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Notizie 16-31 marzo 2018



Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede

Poiché prima di tutto vi ho trasmesso, come anch'io l'ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu sepolto; che risuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa, poi ai dodici.
Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all'aborto; perché io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. …
Ora se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come mai alcuni tra voi dicono che non c'è risurrezione dei morti? Ma se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato; e se Cristo non è risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede. …
Difatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato; e se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati. Anche quelli che sono morti in Cristo sono dunque periti. Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini.
Ma ora Cristo è risuscitato dai morti, primizia di quelli che dormono. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo tutti saranno vivificati; ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; poi verrà la fine, quando egli consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi.

Dalla prima lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 15

 


Israele: Pasqua sotto le armi

di Paola Farina

Facile dire "io non ne condivido la violenza" (quella israeliana, ovvio), ma io mi domando "cosa farebbero al confine del Brennero se 20.000 musulmani volessero invadere l'Italia"? Ieri, giorno d'inizio della Pasqua ebraica (Pesach) c'è stata un'escalation dell'assalto a Israele, iniziato una settimana fa (ammesso che sia un nuovo inizio e non una continuazione del pregresso) e rimasto invisibile per alcuni giorni agli occhi della stampa internazionale, perché quando a sparare i missili contro Israele sono i palestinesi, i giornalisti non se ne accorgono.
   Le manifestazioni sono in corso da giorni, ma si stanno rafforzando sotto la festività di Pasqua che per l'ebraismo è cominciata ieri sera con la vigilia e si protrarrà per otto giorni per gli ebrei della diaspora (sette in Israele). È la festività religiosa che rievoca l'esodo dall'Egitto, la miracolosa traversata del mar Rosso, la fine della schiavitù (ma quando mai?!) e la conquista di una sofferta libertà sotto la guida di Mosè e Aron. Si usa festeggiare Pesach tutti attorno a un tavolo, il Seder che unisce; per i soldati solo qualche matzot e con il pane azzimo ci sarà anche il mitra, non più un UZI della mia generazione, ma un più moderno TAR 21 in tutte le sue varianti, molto facile da montare e smontare perché è un'arma composta di soli due sottoinsiemi. Per quanto sia essa moderna non garantisce né la vita del soldato, né la vita dell'invasore.
   Ci sono molti morti e molti feriti e la morte è sempre morte e non rende felice né una parte, né l'altra. Hamas ha incitato una folla di 20.000 persone a invadere Israele e Hamas è la sola organizzazione colpevole di queste morti. Se una folla di questa portata cercasse di scavalcare un qualsiasi confine di un qualsiasi paese europeo, cosa succederebbe?
   Smettiamola di pensare in maniera poco storica e reale con questa storia del "ritorno dei profughi palestinesi". Se ne sono andati in circa 700mila e ora vogliono tornare a centinaia di migliaia, perché i profughi palestinesi, a differenza di altri profughi, restano profughi, anche se nascono in un paese straniero e ne acquisiscono la cittadinanza.
   Si svegli il mondo! Nel mondo civile si manifesta con i cartelli e gli slogan (qui un video della manifestazione "pacifica" dei palestinesi" girata dall'Esercito israeliano, ndr), nel mondo di Hamas con il partenariato Isis si manifesta cercando di sfondare i confini, meglio se ci sono bambini in testa al corteo che fanno da scudi. Io non credo che i 20.000 che cercano di entrare in Israele siano proprio pacifisti e vogliano sfilare per la pace...
   I soldati israeliani sparano? Difendono la loro Terra e la loro gente. Del resto era previsto, ci sono state prove di fuoco in questi giorni, allarmi "preventivi", esercitazioni in caso di aggressione. Questa manifestazione è anche contro lo spostamento dell'Ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme, guarda caso probabilmente si protrarrà fino al 15 maggio... giorno in cui s'inaugura la nuova Ambasciata.
   Adesso che hanno cominciato chiedono l'intervento dell'Europa? Perché allora hanno cominciato da soli? Del resto fanno bene a piangere su mamma Europa che li ha sempre iper protetti fino a far morire i propri figli per mano islamista. Presto insorgeranno i pacifisti e pacifinti a sostegno, i contabili delle partite doppie della morte, gli stessi contabili che hanno chiuso un occhio, mille occhi di fronte alle 350.000 morti siriane. Gli stessi che hanno chiuso gli occhi di fronte alle donne siriane, irachene, cristiane, iazide e curde stuprate e costrette a prostituirsi per la goduria dei miliziani dell'Isis, quelle donne che, se sopravvissute, sono state poi anche costrette all'imenoplastica semplice o complessa, con tutte le drammatiche conseguenze umane.
   Pacifisti e simili ripeterò queste parole fino alla mia morte, perché il vostro modo di profondere pacifismo è iniquo! Il portavoce arabo delle Forze di difesa israeliane (perché nell'esercito israeliano ci sono anche gli arabi), colonnello Avichay Adraee, ha scritto su Twitter ai residenti di Gaza che Hamas sta approfittando di loro mandandoli al confine dove si stanno "mettendo in pericolo". Fonti palestinesi riferiscono che almeno sette persone sono state uccise e oltre mille feriti in scontri lungo la linea di demarcazione. "Hamas ti sta usando e distrae la tua attenzione dalla sua responsabilità di prendersi cura di te e governare la Striscia di Gaza. Hamas ti sta sacrificando per andare avanti con inutili ordini del giorno e spreca milioni invece di investire nel tuo benessere", ha scritto Adraee. "Non lasciare che Hamas ti usi! Non metterti in pericolo per niente. Ti meriti un futuro migliore di quello che Hamas ha programmato! Ti meriti più di una realtà di violenza, incitamento e terrorismo", ha aggiunto l'ufficiale. (Agenzia Nova, 30 marzo 2018).
   Non mi sorprenderei se fra qualche giorno venisse fuori che questa manifestazione promossa dai palestinesi è stata sovvenzionata con 10 milioni di euro da Hamas e Plo & partner (Plo sta per Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, Palestine Liberation Organization, ndr). Del resto si prenda atto che il settimo punto dello statuto di Hamas dice: "Non esiste soluzione al conflitto Arabo - Israeliano se non nella Jihad Islamica".
   Io non riesco a capire perché il cosiddetto popolo civile non spenda mai una parola sui bambini e civili utilizzati come scudi umani che scandiscono diktat imposti dai vari regimi. Israele ha il diritto e il dovere di proteggere i suoi confini e i suoi cittadini di qualsiasi religione dal terrorismo.

(VicenzaPiù, 31 marzo 2018)


Tensioni in Medio Oriente: lo zampino di Erdogan?

Secondo alcune fonti gli scontri agevolati dai servizi segreti turchi

Le sanguinose manifestazioni che si succedono da ormai due giorni lungo il confine che separa la Striscia di Gaza con Israele, non accennano a placarsi e, secondo quanto annunciato da esponenti di Hamas e della cosiddetta "resistenza palestinese", sono destinate a durare almeno sino alla metà del mese di maggio.
   Ma la meticolosa preparazione posta in essere per quella che è stata definita "La marcia del ritorno", in occasione dell'anniversario della Nakba (la catastrofe), con il continuo approvvigionamento di viveri e acqua presso tende, gazebi e baracche, fa sorgere seri dubbi sulla reale spontaneità della manifestazione da parte dei circa 20.000 arabi palestinesi accorsi al limite dei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, ma in realtà in mano ad Hamas dal 2007. Quello che non è solo un sospetto è che dietro gli scontri, che sino ad oggi hanno provocato 20 morti e più di 1.500 feriti, vi siano presenze inquietanti, da quelle di Hamas, agli Hezbollah e, non in ultimo, di circa 180 miliziani jihadisti "veterani" provenienti dalla Siria ed incaricati di gestire gli scontri che, secondo alcune fonti, verrebbero agevolati dal Millî İstihbarat Teşkilâtı (MİT), il potentissimo servizio segreto turco, su ordine di Erdogan. Proprio il presidente turco, ultimamente, ha espresso opinioni molto particolari sull'eventualità di "unire le forze per la difesa di Gerusalemme". Dichiarazioni che hanno alimentato le tensioni già latenti in occasione della ricorrenza della Nakba.
   A margine degli scontri, Rami Hamdallah, il primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese, ha chiesto l'intervento della comunità internazionale affinché riconosca Israele colpevole di omicidi premeditati, in relazione alla morte di alcuni manifestanti, dimenticandosi di sottolineare che se la "Marcia del ritorno" era stata indetta con assoluto carattere pacifico, centinaia di giovani accorsi alla chiamata, si sono presentati con volti travisati e armati di tutto punto, dai semplici sassi ai cocktail molotov, dalle fionde alle spranghe e tentando più volte di attraversare il confine con Israele.
   Appare ovvio sottolineare che se sussiste un'assoluta legittimità del diritto di manifestare il proprio pensiero, ma in modo pacifico, è altrettanto legittimo, da parte delle forze di difesa israeliane, l'obbligo di difendere i propri confini nazionali da qualsiasi minaccia. Cosa che, tra l'altro, in Italia ci siamo dimenticati da anni.

(OFCS.report, 31 marzo 2018)


Libano: drone israeliano si schianta nel sud del Paese

Nottetempo, un drone israeliano si è schiantato al suolo nel Libano meridionale; a riferirlo sono stati l'esercito israeliano e l'emittente di Hezbollah, al-Manar TV.
   Nella notte tra venerdì 30 e sabato 31 marzo, un aereo spia militare senza conducenti è precipitato tra i villaggi di Beit Yahoun e Baraachit, nel sud del Libano. A riferirlo è stata in un primo momento l'emittente al-Manar, affiliata di Hezbollah e operante da Beirut. In un secondo momento, un comunicato rilasciato dall'esercito israeliano ha confermato la notizia, rendendo noto che il drone è precipitato al suolo a causa di un malfunzionamento tecnico, e che le dinamiche dell'incidente stanno venendo analizzate dalle forze militari israeliane. Il messaggio inoltre assicura che non si corre alcun pericolo di fughe di notizie.
   Israele, negli ultimi mesi, ha condotto numerosi raid aerei in territorio siriano; secondo il governo, tali attacchi sono indirizzati contro obiettivi iraniani e contro i combattenti del gruppo libanese sciita Hezbollah, appoggiato dall'Iran. Sheikh Naim Qassem, il vicepresidente di Hezbollah, durante un'intervista del 15 marzo, ha riferito all'agenzia di stampa Reuters che il suo gruppo non pensa che Israele voglia iniziare una guerra con il Libano, allo stato attuale, ma che ad ogni modo si tiene preparato per l'eventualità. L'ultimo conflitto combattuto tra i due Paesi risale al 2006.
   Nel 2012, Hezbollah, forte della sua ala paramilitare, si è unito ai combattimenti della guerra civile siriana, iniziata il 15 marzo 2011, a sostegno del presidente del Paese, Bashar al-Assad. Da allora, il gruppo sciita ha giocato un ruolo di primo piano nel prestare aiuto al governo di Assad a sconfiggere i ribelli sunniti, a loro volta appoggiati dagli Stati Uniti e da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Alcuni ufficiali israeliani e statunitensi affermano che l'Iran stia aiutando Hezbollah a costruire centri industriali dove poter mettere a punto missili guidati ad alta precisione. Hezbollah è alla testa di una coalizione di militanti sciiti, appoggiati da Teheran, la quale è stata dispiegata in Siria da Iraq, Afghanistan e Pakistan. Il crescente potere dell'Iran nella regione ha inoltre destato forti preoccupazioni tra i Paesi vicini, in primo luogo Israele.
   I rapporti tra i due Paesi sono divenuti ancora più tesi nell'ultimo periodo a causa delle esplorazioni di gas naturale nel blocco 9, un'area marittima rivendicata sia da Israele sia dal Libano, dal momento che si trova in acque contese, al confine - non nettamente definito - tra i due Paesi. Il 19 febbraio, in occasione dell'inaugurazione della Conferenza sullo sviluppo e la stabilità nel mondo arabo, il comandante dell'esercito libanese, Joseph Aoun, aveva dichiarato che non avrebbe permesso a Israele né di violare la sovranità nazionale del Libano e il diritto del Paese a sfruttare le risorse che si trovano nelle sue acque, né di costruire un muro di confine tra i due Paesi. La decisione di costruire il muro di separazione sulla Blue Line - demarcazione di confine tra i due Stati sancita dall'Onu e vigente dal 7 giugno del 2000 - era stata annunciata, il 18 dicembre 2017, dal presidente del Libano, Michel Aoun.

(Sicurezza Internazionale, 31 marzo 2018)


Si rischia la Pasqua di rappresaglia

In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia

di Fiamma Nirenstein

C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas.
   15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme.
   Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati.
   La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba.
   Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.

(il Giornale, 31 marzo 2018)


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Hamas manda al massacro i «profughi di professione»

Il gruppo terrorista spedisce migliaia di disperati a «invadere» Israele. Scontri vicino a Gaza, le forze di difesa dello Stato ebraico sparano. Uccisi almeno 14 manifestanti

di Carlo Panella

Pesantissimo il bilancio degli incidenti che Hamas ha organizzato lungo la frontiera tra la striscia di Gaza e Israele, nel tentativo di sfondare con una «Grande marcia del Ritorno» le barriere di confine e di «occupare» una parte del territorio israeliano: 14 morti e un migliaio di feriti. Un'iniziativa palestinese al solito avventurista e provocatoria dal duplice fine: umiliare le forze armate israeliane, dimostrando che non sono in grado di difendere la frontiera e ribadire materialmente che Israele non è lo stato degli ebrei e che tutti i 5 milioni di profughi palestinesi sparsi per il mondo e 4. 700.000 palestinesi residenti appunto a Gaza e in Cisgiordania hanno intenzione di ritornare in Israele, schiacciando i sei milioni di ebrei che vi risiedono.
Gli incidenti si sono sviluppati per ore lungo una cinquantina di chilometri tra i posti di frontiera di Rafah e di Khan Younis nel sud, di el-Bureij e di Gaza City al centro e di Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh ha arringato la folla assicurando che «oggi è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi». L'esercito israeliano, che ha disposto un centinaio di tiratori scelti lungo la frontiera e un consistente dispositivo di truppe e blindati, ha risposto con estrema decisione a tutti i tentativi di scardinare le barriere che separano Gaza da Israele, mentre i manifestanti hanno tirato molotov e pietre e bruciato copertoni. La direzione delle operazioni è stata assunta personalmente dal «falco» ministro della Difesa di Israele Avigdor Liebermann che non ha perso l' occasione per dimostrare -anche agli avversari interni- la sua durezza.
L'iniziativa provocatoria di Hamas ha due obbiettivi, uno nei confronti di Israele e dell'opinione pubblica internazionale e l'altro contro la stessa dirigenza palestinese dell' Anp della Cisgiordania.

 Rifugiati a vita
  Nei confronti di Israele, Hamas approfitta della demenziale decisione dell'Onu di privilegiare i profughi palestinesi rispetto a quelli di tutte le altre nazioni del mondo. Questi ultimi vedono riconosciuto lo status legale di profugo solo a chi è materialmente fuggito dalla sua regione o patria natale, non certo ai suoi figli. La Unrwa, l'organizzazione dell'Onu dei profughi palestinesi, riconosce invece lo status legale di profugo anche ai figli dei profughi palestinesi fuggiti durante le varie guerre (dal 1948 al 1973). Se si applicasse questo demenziale criterio, ad esempio, i profughi italiani dalla Dalmazia e Istria che erano 300.000 nel dopoguerra, oggi sarebbero non meno di due milioni. A seguito di questo artificio i «profughi» palestinesi nel mondo sono 5.100.000 (quelli veri, originali non raggiungono il milione) e chiedere come fa Hamas (ma anche la Anp di Abu Mazen) il loro «diritto al ritorno» punta solo a prefigurare la fine dello Stato degli ebrei. A fronte dei 6 milioni di ebrei che abitano Israele si ergerebbero infatti 1.800.000 palestinesi con cittadinanza israeliana, i 2. 700.000 di palestinesi della Cisgiordania, i due milioni dì palestinesi di Gaza e, appunto, i 5 milioni di «profughi» che risiedono in altri paesi. Se si concretizzasse il «ritorno» preteso da Hamas, in Israele gli ebrei diventerebbero una minoranza. Un quadro non solo impraticabile, ma anche artificioso. Non è infatti un caso che proprio su questo «diritto al ritorno» siano sinora naufragati tutti i colloqui di pace tra Israele e palestinesi mentre la comunità internazionale -proprio a causa del «trucco» dell'Unrwa e dell'unicum dell'ereditarietà dello status di profugo- mantiene sul punto un atteggiamento più che ambiguo ( del quale l' avventurismo palestinese profitta).

 Messaggio all'Olp
  Ma la decisione di Hamas di creare questi gravissimi incidenti con Israele ha anche uno scopo tutto interno al contesto palestinese. Per l'ennesima volta è infatti di nuovo fallito il tentativo di formare un governo unitario tra Olp e Hamas, contemporaneamente le condizioni di vita a Gaza - trasformata da Hamas in uno sterile fortino da guerra - sono peggiorate e infine sta prendendo piede in Cisgiordania un forte movimento di manifestazioni pacifiche e assolutamente non violente contro l'occupazione israeliana. Con i caduti palestinesi di oggi - volutamente ricercati - Hamas al solito ha giocato la sua partita di morte su tutti questi tavoli.


LA SCHEDA

Sei settimane
A partire da ieri e per 6 settimane i palestinesi saranno impegnati nella cosiddetta "Marcia del ritorno", decisa dal gruppo terrorista Hamas. Le manifestazioni dureranno per 46 giorni fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele.

Occupare le terre
La protesta ha l'obiettivo di realizzare il «diritto al ritorno», la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele.

Assurdità Onu
Hamas approfitta della demenziale decisione dell'Onu di privilegiare i profughi palestinesi rispetto a quelli di tutte le altre nazioni del mondo. Questi ultimi vedono riconosciuto lo status legale di profugo solo a chi è materialmente fuggito dalla sua regione o patria natale, non certo ai suoi figli. La Unrwa, l'organizzazione dell'Onu dei profughi palestinesi, riconosce invece lo status legale di profugo anche ai figli dei profughi palestinesi fuggiti durante le varie guerre (dal 1948 al 1973). Se si applicasse questo criterio, ad esempio, i profughi italiani dalla Dalmazia e Istria che erano 300.000 nel dopoguerra, oggi sarebbero non meno di due milioni.


