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Notizie 16-31 maggio 2022


Gerusalemme cerca relazioni sempre più strategiche con il continente

AFRICA – Israele sta tornando a guardare con rinnovato interesse al continente africano; negli ultimi anni ha stretto rapporti con Guinea, Ruanda, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Marocco e Sudan.
  “Alcuni Paesi africani sono geograficamente strategici. Dalla fondazione di Israele, lo Stato ebraico ha avuto una relazione speciale con il Kenya e con l’Etiopia, che è una finestra aperta sul Mar Rosso, punto di passaggio strategico per Israele a livello commerciale e di sicurezza”, ha spiegato Anne-Sophie Sebban-Bécache, dottore in geopolitica e direttrice dell’American Jewish Committee (Ajc), a Tv5, emittente francese, in occasione di un convegno organizzato oggi all’ambasciata israeliana a Parigi sulle relazioni tra l’Africa e lo Stato ebraico. Oltre al ministro degli Esteri israeliano, Yaïr Lapid, che interverrà in videoconferenza, una ventina di relatori affronteranno “le sfide e le opportunità” di un “ritorno in Africa” di Israele. La posta in gioco per gli israeliani è la conquista di sbocchi commerciali, assicurarsi uno sbocco sul Mar Rosso, ottenere l’appoggio dei Paesi africani nei maggiori organismi internazionali, tra cui l’Onu. Ma anche “crearsi un’immagine credibile”, spiegano gli analisti.
  “Ci siamo resi conto alcuni anni fa che non c’è motivo per cui i Paesi africani siano automaticamente ostili a Israele”, ha affermato Ram Ben-Barak, presidente della commissione per gli Affari esteri della Knesset ed ex vicedirettore del Mossad (il servizio segreto esterno di Israele).
  Le relazioni tra Israele e l’Africa avevano vissuto un’età d’oro negli anni Sessanta. Lo Stato ebraico godeva allora di una forte simpatia da parte dei Paesi africani che avevano appena acquisito l’indipendenza. Ma nel 1973 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), antesignana dell’Unione Africana, avevano interrotto le loro relazioni diplomatiche con Israele in solidarietà con l’Egitto, parte del cui territorio, il Sinai, era stato occupato dalle forze armate israeliane dopo la guerra dello Yom Kippur. Lo Stato ebraico è stato quindi inserito nella lista nera dal continente fino alla firma degli Accordi di Oslo nel 1993.
  Israele ha ora relazioni diplomatiche con una quarantina di nazioni africane e lì ha una quindicina di ambasciate. Riapertura delle ambasciate, reinvestimento economico, offerta di competenze in materia di sicurezza, è stato l’ex primo ministro Benyamin Netanyahu ad avviare questo ritorno di Israele nel continente.
  Nell’ottobre 2020 il Sudan, storico nemico di Israele, ha normalizzato le sue relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Due mesi dopo, è stata la volta del Marocco, che non aveva mai riconosciuto ufficialmente Israele dalla sua creazione nel 1948 (pur avendo una delle più grandi comunità ebraiche del continente africano). Nel dicembre 2021 i due Paesi hanno fatto un altro passo avanti con la firma di accordi di fornitura di armi e la cooperazione dei servizi di intelligence. Israele e Marocco hanno anche firmato lo scorso febbraio a Rabat un accordo di cooperazione economica e commerciale. L’obiettivo è quadruplicare gli scambi tra i due Paesi, che oggi ammontano a 130 milioni di dollari l’anno. Le esportazioni israeliane verso l’Africa ammontavano a 685 milioni di dollari nel 2021, cioè l’1,3% del totale. Israele scommette sui settori della tecnologia, del digitale, dell’agricoltura dove operano aziende che sono eccellenze a livello mondiale. “Ci sono segnali di futuri progetti sviluppati da Israele per incoraggiare le start-up ad emergere in Africa”, osserva Anne-Sophie Sebban-Bécache.
  Per quanto riguarda il settore agricolo israeliano, possiede competenze tecnologiche all’avanguardia in termini di agricoltura in ambienti aridi, produzione di energie rinnovabili e gestione dell’acqua.“Israele ha cercato sin dalla sua creazione di raggiungere l’autosufficienza e sviluppare l’agricoltura, pur dovendo fare i conti con un clima desertico. Inoltre, prima dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e i paesi del continente, sono stati stabiliti i primi contatti tra l’Agenzia israeliana per gli aiuti allo sviluppo dell’epoca e i governi africani”, spiega Anne-Sophie Sebban-Bécache.
  L’offensiva non è solo diplomatica ed economica. L’esperienza israeliana nell’antiterrorismo è sempre più richiesta in Africa. Anche le sue forniture militari e, in particolare, nella regione del Corno d’Africa dove i problemi di sicurezza sono numerosi. Già nel 2013, quando un centro commerciale a Nairobi in Kenya fu vittima di un attacco degli islamisti somali al-Shabaab, segnali di collaborazione tra Israele e Kenya sono diventati sempre più evidenti.
  Inoltre, “il ripristino delle relazioni tra Israele e i paesi del G5 Sahel potrebbe indurre la Francia a rivedere la propria strategia nel campo della lotta al jihadismo cooperando maggiormente con gli israeliani per contrastare in particolare il crescente influenza dei russi”, afferma David Khalfa, ricercatore presso la Fondazione Jean-Jaurès.
  Se la maggioranza dei paesi africani è favorevole al dialogo con Israele, diversi pesi massimi del continente si rifiutano di farlo, in nome delle violazioni dei diritti umani perpetrate nei Territori palestinesi. Soprattutto Sudafrica e Algeria. Riunitisi lo scorso febbraio ad Addis Abeba, in Etiopia, per un vertice, i Paesi membri dell’Unione Africana erano divisi sullo status di osservatore di Israele all’interno dell’organizzazione. Diverse nazioni, tra cui appunto Sudafrica e Algeria, hanno cercato invano di ostacolare il provvedimento. Dalla fine dell’apartheid, i leader sudafricani hanno criticato il governo israeliano per aver perseguito una politica simile nei confronti dei palestinesi. Ma Pretoria rimane ancora il principale partner economico di Israele. [EC]

(InfoAfrica, 31 maggio 2022)

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A Teheran scorte d'uranio già 18 volte oltre il limite

Le scorte di uranio arricchito accumulate dall'Iran superano di oltre 18 volte il limite autorizzato dall'accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa) secondo un rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea). Stando alle stime di metà maggio, Teheran ha così aumentato le sue riserve totali a 3.809,3 kg, contro i 3.197,1 kg di febbraio, lontano dal tetto di 202,8 kg su cui si era impegnata col Jcpoa. In un rapporto riservato, a cui l'agenzia Efe ha avuto accesso a Vienna, gli ispettori internazionali precisano che il 15 maggio l'uranio arricchito al 60% aveva raggiunto i 43,1 chilogrammi, il 23,7% in più rispetto all'inizio di marzo, quando era stato diffuso il precedente rapporto trimestrale. Nel caso dell'uranio arricchito al 20%, l'aumento registrato nelle ultime settimane è stato il più notevole, passando da 182,1 kg a 238,4 kg, il 31% in più rispetto a inizio marzo. L'Iran giustifica la produzione di uranio arricchito fino al 60% come materiale destinato a scopi medici.
  Nel complesso, le riserve di uranio arricchito, ammontavano a metà maggio a 3.491,8 chili, rispetto ai 300 chili consentiti in base all'accordo sul nucleare firmato dall'Iran con le sei grandi potenze nel 2015. Inoltre, l'Iran ha altri 238,9 kg di uranio sotto forma di ossido, 48,1 kg di uranio in lastre per combustibili nucleari e 30,6 kg di uranio sotto forma di scorie liquide e solide, il che aumenta la quantità di uranio fino a 3.809,3 kg. Non solo: mentre la produzione di questo materiale fissile continua a crescere, con un possibile duplice uso, civile e militare, l'Iran continua a limitare nel proprio territorio le ispezioni da parte dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica. In particolare, gli iraniani negano agli ispettori di visitare qualsiasi tipo di struttura senza preavviso, né garantiscono l'accesso ai dati di sorveglianza elettronica sulla produzione dell'uranio arricchito. Secondo il direttore generale dell'agenzia, Rafael Grossi, queste restrizioni, iniziate nel febbraio 2021, stanno «influendo gravemente» sulla capacità di verifica e controllo degli ispettori nel Paese. Tra l'altro ieri l'Aiea ha pubblicato un altro rapporto sul rispetto dell'accordo di salvaguardia nucleare in Iran, in cui l'agenzia si dice a conoscenza di tracce fissili in tre impianti fino a ora non dichiarati nucleari.

(il Giornale, 31 maggio 2022)

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Il CAI sul “giusto cammino”. Approvato il reintegro dei soci ebrei espulsi tra il 1938 e il 1939

di Stefano Ardito

Epurazione di Aldo Segre
Domenica scorsa il Club Alpino Italiano ha fatto un passo importante nei confronti della verità e della storia. L’Assemblea dei Delegati, riunita a Bormio per rinnovare le cariche nazionali del Club, ha approvato all’unanimità una mozione presentata da Angelo Soravia, Fabrizio Russo e Milena Manzi. Il testo, che è stato pubblicato poco dopo sul sito ufficiale loscarpone.it, impegna il CAI a riconoscere la propria responsabilità nell’aver contribuito alla politica razziale del Fascismo, e a “riconoscere la responsabilità nell’epurazione dei soci ebrei” avvenuta tra il 1938 e il 1939. La mozione approvata a Bormio ha deciso “la riammissione formale di tutti gli espulsi, riabilitandone e onorandone la memoria e, ove possibile, con la consegna delle tessere alla memoria agli eredi dei soci epurati”. E’ prevista, per ricordare quegli uomini e quelle donne, anche la posa di pietre di inciampo simili a quelle che onorano, in Italia e non solo, la memoria degli ebrei deportati e uccisi per volere di Mussolini e di Hitler. “L’Assemblea di Bormio ha scritto una delle migliori pagine della storia recente del Club Alpino Italiano” ha commentato il presidente generale Vincenzo Torti, che a Bormio ha esaurito il suo secondo mandato, e che alla fine della giornata di domenica è stato sostituito da Antonio Montani.
  A riportare alla luce la vicenda, qualche mese fa, è stata una ricerca di Lorenzo Grassi, giornalista esperto di storia contemporanea ma anche speleologo, scialpinista e socio da decenni della Sezione di Roma del CAI. In un rapporto dal titolo L’epurazione dei soci ebrei dalla Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano, che abbiamo presentato a gennaio, alla vigilia della Giornata della Memoria, Grassi ha raccontato l’epurazione di qualche centinaio di soci “di razza non ariana” del Club Alpino, che il regime fascista aveva ribattezzato per cancellare la parola “esterofila”.
  Nell’archivio della Sezione CAI di Milano, Lorenzo Grassi ha trovato la “circolare riservatissima” del 5 dicembre del 1938, che dispone l’epurazione. Non si sa quanti soci e socie siano stati cacciati in tutta Italia. Tra gli epurati dalla Sezione di Torino sono due personaggi famosi, come il compositore e alpinista Leone Sinigaglia e Ugo Ottolenghi di Vallepiana, compagno di cordata di Paul Preuss e ufficiale degli Alpini durante la Prima Guerra Mondiale. Nell’archivio della Sezione di Roma, ribattezzata “dell’Urbe” dal regime fascista, Grassi ha trovato i documenti che provano l’epurazione di nove soci. La presenza nell’elenco del 1939 di 127 soci ordinari “dimessi” e di 46 soci aggregati “non rinnovati” dimostra però, secondo l’autore, che gli epurati sono stati “circa 150”. Tra loro sono Giovanni Enriques, futuro fondatore della casa editrice Zanichelli, e Carlo Franchetti, al quale la Sezione di Roma, nel 1959, avrebbe dedicato un rifugio al Gran Sasso. 

(montagnatv, 31 maggio 2022)

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Si scrive Eastmed, si legge Mediterraneo: a chi fa paura la nuova pipeline?

Sullo sfondo il nuovo gasdotto resta lo strumento per fare massa nell’intera area, ma nel frattempo Israele si accorda con l’Egitto per esportare il gnl in Europa al netto delle titubanze americane.

di Francesco De Palo

Il gasdotto Eastmed sta diventando il terreno su cui l’Europa deve confrontarsi non solo con esigenze concrete come la crisi energetica, ma anche nell’ottica di un nuovo rapporto con Israele e badando a non restare sempre sotto schiaffo di qualcuno, come accaduto varie volte in passato (Siria, Libia, accordo migranti con la Turchia).

• SPADA DI DAMOCLE
  La guerra in Ucraina (ma ancor prima l’invasione della Crimea) dovrebbe accelerare l’indipendenza energetica europea e non far ritardare nuove infrastrutture. Ma l’Ue appare mortificata da un’altra spada di Damocle: ieri la crisi siriana con i 5 milioni di profughi trattenuti su suolo turco, oggi l’avversione di Erdogan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, anticamera al vero nocciolo della questione: il gas presente copioso nel Mediterraneo orientale. Passaggio che si intreccia con il dossier iraniano e con quello degli accordi di Abramo.
  Stante l’attesa di Biden, per non irritare Erdogan (che nel frattempo alza il prezzo su Siria, F16 e curdi), Tel Aviv ha deciso di fare una mossa e sta rinnovando l’esplorazione del gas naturale offshore. Così spera di raggiungere un accordo per l’esportazione di gas in Europa. Il ministro dell’Energia Karine Elharrar ha detto che “oltre alla vera e sincera preoccupazione in Europa, c’è una reale opportunità per Israele di esportare gas naturale in Europa”. Sullo sfondo l’Eastmed resta lo strumento per fare massa nell’intera area, ma nel frattempo Israele si accorda con l’Egitto per esportare il gnl in Europa.

• GAS
  La Turchia pretende che il gas israeliano, egiziano e cipriota attraversi la propria rete di gasdotti verso l’Europa, anche per non mandare in fumo gli accordi di Ankara con i fornitori russi e azeri. Ma l’eccezionalità dei campi presenti nel Mediterraneo orientale come Zohr, Nohr, Leviathan e Glauko non può certo essere gestita con un approccio limitato per via di una controversia regionale, bensì necessita di una progettazione ad ampio respiro come appunto il gasdotto Eastmed. Quest’ultimo sarebbe una risposta multilaterale non solo all’esigenza energetica del versante euromediterraneo, ma anche all’esigenza di costruire una rete di partnership tarata sull’energia che comporti una nuova stagione di distensione all’interno del Mare Nostrum.
  Il gasdotto sottomarino, da Israele a Cipro alla Grecia e fino all’Italia, sarebbe il più lungo di sempre: nonostante abbia perso il sostegno americano per non irritare l’alleato sul Bosforo, resta una preziosa spinta verso lo sfruttamento dei giacimenti. Il percorso previsto passerebbe attraverso la ZEE cipriota, a sua volta contestata dalla Turchia.

• BRUXELLES-TEL AVIV
  La cooperazione tra Ue e Israele oltre che una questione culturale e politica, abbraccia un preciso interesse europeo: dal momento che saranno necessari anni per sostituire il gas russo, sarebbe poco lungimirante non lavorare già da oggi per un accordo di massima coagulato attorno al gasdotto Eastmed, che in un colpo solo porterebbe a sfruttare risorse presenti in loco e non da far arrivare nel Mediterraneo (che comunque potranno sommarsi al gas dei giacimenti), ma in un’ottica di progettualità euroasiatica e non come un voler procedere di emergenza in emergenza, come sin qui fatto: lo dimostrano le gestioni approssimative delle crisi in Siria e in Libia.
  Inoltre Israele ha dalla sua la preziosa capacità di farsi player macroregionale, come sul progetto dell‘Interconnettore EuroAsia. Con una capacità globale da 2.000 MW porterà un beneficio complessivo stimato in 10 miliardi entro il 2026, quando verranno collegate le reti elettriche tramite un cavo sottomarino lungo di 898 km tra Egitto, Israele, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Arabia Saudita, Cipro e Grecia.
  Restando alla voce pipeline, Grecia ed Egitto hanno già annunciato la volontà di “agganciarsi” con un gasdotto se i ritardi dell’Eastmed dovessero protrarsi, stesso dicasi per Israele ed Egitto.

• NATO
  Il no turco all’Eastmed si manifesta in vari modi: la Turchia potrebbe utilizzare sul dossier NATO lo stesso piglio utilizzato contro il predicatore Fetullah Gulen, residente negli Usa, e accusato dal governo di essere l’ispiratore del fallito golpe del 2016. Lo dimostra la caparbietà con cui sono stati fatti fallire i negoziati andati in scena la scorsa settimana alla presenza di funzionari svedesi e finlandesi, che si sono trovati dinanzi ad un muro.
  Che la partita sia lontana dall’essere risolta lo dimostra un ulteriore intreccio: Ankara starebbe valutando la possibilità di mettere sul tavolo lo status della Repubblica autoproclamata di Cipro Nord (le cui acque sono gravide di gas) nell’ambito dei negoziati per consentire a Finlandia e Svezia di aderire alla NATO. Un colpo basso di Erdogan, che sapendo di essere prezioso per il suo ruolo di guastatore, alza sempre di più il tenore delle sue richieste.

(L'Argomento, 31 maggio 2022)

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Prodotte in Israele le prime uova a base vegetale: come sono fatte e di che sanno

Una start up israeliana è riuscita a realizzare un'alternativa sostenibile alle uova. Uguali, dicono, in tutto e per tutto al prodotto originale, ma a base vegetale e senza colesterolo. Di cosa sono fatte le uova 2.0.

di Alessandro Creta

Se tutto andrà come previsto, presto negli Stati Uniti potrebbe essere messa in vendita una nuova tipologia di uova. Simili per forma e per gusto (almeno stando alle prime indiscrezioni) alle originali, ma totalmente a base vegetale e prive di colesterolo.
  Se gli hamburger di carne di zebra o leone coltivata in laboratorio erano sembrati una stranezza, chissà quali pareri raccoglierà questa nuova e innovativa alternativa alle uova tradizionali. Tutto è frutto del lavoro di una start up israeliana con l’obiettivo di diventare il produttore di uova senza galline più grande e sostenibile del mondo. Il piano è di debuttare sul mercato statunitense con questa speciale tipologia di uovo non uovo entro la fine dell’anno, partendo dai ristoranti.
  I prodotti offerti dall’azienda sembrano in tutto e per tutto delle uova, in prima battuta alla vista. Yo! Egg, questo il nome della start up, propone versioni a base vegetale di uova fritte, in camicia e sode. Il tutto, chiaramente, senza colesterolo e senza torcere una penna alle galline.

• Di che cosa sono fatte le uova vegetali
  Le uova proposte dall’azienda israeliana sono a base di un mix di proteine vegetali, acqua, olio di semi di girasole, soia, farina, oltre ad altri ingredienti tanto segreti quanto, sostengono, semplici. Oltre a un’apparente furbata di marketing, l’idea nasce da un’esigenza precisa: riuscire a produrre uova senza impattare negativamente sull’ambiente. Ogni anno infatti solo negli Stati Uniti vengono consumate circa 95 miliardi di uova, e ognuna di esse richiede un dispendio di circa  53 galloni di acqua, equivalenti a quasi 240 litri. Al momento queste uova 2.0 si possono acquistare solamente in Israele, ma prima della fine dell’anno l'azienda proporrà i suoi prodotti anche nel mercato a stelle e strisce. Che possa essere il primo passo anche per l’arrivo in Europa e nei nostri punti vendita?
  Considerata la recente crisi legata a un calo dei consumi di uova tradizionali, chissà se questa non possa rappresentare una rapida alternativa all'originale.

(cookist, 31 maggio 2022)
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"... questa speciale tipologia di uovo non uovo". Che bello! Mettendo una "m" al posto della "v" si ottiene "una speciale tipologia di uomo non uomo". Che poi è il programma del Great Reset di Klaus Schwab. Dopo l'uovo prodotto senza bisogno di gallina avremo l'uomo prodotto senza bisogno di madre. Dopo l'uovo prodotto totalmente a base vegetale e privo di colesterolo avremo l'uomo prodotto totalmente a base digitale e privo di intelletto (fastidioso nell'uomo come il colesterolo nell'uovo). Perché come c'è un "un calo dei consumi di uova tradizionali" così c'è un calo di presenze di "uomini tradizionali". A tutto questo porrà rimedio una futura startup (israeliana?) con la creazione dell'uomo 2.0 programmabile e interamente gestito dall'algoritmo. Che potrà "rappresentare una rapida alternativa all'originale". M.C.

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L’America riscopre il Medio Oriente. A caccia di petrolio contro Putin

Biden presto andrà in Israele e cercherà di ricucite i rapporti con i sauditi. L’analisi spietata di Haaretz: «Biden arriva in un Medio Oriente che cambia e che potrebbe non volerlo». La due isolette della pace tra sauditi e Israele. ‘Diplomazia isostatica’ e autocrazia confusa.

di Piero Oneca

• DI CORSA PRIMA CHE LA GUERRA FINISCA
  Entro un mese Biden si recherà in visita di Stato in Israele e, in un prossimo futuro, forse anche in Arabia Saudita. O, per essere più franchi e dire le cose come stanno, è obbligato ad andarci. Perché la conduzione che ha fatto delle relazioni internazionali, in questa regione bollente del pianeta, è stata quanto meno pessima, non solo per gli Stati Uniti, ma per l’Occidente nel suo complesso. Nel pubblicare ieri la notizia, il quotidiano di Gerusalemme “Haaretz” ha fatto un’analisi spietata del background politico che ha portato al viaggio del Presidente Usa. Il titolo già spiega tutto: “Biden arriva in un Medio Oriente che cambia e che potrebbe non volerlo”.

• SINO A IERI DISIMPEGNO
  Zvi Bar’el scrive che il leader americano ha cominciato il suo mandato “con l’obiettivo di disimpegnarsi dal Medio Oriente”, ma adesso deve ripensarci. In particolare, Biden si sforzerà di ricucire i legami (che lui però aveva sfilacciato) col principe ereditario saudita bin Salman. In questo momento, la Casa Bianca ha un disperato bisogno di ricostruire buone relazioni con tutti i Paesi della regione. Anche se Biden, su pressione del blocco progressista del suo partito, ha attaccato violentemente, più volte, per la questione dei diritti umani, l’Arabia Saudita. Né più amichevole, pare si sia dimostrato, dicono spifferi di corridoio, con l’Egitto di El-Sissi e col Bahrain.

• LO SCONTO PER GLI AMICI
  Il Dipartimento di Stato (Antony Blinken) è stato uno dei più ferventi sostenitori del viaggio di Biden in Medio Oriente. Blinken è allarmatissimo. Alcuni mesi fa aveva spedito a Riad la sua vice, Victoria Nuland, che non è stata nemmeno ricevuta. Mentre, quando Biden ha chiamato il principe, bin Saleman si è rifiutato di parlargli. Come si vede, una situazione già particolarmente compromessa, che ora si cerca di rattoppare con un obiettivo: convincere l’Opec ad aumentare la produzione giornaliera di petrolio. Per calmierare i prezzi e inguaiare la Russia. Ma, in questo momento, sembra complicato.

• LE ISOLETTE DI PACE TRA SAUDITI E ISRAELE
  Gli Usa si stanno anche impegnando a favorire il passaggio di due isolette del Mar Rosso dai sauditi agli israeliani. Il contraccambio resta per ora misterioso. Bene, se ci passate l’ardito parallelismo con la Scienza delle costruzioni, quella contemporanea sembra diventata una specie di in “diplomazia isostaica”. O, per dirla più semplicemente, una quotidiana revisione (o modifica) di vecchi progetti sotto mutate condizioni, per tenere in piedi un sistema. Che, in questo caso, è quello sempre più traballante degli equilibri geopolitici internazionali.

• LA ‘DIPLOMAZIA ISOSTATICA’ DI BIDEN
  Quando gli Stati Uniti, agli inizi della Presidenza Biden, decisero di concentrare le loro priorità strategiche sulla Cina, elaborarono un piano di disimpegno da altre aree. In Europa, si erano già tirati i remi in barca da un pezzo, in primis per motivi di “cassa”. E poi per una palese sottovalutazione dell’ex nemico sovietico, ritenuto sempre e comunque, anche dopo il 1989, un “parvenu” delle relazioni internazionali. Un’autocrazia inselvatichita da non prendere troppo sul serio. Anzi, financo da assecondare, un po’ come si fa coi malati di mente, per non avere rogne. Le altre aree mandate al macero dagli americani (senza troppi scrupoli sulla coscienza) sono state quelle dell’Afghanistan e dell’Iraq. Naturalmente, restava il rospo più grosso da ingoiare: il Medio Oriente. E là ci ha pensato l’Isis a trattenere gli Stati Uniti più del dovuto.

• QUANDO PUTIN SERVIVA
  Risolta quella “pratica”, grazie anche all’intesa con Putin, Washington ha pensato di mollare gli ormeggi. La chiave? Fare riavvicinare tutto il blocco arabo-sunnita a Israele, per creare una coalizione anti-iraniana. Impresa quasi riuscita all’epoca di Trump ma che, per molti motivi, ora Biden rischia di fare colare a picco. È la solita palla al piede dei Democratici americani in politica estera: non sanno cosa sia la “realpolitik” e, spesso, chiudono gli occhi e corrono appresso ai loro ideali. Scatenando tutte le guerre di questo mondo. Difendono la democrazia? Certo. Ma non si chiedono (e non verificano) se il Paese che li ha votati la pensi come loro. Chiamatela pure “autocrazia della democrazia”, se vi pare. Biden, in Medio Oriente, nel Golfo Persico e persino nei rapporti con Stati storicamente “satelliti” di quell’area, ha cambiato politica almeno tre volte in un anno. Confondendo tutto e tutti.

• AUTOCRAZIA CONFUSA
  Prima ha fatto la guerra agli ayatollah e poi li ha blanditi, facendo offerte sproporzionate in relazione all’accordo sul nucleare di Vienna. Con i sauditi ha usato due pesi e due misure e con i palestinesi, si è praticamente girato dall’altro lato. Spendendo qualche parola solo sulla Cisgiordania e ignorando sistematicamente la Striscia di Gaza.
  Ma forse la sintesi migliore di tutto questo, la fornisce ancora una volta “Haaretz”, con l’intervista al politologo americano Aaron David Miller il cui titolo, riferito a Biden, e quasi un epitaffio: “Biden voleva isolare i sauditi e invece ora gli deve baciare l’anello”.

(Remocontro, 31 maggio 2022)

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Israele, il ministro degli Esteri “Al lavoro con Usa e Paesi del Golfo per normalizzare i legami con Riad”

Israele sta lavorando con gli Stati Uniti e con i Paesi arabi del Golfo per avviare le relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita. Lo ha dichiarato oggi il ministro degli Esteri di Israele, Yair Lapid, all’emittente radiofonica dell’esercito. “Crediamo sia possibile avere un processo di normalizzazione con l’Arabia Saudita. È nel nostro interesse”, ha dichiarato il capo della diplomazia israeliana. Lapid ha aggiunto: “Abbiamo già detto che sarà il prossimo passo di cui discutere nel quadro di un processo lungo e attento, dopo gli Accordi di Abramo”, riferendosi all’avvio delle relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain avvenuto il 15 settembre 2020. “Stiamo lavorando con gli Stati Uniti e con i Paesi del Golfo” su questo tema, ha puntualizzato il ministro. Israele e Arabia Saudita non hanno relazione diplomatiche, sebbene vi siano segnali di contatti non ufficiali tra i due Paesi negli ultimi anni.
  Nelle dichiarazioni all’emittente radiofonica, Lapid ha affermato che il processo di normalizzazione con Riad sarà lento e con progressi passo dopo passo. “Non accadrà come è avvenuto in passato. Non ci sveglieremo una mattina e all’improvviso ci sarà una sorpresa”, ha aggiunto, riferendosi all’annuncio della normalizzazione dei rapporti con Emirati e Bahrein annunciato all’improvviso il 13 agosto 2020. Le affermazioni di Lapid giungono all’indomani delle indiscrezioni pubblicate ieri, 29 maggio, dal quotidiano economico israeliano “Globes”, secondo cui imprenditori del settore tecnologico e altri uomini d’affari israeliani si sarebbero recati di recente in Arabia Saudita per colloqui avanzati su potenziali investimenti sauditi nei fondi israeliani. Lo scorso 3 marzo, il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, in un’intervista rilasciata alla rivista “The Atlantic”, ha dichiarato che Riad “non guarda a Israele come un nemico, ma come a un potenziale alleato, con tanti interessi che possiamo perseguire insieme”. L’erede al trono ha affermato che per una potenziale alleanza con Israele “bisogna risolvere alcuni problemi prima”. Nell’intervista, l’erede al trono ha auspicato che “il conflitto tra israeliani e palestinesi sia risolto”.
  Lo scorso 24 maggio, il sito statunitense “Axios” ha rivelato che l’amministrazione degli Stati Uniti sarebbe tentando una mediazione tra Arabia Saudita, Israele ed Egitto per finalizzare il trasferimento delle due isole strategiche del Mar Rosso, Tiran e Sanafir, dal Cairo a Riad. Secondo quanto riportato dal sito, la finalizzazione dell’accordo, annunciato per la prima volta nel 2016 durante una visita del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi a Riad, potrebbe rappresentare un primo passo sulla strada della normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele. Fonti statunitensi e israeliane hanno affermato ad “Axios” che l’accordo non è completo e che i delicati negoziati sono ancora in corso. L’obiettivo di Washington sarebbe quello di ottenere un accordo prima del viaggio di Biden in Medio Oriente, previsto a fine giugno, che dovrebbe prevedere una tappa in Arabia Saudita, la prima visita nel Paese del Golfo del presidente Usa dall’inizio della sua amministrazione nel 2021. Secondo i media arabi, il viaggio dovrebbe includere anche un vertice dei leader con i leader di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman, Qatar, Kuwait, Egitto, Giordania e Iraq.
  L’amministrazione Biden ritiene che la conclusione di un accordo potrebbe creare fiducia tra le parti e creare un’apertura per future relazioni tra Israele e Arabia Saudita, che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali. In caso di successo, l’accordo sarebbe il risultato più significativo della politica estera statunitense in Medio Oriente dopo gli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati, Bahrein e Marocco raggiunti nel 2020 sotto l’amministrazione di Donald Trump. Nel 2020, l’Arabia Saudita ha sostenuto gli Accordi di Abramo, ma all’epoca ha chiarito che non avrebbe comunque normalizzato le relazioni con Israele a meno di seri progressi nel processo di pace israelo-palestinese.
  L’accordo con Israele ed Egitto sarebbe stato uno dei temi discussi durante le recenti visite separate a Washington del ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, e del viceministro della Difesa saudita, Khalid bin Salman, ex ambasciatore di Riad negli Stati Uniti e fratello dell’erede al trono Mohammed bin Salman. Durante la loro permanenza a Washington sia Gantz che Khalid bin Salman hanno avuto colloqui con il consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, Jake Sullivan. All’incontro tra Sullivan e Khalid bin Salman avrebbe partecipato inoltre il coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente Brett McGurk, che secondo “Axios” sarebbe la persona di riferimento dell’amministrazione Biden negli attuali sforzi di mediazione tra Arabia Saudita e Israele.
  Pur avendo accettato in linea di principio il trasferimento della sovranità delle isole all’Arabia Saudita, Israele vuole anche che Riad adotti alcuni passi nell’ambito di sforzi più ampi per raggiungere un accordo su diverse questioni ancora irrisolte, tra cui la concessione alle compagnie aeree israeliane di attraversare tutto lo spazio aereo saudita anche per i voli commerciali, riducendo drasticamente i tempi dei voli verso i Paesi dell’Asia orientale. Dopo l’annuncio degli Accordi di Abramo, l’Arabia Saudita ha iniziato a consentire alle compagnie aeree israeliane di attraversare parte del proprio spazio aereo orientale, ma solo per i voli verso gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, Paesi firmatari degli Accordi. Inoltre, Israele chiede che i sauditi consentano voli diretti da Tel Aviv agli aeroporti del Paesi del Golfo per i musulmani israeliani che intraprendono il pellegrinaggio alla Mecca e Medina.
  L’accordo sulla demarcazione dei confini marittimi, siglato alla presenza del presidente Abdel Fatah al Sisi e del re saudita Salman nell’aprile del 2016, aveva suscitato forti proteste in tutto il Paese: centinaia di attivisti erano scesi in piazza per chiederne l’annullamento. L’intesa per la cessione delle isole Tiran e Sanafir, nel Mar Rosso, all’imbocco del Golfo di Aqaba, tocca anche Israele, perché andrebbe a modificare l’accordo di pace tra il Cairo e Gerusalemme del 1979. L’isola di Tiran è infatti fondamentale per l’accesso di Israele al Mar Rosso. Il blocco navale degli stretti di Tiran, davanti alle coste di Sharm el Sheikh, è considerato ancora oggi il “casus belli” che segnò l’inizio della Guerra dei sei giorni del 1967.
  Le due isole furono occupate da Israele nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni, prima di essere restituite all’Egitto nel 1982, in base agli accordi di pace di Camp David del 1978. La proprietà delle isole disabitate all’imbocco del Golfo di Aqaba è stato a lungo contesa sia dal Cairo che da Riad. Un tempo Tiran e Sanafir formavano il confine tra l’Impero ottomano e la colonia britannica egiziana. La loro importanza strategica deriva dal fatto che si trovano sulla rotta marittima che collega il porto giordano di Aqaba e quello israeliano di Eilat al Mar Rosso.

(Nova News, 30 maggio 2022)

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Riccione: nel giorno della Festa della Repubblica una targa per i Matatia. I “vicini scomodi” di Mussolini

TARGA
Giovedì 2 giugno sul lungomare di Riccione verrà scoperta una targa dinanzi a un villino per ricordare una famiglia di ebrei sterminata ad Auschwitz. Erano i “vicini scomodi” di Mussolini: la loro villa confinava infatti con quella del Duce.
  In questa casa rossa trascorse estate felici la famiglia di Nissim Matatia, pellicciaio di Forlì, cittadino greco di religione ebraica emigrato in Italia in cerca di fortuna nei primi anni del Novecento. Era sposato con Matilde Hakim e padre di tre figli: Beniamino, Roberto e Camelia. L’acquisto della villa, nel 1930, rappresentò il coronamento del successo che con tante fatiche era riuscito a raggiungere nella sua attività.
  Nel 1934 la famiglia Mussolini acquistò la villa di fine Ottocento confinante con la villetta rossa. I primi anni per i Matatia furono caratterizzati da rapporti di buon vicinato e da sporadiche frequentazioni con la famiglia Mussolini. Tuttavia, sopravvenute le “leggi in difesa della razza”, quegli ebrei confinanti con la villa del Duce divennero vicini scomodi. Nissim era periodicamente convocato nella Questura di Bologna e sottoposto a pesantissime minacce perché vendesse la villetta. Ma amava tanto la sua casa di Riccione che resistette tenacemente e ciò sino al novembre del 1939, quando venne espulso dall’Italia in quanto ebreo straniero e ogni suo bene fu affidato a un curatore perché fosse alienato. Così, nel giugno del 1940, la villetta rossa cambiò proprietà. Nissim rientrò presto in Italia, clandestinamente, per essere vicino alla famiglia in quei terribili tempi di persecuzione. Il destino dei Matatia fu lo stesso di milioni di altri ebrei: dopo tre anni in fuga, vennero catturati e deportati ad Auschwitz.
  E’ grazie ad alcune lettere d’amore che conosciamo questa storia: quelle che la diciassettenne Camelia scrisse al suo ragazzo Mario, fortunosamente giunte a un parente, Roberto Matatia, il quale ha ricostruito la tragica vicenda dei suoi familiari in un libro pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Giuntina, intitolato appunto “I vicini scomodi” .
  L’amministrazione comunale di Riccione ha voluto che la targa venga scoperta in occasione della Festa della Repubblica, quest’anno dedicata alla pace. La cerimonia avrà inizio alle 11.30 di giovedì dinanzi al Palazzo del Turismo.
  L’ultima delle lettere di Camelia al suo Mario fu scritta il 1° dicembre del 1943, pochi istanti prima che lei e i suoi familiari, catturati dalle Brigate nere, venissero portati via dal loro rifugio di Savigno (Bologna):
    «Caro Mario, questa volta devo […] scriverti una lettera d’addio, perché non so quando potrò scriverti e se lo potrò ancora. […] Anche questa volta, i tuoi presentimenti non hanno sbagliato. Però non ho paura, sai? So di non avere nulla da rimproverarmi se non di essere nata con un marchio disgraziato, un marchio che nemmeno la scolorina del tempo potrà mai cancellare, e di questo non ho colpa…».
(Chiamamicittà, 30 maggio 2022)

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A Guardistallo ‘’Italia Israele Livorno'' celebra l’adesione della regione Toscana alla definizione dell’IHRA

di Ugo Volli

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Se qualcuno si illudeva che la memoria della Shoà bastasse a eliminare una volta per tutte l’antisemitismo dall’Europa, questa speranza è stata purtroppo largamente smentita. E’ dunque necessario un lavoro continuo di educazione morale, storica, ma soprattutto politica sul tema. Per questo è importante l’esistenza di una definizione ufficiale come quella dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che è stata adottata da una trentina di stati e da molte organizzazioni internazionali. Perché essa svolga il suo scopo, è necessario che sia fatta propria a livello politico locale, stimolando un impegno a combattere l’antisemitismo concretamente, nelle comunità dove si formano le opinioni comuni.
  E’ un impegno che è stato assunto nel nostro paese soprattutto dalle associazioni di amicizia con Israele, anche perché l’antisemitismo oggi assume soprattutto la forma dell’odio contro lo Stato Ebraico. L’ebraismo italiano non è pienamente consapevole di questo lavoro e della sua importanza, ma esso ha ottenuto risultati molto significativi: vi sono diverse regioni e molti comuni che hanno deliberato l’adozione della definizione IHRA.
  Il luogo in cui questo movimento ha avuto maggiore sviluppo è la Toscana, per merito soprattutto dell’Associazione Italia-Israele di Livorno e della sua attivissima presidente Celeste Vichi, che ha saputo mobilitare in questa battaglia parlamentari, consiglieri regionali e comunali, sindaci. A Guardistallo, nelle colline fra Pisa e Livorno, si è svolta una “Convention degli amministratori IHRA” per festeggiare l’adesione della regione Toscana e di molti comuni alla definizione. Partecipano il sindaco della città, Sandro Ceccarelli, i consiglieri regionali che hanno proposto la mozione sull’IHRA, Elisa Tozzi e Vittorio Fantozzi, tre deputati nazionali (Andrea Romano, Manfredi Potenti, Giovanni Donzelli) Carla Guastalla vicepresidente nazionale dell’Adei, Alex Zarfati presidente della consulta della Comunità ebraica di Roma, che con altre comunità ha accordato il suo patrocinio all’iniziativa, numerosi amministratori locali.
  Spiega Celeste Vichi: “Ci sono tre principi importanti nel nostro lavoro su questo tema: il primo è che la definizione IHRA per funzionare contro l’antisemitismo, dev’essere adottata dal basso, dalle comunità politiche locali, per far estendere l’adesione poi via via più in alto, a livello regionale, nazionale e internazionale. E’ necessario un cambiamento nell'atteggiamento culturale verso Israele e che anche per questo abbiamo organizzato un corso per gli amministratori locali sulla storia di Israele. La seconda è che vogliamo che le adesioni siano trasversali, non limitate a uno schieramento politico: in Regione siamo molto fieri di aver ottenuto l’unanimità sulla mozione IHRA. La terza, che è forse la cosa più cruciale, è che non basta aderire alla pura e semplice definizione, che stabilisce una cosa abbastanza ovvia, cioè che l’antisemitismo è odio per gli ebrei. Bisogna accettare anche i principi successivi con cui l’IHRA ha concretizzato la sua definizione, come quello per cui è antisemita anche negare al popolo ebraico il diritto alla sua autodeterminazione nazionale, e cioè all’esistenza del suo stato; o lo è paragonare le politiche di autodifesa dello stato di Israele al nazismo, come oggi spesso fanno i nemici di Israele.”

