa ragione, anche se le forze politiche arabe si sono quasi sempre tenute all’opposizione e hanno spesso manifestato atteggiamenti di rifiuto dello stato di Israele, la massa della popolazione araba ha per lo più evitato di farsi coinvolgere in manifestazioni violente e ha badato soprattutto al proprio benessere. Il terrorismo è stato per lo più importato dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese e il coinvolgimento degli arabi israeliani vi è stato abbastanza raro. È probabile che ancora oggi questa situazione di convivenza pacifica tenga, ma è evidente il tentativo di Hamas e dei suoi alleati di coinvolgere gli arabi israeliani a sostegno della guerra. Purtroppo bastano gruppi abbastanza limitati per accendere i tumulti e questo è avvenuto un po’ dappertutto. Gli estremisti nella maggioranza ebraica, che sono pochi ma esistono, reagendo qua e là alle violenze arabe con le stesse maniere, di fatto favoriscono la strategia divisiva di Hamas. Tutte le forze politiche e le autorità civili e religiose dello stato si sono espresse contro questa deriva verso gli scontri interetnici di piazza. A Lod è stato proclamato un coprifuoco, le forze di polizia sono state schierate per bloccare le violenze. Ma è chiaro che sul piano politico prima che militare, l’apertura di un secondo fronte interno a Israele sarebbe un fatto molto grave, una vittoria per i terroristi.

(Shalom, 13 maggio 2021)


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Da Salvini a Letta. Tutti per Israele

La manifestazione della Comunità ebraica al Portico d'Ottavia unisce i leader Applausi per Matteo: «Basta ambiguità, chiamiamo i terroristi col loro nome»

Il ministro Di Maio
«La soluzione dei due Stati è l'unica via per evitare il conflitto e favorire una stabilizzazione duratura».
Lollobrigida (Fd'l)
«Tutte le forze politiche dimostrino la solidarietà a un popolo costretto a lottare per la difesa della propria terra».


La solidarietà nei confronti di Israele unisce per un giorno tutto l'arco parlamentare. Mentre i razzi di Hamas sparati da Gaza continuano a piovere su Israele, a Roma la politica italiana si raduna al Portico d'Ottavia per partecipare alla manifestazione di solidarietà per il popolo israeliano organizzata dalla comunità ebraica. Da una finestra del palazzo di fronte alla sinagoga è stato calato un enorme drappo con la bandiera dello stato ebraico. Dal palco allestito alle spalle della sinagoga, via via prendono la parola gli esponenti dei vari partiti. Il leader della Lega, Matteo Salvini, tra i più applauditi, chiede al governo Draghi «una posizione chiara e netta» sul conflitto in atto. «Israele è un esempio di democrazia da tutelare senza se e senza ma» aggiunge Salvini, spiegando che «qua non c'è una parte contro l'altra, c'è voglia di pace e diritto alla vita ma anche di chiarezza: se qualcuno è un terrorista va chiamato terrorista e se l'Iran dice che Israele va cancellato dalla faccia della terra non si può commerciare con l'Iran».
   Molto apprezzato anche l'intervento del coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, che ricorda «il sogno di Silvio Berlusconì», cioè quello di vedere Israele «parte integrante dell'Ue, i valori sono gli stessi». «L'aggressione contro Israele con centinaia di razzi è inaccettabile - sottolinea -. Gli ebrei hanno diritto a vivere nella loro terra». Il segretario dem, Enrico Letta, torna invece con la memoria ai tempi della visita in Sinagoga assieme a Benjamin Netanyahu: «Non è il momento della retorica ma della condivisione. Ricordo quando entrai nella Sinagoga da premier accanto al primo ministro israeliano e in quel momento insieme ci dicemmo che Italia e Israele lavorano per la pace». «La soluzione dei due stati è quella su cui lavorare» aggiunge Letta, che invoca un immediato stop alle ostilità: «La richiesta è un cessate il fuoco immediato. Deve finire il radicalismo, la soluzione di questi due diritti legittimi trovi applicazioni concrete».
   A indicare la strada dei due Stati come soluzione al conflitto è anche il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che - al termine dell'incontro alla Farnesina con il suo omologo tedesco Heiko Maas - sottolinea come sia «la sola via per evitare conflitti e favorire una stabilizzazione duratura, che consenta a israeliani e palestinesi di vivere in pace e in sicurezza, gli uni al fianco degli altri, con Gerusalemme capitale di entrambi».
   «Fratelli d'Italia ha raccolto l' appello per il sostegno a Israele. E ora che tutte le forze politiche, senza se e senza ma, sostengano uno Stato che ha diritto di esistere e non ci devono più essere incomprensioni da questo punto di vista. Quindi tutte le forze politiche siano concordi e dimostrino solidarietà verso un popolo che è da tanto tempo costretto a combattere per la difesa della propria terra» ha detto il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia Francesco Lollobrigida.
   Al Portico d'Ottavia si affaccia anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, che ha avuto un breve colloquio con la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello. La prima cittadina della Capitale non è salita sul palco, a differenza del candidato sindaco, Carlo Calenda. «Non siamo equidistanti, da una parte c'è la democrazia e la cultura dall'altra l'odio e la violenza» il messaggio netto del leader di Azione. TOM. CAR.

(Il Tempo, 13 maggio 2021)


La forza di Hamas è la presidenza Biden

di Davide Cavaliere

Il conflitto arabo-israeliano ha ripreso a divampare secondo un canovaccio consolidato: Hamas, ben equipaggiato dalla teocrazia iraniana, avvia un fitto lancio di missili dalla Striscia di Gaza; le forze di difesa di Israele (IDF) intervengono per neutralizzare le postazioni di lancio e, una volta colpiti, i palestinesi vestono i panni delle vittime, nel tentativo di impietosire l’opinione pubblica occidentale sempre alla ricerca di “oppressi” esotici da sostenere.
   Si tratta di uno schema tanto semplice quanto efficace: l’Occidente è afflitto da un masochistico senso di colpa per il suo passato coloniale, che gli islamisti conoscono e sfruttano con l’obiettivo di minare la reputazione dello Stato ebraico e isolarlo politicamente. Insomma, i palestinesi aggrediscono Israele, subiscono un’adeguata reazione militare e poi i loro diplomatici corrono alle Nazioni Unite e alla Corte Penale Internazionale per promuovere la lacrimevole e fasulla narrativa del “regime” israeliano “oppressore”, “omicida” e “segregazionista”.
   I palestinesi, inoltre, possono contare sul sostegno della sinistra alla loro causa. In Europa, come negli Stati Uniti, dove la retorica antimperialista e post-marxista è ancora forte, l’elettorato progressista nutre robusti pregiudizi anti-israeliani, ben ancorati nel profondo e radicati in un substrato pre-razionale che induce un istintivo rifiuto di Israele e delle sue ragioni.
   In realtà, l’esercito israeliano tiene una condotta moralmente impeccabile. Le forze armate avvertono, quando possibile, i palestinesi non combattenti prima di abbattere un edificio ritenuto sede di batterie per il lancio di missili. Eventuali vittime tra i civili palestinesi sono la diretta conseguenza della decisione dei terroristi palestinesi di operare nascosti tra la popolazione civile. Inoltre, alcuni dei morti civili sono causati dai razzi sparati dai terroristi che, invece di raggiungere Israele, sono precipitati su Gaza.
   In questo bailamme di missili e menzogne, il primo ministro Netanyahu, senza dubbio, preferirebbe che alla Casa Bianca ci fosse ancora Donald Trump. Il ritorno, voluto dal presidente Biden, al cosiddetto “approccio imparziale” dell’amministrazione Obama, che consiste nel porre una certa distanza tra gli Stati Uniti e Israele, ha facilitato molto ciò che sta avvenendo in queste ore. Le decisioni di Biden in merito al Medio Oriente, in particolare quella di riprendere a finanziare con milioni di dollari l’UNRWA, ha spinto i palestinesi a farsi più bellicosi.
   Il Dipartimento di Stato, per bocca di Ned Price, ha condannato gli attacchi missilistico-terroristici a danno di Israele, ma si tratta del minimo sindacale. Il portavoce del Dipartimento di Stato ha, con “democratica” prudenza, invitato “tutte le parti” a mostrare moderazione – ecco l’equidistanza obamiana che riemerge. Non è chiaro cosa farà l’amministrazione Biden se, come probabilmente accadrà, un’ennesima risoluzione unilaterale anti-israeliana promossa dai palestinesi e dai loro sostenitori venisse messa ai voti al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Ricordiamo che Consiglio di sicurezza si è già riunito, a porte chiuse, per discutere l’attuale crisi.
   L’amministrazione Biden si asterrà come ha fatto l’amministrazione Obama-Biden nel 2016, consentendo l’approvazione della famigerata risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza? È ipotizzabile che lo farà, Biden è pronto a vendere Israele pur di accodarsi all’internazionalismo umanitario islamofilo e, soprattutto, per non inimicarsi l’estrema sinistra antisionista del suo partito, che è stata fondamentale per la sua elezione. L’amministrazione Biden, dunque, non avrebbe scrupoli a consentire l’approvazione di un’altra risoluzione che riaffermi la 2334, con la quale si chiedeva a Israele di porre fine alla sua politica di “insediamento” nei territori palestinesi, inclusa Gerusalemme Est.
   I leader palestinesi, tanto di Hamas quanto dell’ANP, sperano che la nuova ondata di violenza contro Israele rimetta al centro la spompata “causa palestinese”, messa in sordina da quattro anni di amministrazione Trump. Auspicano, ardentemente, che la risposta muscolare dell’IDF crei una spaccatura tra Israele e i paesi arabi che, dopo decenni, cercano migliori relazioni con Gerusalemme.
   Questa strategia potrebbe avere successo. La narrazione demonizzante di Israele, confezionata artatamente dalla propaganda palestinese, domina l’informazione. È già stata convocata una riunione della Lega araba per discutere la situazione, incontro che è sfociato in una dichiarazione che ha attribuito la colpa dei disordini, ça va sans dire, solamente a Israele.
   Bisogna aggiungere, però, che l’attuale escalation messa in atto dai terroristi palestinesi riflette anche, almeno in parte, la perenne lotta per il potere tutta interna alla leadership palestinese. Hamas vuole dimostrare al popolo che è ben attrezzata e risoluta coi nemici, migliore di Mahmoud Abbas, corrotto presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha deciso di rimandare a tempo indeterminato quelle che dovevano essere le prime elezioni palestinesi dopo quindici anni.
   Se la storia è maestra, un trio composto da Egitto, Qatar e Nazioni Unite proverà a mediare un cessate il fuoco. In cambio della pace, Israele farà qualche concessione in merito a Gerusalemme e allo sfratto di Sheikh Jarrah. La tranquillità tornerà sui cieli, che non saranno più solcati dai missili di Hamas, ma per quanto tempo ancora?

(Il Corriere Israelitico, 13 maggio 2021)


I razzi colpiscono Tel Aviv con Hamas è guerra totale Morti e feriti tra i civili

Si intensificano gli scontri fra israeliani e palestinesi: presi di mira anche palazzi e mezzi pubblici A Gaza decine di vittime. Uccise tre donne nella pioggia di missili partiti dalla Striscia.

di Sharon Nizza

ASHKELON — Per tutta la giornata, nelle cittadine israeliane al confine con la Striscia di Gaza si entra ed esce dai rifugi. Mentre visitiamo ad Ashkelon, 20 km a nord della Striscia, una delle case colpite da un missile nella notte, le sirene che danno trenta secondi di tempo per trovare riparo non smettono di suonare. Hamas rivendica 137 lanci in cinque minuti. Poco dopo scopriamo che le prime due vittime dalla parte israeliana, tra loro una badante indiana, sono state colpite in abitazioni poco distanti. L’escalation si propaga verso il nord del Paese nel corso della giornata: prima Ashdod, fino ad arrivare a 130 missili in pochi minuti lanciati verso il cuore d’Israele: Holon, Tel Aviv, Ramat Gan, Rishon Letzion, e qui c’è una nuova vittima. L’esercito dà istruzione a tutti i cittadini dal sud del Paese fino al nord di Tel Aviv di rimanere adiacenti ai rifugi. Il traffico aereo per l’aeroporto Ben Gurion è deviato verso Cipro. Ad Ashkelon colpito anche un oleodotto.
   È durissima la risposta di Israele agli oltre 500 missili che in poco più di 24 ore hanno colpito buona parte del Paese: 80 aerei israeliani, tra cui gli invisibili F35, bombardano simultaneamente la Striscia, obiettivi militari, rampe di lancio, un tunnel che ambiva a penetrare il confine. Sono stati eliminati almeno quindici operativi delle organizzazioni terroristiche tra cui alcune figure chiave come il capo dell’unità dei missili anticarro di Hamas. «C’è una lunga lista di target che si aggiorna in ogni momento», dice il portavoce dell’esercito. Un palazzo di 13 piani a Gaza City, obiettivo legato a Hamas, crolla e diventa un enorme cumulo di macerie. Il direttore dell’UNRWA a Gaza conferma che i residenti del complesso erano stati allertati e si sono evacuati. Nel pomeriggio l’esercito aveva inviato un messaggio alla popolazione di Gaza: state lontani da siti identificati con Hamas perché "è in arrivo un’ampia ed eccezionale ondata di attacchi".
   L’ultimo bollettino del ministero della Salute palestinese riferisce di 28 palestinesi uccisi, tra cui 10 bambini. Secondo alcune fonti, una parte delle vittime civili potrebbero essere state colpita da un razzo esploso all’interno della Striscia. Un rapporto diffuso dalla Ong Palestinian Centre for Human Rights indica che 7 persone sono rimaste uccise da un razzo a Jabalia alle 18:05 di lunedì — ossia in concomitanza con il primo lancio di missili verso Gerusalemme e il sud del Paese — e che «le circostanze di questo incidente sono ancora in corso di indagine ».
   Netanyahu ha annunciato «il rafforzamento della potenza e del ritmo degli attacchi ». Ancora più esplicito il ministro della Sicurezza Gantz: «Per ogni giorno di spari sui cittadini israeliani, rispediremo le organizzazioni terroristiche anni indietro. Non ci fermeremo fino a che non tornerà il silenzio». Israele ha richiamato 5.000 riservisti — prevalentemente in unità di logistica del Comando delle Retrovie — e dispiegato forze nel Sud del Paese. In un briefing con i giornalisti, il portavoce dell’esercito conferma che «le violenze si intensificheranno » e rispetto a un ingresso delle truppe via terra dà risposte vaghe: «Non siamo ancora lì. Ma tutti gli scenari sono aperti».
   Una delegazione egiziana è in arrivo a Gaza per cercare di raggiungere una tregua. Anche il Qatar è tra i mediatori. Il presidente turco Erdogan annuncia la mobilitazione «per esprimere una ferma posizione delle nazioni musulmane per fermare l’uso della forza da parte d’Israele contro i palestinesi». «La Turchia sarà sempre un sostenitore in prima linea dei palestinesi e lavorerà per proteggere la dignità e l’integrità di Gerusalemme», è il messaggio che il leader turco parlando ha fatto arrivare al presidente palestinese Abu Mazen e al leader di Hamas Ismail Hanyieh. Erdogan vede un’occasione per espandere la sua influenza su quanto sta accadendo a Gerusalemme e presentarsi come la potenza regionale che protegge i luoghi santi dell’Islam. Non a caso per Israele "Guardiani delle mura", per Hamas "La spada di Gerusalemme": sono i nomi dell’operazione in corso, che forse a breve diventerà guerra, perché tutto nasce e finisce intorno alla Città santa.

(la Repubblica, 12 maggio 2021)


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La strategia della saturazione di Hamas per colpire Tel Aviv

I raid aerei si intensificano

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri la guerra fra Israele e i gruppi armati palestinesi della Striscia di Gaza si è intensificata, anche se è evidente che non c’è alcun obiettivo realistico a portata di mano. Da parte dei palestinesi sparare molti razzi per molti giorni contro le città israeliane non smuoverà la situazione e non cambierà l’equilibrio di forza fra i due schieramenti e da parte israeliana i raid aerei non infliggeranno danni definitivi alle fazioni armate di Gaza. E’ un conflitto a scopo dimostrativo, una prova generale in attesa di sviluppi futuri e che intanto provoca morti e feriti da entrambe le parti – ventotto palestinesi uccisi sotto i bombardamenti secondo il ministero della Sanità di Gaza e due donne israeliane uccise da un missile nella città di Ashkelon e una a Tel Aviv. E allora vediamo come sta andando questo test terrificante.
   L’ultimatum di lunedì scadeva alle sei di sera, i primi lanci di razzi sono cominciati pochi minuti dopo e ieri alle sei di sera il numero di razzi sparati da Gaza verso Israele era intorno ai 630. Due ore dopo Hamas ha sparato un altro sciame di 130 razzi contro la città di Tel Aviv e alcuni sono andati a segno — le prime notizie dicono: una donna uccisa — come risposta contro l’abbattimento di un palazzo di tredici piani a Gaza che faceva da sede per il gruppo. Un attacco di questa portata contro Tel Aviv non si era mai visto prima ed è chiaro che Hamas non lo ha improvvisato, ma lo ha piuttosto eseguito secondo un piano definito molto in anticipo, che ora descriveremo. Subito dopo la salva di 130 razzi, i jet israeliani hanno abbattuto un altro palazzo di molti piani nella Striscia di Gaza, a mo’ di controrisposta.
   I gruppi armati palestinesi stanno tentando la cosiddetta “strategia della saturazione”. La strategia della saturazione è il grande argomento che riempie questi anni di preparativi in attesa di un grande conflitto futuro. Ne parlano i gruppi palestinesi a sud, ne parlano le forze militari di Israele prese in mezzo e ne parla anche la milizia libanese di Hezbollah a nord. L’idea è che lanciando moltissimi razzi forse sarebbe possibile saturare le difese missilistiche israeliane, che si basano su sistemi automatizzati che rispondono in frazioni di secondo ai lanci di razzi da terra.
  Di solito i computer leggono la prima parte della traiettoria del razzo, a partire da quella calcolano il resto della traiettoria e quindi dove andrà a colpire e sempre in tempi ultrarapidi prendono una decisione: se il razzo è destinato a cadere in una zona disabitata lo lasciano passare – perché abbatterlo è molto costoso – e se invece è diretto contro una zona abitata lo abbattono con un contro-missile. Questa routine di funzionamento ha una percentuale di successo abbastanza alta. I gruppi armati nemici di Israele studiano la questione e sono sicuri che con un numero enorme di lanci fatti tutti assieme possono sovraccaricare i sistemi automatizzati di difesa, che oltre un certo numero di razzi non riuscirebbero più a gestire la situazione come un cameriere con troppi piatti in mano. Per questo motivo ieri mattina abbiamo visto le scene di questi lanci simultanei di razzi che sono intercettati nel giro di pochi secondi e lasciano tutto un reticolo di scie bianche e di sbuffi quando esplodono ancora innocui ad alta quota nel cielo sopra Ashdod e Ashkelon. E per lo stesso motivo ieri sera abbiamo visto centinaia di razzi e controrazzi illuminare come Ufo lo spazio aereo di Tel Aviv. Le volate di ordigni sono prove per saggiare le capacità di risposta del sistema – e allo stesso tempo i gruppi di fuoco che lanciano i razzi preferiscono farlo assieme perché sanno che i jet israeliani vanno a caccia dei siti di lancio e quindi sparare nello stesso momento rende la caccia più complicata.
   Questa strategia della saturazione spiega perché Hamas e gli altri gruppi armati lavorano così intensamente al loro arsenale di razzi. Nell’inverno 2008, durante i ventidue giorni dell’operazione Piombo fuso spararono 660 razzi. Nel 2012, durante gli otto giorni dell'operazione Pilastro di difesa spararono 1.506 razzi. Nell’estate 2014 durante i 42 giorni dell’operazione Bordo di protezione spararono più di 3.300 razzi (dati presi dal Journal of Global Security Studies dell’aprile 2018). Nel maggio 2019 spararono in meno di due giorni 690 razzi. E’ una crescita costante. Ora, come si diceva prima, sono arrivati a 760 in 26 ore. A mezzogiorno di ieri i gruppi palestinesi hanno lanciato in pochi minuti più di cento razzi contro la città di Ashkelon, dove le sirene hanno mandato tutta la popolazione dentro i rifugi più volte. Secondo il giornalista Emanuel Fabian, di Times of Israel, il sistema Iron Dome che proteggeva la città si inceppato e sei razzi non sono stati intercettati. Uno ha distrutto una scuola elementare, che però era vuota perché la Difesa israeliana aveva annunciato la sospensione delle lezioni a causa della guerra. Altri razzi hanno colpito alcuni edifici e il porto, hanno distrutto una macchina e hanno centrato e incendiato un bacino di carburante.
   I gruppi palestinesi usano anche altri stratagemmi per colpire i civili israeliani. Ieri hanno sparato un missile Sejjil di progettazione iraniana, che non segue la solita traiettoria curva ma è piuttosto un tiro teso che inganna i sistemi di difesa: ha volato parallelo al suolo e molto basso per dieci chilometri, ha forato la facciata di un palazzo residenziale di Ashkelon e ha ucciso due donne. Hamas ha rivendicato la nuova tattica in un comunicato. Un altro gruppo armato, il Jaysh al Saraya, ha rivendicato l’uso del missile iraniano Badr-3, che porta una testata con 250 chilogrammi di esplosivo, sempre contro Ashkelon. Com’è noto, i gruppi palestinesi della Striscia hanno come punto di riferimento l’Iran, che provvede armi e finanziamenti. In questa corsa agli armamenti, Iran e gruppi palestinesi alzano il livello di pericolosità e gli israeliani aggiornano i loro piani di protezione. Se le difese israeliane nella zona fossero rimaste quelle di quindici anni fa, le perdite sarebbero molto più pesanti.
  Come nota Associated Press, non è chiaro se alcune delle vittime palestinesi sono state uccise dalle bombe degli aerei o da razzi caduti troppo corti. Circa un terzo dei razzi palestinesi, secondo l’esercito israeliano, non cade in Israele ma a Gaza.

(Il Foglio, 12 maggio 2021)


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Ora Hamas bombarda Tel Aviv. Iran e Turchia soffiano sul fuoco

Missili su Israele. Richiamati i riservisti: «Sarà un conflitto lungo». Raid su Gaza: 28 morti. La crisi rischia di allargarsi.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Lo scontro è al massimo. Alle 9, secondo l'ultimatum, dopo che l'aviazione israeliana aveva colpito un altro edificio a Gaza, Hamas ha diretto i suoi missili ormai potenti e raffinati su Tel Aviv, dove c'è stata almeno una vittima. Intanto l'Egitto spinge Israele per un cessate il fuoco, il Qatar si dà da fare con Hamas. Ma ancora non ci siamo. Israele deve ricostituire la deterrenza per cui Hamas capisca che non può dominare la popolazione israeliana rinchiudendola in casa nel terrore dei missili. E Hamas si sente troppo grande per smettere e dei morti gli è sempre importato poco: è evidente dall'andamento degli scontri in Medio Oriente che un'eccitazione simile a quella dell'Intifada possiede in queste ore Hamas, il grande difensore, oggi, della Moschea di Al Aqsa, che ha spodestato Abu Mazen nella leadership palestinese.
    Quasi 500 missili sono stati lanciati da Gaza contro Israele, gli obiettivi colpiti sono decine, vari edifici sono stati centrati e due donne uccise nelle macerie a Ashkelon, i feriti sono decine, le sirene suonano senza tregua di continuo al sud e la gente è costretta a restare chiusa in casa e a breve distanza dai rifugi, mentre lunedì anche Gerusalemme, la capitale, ha subito la stessa sorte. Su Gaza si è abbattuto il raid israeliano che ha colpito obiettivi mirati che hanno ucciso almeno 3 leader di Hamas e della Jihad Islamica, anche il responsabile di lanci dei missili di questa organizzazione è stato eliminato e in queste ore pare che anche un comandante militare di Hamas sia stato centrato; i morti sono 28 fra cui purtroppo, secondo Hamas, 10 bambini. Al contrario di Hamas, l'esercito israeliano non prende di mira i civili. L'aviazione ha avvertito gli abitanti di sgomberare, ma la voluta mescolanza di Hamas fra sedi militari e civili crea un rischio enorme per la popolazione.
    Il Capo di Stato Maggiore Avi Kochavi ha annunciato la mobilitazione di 5000 soldati delle riserve, ma l'ipotesi «stivali sul terreno» ancora non si disegna, anche se reparti speciali si assiepano sul confine. Israele seguita a dibattersi senza tregua nel dubbio su che fare con la Striscia popolata e povera, dominata da un gruppo di fanatici dittatori. La pressione perché si trovi una soluzione strategica è forte. La violenza si è anche estesa a molte città israeliane a larga presenza araba, come Lod, Ramla o Yaffo. Un giovane arabo è rimasto ucciso in scontri fra civili. L'ospedale di Assaf ha Rofè è stato vandalizzato da giovani arabi che hanno assalito malati e medici dandogli di «collaborazionisti». I civili israeliani bombardati dai missili lamentano la mancanza di una reazione decisiva: le dure dichiarazioni di Netanyahu sembrano condivise da tutto il mondo politico.
    L'avventura bellica di Hamas è stata complessa e preparata, giocata sul terreno della politica internazionale e dello scontro con Israele, ed è del tutto verosimile che Hamas intenda giocarsela fino in fondo in un momento in cui i palestinesi, con l'amministrazione Biden, hanno di nuovo il favore americano. Erdogan, l'Iran, sanno bene che è un terreno fertile. La scelta dei giorni conclusivi di Ramadan è coincisa, e certo coordinata, con la crescita dell'incitamento dall'Iran mentre Erdogan dando di assassino a Israele si ingaggiava nella medesima gara.
    Hamas ha sentito il vento in poppa della spinta congiunta di due grandi poteri, l'uno sciita e l'altro sunnita, che in questo periodo sono al centro di una ridefinizione di rapporti dovuta alla presidenza Biden. La Turchia, mentre aggredisce con mille spade Israele, cerca un inusitato contatto con i sauditi, i sauditi si avvicinano alla Siria filorussa. Probabilmente da oggi le urla di Erdogan e degli iraniani lasceranno spazio alle cerimonie egiziane e qataresi, e allora tutti gli altri paesi islamici nella riunione della Lega Araba che si tiene oggi cercheranno oltre il rito della condanna di bloccare i furori di Hamas, che non servono a nessuno. Non servono nemmeno all'Unione Europea, che ripete la solita musica antisraeliana mentre si svolge una guerra totalmente scelta e condotta dalla parte descritta invece come vittima: i palestinesi. Un bambino un po' capriccioso di cui Israele avrebbe sempre la responsabilità.

(la Repubblica, 12 maggio 2021)


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Operazione Guardiani delle Mura: come Israele può sconfiggere l'aggressione terrorista

di Ugo Volli

La situazione in Israele non migliora. I terroristi continuano a sparare missili sulla popolazione civile; fino al momento in cui scrivo un migliaio sono entrati in Israele e circa duecento sono ricaduti a Gaza. I terroristi ne hanno alcune decine di migliaia, di cui diverse migliaia abbastanza potenti da arrivare a minacciare il centro del paese, l’aeroporto Ben Gurion, Tel Aviv e Gerusalemme. La tattica di lanciarli in gruppi compatti di molte decine in parte funziona, perché Iron Dome non riesce a fermarli tutti. Ci sono stati diversi impatti diretti su case, scuole, impianti industriali, automobili e autobus. I morti al momento sono cinque. Le forze armate israeliane reagiscono con un lavoro sistematico di distruzione di obiettivi militari di Gaza: tunnel di attacco, lanciarazzi, depositi e fabbriche d’armi, singoli miliziani: qualche volta sono riuscite a neutralizzare capi terroristi importanti. Ma le sue tattiche militari sono limitate dall’attenzione a non danneggiare i civili. Israele per esempio avverte prima di distruggere edifici che ospitano impianti nemici e dà ai civili il tempo di sgomberarli, rinunciando all’effetto sorpresa. E’ l’esatto contrario di quel che fanno i terroristi, i quali prendono di mira solo la popolazione e non hanno neanche provato a colpire gli obiettivi militari.
   Israele senza dubbi prevarrà, ma ha bisogno di tempo per farlo, perché procede sistematicamente, senza cercare di terrorizzare la popolazione, ma mirando al sodo dell’apparato militare terrorista. Il risultato dell’asimmetria fra una banda terroristica e un esercito regolare che rispetta le vite umane e ubbidisce a regole umanitarie è che l’iniziativa strategica resta in mano a Hamas. Esso ha programmato questa guerra, l’ha scatenata quando ha ritenuto utile farla e ora preme per chiuderla in modo da incamerare il vantaggio almeno comunicativo che ha accumulato. In questo tentativo di ottenere un cessate il fuoco immediato prima di pagare il prezzo del suo attacco ha sponde importanti: alcuni paesi arabi, l’Onu; e senza dubbio presto in questo senso si muoveranno gli Stati Uniti, che hanno espresso una solidarietà molto tiepida a Israele e l’Unione Europea. Per il momento Israele ha rifiutato la tregua, ma prima o poi dovrà cedere alla pressione.
   Vi sono tre elementi ulteriori che destano preoccupazione. Il primo è l’atteggiamento degli arabi israeliani, o almeno di una loro parte consistente. Vi sono stati incidenti abbastanza gravi di nuovo sul Monte del Tempio, a Lod dove è stata data alle fiamme una sinagoga, ad Acco, a Haifa: dovunque convivono di solito civilmente arabi e israeliani, vi sono stati tumulti, aggressioni, vandalismi. La seconda cosa è l’atteggiamento del nemico principale di Israele, l’Iran, che ha mandato il ministro degli esteri in Siria per dare istruzioni ad Assad e Hizbullah. Bisogna sapere che il fronte del nord è almeno dieci volte più pericoloso di quello di Gaza: per numero di razzi, di truppe nemiche, per la conformazione territoriale e l’esistenza di retrovie,. Se Israele non riesce a imporsi rapidamente e completamente a Sud, il rischio è che si accenda il fronte settentrionale, se non ora alla prima occasione favorevole. Infine il fronte internazionale: come al solito la solidarietà a un paese la cui popolazione civile è attaccata con grande violenza da terroristi armati fino ai denti è molto scarsa.
   I risultati di una guerra vanno giudicati dagli obiettivi delle parti. Quelli che Israele si è dato, secondo fonti vicine al suo esercito, sono tre: infliggere danni severi alle strutture terroriste di Gaza; distruggere le capacità nemiche di restaurare il loro apparato militare; ristabilire la deterrenza di Israele, cioè far sì che i nemici di nuovo abbiano timore di attaccarlo. I primi due obiettivi sono materiali e l’aviazione israeliana sta lavorando duro per raggiungerli. Il terzo è politico e ottenerlo dipende dalle percezioni delle parti. Il fatto è che Hamas ha già raggiunto alcuni dei suoi obiettivi politici. Anche se alla fine le sue forze saranno logorate e sconfitte, avrà mostrato a palestinesi e arabi israeliani di essere lui (e non Fatah) l’organizzazione capace di combattere Israele, sarà riuscito a riproporre la vecchia immagine dell’”occupazione” israeliana all’attenzione del mondo, magari convincendo i suoi sostenitori nel mondo arabo, in Europa e negli Usa che l’autodifesa israeliana è oppressiva, crudele, inumana. E soprattutto, molto probabilmente sarà riuscito a sopravvivere, non sarà rovesciato. E’ importante capire che l’eliminazione di Hamas non fa parte degli obiettivi israeliani, perché la valutazione permanente delle forze armate israeliane è che è meno peggio avere Hamas al governo di Gaza, piuttosto che il caos delle bande terroristiche che lo sostituirebbe. D’altro canto, la rioccupazione della Striscia è troppo pericolosa e costosa sul piano politico e militare. Ma nello scontro fra un gruppo terroristico e uno stato, per i terroristi la sopravvivenza è già una vittoria. Dunque il quadro stretto di questo conflitto rende difficile una vittoria decisiva israeliana. Si punta a ottenere un altro periodo di calma, non a risolvere il problema una volta per tutte.Insomma, la situazione di Israele è molto delicata. Bisogna sperare che le forze militari abbiano il tempo di completare la loro missione eliminando il grosso dell’apparato militare di Hamas e che i danni inflitti dai terroristi siano invece limitati.
   Ma si deve sempre tener conto del fatto che questa guerra è solo un episodio, fra i tanti tragici che sono avvenuti nei decenni, di un conflitto dove l’obiettivo dei nemici è la vita stessa dello stato ebraico. Hamas non può credere di distruggerla in questo momento, i rapporti di forza non lo consentono affatto, ma da sempre mira a logorarla, a scalfirne la forza. La posta specifica oggi è il successo di Israele, il suo sviluppo economico e sociale, la sua capacità di instaurare relazioni col mondo e anche con molti paesi arabi e islamici. Al di là degli obiettivi militari, Hamas attacca per cercare di cancellare i successi israeliani degli ultimi anni, in particolare gli “accordi di Abramo” favoriti da Trump. Quando i combattimenti saranno cessati, Israele avrà vinto se gli accordi con Emirati, Arabia, Egitto, Marocco avranno tenuto; avrà perso se sarà avanzato il fronte di chi la vuol distruggere, guidato dall’Iran. Guardano le cose su questa dimensione politico-strategica, Israele sta ancora prevalendo e, se riuscirà a condurre la guerra con determinazione e lucida prudenza, come sta facendo, otterrà un’importante vittoria strategica, mostrando l’inutilità politica degli attacchi terroristi.

(Shalom, 12 maggio 2021)


Lo stato di diritto vale anche a Sheikh Jarrah

di Davide Cavaliere

A infiammare le rivolte palestinesi di questi giorni vi è anche il contenzioso relativo alle rivendicazioni di proprietà di Sheikh Jarrah. La vicenda ha avuto una certa eco anche in Italia, dove è stata presentata come un sopruso “coloniale” israeliano. Gad Lerner, per esempio, ha parlato di “pulizia etnica”. Ma si tratta davvero di un abuso di potere dello Stato ebraico? La risposta è un deciso “no” per chiunque si sia informato in merito alla vicenda, che si trascina da decenni.
   Il 10 febbraio 2021, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato la sentenza, dell’ottobre 2020 di un altro tribunale, che richiede a un certo numero di residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah di liberare le proprietà in cui vivono entro il due maggio dell’anno in corso. A seguito di questa decisione, i residenti hanno presentato ricorso alla Corte Suprema di Israele, che si sarebbe dovuta pronunciare in modo definitivo il dieci maggio, ma la sentenza è stata rinviata.
   I recenti sviluppi di questa vicenda che si trascina da decenni, sono state la causa di una vasta campagna, condotta in particolare dal gruppo palestinese Al-Haq – con il sostegno della Corte penale internazionale e di funzionari delle Nazioni Unite – che ritiene che l’ordine di sfratto del tribunale rappresenti un “crimini di guerra”. La mobilitazione palestinese e degli enti internazionali non tiene conto dei fatti storici in merito alla proprietà e della loro minuziosa ricostruzione operata dai tribunali israeliani.
   La terra in questione venne acquistata dai rabbini capo Avraham Ashkenazi e Meir Orbach nel 1875, per poi passare nella mani di due organizzazioni ebraiche, Va’ad Eidat HaSfaradim e Va’ad HaKlali L’Knesset Yisrael, che registrarono le proprietà presso le autorità israeliane. Infine, nel 2003, le suddette vennero venduta a un’altra organizzazione, la Nahalat Shimon.
   Stando a una decisione dell’Alta Corte Israeliana del 1989, nel caso di inquilini che vivono su proprietà di qualcun altro, i residenti sono tenuti a pagare l’affitto ai proprietari. Il mancato rispetto di tale disposizione, insieme a casi di costruzione illegale e affitto illegale di proprietà altrui, ha portato all’attuale procedimento legale contro i palestinesi, poi conclusosi con l’imposizione dello sfratto.
   Le rivendicazioni dei palestinesi sono stata respinte fin da subito, data la loro fragilità. Di otto ricorrenti, quattro affermano di aver acquistato le proprietà nel 1991, ossia diciannove anni dopo che le proprietà erano state registrate presso le autorità israeliane, da un uomo mai identificato di nome “Ismail”. Almeno tre ricorrenti sono figli e nipoti di residenti che hanno riconosciuto la proprietà israeliana della terra in procedimenti giudiziari nel 1982. Mentre per un singolo ricorrente la Corte ha stabilito che non aveva pagato l’affitto come richiesto e aveva costruito illegalmente su una proprietà non sua, dunque deve essere sfrattato.
   Secondo i palestinesi, la terra sarebbe stata affidata a loro dalle autorità giordane, ma tale pretesa è stata respinta dal tribunale dello stato d’Israele, poiché “tutti i testimoni sono nati dopo il 1967 o erano molto giovani all’epoca e hanno testimoniato di aver sentito della concessione delle autorità giordane da un parente più anziano”. Il tribunale ha aggiunto che per provare questa presunta garanzia giordana “l’unico documento presentato è una copia di un documento standard dall’equivalente giordano del Ministero dell’edilizia abitativa, ma questo modulo non è firmato e non conferisce la proprietà a nessuno degli imputati”. Inoltre, alcuni ricorrenti hanno presentato un contratto poi rivelatosi contraffatto e fasullo.
   Stando ai fatti, Israele ha tutto il diritto di sfrattare i palestinesi di Sheikh Jarrah. Non si tratta di un abuso di potere, ma dell’applicazione del diritto di uno stato democratico.

Il Corriere Israelitico


Palestinesi: il nostro vero obiettivo è distruggere Israele

di Bassam Tawil*

Quando nel 1991 l'ex dittatore iracheno Saddam Hussein lanciò 39 missili Scud contro Israele, numerosi palestinesi scesero in strada per celebrare gli attacchi. Molte manifestazioni di protesta ebbero luogo in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est, anche se i palestinesi erano stati provvisti dalle autorità israeliane di maschere antigas, da indossare per proteggersi da un possibile attacco chimico da parte dell'Iraq contro Israele.
   Il Los Angeles Times riportò allora che "diversi palestinesi hanno espresso gioia per l'assalto missilistico [iracheno] della scorsa settimana a Tel Aviv e Haifa".
   Quando nel 2015 il gruppo terroristico Hezbollah, sostenuto dall'Iran, lanciò una serie attacchi missilistici contro Israele dal Libano, i palestinesi scesero in strada per festeggiare, tenendo in mano le bandiere di Hezbollah e distribuendo dolci a guidatori e passanti.
   Per i palestinesi, chiunque attacchi Israele o minacci di distruggerlo è un vero "eroe".
   Nei giorni scorsi i palestinesi hanno acclamato un altro "eroe": Mohammed Deif, figura oscura che guida l'ala militare del movimento islamista palestinese Hamas.
   Deif è il terrorista più ricercato da Israele negli ultimi 25 anni, a causa del suo coinvolgimento in diversi attacchi terroristici, tra cui l'uccisione di soldati israeliani, attentati suicidi e rapimenti. Nel 2015, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aggiunse Deif alla lista degli Specially Designated Global Terrorists (SDGTs), ("terroristi globali particolarmente pericolosi", N.d.T.)
   A causa del suo coinvolgimento diretto nel terrorismo contro Israele, Deif è sempre stato considerato da molti palestinesi un "eroe".
   Ora, dopo che Deif ha minacciato Israele di ritorsioni, se non cambia le sue politiche a Gerusalemme Est, sembra essere ancora più popolare tra i palestinesi.
   In una rara dichiarazione pubblica, il terrorista, che vive nella Striscia di Gaza governata da Hamas, ha dichiarato che Israele pagherà un "prezzo molto elevato", se non fermerà lo sgombero delle famiglie palestinesi che vivono nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. "Questo è un chiaro e definitivo avvertimento", ha minacciato Deif, accennando al fatto che Hamas avrebbe ripreso i suoi attacchi missilistici e altre forme di terrorismo contro Israele.
   La minaccia è stata lanciata dopo che un tribunale di Gerusalemme aveva approvato lo sfratto di un certo numero di famiglie arabe residenti a Sheikh Jarrah dalle case che erano appartenute agli ebrei prima della fondazione di Israele nel 1948.
   Durante le manifestazioni di massa tenutesi negli ultimi giorni a Gerusalemme e in alcune parti della Cisgiordania, migliaia di palestinesi hanno scandito slogan in lode di Deif e lo hanno esortato a mettere in atto la sua minaccia di lanciare razzi contro Israele. I palestinesi hanno anche scandito slogan a sostegno dell'ala militare di Hamas, Izaddin al-Qassam, responsabile di migliaia di attacchi terroristici contro Israele negli ultimi tre decenn
   "Siamo gli uomini di Mohammed Deif", hanno ripetuto ritmicamente migliaia di palestinesi durante una manifestazione alla Moschea di al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell'Islam. Lo hanno anche esortato a "colpire" Tel Aviv con i razzi, facendo eco all'appello del 1991 a Saddam Hussein: "O amato Saddam, colpisci, colpisci Tel Aviv!".
   Le manifestazioni a Gerusalemme sono iniziate il primo giorno del mese di digiuno musulmano del Ramadan, quando decine di giovani hanno attaccato agenti di polizia e residenti ebrei con pietre, bombe incendiarie e altri oggetti. I manifestanti hanno inizialmente giustificato gli attacchi sostenendo che la polizia israeliana aveva installato barricate in uno degli ingressi della Città Vecchia di Gerusalemme, impedendo così loro di riunirsi di notte per celebrare il Ramadan.
   Le rivolte, tuttavia, sono continuate anche dopo che la polizia ha rimosso le barricate. I rivoltosi hanno detto che stavano protestando contro il possibile sfratto delle famiglie da Sheikh Jarrah e contro i tentativi degli ebrei di "assaltare" la Moschea di al-Aqsa, un riferimento alle visite di routine degli ebrei al Monte del Tempio, il luogo più sacro dell'Ebraismo.
   E allora come si inserisce Deif, il capo terrorista di Hamas, negli scontri tra i palestinesi e la polizia israeliana a Gerusalemme?
   Invocando il nome di Deif e invitandolo a bombardare Tel Aviv, i manifestanti hanno rivelato la verità: che le loro proteste non riguardavano la moschea di al-Aqsa, le polemiche sulle case di Sheikh Jarrah o sule barriere della polizia nella Città Vecchia, ma puntavano all'eliminazione di Israele.
   Occorre notare che Israele non ha adottato nuove misure per "alterare lo status storico o legale" della Moschea di al-Aqsa, come hanno affermato i palestinesi e altri arabi.
   I palestinesi sono irritati perché agli ebrei è permesso recarsi sul Monte del Tempio. I palestinesi non vogliono che gli ebrei visitino il loro luogo sacro; non vogliono vedere ebrei a Gerusalemme, e non vogliono assolutamente vedere nessun ebreo nella terra che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.
   In che modo il bombardamento di Tel Aviv aiuta i casi delle famiglie arabe di Sheikh Jarrah, che contestano l'ordine di sfratto nei tribunali israeliani? In che modo invitare Hamas a lanciare attacchi terroristici contro Israele aiuta i palestinesi nella loro campagna finalizzata a impedire agli ebrei di visitare il Monte del Tempio?
   Alzando le bandiere di Hamas e scandendo slogan a sostegno di un arci-terrorista alla Moschea di al-Aqsa, i manifestanti hanno profanato il luogo sacro, non gli ebrei. Coloro che hanno usato il complesso della moschea per lanciare pietre e altri oggetti contro gli agenti di polizia sono coloro che hanno contaminato il luogo sacro. Non si possono attaccare gli agenti di polizia e poi lamentarsi del fatto che Israele abbia inviato la polizia a "fare irruzione" e a "profanare" la Moschea di al-Aqsa, a meno che la tua mente non sia stata distorta dalla logica del terrorismo.
   Nessuno contesta il diritto dei palestinesi di protestare contro le politiche israeliane. Ma quando le proteste si trasformano in grandi manifestazioni pro-Hamas, con appelli per bombardare Tel Aviv e uccidere gli ebrei, smascherano le vere intenzioni mortali dei manifestanti.
   Quando migliaia di palestinesi scandiscono lo slogan "Siamo tutti Mohammed Deif", intendono dire che si vedono come terroristi pronti ad attaccare e distruggere Israele e che Deif è il loro modello perché è riuscito a uccidere molti ebrei e rimane a piede libero, nonostante i tentativi israeliani di arrestarlo o ucciderlo.
   La violenza scoppiata a Gerusalemme negli ultimi giorni mostra che Hamas ha un ampio seguito tra i palestinesi, compresi i residenti di Gerusalemme Est in possesso di carte d'identità rilasciate da Israele, ma non sono cittadini israeliani. Dopo che Israele annesse Gerusalemme Est nel 1968, concesse ai palestinesi lì residenti il diritto di richiedere la cittadinanza israeliana. La maggior parte di loro, tuttavia, ha scelto di non chiedere la cittadinanza israeliana per paura di essere bollata come traditrice.
   Da residenti permanenti di Israele, i residenti palestinesi di Gerusalemme godono di tutti i diritti concessi ai cittadini israeliani con un'eccezione: il diritto di votare per il Parlamento israeliano, la Knesset. Allo stesso tempo, questi residenti hanno il diritto di richiedere la cittadinanza israeliana ogni volta che lo desiderano e diverse migliaia di loro lo hanno già fatto.
   La popolarità di Hamas è in aumento non solo a Gerusalemme Est, ma anche in Cisgiordania, dove alcuni palestinesi hanno anche elogiato Deif e lo hanno esortato a scatenare una nuova ondata di terrore contro Israele.
   Hamas deve la sua crescente popolarità alla provocatoria campagna anti-israeliana condotta dai media palestinesi, in particolare dalle piattaforme dei social media, dalle moschee e dalla retorica pubblica dei leader palestinesi. Hamas deve la sua popolarità anche alla corruzione in atto e all'incompetenza dell'Autorità Palestinese e del suo autocratico presidente, Mahmoud Abbas.
   Abbas aveva buone ragioni per ritardare fino a nuovo avviso le elezioni legislative e presidenziali che aveva in programma di tenere il 22 maggio e il 31 luglio. Sapeva benissimo che i suoi rivali di Hamas erano diretti verso una vittoria simile a quella ottenuta nelle ultime elezioni legislative tenutesi nel 2006.
   Eppure Abbas non ha avuto il coraggio di ammettere che questo era il vero motivo per cui ha annullato le elezioni. Invece, ha preferito incolpare Israele accusandolo falsamente di impedire ai palestinesi di Gerusalemme di partecipare alle elezioni.
   Seduto nel suo soggiorno a guardare in tv le migliaia di palestinesi a Gerusalemme che lo denunciano come traditore e salutano Hamas e Deif, Abbas deve aver tirato un sospiro di sollievo per il fatto che le elezioni sono state rinviate a tempo indeterminato. Le manifestazioni pro-Hamas a Gerusalemme dovrebbero preoccupare non solo Israele, ma anche Abbas e la sua Autorità Palestinese.
   Le manifestazioni a favore di Hamas dovrebbero anche essere un campanello d'allarme per l'amministrazione Biden e servire da indicatore accurato delle priorità palestinesi. L'amministrazione Biden parla di rilanciare il processo di pace in stallo tra Israele e i palestinesi sulla base della "soluzione dei due Stati". Hamas e le migliaia di palestinesi che hanno inneggiato slogan a sostegno di Hamas e Deif, tuttavia, hanno in mente una soluzione diversa: l'annientamento di Israele e la morte degli ebre e più si è, meglio è.
* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 11 maggio 2021 - trad. di Angelita La Spada)


Israele, la prima volta in rosa

Un'impresa che regala speranza in ore difficili

di Adam Smulevich

In queste ore di grande preoccupazione per Israele una straordinaria impresa sportiva regala un po’ di conforto e speranza. La Israel Start-Up Nation, la squadra israeliana impegnata in queste settimane nel suo quarto Giro d’Italia, conquista infatti la sua prima storica maglia rosa. E proprio grazie a un italiano, l’esperto passista-scalatore Alessandro De Marchi, alla sua prima stagione con i colori della ISN.
De Marchi, 35 anni, friulano di San Daniele, è arrivato secondo sul traguardo di un’appassionante e movimentata tappa che ha portato il gruppo da Piacenza a Sestola. Mai secondo posto fu più dolce visto che, grazie alla buona posizione in classifica alla partenza, e per effetto dell’ottima prova odierna, ha potuto insediarsi in testa alla graduatoria.
Un successo frutto del talento del singolo, tra i protagonisti di un attacco sferrato da lontano, ma anche della forza di una squadra che in queste prime giornate di corsa ha impressionato per compattezza e risultati. Ieri con il secondo posto di Davide Cimolai e il quinto di Patrick Bevin a Canale. Il giorno precedente con un piazzamento in top ten dello stesso Cimolai, nono a Novara. Nella cronometro d’esordio di Torino con Matthias Brandle in top ten, e piazzamenti significativi anche per Alex Dowsett e De Marchi.
L’emozione in casa Israel Start-Up Nation è palpabile. C’è l’orgoglio per il risultato sportivo, naturalmente. Ma anche la consapevolezza di aver fatto qualcosa di importante in un momento di grande sofferenza per il Paese.
Sylvan Adams, il mecenate e filantropo israelo-canadese alla guida del team, parlando con Pagine Ebraiche a poche ore dall’inizio del Giro non si era nascosto: “Il 2020 è stato il nostro primo anno nel World Tour. Ma il bello inizia adesso. Non siamo mai stati così competitivi”. I ‘suoi’ ragazzi li descriveva così: “Tutti molto bravi, adatti a diversi scenari. Una squadra ben assortita. Un bel mix tra ciclisti di lungo corso e giovani emergenti alla ricerca di spazio”.
Appena giunto al traguardo, De Marchi ha commentato: “Ho iniziato a pensare di provare a prendere la maglia rosa due giorni fa, ma non l’ho detto a nessuno. Oggi sapevo di dover attaccare al momento giusto e che non sarebbe stato facile. Un po’ di fortuna ci ha aiutato e adesso eccoci qui, in rosa. Sono senza parole. Questa maglia è il sogno d’infanzia di ogni corridore”.
L’impresa di oggi è storica. Ma in prospettiva, molte altre potrebbero seguire.