(Libero, 31 marzo 2018)


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Capire le morti di Gaza

Hamas ha molte colpe per la tragedia di ieri al confine con Israele

Ieri gli scontri al confine lungo la Striscia di Gaza tra manifestanti palestinesi ed esercito israeliano hanno provocato dodici morti tutti di parte palestinese, qualche centinaio di feriti e la prevedibile e automatica indignazione sui media. L'esercito israeliano ha sparato sui civili inermi, ha detto la vulgata, dimenticando tuttavia alcuni fatti fondamentali. La "marcia del ritorno" è stata indetta per commemorare "l'esproprio delle terre arabe" nel 1948 e le proteste continueranno fino al 15 maggio. Bisognerebbe ricordare, anzitutto, che nella Striscia di Gaza non c'è nessuna occupazione israeliana dal 2005. C'è un blocco navale e uno dei confini, certo, che è imposto da Israele per garantire la propria sicurezza e che comunque non impedisce alla leadership di Hamas di ricevere copiosi aiuti umanitari immediatamente reindirizzati nella costruzione di missili e armamenti da utilizzare contro il popolo israeliano. Gaza è un territorio libero dal quale ieri si sono mosse 17 mila persone organizzate da Hamas, con molotov e pietre, che hanno cercato di "ritornare" verso il legittimo territorio di Israele: ieri l'esercito di Gerusalemme ha mostrato video che dimostrano come alcune cellule terroristiche abbiano cercato di infiltrarsi nei confini approfittando dei disordini. L'esercito ha sparato laddove i palestinesi hanno tentato di superare i reticolati di confine, e il numero delle vittime è stato massimizzato dalla tattica spietata di utilizzare i civili e in alcuni casi perfino i bambini come scudi umani. I morti di ieri sono una tragedia, ma una tragedia in cui le politiche di Hamas hanno giocato una parte fondamentale.

(Il Foglio, 31 marzo 2018)


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Scontri a Gaza: ma quanto è malata la stampa occidentale?

Sugli scontri a Gaza, o meglio, sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza, va detta subito una cosa: in qualsiasi paese del mondo se tu cerchi di forzare il mio confine, se tu cerchi di entrare nel territorio del mio Stato, magari con l'intenzione di compiere attentati come è successo nei giorni scorsi proprio al confine tra Gaza e Israele, è un mio dovere cercare di fermarti con ogni mezzo per difendere la mia popolazione.
Ma se questa regola aurea vale per tutto il mondo non vale per Israele. No, se Israele difende i propri confini da terroristi e facinorosi come farebbe giustamente qualsiasi Stato democratico del mondo viene immediatamente messo sotto accusa mentre la stampa si catena con articoli di ogni tipo, quella stessa stampa che solo pochi giorni fa ha dedicato solo qualche trafiletto all'ennesimo bombardamento con armi chimiche in Siria che ha ucciso decine di bambini, quella stessa stampa che non ha scritto una riga sul massacro di curdi perpetrato da Erdogan nella zona di Afrin, in Siria....

(Rights Reporters, 31 marzo 2018)


Dopo Parigi, anche la Germania scopre che l'antisemitismo è ancora vivo

Il caso di una bimba ebrea picchiata e quello del Giz

di Daniel Mosseri

Il Ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas
BERLINO - La piaga dell'antisemitismo non ha funestato la Pasqua (Pesah) dei soli ebrei francesi, obbligati a scendere in piazza dopo il brutale omicidio di un'anziana donna che era riuscita a sfuggire al rastrellamento nazista del velodromo d'inverno (1942). Un abuso su una bambina ebrea è stato compiuto anche a Berlino, da dove nuove notizie di atti di odio antiebraico arrivano con sempre più frequenza, mescolando allo Juden Haas di matrice islamica quello mascherato da ostilità verso Israele. Nel quartiere di Tempelhof, noto per l'omonimo ex aeroporto reso celebre dal ponte aereo del 1948, una bambina è stata prima derisa e poi malmenata da alcuni compagni di classe perché ebrea. "Judin, judin", l'hanno dileggiata nel cortile. Poi le botte. Nella Berlino riunificata, Tempelhof è un quartiere nel cuore della città. Fino al 1989, invece, era una zona popolare abitata principalmente da impiegati statali e immigrati turchi, prevalenti nell'attigua Neukòlln dove il muro e il filo spinato fungevano da confini di quartiere. Non è un mistero che anche le manine che hanno tirato i capelli alla compagna alla scuola elementare Paul Simmel appartenevano a bambini allevati non solo nella fede islamica ma anche nell'odio anti ebraico. "Se uno scolaro ebreo non può più andare a scuola senza timore di attacchi antisemiti vuol dire che nel paese c'è qualcosa che non va bene", ha dichiarato il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi Josef Schuster. Schuster ha ricordato che "nessun bambino nasce antisemita" e si è quindi rivolto agli imam chiedendo che durante le loro prediche in moschea instillino valori "che noi riconosciamo come fondamentali per la coesistenza in questo paese; chi non è pronto a farlo ha sostanzialmente rinunciato a operare in Germania". Parole che tradiscono la preoccupazione crescente della comunità ebraica tedesca - un caso analogo di violenza contro un dodicenne ebreo in un'altra scuola berlinese risale a pochi mesi fa.
   "Il problema è che l'antisemitismo è ovunque: c'è quello di matrice islamica ma c'è anche quello della sinistra", spiega al Foglio Myriam, 54 anni, uscendo dalla riunione di un gruppo di auto-aiuto di famiglie ebraiche berlinesi. I suoi figli adolescenti hanno sentito parole a scuola sulla Shoah e su come gli ebrei "se la sono cercata" e Myriam ritiene che sia ora di reagire. Il problema non viene dalle alte sfere della società: il governo federale tedesco è da tempo in prima fila contro l'antisemitismo. La questione va invece affrontata nelle scuole, là dove la Repubblica federale dovrebbe formare cittadini imbevuti di spirito democratico, consapevoli della storia del paese e refrattari a ogni principio di discriminazione, a cominciare dall'antisemitismo. Dopo aver offerto le proprie scuse alla bambina e ai suoi famigliari, la Paul Simmel Grundschule ha ammesso che non si trattava del primo caso e ha promesso di aprire le sue aule ai programmi dell'Istituto regionale per la scuola (Lisum) e dell'American Jewish Committee (Ajc) per combattere l'odio anti ebraico in classe.
   Impegnato in una visita a Gerusalemme organizzata per riparare alle ambiguità diplomatiche del suo predecessore, il neoministro degli Esteri, Heiko Maas, ha parlato di un atto "vergognoso e intollerabile". Maas tuttavia ha altri problemi da risolvere: la Società tedesca per la cooperazione internazionale (Giz) con sede a Bonn e 145 persone fra dipendenti e consulenti nei territori palestinesi, è al centro di uno scandalo mediatico dopo che giornalisti israeliani in Germania hanno reso di pubblico dominio i contenuti visceralmente antisionisti postati su Facebook da numerosi dipendenti. Croci uncinate con i colori di Israele, appelli a unirsi al movimento Bds, la campagna globale di boicottaggio di Israele, fino alle parole di una ex dipendente della Società che si sarebbe licenziata perché dopo aver protestato contro l'odio anti ebraico dei colleghi è stata messa in minoranza dagli stessi nonostante, in teoria, siano tutti tenuti alla neutralità politica. Anche in questo caso la dirigenza della Giz ha annunciato l'apertura di un'inchiesta interna, la bonifica di Facebook dai contenuti discriminatori e sanzioni, senza escludere ricadute penali. L'osservazione più sensata in materia è del deputato verde Volker Beck: "E' sorprendente - ha detto - che la Giz abbia reagito ai messaggi antisemiti di diversi dipendenti solo quando ne è stata informata dalla stampa".

(Il Foglio, 31 marzo 2018)


Perché nel Partito Laburista britannico si litiga sull'antisemitismo, di nuovo

Alcuni parlamentari hanno organizzato una protesta contro il loro leader Jeremy Corbyn, per una storia di accuse che va avanti da tempo.

Il 26 marzo più di una decina di parlamentari britannici del Partito Laburista hanno partecipato a una manifestazione di protesta contro l'antisemitismo nel loro stesso partito. È un problema di cui si parla da anni e che è tornato attuale nel dibattito pubblico britannico perché la parlamentare Luciana Berger ha chiesto conto al leader del partito Jeremy Corbyn di un suo post su Facebook del 2012, in cui criticava la decisione di rimuovere un murale di orientamento antisemita nell'est di Londra invocando la libertà di espressione.
  Lo stesso giorno della manifestazione, Corbyn si è scusato in una lettera inviata alle maggiori organizzazioni ebraiche britanniche, ha condannato l'antisemitismo e ha riconosciuto che «l'antisemitismo nel Partito Laburista è stato troppo spesso ignorato come una semplice faccenda di mele marce».
  La questione dell'antisemitismo nel Partito Laburista è una delle molte critiche rivolte a Corbyn da quando è diventato leader del partito, due anni e mezzo fa. Corbyn ha posizioni politiche molto più a sinistra rispetto a quelle dei suoi predecessori, e nel conflitto israelo-palestinese è schierato nettamente dalla parte palestinese. Nel 2009 aveva addirittura invitato alcuni membri del gruppo palestinese Hamas e di quello libanese Hezbollah, considerati organizzazioni terroriste da molti paesi occidentali, a parlare al parlamento britannico. Come Corbyn la pensano anche i laburisti della sua corrente: in diverse occasioni in cui hanno parlato della questione palestinese, però, sono stati accusati di antisemitismo, e Corbyn è stato accusato di aver tenuto un comportamento ambiguo nei loro confronti.
 
Naz Shah, parlamentare laburista musulmana
Ha paragonato la politica di Israele a quella di Hitler
  Della questione si era parlato molto nel 2016 quando Naz Shah, una delle poche donne musulmane con un seggio al Parlamento britannico, era stata accusata di antisemitismo per una serie di post pubblicati su Facebook nel 2014. Uno di questi post diceva che gli ebrei israeliani avrebbero dovuto essere ricollocati negli Stati Uniti, in modo che i palestinesi potessero «farsi la loro vita e avere indietro le loro terre». In un altro Shah comparava le politiche di Israele a quelle del dittatore tedesco Adolf Hitler. Dopo che i post erano venuti fuori Shah era stata sospesa dal Partito Laburista: si era poi scusata, e successivamente era stata riammessa.
  Prima della riammissione di Shah, lo scandalo che la riguardava si era aggravato perché Ken Livingstone, ex sindaco di Londra e membro del comitato esecutivo nazionale del Partito Laburista, già accusato di antisemitismo in precedenza, l'aveva difesa dicendo: «Quando Hitler vinse le elezioni nel 1932, la sua politica era che gli ebrei dovessero spostarsi in Israele. Era un sostenitore del sionismo prima che perdesse la testa e finisse per uccidere sei milioni di ebrei». Livingstone fu a sua volta sospeso dal partito e poi riammesso, ma attualmente è nuovamente sospeso e le organizzazioni ebraiche britanniche chiedono che sia espulso per sempre. Livingstone non si è mai scusato per le sue dichiarazioni sul sionismo e il nazismo.
  Dopo i casi di Shah e Livingstone, Corbyn chiese all'autorevole avvocata Shami Chakrabarti di investigare sulle accuse di antisemitismo all'interno del Partito Laburista. Dopo due mesi di indagine, nel giugno del 2016, Chakrabarti concluse che il partito non era «permeato dall'antisemitismo» ma soffriva di «un'occasionale atmosfera tossica» e «un'evidente presenza di mentalità ignoranti». Chakrabarti mise insieme 20 raccomandazioni su come risolvere la questione, che però non sono state completamente seguite. Da allora ci sono state molte nuove accuse di antisemitismo verso politici laburisti: Jack Mendel del sito Jewish News ne ha contate circa 25, di cui una relativa a un caso di negazionismo dell'Olocausto. Lo stesso Corbyn lunedì ha detto che dal 2015 ci sono stati trecento casi di dichiarazioni antisemite tra i membri del Partito Laburista.
  Un caso molto recente è quello di Alan Bull, che fino al 22 marzo era un candidato laburista per le elezioni amministrative di Peterborough, nell'Inghilterra centrale. La sua candidatura è stata ritirata dopo che il Jewish Chronicle ha chiesto al partito perché avesse candidato Bull nonostante lo scorso giugno avesse condiviso su Facebook un articolo intitolato "Un'inchiesta della Croce Rossa Internazionale conferma che l'Olocausto di 6 milioni di ebrei è una bufala". L'episodio era già stato segnalato da un consigliere laburista, ma il partito non ha rivisto la sua candidatura fino all'interessamento del Jewish Chronicle.
  Martedì, il giorno dopo la manifestazione, Corbyn ha discusso della questione con altri importanti membri del Partito Laburista: insieme hanno deciso di adottare tutte e 20 le raccomandazioni di Chakrabarti, tra cui quella di prevedere un processo formale da seguire per indagare le accuse di antisemitismo. La polemica però non si è del tutto esaurita, anche perché giovedì Diane Abbott, una delle politiche laburiste più vicine a Corbyn, ha commentato l'intero dibattito sull'antisemitismo dicendo che si tratta di una «campagna di diffamazione» contro Corbyn, portata avanti dai suoi avversari all'interno del Partito Laburista e nella destra britannica.
  Tra le persone che hanno criticato Corbyn per tutta questa faccenda c'è Alan Sugar, imprenditore, conduttore della versione britannica di The Apprentice ed ex membro del Partito Laburista, nonché suo grande finanziatore che ha lasciato il partito per via delle posizioni di Corbyn. Sugar ha messo su Twitter un fotomontaggio in cui si vede Corbyn di fianco a Hitler. Per questo lo hanno criticato sia John McDonnell, cancelliere ombra e uno dei più stretti alleati di Corbyn, sia John Mann, un parlamentare laburista critico di Corbyn: entrambi hanno chiesto a Sugar di cancellare il tweet con l'immagine, lui ha risposto dicendo che era una battuta.

(il Post, 31 marzo 2018)


«Antisemitismo, il pericolo esiste. Istituzioni, silenzio assordante»

Intervista a Elisabetta Rossi Innerhofer, Presidente della comunità ebraica di Merano. "Nel2018 morire perché ebrei lo ritengo un fatto che sconvolge"

 
Elisabetta Rossi Innerhofer nella sinagoga di Merano
BOLZANO - L'omicidio di Mireille Knoll, la sopravvissuta alla Shoah di 85 anni barbaramente uccisa a coltellate nei giorni scorsi in Francia, ha riacceso i riflettori sulla minaccia antisemita in Europa.
Sarebbe un errore credere che l'antisemitismo sia un fenomeno ormai appartenente al passato: la cronaca delinea un quadro poco rassicurante, richiede «che si faccia di più, da parte tutti gli attori sociali, per arginare questi gravi episodi».

- Presidente Rossi Innerhofer, è giusto parlare di pericolo antisemita?
  «Assolutamente sì. Non so cosa deve servire ancora per parlare di antisemitismo. Solitamente sui nostri media non è riportata tutta l'escalation. Guardiamo alla Francia, all'assalto a un'associazione giovanile ebraica successivo all'omicidio della signora Knoll. Questi episodi si verificano non solo in Francia, ma anche in Germania».

- Quale è la situazione in Alto Adige? Si percepiscono atti di matrice antisemita?
  «Chiaramente ci sono episodi e esternazioni, ma non siamo a questi livelli. Qui le istituzioni sono molto attente».

- Negli ultimi tempi sono diversi gli atti di matrice antisemita compiuti da persone di religione islamica. È esagerato parlare di antisemitismo di stampo arabo?
  «Nel caso di Mireille Knoll si tratta di antisemitismo di stampo arabo. Anche un anno fa c'è stato un altro omicidio da parte di un musulmano. Purtroppo nell'Islam ci sono questi soggetti radicalizzati che hanno una cultura dell'odio in antitesi con i nostri valori».

- Secondo lei attualmente si sta facendo abbastanza per combattere l'odio razziale?
  «Si parla tanto e si fa molto poco. Le parate ai giorni della memoria giusto per esserci non servono. Bisogna lavorare nella società, con gli studenti. Molte cose già si fanno con ottimi risultati. Qui stiamo parlando di antisemitismo islamico, bisogna controllare anche i genitori».

- Quali sono le responsabilità del mondo dell'informazione?
  «C'è tanta immondizia e disinformazione da far paura. A volte giro spesso sui social e ci vogliono litri di Maalox per leggere certe assurdità. Bisognerebbe fare servizi, anche a livello di comunicazione pubblica, più approfonditi e paritari, ospitando sempre anche ebrei. Ci vorrebbe più parità e equilibrio di analisi».

- Presidente Rossi Innerhofer, sul tema ci sono opinioni discordanti. C'è chi ritiene sia opportuno accendere i riflettori su questi atti e chi, invece, è di opinione contraria.
  «È vero, ci sono opinioni contrastanti. Si dice di non pubblicare le notizie per evitare emulazioni. Bisogna invece dare visibilità a questi episodi, cosicché non ci sarebbe questo silenzio assordante delle istituzioni.
Ci vorrebbero punizioni esemplari. Non bisogna vendicarsi, ma punire. Bisogna incrementare le azioni culturali di integrazione. Un certo tipo di integrazione o non funziona o sono stati fatti errori. Anche la signora Knoll aveva fatto denuncia. Era stata minacciata di morte, ma nonostante questo purtroppo non si è intervenuti. Nel 2018 morire perché si è ebrei è sconvolgente».

(Corriere dell'Alto Adige, 31 marzo 2018)


L'esercito israeliano accusa Hamas di usare "cinicamente" donne e bambini

GERUSALEMME - Il portavoce arabo delle Forze di difesa israeliane, colonnello Avichay Adraee, ha scritto su Twitter ai residenti di Gaza che Hamas sta approfittando di loro mandandoli al confine dove si stanno "mettendo in pericolo". Fonti palestinesi riferiscono che almeno sette persone sono state uccise e oltre mille feriti in scontri lungo la linea di demarcazione. "Hamas ti sta usando e distrae la tua attenzione dalla sua responsabilità di prendersi cura di te e governare la Striscia di Gaza. Hamas ti sta sacrificando per andare avanti con inutili ordini del giorno e spreca milioni invece di investire nel tuo benessere", ha scritto Adraee. "Non lasciare che Hamas ti usi! Non metterti in pericolo per niente. Ti meriti un futuro migliore di quello che Hamas ha programmato! Ti meriti più di una realtà di violenza, incitamento e terrorismo", ha aggiunto l'ufficiale.