(Shalom, 30 maggio 2022)

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La Giudecca di Nicotera protagonista nella giornata sui luoghi della cultura ebraica

Domani a Santa Maria del Cedro un convegno sui luoghi della memoria in Calabria, promosso dalla Regione: tra i siti in primo piano anche l'antico quartiere della cittadina costiera vibonese.

La Giudecca di Nicotera
La Giudecca di Nicotera sarà tra i protagonisti della giornata dedicata ai luoghi simbolo della cultura ebraica, promossa dalla Regione Calabria. L’evento si svolgerà domani, 31 maggio, a Santa Maria del Cedro. Al convegno sulle Giudecche e i luoghi della memoria di Calabria interverranno tra gli altri il presidente della Regione Roberto Occhiuto, l’assessore al Turismo Fausto Orsomarso, l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, l’Ad di Gabetti Property Solutions Roberto Busso, il referente per la Calabria dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roque Pugliese, il giornalista Klaus Davi e Francesco Maria Spanò dell’Università Luiss.
  Protagonisti dell’iniziativa i racconti di alcuni luoghi simbolo della cultura ebraica in Calabria: la Giudecca di Nicotera, la sinagoga e il sito ebraico di Bova e di Bova Marina, gli eventi di Santa Maria del Cedro dedicati all’agrume particolarmente caro al popolo ebraico. Il programma pomeridiano prevede poi un ampio spazio al racconto di alcuni comuni calabresi che hanno conservato importanti tracce della cultura ebraica, siano esse in forma di Giudecche, siti, tradizioni popolari, toponomastica. L’iniziativa sarà anche trasmessa integralmente in diretta Facebook.

(Il Vibonese, 30 maggio 2022)

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Sull’Ucraina, non ci sto

di Cristofaro Sola

Di rado, su questo giornale, mi esprimo in prima persona. Preferisco il “noi”. Non è civetteria. E neppure un ingiustificato senso di grandezza trasfuso in un ridicolo plurale maiestatis. È piuttosto una scelta di metodo per rendere evidente il coinvolgimento del lettore nelle cose che scrivo. È un modo semplice ma diretto per onorare il patto di lealtà che si stipula tacitamente tra chi scrive e chi legge. Niente di più. Tuttavia, tale criterio non può valere sempre. Ci sono delle circostanze nelle quali è doveroso, per dirla con orrenda locuzione, “metterci la faccia”. Ciò di cui sto per dire è una di quelle.
  Sono quasi cento giorni che, a proposito della crisi russo-ucraina, la grancassa dei media batte sul medesimo tasto: Vladimir Putin è il tiranno aggressore da abbattere (quelli bravi lo chiamano regime change), il popolo ucraino è eroico nel battersi per la libertà, il fronte degli occidentali è compatto nel sostenere l’Ucraina fino alla sconfitta del nemico. E poi il messaggio subliminale: resistete, resistiamo che, alla fine, vinceremo. Sì, la spunteremo noi. We shall overcome, canterebbe Joan Baez.
  Ne ho piene le tasche di ascoltare castronerie. Non vedo alcuna alba radiosa all’orizzonte. E per gli ucraini, di cui all’improvviso abbiamo scoperto di essere fratelli di latte, ciò che vedo al momento è morte e distruzione. Non prendiamoci in giro e, soprattutto, non illudiamo quei poveracci che si stanno facendo massacrare in nome di un avvenire di benessere facile che l’Ovest ha mostrato loro dal buco della serratura dell’Unione europea. Nel frattempo, ci stiamo impoverendo. Stiamo tornando indietro, come europei e come italiani. Per cosa? Per dare a qualcuno ciò che non possiamo dargli? La dico dritta. Non sono un “putiniano”. Essendo cresciuto nel mito del pragmatismo bismarckiano, giudico questa guerra profondamente sbagliata. Peggio: prevedo che questa guerra porterà l’Occidente alla catastrofe. In tutti i sensi. Perciò, maledico la classe di governo che l’Occidente si ritrova sul groppone, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, per l’assoluta miopia dei suoi protagonisti, inetti e pericolosi. Compreso il nostro premier che, lasciatemelo dire, è stata una delusione cocente. Pensavo che il dottor Mario Draghi valesse di più. Mi sbagliavo.
  Il graduale, ma irreversibile, assorbimento della Russia post-comunista nella sfera geopolitica e culturale dell’Europa democratica e libera avrebbe dovuto essere la stella polare per i governanti occidentali, se avessero avuto criterio. Invece, hanno fatto e stanno facendo l’esatto contrario. Puntano all’isolamento della Russia e fanno a gara per spingere Mosca tra le braccia della Cina. Che è il vero nemico dell’Occidente, perché, a differenza della Russia, non è mai stata “europea” e, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una crescente volontà di potenza, destinata a trasferirsi dal piano strettamente finanziario-commerciale a quello geopolitico e strategico. Pechino aveva bisogno di assicurarsi un partner fedele che gli garantisse forniture illimitate di materia prima, in particolare energetica, per completare il suo progetto espansionistico, concepito sull’aggressione alle economie del mondo per il tramite delle proprie manifatture e delle proprie risorse finanziarie. Lo hanno trovato grazie agli occidentali: la grande madre Russia trasformata nel drugstore del gigante asiatico. Si può essere più stupidi? Ci stiamo accanendo contro un falso bersaglio: Putin che invade l’Europa emulando al contrario due pazzie, quelle di Napoleone Bonaparte e di Adolf Hitler, quando il nemico reale è già tra di noi? Pechino ha piazzato i suoi avamposti in Occidente grazie agli accordi per ricreare la Via della Seta. Belt and Road Initiative, così si chiama il progetto di espansione globale cha anche un nostro Governo (il Conte prima versione) ha gioiosamente – e colpevolmente – sottoscritto. Dire queste cose provoca l’orticaria a quel benpensante? Pazienza, se la faccia passare con un efficace antistaminico perché non cambio idea: il sostegno all’Ucraina contro Mosca è stata ed è una monumentale fesseria. Che purtroppo pagheranno i nostri figli perché, a differenza della mediocre classe dirigente occidentale, a Pechino hanno pazienza e vista lunga.
  Intanto, c’è stato un primo assaggio di ciò che avverrà in futuro. Qualche giorno fa, aerei russi e cinesi, impegnati in un’esercitazione militare congiunta sul Mar del Giappone, hanno violato lo spazio aereo nipponico nel momento in cui il presidente Usa, Joe Biden, era a Tokyo insieme al primo ministro indiano, Narendra Modi, e al neoeletto premier australiano, Anthony Albanese, per il vertice del Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) nel quadrante geopolitico dell’indopacifico. Capite che vuol dire? La più grande potenza nucleare al mondo che si salda al gigante economico e tecnologico asiatico. Russia e Cina insieme possono arrivare dove vogliono. Provare a fermarle porterà alla Terza guerra mondiale, con esiti facilmente intuibili. E pensare che c’è stato un tempo nel quale i russi le esercitazioni militari le facevano con gli italiani. Il protocollo Ioniex vi ricorda nulla? Vi rinfresco la memoria: esercitazioni bilaterali aeronavali italo-russe nel mar Ionio, nella cornice degli accordi di Pratica di Mare del 2002. Era la strada giusta da percorrere, ma l’insipienza dei governanti occidentali, che si sono succeduti negli ultimi due decenni, l’ha cancellata. E oggi se ne pagano le conseguenze. Prevengo il moto di sdegno dei “sinceri atlantisti e convinti europeisti”: darla vinta a Putin è una sconfitta per la libertà. Stupidaggini condite con dosi massicce d’ipocrisia.
  E, per favore, non si tiri fuori l’abusato Winston Churchill e la sua fermezza nel rifiutare qualsiasi cedimento a Hitler. Il primo ministro britannico, nel 1940, poté mantenere il punto con il nemico perché aveva il sostegno degli Stati Uniti ma, soprattutto, perché non era in campo avverso l’Unione Sovietica. La Storia non è fatta di “se”. Tuttavia, a titolo di puro esercizio intellettuale, qualche iperbole ce la si può concedere. Immaginate se Hitler, invece di rinnegare il patto Molotov-von Ribbentrop, siglato nell’agosto del 1939, di non aggressione tra la Germania e l’Unione Sovietica e invece d’invadere il territorio russo nel giugno del 1941 – Operazione Barbarossa – avesse convinto Stalin a fare fronte comune contro le “plutocrazie” capitalistiche occidentali aprendo la strada alle armate del Reich, attraverso il Caucaso, verso il Medio Oriente e le sue risorse petrolifere, pensate che il signor Churchill avrebbe mantenuto la stessa granitica fermezza contro Hitler? O avrebbe riconsiderato la strada del negoziato con Berlino mettendo in conto l’assoggettamento di gran parte del territorio europeo continentale al Reich? Oggi Putin sta vincendo.
  All’Occidente resta una sola opzione: decidere se circoscrivere il danno. La massa d’incapaci che occupa le cancellerie occidentali farebbe bene a prendere lezioni di realpolitik da un grande vecchio che di queste cose ne capisce. Il novantanovenne Henry Kissinger lo ha detto senza giri di parole: non cercate una sconfitta devastante per la Russia in Ucraina e cercate invece di convincere Kiev a cedere una parte del suo territorio alla Russia. Questa guerra sta rimodellando l’equilibrio geopolitico mondiale. C’è ancora pochissimo tempo perché ciò non avvenga a totale danno dell’Occidente. Si obietterà: gli ucraini non ci stanno a perdere territorio. Comprensibile, ma li abbiamo chiamati eroi, allora lo siano fino in fondo. Cosa fanno gli eroi? Si sacrificano per salvare altri. Privarsi di un pezzo di territorio per ottenere in cambio una solida riappacificazione dell’Ovest con la Russia è nell’interesse anche degli ucraini. Non lo si vuole fare? Vorrà dire che è proprio vero ciò che dicevano i latini: a quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione.
  L’offensiva russa andrà avanti, lenta ma inarrestabile, scandita a colpi d’artiglieria e di bombardamenti missilistici. Obiettivo: la conquista dell’Oblast’ di Odessa fino al Delta del Danubio e al ricongiungimento con la Transnistria, in Moldavia. Risultato atteso da Mosca: l’acquisizione del Mar d’Azov al regime delle acque interne dello Stato russo e il pieno controllo della costa settentrionale del Mar Nero con la contestuale esclusione dell’Ucraina dai benefici economico-strategici dello sbocco al mare. E per l’Occidente? Sapere di avere un nemico giurato alle porte, lietissimo di sostenere i nuovi amici di Pechino nel progetto di fagocitare Taiwan. È la consapevolezza di tale scenario prossimo venturo che ci fa rimpiangere l’assenza sul campo non soltanto del nostro Silvio Berlusconi ma anche di Angela Merkel e di Donald Trump sull’altra sponda dell’Atlantico. Con tutti loro in sella sono certo che non si sarebbe arrivati a questo disastro. E noi italiani staremmo a goderci l’agognata ripresa economica.

(l'Opinione, 29 maggio 2022)

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Fede e buona coscienza

di Marcello Cicchese

    "... avendo fede e buona coscienza, poiché alcuni, avendola rigettata, hanno fatto naufragio quanto alla fede" (1 Timoteo 1:19).

La coscienza è presente nell'uomo come diretta conseguenza di aver mangiato il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Prima che si decidesse a farlo sotto la spinta del serpente, l'uomo guardava il creato con gli occhi di Dio: tutto era "molto buono" (Genesi 1:31); non sapeva che cosa fosse il male.
  Ma allora, se l'uomo non sapeva che cosa fosse il male, perché Dio lo nomina quando dà l'ordine di non mangiare "dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare" (Genesi 2:17)? Per Adamo al nome "male" non corrispondeva nulla; sapeva soltanto che a quell'albero dal frutto proibito Dio aveva dato uno strano nome: "la conoscenza del bene e del male" (הדעת טוב ורע). Che voleva dire? Non lo sapeva, né avrebbe dovuto saperlo. Il suo privilegio era di poter rimanere nella giusta posizione di fiduciosa sottomissione al suo Creatore.
  Chi invece conosceva il significato del termine "male" era Satana, che non appena sente pronunciare quel nome si fa avanti. Proprio come in quel detto popolare tedesco: "se dipingi il diavolo alla parete, lui arriva".
  Il suo primo compito è tentare l'aggancio, iniziare il colloquio provocando una risposta. Finge di aver capito male: «Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?» Non era vero, e lo sapeva; e con ciò manifesta subito uno dei suoi caratteri distintivi: la menzogna esercitata in forma di finzione.
  Eva corregge, l'aggancio è stabilito: «Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete”» (Genesi 3:2-3). Il primo passo è fatto: Eva ha abboccato. Ha accettato il dialogo, e per correggere un consapevole errore del serpente, commette lei stessa un inconsapevole errore: Dio non aveva detto di non "toccare" l'albero, ma solo di non mangiarne i frutti. Eva è entrata in confusione. Una confusione che poi si tramanderà su tutti gli uomini: la confusione tra vero e falso, prima ancora di quella tra bene e male.
  La coppia adesso è pronta per il secondo passo del tentatore: passare dalla menzogna simulata a quella palese. Il serpente presenta ad Eva le conseguenze del mangiare il frutto proibito in forma rassicurante, usando parole che assomigliano al vero: "gli occhi vostri si apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male" (Genesi 3:5).
  Per certi aspetti le cose andarono effettivamente cosi:

    “Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero che erano nudi” (Genesi 3:7);

e Dio stesso conferma:

    "Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male" (Genesi 3:22).

Dove sta allora l'imbroglio? Sta nelle parole "come Dio". Non è vero, ma la menzogna è presentata in quella forma viscida e manipolante che gli uomini hanno così ben appreso e usano anche oggi. Quelli che in quel momento avevano la conoscenza del bene e del male erano soltanto due: Dio e Satana, insieme alle rispettive schiere angeliche. Quel "come uno di noi" potrebbe dunque essere inteso nel senso di come uno di noi due. Gli occhi di Adamo ed Eva si erano effettivamente aperti e avevano ottenuto la conoscenza del bene e del male, ma invece di  diventare come Dio, erano diventati come Satana. Per il serpente il significato da dare alle sue parole era questo: "gli occhi vostri si apriranno e diventerete come dio, cioè come me, che sono il vero dio". Bel colpo!  Il mandante del serpente, il "padre della menzogna" (1 Giovanni 8:44) si sarà sentito confermato nella sua convinzione di essere il vero dio a cui tutto il creato dovrebbe sottoporsi e rendere culto.
  Ma per evitare che dopo aver ceduto alle parole del serpente gli uomini creati ad immagine di Dio entrassero a far parte in eterno delle schiere di Satana, il Signore impedì ad Adamo ed Eva di mangiare del frutto dell'albero della vita: la morte spirituale e corporale doveva passare su di loro e sui loro discendenti, come Dio aveva annunciato.

Dopo questa caduta l'uomo ha continuato a mantenere i caratteri dell'originaria costituzione fatta a immagine di Dio, ma in forma distorta e con l'aggiunta di altri tenebrosi caratteri che corrispondono all'immagine di Satana.
  La coscienza allora può essere vista come l'innata capacità dell'uomo di riconoscere che in ogni aspetto fisico e morale della vita esiste una distinzione tra bene e male, anche se la linea di demarcazione è variamente collocata e non è sempre distinguibile. La semplice, incontestabile presenza di questa linea è in se stessa un'espressione dell'originaria ribellione dell'uomo a Dio, e in ogni caso è un avvertimento a ricordare che Dio guarda a come viene tracciata questa linea di divisione e a come ci si comporta in relazione ad essa. Nel brontolio della coscienza si può avvertire il suono confuso della voce di Dio, e del suo Avversario.
  In ogni caso, poiché tutti gli uomini fanno spesso qualche riferimento alla coscienza propria o altrui, questo può essere un terreno di discussione  su cui tutti possono intervenire, credenti e non credenti. Da una parte si sa che la coscienza non è automaticamente la voce di Dio; e che due coscienze possono essere diverse ed entrambe sincere; e che rispetto a questioni morali di un certo tipo possono esserci coscienze forti e coscienze deboli; e che se si calpesta con leggerezza la coscienza di un altro si compie senza dubbio un atto aggressivo verso di lui. D'altra parte non si può lasciare alla coscienza individuale l'ultima autorità quando si tratta di relazioni fra persone: per un credente è chiaro che ogni questione di coscienza fa entrare in gioco la sua fede in Dio.
  Davanti a Felice, governatore di Cesarea, Paolo per difendersi  fa riferimento alla coscienza:

    "Per questo anch’io mi esercito ad avere sempre una coscienza pura davanti a Dio e davanti agli uomini" (Atti 24:16).

Parla di coscienza, sapendo che Felice può capirlo, ma precisa: coscienza pura davanti a Dio. Paolo dunque non si pensa soltanto davanti ad un'autorità umana.
  In un'altra occasione, sempre per difendersi, non dagli increduli ma questa volta dai credenti di Corinto, fa ancora riferimento alla coscienza:

    “Questo, infatti, è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza di esserci comportati nel mondo, e più che mai verso di voi, con la semplicità e la sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio” (2 Corinzi 1:12).

E sempre di fronte ai credenti di Corinto, da cui aveva ricevuto attacchi tremendi, Paolo difende il suo ministero con queste parole:

    “Perciò, avendo tale ministero in virtù della misericordia che ci è stata fatta, non veniamo meno nell’animo; ma abbiamo rifiutato gli intrighi vergognosi e non ci comportiamo con astuzia né falsifichiamo la parola di Dio, ma rendendo pubblica la verità, raccomandiamo noi stessi alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio” (2 Corinzi 4:1-2).

La coscienza dunque è una capacità umana che mette in relazione gli uomini anche senza che si facciano espliciti riferimenti a Dio. Ma se l'incredulo può fare appello alla coscienza sulla base di valori puramente umani, il credente sa che nel modo in cui tratta la sua coscienza e quella altrui è in gioco il suo rapporto con Dio. Dal modo in cui si rapporta con la sua coscienza si vede anche qual è il suo tipo di fede in Dio.
  Si può allora essere molto rigidi nella formulazione della  propria fede in Dio Creatore e Salvatore, ed essere molto accomodanti nella definizione di quello che in coscienza è doveroso e giusto fare nel rapporto con gli uomini. Scavalcare scorrettamente in carriera chi ne ha più diritto (è solo un esempio) non è come bestemmiare Dio, certo; quindi per qualcuno forse si può fare, con un leggero allentamento, senza dolorosi strappi, delle funi troppo strette della coscienza. Se poi qualche collega se ne accorge, e magari un po' se ne meraviglia, si resta sempre sul piano orizzontale del "semplice" rapporto fra uomini. La cosa quindi si può sempre aggiustare.
  Così pensa chi si muove sul "semplice" piano orizzontale e non pensa di dover far intervenire Dio nelle questioni di coscienza. Il credente però su fatti di questo genere appare "svantaggiato" rispetto ad altri: non può dimenticarlo, fa parte della sua professione di fede. La sua coscienza non può esimersi dal far riferimento a Dio in quello che ad altri appare una "semplice" decisione di buon senso umano; la sua coscienza "purtroppo" è più sensibile di quella dell'incredulo, e potrebbe rendergli difficile il sonno. Si potrebbe tuttavia superare la difficoltà e andare avanti come prima. Passare male una nottata non è in sé molto grave, ma se col passar dei giorni nulla cambia e fatti simili si ripetono mentre la coscienza si fa sempre meno sensibile, prima o poi questo stato di cose modificherà anche la forma della vita di fede. O forse no, in apparenza, ma questo vorrebbe dire che il credente è riuscito ad ingannare la sua coscienza, e senza accorgersene nel suo muoversi sta ingannando anche gli altri.
  Suonano dunque gravi le parole di Paolo a Timoteo: "... avendo fede e buona coscienza". Sì, perché non basta la professione di fede, ci vuole anche la buona coscienza, senza la quale, ammonisce severamente l'apostolo, "alcuni hanno fatto naufragio quanto alla fede".
  Si può dare all'immagine di Paolo una presentazione plastica. Il credente naviga  sul mare della vita imbarcato sulla nave della fede. Arriva la tempesta, il mare diventa burrascoso e il navigante per paura di affondare  getta a mare la "zavorra" della buona coscienza. La nave della fede non affonda, ma nemmeno arriva in porto: fa naufragio. Così sarà la sorte del credente che non ha unito alla fede la buona coscienza: la sua vita eterna sarà salva, ma la sua vita terrena sarà un naufragio.
  "Satana sta preparando il mondo ad accogliere l'anticristo",  ha detto qualcuno diversi anni fa, e allora la cosa poteva già colpire. Ma era proprio così. Stava avvenendo tutto sul piano dei costumi, con un veloce scivolamento verso il basso sul piano della corruzione morale, che dal livello dei comportamenti ha raggiunto da tempo quello dei pensieri. Ormai non ci si accontenta più di fare il male: si pretende che sia chiamato "bene". La pressione sulla coscienza viene fatta con lo strumento del ridicolo: "Ma davvero tu pensi ancora che non sia bene... ma tu sei un talebano".
  Con l'inizio dell'era pandemica l'azione preparatoria di Satana si è alzata di grado: è andata oltre il livello della società raggiungendo quello delle istituzioni. Adesso sono le autorità civili, con il poderoso strumento dei media, ad essere strumento di Satana per la preparazione del mondo ad accogliere l'anticristo. Forse ci vorrà del tempo, perché il lavoro da svolgere sul piano planetario è grande, ma il Nemico sa quello che fa. Per ora non agisce sulla fede religiosa, che nel mondo ha diverse facce, ma sulla coscienza, che nella sua generalità si presta bene ad agganciare persone di tutti i tipi.
  Oggi una poderosa arma di attacco alle coscienze è l'obbligo vaccinale. "Non ti vaccini, ti ammali, contagi, muori e fai morire", ha dichiarato solennemente l'attuale capo di governo italiano. Questa dichiarazione presidenziale si è dimostrata palesemente falsa, ma non è stata mai pubblicamente smentita. La fede in Cristo non dà competenze in fatto di contagi, vaccini e terapie, ma se ben esercitata rende esperti nella distinzione tra verità e menzogna. Dovrebbe allora ormai essere chiaro a tutti che l'autorità civile ha fatto e continua a fare un uso massiccio di menzogne per indurre i cittadini a sottomettere il proprio corpo, e di conseguenza tutta la propria persona, a manipolazioni forzate di ignote conseguenze. L'autorità civile sembra essere interessata soprattutto a che i cittadini si abituino a sottomettersi agli ordini ricevuti senza chiedere altre spiegazioni.
  E poiché il non sottomettersi espone a pesanti conseguenze,  non pochi cittadini rispondono con partecipazione passiva alla menzogna attiva delle autorità accettando di sottoporsi al rito vaccinale come se ci credessero, quando invece non è vero. La loro coscienza così ne è danneggiata, e questo contribuisce a preparare la cittadinanza a successive "iniezioni" di menzogna in un corpo sociale ormai anestetizzato. Complottismo? Sì, complottismo biblico, presente nel mondo fin dalle origini, come abbiamo visto all'inizio.
  Ubbidire o non ubbidire? E' un'ineludibile questione di coscienza. Le risposte possono essere diverse e diversamente articolate, perché le coscienze non si trovano tutte nella medesima posizione (1 Corinzi 10:23-31), ma ciò non toglie che per ogni cristiano la risposta che dà costituisce un serio test spirituale.
  La prova della fede può essere preceduta da una verifica della buona coscienza.

(Notizie su Israele, 29 maggio 2022)



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Iraq: se hai legami con Israele rischi la pena di morte

Tutta l’influenza iraniana sull’Iraq si è vista palesemente con questa legge che punisce con l’ergastolo o la pena di morte qualsiasi rapporto con Israele. Silenzio dal Kurdistan.

di Sarah G. Frankl

Giovedì scorso i legislatori iracheni hanno approvato un disegno di legge che criminalizza la normalizzazione dei legami e qualsiasi relazione, compresi i rapporti d’affari, con Israele.
  Le pene per chi non rispetta questa legge sono severissime e vanno dall’ergastolo alla pena di morte.
  La legge è stata approvata con 275 voti a favore in un’assemblea composta di 329 seggi. Una dichiarazione del parlamento ha affermato che la legislazione è «il vero riflesso della volontà del popolo».
  L’influente religioso sciita Muqtada al-Sadr, il cui partito ha ottenuto il maggior numero di seggi alle elezioni parlamentari irachene dello scorso anno, ha chiesto agli iracheni di scendere in piazza per celebrare questo «grande risultato».
  Non è chiaro come verrà attuata la legge poiché l’Iraq non ha riconosciuto Israele dalla formazione del paese nel 1948. Le due nazioni non hanno relazioni diplomatiche.
  Non è chiaro nemmeno come e se la legge verrà attuata nella regione semi-indipendente del Kurdistan che invece con Israele non solo ha ottimi rapporti di vario tipo ma ha anche saldi legami a livello militare.
  In questo caso l’influenza dell’Iran sull’Iraq si è vista in tutta la sua tragicità. A Teheran hanno gioito come e più che a Baghdad.
  Gli Stati Uniti si sono detti profondamente turbati dalla legislazione irachena.
  «Oltre a mettere a repentaglio la libertà di espressione e promuovere un ambiente di antisemitismo, questa legge è in netto contrasto con i progressi compiuti dai vicini dell’Iraq che hanno costruito ponti e normalizzando le loro relazioni con Israele, creando nuove opportunità per le persone in tutta la regione», ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.
  Non sono invece note le reazioni da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno che – come detto – intrattiene con Israele ottimi rapporti sin dai tempi di Saddam Hussein.
  Nel corso degli anni i Peshmerga curdi sono stati armati e addestrati da personale israeliano e hanno dimostrato sul campo di battaglia quanto questo legame con Israele sia stato proficuo.

(Rights Reporter, 28 maggio 2022)

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La Russia avanza nel Donbass, l’esercito ucraino è allo sbando

Una rara intervista del Washington Post al comandante di una compagnia di volontari ucraini in prima linea nel Donbass svela la realtà drammatica della guerra. «Non abbiamo armi né cibo. Ci mandano incontro a morte certa.»

di Leone Grotti

«Stiamo facendo tutto il possibile, ma la Russia è in vantaggio». Nell’ultima settimana l’avanzata russa nel Donbass ha avuto un’accelerata come mai accaduto negli ultimi tre mesi e anche il generale ucraino Oleksiy Gromov è costretto ad ammetterlo. La regione di Luhansk è al 95% in mano a Mosca, l’accerchiamento di Severodonetsk è quasi completato e anche la presa di Slovyansk e Kramatorsk appare ora più probabile. Soprattutto perché le divisioni dell’esercito ucraino che combattono al fronte, molte delle quali composte da semplici volontari, sono demoralizzate, male equipaggiate, poco addestrate e soverchiate dalla superiore potenza russa.

• L’esercito ucraino è allo sbando nel Donbass
  Lo hanno dichiarato al Washington Post in una rara intervista, che potrebbe costare loro un processo davanti alla corte marziale, il comandante Serhi Lapko e il suo luogotenente Vitaliy Khrus, a capo di una compagnia del quinto battaglione di fucilieri composta da 120 uomini e dislocata a Toshkivka, villaggio chiave per impedire il totale accerchiamento di Severodonetsk, nella regione di Luhansk.
  I due ufficiali descrivono in modo realistico e drammatico le carenze dell’esercito ucraino e le enormi perdite che ha già subito, anche se simili informazioni non vengono rilasciate ai media né dall’esercito né dal ministero della Difesa ucraino. Il battaglione di Lapko contava 120 uomini tre mesi fa, oggi ne sono rimasti appena 54. Molti sono morti, altri feriti, altri ancora sono fuggiti.

• «Ci mandano incontro a morte certa»
  «Il nostro comando non si prende alcuna responsabilità, non ci sostiene. Si prende solo il merito dei nostri successi», dichiara Lapko al Washington Post, descrivendo come i suoi uomini vivano stesi nelle trincee giorno e notte, con solo una patata al giorno da mangiare da due settimane, poca acqua e ancora meno armi, «mentre i russi ci attaccano con artiglieria, mortai, razzi, qualunque cosa».
  I due ufficiali, entrati volontariamente nell’esercito, si sentono abbandonati e per questo si sono ritirati dal fronte con i loro uomini per sfuggire a un massacro che giudicano certo. E non sono gli unici. Il 24 maggio un plotone del terzo battaglione della 115ma brigata, vicino alla città di Severodonetsk, ha diffuso un messaggio su Telegram spiegando di non essere più disposto a combattere in mancanza di armi e adeguate istruzioni militari da parte dei superiori. «Ci mandano incontro a una morte certa. E non siamo solo noi in questa situazione, siamo in tanti».

• «Ci hanno abbandonato. Non siamo disertori»
  I vertici dell’esercito hanno definito gli uomini che hanno girato il video «disertori» e lo stesso hanno fatto con Lapko e Khrus: i due ufficiali e molti dei loro uomini sono già stati arrestati con la stessa accusa. «Ma non siamo noi i disertori», spiegano, «sono loro che ci hanno voltato le spalle».
  Entrambi raccontano che il loro addestramento militare è durato appena mezz’ora. Il tempo di sparare trenta colpi con un AK-47 e subito sono stati inviati sul fronte nel Donbass. Alcuni volontari si sono rifiutati di essere scaraventati così in prima linea e sono stati arrestati.
  Nelle trincee la compagnia di Lapko aveva appena qualche kalashnikov, una manciate di granate e quattro lanciarazzi che nessuno sapeva come utilizzare. «Non abbiamo difese di fronte all’esercito russo», continua, lamentando anche di non essere stato provvisto nemmeno di una radio per chiedere aiuto ai superiori.

• «Nessuno dice la verità»
  Nonostante questo hanno eliminato un centinaio di soldati russi, organizzando imboscate contro le loro unità mobili: «Khrus è un eroe», spiega. «La nostra fortuna è che dopo le imboscate i russi non ci hanno mai seguito. Se lo avessero fatto ci avrebbero sconfitto facilmente e ora non saremmo qui a raccontarlo». Le perdite tra i suoi uomini però sono già tante e dovute per la maggior parte a ferite da guerra non curate prontamente: «Sulla televisione ucraina non si parla delle nostre perdite. Nessuno dice la verità».
  La goccia che ha fatto traboccare il vaso è quando la scorsa settimana, arrivato al quartier militare di Lysychansk, Lapko ha scoperto che il comandante del suo battaglione era stato spostato in un’altra città, portandosi via tutti i rifornimenti e senza dirgli niente. «Ci hanno abbandonati senza spiegazione. Ci hanno inviati qui per tappare un buco, a nessuno importa se viviamo o moriamo».
  Per questo Lapko e Khrus, con molti membri della sua compagnia, sono andati via dal fronte per prendersi qualche giorno di riposo, convinti però a ritornare a combattere: «Proteggeremo ogni centimetro del nostro paese, ho giurato di difendere il popolo ucraino e lo farò. Ma abbiamo bisogno di comandanti adeguati, non di ordini irrealistici». Entrambi però sono stati arrestati con l’accusa di essere dei disertori. Al fronte, nel Donbass, regna il caos.

(Tempi, 28 maggio 2022)

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Clara Pirani, la maestra ebrea di Gallarate assassinata dai burocrati fascisti

Da oggi in via Palestro-via del Popolo la ricorda una "pietra d'inciampo". Che fa scoprire una storia agghiacciante: la sua deportazione fu avviata non dai nazisti, ma da italiani, compreso un vicino di casa.

di Roberto Morandi

Clara Pirani
Dov’erano i nostri padri e le nostre madri, negli anni del nazismo e della Shoah? Questa domanda ha perseguitato una generazione, in Germania, dopo il 1945, dopo lo sterminio di milioni di ebrei, slavi, omosessuali, oppositori politici. In Italia questa domanda è risuonata meno e assai meno si è fatto i conti con le responsabilità – individuali, collettive – di fronte al male.
  Lo racconta bene la storia di Clara Pirani, la maestra ebrea deportata da Gallarate ad Auschwitz e da oggi ricordata da una “pietra d’inciampo” di fronte alla casa dove abitava e in cui fu arrestata, in via del Popolo angolo via Palestro.
  Clara Pirani arrivò a Gallarate al seguito del marito, il professor Cardosi, preside del liceo ginnasio che allora si trovava nell’edificio delle scuole di via Palestro. «All’arrivo della famiglia a Gallarate, uno zelante funzionario del Comune aveva registrato Clara Pirani – e le sue figlie – come appartenenti alla “razza ebraica”. Anche le ragazze in età scolastica erano quindi state allontanate da scuola. Essendo di “razza ebraica”, in quanto figlie di madre ebrea, non potevano frequentare le scuole pubbliche» ha ricordato nel suo discorso Michele Rusca, presidente della sezione gallaratese dell’Associazione Mazziniana, che con Anpi Gallarate ha curato il percorso per installare tre pietre d’inciampo in città.
  La storia di Clara Pirani è una storia di ottusa, fredda burocrazia, quella dei funzionari dello Stato fascista e poi – dal 1943 – della (illegittima) Repubblica Sociale Italiana. È una storia di responsabilità individuali, italiane prima che tedesche. Dal più alto in grado, fino all’ultimo poliziotto che si applicò per arrivare all’arresto della famiglia: «La sera dell’11 maggio 1944, l’agente di Pubblica Sicurezza Poli, che abitava al primo piano della casa dove alloggiava la famiglia Cardosi, fece una visita apparentemente immotivata ai vicini» ha ricordato ancora Rusca. «Si comprese solo più tardi che stava verificando che tutti fossero in casa. Le bambine delle due famiglie giocavano insieme ogni giorno. Una sua parola di avvertimento avrebbe forse salvato la vita di una madre innocente».
  Invece Clara Cardosi e le sue figlie furono tutte arrestate. Le bambine, figlie di un ariano e di una ebrea convertita al cattolicesimo, vennero per fortuna scarcerate e dalla Questura di Varese tornarono a casa.
  Clara Pirani invece finì ad Auschwitz, dove arrivò domenica 6 agosto 1944: finì subito nelle camere a gas, insieme a 188 altre persone.

• La giustizia negata e i giusti sacrificati
  Vita tranquilla ebbero, tutto sommato, i vari funzionari che ebbero un ruolo nella deportazione, alcuni rimasti nel Varesotto per anni.
  «Mario Bassi, ex Capo della Provincia e mandante di tutti gli arresti nel territorio varesino, fu scarcerato nel gennaio 1947. Fra le motivazioni attenuanti, la “non grave intensità del dolo”» ha ricordato ancora Michele Rusca nel suo discorso che ha ripercorso la storia tragica di Clara Pirani e delle responsabilità.
  «L’ex questore di Varese Luigi Duca, che firmò l’ordine di arresto e di consegna ai tedeschi, uscì indenne dalla parentesi giudiziaria. Nel 1981, a 81 anni, fu eletto sindaco in Valganna». Il provvedimento di amnistia del Ministro Togliatti cancellò le responsabilità del funzionario di Polizia Santoro, che aveva curato l’arresto, così come quelle del commissario prefettizio di Gallarate, Angelantonio Bianchi, «che tornò a Fondi, nella sua città d’origine in provincia di Latina, dove riprese la sua attività di funzionario nella amministrazione comunale e dove morì nel 1974».
  Il Maresciallo SS Otto Koch, responsabile delle deportazioni presso il Comando Germanico di Milano, rientrato in patria riprese a vivere e a lavorare indisturbato: morì in casa di riposo il 15 marzo 1996. «Spesso noi condanniamo, giustamente e doverosamente, i processi sommari e le vendette che ci furono, in alcune occasioni, nell’immediato dopoguerra. Ma non dobbiamo dimenticare, sull’altro versante, la massa di colpevoli impuniti».
  Anche tra i funzionari dello Stato, però, ci fu chi si ribellò: Clara Pirani prima di arrivare ad Auschwitz passò dal carcere di San Vittore, da cui riuscirà a scrivere lettere strazianti alla famiglia, anche grazie ad un agente di custodia che aveva invece deciso di ribellarsi di nascosto e di aiutare gli ebrei e gli oppositori, Andrea Schivo.
  Pochi giorni dopo il trasferimento di Clara Pirani, anche l’agente Schivo fu scoperto, dopo che nella cella di una prigioniera ebrea fu ritrovato un ossicino, residuo di una porzione di pollo che Schivo era riuscito a far entrare di nascosto. L’agente penitenziario – che aveva deciso di essere giusto in un tempo di ingiustizie – fu così deportato dai nazisti a Flossenbürg, dove morì d’inedia. La Repubblica l’ha insignito della Medaglia ‘oro al valor civile alla memoria, per “elevato spirito di servizio, encomiabile abnegazione”, ma soprattutto – vien da dire – per quello “spiccato senso morale fondato sui più alti valori di umana solidarietà” che lo portò a disobbedire agli ordini ingiusti.

• La cerimonia della pietra d’inciampo per Clara Pirani a Gallarate
  Molto della vicenda si conosce grazie alla tenacia con cui le tre figlie di Clara Pirani Cardosi hanno cercato, invano, di ottenere giustizia e un risarcimento per la loro perdita.
  Oggi la vicenda risuona – nei luoghi dove si svolse – grazie alla pietra d’inciampo. «Dobbiamo ringraziare voi, cittadini di Gallarate, che siete qui presenti» ha detto Michele Mascella, presidente di Anpi Gallarate, che ha promosso la posa delle pietre insieme ai Mazziniani.
  «Mi fa particolarmente piacere vedere la presenza delle scuole, perché sono i ragazzi i primi che ricevono e imparano questo messaggio e l’invito perché che non si ripetano questi tremendi fatti» ha aggiunto l’assessore alla cultura del Comune di Gallarate Claudia Mazzetti. «Soprattutto di fronte a quel che stiamo vivendo oggi con il ritorno della guerra in Europa, nel 2022». Era presente anche il gonfalone dei licei, anche per il legame della scuola con la vicenda, visto che il professor Cardosi era appunto il preside del ginnasio di allora.
  I licei, come anche l’istituto Falcone e l’istituto Ponti, sono stati coinvolti nel percorso di conoscenza legato alle tre storie delle pietre d’inciampo gallaratesi.
  Il presidente dell’Associazione Nazionale Ex-Deportati Leonardo Visco Gilardi nel suo discorso ha ribadito che «Clara Pirani Cardosi fu, come tanti altri, vittima dello zelo servile dei funzionari della Repubblica Sociale Italiana, che facevano i rastrellamenti, ai danni di ebrei, partigiani, operai. Un servilismo zelante e succube nei confronti dei nazisti».