(moked, 11 maggio 2021)


La battaglia di Gerusalemme. I razzi di Hamas sulla città

Evacuati Parlamento e Muro del pianto, trecento feriti negli ultimi scontri Israele risponde. “Venti morti a Gaza, tre sono bimbi”. Preoccupazione Usa

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — La tensione era palpabile fin dalle prime ore della mattina e nel corso della giornata diversi segnali hanno dato la misura dell’escalation alle porte. Nel pomeriggio Hamas ha lanciato un ultimatum: se entro le 18 Israele non ritira le proprie forze da Al Aqsa e Sheikh Jarrah, ci saranno conseguenze. Promessa mantenuta: alle 18 in punto sono suonate le sirene a Gerusalemme, con due forti esplosioni. Sei missili hanno percorso oltre 100 chilometri raggiungendo la Città santa, intercettati e provocando solo danni marginali a un’abitazione. La Knesset è stata evacuata. E lo stesso il Muro del Pianto. In parallelo, almeno 60 razzi sono stati lanciati nel giro di poche ore verso il Sud d’Israele, tra cui un missile anticarro che ha colpito un’auto a Sderot, e l’attacco continua. A stretto giro è arrivata la reazione dell’aviazione israeliana. «Abbiamo solo iniziato a colpire gli obiettivi a Gaza» dice il portavoce dell’esercito Jonathan Conricus alla stampa. «Diverse organizzazioni terroristiche rivendicano i lanci, ma noi consideriamo Hamas l’unico responsabile di questo attacco».
    Secondo il ministero della Salute di Hamas, a Gaza ci sono venti vittime nella zona di Bet Hanoun, tra cui diversi bambini. Da parte israeliana, nessuna presa di responsabilità rispetto a possibili vittime civili. Conricus sostiene che si potrebbe trattare di un incidente interno provocato da un razzo vagante «come già avvenuto in precedenti occasioni» riferisce ai giornalisti. Conferma invece l’uccisione di tre uomini di Hamas, tra cui Mohammed Abdullah Fayyad, uno dei comandanti delle Brigate Izzedine al-Qassam.
    La giornata si era aperta con nuovi scontri violenti sulla Spianata delle Moschee. La polizia israeliana aveva deciso di non fare salire fedeli ebrei sul sito che identificano come il primo luogo santo per l’ebraismo, il Monte del Tempio. Una misura contestatissima tra gli israeliani che non è comunque servita a placare gli animi. Migliaia di palestinesi avevano trascorso la notte all’interno della Moschea di Al Aqsa, organizzando barricate e cumuli di sassi, alcuni dei quali sono stati lanciati di primo mattino sui passanti dall’alto della Spianata verso il tratto orientale della strada che circonda le mura della città vecchia, provocando l’irruzione della polizia israeliana nell’area. Gli scontri sono risultati in centinaia di feriti palestinesi, riporta la Mezzaluna Rossa, di cui almeno 7 gravi. Nelle stesse ore, nei pressi della Porta dei Leoni, un’auto israeliana è stata presa d’assalto a sassate da un gruppo di giovani palestinesi, causando l’uscita di strada del conducente e il ferimento dei tre passeggeri e di uno degli assalitori.
    I numerosi poli di attrito hanno infiammato Gerusalemme proprio mentre Israele celebrava l’unificazione della città dopo la guerra dei Sei giorni. Ma Gerusalemme appare più divisa che mai. La schizofrenia è lampante nelle poche centinaia di metri che separano la porta di Damasco da quella di Giaffa in città vecchia: negli stessi momenti, al primo valico delle mura antiche che conduce al quartiere musulmano, erano in corso scontri tra polizia e palestinesi, scene di guerriglia urbana che hanno caratterizzato quasi tutto il mese del Ramadan; mentre alla porta che conduce al quartiere ebraico procedevano i festeggiamenti tra musica e balli per il “Giorno di Gerusalemme” – deviati in extremis rispetto al tradizionale percorso che passa proprio per la Porta di Damasco - che si sono improvvisamente interrotti al suono della sirena che non si sentiva a Gerusalemme da anni. Nel terzo polo di fuoco nella città, il quartiere di Sheikh Jarrah, dove alcune famiglie palestinesi potrebbero essere sfrattate a favore di famiglie ebraiche che rivendicano la proprietà dei terreni contesi, gli scontri ieri sono stati più di basso profilo, ma molto dell’attuale escalation ha a che fare con questo quartiere di Gerusalemme Est: una battaglia legale trentennale che nelle ultime due settimane è diventata la causa che è riuscita a unire Fatah e Hamas, nuovamente ai ferri corti dopo l’annullamento delle prime elezioni palestinesi in quindici anni che si sarebbero dovute tenere il 22 maggio.
    La Casa Bianca esprime seria preoccupazione per la degenerazione degli eventi. «Al Aqsa è una linea rossa » è il messaggio delle numerose condanne arrivate dai Paesi arabi, tra cui Egitto e Qatar. Linea rossa è lo stesso termine scelto da Netanyahu, riferendosi al lancio di missili verso Gerusalemme. «La risposta d’Israele sarà dura. E potrebbe durare a lungo».

(la Repubblica, 11 maggio 2021)


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Gerusalemme, nella trincea Sheikh Jarrah

Il quartiere delle case contese dove si è riaccesa la miccia

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - L’odore acidulo dello skunk, il liquido che la polizia utilizza per disperdere le manifestazioni, è il segnale inequivocabile che stai entrando in uno dei poli in cui si concentra la tensione che sta devastando Gerusalemme. A Sheikh Jarrah, nella parte orientale della città, si trovano le case della discordia intorno alle quali da più di trent’anni si protrae una disputa legale che si intreccia con la storia centenaria del conflitto arabo-israeliano.
    Di fronte a una delle case contese si trovano due presidi fissi di solidarietà: giovani ebrei da un lato, ragazzi palestinesi dall’altro. Quattro famiglie palestinesi rischiano lo sfratto, già confermato da due gradi di giudizio e ora in attesa della sentenza della Corte Suprema, che ieri ha rinviato l’udienza in un tentativo di placare le acque. Dopo giorni di guerriglia urbana, la polizia ha iniziato a contingentare gli ingressi e gli scontri sono meno frequenti, ma l’atmosfera rimane tesa. Mentre siamo qui parte qualche sassaiola, la polizia lancia granate assordanti, un’auto viene data alle fiamme.
    A oggi, il tribunale ha confermato la proprietà ebraica dei lotti contesi, risalente al 1875. Dopo la guerra del 1948, questa parte della città fu occupata dalla Giordania, che negli anni ’50 costruì 28 abitazioni per rifugiati palestinesi. Poi la guerra dei Sei giorni, e Israele annette la parte est a quella ovest della città che considera capitale unica e indivisibile. In virtù della legge sulle proprietà degli assenti del 1950, che consente allo Stato di confiscare i beni di «chi ha lasciato le proprietà per recarsi in un Paese nemico», le case sono tornate agli eredi dei proprietari ebrei, che ne hanno venduti i diritti ad associazioni legate alla destra che vogliono ricreare l’insediamento ebraico. La corte ha cercato il compromesso: ai palestinesi l’offerta di riconoscere la proprietà ebraica ottenendo lo status di inquilini protetti.
    «Non accetteremo mai. Siamo proprietari, ci vogliono far fuori con leggi discriminatorie», dice Carmel Qassem a nome delle famiglie sfrattate. All’altro lato della strada c’è Jonathan Yosef, nipote dello storico rabbino capo sefardita Ovadia Yosef, tra gli inquilini pre ’48: «Chi parla di pulizia etnica è fuori strada: casa mia la affitto a una famiglia palestinese senza problemi. Sono loro che non vogliono ebrei». Orayeb, 18 anni, uno degli inquilini protetti di una casa ebraica, è arrivato con la madre dalla Giordania 5 anni fa. «Mi trovo bene, ma la situazione è difficile. Quasi mi manca il Covid, quando eravamo chiusi in casa». Si sta esercitando per arruolarsi come pompiere. Forse un giorno spegnerà lui le fiamme.

(la Repubblica online, 10 maggio 2021)


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Gerusalemme, pioggia di razzi di Hamas

di Fiamma Nirenstein

Chissà se adesso le intenzioni dei palestinesi sono chiare: terrorizzare, dominare, fare fuggire gli ebrei da Gerusalemme, mettere in ginocchio Israele, umiliandone la capitale coi missili, la violenza. L'escalation degli scontri di questi giorni è feroce, e adesso Israele non potrà farsi mettere in ginocchio né farsi ricattare. In un'ora, da Gaza sono stati lanciati 30 missili sul sud d'Israele. Bruciata un'auto in sosta, terrorizzate Sderot e Ashkelon. Sette dei missili hanno spedito tutta Gerusalemme nei rifugi e hanno centrato almeno un edificio sulle colline. Un'intera famiglia era in casa e, fortunatamente, ha fatto in tempo a ripararsi nel rifugio prima dell'esplosione.
    I palestinesi vogliono terrorizzare tutta Gerusalemme, contestare a fondo l'ebraicità della città in cui l'ebraismo è nato col re David, e che Gesù ha condiviso. All'inizio del pomeriggio, Hamas aveva lanciato un ultimatum in cui minacciava i bombardamenti se entro le 18 non fosse stato sgomberato il Monte del Tempio, ovvero la Spianata delle Moschee, e il quartiere di Sheich Jarra (ovvero Shimon HaTzadik) da ogni presenza ebraica.
    In realtà, per tutto quello che è stato possibile, i desideri di Hamas. data la situazione di tensione estrema dopo una mattinata di scontri, sono stati quasi del tutto esauditi: la grande sfilata delle bandiere della festa ha modificato il percorso, così da non passare dalla porta di Shkem, la zona più calda; ed è stata proibita ai fedeli ebrei, contro la loro stessa libertà religiosa, la salita sulla Spianata, sia pure in gruppi ristretti per pregare dove un tempo sorgeva il Grande Tempio che era il simbolo e la ricchezza d'Israele, finché i romani non lo distrussero nel 70 dC. Ma questo non ha placato il desiderio famelico di schiacciare gli ebrei, e alle 18.02 locali il bombardamento ha colpito i quartieri di Ein Karem e Kiriat Anavim, in collina. Le sirene hanno richiamato un passato relativamente recente, il 1991 con Saddam Hussein, e poi i missili palestinesi dell'Intifada su Gilo dal 2001 al 2003. Chi scrive ha vissuto tutte le puntate, e il déjà vu è stato immediato e motivato. Il tempo e la memoria non contano per un mondo che sogna la vittoria islamista e che usa l'arma dell'unità antisraeliana su Gerusalemme anche per sopraffarsi l'un l'altro: è più antisraeliano Hamas o Abu Mazen? Su questo si gioca la loro popolarità, come quella della gara fra Erdogan e Khamenei: chi odia di più Israele, vince. Alla fine, a causa dei missili, Hamas è decisamente in testa su Fatah, almeno finché Israele non risponderà all'attacco di ieri. Finora la scelta di Netanyahu, prossimo a lasciare il ruolo di premier, è stata quella di non lasciarsi dietro una scia di sangue, ma ieri la reazione è stata dura: «Hamas ha varcato una linea rossa, Israele colpirà con grande potenza, non tolleriamo attacchi. Chi ci attacca pagherà un duro prezzo», Un anticipo sono i tre terroristi che sono stati neutralizzati ieri sera dagli attacchi mirati dell'aviazione israeliana.
    Gli scontri alle moschee si sono ingenerati dopo la scoperta di un vero arsenale di molotov, bastoni, pietre, e dopo un tentativo di linciaggio contro un gruppo di tre persone dentro un'auto, passata vicino al Muro del Pianto, sventato da un poliziotto. Si seguita a immaginare il mondo palestinese che va alla moschea come un universo di sfruttati e oppressi, ma si tratta in genere di giovani che lavorano e godono della sicurezza sociale di Israele, forti, spesso istruiti, oggi ringalluzziti dall'atmosfera generale di sostegno che ne circonda le gesta violente come quella che ha dato inizio a questa fase: l'attacco violento per strada a un religioso che portava il cane a passeggiare di notte e la diffusione del video su TikTok con risate e commenti soddisfatti. I social palestinesi rimbalzano la propaganda del disegno israeliano di «rubare» la Spianata delle moschee ai musulmani e le dimostrazioni di gruppetti di estremisti ebrei - peraltro perseguiti e indagati dalla polizia - sono strumentalizzate per alimentare il falso mito dello scontro alla pari fra le parti. Anche la vicenda di Sheich Jarra viene piegata alle esigenze narrative dell'occupazione, mentre la Corte Suprema israeliana, spesso madre di decisioni filopalestinesi. è incaricata di scioglierne il nodo. E evidente che la leadership palestinese punta all'escalation nella sua gara interna. E approfitta dell'avvento di Biden, che non fa nulla per smontare questo pericoloso scenario, se non rimproverare Israele.
    Le sirene a Gerusalemme nei giorni della Festa della città sono bizzarre, un segno triste dopo il ritorno dall'infinito esilio dalla città dell'anima ebraica; risuonano su 900mila abitanti in un pomeriggio caldo in cui le scuole sono chiuse e i bambini giocano nei cortili. Mentre scriviamo brucia un albero sulla Spianata e si sentono gli scoppi delle bombe a mano e dei fuochi d'artificio, di cui i giovani palestinesi hanno riempito pericolosamente il luogo. Continua una lunga notte di pericolo.

(il Giornale, 11 maggio 2021)


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Gli arabi vogliono la pulizia etnica degli ebrei e il mondo gli dà ragione

di Franco Londei

Nemmeno gli oltre 200 missili sparati da Hamas in poche ore contro la popolazione civile israeliana hanno scalfito il tradimento occidentale, quasi che sia considerata legittima la pretesa araba di fare pulizia etnica degli ebrei
    Le ultime violenze arabe in Israele dimostrano in maniera incontestabile come gli arabi non abbiano mai perso il sogno della pulizia etnica dagli ebrei.
    A dimostralo è il fatto scatenante di tante violenze, cioè lo sfratto decine di famiglie arabe dal quartiere di Shimon HaTzadik (o Sheik Jarrah), a Gerusalemme Est.
    Come spiega benissimo Alan Posener sul giornale tedesco Die Welt, gli ebrei vivevano nel distretto di Shimon HaTzadik da 2000 anni.
    Alla fine del XIX secolo, quando Gerusalemme apparteneva all’Impero Ottomano e la maggioranza della popolazione era ebrea, molti ebrei yemeniti si stabilirono li.
    Quando la Palestina conobbe un momento di forte ripresa dopo il 1918, iniziò una grande quantità di immigrazione araba.
    Incitati dai sostenitori di Hitler e dal Gran Mufti al-Husseini , tra il 1936 e il 1939 gli arabi del vicino distretto di Sheikh Jarrah attaccarono gli ebrei a Shimon HaTzadik.
    Invece di difenderli, gli inglesi ordinarono la loro evacuazione. Quando la Giordania occupò Gerusalemme Est, contrariamente alla risoluzione dell’ONU, nel 1948, agli ultimi ebrei fu data l’alternativa della fuga o della morte.
    Le loro proprietà vennero confiscate e il nome Shimon HaTzadik cancellato. Nel 1967, Gerusalemme Est fu conquistata da Israele nella Guerra dei Sei Giorni e nel 1980 la città fu riunificata amministrativamente.
    Quindi la pretesa ebraica di tornare in possesso delle abitazioni che furono loro è perfettamente legale. Al più non è legale l’occupazione araba di quelle abitazioni.
    Perché ho fatto questo riassunto? Prima di tutto per far capire bene come ragionano gli arabi e più in generale tutti i musulmani, cioè quello che hanno sottratto agli altri con la violenza, che siano quartieri o intere nazioni, non può essere preteso indietro. È loro per sempre.
    Poi ho rifatto la storia per far capire come tra gli arabi non sia mai svanito il sogno di liberare Israele dalla presenza ebraica, il sogno cioè della pulizia etnica dagli ebrei. Perché è proprio su questo che si basa la contestazione allo sfratto e tutte le violenze che ne sono seguite.
    La cosa veramente pazzesca e incomprensibile è che l’occidente e il mondo intero sta dalla parte egli arabi e non degli israeliani, legittimi proprietari di quelle terre.
    È uno schifo quello che sta accadendo, la condanna a senso unico di Israele per essersi difeso dall’ennesimo tentativo di pulizia etnica, davvero uno schifo abominevole.

(Rights Reporter, 11 maggio 2021)


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Una crisi politica più che militare provocata da Hamas per mettere alla prova la forza di Israele

di Ugo Volli

Oltre duecentocinquanta missili sparati su Israele dalle posizioni terroriste di Gaza, centotrenta obiettivi colpiti nelle operazioni di rappresaglia dall’aviazione militare israeliana, fra cui un paio di tunnel di attacco verso il territorio israeliano, molte strutture militari di Hamas, diversi terroristi fra cui un importante capo militare. Una trentina di feriti israeliani per i razzi che sono sfuggiti alla difesa di Iron Dome e hanno colpito alcune case. Per la prima volta i proiettili di Hamas sono stati diretti anche contro Gerusalemme, nonostante il suo carattere sacro anche all’Islam e la presenza di molti quartieri arabi.
   Questo è il bilancio di una notte di fuoco come non ne accadevano da alcuni anni. E gli scontri continuano, con altri razzi e il coinvolgimento di Gerusalemme e di alcune località della Giudea e Samaria nelle attività terroristiche. I comandi israeliani prevedono che i combattimenti dureranno alcuni giorni e non vi sono per ora prospettive di cessate il fuoco, ma neanche di un’operazione di terra. Né vi sono segnali per ora di un possibile intervento esterno, in particolare dalla frontiera libanese e siriana, dove Hezbollah ha truppe e armi missilistiche ben superiori a quelle di Hamas. E’ difficile dubitare di come finirà questo attacco: le armi di Hamas possono produrre vittime e danni, ma solo in maniera limitata: i tunnel sono stati quasi tutti scoperti e chiusi, i missili sono bloccati in gran parte da Iron Dome. Al contrario l’aviazione e l’artiglieria israeliana hanno la possibilità di colpire duramente i terroristi. Bisogna chiedersi perché Hamas ha scelto di interrompere il suo atteggiamento di non belligeranza.
   Vediamo innanzitutto la dinamica dei fatti. Siamo alla fine di un “mese sacro” del Ramadan segnato da molte aggressioni individuali contro gli ebrei, soprattutto religiosi, di Gerusalemme, quella che è stata chiamata “tiktock intifada” perché gli assalti sono stati ripresi dagli aggressori e pubblicati dal social più diffuso fra i giovani. È in discussione una causa di sfratto di alcuni appartamenti del vecchio quartiere ebraico di Shimon haZadik (ribattezzato Shieck Jarrah dalla Giordania, dopo averne fatto pulizia etnica nel 1948) occupati da decenni da alcuni inquilini morosi. Le case erano state costruite centocinquant’anni fa da ebrei su terreno regolarmente acquistato, la loro proprietà era stata riconosciuta dagli occupanti durante la lunga causa per lo sfratto, che era del tutto ovvio legalmente, dato che non risultavano pagamenti da decenni. Ora la procedura legale è arrivata alla fine, manca solo una pronuncia tecnica della corte suprema, e le organizzazioni antisraeliane, inclusi i terroristi, hanno deciso di farne un caso di “occupazione” e “giudeizzazione” di Gerusalemme. Vi è stata infine la sospensione delle elezioni dell’Autorità Palestinese, con cui Hamas contava di arrivare facilmente al potere.
   È stata Hamas a organizzare gli incidenti degli ultimi giorni al Monte del Tempio, che hanno provocato qualche centinaio di contusi e di arresti. Ed è stata Hamas, ieri pomeriggio, a emettere un ultimatum assurdo contro Israele: se le forze di polizia non avessero abbandonato il Monte del Tempio e il quartiere con le case in discussione, se la procedura di sfratto non fosse stata sospesa, Hamas avrebbe usato le armi. Israele naturalmente non ha neppure risposto, dalle basi terroristiche sono partiti i primi missili contro Gerusalemme, poi altri razzi contro le città vicino a Gaza, soprattutto Ashkelon, con l’ovvia e prevedibilissima reazione israeliana.
   E’ chiaro che si tratta di una mossa studiata e decisa da Hamas. L’obiettivo principale è interno: mostrare alla popolazione di Gaza e dei territori dell’Autorità Palestinese chi conduce la “lotta” e chi non lo fa, magari con l’obiettivo di rovesciare con la forza Mohamed Abbas. Vi è anche uno sfondo internazionale ovvio: Hamas è controllata dall’Iran, che cerca di togliersi di dosso la resistenza israeliana al suo insediamento in Siria e il trasferimento lì e in Libano di armi avanzate. Inoltre è Israele il punto principale di resistenza alla riattivazione degli accordi nucleari del 2015, che Biden vuole molto ed è vitale per l’Iran. Impegnare Israele in operazioni militari significa bloccarne l’operatività politica e diplomatica. Conta anche la denuncia alla Corte Penale Internazionale per i “crimini di guerra” che Israele commetterebbe difendendosi, che verrebbe certamente rafforzata da una nuova operazione a Gaza.
   Sullo sfondo di tutto vi è il tentativo di chiudere il percorso aperto da Trump con gli accordi di Abramo, di riportare Israele all’isolamento dei tempi di Obama rompendo quello che invece era stato imposto negli ultimi anni all’Iran; il progetto di riportare i paesi arabi nel “fronte della resistenza”, di giustificare l’atteggiamento ostile della nuova amministrazione americana verso Israele, magari esibendo, come Hamas ha subito fatto, vittime civili che erano state usate dai terroristi come scudi umani, o addirittura provocate da loro missili ricaduti su Gaza. Il gioco insomma è politico, non militare. Hamas ha deciso di mettere alla prova la posizione internazionale di Israele e magari anche di approfittare dell’opaca crisi politica di Israele, con la prospettiva della costituzione di un governo così eterogeneo da non poter prendere decisioni politiche impegnative. Ciò che bisognerà guardare nei prossimi giorni non è dunque l’esito militare dello scontro, ma quello politico: quanto terranno in questa situazione gli “Accordi di Abramo”, che posizione prenderà l’America al di là della solidarietà formale, che riflessi avrà la crisi sulla formazione del governo israeliano.

(Shalom, 11 maggio 2021)


Lapid-Bennett, tandem contro Bibi. Ma la nuova crisi rimescola le carte

Anche l'islamista Abbas cambia cavallo. I suoi seggi necessari alla maggioranza Il premier uscente sfrutterà le attuali tensioni per presentarsi come solo limite al caos

di Michele Giorgio

L'incendio partito da Gerusalemme che si è esteso rapidamente a Gaza e Cisgiordania, potrebbe offrire l'opportunità a Benyamin Netanyahu di capovolgere una situazione politica che lo vede sul punto di dover abbandonare la poltrona di primo ministro che occupa dal 2009 a oggi. Dopo aver fallito l'incarico di formare il nuovo governo, a causa della sua personalità divisiva che gli ha creato nemici del suo stesso fronte politico, la destra, Netanyahu non è riuscito a impedire il dialogo tra il capo dell'opposizione, il centrista laico Yair Lapid (Yesh Atid), e il nazionalista religioso Naftali Bennett (Yamina) che, pur essendo un alleato naturale del premier e del suo partito, il Likud, pare ora puntare a una soluzione diversa. Lapid, al quale il capo dello stato Rivlin ha affidato l'incarico di formare il governo, nel fine settimana ha detto che i contatti con Bennett avanzano «in maniera positiva». Altrettanto bene sono andati i colloqui tra Lapid e Gideon Saar (Hatikva Hadasha), ex numero due del Likud uscito dal partito in aperta rottura con Netanyahu.
    Con la parola d'ordine di rimuovere Netanyahu dal potere e di evitare a Israele le quinte elezioni legislative in due anni e mezzo, Lapid vuole formare un governo di consenso nazionale e si è detto disponibile a far sì che sia Naftali Bennett il primo a servire come premier in un accordo che preveda la rotazione tra i due.
    A dar sostegno a questa soluzione non è solo Saar ma anche le forze di ciò che resta del centrosinistra e, fatto inedito, il partito islamista Raam ( quattro seggi). Il leader di questa formazione, Mansour Abbas, che pure per mesi è stato impegnato in un controverso dialogo proprio con Netanyahu e il Likud, ha segnalato in questi ultimi giorni di sentirsi più vicino al tipo di maggioranza che sta provando a mettere in piedi Lapid. E pur di garantirsi l'appoggio esterno di Raam, persino Bennett, che ha sempre guardato con ostilità ai palestinesi, ha espresso un giudizio molto positivo di Abbas.
    Il quadro che si sta componendo dice che la possibilità che Netanyahu perda la carica di premier, mentre affronta un processo per corruzione, è più che concreta.
    La crisi di Gerusalemme e il lancio di razzi da Gaza versa la città santa, però, aiutano Netanyahu a sabotare il tentativo di Lapid. Il premier uscente, politico dotato di fiuto per le opportunità da cogliere al volo, non mancherà di presentarsi come garante della sicurezza del paese in un momento assai delicato, di fronte a un Lapid che non ha mai governato e vanta una limitata esperienza in campo militare.
    Non solo. Netanyahu avrà gioco più facile a convincere i deputati dei partiti di destra pronti ad andare con Lapid che i loro leader stanno commettendo un errore, a suo dire, fatale. E non mancherà di far notare che il governo dei suoi avversari nascerà con l'appoggio di un partito arabo mentre riesplode lo scontro con i palestinesi. La partita potrebbe ancora vincerla lui.

(il manifesto, 11 maggio 2021)


La maledizione di Gerusalemme

di Fiamma Nirenstein

Oggi, dopo questi ultimi giorni di scoppi sempre sull'orlo di un'esplosione, la micidiale miscela della fine del Ramadan, festa musulmana fondamentale, insieme al Giorno di Gerusalemme, festa cantata, amata, danzata per le strade dal popolo ebraico finalmente tornato a casa, richiede molto buon senso da ogni parte perché non finisca nel sangue. Ci sono già stati troppi feriti fra i palestinesi e fra le forze dell'ordine d'Israele e adesso Israele piazza tremila poliziotti nei punti strategici, con strettissimi ordini di tenere la quiete ed evitare gli scontri. Ieri è stato un giorno relativamente calmo, ma domani? Si deve consentire di salire alla spianata del Tempio su cui oggi sorgono le Moschee agli ebrei che vogliano pregare dove un tempo sorgeva il Santuario su cui si è costruita la loro civiltà? Si deve lasciare che sventolino le bandiere bianche e azzurre per strada? E in quali strade? E in quali vicoli della Città Vecchia ogni fiume di passione deve scorrere? E i giovani islamici, anche quelli che con le vesti, le urla, gli slogan che annunciano «morte agli ebrei» e che la «prossima tappa è Tel Aviv» devono veder conservato il loro diritto religioso di salire sulla Spianata di Al Aqsa? O occorre bloccare gli estremi, sfidarli fino al lancio delle pietre sul Muro del Pianto che può finire negli spari, rischiare una strage di poliziotti, come è già successo a Netanyahu, e una rovina di vite arabe? Nessuno lo vuole, ma il margine in questa direzione è di millimetri. Il 22 aprile uno scontro alla Porta di Damasco ha aperto le danze, religiosi ebrei sono stati aggrediti per strada, Hamas ha proclamato che le Moschee sono minacciate, il sito di Fatah ha rilanciato il clima di guerra invitando i «giovani martiri» a «colpire l'obiettivo». E purtroppo è stato colpito: a una fermata dell'autobus nei Territori tre ragazzi di 19 anni sono stati colpiti da un finestrino di un'auto, uno è morto per le ferite, l'altro è in fin di vita.
   E poi ci sono stati altri due attacchi terroristi, mentre da Gaza piovono i palloni incendiari, il fuoco di Hamas mangia i campi coltivati e lambisce le case. Se non cessa, sarà guerra a Gaza, la gente del sud non ne può più. E Gerusalemme è l'agone più eccitante, qui i Palestinesi si giocano la carta migliore, quella per cui Erdogan si sbraccia dalla Turchia, memore dei bei tempi quando la capitale del popolo ebraico era parte dell'Impero Ottomano, e chiama gli ebrei «terroristi senza pietà». Khamenei, fa il suo «giorno di Gerusalemme» e dice che Israele non è un Paese, è un rifiuto della storia, e si sa che ci penserà l'Iran a distruggerlo. E non finisce qui: la vicenda del quartiere di Shech Jarra immediatamente viene acquisito dall'Ue come dagli Stati Uniti, che subito rimproverano Israele, nella narrativa araba. Ma fino all'occupazione giordana che compì nel 1948 una pulizia etnica degli ebrei del quartiere yemenita ebraico di Shimon ha Zadik il Santo Simone, e assegnò le case a palestinesi, erano gli ebrei che avevano sempre abitato là; 67 le famiglie d'origine che le rivendicano. La verità è che Gerusalemme è troppo ricca. È dal 1967, da quando Israele l'ha unificata, che la capitale d'Israele cerca di disegnare il tessuto di una metropoli bella e ordinata, con cittadini con uguali diritti ma anche uguali doveri, ferma restando l'esistenza di un status quo che sancisce la grande presenza araba e quella cristiana. Ma il conflitto è un'arma troppo ghiotta perché possa essere lasciata a riposo a lungo. Era la risorsa preferita di Arafat, oggi è quella di punta di Hamas e quella di riserva del vecchio Abu Mazen. Per ora se la giocano con cautela, dopotutto Biden è arrivato da poco. Lo sport di biasimare Israele deve ancora scaldarsi.

(il Giornale, 10 maggio 2021)


“Il monte del Tempio è libero” - Una vittoria inattesa. Intervista a Abraham Rabinovich

di Ugo Volli

Chi cerca il miglior libro, la ricostruzione storica più emozionante e dettagliata della liberazione di Gerusalemme, deve leggere “The battle for Jerusalem” di Abraham Rabinovich, uno storico e giornalista israeliano che ne fu testimone oculare. Rabinovich è famoso per i suoi libri che analizzano nei dettagli alcuni momenti chiavi della storia militare recente di Israele: oltre alla conquista della città vecchia di Gerusalemme, la guerra del Kippur e l’impresa che permise alla marina israeliana di impadronirsi di cinque piccole navi militari pagate ma bloccate dal governo francese nel porto di Cherbourg in Normandia. Ha scritto poi dei libri importanti sulla storia recente di Gerusalemme, una biografia del mitico sindaco Teddy Kollek, una ricostruzione della riunificazione politica ed economica della città, negli anni successivi alla sua liberazione. “Shalom” ha intervistato Rabinovich in occasione di Yom Yerushalaim, il cinquataquattresimo anniversario della liberazione della città.

- Il sottotitolo del suo libro parla della liberazione di Gerusalemme come di una "conquista involontaria". Perché non fu intenzionale? Il governo israeliano non si aspettava un attacco in Giordania?
   Quando Nasser iniziò a spostare il suo esercito nel Sinai alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni, Israele si mobilitò e si preparò per una difficile guerra con l'Egitto. Sperava che la Giordania ne rimanesse fuori. Quando l'aviazione israeliana realizzò il suo attacco preventivo alle basi aeree egiziane la mattina del 5 giugno, il primo ministro Eshkol inviò un messaggio al re Hussein di Giordania tramite le Nazioni Unite dicendo che Israele non avrebbe mosso guerra alla Giordania se la Giordania a sua volta non lo avesse attaccato.

- Dunque nei piani israeliani a Gerusalemme non avrebbero dovuto esserci la guerra.
   Innanzitutto mancavano i mezzi. Moshe Dayan disse al generale che comandava il fronte di Gerusalemme che avrebbe dovuto resistere a tutti i possibili attacchi solo con le forze che aveva già a disposizione. Infatti l'esercito era impegnato nelle battaglie del Sinai e nessuna assistenza poteva essergli assicurata per Gerusalemme. Due ore dopo l'artiglieria giordana ha aperto il fuoco sulla Gerusalemme israeliana. Il comando militare israeliano tuttavia ordinò alle sue unità di prima linea a Gerusalemme di limitare la loro reazione per non provocare un'ulteriore escalation. Il fuoco dei fucili doveva essere risposto con il fuoco dei fucili, il fuoco delle mitragliatrici con le mitragliatrici, ecc. La speranza era che Hussein si accontentasse di un "saluto" dimostrativo di artiglieria che gli avrebbe reso onore tra la sua stessa gente. Tuttavia, i bombardamenti aumentarono. Ma nel pomeriggio la situazione strategica nel Sinai era cambiata radicalmente: i carri armati israeliani con supporto aereo stavano respingendo l'esercito egiziano.

- E quindi diventò possibile per Israele assumere un atteggiamento più attivo a Gerusalemme?
   Sì, la nuova situazione permise allo Stato Maggiore di annullare i piani per lanciare una brigata di paracadutisti dietro le linee egiziane e inviarla invece a Gerusalemme. La missione che le fu assegnata era quella di soccorrere la guarnigione israeliana di 120 uomini sul Monte Scopus, dove già allora c’era l’università ebraica, ma che era in quel momento un'enclave israeliana dietro le linee giordane. La svolta avvenne durante la notte in un'aspra battaglia ad Ammunition Hill, sul versante occidentale di Monte Scopus, a nord di Gerusalemme.

- Si puntava alla conquista della Città Vecchia?
   Il pensiero del governo era cambiato. L'Egitto era chiaramente sulla via della sconfitta. Così erano le forze giordane a Gerusalemme. I paracadutisti erano posizionati su linee che potevano permettere di prendere la Città Vecchia, cosa che non era nemmeno stata presa in considerazione quando è scoppiata la guerra. In un'accesa riunione di gabinetto diversi ministri si opposero all'idea, principalmente da parte del Partito nazionale religioso, che allora era molto prudente. Dicevano che portare i luoghi santi cristiani a Gerusalemme sotto il dominio ebraico avrebbe provocato una diffusa opposizione internazionale, in particolare dal Vaticano ma anche dalle nazioni occidentali. Tuttavia, la maggioranza ritenne che lo Stato Ebraico non poteva evitare di prendere il Muro Occidentale e il sito della biblica Gerusalemme. Quarantotto ore dopo i primi colpi di arma da fuoco, Israele era in possesso di tutta Gerusalemme, cosa che nemmeno i più nazionalisti avevano immaginato accadesse all'inizio della guerra.

- Il governo temeva le reazioni del mondo musulmano?
  No, avevano paura della reazione del mondo cristiano.
  
- Subito dopo la liberazione una bandiera israeliana fu issata sul Monte del Tempio. Poi si decise di ammainarla e di affidare di nuovo la gestione dell’area del Tempio a una fondazione islamica legata alla Giordania. Chi prese queste decisioni e perché?
  Il ministro della Difesa Moshè Dayan ordinò la rimozione della bandiera dopo che era stata innalzata dai paracadutisti. Era un atto da statista, volto a evitare provocazioni inutili. Allo stesso modo, si è prestata attenzione a non offendere le varie comunità cristiane.

- Lei ha scritto un libro su Teddy Kollek. Qual è stato il tuo contributo più importante alla costruzione dell'odierna Gerusalemme?
  Kollek era un visionario, animato da una grande forza civilizzatrice. Ha costruito musei, teatri e altre istituzioni culturali. Ha sostenuto che gli arabi e gli ebrei alla fine avrebbero imparato a vivere insieme.

- Le statistiche mostrano che la maggioranza ebraica a Gerusalemme si sta erodendo, anche perché il territorio della città comprende molti villaggi arabi. Pensa che ci sia un rischio per il possesso ebraico di Gerusalemme?
   La rivendicazione della sovranità di Israele su tutta Gerusalemme non è seriamente messa in discussione, almeno per il momento, il che non significa che sia accettata politicamente. La maggior parte dei paesi ha le proprie ambasciate a Tel Aviv, non a Gerusalemme. La maggioranza ebraica si sta lentamente erodendo ma una crisi in questo campo è tutt’altro che imminente.

(Shalom, 10 maggio 2021)


Le storie ritrovate delle partigiane ebree che fecero la Resistenza

Un saggio uscito negli Usa ricostruisce voci e volti al femminile. Tutto comincia con la scoperta di un manoscritto in yiddish alla British Library di Londra.

di Enrico Franceschini

LONDRA — «Come pecore al macello », un’espressione derivata dalla Bibbia, è diventato un mito da sfatare. Si riferisce all’idea che gli ebrei si sarebbero lasciati portare passivamente allo sterminio durante l’Olocausto e di conseguenza andrebbero parzialmente considerati responsabili delle proprie sofferenze. Abba Kovner, uno dei leader della Resistenza ebraica nel ghetto di Vilnius, più tardi animatore di un movimento clandestino per vendicarsi della Shoah uccidendo ex-criminali nazisti in giro per l’Europa, e in seguito pluripremiato poeta, la citava spesso per indurre i suoi partigiani all’azione contro i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.
    Nei primi anni di esistenza di Israele, c’era chi la usava per demonizzare i sopravvissuti ai lager. Al di fuori dello Stato ebraico, la frase è entrata nei luoghi comuni dell’antisemitismo. Per smentirla dovrebbe bastare la rivolta del ghetto di Varsavia, in cui 13 mila ebrei morirono nei combattimenti contro i soldati del Terzo Reich. Nel 2008 un film con Daniel Craig, per una volta fuori dal ruolo dell’agente 007, Defiance – I giorni del coraggio, tratto dal libro Defiance. Gli ebrei che sfidarono Hitler di Nechama Tec (Sperling & Kupfer), ha rivelato al grande pubblico la guerriglia organizzata da due fratelli ebrei polacchi contro il nazismo nelle foreste della Bielorussia. Ma c’è ancora molto da fare, perlomeno in Occidente, per capovolgere il persistente stereotipo degli ebrei visti come agnelli sacrificali. Un libro che esce in questi giorni negli Stati Uniti, The Light of Days: the Untold Story of Women Resistance Fighters in Hitler’s Ghettos (La luce dei giorni: la storia mai raccontata delle donne combattenti nei ghetti di Hitler), fa affiorare uno dei risvolti più eroici della Resistenza ebraica. E anche questo è in procinto di arrivare al cinema o sugli schermi di Netflix: Steven Spielberg, il regista di Schindler’s List e Munich, ne ha già comprati i diritti.
    Tutto comincia dal casuale ritrovamento da parte di Judy Batalion, 44enne storica ebrea canadese di origine polacca, di un manoscritto in yiddish alla British Library di Londra. «Erano 175 pagine di resoconti sulle donne ebree che avevano combattuto contro il nazismo », dice l’autrice al quotidiano israeliano Haaretz. Grazie alla sua conoscenza della lingua, lo ha dapprima tradotto in inglese, cercandovi ispirazione per un romanzo. Ben presto si è accorta che la storia vera sarebbe stata più romanzesca di qualsiasi fantasia e ha deciso di farne la base per anni di ricerche e interviste sul campo con superstiti o familiari delle vittime. Il risultato è un libro che, commenta Haaretz, sembra una versione realistica del film di Tarantino Bastardi senza gloria, in cui però le protagoniste sono tutte femminili. C’è Hannah Szenes, che lascia Gerusalemme per farsi paracadutare in Jugoslavia dove allaccia rapporti con i partigiani di Tito allo scopo di aiutare gli ebrei ungheresi destinati ad Auschwitz: catturata dai nazisti sulla via di Budapest, viene torturata senza rivelare alcuna informazione, condannata a morte e fucilata, rifiutando di essere bendata per guardare in faccia il plotone di esecuzione. C’è Bela Hazan, una intrepida ebrea di 19 anni che si fa assumere nell’ufficio della Gestapo per poter trasmettere informazioni, denaro e armi ai combattenti del movimento sionista giovanile Dror in Polonia. C’è Zivia Lubetkin, una ventenne che gioca un ruolo chiave nella rivolta del ghetto di Varsavia come membro dell’Organizzazione Combattente Ebraica. «Alcune di loro, finita la guerra ed emigrate in Israele, non hanno voluto più parlare di una parte così dura e dolorosa della propria vita », racconta l’autrice. «Altre avevano un tremendo senso di colpa per essere sopravvissute. Ma è una storia che andava raccontata » .