(Agenzia Nova, 30 marzo 2018)


Stresa, la città dove seicento ebrei ortodossi da tutto il mondo si riuniscono per la Pasqua

Rafforzate le misure di sicurezza per l’arrivo di comitive di ebrei ortodossi da tutto il mondo che da 23 anni ormai hanno scelto la località come centro delle attività per la Pasqua ebraica.

di Antonio Palma

 
Saranno oltre seicento gli ebrei ortodossi provenienti da tutto il mondo, in special mondo dagli Stati Uniti, che quest'anno arriveranno appositamente in Italia per celebrare le festività della Pesach, la Pasqua ebraica. Luogo dell'appuntamento è la città di Stresa, una delle più importanti e rinomate località sulle rive del lago Maggiore, in Piemonte, che insieme alla vicina Baveno ospiterà famiglie e gruppi per una settimana. Si tratta di una tradizione avviata ormai ben 23 anni fa, nel lontano 1995, e che ogni si rinnova attirando sempre più membri della comunità ebraica ortodossa che lungo le rive del lago ama trascorrere questo importante appuntamento del calendario ebraico che celebra la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto .
   Del resto per accogliere il gruppo è necessario allestire l’accoglienza in accordo alle ferree regole "kosher" e ormai le strutture alberghiere della zona si sono specializzate sia sulla corretta preparazione dei cibi che sulla preparazione delle camere che devono rispettare lo "shabbat" ortodosso. Ad esempio oltre al divieto assoluto di pane lievitato, è previsto l’utilizzo di stoviglie speciali a pranzo mentre ogni camera deve essere dotata di acqua per lavarsi in apposite brocche. Per gli ortodossi inoltre in alcuni periodi vige il divieto di utilizzare apparecchiature elettroniche, come ascensori o porte automatiche. Centro delle attività sarà il lussuoso hotel Regina Palace, anche quest'anno interamente prenotato anche per le funzioni religiose, anche se alcuni dei turisti alloggeranno al Simplon di Baveno.
   Le attività cominceranno il 31 marzo e si concluderanno il 7 aprile prossimo. Un evento decisamente impegnativo dunque e che, visto l'allarme terrorismo, anche quest'anno richiamerà una maggiore presenza di forze dell'ordine. Poliziotti e carabinieri con giubbotti antiproiettile già presidiano la zona anche se in maniera discreta. "Per noi si tratta di una ricorrenza ormai consolidata ma è stato necessario quest’anno alzare il livello delle misure di sicurezza. Si tratta di una vigilanza visibile ma discreta, che non ha stravolto la vita della città", ha spiegato al Corriere il vicedirettore dell’ufficio turistico di Stresa .

(fanpage, 30 marzo 2018)


Leader di Hamas: "Nessuna concessione su Gerusalemme"

GERUSALEMME - Il capo dell'ufficio politico del movimento islamista palestinese, Ismail Haniyeh, ha preso parte oggi alle proteste nella "Giornata della terra", in corso lungo la linea di demarcazione fra la Striscia di Gaza e Israele. "Nessuna concessione su Gerusalemme", ha detto Haniyeh rivolgendosi alla folla. Il riferimento del capo dell'ufficio politico di Hamas è al riconoscimento degli Stati Uniti lo scorso 6 dicembre di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Inoltre, Haniyeh ha affermato: "Nessuna alternativa alla Palestina", auspicando quindi la creazione di uno Stato palestinese. E "nessuna soluzione se non il ritorno" nei territori dove oggi si estende Israele, ha aggiunto Haniyeh. Il leader palestinese ha affermato: "Non concederemo un solo lembo di terra della Palestina e non riconosciamo l'entità di Israele". Inoltre, rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, Haniyeh ha aggiunto: "Promettiamo a Trump ed a tutti coloro che sostengono i suoi affari ed i suoi schemi che non rinunceremo a Gerusalemme". Secondo le prime stime, il bilancio degli scontri è di un palestinese morto ed almeno 20 feriti. La "Giornata della terra" condanna le espropriazioni di terre di proprietà palestinese da parte delle autorità israeliane in Galilea.

(Agenzia Nova, 30 marzo 2018)


I conti con l'antisemitismo nelle scuole tedesche. E il governo litiga sull'Islam

Il Consiglio dei musulmani: imam e rabbini nelle classi

di Paolo Valentlno

La Paul-Simmel-Grundschule di Berlin-Tempelhof
BERLINO - In una scuola elementare della capitale tedesca, situata non lontano da una moschea salafista da tempo sotto osservazione delle autorità federali, una bambina ebrea della seconda viene insultata dai alcuni compagni e compagne di classe perché «non crede ad Allah» e per questo «meriterebbe di essere uccisa come tutti gli infedeli». Anche i più grandi si uniscono al mobbing religioso antisemita: «E' ebrea», dicono additandola ogni volta che la incrociano.
   La cosa va avanti da oltre un anno. Ma solo la scorsa settimana i genitori della bimba si sono decisi a uscire allo scoperto, denunciando la vicenda su un giornale berlinese. Ora è un caso nazionale, punta dell'iceberg di una crescente ondata di antisemitismo nelle scuole registrata un po' in tutta la Germania. «Ecco come l'islamismo diffonde il suo odio già nelle nostre scuole elementari», titola la Bild, col solito tono allarmista, ma anche con la consapevolezza di interpretare le ansie del Paese profondo.
   Non è sicuramente un caso isolato, quello della Paul-Simmel-Grundschule di Berlin-Tempelhof, il quartiere intorno al vecchio aeroporto dove vengono ospitati alcune migliaia di rifugiati e dove le scuole hanno spesso più studenti extracomunitari che tedeschi, soprattutto provenienti da famiglie musulmane. «Gli episodi di razzismo e antisemitismo sono in crescita», dice Soraya Gomis, commissario contro la discriminazione nelle scuole berlinesi. Il Centro di informazione e ricerca sull'antisemitismo di Berlino ha registrato 18 casi nel 2017, quasi il triplo rispetto all'anno precedente.
   Ma in realtà la maggioranza degli episodi non viene denunciata, perché le famiglie preferiscono tacere: «Attacchi verbali contro i ragazzi ebrei sono all'ordine del giorno, molti di loro decidono di cambiare scuola e iscriversi ai ginnasi ebraici», spiega Sigmount Konigsberg, uno dei capi della comunità berlinese. E il problema va oltre Berlino. Il presidente della Lega degli insegnanti, Heinz-Peter Meidinger, parla di numerosi casi nella Ruhr, a Francoforte, Stoccarda, Dresda. E anche lì, quasi nessuno studente o genitore si decide a denunciarli pubblicamente.
   La forte preoccupazione della comunità ebraica viene condivisa dalla politica: «È scandaloso e insopportabile che un bambino ebreo venga minacciato», dice il neo ministro degli Esteri, Heiko Maas. Mentre Michael Müller, borgomastro socialdemocratico della capitale, annuncia «stop, questo è inaccettabile» e promette tolleranza zero.
   La responsabile per l'Integrazione del governo federale, Annette Widman-Mauz, annuncia iniziative per coinvolgere obbligatoriamente i genitori musulmani nell'attività scolastica. Si muove anche il Consiglio centrale dei musulmani, che mette a disposizione dieci imam per andare nelle classi insieme ai rabbini a promuovere «dialogo, informazione e rispetto reciproco».
   La vicenda della scuola berlinese è un esempio concreto alla base della polemica che da settimane divide il governo e la stessa Cdu-Csu sul ruolo dell'Islam nella società tedesca.
   Tutto è cominciato da una frase del ministro dell'Interno, Horst Seehofer, secondo cui «l'Islam non appartiene alla Germania». Ma il leader cristiano-sociale bavarese è stato bacchettato pubblicamente da Angela Merkel, che nella sua dichiarazione programmatica al Bundestag ha ricordato che 4,5 milioni di musulmani vivono nella Repubblica Federale e quindi la loro religione è parte del Paese. «So che qualcuno ha un problema ad accettarlo», ha detto Merkel chiaramente irritata senza nominare il suo ministro. «Seehofer», le hanno gridato dai banchi dell'opposizione.

(Corriere della Sera, 30 marzo 2018)


Tempo di Pesach per gli ebrei

Dal 30 marzo al 7 aprile

di Daniele Silva

La sera di venerdì 30 marzo comincia la pasqua ebraica, «Pesach», che dura per i successivi otto giorni, fino a sabato 7 aprile. La festività ha il suo culmine nei primi due giorni, venerdì 30 e sabato 31 marzo, quando ai consueti appuntamenti di preghiera in sinagoga, la sera e la mattina, si aggiunge la cena rituale del «seder», che in ebraico significa «ordine». Il seder; che si svolge sempre secondo lo stesso schema, è un momento importante in cui le famiglie si riuniscono per raccontare ai figli gli episodi della schiavitù egiziana del popolo ebraico, delle dieci piaghe e della fuga attraverso il Mar Rosso sotto la guida di Mosè. Prima e dopo la cena si segue la lettura della «Hagadà», che appunto illustra le vicende narrate nella Torah e ne trae riflessioni e insegnamenti. Il periodo pasquale è poi contrassegnato da alcune restrizioni alimentari, che si aggiungono a quelle di tutti i giorni: non è possibile mangiare né possedere alcun cibo lievitato o che non sia stato preparato e confezionato appositamente per Pesach; prima della festa è necessario pulire a fondo la casa per rimuovere ogni traccia di pane o cibo lievitato. Il precetto ricorda proprio la fuga degli ebrei dall'Egitto: nella fretta di scappare poco prima della decima piaga, il pane non aveva fatto in tempo a lievitare.

(La Stampa - Torino, 30 marzo 2018)


E Carlo Alberto "liberò" gli ebrei

170 anni fa il decreto che estendeva i diritti civili ai non cattolici

di Elena Loewenthal

 
Carlo Alberto, Re di Savoia
Quest'anno la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei giorni intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga torinese dove un tempo c'era il forno per le azzime capiterà di rivolgere uno sguardo all'armadio santo - che contiene i rotoli della Torah - dipinto di nero in segno di lutto accorato per la morte di re Carlo Alberto, lo si farà con pizzico di malinconia tutta particolare e una gratitudine indimenticabile.
   Perché proprio cento e settant'anni fa - il 29 marzo 1848 - il sovrano piemontese firmò sul campo di battaglia di Voghera un decreto col quale concedeva tutti i diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo quel processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli d'Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima ancora per la civiltà. Fino a quello storico momento e per quasi duemila anni, infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro un'emarginazione fisica e teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli infedeli per eccellenza, erano l'unico «diverso» dentro una società europea perfettamente uniforme. Ma in quanto testimoni viventi della passione di Gesù e del messaggio cristiano andavano preservati come una sorta di reperto archeologico a vista. In questo equilibrio fra colpa e sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati sempre sottoposti a una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da cittadini ma da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.
   Con la firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per gli ebrei piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur nella loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è giustamente un dogma della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo rappresentò un passo sorprendente.
   E Carlo Alberto diede prova di una straordinaria lungimiranza, degna di un grande sovrano, pur senza derogare al rinomato (mai abbastanza rinomato, a dire il vero) understatement piemontese: «Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari dell'Interno, abbiamo ordinato ed ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di tutti i diritti civili e della facoltà di conseguire i gradi accademici. Nulla è innovato quanto all'esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al presente». In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848 sta racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri italiani. Anche se esattamente novant'anni dopo di allora il regime fascista emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d'Israele guardarono innanzitutto con sgomenta incredulità.
   La storia è molto spesso capace di stupire, nel male come allora, nel bene di coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e cuore partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i figli d'Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano nell'avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla schiavitù d'Egitto all'autodeterminazione nel deserto, al di là del Mar Rosso. Non un mero transito bensì una vera e propria trasfigurazione, perché quando arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e non meno sofferenza, la libertà ti cambia.

(La Stampa, 30 marzo 2018)


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Liberati da o liberati per?

"...
i figli d'Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano nell'avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla schiavitù d'Egitto all'autodeterminazione nel deserto", dice Elena Loewenthal. Che Pesach sia il ricordo di una liberazione, è fuor di dubbio. E' una "liberazione da": dalla schiavitù d'Egitto, fatto che la Bibbia conferma decisamente:
    "Io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto, perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta" (Levitico 26:13).
Ma in che senso questa "liberazione da" è anche una "liberazione per"? L'autrice risponde: per "l'autodeterminazione nel deserto". Ecco il tipo di risposta che piace tanto agli occidentali di oggi, tra cui molti ebrei laici: la possibilità per popoli e individui di autodeterminarsi senza limite alcuno imposto dall'esterno. Self-determination, principio cardine dell'odierno diritto internazionale. Però, nel caso del popolo liberato dalla schiavitù d'Egitto non si parla di "autodeterminazione", per il semplice fatto che la liberazione non era stata una “autoliberazione", ma era stata ottenuta per l'azione di un Liberatore che aveva idee chiarissime su quello che chiedeva al popolo da Lui liberato. E aveva anche fatto sapere quali sarebbero state le conseguenze di uno slittamento verso un'autodeterminazione non prevista dagli accordi stabiliti. Rileggiamo allora il testo citato e la sua continuazione:
    "Io sono l'Eterno vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto per liberarvi dalla schiavitù; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta. Ma se non mi date ascolto e se non mettete in pratica tutti questi comandamenti, se disprezzate le mie leggi e detestate le mie prescrizioni non mettendo in pratica tutti i miei comandamenti e così rompete il mio patto, ecco quel che vi farò a mia volta: manderò contro di voi il terrore, la consunzione e la febbre, che annebbieranno i vostri occhi e consumeranno la vostra vita, e seminerete invano la vostra semenza: la mangeranno i vostri nemici. Volgerò la mia faccia contro di voi e voi sarete sconfitti dai vostri nemici; quelli che vi odiano vi domineranno e vi darete alla fuga senza che nessuno vi insegua" (Levitico 26:13-17).
Quanto al "per" che costituirebbe il motivo della liberazione, anche in questo la Bibbia è chiara:
    "Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio" (Esodo 29:46)
"Abitare in mezzo a loro", questo era ed è ancora l'obiettivo d’amore scelto dal Signore; l’osservanza dei precetti non aveva valore in se stessa, ma era la condizione posta affinché la vicinanza d’amore, come nel caso di una coppia matrimoniale, potesse avvenire nel giusto modo. Ogni coabitazione ha le sue regole, ma se uno dei due coniugi lascia la casa, a che serve continuare ad osservare le regole?
L'opera d’amore di Dio verso Israele naturalmente continua, e anche le minacce già messe in atto nella storia sono prova di questo amore. A questo dovremmo forse pensare tutti noi in questi giorni: gli ebrei farebbero bene a pensare di più al Liberatore piuttosto che alla liberazione; i non ebrei farebbero bene a ricordare che se stanno godendo dell'amore di Dio è soltanto perché Dio ha amato e continua ad amare Israele. M.C.

(Notizie su Israele, 30 marzo 2018)


I "Cinque regni risorgono dal ritiro dell'impero americano". Il libro di Bernard Lévy

"Contro l'occidente stanco e disfattista"

di Giulio Meotti

ROMA - "L'occidente è rovinato?", si chiede Bernard-Henri Lévy sulla copertina dell'Express di questa settimana. L'occasione è il nuovo, atteso libro del "philosophe" più philosophe di tutti, per tutti "BHL", la cui carriera nella politica francese è stata un crescendo da quando entrò a far parte dei saggi di François Mitterrand, al fianco di Jacques Delors, Michel Rocard e Jacques Attali. Si intitola L'Empire et les cinq rois il canto del cigno che BHL dedica all'occidente, in uscita il 4 aprile e anticipato dal magazine francese Express. "L'America fu fondata da latinisti che conoscevano a memoria l'Eneide di Virgilio; che avevano la sensazione, questi Padri fondatori, di essere gli eredi di Enea in fuga dalle rovine di Troia e che attraversano i mari per reinventare Troia a Roma" dice BHL sull'America. "La vera crisi dell'America è qui, in questa dimenticanza del patrimonio europeo". Nel 1977 con "La barbarie dal volto umano" Bernard-Henri Lévy espresse il proprio pessimismo nei confronti del socialismo, veicolo più di barbarie che di liberazione. Adesso con questo nuovo libro parla della crisi occidentale.
   L'impero del titolo è quello americano, dalle cui rovine stanno risorgendo i cinque regni che consideravamo perduti: Russia, Cina, Iran, Turchia e paesi arabi. A chi gli dice che nessuna primavera araba ha funzionato, specie la Libia in cui BHL ha sponsorizzato la guerra, il filosofo risponde: "Conosco un solo caso nel mondo di un paese che è passato, in un colpo solo, da una notte all'altra, dal nulla alla democrazia: Israele". Le democrazie sono sempre state anti interventiste. "Durante il genocidio degli armeni, nel 1915. Durante la guerra civile spagnola, nel 1936. Durante l'Anschluss, nel 1938. Durante la rivolta di Budapest, nel 1956. E ancora quando la Polonia si levò contro i sovietici, nel 1981. L'eccezione è il coraggio di intervenire".
   L'America non sembra aver più interesse e voglia. "Per me è il fenomeno più enigmatico e disastroso del momento. E da questo punto di vista, Barack Obama e Donald Trump sono due facce della stessa medaglia. Se l'America dovesse voltare definitivamente le spalle alla sua vocazione originaria, ci sarebbe solo l'Europa ad assumere il controllo della fiaccola delle democrazie". Ma lo farebbe? "Questa incertezza, lo ammetto. mi terrorizza".
   Che prezzo si paga a ritirarsi? "Questo jihadismo che ci colpisce a casa e che è l'ultima perla nera vomitata dall'ostrica del nazismo". BHL parla della "stanchezza democratica" e del "disfattismo culturale". "Il vero 'declino dell'occidente' è questo: quando, come in Kurdistan, non siamo più in grado di difendere i nostri valori".
   L'occidente doveva fermare Erdogan contro i curdi ad Afrin. "Ma avrebbe richiesto l'intrepidezza di Churchill". Israele è l'unico stato a sostenere l'indipendenza del Kurdistan iracheno. "In Israele c'è un sentimento di affinità elettiva del popolo ebraico con il popolo curdo. Meglio: una comunità di destino. I sopravvissuti dell'Olocausto che hanno fatto Israele, i loro discendenti, i discendenti dei loro discendenti, non ignorano il tormento di essere un 'popolo in eccesso"'.
   Già, Israele. "Lì c'è la grandezza dei princìpi metafisici che hanno fatto l'Europa e, quindi, l'occidente". Se la prende anche con il relativismo di "una società che ha perso gli ultimi scrupoli che la collegavano ai pilastri trascendentali della verità e che il mio maestro Jean-Toussaint Desanti chiamava le 'idealità matematiche'. In altre parole: gli universali".
   Il rischio è "nichilismo contro nichilismo". "L'America, se dovesse diventare un impero del niente, lascerebbe il campo libero alla 'volontà del nulla' dei cinque re".