• “Ricordo quelle bambine”
  «Le pietre d’inciampo sono un modo per restituire il nome a chi veniva cancellato nella sua personalità e identificato solo da un numero e dal triangolo che mostrava la categoria in cui era inserito nei campi» ha concluso Visco Gilardi. La famiglia Cardosi scoprì solo dopo mesi, alla fine della guerra, che Clara era morta ad Auschwitz, un nome che sarebbe diventato solo allora noto al mondo.
  Oggi sono sempre meno i testimoni diretti ma forse proprio per questo il loro racconto è intenso: Giuseppe Camanni ha 84 anni, era bambino quando nell’agosto del 1945 venne ad abitare nel palazzo di via Palestro. «Andai una sera a casa loro, accompagnato dai miei genitori. Ricordo le bambine – erano più piccole di me – ancora stralunate di fronte a quel che avevano successo». Nell’appartamento affacciato su via del Popolo viveva ancora il funzionario di Polizia che era andato a verificare che fossero tutti in casa, la sera prima dell’arresto. «Il ricordo rimane vivissimo, 75 anni dopo».
  Oggi la memoria è affidata a una pietra d’inciampo e al ricordo dei gallaratesi venuti ad ascoltare. Le figlie di Clara Pirani non ebbero mai figli.

(Varese News, 28 maggio 2022)

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Mostra senza quadri e sculture

E anche antisemita: boicotta gli artisti israeliani

di Roberto Giardina

Sullo scaffale innanzi alla mia scrivania ho un portapenne in ceramica, con una D nera sovrapposta da una X in rosso, come a cancellarla. E' il simbolo della decima edizione di Documenta, la grande esposizione di arte contemporanea che si tiene a Kassel ogni cinque anni. Di solito non compro souvenir ma quell'oggetto mi piacque. Era il 1997, e forse sarebbe stato meglio cancellare sul serio Documenta, ho pensato in seguito. 
  Di quella edizione mi è rimasta impressa un'opera, la più vista, i visitatori portavano i bambini per ammirarla: una scrofa con sei maialini. Era firmata, se mai fosse possibile, da Carsten Höller e Rosemarie Trockel, che chiedevano a me e altre migliaia di visitatori perché mangiamo animali e non altri esseri umani. L'opera rimase esposta per i cento giorni di Documenta, i Ferkel, maialini in tedesco, crebbero e dopo la chiusura finirono arrosto. 
  Le opere di Documenta vengono esposte in tutta la città, è una gran fatica cercare di vederle, nell'estate del '97 mi trascinai fino a una stazione fuori servizio: su un binario morto era stata montata un'opera dedicata all'emigrazione, tra le traversine erano piantate erbe selvatiche giunte da ogni continente. Un simbolo evidente. Oscar Wilde diceva che se vuoi vedere un simbolo in un'opera lo fai a tuo rischio. Gli artisti non dovrebbero schiaffarti i simboli in faccia. 
  Mentre attendevo mia moglie in visita altrove, rimasi affascinato innanzi a un televisore che mostrava un reportage sugli eschimesi, di tre ore e mezzo. Ne vidi una quarantina di minuti, ben fatto, ma perché inviarlo a Kassel e non al Festival di Venezia? Non sono un retrogrado, i video sono opere d'arte, come quelli di Bill Viola, ti danno un'emozione che non dimentichi. Un Documentario è un'altra cosa. 
  A Documenta X non era esposta neppure una scultura, un disegno, un olio su tela. Tornai alle edizioni del 2002, del 2007, e del 2012, che fu splendida, affidata a Carolyn Christof Bakargiev, americana e italiana, oggi curatrice al Castello di Rivoli. Erano esposte opere contemporanee, e anche una rassegna dell'arte del XX secolo. 
  Non andai all'ultima, del 2017. Il curatore, il polacco Adam Szymczyk scelse lo slogan “Von Athen lernen”, imparare da Atene, e per la metà l'allestì in Grecia, simbolo dell'emigrazione e del neocolonialismo. Perché dover prendere un aereo fino ad Atene? Fu un flop anche economico. L'edizione si chiuse con un buco di 7,6 milioni di euro. 
  A ogni edizione viene scelto un unico curatore, la responsabilità della scelta è solo sua. Un metodo che sarà antidemocratico, ma è stimolante. Per l'ultima edizione, seguendo la moda, hanno affidato Documenta 15, dal 18 giugno fino al 25 settembre, a un gruppo bengalese, il Ruangruopa, formato da dieci elementi. Scelto per aver organizzato la mostra di scultura a Arnheim in Olanda nel 2016, dove misero in mostra un kindergarten portato dalla loro Giakarta. 
  I curatori spiegano che Documenta è un pretesto, l'arte serve a migliorare il mondo, anche a questo certamente, dipende da che si intende per arte. La squadra bengalese ha invitato il gruppo El Warcha, che a Tunisi si occupa di giochi per bambini, aiuole e panchine, e la Trampoline House danese che si occupa di profughi e impartisce consigli sull'integrazione. Esporranno anche Herr Gendrk Pulju, 31 anni, che pur essendo di Kassel non ha mai visto uns Documenta: è lui l'opera d'arte in quanto apicoltore, le api sono la spia che denuncia l'inquinamento. 
  Ma si sono rifiutati di invitare artisti israeliani, in nome del Bds, cioè boycott, disinvestment, sanctions, il movimento che boicotta i prodotti israeliani che provengono dai territori occupati. Ma il Bds è stato già condannato dal Bundestag, il parlamento, come antisemita, e Documenta viene allestito anche con soldi pubblici. I dieci di Giakarta si sono rifiutati di rispondere. Politicamente corretti secondo la moda, ma molto attenti: non hanno invitato neanche un artista da Papua, la provincia orientale del Bengala, colpevoli di avere la carnagione scura, poco graditi alle autorità di Giakarta. Antisemiti ma con prudenza. Non andrò a vedere le api a Kassel. 

(ItaliaOggi, 28 maggio 2022)

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Emirati-Israele: gli scambi commerciali superano il miliardo di dollari nel primo trimestre del 2022

Durante il Forum economico globale (Wef) a Davos, in Svizzera, il ministro di Stato per il commercio estero degli Emirati, Thani al Zeyoudi, ha inoltre spiegato che finora sono stati firmati 65 accordi tra i due Paesi.

Gli scambi commerciali tra Emirati Arabi Uniti e Israele hanno superato il miliardo di dollari nel primo trimestre del 2022, raggiungendo i 2,5 miliardi di dollari in meno di due anni. Lo ha dichiarato il ministro di Stato per il commercio estero degli Emirati, Thani al Zeyoudi, durante il Forum economico globale (Wef) a Davos, in Svizzera. “Di solito, l’economia e la crescita sono sempre associate alla pace e alla stabilità”, ha affermato Al Zeyoudi, spiegando che finora sono stati firmati 65 accordi tra i due Paesi. “Secondo le previsioni del comitato economico congiunto, più di mille aziende israeliane avranno sede negli Emirati quest’anno”, ha concluso Al Zeyoudi.

(Nova News, 27 maggio 2022)

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Bennett conferma il percorso 'Marcia di Gerusalemme'

Nessun cambiamento, malgrado gli avvertimenti palestinesi

TEL AVIV - Malgrado le minacce e gli avvertimenti giunti da parte palestinese, la 'Marcia delle Bandiere' di Gerusalemme si svolgerà domenica "lungo il percorso originale, così come avviene da decine di anni": lo ha stabilito oggi il premier Naftali Bennett, al termine di una consultazione con il ministro per la sicurezza interna Omer Bar Lev e con il capo della polizia Koby Shabtai.
  Per prevenire disordini - quando migliaia di nazionalisti ebrei sfileranno nei vicoli del rione islamico della Città Vecchia - a Gerusalemme saranno dislocati tremila agenti.
  Nel sud di Israele sono state rafforzate intanto le batterie di difesa aerea Iron Dome, per intercettare eventuali lanci di razzi da Gaza.
  Bennett ha rilevato che la Marcia - con cui Israele festeggia la riunificazione dei due settori di Gerusalemme in seguito alla guerra del 1967 - si concluderà al Muro del Pianto e non toccherà la Spianata delle Moschee (che per gli ebrei è il Muro del Tempio). Nella Spianata, ha precisato Bennett, domenica sarà osservata la normale routine. Ciò nonostante diverse forze politiche palestinesi hanno fatto appello alla popolazione di Gerusalemme est a mobilitarsi "in difesa della moschea al-Aqsa".

(ANSAmed, 27 maggio 2022)

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Pio XII e la guerra, una lunga storia di silenzi

David Kertzer
e Amedeo Spagnoletto
Un’opera attesa, frutto di anni di lavoro e che promette di far luce su vicende laceranti e drammatiche. Presentazione in anteprima, al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, per il nuovo libro firmato dal Premio Pulitzer David Kertzer “Un papa in guerra. La storia segreta di Mussolini, Hitler e Pio XII” (ed. Garzanti). Il volume, naturale continuazione del lungo lavoro di studio sul pontificato di Pio XI e sui rapporti con Mussolini, esplora le relazioni del suo successore, Pio XII, e le posizioni della Chiesa durante il secondo conflitto mondiale. Kertzer, professore di Scienze Sociali alla Brown University, è stato tra i primi storici ad accedere agli archivi vaticani riguardanti il periodo della guerra e il pontificato di papa Pacelli, resi accessibili dopo decenni nel marzo del 2020.
  L’evento è stato organizzato dal Meis con la casa editrice Garzanti e ha ricevuto il patrocinio dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara (ISCO) e dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Reggio Emilia (Istoreco).
  “Accolgo il professor Kertzer – ha esordito il direttore del Meis Amedeo Spagnoletto – con un ricordo personale: quasi 15 anni fa la Comunità ebraica di Roma mi aveva incaricato di scrivere una pergamena di ricordo e benemerenza nei confronti di rav Morris Kertzer da presentare a suo figlio. Rav Kertzer era il cappellano militare delle truppe alleate che risalivano da Anzio per liberare Roma, fu proprio lui a riaprire il Tempio dopo gli anni di persecuzione e deportazione. Lo scorso anno, organizzando un incontro del Meis dedicato al rapimento di Edgardo Mortara, sul quale Kertzer ha scritto un celebre libro, ho potuto finalmente conoscere David a cui mi lega oggi un rapporto di amicizia e di stima”.
  A discutere con l’autore la giornalista Brunella Torresin: “Questo libro – le sue parole – suscita domande molto coinvolgenti sotto tutti i punti di vista. È impressionante la quantità di documenti che sono stati utilizzati e sono alla base di un volume così approfondito”. Proprio sul ruolo dei documenti è intervenuto Kertzer in un’appassionante intervista di fronte al pubblico numeroso accorso al Meis: “Per me è molto importante sottolineare – ha spiegato – che il libro non si basa solo sui documenti degli archivi vaticani ma su tante altre fonti raccolte assieme allo storico Roberto Benedetti e senza le quali non sarebbe possibile interpretare alcuni punti poco chiari. È per esempio interessante studiare gli archivi diplomatici italiani e tedeschi dai quali si evince il lavoro compiuto per far eleggere Pio XII che aveva l’obiettivo di rinsaldare il rapporto tra la Chiesa e la Germania di Hitler”.
  Tra le pagine si dipana poi la storia di un negoziato segreto tra Pacelli e Hitler proprio allo scopo di ricucire i rapporti. “Il silenzio di Pio XII e la mancata presa di posizione contro il nazismo – ha dichiarato Kertzer – inizia prima di quanto si pensi, con l’invasione della Polonia, un Paese la cui stragrande parte della popolazione era cattolica”. Perché il papa non intervenne? “Il vero timore – ha aggiunto lo storico – fu la paura di uno scisma in Germania, soprattutto dopo l’Anchluss: non dobbiamo dimenticare che circa la metà della popolazione era cattolica. Molti dei nazisti la domenica andavano in chiesa”. Tante le domande dal pubblico, che hanno animato la seconda parte dell’incontro “Cosa succede dopo la Liberazione? Come si pone la Chiesa nei confronti della lotta partigiana?”, tra le altre. “Il papa – ha spiegato Kertzer – era molto preoccupato che l’arrivo degli alleati potesse sfociare in una guerra che avrebbe distrutto gran parte della città di Roma, ma il suo rapporto con gli americani fu buono, tanto che molti generali arrivati in città chiesero di poter avere udienza. Non bisogna poi dimenticare che molti dei finanziamenti della Chiesa arrivavano proprio dai cattolici americani. Era importante non offenderli”.
  “Per quanto riguarda il rapporto con i partigiani – ha concluso – durante l’occupazione il papa spinse i romani a non intervenire, basti pensare che nemmeno il massacro delle Fosse Ardeatine venne menzionato sulle pagine dell’Osservatore romano. Per ciò che concerne infine il ruolo dei preti nella Resistenza il papa non scoraggiò le loro azioni, ma si tenne sempre a distanza fino alla fine della guerra”

(moked, 27 maggio 2022)

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Ucraina: Biden fomenta la guerra e invia armi micidiali a Zelensky

WASHINGTON – L’amministrazione Biden si sta preparando a inviare all’Ucraina armi più potenti nell’ambito di un nuovo pacchetto la prossima settimana. Lo riferiscono fonti dell’amministrazione alla Cnn. Si tratterebbe in particolare di sistemi di missili a lungo raggio, Multiple Launch Rocket System o MLRS, che da tempo sta chiedendo Volodymyr Zelensky. Le armi, prodotte negli Stati Uniti, possono sparare una raffica di razzi per centinaia di chilometri, molto più lontano di qualsiasi altro sistema già presente in Ucraina, e secondo Kiev potrebbe essere il punto di svolta nella loro guerra contro la Russia.

(Firenze Post, 27 maggio 2022)

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La star-up che vuole rivoluzionare i supermercati

SuperDuper
Il problema del costo dei generi alimentari in Israele è oramai proverbiale. secondo un recente studio dell'azienda britannica Money, Israele è sesta nella classifica dei paesi dove i prodotti alimentari costano di più (36 le nazioni prese in esame). I monopoli, i gruppi di potere, le tasse sull'importazione e la regolamentazione legata alla casherut sono tra i motivi che ostacolano la possibilità che i prezzi scendano, con buona pace dei consumatori.
  Per Karnit Flug, ex governatore della Banca d'Israele, la politica dovrebbe avviare diverse riforme, tra cui aumentare la concorrenza nel settore alimentare, aprendo il mercato alle importazioni e incoraggiare strategie di trasparenza dei prezzi.
  In attesa che la litigiosa politica israeliana trovi delle soluzioni, un gruppo di giovani imprenditori ha provato a dare una sua risposta al problema. Abbassare i costi realizzando un supermercato interamente online - superDuper - con dietro magazzini automatizzati in cui lavora poca manodopera qualificata. SuperDuper, scrive il quotidiano Haaretz, sostiene che solo un player che opera esclusivamente sul web può offrire prezzi ultra-bassi senza aggiungere una tassa di consegna, e che saranno loro a far dimenticare i supermercati fisici. "Viviamo in un mondo in cui i supermercati esistono da 106 anni. Stimiamo che entro un decennio, al massimo, saranno storia" afferma al quotidiano Ran Peled, il dirigente del marketing. "Piggly Wiggly [il primo negozio di alimentari self-service del mondo, aperto nel 1916 a Memphis, Tennessee] ha soppiantato il modello che era esistito fino ad allora - clienti che aspettavano in fila i commessi - introducendo il self-service. Quel modello naturalmente è arrivato a dominare il mondo perché era più logico. e oggi sono i compratori i migliori lavoratori delle catene. Vengono al negozio, ritirano i prodotti e li trasportano a casa. Ora c'è un modello migliore e noi crediamo che sia il nostro modello". La start-up, che funziona tramite app, al momento ha un solo centro logistico a Binyamina, fatto di scaffali d'acciaio e 28 robot gestiti da un algoritmo.
  Per ora la distribuzione copre l'area di questa piccola città. Per ordinare si utilizza una app in cui attualmente c'è un numero limitato di prodotti (l'obiettivo è raggiungere i 6000). L'ordine si fa a cadenza di tre giorni e tutta la sua composizione è gestita tramite robot e algoritmi, con supervisione umana. L'idea ha convinto alcuni investitori che hanno finanziato in modo significativo SuperDuper. Haaretz sottolinea come però le previsioni sulla scomparsa dei supermercati siano decisamente premature. D'altra parte alcune grandi aziende e produttori hanno dimostrato interesse per l'iniziativa, che potrebbe essere l'assaggio di una nuova era nella distribuzione. con la speranza, per i consumatori israeliani, di pagare finalmente meno.

(Pagine Ebraiche, maggio 2022)

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Roma, ufficiale: il 30 luglio amichevole di prestigio in Israele

Amichevole di prestigio per la Roma il prossimo 30 luglio ad Haifa, in Israele. La formazione di Mourinho sfiderà il Tottenham di Conte, che ha chiuso al quarto posto l'ultima edizione della Premier League, strappando in extremis la qualificazione in Champions. La circostanza è stata ufficializzata dal club giallorosso attraverso una nota.
  "L’AS Roma è lieta di annunciare che nel mese di luglio affronterà il Tottenham in un match in Israele.  La squadra di José Mourinho volerà alla volta di Haifa per giocare contro il club inglese nella I-Tech Cup. La partita, che si terrà al Sammy Ofer Stadium, è in programma il 30 luglio. L’orario del calcio d’inizio sarà annunciato prossimamente. “La sfida con il Tottenham sarà una tappa importante nel percorso di preparazione alla nuova stagione”, ha affermato il General Manager dell’area sportiva dell’AS Roma, Tiago Pinto. “Giocare a Haifa, in Israele, rappresenterà inoltre un’esperienza di grande interesse per tutti noi e siamo impazienti di viverla”. Quella di luglio sarà la quarta gara estiva contro gli Spurs, dopo quelle del 2008, 2017 e 2018. La I-Tech Cup è un format ideato da organisers MTR7, con l’obiettivo di dare visibilità alle novità tecnologiche in un Paese noto per essere un centro ricco di aziende high-tech". 

(Sporteval.it, 27 maggio 2022)

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Gerusalemme: preghiere ebraiche sulla Spianata ancora vietate

Il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha annullato ieri una sentenza del tribunale di pace che sembrava consentire, almeno in forma implicita, la recitazione di preghiere ebraiche sul Monte del Tempio di Gerusalemme, ossia sulla Spianata delle Moschee. Accogliendo il parere della polizia e dei servizi di sicurezza, riferisce Haaretz, la giudice Einat Ebman-Muller ha stabilito che restano inalterate le limitazioni imposte finora ai visitatori ebrei, "data anche la particolare sensibilità del luogo".
  Alcuni giorni fa, dopo la sentenza del tribunale di pace (relativa all'allontanamento di tre giovani ebrei colti mentre recitavano una preghiera sulla Spianata) il premier Naftali Bennett aveva pubblicato una nota ufficiale in cui - per placare le apprensioni dei palestinesi e dei giordani - ribadiva che "Israele non ha cambiato e non intende cambiare in futuro lo status quo sul Monte del Tempio". La sentenza del tribunale distrettuale rientra negli sforzi di prevenire incidenti con la popolazione palestinese quando domenica migliaia di nazionalisti ebrei sfileranno a Gerusalemme est nell'anniversario della unificazione dei due settori della città seguita alla guerra dei sei giorni del 1967.

(ANSAmed, 26 maggio 2022)

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Israele, scoperto un insediamento agricolo di 2.100 anni fa

di Jacqueline Sermoneta

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Un insediamento agricolo di 2.100 anni fa, risalente al periodo degli Asmonei, è stato rinvenuto a Horvat Assad, in Galilea. I recenti lavori di scavo, condotti dalla Israel Antiquities Authority (IAA), hanno portato alla luce pesi da telaio utilizzati per la tessitura di indumenti, vasi in ceramica, monete e attrezzi agricoli in ferro, tutti perfettamente conservati. I reperti permettono di comprendere quelle che erano le attività sociali e agricole ancora poco note degli abitanti dell’epoca. 
  “Si tratta di un insediamento agricolo senza precedenti, che offre una visione inestimabile sulla vita quotidiana durante il periodo asmoneo” ha spiegato l’archeologa dell’IAA Amani Abu-Hamid – Siamo stati fortunati ad aver scoperto ‘una capsula del tempo’, ben conservata, in cui i reperti sono rimasti dove li avevano lasciati gli abitanti del luogo, che sembra siano fuggiti improvvisamente a causa di un imminente pericolo, forse per la minaccia di un attacco militare”. 
  “Sappiamo da fonti storiche – ha aggiunto Abu-Hamid – che in questo periodo il regno degli Asmonei si espanse nella regione della Galilea ed è probabile che il luogo sia stato abbandonato sulla scia di questi eventi. Sono necessarie ulteriori ricerche per determinare l’identità degli abitanti del posto”. Il direttore generale dell’IAA Eli Eskosido ha sottolineato che la Israel Antiquities Authority e la Compagnia idrica israeliana Mekorot stanno collaborando per preservare il sito. Gli scavi, infatti, sono stati effettuati in vista dell’attuazione del progetto promosso da Mekorot, volto al trasporto di acqua dagli impianti di desalinizzazione al Mare di Galilea, utilizzato come approvvigionamento idrico nei periodi di siccità.

(Shalom, 26 maggio 2022)
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Gli Stati Uniti sanzionano le società di Hamas che finanziano il terrorismo

di Paolo Castellano

Hamas preferisce fare investimenti milionari per finanziare le sue attività terroristiche piuttosto che aiutare il proprio popolo mentre è in difficoltà economica e sanitaria. Per questo motivo, il 24 maggio gli Stati Uniti hanno sanzionato un agente finanziario di Hamas e una rete di società riconducibile all’organizzazione militare palestinese.
  A emettere le sanzioni il Dipartimento del Tesoro che ha individuato 500 milioni di dollari sotto forma di diversi beni, comprese società che operano in Sudan, Turchia, Arabia Saudita, Algeria ed Emirati Arabi Uniti. Lo riporta il Jerusalem Post.
  «Hamas ha generato ingenti somme di entrate attraverso il suo portafoglio di investimenti segreti mentre destabilizza Gaza, che sta affrontando dure condizioni economiche e di vita», ha dichiarato Elizabeth Rosenberg, Assistente Segretario del Tesoro che si occupa dei finanziamenti al terrorismo e dei crimini finanziari.
  Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, ha criticato le sanzioni degli USA: «Le accuse statunitensi non sono corrette e si schierano con l’occupazione israeliana e diffondono le sue false accuse».
  Il funzionario dell’organizzazione terroristica palestinese sanzionato dagli americani è Abdallah Yusuf Faisal Sabri, cittadino giordano con residenza in Kuwait che ha lavorato come contabile per il Ministero delle Finanze di Hamas.
  Le società multate sono Agrogate Holding con sede in Sudan, Sidar Company con sede in Algeria, Itaq Real Estate JSC con sede negli Emirati Arabi Uniti, Trend GYO con sede in Turchia e Anda Company con sede in Arabia Saudita.

(Bet Magazine Mosaico, 26 maggio 2022)

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Herzog: “Abbiamo un dialogo aperto e sincero con il presidente Erdogan”

Il presidente israeliano ha descritto il processo che hanno vissuto con la Turchia "non come quello di Romeo e Giulietta, ma come un processo in cui si sono riuniti e hanno testato sul campo molte questioni discusse"...

Herzog: “Abbiamo un dialogo aperto e sincero con il presidente Erdogan” Il presidente israeliano Isaac Herzog si è detto molto soddisfatto del dialogo aperto e sincero con il presidente Recep Tayyip Erdogan, un dialogo che si sta muovendo nella giusta direzione.
  In una sessione speciale del World Economic Forum (WEF), noto anche come “Summit di Davos”, Isaac Herzog ha risposto a una domanda del presidente del Forum, Borge Brende sulle relazioni con la Turchia e la visita del presidente israeliano in Turchia a marzo.
  Herzog affermando che lui e il presidente Erdogan hanno avviato insieme un "processo molto interessante e ben ponderato" a seguito del suo insediamento, ha dichiarato:
  "Il momento clou di questo processo è stata la mia storica visita ufficiale ad Ankara e Istanbul a marzo. Oggi siamo entrati in una nuova fase. Ieri e l'altro ieri il ministro degli Esteri (Mevlut) Cavusoglu ha effettuato una visita ufficiale in Israele. Cavusoglu ha avuto colloqui con il ministro degli Esteri israeliano Jair Lapid sulle relazioni tra i due Paesi in tutti i campi.
  La nostra visione è quella di dialogare con tutti i paesi vicini e amici del Mediterraneo, in particolare del Mediterraneo orientale", ha affermato Isaac Herzog, aggiungendo che i paesi del Mediterraneo orientale possono lavorare insieme su questioni come il clima, l'acqua pulita, il Mediterraneo e il Mar Rosso.
  Il presidente israeliano ha descritto il processo che hanno vissuto con la Turchia "non come quello di Romeo e Giulietta, ma come un processo in cui si sono riuniti e hanno testato sul campo molte questioni discusse".
  "Sono molto lieto di avere un dialogo aperto che si sta muovendo nella giusta e onesta direzione con il presidente Erdogan", ha affermato Herzog.

(TRT, 26 maggio 2022)


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Israele – Turchia: l’incontro a Gerusalemme fra i ministri degli esteri dei due paesi. Una svolta possibile

di Ugo Volli

• UNA VISITA STORICA Si è conclusa ieri la visita in Israele del ministro degli Esteri della Turchia Mevlut Cavusoglu: un piccolo evento storico dato che una presenza del genere non si era avuta da quindici anni, dopo un lungo periodo di amicizia fra i due paesi. Cavusoglu è andato anche a Ramallah a parlare con Mohamed Abbas, ha visitato il Monte del Tempio (che per lui è la spianata delle Moschee, naturalmente), ha parlato con esponenti politici israeliani di primo piano, soprattutto con Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele e uomo forte del governo.

• UN PASSATO CHE PESA
  Esponenti turchi di primo piano non visitavano Israele da prima dell’incidente della Mavi Marmara, la nave battente bandiera turca che il 31 maggio del 2010, alla guida della flottiglia che cercava di rompere il blocco militare israeliano a Gaza, aveva rifiutato di fermarsi alle intimazioni della marina israeliana. Il piccolo gruppo di militari israeliani che era salito sulla nave per prenderne il controllo, secondo le procedure del diritto internazionale, era stato accolto a spari e coltellate e allora era scattato un contrattacco, che aveva provocato nove morti fra i miliziani turchi che avevano cercato di sequestrare e ferito gravemente i militari israeliani. Ne era seguita una durissima polemica fra Israele e la Turchia, poi terminata con un conguaglio economico alle famiglie dei morti grazie a una mediazione americana. Ma i rapporti erano rimasti molto ostili. Anche perché già un anno prima, nel gennaio del 2009, l’allora primo ministro turco e oggi presidente Erdogan aveva brutalmente attaccato Shimon Peres al convegno di Davos. E in generale Erdogan, che è molto vicino alla Fratellanza Musulmana il cui braccio “palestinese” è Hamas, ha sempre mostrato malanimo nei confronti di Israele, almeno da quando è andato al potere, nel 2003.

• UN GASDOTTO IN COMUNE?
  Nonostante questa distanza ormai consolidata, Erdogan ha chiaramente deciso che ora vuole riallacciare rapporti più stretti con Israele. A marzo ha ricevuto ad Ankara il presidente di Israele Herzog, più come segnale che per un negoziato politico concreto, dato che i presidenti israeliani non hanno poteri sulla politica estera. Ha offerto con insistenza allo Stato Ebraico una partnership energetica, proponendo un gasdotto che parta dai giacimenti marini che Israele ha valorizzato negli ultimi anni, passi dalla Turchia e arrivi in Europa. Ma il sottinteso di Erdogan era che a questo fine Israele avrebbe dovuto rinunciare all’alleanza con la Grecia e Cipro, nemici storici della Turchia e però essenziali alla sicurezza di Israele. E il gasdotto non è andato avanti. L’Unione Europea ha in corso trattative per il gas israeliano, di cui ha molto bisogno per sostituire quello russo, ma è probabile che il trasporto avvenga almeno per questa fase dall’Egitto, con gas liquefatto e non per via di un gasdotto, che andrebbe progettato e costruito.

• SIRIA, IRAQ, CAUCASO
  Vi sono altri due teatri in cui la Turchia ritiene di potersi coordinare con Israele. Uno è il Caucaso, dove Israele ha bisogno dell'Azerbaijan per contrastare l’Iran, e la Turchia considera gli azeri parte del suo retroterra storico. L’altro è il teatro della Mesopotamia, dove ancora l’avversario comune è l’Iran, la presenza che si sta indebolendo è quella russa, chi si è ritirato quasi del tutto sono gli americani. La Turchia vuole combattere i curdi in Iraq e Siria anche al di là suo territorio, ma Israele ha rapporti storici consolidati con loro e non è certamente favorevole agli sconfinamenti turchi. In generale la Turchia incomincia a temere l’armamento nucleare e l’imperialismo iraniano e a sentirsi più vicina ai paesi arabi sunniti che negli ultimi anni hanno normalizzato i loro rapporti con Israele. Questo è il punto centrale, ma bisogna vedere se e come si concretizza.

• L’ECONOMIA
  Vi è poi l’economia: la Turchia è in gravissima crisi finanziaria, avrebbe bisogno del commercio, degli investimenti e del turismo da Israele, che potrebbe trovare conveniente far ripartire dei traffici che hanno una storia lunga e importante. Ma il problema è che la Turchia, in questo come in altri campi, è inaffidabile, dipende dai colpi di testa di Erdogan, che per esempio ha combinato veri e propri disastri finanziari obbligando la sua banca centrale a una politica inflattiva.

• GLI INTERESSI DI ISRAELE
  Israele vuole che la Turchia smetta di essere una base logistica e una sponda politica per Hamas. Desidera anche che Erdogan smetta di interferire su Gerusalemme, come ha fatto negli ultimi anni, investendo molti soldi nell’acquisto di immobili, nel sostegno di organizzazioni “religiose” palestinesi, nella propaganda islamista. Ritiene anche necessario che sul piano diplomatico e politico la Turchia smetta di demonizzare Israele a ogni piè sospinto e appoggi invece gli “Accordi di Abramo”. Se deve esserci una ripresa di buoni rapporti, bisogna che essa sia pubblica, ufficiale, completa.

• IN CONCLUSIONE
  Queste sono le cose che devono essersi detti Lapid e Cavusoglu nel loro incontro. E’ improbabile che abbiano già trovato un punto di equilibrio. Ma in politica internazionale parlare con franchezza dei rispettivi interessi e dei punti di contrasto è già un risultato importante. Al di là delle dichiarazioni, vedremo nei prossimi mesi ed anni se la Turchia vorrà allinearsi, almeno in parte dalla parte dei paesi che intendono tutelare lo status quo del Medio Oriente contro i tentativi imperialisti dell’Iran e se ritiene di poterlo fare riaprendo con Israele quel dialogo che prima di Erdogan era importantissimo.

(Shalom, 26 maggio 2022)

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Cento Wanda Lattes: "La lezione di Mamma, donna del secolo"

di Fiamma, Susanna, Simona Nirenstein

Avrebbe compiuto oggi cento anni la nostra mamma Wanda Lattes, che invece ci ha lasciato quattro anni fa il 2 di giugno. E quanto le sarebbe piaciuto: anzi, la sua invincibile vitalità, se la natura glielo avesse permesso avrebbe ancora sfavillato fino a chissà quando, arricchendosi di idee e di avventure. Come piaceva a lei. La mamma ha fatto suo il secolo passato, lo ha abbracciato e fatto suo in ogni piega; tutte le battaglie che questo secolo ci ha proposto con l'emancipazione delle donne, la cultura di genere in drammatico cambiamento, le guerre, le persecuzioni antisemite l'hanno vista in prima fila. All'inizio del secolo scorso, Wanda e la sua sorella Rirì, sono due graziose figlie della borghesia ebraica beneducata nel buon gusto della nonna Rosina Volterra, figlia di una grande famiglia di antiquari, e nella rettitudine del Nonno Pinetto, funzionario di banca, ex volontario della guerra '15-'18, amico di Edoardo Spadaro e di Vamba.
  La mamma si è subito divincolata dal ruolo, e ha imparato la prima lezione, che poi ha insegnato ai suoi colleghi nella professione e ai suoi cari nella famiglia: studiare, lavorare, immergersi nella vita autonoma. Sarà così che quando, altra svolta del secolo, il fascismo con le leggi razziali fulmina la vita della famiglia e deporta ad Auschwitz due zii Volterra, mentre caccia dalle scuole le sorelle e dal lavoro la famiglia, la mamma approda alla Resistenza. Un temperamento come il suo che altro può fare se non scegliere il "no" più attivo, quello che la porta in bicicletta coi documenti arianizzati (Elena Lattanzi!) a consegnare le pistole ai partigiani, e dall'altra parte a formarsi nell'insegnamento dei leader di Giustizia e Libertà. Enriquez Agnoletti, Bruno Zevi, Calamandrei, e Romano Bilenchi. Quest'ultimo, mitico giornalista che divenne direttore del Nuovo Corriere, la assume dopo la guerra, segnandone per sempre il destino. La cronaca, la presenza, i rapporti umani, la denuncia della verità, l'osservazione appassionata e critica della sua Firenze nasce nell'insegnamento severo di Romano che le dice "Cambia, taglia, ricomincia da capo". "Devo fare un pezzo" è stato il suo magnifico leitmotiv letteralmente fino all'ultimo giorno della sua vita: Un pezzo di stile e di verità, ben scritto, in vero italiano-fiorentino, critico, approfondito. La sua perseveranza era stata messa alla prova durante le persecuzioni, il suo carattere si era formato quando era lei a condurre in salvo tutta la famiglia conducendola in campagna da un bravo prete: "e io e la Riri si dormì una da capo e una da piedi in un lettino da neonati". Lo sbarco degli alleati, un'altra svolta del secolo porta a Firenze con l'eroica Brigata Ebraica da Israele che sta nascendo il babbo "Alberto" Aron Nirenstein. Che grande amore è stato il loro, tutto intessuto di idee rivoluzionarie, di speranze di pace, della consapevolezza improvvisa del disastro che il mondo ebraico aveva subito con la Shoah, di cui gran parte della famiglia del babbo era stata vittima in Polonia, e dell'amore per Israele, che la mamma scopre con lui e che non l'ha mai più, neppure per un attimo, abbandonata. La nostra nascita e educazione sono state punteggiate dal sapore avventuroso di una vita molto naturale e diretta, informale e ironica, che cerca tuttavia sempre consolazione nella bellezza e nella cultura. Il babbo venne trattenuto dalla Polonia comunista per quattro anni quando era andato alla ricerca dei documenti che gli permisero poi di scrivere il suo fondamentale libro "Ricorda cosa ti ha fatto Amalek"sulla Shoah e la rivolta del Ghetto di Varsavia. Fu il compito della sua vita, ricordare da storico della Shoah. E quello della mamma, osservare, criticare, aprire le porte della nostra casa a chiunque avesse la ricchezza che a lei appariva quella fondamentale: il pensiero, non importa di quale colore politico.
  Non era una mamma che abbracciasse molto, se non i suoi adorati cinque nipoti Beniamino, Shira,, Avigail, Mimi, Itay; ma certo ci riempiva di mostre, di giri per Firenze, di storia, di concerti, di osservazioni pungenti che insegnavano un'autentica metodologia dell'osservazione della realtà. Ed erano anche un atto di passione. Noi tre ne siamo impregnate e consapevoli.
  E' magnifico che il Giardino di Borgo Allegri sia oggi intitolato al nome di Wanda e Alberto: il legame con Firenze della mamma è durato quasi un secolo, attraverso ogni traversia della storia, e proprio il formarsi e il perdurare qui del loro operoso amore è un segnale di speranza per tutti.

(Corriere Fiorentino, 25 maggio 2022)

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Biden media tra Arabia Saudita e Israele per riacquistare credibilità in Medio Oriente

Casa Bianca al lavoro per un accordo tra i due paesi e l'Egitto a proposito di due isole del Mar Rosso. Gli Usa puntano a rafforzare il proprio ruolo nella regione e indebolire l'asse Mosca-Riad.

di Amedeo Lascaris

Abbandonata l’idea di un rilancio dell’accordo nucleare con l’Iran, impossibile senza l’appoggio della Russia, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sta cercando di recuperare in extremis la propria influenza sui Paesi del Golfo e su Israele e correggere quelli che si sono rivelati errori strategici: mettere da parte l’Arabia Saudita e il suo potente principe ereditario Mohammed bin Salman per favorire Teheran; snobbare Israele e non fornire l’adeguato appoggio di fronte alle sue preoccupazioni ataviche.

• L’accordo tra Egitta, Arabia Saudita e Israele
  Secondo uno scoop del sito di informazione statunitense Axios, la Casa Bianca, tramite il veterano della diplomazia Brett McGurk, attuale coordinatore per le politiche in Medio Oriente e Nord Africa del Consiglio per la sicurezza nazionale, sta portando avanti una delicata mediazione tra Arabia Saudita, Egitto e Israele per la finalizzazione dell’accordo tra Il Cairo e Riad per la cessione a Riad della sovranità sulle Isole di Tiran e Sanafir.
  Ratificato dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi il 24 giugno 2017, l’accordo non è stato ancora finalizzato dato che necessita dell’approvazione israeliana. Le due isole del Mar Rosso sono situate davanti allo Stretto di Tiran, principale porta d’accesso per i porti di Aqaba (Giordania) e di Eilat (Israele).
  Formalmente cedute all’Egitto dall’Arabia Saudita nel 1950, le Isole sono state al centro delle guerre arabo-israeliane con Israele che le occupò durante la Guerra dei sei giorni del 1967. Le isole ritornarono sotto sovranità egiziana nel 1982, a seguito del trattato firmato nel 1979 da Egitto e Israele, nel quale Il Cairo garantì il passaggio sicuro di navi civili e militari israeliane attraverso lo Stretto di Tiran. La cessione delle due isole all’Arabia Saudita, annunciata da Al Sisi nel 2016 in cambio di ingenti finanziamenti da parte di Riad, è stata al centro di un lungo dibattito costituzionale in Egitto che si è risolto infine solo nel giugno 2017, che però non ha portato alla firma di un accordo finale.
  Egitto e Israele dovrebbero infatti modificare il trattato firmato nel 1979. In questi anni, lo Stato ebraico non si è opposto all’accordo tra Egitto e Arabia Saudita, ma ha chiesto alcuni passi importanti a Riad per consentire la finalizzazione dell’intesa, tra cui l’apertura dello spazio aereo saudita ai voli commerciali israeliani verso tutte le destinazioni e voli diretti tra Tel Aviv e gli aeroporti sauditi per i musulmani israeliani che intraprendono il pellegrinaggio alla Mecca e Medina.

• Il primo successo di Biden in politica estera?
  In caso andasse a buon fine, l’intesa tripartita rappresenterebbe il primo successo in politica estera in Medio Oriente dell’amministrazione Biden e potrebbe porre le basi per l’avvio di rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Segnali di un cambiamento nell’approccio alla regione erano già emersi nelle scorse settimane. Lo scorso 17 maggio, la stampa israeliana ha diffuso la notizia della partecipazione degli Stati Uniti all’esercitazione dell’aviazione dello Stato ebraico che si terrà a fine a maggio in cui verrà simulato un attacco contro gli impianti nucleari iraniani.
  Lo scorso 19 maggio, l’emittente statunitense Cnn ha invece annunciato che la Casa Bianca sta organizzando per fine mese uno storico viaggio di Biden in Arabia Saudita, il primo del presidente degli Stati Uniti nel paese del Golfo. Infatti, la perdita di un alleato chiave come l’Arabia Saudita in un momento di prezzi di petrolio altissimi e di uno scontro con la Russia sarebbe divenuto ormai insostenibile per l’amministrazione degli Stati Uniti.