(la Repubblica, 10 maggio 2021)


Gerusalemme. Scontri e microterrorismo

di Ugo Volli

Succede tutti gli anni. Al di là del suo significato religioso, il Ramadan, “mese sacro” per i musulmani, è il momento in cui si concentra il terrorismo islamista e in Israele sono più numerosi attentati, scontri, manifestazioni arabe violente. Quest’anno gli scontri sono stati particolarmente intensi e numerosi, anche se con un bilancio delle vittime abbastanza limitato. Gli scontri più massicci sono avvenuti venerdì e sabato sera sul Monte del Tempio, dov’erano concentrate alcune decine di migliaia di fedeli islamici. Al termine delle preghiere molti hanno attaccato la polizia con fuochi d’artificio e pietre che erano state accumulate nella moschea di Al Aqsa. Le forze dell’ordine hanno reagito con mezzi antisommossa non letali, come gas lacrimogeni e granate acustiche. Vi sono stati molti arresti e centinaia di feriti e contusi. Altri scontri sono avvenuti nella città vecchia, a Hebron, nei quartieri arabi intorno a Gerusalemme. Nei giorni precedenti vi era stato anche un attacco con armi da fuoco da un’automobile contro studenti ebrei a una fermata dell’autobus (uno purtroppo è morto e un altro è grave, l’attentatore è stato catturato, l’attentato è rivendicato da Al Fatah, come non accadeva da anni). Vi è stato anche il tentativo di un attacco, sempre con armi da fuoco, a un posto di polizia: due degli assalitori sono rimasti sul terreno. Non sono mancati i soliti razzi da Gaza e anche di nuovo la diffusione di palloni incendiari. Infine l’aspetto più “innovativo” di questa ondata di microterrorismo è stata la “moda” per gruppi di giovani arabi di andare a caccia di ebrei isolati (di solito charedim) per picchiarli e riprendere l’”impresa” coi cellulari e pubblicarla sui social.
   Bisogna chiedersi il perché di questa intensificazione degli scontri e del microterrorismo. Una prima ragione è che quest’anno la fine del Ramadan coincide con Yom Yerushalaim, l’anniversario della liberazione di Gerusalemme, che i palestinisti non solo lamentano come un lutto, ma rifiutano di riconoscere e vogliono rovesciare. Le manifestazione violente sul Monte del Tempio hanno il senso di ribadire una rivendicazione che è stata avanzata ancora nei giorni scorsi da Giordania e Autorità Palestinese: quel luogo, che è il più santo per gli ebrei ed è sacro anche ai cristiani, per loro dev’essere solo dei musulmani, nessun altro deve metterci piede, non diciamo pregarci.
   Sul piano più profano c’è un’altra coincidenza. In questi giorni sta arrivando alla conclusione la causa relativa a una casa del quartiere di Shimon Hazaddik (in arabo chiamata Sheikh Jarrah) a nordest della città vecchia. E’ un edificio costruito ben prima dello Stato di Israele da ebrei su terreno da loro regolarmente acquistato. I proprietari furono espulsi nella pulizia etnica successiva alla guerra di indipendenza nel ‘48, e la casa fu occupata da arabi. Di fronte alla richiesta di restituzione, gli occupanti prima dissero di essere loro i proprietari, poi si atteggiarono a inquilini, senza peraltro mai pagare l’affitto. Dopo una lunga guerriglia legale, la Corte Suprema sta decidendo lo sfratto, ma questo normale provvedimento giudiziario è stato presentato, in Medio Oriente ma anche negli Usa, come violenta “giudeizzazione” di “Gerusalemme Est” e ha suscitato proteste politiche ma anche di piazza. E’ una logica molto islamista: quel che occupiamo con la forza diventa nostro e se il proprietario vuole riprendersi ciò che è suo è un nemico dell’Islam.
   Vi sono poi ragioni politiche generali. Mohamed Abbas ha appena annullato le elezioni dell’Autorità Palestinese, frustrando la speranza di Hamas di prendere il potere per questa via: un nuovo ciclo di violenza serve a mettere in luce le esitazioni e l’impotenza del vecchio dittatore. Sul Monte del Tempio erano numerose le bandiere di Hamas. E soprattutto a Washington si è insediata l’amministrazione Biden, il cui atteggiamento antisraeliano è chiaro. Gli scontri servono a chiamare gli Usa a condannare Israele fino a metterne in dubbio la legittimità, cosa che molti democratici assai ascoltati alla Casa Bianca appoggiano: Sanders, Warren, Ocasio Cortez.
   Questo quadro internazionale spiega anche le condanne - in realtà piuttosto formali - provenienti da paesi arabi che ci eravamo abituati a considerare schierati con Israele, dall’Egitto all’Arabia agli Emirati Arabi. In realtà sulle rivendicazioni islamiche di Gerusalemme e la “Palestina” questi stati avevano sempre mantenuto la loro vecchia posizione di principio. Ma fin che alla Casa Bianca c’era Trump, prevalevano gli Accordi di Abramo. Ora con Biden al comando, essi si chiedono se allinearsi e cercare un compromesso con l’Iran o restare con Israele e resistere. Scontri e terrorismo servono anche a cercare di riportarli nel fronte antisraeliano. Insomma quel che sta succedendo in questi giorni a Gerusalemme e intorno ad essa non è tanto grave in sé quando come sintomo di una posizione internazionale che sta evolvendo in maniera negativa per Israele, anche in coincidenza con una crisi politica interna tutt’altro che risolta.

(Shalom, 9 maggio 2021)


Sulla Sinagoga di Tripoli le mani delle Milizie Islamiche

Gli Ebrei di Libia lanciano il grido di aiuto per un loro luogo storico che diverrà moschea.

di Carlo Franza

Ha fatto il giro del mondo il grido di aiuto di David Gerbi, psicoanalista e rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia, per la trasformazione dell’antica sinagoga di Tripoli Sla Dar Bishi in un moderno centro di cultura islamico. Un luogo storico, religioso e antico che sta vivendo quanto è già capitato alla Basilica di Santa Sofia – luogo di culto cattolico- a Istanbul che è ormai divenuta Moschea a tutti gli effetti per volontà del dittatore turco Erdogan – così lo ha anche chiamato il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi-. La recente visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi ha riacceso l’attenzione sulle vicende del Paese, e David Gerbi quale rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia, negli ultimi tre mesi si è impegnato a far luce su qualcosa che sta accadendo in maniera furtiva; da fonti sicure Gerbi ho ricevuto delle informazioni che ne dimostrano la gravità.
   Così si esprime David Gerbi, psicoanalista, rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia: “Dai filmati e dalle foto inviatemi da persone e diplomatici del posto, dopo vari tentativi a vuoto, appare evidente che nella sinagoga stanno avvenendo dei lavori. Lo scopo l’ho scritto sopra. Visto che adesso non c’è nessun ebreo che vive a Tripoli e visto che il potere è in mano alle autorità locali (leggi: milizie), si è pensato bene di violare la nostra proprietà e la nostra storia. È chiaro l’intento di approfittare del caos e della nostra assenza. La sinagoga è il testamento degli ebrei, di come sono da sempre attaccati alla Torà e alla preghiera, il capitale di 2000 anni di presenza. È impensabile che un nostro luogo sacro sia destinato ad altri scopi. I nostri antenati, sepolti sotto le autostrade a causa della distruzione del cimitero ebraico operata da Gheddafi, piangono per riposare in pace e chiedono giustizia.” Parole dure, parole amare, parole che sconvolgono, parole che dovrebbero smuovere la politica, compresa quella del Paese Italia.
   Capirete che ciò che sta avvenendo è contrario non solo ai principi dell’Unesco ma è anche un insulto alla memoria della storia della Libia. Dentro la sinagoga hanno pregato per decenni molti nonni degli ebrei italiani, tanti antenati e sarebbe il caso che un luogo sacro, religioso, e ricco di cultura si mantenesse con questo status, senza permettere ai libici di trasformare tutto, come è accaduto con Gheddafi che ha tentato di cancellare la presenza degli ebrei, tanto che le sinagoghe sono state trasformate in moschee o in centri di documentazione. È già accaduto con la Sla Dar Serussi, dove oltre a pregare si studiava al centro rabbinico del Talmud Torà. C’erano sinagoghe, cimiteri, mikvaot, centri di studio e tutto è stato distrutto. Oggi poche cose ancora sono in piedi.
   Gli ebrei e i musulmani provengono dalla stessa radice, che è quella del padre comune Abramo, entrambi appartengono alla religione monoteista, e il profeta Maometto ha raccomandato di rispettare l’ebraismo. Dice David Gerbi: “I libici non si rendono conto che così facendo si pongono in continuità con quanto avviato da Gheddafi: un’opera di cancellazione non soltanto della storia degli ebrei di Libia, ma anche di parte della storia stessa della Libia di cui gli ebrei, pur come minoranza, sono stati parte. La comunità ebraica libica ha contribuito attraverso la cultura, l’arte, la tradizione, il commercio, l’innovazione, l’imprenditorialità, l’artigianato, il folklore e anche l’architettura”.
   E’ stato l’ingegnere Jack Arbib, in una interessante conferenza a svelare che la sinagoga Sla Dar Bishi è stata progettata da un ebreo italiano nato a Tripoli, Umberto Di Segni, figlio del professor Vittorio Di Segni che insegnava nelle scuole italiane. L’architetto Di Segni era stato incaricato dal governo italiano di progettare una sinagoga “decorosa”, che venne costruita ispirandosi al Tempio Maggiore di Roma. La nuova sinagoga diventò il luogo “di prestigio” per accogliere le personalità ufficiali. Infatti venne visitata da Italo Balbo, dal Principe Umberto, da Mussolini, da Vittorio Emanuele III re e poi imperatore di Italia. I fascisti volevano lasciar trasparire quanto fossero buoni con gli ebrei.
   E’ storia contemporanea accertata che Gheddafi, dopo aver preso il potere con un colpo di stato il 1 settembre 1969, ha vietato agli ebrei di rientrare in Libia anche solo per vendere i propri beni o per visitare il loro paese di origine, ha inoltre confiscato i beni individuali e collettivi. Il motivo principale fu la sconfitta dei paesi arabi e la vittoria di Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967 (Gheddafi era stato un grande ammiratore di Nasser, il leader egiziano). Per lui gli ebrei di Libia erano “colpevoli” e “complici del regime sionista che opprime i palestinesi”. In realtà si impossesso dei beni degli ebrei e non dette mai nulla ai palestinesi. Ha solo strumentalizzato la loro storia per demonizzare Israele e impossessarsi in maniera illegittima delle proprietà degli ebrei libici e continuare a restare al potere terrorizzando gli stessi cittadini libici residenti in Libia. Chi si opponeva veniva giustiziato o doveva scappare all’estero ( questi, poteva venir scoperto e ucciso attraverso i “suoi inviati della morte”, come venivano chiamati questi ambasciatori).
   Sappiamo che un popolo vive della propria storia, della sua cultura, ma anche di monumenti, di architetture, delle proprie tradizioni, della propria lingua e del proprio folklore. All’epoca di Gheddafi le sinagoghe sono state trasformate in moschee, ma anche la grande cattedrale di Tripoli ha subito la stessa sorte. Sia a Tripoli che a Bengasi e in altre città i cimiteri sono stati distrutti a trasformati in autostrade oppure semplici piazze, sotto le quali riposano i morti senza pace. Adesso sta avvenendo questa mostruosità con questa trasformazione della sinagoga in moschea, una nuova ingiustizia a distanza di 54 anni. Le autorità locali della città vecchia di Tripoli, “Medina Cadima”, stanno operando in maniera segreta e non è dato a nessuno di entrare all’interno per monitorare la situazione.
   L’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia chiede di fermare immediatamente questa trasformazione e di lasciare intatta la sinagoga di Tripoli con la speranza che un giorno possa essere restaurata. Non esistono ebrei in Libia adesso, ma ciò non significa che in un futuro di pace e sicurezza gli ebrei di Libia o gli ebrei discendenti di ebrei di Libia non possano tornare a visitare le loro radici e le radici dei propri cari, pregare nella sinagoga e pregare per i cari sepolti sotto i palazzi, sotto le piazze e sotto le autostrade.
   In una regione travagliata da conflitti interreligiosi, l’Italia, l’Onu e l’Ue devono esigere la creazione di un clima diverso per quanto riguarda la libertà di religione oltre ad ottenere specifiche garanzie sulla tutela dei luoghi di culto. L’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia esprime preoccupazione per la sorte della sinagoga di Tripoli e teme che si perda un luogo riconosciuto dall’Unesco, costruito dall’architetto italiano Di Segni, che è l’eredità ebraica in Libia, legata a doppio filo all’Italia. Osserva David Gerbi: “ Bisogna prendere esempio dalla straordinaria dinamica dei Patti di Abramo, siglati tra Israele e sei Stati arabi. Siamo in una geopolitica che ha cambiato non solo marcia. L’Italia e l’Ue avrebbero grandi interessi ad andare in questa direzione, creando una nuova dinamica in varie regioni e riportando un clima di benessere, pace, sicurezza e stabilità nel Mediterraneo. La sinagoga Dar Bishi è un capitale storico di grande portata e mantenendolo intatto, e magari aggiungendo nel retro una parte dedicata a un museo, saranno per primi i libici a guadagnarne. Chissà se sta cambiando qualcosa dopo tanta ingiustizia che non è mai andata in prescrizione. Preferisco avere fede in D.O e fiducia nella trasformazione; come ha detto David Ben Gurion, “chi non crede nei miracoli non è realista”. Il tempo lo dirà”.

(il Giornale, 8 maggio 2021)


Pietro Nenni, un socialista al fianco d’Israele

A 130 anni dalla nascita del leader socialista, un ritratto e un ricordo. Quando la Sinistra e Israele viaggiavano sullo stesso binario della storia e gli ideali non erano ancora stati uccisi dalle ideologie. Nenni e Golda Meir, un’amicizia basata sul rispetto e sul ricordo di quella figlia morta ad Auschwitz …

di Nathan Greppi

Quando, nel 1967, Israele vinse la Guerra dei Sei Giorni, la sinistra italiana e occidentale mutò radicalmente il suo approccio nei confronti del piccolo Stato mediorientale: i vari partiti comunisti sparsi per l’Europa, che per anni avevano esaltato il socialismo dei kibbutz e osteggiato i Paesi arabi durante la Guerra d’Indipendenza del ’48, stabilirono da un giorno all’altro che Israele era un Paese colonialista solo perché era ciò che esigeva l’Unione Sovietica. Anche la sinistra italiana non fu da meno in questo, seppur con alcune eccezioni che meritano di essere ricordate: una di queste era Pietro Nenni, che dopo la guerra fu segretario del Partito Socialista dal 1949 al 1963, e subito dopo Vicepresidente del Consiglio dei Ministri dal 1963 al 1968.
  A 130 anni dalla sua nascita, avvenuta nel 1891, vale la pena di ricordare la coerenza con la quale quest’uomo, in un contesto politico dove i voltafaccia e l’opportunismo sono la regola, rimase un sostenitore delle ragioni dello Stato Ebraico fino alla fine, senza mai conformarsi alle posizioni filo-palestinesi che all’epoca erano maggioritarie sia tra i comunisti sia tra i democristiani
   Una storia, la sua, che riemerge chiaramente in un libro quasi introvabile, Nenni e Israele, una raccolta di scritti tratti dai suoi diari curata nel 1984 dai giornalisti Daniele Moro e Alberto Turati. Il volume, che all’epoca venne pubblicato in allegato al mensile ebraico Il Centro, è suddiviso in due parti: la prima, curata da Moro, raccoglie tutti capitoli dei suoi diari, tra il 1943 e il 1971, in cui parla di Israele e degli ebrei. La sua vicinanza al mondo ebraico era anche dovuta al fatto che la figlia Vittoria era morta ad Auschwitz, in quanto aveva preso parte alla Resistenza in Francia; a causa di questo tragico evento, Nenni si sentì sempre vicino agli ebrei, tanto che, durante una sua visita in Israele, avvenuta nel maggio 1971, si tenne una cerimonia in onore di sua figlia. Inoltre, all’epoca molti ebrei militavano nel PSI, tanto che tra gli uomini più fidati di Nenni vi era Giorgio Gangi, membro della Comunità Ebraica di Milano che del Partito Socialista fu segretario regionale per la Lombardia e deputato per tre legislature.
   Per quanto riguarda invece il suo rapporto con lo Stato Ebraico, il primo scritto in cui ne parla risale al 17 gennaio 1956, quando raccontò di come l’allora Ministro dello Sviluppo israeliano Mordechai Bentov (che Nenni chiamava con rispetto “compagno Bentov”, come fece con tutti i socialisti israeliani con cui ebbe rapporti) gli chiedeva di intercedere con i sovietici per chiedere loro di non armare ulteriormente l’Egitto di Nasser. Tuttavia, qualche mese dopo, in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, Nenni ruppe i rapporti sia con l’URSS che con i comunisti italiani, che prendevano ordini da Mosca. Questa divisione si acuì a seguito della Guerra dei Sei Giorni, dopo la quale il PCI rinnegò il suo vecchio sostegno allo Stato Ebraico, mentre Nenni rimase fedele ai propri principi, condannando il desiderio del mondo arabo di distruggere Israele. Ciò gli costò numerosi attacchi da parte dei suoi ex-alleati comunisti, che lo accusarono di volere la guerra con gli arabi.
   La seconda parte del libro, curata da Turati, raccoglie discorsi tenuti da Nenni nel corso di varie conferenze in giro per l’Italia: in una di queste, tenutasi a Pisa il 26 maggio 1967, disse che se da un lato lo sforzo degli arabi di liberarsi dal colonialismo europeo andava sostenuto, dall’altro lato “la guerra contro Israele non ha nulla di comune con l’anticolonialismo. A sua volta, lo Stato Israeliano sta portando avanti una esperienza politica e sociale in cui si fondono gli ideali di Democrazia e di Socialismo, e che sono non una minaccia ma, semmai, un esempio”.
   Dopo la morte di Nenni, avvenuta nel 1980, anche il Partito Socialista cambiò posizione su Israele e i paesi arabi, in particolare sotto la guida di Bettino Craxi; anche per questo Gangi, nel 1988, affermò che il PSI “ha fatto fuori i dirigenti ebrei.” A tal proposito, il libro contiene numerose foto delle visite di Nenni in Israele; in alcune di queste, era accompagnato proprio da un giovane Craxi, all’epoca suo assistente, che si faceva fotografare nei luoghi simbolo delle vittorie militari d’Israele, salvo cambiare approccio anni dopo e tradire i valori del suo mentore. Il libro fu distribuito da Daniele Moro e altri militanti clandestinamente nel corso di uno dei tanti convegni del Partito Socialista dove Craxi, all’apice del successo, si circondava di fedelissimi che non osavano contraddirlo. In tal modo, i socialisti rimasti filoisraeliani sfidarono apertamente il loro stesso capo, rinfacciandogli il suo opportunismo.
   Il contesto politico attuale è totalmente diverso da quello della Guerra Fredda: per ironia della sorte, gli stati arabi si stanno sempre più avvicinando a Israele contro un paese, l’Iran, che un tempo era alleato degli israeliani; il PD, erede sia del Partito Comunista Italiano che della Democrazia Cristiana, è molto meno ostile a Israele dei suoi predecessori; mentre i socialisti, dopo Mani Pulite, sono confluiti perlopiù in Forza Italia. Quanto alla politica israeliana, da oltre quarant’anni è molto più spostata a destra rispetto ai tempi di Nenni. Sebbene il contesto attuale sia molto più favorevole per i sostenitori d’Israele, è bene ricordare coloro che, con coraggio, ne hanno sostenuto le ragioni anche quando erano soli in questa battaglia.

(Bet Magazine Mosaico, 9 maggio 2021)


Israele, al via oggi la più grande esercitazione militare di tutti i tempi

Le manovre dureranno per un mese e avranno come obiettivo quello di verificare la tenuta dell'esercito israeliano in caso di conflitto.

Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno lanciato questa domenica la più grande esercitazione della loro storia, stando a quanto riferito da Kan News. Per un intero mese, la massiccia esercitazione chiamata "Carri di Fuoco" vedrà l'esercito, la marina e l'aeronautica israeliani impegnati in scenari di combattimento e di emergenza in tutte le regioni. Per la prima volta da quando è stato fondato l'esercito israeliano, le forze simuleranno un "mese di guerra" per aumentare, secondo quanto riferito, la prontezza dell'IDF. Le esercitazioni coinvolgeranno le forze dell'IDF sia regolari che di riserva di tutti i comandi. Inoltre, a "Carri di Fuoco" parteciperanno il Ministero della Difesa, l'Autorità Nazionale di Emergenza, il Ministero degli Affari Esteri e altri organi di sicurezza.
Mentre l'esercitazione metterà in pratica una manovra ampia e sincronizzata nelle “profondità del territorio nemico”, si concentrerà anche sul funzionamento sia all'interno dell'IDF che tra le organizzazioni, coinvolgendo il Fronte interno e l'assistenza civile.
All'ordine del giorno delle esercitazioni figurano anche operazioni per lo spegnimento di incendi e manovre nei centri abitati.
Stando a quanto si apprende, il capo di stato maggiore israeliano Aviv Kohavi ha deciso di procedere con i piani per condurre le esercitazioni "Carri di Fuoco" nonostante le tensioni registrate in questi giorni a Gerusalemme, nel sud e nel nord del Paese.
 Hezbollah in allerta
   In vista delle esercitazioni annunciate, secondo Kan News, il gruppo Hezbollah ha aumentato in maniera significativa le sue attività di sorveglianza nel Libano meridionale e nella Siria.
l livello di allerta è il più alto dalla seconda guerra in Libano nel 2006, secondo fonti citate dal quotidiano libanese El-Nashra.
 Le tensioni a Gerusalemme
   Durante il mese sacro islamico del Ramadan, la città di Gerusalemme ha visto tensioni tra ebrei e arabi, con i palestinesi che hanno detto che la polizia israeliana avrebbe impedito loro di riunirsi per le serate del Ramadan nell'area della Porta di Damasco. Tel Aviv ha limitato l'accesso ai siti sacri, a causa delle restrizioni legate al coronavirus.
    Una ondata di proteste palestinesi ha avuto inizio in Israele dopo che le forze armate dell'IDF hanno effettuati degli attacchi su Gaza in risposta ai lanci di razzi verso il territorio dello stato ebraico.
    Negli ultimi due giorni si è assistito a pesanti scontri tra la polizia israeliana e i manifestanti palestinesi, con un bilancio di oltre 300 feriti.

(Sputnik Italia, 9 maggio 2021)


Milizie, compagnie private e associazioni religiose: così l'Iran ha conquistato la Siria

Ha un ruolo militare nel Paese già dal 2013. Ma ora Teheran ha iniziato a pensare ad una presenza a lungo termine. Un'influenza anche sociale, politica ed economica.

di Gabriella Colarusso

All'alba del 5 maggio scorso, mentre a Vienna erano in corso i preparativi per un nuovo round di negoziati indiretti sul nucleare iraniano, i siriani hanno dichiarato di aver abbattuto diversi missili israeliani durante un raid sulla città portuale di Latakia, in una zona vicino a una base militare aerea russa.
    Israele non ha commentato l'accaduto, come spesso succede con le operazioni militari, ma lo strike di maggio non è stato un episodio isolato. Negli ultimi due anni, Tel Aviv ha intensificato la sua campagna di raid aerei contro obiettivi legati all'Iran all'interno della Siria, centri di ricerca per lo sviluppo di armi, depositi di munizioni e convogli militari. A dicembre del 2020, il capo di Stato maggiore dell'esercito israeliano, il generale Aviv Kochavi, ha dichiarato che solo nel 2020 Israele ha condotto più di 500 strike aerei che hanno "rallentato il radicamento dell'Iran in Siria".
    Una delle prime operazioni militari ordinate dal presidente americano Joe Biden, nello scorso febbraio, fu un attacco aereo nella Siria orientale contro edifici appartenenti a quelle che, secondo il Pentagono, erano milizie sostenute dall'Iran responsabili di attacchi contro il personale americano e alleato in Iraq.

 LA RETE DELLE MILIZIE
   Sebbene Bashar al Assad rivendichi la vittoria nella guerra civile siriana, che ha fatto più di 500mila morti e 12 milioni di sfollati, la Siria resta un Paese diviso, in cui solo il 15% dei confini è in mano all'esercito siriano e in cui si continuano a combattere diversi conflitti regionali e internazionali per procura. La Turchia è schierata a protezione dei suoi interessi nell'ultima grande area rimasta sotto il controllo dei ribelli, la regione di Idlib. La Russia, dopo l'intervento del 2015, è la principale forza militare aerea a sostegno del regime di Assad, controlla porti e basi militari. L'Iran - il cui intervento nel conflitto insieme a quello dei russi ha consentito ad Assad di prevalere militarmente - è in Siria per restarci a lungo.
    Gli iraniani hanno avuto un ruolo militare fin dal 2013 soprattutto su alcuni fronti, nella regione di Deir Ezzor, nell'est del Paese, e ad Aleppo, ma a partire dal 2017 la strategia è cambiata. "Teheran ha cominciato a pensare a una presenza di lungo termine", ci dice Navvar Saban, analista militare dell'Omran Center for Strategic Studies specializzato sulla Siria. Sotto la guida dei comandanti delle Irgc, i Guardiani della rivoluzione, Teheran ha formato una serie di milizie straniere, pakistane, afghane, come la brigata Fatemiyoun che sono state centrali per prevalere nei combattimenti sul terreno - sia contro l'Isis che contro i gruppi ribelli - e una serie di milizie locali sciite, "chiamate local defences forces, che ora sono state in gran parte integrate nell'esercito siriano, per rafforzare una presenza militare di lungo termine".
    Prima del 2020, l'Iran "offriva alle milizie buoni salari, ogni combattente della Fatemiyoun riceveva anche dai 450 ai 700 dollari al mese. Poi a causa della crisi economica i pagamenti sono stati ridotti soprattutto alle milizie locali, si arriva tra gli 80 e i 200 dollari a combattente", spiega Saban.

 SERVIZI E ASSISTENZA: IL MODELLO HEZBOLLAH
   Ma l'influenza iraniana in Siria non è soltanto militare è anche sociale, economica e politica. Grazie a una legge voluta dal governo di Assad nel 2013, che permetteva alle compagnie private di essere finanziate anche da cittadini di nazionalità straniera, gli iraniani hanno investito in alcune compagnie di sicurezza private e hanno dato vita a una rete di associazioni che forniscono servizi sanitari, di istruzione, sul modello di quello che Tehran ha sviluppato fin dagli anni Ottanta con il movimento paramilitare Hezbollah in Libano, diventato una forza sociale e un partito politico molto forte in Parlamento. "Gli iraniani in Siria costruiscono scuole, piccole cliniche, anche alcune università nelle zone di loro influenza, fornendo alle persone servizi che non hanno in un Paese devastato dalla guerra", conclude l'analista. Uno dei bracci operativi più importanti di questa strategia sono le fondazioni religiose caritatevoli, la più ricca è la Jihad al Bina organization, che ha le basi tra Aleppo e Deir Al Zour.
    "Dopo la riconquista di Aleppo l'Iran ha tirato il fiato e ha cominciato a giocare un ruolo più politico e diplomatico nella crisi siriana anche con il processo di Astana", spiega Hamidreza Azizi, analista iraniano del berlinese German Institute for International and Security Affairs. La Siria è un partner fondamentale per l'Iran. Damasco fu l'unica capitale araba a schierarsi con Teheran durante la guerra con l'Iraq, è da decenni un alleato storico, ma è anche un tassello centrale in quella che gli iraniani chiamano la strategia della profondità strategica - di penetrazione regionale in funzione anti-israeliana, "una strategia il cui asse più importante è Hezbollah".

(la Repubblica, 9 maggio 2021)


Parigi in piazza per Sarah contro le ombre antisemite

di Leonardo Martinelli

Sarah Halimi fu svegliata nella notte, all'improvviso. Lei, 65 anni, vedova ebrea, religiosa, direttrice di un asilo nido in pensione, visse un calvario di una trentina di minuti prima di morire. Kobili Traoré, 27 anni, musulmano, francese originario del Mali, urlava e la picchiava: lei che, nel suo quartiere di Belleville, era conosciuta come una persona mite e servizievole. Traoré viveva al piano di sotto di quel palazzo di alloggi popolari, con la sua famiglia: un giovane strano, già condannato sei volte, che carburava a cannabis, almeno una quindicina di canne al giorno. Frequentava la moschea del vicinato, di un rigorismo sospetto. Mentre picchiava la povera Sarah, gridava «Allah Akbar» e declamava versetti del Corano. La polizia, chiamata dal vicinato, era già sul posto, ma esitò a entrare nel palazzo. Lo fece solo dopo che Traoré aveva gettato la donna dalla finestra, dal terzo piano: probabilmente era già svenuta. Lui proclamò di avere ucciso «il demone del quartiere». L'ebrea.
    Era il 4 aprile 2017 e questo fatto di cronaca nera, in piena città, a Parigi, venne inizialmente sottovalutato. Traoré fu ricoverato in un ospedale psichiatrico e da allora non ne è più uscito. La famiglia della donna riuscì, comunque, a far riconoscere l'aggravante dell'antisemitismo. Ma nel dicembre 2019 la Corte d'Appello dichiarò l'aggressore penalmente irresponsabile, perché in preda a una psicosi delirante acuta, dovuta all'assunzione di cannabis. La sentenza si basava su un articolo del codice penale (122-1), per cui non è perseguibile dal punto di vista penale chi soffra, al momento del reato, di un disturbo psichico o neuropsichico, che annulli la capacità di discernimento. Ebbene, la decisione è stata confermata il 14 aprile scorso dalla Cassazione: Traoré in carcere non ci andrà mai. Ma l'opinione pubblica non arriva ancora a digerire la vicenda. Il 25 aprile più di 20 mila persone hanno protestato per le strade di Parigi. E altre manifestazioni sono state organizzate in Francia e all'estero, perfino a Roma, dinanzi all'ambasciata di Francia. Lo stesso presidente, Emmanuel Macron, ha chiesto di cambiare la normativa e il ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti presenterà un progetto di legge. Intanto la famiglia di Sarah ha deciso di fare appello pure ai tribunali israeliani. No, la storia non finirà qui.

(La Stampa, 9 maggio 2021)


Scontri a Gerusalemme: centinaia di feriti per i palestinesi sfrattati

Sulla Spianata delle moschee la rivolta degli sgomberati provoca la risposta della polizia.

Medicate 169 persone
Prima le preghiere, poi gli scontri. Aperto persino un ospedale da campo
Per il Jerusalem Day
Usa e Ue preoccupate. E domani potrebbe scatenarsi un'altra guerra

di Chiara Clausi

Sale la tensione a Gerusalemme sulla Spianata delle Moschee, Monte del Tempio per gli ebrei. Sono stati violenti gli scontri tra polizia e manifestanti palestinesi. La maggior parte delle persone - quasi duecento - è stata ferita nella moschea di Al-Aqsa, dove la polizia israeliana ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti mentre i palestinesi lanciavano pietre e bottiglie. Tutto è degenerato perché decine di dimostranti sono rimasti sul posto al termine delle preghiere ed hanno cominciato a protestare contro gli sfratti di famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh J arrah, nella parte est della città. Gli agenti di polizia hanno chiuso la porta di Damasco nella città vecchia. Il bilancio è di 163 palestinesi e sei agenti di polizia rimasti feriti negli scontri, che, inizialmente concentrati sulla Spianata delle Moschee si sono poi estesi a tutta la città. Un video pubblicato da Kan News mostra fedeli che sventolano bandiere di Hamas sul monte. É stato aperto pure un ospedale da campo per curare l'elevato numero di feriti.
    Il complesso della moschea di Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme è uno dei luoghi più venerati dell'Islam, ma si trova anche nel sito più sacro del giudaismo, noto come Monte del Tempio. Questo luogo-simbolo è un punto dove si scatenano di frequente atti di violenza. Gli ultimi sono cominciati venerdì sera dopo che migliaia di persone si erano radunate lì per celebrare l'ultimo venerdì del mese sacro del Ramadan. La polizia israeliana sostiene di aver usato la forza per «ristabilire l' ordine» a causa della «rivolta di migliaia di fedeli» dopo le preghiere serali. «Israele sta agendo in modo responsabile per mantenere la legge e l'ordine a Gerusalemme, proteggendo il diritto al culto nei luoghi sacri», ha precisato subito Benjamin Netanyahu.
    Non sono tardate ad arrivare anche le reazioni internazionali. Una portavoce del Dipartimento di Stato Usa ha detto che Washington è «profondamente preoccupata per l'accresciuta tensione». L'Unione europea ha condannato le violenze e ha affermato che «gli autori di ogni parte devono essere ritenuti responsabili dei disordini». Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, ha esortato tutte le parti a «rispettare lo status quo dei luoghi santi nella Città Vecchia di Gerusalemme» L'Onu ha precisato che Israele dovrebbe sospendere qualsiasi operazione di sfratto e impiegare «la massima moderazione nell'uso della forza». Il presidente palestinese Abu Mazen ha invece accusato Israele di essere «responsabile degli sviluppi pericolosi e degli attacchi in corso» a Gerusalemme e «delle relative conseguenze». Ha poi invitato «la comunità internazionale ad assumersi tutte le sue responsabilità per fermare l' aggressione contro i palestinesi».
    Ma la tensione è già da un po' che sta crescendo. In Cisgiordania: due palestinesi sono stati uccisi venerdì dopo aver sparato contro una base militare israeliana. All'inizio della settimana, un uomo palestinese armato ha ucciso uno studente religioso israeliano e un adolescente palestinese è stato ammazzato in scontri con le forze israeliane che gli davano la caccia. Ma c'è profonda preoccupazione anche per quello che potrebbe accadere lunedì. La Corte Suprema di Israele dovrebbe tenere un'udienza sul caso Sheikh Jarrah proprio mentre gli israeliani celebrano il Jerusalem Day. La celebrazione annuale della presa dell'est della città durante la guerra del 1967. Durante la celebrazione si assiste a una marcia con la bandiera nella Città Vecchia che in passato molto spesso porta a scontri con i palestinesi locali.
    Israele ha occupato Gerusalemme Est dalla guerra del 1967 e considera l'intera città sua capitale. I palestinesi però rivendicano Gerusalemme Est come la loro futura capitale di uno stato indipendente.

(La Stampa, 9 maggio 2021)


*


Non sono palestinesi, sono arabi violenti di cui nessuno si prende la responsabilità

Il problema dei cosiddetti “palestinesi” deve tornare ad essere arabo non israeliano

di Franco Londei

Smettiamola con la manfrina dei “poveri palestinesi”, primo perché poveri non lo sono o, almeno, non lo dovrebbero essere vista la quantità di miliardi di dollari che ogni anno il mondo spende per questi arabi che nemmeno gli arabi vogliono.
    Perché il vero punto è questo: gli arabi li chiamano palestinesi perché così si crea dal nulla un popolo e si evita di assumersi le proprie responsabilità.
    Guardiamo per esempio gli scontri ancora in corso a Gerusalemme. Ti guardi attorno e trovi condanne solo per Israele. Ma gli scontri non li ha iniziati Israele. Come mai allora ce l’hanno tutti con lo Stato Ebraico?
    E come mai il fatto che le proteste nascano con un pretesto che parte da un atto illegale, giustamente punito dalla legge israeliana, non viene nemmeno menzionato? Anzi, si chiede ad Israele di soprassedere e di sorvolare sui reati commessi dagli arabi.
    La risposta per tutto è semplice, dopo l’avvicinamento tra Israele e diversi Stati arabi che avevano posto la questione degli arabi cosiddetti “palestinesi” in secondo (o terzo) piano, si cerca di riportarla in primo piano provocando scontri sapendo benissimo che il mondo si sarebbe scagliato contro Israele e non contro gli arabi violenti. È sempre così, ogni volta.
    E mentre ricomincia anche il lancio dei missili da Gaza sul sud di Israele, il mondo intero si scaglia contro lo Stato Ebraico accusandolo di usare violenza e di violare la sacralità della Moschea al-Aqṣa, la moschea di Gerusalemme.
    Ma che la moschea venga usata come base per perpetrare violenza nessuno lo dice, tanto meno gli arabi (gli altri) che dovrebbero essere i primi ad indignarsi.
    Passerà anche questa, come sempre, ma da questa volta davvero dobbiamo cominciare a lottare in ogni sede, compresa quella mediatica, affinché la si smetta di chiamare questa gente con il nome di “palestinesi”. Sono arabi e devono tornare ad essere un problema arabo, non israeliano.

(Rights Reporter, 9 maggio 2021)


In Statale un dialogo sul rabbino Laras

di Annamaria Braccini

MILANO - «Meglio in due che da soli: rav Giuseppe Laras, uomo del dialogo». È questo il titolo dell'incontro che avrà a tema la compianta figura, appunto, di rav Laras, eminente studioso, presidente per lunghi anni (poi emerito) dell'Assemblea rabbinica italiana, rabbino capo di Milano dal 1980 al 2005, presidente del Tribunale rabbinico Alta Italia. Promosso dalla cappellania universitaria della Statale, giovedì 13 maggio alle 16.30, presso la sede dell'università (via Festa del Perdono) e su piattaforma Zoom, l'appuntamento si pone come ultimo contributo di un percorso dedicato ai fondamenti dell'ebraismo e al dialogo ebraicocristiano. Questione, questa, carissima a Laras che, alla guida della Comunità ebraica della città negli anni dell'episcopato del cardinale Carlo Maria Martini (iniziarono entrambi il rispettivo ministero a Milano nel 1980, storico il loro incontro, nel 1993, in Sinagoga maggiore) sviluppò con l'allora arcivescovo una profonda amicizia personale e istituzionale, promuovendo cammini che fecero di Milano una delle isole più felici del confronto tra le due fedi.
    A parlarne, con la presenza del magnifico rettore dell'ateneo, Elio Franzini - che ha definito Laras «uomo di grande umanità, spiritualità e valore», apprezzato docente di Storia del pensiero ebraico presso la facoltà di Lettere e filosofia -, saranno monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo, biblista di livello internazionale per i suoi studi sul Primo Testamento, e Vittorio Robiati Bendaud, allievo di Laras, saggista e rabbino.
    Scomparso nel 2017, Laras era nato nel 1935 e aveva vissuto il dramma della Shoah, con la deportazione della madre e della nonna ad Auschwitz, e proprio al dovere di ricordare, per essere una società migliore, dedico il suo testamento spirituale riconosciuto di altissima levatura. *

(Avvenire, 9 maggio 2021)



Il segno del profeta Giona (7)

di Marcello Cicchese

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è forse questo che io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò mi affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me è meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che sarebbe successo alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che salì al di sopra di Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grande gioia a causa di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, che si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così per il ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi. fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Dopo aver svolto il suo compito di predicatore annunciando la Parola di Dio ai pagani peccatori, Giona si ferma a pregare. In una versione edificante del racconto si sarebbe letto che Giona confessa al Signore la sua iniziale disubbidienza, Lo ringrazia per averlo scampato da sicura morte in mare e innalza a Lui un inno di lode per l'efficacia della Sua parola che ha indotto i peccatori a ravvedersi dalla loro malvagità. Nulla di tutto questo. Nella sua preghiera Giona manifesta anzitutto un gran dispiacere per il mancato avveramento della sua profezia e non nasconde la sua irritazione per l'incomprensibile comportamento di Dio, che dopo averlo ripescato in mare lo spedisce a migliaia di chilometri di distanza dalla costa, lo fa camminare per tre giorni nell'immensa Ninive ordinandogli di dire a tutti che entro quaranta giorni la città sarà distrutta, per vedere poi, alla fine, che Dio ci ripensa e perdona tutti.
  Possiamo immaginare un Giona che dice al Signore: 'se vuoi fare del bene a tutti, allora fallo anche a me e toglimi la vita, perché per me, stando così le cose, è meglio morire che vivere'.
  Che avrebbe dovuto fare Dio a questo punto? Provando a rispondere come se non sapessi quello che avviene dopo, mi sorprendo a ragionare come Giona. Ma a parti invertite. L'ebreo Giona si irrita con Dio perché è troppo buono coi gentili; e io, gentile, mi sento un po' irritato con Dio perché mi sembra troppo buono con l'ebreo Giona. A me sembrerebbe che, arrivati a questo punto, al fuggiasco renitente si sarebbe dovuto impartire una sonora lezione. E invece no. Dio si limita a sollecitare dolcemente la coscienza morale del ribelle con una semplice domanda: "Fai tu bene a irritarti così?" E Giona nemmeno risponde.
  Più irritato che mai esce dalla città e si sistema nei paraggi mettendo insieme una capanna di fortuna, con l'evidente intenzione di rimanere lì per vedere come va a finire la cosa.
  Di nuovo allora interviene Dio, che invece di mostrarsi fieramente irritato per il comportamento inaccettabile del suo servitore, si preoccupa dello stato di irritazione in cui è caduto Giona, e si propone di "guarirlo".
  Sta scritto che fece crescere un ricino. Il verbo qui usato nell'originale è manah (מנה) , che in questo libro viene usato quattro volte e tradotto in italiano in modi diversi:
  2:1  Dio fece venire un gran pesce
  4:6  Dio fece crescere un ricino
  4:7  Dio fece venire un verme
  4:8  Dio fece soffiare un gran vento.
  Come già osservato in precedenza, i traduttori cercano l'espressione più adatta ad inserirsi nella lingua italiana, ma in molti casi si perde la sottolineatura che il racconto vuol dare proprio attraverso la ripetizione della medesima parola. Ammirevole in questo senso è la storica traduzione inglese King James, che in tutti e quattro i casi traduce sempre prepared. Sarebbe forse meglio, in certi casi, lasciare che la resa letterale di certi termini originali attirasse la giusta attenzione del lettore sul significato contenuto nel testo proprio attraverso la stranezza del costrutto italiano, invece di coprirlo con una varietà di traduzioni "più scorrevoli".
  In italiano l'uguaglianza nell'originale dei quattro termini può risaltare in quel ripetuto fece. Dio fece venire, fece cresce, fece soffiare. Questo mette in evidenza un Dio che fa, affinché non si dimentichi che il Dio creatore dei cieli e della terra continua ad essere un facitore di ciò che avviene sotto i cieli e sopra la terra. E per un Dio simile, preparare quattro oggetti utili per lo svolgimento di una storia come questa non è una gran fatica.
  Dio dunque vede che l'irritato Giona si è fatto una capanna all'ombra, cosa evidentemente indispensabile sotto il cocente sole orientale. Ma per accrescere la gradevolezza del suo soggiorno, Dio gli prepara un ombrifero ricino. Giona ne prova una grande gioia, sentendosi così ripagato del grande dispiacere che aveva provato vedendo che su Ninive non si abbatteva la mano punitiva di Dio. Così quel giorno andò a letto contento e soddisfatto.
  L'indomani però, Dio torna in azione: prepara un verme che per sfamarsi, com'è suo diritto di verme nella natura, attacca il ricino. E questo si secca. Ma non basta. Dio prepara anche un soffocante vento d'oriente a cui si unisce un sole ardente che picchia implacabile sul capo di Giona. A questo punto il profeta sta per svenire. Prima che ciò avvenga però trova la forza di rivolgersi di nuovo a Dio e di chiedergli, ancora una volta, di farlo morire perché, ripete: "Per me è meglio morire che vivere".
  Di nuovo Dio si rivolge a Giona chiedendogli dolcemente: "Fai tu bene a irritarti così a causa del ricino?" E' chiaro che è una domanda retorica, un altro modo per dire educatamente: 'guarda che non è bene fare così'. Giona l'ha capito benissimo, e risponde a tono: "Sì, faccio bene, fino alla morte", che è come dire: difendo il mio diritto ad essere irritato, e lo difenderò fino alla morte. E' una riposta sbattuta in faccia con caparbietà. Com'è possibile che Dio non abbia reagito trattandolo come si meritava? E' una domanda che faccio nello stile di Giona, perché la giustizia punitiva sugli altri mi attira. Forse il Signore avrebbe potuto rispondere così: 'Vedi, Giona, se avessi dovuto colpire i niniviti per i tuoi motivi di giustizia, per gli stessi motivi avrei dovuto colpire anche te; ma poiché per i miei motivi di giustizia, che tu ora non capisci, ho deciso di non colpire te, per gli stessi motivi ho deciso di non colpire i niniviti.
  Adesso dunque la questione si è definita come un contrasto tra la visione di giustizia di Giona e quella di Dio. Ed è su questo piano che Dio accetta il confronto, con una pazienza che si può dire davvero sovrumana, perché a quanto pare Giona rifiuta il confronto. Dio accetta di essere messo sulla difensiva, e le ultime parole con cui si conclude il libro, di solito intese come un generico riferimento alla misericordia di Dio, vogliono gentilmente ricordare a Giona chi è il Creatore e chi la creatura. Dopo di che si chiude il discorso.
  Sorge allora la domanda: ma poi, come va a finire? Chiederà Giona perdono a Dio? Oppure sarà Dio a dare a Giona la definitiva, eterna lezione che si merita? Qual è la morale da trarre? La domanda appare importante per i molti che leggono la Bibbia come un'antologia di racconti più o meno ispirati da cui trarre ispirazione per pensieri profondi o stimoli a comportamenti virtuosi. Nella lettura moraleggiante si dirige l'attenzione sull'esempio buono da imitare o sul cattivo da evitare. E in questo caso, come dev'essere valutato l'esempio di Giona? E' buono o cattivo? Ma il libro non si presta a valutazioni troppo semplici e schematiche, anche per una sua caratteristica particolare: appare bruscamente troncato. Manca un finale. E anche questo potrebbe essere parte del messaggio: la prosecuzione dev'essere cercata nel resto della Bibbia.

(7) continua

(Notizie su Israele, 9 maggio 2021)


 

In Israele, muove i primi passi la coalizione dei traditi da Bibi

di Micol Flammini

ROMA - Yair Lapid, leader del partito di centrosinistra israeliano Yesh Atid, potrebbe riuscire in un’impresa insperata. Si è messo al crocevia dei traditi, degli scontenti, dei feriti dal premier in carica Benjamin Netanyahu e sta cercando di formare la “coalizione del cambiamento”. Così la chiama lui, e cambiamento è il termine con cui Lapid cerca di offuscare i malanni di questa alleanza tra partiti di destra e di sinistra che in comune ha soltanto la volontà di mandare via Netanyahu. Lapid ha ricevuto l’incarico di formare un governo dal presidente Rivlin e ieri a casa sua ha accolto i suoi opposti: Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, e Gideon Sa’ar, un ex membro del Likud di Bibi che ha formato una sua fazione che, come Yamina, si colloca più a destra del Likud. Se le cose andranno bene, si formerà un governo di unità nazionale con premiership a rotazione. Il primo a servire sarà Bennett, con i suoi sette seggi sui centoventi della Knesset, e poi toccherà al leader di Yesh Atid.
   Lapid, Bennett e Sa’ar sono tre ex di Benjamin Netanyahu, e quello che sanno è che il premier, qualora dovesse passare all’opposizione, farà di tutto per portare il paese verso una quinta elezione. Alla porta della coalizione del cambiamento, della coalizione dei traditi, hanno bussato altri ex, come Avigdor Lieberman e Zeev Elkin, ognuno con le sue pretese. Lapid ha detto che la coalizione “avrà un semplice obiettivo: portare il paese fuori da questa crisi economica, sanitaria, politica e soprattutto la crisi dentro di noi, dentro al popolo di Israele”. Se il governo dovesse formarsi, il primo compito sarà dimostrare la sua competenza, di essere in grado di fare leggi, riforme, progetti che non abbiano tutte a che fare soltanto con Netanyahu. Altrimenti vincerà uno dei grandi argomenti del premier: “Soltanto io so guidare questo aereo”, dimostrare che senza Bibi Israele va avanti. Netanyahu è premier dal 2009, e dopo aver vinto le ultime elezioni del 23 marzo non è riuscito a mettere insieme una coalizione per governare: in pochi si fidano ancora di lui tra i capi dei partiti politici. In pochi credono alle sue promesse di alleanze. L’ultima fatta a Benny Gantz – leader di Kahol Lavan che nell’esecutivo di Lapid sarà ministro della Difesa – di lasciarlo diventare premier dopo i suoi due anni di mandato, non l’ha mantenuta. Ha provato a promettere lo stesso a Bennett, suo ex pupillo, e Bennett non si è fidato.
   Netanyahu definisce i confini della politica israeliana, e questo governo fragile in costruzione vuole essere un argine a lui, che tiene dentro tutto, dalla destra fino ai partiti arabi. Tra i traditi però c’è anche chi, come Bennett, in Bibi, nonostante tutto, continua a vedere un maestro. Se la coalizione del cambiamento si formerà, Lapid dovrà fare molta attenzione non soltanto a tenere unite le varie anime, ma a evitare che ce ne sia una che sappia meglio degli altri come prevalere.