(Il Foglio, 30 marzo 2018)


Tel Aviv - Si scontrano due aerei in pista: tanta paura e oltre un milione di euro di danni

Tragedia sfiorata all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv dove due aerei si sono scontrati in pista. La collisione è avvenuta tra un aereo Germania Airline e un velivolo dell'EL AL Airlines. Nessun ferito solo oltre un milione di euro sui velivoli, riportano i media locali. L'Airbus A319 della compagna tedesca, in manovra nell'area di parcheggio dello scalo, è entrato in collisione con la coda del Boeing 767 israeliano diretto a Roma, anch'esso in uscita.
L'incidente è avvenuto, infatti, mentre i due jet lasciavano le rispettive piazzole per raggiungere la pista di decollo, subendo ingenti danni. Fonti stampa scrivono che i passeggeri di entrambi gli aerei, tutti illesi, sono stati evacuati dal velivolo tramite scale mobili. Seri i danni subiti dalle "code" di entrambi gli aerei coinvolti nella collisione, evidenzia Giovanni D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti" ma per fortuna nessun ferito. Molti passeggeri in transito nello scalo hanno ripreso le fasi della manovra di uscita dai parcheggi e della collisione con l'ausilio di tablet e smartphone prontamente diffondendo i video sui social che sono divenuti virali.

(Agenzia Nova, 29 marzo 2018)


Israele schiera cento tiratori scelti al confine con la Striscia di Gaza

GERUSALEMME - Le Forze armate israeliane hanno schierato 100 tiratori scelti al confine con la Striscia di Gaza in vista delle grandi manifestazioni che si terranno in prossimità della frontiera il prossimo 30 marzo, in occasione della Giornata per la terra palestinese. La ricorrenza ricorda le grandi manifestazioni del 30 marzo 1976 a seguito delle espropriazioni di terre di proprietà palestinese da parte delle autorità israeliane in Galilea. Lo ha riferito il capo dello Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), il generale Gadi Eisenkot, in un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano "Yedioth Ahronoth". "Abbiamo schierato più di 100 tiratori scelti che sono stati richiamati da tutte le unità militari, principalmente dalle forze speciali", ha dichiarato Eisenkot. A causa delle preoccupazioni per la sicurezza, l'esercito israeliano ha imposto una "no go zone" per i palestinesi della Striscia di Gaza adiacente alla recinzione di confine. Il capo di Stato maggiore ha dichiarato che i militari non permetteranno "infiltrazioni di massa" o tollereranno danni alla barriera durante le proteste. "Se le vite sono in pericolo, c'è il permesso di aprire il fuoco", ha aggiunto Eisenkot.
   L'inizio delle festività ebraiche coincide quest'anno con le celebrazioni della Giornata per la terra palestinese che ricorda le grandi manifestazioni del 30 marzo 1976 a seguito delle espropriazioni di terre di proprietà palestinese da parte delle autorità israeliane in Galilea. La manifestazione di quest'anno giunge in un periodo particolarmente delicato delle relazioni tra israeliani e palestinesi, in particolare dopo la decisione degli Stati Uniti di spostare l'ambasciata da Tel Aviv e Gerusalemme, portando al riconoscimento della città come capitale dello Stato di Israele. Le autorità israeliane temono un protrarsi dello stato di tensione fino al 15 maggio quando i palestinesi celebreranno la Nakba (Giornata della catastrofe) che si tiene ogni anno per commemorare gli eventi successivi all'istituzione dello Stato di Israele nel 1948. Le manifestazioni sono sostenute da diverse fazioni palestinesi, tra cui il movimento islamista di Hamas, al potere nella Striscia di Gaza. L'esercito israeliano ha imposto la chiusura dei valichi con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza per il periodo della Pasqua ebraica, dal 30 marzo al 7 aprile.

(Agenzia Nova, 30 marzo 2018)


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"Grande marcia" da Gaza e Israele si mobilita al confine

Tensione altissima

di Vincenzo Nigro

Hamas, il movimento palestinese che controlla Gaza, sta preparando una "Grande marcia del ritorno" che da venerdì dovrebbe portare decine di migliaia di palestinesi verso la barriera al confine tra la Striscia e Israele. Una protesta apparentemente pacifica, che però avrebbe lo scopo di portare centinaia di persone a superare la barriera di confine fra Gaza e Israele, provocando una reazione armata dell'esercito israeliano. A Gaza i capi di Hamas hanno fatto appello alla partecipazione in massa alla protesta "pacifica" che dovrebbe andare avanti per settimane, fino a metà maggio. L'Esercito ha annunciato una mobilitazione straordinaria attorno a Gaza e il blocco per dieci giorni della Cisgiordania e della Striscia: i valichi al confine con i Territori Palestinesi resteranno chiusi fino alla mezzanotte del 7 aprile.

(la Repubblica, 29 marzo 2018)


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Rischio di scontri a Gaza per la Marcia del ritorno di Hamas

«Siamo pronti ad utilizzare proiettili veri se i palestinesi attaccheranno le nostre postazioni». Chi parla è il generale Gadi Eisenkot, capo di stato maggiore dell'esercito israeliano. E la dichiarazione, ufficiale, fa trasparire chiaramente tutta la tensione che si respira in queste ore lungo la striscia di Gaza. L'evento che causa la preoccupazione dello Stato ebraico è la Marcia del ritorno organizzata da Hamas per domani; una chiamata alla protesta che dovrebbe portare migliaia di persone fino ai reticolati al confine con Israele. «Stiamo rinforzando le barriere - ha aggiunto Eisenkot - e un gran numero di soldati sarà di guardia nell'area in modo da prevenire ogni tentativo di passare in territorio israeliano». Secondo indiscrezioni saranno schierati anche oltre cento cecchini nei punti nevralgici.

 L'intelligence
  La marcia viene annunciata come pacifica, ma secondo l'intelligence israeliana Hamas starebbe preparando scontri e attacchi alle forze dello Stato ebraico. La situazione potrebbe precipitare già a partire da domani e peggiorare in futuro: sono infatti previste manifestazioni fino al 14 maggio, quando Israele celebrerà il settantesimo anniversario della sua fondazione, data che i palestinesi ricordano il giorno dopo definendola come Nabkà (il disastro). «Ci aspettiamo provocazioni», fanno trapelare fonti dell'esercito. Ed Eisenkot conferma: «Il nostro obiettivo principale è impedire danni a civili israeliani, specialmente donne e bambini. Siamo chiari sul prevenire ogni incidente».

(Il Messaggero, 29 marzo 2018)


Le tensioni che agitano la Francia

Parigi in piazza contro la violenza religiosa - Le Pen e Mélenchon «cacciati» dal corteo.

di Riccardo Sorrentino

 
Daniel Knoll, figlio di Mireille Koll
«Tutti, senza eccezione, sono invitati». È toccato a Daniel Knoll, uno dei figli di Mireille Knoll, la superstite dell'Olocausto accoltellata e data alle fiamme nella sua casa in un delitto antisemita, tentare di soffocare le polemiche degli ultimi giorni e "aprire" le Marce bianche di denuncia dell'antisemitismo anche ai leader politici meno amati dalla comunità ebraica.
Non è bastato. Perché sono state vere e proprie bordate di fischi quelle che hanno accolto prima l'arrivo del leader della sinistra radicale, Jean- Luc Mélenchon, poi quello della presidente del Front National, Marine Le Pen, alla Marcia bianca di Parigi. Entrambi hanno poi dovuto lasciare la manifestazione accompagnati dalle rispettive scorte.
Le Marce bianche organizzate in tutta la Francia - da svolgere in silenzio, vestiti di bianco - che dovevano unire il Paese attorno alla condanna di quell'odioso delitto e del fenomeno dell'odio per le minoranze, hanno in realtà portato alla luce tensioni mai sopite. Il presidente del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia, Francis Kalifat, aveva detto che Melenchon e Le Pen, non erano benvenuti alla manifestazione. Nei loro movimenti - ha spiegato Kalifat - gli antisemiti sono «sovrarappresentati»: con questi partiti, ha quindi concluso, «non vogliamo essere associati».
Le Pen, in campagna elettorale, aveva in effetti tentato di negare la responsabilità della Francia nella deportazione degli ebrei, spiegando poi che era stato un crimine compiuto dalle sole élite politiche dell'epoca, senza la partecipazione popolare dei francesi. Ieri la leader dei nazionalisti radicali ha rivendicato di aver sottolineato le difficili condizioni in cui vivono molti ebrei in alcuni quartieri già alcuni anni fa.

- Sciolte le tensioni
  Daniel Knoll ha tagliato corto:«Il Crif fa politica, io apro il mio cuore. Chiunque abbia una madre può capirlo» «Non pongo limiti - ha poi aggiunto- .Sono contro i limiti». Alla manifestazione hanno dunque partecipato i rappresentanti di tutto il mondo politico e istituzionale francese. Non il presidente Emmanuel Macron, che «a titolo privato, a sostegno della famiglia» ha partecipato invece ai funerali. Anche a Roma, nella Sinagoga, si è tenuta una cerimonia, mentre il Centro islamico culturale d'Italia, conosciuto come la Grande moschea di Roma, ha condannato l'omicidio di Mireille Knoll definendolo un atto «ignobile».

- Il precedente di Sarah Halimi
  L'intervento di Daniel Knoll ha riportato così dietro le quinte le tensioni politiche e sociali che si stanno addensando nella laica Francia - e non solo- attorno al tema della convivenza tra religioni diverse. La compresenza di musulmani, ebrei, cristiani in un contesto di progressivo irrigidimento delle posizioni, rende la situazione piuttosto delicata. Alcuni dei precedenti episodi di violenza contro gli ebrei sono stati altrettanto odiosi. Ad aprile Kobili Traore, 27 anni, originario del Mali, è entrato nell'abitazione della vicina Sarah Halimi, 65 anni, urlando «Allahu Akbar»: l'ha picchiata, e poi l'ha scaraventata giù dal balcone, commentando in arabo: «Ho ucciso il diavolo». A lungo la Procura ha evitato di definirlo come un incidente antisemita - l'uomo, tossicodipendente, ha probabilmente anche problemi mentali- riconoscendone poi la natura a ottobre.

- Un fenomeno in crescita
  Un rapporto del ministero dell'Interno ha contato nel 2017 97 atti di violenza contro ebrei, dai 72 dell'anno precedente e 72 contro i musulmani, da 67. Anche se nel complesso gli incidenti contro le minoranze (comprendendo per esempio i luoghi di culto e di vita in comune) sono in generale calati. Anche se nella notte tra martedì e mercoledì i locali dell'Unione studenti ebrei della Sorbona sono stati danneggiati. Scritte antisemite e antisioniste («Locale razzista», «Morte a Israele»), lasciano pochi dubbi sulla matrice dell'incidente. La risposta di ieri, la tendenza - quasi una tradizione - dei francesi a rappresentare le tensioni "scendendo in piazza" ha permesso al Paese di affrontare il problema e di cercare di isolarlo con un cordone sanitario sociale e politico.
Niente di simile accade altrove, anche dove il problema è persino più acuto. Nel Regno Unito, per esempio, dove l'anno scorso si sono verificati 145 episodi violenti di antisemitismo, dai 108 dell'anno precedente. Il Cst, il Community security trust di Londra, ha contato 1.372 incidenti - compresi insulti e altre manifestazioni verbali - contro ebrei. Non è solo il secondo record consecutivo: negli anni precedenti si erano registrati picchi in occasione del riacutizzarsi del confronto tra Israele e i palestinesi, mentre negli ultimi due anni il fenomeno sembra avere radici tutte "nazionali": dopo l'attacco di Manchester c'è stato anche il tentativo, sui social, di far cadere la responsabilità dell'attentato sugli ebrei. Ancora peggiore la situazione negli Stati Uniti, dove il numero degli incidenti contro ebrei o luoghi di culto e di vita in comune sono aumentati tra gennaio e settembre del 67%, a quota 1.299.

- Usa, l'inviato che non c'è
  La vittoria di Trump - l'Amministrazione ha lasciato vacante il posto del rappresentante diplomatico per l'antisemitismo - e l'emergere dell'alt-right ha incoraggiato il fenomeno. Il problema è delicato in Germania - proprio ieri è emerso che a Berlino una bambina è stata picchiata perché ebrea dai compagni di classe, una seconda elementare - dove sorge a destra la tentazione di rivalutare il nazismo. In ltalia, non mancano episodi - si pensi a quanto è recentemente avvenuto nelle tifoserie di calcio, tra inviti ad andare ad Auschwitz e foto di Anne Frank-ma il fenomeno sembra avere proporzioni minori. Come più bassa, però, è la consapevolezza del problema (un solo aneddoto: la pagina wikipedia sull'antisemitismo in Italia nel XXI secolo è solo in inglese).

- Una convivenza difficile
  Il tema della convivenza tra religioni diverse e la tentazione a rispondere all'integralismo con un fondamentalismo uguale e contrario - dimenticando la lezione imparata a fatica dall'Europa durante le guerre di religione tra il Cinquecento e il Seicento - rendono il fenomeno incandescente. Non si può neanche negare che sia un certo islamismo, ideologicamente (e un po' paradossalmente) più vicino al nazismo e al fascismo - i legami sono profondi e documentati - che al Corano e a volte finanziato da alcuni governi del Medio Oriente, a guidare la corsa verso la radicalizzazione.

(Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2018)


Perché Israele ha deciso di non espellere i funzionari russi

di Lorenzo Vita

Nel vortice delle espulsioni dei diplomatici russi per il caso Skripal, Israele ha scelto la via della diplomazia, sottraendosi alle scelte del blocco occidentale. Una scelta che molti hanno criticato, soprattutto a Londra, e che però fa comprendere in maniera limpida il fatto che Israele segua una sua agenda politica del tutto estranea, all'occorrenza, a quella occidentale.
  In questa guerra delle spie, Tel Aviv ha scelto di stare dalla parte di Mosca. O quantomeno di non schierarsi contro di essa. E a spiegare il motivo di questa scelta, pur appartenendo teoricamente a una sorta di blocco occidentale, è stato il ministro dell'Edilizia Yoav Galant. Senza troppi giri di parole, ma con l'assoluta chiarezza tipica di chi ha l'autonomia per decidere, il ministro ha reso una dichiarazione esplicita: "Dobbiamo pensare agli interessi di Israele, e non agli interessi degli altri".

 "Dobbiamo pensare agli interessi di Israele, e non agli interessi degli altri"
  "Ci sono più di un milione di immigrati che sono arrivati in Israele dalla Russia e il governo russo li considera cittadini, o al limite cittadini veterani", ha detto durante un incontro organizzato da The Israel Project come scritto dal The Times of Israel. "Inoltre, dobbiamo ricordare le proporzioni e le distanze. Israele è nel cortile della Russia ed è molto vicino", ha detto Galant.
  E pur ribadendo l'alleanza con gli Stati Uniti, il ministro ha tenuto a ribadire un dato essenziale: "Dobbiamo essere fieri di poter negoziare, parlare e vivere fianco a fianco con i russi. E questo è quello che faremo".
  Il governo britannico ha detto che si aspetta da Israele un segnale in suo favore, ma questo segnale sembra non dover arrivare nell'immediato. Il governo di Benjamin Netanyahu sa che non può inimicarsi la Russia di Vladimir Putin. La presenza militare russa in Medio Oriente e il suo coinvolgimento in Siria rappresentano due motivi più che validi per essere cauti. Il difficilissimo equilibrio mediorientale si fonda anche sui rapporti fra Mosca e Tel Aviv. E Israele sa che la Russia è sì un ostacolo alle sue velleità offensive in Siria, ma anche una garanzia che le forze della mezzaluna sciita non si espandano ulteriormente.
  Gli interessi di Israele ora non prevedono un asse con Londra. E per il governo Netanyahu questo è già di per sé sufficiente a evitare crisi diplomatiche con Mosca. Sempre che gli Stati Uniti, in particolare con Donald Trump, non decidano di fare pressioni molto forti sul governo israeliano.

 I rapporti dell'intelligence israeliana
  Al netto delle motivazioni strategiche sul non inimicarsi i russi in un momento così delicato del Medio Oriente, ad aiutare nella scelta del governo israeliano di evitare l'espulsione dei diplomatici di Mosca ci ha pensato l'intelligence.
  Secondo quanto riportato da fonti di Debka, sito israeliano legato ai servizi, il governo israeliano è stato spinto a non unirsi al blocco occidentale per almeno tre considerazioni. La prima di esse riguarda un rapporto segreto dell'intelligence israeliana inviato al primo ministro Netanyahu e al ministro della difesa Avigdor Lieberman in cui gli 007 dello Stato ebraico hanno rivelato che, sebbene l'agente chimico usato per avvelenare Sergei Skripal e sua figlia fosse originariamente prodotto nella Russia sovietica, "oggi almeno 20 altri governi stanno fabbricando e accumulando quell'agente chimico".
   La seconda motivazione sarebbe da ricercare nella scarsa determinazione riscontrata nel presidente Trump. La scorsa settimana, Israele sembra abbia effettivamente indagato sulla posizione del capo della Casa Bianca riguardo all'appello del premier britannico Theresa May per una rappresaglia contro Mosca, ma le risposte che giungevano da Washington non sono state troppo esaustive. E secondo il sito israeliano, il motivo della presa di posizione repentina di Trump con l'espulsione dei funzionari russi è da ricercare non in una vera e propria guerra contro Mosca, quanto in un patto fra Stati Uniti ed Europa sul futuro dell'accordo sul nucleare iraniano. Trump, per avere un'Europa più morbida, avrebbe offerto in cambio l'appoggio a Londra. Israele in teoria dovrebbe esserne contento, ma non tutti sono d'accordo nei vertici militari dell'intelligence.

(Gli occhi della guerra, 29 marzo 2018)


Abu Mazen si aggrava, in Palestina è lotta per la successione

di Chiara Clausi

Comincia la corsa alla successione ad Abu Mazen. Le voci su un peggioramento delle condizioni di salute del presidente palestinese, dopo il ricovero negli Stati Uniti, si fanno sempre più insistenti e accelerano le manovre degli aspiranti eredi. Sono quattro i favoriti: il capo dell'intelligence Majd Farai, il numero due di Al-Fatah Mahmoud al-Alul, il nipote di Arafat Nasser al-Qudwa e il premier palestinese Rami Hamdallah. Ma nei giochi c'è anche Mohammed Dahlan, ex uomo forte della Striscia di Gaza, un passato nei servizi palestinesi e nemico di Abu Mazen. Dahlan è appoggiato dagli Usa, da Israele e dagli Emirati. Nelle manovre però si vuole inserire anche Hamas e l'attentato del 13 marzo ad Hamdallah (il preferito di Abu Mazen) ha reso incandescente lo scontro fra il rais e il movimento islamista. Il 22 marzo Hamas ha ucciso Anas Abu Houssa, il presunto attentatore, dopo un pesante scontro in un campo profughi a Gaza. Resta così il mistero sui mandanti: forse un gruppo jihadista oppure qualcuno all'interno di Al-Fatah che vuole scavalcare lo stesso Hamdallah.
Middle East eye ricorda l'«accordo di unità palestinese» firmato da Hamas e Fatah, che avrebbe dovuto portare alla graduale transizione del potere verso l'Anp, «ma sono stati fatti pochi progressi». E continua con le dure affermazioni del portavoce di Abbas, Nabil Abu Rudeineh: «L'attentato è stato un attacco all'unità del popolo palestinese». L'israeliano Haaretz riporta le parole di Hamdallah: «Nonostante l'accaduto, continueremo gli sforzi di riconciliazione con l'aiuto dell'Egitto». E poi: «Invito Hamas e tutte le altre fazioni a partecipare al consiglio nazionale palestinese».