• L’Arabia Saudita usa l’arma del petrolio
  Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, gli Stati Uniti, insieme ad altri partner come il Regno Unito, hanno cercato di convincere l’Arabia Saudita ad abbandonare l’asse con Mosca in seno all’alleanza Opec+ (l’alleanza che riunisce i membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio e i produttori al di fuori del Cartello guidati dalla Russia) chiedendo un aumento della produzione petrolifera. Lo scorso 22 maggio, il ministro dell’Energia saudita, Abdulaziz bin Salman, ha affermato in un’intervista al Financial Times, che il paese prevede di continuare la sua partnership in seno all’Opec+ con la Russia nonostante le pressioni occidentali su Mosca e un potenziale divieto dell’Ue sulle importazioni di petrolio russo.
  Riad sta utilizzando, come già fatto in passato, l’arma petrolifera per tentare di ottenere maggiore considerazione da parte degli Usa in particolare in chiave anti-Iran. L’obiettivo di Biden sarebbe dunque quello di giungere nel Golfo già forte di un accordo di massima tra Arabia Saudita, Egitto e Israele e poter così rilanciare la partnership strategica con le petro-monarchie e con lo storico alleato israeliano. Nel 2020, l’Arabia Saudita ha sostenuto gli Accordi di Abramo, rigettando però l’idea di farne parte a causa della recrudescenza del conflitto israelo-palestinese. La finalizzazione di un accordo sulle strategiche isole del Mar Rosso potrebbe convincere Riad a fare alcuni passi avanti, soprattutto in caso di un cambio di rotta dell’amministrazione Usa nei confronti dell’Iran.

(Tempi, 25 maggio 2022)

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Il ministro turco Mevlut Cavusoglu in visita in Israele

Il giorno prima firma accordi a Ramallah per aiuti a palestinesi

ROMA – Il ministro turco degli Affari esteri, Mevlut Cavusoglu, si è recato al memoriale della Shoah a Gerusalemme, lo Yad Vashem , nel corso della sua visita ufficiale in Israele. Nelle immagini di France Presse, Cavusoglu è accompagnato da Dani Dayan, presidente dello Yad Vashem.
  Alla vigilia della sua partenza, il capo della diplomazia turca ha annunciato martedì a Ramallah una serie di nuovi accordi per sostenere l’economia palestinese in difficoltà, in occasione della prima visita turca di questo livello in Cisgiordania [la Giudea-Samaria che Israele ha liberato dall'occupazione giordana, ndr].

(askanews, 25 maggio 2022)

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Pietra tombale sul nucleare iraniano? Biden non rimuove l'IRGC dalla lista nera del terrorismo

Un mancato accordo sul nucleare iraniano sarà presto il pretesto per USA e Israele per un nuovo conflitto. L'Iran ha ribadito più volte che, oltre alla revoca delle sanzioni, la rimozione del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica, IRGC, dalla lista nera del terrorismo è una delle sue principali richieste per rilanciare l'accordo nucleare del 2015.
  Dunque, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha deciso di mantenere il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) nell'elenco delle organizzazioni terroristiche straniere (FTO), mettendo quasi la parola fine sui tentativi di rilanciare l'accordo nucleare del 2015.
  La mossa di Biden è stata svelata prima da un alto funzionario che ha parlato prima a condizione di anonimato a Politico e confermata dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, che ha scritto un post su Twitter per salutare, o meglio dire, festeggiare la decisione.
  Secondo quanto riferito, Biden ha comunicato la sua decisione a Bennett durante una telefonata il 24 aprile, aggiungendo che era "assolutamente definitiva e la finestra per le concessioni iraniane era chiusa".
  Washington ha designato l'IRGC come FTO nell'aprile del 2019 come parte della campagna di "massima pressione" dell'allora presidente Donald Trump contro la Repubblica islamica. Questa è stata la prima volta che l'esercito di un paese è stato aggiunto alla lista nera.
  Questa campagna ha comportato anche il ritiro degli Stati Uniti dal Piano d'azione globale congiunto (JCPOA), che ha concesso all'Iran un significativo sollievo dalle sanzioni in cambio della limitazione del loro programma di energia nucleare.
  Israele, che è anche apertamente contrario al ripristino del JCPOA, è ossessionato che l'Iran rappresenti una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Tuttavia, l'Iran ha sempre ribadito di non avere alcuna intenzione di attaccare Israele se non come rappresaglia contro l'aggressione di Tel Aviv.
  La scorsa settimana, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha compiuto un viaggio a Washington per scongiurare che il più stretto alleato di Tel Aviv stesse cercando di andare avanti nei colloqui di Vienna con l'Iran.
  La decisione di Biden arriva pochi giorni dopo che un comandante dell'IRGC è stato assassinato fuori dalla sua casa a Teheran.
  Funzionari della Repubblica islamica sono convinti che probabilmente dietro l'omicidio c'era il Mossad israeliano. Tel Aviv non ha né negato né confermato le accuse.
  Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha promesso una "vendetta definitiva" per l'assassinio del colonnello Hassan Sayyad Khodaei, che secondo quanto riferito era il vice R&S dell'Organizzazione per la difesa industriale, un sotto dipartimento chiave del ministero della Difesa iraniano e una delle menti chiave dietro la linea di produzione dei droni iraniani.
  Il 23 aprile nella regione del Sistan-Baluchestan è avvenuto un fallito attentato contro un generale dell'IRGC. Un giro di spie collegato al Mossad era stato arrestato dalle unità dell'intelligence iraniana nella stessa provincia pochi giorni prima del tentato omicidio. (l'AntiDiplomatico, 25 maggio 2022)

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«L’Occidente spinga l’Ucraina a scendere a patti con la Russia»

Per l'ex segretario di Stato americano Kissinger, capo dei realisti, è ora di puntare tutto sui negoziati. Anche perché l'Occidente rischia di disunirsi e la guerra nel Donbass si fa sempre più critica per Kiev.

La Russia non va spinta tra le braccia della Cina perché «per 400 anni è stata parte essenziale dell’Europa e garante dell’equilibrio del potere europeo in momenti critici». Lo ha ribadito al World Economic Forum Henry Kissinger, che parlando con il Financial Times aveva già raccomandato agli Stati Uniti di non trasformare il conflitto in Ucraina in una guerra contro la Russia dalle conseguenze catastrofiche.

• «L’Ucraina scenda a patti con la Russia»
  A Davos, l’ex segretario di Stato americano dei tempi di Richard Nixon, caposcuola dei “realisti” in materia di politica estera, ha aggiunto che l’Occidente dovrebbe ora convincere l’Ucraina a scendere a patti con Mosca, per quanto questo possa risultare doloroso.
  aI negoziati», ha detto, «devono iniziare nei prossimi due mesi prima che il conflitto crei sconvolgimenti e tensioni che saranno difficilmente superabili. Idealmente, bisognerebbe tornare allo status quo [ante 23 febbraio]. Spingere la guerra oltre quella linea non sarebbe più combattere per la libertà dell’Ucraina, ma contro la Russia stessa».

• L’Occidente rischia di disunirsi
  Kissinger ha aggiunto che Kiev deve ora dimostrare un grado di «saggezza» simile all’«eroismo» dei primi mesi di guerra. E vanno parzialmente in questa direzione le parole di Volodymyr Zelensky secondo cui «le prossime settimane di guerra saranno difficili». Il presidente ucraino ha anche riconosciuto che la Crimea va considerata persa, dal momento che riconquistarla «ci costerebbe centinaia di migliaia di morti».
  C’è un altro elemento che andrebbe considerato nel valutare gli obiettivi da inseguire nel conflitto ucraino. Fino ad oggi, l’Occidente si è schierato unito nei confronti di Kiev e contro la scellerata guerra di Vladimir Putin. Ma lo stallo che si registra in Unione Europea intorno al sesto pacchetto di sanzioni sul petrolio, bloccato dall’Ungheria, e le conseguenze del conflitto in termini di costi energetici e sicurezza alimentare, potrebbero presto spaccare il fronte. «Non sono sicuro che l’unità durerà», ha dichiarato al Telegraph Eric Cantor, politico americano che ha avuto un ruolo importante nel decidere le sanzioni da comminare all’Iran.

• L’embargo Ue sul petrolio è ancora fermo
  Il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck, ha recentemente dichiarato che a breve potrebbero esserci novità sul fronte sanzioni e che «entro pochi giorni potremmo raggiungere la svolta: è a portata di mano». Ma i paesi riluttanti, capeggiati dall’Ungheria, non mollano la presa e continuano a chiedere indennizzi importanti per dare il via libera al pacchetto.
  Ieri Judit Varga, ministro della Giustizia ungherese, ha reiterato la posizione di Budapest: siamo aperti alle sanzioni, ma prima vogliamo vedere «le soluzioni proposte dalla Commissione». Il premier Viktor Orban, come spiega il Financial Times, chiede che Bruxelles seppellisca l’ascia di guerra sulla procedura d’infrazione aperta per violazione dello stato di diritto, sblocchi i fondi del Pnrr al paese e indennizzi in modo sostanzioso la spesa che l’Ungheria dovrà affrontare per rinunciare al petrolio russo (si parla di 15-18 miliardi in ammodernamento delle infrastrutture).

• La guerra va male nel Donbass
  Infine, come riporta Repubblica, fonti di intelligence occidentali confermano che «è molto probabile che le forze ucraine possano essere circondate in alcune zone del Donbass, come a Severodonetsk. Nel Donbass la Russia continua ad avanzare, seppur più lentamente di quanto avesse pianificato. I russi, in numero sempre superiore, stanno guadagnando terreno costantemente e potrebbero presto circondare e tagliare i collegamenti dei militari ucraini intorno a Severodonetsk».
  Il realismo politico di Kissinger è sicuramente duro da digerire, soprattutto quando afferma che l’Occidente deve convincere l’Ucraina che il suo ruolo «appropriato» è quello di essere uno Stato neutrale e non la frontiera dell’Europa. Dichiarare, come fatto ieri dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che «l’Ucraina deve vincere» è certamente più semplice. Ma senza un piano credibile per raggiungere l’obiettivo, parole simili se le porta via il vento.
  Se infatti l’Unione Europea non ha alcuna intenzione di fare entrare Kiev nel club, come apparso chiaro dalle dichiarazioni di alcuni tra i più importanti leader europei, dovrebbe iniziare almeno a lavorare per un vero negoziato. Non solo con l’Ucraina, ma anche con la Russia, che finora si è sottratta a ogni negoziato credibile.

(Tempi, 25 maggio 2022)

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Il Governo Bennett evita la crisi, per ora

di Janiki Cingoli

La nuova crisi innescata dalla deputata araba Ghaida Rinawie Zoabi, del Meretz (partito della sinistra pacifista israeliana) è durata davvero poco: giovedì mattina, in una lettera indirizzata ai capi del governo, annunciava il suo abbandono della coalizione, a causa dello spostamento a destra su questioni chiave per gli arabo-israeliani, quali gli scontri avvenuti sulla Spianata delle Moschee e il comportamento della polizia durante i funerali della giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh.
  Ma già domenica, dopo un incontro con l’Alternate Prime Minister Yair Lapid, altri ministri arabi e sindaci delle maggiori città arabe annunciava il suo rientro, per evitare un ritorno di Netanyahu e dell’estrema destra al governo. Secondo indiscrezioni, le sarebbero stati promessi tra l’altro finanziamenti per l’Ospedale Francese di Nazareth.
  L’abbandono della Zoabi avrebbe ridotto a 59 (su un totale di 120 membri della Knesset) i deputati favorevoli al governo, mettendolo in minoranza e aprendo la via a possibili elezioni anticipate, dopo che già all’inizio di aprile l’abbandono di un’altra deputata, Idit Silman, di Yamina, il partito di Bennett, lo aveva privato della maggioranza di 61.
  Il premier israeliano si trova di fronte a un autentico sfaldamento del suo stesso partito, dove, che, su 7 eletti, ha già assistito all’abbandono di 2 (la Silman e Chikli), mentre altri 3, guidati dal ministro degli Interni Ayelet Shaked, insieme al vice ministro Abir Kara e a Nir Orbach, hanno deciso di procedere in collegamento, mantenendo contatti con l’opposizione.
  Questo ha indotto il governo Bennett ad accentuare a destra la bilancia della coalizione, annunciando la creazione di circa 4.000 unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania, accettando la proposta di Orbach di collegare alla rete elettrica numerosi avamposti illegali nell’area, ordinando l’espropriazione di terre per sviluppare piani di forestazione e la demolizione di abitazioni non autorizzate nei villaggi beduini del Negev.
  A ciò si è aggiunto lo sciagurato comportamento della polizia durante i funerali della famosa giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, una cittadina palestinese - americana uccisa mentre copriva un raid israeliano a Jenin. Le forze israeliane, pur di impedire l’esibizione di bandiere palestinesi e il lancio di slogan anti israeliani, hanno attaccato il corteo ed anche i giovani palestinesi che sorreggevano la bara, causandone quasi la caduta. Un episodio che ha persino provocato la reazione del presidente Biden.
  Infine, il ministro della polizia, Omar Bar-Lev, laburista, ha autorizzato lo svolgimento per il 29 aprile della “Flag March”, la marcia delle bandiere, che celebra la conquista di Gerusalemme Est, la sua parte araba, durante la Guerra dei sei giorni del ’67. Una marcia che partendo dalla Porta di Damasco attraversa i quartieri arabi per arrivare al Muro del Pianto. Un’occasione per l’ultra destra per sfidare la popolazione araba, urlare slogan razzisti e creare scontri e tumulti. Il 1° maggio dell’anno scorso, questa fu l’occasione che diede avvio alla guerra di 10 giorni con Gaza, e anche quest’anno si teme possa innescarsi una nuova spirale di violenza.
  Cresce perciò il disagio dei parlamentari arabi che sostengono la maggioranza, anche se la United Arab List (UAL) ha posto termine a fine aprile al congelamento del suo sostegno al governo, dopo un incontro con lo stesso Lapid, facendo così cadere il tentativo del Likud di far approvare una mozione per il dissolvimento della Knesset e la convocazione di nuove elezioni. La situazione della coalizione resta comunque fragile ed esposta ai ricatti di qualsiasi parlamentare della maggioranza.
  Con 60 voti, il governo è in grado di barcamenarsi per l’ordinaria amministrazione (anche perché sono ormai prossime le ferie estive), ma nel marzo 2023, per approvare la legge di bilancio, avrà comunque bisogno della maggioranza assoluta, pena il dissolvimento della Knesset e il ritorno alle elezioni anticipate. Dipenderà quindi dal voto della Silman, o di altri parlamentari arabi della Joint List, che potrebbero almeno astenersi, abbassando il quorum.
  D’altronde, se la Silman votasse contro il governo, potrebbe essere dichiarata “defettore” (come è già capitato al suo collega Amichai Chikli, anch’egli di Yamina, che già al momento della formazione del governo era passato all’opposizione, dichiarando di non poter accettare i voti della Lista Araba Unita - UAL), il che, in base ai regolamenti in vigore, le impedirebbe di presentarsi in future elezioni con altre liste, come il Likud, o di assumere incarichi di governo.
  Una situazione quindi intricata e precaria, acuita dai giochi di potere in corso tra Bennett e il suo “Alternate Premier” Yair Lapid, che in base agli accordi di rotazione stabiliti all’atto della formazione del governo dovrebbe succedergli come premier nell’agosto 2023 e fino al termine della legislatura, previsto per il novembre 2025.
  Secondo tali accordi, tuttavia, se la defezione di membri di uno dei partiti della destra provocasse la caduta del governo ed elezioni anticipate, la premiership del governo transitorio destinato a restare in sella fino alle elezioni ed alla formazione di un nuovo governo (un processo, come si è già visto con Netanyahu, che potrebbe durare anche anni) passerebbe a Lapid. Se invece a far cadere il governo fossero deputati dei partiti di centro e di sinistra o arabi, sarebbe Bennett a restare in carica come premier di transizione.
  Secondo una notizia riportata su Ha’aretz, Bennett a fine aprile si sarebbe consultato a casa sua con i suoi più stretti consiglieri, Aron Shaviv e Shimrit Meir (che entrambi si sono successivamente dimessi dall’incarico) sulle prospettive della coalizione, e dall’incontro sarebbe scaturita l’indicazione che l’opzione migliore per lui, date la precarietà della situazione, sarebbe che il governo cadesse per responsabilità della UAL o di altri deputati arabi, in modo che egli possa restare in carica come Primo ministro transitorio.
  Si assiste quindi in queste settimane a uno scambio del fiammifero, con Lapid che spegne i fuochi mentre Bennett si mantiene distaccato. Ne fa fede anche il suo gelido commento sul ritorno all’ovile della Zoabi, con cui si è detto fiducioso che la parlamentare sia “sulla via del ritorno”. Rivolgendosi alla riunione del Gabinetto, egli ha affermato che “se i deputati dell’ala sinistra pensano che il governo è troppo a destra, e i deputati dell’ala destra pensano che il governo è troppo di sinistra, questo è un segnale che il governo è nel posto giusto, in mezzo”.

(L'HuffPost, 24 maggio 2022)

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L'import di Israele dalla Cina sale del 42,4% nei primi quattro mesi del 2022

GERUSALEMME - In Israele le importazioni di beni dalla Cina, escluse quelle relative ai diamanti, sono aumentate di circa il 42,4% su base annua nei primi quattro mesi del 2022.
  È quanto emerge da un rapporto pubblicato ieri dallo Israel Central Bureau of Statistics.
  Stando a quest'ultimo, le importazioni israeliane dalla Cina nel periodo gennaio-aprile sono state pari a 4,41 miliardi di dollari, rispetto ai 3,10 miliardi di dollari registrati nello stesso periodo dell'anno precedente.
  I dati dell'ente mostrano che la Cina è stata la principale fonte di importazioni di Israele nel periodo gennaio-aprile, rappresentando il 13,2% di tutte le importazioni israeliane, esclusi i diamanti. Le importazioni dagli Stati Uniti, al secondo posto nella lista dell'import israeliano, hanno rappresentato l'8,8% del totale.
  Nel mese di aprile, le importazioni israeliane dalla Cina hanno totalizzato 1,01 miliardi di dollari, con un aumento del 44,5% rispetto ai 699,3 milioni di dollari della medesima mensilità del 2021.
  Le esportazioni israeliane in Cina sono aumentate invece dell'1,34%, passando da 1,49 miliardi di dollari nel periodo gennaio-aprile dello scorso anno a 1,51 miliardi di dollari quest'anno.
  Il totale delle importazioni israeliane nei primi quattro mesi del 2022 ammonta a 35,68 miliardi di dollari, con un aumento del 26,6%, mentre le esportazioni ammontano a 23,54 miliardi di dollari, con un incremento del 26,9%.

(ANSA, 24 maggio 2022)

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Un altro omicidio mirato a Teheran

Ucciso un colonnello. E’ la prima volta dalla riapertura del negoziato

Domenica pomeriggio due uomini in motocicletta hanno sparato al colonnello dei pasdaran Hassan Sayyad Khodaei nel centro di Teheran. E’ la prima volta, da quando Joe Biden è alla Casa Bianca e sono ricominciati i negoziati sul nucleare iraniano, che assistiamo a un’operazione di questo tipo (un omicidio mirato) sul territorio della Repubblica islamica. Era successa una cosa simile il 7 agosto del 2020: nella capitale iraniana due uomini in motocicletta si sono accostati all’auto di Abdullah Ahmed Abdullah, il numero due di al Qaida, e lo hanno ucciso. L’Iran, al Qaida, gli Stati Uniti e Israele non riconoscono ufficialmente l’accaduto, ma quattro fonti d’intelligence dicono al New York Times che sulla motocicletta c’erano due agenti israeliani: il Mossad ha degli uomini a Teheran e li ha già usati per omicidi mirati con un copione molto simile dal punto di vista operativo. Gli uomini del Mossad in Iran sono quelli che, a novembre dello stesso anno, hanno posizionato un robot killer comandato a distanza per uccidere Mohsen Fakhrizadeh, il padre del programma nucleare iraniano. C’erano ancora Donald Trump e Benjamin Netanyahu, l’omicidio era stato interpretato come una mossa per ostacolare i piani di apertura Biden, che voleva trovare un accordo con la Repubblica islamica. Quando in Israele e negli Stati Uniti sono cambiati i governi, si pensava che per un po’ di tempo non avremmo più visto questo genere di operazioni: fino a domenica.
  Khodaei era un colonnello delle forze Quds (le forze speciali dei Guardiani della rivoluzione che operano fuori dai confini) e aveva supervisionato rapimenti e attacchi contro cittadini dello stato ebraico in giro per il mondo. Adesso il presidente iraniano Ebrahim Raisi promette vendetta: l’ex capo dell’intelligence militare israeliana Amos Yadlin se l’aspettava e lo aveva anticipato dicendo: “Dobbiamo essere pronti per questa nuova escalation”.

Il Foglio, 24 maggio 2022)

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I Peleg: non rinunceremo mai a Eitan

Primo anniversario della strage del Mottarone. Il legale dei Biran: le indagini faranno emergere la verità

di Manuela Marziani

"La famiglia Biran è sicura che le indagini penali in corso raggiungeranno le conclusioni nel miglior modo possibile ed emergerà finalmente la verità". Nel giorno del primo anniversario della strage della funivia del Mottarone - l’incidente all’impianto di risalita sul lago Maggiore avvenuto il 23 maggio di un anno fa che provocò la morte di 14 persone - il loro legale, Emanuele Zanalda, ha chiesto ancora una volta di rispettare la privacy dei suoi assistiti e di Eitan (unico sopravvissuto) che, dopo la tragedia nella quale ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni, è stato protagonista di una contesa giudiziaria per il suo affidamento nella quale sono stati coinvolti gli zii paterni, che vivono in provincia di Pavia, e la famiglia materna, con il nonno Shmuel Peleg accusato del rapimento del piccolo per averlo portato in Israele violando la Convenzione dell’Aja.
  "Anche se siamo stati condannati ad essere distanti da Eitan e a limiti di tempo per parlargli – hanno fatto sapere i Peleg attraverso il loro portavoce Gadi Solomon – non abbiamo mai rinunciato e non rinunceremo mai al diritto di far parte della sua vita e alla possibilità che lui torni in Israele. Le discussioni legali in Italia sono ancora in corso e speriamo che la corte di Milano e le persone che si occupano degli affari di Eitan abbiano a cuore il suo bene e correggano la terribile ingiustizia causata a lui e a noi".
  A metà dicembre, dopo diverse udienze che si sono tenute in Israele dove il nonno materno aveva portato il piccolo Eitan, il bambino ha potuto tornare in Italia dove è cresciuto per ricominciare a vivere a casa degli zii paterni, circondato dall’amore di tutti. A causa dell’eccessiva conflittualità, però, la tutela legale del piccolo di 7 anni è stata affidata a un avvocato del foro di Monza.
  "La famiglia Peleg continuerà a lottare e a lavorare affinché possa crescere in Israele, la sua casa naturale – ha aggiunto il portavoce –. Da un anno a questa parte nella terribile oscurità che ha avvolto le loro vite, una luce di speranza ha continuato a brillare: l’amato Eitan, un bambino che si è rivelato essere un enorme guerriero". Ieri intanto, con gli occhi pieni di lacrime anche Aya Biran, la zia di Eitan ha partecipato all’inaugurazione del cippo dedicato alle 14 vittime della tragedia del Mottarone nel suo primo anniversario. Al termine della breve cerimonia la donna e gli altri congiunti si sono raccolti in silenzio davanti al cippo mentre il corteo si dirigeva verso la chiesa della Madonna della neve.

(euronews, 24 maggio 2022)

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La presidente dell’europarlamento Metsola alla Knesset: “Essere antisemiti significa essere antieuropei”

di Ugo Volli

Roberta Metsola
Nonostante i tentativi di bloccarlo da parte del terrorismo e dei movimenti palestinisti che cercano di dare la colpa a Israele di tutti gli incidenti di sicurezza da esso derivanti, continua il successo internazionale di Israele. Oggi arriva a Gerusalemme il ministro degli esteri della Turchia, Mevlüt Çavuşoğlu,  per consolidare la normalizzazione delle relazioni, dopo che il centro estero di Hamas è stato silenziosamente ma efficacemente sloggiato da Ankara.
  Ma soprattutto è in corso la missione del nuovo presidente del Parlamento Europeo, la maltese Roberta Metsola, la prima visita fuori dall’Unione Europea dopo quella in Ucraina, e come ha detto lei “la prima, ma certamente non l’ultima”. Metsola ieri ha tenuto un discorso alla Knesset, per molti versi sorprendente considerando l’antipatia per lo stato ebraico, diffusa nelle alte sfere dell’Unione Europea. “Mi addolora dire che oggi assistiamo all'aumento dell'antisemitismo. Sappiamo che questo è un segnale di avvertimento per l'umanità. È importante per tutti noi”, ha detto ai parlamentari israeliani. "Non sarò ambigua: essere antisemiti significa essere antieuropei. Ogni giorno assistiamo ancora ad attacchi agli ebrei, alle sinagoghe”, ha aggiunto. "Il Parlamento europeo è impegnato a combattere l'antisemitismo".
  Il discorso non ha riguardato solo l’antisemitismo, ma anche Israele: "Voglio essere chiara: l'Europa sosterrà sempre il diritto di Israele di esistere", ha detto tra gli applausi. "Sosteniamo una soluzione a due stati - con   Israele in piena sicurezza e uno stato palestinese indipendente, democratico, contiguo e vitale, che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza", ha dichiarato fra gli applausi della maggioranza e le proteste del gruppo arabo. Metsola sembrava preparata per le reazioni contrastanti, e ha aggiunto: “So che ci sono state molte false partenze in questo processo. So che non tutti vedono la pace come un obiettivo. E so quanto deve essere difficile dire a una madre il cui figlio è stato ucciso che la pace è la risposta. E ci sono troppe madri del genere”. Ha indicato gli Accordi di Abramo, che hanno portato alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e diversi stati arabi, come prova che "la pace è possibile: questi accordi potevano sembrare inconcepibili solo poco tempo fa, ma hanno dimostrato che la storia non deve sempre ripetersi. Che il ciclo può davvero essere interrotto".
  Al discorso vi sono state reazioni miste: Tibi, deputato della lista araba all’opposizione, ha rimproverato a Metsola di non aver mai pronunciato la parola “occupazione” e dunque di averla avallata. Il presidente della Knesset Levy le ha chiesto di condizionare la continuazione delle ricche donazioni che l’Unione Europea fa all’Autorità Palestinese (circa 214 milioni di euro l’anno) alla cessazione dell’incitamento al terrorismo di cui essa si rende continuamente responsabile.
  Prima dell’inizio della visita c’era stato un incidente che aveva fatto temere sul suo successo, perché Israele aveva deciso di impedire l’ingresso a un deputato spagnolo, Manu Pineda, presidente del gruppo di sostegno ai palestinesi del Parlamento Europeo, che aveva espresso il progetto di recarsi con una delegazione a Gaza e in Giudea e Samaria per “indagare sul campo la situazione creata dalla morte della giornalista Shireen Abu Akleh”. La delegazione del gruppo ha annullato tutto il suo viaggio chiedendo a Metsola di fare altrettanto; ma lei si è limitata a chiedere informazioni sul tema ai suoi interlocutori israeliani. La visita insomma è andata bene, molto meglio di quanto ci si potesse attendere sulla base del passato.

(Shalom, 24 maggio 2022)
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“Essere antisemiti significa essere antieuropei”. Si spera che non ci sia qualcuno che rivolti la frase e dica: «Essere antieuropei significa essere antisemiti». Così potrebbe apparire se gli ebrei dovessero vedere nell'Unione Europea un baluardo a loro difesa. L'esternazione della appresentante europea in questo particolare momento potrebbe anche essere interpretata come un invito a Israele a staccarsi dalla Russia per legarsi all'Europa nella guerra americano-europea contro i russi sul terreno ucraino. La cosa conviene certamente agli Stati Uniti, ma conviene a Israele? E conviene all'Europa? M.C.

sopravv
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«Guerra da imbecilli che nasconde la fine degli Stati Uniti»

L'ex leader sessantottino: «E’ l'anticipo dello scontro con la Cina, che sta già stravincendo il conflitto vero: quello commerciale».

«Ce n'est qu'un début», è solo l'inizio. La voce però non è più rabbiosamente allegra come ai tempi dei Campi Elisi, ora è pensosamente grave quasi ad annunciare «l'inizio della fine del mondo come l'abbiamo conosciuto finora. Sparano a fianco dell'Ucraina e non si rendono conto che il vero bersaglio sono loro, la loro idea di superiorità». Mario Capanna è tornato nella terra dove tirano le radici natie: tra i grumi di catrame di Alberto Burri, «medico come il vero eroe che ho tenuto come fratello: Gino Strada, uno che faceva la guerra alla guerra» e l'arte assoluta, ieratica, pacifica di Piero della Francesca. A Città di Castello dove ruscella un Tevere, che non è il Piave, ancor timido, ma già fiume universale coltiva l'unico albero che gli s'addice, ma non in senso politico: l'ulivo. Che è pace e luce, nutrimento ed energia «del naturale», specifica. Produce un extravergine di pregio e si dedica a un paio di ettari di orto biologico. Guai però a figurarselo come un Cincinnato della sinistra, a 77 anni si nutre ancora del potere della fantasia. Il mondo va in direzione ostinata e contraria e capita che un reduce mazziniano (come chi scrive) e un vessillifero del marxismo (come chi parla) di fronte a una guerra con troppi tifosi si trovino nella stessa trincea a sperare pace. Di questo qui si ragiona.

- Sorpreso da questa sinistra atlantista, bellicista?
  «Sorpreso? E perché mai. È da parecchio tempo che ci lotto dentro e contro. Pier Paolo Pasolini aveva visto giusto. Quando parlava del processo di omologazione non era campata per aria la sua analisi, e quel processo ha lavorato a fondo. Oggi l'atteggiamento prevalente è: se non penso credo di vivere meglio. Siamo passati dal cogito ergo sum al digito ergo sum il che è una catastrofe».

- Eppure il Pd continua a esercitare la sua pretesa superiorità morale ed egemonia culturale e porta la sinistra al fronte ...
  «Perché, il Pd è di sinistra? Io non l'ho capita così. Nell'attuale maggioranza Enrico Letta è il più atlantista, è stato il primo a dire sì all'aumento al 2% delle spese militari, è il primo a inneggiare alla Nato. C'è un appiattimento che è il pasoliniano processo di omologazione. La controprova sta nel fatto che il Pd sopisce sistematicamente chi esercita il dubbio. La questione fondamentale è questa: è necessario che menti libere lavorino per creare spirito critico nelle persone che è il grande assente del nostro tempo».

- Inciso: per questo ce l'hanno con gli studi classici? Le lauree in filosofia come la sua?
  «Logico, non vogliono che la gente ragioni. Prevale il tecnicismo, a scuola come nel lavoro».

- A proposito di lavoro. La sinistra «sua» aveva a riferimento gli operai. E oggi?
  «Oggi il mondo del lavoro, il mondo reale delle persone nella loro difficoltosa quotidianità non sono minimamente rappresentati. Non è un caso che a capo del governo ci sia un banchiere».

- In questo pezzo di Umbria convivono la ragion pratica con Draghi a Città della Pieve, e la ragion critica a Città di Castello. Quale prevarrà?
  «Per ora comanda il sistema, ma non è affatto vero che i giovani sono tutti bolliti. Ce n'è una gran parte che si interroga sull'assetto del mondo. Coloro i quali s'impegnano, e sono tanti, in una battaglia nella difesa dell'ambiente e dell'ecosistema hanno una funzione profondamente critica. Ci sono molti carboni accesi sotto la cenere. Il problema è che però non riescono a darsi una prospettiva. E la sinistra in questo mostra tutti i suoi limiti».

- E però l'Europa con la guerra ha rimesso nel cassetto il Green deal. Ora che si spara viene buono anche il carbone. Non è così?
  «È la più evidente prova di quella che chiamo l'imbecillità italo-europea. Mi diletto di filologia e dico imbecille senza offesa: in baculum, senza bastone, debole. Avrebbero bisogno di un sostegno, ma siccome sono stupidi non lo trovano e si inventano le sanzioni. Un disastro».

- Le sanzioni, dicono, sono un disastro per Vladimir Putin. Non è così?
  «Mettono le sanzioni perché sono stupidi ignorando che fanno più male a noi. Noi italiani lo sappiamo bene. Dopo il '35 e la conquista dell'Etiopia, misero le sanzioni a Mussolini. Che le usò per inventarsi l'oro alla patria, l'autarchia e raggiungere il culmine della sua popolarità. Cuba da 70 anni sotto sanzioni ha tirato avanti, anzi in alcuni settori come la medicina dà lezioni al cosiddetto Occidente. L'Iran tira dritto da decenni, ora gli vanno a chiedere il petrolio per fregare Putin».

- Allora qual è la verità?
  «Che in Europa e in Italia le sanzioni stanno determinando una miscela esplosiva di inflazione e recessione che porta alla stagflazione. Una tragedia per tutti, mortale per chi sta peggio. Si può essere più stupidi? Per mascherare tutto questo s'inventano le bischerate sul filo-putinismo. Questa guerra non è Russia-Ucraina, è Russia-Ucraina-Nato-Usa. Non rendersi conto da parte dell'Europa che Joe Biden sta prendendo due piccioni con una fava è drammatico. Gli Usa vogliono indebolire l'Europa dal lato economico e questa guerra è una manna dal cielo e vogliono ingabbiare la Russia».

- Siamo obnubilati dal sì alle armi?
  «Il provincialismo misero che ottenebra le menti italiche, soprattutto quelle governative, fa sì che non si prenda atto che è cominciata l'era postamericana. Che è cosa diversa dalla fine della globalizzazione. C'entra il fatto che gli Usa non vogliono dirsi la verità: il loro ruolo di dominatori mondiali acquisito dopo la seconda guerra mondiale, per quanti sforzi facciano per non farlo tramontare, sta esaurendosi».

- Ma se tutti vogliono entrare nella Nato?
  «Partiamo da un dato: sommando tutti gli aderenti presenti e futuri prossimi della Nato si arriva all'11% della popolazione mondiale. Sono ricchi, ma sono quattro gatti, metà dei cinesi o degli indiani! Non rendendosi conto che il loro tempo sta finendo, gli americani cosa fanno? Entrano in guerra contro la Russia. Non è vero che armano solo l'Ucraina, stanno partecipando in modo attivo alla guerra. Ma non si limitano a questo. Nel Pacifico hanno fatto una Nato bis con il patto con Gran Bretagna e Australia dopo che la Cina ha fatto l'accordo con le isole Salomone. Sono un migliaio di isole, sono una diga nel Pacifico che consente ai cinesi di controllare le rotte di navigazione. Hanno fatto un'altra Nato in America centrale, un patto con la Colombia che definiscono Paese principale alleato, ma non aderente. Sono andato - a volte mi comporto da pazzo! - a leggermi tutto il trattato Nato, non è prevista la condizione di non aderente. Dunque c'è uno scopo politico».

- La Nato si occupa di armi, non di politica ...
  «E invece gli Usa si preparano a contrastare con la Nato la prossima probabile vittoria di Lula in Brasile, si schierano contro l'Argentina che è entrata nella Via della seta, contro il Venezuela che vogliono ora sfruttare il petrolio in chiave anti-russa. La guerra russo-ucraina-Nato-Usa è una tragedia immane ed è da considerarsi come antesignana dello scontro tra Stati Uniti e Cina».

- Scenario da guerra mondiale?
  «La guerra mondiale è già in corso da tempo; è una guerra commerciale che per il momento non ha bisogno di attivare le testate nucleari, ma non è meno devastante. Anche in seguito alla guerra russo-ucraina-Nato-Usa siamo in presenza di una crisi alimentare che sta uccidendo tre quarti del mondo, ma il problema secondo i nostri astuti governanti è continuare a mandare armi. Gli Stati Uniti hanno il complesso del gallo presuntuoso. È convinto che il sole sorge perché lui canta. Pensano di poter continuare a dominare quando non ne hanno più né la forza né la comprensione del mondo».

- C'è anche uno scontro di civiltà?.
  «Come c'è il fondamentalismo islamico c'è quello dell'Occidente che sostiene: non c'è miglior ragione della mia perché ho la democrazia, i valori, la cultura. Questo fondamentalismo distrugge la capacità di confronto tra sistemi politici, tra economie con la pretesa di egemonia. Ma il mondo sta andando verso il multipolarismo. Il mondo è una realtà meravigliosamente complessa, invece in Occidente lo riduciamo all'immagine che piace a noi. Negli Usa la prima industria è quella della fiction e in Ucraina inventano Zelensky che è il ventriloquo di Biden e di Johnson».

- Come se ne esce?
  «Da 20 anni teorizzo la necessità di eleggere un Parlamento mondiale che sia realmente rappresentativo. Mandiamo in soffitta l'Onu che non serve a nulla e lo si vede nella guerra in corso. Questo Parlamento si elegge in un giorno seguendo i fusi orari: ogni 7 milioni e mezzo di persone, un deputato. Il Parlamento avrà così 1.000 membri che si dividono in commissioni: disarmo, economica, ambiente. Per evitare il marasma totale serve la politica: abbandonare la vecchia strada per la nuova. In caso contrario avremo la catastrofe di cui il Covid e i mutamenti climatici sono l'avvisaglia. Bisogna eliminare gli elementi d'imbecillità come questo linguaggio bellicista che vuole armi e armi e con la parola pace che viene messa sotto i piedi e che invece dovrebbe essere la prima o forse la sola a esser pronunciata».

- Si torna all'utopia?
  «Non è utopia. A metà giugno esce in libreria per Mimesis un libro da me curato che s'intitola: Il risveglio del mondo, testimonianze sul Parlamento mondiale. Sono trentotto riflessioni - compresi premi Nobel - di persone che pensano un futuro migliore possibile. O così o cento, mille Ucraina».

(La Verità, 23 maggio 2022)

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Deputata araba torna in maggioranza, il governo Bennett resta fragile

Ghaida Rinawie Zoabi torna a sostenere l’esecutivo dopo un incontro ieri col vice premier e amministratori locali. Dietro la scelta vi sarebbero “pressioni” che l’hanno “spinta” a fare un passo indietro. Il premier Bennett perde un (secondo) stretto collaboratore, altri deputati minacciano di lasciare. Con 60 seggi su 120, i numeri alla Knesset restano incerti. 