(Il Foglio, 8 maggio 2021)


Emergenza estrema destra in Germania, mai così tanti crimini di stampo neonazista

Il ministro degli Interni tedesco ha affermato che un drammatico aumento di aggressioni e atti di violenza che dimostra una "brutalizzazione" della società e rappresenta la più grande minaccia per la stabilità del Paese

di Giulia Maini

L'estrema destra sta diventando sempre più violenta in Germania, tanto che nel Paese nell'ultimo anno i crimini collegati a questa ideologia politica hanno raggiunto livelli record. "Questi numeri sono molto allarmanti soprattutto perché durante la pandemia abbiamo osservato un'ulteriore polarizzazione della discussione politica" ha dichiarato il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer, affermando che questo drammatico aumento della criminalità estremista di destra dimostra una "brutalizzazione" della società e rappresenta la più grande minaccia per la stabilità della nazione.
  Come riporta Reuters la polizia ha registrato quasi 24mila crimini di estrema destra lo scorso anno, un aumento di quasi il 6 per cento rispetto all'anno precedente, rappresentando tra l'altro più della metà di tutti i reati di natura politica. Si tratta del livello più alto da quando la polizia ha iniziato a raccogliere questo tipo di dati nel 2001. I crimini andavano dalla visualizzazione di simboli nazisti a commenti antisemiti fino a vere e proprie aggressioni fisiche e omicidi. Le violenze e le intimidazioni erano rivolte principalmente contro immigrati, rifugiati e tedeschi neri, ma c'è stato anche un aumento della violenza anti-asiatica, legata alla pandemia. Gli attacchi antisemiti, aumentati di quasi il 16 per cento ed avvenuti principalmente online, sono stati, ha detto Seehofer, "non solo allarmanti per il contesto della nostra storia, ma anche profondamente vergognosi". Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo, ha detto che i numeri tedeschi evidenziano una questione più ampia. "Questo è un campanello d'allarme, non solo per la Germania, ma per il mondo intero", ha spiegato.
  Il ministro dell'Interno ha spiegato che il totale dei crimini violenti classificati come di natura politica sono aumentati di quasi il 20 per cento. In questo senso il ministro dell'Interno ha spiegato che la criminalità collegata all'ideologia politica è "un problema crescente", per questo ha promesso "una maggiore sorveglianza da parte della polizia". Al momento in Germania, la questione della sicurezza è uno dei temi più scottanti, soprattutto in vista delle elezioni nazionali di settembre. Per questo l'intelligence tedesca teme che gli attivisti di estrema destra "stiano cercando di sfruttare la frustrazione pubblica per le restrizioni dovute alla pandemia per incitare alla violenza contro le istituzioni statali". Seehofer ha spiegato che quasi 4mila crimini politicamente motivati, inclusi 500 atti violenti, sono stati collegati direttamente alla pandemia e non sono stati classificati né di estrema destra né di sinistra. Le autorità hanno espresso preoccupazione per il ruolo presumibilmente svolto dal partito Alternative für Deutschland nel alimentare un clima di risentimento nei confronti degli immigrati e del governo. Il partito, terzo alle elezioni tedesche del 2017, si è spostato costantemente a destra negli ultimi anni, attirando un crescente controllo da parte dell'agenzia di intelligence interna del Paese .
Come riporta il Guardian, Seehofer ha affermato che la violenza di destra ha lasciato una "scia di sangue" in tutta la Germania, Tra i recenti omicidi politicamente motivati il ministro dell'Interno ha ricordato la sparatoria avvenuta nella città occidentale di Hanau, quando un uomo armato razzista ha ucciso nove giovani di origine immigrata. Un altro esempio è "l'attacco con coltello da parte di un siriano contro una coppia gay di Dresda" ha detto Seehofer, "una persona è rimasta uccisa". Inoltre, i pubblici ministeri tedeschi hanno annunciato di aver arrestato un uomo con l'accusa di aver inviato lettere di odio per un periodo di tre anni a politici nazionali e regionali di sinistra, nonché ad un avvocato turco-tedesco che rappresentava vittime di crimini di estrema destra. Secondo le autorità l'imputato avrebbe firmato i suoi messaggi con l'acronimo "Nsu 2.0", un riferimento al gruppo neonazista Nsu, ritenuto responsabile dell'omicidio di 10 persone, otto turchi, una poliziotta greca e una tedesca, tra il 2000 e il 2007.

(Europa Today, 8 maggio 2021)


Attacco israeliano in Siria

Uccisi otto membri della guardia rivoluzionaria iraniana

di Sadira Efseryan

Una delle settimane peggiori per il corpo di invasione iraniano in Siria
Arriva oggi la conferma che nell'attacco israeliano in Siria avvenuto mercoledì scorso sono rimasti uccisi otto membri della IRGC, la guardia rivoluzionaria iraniana.
Va aggiunto che il bilancio è del tutto provvisorio perché ci sarebbero anche molti feriti gravi.
L'attacco israeliano aveva come obiettivo il quartier generale delle Guardie della Rivoluzione iraniana nella località di Deir Shmail, nella campagna intorno ad Hama.
La forza colpita era decisamente multinazionale visto che le fonti sul luogo confermano che cinque di loro erano membri della IRGC iraniani e afghani, uno era siriano e gli altri due erano libanesi.
Questo conferma che l'Iran sta dispiegando in Siria una vera e propria forza multinazionale sotto il comando della IRGC.
Ieri un aereo israeliano ha colpito una postazione militare iraniana nella campagna di Lakatia uccidendo un miliziano iraniano.

 IL BILANCIO DEGLI ATTACCHI AEREI ISRAELIANI IN SIRIA DI QUESTA SETTIMANA
  Ad Hama, gli attacchi aerei hanno colpito depositi di armi e munizioni nascosti nelle montagne e nelle foreste attorno a Deir Shmail.
A Latakia, diversi attacchi aerei israeliani hanno colpito quartier generali militari, magazzini di armi e munizioni.
Negli attacchi di questa settimana sono stati uccisi complessivamente 14 miliziani e un numero imprecisato di membri delle Guardie della Rivoluzione iraniana. Una delle settimane peggiori per in corpo di invasione iraniano in Siria.

(Rights Reporter, 8 maggio 2021)



"La Francia, oggi, indistintamente, nella sua interezza è antisemita"

Dialogo con Norbert, ebreo


di Manuela Diliberto

PARIGI, Primavera 2018, ancora lontani dalla pandemia. È stato per anni il coordinatore del nostro gruppo interreligioso che si riunisce una volta al mese nei locali della sagrestia.
Mi ha sempre intimidita. Non so mai cosa dire né come comportarmi quando sono con lui, anche se più mi intimidisce, più mi intriga. Non credo di essergli piaciuta all'inizio, ma con il tempo ha finito per guardarmi con simpatia. Per la seduta fotografica ci incontriamo nello studio di Cristina vicino alla Tour Eiffel. Nel posare per il ritratto con lui non so come fare né che espressione assumere. Gli sono molto affezionata. Un paio di settimane fa, proprio il giorno in cui rileggevo la sua intervista, ci ha annunciato che avrebbe lasciato il gruppo per ragioni personali. Grata dell'impegno, della disponibilità e dello zelo degli ultimi anni, colgo qui l'occasione per ringraziarlo di tutto quello che ha fatto per noi!

- Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?
  Ah, questo è molto divertente! Prima di tutto ho due nomi, uno in francese, Norbert, e uno in ebraico, come praticamente tutti gli Ebrei della diaspora (in Israele oggi è diverso perché mettono direttamente il nome ebraico) che avevano immancabilmente un nome pronunciabile nella lingua dei paesi che li accoglievano, e poi, in sinagoga, sia uomini che donne, un nome patronimico: "ben", "figlio di", seguito dal nome del padre o della madre. Il mio nome ebraico è Ithamar (ultimo figlio di Aronne), mio padre si chiama Ariel, che vuol dire "leone", quindi il mio nome ebraico è Ithamar Ben Ariel. Il patronimico è evidente, ma se si deve parlare della scelta dei nomi, allora, Norbert è stato un litigio fra mia madre e la suocera. La madre di mio padre aveva questo ruolo di capofamiglia, ma mia madre lo era ancor più. Mia madre aveva scelto Norbert e mia nonna ne aveva scelto un altro, non so quale - fu uno dei fratelli di mio padre ad annunciarglielo - così mia madre fece subito le valigie e disse a mio padre: "Te la sbrighi tu con tua madre, io me ne vado". (Ride). Mio padre è andato a trovare mia nonna (a cui sono sempre stato tanto vicino e a cui a quanto pare somiglio) e le ha detto di farsi gli affari suoi, che sarebbero stati lui e la moglie a decidere come chiamarmi. Così mia madre ha scelto Norbert, che era all'epoca ed è tutt'ora un nome raro, anche per provocare la nonna, in effetti. Questo per Norbert… Per Ithamar è ancora più divertente perché è stata una disputa non fra mia madre e mia nonna, ma fra le due mie nonne, materna e paterna, ed è un episodio legato alla shoah. Entrambe le famiglie dei miei che rimasero in Polonia vennero deportate e massacrate nelle camere a gas. Ti parlo di cento venti persone! Perché tutti e quattro i miei nonni provenivano da famiglie di tredici figli… Tutti e quattro! Un sacco di gente… E si trovavano tutti quanti a Varsavia. Le mie due nonne che avevano lasciato la Polonia negli anni 30 seppero della morte di tutta la famiglia, dei loro fratelli, delle sorelle solo nel '46, cioè dieci anni prima che io nascessi. Quando sono nato io, nel 1956, loro erano ancora in lutto per le loro madri… fino alla fine hanno parlato delle loro madri. Il problema era che io ero un maschio anche se loro si erano messe in testa di darmi ugualmente i nomi delle loro madri. È molto divertente su più piani: non si sono scontrate ma sono andate a vedere un rabbino e il tipo, furbo, ha giocato sulle parole, cioè la prima si chiamava Itke e la seconda Miriam, quindi "It" e "Mr", allora ha mescolato le lettere e ha preso il nome di un profeta minore della Bibbia che è venuto fuori dalle quattro lettere delle nonne, Ithamar! Il mio nome quindi è impegnativo… come il mio abitare oggi nella casa dei miei nonni. (Fa una pausa) Anche quello è impegnativo. (Sorride).

- Se non ti chiamassi in questo modo, che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?
  È un nome russo: Alexandre che è usato in Russia, ma è greco all'origine. Nasce da un'infatuazione per la figura di Alessandro Magno di cui lessi a vent'anni una biografia scritta da un'inglese, Mary Renault (The Persian Boy), e che rileggo quasi ogni anno da allora. È una trilogia ma io conosco solo il secondo volume.

- E cos'è che ti piace in particolare?
  Del personaggio di Alessandro? In effetti lui rappresenta l'inverso di quello che hai detto tu prima, che il mondo si possa cambiare con piccoli gesti. Lui incarna l'assoluto dell'ideologia messa in pratica. È stato come un folle, o un sognatore, o un artista… una specie di artista della politica. Ovviamente pensava in termini di colonialismo e che la cultura greca fosse la migliore delle culture, ma rispettava e lasciava sul posto le altre culture locali. Poi sposa Rossane. Il suo per me non è però un ideale politico, ma piuttosto una fantasia… Fra l'altro la filosofia di Aristotele che lui proponeva è agli antipodi del mio pensiero in quanto ebreo e depositario della filosofia ebraica. Io sono interessato più alla visione ebraica del mondo che alla visione greca… ma è il personaggio, il fatto di essersi gettato in politica con dei sogni, non tanto il fatto di essere riuscito a costruire un impero, perché poi non c'è riuscito… Ma trovo che incarni quanto più bello ci sia nella politica, cioè il fatto di "sognare la città". Per dire, anch'io avrei voglia di trasformare il borgo in cui viviamo in un borgo con delle case di tutti i colori e non grigie…

- Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte 'scomode'. Tu, secondo te, perché sei seduto su questa sedia e stai per essere intervistato?
  Vuoi dire (ride) quali sono le mie sfaccettature identitarie? (Ride ancora). Ascolta, ne ho un'infinità. Allora prima di tutto ho una convinzione, non so se è questo che ti interessa, ed è che l'identità non esiste, per aver letto il libro Les identités meurtrières (1998) di Amin Maalouf. Penso veramente che siamo composti da "sfaccettature identitarie", come il profumo. Io ho numerose sfaccettature identitarie e siccome ho fatto quindici anni di psicanalisi, credo di poter dire di conoscerle abbastanza bene. Non so se è interessante nominarle una per uno, ma se volessimo trovare qualcosa di trasversale a queste sfaccettature potrei dire di essere militante. Per natura quando c'è qualcosa da fare, quando c'è da intervenire, intervengo, agisco. Non sono il tipo da rimanere a casa, chiuso fra le mie mura. Altra cosa… Ho avuto la fortuna di avere ricevuto un'educazione borghese, di aver fatto gli studi universitari, poi tennis, piano eccetera, ho viaggiato molto, ho famiglia all'estero, cosa che mi ha permesso di imparare le lingue molto giovane, e quindi dopo la mia carriera professionale, le storie d'amore, la psicanalisi, ho sviluppato una forma d'intelligenza definirei abbastanza… evoluta… perché poi, secondo me, le cosiddette "qualità" non esistono! Esiste l'interesse e la curiosità. Non si nasce predisposti, ma semplicemente più curiosi degli altri. Io ho lavorato quarant'anni nel settore del profumo e ti posso dire che se qualcuno dice di non avere un olfatto sviluppato è semplicemente perché non ne è interessato, non ne è curioso… allora crede di non sentire gli odori. Altrimenti non si spiegherebbero Barishnikov e Nureyev che hanno un fisico molto muscoloso e che malgrado il loro fisico sono diventati i ballerini più famosi e bravi del mondo.

- Ne L'Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che "Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l'Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare". Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell'Occasione?
  Sono d'accordo con Machiavelli. Non basta apparecchiarsi. Quello che è molto interessante in questo contesto è una nozione importantissima, quella della paura che è più una nozione comportamentale che filosofica. Per me la paura definisce tante di quelle cose! Il fatto di voler anticipare gli eventi, preparare una strategia collettiva o individuale… è un modo di vincere la propria paura… la paura di essere vinti, di essere feriti e penso che dobbiamo accettare anche l'idea che bisogna prima di tutto conoscere se stessi per poi adattare il proprio comportamento all'altro anche se siamo noi stessi ad avere generato un qualcosa che può scatenare la guerra. Può anche capitare di essere assolutamente sorpresi dalla reazione dell'altro! Immagina una strategia positiva e negativa, per esempio quando critichi qualcuno che invece ti fa un grande sorriso dicendoti "Ti voglio bene": anche questo è un tipo di manovra strategica e tu sei perduto…

- Ma l'Occasione è la componente aleatoria…
  E sì, e sì… Nella componente aleatoria è insita la consapevolezza che non tutto si può prevedere e che le strategie non si possono maturare per tutti i tipi di avvenimento. Ci sono molti eventi pieni di sorprese, ed è anche bello così! Altrimenti saremmo delle macchine strategiche…

- E il detto americano: se davvero lo vuoi lo avrai?
  Mah… vale anche per questa frase. Non è sempre possibile calcolare e prevedere tutto. Non è così sistematico. Anche per la curiosità che genera la qualità di cui parlavamo: non tutte le bambine che desiderano imparare il balletto diventeranno star dell'Opéra de Paris!

- A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappato?
  Al piacere. Il cibo, i profumi, gli odori, il cinema, la musica… E per andare verso il discorso che facevi, i piccoli piaceri. Quando taglio l'erba nel mio giardino, per l'odore dell'erba appena falciata sono felice per una settimana intera. Adesso in questo momento ci sono le piante di fragola in fiore e si cominciano a vedere i primi frutti… vado a guardarle almeno cinque volte al giorno… o quando cominciano a formarsi i primi ravanelli… Ecco, questa è la mia risorsa. In qualsiasi stato d'animo, è la terra… le mani nella terra. Sai la parola "radicarsi"? In me ha un gran peso… Quando sono a quattro piedi a diserbare il mio giardino è una pura gioia per me.

- E la preghiera? Che posto ha?
  Il numero due, dopo la terra… Dopo il diserbare (dice ridendo, con l'ironia tagliente che lo connota). Ma se si vuole filosofare sul concetto, la terra è un legame forte con il cosmos…

- Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?
  Te l'ho detto, sono militante, una delle mie sfaccettature trasversali. E come lo sono nelle mie relazioni amicali, nel mondo della vita associativa - di cui mi occupo da decenni ormai - lo sono anche in politica. Non è proprio nella mia natura chiudermi fra quattro mura a piangere sul mio destino. Forse mi è stato trasmesso dalla mia famiglia materna. Non potrei mai far finta di niente…

- Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro? (Visto che ho sempre ripetuto questa domanda perché evidentemente è mal scritta, lo guardo e sto per chiedergli se vuole che la ripeta, ma lui parla prima di me)
  No, l'ho capita (dice con convinzione). Ma è una domanda che non mi riguarda.

- Perché? (Chiedo, pensando che l'abbia capita fin troppo bene).
  Sia per quanto riguarda la questione del mio bagaglio intellettuale che per quella della mia militanza, trovo che questa domanda ponga la questione dell'impegno civile, e a me sembra di essere in accordo con tutto ciò che mi circonda. Non ho affatto il sentimento di avere rimpianti per quello che ho fatto. In ogni caso non a causa della paura!

- E nel caso in cui assisti ad un assassinio e l'assassino ti vede, sa chi sei? Se non lo denunci quello reitererà il crimine, se lo denunci lui se la prenderà di certo con la tua famiglia.
  Allora, qui ci sono due questioni, quella che vale per me e quella che vale per gli altri. Per ciò che riguarda me, ti rispondo ancora che il dilemma non mi appartiene, perché sin da quando ero piccolino ho avuto l'impressione di essere stato vigliacco esclusivamente per delle cose che riguardavano solo me, mai per quelle che riguardavano gli altri.

- Quindi tu andresti a denunciare?
  Prendi dei casi di stupro. Li ho vissuti come confidente di persone che li hanno subiti e ho fatto il mio dovere, cioè li ho accompagnati per tutto il percorso fino a quando la cosa non è venuta fuori.

- Ma se qualcuno minacciasse…
  Gli stupratori non li ho conosciuti. Non ho mai vissuto un simile caso…

- Quindi non lo sai.
  No, non lo so, ma so che mi sono battuto…

- Ma se Simon Wiesenthal avesse detto che era stanco e che la caccia ai nazisti era troppo rischiosa?
  Ma veramente ho conosciuto Simon Wiesenthal, l'ho raggiunto a Vienna e l'ho intervistato. Sono delle persone con cui ho lavorato. Quindi, vedi, non ho questo sentimento di vigliaccheria rispetto al lavoro da farsi. Ho partecipato come ho potuto, ho creato delle associazioni, le ho sostenute, abbiamo fatto una raccolta fondi. Ho la sensazione di aver fatto il mio lavoro… Adesso se mi domandi cosa avrei fatto in una situazione fittizia in cui conosco lo stupratore…

- Non puoi farlo.
  Posso improvvisare un'ipotesi teorica… (riflette un po' e poi risponde quasi irritato) Tu mi chiedi in un certo senso di giudicare la vigliaccheria degli altri!

- Sì!
  E io non la giudico! È così. Ti faccio un esempio concreto che anima in questo momento vivacemente la comunità ebraica in Francia e nel mondo.

- Ma parliamo della Francia
  Io credo che la Francia nella sua interezza, oggi, sia antisemita (lo dice senza vittimismi, in un modo rassegnato e consapevole). Destra, sinistra, centro, indistintamente e a tutti i livelli. E allora, cosa ci faccio con questo? Ci sono tante strategie. In quanto vittima potenziale - perché se sono antisemiti la tappa seguente sarà che daranno legnate - o prendo la fuga, e fortunatamente oggi esiste uno stato in cui c'è posto - posso andare in Israele - o resto e resisto a questa malattia francese, o mi chiudo in me stesso e non frequento più le persone che trovo troppo antisemite, ma solo i miei amici e faccio una selezione… In ogni caso la questione di giudicare la vigliaccheria degli altri, mi sembra difficile. A volte lo faccio, in alcuni momenti. L'antisemitismo diffuso in Francia mi orripila… qualche volta avrei voglia di mandarli tutti a quel paese (ride)!

- Capisco (ridiamo insieme)!
  Ma se devo riflettere e scriverlo, per esempio, credo che non lo giudicherei. Prima di tutto perché so da dove viene, sono capace di analizzarlo.

- E da dove viene?
  Ah… ci vorrebbero delle ore per spiegarlo! La Francia è un paese meraviglioso, molto complesso e che produce anche delle cose brutte al tempo stesso. Per ciò che mi riguarda credo che mi asterrei dal giudizio, ma se la cosa diventasse insopportabile, me ne andrei.

- Ma se fanno del male a tua madre o a qualcuno che ami? Non giudicheresti comunque?
  Emozionalmente, forse, ma, quanto al resto, io non sono un giudice! Poi ci sono le leggi. Si applichino le leggi…

- Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell'omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni '30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia, e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?
  Strano… quando hai cominciato la domanda mi sono detto che se la persona in questione è uno storico che deve fare degli studi sul nazismo, perché no…

- No, affatto!
  È la questione che si pone oggi in Francia con la riedizione delle opere antisemite di Céline, che si è trasformata in una bagarre fra la comunità ebraica e le edizioni Gallimard. Ma se in questo caso è un ricordo di famiglia - confesso di non aver mai pensato a questo caso - è come se dei tedeschi avessero conservato delle medaglie di guerra della Seconda Guerra Mondiale…

- Ma il libro Mein Kampf non è una medaglia di guerra. Ha un suo contenuto ben specifico che ha provocato una catastrofe.
  Ma se questo amico è capace di parlarne, di spiegarlo ai suoi figli, se ne ha, o alle persone che hanno accesso alla sua biblioteca, se è capace di farne un discorso legato all'importanza della memoria, perché no? Altrimenti lo troverei criticabile. Se lo avessi davanti probabilmente discuterei animatamente e gli darei del "collabo" (si dice in francese di una persona che durante la Seconda Guerra Mondiale ha aiutato i tedeschi nelle loro azioni)! Personalmente, penso che ci litigherei, ma, così, a distanza, emettere un giudizio…

- Allora lo trovi illegittimo.
  Ah no, non è una questione di legittimità. Oso proporla come questione di morale. Una cosa di questo genere è male. Male. L'invenzione della morale è molto utile in politica e serve a questo, nella relazione fra le persone. Tu personalmente cosa fai? Allevi i tuoi figli, li apri a tante cose, gli permetti di avere una vita bella e diventare delle belle persone, invece in questo caso si fa una cosa che è male: si danneggiano i propri figli sin da piccoli, e non se ne ha il diritto. È male. Tenere Mein Kampf nella propria biblioteca se non è per farne una critica è male.

- Poi un'edizione di Mein Kampf degli anni '30, senza apparato critico.
  Esattamente! Se lo proponi senza contesto critico, diventi un'idolatra di Mein Kampf. E in questo modo scegli: sei un "collabo". La differenza fra il giudizio e la militanza è proprio sedersi davanti a qualcuno e dirgli chiaramente: "quello che fai è male".

- Se non fossi te ma fossi un'altra persona e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po', con che parole descriveresti Norbert? Che descrizione ne daresti?
  Essendo la stessa persona che sono?

- Sì.
Allora suppongo che dovrei immaginare anche chi vorrei essere! (Ridiamo)

- Ecco, è molto filosofico!
  È strana come domanda.

- Che descrizione daresti di Norbert?
  (Riflette un po'). Non so, in genere quando incontro delle persone che non conosco faccio un po' come tutti. Le recepisco un po' con il linguaggio del corpo, vecchi, alti, curvi, dritti, e un po' con quello della parola, cos'hanno da dire…

- E tu che diresti di te?
  Ma… Di me? Dipende dai giorni… (Ridiamo insieme). Per il linguaggio del corpo, se sono vestito, andrebbe bene, senza vestiti un po' meno (ridiamo ancora). Per quello che riguarda la parola… non mi va sempre bene…

- E nel complesso?
  -…Ma penso che direi bello (Ridiamo insieme. Il suo modo complessissimo di raccontare la realtà mi ha affascinato sin da subito)… e narciso! (Torna a ridere). No… però è vero che mi pare di non essere male per molti aspetti, non solo quello fisico. Può sembrare immodestia, ma ho imparato sin da giovane che girare attorno a ciò che si è, non serve a niente!

- Se non fossi Norbert, chi vorresti essere?
  Ah… è divertente! Non mi sono mai posto la questione… ho parlato di Alessandro Magno, ma non credo che vorrei essere Alessandro Magno: è morto troppo giovane (ride) e io ho voglia di vivere fino a vecchissimo. Le mie due nonne, entrambe del 1900, sono morte una a novantacinque e l'altra a novantotto. Gli uomini sono morti più giovani! (Ride). Anche se mio padre è morto a ottantanove anni, quindi c'è un progresso (ridiamo)… e poi trovo che i vecchi nella mia famiglia siano molto belli… e molto affascinanti.

- Domanda Personale. Che significato ha per te l'aggettivo "interreligioso"?
  Da principio, nessuno (ride). Perché non ci volevo neanche andare a queste riunioni! All'inizio non mi piaceva il modo in cui me ne avevano parlato per convincermi. Poi, sapendo che Geneviève (l'altro membro di confessione ebraica del gruppo che ho intervistato con Norbert) aveva fatto il mio nome, mi sono detto che volevo farle piacere… e che se mi aveva coinvolto, in qualche modo sentiva che la cosa mi avrebbe interessato. È partita così… poi mi sono appassionato al discorso che ha fatto uno dei preti cattolici presenti alla prima riunione di sessanta persone attorno a un tavolo, fra l'altro anche stupendomene, perché in genere sono convinto che tutto ciò che è bello è ebreo (ride divertito dalla frase che ci dice spesso per stuzzicarci affettuosamente)!

- Allora si può dire che per te il senso di "interreligioso" significhi direttamente "messa in pratica", visto che hai parlato subito della tua esperienza diretta.
  A sì… Fra l'altro l'interreligioso in assoluto non so neanche cosa voglia dire! Per me non è un'idea, ma un obiettivo. Un obiettivo sia religioso che politico. Politico nella misura in cui un'operazione simile permette alla componente musulmana del gruppo di arginare con argomenti validi i fanatismi nei quartieri a rischio del nostro comune. Se Kader (altro membro del nostro gruppo), che è il presidente della comunità musulmana locale, dice che è stato in visita alla sinagoga, ha un certo peso presso di essa, penso…

- Sì, in effetti ha un certo peso agli occhi della società civile. (Ed è anche un modo di lastricare il cammino verso la tolleranza, penso. Lui mi guarda con un sorriso aperto, luminoso, come se avesse letto nei miei pensieri).

(Pangea.nes, 8 maggio 2021)


Putin e Netanyahu si scambiano congratulazioni per l'anniversario della vittoria sui nazisti

"Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu si sono scambiati le congratulazioni in occasione del 76° anniversario della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica (Seconda Guerra Mondiale - ndr). Dal momento che il Giorno della Vittoria viene ricordato anche in Israele, il presidente della Russia ha chiesto di porgere gli auguri di buona salute e benessere ai veterani residenti in questo Paese", si legge nella nota del Cremlino.

Il testo sottolinea che Russia e Israele contrastano insieme i tentativi di revisione dei risultati della Seconda Guerra Mondiale, l'apologia del nazismo e la negazione dell'Olocausto.
Durante la conversazione, i due leader hanno inoltre analizzato le questioni internazionali d'attualità, "ponendo l'accento sui problemi della normalizzazione del conflitto siriano".
Putin e Netanyahu hanno anche rivisto l'agenda bilaterale e si sono dichiarati disposti ad intensificare la cooperazione commerciale ed economica tra i due Paesi.

(Sputnik Italia, 7 maggio 2021)


Gerusalemme, la Corte suprema israeliana decide su una causa dell'800 ed esplode la rivolta

Quattro famiglie palestinesi potrebbero essere evacuate se i giudici non accoglieranno il ricorso contro l'esproprio a favore di un'organizzazione ebraica che acquistò i terreni nel XIX secolo. La questione è diventata la miccia di scontri pesanti. Le Brigate Ezzedin al-Qassam minacciano. La Ue condanna l'autorizzazione a un nuovo insediamento abitativo tra la Città Santa e Betlemme.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Giornate all’insegna della tensione tra israeliani e palestinesi. Al centro degli eventi che potrebbero innescare un’escalation su tutti i fronti c’è Gerusalemme, dove da diversi giorni si assiste a scontri violenti tra manifestanti palestinesi e israeliani nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. Qui una controversia legale che si prolunga da oltre vent’anni sulla proprietà di alcune case, potrebbe giungere a una conclusione nei prossimi giorni, risultando nell’evacuazione di 25 persone appartenenti a quattro famiglie palestinesi. La Corte Suprema israeliana dovrà decidere lunedì se accettare il ricorso delle famiglie palestinesi, respinto finora in due precedenti gradi di giudizio, o confermare l’espropriazione delle abitazioni a favore di un’associazione israeliana che rivendica la proprietà dei terreni, acquistati dalla comunità ebraica locale alla fine del XIX secolo, intorno a un sito religioso identificato come la tomba di Simeone il Giusto. Ieri è fallito un tentativo di mediazione legale tra le parti, infiammando nuovamente il territorio e portando all’arresto di 15 manifestanti palestinesi da parte della polizia.
   Mohammad Deif, capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas e in cima alla lista dei terroristi ricercati da Israele, in un rarissimo messaggio pubblico ha avvertito Israele che “la leadership della resistenza al-Qassam sta osservando attentamente ciò che accade nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme occupata” si legge nella nota. “Questo è il nostro ultimo avvertimento: se l'aggressione contro la nostra gente non si ferma immediatamente, l'occupazione pagherà un prezzo pesante”. Due settimane fa erano stati lanciati nell’arco di 24 ore 40 razzi dalla Striscia Gaza sulle cittadine israeliane di confine, in seguito a scontri avvenuti a Gerusalemme tra palestinesi, manifestanti di estrema destra ebraica e polizia intorno alla porta di Damasco in città vecchia. Domenica un palestinese ha aperto il fuoco a una fermata dell’autobus nei pressi dell’insediamento ebraico di Itamar in Cisgiordania, ferendo tre giovani, di cui uno deceduto mercoledì. Nelle operazioni di ricerca dell’attentatore nell’area di Nablus, ci sono stati scontri tra l’esercito israeliano e la popolazione locale, portando all’uccisione di un ragazzo palestinese. Il livello della tensione è il più alto a cui si assiste negli ultimi anni. E il nodo continua a essere Gerusalemme, dove l’allerta è alta in vista delle migliaia di fedeli che oggi parteciperanno alla preghiera per l’ultimo venerdì di Ramadan alla Moschea di Al Aqsa. Lunedì inoltre, in concomitanza con Eid al-Fitr, le celebrazioni solenni per le ultime giornate del Ramadan, ricorre anche il Giorno di Gerusalemme, in cui Israele indica i 54 anni “dall’unificazione della capitale unica e indivisibile”, la cui parte orientale fu annessa a quella occidentale dopo essere stata conquistata dalla Giordania in seguito alla Guerra dei sei giorni, nel 1967.
   L’Unione Europea ha condannato la ripresa della violenza, invocando calma e moderazione delle parti. Nello stesso comunicato, Peter Stano, portavoce per gli affari esteri e di sicurezza dell’UE, ha condannato anche l’autorizzazione da parte d’Israele alla costruzione di 540 nuove unità abitative nel quartiere di Har Homa, che, minacciando la continuità territoriale tra “Gerusalemme Est e Betlemme, minerebbe gravemente futuri negoziati verso una soluzione a due Stati”, si legge nella nota.
   Ieri il ministero degli Esteri israeliano ha convocato gli ambasciatori di diversi Paesi europei (Spagna, Svezia, Regno Unito, Belgio, Olanda, oltre che all’ambasciatore dell’UE) a seguito della pubblicazione di un’inchiesta dei servizi di intelligence dello Shin Bet che ha rivelato un meccanismo che negli anni ha consentito il trasferimento di fondi umanitari europei al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pflp), definito organizzazione terroristica dall’UE. Nell’ambito dell’inchiesta, Israele ha arrestato quattro palestinesi – tra cui una donna con cittadinanza spagnola - membri del Pflp che lavoravano per la Ong Health Work Committees. Secondo le accuse, la Ong era utilizzata per convogliare illegalmente fondi europei al Pflp, attraverso progetti umanitari fittizi, risultati in milioni di dollari arrivati a finanziare le attività dell’organizzazione terroristica. Nel 2019, il direttore amministrativo del Pflp era stato arrestato per l’omicidio della diciassettenne israeliana Rina Shnerb.
   La tensione a Gerusalemme va inquadrata anche nell’ambito del recente annullamento delle elezioni palestinesi. La settimana scorsa, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato definitivamente il rinvio – a data da definirsi – delle prime legislative in quindici anni, che si sarebbero dovute tenere il 22 maggio. Abbas ha giustificato la mossa con l’impedimento posto da Israele a svolgere le elezioni anche a Gerusalemme Est. Tuttavia, Israele non si era espressa in merito e in passato (1996, 2005, 2006) la votazione era stata possibile anche da Gerusalemme. In un incontro con gli ambasciatori di 13 Paesi europei in Israele il 28 aprile – un giorno prima dell’annuncio di Abu Mazen – Alon Bar, capo della divisione politica del ministero degli Esteri israeliano, aveva chiarito che “Israele non sta cercando di impedire le elezioni palestinesi e si aspetta che i Paesi europei non prestino attenzione alle accuse mosse da funzionari palestinesi in merito”. Anche stando agli analisti palestinesi, l’annullamento dell’atteso appuntamento elettorale è legato alla perdita dei consensi da parte dell’86enne presidente palestinese e dall’emergere di nuove fronde interne al suo partito, Fatah, frammentatosi in tre liste concorrenti, in aggiunta a quella degli arcirivali di Hamas. Da Gaza, Hamas ha condannato la decisione di Abu Mazen e ora entrambe le fazioni cavalcano l’ondata delle proteste a Gerusalemme per conquistare consensi tra un’opinione pubblica palestinese sempre più alienata dalla politica locale.

(la Repubblica, 7 maggio 2021)


L'Ue paga terroristi palestinesi

Il ministero degli Esteri israeliano ha convocato gli ambasciatori dei principali Paesi europei, dopo che una inchiesta dei servizi di sicurezza dello Shin Bet ha rivelato che fondi umanitari europei sono stati trasferiti al Fronte popolare di liberazione della Palestina (Pflp), organizzazione riconosciuta in Europa come gruppo terroristico. Israele chiede che i trasferimenti di fondi vengano congelati verso quelle istituzioni raccolgono fondi per i terroristi.

(Libero, 7 maggio 2021)


Chi sono Lapid e Bennett, che tentano di porre fine all’era Netanyahu

Il centrista Lapid chiama l’uomo in ascesa nel centrodestra Bennett. Israele verso il primo governo senza Netanyahu dopo 12 anni? La strada è in salita e si incrocia con quelle dei nuovi equilibri nella regione e delle elezioni per la più alta carica dello Stato.

di Gabriele Carrer

“Sarebbe un po’ come se Donald Trump venisse estromesso a favore di Ted Cruz, il tutto come parte di un accordo con Joe Biden”. Lo spietato paragone è firmato da Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Walla News e firma di Axios, che in questi giorni si conferma una delle migliori fonti di notizie e analisi sulla politica israeliana, ancora alla ricerca di una via d’uscita dopo le elezioni del 23 marzo scorso (le quarte in due anni).
    Dopo che il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu (il più longevo nella storia del Paese, al potere dal 1996 al 1999 e poi ininterrottamente dal 2009 a oggi) ha rimesso il mandato esplorativo, il presidente Reuven Rivlin ha incaricato Yair Lapid, a capo di Yesh Atid, di formare un nuovo governo.
    Il leader centrista può contare su 56 seggi su 120 e ha tempo fino al 2 giugno prossimo per trovarne almeno altri cinque decisivi per assicurarsi la maggioranza alla Knesset. I suoi negoziati sono ripartiti da dove si erano interrotti quelli di Netanyahu, fermatosi a 59 seggi: da Naftali Bennett, imprenditore tech diventato kingmaker del centrodestra, con cui il primo ministro uscente non ha trovato un accordo, anche a causa delle scorie tra i due che avevano coinvolto anche la first lady Sara Netanyahu.
    Lapid e Bennett sperano di riuscire a raggiungere un’intesa già nei prossimi giorni. Il leader di Yesh Atid si è detto anche disposto a lasciare al numero uno di Yamina il primo turno di rotazione alla guida del governo per subentrare a metà mandato (cioè dopo due anni).
    Ma nel partito di Bennett si conta già una defezione: quella di Amichai Chikli, che ha annunciato che non sosterrà un governo di coalizione con i socialdemocratici di Meretz e gli arabi della Lista unita sottolineando che gli elettori del Likud sono “fratelli”. E dal fronte pro Netanyahu è forte il pressing sulla numero due di Yamina, Ayelet Shaked. Nei giorni scorsi ha ribadito il suo sostegno agli sforzi di Bennett ma Channel 12 ha rivelato una telefonata in cui, pur definendo Netanyahu “un tiranno”, spiegava che un patto con lui sarebbe comunque meglio di un’“assurda coalizione” con la sinistra.
    Se Lapid non riuscisse a formare un governo, allora l’ipotesi di un ritorno alle urne sarebbe sempre più concreta. E ciò permetterebbe a Netanyahu di rimanere primo ministro e di allontanare il processo per corruzione.
    Ma la formazione di un governo israeliano è un processo che si va intrecciando con altri due. Il primo è esterno: il riassetto delle forze dopo gli Accordi di Abramo con l’arrivo di Joe Biden a Washington e in vista di un possibile ritorno degli Stati Uniti al dialogo con l’Iran. Il secondo è interno: l’elezione del presidente, carica che ha storicamente scarse funzioni di potere. Il mandato di Rivlin scadrà il 9 luglio prossimo e la legge prevede che le votazioni si tenga da 90 a 30 giorni prima di quel giorno. Cioè entro e non oltre il 9 giugno, esattamente una settimana dopo la scadenza del mandato esplorativo di Lapid. Le trattative politiche in corso, dunque, non possono che interessare anche l’elezione della più alta carica della Stato, con le candidature che vanno presentate (con il sostegno di almeno dieci membri della Knesset) due settimane prima del voto.

(Formiche.net, 7 maggio 2021)


Yiddish, il ritorno agli antichi splendori grazie a Google

di Edoardo Amati

Poco prima della Seconda Guerra Mondiale 11 milioni di ebrei parlavano Yiddish, la maggior parte di essi vivevano in Europa dell’Est; con le deportazioni i pogrom e le emigrazioni verso gli Stati Uniti ed Israele, il numero di persone che praticano questo idioma è calato notevolmente, portando quasi verso l’estinzione questo dialetto. Ad oggi, solo 3 milioni la utilizzano quotidianamente – rimane sempre la lingua degli Ebrei dell’Europa dell’Est, quella che troviamo nei libri di Asimov, di Singer, quella utilizzata dai comici americani come Allen, oppure quella che ha tenuto incollati milioni di telespettatori su Netflix, appassionati della serie Shtisel, oggi l’yiddish grazie alla tecnologia presto potrà vedere nuovo splendore.
   È infatti grazie a Google che lo scorso 5 maggio è stato lanciato un nuovo strumento che ha proprio come scopo preservare questo dialetto. Il servizio pensato dal gigante di Mountain view, è denominato Woolaroo è un’app web di traduzione di foto open source che sfrutta l’apprendimento automatico e il riconoscimento delle immagini per aiutare a preservare proprio le lingue che stanno scomparendo. Il suo funzionamento è molto intuitivo: l’utente deve solo puntare la fotocamera del proprio telefono su un oggetto per fare in modo che l’intelligenza artificiale lo riconosca e lo descriva in una data lingua, completa di pronuncia.
    Chissà che proprio l’azienda fondata da due nipoti di emigrati ebrei di origine russa potrà contribuire a riportare allo splendore il dialetto parlato nei villaggi dei loro bisnonni.

(Shalom, 7 maggio 2021)


Alla riscoperta delle tradizioni askenazite nell’erboristeria

di David Fiorentini

Deatra Cohen, studentessa di scienze erboristiche, stava studiando per il suo prossimo esame, quando il suo insegnante le ha assegnato quello che sembrava un compito semplice: fare un reportage delle cure erboristiche tipiche della sua cultura.
    Tuttavia, il progetto si rivelò tutt’altro che semplice. Bibliotecaria in pensione, Cohen era abile a navigare nei database e setacciare gli archivi. Ciononostante, non riuscì a trovare quasi nessuna traccia di tradizioni erboristiche su cui i suoi antenati, gli ebrei ashkenaziti, avrebbero fatto affidamento.
    Dunque, frustrata dal suo iniziale fallimento, ha intrapreso un percorso di ricerca e approfondimento, durato oltre tre anni, culminato nel 2021 con la pubblicazione di “Ashkenazi Herbalism: Rediscovering the Herbal Traditions of Eastern European Jews” (editore North Atlantic Book).
    Parte guida botanica e parte storia popolare, il libro redatto insieme al marito, Adam Siegel, riscopre l’eredità dimenticata dei guaritori ebrei che hanno prosperato nell’Europa orientale, ideando cure naturali e interagendo con leader religiosi, sciamani e ostetriche che fornivano assistenza medica alle comunità ebraiche.
    Raccogliere quella informazioni però fu una grande battaglia. Gran parte della conoscenza popolare ashkenazita fu distrutta nell’Olocausto, dunque la coppia dovette accontentarsi solamente di fotografie tratte da database della Shoah, memorie legate ai rimedi dei loro genitori e scoperte della spedizione An-Ski, uno studio etnografico che documentava la vita nella Zona di Residenza dal 1912 al 1914. La grande svolta è arrivata quando si sono imbattuti in un dizionario di erbe dell’era sovietica apparentemente irrilevante. Il testo non menzionava gli ebrei, ma quando Cohen e Siegel esplorarono la demografia delle città ucraine citate, scoprirono che la maggior parte aveva una percentuale di abitanti ashkenaziti molto elevata. Questo dimenticato studio governativo aveva inavvertitamente conservato la tradizione ebraica che i due scienziati stavano cercando.
    Alla domanda su quale scoperta la avesse sorpresa maggiormente, l’autrice ha risposto la vasta gamma di piante esotiche a cui la gente aveva accesso. Nel libro, sono incluse infatti la noce moscata, la cannella, lo zenzero e tantissime altre piante che nessuno si aspetterebbe di vedere tra Polonia e Ucraina.

(Bet Magazine Mosaico, 7 maggio 2021)


Fede terra terra

di Raphael Barki

Perché la Torah è stata donata al popolo ebraico solo dopo 50 giorni e non immediatamente, al momento dell’uscita dall’Egitto? Per creare un senso di subordinazione e di dipendenza totale dal Redentore, innescando così la fede, che è un prerequisito imprescindibile, certamente non intelligibile, per ricevere ed accettare le mitzvot. Rashì si chiede (Lev. 25:1): per quale motivo a rappresentare le mitzvot date in blocco sul monte Sinai (BeHar Sinai) c’è proprio quella dell’anno sabbatico? Perché questo precetto è legato alla Terra di Israele e il diritto alla Terra, il suo possesso, sono vincolati all’osservanza della Torà, come è scritto (Lev. 25:18-19): “metterete in pratica i miei statuti, osserverete le mie leggi e le applicherete e risiederete sulla terra con sicurezza. La terra darà il suo prodotto, mangerete a sazietà e risiederete su di essa con sicurezza.” La Torà si rivolge al popolo di Israele e sembra dirci quanto la storia ci dimostra e cioè che solo quando gli ebrei risiedono nella terra di Israele questa può dare i suoi frutti, sotto certe condizioni. Viene ripetuta per ben due volte la combinazione “vi-yshavtem … la-vetach” ( = risiederete … con sicurezza) come per sottolineare l’importanza della fede. Il Meshekh Chokhmà (opera completata circa vent’anni prima della rinascita dello stato di Israele) spiega che questa ripetizione è legata ai due fattori che alimentano l’ostilità nei confronti degli ebrei in Israele da parte di altre nazioni:
   1) la religione particolare che li contraddistingue;
   2) la ricchezza e il benessere, che sono fonte di invidia.
Sappiamo purtroppo che questa ostilità potrebbe diventare distruttiva se non ci fossero le garanzie appena menzionate. La fede in D-o e l’osservanza dei Suoi precetti da parte degli ebrei fanno sì che “‘ezram u-magghinam Hù” – Lui sia per loro di aiuto e scudo (Salmi 115:10). Forti del nostro credo, non dobbiamo temere di affrontare il “costo” dell’osservanza delle mitzvot come, ad esempio, il mancato profitto derivante dal divieto di coltivare la terra ogni sette anni, durante l’anno sabbatico. Non è necessario esagerare per emergere. D’altra parte il Sinai è stato scelto per il Matan Torah proprio perché è più basso degli altri monti. Per lo stesso motivo la Torà viene paragonata all’acqua: scende e si deposita alla base.