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Il parere di Paul Scham, analista del Middle East Institute di Washington

L'identità del successore del presidente palestinese Mahmoud Abbas e dell'attacco al suo premier, Rami Hamdallah, sono entrambi avvolti nel mistero e probabilmente resteranno tali. Non sapendo chi sia il reale mandante e non essendoci un personaggio davvero popolare fra i cinque interessati alla successione, è improbabile che Abbas indichi la sua preferenza per un successore finché non sarà sul letto di morte. Per quanto riguarda l'attacco a Hamdallah, ci sono così tanti possibili sospetti e motivi che è improbabile che venga rivelato chi ci sia dietro. Forse il candidato principale, se Abbas non sceglierà qualcuno, è Mohammed Dahlan, che ha litigato con Abbas per anni, ma è apprezzato da Israele e dall'Occidente.

(Panorama, 29 marzo 2018)


Allarme antisemitismo anche a Berlino. "Ora tolleranza zero"

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO - Nei cortili di alcune scuole tedesche "ebreo" è tornato ad essere insulto. Dopo il caso che ha scosso la Germania intera di una bambina ebrea di sette anni ripetutamente offesa e
minacciata di morte dai compagni di classe musulmani in una scuola di Berlino, stanno venendo alla luce episodi agghiaccianti di discriminazione, proprio nel Paese che si è macchiato dell'Olocausto.
Le statistiche segnalano che gli episodi di intolleranza nei confronti degli ebrei stanno aumentando: soltanto nella capitale nel 2017 si sarebbero registrati 18 episodi di discriminazione, contro i sette dell'anno precedente. I dati sono stati registrati dall'associazione Rias, che raccoglie informazioni sull'antisemitismo a Berlino, ma il direttore Benjamin Steinitz si è detto convinto che «non tutti i casi vengano alla luce». Ieri il leader della Csu ed ex ministro dei Trasporti, Alexander Dobrindt, ha promesso dunque «zero tolleranza contro l'antisemitismo nelle scuole». Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei, Josef Schuster, ha richiesto intanto statistiche più precise sull'inquietante fenomeno e ha accusato le organizzazioni musulmane di non impegnarsi abbastanza per contrastare l'odio religioso. Nel Contratto di coalizione del Merkel IV è prevista l'istituzione di un Responsabile della lotta all'antisemitismo e il vicegruppo Cdu al Bundestag, Stephan Harbarth, ha detto ieri che chi si macchia di odio contro gli ebrei «non può far parte di questa società». Al sospetto che il nuovo antisemitismo sia diffuso soprattutto tra i musulmani, il Consiglio centrale del musulmani tedeschi ha risposto ieri con un'iniziativa che vedrà dieci imam parlare nelle classi berlinesi, possibilmente insieme ad altrettanti rabbini. Il presidente dell'associazione, Aiman Mayzeck, ha spiegato di voler fare in modo «che le personalità religiose propongano il dialogo e il rispetto reciproco». Il progetto potrebbe essere poi esteso ad altre città tedesche.

(la Repubblica, 29 marzo 2018)


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Germania: la comunità ebraica chiede di monitorare l'antisemitismo nelle scuole

di Paolo Castellano

Josef Schuster, capo del Consiglio generale degli ebrei tedeschi
Nelle ultime settimane di marzo, la comunità ebraica tedesca ha sollecitato le scuole primarie a fare attenzione al bullismo religioso tra i ragazzini. I rappresentanti ebrei ritengono infatti che durante le pause di ricreazione e di gioco possano accadere degli eventi di abuso antisemita.
Allarme bullismo religioso tra i giovani
Josef Schuster, capo del Consiglio generale degli ebrei tedeschi, ha infatti dichiarato all'emittente televisiva ZDF di aver sostenuto la proposta di un sindacato di polizia che vorrebbe elaborare delle statistiche nazionali con lo scopo di tracciare i casi di bullismo religioso nelle scuole, ha riportato Israel national news.
Schuster vorrebbe infatti che gli insegnanti e gli studenti si mettessero a disposizione per iniziare un'indagine statistica "sugli atti antisemiti e violenti", bypassando la burocrazia tedesca. Questo metodo garantirebbe una fotografia più chiara di ciò che sta accadendo nelle scuole.
La richiesta è pervenuta dopo una recente investigazione giornalistica che ha indignato la Germania. La stampa tedesca ha infatti scoperto che una ragazzina ebrea è stata vittima di bullismo da parte di una compagna musulmana in una scuola elementare di Berlino. La giovane ebrea avrebbe inoltre ricevuto delle minacce di morte poiché non credeva in Allah.
L'incidente, riportato questa settimana dal padre della ragazzina al quotidiano Berliner Zeitung, ha riacceso i timori per la crescita dell'antisemitismo in Germania, quasi 80 anni dopo la Shoah.
«Questo non è solo un caso isolato», ha detto Marina Chernivsky, capo del gruppo di sorveglianza sull'antisemitismo di Berlino, all'agenzia stampa DPA.
Il termine "ebreo" usato come insulto e il fattore immigrazione
Da tempo infatti i maestri di Berlino affermano che la parola "ebreo" sia diventata un insulto comune tra i ragazzini. Alcuni critici sostengono inoltre che il sentimento anti-ebraico sia cresciuto a causa dei flussi migratori del 2015, quando un milione di immigrati, in prevalenza musulmani, hanno richiesto asilo alla Germania.
La Chernivsky ha poi detto che il problema non riguarderebbe solo i nuovi arrivati musulmani. Tuttavia ha commentato così le preoccupazioni della comunità ebraica tedesca: «Dobbiamo però considerare che nei paesi di questi nuovi immigrati l'antisemitismo e l'antisraelismo sono molto diffusi».
«Finché gli ebrei avranno paura di andare a scuola temendo di subire un abuso antisemita, ci sarà qualcosa di sbagliato in questo paese», ha detto Schuster al giornale Tagesspiegel.
Ma il capo dell'associazione berlinese degli amministratori scolastici, Astrid-Sabine Busse, dubita che il bullismo religioso sia un serio problema per gli scolari. «Non registriamo spesso questi tipi di incidenti antisemiti», ha detto al Tagesspiegel.
Secondo una classifica stilata dal Congresso ebraico Mondiale, la Germania sarebbe al secondo posto per diffusione di immagini e post antisemiti nel web.

(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2018)


«Ciò che inorridisce è la totale indifferenza che accompagna queste notizie»

Discorso di rav Ariel Di Porto in Sinagoga a Torino, ieri 27 marzo

C'è voluto del tempo, ma sì, è antisemitismo. C'è voluto coraggio (!?), ma si è riusciti a dirlo. Avremmo voluto non sentirlo, non per Mireille. Dove non sono arrivati i nazisti, può arrivare il vicino di casa. Un antisemitismo differente, ma con elementi ereditati dai nostri peggiori incubi, antisemitismo islamico della peggiore fattura. Questa volta non c'entra Israele. Ieri, vedendo che la notizia, che circolava già da un po' nei social network, ma faticava ad uscire sui maggiori organi di stampa, mi chiedevo cosa stesse avvenendo. C'era qualcosa che non sapevamo? La notizia poteva turbare la sensibilità di qualcuno? C'erano notizie più importanti? Dobbiamo prendere atto di un fatto: la morte di un ebreo, ucciso barbaramente proprio perché ebreo, solo perché ebreo, non fa più notizia. E questa è la notizia che dovrebbe preoccupare maggiormente tutti noi. Negli ultimi anni in Francia si sono registrati molti casi, ma l'ultimo, per via delle modalità spaventose nelle quali si è consumato ha colpito la sensibilità di molti correligionari. Mireille Knoll, scampata alla Shoah, ripetutamente accoltellata e bruciata solo perché ebrea. Tradita allora, tanti anni fa, e tradita nuovamente oggi. In un post struggente la nipote scriveva di essere addolorata, perché non le era rimasta neppure una foto dei nonni, dal momento che la casa di Mireille era stata bruciata. Prima di Mireille era stata la volta di Sara Halimi, buttata dalla finestra da un suo vicino, sempre perché ebrea. In quel caso, sebbene fosse chiaro sin dall'inizio, ci sono voluti mesi per scoprire che il movente era tristemente lo stesso. Prima di lei, svariati altri, donne, uomini, bambini, rei di essere ebrei oggi in Europa. L'antisemitismo in Francia è in continua, vertiginosa crescita. Pestaggi, sfregi, attacchi con l'acido, profanazione di tombe. Negli ultimi anni decine di migliaia di ebrei francesi si sono trasferiti in Israele, ma l'impressione, francamente, è che non vi sia un interesse particolare nel salvaguardare gli ebrei. Questo atteggiamento è molto miope, perché nella storia gli ebrei sono sempre stati solo l'inizio. Quanto avviene ripetutamente e impunemente qui nel nostro glorioso ateneo a Torino è espressione di un altro tipo di antisemitismo, più strisciante e difficile da individuare, ma il clima che si respira, anche nella nostra città è sempre più insopportabile. Senza voler parlare di quanto succede nei parlamenti in Polonia e in Islanda. Si potrà sempre dire che siamo paranoici, ma tanti, diversificati indizi rischiano di divenire una prova schiacciante. Dobbiamo fare molta attenzione a quanto accade. Quanto abbiamo detto succede in Europa oggi, nell'Europa che consideriamo più all'avanguardia nella salvaguardia dei diritti umani, un'Europa che si è dimostrata incapace, o ancora peggio ha mostrato di non avere la volontà, di salvare la vita dei suoi cittadini. Un'Europa senza ebrei non è una vittoria, è una sconfitta indicibile, perché è la negazione di quelli che ci propinano come i valori su cui l'Europa stessa è costruita. Ciò che inorridisce è la totale indifferenza che accompagna queste notizie. La reazione deve essere invece forte e ferma al contempo. Non vendetta, ma la ferma e incrollabile pretesa che le punizioni ci siano e che siano esemplari. Il silenzio delle istituzioni, tranne rarissime eccezioni, non può non preoccuparci. Non solo noi dobbiamo essere turbati da questa vile, inumana escalation, che è un attacco alla nostra umanità.
Domani sera a Parigi vi sarà una marcia e una commemorazione per Mireille. La speranza è che la sua morte non sia stata vana, che abbia avuto la forza di scuotere quante più coscienze in questa Europa, che sembra subire stancamente tutto quello che le avviene. Il suo ricordo sia di benedizione.

(da Facebook di Emanuel Segre Amar, 28 marzo 2018)


Comunicato stampa sull'assassinio di Mireille Knoll

Firenze, 28 marzo 2018

Oggi a Firenze, presso la Fondazione Spadolini Nuova Antologia, in apertura della presentazione della nuova edizione dell'opera di Carlo Cattaneo Interdizioni israelitiche, il presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze Valentino Baldacci ha affermato che non si poteva non ricordare - parlando di uno dei classici della lotta contro l'antisemitismo - che tre giorni fa a Parigi una donna ebrea di 85 anni, sopravvissuta alla Shoah, è stata barbaramente uccisa proprio perché ebrea.
La nuova edizione dell'opera di Carlo Cattaneo è stata presentata da Zeffiro Ciuffoletti, da Gigliola Sacerdoti Mariani e dal curatore Gianmarco Pondrano Altavilla.

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 28 marzo 2018)


Berlino, bambina insultata e picchiata a scuola perché ebrea

I responsabili sono coetanei musulmani, figli di immigrati. Il fenomeno del "mobbing religioso" è in crescita in Germania. Ma anche in altri Paesi europei.

di Marianna Di Piazza

È successo pochi giorni fa nella scuola elementare Paul-Simmel di Berlino. Un bambina di 7 anni è stata avvicinata da un amico: "Sei ebrea?". La piccola ha subito risposto di sì e ha spiegato che suo papà è di fede ebraica anche se non è praticante. A quel punto è stata picchiata da diversi bambini, tutti provenienti da famiglie di fede musulmana.
Ora, Thomas Albrecht, direttore della scuola elementare nella quale è avvenuta l'aggressione, vorrebbe arruolare servizi di sorveglianza privati per garantire la sicurezza.

 Il fenomeno
  Come racconta La Stampa, in Germania, l'episodio sta scuotendo l'opinione pubblica e ha innescato un dibattito sul cosiddetto "mobbing religioso", un fenomeno molto diffuso nel Paese. "I bambini sono sempre più spesso soggetti al fanatismo religioso dei loro genitori, fratelli maggiori o parenti più stretti", ha dichiarato al quotidiano Berliner Zeitung l'insegnante di una scuola elementare berlinese nella quale fino al 70% degli alunni è figlio di immigrati."Non sanno ancora leggere e scrivere, ma già dividono il loro piccolo mondo in due categorie: credenti e miscredenti, musulmani e non musulmani".
I reati di stampo antisemita sono cresciuti negli anni: oltre 1500 quelli denunciati alle autorità nel 2017. Le vittime di questo fenomeno non solo alunni non musulmani, ma anche insegnati ed educatori, in particolar modo donne. "Radicalizzandosi, i giovani musulmani trovano un'identità, si distinguono e compensano l'esperienza d'isolamento che a loro volta provano in qualità di diversi, di stranieri, di emarginati", ha dichiarato la direttrice dell'American Jewish Committee di Berlino, Deidre Berger.

 In Francia
  Non solo in Germania. Il fenomeno è diffuso anche negli altri Paesi europei. In Francia, due giovani di fede musulmana sono stati accusati di "omicidio volontario" per l'uccisione di Mireille Knoll, l'85enne sopravvissuta alla Shoah e trovata senza vita in casa venerdì. Gli inquirenti parlano di un omicidio motivato dalla "appartenenza vera o presunta della vittima a una religione", quella ebraica.

(il Giornale, 28 marzo 2018)


«Foggia, imam dell'Isis indottrinava i bimbi»

La Dda barese: terrorismo internazionale e istigazione a delinquere

di Giovanni Longo

BARI - Sulla carta erano solo lezioni di grammatica e lingua araba. In realtà, stando alle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Bari, durante i seminari del sabato e della domenica mattina indottrinava un gruppo di bambini. Alla guerra santa. In cattedra c'era Mohy Eldin Mostafa Omer Abdel Rahman, 59 anni, cittadino italiano di origine egiziana, arrestato con le accuse di terrorismo internazionale e istigazione a delinquere, non solo per le «lezioni» impartite a una decina di bambini di età compresa tra i 4 e i 10 anni in cui spiegava che l'unico modo per ottenere il Paradiso era la morte in battaglia, «tagliando la testa ai miscredenti».
   Nel mirino degli agenti della Digos delle Questure di Bari e Foggia e dei finanzieri del Gico di Bari, è finita la presunta partecipazione all'«associazione terroristica di matrice islamica denominata Isis». Dalla «istigazione alla violenza stragista», alla «condivisione e propaganda del credo estremista islamico, nei propositi di commettere attentati e singoli omicidio di "infedeli"», scrive il gip del Tribunale di Bari Francesco Agnino. Stando alle indagini dei pm Lidia Giorgio e Giuseppe Gatti, coordinate dall'aggiunto Francesco Giannella, a Foggia dove Rahman presiedeva l'associazione culturale «Al Dawa», in via Zara 40, c'era una vera e propria «cellula di ispirazione jihadista» organizzata e «volta alla possibile, effettiva e concreta messa in atto di azioni terroristiche».
   Ai piccoli, nati in Italia, famiglie perbene di fede musulmana, veniva spiegato che colui che è andato a combattere ed è stato ucciso è andato in Paradiso. L'uomo invitava anche i bambini a non partecipare a feste come Carnevale («fanno le cose brutte in quel giorno»). Tra il materiale sequestrato c'è anche un file in formato pdf ritenuto un documento di propaganda dell'Isis per i più piccoli. Una sorta di abecedario in cui l'equivalente della lettera «c» italiana non era «casa» ma «carrarmato», la «b» era «bomba», la «m» era «missile», la «k» «kalashnikov» e così via. La vicenda è stata segnalata anche al Tribunale per i Minorenni di Bari che ha aperto un fascicolo «a protezione dei bambini - spiega il presidente Riccardo Greco - perché le immagini crude e i messaggi di violenza potrebbero aver generato turbamenti».
   Questa parte dell'inchiesta condotta dagli agenti della Digos guidati dal primo dirigente Michele De Tullio e dal vice questore aggiunto Giovanni De Stavola, esperto in terrorismo, sposta l'asticella dell'attenzione su certi fenomeni molto indietro, e cioè sull'indottrinamento dei bambini da parte di «cattivi maestri» («Bad Teacher» è il nome dell'operazione). Stando alle indagini dell'ufficio inquirente barese diretto dal procuratore Giuseppe Volpe, Rahman, l'«imam» di Foggia era anche molto altro.
   Agli atti dell'inchiesta ci sono video con istruzioni per costruire armi e bombe, scene di uomini sgozzati da bambini, minori che imbracciano fucili e che minacciano con una pistola adulti e altri documenti nei quali si parla «dell'obbligo di distruggere le chiese e trasformarle in moschee, individuando l'Italia come obiettivo dell'attività terroristica».
   «Vi invito a combattere i miscredenti, i crociati, gli ebrei, gli atei, i tiranni arabi e i loro eserciti. Con le vostre spade tagliate le loro teste oppure sparate con i vostri proiettili, con le vostre cinture esplosive fate saltare in aria i loro corpi e non dimenticate le bombe, che provocano maggiori disastri e atrocità, la miglior maniera per ricevere la benevolenza divina» diceva Abdel Rahman nelle sue lezioni, citando il Corano.
   L'inchiesta è partita un anno fa dopo l'arresto del militante ceceno dell'Isis Eli Bombataliev, ospitato a lungo nei locali dell'associazione foggiana. Gli investigatori hanno monitorato soprattutto attraverso internet e poi anche con intercettazioni ambientali, i contatti fra di loro e i documenti che venivano condivisi in rete, tramite Whatsapp (sui gruppi «I nonni di Omar», «Le ragazze della fa. miglia», «Tutta la famiglia»), e Twitter, arrivando a scoprire l'attività di propaganda jihadista e indottrinamento al martirio fatto nei confronti di adulti e bambini. Per l'accusa, appunto, un cattivo maestro. E molto altro.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 marzo 2018)