Ghaida Rinawie Zoabi
GERUSALEMME - Marcia indietro della deputata araba Ghaida Rinawie Zoabi che, a pochi giorni dall’annuncio delle dimissioni dalla maggioranza di governo, torna a garantire il sostegno all’esecutivo guidato dal primo ministro Naftali Bennett. Una coalizione che resta fragile, visto che può contare solo su 60 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano, su un totale di 120 e il cui futuro resta tuttora incerto per possibili defezioni nei prossimi giorni a partire dal deputato di Yamina Nir Orbach. 
  Ghaida Rinawie Zoabi si era dimessa il 19 maggio scorso, lasciando il governo per la prima volta in minoranza in Parlamento. Ieri, tuttavia, è arrivato il ripensamento ma ciò non sembra bastare per garantire maggiore stabilità a una coalizione di otto partiti diversi guidata da un leader nazionalista, in carica da meno di un anno e tanto varia, quanto fragile al suo interno. Difatti fra gli otto schieramenti ve ne sono alcuni con profonde differenze (ideologiche e non) di vedute, che i casi di cronaca dell’ultimo periodo - dalle violenze dei coloni agli attacchi a cittadini israeliani, fino all’uccisione della giornalista palestinese Shereen Abu Aqleh - hanno contribuito ad alimentare. 
  L’esecutivo comprende anche un partito arabo indipendente per la prima volta dal 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele, in rappresentanza del 20% della popolazione che sulla carta gode degli stessi diritti, ma spesso denuncia episodi o politiche di discriminazione. Zoabi, del partito Meretz, si era dimessa per protesta contro politiche repressive e dure rispetto a temi “della massima importanza” per la comunità e la società araba. A pesare anche gli eventi recenti, fra i quali le violenze ai funerali a Gerusalemme della giornalista cristiana palestinese, sui quali è giunta anche la durissima nota di condanna delle Chiese di Terra Santa.
  Tuttavia, a seguito di un incontro con il vice premier Yair Lapid e otto sindaci arabi avvenuto ieri, la deputata ha annunciato il suo ritorno nella maggioranza di governo. Nella scelta pesa il desidero di “contribuire a migliorare” le condizioni della comunità araba israeliana e per le “pressioni” dei leader e amministratori locali che l’avrebbero “spinta” a ridare il suo sostegno all’esecutivo. La deputata è stata la seconda a presentare le dimissioni dopo la fuga, nelle settimane precedenti, di un membro del partito di destra Yamina, che ha lasciato per protesta contro i “danni” procurati “all’identità ebraica dello Stato” da parte dell’attuale leadership. 
  Oggi il governo può contare sulla metà dei seggi, ma nuove nubi si addensano all’orizzonte. In queste ore Nir Orbach, anch’egli di Yamina, minaccia di lasciare nei prossimi giorni un esecutivo che “continua a capitolare” davanti alle pretese degli arabi. Secondo Channel 13, Orbach sarebbe “al limite”, non nasconde le proprie preoccupazioni e afferma di volersene andare “più velocemente di quanto si possa pensare”. 
  Infine, sempre oggi si registrano le dimissioni di un collaboratore di primo piano del capo del governo a due settimane di distanza dall’abbandono di un altro esperto di lungo corso della squadra di Bennett. A lasciare dopo un decennio nell’ombra del premier è Tal Gan Zvi, mentre Shimrit Meir, consigliere senior, si era dimessa il 13 maggio citando “notevoli sacrifici nella (sua) vita personale”. Per i media israeliani sarebbe il segnale di una faida interna alla cerchia dei più stretti collaboratori di Bennett, i cui giorni al potere nel panorama politico israeliano sarebbero ormai al termine.

(AsiaNews, 23 maggio 2022)

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La celebrazione di Lag Baomer dei rifugiati ucraini in Moldavia

di Sarah Tagliacozzo

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Le celebrazioni di Lag Ba Omer a Kishnev, in Moldavia, quest’anno non sono state solo una grande festa, ma un evento eccezionale rispetto al solito. La guerra oltre il confine non ha fermato le gioiose parate che hanno attraversato la città. Durante la giornata sono stati distribuiti tefillin ad alcuni rifugiati ucraini ebrei che proprio in Moldavia hanno trovato una nuova casa.
  L’evento principale è iniziato con la marcia di una folla che con cartelli colorati e al passo di musica è giunta al prestigioso resort di Vatra Stramoseaca, dove ad accoglierli ha trovato cibo, giochi gonfiabili per i bambini, uno show di magia e allegre danze.
  «Viviamo in un periodo molto insolito nel centro d’Europa» ha detto a Shalom Rabbi Zushe Abelsky, Direttore dei Chabad Lubavitch in Moldavia, «vediamo tante persone che perdono la casa, la vita, si deprimono e spetta a noi aiutarli a continuare a vivere quando arrivano in Moldavia. Anche se solo per pochi giorni, una settimana, li teniamo in un buono stato, gli diamo speranza perché possano avere un futuro migliore. Eventi come Lag Ba Omer, caratterizzati da balli e canti, da un ritorno alla vita, sicuramente li aiuta».
  Molti rifugiati ucraini di religione ebraica hanno partecipato alla giornata. Tra questi c’era Eliyahu, un giovane di Mykolaïv che non ha potuto festeggiare il suo bar-mitzva per motivi di salute. Rabbi Mendy Alexrod, che ha già organizzato la sua maggiorità religiosa per quando starà meglio, gli ha così donato dei tefillim.
  Dopo essere fuggito da Charkov affrontando un faticoso viaggio, Gherson si è avvicinato di più all’ebraismo e ha fatto la milà a Kishnev, la sua nuova casa, dove ha cominciato ad andare a pregare e a mettersi i tefillin tutti i giorni.
  Anche Grisha, in lacrime, ha chiesto di potersi mettere i tefillin. Non li aveva. Commosso, Nachman Dickstein, Direttore del ZAKA a capo del centro medico per rifugiati, si è offerto di regalarglieli.
  La Presidente della Moldavia, Maia Sandu, ha ringraziato l’impegno dei Chabad nell’accoglienza e assorbimento dei rifugiati ucraini con una lettera letta nella giornata di Lag Ba Omer da Shabtai Chanukahev, Presidente dell’Organizzazione Ebraica del Caucaso in Moldavia.

(Shalom, 23 maggio 2022)

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Ufficiale iraniano pianificava rapimento israeliani: ucciso a Teheran

di Paola P. Goldberger

Pianificava il rapimento di cittadini israeliani attirandoli all’estero. Colonnello dei Pasdaran ucciso davanti casa sua con cinque colpi
  Si chiamava Hassan Sayyad Khodayar ed era un colonnello dei servizi segreti iraniani l’uomo ucciso ieri a colpi d’arma da fuoco a Teheran.
  Secondo il Mossad il colonnello iraniano, membro importante dei Guardiani della Rivoluzione iraniana (IRGC), stava pianificando di attirare decine di israeliani in una trappola per rapirli oppure per ucciderli.
  La scorsa settimana le agenzie israeliane per la sicurezza avevano affermato di aver scoperto un piano ordito da agenti iraniani per attirare all’estero cittadini israeliani e rapirli o ucciderli.
  Il Mossad è quindi risalito alla figura del colonnello Hassan Sayyad Khodayar considerato alla guida del piano iraniano. È stato ucciso ieri davanti a casa sua con cinque proiettili.
  Immediate le proteste iraniane e le accuse al Mossad. Il portavoce del ministero degli Esteri Saeed Khatibzadeh ha detto che “questo crimine disumano è stato perpetrato da elementi terroristici legati all’arroganza globale” denunciando “il silenzio dei Paesi che fingono di combattere il terrorismo”.

(Rights Reporter, 23 maggio 2022)

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Yonathan Halimi: "Mia madre Sarah, morta per l'odio antisemita"

Parla Yonathan Halimi, figlio della donna ebrea uccisa nel 2017 in Francia da un giovane musulmano. “Serve una legge contro i delitti di matrice antisemita”.

di Anais Ginori

Manifestazione contro la sentenza della Corte di cassazione sull'omicidio di Sarah Halimi
"Non vogliamo arrenderci, non possiamo arrenderci". L'appello di Yonathan Halimi arriva forte e chiaro a cinque anni dall'assassinio di sua madre Sarah Halimi, la donna ebrea di 65 anni brutalmente assassinata a Parigi da un suo vicino di casa, Kobili Traoreé, un giovane musulmano originario del Mali. Il figlio della vittima sarà oggi a Roma per portare anche in Italia la sua battaglia di civiltà. Un anno fa, infatti, la corte di Cassazione francese ha accolto l'istanza della non punibilità di Traoré, sulla base di un articolo del codice penale che stabilisce la non perseguibilità di chi soffra, al momento del delitto, il 4 aprile 2017, di un disturbo psichiatrico.
  L'assassino di Halimi non aveva mai manifestato disturbi psichiatrici in precedenza ma secondo i magistrati sarebbe stato in preda a una crisi psicotica dovuta all'uso di sostanze stupefacenti, in particolare di hashish. "È una decisione incomprensibile, significa che chiunque voglia commettere efferati crimini può fumare hashish con la garanzia dell'impunità", commenta Yonathan Halimi che stasera parteciperà al dibattito presso il centro bibliografico dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, a Roma, su invito della presidente Noemi Di Segni.
  La matrice antisemita del delitto era stata accolta dai tribunali francesi. Traoré, uomo con precedenti penali e frequentatore di una moschea vicina a frange islamiste radicali, aveva infatti sequestrato, picchiato e infine defenestrato l'ex insegnante in pensione al grido di Allahu akbar. Una commissione d'inchiesta in parlamento ha evidenziato numerose défaillance durante le indagini. "La polizia ha tralasciato molti indizi che mostravano la premeditazione e non è neppure stata fatta una ricostituzione del crimine come di solito avviene in questi casi", racconta Halimi convinto che la giustizia francese non abbia fatto correttamente il suo lavoro.
  Le zone d'ombra nella macchina dello Stato sono tali che qualcuno parla di un nuovo affaire Dreyfus, lo scandalo giudiziario di fine Ottocento nel quale il capitano ebreo francese fu ingiustamente condannato per alto tradimento. Il timore di alcuni è che ancora oggi ci possano essere reti omertà e protezioni tra le massime autorità pubbliche.
  "Sono deluso dalla Francia", confida Yonathan Halimi che quasi vent'anni fa si è trasferito in Israele, raggiunto dalle due sorelle dopo l'assassinio della madre. La famiglia ha anche pensato di presentare una denuncia in Israele per cercare di ottenere un processo, il diritto penale israeliano può applicarsi ai crimini antisemiti commessi all'estero e denunciati da un cittadino israeliano, ma la Francia non estrada i suoi cittadini. Oltre a condurre la battaglia per ottenere giustizia, Yonathan ha fondato l'associazione benefica Ohel Sarah per continuare a far vivere i sogni della madre, insegnante in pensione che aveva dedicato la sua carriera ai giovani. "Ci occupiamo soprattutto dell'integrazione di bambini che arrivano dalla Francia, non è sempre facile all'inizio", spiega Yonathan impegnato nella missione con la moglie Esther. "Abbiamo ricevuto solidarietà da tutto il mondo e questo ci scalda il cuore" prosegue il figlio di Sarah, parlando di messaggi arrivati dagli Stati Uniti alla Svizzera, dal Canada al Regno Unito. Il sostegno in Italia non è mancato dall'inizio del caso. "Vengo anche per ringraziare tutti personalmente - dice Yonathan - ogni gesto è importante e serve a mantenere alta l'attenzione".
  Anche in Francia, la sentenza della Corte di cassazione ha provocato una forte mobilitazione, con decine di migliaia di persone scese in piazza in molte città per protestare. Francis Khalifat, presidente del Crif (Conseil représentatif des institutions juives de France), che pure sarà oggi a Roma, si è impegnato nella richiesta di far cambiare una norma che deresponsabilizza in modo evidente chi commette crimini anche gravissimi ed efferati, inclusi i crimini d'odio e di matrice terroristica.
  Per alcune associazioni non bisogna abbassare la guardia in un clima già molto pesante per la comunità ebraica francese oggetto di minacce e violenze. Sarah Halimi viveva da vent'anni a Belleville, quartiere multietnico in cui le tensioni verso gli abitanti di origine ebrea sono andati crescendo, tanto che molti si sono trasferiti in altri quartieri. "Noi le dicevamo di stare attenta, anche se non potevamo certo immaginare che le potesse succedere una cosa così terribile", spiega il figlio che non ha ancora sgombrato l'appartamento della madre, nella speranza che prima o poi ci sia una nuova indagine, più approfondita.
  Sull'onda delle proteste, Emmanuel Macron ha aperto all'idea di cambiare la legge. "È quello che il presidente ci ha promesso anche quando è venuto in Israele" racconta Yonathan Halimi. "Ma finora - conclude - alle parole non sono seguiti i fatti".

(la Repubblica, 23 maggio 2022)

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Mottarone, anche la zia di Eitan alla cerimonia in memoria della tragedia

Intanto la famiglia materna e il nonno non si arrendono: "Continueremo a lottare per lui perché cresca in Israele"
   
  Tra i famigliari delle vittime arrivati questa mattina al Mottarone per l'omaggio a un anno dalla tragedia della funivia c'è anche Aya Biran-Nirko, zia del piccolo Eitan. Al termine della breve cerimonia di inaugurazione della stele in memoria dei morti della tragedia della funivia i parenti si sono raccolti in silenzio davanti al cippo  mentre  il corteo si dirigeva verso la chiesa della Madonna della neve.
  Intanto a un anno dal disastro la famiglia materna di Eitan, unico sopravvissuto al disastro della funivia, non si arrende. Attraverso una nota stampa riportata dai media nazionali afferma: “continueremo a lottare per lui perché cresca in Israele, la sua casa naturale, casa della sua famiglia, luogo di sepoltura dei suoi genitori e del fratellino".
  Come è noto il bambino, dopo una lunga battaglia legale si trova ora in Italia con la zia paterna e sul nonno materno Shmuel Peleg e su un presunto complice pende un mandato d'arresto internazionale emesso dalla magistratura di Pavia per il rapimento di Eitan, portato in Israele dall'uomo agli inizi di settembre dello scorso anno.
  "Non abbiamo mai rinunciato e non rinunceremo mai - prosegue la nota della famiglia materna- al diritto di far parte della sua vita e alla possibilità che lui torni in Israele. Le discussioni legali in Italia sono ancora in corso e speriamo che la corte di Milano e le persone che si occupano degli affari di Eitan abbiano a cuore il suo bene e correggano la terribile ingiustizia causata a lui e a noi".

(Vigevano24.it, 23 maggio 2022)

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I "tra poco" della vita

di Larry Christenson
    "Tra poco non mi vedrete più; e tra un altro poco mi vedrete" (Giovanni 16:16)

"Che cosa vuole dire: "tra poco" non lo vedremo più e ancora "tra un altro poco" lo vedremo ancora?" si domandavano i discepoli. Dopo la crocifissione di Gesù essi furono sommersi dalla paura e dalla disperazione. Durante l'attesa vivevano nascosti per timore che lo stesso destino toccato a Gesù toccasse anche a loro, Suoi seguaci. Nella paura e nella disperazione si erano dimenticati della profezia di Gesù: il terzo giorno sarebbe risorto. Per il dolore si erano dimenticati che "tra poco" lo avrebbero rivisto. Nonostante le loro ansietà e disperazione, Dio era all'opera. Egli aveva un piano e uno scopo che voleva portare a compimento prima che essi lo vedessero di nuovo.

• LA PAROLA D'ORDINE: DIO È ALL'OPERA
  Durante quel periodo di attesa, mentre i discepoli non lo vedevano, Dio era al lavoro. Egli stava sconfiggendo le potestà, i principati e le potenze che tenevano prigioniero l'uomo. Stava ponendo le basi di una salvezza che sarebbe stata resa nota a tutto il mondo. Era un tempo di attesa, un tempo doloroso, ma Dio era all'opera.
  Il Signore aveva per i discepoli, anche un secondo scopo cioè quello di compiere qualcosa nella vita dei discepoli stessi. Egli voleva che durante quel periodo essi si riposassero fidando nella promessa che Lo avrebbero rivisto di nuovo, e che vivessero per fede, pur non vedendolo. Perciò c'era uno scopo duplice: Dio stava effettuando un piano nella sua sfera di attività e permettendo che la fede e la fiducia crescessero nei cuori dei suoi discepoli.
  Ogni credente sperimenta dei "tra poco" nella propria vita, periodi nei quali sembra quasi che Dio se ne vada, e noi dobbiamo resistere per fede fino a che Egli non torni. La buona riuscita di questi periodi di attesa dipende da come noi li affrontiamo, cioè se noi comprendiamo la ragione o se li subiamo.
  Scopriamo lo scopo di questi momenti di attesa nelle parole di Gesù: "Il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi toglierà la vostra gioia". Lo scopo di Dio è condurci a questo tipo di gioia.
  La parola d'ordine da usare in momenti come questi è semplicemente: Dio è all'opera. Nessun'altra promessa o realtà può ancorare il tuo cuore come il sapere che Dio sta operando. La tendenza dei nostri cuori e delle nostre menti in tempi di attesa è pensare che Dio è scomparso dalla scena delle nostre vite. Ma la Bibbia ci assicura che Egli è all'opera.
  Allora, che cosa è necessario per affrontare questi "tra poco?"
  Prima di tutto abbiamo bisogno della conoscenza. Dobbiamo sapere che Dio ha un piano e che sta portando a compimento qualcosa: non stiamo attraversando un periodo insignificante.
  Secondo, dobbiamo avere fiducia. Dobbiamo avvalerci di questa conoscenza e avere fiducia nella Parola di Dio.
  Terzo, dobbiamo esercitare perseveranza nell'attenerci alla Parola di Dio.
  
  • CONOSCERE LA PAROLA DI DIO
  Ai discepoli era stata data la conoscenza, ma loro non se ne erano approprìati veramente. La loro fede si basava soprattutto sulla loro esperienza personale con Cristo. Certo, era una cosa meravigliosa, ma non bastava per aiutarli ad attraversare quel "tra-poco". Avevano bisogno di una conoscenza specifica della Parola di Dio. Lo costatiamo nell'episodio dei due discepoli sulla via di Emmaus, il pomeriggio dopo la resurrezione. Gesù si mise al loro fianco e domandò: "Perché siete così tristi?" Essi risposero perché Gesù era stato crocifisso, mentre loro avevano sperato che Egli avrebbe liberato Israele. Allora Gesù cominciò a spiegare le Scritture e fece vedere loro, nella Parola di Dio, che la sofferenza del Messia era necessaria per entrare nella gloria, e quindi era parte necessaria del piano di Dio. Mentre Gesù spiegava loro la Parola, essi la capivano, e i loro cuori cominciarono ad ardere stranamente. Avevano bisogno di una conoscenza specifica sul piano di Dio.
  Nel momento della prova non puoi vivere ricordando un'esperienza, anche se meravigliosa. Devi avere una conoscenza specifica e concreta del piano, delle promesse e dello scopo di Dio.
  Un missionario nel Pakistan disse: "Qui si vive in modo primitivo. E' difficile per un occidentale, anche dal punto di vista della salute, vivere in un clima come questo". Disse che, se non fosse stato sicuro di essere stato mandato da Dio, non avrebbe potuto resistere. E' questo che rende sopportabili le difficoltà: sapere senza dubbio che Dio ci ha messi in quel luogo e che sta portando a compimento il Suo piano.
  Le Scritture dicono che la Parola di Dio è come un seme. Il seme ha sempre un periodo di crescita. E' durante quel periodo di crescita che tu devi stare tranquillo e aspettare, così che ciò che Dio ha pianificato e promesso per te possa diventare maturo. Perché Egli vuole che tu abbia una gioia che nessuno possa toglierti.
  Pensa ai discepoli di Gesù: essi avevano avuto una comunione meravigliosa con Lui. Ma Gesù dovette distogliere la loro vista dalla comunione eterna che Egli voleva far goder loro, una comunione che non avrebbe mai potuto essere interrotta, mai per tutta l'eternità. Così nella loro vita subentrò quel "tra poco" durante il quale essi si abituarono alla visione di Dio per il futuro.
  Essi si separarono con dolore dalla visione che si era concentrata solo sul tempo presente. Dio deve fare questo anche con noi. Egli forse dovrà usare molti "tra poco" per liberarci da una visione troppo ravvicinata e dai tentacoli del presente affinché essi non ci leghino più,
  Dio usa questi brevi periodi anche per distogliere la nostra attenzione dalle nostre forze e riversarla sulle Sue risorse, da quello che noi siamo in grado di fare, a quello che vuole fare Egli stesso. Nei momenti di attesa Dio frustra i nostri sforzi al punto che noi siamo obbligati a volgere lo sguardo a Lui. Egli ci farà giungere allo stremo delle forze per poterci mostrare le Sue risorse illimitate.
  Quando ci troveremo nell'eternità, guarderemo indietro al tempo della storia umana: sarà come un batter d'occhio. Paolo dice in II Corinzi 4: 17 che le piccole afflizioni del tempo presente preparano per noi un "peso eterno di gloria". Questo è ciò che viene prodotto nelle nostre vite durante tali periodi, un peso eterno di gloria, al di là di ogni paragone. Su questa terra siamo solo di passaggio. Viviamo in un periodo di prova durante il quale Dio ci prepara per cose più importanti.
  Se sai queste cose e ci credi, puoi condurre una vita completamente diversa. Ti muoverai senza pensare se Dio oggi o domani ti darà questa o quella benedizione. Non vivrai più da un'esperienza all'altra. Scoprirai che vi è un piano più profondo che include le difficoltà di questi "tra poco" nelle nostre vite. Quando un "tra poco" viene, non significa che tu sia fuori contatto e che Dio si sia dimenticato della tua esistenza. Dio si prende cura di te ed è all'opera. "Ma quelli che sperano nell'Eterno acquistano nuove forze, s'alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non s'affaticano" (Isaia 40:31). Noi dobbiamo avere questo tipo di conoscenza. Dobbiamo sapere che questi brevi momenti sono parte di un piano preciso di Dio per l'intera chiesa e parte specifica del piano per la nostra vita.

• AVERE FIDUCIA NELLA PAROLA DI DIO
  Quando hai questa conoscenza specifica, devi rimanervi attaccato e confidare. Ti devi abbandonare al piano di Dio.
  Gesù di fronte a Pilato, fece esattamente questo. Come un agnello davanti a chi lo tosa, così Egli non aprì bocca. Gesù non disse nulla per difendersi. Egli sopportò l'umiliazione della crocifissione perché sapeva. Egli sapeva in maniera concreta e specifica dalle Scritture che questo era parte del piano di Dio. Egli aveva fiducia nella Parola di Dio anche nel mezzo della sofferenza e dell'umiliazione.
  Pensaci! L'Iddio, il creatore, che veniva ucciso dalle sue stesse creature! L'unico senza peccato che prendeva su di sé ogni peccato mai commesso da uomo, donna o bambino. Egli sapeva, che era parte del piano di Dio, e per questo fu capace di sopportare in silenzio. Fu capace di attraversare il "tra poco" in cui sembrava che Dio lo avesse abbandonato perciò gridò, mentre era sulla croce: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?"
  Il libro dell'Apocalisse narra ciò che successe in questo piano che sembrava senza senso, di questo agnello menato allo scannatoio. Quando il rotolo su cui sono scritti · gli avvenimenti degli ultimi tempi sta per essere aperto, viene cercata una persona per aprirlo, ma nessuno è degno di farlo. Giovanni piange perché nessuno è stato trovato degno di aprirlo. Mentre piange, qualcuno viene e lo tocca sulla spalla: "Non piangere, perché il Leone della tribù di Giuda è degno di aprire il rotolo". Questo è Cristo: il Messia! Giovanni alza gli occhi e vede un leone? No, vede uno come un agnello, un agnello che è stato scannato ma che è ancora vivo. E improvvisamente capisce: "Il leone è l'Agnello!" La potenza sovrana di Dio era all'opera nella debolezza di Colui che veniva crocifisso.
  Gesù si fidò della Parola di Dio durante quel "tra poco" e, per mezzo di quella fiducia, Dio trasse la vita dalla morte.

• PERSEVERARE NELLA PAROLA DI DIO
  Devi possedere la conoscenza per attraversare questi brevi momenti della vita in cui Dio sta mettendo in opera il Suo piano. Devi avere fiducia nella Sua Parola. E poi devi avere perseveranza.
  Di nuovo nell'Apocalisse si parla di alcune terribili calamità che verranno sulla terra. Dice: "Qui sta la costanza e la fede dei santi" (Apocalisse 13:10). Questo è il momento per attenersi alla Parola di Dio, sebbene le cose diventino difficili.
  Quando Dio sembra distante, o quando sembra non succeda nulla, è pericolosamente facile sviarsi dalla Parola di Dio e cadere nel peccato e nella disperazione.
  Giuseppe fu venduto dai suoi fratelli e portato in Egitto. Come sarebbe stato facile dire: "A nessuno importa di me. Posso vivere come il mondo e cercare di tirare avanti come posso". Ma quando la moglie del suo padrone cercò di attirarlo nel peccato, egli rifiutò. Era un "tra poco" nella vita di Giuseppe durante il quale Dio sembrava assente. Tuttavia egli proseguì credendo che la sua vita fosse nelle mani di Dio.
  C'è grande tentazione di cadere nel peccato quando la vita spirituale è in fase negativa. Ma saggerai una crescita dieci volte maggiore quando ti stringerai al Signore in un periodo buio piuttosto di quando lo seguirai in un momento facile. Tutti lo possono fare! "Ma se soffrirete perché avete agito bene, e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio" (I Pietro 2:20). Durante questi "tra poco" Dio si aspetta che noi viviamo in armonia con la Sua volontà, anche se le nostre emozioni denotano il contrario.
  E' facile cadere nella disperazione durante questi "tra poco", sentire che Dio non si cura di noi. "Perché devo andare in chiesa, oggi? Perché continuare nella preghiera personale? Perché continuare a testimoniare? Dio non si cura più di me ... ". E' facile guardare al mondo e dire: "Ecco lì un uomo che non dà a Dio nemmeno un attimo della sua giornata, però non ha i problemi che ho io". Questo è stato detto da quando le persone hanno creduto in Dio. "L'ingiusto prospera e i giusti vengono calpestati". E' facile farsi prendere dalla disperazione e pensare che non ne valga la pena, tanto Dio non ci ascolta.
  Sarebbe stato facile, per Giuseppe, pensare in questo modo quando fu gettato in prigione. Ma anche lì egli rimase fedele a Dio. Continuò, nel suo piccolo, a servirLo: aiutava i suoi compagni prigionieri, e Dio usò questi piccoli servizi per trarlo fuori dalla prigione e innalzarlo a una posizione di grande autorità. Tutto faceva parte del piano di liberazione di Dio per il popolo di Israele. In questo "tra poco" della vita di Giuseppe, quando sembrava che Dio lo avesse abbandonato, quando i suoi stessi fratelli lo avevano respinto, Dio era all'opera. Essi volevano fargli del male, ma Dio lo trasformò in un grande bene.
  I "tra poco" della nostra vita non sono facilmente sopportabili. Non sono i periodi che normalmente tu racconti agli altri, come i giorni nei quali Dio è vicino e vero. Ma sono giorni nei quali Dio sta compiendo un'opera meravigliosa nel tuo cuore e nella tua vita, un piano che coinvolge te e tutti gli altri. Sono i giorni nei quali tu trovi il coraggio di innalzare su di te lo stendardo con scritto "Cammina con attenzione, Dio è all'opera!

(Da "Una mente rinnovata", EUN)



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Siria: raid di Israele nei pressi dell’aeroporto di Damasco

Si tratta del secondo presunto attacco dell'aeronautica israeliana contro obiettivi nel Paese nel corso dell'ultima settimana, dopo quello avvenuto lo scorso venerdì, 13 maggio, contro una struttura nella regione nord-occidentale di Masyaf,

Tre militari siriani sono stati uccisi nella notte durante un bombardamento con missili di superficie su Damasco, la capitale della Siria, attribuito a Israele. Lo riferiscono i media siriani ufficiali. Si tratta del secondo presunto attacco dell’aeronautica israeliana contro obiettivi in Siria nel corso dell’ultima settimana, dopo quello avvenuto lo scorso venerdì, 13 maggio, contro una struttura nella regione nord-occidentale di Masyaf del Paese. Secondo quanto riferito dall’emittente radiofonica “Sham Fm“, in seguito al bombardamento sarebbe scoppiato un incendio nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco.
  La notizia del raid in Siria attribuito a Israele giunge all’indomani dell’annuncio fatto dal portavoce delle forze di difesa israeliane (Idf) per i media arabi, Avichay Adraee, secondo cui il genero dell’assassinato comandante della Forza Quds dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, Qassem Soleimani, starebbe contrabbandando armi dall’Iran destinate al movimento sciita libanese, Hezbollah, utilizzando voli civili attraverso la Siria. La rete di traffico di armi sarebbe “gestita da Reda Sayed Hashem Safi al Din, figlio di sayyed Hashem Safi al Din, capo del Consiglio esecutivo di Hezbollah, che usa la sua posizione di spicco e le infrastrutture dello Stato libanese per aiutare il figlio a trasferire armi strategiche dall’Iran a Hezbollah”, ha fatto sapere Adraee. Inoltre, secondo il portavoce delle Idf, “per garantire la riservatezza, le armi vengono trasportare su voli civili dall’Iran all’aeroporto internazionale di Damasco, esponendo i civili a un pericolo imminente”. “Il gruppo terroristico Hezbollah sta sfruttando lo Stato libanese e i suoi cittadini per scopi terroristici che servono gli interessi iraniani”, ha aggiunto, sottolineando che le Idf “continueranno a monitorare tutti i tentativi di Hezbollah di minacciare la sicurezza dello Stato di Israele e agiranno secondo necessità per proteggere la sicurezza e i cittadini”. L’operazione di contrabbando sarebbe supervisionata da Sayyed Reza Hashim Safi al Din, che è sposato con la figlia di Soleimani, il generale iraniano fautore dell’espansionismo di Teheran nella regione, rimasto ucciso in un attacco con droni Usa nel gennaio 2020 presso l’aeroporto di Baghdad, in Iraq.
  Israele ha accusato a lungo l’Iran di trasferire munizioni avanzate al gruppo libanese Hezbollah attraverso la Siria. Israele ha effettuato centinaia di sortite sulla Siria nell’ultimo decennio, principalmente per ostacolare i tentativi delle forze iraniane di trasferire armi o stabilire un punto d’appoggio nel Paese. I raid aerei israeliani su obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria sono in corso dall’inizio degli interventi iraniani in territorio siriano e sono proseguiti anche dopo il 2018 in accordo con la Russia che, nel frattempo, a partire dal 2015, a seguito del suo intervento militare in Siria, aveva preso il controllo dello spazio aereo siriano. I raid aerei non si sono fermati con la guerra in Ucraina, ponendo lo Stato ebraico in una posizione difficile. Nelle ultime settimane, i rapporti tra i due Paesi si sono deteriorati. Lo scorso 13 maggio, Israele avrebbe per la prima volta subito una risposta della Russia durante un raid aereo. Secondo quanto riportato dai media israeliani l’episodio sarebbe avvenuto la notte del 13 maggio, quando, durante un raid aereo dell’aviazione israeliana nel nord ovest della Siria nei pressi della città di Masyaf, i caccia israeliani sono stati investiti da missili S-300 avanzati. Secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, l’attacco israeliano ha provocato cinque morti e sette feriti, mentre non vi sarebbero state conseguenze per i velivoli israeliani.
  In questi anni, Israele e Russia hanno mantenuto vivo questo accordo de facto che consente ai caccia dello Stato ebraico di colpire obiettivi di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione iraniana in Siria, senza essere bersaglio dei sistemi anti-aerei avanzati consegnati da Mosca al regime di Damasco, ma attivabili solamente con il consenso russo. Solitamente la contraerea siriana tenta di colpire i caccia israeliani con sistemi più antiquati, ad esempio sistemi Pantsir S-2, di fabbricazione sovietica, solitamente inefficaci nel contrastare gli attacchi israeliani. Tuttavia, questa volta anche le batterie S-300 hanno aperto il fuoco mentre i jet stavano lasciando l’area d’attacco, ha riferito “Channel 12”, che sottolinea come le batterie S-300 siriane sono azionate dall’esercito russo e non possono fare fuoco senza la loro approvazione. I velivoli sono comunque riusciti ad eludere le difese antiaeree, probabilmente grazie alle contromisure elettroniche di cui sono dotati i caccia dell’aviazione israeliana.

(Nova News, 21 maggio 2022)

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Israele prova il piano d’attacco contro l’Iran

Israele percepisce l’Iran come una minaccia esistenziale e teme che possa arrivare a raggiungere la dimensione atomica. Lo stato ebraico sta elaborando un piano di attacco aereo con cui colpire i siti nucleari iraniani qualora ce ne fosse bisogno

di Emanuele Rossi

L’esercito israeliano ha in programma di simulare un attacco contro l’Iran nelle prossime due settimane. L’ampia esercitazione servirà ad addestrarsi per un eventuale raid contro le strutture nucleari iraniane.
  Sarà la prima volta in almeno cinque anni che le forze armate israeliane si impegneranno in un’esercitazione di questo tipo. L’obiettivo è quello di sviluppare nuovamente “un’opzione militare credibile” contro il programma nucleare iraniano, hanno dichiarato gli ufficiali israeliani in un briefing con i giornalisti.
  Da tempo si parla della possibilità che da Gerusalemme passi lo sviluppo un qualche piano-B da usare se il dialogo negoziale sul Jcpoa — l’accordo per il congelamento del programma nucleare iraniano — dovesse naufragare. Sull’intesa è in corso un’intensa attività diplomatica che sta coinvolgendo attivamente l’Ue e partner regionali americani come Oman e Qatar. Ma i risultati non stanno arrivando, nonostante il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, abbia diffuso ha una dichiarazione in cui sembra aprire al raggiungimento di un’intesa.
  Anche gli Stati Uniti accetterebbero questa eventuale opzione aggressiva, consapevoli che senza un controllo la Repubblica islamica potrebbe arrivare all’ottenimento dell’arma atomica — e dunque un’opzione di attacco fa parte della deterrenza strategica su Teheran.
  L’obiettivo statunitense è anche far sapere agli iraniani che se salta il dialogo negoziale tutte le opzioni sono sul tavolo. L’obiettivo israeliano non contemplerebbe i negoziati, perché l’Iran viene percepito come un rivale esistenziale che lavora contro la sicurezza nazionale dello stato ebraico, anche attraverso attori proxy come le milizie sciite movimentate nella regione (figurarsi come può essere vista la possibilità che a Teheran si trovi una bomba nucleare).
  L’esercitazione aerea contro l’Iran si svolgerà nell’ambito della quarta settimana delle manovre “Chariots of fire”, che simulano un conflitto regionale ad ampio raggio, hanno dichiarato i funzionari israeliani. Decine di jet da combattimento dell’aviazione israeliana ne prenderanno parte e voleranno per centinaia di chilometri da Israele verso ovest, sopra il Mediterraneo, in modo da simulare una rotta aerea verso l’Iran (traslata).
  Israele ha probabilmente effettive capacità tecnica se un’azione del genere dovesse rendersi necessaria. Nel marzo 2018, un F-35 Adir ha sorvolato Teheran e Bandar Abbas, e sono poi state diffuse le immagini tramite Al Jarida, un sito kuwaitiano sempre ben informato sulle attività israeliane – al punto da essere considerato un megafono del Mossad. I caccia Lockheed Martin hanno dimostrato di aver capacità stealth in grado di bucare la contraerea iraniana, e dunque potrebbero essere usati per colpire i siti nucleari senza essere intercettati.
  La dimostrazione che per gli Stati Uniti questa dell’attacco resta tra le opzioni potenziali sta anche nel fatto che aerei da rifornimento della US Air Force dovrebbero fornire assistenza anche a questa parte dell’esercitazione, ha detto l’israeliano Channel 13. I funzionari israeliani hanno confermato la partecipazione degli Stati Uniti, ma non hanno fornito alcun dettaglio, precisa l’informatissimo Barak Ravid di Axios.
  All’inizio della settimana, il nuovo comandante del CENTCOM, il generale Michael Kurilla, era in Israele, ma potrebbe essere stata una visita di cortesia, per inaugurare il proprio mandato passando dal principale degli alleati americani nella regione mediorientale. Kurilla è andato anche negli Emirati: la visita segue una ritualità di inizio incarico anche in questo caso. Tuttavia Abu Dhabi è altro partner americano che se ci fosse un eventuale attacco contro l’Iran, in un qualche imprecisato futuro, potrebbe essere coinvolto direttamente nei piani — sia per le capacità militari, sia per la contiguità geografica, sia perché ormai parte di un blocco unico con Usa e Israele prodotto dagli Accordi di Abramo.
  La necessità di sviluppare un piano e l’opzione di deterrenza associata si lega a un timore: Stati Uniti e Israele – partner del Golfo come sauditi ed emiratini – temono che l’Iran continui a portare avanti, più o meno segretamente, il suo programma nucleare mentre i colloqui sul Jcpoa sono in fase di stallo. Questo darebbe a Teheran un doppio vantaggio: da un lato ottenere capacità nucleari militari, dall’altro poter usare il raggiungimento delle stesse come leva durante l’evoluzione dei negoziati (ossia portarsi in una dimensione simile a quella della Corea del Nord, che non accetta un piano di denuclearizzazione perché si sente ormai forte della Bomba).
  Ravid ricorda che negli anni che hanno preceduto l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, Israele si era preparato alla possibilità di un attacco aereo contro le strutture nucleari iraniane. L’ex premier Benjamin Netanyahu è stato vicino a ordinare l’azione nel 2012. Dopo l’avvio dei colloqui sul nucleare tra Stati Uniti e Iran nel 2013, e ancor più dopo il raggiungimento dell’accordo, Netanyahu ha tolto dal tavolo l’opzione militare israeliana.
  Durante la presidenza Trump la possibilità di un attacco è diventata praticamente irrilevante: erano gli anni della scelta trumpiana di uscire unilateralmente dal Jcpoa, re-inserendo l’intera panoplia sanzionatoria. Netanyahu aveva fiducia sul fatto di non aver bisogno di un piano indipendente. L’attuale governo israeliano ha invece ripreso lo sviluppo di un progetto di attacco autonomo (o semi-autonomo) contro il programma nucleare iraniano e ha stanziato miliardi di dollari per il potenziamento e l’addestramento militare.
  “Israele si sta preparando a tutti gli scenari costruendo la sua potenza militare e tenendo colloqui strategici con l’amministrazione Biden”, ha detto il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz. “Il costo per contrastare l’Iran ora è più alto di quello di un anno fa e più basso di quello che sarà tra un anno”, ha aggiunto, sostenendo che la lezione dell’invasione russa dell’Ucraina è che il potere economico, politico e militare a volte dovrebbe essere usato preventivamente per evitare una guerra più ampia.