(moked, 6 maggio 2021)


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Badate che il paese non vi vomiti

Il collegamento fra terra e ubbidienza a Dio è fortemente radicato nella Bibbia. Al punto che la mancanza di ubbidienza può portare la terra santa ad avere una crisi di rigetto per gli abitanti che la calpestano e con il loro modo di vivere la contaminano. Nella Torà sta scritto, nel libro del Levitico, capitolo 18:
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo: 'Parla ai figli d'Israele, e di' loro:
  2. Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro.
  3. Non farete quel che si fa nel paese d'Egitto dove avete abitato, e non farete quel che si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, e non seguirete i loro costumi.
  4. Metterete in pratica le mie prescrizioni e osserverete le mie leggi, per conformarvi ad esse. Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro.
  5. Osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono l'Eterno.
  6. Nessuno si accosterà ad alcuna sua parente carnale per scoprire la sua nudità. Io sono l'Eterno.
  7. Non scoprirai la nudità di tuo padre, né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità.
  8. Non scoprirai la nudità della moglie di tuo padre: è la nudità di tuo padre.
  9. Non scoprirai la nudità della tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, sia essa nata in casa o nata fuori.
  10. Non scoprirai la nudità della figlia del tuo figlio o della figlia della tua figlia, poiché è la tua propria nudità.
  11. Non scoprirai la nudità della figlia della moglie di tuo padre, generata da tuo padre: è tua sorella.
  12. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è parente stretta di tuo padre.
  13. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è parente stretta di tua madre.
  14. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, e non t'accosterai alla sua moglie: è tua zia.
  15. Non scoprirai la nudità della tua nuora: è la moglie del tuo figlio; non scoprire la sua nudità.
  16. Non scoprirai la nudità della moglie di tuo fratello: è la nudità di tuo fratello.
  17. Non scoprirai la nudità di una donna e della sua figlia; non prenderai la figlia del figlio di lei, né la figlia della figlia di lei per scoprirne la nudità: sono parenti stretti: è un delitto.
  18. Non prenderai la sorella di tua moglie per farne una rivale, scoprendo la sua nudità insieme con quella di tua moglie, mentre questa è in vita.
  19. Non t'accosterai a donna per scoprir la sua nudità mentre è impura a motivo dei suoi corsi.
  20. Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con lei.
  21. Non darai dei tuoi figli ad essere immolati a Moloc; e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono l'Eterno.
  22. Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
  23. Non t'accoppierai con alcuna bestia per contaminarti con essa; e la donna non si prostituirà ad una bestia: è una mostruosità.
  24. Non vi contaminate con alcuna di queste cose; poiché con tutte queste cose si son contaminate le nazioni ch'io sto per cacciare dinanzi a voi.
  25. Il paese ne è stato contaminato; ond'io punirò la sua iniquità; il paese vomiterà i suoi abitanti.
  26. Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni, e non commetterete alcuna di queste cose abominevoli; né colui ch'è nativo del paese, né il forestiero che soggiorna fra voi.
  27. Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che v'era prima di voi, e il paese n'è stato contaminato.
  28. Badate che, se lo contaminate, il paese non vi vomiti come vomiterà la gente che vi stava prima di voi.
  29. Poiché tutti quelli che commetteranno alcuna di queste cose abominevoli saranno sterminati di fra il loro popolo.
  30. Osserverete dunque i miei ordini, e non seguirete alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati seguiti prima di voi, e non vi contaminerete con essi. Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro'.
Forse oggi il pericolo maggiore per Israele viene dall’interno, più che dall’esterno. M.C.

(Notizie su Israele, 7 maggio 2021)


Noemi Di Segni è la vincitrice del Premio Exodus 2021

La presidente dell'Unione comunità ebraiche italiane verrà premiata nell'ambito di un'edizione che si limiterà ancora al collegamento online. Menzione speciale a Daniele Tommaso per il documentario "Terra Promessa".

LA SPEZIA - Quest’anno l’amministrazione Peracchini non ha voluto rinunciare all’assegnazione del Premio Exodus 2020/2021 organizzando un’edizione on line che potrà essere seguita attraverso tutti i canali social del Comune della Spezia. Il conferimento del Premio a Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e la menzione speciale a Daniele Tommaso, purtroppo scomparso di recente, sono stati proposti al sindaco della Spezia Pierluigi Peracchini dal Comitato scientifico del Premio Exodus, nella persona di Marco Ferrari, giornalista e scrittore.
   Noemi Di Segni, nata a Gerusalemme il 24 febbraio 1969, dal luglio 2016 ricopre la carica di Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Coordinatrice dei rapporti internazionali dei commercialisti, nata a Gerusalemme e romana di adozione, Noemi Diegni è stata per quattro anni assessore al Bilancio dell’Ucei e dal 2016 ne è diventata presidente.
   "Il Premio Exodus – ha dichiarato il sindaco Peracchini - è parte del Dna della Città della Spezia, e sebbene siamo stati costretti a rimandarlo nel 2020 a causa del Covid-19, recuperiamo quest'anno con il contributo di Noemi Di Segni, Presidente dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane e un tributo al regista Daniele Tommaso, recentemente scomparso proprio a causa di questa terribile pandemia. Due eventi online complementari ma determinanti per diffondere e promuovere la cultura della solidarietà e dell'accoglienza che hanno sempre contraddistinto la nostra Città, Porta di Sion: il 13 maggio abbiamo dato il Patrocinio alla proiezione online del film di Daniele Tommaso Terra promessa che a causa della pandemia non ha potuto trovare spazio di distribuzione, mentre il 25 maggio, in streaming, sarà premiata Noemi Di Segni con il Premio Exodus e con un tributo al regista, menzione speciale 2020/2021, che nel suo ultimo film ha focalizzato l'attenzione proprio sull'esodo ebraico dal territorio spezzino. Un sentito ringraziamento a Marco Ferrari che ci è sempre al fianco a supporto del Premio Exodus."
   “E’ un’edizione particolare quella del Premio Exodus di quest’anno - ha dichiarato Marco Ferrari ideatore del Premio - perché segnata dalla pandemia, ma anche dalla prematura perdita di Daniele Tommaso che, con il suo film, ha ripercorso le tappe della migrazione ebraica ed in particolare in ruolo svolto dalla comunità spezzina nel dopoguerra quando ben 25 mila ebrei partirono da qui per raggiungere la Terra dei Padri. La Lectio Magistralis di Noemi Di Segni darà continuità d’intenti a una iniziativa che non vuole essere solo un premio, ma un segno identitario della città. Per questo, a mio giudizio, occorrerebbe far conoscere di più alle scuole i motivi che hanno portato la città della Spezia ad essere insignita della medaglia d’oro al merito civile per l’aiuto prestato ai profughi ebrei.”
   Noemi Di Segni ha così accolto il riconoscimento del Premio Exodus 2020/2021: “È con grande sorpresa e commozione che ho appreso di ricevere questo riconoscimento e non posso che apprestarmi ad agire da tramite per attribuirlo idealmente a chi ho conosciuto attraverso racconti di famiglia, pagine dei libri di storia e documenti, a che si è prodigato per la salvezza altrui, fisica e spirituale e a tutti coloro che hanno saputo diffondere i valori della solidarietà e dell’amicizia tra i popoli, proseguendo l’agire illuminato di quei cittadini spezzini che subito dopo la guerra scelsero di soccorrere e sostenere i superstiti della Shoah, che anelavano di raggiungere la Terra d’Israele. E’ per conto loro che sono qui presente. Questo premio rappresenta altresì un legame ideale congiunge Israele e La Spezia, terre di millenaria memoria - Il popolo d’Israele e La Spezia sono uniti dal passato, guardano al futuro insieme, anche forti delle tante iniziative organizzate insieme in questi anni, con le Comunità ebraiche.”
   “È con grande commozione che riceviamo la menzione Speciale del Premio Exodus per il documentario “Terra Promessa” girato da mio marito Daniele Tommaso, scomparso lo scorso aprile dopo aver combattuto a lungo contro la malattia", ha dichiarato Letizia Monti Tommaso. "E’ motivo di grande onore ricevere un tale riconoscimento e a nome della mia famiglia ci tengo a ringraziare il sindaco Pierluigi Peracchini e la Città della Spezia. Uno dei momenti più toccanti del documentario è proprio il racconto della straordinaria solidarietà e umanità dimostrata nel 1946 dai cittadini spezzini che accolsero e sostennero con tutti i mezzi a disposizione i sopravvissuti della Shoah che, scesi in Italia, desideravano salpare alla volta della Terra Promessa nonostante il blocco imposto dalle autorità britanniche. Un tale esempio di umanità e fratellanza deve essere ricordato in particolare in una fase così complessa come quella attuale in cui rigurgiti antisemiti, discriminazione ed episodi di violenza sono sempre più frequenti. Come Daniele sperava, desideriamo che questo documentario possa contribuire a seminare un sentimento di solidarietà, di umanità e rispetto reciproco tra i popoli”.

(Città della Spezia, 6 maggio 2021)


Israele riapre ai gruppi di turisti provenienti da 14 Paesi, Italia inclusa

Israele conferma l’apertura ai gruppi organizzati di turisti stranieri, provenienti da 14 paesi e a cominciare dal prossimo 23 maggio. Si tratta di Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Malta, Islanda, Danimarca, Irlanda, Portogallo, Nuova Zelanda, Australia, Singapore, Hong Kong e agli Stati Uniti
    Prima del viaggio, come si legge dal The Times of Israel, è richiesto un test Pcr negativo e all’arrivo i viaggiatori dovranno sostenere un secondo test Pcr e un test sierologico. I gruppi turistici saranno accompagnati da guide e autisti vaccinati.
    Inizialmente, come sottolineato dal ministro del turismo Orit Farkash-Hacohen, potranno entrare solo i gruppi di turisti, accompagnati da guide e autisti vaccinati. Israele prevede di espandere l’ingresso per i turisti nei prossimi mesi e potenzialmente di accogliere i viaggiatori individuali dal mese di luglio.

(Travel Quotidiano, 6 maggio 2021)


Israele senza governo, incarico a Lapid

È presto per decretare la fine di «Bibi» dopo 12 annidi governo. Netanyahu, vincitore delle elezioni, rimette il mandato dopo 28 giorni di stallo. Il leader di opposizione studia un esecutivo a rotazione con il «falco» Bennet.

di Roberto Bongiorni

Ancora una volta la prima scelta era ricaduta su di lui, Benjamin Netanyahu, il premier dalle sette vite; dopo le elezioni del 23 marzo - le quarte in due anni - aveva ricevuto il mandato per formare un nuovo Governo. E ancora una volta, l'inossidabile Bibi, il primo ministro più longevo nella storia di Israele, non ci è riuscito.
    Dopo i 28 giorni previsti dalla legge per le consultazioni, Bibi ha «restituito il mandato». In uno stallo che dura da troppo tempo, il presidente della Repubblica Reuven Rivlin ha rotto subito gli indugi. Toccherà a Yair Lapid, l'astro nascente dell'opposizione, provare a mettere insieme almeno 61 parlamentari di diversi partiti, in modo da avere così una maggioranza in Parlamento e formare quindi un Esecutivo.
    Sarà davvero lui, 57 anni, entrato in Parlamento nel 2013 dopo una lunga carriera giornalistica coronata da successi, a metter fine al regno di Netanyahu?
    Lapid l'ha spuntata su Naftali Bennet, il falco ribelle, l'ex uomo di fiducia del Likud, il fondatore di una sua formazione politica ancora più a destra (Yamina) che ha fatto di tutto per non cedere alle lusinghe di Bibi e formare un Governo di rotazione insieme a lui.
    Il partito di Lapid, Yesh Atid , ha ottenuto 17 seggi alle ultime elezioni di marzo. E nonostante siano poco più della metà rispetto a quelli ottenuto dal Likud, il partito conservatore di Netanyahu, Yesh Atid è la seconda forza del Paese.
    Il partito di Bennet, Yamina, creato da una costola del Likud, ha raccolto solo sette seggi. «La mia considerazione principale - ha spiegato il presidente Rivlin - si è basata su chi ha la probabilità più elevata di riuscire ad ottenere la fiducia alla Knesset. Lapid ha questa possibilità, sia che sia lui a presiedere il Governo o un altro candidato in un Esecutivo in cui però sia il premier alternato». Rivlin - che in mattinata ha visto sia Lapid sia Bennett - ha poi spiegato che anche il leader di Yamina Bennet «è interessato ad un Governo stabile e non ha escluso un governo di Lapid».
    Il problema per Lapid è ottenere quella maggioranza che in una sinistra più divisa che mai, e in un centro ancora in cerca di una vera identità, è difficile da raggiungere. Lapid ha già ottenuto l'appoggio di 56 parlamentari. Un risultato notevole. Avrebbe comunque bisogno dei 7 seggi di Yamina. Ecco perché Lapid e Bennet starebbero prendendo in seria considerazione il progetto di creare un Governo a rotazione, in cui Bennet sarebbe premier nei primi due anni e Lapid negli altri due.
    Le intenzioni sono buone. Ed è già un buon punto di partenza. Tuttavia mettere insieme sette partiti politici, dalla sinistra alla destra passando per il centro, ognuno con agende politiche diverse, a volte in conflitto, e per giunta con il sostegno di uno dei due partiti arabi, appare una sfida quasi impossibile.
    I precedenti non giocano in favore dei Governi a rotazione. L'ultimo Esecutivo di questo tipo era nato dalle elezioni del marzo 2020. Netanyahu doveva governare per 18 mesi da premier per poi passare il testimone per altri 18 mesi al suo rivale, Benny Gantz, fondatore del partito di centro Blu e Bianco. L'esperimento è durato molto poco. Il Governo di unità è naufragato sulla spinosa questione dei budget.
    È dunque davvero la fine di "Re Bibi"? È ancora prematuro dirlo. Dopo 12 anni consecutivi alla guida del Governo (e tre dal 1996 al 1999) un altro politico sarà presumibilmente nominato premier. Netanyahu per ora resta il leader del primo partito del Paese, il Likud. I cui 31 onorevoli non si sono arresi e intendono presentare in Parlamento una legge che punta all'elezione diretta del premier, un argomento da sempre cavalcato da Netanyahu.
    Se la legge fosse approvata, Israele tornerebbe al voto - il quinto in meno di tre anni - per scegliere non più i partiti ma direttamente il premier. Bibi sarebbe il grande favorito nonostante il processo che lo vede imputato per tre casi di corruzione.
    Ma l'idea di un altro voto è vista come il fumo negli occhi dal presidente Rivlin. Il quale sa che Israele non può rimanere ancora orfano di un Governo. Senza un budget, in balia di conflitti regionali alle sue porte, e politicamente senza una voce forte davanti ai preoccupanti progressi dell'Iran nel processo di arricchimento dell'uranio.
    Israele ha bisogno di un governo stabile perché si trova in una regione molto instabile. L'ennesima conferma arriva dai missili lanciati martedì notte (e forse in parte intercettati) verso le città di Haffeh, a Est del porto di Latakia (dove si trovano molti militari russi), e Masyaf, nella provincia di Hama nella Siria nordoccidentale. Secondo Damasco è stata Israele (che non ha confermato). Segno che la tempesta mediorientale ancora non si è calmata.

(Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2021)


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Israele, ora tocca a Lapid formare il governo. Verso la fine dell'era Netanyahu?

Il premier non riesce a formare il governo. Mandato affidato al capo dell'opposizione che, con Yesh Atid, aveva ottenuto 17 seggi alle elezioni. Bennett, della destra nazionalista Yemina, con i suoi soli sette seggi potrebbe diventare premier a rotazione. Finirebbe così l'era Bibi che dura dal 2009.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Dopo che ieri a mezzanotte Benjamin Netanyahu aveva rimesso nelle mani del presidente Rivlin il mandato di formare un governo, la palla passa ora nel campo avversario: al termine di un breve giro di consultazioni, Rivlin questa sera ha affidato l'incarico a Yair Lapid, attuale capo dell'opposizione.
    Nel corso della giornata, il presidente aveva convocato i due principali papabili a ottenere l'incarico, Yair Lapid e Naftali Bennett, ognuno dei quali aveva indicato se stesso come prossimo premier in pectore. Lapid ha incassato 56 raccomandazioni, 11 in più rispetto al primo round di consultazioni un mese fa (si aggiungono ora i sei voti di Gideon Saar, ex ministro del Likud che ha rotto con Netanyahu mesi fa e cinque su sei dei voti della Lista Araba Unita).
    Con il suo Yesh Atid, Lapid aveva ottenuto 17 seggi alle ultime elezioni di marzo - le quarte in due anni. Seppur con uno margine significativo di 13 seggi dal Likud di Netanyahu, che ne aveva ottenuti 30, è lui ora a ricevere l'incarico per tentare di formare una maggioranza di 61 parlamentari e fare uscire il Paese dallo stallo politico che si protrae da oltre due anni.

 Bennett, ago della bilancia
   Per riuscire nell'impresa, dovrà però scendere a seri compromessi con Naftali Bennett, leader del partito della destra nazionalista Yemina. È lui che si rivela il vero protagonista di una svolta che potrebbe portare all'allontanamento di Netanyahu dalla presidenza del Consiglio dei ministri, una posizione che occupa ininterrottamente dal 2009.
    Bennett, 49 anni, che ha iniziato la sua carriera politica come capo dello staff di Netanyahu quando questi era capo dell'opposizione, negli ultimi mesi si è posto come ago della bilancia nelle trattative verso la formazione di un nuovo governo. I soli 7 seggi ottenuti alle ultime elezioni, insieme ai 4 del partito islamico Ra'am di Mansour Abbas, sono infatti critici per ognuno dei campi rivali, in quanto si tratta degli unici due partiti a non aver mai escluso la possibilità di allearsi con Netanyahu, così come con le opposizioni.
    Bennett ora potrebbe superare il maestro Netanyahu, considerato il mago indiscusso della politica israeliana, diventando, con i suoi 7 seggi, primo premier in un governo di rotazione con Lapid. Questa è infatti la base di un accordo raggiunto tra i due leader nelle settimane scorse. Per prepararsi a questa eventualità, Bennett negli ultimi mesi aveva fatto un repulisti nel partito, separandosi dalle frange più oltranziste che hanno trovato casa in "Sionismo Religioso" di Betzalel Smotrich.

 Il veto di Smotrich
   È stato proprio Smotrich a fare naufragare la possibilità di un nuovo governo Netanyahu, che per i 28 giorni della durata del suo mandato aveva cercato di trovare una maggioranza sostenuta, oltre che dagli alleati tradizionali della destra e dei partiti ultraortodossi, anche dal partito islamico Ra'am.
    Smotrich, mettendo il veto a un'alleanza con un partito che accusa di sostenere il terrorismo, ha bloccato questa possibilità facendo crollare il fragile castello delle alleanze di Netanyahu - che in questi giorni sta affrontando la fase dibattimentale del processo che lo vede imputato per corruzione.
    La legge israeliana consente ai parlamentari e al primo ministro di esercitare le proprie funzioni anche con un procedimento penale in corso, mentre questa prerogativa non è riservata a chi occupa un ruolo ministeriale.

 Le future mosse di Netanyahu
   Dopo l’annuncio del presidente, Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione in cui ha accusato Bennett di tradire l’elettorato di destra aderendo a un “governo di sinistra”. E non demorde, chiedendo a Bennett di ripensarci e di tornare a casa, formando un governo di destra che rispecchi la volontà della maggioranza degli elettori.
    Prima di sedersi ai banchi dell’opposizione, Netanyahu – che fino al giuramento di un nuovo governo rimane premier in carica – cercherà di giocare ancora una carta: frammentare il più possibile le già disomogenee anime del campo avversario.
    Lapid ha ora a disposizione 28 giorni per cercare di mettere d’accordo 9 formazioni che vanno dalle destre di Bennett, Saar e Lieberman – considerati più falchi di Netanyahu sul fronte nazionalista – alla sinistra progressista di Meretz e del Labour fino ai partiti arabi.

 Lo spettro di nuove elezioni
   Nei delicati equilibri che si sono venuti a creare, ogni voto è significativo e Netanyahu oggi ha già incassato una vittoria: uno dei 7 parlamentari di Bennett ha annunciato che non sosterrà un governo con i partiti di sinistra.
    Già in altre due occasioni, nelle tre tornate elettorali precedenti, Netanyahu si era visto soffiare l’incarico della formazione del governo, allora da parte di Benny Gantz. Tutte le volte, quando sembrava che la fine di un’era si avvicinasse, è riuscito a trovare una via di uscita e a mantenere la premiership.
    Per questo i commentatori politici sono ancora cauti nell’accostare la parola fine a Netanyahu, mentre lo spettro di quinte elezioni nei prossimi mesi rimane sempre presente.

(la Repubblica, 6 maggio 2021)


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Israele appesa a Bennett (o forse no)

Il leader fa pesare i suoi seggi e ottiene offerte ricche. Ma Bibi ha un piano

II premier israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo e come previsto il presidente Reuven Rivlin ha dato il mandato a Yair Lapid, leader di Yesh Atid, il secondo partito più votato alle elezioni del 23 marzo scorso. Lapid è disposto a tutto e finora i numeri dicono che avrebbe 58 parlamentari, dei 120 che siedono nella Knesset, pronti a sostenerlo. E' riuscito a mettere su un debolissimo carrozzone anti Bibi che copre uno spettro elettorale che va dalla sinistra alla destra. Molto di quello che succederà dipende da uno di questi partiti di destra, Yamina di Naftali Bennett che alle elezioni ha ottenuto sette seggi, meno della metà di quelli di Lapid. Un partito piccolo, che però sta spostando il futuro del prossimo governo israeliano.
   Bennett è stato corteggiato prima da Netanyahu, è un suo ex alleato e conosce bene il leader del Likud e nonostante Bibi gli abbia offerto la possibilità di un governo di unità nazionale con premiership a rotazione, Bennett non si è fidato e non ha voluto dare il suo sostegno alla coalizione del premier, che pure sarebbe molto più coerente con le idee del suo partito.
    Lapid ha fatto molto di più: gli ha offerto la premiership a rotazione ma gli ha anche detto che potrà fare lui, con i suoi sette seggi, per primo il premier. Bennett ha trovato il modo di contare (prendessero nota i partitini nostrani con grandi ambizioni), ha usato come vantaggio anche la sua grande conoscenza di Netanyahu, che è un po' il suo maestro, un po' la sua nemesi.
   Mentre Bennett stringe alleanze scombiccherate, il premier in carica sta cercando di usare un suo risicatissimo vantaggio: Netanyahu in queste settimane non ha corteggiato soltanto Bennett, ma anche i membri del suo partito. Alcuni hanno detto di non essere affatto contenti di un'alleanza con Lapid e che quindi voteranno contro. Un governo Bennett-Lapid ha già dei numeri strettissimi, la contrarietà dei membri di Yamina potrebbe quindi far fallire l'intera operazione. Bennett ha imparato molto da Netanyahu, ma forse non ha ancora superato il maestro.

(Il Foglio, 6 maggio 2021)


Israele e resilienza: ecco il boom delle Alyhot

di Ariela Piattelli

Sono sempre di più gli ebrei del mondo che aprono la pratica dell’Alyah. Nel 2020 c’è stato un aumento incredibile di domande, aumento che si registra anche nei primi mesi del 2021. Idealismo, Sionismo, opportunità, ricongiungimento con i propri famigliari, sono sicuramente ancora gli elementi che contribuiscono alla scelta degli Olim. Ma la pandemia ha provato che Israele è il paese della resilienza, «che ha saputo affrontare in modo virtuoso situazioni difficili, come la catastrofe del Covid - 19» spiega Arielle Di Porto, direttore del Dipartimento Alyah dell’Agenzia Ebraica in Israele. Le abbiamo chiesto di raccontare a Shalom cosa distingue i nuovi o aspiranti Olim rispetto a quelli del passato, in questo momento di grandi cambiamenti.

- Come mai c'è stato un incremento dell'Alyah in tutto il mondo ed in Italia così forte malgrado la pandemia?
   I fatti che Israele abbia avuto un sistema medico di livello altissimo e abbia gestito in modo esemplare la pandemia sono tra le ragioni che hanno determinato un incremento molto importante delle aperture delle pratiche per le Alyhot. Malgrado la pandemia e la chiusura delle frontiere nel 2020 hanno fatto l’Alyah 22.000 Olim da tutto il mondo. Alla componente Sionista che spinge chi apre la pratica per trasferirsi in Israele, si aggiunge sicuramente quella economica, visti i tempi di crisi. Adesso in Italia abbiamo un incremento del 25% delle richieste, e questo è dovuto alla pandemia ma anche e soprattutto a ciò che Israele ha dimostrato: ovvero di poter affrontare qualsiasi problema, qualsiasi crisi, persino una pandemia, un evento mondiale devastante, e quindi questa capacità di resistere e reagire motiva in qualche modo gli ebrei del mondo a fare l’Alyah. Alla componente sionista di chi vuole andare a vivere in Israele, si aggiunge una forte spinta data dalla resilienza del paese.

- Chi sono gli italiani che chiedono di fare l'Alyah, che età hanno?
   Il 58% degli italiani che aprono la pratica hanno più di 55 anni, il 10% sono tra i 18 e i 35 anni, il 22% sono bambini fino ai 17 anni. Rispetto a prima la media dell’età è aumentata. Si può dire che assistiamo ad una tendenza meno giovane rispetto al passato, ma questo è un fenomeno generale e non solo italiano. Questo perché è più facile partire quando si è pensionati, molti hanno figli o nipoti in Israele, ma anche in questo la pandemia, che ha colpito più duramente le fasce più deboli della società, dunque gli anziani, ha reso Israele un porto sicuro per queste persone.

- Come gestisce l’Agenzia Ebraica l'Alyah e cosa è cambiato in tempo di pandemia?
   Noi abbiamo il mandato del Ministero degli Interni di occuparci delle Alyhot, e l’Agenzia Ebraica lavora secondo le norme e le leggi israeliane. Secondo la Legge del Ritorno per fare l’Alyah bisogna dimostrare di andare in Israele per viverci, per rendere il paese “il centro della propria vita”, e non solo per prendere il passaporto. Questo è ciò che richiede Israele. I documenti che bisogna presentare devono corrispondere e ciò che vuole la legge, come accade in tutti gli altri Paesi, quando si chiede di prendere la cittadinanza. È assolutamente un nostro dovere verificare che chi chiede di fare l’Alyah voglia realmente vivere in Israele. Con la pandemia abbiamo fatto moltissimi cambiamenti, il Ministero degli Interni ci ha autorizzato a fare i colloqui dell’Alyah su Zoom. Abbiamo incrementato il personale per rispondere a tutte le richieste, lavoriamo sei giorni a settimana, sino alle 10 di sera. Israele in tempo di pandemia, malgrado la chiusura delle frontiere, ha permesso di entrare non solo agli israeliani ma anche agli Olim. Tutti gli ebrei pensano nella loro vita che di fronte ad uno scenario catastrofico, di pericolo, Israele rappresenti un rifugio, ed è esattamente così.

- Le difficoltà dell'iter, i documenti da produrre, i tempi lunghi per ottenerli, sono oggetto di critiche. Come stanno le cose?
   Noi facciamo di tutto per facilitare l’Alyah, ma i documenti vanno prodotti. Abbiamo tutti i mezzi per agevolare gli aspiranti Olim, abbiamo un global center che risponde in inglese, stiamo cercando di tradurre i documenti in italiano. Abbiamo un rappresentante a Roma, Hovav Bustan, che lavora, gira l’Italia per visionare i documenti e fare i colloqui. Mai si è pensato di chiudere la sede l’agenzia ebraica a Roma. Stiamo parlando di pochissimi documenti da produrre, che sono in confronto ad una scelta di vita?

- Ci sono casi di ritorno al paese di origine che denotano scelte non sufficientemente soppesate?
   Lo Stato d’Israele mette in conto che circa l’8% degli Olim tornino nei paesi di origine. E’ vero che alcuni vengono, prendono il passaporto, e vanno via. Lo Stato d’Israele ha bisogno dell’Alyah autentica, perché ogni Alyah porta prosperità allo Stato, quindi noi facciamo di tutto per facilitare l’iter.

- In una frase conclusiva quale è il tuo consiglio?
   L’Alyah non è una scelta facile. È una scelta che va ponderata, per cui bisogna prepararsi. E noi siamo qui per aiutare tutti quelli che vogliono farla.

(Shalom, 6 maggio 2021)


Israele investe nell’agrivoltaico

di Marco Dell'Aguzzo

L’agrivoltaico può rappresentare una soluzione per Israele: un paese soleggiato ma piccolo e densamente popolato, dove la disponibilità di terreni liberi è scarsa
Entro il 2030 Israele dovrà produrre il 30 per cento della sua energia da fonti rinnovabili. Per favorire il raggiungimento dell’obiettivo il paese sta allora testando le potenzialità dell’agrivoltaico – l’integrazione degli impianti solari con le attività agricole – attraverso l’installazione di pannelli sulle superfici dedicate alle coltivazioni o all’allevamento. Si tratta del primo progetto di questo tipo in Israele.

I PROBLEMI DI ISRAELE
L’agrivoltaico può effettivamente rappresentare una soluzione per Israele: un paese soleggiato ma piccolo e densamente popolato, dove c’è scarsa disponibilità di terre libere per le installazioni rinnovabili.

L’AGRIVOLTAICO È “MOLTO PROMETTENTE”
Yossi Abramowitz, uno degli esponenti principali dell’industria solare israeliana, aveva dichiarato a proposito che “in un paese piccolo come Israele, che è anche un’isola energetica e del cibo, dobbiamo essere molto efficienti nell’utilizzo della terra”. L’agrivoltaico “è molto promettente”, ha detto, perché permette di impiantare pannelli su terreni destinati anche ad anche scopi.

RITARDI SUL FOTOVOLTAICO
Israele ha iniziato a sfruttare l’energia solare circa settant’anni fa, attraverso impianti termici che permettevano di riscaldare l’acqua.
È stato invece più lento ad adottare il fotovoltaico, per la generazione di elettricità dall’energia solare, anche per la mancanza di tecnologie per lo stoccaggio energetico e per la necessità di modifiche all’infrastruttura di trasmissione dell’elettricità.

I VANTAGGI DELL’AGRIVOLTAICO
L’agrivoltaico può risolvere alcuni dei problemi del paese che hanno finora limitato l’adozione del solare fotovoltaico, portando gli impianti di generazione energetica più vicini ai centri abitati e di consumo e permettendo di utilizzare terreni già “occupati” da altre attività.
Bloomberg scrive che le stesse aziende agricole potrebbero trarre beneficio dall’agrivoltaico, sia perché i pannelli solari possono essere disposti in modo da ottimizzare le necessità di luce e ombra delle colture, sia perché gli impianti energetici possono costituire una fonte aggiuntiva di entrate.

L’AGRIVOLTAICO IN ITALIA
Di recente, in Italia, ENGIE ha annunciato la realizzazione di due parchi agrivoltaici in Sicilia, in collaborazione con Amazon. “Ci auguriamo che questa iniziativa possa diventare un modello e possa essere replicata da altre aziende”, aveva dichiarato in merito la sottosegretaria per la Transizione ecologica Vannia Gava.

GLI INVESTIMENTI DI ISRAELE
Israele investirà circa 3 milioni di dollari nella ricerca sull’agricoltura e provvederà ad una semplificazione burocratica per agevolare i processi autorizzativi per gli impianti e incentivare il settore privato.
Il progetto agrivoltaico nel paese è in una fase pilota, che dovrebbe durare quattro anni.

(Energia Oltre, 6 maggio 2021)


La lady di ferro che affrontò le sfide più dure

Premier d'Israele dal 1969 al 1974, seppe essere spietata dopo il massacro ai Giochi olimpici del 1972. Molto lungimirante, fu definita da David Ben-Gurion «il migliore uomo al governo.

di Alessandra Necci

Quando una donna vuole non solo partorire e allevare figli, ma essere qualcuno... è dura. Lo so per esperienza personale. Sei al lavoro e pensi ai figli che hai lasciato a casa; sei a casa e pensi al lavoro che non stai svolgendo. Si scatena una lotta dentro di te...». Sono parole di Golda Meir, straordinaria donna politica israeliana, che pure David Ben-Gurion ha definito «il miglior uomo al governo», mentre altri l'avevano ribattezzata «lady di ferro».

 MATRIARCA
   Vista in foto, Golda sembra più che altro una matriarca di stampo biblico, con la crocchia grigia di capelli, gli occhi intelligenti e malinconici, il naso che spicca sul volto, le rughe profonde, le scarpe ortopediche. Alcuni, infatti, l'hanno chiamata «la nonna d'Israele». Ma l'apparenza non deve ingannare, la signora è dotata di una tempra d'acciaio. Nel film di Steven Spielberg, Munich, che narra la tragica vicenda delle Olimpiadi di Monaco del 1972, durante le quali furono presi in ostaggio e uccisi atleti e allenatori israeliani da un commando palestinese, Golda si scorge per poco tempo. E lei, tuttavia, che nel film ordina l'operazione segreta poi nota come Collera di Dio, in base alla quale i terroristi devono essere uccisi a uno a uno.
    Nata il 3 maggio 1898 a Kiev, in Ucraina, Golda si chiama in realtà Mabovic o Mabovitz. Nel 1955 Ben Gurion, fondatore di Israele, le attribuirà il cognome Meir, che vuol dire "illuminato". La sua famiglia è povera: il padre è carpentiere, la madre casalinga, alcuni figli muoiono piccoli. Essere socialisti ed ebrei nella Russia dei pogrom non è facile. Nel 1903, il padre emigra negli Stati Uniti e la famiglia lo raggiunge, andando a vivere nel Wisconsin, a Milwaukee. Per Golda, che ha otto anni, si tratta di uno straordinario cambiamento. «L'America che ho conosciuto io - dirà - è un posto dove gli uomini a cavallo proteggono i cortei di lavoratori». Rimarrà molto affezionata agli Stati Uniti, di cui conserverà una visione permeata dallo spirito "pioneristico" di libertà e meritocrazia. Va a scuola, impara in fretta l'inglese, a quattordici anni si sposta a Denver dalla sorella maggiore.

 SIONISMO
   Alla fine del 1917 sposa Morris Meyerson, quindi si iscrive all'università e insegna in una scuola Yiddish; si interessa sempre più al sionismo, al femminismo, alla politica e al socialismo. Convince il marito a emigrare in Palestina nel 1921 e va a vivere in un kibbutz (come è noto, si tratta di un'associazione di lavoratori con proprietà in comune, lavoro obbligatorio e regole di tipo solidale). Ripenserà a quella fase come la migliore della sua vita; tuttavia deve poi trasferirsi a Gerusalemme perché Morris si è ammalato ed è nato il figlio Menahem. Nel 1926 viene al mondo la figlia Sarah. La Meir intanto diventa Tesoriere dell'Ufficio Generale della Federazione, quindi Segretario del Women's Working Council. Nel 1930 entra a far parte del Partito dei lavoratori israeliani. Durante la Seconda Guerra Mondiale si occupa dei profughi ebrei che vogliono emigrare clandestinamente in Palestina; subito dopo viene messa a capo del dipartimento politico dell'Agenzia Ebraica per la Palestina e delegata della World Zionist Organisation. Quando, il 14 maggio 1948, nasce lo Stato di Israele, Golda è fra coloro che hanno firmato la Dichiarazione di Indipendenza. «Appena firmato, scoppiai a piangere», dice ripensando all'Indipendenza americana studiata a scuola. Il suo impegno per Israele cresce; il matrimonio non regge di fronte al fatto che la politica, per lei, è al primo posto. Il marito morirà di infarto nel 1950 e per lei sarà un grande dolore, aumentato da un certo senso di colpa. Golda si sposta a Mosca come ambasciatore di Israele, poi nel 1955 viene eletta nel primo Parlamento israeliano e diviene Ministro del lavoro di Ben Gurion. Viene quindi mandata a dirigere gli Esteri ed è lei ad affrontare la crisi del canale di Suez. Ammalatasi, lascia gli Esteri, ma viene eletta Segretario generale del partito, quindi il 17 marzo 1969 Primo ministro di Israele. Carismatica, sanguigna, determinata, dotata di fortissima personalità e tagliente ironia, suscita plausi e dissensi. Molto vicina agli Usa e a Richard Nixon, favorisce l'immigrazione degli ebrei statunitensi; poi si trova ad affrontare la drammatica vicenda delle Olimpiadi di Monaco; quindi a gestire nel '73 l'attacco dello Yom Kippur da parte di Egitto e Siria. Israele sulle prime si trova in difficoltà, poi riesce a uscire dall'impasse; tuttavia le gravi critiche costringono Golda a dimettersi.

 L'EPILOGO
   La Meir tiene un ultimo discorso a Washington alla fine del '73, quindi decide di uscire di scena e ritirarsi a vita privata. Si dedica ai nipotini, alla stesura della propria storia, vede pochi amici. Muore l'8 dicembre 1978. Fra le molte frasi da lei pronunciate, una dice: «Io, quando so di poter cambiare le cose, divento un ciclone. E, quasi sempre, riesco a cambiarle. Ma quando so di non poter far nulla, mi rassegno». Una donna della sua statura e forza, tuttavia, ha contribuito a cambiare molte cose e raramente si è rassegnata.

(Il Messaggero, 6 maggio 2021)


“Elezioni palestinesi rinviate, Abu Mazen ha fatto un regalo a Israele”

Dialogo con Fawzi Ismail, rifugiato palestinese e presidente dell’Associazione Sardegna-Palestina: “I palestinesi speravano di superare l’attuale stallo politico e di sfidare l’occupazione. La maggior parte di loro ha chiaro cosa vuole: liberazione e diritto al ritorno. Ma questa leadership non ne è capace”-

di Chiara Cruciati

ROMA – La scorsa settimana il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen ha sospeso le elezioni legislative e presidenziali a data da destinarsi, generando rabbia e frustrazione tra il popolo palestinese. Ne abbiamo parlato con Fawzi Ismail, rifugiato palestinese, presidente dell’associazione Sardegna-Palestina e presidente dell’Unione delle comunità e delle organizzazioni palestinesi in Europa

- Quali pensi siano le ragioni dietro il rinvio?
   Già da metà marzo si prevedeva la sospensione. Abu Mazen ha citato la mancata risposta israeliana sul diritto di voto per i palestinesi di Gerusalemme. Ma è una scusa. I palestinesi avrebbero potuto votare in tanti modi diversi ma nessuna alternativa è stata presa in considerazione. È vero che non c’è stata una pressione da parte della comunità internazionale su Israele, ma il motivo è che non ne aveva alcun interesse: la Ue di facciata parla della necessità di votare, ma di fatto non vuole perché non sa chi vincerà. Ricordiamoci cosa accadde quando 16 anni fa vinse Hamas: l’Europa – come Ue e come singoli paesi – non ha riconosciuto il risultato. I palestinesi possono votare solo se i risultati piacciono all’esterno.
    In ogni caso le vere ragioni dietro la sospensione sono altre. Per capirle facciamo un passo indietro: queste elezioni erano state indette con un decreto presidenziale dell’Anp per legittimare le istituzioni palestinesi, oltre a essere una richiesta giunta da diverse parti, dagli Usa alla Ue e da alcuni paesi arabi filo-americani. Diverse organizzazioni politiche palestinesi hanno aderito per superare lo stallo politico e tantissimi palestinesi si sono registrati per votare: la prova di una necessità forte di cambiamento nei Territori occupati. Una necessità che, però, si sarebbe tradotta nella sconfitta di chi finora ha gestito gli Accordi di Oslo, ovvero Fatah e l’Anp. Per questo le elezioni sono state sospese.
    La seconda ragione della sospensione è interna al partito di Abu Mazen, Fatah: si sono presentate tre liste vicine a Fatah o di leader di Fatah che si sono candidati come indipendenti. Il successo elettorale di Abu Mazen non era affatto assicurato. Meglio, per loro, non votare. Se si pensa poi che come sono state indette con decreto presidenziale, allo stesso modo sono state rinviate, si capisce bene come manchino organi decisionali dell’Anp che siano indipendenti dalle volontà politiche.

- Andare al voto avrebbe influito in qualche modo sull’attuale stallo politico palestinese? E che effetti avrebbe avuto nei confronti dell’occupazione militare israeliana?
   I palestinesi della Cisgiordania e di Gaza erano entusiasti all’idea di votare, nella speranza di poter cambiare l’assetto politico attuale: a Gaza si sperava nella fine dell’embargo e in una maggiore libertà di movimento, in Cisgiordania di cambiare una classe politica corrotta e o status quo attuale anche nei confronti dell’occupazione militare. Si guardava alle elezioni non solo come un modo di trasformare la politica palestinese, ma anche come strumento di lotta all’occupazione militare israeliana, tanto più facendo votare anche Gerusalemme in aperta sfida a Israele, un modo per rendere responsabile anche la comunità internazionale. Non va poi dimenticato Israele, uno dei giocatori principali in questo senso, visto che nei Territori la presenza di un’occupazione militare impedisce di avere elezioni libere e indipendenti. La stessa presenza della cooperazione alla sicurezza tra Anp e Israele mina la possibilità di avere elezioni democratiche. Questo è molto demoralizzante per i palestinesi.

- Come è stata vissuta questa decisione dai palestinesi, sia nella Palestina storica che nella diaspora?
   Il 22 maggio dovevano esserci le elezioni del Consiglio legislativo dell’Anp, l’organo creato con gli Accordi di Oslo; il 31 luglio le presidenziali dell’Anp; e infine ci sarebbe stato il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese dell’Olp che dovrebbe rappresentare tutti i palestinesi sia in diaspora che in Palestina, al contrario del Consiglio legislativo che rappresenta solo i Territori occupati. Se nei Territori i palestinesi c’era entusiasmo, nella diaspora i palestinesi erano quasi indifferenti anche se vogliono modificare questa classe politica inefficiente e incapace di portare avanti le aspirazioni del popolo palestinese. Non erano comunque parte attiva, non potendo votare a nessuna delle elezioni (il Consiglio nazionale sarebbe stato formato da un accordo tra partiti). La nostra proposta, dalla diaspora, di far votare tutti i palestinesi, nei campi profughi, in Europa, in America, non è stata accolta. La delusione oggi è grande nei Territori: Abu Mazen ha fatto un regalo all’occupazione israeliana annullando le elezioni, soprattutto sapendo che Israele è in una fase molto critica visto che non si riesce a formare un governo dopo quattro elezioni in due anni. Abu Mazen ha dato una mano a Netanyahu.

- Tra i temi emersi in questi mesi, c’è stata la divisione della sinistra in quattro diverse liste. Qual è l’attuale condizione dei partiti della sinistra palestinese?
   Purtroppo la sinistra palestinese non è stata mai unita. Ci sono stati diversi tentativi in passato di formare coalizioni o per lo meno di cooperare, ma di fatto ci sono essenziali differenze politiche e ideologiche. Non c’è una visione unica della situazione politica attuale e di lotta tra i partiti della sinistra. Un esempio: mentre il Fronte popolare chiedeva un programma politico per formare la coalizione, altri volevano solo unire i candidati in una lista, partiti molto vicini alla linea di Abu Mazen e difficilmente definibili di sinistra. Altro esempio: la decisione di rinviare il voto è stata criticata dal Fronte popolare e dal Fronte democratico, ma non dal Partito del Popolo, da Fida e da Iniziativa Nazionale Palestinese che hanno accettato le ragioni del presidente di sospenderle. Ci sono vedute diverse e diverse linee politiche. Tutti i partiti di sinistra sono in crisi come lo è l’intera politica palestinese: se la sinistra fosse viva e attiva, non saremmo in queste condizioni. Mentre la gente lotta e continua a dimostrare coraggio e determinazione contro l’occupazione, non c’è una risposta politica puntuale a questa spinta da parte dei partiti politici, soprattutto di sinistra.

- L’Anp a differenza dell’Olp rappresenta solo una piccola porzione di palestinesi, quelli che vivono nei Territori occupati. In molti chiedono un ritorno forte dell’Olp, cosa ne pensi?
   Dagli Accordi di Oslo del 1993 in modo subdolo si è cercato di affossare l’Olp, piano piano, per sostituirla con l’Anp. Un fatto molto grave. Oggi l’Olp è stata messa da parte. Per 15-20 anni non c’è stata una seduta del Consiglio nazionale palestinese, nonostante sia riconosciuto da tutti i palestinesi come il loro unico rappresentante ovunque si trovino, in diaspora o nella Palestina storica occupata. L’Anp rappresenta solo i Territori occupati e non è una svista: Israele non riconosce il diritto al ritorno e dunque non riconosce i palestinesi in diaspora. Inoltre, a livello di comunità internazionale, oggi si parla di Stato palestinese e l’Olp non viene più nominata. Siamo di fronte a un dilemma: una parte di palestinesi parla di costruire uno Stato sotto occupazione, cosa abbastanza aberrante, ma la maggioranza dei palestinesi si sente ancora nella fase di liberazione nazionale.
    Questi due concetti della lotta palestinese non sono conciliabili: da una parte la liberazione e il diritto al ritorno, dall’altra la creazione di uno Stato fasullo che coopera con l’occupazione e che la protegge. Oslo è stato un accordo completamente a favore di Israele. Un aspetto straordinario della questione è che un popolo occupato deve garantite la sicurezza del popolo occupante. Penso non sia mai accaduto nella storia. Sono però abbastanza ottimista: i palestinesi non hanno mai smesso di lottare per i propri diritti, lo dimostrano le ultime settimane e gli ultimi mesi in cui stiamo assistendo alla ribellione dei palestinesi nei Territori. La stragrande maggioranza dei palestinesi in diaspora, inoltre, continua a rivendicare il proprio diritto al ritorno, un risultato fattibile con una leadership politica capace.

(Nena News, 5 maggio 2021)


Jaguar: il robot che sorveglia i confini di Israele al posto dei soldati

Un robot rivoluzionario sviluppato dall’IDF e dall’IAI sta cambiando il modo in cui Israele protegge i suoi confini 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana.