In Europa lo spettro della Shoah

Le parole di Corbyn e il ruolo degli immigrati

di Fiamma Nirenstein

L'ultima notizia è insopportabile: a Parigi una donna ebrea di 85 anni, Mireille Knoll, sopravvissuta alle deportazioni franco-naziste degli anni '40, è stata uccisa a coltellate da un giovane musulmano che la donna conosceva da quando era piccolo. L'omicidio antisemita si affaccia inaspettato quando Ilan Halimi, un ragazzo parigino, viene sequestrato nel 2006 da un gruppo di giovani islamici che in una casa della banlieue lo tortura a morte leggendo il Corano senza che la polizia cerchi in direzione di un attacco antisemita. Anche adesso seguitano i tentennamenti. L'ultimo attacco ha pochi giorni, un bambino di 8 anni è stato preso a botte un mese fa a Sarchelles perché indossava una kippà; pochi giorni prima una 15enne con la Stella di David al collo è stata sfigurata a coltellate; pochi giorni dopo a un ragazzino sono state tagliate le dita con una seghetta. L'anno scorso Sarah Halimi Atta! è stata buttata dalla finestra da un uomo che gridava Allah-u-Akbar. Negli ultimi anni ci sono stati una decina di attacchi mortali plurimi, il museo ebraico di Bruxelles e i bimbi alla scuola di Tolosa, l'Hypercasher. Ed è solo la Francia.
   Gli ebrei d'Europa, comprese Inghilterra e Russia, sono accerchiati, se ne vogliono andare, vedono che anche se alla fine le leadership accettano l'idea che si tratta di attacchi antisemiti, nessuno ha voglia di fronteggiare il vecchio mostro, che è di sinistra come Corbyn, di destra come la Le Pen, islamico come gli immigrati. Questo è molto più allarmante per il Vecchio Continente che per gli ebrei. Gli ebrei possono sempre trovare una patria in Israele. Invece gli europei non hanno dove andare. L'antisemitismo li distrugge come fece negli anni '30 e '40. Gli europei sono e saranno costretti a subire le cause e le conseguenze di una malattia cognitiva spietata, della dissonanza demenziale fra ciò che la società crede di essere e la triste realtà. Senza futuro economico e culturale, l'Europa perde di vista il passato in cui sono stati trucidati 6 milioni di innocenti.
   Perché questo accade? Pensiamo alla Grecia: ricca di storia e povera di ebrei, secondo una ricerca Pew, il 70% dei cittadini è antisemita. Il sentimento di umiliazione è legato alla crisi e su questo si innesta la furia omicida del nuovo antisemitismo introdotto dall'immigrazione con la propaganda islamica. I numeri sono stupefacenti: ogni 83 secondi appare un post antisemita su Twitter, nel 2016 382mila post antisemiti in 20 diverse lingue. Gli episodi sono talmente tanti che c'è solo l'imbarazzo della scelta, andate su Google.
   Il vecchio stereotipo dell'ebreo apolide e antinazionale, egoista e individualista, che dominò il pensiero antisemita di destra non esiste; semmai, per gli antisemiti attuali gli ebrei sono troppo «occidentali» legati all'idea di nazione, identità, patria ... Tutte cose che ne fanno una derivazione naturale dello Stato d'Israele ed ecco il punto teorico centrale dell'antisemitismo attuale. Ma è tornato a essere genocida, vede gli ebrei come un'emanazione delle peggiori attitudini. Per un islamico, coadiuvato dalla sinistra estrema, Israele è un covo di assassini di bambini, una sentina di apartheid, una banda di imperialisti armati fino ai denti con l'atomica in tasca. È per questo che anche Israele, e la sua coorte di ebrei nel mondo, va eliminata. È la bandiera dell'Iran, di Hamas, degli Hezbollah, di Dieudonne, il comico francese antisemita di successo, è il sogno non segreto di Abu Mazen che descrive il sionismo come un'ideologia inventata per esercitare il colonialismo europeo, ed è anche il sottinteso dei movimenti più apparentemente decenti, come il Bds, che piacciono tanto a Corbyn e anche ai Cinque Stelle. L'accerchiamento è stretto. Cercasi un leader coraggioso per combatterlo. Per ora, non si è visto.

(il Giornale, 28 marzo 2018)


La "war zone" degli ebrei di Francia. "L'antisemitismo islamico è un tabù"

Intervista ad Alexandre Mendel sull'ultimo assassinio a Parigi

di Giulio Meotti

ROMA - "Oggi se sei ebreo, devi nasconderti. L'antisemitismo è una delle modalità dell'islamismo diffuso nella società", ha detto ieri Malek Boutih, l'ex deputato socialista e già presidente di Sos Racisme, mentre le autorità stabilivano che Mireille Knoll, 85 anni, sopravvissuta ai rastrellamenti nazisti del Velodromo di Parigi e uccisa con undici coltellate e bruciata nel suo appartamento nell'undicesimo arrondissement di Parigi era vittima di un assassinio a sfondo antisemita (la polizia ha in custodia un vicino di casa, musulmano, che conosceva la vittima). Ieri il presidente francese, Emmanuel Macron, ha confermato la sua "assoluta determinazione" a combattere questo antisemitismo spaventoso che divampa nel paese che ospita la più grande comunità ebraica d'Europa, la terza al mondo dopo Israele e Stati Uniti.
   Undici ebrei francesi uccisi in dieci anni, lettere di minacce di morte recapitate nelle case degli ebrei, aggressioni spicciole e quotidiane per strada, un decimo della popolazione ebraica riparato in Israele, metà del contingente militare francese stanziato dal 2015 che deve presidiare i 700 siti ebraici, bombe molotov contro i negozi kosher, quartieri ebraici storici che si spopolano, sinagoghe che vanno deserte: ecco la nuova realtà dell'ebraismo francese. A Aulnay-sous-Bois, il numero di famiglie di fede ebraica è passato da 600 a 100, a Blanc-Mesnil da 300 a 100, a Clichy-sous-Bois da 400 all'80, a La Courneuve da 300 a 80. Come se l'islam radicale in certi quartieri avesse effettivamente vinto e gli ebrei dovessero, nel migliore dei casi, nascondersi, e nel peggiore, andare via. Lo stato francese, di fronte all'ascesa dell'islam radicale, abbandona certi territori alla legge coranica e al banditismo.
   "Il nuovo antisemitismo francese è islamico, quello vecchio è morto" dice al Foglio Alexandre Mendel, giornalista investigativo francese, autore prima del libro La France djihadiste e poi di Partition. Chronique de la sécession islamiste en France. "In Francia oggi l'antisemitismo è un duplice tabù: c'è il tabù legato all'islam e quello del passato francese, Vichy. Vai in qualsiasi moschea francese e parla con l'imam, ti dirà: 'Non abbiamo deportato noi i vostri ebrei ad Auschwitz'. E poi c'è l'ideologia del vivre ensemble. Sono appena stato a Carcassonne, dove c'è stata la strage dell'Isis venerdì scorso. E parlando con l'imam mi ha detto che non esiste odio per gli ebrei. Ci sono politici, come Manuel Valls, che parlano oggi apertamente dell'antisemitismo islamico e che questo viene al 95 per cento dai musulmani. Mio padre è ebreo e ho molti amici che sono partiti per Israele o gli States, altri che partiranno, altri che ci stanno pensando, altri che vorrebbero ma non hanno i mezzi per farlo. Due anni fa parlai con un ufficiale dell'Uclat, l'Unité de coordination de la lutte antiterroriste. Mi disse che 'oggi non ci sono più studenti ebrei nelle scuole pubbliche di Seine-Saint-Denis'". Bernard Ravet, già preside di tre scuole pubbliche di Marsiglia, nel libro Principal de collège ou imam de la République? racconta di una mamma ebrea che voleva iscrivere il figlio al liceo Versaille. Ravet all'epoca era preside di quel liceo: "Quando ho sentito parlare il ragazzo, ho capito che i miei studenti avrebbero scoperto subito la sua provenienza. Se avessero scoperto che veniva da Israele, l'avrebbero distrutto. Così, con imbarazzo, ho chiesto alla madre di non iscriverlo alla scuola statale, ma a quella ebraica". Come ha denunciato anche Francis Kalifat, a capo delle organizzazioni ebraiche di Francia, "nella regione parigina non ci sono più studenti ebrei nelle scuole pubbliche".
   "Vent'anni fa nessuno pensava mai di andare a vivere in Israele" continua Alexandre Mendel al Foglio. "La tristezza è che il governo protegge i siti ebraici, ma si rifiuta di combattere l'antisemitismo islamico. Vent'anni fa nessun ebreo francese avrebbe mai votato per Marine Le Pen. Nel nord di Parigi, nei quartieri misti dove moschee e sinagoghe sorgono fianco a fianco, trovi il peggior antisemitismo. A Strasburgo è come a Tel Aviv, ti setacciano all'ingresso di ogni ristorante ebraico. Gli ebrei oggi si proteggono da soli, si comprano le telecamere, assumono le proprie guardie armate. Anche nell'Alsazia-Lorena si sente molto questo assedio. Molti ebrei dismettono la kippah e i simboli ebraici. Il terrorista di Trèbes, Redouane Lakdim, era 'ossessionato dalla Palestina', mi hanno raccontato i suoi amici. C'è ovunque questa atmosfera di guerra. Sono molto pessimista, ogni giorno è peggio, sarebbe da ciechi negare il contrario". Conclude Mendel: "73 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli ebrei francesi sono più al sicuro a camminare a Cracovia, in Polonia, che in qualsiasi distretto settentrionale di Parigi. Ho amici che considerano persino di andare a vivere in Polonia. Che valzer della storia!".

(Il Foglio, 28 marzo 2018)


Benjamin Netanyahu ricoverato in ospedale

Il primo ministro israeliano è stato ricoverato d'urgenza nell'ospedale Hadassah di Gerusalemme e sottoposto ad esami clinici. Nella notte è stato dimesso.

Il premier Benyamin Netanyahu è stato ricoverato martedì sera nell'ospedale Hadassah di Gerusalemme per febbre alta e forte tosse. Il medico personale di Netanyahu, dottor Tzvi Berkowitz - citato dai media - ha detto che il premier, 68 anni, non ha completato il periodo di riposo per rimettersi dalla malattia sofferta due settimane fa ed ora i sintomi sono peggiorati. Il premier è stato sottoposto ad una serie di esami medici in ospedale che ha evidenziato una malattia virale delle vie respiratorie, dopodiché, intorno a mezzanotte, è stato dimesso e ha fatto ritorno nella sua abitazione di Gerusalemme. Su Twitter il premier ha scritto: «Grazie a tutti per la vostra preoccupazione! Sto cercando a casa, certo un po' di riposo e una zuppa calda rimetterà a posto le cose. Buona notte».

 Il vertice sulla sicurezza
  La radio pubblica israeliana ha fatto sapere che la prevista riunione di gabinetto che dovrà occuparsi di questioni di sicurezza, avrà luogo. In caso di assenza del premier, a fare le sue veci sarà il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman.

(Corriere della Sera, 28 marzo 2018)


La polizia israeliana cerca lavoratori palestinesi illegali

Da sabato la polizia israeliana ha iniziato la cosiddetta "Operazione Biur Chametz". Circa 2.300 poliziotti di frontiera, volontari e polizia, fanno perquisizioni in Israele, all'interno della linea verde, cercando lavoratori palestinesi illegali. "Biur Chametz" è la pulizia tradizionale fatta prima della Pasqua nella casa ebraica, dove tutto ciò che ha lievito, e quindi per la Pasqua non è kosher, deve essere rimosso.
Nell'operazione, fatta su larga scala, sono stati arrestati un totale di 569 sospetti, tra cui 468 lavoratori palestinesi illegali, 17 persone accusate di aver ospitato lavoratori illegali, 24 sospettati di aver trasportato lavoratori illegali e 8 persone accusate di impiegarli.
Durante le ricerche, la polizia non si è concentrata solo sulle persone, ma hanno potuto essere messi al sicuro anche otto chili di droga, insieme a quattro veicoli rubati, dodici motocicli e decine di motori e parti di motore.

(Israel heute, 27 marzo 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Mireille Knoll conosceva il suo assassino fin da quando era piccolo, secondo suo figlio

Due uomini sono stati accusati dell'omicidio antisemita dell'ottantenne ebrea trovata accoltellata e bruciata nel suo appartamento di Parigi.

da Times of Israel Staff e Afp

 
Mireille Knoll
I membri della famiglia di Mireille Knoll, la sopravvissuta dell'Olocausto di 85 anni che è stata pugnalata a morte e bruciata nel suo appartamento di Parigi venerdì sera, hanno dichiarato martedì ai media israeliani di aver conosciuto uno dei suoi familiari. aggressori, un vicino musulmano, da quando aveva sette anni.
"Mia madre accettava tutti. Anche il vicino che l'ha assassinata e che conosceva da quando aveva sette anni. Quando era piccolo, l'ha aiutato", ha detto alla radio dell'esercito Daniel, il figlio di Mireille Knoll.
"All'inizio non eravamo sicuri che l'omicidio fosse dovuto all'antisemitismo. Abbiamo aspettato che la polizia lo dicesse, e ora sappiamo la verità", ha detto.
"Fino ad ora, non avevo avvertito alcun antisemitismo in Francia. Certo, c'erano pericolosi estremisti musulmani, ma fino ad oggi non mi sentivo in pericolo. Lavoro con persone di tutte le parti della società francese; molti hanno paura degli estremisti musulmani, ma io finora non l'ho avvertito. Anche oggi, non ho paura. Alcuni sono ignoranti, idioti, ma esistono ovunque nel mondo. Noa Goldfarb, la nipote di Mireille Knoll, che ora vive nella città balneare israeliana di Herzliya, ha anche detto che sua nonna conosceva il sospettato fin "dall'età di sette anni, e che era sempre felice di vederlo. È incredibile che finisca così."
In un'intervista con la radio israeliana, martedì, Goldfarb ha dichiarato: "La nonna non credeva al male. Forse è per questo che non è più qui. Daniel Knoll ha detto di essere stato informato che il vicino era stato identificato dalla polizia perché il telefono di sua madre era scomparso dall'appartamento e in seguito è stato ritrovato in possesso del sospettato. Anche un altro sospettato è stato arrestato dalla polizia.
"Era una donna estremamente modesta. Non c'era assolutamente nulla di valore da rubare", ha detto all'agenzia Gilles-William Goldnadel, un avvocato della sua famiglia.
"Non voglio fare congetture, prendo nota dell'incriminazione per antisemitismo e mi rallegro per la reattività della giustizia", ha aggiunto.
Nell'aprile 2017, Sarah Halimi, una donna ebrea di 65 anni, è stata uccisa a Parigi dal suo vicino di casa. Alle grida di "Allah Akbar", intervallate da insulti e versetti del Corano, il giovane l'aveva picchiata, prima di gettarla nel vuoto. Il giudice istruttore incaricato di questa indagine aveva impiegato quasi un anno, dopo un braccio di ferro giudiziario, per riconoscere il carattere antisemita.
Il numero di atti antisemiti certamente è diminuito nel 2017, ma rimane ad un livello preoccupante, e la comunità ebraica in Francia, che rappresenta meno dell'1% della popolazione, è l'obiettivo di un terzo degli atti efferati individuati nel paese. Inoltre, la violenza è in aumento, e questo aumento di "passaggi all'azione" preoccupa le autorità.
Dopo il 2006 e l'assassinio di Ilan Halimi, undici persone sono state uccise in Francia perché ebrei, secondo i leader della comunità. "Questa successione di omicidi ci ricorda che la comunità ebraica è l'obiettivo privilegiato di coloro che odiano la Repubblica e i suoi valori", ha detto il presidente del concistoro israelita Joèl Mergui.
"Crimine odioso" per il portavoce del governo di Benjamin Griveaux, "atto barbarico" per il ministro degli Interni Gérard Collomb, "omicidio spregevole", secondo il presidente dei repubblicani Laurent Wauquiez: le reazioni della classe politica sono state molte dopo questo nuovo omicidio.
Christophe Castaner, delegato generale di La République en marche, ha denunciato un antisemitismo di una nuova forma "perché è banalizzato". Ha invitato i membri del suo movimento a partecipare alla "marcia bianca" organizzata da tutte le principali organizzazioni ebraiche mercoledì pomeriggio a Parigi in memoria di Mireille Knoll.

(The Times of Israël, 27 marzo 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Antisemitismo a Parigi

Assassinata un'ebrea scampata alla Shoah.

di Giulio Meotti

Mireille Knoll
ROMA - E' la nipote, Noa Goldfarb, ad aver dato voce ieri allo sconforto della comunità ebraica francese. Lo ha fatto da Israele, dove Noa è andata a vivere qualche anno fa: "Venti anni fa ho lasciato Parigi sapendo che né il mio futuro né quello del popolo ebraico erano lì. Ma chi poteva pensare che stessi lasciando la mia famiglia dove terrore e crudeltà avrebbero portato a un finale così triste? La nonna è stata pugnalata a morte undici volte da un vicino musulmano che conosceva bene". Si chiamava Mireille Knoll e aveva 85 anni, era scampata alla rafie, la retata del Vél'd'Hiv, e ai lager nazisti, ma ha trovato la morte per mano di qualcuno che si è introdotto nel suo appartamento, l'ha pugnalata ripetutamente e ha dato fuoco al suo corpo, nonchè alla casa in cui la donna viveva. Due individui sulla trentina sono ora nelle mani della polizia, mentre la procura di Parigi ieri ha parlato di "movente antisemita plausibile". Mentre i figli di Mireille partivano da Israele dove risiedono per recarsi al funerale della madre, a Parigi si susseguivano le voci di indignazione e condanna per un altro fatto di sangue che scuote la già traumatizzata comunità ebraica francese, specie subito dopo il massacro jihadista a Trèbes, dove venerdì un fanatico dell'Isis ha assassinato quattro persone in un supermercato. Il parlamentare Meyer Habib ha parlato di "assassinio barbaro": "Ho fatto visita ai due figli di Mireille, ho incontrato una famiglia bellissima impastata di valori umanisti, tenuta unita dall'amore e distrutta dal dolore. Mireille ha potuto sfuggire alla retata dell'Vél' d'Hiv nel 1942 ed è morta nel 2018 per l'odio di un islamista". Habib non ha dubbi: "E' la stessa barbarie che uccide bambini ebrei a Tolosa, massacra un prete nella sua chiesa a Saint-Etienne-de-Rouvray o un ufficiale di gendarmeria a Trèbes". Anche altre personalità hanno reagito, come Bernard Henri Lévy che parla di "un orrore che non deve subire alcun silenzio". Il saggista Raphael Glucksmann ha chiamato invece "SS" l'assassino di Mireille.
   Il presidente del Concistoro delle comunità ebraiche, Joél Mergui, e il capo del Crif, massimo organo di rappresentanza degli ebrei francesi, Francis Kalifat, accostano questo nuovo caso all'omicidio di Sarah Halimi, la cittadina francese di origini ebraiche che, nell'aprile 2017, è stata uccisa a Parigi dal suo vicino di casa. Al grido di "Allah Akbar", intervallato da insulti e versetti del Corano, il giovane l'aveva picchiata sul balcone, prima di buttarla di sotto. Ci sono voluti mesi prima che le autorità francesi riconoscessero lo sfondo ideologico e razziale di questo assassinio, come era già successo nel caso di Ilan Halimi, il giovane ebreo rapito, torturato e poi bruciato dalla "banda dei barbari" nel 2006. Anche allora, criminalità e antisemitismo si mescolarono.
   Anche il Gran Rabbino di Francia, rav Haim Korsia, ieri ha messo in relazione l'uccisione delle due donne. "L'orrore del crimine e la violenza perpetrata dai carnefici sono identici". Per mercoledì il Crif ha indetto una marcia di protesta contro l'antisemitismo che parte da Piace de la Nation e finisce ad Avenue Philippe-Auguste, dove viveva l'anziana sopravvissuta alla Shoah. "Era lo stesso arrondissement di Parigi", ha detto Noémie Halioua, giornalista francese di Actualité Juive e autrice di un nuovo libro sul caso Halimi. "Ed entrambe le vittime erano donne anziane che vivevano da sole e che in precedenza si erano entrambe lamentate delle minacce". L'antisemitismo fermenta nell'"apartheid islamista" denunciato da un appello, pubblicato dal Figaro e firmato da cento intellettuali francesi. "Il nuovo totalitarismo islamista cerca di guadagnare terreno con ogni mezzo. Non molto tempo fa, l'apartheid regnava in Sudafrica. Oggi, un apartheid di nuovo tipo viene proposto alla Francia. Il nuovo separatismo avanza mascherato. Vuole apparire benigno, ma è in realtà l'arma della conquista dell'islamismo". A firmarlo nomi di peso della cultura francese, come gli storici Georges Bensoussan e Alain Besançon, il filosofo Rémi Brague, lo scrittore Pascal Bruckner, l'ex ministro Luc Ferry e Alain Finkielkraut.
   L'antisemitismo spicciolo, "banale" e quotidiano, e quello eclatante e sanguinario, che culmina nell'uccisione di tredici ebrei francesi, è anch'esso una forma di apartheid. Si liberano i quartieri "misti" della Repubblica dall'odiosa presenza ebraica. Centomila ebrei hanno già abbandonato Seine-SaintDenis, ad alto tasso di islamizzazione e antisemitismo.