(Formiche.net, 21 maggio 2022)

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Ucraini d’Israele

Presidenti, primi ministri, generali, pionieri e scrittori. Un bel pezzo di stato ebraico viene dalle città sotto le bombe russe

di Giulio Meotti

Dalla madre di Moshe Dayan, il generale con la benda, a Golda Meir, che era soltanto la figlia di un falegname di Kyiv Nel 1961 il presidente israeliano Ben-Zvi, ucraino, tenne una serata per i connazionali. Mosca si infuriò. Non voleva che si parlasse di Ucraina
A Buchach, in Ucraina, c'è un centro letterario dedicato a Shmuel Agnon, lo scrittore israeliano premio Nobel nato in quella città Erano ucraini i genitori di Yitzhak Rabin, Naftali Hertz Imber, l’autore dell'inno israeliano, e Nathan Sharansky, nato a Donetsk

Devorah Dayan raccolse la sua storia in un volume pubblicato postumo in Francia. La storia di una ragazza ucraina partita da Zashkiv e finita a vangare e coltivare la terra nei kibbutz e nei “moshav ovdim”, l’organizzazione del lavoro e della vita in un villaggio ebraico nella Palestina prima turca e poi inglese. C’era una sorgente, dei limoni, dei fichi, e, soprattutto, c’era dell’ombra. “Una voce parlava dentro di me e mi diceva: ‘Qui edificherai la tua esistenza, su questa terra alleverai i tuoi bambini’”. Era Nahalul, non lontana da Nazareth, qualche anno dopo la Prima guerra mondiale. Un villaggio di ebrei che erano tornati alla terra promessa per colonizzarla. Fra loro quella donna, con suo marito e un bambino, che un giorno sarebbe diventato il più grande comandante dei soldati di Israele, Moshe Dayan (il primo bambino che venne al mondo in quel kibbutz).
  Devorah Dayan è morta nel 1953, non ha assistito ai trionfi del figlio, e l’editore francese Julliard ha pubblicato un suo libro, “Una mère en Israël”. Lasciarono l’Ucraina per operare in Israele non soltanto un cambiamento di vita, ma un “mutamento dell’anima”. Il libro di Devorah Dayan è commovente, senza intenzione di esserlo. Con freddezza descrive il distacco improvviso dai genitori, che vivono in un villaggio dell’Ucraina. La giovane Devorah, ancora una ragazza, aveva compiuto gli studi e avrebbe potuto sposarsi, diventare una signora borghese della società zarista al tramonto, ma capisce che il pericolo è in agguato e si sente un’estranea.
  Mezza classe dirigente dei padri fondatori di Israele viene da là, dall’Ucraina. Non c’è soltanto la storia di Babi Yar, di Stephan Bandera e dei pogrom pre-Hitler, come vorrebbe la versione ufficiale russa. L’insediamento di pionieri di Rishon LeZion, oggi la quarta città più grande d’Israele, fu fondato da un pugno di ebrei ucraini di Kharkiv nel 1882, quindici anni prima del Primo Congresso Sionista di Theodor Herzl (nei giorni scorsi il sindaco di Kharkiv ha detto che “gli ucraini hanno molto da imparare da Israele”). “Non c’è nessun altro paese al mondo che abbia avuto così tanta influenza sulla cultura ebraica e sul sionismo prima dell’Olocausto” scrive Israel Hayom, il più diffuso giornale israeliano. “Alcune delle più grandi sette chassidiche in Israele furono fondate in Ucraina”.
  L’architrave di una delle case di Odessa recita in ucraino ed ebraico: “Qui è nato l’Israele moderno”. In questo edificio operavano gli uffici del “Comitato dell’Odissea” che raccoglieva fondi per i pionieri della prima aliyah. Molti dei leader israeliani sono nati in Ucraina, come Ze’ev Jabotinsky, il fondatore del sionismo di destra. Il porto di Odessa è anche chiamato “Porta di Sion”, in quanto punto di partenza per l’immigrazione in Israele. Da lì, il rabbino Nachman salpò da Breslav verso Jaffa, e l’aliyah degli studenti Ga’a partì per Gerusalemme. La terza aliyah iniziò nel 1919 con la partenza della nave “Ruslan” dal porto di Odessa con a bordo 670 pionieri . Rispetto ad oggi, è come se 80.000 immigrati arrivassero in Israele in un giorno. Quando si viaggia verso sud si arriva alla città di Uman, la città del rabbino Nachman di Breslav.
  Ze’ev Jabotinsky, il “lupo solitario” di Odessa, il capo carismatico e padrino di una generazione di politici israeliani, da Menachem Begin ad Ariel Sharon fino a Bibi Netanyahu. Poeta, romanziere, giornalista, agitatore, guerriero e statista, Jabotinsky con un gruppo di amici aveva fondato in Ucraina nel 1904 la casa editrice sionista “Kadima” (Avanti). Il nome del futuro partito di Ariel Sharon. Morto a New York nel 1940 dopo un’esistenza di viaggi e di lotte, di scritture e di sconfitte, in un articolo intitolato “Il Muro di Ferro” Jabotinsky riconosceva, ben prima che se ne accorgessero i laburisti, che gli arabi di Palestina erano un popolo, che il conflitto consisteva in uno scontro tra due legittime aspirazioni nazionali e che i sionisti sarebbero riusciti nel loro intento soltanto se capaci di difendere il loro progetto con la forza.
  Il “Muro di Ferro” è rimasta la dottrina revisionista per eccellenza e la chiave di volta dei trattati di pace con Egitto e Giordania. Era un uomo geniale, scriveva in un ebraico classico e ha tradotto Dante, è stato il primo straniero diventato ufficiale dell’esercito britannico, condannato a morte per la difesa degli ebrei a Gerusalemme nel 1919. Jabotinsky fu “acculturato” come un tipico ebreo russo della borghesia ucraina del tempo. Il giovane ammiratore di Paul Verlaine e di Arthur Rimbaud, esteta cosmopolita e ultra-nazionalista, vede una sola soluzione all’antisemitismo: una patria ebraica da raggiungere con l’emigrazione di massa e la riappropriazione della forza.
  Nel novembre 1938 Jabotinsky scrisse e spedì a un giovane studente sudafricano una lettera che ha fatto epoca, tanto da essere stata inserita più di trent’anni dopo nell’Encyclopaedia Judaica, una sorta di dizionario universale del popolo ebraico edito a Gerusalemme dal 1971. “Perché vivere?” si chiede Jabotinsky mentre l’Europa stava per essere trasformata nel mattatoio del giudaismo. “Il suicidio è peggio della codardia, è la resa. Nei prossimi dieci anni vedremo lo stato d’Israele non solo proclamato, ma una realtà”. Morì cercando di convincere gli americani della partecipazione materiale e nazionale dell’ebraismo alla causa antinazista.
  La sera dell’11 giugno 1961, il presidente di Israele Yitzhak Ben-Zvi, anche lui nato a Poltava, in Ucraina, viene avvisato da un vecchio amico, il giornalista israeliano Benjamin Vest. Gli stava consigliando categoricamente di annullare “l’incontro ucraino” (Kenes Ukraina) che era stato programmato per la settimana successiva presso la residenza del presidente israeliano. Vest era stato condannato a Mosca per appartenenza al movimento sionista e nel 1925 fu deportato dal “paradiso sovietico” nella Palestina britannica. Quella era la prima volta nella storia di Israele che il suo capo di stato aveva deciso di radunare ebrei dal paese in cui lui stesso era nato.
  Ben-Zvi aveva ricevuto una lettera da Vest, che lo esortava a non ospitare quella serata per i nativi dell’Ucraina, per timore che provocasse una reazione da parte di Mosca. Anche solo dire “Ucraina” avrebbe potuto essere interpretata dal governo sovietico come un sostegno al nazionalismo ucraino in casa del presidente di Israele. Litigare con Mosca sulla parola “Ucraina”?
  Yitzhak Shimshelevitz (Shymshelevych in ucraino), il futuro presidente Ben-Zvi, nacque a Poltava in una famiglia discendente da una dinastia rabbinica, tra cui il Rashi. Il padre del futuro presidente, Zvi Shimshelevitz, era un insegnante di ebraico. Nel 1904 il ventiduenne Yitzhak fece il suo primo viaggio nella Terra d’Israele. L’intera famiglia Shimshelevitz fu deportata in Siberia, ma Yitzhak riuscì a fuggire oltre il confine. Tornò in Russia, fu arrestato due volte e poi fuggì di nuovo. Alla fine lasciò l’impero russo nella primavera del 1907. Si stabilì a Jaffa, poi a Gerusalemme, insieme alla sua futura moglie, Rachel Yanait, originaria della piccola città di Malyn vicino a Kyiv. David Ben Gurion, il futuro primo primo ministro di Israele, era un amico di famiglia. Uri Zvi Greenberg (1896–1981), maestro di poesia ebraica e vincitore del Premio Israele nel campo della letteratura (1957), fu invitato dal presidente all’“incontro ucraino” come una star su scala nazionale.
  Greenberg era nato in una famiglia chassidica nella città di Bilyi Kamin, vicino a Zolochiv, nell’Ucraina occidentale. Un anno dopo, la famiglia si trasferì a Lemberg (Leopoli), dove si formò da giovane come poeta. Qui, nel 1912, pubblicò le prime poesie in ebraico e yiddish. Shmuel Yosef Agnon, un amico di famiglia e futuro premio Nobel per la letteratura, anche lui nato in Ucraina, era di casa.
  Nei giorni scorsi Jeffrey Saks, direttore dell’Agnon House di Gerusalemme, dove lo scrittore vincitore del premio Nobel ha vissuto e lavorato per gran parte della sua vita, ha fatto un incontro Zoom con la sua controparte presso l’Agnon Literary Center di Buchach, in Ucraina, che stava preparando le valigie per fuggire dalla guerra. Saks, un rabbino cresciuto nel New Jersey, e Mariana Maksymiak, un’ucraina non ebrea, hanno in comune la passione per Agnon.
  Buchach, la città in cui è nato e cresciuto Agnon, si trova nella parte occidentale dell’Ucraina. Agnon lasciò Buchach a vent’anni, quando emigrò in Israele. Gli ebrei di Buchach soffrirono sotto l’occupazione russa durante la Prima guerra mondiale e sotto l’occupazione sovietica dal 1939 al 1941, quando videro la loro vita comunitaria chiusa o costretta alla clandestinità. La città fu poi occupata dai nazisti e l’intera popolazione ebraica assassinata in una serie di omicidi di massa. A Buchach oggi c’è un busto dell’ebreo vincitore del Nobel. In onore di Agnon, il comune di Buchach ha anche contribuito a finanziare il centro letterario.
  Yitzhak Rabin, che incarnerà la quintessenza del “sabra”, l’ebreo israeliano, era sì cresciuto a Gerusalemme, ma in una famiglia dell’aristocrazia sionista arrivata dall’Ucraina. Dall’Ucraina veniva anche quella che David Ben Gurion definì “l’unico vero uomo nel mio governo”. Nella “domenica di sangue” del 1905, due bambine di sette anni giocavano in una strada di Kyiv. Un contadinaccio le afferrò d’improvviso, picchiando le due teste l’una contro l’altra. “Questo è quanto faremo agli ebrei, sbatteremo loro le teste fino a spaccargliele”. Una delle due bambine aveva la testa dura: Golda Meir (allora Mabovitch). Non pianse, non disse nulla a suo padre, un falegname.
  Nel primo capitolo della sua autobiografia (“La mia vita”), si legge: “Dovevo essere molto piccola, tre anni e mezzo o quattro al massimo. Abitavamo allora una casetta di Kiev, e rammento di aver sentito parlare di un pogrom che stava per rovinarci addosso. Seduta sulla scala, stringevo le mani di una bambina e guardavamo i nostri padri che si affannavano a barricare l’ingresso con assi di legno. Ero spaventata e furiosa nello scoprire che tutto ciò che mio padre poteva fare per difendermi era inchiodare quattro assi...”. Quando Israele ha aperto un ospedale da campo a Mostyska nell’Ucraina occidentale, il nome che gli hanno dato non era casuale: “Kochav Meir” (Stella splendente) anche in onore di Golda Meir.
  Dall’Ucraina venivano otto padri fondatori dello stato ebraico che sono oggi tutti impressi nelle banconote dello stato ebraico. Primi ministri come Levi Eshkol e Moshe Sharett, presidenti come Ephraim Katzir, padri del sionismo come Aaron David Gordon (nato a Zytomir); Naftali Hertz Imber, l’autore della ha-Tikwa, l’inno nazionale israeliano, nato nell’ucraina Solochiv; lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Aharon Appelfeld e il poeta Haim Bialik; il fondatore dell’Histadruth, il leggendario sindacato ebraico, Avraham Hartzfeld; Yaakov Dori, nato Dostrovsky, l’ultimo comandante della Haganah e il primo capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Tsahal, di Odessa, capo di stato maggiore delle forze armate che sconfissero gli eserciti arabi invasori quando fu istituito lo stato ebraico, e poi ancora il piccolo villaggio di Voronkov, dove è nato Sholem Aleichem, il cui romanzo ha ispirato il musical “Il violinista sul tetto” modellato su uno shtetl in Ucraina. A Donetsk, nella terra dei separatisti russi dove si combatte ferocemente, è nato Natan Sharansky, il più famoso dissidente ebreo dell’epoca sovietica, il “refusnik” che i russi scambiarono sul ponte di Glienicke, a Berlino, in cambio di due spie comuniste. Un bel pezzo d’Israele viene da là, sull’ansa del Dniepr. Intanto, gli ebrei ucraini si trovano di nuovo nel mirino della storia. E come dice Tevye, il lattaio nel “Violinista sul tetto”, che Dio sia con loro.

Il Foglio, 21 maggio 2022)

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Il governo israeliano perde la maggioranza

Tutto quel che bisogna sapere per comprendere la crisi

di Ugo Volli

• LE PREMESSE
  Il trentanovesimo governo di Israele (in 73 anni) presieduto da Naftali Bennett sembra decisamente entrato nella fase dell’agonia. Formato meno di un anno fa da forze dei più diversi orientamenti (la destra di Bennett, il centrodestra di Liberman e Sa’ar; il centro di Gantz, il centrosinistra di Lapid e dei laburisti, l’estrema sinistra di Meretz, gli arabi islamisti di Ra’am) uniti solo dal fatto di non volere più Bibi Netanyahu come primo ministro, aveva in partenza una maggioranza debolissima (61 voti sui 120 seggi della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano). I dissensi programmatici erano enormi dall’inizio e quindi si era stabilito che il governo non avrebbe adottato nessuna politica se non quelle faticosamente negoziate e scritte nel patto di coalizione e che poi ogni ministro si sarebbe regolato a modo suo nei temi di sua competenza. Per premiare il suo distacco dalla coalizione di Netanyahu, Bennett era stato nominato primo ministro anche se il suo partito era uno dei più deboli della maggioranza, con soli sette seggi. L’accordo era che a metà legislatura (alla fine del prossimo anno), la presidenza sarebbe passata a Lapid, che presiede il maggior partito della coalizione con 17 seggi (non il più grande partito della Knesset, che resta quello di Netanyahu con 30)

• I CONTRASTI PROGRAMMATICI
  Nei mesi del governo i dissensi hanno scosso spesso la coalizione, sulle politiche e sulle opinioni. Per la parte destra della coalizione, il governo attuava politiche di estrema sinistra su temi delicatissimi come i villaggi illegali dei beduini nel Negev, la riforma delle istituzioni religiose, gli insediamenti oltre la linea verde; per la sinistra, faceva politiche di destra su temi come il Monte del Tempio e la difesa. Chi ha ottenuto i risultati più cospicui, anche se è stato molto attaccato dalla sua parte, è il leader arabo islamista Abbas, che con le minacce e le lusinghe ha conquistato soldi ed eccezioni legislative soprattutto per gli arabi di Negev e Galilea. Ma questi prezzi pagati a un partito determinante per la coalizione, che ha spesso minacciato di abbandonarla, hanno suscitato le preoccupazioni perfino di un leader centrista come il ministro della difesa Gantz, che ha fatto uscire qualche giorno fa un suo discorso al gruppo parlamentare in cui diceva che andando avanti così l’Israele ebraica rischiava di limitarsi al centro del paese, lasciando agli arabi la Galilea e il Negev.

• I COSTI DELLA CONFUSIONE PROGRAMMATICA
  Questo conflitto fra ideologie e interessi contrastanti si è tradotto non solo in un’opera costante e defatigante da parte di Bennett e Lapid. Il suo costo si è esteso a una perdita di consensi che nei sondaggi ha punito soprattutto la parte destra della coalizione, con i partiti di Bennett e di Sa’ar che rischiano di non superare la barriera del 3,5% necessaria per entrare alla Knessett. Ci sono state contestazioni durissime soprattutto a Bennett, che per esempio l’altro giorno, quando è andato a portare le sue condoglianze alla famiglia di Noam Raz, il militare delle unità speciali antiterrorismo caduto a Jenin, è stato rimproverato e sostanzialmente respinto.

• I PARLAMENTARI FUORIUSCITI
  Questa tensione però si è tradotta anche fra i parlamentari che sostengono la coalizione. Si è parlato spesso di un possibile abbandono in blocco di qualche partito, per esempio quello di Gantz. Ma per ora se ne sono andati due dei sette deputati del partito di Bennett, uno, Amichai Chikli dichiarato ufficialmente “transfuga”, che significa non potersi ripresentare alle prossime elezioni; l’altra, Idit Silman, già capogruppo della maggioranza alla Knesset, espulsa l’altro giorno dalla riunione del gruppo parlamentare del partito. Dato che un terzo deputato vacillava, Bennett ha fatto dimettere un suo ministro chiave, Matan Kahana, per fargli riprendere il suo seggio alla Knesset ed estromettere così, secondo la legge israeliana, il suo sostituto esitante: una perdita comunque notevole, perché la riforma degli ordinamenti religiosi di Kahana era un punto chiave del programma. Tutto ciò non è servito molto, perché a queste uscite da destra se n’è aggiunta una a sinistra: la deputata Rinawie Zoabi della sinistra di Meretz è uscita ieri dalla coalizione perché non sopporta le sue politiche “di estrema destra”, perfino “razziste”. Anche a lei era stata offerta un’uscita morbida, promettendole la nomina a console generale di Shangai, ma non ha accettato questo mercato piuttosto disonorevole e ha preferito prendere le conseguenze politiche del suo dissenso. E a questo punto il governo è ufficialmente in minoranza alla Knesset.

• CHE COSA ACCADRÀ
  La legge israeliana cerca di mantenere i governi in vita anche in condizioni difficili. La minoranza in Parlamento non basta a far cadere un governo. È possibile quindi che il governo Bennett continui ad agonizzare per altri sei mesi, fino a quando sarà discussa la legge di bilancio, la cui non approvazione comporta automaticamente lo scioglimento della Knesset. Naturalmente, nel frattempo, non potrebbe più far approvare le sue leggi, resterebbe quasi paralizzato. Oppure il parlamento può approvare una legge di autoscioglimento, e andare alle elezioni in autunno. O ancora è possibile una mozione di sfiducia costruttiva, che indicando un nuovo primo ministro gli dia il mandato per costituire un nuovo governo. Quest’ultima è la soluzione più improbabile, perché l’opposizione è in maggioranza, sì, ma divisa in due blocchi: un partito arabo e l’alleanza intorno a Netanyahu. Perché prevalesse, ci vorrebbe il sostegno di un numero abbastanza consistente di deputati dell’attuale maggioranza, almeno sette. È probabile quindi che si arrivi a nuove elezioni, le quarte in meno di quattro anni: un segno del difficile funzionamento di un sistema politico che oltre alla polarizzazione destra-sinistra sui programmi e a quella nazionale è anche profondamente diviso sulla leadership di Netanyahu, il politico più importante di Israele negli ultimi decenni, ancora preferito di gran lunga dall’elettorato, ma che si è accumulato intorno accuse e odio più di ogni altro.

(Shalom, 20 maggio 2022)

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Draghi senza la mascherina tra gli alunni: «Voi forse la toglierete l'anno prossimo»

Incredibile scena da Marchese del Grillo: il premier va in una scuola e snobba l'obbligo imposto dal suo governo 

di Alessandro Rico 

Mario Draghi
senza mascherina
«Spero che l'anno prossimo non ci sia più bisogno di mascherine», E’ il massimo che è riuscito a promettere Mario Draghi, ieri, agli alunni della scuola media Dante Alighieri di Sommacampagna, nel Veronese. 
  Lui si è presentato senza Ffp2, libero di respirare, prodigo di sorrisi da nonno della Repubblica. Loro, invece, sono rimasti istituzionalmente distanziati e mascherati. Persino per le foto di gruppo, quando si è lasciato circondare dall'intero gruppo di piccini, comunque bardati, Mr Bce ha tenuto il volto scoperto, sogghignante, soddisfatto. Perché? Perché il premier è immune, mentre bimbi e maestre sono esposti al contagio? Perché Draghi è Draghi e gli scolari non sono un c... ? E come mai, se alle medie non c'è Covid, in Parlamento, al contrario, il nostro arringa gli onorevoli con il becco bianco? Per quale motivo, in Senato, giovedì, Draghi somigliava a Daffy Duck, però nelle cantine dell'azienda vinicola Masi, lui, Luca Zaia e gli altri accompagnatori erano smascherati e contenti? Il mosto neutralizza il virus? O ci pensa il buonumore etilico? «Spero», ha sospirato l'ex banchiere, accolto da un bel cartellone degli alunni: «Benvenuto presidente». La fa facile: aspettiamo, valutiamo, monitoriamo. Intanto, i ragazzi, nonostante il caldo torrido, alla faccia della massiccia adesione alla campagna vaccinale e a dispetto della scarsissima pericolosità del Covid nella loro classe anagrafica, dovranno sorbirsi la tortura del bavaglio fino al 15 giugno. Quelli cui toccheranno gli esami di Stato, addirittura, saranno costretti a coprirsi naso e bocca fino a luglio inoltrato, visto che la regola resterà in vigore «fino a fine anno scolastico», maturità compresa. Eppure, i poveretti non hanno nemmeno la certezza che, dopo questa inutile vessazione, a settembre, si torni tra i banchi con il diritto di respirare a pieni polmoni. Sono appesi alle varianti del Sars-Cov-2, alla nostalgia del circo pandemico delle virostar e di Roberto Speranza, alle polmoniti che alcuni si buscheranno, per seguire i consigli dell'Ue sulle docce gelate, con cui spezzare le reni a Vladimir Putin? 
  «Spero», ha bofonchiato Draghi. Super Mario, l'uomo della provvidenza (così lo aveva glorificato il cardinale Gualtiero Bassetti), dal «whatever it takes», ora è passato allo «speriamo che me la cavo». «Spero», ha detto agli studenti veneti, «che la pandemia non ritorni». Ma come? E i vaccini? E il green pass garanzia di non contagiarsi? 
  «So quanto avete sofferto», ha soggiunto il premier. «Alla vostra età è importante stare insieme». Com'è umano lei. Deve esserci arrivato, osservando le agghiaccianti statistiche sul disagio psichico tra 
  i più giovani: un adolescente su quattro ha manifestato sintomi di depressione, uno su cinque disturbi d'ansia. Secondo il Garante per l'infanzia, sono aumentati i disordini alimentari, le alterazioni del ritmo sonno-veglia, le forme di «ritiro sociale», i comportamenti autolesionisti e, addirittura, gli istinti suicidi. Il governo pensava di metterci una toppa con il bonus psicologo. Ma a Palazzo Chigi avranno intuito che privare i ragazzini dell'espressività e incaprettarli dentro aule roventi non favorisce serenità e benessere. 
  Un'indagine dell'Università di York aveva già confermato che l'uso dei dispositivi di protezione danneggia le capacità di socializzazione dei bimbi. Uno studio uscito dieci giorni fa  - in fase di revisione paritaria - ha aggiunto un altro carico da novanta contro la politica del volto coperto. Un team di ricercatori italiani, esaminando 102 volontari tra 10 e 90 anni della provincia di Ferrara, ha scoperto che indossare la mascherina, magari, ci protegge dal virus, ma ci condanna altresì a insalubri inalazioni di anidride carbonica. Per essere precisi, la concentrazione di CO2 riscontrata in chi portava la chirurgica variava tra 3.918 e 6.012 parti per milione, contro il limite, considerato accettabile, di 5.000. Chi aveva la Ffp2, quella obbligatoria in classe, respirava invece tra 7.142 e 11.650 ppm di anidride carbonica, una quantità che aumentava con il ritmo del respiro e che «era più elevata tra i minori, i quali hanno mostrato una concentrazione media di CO2» tra le 9.949 e le 15.745 parti per milione. Sarà per evitare il gas venefico che, a Sommacampagna, Draghi non s'è messo la mascherina? Anziché una scuola, i nostri figli frequentano una fucina di carbon coke. Per forza che poi vanno in piazza con Greta Thunberg. 
  Come abbiamo ripetuto allo sfinimento sulle colonne di questo giornale, è tutt'altro che assodato che le mascherine in classe impediscano i contagi. L'anno scorso, uno studio sulle pratiche per prevenire le infezioni, condotto in Florida, New York e Massachusetts, concludeva: «Non troviamo nessuna correlazione con gli obblighi di mascherine». A febbraio, nientepopodimeno che Time, con l'editoriale di una specialista in medicina interna, chiedeva di «porre fine alle mascherine obbligatorie nelle scuole». Un mese dopo, una ricerca spagnola ha chiosato: «Gli obblighi di mascherine nelle scuole non sono associati a una minore incidenza o trasmissione del Sars-Cov-2».
  In definitiva, c'è poco da «sperare». Bisogna smetterla di nascondersi dietro la scienza, l'andamento dell'epidemia, i dati e prendere una decisione. Politica. Non è un salto nel buio: all'estero l'hanno già fatto; non risulta che stiano accatastando cadaveri. E noi? Continuiamo solo a sperare? E vero: sperare non costa nulla. Ma Speranza ci è già costato troppo.

(La Verità, 21 maggio 2022)

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Striscia di Gaza: preoccupante beffa alla difesa israeliana

Nuovi droni iraniani in mano della Jihad Islamica palestinese nella Striscia di Gaza

Ieri pomeriggio la Jihad Islamica, sostenuta dall’Iran, ha pubblicato fotografie aeree delle città israeliane che si trovano lungo il confine con la Striscia di Gaza.
  Le foto sono state scattate da un drone che si è infilato tra le maglie della difesa aerea israeliana e provano che i terroristi arabi hanno ottenuto dall’Iran nuovi droni in grado di compiere missioni di ricognizione e attacco.
  Già nel 2019 un velivolo senza pilota guidato sempre dalla Jihad Islamica era riuscito ad attaccare alcuni veicoli dell’esercito israeliano che si trovavano lungo il confine con la Striscia di Gaza e ora l’intelligence israeliana teme che i droni vengano usati contro le città israeliane di confine.
  I nuovi droni di produzione iraniana sono molto evoluti. Per intenderci sono gli stessi usati dai ribelli Houthi nello Yemen per attaccare obiettivi sauditi ed emiratini nel Golfo Persico.
  Possono essere usati come droni per l’intelligence, come aerei kamikaze contro obiettivi militari o civili e addirittura come un aereo per attacchi mordi e fuggi visto che sono in grado di lanciare piccoli ordigni.
  Sono così piccoli che difficilmente vengono rilevati e comunque non è facile abbatterli con le difese antimissile come Iron Dome.
  Anche Hezbollah ne ha diversi in dotazione con i quali in alcuni casi ha violato le difese aeree del nord.
  L’intelligence israeliana sembra essere molto preoccupata in merito al fatto che l’Iran sia riuscito a far avere alla Jihad Islamica questo tipo di aereo senza pilota particolarmente insidioso.

(Rights Reporter, 20 maggio 2022)

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Esercito israeliano: Hezbollah riceve armi dall’Iran tramite voli civili verso Damasco

Il movimento sciita libanese Hezbollah “riceve armi strategiche dall’Iran tramite voli civili diretti a Damasco”, in Siria. E’ quanto scoperto dalle forze di difesa israeliane (Idf), secondo quanto riferito dal portavoce per i media arabi dell’esercito Avichay Adraee su Twitter. La rete di traffico di armi sarebbe “gestita da Reda Sayed Hashem Safi al Din, figlio di sayyed Hashem Safi al Din, capo del Consiglio esecutivo di Hezbollah, che usa la sua posizione di spicco e le infrastrutture dello Stato libanese per aiutare il figlio a trasferire armi strategiche dall’Iran a Hezbollah”, ha fatto sapere Adraee.
  Inoltre, secondo il portavoce delle Idf, “per garantire la riservatezza, le armi vengono trasportare su voli civili dall’Iran all’aeroporto internazionale di Damasco, esponendo i civili a un pericolo imminente”. “Il gruppo terroristico Hezbollah sta sfruttando lo Stato libanese e i suoi cittadini per scopi terroristici che servono gli interessi iraniani”, ha aggiunto, sottolineando che le Idf “continueranno a monitorare tutti i tentativi di Hezbollah di minacciare la sicurezza dello Stato di Israele e agiranno secondo necessità per proteggere la sicurezza e i cittadini”.

(Agenzia Nova, 20 maggio 2022)

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Israele, in corso l’esercitazione “Chariots of Fire” per colpire il nucleare iraniano

Le Forze Armate israeliane stanno svolgendo l’esercitazione “Chariots of Fire” che prevede la simulazione di attacchi contro le strutture del programma nucleare iraniano.
  A partire dal 29 maggio verranno coinvolte quasi tutte le unità delle Forze Armate israeliane e l’IAF (Israeli Air Force) metterà particolare cura nel valutare l’impiego di tattiche ed armamenti per colpire i bunker iraniani dove viene portati avanti il programma nucleare, come superare le difese aeree iraniane e su come posizionarsi in virtù di un quasi certa rappresaglia da parte di Tehran.
  In supporto alle operazioni dei velivoli israeliani prenderanno parte all’esercitazione anche aerei cisterna statunitensi, un chiaro segnale a Tehran.
  “Non c’è una sola unità [delle Forze Armate] che non prende parte a questa esercitazione” ha affermato portavoce dell’IDF Brigadier Generale Ran Kohav.
  Una esercitazione di grandi dimensioni come “Chariots of Fire” non viene eseguita da Tel Aviv da almeno dieci anni ed in quel caso gli Stati Uniti non inviarono alcun velivolo in supporto.
  Il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato che “il prezzo per affrontare la sfida iraniana a livello globale o regionale è superiore a quello di un anno fa ed inferiore a quello che sarà tra un anno.”
  Anche la Marina israeliana ha preso parte all’esercitazione dimostrando la capacità di passare da una operatività di pace ad una di guerra.
  Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Generale Aviv Kohavi ha affermato ad inizio anno che era necessario approntare nel più breve tempo possibile un piano di attacco contro l’Iran per poi a settembre rendere noto che le Forze Armate avevano “accelerato notevolmente” i preparativi.
  Una parte dell’esercitazione, quella che prevedeva l’addestramento dell’IDF contro Hezbollah, è stata cancellata per evitare ulteriori incidenti e per non scatenare “un clima drammatico” come ha affermato il Sindaco della città di Umm el-Fahm.

(Ares Osservatorio Difesa, 20 maggio 2022)

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Elezioni in Libano: crolla il blocco pro Hezbollah

di Andrea Gaiardoni

Il dato più eclatante che emerge dalle elezioni di domenica scorsa in Libano è la sconfitta del blocco pro Hezbollah, il gruppo armato nazionalista sciita, sostenuto dall’Iran, che ha perso la maggioranza del Parlamento unicamerale. Nel 2018 aveva conquistato 71 seggi su 128 complessivi: ne sono rimasti 61. Non un risultato catastrofico, ma di certo un brusco ridimensionamento per il partito guidato da Hassan Nasrallah. Aumentano invece i parlamentari delle Forze Libanesi (ne ha conquistati 19), la formazione cristiana di estrema destra, nata come spin-off del Partito Falangista Libanese, che può contare sul sostegno dell’Arabia Saudita. Ma il risultato più rilevante di questa tornata elettorale è il successo dei candidati riformisti della società civile, che hanno costruito il loro consenso sulle istanze anti-establishment del movimento di protesta del 2019: 13 seggi, e potrebbero diventare di più se riuscissero a catalizzare il consenso degli altri 16 parlamentari indipendenti, ma di diversi orientamenti politici. Mentre Saad Hariri, leader del Movimento Futuro, sunnita, si è ritirato dalla politica attiva e ha invitato i suoi sostenitori a boicottare le elezioni. L’affluenza alle urne è stata del 49%. Nel nuovo Parlamento siederanno 8 donne: è un record.

• IL PANTANO DEL “CONFESSIONALISMO”
  Il Libano è un Paese stremato. Senza più forze, senza più fiato, con l’80% della popolazione che tenta quotidianamente di sopravvivere ben al di sotto della soglia della povertà, nel pantano di un default del debito sovrano (qui una ricostruzione di cosa è accaduto e perché) che negli ultimi due anni ha spazzato via cibo, medicinali, corrente elettrica e speranza dagli orizzonti della stragrande maggioranza delle famiglie libanesi. Con la stessa violenza della devastante esplosione che nell’estate del 2020 distrusse gran parte del porto di Beirut e dei quartieri circostanti, con oltre 220 vittime (e i 2 parlamentari sotto indagine sono stati appena rieletti). Ma il Libano è anche politicamente una realtà complessa, con quasi 7 milioni di abitanti, 18 diverse comunità religiose e un sistema elettorale basato su quote settarie, il “confessionalismo”. Che prevede una struttura di condivisione del potere tra cristiani e musulmani in base alla quale il primo ministro, il presidente della nazione e il presidente della Camera devono provenire dai tre maggiori gruppi religiosi del paese: rispettivamente sunniti, cristiani maroniti e sciiti. Un complesso gioco di equilibri, elaborato dagli Accordi di Taif, firmati alla fine della guerra civile, nel 1989, che ha di fatto cristallizzato il potere non soltanto tra i rappresentanti delle diverse confessioni religiose, ma tra clan e famiglie che ne dispongono come “cosa loro”, in perfetto stile mafioso, in una ragnatela di corruzione e privilegi che porta benessere a pochissimi, mentre milioni di persone precipitano nella disperazione. Quegli accordi, oramai è evidente, non reggono più. Nel 2019 (prima del default, prima dell’esplosione al porto) esponenti della società civile libanese, studenti, impiegati, avevano cominciato ad alzare la voce, a scendere in piazza per chiedere riforme economiche, sociali e politiche. Per protestare contro il malgoverno, contro la corruzione endemica. Per chiedere l’introduzione di un “patto laico”, che escludesse le confessioni religiose dal potere politico. Proteste che portarono alle dimissioni dell’allora premier Saad Hariri, ma non certo a mettere in discussione il sistema confessionale.
  Oggi però, in questa palude inaccessibile, s’è accesa una fiammella di speranza proprio con l’elezione dei 13 parlamentari indipendenti (i sondaggi più ottimisti parlavano di 8 seggi). Che non devono rendere conto alle “famiglie” del loro operato in Parlamento. Che potrebbero essere il “virus” per far saltare, dall’interno, il meccanismo della ripartizione settaria del potere. «Sono loro il fermento della pasta che ci aspettiamo di vedere lievitare», scrive Issa Goraieb, editorialista del quotidiano libanese L’Orient-Le Jour. «Loro non hanno una clientela specifica da servire con amministrazioni pubbliche disgregate, né interessi commerciali, industriali, bancari o mafiosi da preservare o gestire. E l’avvento di questo nuovo sangue non può che suscitare, stimolare, l’interesse della comunità internazionale per il nostro Paese in crisi». Bisognerà ora vedere se questo nuovo movimento “thawra”, rivoluzione, che gli analisti identificano con la sigla “17 ottobre” (data d’inizio delle proteste del 2019), che comprende variegate liste (da United for Change a Citizens in a State, a Together for Change), riuscirà a trovare un punto di sintesi, un’unità d’intenti e anche una guida in grado di dare spessore alla loro presenza in Parlamento. Non sarà semplice, come scrive ancora L’Orient-Le Jour: «La sfida per i mesi e gli anni a venire è lì. Spetterà a questi deputati costruire una sorta di “disciplina parlamentare” che consenta loro di trovare voce contro i blocchi tradizionali. Elezione del Presidente del Parlamento, investiture del nuovo governo e del successore di Michel Aoun (Presidente del Libano), ma anche adozione di un bilancio, accordo con il Fondo Monetario Internazionale, controllo dei capitali e indagine sulla doppia esplosione del 4 agosto: in tutti questi fascicoli il progresso si può ottenere soltanto con la chiarezza delle posizioni e con la convergenza dei voti».

• INTIMIDAZIONI E IRREGOLARITÀ AI SEGGI
  L’alleanza sciita (Hezbollah-Amal) ha sostanzialmente mantenuto i propri seggi, mentre ne ha persi il loro alleato cristiano, il Movimento Patriottico Libero (Courant Patriotique Libre) del presidente uscente Michael Aoun. E sono in molti a ritenere che l’aver perso la maggioranza assoluta non cambierà comunque, nella sostanza, la predominanza di Hezbollah nell’azione politica. In una votazione comunque caratterizzata da intimidazioni e minacce, con liti tra fazioni e sparatorie all’esterno dei seggi, tra irregolarità diffuse sia nella consegna delle schede sia nello spoglio delle stesse, con plateali episodi di compravendita di voti all’uscita dei seggi. Il Guardian riporta la testimonianza di una donna a un seggio di Beirut ovest: «Devono darmi qualcosa. Cos'altro posso ottenere da queste persone»? L’Associazione libanese per le elezioni democratiche (LADE) ha denunciato numerose intimidazioni nei confronti dei suoi osservatori. Anche l’Unione Europea ha inviato un team di osservatori, che in un rapporto, citato dal New York Times, ha scritto: «La campagna elettorale è stata distorta da un’elevata monetizzazione del voto, in cui ha prevalso una cultura di elargizioni in natura e finanziarie a fini elettorali da parte di istituzioni di proprietà o gestite da candidati o partiti».
  Certo è che il prossimo Parlamento sarà spaccato in due. Da un lato c’è Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”), gruppo paramilitare armato, sostenuto dall'Iran, sciita, che gli Stati Uniti considerano un'organizzazione terroristica. I suoi sostenitori lo vedono come baluardo contro il nemico numero uno: Israele. Pochi giorni prima delle elezioni il suo leader, Seyed Hassan Nasrallah, ha ribadito il ruolo di “protezione” del suo movimento: «Coloro che chiedono il disarmo di Hezbollah ignorano i risultati in merito alla liberazione dei territori libanesi occupati. I partiti che chiedono il disarmo di Hezbollah vogliono vendere il Libano agli Stati Uniti e renderlo passivo nei confronti di Israele». I suoi detrattori, invece, descrivono Hezbollah come “uno stato nello stato”, la cui stessa esistenza impedisce, anche con le armi, qualsiasi tipo di cambiamento democratico in Libano. L’altra forza portante del Parlamento sarà rappresentata dall’estrema destra delle Forze Libanesi, guidate da Samir Geagea, cristiano-maronita, ex comandante delle milizie cristiane durante la guerra civile libanese. Che in campagna elettorale >annunciava: «Le prossime non saranno elezioni, ma una battaglia per salvare il Libano dalla milizia (Hezbollah) e dalla mafia». Ha conquistato 19 seggi, dai 15 che aveva nel 2018, diventando così il partito più votato.