Un sistema robotico semi-autonomo sorveglia il confine tra Israele e Gaza per identificare e contrastare le attività terroristiche.
Il robot, chiamato “Jaguar” per la sua manovrabilità, è uno dei primi robot militari al mondo in grado di sostituire i soldati da combattimento ai confini di Israele e rendere l’IDF un esercito più efficiente e tecnologicamente avanzato.
“Jaguar” è dotato di una mitragliatrice MAG da 7,62 mm in grado di fare fuoco sia a veicolo fermo che in movimento. Il robot utilizza telecamere ad alta risoluzione, trasmettitori, potenti fari e un sistema di altoparlanti.
Inoltre, ha la capacità di autodistruggersi se cade nelle mani del nemico.
L’aspetto più singolare della “Jaguar” è il suo sistema semi-autonomo: il robot possiede la capacità di guidare autonomamente verso una determinata destinazione, sa come individuare e aggirare ostacoli e dossi utilizzando sensori e un sistema di guida avanzato, il tutto mentre osservatori e comandanti dell’IDF hanno il pieno controllo operativo.
    Zvi Yarom, Direttore Generale della Divisione Sistemi Terrestri dell’IAI, ha dichiarato: “L’IAI è orgogliosa di fornire all’IDF alcune delle tecnologie più avanzate al mondo. La Land Systems Division dell’IAI fornisce una gamma di prodotti multidominio per collaborare con le forze di terra, in modo che i comandanti abbiano le informazioni necessarie per prendere decisioni ”.
    “Abbiamo guidato uno sviluppo tecnologico rivoluzionario – un robot indipendente che riduce l’attrito del soldato combattente con il nemico e previene i rischi per la vita umana”, ha osservato il tenente colonnello Nathan Kuperstein, capo dell’autonomia e della robotica della divisione tecnologia terrestre dell’IDF. “Sa anche ricaricarsi da solo, quasi come un iRobot”. Ha concluso: “non c’è orgoglio più grande che difendere il proprio Paese”.
(Ares Osservatorio Difesa, 5 maggio 2021)


Berlino mette al bando un'associazione umanitaria musulmana

Le sovvenzioni a progetti di costruzione di ospedali e orfanotrofi in Africa e in Siria erano solo una copertura, i soldi servivano per alimentare le casse dei jihadisti

di Giulia Maini

Il governo tedesco ha messo al bando l'Ong musulmana Ansaar International accusandola di finanziare il terrorismo islamista sotto la copertura delle sue opere di beneficenza. Dopo una serie di perquisizioni nella sede di Dusseldorf dell'organizzazione, sarebbe venuto fuori che i soldi raccolti dall'associazione servivano per alimentare le casse di gruppi terroristici quali la milizia jihadista siriana Jabhat al-Nusra, che è stata assorbita dalla milizia Hajat Tahrir al-Sham, o il movimento islamista palestinese Hamas nella Striscia di Gaza e Al-Shabaab in Somalia e non per sovvenzionare progetti di costruzione di ospedali e orfanotrofi delle vittime musulmane e cristiane di Boko Haram in Africa e nella città siriana di Aleppo, che invece affermavano. Steve Alter, portavoce del ministro dell'Interno Horst Seehofer, tramite un tweet ha definito necessaria la messa al bando dell'Ong e di diversi sottogruppi che fanno riferimento ad essa perchè "se si vuole contrastare il terrorismo, bisogna prosciugare le sue fonti di denaro".
    Il bando di Ansaar International, fondata dal rapper tedesco e convertito musulmano Joel Kayser, è entrato in vigore questa mattina ed è stato accompagnato da perquisizioni e sequestri di case e garage in dieci regioni della Germania. Tuttavia, la maggior parte delle persone arrestate risiedeva nel Land della Renania settentrionale-Vestfalia, proprio dove si trova la sede centrale di Dusseldorf. Come riporta Euronews, l'Ong, creata nel 2012, era profondamente religiosa il focus dell'accusa del ministero dell'Interno è che "diffondeva una visione del mondo salafita e finanziava il terrore con il pretesto di aiuti umanitari". I sospetti verso Ansaar International sono iniziati nel 2019, quando la polizia fece irruzione nei suoi uffici e in quelli di un'altra organizzazione no profit, WorldWide Resistance-Help, già con sospetti di finanziamento a gruppi designati come terroristici dall'Ue. Sotto il mirino delle autorità è finita anche il Comitato somalo per l'informazione e la consulenza con sede a Darmstadt e una fondazione di Berlino dell'ex calciatore professionista Änis Ben-Hatira.

(Europa Today, 5 maggio 2021)


Scoperta in Canada una rete che riciclava denaro per Hezbollah

Indagine solo all’inizio. Scoperta triangolazione Hezbollah, mafia cinese, Iran

È stata scoperta in Canada una rete che riciclava denaro per Hezbollah. Lo rende noto la polizia canadese.
Il governo federale del Canada ha incaricato un team di investigatori di indagare sulle operazioni di riciclaggio di denaro, gioco d’azzardo e traffico di droga che avvenivano attraverso i casinò di Vancouver.
Secondo le rivelazioni di un investigatore del team, l’inchiesta avvenuta lo scorso marzo ha portato alla luce un vasto sistema di riciclaggio di denaro sporco attraverso il gioco d’azzardo e un altrettanto vasto giro di droga gestito da Hezbollah attraverso diversi casinò di Vancouver.
«Attraverso molte ore di intercettazioni telefoniche abbiamo potuto constatare lo stretto legame tra alcuni casinò è una persona di cui abbiamo prove essere legata ad Hezbollah».
L’indagine ha provato anche una triangolazione tutta ancora da studiare tra affigliati di Hezbollah, mafia cinese e Iran.
L’ex ministro canadese dell’immigrazione, Chris Alexander, ha dichiarato che «le indagini su queste questioni sono pericolose e complesse, ma le autorità canadesi stanno cercando di affrontarle nel modo migliore».
Poi ha aggiunto: «questa è una questione dannatamente complicata. Quando si ha a che fare con l’Iran e le sue reti è sempre complesso e pericoloso».

(Rights Reporter, 6 maggio 2021)


Rivlin avvia le consultazioni, il primo è Lapid

Dopo il fallimento di Netanyahu, il leader dell'opposizione chiede il mandato

Il presidente Reuven Rivlin ha cominciato questa mattina le consultazioni per affidare un nuovo mandato per formare il governo dopo il fallimento di quello assegnato al premier Benyamin Netanyahu che non ha raggiunto una maggioranza. Il primo ad essere ricevuto è stato il leader dell'opposizione Yair Lapid, che ha chiesto a Rivlin l'incarico.
Il termine di 28 giorni previsti per comporre un nuovo esecutivo è scaduto alle 24 (ora locale) e in questo periodo Netanyahu non ha messo insieme la maggioranza necessaria di 61 seggi su 120 alla Knesset.

(ANSA, 5 maggio 2021)


L’ambasciatrice Sharon e i nerazzurri d’Israele: «Un ponte con Tel Aviv»

La coordinatrice: tra noi nessuna distinzione politica o religiosa

di Fabrizio Guglielmini

L'ambasciatrice Sharon e i nerazzurri d'Israele: «Un ponte con Tel Aviv» «Appena si è saputo dello scudetto, sui social hanno cominciato a scrivermi i tifosi da Israele per chiedermi di spedire le nuove maglie “I M scudetto” che a Tel Aviv non si trovano». Sono infinite le vie del tifo calcistico e Sharon Ifrah — israeliana e milanese d’adozione dal 2004 — è diventata una delle anime cosmopolite dell’Inter club Banda Bagaj, fondato da Massimiliano Rezza e da Virginio Motta nel 2006. Un club divenuto improvvisamente noto nel 2009 quando, durante il derby meneghino, alcuni ultrà rossoneri aggredirono Virginio fino a fargli perdergli un occhio. Una vicenda che avrà un tragico epilogo con la sua scomparsa nel 2012. Il club però non si è fermato e anno dopo anno ha rilanciato i valori della non-violenza: anche con l’arrivo di Sharon Itzah, irriducibile tifosa che ha creato un «ponte» fra i tifosi di Tel Aviv e il club che oggi conta 250 tesserati di cui una settantina sono israeliani, residenti a Milano o in patria, oltre ad arabi e musulmani, drusi e cattolici che formano un composito gruppo di «interisti a distanza» che in tempi pre-Covid erano a San Siro almeno tre volte all’anno.
   «Quando ho conosciuto Sharon — dice Massimiliano, presidente del club — ci siamo subito trovati d’accordo nel pensare a una tifoseria pacifica, senza distinzioni religiose o politiche. Col tempo Sharon è diventata il faro per i tifosi israeliani: è lei a trovare biglietti e merchandising per accontentare tutti».
   Per Banda Bagaj (bagaj sta per ragazzino in dialetto milanese) conta solo la squadra: «Forse più di altri, il nostro club accomuna persone diverse che condividono i valori alla base di ogni sport — racconta Sharon che si è trasferita in Italia nel 2004 dove ha conosciuto il marito, Cristiano Pravettoni, anche lui interista doc. C’erano anche loro a festeggiare domenica per lo scudetto anticipato di un mese, ma in un punto più defilato rispetto a piazza Duomo: «Volevamo esserci ma senza correre rischi inutili, così ci siamo fermati in Cordusio per rispettare le distanze ed evitare gli assembramenti». Da quando si è iscritta al club nel 2014, Sharon si è messa a disposizione di chi vive lontano da Milano e che via Facebook vuole sentirsi vicino alla squadra attraverso ambasciatori della tifoseria come lei. «Ci sono stati momenti che non esito a definire storici — ricorda Sharon — come la trasferta di qualche anno fa per Beer Sheva-Inter. Beer Sheva è una cittadina da 40mila abitanti e ha un solo 4 stelle. Per conoscere l’allora manager Fabio Pinna abbiamo pernottato anche noi lì e da allora è nato un rapporto di stima e continuità». Del club fanno parte anche iracheni che vivono in Olanda e che in tempi pre-Covid ogni tanto erano sugli spalti di San Siro per seguire la squadra. «Le occasioni per fare amicizia con persone che la pensano in modo diverso da te sono tante — conclude Sharon — l’Inter ci accomuna e le distinzioni restano fuori dalla porta».

(Corriere della Sera, 5 maggio 2021)


Israele è già entrato nel post-pandemia ed è diventato molto più forte di prima

di Jonathan Pacifici *

«Cosa succede se vacciniamo tutti?» si sente spesso chiedere in Italia. Guardare a Israele è un esercizio utile. Nell'ultima settimana si sono registrati circa 80 (!)contagi al giorno. In tutto il Paese (popolazione 9,3 milioni) restano 140 malati in gravi condizioni di cui 76 intubati. Tutti non vaccinati. Dalla scorsa settimana ci siamo levati le mascherine e quasi tutte le restrizioni sono state rimosse. L'altra sera ho mostrato con piacere il QR code della app che mi certifica come vaccinato a un simpatico cameriere e, dopo oltre un anno, ho portato mia moglie a cena fuori. Salvo imprevedibili sviluppi qui la pandemia è finita, con buona pace dei no-vax. A 2021 avanzato possiamo affermare con certezza che Israele non solo ha sconfitto il virus ma si trova in pole position per il nuovo mondo dell'economia del post Corona, per dirla con Scott Galloway. E il post Corona è arrivato.
   Nel mio ultimo libro, Gli Unicorni non prendono il Corona, ho descritto le origini degli straordinari risultati del comparto tecnologico israeliano durante l'annus horribilis 2020. Oltre $10 miliardi investiti, 45 unicorni (il 10% della «popolazione» mondiale), IPOs, SPAC ed M&A che non si contano. Poi è arrivato il 2021 e stiamo assistendo a un salto quantico. Nel primo trimestre dell'anno il ritmo è raddoppiato con 5,3 miliardi di dollari di investimenti. Nello stesso periodo il solo secondario ha cubato 2 miliardi di dollari. Significa che centinaia di famiglie di normali impiegati nelle società tech hanno monetizzato opzioni vedendo arrivare sul conto il controvalore di un appartamento. Arriva aprile e in un solo giorno viene investito 1 miliardo di dollari in due operazioni: Trax Image Recognition (640 milioni in un round di finanziamento di serie E guidato da SoftBank Vision Fund 2) e Redis Labs (110 milioni in un round di serie G guidato da Tiger Global con partecipazione da SoftBank Vision Fund 2 e Tcv, più una transazione secondaria di 200 milioni). Bisogna però scorrere le notizie dell'ultima settimana per capire l'entità del fenomeno. Il 22 di aprile un round da 156 milioni per Deel (piattaforma per assunzioni remote) dell'israeliano Alex Bouaziz mentre Similarweb (web traffic analytics) vola al Nyse con una valutazione tra 1.5 e 2 miliardi. Il 23 Exit da 500 milioni per Investing. com, round da 100 milioni per Deep Instinct (deep learning cybersecurity), SPAC da 8 miliardi per Pagaya (fintech). 60 milioni a RapidApi (Api marketplace), 28 milioni a Perception Point ( cybersecurity), 40 milioni (Ipo a 150 milioni) per Idomoo (soluzioni video personalizzate). Tutto in un giorno. Il 25 round da 30 milioni (valutazione 1,25 miliardi) per Bigid (data protection), round da 16 milioni per Vessl Therapeutics (terapie cellulari). Oracle annuncia un nuovo datacenter a Gerusalemme con un investimento di 250 milioni. Il 26 il Blackstone annuncia l'apertura di un nuovo ufficio in Israele. Blackstone, che ha asset in gestione per un valore di 649 miliardi di dollari, è considerata una delle più grandi società di investimento privato al mondo. Fino a oggi era stata attiva in Israele solo attraverso investimenti occasionali. «Non appena abbiamo iniziato a investire in società in crescita, era chiaro che non potevamo continuare a essere attivi a livello globale senza essere in Israele», ha detto al quotidiano economico Calcalist Stephen A. Schwarzman, presidente, ceo eco-fondatore di Blackstone in un'intervista esclusiva. Fino a oggi «la maggior parte delle aziende in Israele erano troppo piccole per noi. Penso che il nostro arrivo, in questo momento, sia un segno della maturità dell'economia israeliana». Lo stesso giorno la prestigiosa rivista Forbes ha inserito Israele per la prima volta nella top 20 mondiale per pil pro capite.
   Nel post-Covid israeliano cominciano a vedersi anche i primi risultati degli Accordi di Abramo. Delek Drilling del magnate di origine tripolina Yitzhak Tshuva ha firmato un Mou per la vendita della sua partecipazione del 22% nel giacimento di gas Tamar a largo delle coste israeliane a Mubadala Petroleum, di proprietà del governo di Abu Dhabi. Impensabile fino a pochi mesi fa. Ma del resto, ormai è chiaro, siamo in una nuova epoca.

* Presidente del Jewish Economie Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

Milano Finanza, 5 maggio 2021)


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In Israele il primo arbitro transgender: "Mi sono sempre sentita una donna"

Il racconto di Sapir Berman: "I giocatori lo avevano già capito e si rivolgevano a me parlando al femminile". Dalla federazione e dai club ha ricevuto il massimo sostegno.

Ad arbitrare le partite di calcio in Europa ci potrebbe presto essere il primo arbitro transgender della storia. L'israeliana Sapir Berman ha fatto coming out rivelando di essere ora una donna transgender. "Mi sono sempre vista come una donna, fin dalla giovane età ma fino ad ora ho vissuto proiettando un’immagine", ha detto Berman, il cui nome di nascita era Sagi, durante una conferenza stampa in cui ha spiegato di essere uscita allo scoperto “per mostrare chi sono prima di tutto a me stessa, poi anche alla mia famiglia e ai miei amici”. La donna, che ha anche annunciato che ora inizierà tutti i procedimenti legali necessari per la rettificazione del sesso, ha assicurato di aver ricevuto il pieno sostegno della sua famiglia, del sindacato arbitrale locale e dei funzionari di calcio non solo israeliani, ma anche internazionali. Berman continuerà a far rispettare rigorosamente i regolamenti calcistici sul campo, ma ha affermato che ora ha più consapevolezza soprattutto perché “so che ora molte persone stanno iniziando a vedermi come una figura pioniera in questo mondo, ma spero la società accetti tutti in tutti i settori tutti i generi".

 Il suo dilemma interiore
  Nella mia famiglia mi vedevano come un uomo, ma quando ero sola mi sentivo una donna ed ero invidiosa del lato femminile ", ha detto Berman spiegando il dilemma interiore che l'ha accompagnata per molti anni, “pensavo che la società non mi avrebbe accettato, ma poi ho deciso di uscire allo scoperto e la mia storia è a lieto fine perché ho ottenuto un sostegno molto ampio”. Ha raccontato che fan e giocatori se ne erano già accorti e che già si “rivolgevano a me con la forma femminile delle parole ebraiche”, un cambiamento che Berman ha scelto di vedere come un segno di rispetto per la sua decisione di transizione. Come riporta El País, la donna ha riconosciuto che ci ha impiegato molto per prendere questa decisione, soprattutto perché il calcio è un ambiente professionale molto maschile e maschilista. Ma poi è giunta alla conclusione che non poteva più aspettare e ha affermato: “Non potevo più nascondermi, quindi cambierò”. Berman ha però spiegato che non è sempre stato tutto rose e fiori perché in dieci anni di carriera ha ricevuto molti insulti a volte molto denigratori e sessisti che ha commentato dicendo “passano da un orecchio e escono dall’altro”. Tra l’altro Israele è una delle nazioni che più riconosce la comunità Lgbtqi, ma mentre i diritti degli omosessuali sono stati tradotti in leggi, per i transessuali esiste ancora un grande vuoto giuridico. Nonostante ci siano molti funzionari pubblici dichiaratamente gay, ancora non è stata eletta nessuna persona transgender a cariche pubbliche.

 La situazione dei transgender nel mondo
  Come ricorda l'Ap, la decisione di Berman di fare coming out arriva in un momento in cui le persone gay e transgender stanno ottenendo visibilità e accettazione in alcune parti del mondo, anche nel mondo dello sport. L’esempio più famoso è quello della transgender Caitlyn Jenner, ex nuotatrice olimpica e personaggio del reality show sulla famiglia Kardashan. Jenner si è unita a un elenco di candidati per le prossime elezioni governative della California, per promuovere l’uguaglianza dei transgender. Anche l’ex arbitro di calcio Nick Clark nel 2018 ha fatto coming out dicendo di sentirsi una donna e cambiando il suo nome in Lucy. Clark ha affermato che anche per lei non è stato tutto “rose e fiori perché di tanto in tanto gli insulti arrivano”, ma tirando le somme ha dichiarato che il suo uscire allo scoperto “è stata un’esperienza positiva”. Tuttavia, le notizie sul mondo dei transgender non sono tutte positive, alcune sono addirittura preoccupanti, soprattutto sul fronte legale. Per esempio, negli Usa, cinque stati hanno approvato leggi o messo in vigore altre politiche che limitano la possibilità dei giovani transgender di praticare sport o ricevere determinate cure mediche. C'è stata una protesta da parte dei sostenitori dei diritti dei transgender, ma poco in termini di ripercussioni tangibili per quegli Stati.

(Europa Today, 3 maggio 2021)


Israele primo in tutto nel mondo? Da riflettere. M.C.


Israele fra i 20 Stati top per PIL pro capite

di David Fiorentini

Lo scorso anno è stato senza ombra di dubbio un periodo eccezionale su ogni scala. In termini economici, è stato probabilmente l’anno peggiore che l’economia israeliana abbia mai vissuto in 73 anni di indipendenza. Secondo i dati del CBS, nel 2020 il prodotto interno lordo israeliano si è contratto di un inaudito 2,6%.
    Percentuale però, veramente irrisoria se paragonata a quelle di altre potenze occidentali: gli USA hanno perso il 3,5%, la Germania il 5%, l’Italia il 9% e il Regno Unito addirittura il 10%. Un confronto, quindi, che dimostra nettamente la resilienza e la solidità dell’economia israeliana, che grazie a un forte aumento nel settore dell’high-tech, è riuscita per la prima volta nella Storia a raggiungere la top 20 degli Stati per PIL pro capite.
    In base ai dati del Fondo Monetario Internazionale, con un PIL pro capite di 43.689$ Israele si piazza al 19esimo posto, seguito da Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito. Una meta veramente notevole, considerato che nel 2010 lo Stato Ebraico non era neanche al trentesimo posto.
    Dunque, Israele sembra emergere dalla battaglia con la pandemia e nonostante le restrizioni e la disoccupazione, pare abbia contenuto decentemente le perdite. Ciò che preoccupa maggiormente però è l’aumento del costo della vita, che in termini di potere d’acquisto (PPP), ha relegato Israele al 35esimo posto mondiale. Tuttavia, anche in questa particolare classifica, Gerusalemme ha scalato numerose posizioni dal 2010, anno in cui era solamente 42esima.
    Al vertice della classifica dei Paesi per PIL pro capite, invece, troviamo sempre i soliti sospetti: Lussemburgo, primo con 116.921$, Svizzera con 86.849$ e Irlanda a quota 83.850$.

(Shalom, 4 maggio 2021)


Oltre le ideologie, guardare alla realtà del Medio Oriente

Sinistra e Israele: due libri per approfondire una questione sospesa da tempo.

di Nathan Greppi

In Italia, così come in tanti Paesi occidentali, è molto frequente dimostrare una certa vicinanza nei confronti degli ebrei solo quando vi è da commemorare la Shoah, salvo poi sorvolare su problemi che devono affrontare oggi o addirittura colpevolizzarli per ciò che succede in Israele, del quale spesso vi è un’immagine distorta, filtrata attraverso lo stereotipo degli “occidentali imperialisti”. Ha cercato di approfondire la questione lo storico Valentino Baldacci nel volume Amare gli ebrei, Odiare Israele (Aska Edizioni, pp. 200, 15,00 euro), che raccoglie 63 suoi articoli pubblicati su Pagine Ebraiche. Baldacci, che da anni si occupa dell’argomento sia come autore di saggi storici sia come Presidente dell’Associazione Italia-Israele di Firenze, racconta i pregiudizi occidentali nei confronti di Israele e del mondo ebraico attraverso commenti a fatti di cronaca e attualità, editoriali di carattere storico, recensioni di libri di settore. L’autore non fa sconti a nessuno, denunciando l’antisemitismo e l’antisionismo sia che vengano da media di sinistra, sia da ultras di estrema destra o da estremisti islamici. Denuncia l’ipocrisia con cui gran parte della sinistra italiana attacca oggi Israele, nonostante prima della Guerra dei Sei Giorni fossero perlopiù schierati a favore dello Stato Ebraico. Cita come esempio il fatto che, se nel 2018 il settimanale L’Espresso dipingeva gli israeliani quasi come se fossero dei nazisti, nel 1967 l’allora direttore Eugenio Scalfari li difendeva, aggiungendo che erano gli arabi a essere, citiamo testualmente, “drogati di nazionalismo e di vendetta”.
   Il saggio del giovane analista Danilo Delle Fave (La sinistra italiana e il conflitto israelo-palestinese, Intermedia Edizioni, pp. 374, 14 euro) è rivolto soprattutto a un pubblico di non esperti. Dall’epoca della Guerra Fredda a oggi, la sinistra italiana ha sempre avuto un forte interesse per il conflitto tra israeliani e palestinesi, che si è spesso, purtroppo, trasformato in un’ostilità più o meno accesa e militante verso lo Stato Ebraico. I motivi sono noti e diversi: l’adesione alla politica sovietica, filoaraba per ragioni geopolitiche; la passiva accettazione di stereotipi sullo pseudo – “colonialismo” di Israele; il “terzomondismo” acritico post-sessantotto. Il libro prende in esame soprattutto il periodo che va dalla nascita del sionismo fino agli anni ’70 e, dopo un excursus sulle radici storiche del conflitto, passa a raccontare i diversi approcci che i vari partiti della sinistra italiana dell’epoca, e in particolare il PCI e il PSI, hanno adottato in merito: dall’idealizzazione iniziale del socialismo alla base dei kibbutz a un approccio più critico dopo la Crisi di Suez, che ha portato il PCI e l’ala più radicale del PSI a schierarsi platealmente contro Israele; soprattutto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Sebbene il testo sia molto approfondito sul piano storico, a volte l’autore sembra sposare acriticamente le tesi della sinistra radicale, mettendo in dubbio le basi socialiste della sinistra israeliana delle origini; o quando, parlando del sostegno a Israele del leader socialista Pietro Nenni, dimentica di dire che questo era dovuto anche al fatto che aveva perso la figlia ad Auschwitz.

(Bet Magazine Mosaico, 4 maggio 2021)


A Gerusalemme ripreso il processo a Netanyahu

Al tribunale distrettuale di Gerusalemme è ripreso stamane il processo nei confronti di Benyamin Netanyahu, che è accusato di corruzione, frode e abuso di potere per tre dossier distinti. Le accuse riguardano l’insieme delle relazioni intrattenute dal primo ministro con uomini d’affari in controllo di importanti mezzi di comunicazione, nonché la entità di doni percepiti dai coniugi Netanyahu da altri uomini d’affari con interessi nel mercato israeliano.
    Il premier ha ripetutamente lamentato di essere vittima di una trama basata su capi di accusa inconsistenti, volta a neutralizzarlo politicamente. L’udienza odierna è ripresa con la deposizione dell’ex direttore del popolare sito di informazione Walla, Ilan Yeshuà. Per due settimane, su richiesta della pubblica accusa, ha descritto interessi finanziari che a suo parere influenzavano la linea giornalistica del sito.
    Da oggi, per le prossime 20 udienze, Yeshuà dovrà ora rispondere alle domande di tre legali della difesa che prevedibilmente cercheranno di minare alla base la sua attendibilità.

(ANSA, 4 maggio 2021)


Una pietra d’inciampo per una famiglia deportata e scomparsa

CHIVASSO - Venerdì 30 aprile in piazza della Repubblica a Chivasso è stata posizionata una Pietra di inciampo dedicata a Ester Ernesta Sacerdote. Ester Ernesta Sacerdote abitava a Chivasso con i suoi figli Abramo e Rosa studenti all'Istituto magistrale Berti di Torino. Gestiva il negozio di tessuti di proprietà della famiglia del marito, morto anni prima.
    Nel 1938 i ragazzi, a causa delle leggi razziali, furono espulsi da scuola. Furono tutte tre arrestati e deportati ad Auschwitz e di loro non si seppe più niente. «Oggi la targa e la pietra d'inciampo vogliono essere un ricordo per tutti noi – spiega la consigliera comunale Annalisa De Col - , un messaggio perché non si dimentichi l'orrore che hanno dovuto subire per le sciagurate decisioni nazifasciste».
    La posa di pietre di inciampo è una iniziativa nata a Colonia nel 1992 che ha portato negli anni a installare decine di migliaia di pietre, piccole targhe d'ottone della dimensione di un sampietrino posta davanti alla porta della casa in cui abitò la vittima del nazismo o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, sulla quale sono incisi il nome della persona, l'anno di nascita, la data, l'eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta.
    «È stato un grande onore partecipare questa mattina alla posa della pietra d'inciampo dedicata a Ester Ernesta Sacerdote – commenta il sindaco Claudio Castello -. Nei campi di concentramento trovarono la morte solamente perché ebrei. Ringrazio l'Anpi con il suo presidente Vinicio Milani, i consiglieri comunali presenti, il presidente della Comunità ebraica di Torino, i rappresentanti delle associazioni presenti, tutti gli allievi e gli insegnanti che hanno lavorato con passione per ricostruire la storia della nostra concittadina». «Come lista LiberaMente – commentano infine i componenti del gruppo di maggioranza - ci sentiamo onorati di esserci fatti promotori di questa istanza con un ordine del giorno presentato in Consiglio nel dicembre del 2017 in cui si richiedeva espressamente la posa di pietre di inciampo per ricordare degnamente ed individualmente le vittime del mostruoso progetto nazista di sterminio. Per non dimenticare».

(La Sentinella del Canavese, 3 maggio 2021)


Crisi in Israele, fallisce l'intesa di governo tra Netanyahu e Bennett

Continua lo stallo post-elettorale. Il leader di Yamina respinge la proposta del premier uscente di essere il primo a guidare un governo di rotazione congiunto. Domani scade l'incarico del presidente Rivlin a Bibi. Possibile incarico a Bennet o a Lapid.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - A poco più di 24 ore dalla scadenza del mandato affidato a Benjamin Netanyahu per formare un nuovo governo, in Israele non si intravede ancora la luce alla fine del tunnel dell'instabilità politica che accompagna il Paese da oltre due anni. Per tre giorni, i negoziati tra le fazioni politiche hanno lasciato lo spazio agli attacchi reciproci sulla responsabilità del disastro del monte Meron, in cui giovedì notte 45 fedeli ebrei sono rimasti uccisi schiacciati dalla calca nel corso di una celebrazione religiosa affollata oltre misura.
    Trascorsa la giornata di lutto nazionale convocata ieri, oggi Netanyahu ha giocato quella che sembra la sua ultima carta, offrendo a Naftali Bennett - suo ex capo di gabinetto, oggi rivale a destra - di essere il primo a guidare un governo di rotazione congiunto. "Bennett ha detto che è possibile formare un governo di destra se mi faccio da parte per un anno? Ecco, mi faccio da parte. Ora è il suo turno", ha dichiarato Netanyahu in un messaggio diffuso sui social media.
    Bennett ha risposto che non è lui il responsabile dello stallo: "Ho già espresso la mia preferenza per un governo di destra, siamo disposti a considerare cose che non avremmo pensato in passato. Ma non siamo noi l'ostacolo. Io non chiedo di essere premier, chiedo un governo per evitare quinte elezioni".
    Il problema infatti sussiste, perché anche con Bennett dentro, i numeri non ci sono. Uno dietro l'altro, i leader dei partiti si sono affrettati a chiarire alle videocamere che l'offerta non ha generato gli effetti desiderati. Nessun game changer, lo stallo rimane identico a quello di 28 giorni fa, quando Netanyahu ha ricevuto per primo l'incarico di formare il governo dopo le quarte elezioni in due anni: non aveva allora i 61 consensi necessari a formare una maggioranza, né li ha ora.

 IL TENTATIVO DI NEGOZIATI CON MANSOUR ABBAS
   Per 28 giorni, Netanyahu ha cercato in tutti i modi di formare una coalizione di destra con il sostegno della lista islamista Ra'am di Mansour Abbas, che nei mesi scorsi era fuoriuscito dalla Lista Araba Unita promuovendo un approccio pragmatico di cooperazione con qualsiasi governo, anche di destra, infrangendo un tabù che per anni ha visto i partiti arabi scegliere i banchi dell'opposizione.
    Netanyahu è riuscito a sdoganare Abbas tra gli ambienti della destra, compresa Yemina di Bennett: con "siamo disposti a considerare cose che non avremmo pensato in passato", Bennett si riferisce a questa svolta, sugellata da un incontro avvenuto nei giorni scorsi con il leader di Ra'am.
    Bennett ha preparato questa svolta per mesi, separando la sua destra nazionalista dagli elementi più oltranzisti per risultare digeribile anche alla variegata coalizione del "tutto tranne Bibi", che ora potrebbe prendere in mano le redini del gioco.
    L'ostacolo vero al piano di Netanyahu lo pongono i 6 parlamentari di "Sionismo Religioso" di Betzalel Smotrich - i fratelli rinnegati da Bennet - che ribadiscono che non sosterranno mai un governo con l'appoggio di un partito arabo che, a loro dire, "sostiene il terrorismo".

 IL SOSTEGNO DEL PARTITO SIONISTA-RELIGIOSO DEL RABBINO ZVI TAU
   L'unica differenza rispetto a 28 giorni fa giunge sorprendentemente dalla frangia più estrema della coalizione di Smotrich: il rabbino Zvi Tau, mentore della fazione apertamente omofoba Noam, che ha un esponente in lista, oggi ha dato l'imprimatur a sostenere una coalizione con Mansour Abbas. Tra il partito islamista e quello sionista-religioso (che esprime la fazione più oltranzista del movimento degli insediamenti ebraici) c'è infatti molta sintonia su valori come "la sacralità del nucleo familiare".
    Con l'esponente di Noam, Netanyahu arriva a ottenere 60 consensi. Entro la mezzanotte di martedì spera di trovare un disertore - l'ultimo voto di cui avrebbe bisogno - ma finora ovunque si rivolge è terra bruciata: Gantz, Lapid, Saar, Lieberman, sono tutti ex alleati che hanno giurato di non sedersi in un governo guidato da Netanyahu, per via del processo in corso che vede il premier in carica imputato per corruzione.

 INCARICO A BENNET O A LAPID
   Nell'intricata situazione che si è venuta a creare, due scenari sembrano ora i più plausibili. Il primo, che a nuove consultazioni con il presidente, il Likud raccomandi Bennett, che potrebbe riuscire a trainare i sei parlamentari di Gideon Saar, ex ministro che ha giurato che non siederà mai in un nuovo governo sotto Netanyahu (ma non è da escludere "con Netanyahu"). Oppure, che l'incarico venga affidato a Yair Lapid, che con 17 seggi ottenuti alle urne, è il secondo partito (con uno stacco di ben 13 seggi dai 30 ottenuti da Netanyahu).
    Anche lui avrebbe 28 giorni per un'impresa che risulta altrettanto ardua, c'è chi dice una "mission impossible": fare convivere la disomogenea compagine che forma il campo delle opposizioni a Netanyahu, che si estende dalle destre di Lieberman, Saar e Bennett fino alla sinistra di Meretz e della Lista Araba Unita.
    Ma Netanyahu non sembra ancora disposto a separarsi dalla posizione che detiene ininterrottamente dal 2009. Da qui a poche ore - non sarebbe la prima volta - potrebbe tirare fuori un nuovo, inaspettato coniglio dal cappello: questa volta, secondo le indiscrezioni, potrebbe assumere le sembianze di una legge passata in extremis per instaurare l'elezione diretta del primo ministro, nell'eventualità che il Paese marci verso quinte elezioni in poco più di due anni.

(la Repubblica, 3 maggio 2021)


Giustizia per l'arte trafugata agli ebrei

Il Memoriale di Milano e la Cattolica rilanciano i Principi di Washington sulle opere predate dai nazisti mettendo a confronto giuristi ed esperti. L'idea è formare una «cultura della restituzione».

di Lucia Capuzzi

«La pittura non è fatta per decorare appartamenti. E uno strumento di guerra offensivo e difensivo contro il nemico». A portare allivello più sofisticato e perverso l'affermazione di Pablo Picasso è stato, paradossalmente, Adol fHitler. Nei suoi dodici anni di potere assoluto, il regime nazista ha trasformato l'arte in efficiente arma di distruzione delle minoranze oppresse. Una politica di Stato perseguita non solo attraverso la costruzione di una delle più macabre e spettacolari macchine della propaganda della storia. Bensì attraverso il furto, l'appropriazione e, spesso, la risignificazione di opere, manufatti, cimeli appartenenti ai perseguitati. Oggetti, in genere, di grande valore economico, la cui vendita ha finanziato un terzo delle spese di guerra tedesche. Ma soprattutto sintesi materiale di storie familiari, personali, affetti, percorsi. Emblemi della soggettività delle persone a cui appartenevano e, al contempo, delle reti di relazioni in cui erano immerse. Verità che il nazismo doveva cancellare per ridurre i proprietari a un'indistinta categoria di "non persone" da far scomparire nel silenzio infuocato dei forni.
   Shoah, lo chiamano gli ebrei, principali bersagli dell'odio hitleriano. Oltre otto decenni e venti milioni di vittime dopo, quelle stesse opere d'arte possono divenire strumento di riconciliazione, cura e guarigione delle ferite ancora aperte da crimini impossibili «da punire e da perdonare», come affermava Hannah Arendt? È questa la coraggiosa scommessa fatta nel 1998 dalla comunità internazionale con i "Principi di Washington": una serie di assiomi non vincolanti per consentire la restituzione ai legittimi proprietari ed eredi di quanto rubato dal nazismo. E ora rilanciato in Italia da Claudia Mazzucato e Arianna Visconti. Entrambe penaliste dell'Alta scuola Federico Stella sulla Giustizia penale dell'Università Cattolica (la prima specializzata in giustizia riparativa, la seconda nelle controversie legali riguardanti l'arte) hanno chiamato a raccolta, virtualmente, giuristi, storici, direttori di prestigiose istituzioni culturali per fare il punto insieme sull' accidentato cammino di attuazione del "consenso di Washigton" in Europa.
   Inizialmente prevista al Memoriale milanese della Shoah, dove resta idealmente collocata, l'iniziativa farà interagire sulla rete esperti di tre realtà cruciali in cui sono avvenute buona parte delle spoliazioni o da cui tantissimi di questi beni sono transitati: Germania, Svizzera e Italia. Dove, cioè, "Questo è stato": per dirlo col celebre verso di Primo Levi da cui prende il nome all'evento, che inizia domani con la proiezione di Hitler contro Picasso e gli altri. E prosegue giovedì con gli interventi, tra gli altri, di Alessandro Chechi, Francesco Provenza, Eike Schmidt, Manlio Frigo, Bianca Gaudenzi, Meike Hopp, Matthias Weller, Nikola Doll, Mare-André Renold, Annalisa De Curtis e Simonetta Della Seta.
   In questa storia tragica, «l'arte è stata protagonista e strumento di un' enorme ingiustizia, che reclama riconoscimento e riparazione - afferma Arianna Visconti -. La prima forma è la restituzione». Processo quest'ultimo tuttora lento. Dei cinque milioni di manufatti trafugati in tutta Europa dalle armate naziste (16 mila sottratte solo ai musei della Germania), oltre 600 mila, ma la stima è per difetto, sono ancora da considerare "perduti". A ventitré anni dalla formulazione' inoltre, i Principi di Washington, non sempre trovano applicazione. In Italia, ad esempio, solo nel luglio 2020, è stato costituito, al ministero dei Beni culturali, un tavolo di lavoro sui beni sottratti agli ebrei tra il 1938 e il 1945. Composto da sette membri incaricati e con la facoltà di consultare esperti esterni, l'organismo non ha, però, fondi. Altri Paesi, invece, come la Germania, l'Austria, l'Olanda, il Regno Unito e la Francia hanno istituito da tempo apposite commissioni e linee guida, oltre ad apportare modifiche alla legislazione nazionale per agevolare le richieste di restituzione. La Germania ha addirittura aperto, nel gennaio 2020, uno "sportello" in supporto alle vittime e ai loro eredi. «Uno dei principali ostacoli del Paese è la sua organizzazione federale. Lander e Berlino hanno una competenza congiunta sugli affari culturali, incluso il nodo delle opere trafugate dai nazisti. Ogni Stato, dunque, finisce per avere un approccio differente, mentre il governo centrale si limita a un ruolo di coordinamento. La Commissione consultiva sulla restituzione, creata nel 2003, opera in base al principio di sussidiarietà, cioè interviene solo quando le parti non trovano un accordo. Inoltre 15 anni, è accaduto non più di una ventina di volte», spiega Matthias Weller, dell'Università di Bonn. «Dobbiamo costruire una "cultura della restituzione", come parte di un percorso di riconciliazione», sottolinea. «Non è solo una questione legale. È espressione della nostra responsabilità di affrontare le ingiustizie storiche», aggiunge Nikola Doll, del Kunstmuseum di Bema.
   Non sempre, però, i legittimi titolari o i loro eredi risultano rintracciabili. A volte, l'intera famiglia è stata sterminata. Sull'onda dei Principi di Washington, si vanno configurando iniziative che valorizzano il contenuto testimoniale delle opere rubate. Ne sono un esempio le mostre sul lascito Gurlitt (dal nome del tedesco Hildebrand Gurlitt, accusato di aver acquisito 400 opere sottratte con violenza agli ebrei) organizzate a Berna, Bonn, Berlino e Gerusalemme tra il 2017 e il 2020. O l'esposizione dei beni trafugati al Victoria and Albert Museum nel 2019. Esempi di come l'arte possa diventare «maestra e alleata della giustizia», come dice Claudia Mazzucato. Perché, conclude la giurista, «si mette al servizio della memoria, un concetto denso di tensioni, difficile e controverso, che la ricca messe di studi nati proprio dall'Olocausto aiuta a decifrare. Per non perpetuare ingiustizie, divisioni e conflitti, la memoria stessa ha necessità della giustizia - e magari proprio di una giustizia riparativa, inclusiva e partecipata - per restare viva, feconda e spalancata sul futuro. Cioè sull'unica cosa che possiamo ancora cambiare».

(Avvenire, 4 maggio 2021)


La Lega Giovani si confronta con il Likud di Bibi Netanyahu

VARESE - Ieri, lunedì 3 maggio, la Lega Giovani ha organizzato un webinar sulla politica israeliana con esponenti del Likud
    Introdotto dal vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, on. Paolo Formentini, i ragazzi del Carroccio si sono confrontati ieri sera con Eli Hazan, direttore degli affari esteri del Likud e Ariel Kallner, ex deputato alla Knesset per il partito di Bibi Netanyahu.
    Un momento di confronto ed arricchimento tra le due formazioni politiche, di paesi alleati ed amici, che hanno già condiviso iniziative analoghe segno del rapporto stabile tra i due partiti, rispettivamente i più grandi partiti dei loro paesi.
    La Lega Giovani con il segretario internazionale Davide Quadri coadiuvato dai ragazzi che partecipano al tavolo esteri dei giovani leghisti ha espresso le condoglianze per la recente tragedia del Monte Meron poi hanno toccato assieme tantissimi argomenti sui relativi paesi e poi espresso intenzione di rafforzare la collaborazione.
    «Il quadro mondiale pone sfide comuni tra i nostri paesi, così come a tutti i partiti conservatori, in un mondo post pandemico che deve vedere la persona e la comunità al centro. Con radici salde verso il domani, e su questo da un paese che dell'emergenza e della frontiera ha fatto un modello abbiamo molti spunti da prendere», sottolinea Quadri.

(VareseNoi, 4 maggio 2021)


Il video di Israele per dare il benvenuto ai turisti dal 23 maggio

Il Ministero del Turismo di Israele, Paese capace di condurre una delle migliori campagne di vaccinazione al mondo e ora uno dei primi a riaprire al turismo internazionale, ha lanciato un nuovo video per celebrare la riapertura delle proprie frontiere. Dal 23 maggio, infatti, Israele è pronta a riaccogliere i primi gruppi di turisti vaccinati e, con la campagna che procede non solo nel Paese ma in tutto il mondo, farà seguire presto misure più permissive.
   Nel nuovo video, diffuso sul canale YouTube ufficiale dell’Ente, si vedono le principali attrazioni del Paese, pronte a essere nuovamente visitate dai turisti di tutto il mondo: non mancano gli scorci di Gerusalemme e di Tel Aviv, ma anche il Mar Rosso ed Eilat, la verde Galilea e l’immancabile Mar Morto.
   Non mancano poi menzioni alle attività riaperte dopo il lockdown: tornano gli hotel, pronti ad assecondare la sete di staycation da parte dei turisti internazionali, insieme a bar, ristoranti, spiagge e siti storici. Ai turisti vaccinati verrà inoltre rilasciato il Green Pass al momento dell’ingresso nel Paese: questo permetterà loro di avere accesso anche ai luoghi chiusi e più affollati, come cinema, teatri, musei e ristoranti senza tavoli all’aperto.
    “Questo nuova campagna di comunicazione è il nostro modo per dare il bentornato ai turisti internazionali, che da troppo tempo ormai non vediamo per le strade di Israele – ha commentato Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo – siamo contenti di poter dare finalmente una buona notizia e di comunicare la nostra offerta turistica in maniera più leggera dopo un periodo difficile. Ci auguriamo che i turisti italiani tornino presto a trovarci, dopo che l’Italia è stata uno dei principali Paesi per numero di ingressi prima della pandemia”.
    Nel 2019, infatti, erano stati oltre 190.000 i turisti italiani venuti in Israele, facendo segnare un nuovo record e mettendo l’Italia al 6° posto nella classifica mondiale per numero di arrivi. Israele, come testimonia questo nuovo messaggio, è ora pronta a riaccoglierli.
    A partire dal 15 maggio 2021, i passeggeri completamente vaccinati in arrivo alle Isole Vergini britanniche saranno liberi di circolare nella destinazione dopo aver presentato un risultato negativo del test di arrivo (giorno 0). La notizia è stata annunciata nei giorni scorsi dal ministro della Salute e dello sviluppo sociale, Carvin Malone. Il ministro ha confermato che le persone completamente vaccinate che arrivano dall’estero, saranno tenute a fare un test PCR entro cinque giorni dal viaggio, fornire la prova della vaccinazione completa e fare un test PCR all’arrivo (giorno 0). Una volta ottenuto un risultato negativo del test, saranno liberi di godersi la loro vacanza in tutto il territorio. Ciò significa che potranno evitare i quattro giorni di quarantena ancora necessari per i passeggeri in arrivo che non sono stati completamente vaccinati.
    Il direttore del turismo Clive McCoy, commentando la notizia, ha dichiarato: “Questa è un’ottima notizia, poiché più ospiti stanno arrivando completamente vaccinati e molti nel nostro settore hanno aderito alla campagna vaccinale a sostegno della ripresa economica. Le BVI vantano un invidiabile primato di salute e sicurezza conseguito durante la pandemia e hanno proseguito con la strategia di graduale riapertura sulla base delle condizioni internazionali e della situazione locale. Qualsiasi progresso in questa direzione è di buon auspicio per il turismo e per l’economia, e questo è un passo molto significativo “.
    Secondo questo protocollo aggiornato una persona è considerata completamente vaccinata contro COVID-19 due settimane dopo aver ricevuto entrambe le dosi di un vaccino a doppia somministrazione approvato, come il vaccino AstraZeneca, Moderna o Pfizer o con una sola dose di un vaccino monodose, come Johnson & Johnson. Intanto il ministero della Salute prosegue nel suo impegno per vaccinare fino al 70% della popolazione residente, vaccinando finora oltre 9.000 persone.

(Qualitytravel.it, 3 maggio 2021)


Israele: H&M denuncia cyber attacco iraniano

Il colosso della moda H&M in Israele ha denunciato di essere stato preso di mira da un gruppo di hacker iraniani, che lo hanno minacciato di diffondere 110 GB di dati dei clienti, sottratti dai suoi server. Lo riporta il sito Times of Israel. Si ritiene che il gruppo di hacker, identificato come N3tw0rm, sia affiliato al gruppo Pay2Key collegato all'Iran, che in passato era riuscito ad hackerare le Israel Aerospace Industries e la società israeliana di sicurezza informatica Portnox.
   In seguito a questi attacchi il National Cyber Directorate (INCD) ha dichiarato in un comunicato che il gruppo di hacker installa ransomware nelle reti delle sue vittime, consentendo di venire in possesso di dati dai server. Il gruppo, poi, minaccia di far trapelare dati aziendali, quindi richiede Bitcoin come pagamento di riscatto. Inoltre, come riferito dall’INCD, questa settimana si aspettano attacchi coordinati contro Israele per celebrare l'annuale Giornata iraniana del Quds e la fine del mese sacro musulmano del Ramadan. Questi attacchi, previsti intorno al 7 maggio, saranno coordinati da hacker anti-israeliani in tutto il mondo sotto il nome di #OPJerusalem e cercheranno di diffondere messaggi di propaganda.
   L'Iran ha istituito il Quds Day nel 1979 e viene celebrato con discorsi anti-israeliani, azioni e minacce per "liberare" Gerusalemme dal controllo israeliano. Quest'anno il Quds Day cade vicino a Yom Jerushalaim, giorno del calendario ebraico, che segna l'unificazione di Gerusalemme, avvenuta dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, che cadrà il prossimo 10 maggio.