(Il Foglio, 27 marzo 2018)


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«Non è un episodio. Da anni ci sentiamo insicuri in Francia»

A colpire non è un folle, gli assassini erano due: più complicato accreditare l'azione di uno squilibrato. Il portavoce della comunità ebraica, Kalifat: «Se è un crimine d'odio, tutti devono sapere».

di Stefano Montefiori

PARIGI - «Gli assassini stavolta erano due, è più difficile accreditare l'azione di uno squilibrato. Abbiamo qualche problema con l'ipotesi della follia: un anno fa Sarah Halimi, ebrea, madre di tre figli, medico in pensione, venne gettata ancora viva dal balcone del suo appartamento da un terrorista che gridava "Allah è grande". Per undici mesi si parlò di un problema psichiatrico. Solo pochi giorni fa il giudice ha riconosciuto l'antisemitismo di quel gesto».
Nella sede del Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia) il presidente Francis Kalifat spera in una reazione decisa della società francese. Dopo l'omicidio venerdì di Mireille Knoll, Kalifat ha incontrato Emmanuel Macron. Il 7 marzo, in occasione della cena di
gala annuale del Crif, il presidente della Repubblica aveva già criticato le reticenze dei magistrati sul caso Halimi. Stavolta non si è perso tempo.

- Perché è importante che l'omicidio di Mireille Knoll venga riconosciuto come «antisemita»?
  «Perché, se lo è, bisogna dirlo. Tutti devono sapere. Da anni gli ebrei si sentono meno sicuri in Francia e partono per Israele o per altri Paesi.
Oggi siamo intorno alle cinquemila partenze l'anno, in diminuzione dopo il picco seguito all'attentato al supermercato kasher, ma è sempre il doppio del normale. C'è sollievo per il riconoscimento del carattere antisemita dell'omicidio di Mireille Knoll, ma provo collera e inquietudine che una simile barbarie possa accadere, in Francia, nel 2018».

- Come reagisce la comunità ebraica?
  «Invitiamo tutti i cittadini a una grande marcia silenziosa, domani alle 18. Partiremo da Place de la Nation e arriveremo fino davanti a casa di Mireille Knoll, avenue Philippe Auguste, per deporre dei fiori. Speriamo che questa volta i francesi non lascino soli i concittadini ebrei».

- È successo in passato?
  «Gli attentati hanno colpito all'inizio i simboli della Francia. I militari a Montauban, la libertà di espressione con i giornalisti di Charlie Hebdo, e gli ebrei, a Tolosa e a Vincennes. Gli ebrei non sono forse propriamente simboli della Repubblica ma hanno il ruolo di sentinelle, allertano sui pericoli. I primi attentati non hanno toccato la Francia nella sua globalità ma solo alcune categorie. E noi ebrei ci siamo sentiti isolati nel nostro stesso Paese, e abbandonati. Abbandonati non dai poteri pubblici, che ci hanno sempre manifestato solidarietà, ma dai nostri compatrioti, che si sono comportati come se quel che succedeva agli ebrei non li riguardasse».

- Di che cosa si nutre il nuovo antisemitismo?
  «A quello tradizionale dell'estrema destra si somma l'antisemitismo di una minoranza di giovani musulmani, nelle periferie ma anche dentro Parigi, che considerano gli ebrei colpevoli di tutti i mali, e anche della loro esclusione sociale».

(Corriere della Sera, 27 marzo 2018)


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Aggressioni e tombe profanate. La Francia nell'incubo antisemitismo

In aumento gli episodi di intolleranza, picchiato bimbo con la kippah. Dopo Charlie Hebdo sempre più ebrei hanno lasciato il Paese.

di Paolo Levi

L'antisemitismo è l'onta della Francia»: nell'ultimo incontro con i responsabili del Crif - l'organo rappresentativo degli ebrei di Francia - Emmanuel Macron ha promesso una risposta «implacabile» contro quello che bolla come il «flagello» della République. Con circa mezzo milione di persone, la Francia è la prima comunità ebraica dell'Europa occidentale e gli atti antisemiti, tra insulti, tombe profanate e aggressioni segnano la cronaca locale e nazionale. Appena pochi giorni fa, Aurélien Enthoven, figlio di Carla Bruni-Sarkozy e del suo ex compagno filosofo Raphael Enthoven, è stato vittima del più cieco livore dei social, tra insulti antisemiti, minacce di morte, frasi irripetibili contro la madre, solo perché aveva detto in un video che «le razze non esistono».
   A fine gennaio suscitò indignazione l'episodio di un bimbo ebreo di otto anni aggredito in strada a Sarcelles, mentre si recava a lezione con in testa una kippah. Dopo un 2015 segnato dai primi attentati jihadisti a Parigi e da un numero record di azioni e minacce antisemite, il 2016 ha registrato un netto ripiegamento (-58,5%), pur rimanendo a un livello preoccupante. Impietoso il quadro descritto dal presidente del Crif, Francis Kalifat, che si appella al governo affinché «ovunque in Francia venga ripristinata l'autorità dello Stato», con una «politica di tolleranza zero e sanzioni esemplari per contrastare l'antisemitismo del quotidiano che - avverte - prospera nel nostro Paese». Anche perché, questa la sua riflessione, «siamo schiacciati tra l'antisemitismo tradizionale prevalentemente di estrema destra e l'antisemitismo antisionista prevalentemente di estrema sinistra», a cui si aggiunge «l'antisemitismo musulmano molto radicato tra i giovani di 15-25 anni». Con l'aumento degli attentati contro cittadini e simboli ebraici, il crescente antisemitismo in banlieue e le stragi dell'Isis, negli ultimi anni circa 5000 ebrei ogni dodici mesi hanno deciso di lasciare la Francia ed emigrare in Israele, la cosiddetta «Aliyah». Dopo il massacro al supermercato kasher di Porte de Vincennes (gennaio 2015, due giorni dopo l'attacco alla redazione del settimanale Charlie Hebdo), fu lo stesso premier israeliano Bibi Netanyahu a tendere la mano agli ebrei sotto shock: «Il vostro avvenire è in Israele, tornate nella vostra patria».
   Un appello a cui quell'anno aderirono in 7900, un record assoluto nella recente storia del Paese. L'affermazione scatenò una polemica con Manuel Valls allora primo ministro. «La Francia non sarebbe più la stessa se i nostri connazionali ebrei dovessero abbandonarla perché hanno paura», ha detto di recente Macron, che due settimane fa ha presentato un nuovo piano contro il razzismo e l'antisemitismo per il biennio 2018-2020. La sua principale sfidante alle presidenziali, Marine Le Pen, invitò gli ebrei a non indossare in pubblico la kippah perché a suo parere «potrebbe essere pericoloso». Aggiunse che per «sconfiggere l'estremismo islamico ci vuole uno sforzo congiunto che richiede sacrifici da parte di tutti».
   Parole che suscitarono proteste al veleno. In questi ultimi anni, la leader del Front National ha cercato di fare il possibile per cancellare la pesante eredità del padre Jean-Marie Le Pen, più volte condannato per le sue uscite antisemite e razziste, come quando considerò le camere a gas un «dettaglio della storia». A gennaio, il grande editore Gallimard ha invece rinunciato al contestato progetto di ripubblicare gli scritti antisemiti di Louis-Ferdinand Céline, ritenendo che non ci sono ancora le condizioni per sviluppare «serenamente» il progetto.

(La Stampa, 27 marzo 2018)


Israele vende i dati sanitari dei cittadini. Un business che vale 600 miliardi di dollari

Il piano per la salute del governo di Benjamin Netanyahu ha deciso di trarre profitto dalle informazioni sulla salute che riguardano il 98% della popolazione.

di Maddalena Guiotto

I ricercatori e le farmaceutiche di tutto il mondo potranno, pagando, attingere ai dati sanitari di quasi nove milioni di israeliani. Domenica il governo di Gerusalemme ha approvato un piano nazionale per la salute digitale che prevede, nonostante le crescenti preoccupazioni sulla privacy, di creare una unica banca dati con informazioni sulla salute dei suoi residenti.
   Attualmente, i dati sanitari del 98% dei cittadini di Israele appartengono a quattro compagnie di assicurazione che, da oltre vent'anni, registrano le informazioni dei loro clienti in formato digitale. Rispetto al resto del mondo, si tratta di un vantaggio competitivo non da poco, tanto che il governo di Benjamin Netanyahu vuole metterlo a profitto. Gruppi di ricerca e aziende farmaceutiche sono alla caccia dei dati dal mondo reale (real world) perché, rispetto a quelli ottenuti dagli studi clinici standardizzati, forniscono informazioni molto più utili per lo sviluppo della medicina preventiva e delle cure su misura di ciascun paziente (personalizzate). Il nuovo progetto, riporta The Times of lsrael, permetterebbe al governo di Gerusalemme, a fronte di un investimento quadriennale di 287 milioni di dollari, di accaparrarsi un giro d'affari di circa 600 miliardi di dollari, pari al 10 % del mercato digitale globale che ne vale 6.000.
   Gli affari sono affari, ma la notizia ha attirato non poche critiche sui rischi di una massiccia violazione della privacy dei pazienti, soprattutto alla luce dei recenti fatti che vedono Cambridge Analytica accusata
Dr. Tehilla Shwartz Altshuler, Israel democracy institute -->
di aver usato, senza averne il consenso, i dati di 50 milioni di utenti di Facebook per influenzare il voto in America e nella Gran Bretagna. A tale proposito Nadav Daridovitch, capo della Public health school dell'Università Ben Gurion nel sud di Israele, ha osservato che sfruttare i big data per l'assistenza sanitaria ha un potenziale enorme per il Paese, ma comporta anche rischi in termini di privacy e riservatezza medica. L'esperto, in una dichiarazione alla Reuters, critica inoltre il fatto che aziende private traggano profitto attingendo da una banca dati realizzata con fondi pubblici, mentre continuano a produrre medicine che molti pazienti non possono permettersi.
   Invita alla prudenza anche Tehilla Shwartz Altshuler, dell'Israel democracy institute. «Il caso di Cambridge Analytica», ha commentato, «ci ha mostrato come a volte sia possibile utilizzare i big data per obiettivi diversi rispetto a quelli originariamente pianificati, con risvolti pericolosi». ll governo Netanyahu non sembra vedere particolari pericoli nell'aprire al mercato i dati sensibili dei pazienti e, in una nota, informa che le autorità lavoreranno insieme per assicurare che «le informazioni restino anonime, garantendo la privacy e la sicurezza dei dati forniti oltre a strette limitazioni nell'accesso ai contenuti».
   La partecipazione a tutti i progetti, sempre secondo la nota, sarà esclusivamente su base volontaria perché i pazienti potranno rifiutare «il consenso all'uso delle loro informazioni per la ricerca». Israele, del resto, non vuole perdere l'enorme vantaggio competitivo globale ottenuto dalla scelta di aver iniziato a digitalizzare i dati dei suoi pazienti vent'anni fa, oltre a contare su un sistema sanitario piccolo ed efficiente e una forte rete di centri di ricerca e infrastrutture.
   Mentre Stati Uniti ed Europa lavorano a leggi più restrittive sull'impiego dei dati digitali, Israele spalanca le porte alle aziende globali che hanno già espresso un «enorme» interesse per l'iniziativa. Lo stesso Netanyahu ha affermato di aver già incontrato molte case farmaceutiche pronte a investire in questa «nuova direzione» che, almeno sul fronte economico, è chiara e ben definita: rendere la salute digitale il terzo importante motore di crescita per l'economia israeliana, insieme alla sicurezza informatica e ai veicoli a guida autonoma. Del resto, in Israele ci sono 1.500-1.700 aziende attive in ricerca farmaceutica e sanitaria. In Italia sono otto volte di meno e i dati digitali sulla salute, praticamente, non esistono.

(La Verità, 27 marzo 2018)


Corbyn fa della ambiguità la sua strategia. Anche con l'antisemitismo "Enough is enough"

Protesta contro l'antisemitismo del Labour inglese. Perché Corbyn non viene fuori da questa querelle

di Paola Peduzzi

R "Enough is enough", ne abbiamo avuto abbastanza, e la piazza davanti al Parlamento inglese si è riempita ieri prima del tramonto per protestare contro l'antisemitismo del Labour di Jeremy Corbyn, "for the many but not the jews", come scandivano alcuni parafrasando il mantra corbyniano. Alla protesta si sono presentati anche alcuni deputati laburisti, ala moderata, che per quanto stiano tentando di trovare un compromesso con il leader Corbyn - soprattutto se è vero che è così popolare e potrebbe riportare il partito al potere alla prossima tornata elettorale - non riescono a digerire questa sua ambiguità fattasi strategia. Passi la Brexit, che è un problema sì dirimente ed enorme, ma è anche complicato e multiforme: si può ogni tanto navigare a vista, lo fanno tutti, pure il governo. Ma l'antisemitismo è un'altra questione, valoriale, fondativa, non si possono avere dubbi o cautele o sfumature, la zona grigia non dovrebbe proprio esistere. Corbyn pretende di navigare a vista anche qui, ammette che ci sono "sacche" di antisemitismo nel Labour e che la sua condanna è ferma, come è ferma nei confronti di tutte le forme di razzismo, ma tra equiparazioni e soluzioni caso per caso, la faccenda riemerge di continuo. Spuntano dal suo passato commenti controversi assieme ad altrettante controversie di colleghi laburisti, che vengono di volta in volta sospesi o ridimensionati, però una commissione interna al Labour ha stabilito che un po' di antisemitismo esiste, certo, ma non si tratta di un fattore endemico.
   E' un problema vostro, degli anticorbyniani, insomma. Si ripete un copione già visto, talmente prevedibile e banale che si sa già come va a finire la storia (da nessuna parte). Non esistono argomenti e argomentazioni, chi attacca Corbyn è un suo nemico, lo vuole sminuire, indebolire, è tutta tattica e niente valori, non c'è contenuto c'è solo forma - e c'è già un hashtag di battaglia, troppo lungo per poter durare nel tempo, che dice #PredictTheNextCorbynSmear, provate a prevedere quale altra campagna denigratoria riusciranno a inventarsi i nemici di Corbyn, spaventati dalla sua popolarità.
   Le accuse a Corbyn sono state elencate dal Jewish Leadership Council e dal Board of Deputies of British Jews, che hanno organizzato la protesta di ieri fuori dal Parlamento, in una lettera aperta pubblicata domenica. I due gruppi dicono che il leader laburista non ha certo inventato questa politica, ma "oggi personifica i problemi e i pericoli" legati all'antisemitismo. L'ultima controversia risale a venerdì, quando è rispuntato dal passato (era il 2012) un commento di Corbyn a favore di un murales dipinto allora nell'East End in cui un gruppo di banchieri giocava a monopoli sulle schiene nude di uomini accucciati: l'autore americano aveva detto che era contro i ricchi e il mondo della finanza, ma già allora la caratterizzazione ebraica dei protagonisti era stata all'origine di una campagna per rimuovere il murales. Corbyn si è scusato, ma in modo poco convincente, come già accaduto qualche settimana fa quando si scoprì che su Facebook il leader del Labour faceva parte di due gruppi (ora sono tre) in cui circolavano teorie del complotto con chiare tonalità antisemite. La polemica non fece molto clamore perché le prime pagine erano occupate da una ex spia ceca che diceva che il giovane Corbyn aveva lavorato per il regime sovietico, ma la risposta del leader laburista fu comunque piuttosto deprimente: sono dentro a questi gruppi Facebook, ma non ho mai incontrato nessuno dei membri.
   In concomitanza con la protesta, il Labour ha pubblicato una risposta alla lettera, in cui ribadisce la propria posizione di condanna, e ha avuto molto spazio, nel dibattito social, un elettore ebreo del Labour che dice di piantarla con queste accuse infime. Ma per estirpare questa discussione ci vorrebbe un cambiamento di prospettiva non soltanto di Corbyn, ma anche dei suoi fedelissimi e di quel leader sindacale che dice alle piazze; l'antisemitismo è solo un motivetto che ogni tanto ci cantano dietro, stiamo fermi che passa.