• CRISI ECONOMICA SENZA PRECEDENTI
  Difficile che tra questi due blocchi si riesca ad arrivare, se non a una sintesi, almeno a qualche accordo che possa consentire al Libano di uscire dall’emergenza. Appena dopo il voto uno dei leader di Hezbollah, Mohammad Raad, ha già lanciato il primo avvertimento agli avversari: «Fate attenzione ai vostri discorsi, ai vostri comportamenti. Vi accettiamo come avversari in Parlamento, ma non come scudi a protezione degli israeliani». «Questa polarizzazione ha oscurato i dibattiti sulla crisi», sostiene Karim Bitar, direttore del dipartimento di scienze politiche dell’Università Saint-Joseph di Beirut. «Il ballottaggio si è trasformato in un referendum a favore o contro Hezbollah, il che ha complicato il compito dell’opposizione».
  La conseguenza più probabile di questa contrapposizione tra forze parlamentari pro o contro Hezbollah sarà la paralisi. Eppure c’è un nuovo governo da formare, un nuovo presidente del Libano da eleggere (il mandato di Michael Aoun scade a ottobre: e il leader del blocco cristiano Samir Geagea aspira al ruolo). E, soprattutto, c’è la colossale questione economica da affrontare. Una serie di riforme urgentissime da mettere a terra, e da rispettare, per ottenere dal Fondo Monetario Internazionale l’indispensabile aiuto per rimettere in carreggiata i conti del Paese dei Cedri. In ballo c’è un prestito di 3 miliardi di dollari in 4 anni, ma solo se il governo saprà dare garanzia di attuazione delle riforme finanziarie. A partire dalla ristrutturazione del sistema bancario, con il governatore della Banca Centrale, Riad Salameh, formalmente accusato di corruzione, di arricchimento illegale e di riciclaggio di denaro. La ricchezza di Salameh (proprietario tra l’altro di diversi edifici a Parigi) è attualmente sotto indagine da parte delle autorità di almeno cinque paesi europei per presunta appropriazione indebita. Il “buco” che ha portato il Libano al default è di circa 72 miliardi di dollari. Il tasso d’inflazione mensile viaggia attorno al 200%: tra i più alti al mondo. La lira locale ha perso quasi tutto il suo valore, il che ha portato gli stipendi dei libanesi a poco più di carta straccia, distruggendo il potere d’acquisto delle famiglie. Nel 2019 un dollaro statunitense valeva 1.500 lire libanesi: oggi, al mercato nero, ne servono circa 30mila, nonostante il tasso ufficiale sia immutato. La conseguenza è che circa l’80% della popolazione libanese (dati Onu) vive al di sotto della soglia di povertà. Percentuale che sale all’89% tra i rifugiati siriani che vivono nel Paese. L’inviato delle Nazioni Unite aveva accusato il governo libanese, appena pochi mesi fa,  di aver provocato “uno scandaloso livello di disuguaglianza”: «L’inerzia del governo di fronte a questa crisi senza precedenti ha inflitto grande miseria alla popolazione, in particolare a bambini, donne, apolidi e persone con disabilità che erano già emarginate». Anche l’Unicef ha lanciato pochi giorni fa un allarme: “La crisi potrebbe avere gravi conseguenze sulla salute dei bambini”. Enormi le difficoltà anche a reperire medicinali e generi alimentari, compreso il pane. Una crisi acuita dalla guerra: oltre il 90% delle importazioni di grano arrivava da Russia e Ucraina. E il Libano avrebbe bisogno di circa 50.000 tonnellate di grano ogni mese per coprire la domanda di pane della nazione. I tempi di spedizione da altri paesi (Stati Uniti, Canada, India) sono assai più lunghi e più costosi: ma il Libano non ha più soldi. E lo spettro della carestia è dietro l’angolo.    

(Il Bo Live - Unipd, 20 maggio 2022)


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Elezioni in Libano: un segno di cambiamento

di Ugo Volli

• I RISULTATI ELETTORALI
  I giornali italiani non ne hanno parlato, ma negli scorsi giorni è successa in Libano una cosa per nulla scontata nel mondo islamico: si sono tenute delle elezioni più o meno libere e corrette. Ancora meno scontato è il risultato. Il blocco di Hezbollah e dei suoi alleati, che aveva la maggioranza nel vecchio parlamento (71 seggi su 128) ha perso, riducendosi a 61 seggi. In particolare non ha perso direttamente Hezbollah, che nei suoi quartieri sciiti è blindato e non ha consentito dissensi (qui si sono registrati gli episodi più clamorosi di intimidazioni e violazione dei seggi), ma il suo alleato cristiano, il generale Haiun.

• LA CRISI
  Le cause della sconfitta della precedente maggioranza sono chiarissime. Due anni fa c’è stata al porto di Beirut una terribile esplosione, che ha fatto oltre 200 morti, circa 7000 feriti e danni per più di 15 miliardi di euro. E’ chiaro a tutti che il disastro è stato provocato da un deposito illegale di esplosivi di Hezbollah, non dichiarato e tenuto (con scarsa cura) in pieno porto civile; il sistema politico è poi collassato, senza riuscire a nominare un nuovo governo funzionante; l’economia è in uno stato disastroso, con grandissime difficoltà nel rifornimento di carburanti e anche di cibo. L’inflazione è devastante: la lira libanese, che nell’ottobre del 2019 si scambiava a 1500 con il dollaro, ha raggiunto nei giorni scorsi quota 32000, perdendo il 95% per cento del suo valore.

• LA RESPONSABILITÀ
  Non c’è bisogno di essere sofisticati analisti politici per capire che la responsabilità è di Hezbollah: uno stato nello stato, con il suo esercito, il suo arsenale sempre crescente per i rifornimenti dell’Iran, la sua politica estera diretta contro Israele, la sua spedizione in Siria, il suo clientelismo, la totale indifferenza per la legalità e gli interessi della popolazione libanese. Molti si sono resi conti che non [?!?, ndr] lasciar controllare il paese a un gruppo terrorista legato a una potenza straniera (l’Iran) danneggia la vita di tutti.

• PACE CON ISRAELE?
  E qualcuno (per esempio il leader druso Jumblatt, politico libanese di lungo corso e di per sé decisamente antisraeliano) incomincia a dire che il Libano non ha ragione di mantenere uno stato di guerra con Israele. Non esistono conflitti territoriali veri (salvo una piccola disputa territoriale sulle “fattorie di Sheba”, rivendicate anche dalla Siria e facilmente risolvibile se ce n’è la volontà), vi sono trattative sulla delimitazione dei confini marittimi, che significano enormi giacimenti di gas. Se ci fosse l’intenzione di trovare un compromesso, il Libano potrebbe cominciare a sfruttare la sua parte, realizzando vantaggi economici essenziali nella sua situazione.

• NON È FACILE
  In realtà non è detto che le elezioni concludano la crisi politica. La costituzione libanese è un edificio barocco che suddivide le cariche a seconda dell’appartenenza religiosa, oltre che politica. Non è affatto detto che si possa costituire presto quel governo di cui il paese ha bisogno per ottenere aiuti internazionali. Nel parlamento libanese attuale vi sono tre campi principali, nessuno dei quali ha la maggioranza: Hezbollah e i suoi alleati, gli oppositori e il "Blocco del cambiamento", composto da partiti e movimenti con posizioni molto differenziate. E non è affatto certo che Hezbollah accetti di farsi sloggiare dal suo potere senza usare la sua forza armata, che è nettamente superiore a quella dell’esercito. Ma le elezioni sono un segnale. Qualcosa nella politica libanese sta cambiando, non è più così scontato che il paese accetti di continuare ad essere una colonia iraniana, il cui solo scopo è fare da avamposto contro Israele.

(Shalom, 20 maggio 2022)

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Convegno sulle Giudecche e i luoghi della memoria, il 31 maggio a Santa Maria del Cedro

CATANZARO - Il prossimo 31 maggio, promosso dalla Regione, assessorato al Turismo, Marketing territoriale e Mobilità, guidato da Fausto Orsomarso, si svolgerà a Santa Maria del Cedro, in provincia di Cosenza, il convegno dedicato alle Giudecche e ai luoghi della memoria. Interverranno il presidente della Regione Roberto Occhiuto, l’assessore Orsomarso, Roberto Busso, Ad di Gabetti Property Solutions, Roque Pugliese, referente per la Calabria dell'UCEI, il giornalista Klaus Davi, e Francesco Maria Spanò dell’Università Luiss. I lavori inizieranno alle 10 e proseguiranno per tutta la giornata.
  Dopo i saluti istituzionali, saranno protagonisti i racconti di alcuni luoghi simbolo della cultura ebraica in Calabria: la Giudecca di Nicotera, la sinagoga e il sito ebraico di Bova e di Bova Marina, gli eventi di Santa Maria del Cedro dedicati all’agrume particolarmente caro al popolo ebraico. Il programma pomeridiano prevede un ampio spazio al racconto di alcuni comuni calabresi che hanno conservato importanti tracce della cultura ebraica, siano esse in forma di Giudecche, siti, tradizioni popolari, toponomastica.
  I Comuni attualmente iscritti a partecipare sono Reggio Calabria, Crotone, Cosenza, Vibo Valentia, Lamezia, San Marco Argentano, Rota Greca, Montalto Uffugo, Castrovillari, Bova, Bova Marina, Pizzo. All’iniziativa è prevista anche la partecipazione di esperti e intellettuali che hanno dedicato i loro studi alla cultura ebraica in Calabria.
  L’iniziativa sarà anche trasmessa integralmente in diretta Facebook.

(ilLametino, 20 maggio 2022)

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Israele: deputata di Meretz abbandona la coalizione di governo e mette Bennett in minoranza

"Purtroppo negli ultimi mesi, per ristretti motivi politici, i capi della coalizione hanno preferito rafforzare la loro parte destra. Più e più volte, i capi della coalizione hanno preferito compiere duri passi da falco su questioni chiave legate alla società araba”, ha aggiunto la deputata.

Ghaida Rinawie Zoabi
La coalizione del governo israeliano guidata dal primo ministro Naftali Bennett si trova in minoranza alla Knesset (il parlamento monocamerale dello Stato ebraico) dopo le dimissioni della deputata arabo-israeliana del partito Meretz, Ghaida Rinawie Zoabi. Lo riferisce il quotidiano “The Times of Israel”. In una lettera indirizzata al primo ministro Bennett, Rinawie Zoabi ha scritto: “Sono entrata in politica perché mi consideravo un emissario della società araba, che rappresento”, ha scritto Rinawie Zoabi. “Purtroppo negli ultimi mesi, per ristretti motivi politici, i capi della coalizione hanno preferito rafforzare la loro parte destra. Più e più volte, i capi della coalizione hanno preferito compiere duri passi da falco su questioni chiave legate alla società araba”, ha aggiunto la deputata di Meretz. “Non posso sostenere una coalizione che sta molestando vergognosamente la società da cui provengo”, ha aggiunto la parlamentare in riferimento alle tensioni di questi giorni tra israeliani e palestinesi che hanno coinvolto anche la minoranza arabo-israeliana. Rinawie Zoabi ha citato gli scontri alla Moschea di Al Aqsa e sulla Spianata delle moschee (Monte del Tempio per gli ebrei), i tentativi di esproprio nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, l’espansione degli insediamenti ebraici, le demolizioni di case di palestinesi, la legge sulla cittadinanza, le confische di terre nel Negev e le violenze della polizia israeliana durante il funerale della giornalista di “Al Jazeera” Shireen Abu Akleh.
  Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano “Jerusalem Post”, Rinawie Zoabi non avrebbe informato nessuno dei leader della coalizione, nemmeno il suo staff, prima della sua decisione. Secondo l’accordo di coalizione, se il governo venisse rovesciato da un parlamentare di Meretz, Bennett rimarrebbe primo ministro provvisorio durante le elezioni e fino alla formazione di un nuovo governo. L’uscita della deputata dalla coalizione di governo darà all’opposizione una maggioranza di 61 seggi contro 59 seggi e potrebbe portare a elezioni in autunno, forse già a metà settembre. Si dice che Bennett, il ministro degli Esteri e leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, e il ministro della Salute e presidente di Meretz, Nitzan Horowitz, siano stati tutti colti di sorpresa dalla decisione di Zoabi.
  La coalizione di Bennett è stata instabile da quando la deputata di Yamina, Idit Silman, ha abbandonato la coalizione lo scorso aprile, privando la coalizione di Bennett della fragile maggioranza. All’inizio di questa settimana, Lapid ha affermato che, sebbene la coalizione avesse le sue sfide, stava funzionando. “Non sto sostenendo che il governo non abbia problemi, ma funziona e funziona alla grande”, ha affermato il ministro degli Esteri e leader Yesh Atid. “E continuerà a funzionare e fare cose buone per lo Stato di Israele fintanto che i partiti che compongono la coalizione agiranno in modo responsabile”, ha aggiunto.

(Agenzia Nova, 19 maggio 2022)

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Israele, inizia la ripresa: in un mese cinquemila arrivi dall’Italia

"Abbiamo lavorato con grandissimo impegno per arrivare a questo dato straordinario e a questo traguardo”. Kalanit Goren, direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano (nella foto), commenta con soddisfazione i dati di aprile relativi all’inbound in Israele e che parlano di 207.400 arrivi turistici (contro i 30.200 di aprile 2021 e i 405mila di aprile 2019), di cui 5.000 dall'Italia.

• CIFRE IN AUMENTO
  Numeri che confermano il trend di ripresa del turismo verso Israele, con un aumento significativo rispetto ad aprile 2021 e una diminuzione solamente del 49% rispetto allo stesso mese del 2019. Il ritmo degli ingressi turistici a oggi rappresenta la base per valutare le previsioni di passaggio da 1,5 a 2 milioni di ingressi nel 2022.
  “Il nostro grazie più sincero – sottolinea la direttrice - va a tutti gli operatori del turismo che hanno voluto sempre lavorare al nostro fianco e ai colleghi della stampa e del mondo dei media che sempre, con grande impegno, hanno tenuto vivo l'interesse verso la nostra destinazione".

• STOP AI TEST D'INGRESSO
  Intanto si allentano sempre di più le misure anti-Covid e da venerdì saranno eliminati il test Pcr molecolare e il conseguente isolamento in aeroporto e anche il test antigenico in ingresso con validità 24 ore prima della partenza. I due test, antigenico dall'Italia e Pcr in Israele, saranno obbligatori solo fino alle 24 del giorno 20 maggio. 
  Per quanto riguarda le mascherine, anche se non sono più obbligatorie in Israele, andranno indossate a bordo dei voli internazionali fino al 23 maggio.
  Rimane invece in vigore l'obbligo di compilare per entrare in Israele, via aerea o marittima,  il modulo di ingresso previsto dal Ministero della Salute.

(TTG Italia, 19 maggio 2022)

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L’alveare hi-tech che salva le api grazie all’AI

In un kibbutz israeliano l’intelligenza artificiale è diventata la principale alleata degli apicoltori. Il sistema ideato dalla startup “Beewise” permette di sapere sempre cosa succede nelle arnie tramite un sistema di sensori che sorvegliano 24 ore su 24 gli insetti.
  “Il nostro software sa di cosa hanno bisogno le api – spiega Netaly Harari di Beewise – gli alveari hanno temperature regolabili, si possono eliminare i parassiti, persino estrarre il miele da remoto tramite una centrifuga. Se si verifica un problema l’apicoltore viene avvisato tramite un’applicazione e può intervenire da remoto”.
  Questi interventi tempestivi servono a ridurre la mortalità di una specie fondamentale fra gli impollinatori da cui dipende il 70% delle colture, ma in pericolo a causa di molte minacce ambientali a partire dai pesticidi e dai cambiamenti climatici.

(askanews, 19 maggio 2022)
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Sull'onda dei formidabili risultati scientifici ottenuti, presto arriverà un annuncio orwelliano di questo tipo: "Il sistema ideato dalla startup 'Panopticon' permette di sapere sempre cosa succede nelle città tramite un sistema di sensori che sorvegliano 24 ore su 24 i cittadini". A Bologna hanno già cominciato a fare i primi esperimenti. M.C.

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Dalla storia alle stories: perché Liliana Segre invita Chiara Ferragni al Memoriale della Shoah 

di David Zebuloni

L‘attualizzazione della Memoria, senza il suo snaturamento, è forse la sfida più complessa ed impellente della nuova generazione. Se in passato bastava raccontare le atrocità della Seconda Guerra Mondiale e la tragicità delle persecuzioni naziste, oggi il racconto fine a se stesso pare non bastare più. Già a metà del novecento, il sociologo Marshall McLuhan aveva divulgato una teoria tanto semplice quanto memorabile: il medium è il messaggio. Ovvero, non basta curare i contenuti del proprio messaggio, ma bisogna anche curarne la modalità di trasmissione. O in altre parole, non basta fare attenzione a ciò che si dice, ma bisogna anche prendere in considerazione il mezzo attraverso il quale le parole arrivano all’ascoltatore. Nel 2022, dunque, la profezia di McLuhan sembra avverarsi appieno. Oggi, il racconto dei testimoni oculari al nefasto nazista, infatti, necessita sempre più di un filtro che lo permetta di arrivare ai millenials.
  Il filtro di TikTok, per esempio, che in Israele nell’ultimo anno ha permesso a molti sopravvissuti di trasmettere la propria storia ai più giovani in piccole pillole, brevi filmati dalla lunghezza di un minuto, sulla piattaforma più social del momento. Incapace di assistere ad una vera e propria testimonianza (o forse semplicemente maldisposta), la generazione Z ha chiesto ai portavoce della Memoria di adattarsi alle proprie esigenze e ha invitato gli influencer ad intermediare per loro. Avviene così l’incontro apparentemente improbabile tra Shoah e Instagram. Un incontro tra passato e presente, tra il racconto dettagliato della storia e quello approssimativo delle stories. Così attenta a questi passaggi generazionali, Liliana Segre, che da sempre si definisce nonna di chi la ascolta e oggi dimostra di esserlo davvero, non esita a convocare la corrispettiva Senatrice a Vita dei social media: Chiara Ferragni.
  “Mi piacerebbe molto incontrare Chiara Ferragni e invitarla a visitare con me il Memoriale della Shoah di Milano. Ho visto che si è impegnata con il marito su diversi temi di importanza sociale, è sicuramente una donna attenta anche ad argomenti diversi da quelli che riguardano il suo lavoro legato alla moda”, ha spiegato una delle ultime voci della Memoria italiana. La Ferragni e suo marito Fedez, infatti, si sono spesso mostrati sensibili ad alcune tematiche non necessariamente in linea con i temi caldi del mondo rosa dei social. La loro visita agli Uffizi di Firenze, per esempio, ha portato al museo una crescita esponenziale del 24% di visitatori sotto i 25 anni. Un dato importante che non è passato inosservato, certo non agli occhi vigili di Liliana Segre.
  Non essendo mai più tornata ad Auschwitz, d’altronde, la Senatrice a Vita ha trovato nel Binario 21 un luogo nel quale ricordare la propria tragedia personale, condividendone poi il ricordo con migliaia di giovani e meno giovani, che ogni anno vengono a visitare il luogo in cui l’infanzia di Liliana è stata definitivamente interrotta. In questo meandro oscuro nelle viscere della Stazione Centrale di Milano, il 30 gennaio del 1944, infatti, Liliana bambina venne caricata su un vagone bestiame insieme al papà Alberto e spedita verso un’ignota destinazione, rivelatasi poi essere l’inferno in terra di Auschwitz-Birkenau. Proprio questa settimana, insieme al rinomato regista Ruggero Gabbai, la sopravvissuta ha girato un breve film nel quale ha raccontato la scoperta di questo luogo dell’orrore e il suo desiderio che esso diventi un luogo di riflessione per ogni giovane d’Italia.
  Un desiderio espresso anche a Chiara Ferragni che, da parte sua, non ha ancora risposto all’invito. Il marito Fedez, invece, ha immediatamente ribattuto con una controproposta, come se fosse all’asta. “Sarei felice di invitare la senatrice Liliana Segre al nostro podcast Muschio Selvaggio, spero possa accogliere il nostro invito”, ha proposto su Twitter.
  Se vedremo dunque l’influencer del momento attraversare l’imponente scritta INDIFFERENZA incisa nella pietra a caratteri cubitali all’entrata del Memoriale, non è ancora certo. Se la Senatrice a Vita si siederà di fronte al microfono del Muschio Selvaggio, non possiamo ancora saperlo. Se tutta questa storia porterà davvero più giovani a visitare il luogo della storia, è ancora tutto da vedere. Una sola cosa è certa: la voce di Liliana Segre non ha bisogno dei filtri di Instagram per arrivare ai cuori di chi la ascolta.

(Bet Magazine Mosaico, 19 maggio 2022)
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Se è vero che "la voce di Liliana Segre non ha bisogno dei filtri di Instagram per arrivare ai cuori di chi la ascolta", perché non si trova qualcuno che glielo sappia far capire? Si fa un utile servizio alla memoria della Shoah trasportando l'icona "Liliana Segre" in mezzo al popolo come fosse la venerabile personificazione di quella catastrofe? Se la risposta è no, si spera che questo sia fatto notare da chi sinceramente ama gli ebrei e Israele, per non dare altri argomenti a  coloro che li odiano. M.C.

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Siria: l’uso degli S-300 contro l’aviazione israeliana cambia i rapporti tra Mosca e lo Stato ebraico

La notizia è stata riportata dall’emittente “Channel 12” e conferma un deciso cambiamento di Mosca nei confronti dello Stato ebraico.

Israele avrebbe per la prima volta subito una risposta della Russia durante un recente raid aereo in Siria. La notizia è stata riportata dall’emittente “Channel 12” e conferma un deciso cambiamento di Mosca nei confronti dello Stato ebraico. L’episodio sarebbe avvenuto la notte del 13 maggio, quando durante un raid aereo dell’aviazione israeliana nel nord ovest della Siria nei pressi della città di Masyaf, i caccia israeliani sono stati investiti da missili S-300 avanzati. Secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, l’attacco israeliano ha provocato cinque morti e sette feriti, mentre non vi sarebbero state conseguenze per velivoli israeliani.
  In questi anni, Israele e Russia hanno mantenuto un accordo de facto che consentiva ai caccia dello Stato ebraico di colpire obiettivi di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione iraniana in Siria, senza essere bersaglio dei sistemi anti-aerei avanzati consegnati da Mosca al regime di Damasco, ma attivabili solamente con il consenso russo. Solitamente la contraerea siriana tenta di colpire i caccia israeliani con sistemi più antiquati, ad esempio sistemi Pantsir S-2, di fabbricazione sovietica, solitamente inefficaci nel contrastare gli attacchi israeliani. Tuttavia, questa volta anche le batterie S-300 hanno aperto il fuoco mentre i jet stavano lasciando l’area d’attacco, ha riferito “Channel 12”, che sottolinea come le batterie S-300 siriane sono azionate dall’esercito russo e non possono fare fuoco senza la loro approvazione. I velivoli sono comunque riusciti ad eludere le difese antiaeree, probabilmente grazie alle contromisure elettroniche di cui sono dotati i caccia dell’aviazione israeliana.
  Se confermato, tuttavia, ciò segnerebbe il primo utilizzo degli S-300 contro l’aviazione israeliana in Siria e, come sottolinea il quotidiano israeliano “The Times of Israel” sarebbe uno sviluppo preoccupante per Israele, che ha effettuato centinaia di attacchi aerei all’interno della Siria a partire dal 2011, prendendo di mira le spedizioni di armi dirette al gruppo terroristico Hezbollah, sostenuto dall’Iran, in Libano e ad altri siti collegati all’Iran. L’area di Masyaf è situata nella provincia di Hama e dista circa 45 chilometri dalla base navale di Tartus, gestita dalla Russia, e meno di 50 chilometri dal confine con il Libano. Secondo Israele, la zona è utilizzata come base per le forze iraniane e le milizie filo-iraniane ed è stata più volte presa di mira negli ultimi anni in attacchi attribuiti a Israele. Le immagini satellitari scattate dopo il raid e pubblicate dai media israeliani mostrano una struttura sotterranea completamente distrutta.
  Al momento le Forze armate israeliane non hanno commentato le notizie riguardanti l’incidente. L’impiego degli S-300 contro i caccia israeliani giunge nel pieno di un deterioramento dei rapporti tra Israele e Russia seguito all’invasione dell’Ucraina. Israele ha cercato di mantenere dopo l’inizio delle operazioni militari russe in territorio ucraino lo scorso 24 febbraio una postura bilanciata tra Kiev e Mosca. I rapporti sono stati però fortemente compromessi dopo le dichiarazioni giudicate antisemite rilasciate dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, che in un’intervista rilasciata lo scorso primo maggio all’emittente italiana “Rete 4” ha dichiarato: “Lui (il presidente Zelensky) avanza un argomento, ‘che tipo di denazificazione possiamo avere se sono ebreo?’ Se ricordo bene, potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva origini ebraiche quindi non significa assolutamente nulla. Da qualche tempo sentiamo dire dal saggio popolo ebraico che i maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”. Le dichiarazioni di Lavrov hanno sollevato un’ondata di critiche e di condanne da parte di Israele, facendo per la prima volta prendere una posizione anche al premier Naftali Bennet (che fino ad allora aveva evitato di condannare esplicitamente Mosca) e al presidente Isaac Herzog. Il 5 maggio il presidente russo Vladimir Putin avrebbe espresso le sue scuse in una conversazione telefonica con Bennett, ma tale episodio ha fortemente compromesso le relazioni tra i due Paesi.
  La Russia, uno stretto alleato del siriano Bashar Assad, ha forze basate e operanti in Siria. Oltre a fornire alla Siria le sue difese aeree, Mosca mantiene anche sistemi di difesa aerea S-400 all’avanguardia per proteggere le proprie risorse in Siria, ma non li ha mai rivolti agli aerei israeliani. Senza menzionare specificamente l’incidente, lo scorso 16 maggio, il ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato che Israele non si sarebbe lasciato scoraggiare e ha promesso di impedire all’Iran di trasferire “capacità avanzate” ad altre entità in Siria. “Lo Stato d’Israele continuerà ad agire contro qualsiasi nemico che lo minacci e impedirà il trasferimento di capacità avanzate dall’Iran che mettono in pericolo i cittadini di Israele e danneggiano la stabilità dell’intera regione”, ha detto Gantz durante una visita al Comando settentrionale dall’esercito.
  Israele ha accusato a lungo l’Iran di trasferire munizioni avanzate al gruppo terroristico libanese Hezbollah, attraverso la Siria. Negli ultimi anni Israele e Russia hanno istituito una cosiddetta hotline di “deconflitto” per evitare che le parti giungano in uno scontro diretto accidentalmente sulla Siria come avvenuto nel settembre 2018, quando durante un raid dell’aviazione israeliana nella provincia di Latakia, la contraerea siriana abbatté per errore un aereo cargo Il-20, che secondo Mosca sarebbe stato impiegato come “scudo” dal gruppo d’attacco formato da quattro caccia F-16 israeliani. Durante l’incontro a Sochi avvenuto nell’ottobre 2021, il primo ministro Naftali Bennett e il presidente russo Vladimir Putin hanno convenuto che le due nazioni avrebbero continuato ad attuare tale meccanismo. Bennett ha affermato all’epoca che il rapporto di Israele con la Russia è di natura “strategica”, notando l’importanza di un coordinamento con le Forze armate russe. L’ex primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato Putin in più occasioni per discutere la questione e ha sempre affermato che il loro rapporto personale era il fattore principale per mantenere il meccanismo in atto. Nel 2018, la Russia ha fornito gratuitamente l’avanzato sistema di difesa aerea S-300 alle forze armate siriane, trasferendo tre battaglioni con otto lanciatori ciascuno al regime di Assad nonostante le forti obiezioni di Israele e degli Stati Uniti. La consegna del sistema S-300 da parte della Russia alla Siria è avvenuta proprio dopo l’abbattimento dell’Il-20 sui cieli di Latakia.

(Agenzia Nova, 18 maggio 2022)


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Fuoco russo contro gli aerei di Israele: i rischi di un nuovo scontro in Medio Oriente

di Ugo Volli

• L’INCIDENTE
  Domenica scorsa è accaduto un episodio nel cielo sopra la Siria, che può essere un incidente isolato o cambiare profondamente la situazione strategica del Medio Oriente, con ripercussioni fino all’Ucraina e all’Europa del Nord. Si tratta di questo: un sistema antiaereo SS300 russo, di proprietà della Siria, ha sparato agli aerei di Israele impegnato in una missione di bombardamento di materiali iraniani in territorio siriano. La Siria cerca sempre e sempre senza successo di contrastare le azioni dell’aviazione israeliana, ma lo fa con le armi arretrate di cui dispone direttamente. Gli SS300 sono molto più avanzati (anche se non si tratta dell’ultima generazione: la Russia ha già fornito a Iran e Turchia degli SS400, più avanzati, e sta sperimentando i 500), e però la Russia non permette ad Assad di usarli senza operatori russi, tenendoli dunque sotto il suo controllo. In sintesi, quel che è successo è che i russi hanno sparato agli aerei israeliani.

• L’ASSEDIO IRANIANO
  Per capire il significato di questo fatto, bisogna fare un paio di passi indietro. La prima premessa è che l’Iran ha deciso da decenni che il suo principale bersaglio militare dev’essere Israele e per questo sta lavorando ininterrottamente per rafforzare i suoi nemici, armando soprattutto di missili di precisione Hezbollah e Hamas, ma anche cercando di costruire uno schieramento militare suo, il più possibile vicino allo stato ebraico. In Libano è difficile, perché ci sono le forze internazionali che lo noterebbero, e comunque c’è già Hezbollah. In Giordania e in Egitto non si può: sono paesi schierati con l’Occidente. Dunque il teatro del tentativo iraniano è la Siria. Di qui passano le armi per Hezbollah e quelle per la minaccia iraniana diretta, centrata sul Golan.

• LA CAMPAGNA FRA LE GUERRE
  Dopo la guerra civile la Siria non conta nulla, è una colonia condivisa da Russia e Iran. E perciò è diventata la base logistica per la guerra dell’Iran contro Israele. Il quale reagisce bombardando i concentramenti e le fabbriche d’armi iraniane, e talvolta anche direttamente i suoi comandi, solo però in territorio siriano o al massimo in qualche caso anche in Iraq vicino al confine con la Siria. Ci sono state migliaia di missioni negli ultimi dieci anni, con perdite ingenti per l’Iran, Hezbollah e anche la Siria. E’ la “campagna fra le guerre”, come la chiama Israele

• L’ACCORDO FRA ISRAELE E RUSSIA
  La Siria fa pressione sulla Russia perché fermi l’aviazione israeliana con le sue armi avanzate. La Russia non ci ha provato, perché non vuole essere coinvolta in una guerra con Israele, dove vivono un milione di russofoni e dove Netanyahu ha saputo costruire un buon rapporto con Putin, mantenuto in parte da Bennett. E forse anche perché non è sicura di riuscirci. Ci sono stati degli incidenti, come quando anni fa l’antiaerea siriana, mirando a jet israeliani, ha abbattuto un aereo da trasporto russo, e i russi hanno accusato Israele di averlo usato come schermo. Ci sono stati dichiarazioni minacciose, e incontri diretti fra Putin e Netanyahu. Alla fine l’accordo ha retto, c’è una linea rossa fra i comandi militari per evitare equivoci; gli israeliani non hanno mai colpito i militari russi in Siria e i russi non hanno mai provato a sparare i loro missili contro l’aviazione di Israele. Fino a domenica scorsa.

• LE CONSEGUENZE
  Potrebbe essere stato un errore nella catena di comando, o uno sfogo di rabbia per la difficile situazione internazionale. Oppure potrebbe essere stato un avvertimento dell’impazienza della Russia per lo schieramento israeliano dalla parte dell’Ucraina (anche se questa presa di posizione di Israele è stata realizzata con tutte le prudenze necessarie per chi ha l’esercito russo proprio a due passi, su un confine dove c’è già un nemico in armi, l’Iran). O potrebbe essere stato un cambio di politica da parte russa, che implicherebbe per Israele la scelta difficilissima se smettere di contrastare la preparazione militare iraniana in Siria o sfidare direttamente la Russia. Ma non è detto che Putin voglia arrivare a questo. Perché non è affatto certo che le forze armate russe in Siria siano superiori a quelle israeliane (anche se sullo sfondo c’è sempre la minaccia nucleare) e soprattutto che sia conveniente per la Russia aprire un secondo fronte in Medio Oriente. E però la razionalità del Cremlino in questo momento non si può dare per scontata. Certamente le diplomazie e i servizi sono in azione per scongiurare lo scontro, che non conviene a nessuno. Ma il rischio c’è e potrebbe svilupparsi in una guerra regionale che coinvolgerebbe subito anche l’Iran, dilagando nella regione. I prossimi giorni diranno se l’equilibrio degli ultimi anni terrà e Israele potrà continuare a difendersi dall’assedio dei suoi nemici (e in questo caso non si saprà niente, semplicemente tutto andrà avanti come prima), o se vi saranno altri sviluppi pericolosi.

(Shalom, 18 maggio 2022)

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Israele simula l’attacco all’Iran. E a sorpresa ci sono anche gli USA

Più che una esercitazione sembra una prova generale per l’attacco all’Iran

Una esercitazione senza precedenti che simula l’attacco all’Iran e che coinvolge decine di jet e, udite udite, vede la partecipazione anche degli Stati Uniti con gli aerei cisterna.
  Sembra proprio un messaggio all’Iran quello che Israele e Stati Uniti stanno mandando con questa esercitazione che prenderà il via nei prossimi giorni, praticamente in contemporanea con l’esercitazione terrestre (contro Hezbollah) denominata “Chariots of Fire”.
  La novità sostanziale è proprio la partecipazione degli Stati Uniti in una esercitazione dichiaratamente dedicata ad un attacco alle centrali nucleari iraniane.
  La stessa cosa non avvenne una decina di anni fa quando tutto faceva pensare che Israele stesse per attaccare l’Iran e portò avanti una esercitazione molto simile a questa.
  Questa volta invece gli Stati Uniti partecipano con aerei cisterna che hanno il compito di rifornire le decine di jet che – teoricamente – dovrebbero insinuarsi in profondità nel territorio iraniano per colpire gli obiettivi.
  Più che una esercitazione assomiglia a una prova generale visto che non mancano certo i segnali che Israele sia sul punto di colpire effettivamente l’Iran.
  Nell’ultimo anno l’esercito israeliano ha studiato tutti gli scenari possibili in caso di attacco all’Iran prendendo tutti i provvedimenti necessari per eventuali ritorsioni da Hezbollah e/o Hamas. L’esercitazione Chariots of Fire mira proprio a simulare la difesa del confine nord.
  Domani il Ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, sarà al Pentagono probabilmente per discutere con il suo omologo americano gli scenari di un attacco all’Iran.
  Probabilmente per lo stesso motivo ieri è arrivato in Israele Michael Kurilla, capo del Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM), che sovrintende alla cooperazione militare USA-Israele.

• L’ATTACCO ALL’IRAN
  Gli esperti militari sostengono che oltre a dover trovare il modo di colpire le strutture iraniane sepolte in profondità nel sottosuolo, che richiedono munizioni e tattiche specializzate, l’IAF dovrà fare i conti con difese aeree iraniane sempre più sofisticate per condurre un tale attacco.
  L’aviazione dovrà anche prepararsi per la più che probabile rappresaglia contro Israele da parte dell’Iran e dei suoi alleati nella regione.
  Ieri Gantz ha ammonito che «il prezzo per affrontare la sfida iraniana a livello globale o regionale è superiore a quello di un anno fa e inferiore a quello che sarà tra un anno». Un modo per dire che bisogna fare presto e che l’attacco potrebbe essere davvero imminente.

(Rights Reporter, 18 maggio 2022)

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Per la prima volta in 50 anni, il Ciad dà il benvenuto al primo ambasciatore israeliano

Ben Bourgel e
Mahamat Idriss Deby Itno
Il paese africano del Ciad ha accettato le credenziali del suo nuovo ambasciatore israeliano, segnando il continuo sviluppo dei legami tra le nazioni circa cinque decenni dopo la loro rottura.
  ;Ben Bourgel, che funge da ambasciatore in numerose nazioni africane, tra cui Senegal e Gambia, è stato ricevuto in una cerimonia supervisionata dal presidente del Ciad Mahamat Idriss Deby Itno.
  ;L’ambasciata israeliana in Senegal ha definito l’evento “un punto di riferimento importante” e ha affermato che “l’ambasciatore Bourgel e il suo team lavoreranno per rafforzare la cooperazione tra i due paesi in aree di interesse comune come il cambiamento climatico, l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche e la salute. ”
  ;Israele e Ciad hanno ristabilito le relazioni nel 2019, a seguito delle visite di stato reciproche del defunto presidente del Ciad Idriss Deby – il padre di Mahamat, ucciso durante una visita alle truppe in prima linea nel 2021 – e dell’allora primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Israele ha inquadrato la sua distensione con il Paese a maggioranza musulmana come parte di un’apertura più ampia verso il mondo arabo e islamico, che ha incluso la normalizzazione dei legami con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco nel 2020.
  ;Israele e Ciad ebbero relazioni amichevoli negli anni ’60 dopo che alla nazione centro-settentrionale fu concessa l’indipendenza dalla Francia. Ma, come molti dei suoi vicini sub-sahariani, il Ciad ha interrotto i legami con lo stato ebraico all’inizio degli anni ’70, a causa delle pressioni del defunto sovrano libico Muammar Gheddafi.