(Shalom, 3 maggio 2021)


Salgono le tensioni tra Hezbollah e l’ONU

LIBANO - Le Nazioni unite sono accusate di voler utilizzare le telecamere che i caschi blu installeranno lungo il tracciato che separa il Paese da Israele come «strumenti di spionaggio»

Sale la tensione nel sud del Libano tra gli ambienti istituzionali vicini a Hezbollah e la missione ONU schierata a ridosso della Linea Blu di demarcazione con Israele sullo sfondo della decisione delle Nazioni Unite di far installare ai caschi blu delle telecamere lungo il tracciato che separa di fatto il Libano da Israele, due Paesi formalmente in guerra. Nel quadro della missione ONU sono schierati in Libano circa un migliaio di militari italiani.
   Media di Beirut riferiscono che alcuni sindaci in quota Hezbollah di località del sud del Libano vicine alla Linea Blu hanno espresso la loro opposizione all’installazione delle telecamere. Ufficialmente il movimento sciita armato filo-iraniano, che nell’area gode di un ampio sostegno popolare, non ha rilasciato dichiarazioni. Ma da giorni analisti e commentatori considerati vicini al Partito di Dio hanno criticato anche duramente la decisione ONU, affermando che si tratta di una iniziativa che «serve gli interessi del nemico» israeliano.
   Dal canto suo, Andrea Tenenti, portavoce di Unifil (il contingente ONU in Libano), ha ricordato che «il piano per l’installazione delle telecamere era già stato discusso all’ONU nel giugno 2020», circa due mesi prima del rinnovo del mandato di Unifil. L’incarico della missione, operativa dal 1978, viene rinnovato ogni anno ad agosto.
   L’anno scorso si erano svolti accesi dibattiti in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, poiché alcuni membri, in particolare gli Stati Uniti, non erano favorevoli a prorogare il mandato del contingente internazionale. L’allora amministrazione USA di Donald Trump affermava che a fronte di un ingente impegno finanziario, la missione Unifil doveva essere rafforzata con strumenti di sorveglianza più efficaci. La proroga della missione era stata alla fine approvata, ma a condizione che alcuni mezzi messi a disposizione dei caschi blu fossero rivisti e corretti, introducendo telecamere termiche e binocoli per la visione notturna.
   L’Unifil afferma che sia l’esercito sia le istituzioni libanesi sono state informate da tempo della decisione. Anche il presidente del parlamento Nabih Berri, a capo del partito sciita Amal alleato di Hezbollah, è stato informato. Hezbollah dal canto suo contesta - senza però affermarlo in maniera ufficiale - questa versione e sostiene che la missione ONU ha agito in maniera unilaterale.
   Tenenti, citato dai media di Beirut, rassicura sull’uso delle telecamere: «questa nuova apparecchiatura sarà utilizzata solo nelle aree non residenziali lungo la Linea Blu. Si intende dotare i militari di una tecnologia un po’ più sofisticata, che consentirà loro da un lato di proteggersi meglio e dall’altro di svolgere la loro missione di osservazione in modo più efficace», afferma il portavoce di Unifil.
   «L’installazione delle telecamere è importante per permetterci di svolgere seriamente le nostre indagini quando si verificano incidenti in un luogo dove non siamo presenti», aggiunge Tenenti, riferendosi alla serie di incidenti che si sono verificati lungo la Linea Blu. Lo scorso aprile, il comandante in capo di Unifil, il generale italiano Stefano Del Col, aveva ricordato che la missione ONU non ha alcun mandato «per monitorare l’interno dei villaggi o delle residenze private». Ma per gli ambienti di Hezbollah queste rassicurazioni non sono sufficienti e anche in queste ore da più parti, tra membri ed esponenti del movimento sciita, si afferma che le telecamere sono uno strumento di «spionaggio» contro la «resistenza islamica».

(Corriere del Ticino, 3 maggio 2021)


L’autonomia degli ebrei ultraortodossi è responsabile della strage sul monte Meron?

Cioè della peggior catastrofe in tempo di pace in Israele: lo sostengono in diversi, e alla base c'è una questione dibattuta da tempo.

Negli ultimi giorni in Israele si è tornati a discutere delle estese concessioni e autonomia di cui gode la comunità locale degli ebrei ultraortodossi, cioè i cittadini israeliani che aderiscono alle dottrine più tradizionali e conservatrici dell’ebraismo. Erano tutte ultraortodosse, infatti, le 45 persone morte la settimana scorsa nella calca durante un pellegrinaggio rituale al Monte Meron, nel nord del paese, in quella che è stata la peggior catastrofe in tempo di pace nella storia di Israele. Al pellegrinaggio hanno partecipato in tutto circa 100mila persone: un numero molto più alto di quello concesso per i raduni pubblici nel paese durante la pandemia.
   In molti si chiedono se la strage si sarebbe potuta evitare se la comunità ultraortodossa non godesse di un tale status privilegiato, garantito fra l’altro dalla grande influenza dei partiti che la rappresentano all’interno dei governi di destra guidati da Benjamin Netanyahu.
   In ebraico gli ebrei ultraortodossi si chiamano haredi (haredim al plurale) e sono circa il 12 per cento della popolazione d’Israele: in tutto, parliamo di 1,17 milioni di persone . Sono noti per seguire un’interpretazione rigida e letterale della dottrina religiosa ebraica, e per rifiutare molti sviluppi moderni sia della dottrina ebraica sia più in generale dell’umanità.
   Fin dalla fondazione dello stato godono di ampie autonomie, perché si riteneva che il loro contributo fosse fondamentale per la formazione di un’entità nazionale di carattere ebraico. Ancora oggi ricevono generosi sussidi statali e vari privilegi fra cui la possibilità di frequentare scuole speciali – dove per esempio non si insegnano le materie scientifiche – e l’esenzione dal servizio di leva, obbligatorio per la stragrande maggioranza degli israeliani.
   Il loro stile di vita non pesa soltanto sulle casse dello stato. Gli ultraortodossi nutrono grande diffidenza per la scienza e la tecnologia – ritengono che solo il loro stile di vita possa salvarli dalle sventure che colpiscono il resto dell’umanità – e quindi hanno pochissima fiducia nell’efficacia dei vaccini e delle norme di distanziamento fisico: un problema enorme, in un periodo di pandemia.
   Anche per questo circolavano molte preoccupazioni sul raduno al Monte Meron, indetto per celebrare la festa di Lag Ba’omer vicino alla tomba del venerato rabbino Simon bar Yochai, vissuto nel II secolo d.C. Nel 2020 il pellegrinaggio era stato vietato per via della pandemia; quest’anno però il governo israeliano aveva concesso di celebrare la festa a causa delle grosse pressioni fatte dalla comunità ultraortodossa.
   Ad oggi in Israele, dove grazie alla vaccinazione di massa molto avanzata le restrizioni contro il coronavirus sono state in gran parte eliminate, il limite per i raduni pubblici è di 100 persone. Il governo però aveva accordato un’esenzione specifica per il pellegrinaggio al Monte Meron in seguito a un accordo tra le comunità ultraortodosse e il ministero degli Affari religiosi, controllato dallo Shas, uno dei più potenti partiti della destra religiosa e nazionalista. Il governo aveva fissato il limite massimo a 10mila partecipanti, a patto che fossero tutti vaccinati contro il coronavirus. Alla fine però i controlli sul numero di partecipanti non sono stati molto serrati, e al pellegrinaggio sul Monte Meron c’erano circa 100mila persone.
   Al momento è in corso un’inchiesta per individuare le cause della strage. Le critiche principali sono state rivolte alle forze dell’ordine, che non avrebbero effettuato i dovuti controlli sul limite massimo di persone da ammettere: soprattutto sulla passerella in cui centinaia di persone si sono ritrovate schiacciate.
   Anche la maggior parte degli ebrei ortodossi presenti ha accusato la polizia di mancanza di controlli, ma nessuno di loro se l’è presa con il governo che aveva autorizzato quel raduno, concedendo di violare le restrizioni per il contenimento del coronavirus in nome dell’autonomia di cui la comunità gode nel paese.
   Nei primi anni della sua formazione, l’autonomia garantita agli ultraortodossi era in qualche modo bilanciata dal carattere indipendente di moltissime istituzioni statali e dalla spinta socialista – quindi tendenzialmente laica – dei kibbutz, le comunità agricole ed egalitarie nell’entroterra del paese. Oggi l’esperienza dei kibbutz si è quasi del tutto esaurita, ma lo stesso non si può dire della comunità ultraortodossa: che fra l’altro si espande a ritmi imparagonabili rispetto al resto di Israele, dato che i suoi membri scoraggiano apertamente l’utilizzo di metodi anticoncezionali.
   In un quadro politico sempre più frammentato come quello israeliano, i partiti che fanno riferimento alla comunità ortodossa sono gli unici che possono contare su un bacino crescente di voti: per questa ragione sono uno dei pochi elementi di continuità che hanno contraddistinto i governi israeliani degli ultimi dieci anni.
   Per i partiti della destra religiosa e quelli direttamente espressione della comunità ultraortodossa, l’autonomia ed indipendenza degli haredim è talmente intoccabile che da sette anni i governi di destra chiedono e ottengono dalla Corte Suprema israeliana la proroga dell’entrata in vigore di una legge del 2014 che obbliga l’esercito a convocare per il servizio di leva anche i giovani ultraortodossi. «Sebbene la leva degli ultraortodossi fosse uno dei temi principali della campagna elettorale dell’aprile 2019, da allora è passato in secondo piano», scriveva un paio di mesi fa il Times of Israel: «ma a un certo punto dovrà essere affrontato».
   «Gli ultraortodossi hanno un’autonomia che non potrebbe esistere senza le risorse e l’acquiescenza dello Stato», ha detto al Washington Post Yoram Bilu, professore emerito di antropologia e psicologia all’Università ebraica di Gerusalemme. «Guardate cosa succede ai festival rock israeliani. Le richieste della polizia e delle autorità sono di gran lunga più rigorose». Bilu esprime una posizione molto popolare nell’opinione pubblica israeliana: in un sondaggio di tre anni fa dell’Israel Democracy Institute, il 70 per cento degli israeliani si era detto favorevole ad estendere il servizio di leva ai giovani ultraortodossi. Sempre più persone, soprattutto nei centri metropolitani, tollerano a fatica il fatto che lo stato paghi circa 150mila uomini affinché passino la vita a studiare la Bibbia.
   Difficilmente però le cose cambieranno nel breve termine, data la crescente influenza dei partiti organici alla comunità ultraortodossa e quelli dell’estrema destra religiosa sui governi israeliani. Alle elezioni del 2021 circa un elettore su quattro ha votato per uno di questi partiti.
   Un alto funzionario di polizia, parlando anonimamente al quotidiano israeliano Maariv, ha detto che per quanto si possano trovare colpe commesse dalla polizia, la mancanza di controllo va ascritta proprio al governo: «Per anni ci sono stati eventi con centinaia di migliaia di partecipanti al Monte Meron, e oltre a dire “Che Dio li protegga”, non è stato fatto nulla. Nessun parlamentare ha nemmeno tentato di approvare un disegno di legge o un provvedimento per richiedere agli organizzatori di un evento come questo di ottenere un permesso dalla polizia, nessuno ha fatto qualcosa per limitare il numero di partecipanti o il numero di persone autorizzate ad entrare nel sito».

(il Post, 3 maggio 2021)


Netanyahu e l’apertura a Bennett: “Pronto a lasciargli la premiership”

Il Primo ministro incaricato Benjamin Netanyahu ha ancora un giorno per riuscire a formare un governo. Scadute le 24 ore, in caso di insuccesso, Netanyahu dovrà rimettere l’incarico nelle mani del Presidente d’Israele Reuven Rivlin. Per questo ha deciso di premere sull’acceleratore e fare un’offerta importante al leader di Yamina, Naftali Bennett: sarà lui a guidare, almeno inizialmente, il prossimo governo d’Israele. “Ho detto a Bennett che sono disposto ad accettare la sua richiesta di un accordo di rotazione in cui lui servirà per primo come primo ministro per un anno. – ha scritto sui suoi profili social Netanyahu – I membri del partito Yamina entreranno nel governo e nella Knesset con ruoli importanti”. Il Primo ministro ha poi esortato il leader della destra nazionalreligiosa a firmare “oggi un accordo sulla formazione di un governo di destra, e a impegnarsi a non entrare in nessun altro governo. In un post di 10 giorni fa, – ha aggiunto Netanyahu – Bennett ha scritto che un governo di destra potrebbe essere formato se mi faccio da parte per il primo anno. Così mi sono fatto da parte. Ora è il suo turno”. A stretto giro è arrivata la risposta di Bennett, che suona come un rifiuto alla proposta del Premier incaricato. “Ho sentito ora l’offerta di Netanyahu, ma non è chiara. Non ho chiesto la premiership, ma un governo – e questo, purtroppo, non ce l’ha, perché [il capo del partito del Sionismo Religioso] Smotrich ha bruciato i ponti che portavano a un governo di destra”, la replica di Bennett, in riferimento al rifiuto del leader di estrema destra – Bezalel Smotrich – di entrare in un governo sostenuto dal partito arabo Ra’am. Nella sua risposta a Netanyahu, ha poi affermato di preferire ancora un governo di destra piuttosto che una coalizione con i partiti di centro e di sinistra e di essere disposto a fare compromessi. D’altro canto “Netanyahu non ha un governo e cerca di dare la colpa a Yamina” ha aggiunto Bennett, lasciandosi le mani libere per un accordo di unità nazionale con il blocco avverso al leader del Likud. “La cosa più distruttiva per Israele sarebbero altre elezioni”, la sua posizione.
   Alla finestra c’è invece la guida di Yesh Atid, Yair Lapid, che attende la scadenza del mandato di Netanyahu per avere lui il pallino del gioco. “Tra un giorno, avremo due opzioni: un governo di unità israeliana buono, decente e funzionante, o le elezioni”, ha dichiarato Lapid. Secondo il leader centrista l’opzione dell’esecutivo di unità nazionale non è la soluzione perfetta “ma sarà un governo che si assumerà la responsabilità e si occuperà della gestione dello stato”. Alla domanda se è disposto a rinunciare al mandato per formare un governo, Lapid ha chiarito che non vi rinuncerà e che “la nostra proposta a Bennett non passerà inosservata se e quando il mandato passerà a me, non farò giochetti”.
   Intanto il supervisore del governo israeliano Matanyahu Englman ha annunciato “una inchiesta speciale” sul disastro mortale del Monte Meron dove la settimana scorsa sono morti schiacciati dalla calca 45 ebrei ortodossi – e altri 150 sono rimasti feriti – in occasione della festa di Lag Ba-Omer. Englman – che è Controllore di Stato – ha detto che va esaminato “l’incidente per vedere se si poteva evitare”. Poi ha citato due rapporti degli anni scorsi che mettevano in guardia dai potenziali rischi per i pellegrinaggi sul Monte Meron. “L’inchiesta – ha proseguito – riguarderà anche gli aspetti legati alla responsabilità personale”. E si occuperà anche del processo decisionale di gestione del sito religioso di Monte Meron nel corso degli anni.

(moked, 3 maggio 2021)


Niente elezioni: il caos palestinese è solo rimandato

di Ugo Volli

Le lezioni del Consiglio Legislativo Palestinese, l’organo parlamentare dell’Autorità Palestinese, che erano previste per il 22 maggio non si terranno. E così è rimandata a data da destinarsi l’elezione del Presidente dell’Autorità. La colpa, ha detto Mahmoud Abbas, è di Israele che non ha consentito che si votasse a Gerusalemme. È una menzogna: Israele non ha affatto rifiutato di permettere le elezioni, innanzitutto perché non ha ricevuto nessuna richiesta ufficiale del genere. Semplicemente ha taciuto, non ha preso nessuna posizione. Ma il problema è più sostanziale. È perfettamente possibile far votare gli arabi di Gerusalemme che lo desiderano nei territori controllati dall’Autorità Palestinese: si tratta di un percorso brevissimo. Ma l’AP vuole istituire i suoi seggi proprio a Gerusalemme, perché ne rivendica la sovranità. Come ha detto Ahmad Majdalan, un’importante dirigente dell’organizzazione: “Gerusalemme non è una questione tecnica, ma simbolica” . E Israele non vuole dare segnali di rinuncia alla sua sovranità sulla capitale.
     Al di là di questi problemi formali, le elezioni in realtà sono state annullate perché tutte le previsioni indicavano una durissima sconfitta di Abbas e una vittoria di Hamas. Il partito dell’attuale presidente, Fatah, si presenta diviso in tre parti: quella che resta leale a lui, quella che sostiene l’ex uomo forte di Gaza, Mohammed Dahlan, scappato negli Emirati dopo l’espulsione e le minacce giudiziarie, e quella del terrorista Marwan Barghouti, che sconta una condanna multipla all’ergastolo nelle carceri israeliana per gli omicidi che ha organizzato. Anche se fosse unito probabilmente Fatah perderebbe con Hamas, come accadde nelle ultime elezioni. Così spaccato, non ha speranze. D’altro canto le elezioni palestinesi, come quelle di tanti paesi arabi e del Terzo Mondo, non servono a organizzare il ricambio dei vertici politici, ma la loro conservazione. Mahmoud Abbas è stato eletto presidente il 15 gennaio del 2005, per un mandato di 4 anni. In America era presidente Bush, In Italia governava Berlusconi, in Francia Chirac, in Israele Sharon. Ma lui è ancora lì, senza aver mai affrontato nuove elezioni. E il consiglio legislativo palestinese, eletto il 25 gennaio 2006, mai rinnovato da allora, è stato sciolto nel 2007. Da quattordici anni Abbas governa per decreti, senza neppure la finzione di un’approvazione parlamentare o di un’elezione: nessun dittatore si è mai permesso qualcosa del genere, né Stalin, né Mao, né Castro e neppure Assad o Saddam Hussein hanno esercitato il potere in maniera così spudorata. Che accadrà ora? Probabilmente nulla. Abbas sa, al di là delle prediche democratiche, di avere l’appoggio internazionale in questo suo arroccamento al potere. Perché se si facessero le elezioni e vincesse un’organizzazione apertamente e orgogliosamente terrorista come Hamas, tutta l’ipocrisia sulla Palestina si dissolverebbe e la guerra sarebbe inevitabile. E però il dittatore palestinese ha 85 anni, è notoriamente malato, non ha successori designati e neppure un meccanismo costituzionale per la sua sostituzione in caso di morte. Il caos palestinese è solo rimandato.

(Shalom, 3 maggio 2021)


Affaire Sarah Halimi: la cannabis e la licenza di uccidere un'ebrea

Mohamed Merah, !'assassino dei bambini ebrei di Tolosa, è dunque irresponsabile? E come lui Amedy Coulibaly e i fratelli Kouachi?

Scrive la Revue des Deux Mondes (19/4)

Emettendo la sua sentenza sull'affaire Sarah Halimi, la donna torturata e in seguito defenestrata nel 2017 dal suo vicino di casa Kobili Traoré al grido di 'Allahu Akbar', la Corte di cassazione ha seguìto i verdetti dati in prima e seconda istanza: ha cioè confermato l'irresponsabilità penale di Kobili Traoré che avrebbe agito sotto effetto di un `delirio acuto', legato al consumo di cannabis" scrive Valérie Toranian. "La Corte di cassazione si è rifiutata di portare l'affaire davanti al tribunale, come reclamato dalle parti civili. L'assassino di Sarah Halimi non verrà processato. L'affaire è chiuso da un punto di vista giudiziario, ma continua a suscitare reazioni accese, perché se è vero che la Corte di cassazione `è' il diritto, si può per questo considerare che è stata fatta giustizia? E anche se il diritto dovesse condurre a una conferma dell'irresponsabilità di Kobili Traoré perché privarsi di un processo che avrebbe fatto luce sull'affaire e permesso l'analisi contraddittoria delle expertise?
   Ricordiamo i fatti: Kobili Traoré, trent'anni, disoccupato, condannato una ventina di volte per uso e traffico di stupefacenti, rapine, violenze, oltraggio e ribellione, ha sequestrato una famiglia, poi, attraverso la terrazza, è penetrato nella casa di Sarah Halimi, pensionata di confessione ebraica di 65 anni, e l'ha riempita di pugni e calci per un'ora prima di gettarla nel vuoto al grido di `Allahu Akbar'. Durante il suo crimine, Traoré recitava dei versetti del Corano e chiamava la sua vittima `sheitan' (parola utilizzata per indicare il `demone' in arabo). Ragion per cui il crimine sarà alla fine riconosciuto come antisemita, anche se all'inizio non c'era l'intenzione di riconoscerlo come tale. Kobili Traoré ha una fedina penale sporca: ad ogni suo precedente reato, non è mai stato riconosciuto irresponsabile. Non è un 'pazzo', non soffre di alcuna patologia psichiatrica conosciuta, ma gli esperti hanno ritenuto che un consumo cronico di cannabis per quindici anni consecutivi avrebbe potuto annullare la capacità di discernimento e produrre un delirio nel momento dell'atto. Il fatto che questo delirio sia dovuto a un consumo volontario di cannabis e non a una vera patologia psichiatrica non viene preso in considerazione. Se si ritiene che la vostra mente sia annebbiata al momento dei fatti, non siete responsabili. Che siate un fumatore cronico di canne, un totale psicopatico o uno schizofrenico, la legge non fa differenze. Peggio, secondo l'attuale normativa se avete consumato droghe o alcol che alterano la vostra facoltà di giudizio, ma senza abolirla completamente, allora la droga è un fattore che aggrava il vostro crimine. E' così per il non rispetto del codice della strada e gli stupri. In compenso, se avete consumato oltre misura e si ritiene che la vostra capacità di discernimento non sia soltanto alterata ma abolita, allora il consumo di droghe o di alcol... vi esonererà dal vostro omicidio se ne commettete uno!
   La prima lezione della sentenza nell'affaire Sarah Halimi è la seguente: la legge francese vi lava dalle vostre colpe se siete strafatti. Ma vi schiaccia se siete fatti soltanto a metà. Immaginiamo con terrore il messaggio che questa sentenza manda a quelli (e sono numerosi) che si drogano regolarmente e hanno a che fare con la giustizia. Dose massiccia di cannabis = divieto di guidare ma licenza di uccidere? Nella sua sentenza, la Corte di cassazione scrive: `Il giudice non può distinguere lì dove il legislatore ha scelto di non distinguere'. Detto in altri termini: non rimproverateci di aver applicato rigorosamente la legge, rivolgetevi al legislatore. E chi se ne frega se il messaggio di questa sentenza è: più ci si droga, meno si è responsabili penalmente. Rispondendo all'indignazione suscitata da questo verdetto, Emmanuel Macron ha affermato in un'intervista al Figaro che esiste una lacuna legislativa: `Decidere di assumere stupefacenti e in seguito diventare matto non dovrebbe a mio avviso rimuovere la responsabilità penale. Su questo tema, vorrei che il ministro della Giustizia presentasse al più presto una modifica alla legge. Anche in questo caso, nessuna falsa impunità'. Ma l'assassino di Sarah Halimi continuerà a beneficiare della sua falsa impunità in un istituto psichiatrico dove trattano i suoi continui deliri e dove, dopo alcuni mesi o anni di astinenza, si deciderà verosimilmente di rimetterlo in libertà (...).
   Come si può allo stesso tempo commettere un crimine antisemita, ossia essere coscienti della natura dell'atto, e allo stesso tempo essere giudicato irresponsabile? A meno che non si consideri l'antisemitismo una `follia' che non può essere giudicata perché rientra nel campo della psichiatria. Mohamed Merah, l'assassino dei bambini ebrei di Tolosa, è dunque irresponsabile? E come lui Amedy Coulibaly e i fratelli Kouachi? Se fossero usciti vivi dai loro crimini, in questo momento sarebbero dunque in cura in un ospedale psichiatrico? C'è qualcosa che non va".

(Il Foglio, 3 maggio 2021 - trad. Mauro Zanon)


Disgelo con Teheran, l'ira di Israele il capo del Mossad vola da Biden

Incontro fra sauditi e iraniani. Sul nucleare nuovo round di colloqui: l'intesa si avvicina e spaventa Gerusalemme.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Il capo del Mossad vola negli Stati Uniti per incontrare Joe Biden e chiarire le contrarietà di Israele sul rientro americano nell'accordo nucleare iraniano (Jcpoa). Una missione dal carattere di urgenza ancor maggiore se inquadrata non solo nell'accelerazione dei colloqui sul dossier atomico (ieri si è chiuso il terzo round di colloqui a Vienna) ma anche sul miglioramento dei rapporti prospettato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (alleato degli Usa) con la Repubblica islamica. Apertura accolta con interesse da Teheran: «Due importanti Paesi della regione e del mondo islamico - ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh potrebbero aprire un nuovo capitolo di impegno e cooperazione attraverso un dialogo costruttivo per raggiungere pace, stabilità e sviluppo nella regione superando le dispute».
   Il fermento regionale ha messo in guardia Israele che vede nell'Iran e nelle sue procure locali, come Hezbollah in Libano, la principale minaccia alla sicurezza nazionale. Così Yossi Cohen, il capo dei servizi segreti, è stato ricevuto venerdì da Biden nel corso di una visita considerata una forzatura rispetto ai protocolli cerimoniali. Di solito il primo incontro con un nuovo presidente Usa spetta al primo ministro. In realtà il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva inviato a Washington Cohen ed il consigliere per la Sicurezza nazionale Meir Ben Shabat per discutere i vari aspetti del dossier nucleare. Il colloquio con Biden non era incluso nel programma originale ma si è reso necessario dato il veloce sviluppo delle dinamiche regionali. Cohen ha così illustrato direttamente all'inquilino della Casa Bianca le ragioni dell'opposizione di Israele ad una riedizione del Jcpoa.
   L'urgenza deriva dall'ottimismo sui negoziati con la possibile rimozione delle sanzioni Usa entro le elezioni del 18 giugno nella Repubblica islamica, in cui i moderati del presidente Hassan Rohani partono sfavoriti rispetto ai conservatori, ostili al dialogo con Washington. L'Iran vede «segnali positivi all'orizzonte» sia sui negoziati a Vienna che su una riconciliazione nel Golfo, ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri Zarif, riferendo dei suoi incontri in Kuwait, ultima tappa di un tour diplomatico nel Golfo. Ma il capo della diplomazia iraniana è stato ripreso dal leader supremo dell'Iran, l'Ayatollah Ali Khamenei, che ha definito un «grosso errore» i commenti fatti dal ministro in un'intervista in cui spiega che i militari sono troppo influenti nella diplomazia. Frizioni interne che potrebbero far rallentare il dialogo sul nucleare e con le monarchie del Golfo rafforzando lo status quo voluto da Israele.
   
(La Stampa, 3 maggio 2021)


Il Monte Meron e la cronaca di Rav Toaff del ‘54

di Rav Jacov Di Segni

La tomba del Rabbino Shimon Bar Yochai sul Monte Meron è da tempo meta di pellegrinaggio nel giorno di Lag Baomer, che secondo una tradizione è il giorno in cui R. Shimon Bar Yochai rivelò l’interpretazione mistica della Torà che poi fu raccolta nel libro dello Zohar (Splendore). In questo giorno, che già nelle fonti più antiche è considerato un giorno festivo, molti usano recarsi presso la tomba del Maestro e gioire in suo onore, cantando e ballando intorno a dei falò accesi per l’occasione. Ripercorriamo attraverso alcune fonti antiche la storia di questo uso.
   Le tombe di Rabbi Shimon bar Yoḥai e di suo figlio Rabbi Elʿazar a Meron sono le più autentiche di tutte le tombe venerate nella Galilea, poiché sono già citate nella letteratura talmudica e midrashica (Talmud Bavli, Bava Metzi’à 84b; Qohelet Rabba 11), mentre la tradizione della maggior parte delle altre tombe non risale che al XII secolo. Tuttavia non sono menzionati dai due viaggiatori del XII secolo: Binjamin di Tudela e Petacḥya di Ratisbona, che visitarono Meron e che ricordano solo le tombe di Hillel e di Shammai e di altri Maestri. Nel racconto del viaggio di Petachia si narra per la prima volta anche di un miracolo legato a una sorgente di acqua, che avveniva presso queste tombe e che attirava i pellegrini anche da paesi lontani. Dall'inizio del XIV secolo alla metà del XVI secolo sentiamo parlare di una giornata annuale di pellegrinaggio alle tombe di Hillel e Shammai a Meron il 15 di Iyyar (Pesach Sheni). La caratteristica principale di questo pellegrinaggio erano le preghiere per un anno piovoso e i miracoli dell'acqua. A quel pellegrinaggio partecipavano ebrei e arabi insieme, e difatti il pellegrinaggio e il miracolo dell’acqua è riportato anche da alcuni autori arabi. Una testimonianza di questo pellegrinaggio ci viene dal rabbino italiano Moshè Bassola, che nel 1521 visitò Meron e che ci dà in un suo resoconto del viaggio una descrizione dettagliata di questo luogo. Fu solo nella seconda parte del XVI secolo che il pellegrinaggio annuale a Meron cambiò data, luogo e carattere. Fu trasferito dalle tombe di Hillel e Shammai a quelle di R. Shimon bar Yoḥai e suo figlio, dal 15 di Iyiar (Pesacḥ Sheni) al 18 di Iyiar (Lag Baʿomer), e dal carattere di festa dell'acqua venne trasformato in festa del fuoco, come è conosciuto fino ai giorni nostri. Cosa ha portato a questo cambiamento? Nei primi testi dei cabalisti di Tzefat non si parla del giorno di Lag Baomer, ma di altri periodi precedenti la festa di Shavuot e di Rosh hashana. L'unica menzione nella letteratura cabbalistica dei festeggiamenti di Lag Baʿomer a Meron, legati alla figura di Rabbi Shimon Bar Yochai è una storia attribuita a R. Ḥayim Vital, il principale alunno dell’Arizal (R. Yitzchaq Luria), in cui egli racconta che il suo grande Maestro, nell'anno del suo arrivo dall'Egitto (ca. 1570), fece un pellegrinaggio a Meron con la sua famiglia proprio a Lag Baʿomer. La storia ci è pervenuta in più versioni, diverse in alcuni dettagli, ma in tutte le versioni è evidente  che l’intenzione dell’autore non è che quella di dare una giustificazione a una festa di pellegrinaggio che evidentemente era già in uso. Secondo una tradizione riferita dal Chidà (Rav Chayim Yosef David Azulai)  R. Josef Caro nel XVI secolo si oppose al nuovo pellegrinaggio alla tomba di R. Shimon, e aveva già preparato un comunicato scritto, ma “dal Cielo non approvarono” e il documento fu da lui strappato. La tradizione di recarsi in pellegrinaggio presso la tomba di R. Shimon nel giorno di Lag Baomer si è diffusa maggiormente dopo la stampa di due testi kabbalistici: il Chemdat Yamim, stampato a Smirne 1731, di cui non si conosce l’autore, e il Mishnat Chasidim, opera kabbalistica del Rabbino italiano Immanuel Chai Ricchi, stampata ad Amsterdam nel 1727. Il Chemdat Yamim non riporta l’uso di visitare la tomba del Maestro, ma scrive che “si usa studiare i suoi scritti cabbalistici e gioire in suo onore”; è in questo testo che il giorno di Lag baOmer viene identificato per la prima volta come anniversario della morte di rabbì Shimon. Nel Mishnat Chasidim leggiamo invece “è mitzwà gioire per la gioia di Rabbì Shimon bar Yochai, e chi abita in Eretz Israel vada a gioire sulla sua tomba”. Negli anni successivi vengono stampati dei formulari specifici per la giornata di Lag Baomer, e si diffonde sempre di più l’uso di andare a Meron in pellegrinaggio alle tombe e di gioire in suo onore.
   Concludiamo questo breve articolo con una cronaca del giovane Rabbino Elio Toaff sui festeggiamenti a Meron in occasione di Lag baOmer nel 1954 (da La Voce della Comunità Israelitica di Roma).
    Meron, 21 maggio
    Una moltitudine di popolo fin dalle prime luci del giorno di Lag ba-omer si è dato convegno a Meron presso il sepolcro di R. Shimon bar Johai per assistere alle celebrazioni indette dal Ministero dei Culti. Una quantità enorme di stranieri si è unita alle carovane di carri e di macchine che per tutta la giornata sono affluiti a Meron. La tomba del grande Rabbino era sommersa dai lumi che a migliaia vennero accesi in Suo onore. Le celebrazioni vere e proprie hanno avuto inizio alle otto di sera, allorquando il Rabbino di Safed S. Cohen Kaplan recando un antichissimo Sefer Torà in braccio, ha acceso i grandi falò sul monte mentre il popolo si abbandonava ai canti e alle danze. Nello stesso tempo il Rabbino militare insieme a migliaia di soldati, mentre le bande dell’esercito suonavano il Bar Johai, accesero grandi falò tutto intorno a Meron. Pubblico e soldati si unirono poi nelle danze intorno ai grandi fuochi visibili come nei tempi antichi a grandissima distanza. A Gerusalemme il Presidente Ben Zewi è comparso improvvisamente insieme alla Sua Signora nel popolare quartiere dei Hasidim per partecipare alla festa intorno al grande falò. Egli rimase commosso nel sentire i famosi, secolari canti hassidici, che, in Suo onore, giovani e vecchi intonarono danzando e ripeterono, seguendolo sulla via del ritorno verso la sua abitazione.
(Shalom, 2 maggio 2021)


Mansour Abbas, lo statista

Il leader del partito islamico Ra'am Mansour Abbas non sta deludendo le aspettative. Si sta giocando le sue carte nel modo migliore. Con il giusto cinismo politico mantiene tutte le porte aperte. Sia quella che porta alla coalizione guidata dal leader del Likud Benjamin Netanyahu sia quella, nella direzione opposta, che conduce verso la "coalizione del cambiamento" ( come la chiamano i media israeliani) guidata dal centrista Yair Lapid. Perché se i suoi ex compagni della Lista araba unita hanno messo veti a sostenere non solo Netanyahu, ma anche Naftali Bennett (le cui idee sono ancor più a destra del Likud), Abbas non ha detto di no a nessuno. Si rifiuta di rifiutare qualsiasi candidato, come scrive la giornalista israeliana Mazal Mualem. "Recentemente Abbas ha dimostrato di non essere al soldo di nessuno, come ha ripetutamente affermato, votando contro una proposta del Likud per il controllo della nuova Commissione di organizzazione della Knesset. Questo è stato un colpo devastante per Netanyahu", sottolinea Mualem. La Commissione è infatti un pezzo importante per i partiti per avere in mano il pallino del gioco in queste settimane di trattative. È la prima che deve essere formata dopo le elezioni e controlla l'agenda legislativa nel parlamento fino alla formazione di un nuovo governo. Considerando che questa eventualità - la nascita di un esecutivo - appare ancora lontana, il potere di questo organo risulta ancor più grande: chi lo guida deciderà per un tempo ancor più lungo l'agenda della Knesset.
    Da qui, la volontà di Netanyahu e del Likud di assicurarsene il controllo, così come della coalizione opposta.
    Alla fine l'ha spuntata Lapid, grazie a un generoso accordo stipulato con il leader di Ra'arn. I suoi determinanti voti sono arrivati in cambio della promessa di ruoli di peso in questa legislazione. Secondo i media israeliani, Lapid avrebbe aperto alla possibilità di nominare lo stesso Abbas vicepresidente della Knesset, di indicare un suo uomo nell'importante commissione finanze e di affidare, sempre a Ra'am, la presidenza di una commissione dedicata al contrasto della violenza nella comunità araba. Una fetta di torta importante per un partito di soli quattro seggi.
    Tornando indietro nel tempo, è difficile trovare un leader arabo in grado di essere così efficace alla Knesset come Abbas.
    Anche la sua prima uscita pubblica dopo il voto è stata accolta molto positivamente. Tutti i principali media nazionali hanno seguito in diretta, nel cosiddetto prime-time, il suo discorso. Gran parte del quale è stato definito come "sorprendentemente conciliante". In particolare, Abbas, parlando in ebraico, si è descritto come "un uomo del Movimento Islamico, un orgoglioso arabo e musulmano, un cittadino dello stato di Israele", scegliendo di non riferirsi a se stesso come palestinese. "Abbas si è rivolto prima di tutto all'elettorato ebraico, che fino a quel momento lo considerava un incrocio tra un terrorista di Hamas e un clone del vituperato presidente turco Recep Tayyip Erdogan", spiega il giornalista Ben Caspit. Con toni di grandi aperture, il leader di Ra'am ha voluto consolidare il suo ruolo di uomo del dialogo tra le diverse realtà, in grado di collaborare anche con la destra, "per il bene nazionale". Per Caspit si è trattato di "uno dei più grandi momenti politici televisivi della moderna storia israeliana".

(Pagine Ebraiche, maggio 2021)


Monte Meron: mentre Israele piange le vittime, si chiede una commissione d'inchiesta

Il disastro fa emergere tensioni fra le comunità religiose e laiche del Paese e la presunta ignavia del governo.

di Dario Ornaghi

TEL AVIV - Con bandiere a mezz'asta e concerti ed eventi sportivi rinviati, Israele celebra oggi una giornata di lutto nazionale per le 45 vittime della calca a un raduno di ebrei ultraortodossi sul Monte Meron di giovedì. Al cordoglio, però, si accompagnano le polemiche per una tragedia che si scopre annunciata e rivela le tensioni fra comunità religiose e popolazione laica all'interno del Paese.
    Diversi chiedono innanzitutto una commissione d'inchiesta statale. Come un gruppo di ex capi di polizia che, in una lettera al primo ministro Benjamin Netanyahu, invoca un'indagine approfondita che fornisca indicazioni per gli anni a venire. Come riporta il Times of Israel, responsabili delle forze dell'ordine presenti e passati denunciano le enormi pressioni politiche che la polizia avrebbe subito negli ultimi anni perché il Lag B’Omer avvenisse senza limitazioni di pubblico, al fine di non scontentare la comunità religiosa haredì che vi partecipa. 
    «Il sito (sul Monte Meron, ndr) deve essere gestito in maniera diversa», sottolinea alla Radio dell'esercito il rabbino capo ashkenazita David Lau. «Lo Stato è tenuto a prendersene la responsabilità». A fargli eco è anche il presidente del partito Giudaismo Unito nella Torah, Moshe Gafni, che lamenta come il luogo della tragedia non sia stato «toccato dalla fondazione dello Stato» d'Israele: «Non si possono avere così tante persone in un posto così piccolo e non avere un disastro», assicura.
    Anche tra gli editorialisti c'è chi punta il dito contro l'ignavia del governo. Come Chen Artzi Sror che, su Ynet News, lamenta come l'esecutivo dello Stato ebraico abbia rinunciato a esercitare la propria autorità su alcune fasce della popolazione: «Ha abdicato al suo ruolo e ha permesso a un'autonomia haredì di emergere - scrive -. E in un posto dove non c'è la legge dello Stato e non c'è paura dell'autorità nessuno è sicuro». La reticenza del governo di Netanyahu a intervenire negli affari delle comunità ebraiche ultraortodosse era riemersa recentemente nel corso della pandemia di Covid-19. Le autorità sono state a più riprese accusate di non voler far applicare le norme sanitarie a questi gruppi di popolazione. 
    Nel disastro del Monte Meron sono morte 45 persone, fra le quali si contano almeno dieci minori. I feriti sono circa 150. Nel sito dell'annuale raduno religioso dovevano trovarsi al massimo 10mila persone, ma si calcola fossero almeno 100mila.   

(Ticinonline, 2 maggio 2021)


Israele: lutto nazionale, il Paese ricorda le vittime del Monte Meron

Bandiere a mezz'asta, cerimonie pubbliche, sospesi eventi

Bandiere a mezz'asta, cerimonie alla Knesset, nelle basi militari e nelle ambasciate israeliane nel mondo, Consiglio dei ministri rinviato. Israele ricorda con una giornata di lutto nazionale la tragedia di Monte Meron dove nella notte di tra giovedì e venerdì scorso sono morti 45 ebrei ortodossi - e oltre 150 sono rimasti feriti - durante la festa di Lag Ba-Omer.
Tra le vittime del maggior disastro civile del Paese anche 12 tra minori e adolescenti, tra cui due fratelli.
Concerti ed eventi sportivi sono stati posticipati, mentre ieri sera la facciata del Comune di Tel Aviv si è illuminata con i colori della bandiera di Israele. Tutte le 45 vittime sono state ora identificate e quindi si sono potuti svolgere, fin da ieri sera all'uscita del riposo sabbatico, i funerali di chi ancora non era stato riconosciuto dai parenti. Proseguono le indagini della polizia e delle autorità inquirenti sui motivi della sciagura.

(ANSA, 2 maggio 2021)


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Gerusalemme, folla di ebrei al Muro del Pianto per ricordare la vittime del Monte Meron

Centinaia di ebrei ortodossi hanno cantato e pregato sabato per le 45 persone che sono morte nella fuga precipitosa durante la festa ebraica sul Monte Meron. Il raduno spontaneo si è tenuto un giorno prima che Israele celebrasse una giornata nazionale di lutto per il più grande disastro civile mai avvenuto nel Paese. Almeno dieci tra bambini e adolescenti di età inferiore ai 18 anni tra le vittime. La tragedia venerdì scorso aveva interrotto la festa annuale del Lag BA' omer che aveva attirato circa 100.000 persone nel più grande raduno dell'anno dopo l'allentamento delle restrizioni per il successo della campagna vaccinale anti-covid.

(Corriere TV, 2 maggio 2021)


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La polizia accusata di avere bloccato quasi tutte le vie di fuga

GERUSALEMME - La polemica sulla sicurezza dell’evento è divampata immediatamente, quando ancora dovevano essere soccorsi i feriti. Uno dei rabbini che partecipavano al pellegrinaggio, Velvel Brevda, testimone della calca sul monte Meron, ha accusato la polizia di aver bloccato con alcune barriere le uscite, che negli anni passati erano abitualmente utilizzate. «Da dove saremmo dovuti uscire? Alle autorità che erano lì non poteva importare di meno», ha dichiarato. Il religioso ha detto di ritenere responsabile il governo per la morte delle persone, «uccise qui senza una ragione, solo per dimostrare che controllano questo posto, e che non lo controllano gli ebrei ortodossi».
Il ministero della Giustizia ha dichiarato che il dipartimento per le indagini interne della polizia ha lanciato un’indagine per eventuale condotta irregolare.
«Il disastro del monte Meron è uno dei più pesanti che abbiano colpito lo Stato di Israele. Piangiamo le vittime, il nostro cuore è con le famiglie e con i feriti, auguriamo loro la piena guarigione». Così il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha donato il sangue per i feriti che necessitassero di trasfusioni.
Quanto alle accuse, il premier le ha rigettate, lodando anzi l’operato del servizio d’ordine. «C’è stata una rapida operazione di salvataggio da parte della polizia, delle forze di soccorso e di sicurezza – ha dichiarato – e siamo grati perché hanno impedito un disastro molto più grande. Condurremo un’indagine seria e approfondita per garantire che un tale disastro non si ripresenti».
Netanyahu ha annunciato per domani un giorno di lutto nazionale.

La Nuova Ferrara, 1 maggio 2021)


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Israele: la strage al Monte Meron fa esultare Hezbollah

Su Twitter e Telegram i commenti sarcastici sulla morte dei pellegrini

di Davide Racca

Non c’è pace per la terra di Israele. La tragedia di ieri nella bolgia a Monte Meron pesa di un bilancio di 45 morti e più di 150 feriti, tutti ebrei Haredim, in pellegrinaggio alla tomba di Shimon Ber Yochai, un celebre rabbino del II secolo d.C, in occasione della festività ebraica di Lag ba-Omer. Si erano radunati in oltre 90.000, ben oltre la capienza delle strutture predisposte ed è bastata la caduta di alcuni di loro per innescare un effetto a catena e una fuga disordinata nella quale molti fedeli sono rimasti calpestati nel panico più totale.
    La strage e il conseguente lutto in prossimità della festività dello Shabbat (il sabato festivo ebraico), non hanno comunque indotto, se non al cordoglio, almeno al silenzio, le fazioni terroriste in perenne conflitto con Gerusalemme.
    Sul social network Twitter, la leadership di Hezbollah ha così commentato l’accaduto: “Ci rallegriamo per la morte degli israeliani e gioiamo della loro disgrazia e auguriamo la loro eliminazione dai loro adulti ai loro bambini”.
    Un post “sfuggito” ai “severi” controlli dello staff di Twitter, sempre così attento a bannare commenti ritenuti fuori luogo o offensivi.
    Anche i canali Telegram utilizzati dai terroristi si sono riempiti di commenti sarcastici relativi alla tragedia di Meron, commenti redatti non solo da fedeli islamisti, ma anche da occidentali schierati dalla parte degli estremisti arabo palestinesi.
    Così, mentre il mondo civile si stringe attorno a Israele, i soliti noti non perdono l’occasione di dimostrare lo sprezzante odio nei confronti di un popolo perennemente in stato di assedio.
    Ed anche dagli Usa, storici alleati di Gerusalemme, se da una parte giungono le condoglianze e i messaggi di solidarietà, dall’altra il neo eletto Joe Biden mostra il suo vero volto riaprendo i flussi finanziari in favore dei palestinesi, elargizioni gratuite che, come noto, non vengono devolute alla popolazione sofferente di Gaza, ma andranno ad ingrossare le tasche dei leader delle organizzazioni terroriste, non escluse quelle sciite già abbondantemente foraggiate da Teheran.
    Un’ennesima constatazione dell’isolamento di Israele, perennemente schierato sulla difensiva per le continue minacce provenienti da più fronti: dal Libano a Gaza, dalla Siria agli sciiti iracheni sino agli Houthi dello Yemen.
    Una conferma delle parole scandite tempo fa dal premier Benyamin Netanyahu che, in occasione di una conferenza stampa sui tentativi di distensione con le parti coinvolte nel decennale conflitto arabo- israeliano, ebbe a dire: “Se i palestinesi abbassassero le armi sarebbe la fine della guerra, se Israele abbassasse le armi sarebbe la fine di Israele”.

(ofcs.it, 2 maggio 2021)


La perenne crisi del modello ebraico romano - Una riflessione di Riccardo Di Segni

di Rav Riccardo Di Segni

Pochi mesi dopo la liberazione di Roma dai tedeschi un piccolo gruppo di ebrei romani fece la ‘aliyà. Nel giro di pochi anni molti di loro rientrarono in Italia. È una vicenda non molto nota, su cui esistono alcune preziose testimonianze memorialistiche, ma forse ancora non una ricostruzione storica precisa. Su questa vicenda fa ulteriore luce un libro appena uscito che ho ricevuto, gradito omaggio, dall’amico Maurizio Tagliacozzo; curato da sua sorella Giordana, è intitolato Il ritorno di Tosca, Auschwitz - Roma- Eretz Israel - Roma, Silvio Zamorani editore, Torino 2021. Di questo libro si parla in altre parti di questo giornale; concentriamoci piuttosto sulla vicenda degli intrepidi ‘olìm. Alcuni di loro riuscirono a inserirsi, ma molti altri no, e tornarono. Non fu però un abbandono dell’ebraismo: loro stessi e i loro discendenti, oltre ad aver fatto carriere importanti nel mondo degli studi e dell’imprenditoria, hanno avuto e continuano ad avere ruoli dirigenziali anche ai massimi vertici dell’ebraismo italiano; un ramo conta dei rabbini noti; e alcuni di quella generazione e dei loro discendenti sono tornati o si sono mossi a vivere in Israele.
   Questa storia sollecita a riflettere su alcune caratteristiche dell’ebraismo romano, che emergono nella difficile lotta per l’integrazione in Eretz Israel. Nel caso di allora si trattò di persone di famiglie borghesi, con un passato di commerci ben avviati, benché rovinati dalla persecuzione e dalla guerra; alcuni avevano compiuto studi universitari che potevano avviarli a professioni liberali. Arrivati in “Palestina” dovettero subito rinunciare ai minimi agi cui erano abituati e rimboccarsi le maniche per sopravvivere. La lingua per molti rappresentò un ostacolo insormontabile, e fu difficile adattarsi alla vita di agricoltori nei qibbutzim o di operai nelle fabbriche. Per i giovani le sfide furono differenti: scuole con curricula differenti, socializzazione con coetanei di origini e culture disparate. E poi il problema religioso. Con una selezione grossolana, all’arrivo i ragazzi vennero classificati come datiìm, religiosi, scegliendo una delle due categorie possibili (l’altra era quella dei non religiosi, chiloniim, laici). Le famiglie da cui provenivano erano attaccate all’ebraismo, tanto più dopo il trauma della persecuzione, mantenevano tradizioni (si pensi che Tosca in prigionia aveva osservato non solo il Kippur ma anche il 9 di Av); ma il livello di osservanza era lontano dallo standard di coloro che venivano considerati in Israele religiosi: mancava loro la confidenza con i testi tradizionali, l’abitudine alla preghiera quotidiana, l’uso del tallèd qatàn (che a Roma veniva chiamato arbàng canfòd ma da pochissimi indossato) e dei tefillin, l’osservanza rigorosa dello shabbat che non si limitasse alla partecipazione alla preghiera dell ’arvìt. Per alcuni ragazzi fu il brusco ingresso in un universo nuovo che peraltro non capiva né tollerava il dissenso e la disobbedienza; alcuni accettarono volentieri e si integrarono, altri ebbero reazioni d fuga e rigetto. I genitori se li portarono via per i motivi sociali ed economici sopraddetti; per loro, i genitori, l’impatto con mondi religiosi intensi non era il problema principale, ma per i ragazzi che non vivevano con le famiglie la diversità pesava. Una volta riportati in Italia si ricrearono ciascuno una sua identità religiosa, forse più vicina a quella dell’ambiente originario che a quella che avevano assaporato in Israele.
   L’avventura palestinese degli anni 1945-47 fu uno dei bruschi impatti dell’ebraismo italiano, e romano in particolare, con la complessità del mondo ebraico. In qualsiasi comunità, e quella italiana non fa eccezione, sono rappresentati tutti i modelli possibili di identità ebraica; solo che nella diversità c’è sempre un modello prevalente in cui si riconosce la maggioranza delle persone. Quello della maggioranza degli ebrei italiani e romani deriva da una storia del tutto particolare, dalle glorie e sofferenze del passato alle ubriacature emancipatorie in un contesto non ostile e invece seducente: era il modello di mantenimento di tradizioni essenziali (come le feste, la frequentazione sinagogale nel sabato) e di osservanza “tiepida”. Soprattutto dal punto di vista della educazione e degli studi religiosi il quadro era carente; parlando di Roma, dopo l’apertura del Ghetto non c’era stata scuola ebraica fino al 1924, e all’inizio fu solo elementare e frequentata dai meno abbienti, con numero limitato di ore destinato a studi tradizionali. D’altra parte, anche stando nel tiepido modello prevalente non ci si poteva definire irreligiosi o laici. Per cui, nell’incontro con altri mondi, gli ebrei romani si scoprirono troppo poco religiosi rispetto ai religiosi e fin troppo religiosi per i laici.
   A distanza di tre quarti di secolo da quegli avvenimenti ci si aspetterebbero cambiamenti radicali rispetto a questo schema. In effetti niente sembrerebbe come prima: dopo le immigrazioni in Italia di ebrei che hanno portato dai loro paesi mentalità e modelli identitari diversi e talora più intensi; dopo le ondate di aliyòt italiane e i continui scambi con chi vive, lavora e studia in Israele; in un mondo in cui si circola ampiamente e liberamente e si visitano realtà ebraiche diverse; con la rivoluzione digitale che ci fa conoscere e comunicare con testi, video e persone di altri mondi; con la crescita delle strutture educative formali e non formali, nelle scuole e nelle sinagoghe decentrate.
   Eppure il problema della difficile integrazione continua a presentarsi, come si è visto recentemente con l’esperimento di Na’alè, una organizzazione israeliana paragovernativa che seleziona giovani in età liceale e li mantiene agli studi in Israele in strutture collegiali, per facilitarne l’inserimento e la futura aliyà. Per alcuni dei nostri giovani è stato difficile o impossibile trovare una scuola israeliana confacente al proprio modello, perché l’alternativa era o una scuola “laica” o una scuola religiosa.
   Di nuovo, e dopo tanto tempo, lo strano modello nostrano entra in conflitto con realtà e pensieri che non propongono vie di mezzo e fanno una distinzione netta tra le realtà, per cui si può stare o di qua o di là. Se noi seguiamo una via di mezzo, la causa è prima di tutto nei numeri, per noi troppo piccoli, che non ci permettono di fare ulteriori divisioni; ma è anche nel modo di pensare, che sembra essere tollerante per la diversità e la scelta personale, o che evita ogni tipo di “esagerazione”. C’è da chiedersi allora se il modello che ci portiamo addosso sia buono, da difendere, addirittura da esportare, o piuttosto se non sia da modificare. Certamente il nostro modello ha dei punti a favore notevoli, è “inclusivo”, ci fa sentire comunità al di sopra delle differenze, demolisce barriere che potrebbero avere effetti repulsivi di allontanamento. La nostra è la risposta locale, dovuta non so se a necessità o saggezza, alla domanda di se e come sia possibile mettere insieme tante diversità. Invece la risposta prevalente in molte comunità del mondo e in terra d’Israele è che ognuno se ne stia per conto proprio. Se il tuo bet hakeneset è troppo rigido o troppo poco rigido, me ne faccio uno come voglio io. Se la tua scuola si basa su principi che non condivido, non cerco di cambiare la scuola o di trovare un compromesso, mi faccio la mia scuola. D’altra parte bisogna capire che la necessità di stare tutti insieme non deve comportare ogni possibile compromesso. Dentro a un bet hakeneset ortodosso vanno rispettate certe regole. Se le si cambiano, oltre certi limiti, non sarà più un bet hakeneset ortodosso. Sull’impostazione didattica di una scuola e sui suoi programmi di formazione ebraica vi possono essere punti di vista molto differenti. La richiesta, fatta da molte famiglie, di ridurre all’osso gli studi ebraici, contrasta con quella di molte altre famiglie che vorrebbero studi più intensi. Se si dovessero ascoltare i primi si arriverebbe (o si rimarrebbe) a un appiattimento in basso. Allora i casi sono due: o la scuola comunitaria ebraica risponde alle richieste esigenti, o si avrà un’altra scuola privata non comunitaria che assorbirà il pubblico di un certo tipo, con buona pace dell’ideale della convivenza e dell’unità. Senza andare tanto lontano, a Milano questa è una realtà da anni, e a Roma lo sta diventando. Insomma il modello unitario non deve portare all’appiattimento e alla perdita dei valori di cui la comunità come istituzione si deve fare promotrice. Deve stare al passo con i tempi, deve guarire dalla malattia italiana del provincialismo, deve confrontarsi con il mondo ebraico. Se le nostre scuole devono essere concorrenziali con quelle non ebraiche nella qualità dei risultati formativi da spendere nel mercato degli studi e del lavoro, lo devono essere altrettanto nella qualità della formazione ebraica. I giovani che nel 1945 approdavano da Roma in Palestina erano, malgrado la loro origine e l’identità tradizionale, ebraicamente analfabeti. Bisogna impedire che questo succeda ancora nel 2021.
   In molti ambienti della nostra comunità questa esigenza è vista come estremismo religioso, una perniciosa influenza di qualche matto venuto da fuori e vestito di nero. Ma la scelta individuale di crearsi il proprio ebraismo come lo si vuole, e la reazione all’intolleranza e all’incomprensione altrui che spesso vengono anche da ambienti “religiosi” (ma l’intolleranza è malattia comune) non devono avere un effetto distruttivo sulle nostre istituzioni. Né ci si può adagiare sull’immagine per alcuni confortante del “così era”. Perché non è confortante, perché quello che si ricorda è durato poco, è cambiato in continuazione e spesso è stato il prodotto di fattori esterni negativi. E poi, detto chiaramente, non ci si può vantare, come ebrei, della propria ignoranza e analfabetismo ebraico e farla diventare un modello. O vantarsi e difendere le proprie tradizioni e specificità (cosa opportuna) ma senza sapere o capire di che si tratta.
   La sfida è quella di trovare il difficile equilibrio che tuteli da una parte i valori dell’unità, della non frammentazione, della convivenza, che sono propri della parte migliore della nostra cultura, ma che dall’altra garantisca un’offerta comunitaria credibile a chi vuole vivere e trasmettere un ebraismo più radicale.
   Qualcuno si lamenta che questa sia una richiesta verticistica. Angelo Sermoneta (Baffone), che esprime con forza e arguzia nei suoi quotidiani interventi sui social lo spirito dell’antica Piazza, scrive che “per costruire si parte dal basso in alto, no dall’alto in basso; l’estremismo religioso non porta da nessuna parte”. Teoricamente ha ragione, ma non si rende conto che “il basso” è cambiato e chiede esso stesso di costruire; che se “l’alto” non porta progettualità non si capisce a cosa serve; e che non si può bollare di estremismo la richiesta di una maggiore consapevolezza culturale e di pratica religiosa ebraica, dopo la voragine creata per secoli dalla persecuzione della Chiesa, dall’illusione patriottica e da tutto ciò che ha portato lontano dall’ebraismo gli ebrei romani. Se come ebrei romani siamo ancora al centro dell’interesse dell’ebraismo mondiale e israeliano lo dobbiamo alla nostra storia, alla nostra collocazione geopolitica, al fatto che sappiamo “vendere” bene le nostre specificità, ma nella sostanza tutto questo è abbastanza marginale, spesso solo folkloristico, e non sarà quello che garantirà la nostra continuità futura. Roma ebraica fa notizia, pensiamoci bene, quando il papa ci fa gli auguri per Rosh haShanà, per quando manifestiamo per Israele, per quando a Oshaana Rabbà affolliamo il Tempio, per i carciofi alla giudia, ma non per le nostre proposte culturali, che non esistono, al mondo ebraico.
   Quello che serve alla nostra comunità è un ripensamento totale nell’investimento educativo. Abbiamo bisogno di tanti nuovi insegnanti che abbiano la capacità di spiegarsi, di attrarre senza coercizione, di mostrare comportamenti esemplari; e abbiamo bisogno di amministratori con grandi visioni e volontà di investimenti. Su questo bisogna lavorare, per riportare la nostra comunità al centro della vita e della produzione culturale ebraica.

(Shalom, 2 maggio 2021)


Molto interessante.


L’evolversi della vicenda di John Kerry ci dirà se anche Biden è ostile a Israele

Quello che accadrà nei prossimi giorni sulla vicenda di John Kerry ci dirà con chiarezza se anche l’Amministrazione Biden è ostile a Israele come lo era quella di Obama.

di Franco Londei

Nel mondo della informazione moderna le notizie viaggiano a una velocità tale che il fatto che John Kerry sia andato a letto con il nemico iraniano sta già passando in secondo piano.
    Sta succedendo quello che successe quando uscì la notizia che l’allora Presidente Barack Obama bloccò una inchiesta molto avanzata su Hezbollah per non compromettere l’accordo sul nucleare iraniano. Stanno affossando tutto.
    È vero, i giornali repubblicani negli Stati Uniti menano forte, ma non hanno la potenza di fuoco di quelli democratici.
    E forse la gente, anche quella repubblicana, è stanca degli insulti (non serve chiamare ripetutamente John Kerry con l’appellativo di deficiente come stanno facendo certi giornali conservatori).
    Servirebbe invece che si approfondisse la questione e che si arrivasse a stabilire se le rivelazioni fatte da John Kerry al Ministro degli esteri iraniano, Javad Zarif, hanno in qualche modo danneggiato gli Stati Uniti e, soprattutto, Israele.
    Cioè, bisogna capire bene se quelle rivelazione John Kerry le ha fatte perché è veramente un deficiente oppure perché voleva danneggiare Israele.
    Nel primo caso vorrebbe dire che Barack Obama ha messo un emerito imbecille al Dipartimento di Stato. Non ci credo molto.
    Nel secondo caso invece si confermerebbe che l’Amministrazione Obama era profondamente ostile a Israele tanto da passare agli iraniani informazioni classificate.
    Essendo la seconda quella pressoché certa, viene da chiedersi se anche l’Amministrazione Biden, che assomiglia sempre più a quella di Obama, sia da considerarsi “ostile a Israele”.
    Il problema è serio e va capito subito, perché mentre noi parliamo gli Ayatollah corrono velocissimi verso la bomba atomica e Israele non può fare nulla senza l’appoggio americano.
    Che poi il problema non dovrebbe essere solo israeliano ma anche dell’intero mondo libero perché un Iran nucleare non ce lo possiamo davvero permettere.
    E sarà proprio quello che succederà i prossimi giorni sulla vicenda di John Kerry a dirci con chiarezza se anche questa Amministrazione democratica sarà ostile a Israele. Poi a Gerusalemme potranno muoversi di conseguenza.

(Rights Reporter, 2 maggio 2021)



Il segno del profeta Giona (6)

di Marcello Cicchese

A bordo di quella nave pagana che veleggiava da Giaffa a Tarsis c'era un solo ebreo. E l'hanno buttato a mare. Detta così, la cosa può far nascere pensieri malevoli; e tuttavia può essere il punto di partenza di riflessioni inusuali.
   Perché l'hanno fatto? Non ci sono ragioni tecniche: avevano già scaricato in mare molti oggetti per tentare di salvarsi, e non avrebbero certo migliorato le cose alleggerendosi del peso di Giona. Non ci sono ragioni di odio, tutt'altro. Quegli ammirevoli marinai volevano salvare tutti, anche l'ebreo in mezzo a loro che aveva espresso intenzioni suicide. Quell'ebreo però non era un depresso stanco della vita che aveva bisogno di ricevere conforto da persone decise e vogliose di vivere; su quella nave Giona era un'autorità: lui sapeva che cosa si doveva fare e preannunciava quello che sarebbe accaduto. Da dove proveniva quell'autorità? Dal fatto di essere un ebreo che conosceva "l'Iddio del cielo che ha fatto il mare e la terra asciutta".
   In un primo momento quei marinai pagani non gli avevano creduto, e opponendosi alle sue parole avevano reso minaccioso contro di loro quel Dio di cui Giona aveva parlato. Ma alla fine, giunti all'estremo limite delle loro forze, avevano fatto due cose fondamentali: avevano innalzato una preghiera a Dio chiedendogli di salvarli; e avevano ubbidito alla parola di Dio buttando Giona in mare.
   E dopo tutto questo che succede? Ai marinai resta la visione di un Giona che scompare nei flutti del mare. Forse vedono il pesce che lo inghiotte; o forse no. Ma in ogni caso Giona per loro è un capitolo chiuso.
   Rimane aperto invece il capitolo che avevano appena iniziato con Dio. Non Lo vedono, ma quel mare tremendamente calmo intorno al loro, insieme al ricordo di un mare infuriato che poco prima, con devastanti ondate sospinte da un vento irresistibile si era accanito contro la nave come se volesse a tutti i costi farla affondare, per loro adesso significa avvertire personalmente la presenza di un Dio che fino a quel momento era a loro sconosciuto. La maestosa calma di quel mare li riempie "di un grande timore dell'Eterno" (1.16). E fanno altre due cose fondamentali: adorano l'Eterno offrendogli per la prima volta un sacrificio; e prendono impegni di ubbidienza a un Dio che da quel momento in poi non sparirà più dalla loro vita. Ed è il vero Dio che sono arrivati a conoscere nel rapporto avuto con l'ebreo Giona. Quanto a Giona, nel tragitto che l'ha portato dalle braccia dei marinai alla superficie del mare avrà pensato che per lui non c'era più storia. Ma si sbagliava.
  Dal capitolo 2:
  1. L'Eterno preparò un gran pesce per inghiottire Giona; e Giona fu nel ventre del pesce tre giorni e tre notti
  1. E l'Eterno diede un ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto .
Di questo secondo capitolo del libro vogliamo per ora sottolineare soltanto l'aspetto che presenta Dio in azione. Non dobbiamo dimenticare infatti che la Bibbia è in primo luogo un libro di storia. A dire il vero, è l'unico vero autentico libro di storia, perché è il racconto delle operazioni che Dio ha compiuto fra gli uomini dopo aver creato i cieli e la terra, insieme alle risposte che gli uomini hanno dato alle Sue azioni.
   Nella prima parte del libro di Giona le operazioni si susseguono così: Dio agisce dando un ordine a Giona; Giona reagisce non eseguendo l'ordine e fuggendo sul mare; Dio agisce gettando sul mare il vento e provocando la tempesta; Giona reagisce chiedendo ai marinai di gettarlo in mare, cosa che questi fanno.
   Dopo di che Dio rientra in azione risolvendo la cosa a modo suo. Visto che il servo Giona per non ubbidire al suo ordine aveva lasciato la terra e si era messo in mare, Dio ordina a un altro suo servo che si trova in mare, il pesce, di andare a riprendere il servo Giona e di riportarlo a terra. Compito che il servo pesce esegue diligentemente.
   A questo punto Giona si ritrova a fare i conti con quel Dio da cui voleva fuggire, anche se lo temeva e lo amava. Certamente, nei giorni trascorsi in fondo al mare nel ventre di quel pesce è accaduto qualcosa di nuovo nel rapporto fra Dio e Giona, ma per ora esaminiamone soltanto le conseguenze.
   Dal capitolo 3:
  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona per la seconda volta, dicendo:
  2. 'Alzati, va' a Ninive, la gran città, e proclamale quello che io ti comando'.
  3. E Giona si alzò, e andò a Ninive, secondo la parola dell'Eterno. Or Ninive era una grande città dinanzi a Dio, di tre giornate di cammino.
  4. E Giona cominciò a inoltrarsi nella città per il cammino d'una giornata, e predicava e diceva: 'Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!'
  5. E i Niniviti credettero a Dio, bandirono un digiuno, e si vestirono di sacchi, dai più grandi ai più piccoli.
  6. Ed essendo la notizia giunta al re di Ninive, questi s'alzò dal trono, si tolse di dosso il manto, si coprì d'un sacco, e si mise a sedere sulla cenere.
  7. E per decreto del re e dei suoi grandi, fu pubblicato in Ninive un bando di questo tenore: 'Uomini e bestie, armenti e greggi, non assaggino nulla; non si pascano e non bevano acqua;
  8. uomini e bestie si coprano di sacchi e gridino con forza a Dio; e ognuno si converta dalla sua via malvagia, e dalla violenza perpetrata dalle sue mani.
  9. Chi sa che Dio non si volga, non si penta, e non acqueti l'ardente sua ira, sì che noi non periamo'. 1
  10. E Dio vide quel che facevano, vide che si convertivano dalla loro via malvagia, e si pentì del male che avea parlato di far loro: e non lo fece.
La successiva operazione di Dio dopo aver ripreso il fuggiasco consiste nella ripetizione dell'ordine iniziale con qualche aggiunta. Se la prima volta Dio aveva dato a Giona l'ordine generico di gridare contro la città di Ninive, la seconda volta diventa più preciso e gli impone di proclamarle quello che Dio gli comanda. Giona svolge diligentemente il suo compito e proclama le parole di Dio che consistono nella semplice comunicazione di un fatto: "Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta".
  Non suonano strane queste parole trasmesse da Giona per ordine di Dio? Non c'è nessun invito al pentimento; non c'è nessuna promessa di perdono. Qualcuno potrebbe pensare che Dio abbia voluto venire incontro a Giona, e che per convincere il severo fustigatore di costumi ad andare a Ninive abbia voluto incoraggiarlo dicendogli che non avrebbe dovuto parlare di comprensione e perdono, ma soltanto di un prossimo castigo. E tutto fa pensare che il lavoro svolto da Giona fu di un'efficacia tremenda, perché riuscì a terrorizzarli tutti. Ma era appunto questo il suo compito: spargere il terrore; che è una delle cose che il Dio di Abraamo e il "Terrore di Isacco" (Genesi 31:42,53) si riserva di fare e in certi casi effettivamente ha fatto, affidandone l'esecuzione al suo popolo o a qualche suo servo.
    Oggi comincerò a ispirare paura e terrore di te ai popoli che sono sotto il cielo intero, sì che, all'udire la tua fama, tremeranno e saranno presi d'angoscia dinanzi a te (Deuteronomio 2:25).
    Nessuno vi potrà resistere; l'Eterno, il vostro Dio, come vi ha detto, spanderà la paura e il terrore di voi per tutto il paese dove camminerete (Deuteronomio 11:25).
Nei marinai pagani prima e nei niniviti poi, la vicinanza di Dio espressa dalla presenza in mezzo a loro del servitore ebreo Giona provoca come prima cosa il terrore. Dio agisce sul mare, e la tempesta terrorizza i marinai; Dio agisce su Giona, e le sue parole terrorizzano i niniviti. E in entrambi i casi alla fine i terrorizzati sono benedetti. Si direbbe che la cura di Dio funziona. Certo, non è imitabile. Gli psicoterapeuti infatti non ci provano nemmeno. O forse sì, quando in assenza di un confronto con Dio arrivano a credersi saggi. Per la rovina di coloro che si affidano alle loro cure:
    I saggi saranno confusi, sconcertati e presi al laccio. Hanno rigettato la parola del Signore, quale sapienza possono avere? (Geremia 8:9).
Come predicazione fatta nel nome di Dio per raggiungere i peccatori, quella di Giona è davvero eccezionale. Non si è mai visto un predicatore che annuncia il giudizio di Dio ai peccatori non per intimorirli e indurli al pentimento, ma sperando che questo non avvenga. Ma di questo parleremo più avanti.
   Per ora si può notare il fatto che l'annuncio non contiene una sottolineatura esplicita delle forme di malvagità dei Niniviti, ma che è proprio la vicinanza di Dio espressa dalle parole autorevoli di Giona a provocare in loro la coscienza della loro malvagità. Il re di Ninive parla infatti, senza che Giona glielo suggerisca, di via malvagia e di violenza perpetrata dalle sue mani (3:8). Ed è in questa terribile consapevolezza che "i Niniviti credettero a Dio" (3:5), cioè arrivarono a credere che il Dio annunciato da Giona era il vero, unico Dio; e che aveva tutti i motivi per essere arrabbiato contro loro (v.3:9). E in tutto questo sentono pendere su di loro il peso di una sentenza già pronunciata: "Fra quaranta giorni Ninive sarà distrutta". Giona, si può esserne certi, non li aveva rassicurati: non si era speso in promesse dicendo che Dio avrebbe potuto cambiare idea se si fossero pentiti. Al re di Ninive allora non resta altro che esortare ogni cittadino a convertirsi (שוב) dalla sua via, nella speranza (senza averne la certezza) che in questo modo Dio arriverà a convertirsi dalla sua decisione.
   Dice infatti il testo: "Chi sa che Dio non si volga, non si penta (שוב), e non acqueti l'ardente sua ira, sì che noi non periamo" (3:9), e il verbo שוב, tradotto purtroppo in due modi diversi a seconda del soggetto, è lo stesso. Anche qui incontriamo un'altra particolarità: non è Dio che con la sua parola cerca di convertire l'uomo, ma è l'uomo che con la sua azione cerca di convertire Dio. E sappiamo che in questo caso ci riesce.
   Ma non è la prima volta. Ci era già riuscito Mosè sul Sinai, non con azioni, ma con parole. Anche lì si trovano gli stessi termini usati qui: si parla di un'ardente ira di Dio, di un invito al pentimento da parte di Mosè, e alla fine arriva la conclusione: "E l'Eterno si pentì" (Esodo 32: 7-14)
  Forse sarà proprio questa "conversione" di Dio a indurre qualcuno, ebreo o non ebreo, a reagire come Giona e a dire: no, non sono d'accordo, non mi piace un Dio che cambia idea. Ma il libro di Giona, come tutta la Sacra Scrittura, non è in primo luogo ammaestramento morale, ma rivelazione che Dio fa di Sé. E quando questa si avvicina all'uomo, i risultati sono quasi sempre imprevedibili.

(6) continua

(Notizie su Israele, 2 maggio 2021)


 

Tragedia alla festa ebraica in Galilea. La calca travolge la gente: 45 morti

Tra le vittime sul Monte Meron anche bambini. Domani giornata di lutto nazionale

di Stefano Graziosi

Tragedia in Israele. Poco dopo la mezzanotte di ieri, durante un affollato raduno religioso tenutosi sul Monte Meron (in Galilea), si è innescata una fuga precipitosa che ha comportato almeno 45 vittime e oltre 150 feriti. Tra i morti, tra i quali ci sarebbero anche «bambini piccoli», si annoverano pure cinque americani e un argentino. Secondo le ricostruzioni della dinamica, sembrerebbe che alcune persone presenti siano cadute dalle gradinate, trascinandone delle altre: il che ha provocato una calca in cui svariate decine di astanti sono poi rimasti schiacciati.
   In tutto questo, nella giornata di ieri, parecchi autobus sono stati impiegati per trasportare il maggior numero di persone possibile lontano dal luogo del disastro. Alcuni hanno invece deciso di allontanarsi a piedi, mentre altri ancora sono rimasti sul posto. Ricordiamo che l'incidente si è verificato mentre si stava celebrando il Lag Ba'Omer: un'importante festa religiosa ebraica, caratterizzata da preghiere, falò e balli, che commemora la figura del rabbino Shimon Bar Yochai. Un altro disastro aveva già avuto luogo sul Monte Meron nel 1911, a causa del crollo di un edificio. Secondo le stime riportate dal sito della Cnn, pare che all'evento fossero complessivamente presenti tra le 50.000 e le 100.000 persone. La stessa fonte ha riferito che il capo della polizia locale, Shimon Lavie, si è «assunto la piena responsabilità dell'incidente». «Mi assumo la responsabilità generale, nel bene e nel male. Sono pronto per ogni evenienza», ha dichiarato. La protezione civile ha frattanto reso noto di aver ricevuto numerosissime donazioni di sangue nel giro di poche ore. Tutto questo, mentre nel pomeriggio di ieri sono iniziate le sepolture di alcune delle vittime.
   Recatosi sul luogo dell'incidente, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito quanto accaduto «uno dei peggiori disastri che Israele abbia vissuto». «Farò di tutto, e il governo israeliano farà di tutto, per aiutare le famiglie di coloro che sono morti. Vi aiuteremo a riprendervi in ogni modo possibile!», ha successivamente affermato. Il governo ha stabilito inoltre di dichiarare il 2 maggio giornata di lutto nazionale, mentre il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha ordinato alle basi militari di porre le bandiere a mezz'asta. Ad intervenire sulla questione è stato anche il presidente israeliano, Reuven Rivlin, che ha dichiarato: «Le nostre preghiere e pensieri sono con i feriti e con le famiglie di coloro che sono rimasti uccisi e dispersi nell'orribile tragedia al Monte Meron ieri sera». «Questo è il momento di abbracciare le famiglie. Di aiutare tutti coloro che cercano i propri cari. Di portare i feriti nei nostri cuori. Di piangere insieme», ha aggiunto.
   Il procuratore generale israeliano, Avichai Mandelblit, ha nel frattempo annunciato l'apertura di un'indagine, mentre il ministero della Salute ha assicurato una rapida identificazione delle vittime: tuttavia, ieri pomeriggio, il Times of Israel riferiva che soltanto dodici dei 45 corpi erano stati riconosciuti. Sempre il ministero della Salute ha poi fatto sapere che la maggior parte delle persone portate in ospedale dopo l'incidente sono state dimesse.
   Non sono tardate ad arrivare le reazioni internazionali. Messaggi di cordoglio, secondo il Times of Israel, sono stati recapitati da vari Paesi, tra cui il Vaticano e gli Stati Uniti. In particolare, il presidente americano, Joe Biden, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti stanno con il popolo di Israele e con le comunità ebraiche di tutto il mondo, nel piangere la terribile tragedia del Monte Meron», «Ho incaricato la mia squadra di offrire la nostra assistenza al governo e al popolo di Israele mentre rispondono al disastro e si prendono cura dei feriti», ha aggiunto. Anche la Farnesina è intervenuta, dichiarando: «Siamo scioccati e rattristati dal tragico evento al Monte Meron durante le celebrazioni del Lag Ba'Omer. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze a Israele e al suo popolo. Il nostro pensiero va alle famiglie e agli amici delle vittime e ai feriti, a cui auguriamo una pronta guarigione». Tutto questo, mentre condoglianze a Rivlin sono arrivate anche dal re di Giordania, Abdallah Il, e dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas.

(La Verità, 1 maggio 2021)


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Israele, strage tra gli ultraortodossi nel primo raduno post lockdown

Più di 100mila pellegrini si erano dati appuntamento per il grande evento religioso ma la calca era eccessiva e sono stati schiacciati: 45 vittime. Polemiche sulla sicurezza

di Sharon Nizza

MERON — A poche ore dalla tragedia, migliaia di persone ancora circolano tra i sentieri che circondano la tomba del Rabbino Shimon Bar Yochai tra le colline del monte Meron, in Alta Galilea. Alcuni si disperano, accendono candele commemorative, altri sono curiosi, molti cercando di spiegare la loro versione dei fatti ai giornalisti.
    La maggior parte continua ad arrivare in pellegrinaggio alla tomba del Rabbino, a cui si fanno risalire le origini della kabalah, la mistica ebraica. Vengono per celebrare la festività di Lag ba-Omer, che ricorda le vicende degli ebrei che si opposero alle legioni romane nel II secolo d.C., che proprio in questo giorno, secondo la tradizione, smisero di morire dopo settimane in cui venivano decimati da una pandemia.
    Nel 2020, la pandemia dei nostri giorni ha tenuto lontano centinaia di migliaia di fedeli che quest’anno sono giunti da tutto il Paese anche per festeggiare la fine del Covid, in quello che avrebbe dovuto essere il primo evento di massa senza restrizioni e si è trasformato invece nel peggiore disastro civile d’Israele.
   Almeno 45 vittime, tra cui quattro bambini tra i 9 e i 15 anni, 150 feriti di cui ancora una ventina in condizioni gravi, rimangono il ricordo indelebile di una notte finita in una tragedia di cui ancora nessuno sa dare spiegazioni.
   Dopo il momento più atteso della nottata, l’accensione del falò nell’area riservata a Toldot Aharon, una delle correnti più intransigenti della comunità ultraortodossa, era iniziato il flusso delle uscite dalla zona sovraffollata.
   Secondo le ricostruzioni, alcune persone sono scivolate su una rampa, creando un accalcamento che ha portato all’intasamento delle vie di fuga. Le vittime sono rimaste schiacciate e soffocate dalla ressa.
   Tutti i testimoni con cui parliamo puntano il dito contro la polizia che aveva posto nell’area delle transenne, apparentemente per veicolare la folla. «Non ci sono mai stati posti di blocco in passato, la polizia è responsabile di quanto accaduto», urla David. C’è chi dice che le transenne siano state inserite proprio per contingentare gli ingressi, perché, seppure Israele abbia da un mese sollevato quasi tutte le restrizioni da Covid grazie a una campagna vaccinale da record, il ministero della Salute richiedeva delle misure cautelari.
   E ora è in corso uno scambio di accuse tra i diversi ministeri e la polizia, che ha nel frattempo aperto un’indagine interna, con il commissario dell’unità Nord del Paese che «si assume la piena responsabilità degli eventi, nel bene e nel male».
   Giornalisti, ex ufficiali di polizia e funzionari governativi dicono che si tratta di una tragedia annunciata: un rapporto del controllore dello Stato già anni fa segnalava la carenza delle infrastrutture, non adatte a ospitare il più grande evento del Paese. Più voci invocano l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente.
   Il tramonto, accompagnato dalla consueta sirena che segna l’entrata dello Shabbat, fa calare improvvisamente il silenzio anche sulle polemiche. Domani sarà giornata di lutto nazionale. L’identificazione dei cadaveri è sospesa nel rispetto delle tradizioni e riprenderà solo questa sera, insieme ai funerali. E alle accuse reciproche.

(la Repubblica, 1 maggio 2021)


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Il tragico raduno religioso. È strage anche di bambini

Al pellegrinaggio ultraortodosso crolla un palco e si scatena la ressa: almeno 49 morti e 150 feriti.

di Fiamma Nirenstein

Così vicini nel dolore indicibile di tutto Israele dopo la tragedia del Monte Meron che ha lasciato 49 morti sul terreno. E così lontani con quei vestiti neri, l'uno accanto all'altro, compatti nella fede messianica invincibile anche oggi. La loro isola di comportamenti mistici e esoterici si rompe nella disperazione e nel desiderio di essere abbracciati da tutti i cittadini di questo stato piccolissimo, Israele, costruita a immagine e somiglianza di un ebreo moderno che non porta quel cappello alto, adatto al clima della Polonia; l'unica democrazia del Medioriente, il frutto del Kibbutz e della determinazione all'unità di un socialista, David Ben Gurion, fra laici e religiosi, un popolo che ha sofferto tante perdite a causa delle aggressioni del terrorismo e delle guerre del mondo arabo.
    E però, eccolo di nuovo nel dolore, è parte fondamentale e pulsante un mondo mistico in cui ieri sono morti schiacciati dalla loro folla nerovestita, che si è accalcata e spinta fino alla fine mentre festeggiava per realizzare un sogno mistico, astratto, e anche altissimo dal punto di vista della teorica religiosa, quella della Cabbalà, l'interpretazione mistica della Torah, la Bibbia. Ora tutta Israele piange e abbraccia quel mondo, nella laicissima Tel Aviv si fa la fila per donare il sangue per le centinaia di feriti sopravvissuti, si cercano i dispersi che sono tanti, tutto il mondo della comunicazione, proibito ai religiosi, è scatenato per loro. Tutti qui, compresi gli arabi israeliani, e persino parte dei palestinesi sono attoniti di fronte alla crudeltà della tragedia che si è consumata la notte scorsa. Tutto il mondo manda le proprie condoglianze.
    Sono morti soprattutto giovani, ragazzi e ragazzini e anche bambini. Fra i nomi dei morti, oltre a quelli di dodicenni e quindicenni. certuni parlano di un mondo che si è visto solo in televisione guardando la serie ShtisSel: David Kreus, 26 anni, lascia 9 bambini: Eliezer Zvi Yossef, 26 anni, padre di 4 figli e così via. Li hanno seppelliti tutti e 45 nelle ore prima del sabato che è entrato ieri sera al tramonto per non violare le regole religiose: un padre dal letto di ospedale ha pregato piangendo di seppellire la pupilla dei suoi occhi il tredicenne Ledidia Hayot. In un profluvio di disperazione Netanyahu ha proclamato una giornata di lutto nazionale: l'ultimo era stato per la morte di Shimon Peres.
    150mila persone, coi torpedoni, con le macchine private e chi non trovava posto a piedi, hanno pellegrinato con le famiglie al monte Meron nelle ore precedenti al disastro. come da tradizione. Così, la folla eccessiva, stipata, assiepata, all'una di notte, cammina per una parte fra due barriere che avrebbe dovuto contenerla e guidarne la marcia verso la grande arena degradante: là già si svolgevano canti, balli, preghiere. là si accendono i fuochi in memoria del grande saggio del secondo secolo d.C. rabbi Shimon bar Yochai, la cui tomba è oggetto di un immenso pellegrinaggio annuale nella ricorrenza della morte.
    La gente cammina in discesa, un punto particolare della strada è scivoloso, un gruppo cade e col suo peso schiaccia, sospinge, crea la valanga. Il corridoio della morte è stato sgomberato nelle ore successive alla strage dalle bottiglie di plastica, cibo, oggetti personali, mentre ancora risuonavano le sirene delle autoambulanze, le grida dei soccorritori con i feriti sulle barelle, il rumore delle pale degli elicotteri e le forze dell'ordine che cercavano di tenere indietro chi veniva a cercare i propri cari o a riprendere quello che aveva perduto.
    Mentre scriviamo, e si comincia a ragionare delle responsabilità dell'accaduto, ancora i fedeli salgono al Monte. La folla nerovestita, senza maschere per la prima volta dopo il virus che l'anno scorso ha limitato il numero dei fedeli in visita al Monte, pare ammontasse a 150mila persone: troppi comunque nella consueta dinamica del rapporto fra lo Stato, che ha cercato di stabilire le regole e i gruppi religiosi che rivendicano sempre la priorità della loro visione del mondo, come durante la crisi Covid, incuranti delle regole e primi della lista dei contagiati. Con questo, c'è qualcosa di ipnotico nella passione anche intellettuale con cui salgono ogni anno alla tomba del loro antico rabbi Bar Yochai, il fondatore della visione mistica della Torah, l'autore dello Zohar, il testo base della Cabbalà. La vita di queste comunità è un distillato di fede mistica, ogni aspetto dell'esistenza vi è subordinato, il benessere indifferente, la cultura solo sapienziale. Vite, agli occhi laici, misteriose, cariche di sottintesa critica per chi non le condivida, ma anche di senso di carità, e anche di contraddizioni nel Paese di cui, per la gran parte, non condividono il sionismo fino alla venuta del Messia. Se però questo mondo haredi non fosse stato così determinato a mantenere le proprie tradizioni mentre il mondo ebraico prendeva le strade del secolo, certamente gli eventi storici con la loro crudeltà avrebbero cancellato il Popolo del Libro. Il santo dello Zohar invitò i suoi a festeggiare la sua morte, definendolo «il giorno della sua gioia». Bar Yochai ha anche detto, seguito poi dal Cristianesimo, che il dettato divino «ama il prossimo tuo come te stesso» riassume il significato di tutto l'ebraismo.
    Un messaggio universale: i suoi fedeli vestiti di nero, che una volta l'anno trovano indispensabile salire al Monte Meron, sono oggi la fragile vittima della sorte umana che tutti dobbiamo amare.

(il Giornale, 1 maggio 2021)


E' indubbio che se l'esistenza dello Stato ebraico è un enigma per la politica delle nazioni, l'esistenza in Israele del movimento ultraortodosso è un enigma per la politica dello Stato ebraico. Gli ortodossi non possono essere ignorati perché, come dice l'autrice, indicano dov'è la causa visibile che ha permesso al popolo ebraico di rimanere nei secoli una nazione diversa dalle altre, e adesso la loro presenza nella nazione attuale è un intoppo che impedisce allo Stato ebraico di diventare pienamente una nazione come tutte le altre. I sionisti laici sottolineano lo Stato d'Israele, gli ortodossi religiosi sottolineano il Dio d'Israele. L'enigma è destinato a rimanere aperto fino alla sua piena, definitiva soluzione. M.C.


Rabbia e delusione tra i palestinesi: «Il voto poteva condurre all'unità»

Il rinvio con il pretesto di Gerusalemme est

di Michele Giorgio

Fa sorridere il dispiacere di Josep Borrell. L'Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue ieri si è detto «profondamente deluso» dalla decisione annunciata giovedì dal presidente dell'Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi.
    «L'Ue — ha affermato — sostiene elezioni credibili, inclusive e trasparenti per tutti i palestinesi». E si è appreso anche che Francia, Germania, Italia e Spagna hanno chiesto al leader palestinese di fissare subito una nuova data per il voto. Sono solo proclami. Bruxelles non ha fatto nulla per convincere Israele a garantire il voto anche ai palestinesi di Gerusalemme est. E lo stesso può dirsi degli Usa. Come della Giordania e dell'Egitto. Silenzio e ambiguità uniti all'apparente indifferenza del governo Netanyahu che per mesi ha taciuto sulle elezioni palestinesi a Gerusalemme, hanno posto le basi per il pretesto usato da Abu Mazen per rinviare le legislative del 22 marzo e le presidenziali del 31 luglio.
    La vera delusione non è degli europei ma dei palestinesi, di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, i territori sotto l'occupazione di Israele. Anche di quelli che sono dipendenti dell'Autorità nazionale palestinese o simpatizzanti di Fatah, il partito di Abu Mazen. Avevano cominciato a crederci.
    Ma sul presidente hanno prevalso il terrore di perdere le elezioni e le pressioni dietro le quinte dei suoi sponsor come dei suoi nemici, preoccupati di una vittoria degli islamisti di Hamas alle elezioni legislative, 15 anni dopo quella straripante del 2006, e della sua sicura sconfitta contro Marwan Barghouti, il Mandela palestinese, pronto a presentarsi alle presidenziali del 31 luglio.
    «I palestinesi avevano accolto con entusiasmo ed energia la prospettiva del voto. Invece le elezioni si sono trasformate in profonda delusione e rabbia. Gerusalemme è l'essenza della sfida ma non può essere un pretesto per sovvertire la democrazia», ha commentato Hanan Ashrawi, storica portavoce palestinese durante la prima Intifada. La frustrazione che portò Ashrawi qualche mese fa ad uscire dal Comitato esecutivo dell'Olp in polemica con la linea di Abu Mazen, ha trovato nuove ragioni a sostegno di quella scelta.
    Il malumore e, in alcuni casi, la rabbia dei leader dei partiti, islamisti di Hamas o del Fronte popolare (sinistra), e delle liste che si erano registrate per le elezioni, si combinano con quanto provano le persone comuni. Fabian Odeh, un dipendente dell'Anp, parla di «shock per la modalità con cui (Abu Mazen) ha comunicato la sua decisione. L'opinione pubblica palestinese contava su queste elezioni anche per mettere fine alla divisione interna (tra Hamas e Fatah, ndr)».
    Il passo fatto da Abu Mazen, sottolinea Odeh, «non ha considerato tutte le fazioni politiche e le forze indipendenti ma solo una parte di esse. Andava fatta una discussione più ampia sulla questione del voto (a Gerusalemme est, ndr)».
    In questo modo, aggiunge, «è come aver dato a Israele il diritto di veto sulle elezioni palestinesi e non solo a Gerusalemme». Fidaa Abu Hamdiyeh, attiva nella società palestinese, dice di sentirsi presa in giro. «Abu Mazen giovedì sera si rivolgeva a noi come se fossimo dei bambini — spiega — Ci ha detto "bravi, vi siete registrati, avete fatto il vostro dovere però non potete votare"».
    Da Gaza Aziz Kahlout evidenzia un approccio diverso alla decisione di Abu Mazen. «Le elezioni sono importanti ma — aggiunge — pensate che una famiglia povera di Gaza, e sono tante, che fatica a procurarsi da mangiare assegni più importanza al voto che al piatto in tavola? Il rinvio delle votazioni qui è un tema che coinvolge solo una minoranza».

(il manifesto, 1 maggio 2021)


Settimana cruciale per i rapporti tra Sanremo e Israele nel ricordo della conferenza del 1920

Si chiude una settimana cruciale. Con le celebrazioni per il centenario della Conferenza di Sanremo si affacciano all’orizzonte nuove opportunità di scambi culturali e turistici


“Si è tolto il cono d’ombra su questo importante avvenimento del 1920”. Con queste parole l’assessore alla Cultura del Comune di Sanremo, Silvana Ormea, esordisce nel commentare la lunga settimana di eventi sull’asse Sanremo-Israele nel ricordo della conferenza che 101 anni fa pose le basi per la nascita dello Stato dopo la Prima Guerra Mondiale.
Visite istituzionali, cerimonie al castello Devachan e al Casinò, una diretta internazionale e tante opportunità all’orizzonte. “Abbiamo lavorato con l’ambasciata di Israele dall’anno scorso, dopo la visita dell’ambasciatore, Dror Eydar, in Comune - aggiunge l’assessore Ormea - siamo riusciti a realizzare questo evento che per Sanremo può essere un fiore all’occhiello indipendentemente dalle visioni politiche, abbiamo voluto raccontare come Sanremo sia stata testimone di un importante evento storico. Già allora era una città turistica e da noi si sono riuniti i capi di Stato vincitori della Prima Guerra Mondiale, era una cosa da ricordare”.
Oltre all’ambasciatore Dror Eydar, in settimana è stato in città anche il Ministero del Turismo con il quale si sono sviluppate eventuali opportunità future di reciproca promozione. Inoltre è in programma anche la realizzazione di un documentario da portare nelle scuole per raccontare alle giovani generazioni quanto accaduto a Sanremo nel 1920.
“Avessimo potuto fare l’evento l’anno scorso avremmo avuto in città 2 o 3 mila persona - conclude l’assessore Ormea - speriamo che il prossimo anno molti israeliani possano arrivare in città, sono sempre i benvenuti”.

(SanremoNews, 1 maggio 2021)


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