(Bet Magazine Mosaico, 18 maggio 2022)

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A Taranto riemerge un sepolcreto ebraico sotto Palazzo degli Uffici

Si tratta di tre tombe integre con gli scheletri ancora in situ, ora al lavoro per definire il progetto di recupero: resti venuti alla luce durante la ristrutturazione.

di Giuseppe Mazzarino

TARANTO - II sepolcreto ebraico sotto il Palazzo degli Uffici di Taranto tornerà alla luce. L’importante testimonianza, unica traccia contestualizzata della presenza in Taranto della più antica colonia ebraica al mondo dopo la diaspora (la deportazione degli Ebrei decretata da Tito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C.) sarà preservata e resa visibile. Nel progetto esecutivo per la ristrutturazione e «rifunzionalizzazione» del Palazzo degli Uffici, che l’ultima amministrazione ha voluto ribattezzare Palazzo Archita (dal nome della prima scuola di Taranto, che ebbe Aldo Moro come studente, e dove sarebbe doveroso reinsediare un cospicuo nucleo del liceo Archita, che celebra quest’anno il 150° anniversario), si dovrà tener conto della necessità di saggi archeologici nel corridoio dove, nel 2006, la Soprintendenza di Taranto rinvenne tre tombe (con scheletri ancora in situ) di V – VI secolo d.C. scavate nel banco di carparo. Ne riferì Antonietta Dell’Aglio, chiedendo un supplemento di ricerche. Complici le varie interruzioni della ristrutturazione, non se ne fece nulla. Inevasi anche i reiterati appelli lanciati dalla «Gazzetta» per preservare il sepolcreto.
  In vista della sentenza del Consiglio di Stato che a giorni dovrebbe finalmente dirimere una lunga controversia sulla titolarità della progettazione, la questione sepolcreto è tornata di attualità, giocata stavolta su una scacchiera più ampia, col diretto coinvolgimento del Rabbinato italiano.
  Perché l’affaire tombe ebraiche non presenta solo aspetti archeologici e storici. Per la religione ebraica (per inciso, una delle confessioni che ha sottoscritto intese con la Repubblica Italiana, con previsione di tutela dei cimiteri e di tutti i beni «afferenti al patrimonio storico e artistico, culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell'ebraismo italiano») la traslazione di cadaveri è un sacrilegio; i resti umani spostati dalle loro tombe vanno riportati, se possibile, nel luogo di inumazione originario, e comunque non possono rimanere insepolti in un deposito, dove furono trasportati dopo i sondaggi del 2006. È una «scoperta» emersa nel corso di un recentissimo sopralluogo nell’area del Palazzo degli Uffici interessata al sepolcreto.
  In seguito alla nuova pubblicazione di articoli sull’area cimiteriale (apparsi anche su Shalom, rivista della Comunità ebraica di Roma) ed a colloqui intercorsi fra il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la soprintendente di Taranto, Barbara Davidde, è stata disposta una visita all’abbandonato cantiere del palazzo: accompagnati dalle archeologhe Laura Masiello e Stefania Montanaro, il Rabbino Chizkiya Kalmanowitz, del Comitato europeo per la protezione dei cimiteri ebraici ed il restauratore Amir Genach hanno accertato lo stato dei luoghi, verificato la più che probabile presenza sotto il pavimento di altre sepolture ebraiche e richiesto un piano di scavi e sistemazione del sepolcreto. Una possibilità è creare un’area visibile di sepolcreto che consenta comunque la utilizzazione del corridoio e delle stanze adiacenti; area nella quale sarebbe possibile, peraltro, collocare le lapidi ebraiche conservate dalla Soprintendenza (altre sono al MArTA). Oltre all’indiscutibile valore storico-archeologico, ed al rispetto per la dignità dei resti umani e per le norme religiose ebraiche, la creazione di questa piccola ma significativa area cimiteriale visibile avrebbe un valore turistico non indifferente.
  Ovunque si trovino nel mondo, gli Ebrei sono legatissimi alle testimonianze materiali della diaspora, e ne visitano i luoghi, specie i più antichi. E secondo una tradizione risalente al Medio Evo, Taranto sarebbe stata la prima città nel mondo ad ospitare dopo la «dispersione» una colonia ebraica; ben integrata; lo dimostra anche il rinvenimento nel sepolcreto in uso dal IV al IX secolo d.C. di lapidi ebraiche bilingui (Greco ed Ebraico; poi Latino ed Ebraico) accanto a sepolture cristiane e tombe bizantine: i due cimiteri dovevano essere contigui. L’area fu abbandonata all’inizio del X secolo, quando Taranto fu distrutta dai Saraceni. Con la ricostruzione di fine X secolo la città si restringe nell’antica acropoli, quasi un’isola; la Giudecca è nel quartiere Turripenne, e la cultura ebraica è fiorente. Con gli Angiò, seconda metà del XIII secolo, iniziò una forte pressione su musulmani ed israeliti perché si convertissero.
  Nel 1492 i Re cattolici cacciano gli Ebrei dalla Spagna; molti si rifugiano nel Regno di Napoli, ma con la conquista spagnola inizia la fine. Nel 1541, per decreto di Carlo V, la definitiva cancellazione delle comunità ebraiche nel Mezzogiorno; chi non si converte, fugge.
  Della comunità ebraica tarantina, a differenza di altre pugliesi (Oria, Trani, e per tracce Manduria), si perderanno le tracce, fino a sparsi rinvenimenti e studi recenti (fondamentali quelli di Cesare Colafemmina). Il quartiere Turripenne, dove le tracce ebraiche erano comunque poco documentate, fu raso al suolo negli anni ’30 del ‘900, per il «risanamento» della Città Vecchia.
  Ecco quindi che riprendere le ricerche nel Palazzo degli Uffici, e preservare e rendere visibile il sepolcreto ebraico, diventa fondamentale anche dal punto di vista storico ed archeologico. Senza trascurare la necessità di salvare quel che resta del cimitero, anche per provvedere, come ricorda il Rabbino Kalmanowitz, alla sepoltura secondo le norme ebraiche di «quegli sfortunati il cui ultimo riposo è stato terribilmente disturbato».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 maggio 2022)

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Il documentario pro Hamas narrato dalla voce di Kate Winslet

di Paolo Castellano

Eleven Days in May
La propaganda di Hamas nei migliori cinema d’Inghilterra. In questi giorni, in alcune sale inglesi, è in programmazione il documentario Eleven Days in May dedicato alla morte di 60 bambini palestinesi durante l’escalation militare avvenuta un anno fa tra Israele, Hamas e altri gruppi terroristici di Gaza. Il docu-film è stato realizzato dai registi Michael Winterbottom e Mohammed Sawwaf – quest’ultimo convinto sostenitore di Hamas -, e ospita la voce narrante dell’attrice premio Oscar Kate Winslet.
  Come riporta The Jewish Chronicle, il lungometraggio è stato criticato per la matrice propagandistica che omette scientemente i fatti chiave del conflitto scoppiato lo scorso maggio, risparmiando critiche ad Hamas senza menzionare le migliaia di missili mandati su Israele da Gaza (si parla solo di 7 lanciati su Gerusalemme), che sono stati la causa scatenante del conflitto, nonché i baby soldato utilizzati dai miliziani della Striscia di Gaza.
  In passato il co-regista di Eleven Days in May, Mohammed Sawwaf, è stato anche premiato da Hamas per aver contrastato “la narrativa sionista” con le sue opere. Inoltre, la stampa israeliana, ha raccolto diversi post su Twitter che Sawwaf ha scritto contro Israele, augurando la distruzione dello Stato ebraico “dal fiume al mare”. Il documentarista palestinese ha pure frequentato l’Università Islamica di Gaza che come è noto si trova sotto il controllo di Hamas
  Per di più, l’altro regista, l’inglese Winterbottom, è stato criticato per non aver mai messo piede a Gaza durante le riprese del docu-film. Non è stata risparmiata nemmeno Kate Winslet che per mezzo del suo avvocato ha rilasciato una dichiarazione in merito.
  «Il regista, Michael Winterbottom, mi ha invitato a raccontare un documentario che stava realizzando con il supporto di Unicef e Oxfam sull’impatto della guerra sui bambini. In questo caso sui bambini palestinesi».
  «Che la mia partecipazione a questo film possa essere interpretata come una presa di posizione pubblica sui diritti e torti di uno dei conflitti più tragici e complessi del mondo non era nelle mie intenzioni. La guerra è una tragedia per tutti quanti. I bambini non hanno voce in un conflitto. Volevo semplicemente prestargli la mia».

(Bet Magazine Mosaico, 18 maggio 2022)

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Bei rafforza sua presenza in Israele e nei Territori

Vigliotti, Banca apre ufficio a Gerusalemme

di Massimo Lomonaco

TEL AVIV - La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) rafforza la sua azione in Israele e nei Territori Palestinesi, Gaza compresa.
  Un intervento che, dal 1981, ha già visto l'impiego di oltre 2.4 miliardi di euro di investimento al pubblico e al privato in Israele, Cisgiordania e Gaza.
  Ora, per la prima volta dall'avvio della pandemia, una delegazione di alto livello della Bei è arrivata nella regione per mettere a punto i nuovi piani. "Stiamo intervenendo - ha detto all'ANSA la vicepresidente della Bei Gelsomina Vigliotti - per assicurare che le attività commerciali locali e gli imprenditori possano creare lavoro, in particolare per i giovani e le donne, investire in un futuro migliore e riprendersi dalle sfide del Covid". Molte le iniziative messe in campo nei 6 giorni di visita che ha avuto come obiettivo - ha spiegato Vigliotti - "di stringere ulteriormente la cooperazione con i partner locali e internazionali e massimizzare l'impatto dell'impegno della Bei sul campo".
  A Tel Aviv Vigliotti, a nome della Banca, ha firmato "il primo intervento a favore del Medtech in Israele, attraverso 22 milioni di euro per l'azienda di diagnostica microbiologica Pocared, i cui dispostivi contribuiranno a ridurre la resistenza antimicrobica attraverso diagnosi più veloci e puntuali." Inoltre - ha continuato - abbiamo rafforzato la cooperazione sul clima, sulla innovazione sociale e digitale con l'Autorità dell'Innovazione israeliana". "Voglio ricordare a questo proposito - ha spiegato la vicepresidente - che la Bei è votata ad accelerare lo sviluppo della ricerca che rafforzi la lotta contro le malattie infettive e riduca la minaccia del Covid per i pazienti con condizioni compromesse". Sia in Israele che in Palestina, la Bei - ha annunciato Vigliotti - sostiene "investimenti su larga scala nel settore idrico e nella desalinizzazione" in modo da migliorare l'accesso "all' acqua e affrontare le sfide della sua crescente scarsità a causa dei cambiamenti climatici". In particolare, Vigliotti ha incontrato a Gaza gli inviati dell'Ue a testimonianza dell' impegno collettivo Europeo per un "progetto chiave" quale quello "dell'impianto di desalinizzazione della parte centrale della Striscia che affronta la cronica mancanza di acqua e migliora l'accesso a fonti potabili per 2 milioni di persone"
  Inoltre, "il supporto alla Palestina è stato ulteriormente rafforzato con l'annuncio" di un finanziamento da 200 milioni di euro all' Autorità Monetaria Palestinese. "Si tratta - ha sottolineato Vigliotti - del più grande finanziamento accordato dalla Bei alle istituzioni finanziarie del Paese e ha l'obiettivo di sostenere le piccole e medie imprese locali che potranno beneficiare di prestiti, garanzie, incentivi e assistenza tecnica". L'operatività della Bei nella regione beneficerà della presenza permanente dello staff della Banca dell'Ue presso l'ufficio che il Presidente della Bei Werner Hoyer e Vigliotti hanno inaugurato oggi a Gerusalemme.

(ANSA, 17 maggio 2022)

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Elezioni in Libano, a Beirut un lume si è acceso

La tenue fiamma, dopo il voto di domenica 15 maggio, permette almeno di sperare

di Enrico Franceschini

Il Libano rappresenta un'anomalia in Medio Oriente. È l'unico Paese arabo in cui l'Islam non è la religione dominante: la popolazione è composta da un 28,7 per cento di musulmani sunniti, un 28,4 per cento di musulmani sciiti e un 41 per cento di cristiani, suddivisi tra maroniti, greco-ortodossi, armeni e altre denominazioni, più un 5,2 per cento di drusi, che pur essendo di derivazione sciita non si identificano come musulmani, e altre minoranze.
  Dopo la fine del colonialismo francese, con l'indipendenza raggiunta nella Seconda guerra mondiale, la varietà di fedi e la posizione geografica hanno contribuito a farne una nazione vivace, cosmopolita e dinamica, soprannominata "la Svizzera del Medio Oriente", celebre per la gioia di vivere che faceva chiamare Beirut "la Parigi mediorientale". Era anche una democrazia, altra caratteristica anomala in una regione di rais autocratici.
  I verbi sono al passato, tuttavia, perché da mezzo secolo il Paese dei Cedri è teatro di guerre civili, assassini politici e terrorismo, a cui aggiungere dinastie di politici corrotti: è stato prima il quartiere generale in esilio dell'Olp palestinese di Yasser Arafat, quindi un protettorato della Siria, ora è l'Iran che cerca di controllarlo, sobillando i conflitti delle milizie sciite di Hezbollah contro Israele, in uno dei quali, nel 2006, morì l'ultimo giorno di guerra durante il servizio di leva il figlio del grande scrittore israeliano David Grossman.
  L'esplosione del 2020 nel porto della capitale, provocata da un enorme quantitativo di nitrato di ammonio abbandonato per fini mai stabiliti con certezza, causa di 214 morti e più di 7 mila feriti, ha innescato una crisi economica che da allora ha visto l'80 per cento dei libanesi precipitare sotto la soglia della povertà, la moneta perdere il 40 per cento del valore e l'emigrazione aumentare del 440 per cento. Quel botto spaventoso, che ha lasciato centinaia di migliaia di persone senza casa, è sembrato il segnale che per il Libano non c'è niente da fare: e l'ultimo spenga la luce.
  Adesso a Beirut si è riaccesa una luce. È soltanto un fragile lume, beninteso, nelle tenebre della precarietà e del caos, ma proprio per questo degno di venire sottolineato. Nelle elezioni che si sono tenute domenica 15 maggio, i cui risultati non sono ancora definitivi, il partito di Hezbollah che aveva finora la maggioranza sembra avere tenuto senza aumentare il bacino di consensi, ma hanno perso terreno i suoi alleati cristiani fedeli al presidente della repubblica Michel Aoun e l'alleato druso del presidente, anch'essi legati a Teheran. Ha invece guadagnato seggi il partito cristiano Forza Libanese, appoggiato dall'Arabia Saudita. Un esito che da un lato ripropone nel microcosmo del Libano (6 milioni di abitanti) lo scontro per procura tra Iran e sauditi, tra sciiti e sunniti; dall'altro lascia trapelare lo scontento dei cristiani più in miseria, quelli che vivevano nella zona portuale distrutta dalla deflagrazione.
  Balza agli occhi anche un terzo elemento: la fortissima astensione. Solo il 41 per cento degli elettori è andato alle urne, contro il 55 per cento della votazione precedente: alla vigilia delle elezioni l'ex primo ministro Saad Hariri, leader della comunità musulmana sunnita, aveva esortato a un boicottaggio, per cui anche il non-voto appare come una protesta contro l'establishment identificato soprattutto con Hezbollah, i musulmani sciiti e i loro manovratori iraniani.
  È presto per immaginare che il Libano possa risorgere dalle ceneri. La tenue fiamma accesa dal voto, tuttavia, permette almeno di sperare.

(la Repubblica, 17 maggio 2022)

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Techagriculture, Italia e Israele a Napoli per l'innovazione tecnologica in agricoltura

di Emiliano Caliendo

Il mondo è sull’orlo di una crisi alimentare globale. Una situazione aggravata, ovviamente, dalla guerra tra Russia e Ucraina. Quindi, il meeting tra Italia e Israele dedicato all’innovazione tecnologica applicata all’agricoltura, denominato «Techagriculture, l’agricoltura incontra l’innovazione», tenutosi presso il polo tecnologico dell'Università Federico II a San Giovanni a Teduccio, è servito proprio a offrire soluzioni alle attuali problematiche del settore agroalimentare. Aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime agricole, blocchi dell’export d'interi paesi, rischi di carestia specialmente tra gli Stati importatori come quelli africani, oltre che il blocco dei porti ucraini da parte della Federazione Russa, queste solo alcune delle sfide principali. Il focus dell’iniziativa del 17 e il 18 maggio, che vede come sede dell’evento la città di Napoli, è promuovere il trasferimento di conoscenze e della diffusione delle innovazioni in agricoltura, la sinergia tra il settore primario e il mondo della ricerca e della tecnologia avanzata, di cui Israele è protagonista a livello globale.
  Entusiasta il commento dell’Ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar. «Siamo lieti di essere qui. È un sogno che si realizza davanti ai nostri occhi. Pensavamo a questa conferenza due anni e mezzo fa, quando abbiamo visto i risultati della Cybertech Europe a Roma. Chiesi quindi a Confagricoltura di fare una conferenza simile sui temi dell’agricoltura, delle fattorie digitali, dell’acqua, della botanica, del cibo, dell’energia. Argomenti a cui la gente o i media generalmente non pensano e che costituiscono la base della nostra esistenza». «La pandemia – prosegue il diplomatico - ha bloccato questa iniziativa per due anni. Sei mesi fa l’abbiamo rilanciata. Non pensavamo in quel momento alla crisi tra Russia e Ucraina, che ha provocato una crisi alimentare globale». L’export da Israele all’Italia nel settore agroalimentare è aumentato del 24% nell’ultimo anno, per un ammontare di 65,7 milioni di dollari. Quanto all’import dall’Italia, quest’ultimo ha raggiunto 375,8 milioni di dollari, con un incremento notevole dell’esportazione israeliana di oli e grassi vegetali e animali. Il diplomatico israeliano è ben conscio quindi delle grandi prospettive di cooperazione bilaterale, da ampliare a tecnologie come il monitoraggio delle colture attraverso i sensori, l’automazione della attività agricole, l’agrovoltaico, la gestione dei sistemi di filiera, il trattamento delle acque. «Abbiamo portato qui – sottolinea Eydar - tante aziende israeliane con la tecnologia più avanzata al mondo, che vogliamo condividere con i nostri amici in Italia. Sulla desertificazione, fenomeno a cui stiamo assistendo sia in Europa che in Italia, possiamo dirvi che Israele nonostante abbia due terzi del suo territorio desertificato, è riuscita a farlo fiorire». «Israele – aggiunge - ricicla il 90% delle sue acque. Sono tutte conoscenze che possiamo condividere con voi. Come Ambasciata con Confagricoltura, l’Università Federico II, il Comune e Ministero degli affari esteri, siamo riusciti a realizzare questo sogno. Speriamo di avere buoni risultati».
  Soddisfatto anche il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti. «Questo ponte che oggi parte da Napoli e raggiunge Tel Aviv non è un ponte che unisce due zone di produzione e due modelli agricoli, ma è un ponte che vuole unire tutta l’area mediterranea. Dall’unione d’Italia e Israele vogliamo dare oggi un segnale all’area mediterranea. I due paesi, unendo le loro tecnologie in un momento così difficile, dimostrano che l’agricoltura può produrre di più preservando le risorse naturali e rispondendo alla domanda di sostenibilità, in un momento in cui la crisi alimentare è drammatica». Giansanti però traccia un quadro del settore nazionale che desta diverse preoccupazioni, specialmente se si pensa all’impennata dei prezzi. L’Italia, infatti, importa il 62% del suo fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti, il 35% del grano duro per la pasta e il 46% del mais necessario per produrre il mangime per il bestiame. Se a ciò si somma il fatto che il frumento, in particolare quello duro, «ha raggiunto il picco di prezzo massimo della sua storia» con 500 euro circa a tonnellata, occorre prendere quanto prima contromisure, soprattutto a livello di Unione Europea. «Noi produciamo la quantità di grano che ci serve per fare la pasta – puntualizza Giansanti - non produciamo quella parte di grano che serve per fare il pane. Sono state fatte scelte politiche in Europa che nel corso degli anni che ci hanno portato a produrre sempre di meno. Si tratta di scelte di programmazione fatte ogni cinque anni. Se osserviamo il grafico delle produzioni e quando queste sono scese, mi riferisco alle produzioni di mais e grano tenero, si vede che ogni cinque anni, a seguito di ogni scelta politica, diminuisce la produzione a livello europeo di questi cereali. Si è forse ritenuto farla in altre parti del mondo, fatto sta che abbiamo fatto un errore».
  Sul tema è intervenuto anche il ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli, ospite del meeting: «Ci sono fenomeni speculativi in atto. Il vero errore dell’Europa è stato quello di non garantire la trasparenza dei mercati e non garantire una capacità di valutazione degli stoccaggi. Quando si parla oggi di carenza di materia prima, ricordo che stiamo vendendo il grano raccolto l’anno scorso, non quest’anno. Non c’è un problema di quantità, il problema del prezzo è legato a fenomeni speculativi». Il presidente degli agricoltori italiani Giansanti ricorda tuttavia che «importiamo mais e frumento dalla Francia, pagandolo di più». Un arretramento per il nostro Paese dopo «stagioni in cui veniva incentivata la produzione agricola per rispondere all’esigenza primaria di produrre ciò che serve». C’è dunque un’accusa a Bruxelles: «A un certo punto – rimarca Giansanti - si è deciso che l’agricoltura europea dovesse produrre meno e si è passati dalle eccedenze alla carenza. Siamo passati dal concetto per cui l’agricoltura andava aiutata per produrre, a un modello in cui bisogna aiutare l’agricoltura a non produrre. Il legislatore europeo ritiene che l’agricoltura europea debba tutelare le aree ambientali senza guardare alla parte produttiva. Se immaginassimo un mondo perfetto questo avrebbe anche senso, poi una mattina ci accorgiamo di non avere il grano tenero». «Noi oggi a livello di grano tenero siamo il 4% della produzione europea. Se dovessimo andare all’autosufficienza per produrre il pane, dovremmo scegliere se fare il grano tenero o il grano duro per la pasta. Tutto si può riorganizzare ma dobbiamo modificare le politiche europee, troppo spostate sulla non produzione. Non possiamo continuare a coltivare quello che il mercato non chiede. Dobbiamo invece tornare a coltivare mais, grano, soia». Per cui Giansanti ricorda quanto sia importante la collaborazione tra Italia e Israele «che non nasce solo per acquisire il know-how israeliano». «Ci sono aziende italiane – conclude - che possono dimostrare agli amici d'Israele, quanto abbiamo implementato in termini di ricerca e sviluppo. Siamo passati da 300 milioni d'investimento a 2 miliardi. Presenteremo il caso di una vertical farm alle porte di Milano, costruita in ambiente controllato, un unicum a livello mondiale».
  Si dovrà dunque investire di più in tecnologie. La scelta di Napoli per una conferenza di questo rilievo non è dunque casuale. La città, infatti, ospiterà «il centro nazionale di ricerca Agritech, finanziato grazie al Pnrr», ricorda il sindaco Gaetano Manfredi a margine dei vari tavoli tematici. Grande protagonismo anche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, come evidenzia il rettore Matteo Lorito: «L’Università di Napoli può fornire le intelligenze e le tecnologie. Può scambiare le tecnologie, avvicinando ancora di più i Paesi. Ci avviamo a svolgere un ruolo importantissimo con più di 400 milioni di euro. Sarà come Human Technopole dedicato all’agricoltura. Nuove tecnologie significa meno dipendenza dall’estero sulle materie prime». Hanno partecipato al Techagriculture anche il ministro per il Sud Mara Carfagna e il ministro degli esteri Luigi Di Maio, quest’ultimo in partenza verso New York per un panel alle Nazioni Unite sulla foodsecurity.

(Il Mattino, 17 maggio 2022)

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Il comico Dieudonné condannato in appello in Svizzera per insulti antisemiti e negazionisti

di Michelle Zarfati

Il famoso comico francese Dieudonné è stato recentemente condannato in appello a Ginevra, a causa di alcune affermazioni antisemite fatte durante i suoi spettacoli in Svizzera nel 2019. Dieudonné M'Bala M'Bala, già più volte condannato in Francia per insulti razziali e incitamento all'odio, è stato condannato nel luglio 2021 in primo grado a Ginevra per "discriminazione razziale, diffamazione e insulti". Questa è stata la sua prima condanna in Svizzera.
  La Camera di ricorso e revisione penale di Ginevra ha confermato la sua condanna, obbligandolo al pagamento di una multa di circa 30.600 franchi (28.200 euro). In discussione, in questo caso, sono le osservazioni negazioniste sulle camere a gas che Dieudonné ha realizzato nel corso di un suo spettacolo tenuto dal 4 al 6 gennaio 2019, al Théâtre de Marens di Nyon, e il 28 e 29 giugno 2019, al Center d'animazione cinematografica CAC Voltaire a Ginevra.
  Durante il processo, Dieudonné ha detto che non è stato lui a pronunciare le frasi provocatorie durante lo spettacolo, ma il suo "personaggio". L'argomentazione è stata respinta dal presidente del tribunale di Ginevra e ad anche dalla corte d'appello. Secondo la corte, l'artista ha mostrato “il suo disprezzo per le vittime della Shoah e il suo desiderio di generare polemica” minando “la dignità umana e la pace pubblica”.
  "Non si può ritenere che stesse parodiando un negazionista della Shoah, alla maniera in cui Charlie Chaplin parodiò Hitler (...) in assenza di qualsiasi elemento verbale o di abbigliamento che lo suggerisse", ha scritto il giudice del tribunale Vincent Fournier. Il tribunale di primo grado lo aveva anche ritenuto colpevole di “insulti” nei confronti del Coordinamento intercomunitario svizzero contro l'antisemitismo e la diffamazione (Cicad), per le osservazioni fatte sull'associazione senza scopo di lucro durante lo spettacolo del 28 giugno 2019. L’uomo era stato anche condannato per "diffamazione" per le osservazioni fatte il 22 novembre 2019 sul segretario generale di Cicad, Johanne Gurfinkiel, durante un'intervista su un canale YouTube a Ginevra. Secondo il quotidiano, dovrà pagare anche le spese del ricorso che ammonterebbero a circa 2.195 franchi, non solo anche le spese di difesa (2.638 franchi) di Cicad e del suo segretario generale.
  Sembrerebbe dunque che il comico sia non affatto nuovo ad affermazioni e scenette antisemite. Già nell’agosto 2020 il controverso Dieudonné, era nuovamente finito sotto accusa per i suoi discorsi razzisti, antisemiti e beffardi contro vittime della Shoah. Le affermazioni antisemite gli costarono care: il gruppo di Facebook aveva espulso l’uomo dalle piattaforme social "in modo permanente”; sostenendo che aveva “ripetutamente violato le nostre regole sul discorso dell'odio, pubblicando contenuti che hanno deriso le vittime della Shoah o usando termini disumanizzanti contro gli ebrei", aveva spiegato un portavoce del colosso dei social.
  La decisione della Camera d'appello di revisione penale contro Dieudonné è stata presa il 28 aprile 2022. "Con questa decisione, la Corte di giustizia conferma integralmente la sentenza di primo grado e dichiara Dieudonné colpevole di discriminazione razziale e diffamazione".

(Shalom, 17 maggio 2022)

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I palestinesi si schierarono coi nazisti, e quella fu la loro vera nakba

Chi coltiva una versione parziale e distorta della cosiddetta catastrofe palestinese non fa che alimentare odio e conflitto.

Ci viene detto continuamente che dobbiamo riconoscere la “narrazione” palestinese delle origini del conflitto, per comprendere il loro dolore e aprire la strada alla pace. La verità è che dobbiamo fare esattamente il contrario. La “narrazione” palestinese è già stata ampiamente accolta da molti, nel mondo politico e accademico, e più continuerà a ottenere riconoscimenti più piccole diventeranno le possibilità di pace. Ciò di cui abbiamo bisogno per arrivare alla pace non sono le “narrazioni”, ma i fatti storici.
  Tra coloro che hanno alimentato la “narrazione” palestinese del conflitto figura più di chiunque altro il professore israeliano Ilan Pappé, il più iconico propagandista anti-israeliano di sempre riconosciuto a livello internazionale. Solo pochi giorni fa ha scritto: “La Germania nazista scelse il lato sbagliato della storia, e la Germania di oggi sbaglia ancora una volta a causa del suo sostegno a Israele”. Pappé sembra lanciare una nuova campagna contro il Bundestag mentre lui mira a “cancellare” il diritto ad esistere di Israele. L’abilità manipolatoria di Pappé appare qui davvero notevole: in passato la Germania ha cercato di eliminare gli ebrei; nel presente, Pappé e i suoi seguaci fanno pressione sulla Germania affinché avvalori la propaganda che esorta ad eliminare lo stato ebraico. Pappé promuove i concetti della nakba, commemorata ogni 15 maggio, e nel farlo stravolge completamente la storia....

(israele.net, 17 maggio 2022)

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Israele: cosa fare con la Striscia di Gaza?

La scelta è tra una guerra subito con Hamas senza i missili iraniani, oppure una guerra tra qualche mese con Hamas che avrà gli arsenali pieni di armi iraniane.

di Franco Londei

Cosa deve fare Israele con la Striscia di Gaza e con Hamas? Mentre il mondo attacca Israele per la morte accidentale di una giornalista araba e per tumulti ad un funerale, nessuno fa cenno ai 19 morti israeliani uccisi dai palestinesi negli ultimi due mesi, morti che in diversi casi sono stati rivendicati da Hamas.
  Il leader del gruppo terrorista palestinese che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, è già sicuramente in qualche bunker dopo che a seguito degli attentati contro i civili israeliani rivendicati da Hamas, qualcuno in Israele aveva proposto la sua eliminazione.
  Ma eliminare Yahya Sinwar significa iniziare una guerra con Hamas. Israele è pronto per portarla a termine una volta per tutte? Oppure si fa come al solito, si bombarda una settimana, si danno fiato alle trombe pro-pal e poi si torna indietro come se niente fosse, riattivando i canali umanitari e attivando le linee di credito per la “ricostruzione di Gaza”. Miliardi di dollari che finiscono sempre nelle tasche di Hamas.
   
  • ALLEANZA STRATEGICA TRA IRAN E HAMAS
  In questi giorni il leader di Hamas si è unito al leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah e al dittatore iraniano, Ebrahim Raisi, nell’affermare che il Monte del Tempio è cosa musulmana e che nessun ebreo sarà ammesso in quel luogo, dimenticando che il monte del Tempio è sacro a tutte e tre le religioni monoteiste. Diversamente sarebbe scoppiata una guerra santa.
  Questo che sembra quasi un comunicato congiunto è solo l’ultimo dei segnali che secondo gli analisti dell’intelligence israeliana portano a pensare che Hamas si sta congiungendo in maniera strategica all’Iran e ad Hezbollah, che non è certo una eventualità non prevista dal Dipartimento per la raccolta delle informazioni del Mossad. Tuttavia si ritiene che proprio Yahya Sinwar abbia impresso una forte accelerazione a questa alleanza strategica.
  La questione non è da poco perché fino ad oggi Hamas si era ben guardato dall’avvicinarsi troppo agli sciiti iraniani preferendo rimanere nell’orbita della Fratellanza Musulmana. Un conto è ricevere da Teheran qualche missile o qualche drone ogni tanto, un conto è dar vita ad una alleanza strategica con gli Ayatollah, per di più con l’intenzione di muovere una guerra santa a Israele, un termine che ancora “attizza” tutto il mondo islamico.   
  Quindi, cosa fare con la Striscia di Gaza e con Hamas? Aspettare che questa più che probabile alleanza si consolidi e che migliaia di missili iraniani entrino a Gaza come successo in Libano, oppure chiudere finalmente la pratica Hamas estirpandolo definitivamente dal territorio anche a costo di iniziare una guerra che vedrà tutto il mondo contro Israele?  
  In sostanza, fare la guerra adesso con Hamas che non ha ancora gli arsenali iraniani, o farla tra qualche mese con Hamas che avrà migliaia di missili e droni made in Teheran?
  Con l’Iran si è aspettato troppo e adesso probabilmente non è più possibile fermare la corsa iraniana alla bomba atomica. Vogliamo fare lo stesso errore con Hamas che per di più è a pochi Km da Tel Aviv?

(Rights Reporter, 16 maggio 2022)

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La storia sanguinosa della fabbrica del terrorismo palestinese a Jenin

di Ugo Volli

• JENIN
  Che cosa hanno in comune la morte della giornalista palestinese Shireen Abu Aqleh mercoledì scorso, quella di Noam Raz, agente di un gruppo scelto antiterrorismo della polizia israeliana, venerdì scorso e l’evasione di sei pericolosi terroristi dal carcere speciale di Gilboa, a settembre 2021? Sono episodi diversi, ma in comune hanno un nome, anzi il luogo che questa parola designa, Jenin. Si tratta di una località all’estremità settentrionale dei territori controllati dall’Autorità Palestinese, quindici chilometri a sud di Afula e venti a est di Cesarea. Non ha un passato cospicuo, anche se come ogni posto in Israele vi si trovano tracce di insediamenti ebraici dell’antichità (il suo nome porta ancora la traccia di quello dei tempi del regno di Israele, che era “ein ganim”, sorgente dei giardini e vi sono numerosi resti archeologici nella collina prospicente la città). Ma non vi è successo niente di speciale fino alla guerra di indipendenza del 1948, quando Jenin fu brevemente presa dalle forze israeliane con una dura battaglia e dopo l’armistizio ospitò un campo profughi, che è ancora lì, un quartiere affollato da circa 20 mila abitanti a fianco della città che ne ha in tutto circa 60 mila (l’intera provincia ne ha 330 mila). Fino al ‘67 Jenin era “Cisgiordania”, cioè una parte del mandato di Palestina occupata dal regno di Giordania; poi fu preso da Israele e fu tra le prime località trasferite all’Autorità Palestinese ne 1996.

• LA BASE TERRORISTA
  E’ difficile dire se questo passato sia stato determinante per quel che è diventata la città. Fatto sta che Jenin è diventato il punto più caldo del terrorismo palestinese. Durante la prima ondata terrorista degli anni Novanta, precedente gli accordi di Oslo, nel campo profughi di Jenin c’erano 200 terroristi inquadrati. Dal 2000 al 2003, nella seconda grande ondata di omicidi di massa, almeno 28 attentatori suicidi sono partiti dal campo di Jenin, secondo il conteggio delle autorità di sicurezza di Israele. Essi realizzarono almeno 31 attacchi terroristi, per un totale di 124 vittime. Il campo era del tutto fuori controllo.

• LA “BATTAGLIA DI JENIN”
  Quel periodo terribile si concluse quando il governo israeliano decise di rioccupare provvisoriamente alcune delle città sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, per eliminare i terroristi che vi erano annidati. Fra essi il punto più cospicuo fu proprio il campo profughi di Jenin, che fu riconquistato a duro prezzo: 23 israeliani e 53 palestinesi morirono in quella che fu definita “battaglia di Jenin”. Intorno ad essa si sviluppò una campagna internazionale di diffamazione, che parlò di “stragi”, di “migliaia di morti palestinesi”. La calunnia era lontanissima dai fatti: l’esercito aveva scelto di pagare un prezzo molto alto conquistando le roccaforti terroriste solo con l’uso della fanteria, evitando l’uso di artiglieria ed aviazione per non colpire indiscriminatamente la popolazione. Ma come accade spesso, la calunnia più spudorata ha lasciato tracce nell’ideologia e nella mitologia palestinista in tutto il mondo.

• L’EVASIONE
  Israele non voleva tenere le città arabe e dopo aver eliminato l’infrastruttura terrorista si ritirò di nuovo. A Jenin però continuarono a formarsi numerosi terroristi, abituati a compiere atti di violenza grandi e piccoli. Molti furono arrestati, altri rimasero in clandestinità. Negli ultimi anni è diventato difficile entrare nel campo profughi non solo per le forze israeliane, che lo fanno comunque quando hanno informazioni su ricercati o su depositi d’armi, ma rischiando perdite com’è accaduto venerdì scorso, ma anche per le forze regolari dell’Autorità Palestinese, anche perché il nucleo terrorista principale del campo appartiene alla “Jihad Islamica”, un gruppo terrorista direttamente controllato dall’Iran. Da Jenin provenivano i sei detenuti della prigione di Gilboa che sono evasi clamorosamente a settembre scorso: cinque di essi appartenevano alla Jihad Islamica e uno, il capo, alle “Brigate di Al Aqsa”, che sono l’ala militare di Al Fatah, il partito del dittatore dell’Autorità Palestinese Muhammed Abbas. Costui, che si chiama Zakaria Zubeid, è l’anello di congiunzione con la vecchia generazione della “battaglia di Jenin”, cui aveva partecipato prima di diventare capo delle “Brigate”, alle dirette dipendenze di Abbas.

• GLI ULTIMI FATTI
  Da Jenin e dai dintorni è venuta la maggior parte degli attentatori che hanno insanguinato Israele (19 morti, molti feriti) nell’ultimo mese, per esempio quelli che hanno colpito a Tel Aviv e Bnei Berak. La fabbrica del terrorismo è dunque ancora in funzione ed è necessario andare a prendere chi la anima e la sostiene non solo per assicurarli alla giustizia ma anche per evitare che gli attentati si ripetano. Una di queste difficili missioni è quella che ha preso la vita della giornalista di Al Jazeera, molto probabilmente colpita dal fuoco dei terroristi. E un’altra è costata la vita di Noam Raz. Purtroppo questa vicenda non è conclusa ed è possibile che altro sangue e altri lutti vengano dal furore terrorista che regna a Jenin.

(Shalom, 16 maggio 2022)

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Israele e India lanciano nuovi progetti di cooperazione per l’agricoltura

di Francesco Paolo La Bionda

Il ministro dell’Agricoltura dell’India, Narendra Singh Tomar, si è recato in visita ufficiale in Israele dall’8 all’11 maggio su invito del suo omologo dello Stato ebraico, Oded Forer.
  Durante l’incontro tra i due alla Knesset, in cui si è festeggiato anche il trentennale dall’inizio delle relazioni bilaterali indo-israeliane, sono stati discussi nuovi progetti e modalità di cooperazione in ambito agricolo per svilupparne il potenziale in entrambi i paesi.
  Una delle iniziative previste riguarda la ristrutturazione di settantacinque villaggi indiani, in occasione del settantacinquesimo anniversario dell’indipendenza del gigante asiatico il prossimo anno, che sarà portata avanti insieme a Israele.
  Forer ha espresso inoltre il desiderio di Israele di portare al “livello successivo” i Centri di eccellenza (CoE) istituiti dallo Stato ebraico in diverse parti dell’India. Attualmente in India ci sono infatti ventinove Centri di Eccellenza già operativi, che forniscono informazioni vitali sulle nuove tecnologie per aumentare la resa della produzione agricola.
  Anche le relazioni commerciali tra i due Paesi riceveranno un impulso nel prossimo futuro, ha dichiarato il ministro israeliano. India e Israele hanno concordato di completare il processo di finalizzazione di un accordo di libero scambio entro fine giugno, durante un incontro tra il Ministro degli Affari Esterni Jaishankar e il suo omologo israeliano Lapid nell’ottobre dello scorso anno.
  Durante la visita diplomatica, Tomar ha anche visitato un’azienda agricola di proprietà di un agricoltore di origine indiana, Sharon Cherry, che coltiva ortaggi indiani nel deserto del Negev. Nella sua fattoria modello a Be’er Milka, Cherry ha adottato tecnologie moderne, con il supporto tecnico del Ramat Negev Agro Research Centre, per poter coltivare i suoi prodotti anche in condizioni estremamente difficili come quelle dell’area in cui si trova.

• LA COMUNITA' EBRAICA INDIANA E GLI EBREI INDIANI IN ISRAELE
  Secondo la tradizione, i primi ebrei sarebbero giunti in India nel 562 prima dell’era attuale. Nei secoli successivi, si sono succeduti nuovi arrivi da parte di ebrei giunti da diverse regioni del Medio Oriente e del Mediterraneo. Dopo la fondazione di Israele, buona parte della comunità ha compiuto l’aliyah e oggi 70.000 ebrei di origine indiana vivono nello Stato ebraico, mentre nel paese asiatico ne restano circa 5.000.
  Nel secondo dopoguerra si sono verificati inoltre due casi di conversione all’ebraismo da parte di piccole popolazioni autoctone indiane, che hanno assunto le denominazioni di Bnei Menashe e Bene Ephraim. Entrambe rivendicano una discendenza dalle tribù perdute, e la prima ha anche ottenuto il riconoscimento del Gran Rabbinato d’Israele nel 2005: oggi oltre 6.000 Bnei Menashe vivono nello Stato ebraico, mentre 4.000 rimangono nel paese d’origine. Molto più piccola invece la consistenza dei Bene Ephraim, che ammontano a poche centinaia di persone residenti in alcuni villaggi dell’India orientale.

(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2022)

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I palestinesi e il destino di una eterna nakba auto-inflitta

Non c’è pace senza compromesso. Dopo 150 anni sarebbe sensato che i palestinesi optassero per una strada diversa invece di continuare a fomentare odio e rifiuto. Ma a quanto pare, non accadrà tanto presto.

di Eyal Zisser

Il 15 maggio 1948, il sabato in cui scadeva il Mandato Britannico sulla Palestina, gli eserciti dei paesi arabi vicini attaccarono la comunità ebraica d’Israele (l’yishuv) devastando tutto ciò che incontravano. Il loro obiettivo era impedire la nascita di quello stato ebraico in Terra d’Israele che i leader dell’yishuv avevano dichiarato indipendente il giorno prima, venerdì 14 maggio.
  Ogni singola comunità ebraica che venne conquistata dagli eserciti arabi venne ridotta in macerie, i difensori sopravvissuti alle battaglie fatti prigionieri o giustiziati. Non un solo ebreo poté restare nelle aree conquistate dagli arabi. Nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme la Legione araba giordana distrusse tutte le sinagoghe, alcune antiche di secoli. Atrocità simili si verificarono a Gush Etzion (poco a sud di Gerusalemme) e a Mishmar Hayarden, sulle rive del fiume Giordano, così come più a sud nei kibbutz di Nitzanim e Yad Mordechai. Il nascente stato d’Israele, tuttavia, riuscì a sconfiggere i nemici, il suo esercito fermò l’avanzata delle forze arabe e alla fine le ricacciò indietro....

(israele.net, 16 maggio 2022)

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