(Il Foglio, 27 marzo 2018)


Stop all'educazione all'odio? Ministri palestinesi contrari

Il Ministro dell'Istruzione dell'Autorità Palestinese Sabri Saidam, è preoccupato perché nelle scuole di Gerusalemme cambiano i libri destinati ai bambini arabi. Finora i testi palestinesi loro prescritti erano pieni di inviti alla violenza contro gli ebrei.

di Lorenza Formicola

 
Il Ministro dell'Istruzione dell'Autorità Palestinese, Sabri Saidam
 
Bambini palestinesi armati per l'anniversario della "Nakba"
Il Ministro dell'Istruzione dell'Autorità Palestinese (AP), Sabri Saidam, è preoccupato in questi giorni. Ma non perché i piccoli studenti palestinesi vengono educati all'odio per Israele; non perché, ancora, gli studenti vengono incitati a mettere a segno attacchi terroristici, fin da piccoli, per distruggere ogni traccia ebraismo (e di ebrei) in giro. E che il lancio di pietre a mo' del blasonato "colpisci l'ebreo", risulta l'esercizio più gettonato a cui vengono allenate le giovani leve dell'ebraismo.
  Sabri Saidam è particolarmente preoccupato, piuttosto, in questi giorni, perché pare ci sia il rischio che ai bambini arabi nelle scuole di Gerusalemme non venga più dedicato un programma marcatamente palestinese, ma israeliano. Un crimine, a suo avviso. Non è la prima volta che si arriva a scontri del genere e che il piano di studi israeliano viene definito come "un brutto crimine di mistificazione". La guerra tra israeliani e palestinesi sui manuali scolastici sembra infinita. E di tanto in tanto la stampa occidentale tenta con editoriali costruiti ad arte di invertire i ruoli. Chi attacca, chi subisce? Per i media l'odio palestinese stampato sui libri di testo contro gli ebrei d'Israele è un mito. Il New York Times ha provato già molti anni fa a liquidare la faccenda finendo per incasellare come "molto rari" gli esempi di disumanizzazione e demonizzazione per entrambe le parti.
  Ma la verità non sta esattamente in questi termini. Uno studio che ha preso in analisi i programmi scolastici delle elementari per l'anno 2016/2017 - ed emerso recentemente - come una vaso di Pandora scontato ha scoperto con quale intensità ai bambini palestinesi venga insegnato di glorificare e prendere in considerazione terrorismo e violenza. I piccoli palestinesi devono, fin dai banchi di scuola, imparare a demonizzare gli israeliani e a negare l'esistenza stessa di Israele. Ai bambini, come nei campi di rieducazione in stile sovietico, viene insegnato ad essere 'sacrificabili'. Poesie, strane storie con didascalie che recitano espressioni come "il desiderio del mio sangue per la mia terra", oppure "sacrifico il mio sangue per salvare la mia terra" colorano le pagine. Persino i libri di matematica, con uno strano utilizzo dei numeri, sono pieni zeppi di messaggi pericolosi: l'aritmetica è insegnata con il numero dei 'martiri' morti nella causa della distruzione di Israele. Ogni esternazione negativa è dedicata ai non musulmani. Gli arabi vengono presentati come i veri abitanti di quella terra che l'invasore ebreo avrebbe occupato e ogni cosa viene espressa con una buona dose di folklore denso di arabismo, islam e lotta ad Israele.
   L'Ap non riesce a digerire un programma scolastico incapace di promuovere l'odio e il suo ministro dell'istruzione è davvero terrorizzato dal fatto che i più giovani a scuola smettano di essere esposti al lavaggio del cervello. E soprattutto è preoccupato che i bambini arabi non studieranno il famoso piano messo su dall' 'Organizzazione per la Liberazione della Palestina'. Piano ben descritto in un articolo pubblicato già nel 1993 dal New York Times, a firma di Netanyahu - attuale primo ministro di Israele -, in cui la conquista di Israele è un piano a tappe. L'Autorità Palestinese non può soffrire studenti, le generazioni di domani, che non sappiano perché i musulmani dovrebbero uccidere gli ebrei. E lo scontro oggi è sorto dalla rimozione di un hadith che contraddistingueva i manuali delle scuole arabe di Gerusalemme. "Lotta contro gli ebrei e vittoria su di loro: il Messaggero [Mohammed] ha già annunciato [la buona notizia] della rimozione della loro corruzione e della loro occupazione. [È raccontato] da Abu Hurayrah [uno dei compagni di Maometto] che il Profeta disse: "La fine dei giorni non avverrà finché i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani li uccideranno […]." È questo che si legge sui libri di testo, è questo l'imperativo più importante che un bambino palestinese deve imparare. Programmi, peraltro, finanziati dall'Unrwa.
  L'Autorità Palestinese e il suo Ministero dell'Istruzione, in altre parole, sono su tutte le furie perché agli studenti palestinesi potrebbe essere negato il diritto di imparare che gli ebrei sono "corrotti" e "occupanti" e dovrebbero essere uccisi e scovati, ovunque siano. A settembre è stata persino emessa una fatwa (decreto religioso islamico) recentemente emessa dal Mufti palestinese di Gerusalemme, lo sceicco Mohammed Hussein, che proibisce agli alunni di studiare secondo il programma di studi israeliano. "Insegnare il curriculum israeliano nelle scuole palestinesi è pericoloso e offensivo. Il curriculum israeliano consiste in questioni che contravvengono alla fede islamica, all'identità araba, ai valori e alle tradizioni palestinesi", si legge nella fatwa.
  Il sogno di radere al suolo Israele, dunque, deve essere innestato fin da bambini. Ma, d'altronde, non c'è nulla di nuovo visto e considerato che i più piccoli crescono, in Palestina come in Iran, in parchi giochi dove le attrazioni li vedono protagonisti di campi di battaglia in cui il nemico è l'israeliano. E che impugnino pure le armi, il loro destino sarà questo.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 27 marzo 2018)


Un esempio per la pace: un calciatore israeliano e uno iraniano si fanno fotografare insieme

di Nathan Greppi

 
L'israeliano Maor Buzaglo e l'iraniano Askhan Dejagah
Grande scalpore ha suscitato una foto pubblicata sui social in cui, a essere seduti insieme, sono calciatori di due paesi nemici: Maor Buzaglo, attaccante della Nazionale Israeliana, e Askhan Dejagah, capitano della Nazionale Iraniana.
"Nel calcio esistono regole diverse, e vi è una lingua priva di pregiudizi e di guerre," ha scritto Buzaglo, che è anche un attaccante del Maccabi Haifa, pubblicando la foto su Facebook, Twitter e Instagram.
Secondo il Jerusalem Post, tutto è successo a Londra, dove entrambi i giocatori erano ricoverati per ferite riportate in campo. Sebbene non abbia condiviso anche lui la foto, Dejagah l'ha commentata sul profilo Instagram di Buzaglo: "Ti auguro di guarire presto, amico mio."
Nel 2007 Dejagah si rifiutò di giocare contro Israele nei campionati Under 21 in Germania, ma in seguito spiegò che l'ha fatto per paura che il regime lo mandasse in prigione. Infatti, l'Iran proibisce a tutti i suoi atleti e allenatori di competere contro i loro omologhi israeliani.
Proprio questo mese, il capo della Federazione di Wrestling Iraniana ha dato le dimissioni per protestare contro questa politica del suo paese. A febbraio, invece, un judoka israeliano vinse una medaglia di bronzo in un campionato a Dusseldorf perché l'iraniano con il quale doveva misurarsi ha messo su peso apposta per gareggiare in un'altra sezione. Ad agosto, invece, due calciatori iraniani furono espulsi dalla nazionale dopo che, con la squadra greca Panionios, avevano gareggiato contro una squadra israeliana.
Quando, nel 2014, Dejagah venne intervistato dal The Guardian su ciò che avvenne nel 2007, ha dichiarato che è stato tanto tempo fa, e che "mi ha aiutato a crescere. Ma ora guardo solo al futuro."

(Bet Magazine Mosaico, 26 marzo 2018)


L'inversione di marcia di Israele: "Non stracciare l'accordo con l'Iran"

di Guido Dell'Omo

La domenica passata si è tenuta una conferenza alla quale hanno partecipato tutti i membri di alto rilievo del mondo militare israeliano: a intervenire durante l'incontro c'erano l'ex ministro della Difesa Shaul Mofaz (in carica dal 2002 al 2006), Moshe Ya'alon (in carica dal 2013 e attuale ministro della Difesa), nonché gli ex comandanti delle Forze di difesa israeliane (Idf) Benny Gantz e Dan Halutz.
   Nonostante durante il dibattito si sia molto parlato della crescente influenza iraniana nella regione, in riferimento soprattutto al ruolo di Teheran in Siria e in Libano, i rappresentanti del mondo militare e della difesa di Israele hanno dichiarato di essere d'accordo su un tema per nulla indifferente: "L'accordo sul nucleare non deve essere eliminato ". A seguito dell'arrivo del mastino americano John Bolton che ha rimpiazzato il tenente McMaster come National Security Advisor del presidente Trump gli apparati di sicurezza israeliani hanno percepito il rischio concreto di una possibile ulteriore escalation delle tensioni con l'Iran, mentre in Israele sono consapevoli - nonostante le dichiarazioni di facciata - che il Nuclear Deal sia un ottimo accordo per evitare che la più grande paura di Netanyahu si concretizzi, ovvero che Teheran possa avere la libertà di sviluppare un arsenale atomico. Israele è l'unica potenza in Medio Oriente ad avere armi nucleari e ovviamente vuole mantenere questo vantaggio, già potenzialmente minato dalle indiscrezioni che parlano di una Casa Bianca sempre più favorevole a concedere a Riyadh la possibilità di avere l'atomica, così da cambiare significativamente gli equilibri nella regione e facendo preoccupare Tel Aviv, che nei Saud vede un alleato nella lotta contro l'Iran sciita ma probabilmente non a tal punto da concedere a cuor leggero all'Arabia Saudita la possibilità di sviluppare un arsenale nucleare.
   Comunque secondo Mofaz e Ya'alon in particolare è meglio evitare di prendere di petto la questione con il paese degli Ayatollah e proseguire per vie diplomatiche al fine di evitare un conflitto aperto con l'Iran nel futuro prossimo, ipotesi che ciclicamente torna sul tavolo. Secondo l'ex ministro della Difesa israeliano Teheran è ben consapevole della superiorità militare del piccolo stato di Israele e perciò anche in Iran, secondo Mofaz, preferirebbero trovare altre soluzioni prima di intraprendere un nuovo conflitto mentre bisogna ancora eliminare le ultime sacche in mano ai terroristi islamici tra Iraq e Siria. Gli Stati Uniti dovrebbero quindi evitare provocazioni inutili nei confronti di chi già si sente messo all'angolo e procedere invece nel percorso più adatto per soluzioni diplomatiche.

(Gli occhi della guerra, 26 marzo 2018)


Serbia: terminata la ristrutturazione della sinagoga di Subotica

Alla cerimonia il presidente Vucic e il premier Orban

La sinagoga di Subotica
Il primo ministro ungherese Viktor Orban porta il suo saluto durante la cerimonia di inaugurazione della sinagoga
BELGRADO - Si è tenuta oggi a Subotica, nella provincia serba autonoma della Vojvodina, la cerimonia per il completamento dei lavori di ristrutturazione della sinagoga della città. La cerimonia ha contato la presenza del presidente serbo, Aleksandar Vucic, e del premier ungherese Viktor Orban. Secondo quanto riporta la stampa locale, si tratta della seconda sinagoga più grande d'Europa dopo quella di Budapest e la ristrutturazione ha visto il sostegno del governo serbo e di quello ungherese. "Abbiamo lavorato assieme alla ristrutturazione e per questo rivolgo un ringraziamento particolare a Orban. Senza il suo sostegno e la sua partecipazione questa sinagoga non brillerebbe così oggi", ha detto Vucic. I lavori, ha aggiunto, hanno unito ebrei e cristiani ortodossi, cattolici e protestanti, ma anche i governi dei due paesi e le istituzioni internazionali. La sinagoga di Subotica, ha concluso Vucic, è uno dei migliori esempi di cooperazione fra Serbia e Ungheria.

(Agenzia Nova, 26 marzo 2018)


L'Iran e la corsa alla bomba atomica

La brama di Teheran destabilizza tutto il medio oriente

Scrive il Jerusalem Post (17/3)

Di tutti i difetti dell'accordo sul nucleare iraniano del 2015, quello forse più evidente era il pericolo che innescasse una corsa agli armamenti nucleari in medio oriente". Così il Jerusalem Post. "I fautori dell'accordo nucleare, come l'allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama, insistevano sul fatto che esso non avrebbe indebolito gli sforzi per la non proliferazione nella regione. Ma nessuno di loro era in grado di rispondere a una semplice domanda: se all'Iran viene dato il permesso di arricchire l'uranio oggi, e di farlo ancora di più nel prossimo decennio, perché non dovrebbero farlo altri paesi in medio oriente? Cosa rende l'Iran così speciale? Eppure si tratta di un paese responsabile della morte di soldati statunitensi in Iraq, sponsor di organizzazioni terroristiche in Libano e nella striscia di Gaza, un bellicoso aggressore che promette di 'cancellare Israele dalla carta geografica' e che ora si sta radicando militarmente in Siria. Premiando l'Iran, invece di penalizzarlo, l'accordo sul nucleare incoraggia l'aggressività iraniana. E i nemici dell'Iran non se ne staranno a guardare mentre Teheran si prepara per dotarsi di capacità nucleare. Non è un segreto che i sauditi si oppongono all'accordo sulle armi nucleari iraniane, almeno nella sua forma attuale. Sono particolarmente scottati dal trattamento preferenziale che l'accordo offre agli iraniani. Il che è emerso chiaramente durante i negoziati del mese scorso tra l'Amministrazione Trump e l'Arabia Saudita per contratti del valore di miliardi di dollari con le aziende americane dell'energia atomica. Durante le trattative, i sauditi hanno chiesto come mai loro dovevano aderire alle restrizioni previste dalla 'Sezione 123' della legge statunitense sull'energia atomica, che consente l'accesso alle tecnologie americane a condizione che ci si astenga dall'arricchire l'uranio, mentre agli iraniani viene consentito di far funzionare migliaia di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. I sauditi non sono i soli a contestare il trattamento preferenziale riservato all'Iran. L'amministrazione Trump, che ha ereditato da Obama l'accordo sul nucleare iraniano, si trova ora di fronte a una potenziale corsa agli armamenti nucleari. Prevenirla comporta affrontare le preoccupazioni dei sauditi, degli Emirati e di altri paesi. Per inciso, anche Israele condivide queste preoccupazioni. Bisogna convincere Germania, Francia e Gran Bretagna della necessità di stringere le restrizioni sull'Iran, e utilizzare la minaccia di nuove sanzioni come mezzo per scoraggiare il suo aggressivo espansionismo. Se gli Stati Uniti continueranno a concedere un trattamento preferenziale all'Iran per quanto riguarda le sue attività nucleari mentre esigono una rigorosa aderenza alla non proliferazione da parte degli altri, i sauditi e gli Emirati finiranno col rivolgersi a Russia e Cina, paesi che non si fanno scrupolo di fornire know-how nucleare se pagato a buon prezzo".

(Il Foglio, 26 marzo 2018)


Bolton è l'anti Obama. Bersaglio dei liberal e nemico di Teheran

Il nuovo consigliere di Trump. Ostile alla linea «debole e confusa» di Barack punta a disfare l'intesa sul nucleare iraniano

di Fiamma Nlrensteln

 
John Bolton
GERUSALEMME - Il suo libro, del 2007 è intitolato «La resa non è un'opzione». La sua frase più famosa (e naturalmente anche la più discussa): «Se il segretariato dell'Onu perdesse 10 piani, non farebbe nessuna differenza».
Nel weekend il presidente americano Donald Trump ha conferito a John Bolton l'incarico di consigliere strategico, una tessera fondamentale nel terremoto della Casa Bianca che lo ha piazzato al posto del generale McMaster, e ha portato al rimpiazzo del segretario di Stato Rex Tillerson con il direttore della Cia Mike Pompeo.
Pompeo e Bolton, se si cerca di definire il gran circo rotante dell'amministrazione statunitense, sono dalla stessa parte, due repubblicani ferventi e di principi ferrei, su cui il capo di stato maggiore di Trump, John Kelly, conta con simpatia per riordinare un panorama tempestoso e in continuo cambiamento.
Bolton avrà in mano la gestione di uno staff di sicurezza formato da centinaia di specialisti di ogni settore e parte del mondo, molti dipendenti del Pentagono, dal Dipartimento di Stato e dalle agenzie di intelligence.
Sarà lui, fra il tremore e lo scorno della sinistra, a consigliare Trump su tutte le questioni più delicate, dalla Corea del Nord al Medio Oriente, alla Cina, al radicalismo islamico.
Un mese fa ha scritto sul Wall Street Journal un pezzo intitolato: «Le ragioni legali per colpire la Corea del Nord per primi»; e mentre nel 2015 Obama negoziava ancora l'accordo con l'Iran, scrisse un'opinione di totale dissenso che il New York Times, in maniera chiaramente polemica titolò «Per fermare la bomba iraniana, bombardiamo l'Iran».
Ma sono volgarizzazioni che fanno giustizia a un diplomatico-intellettuale che è una colonna del think tank American Enterprise, già nell'amministrazione Bush come assistente segretario di Stato e poi sottosegretario di Stato per il controllo sulle armi dal 2001 al 2005, dopo l'attacco alle Twin Towers. Bolton non si è mai detto per la distruzione del reattore iraniano, ma piuttosto di un trattato che ormai è ritenuto da molti incredibilmente carente e in sostanza irresponsabile. «Non solo l'intero accordo è una scelta di appeasement ma la diplomazia di Obama ha prodotto un linguaggio debole, confuso e ambiguo in molte delle disposizioni per il futuro».
E chi può negarlo. Le ondate del New York Times, e di tutto il resto della stampa liberal sono arrivate fino al nostro Paese. Un ex uomo di Bush, oggi divenuto di Trump, quale pasto migliore per l'ironia consueta per chi pensa che «la resa non è un'opzione».
Eppure la forza intellettuale e morale del personaggio ha costretto persino il New York Times a concedere che si scrivesse un articolo di apprezzamento su Bolton almeno per la parte che riguarda le Nazioni Unite.
Perché è stato lui, fra i primi, a denunciare la corruzione, l'indifferenza per i diritti umani, persino la criminalità e l'incredibile codardia dell'Onu nel difendere le popolazioni inermi da Srebrenica al Sudan.
Fu Bolton a battersi anche per abrogare la maledizione a Israele per cui l'assemblea Onu votò «sionismo uguale razzismo»; ed è sempre lui che ha scritto che Kim Jong-un è «un orribile dittatore sotto cui la vita è un inferno».
No, Bolton non è pericoloso, come si è scritto. È la realtà ad esserlo, e bene che qualcuno sappia affrontarla realisticamente.

(il Giornale, 26 marzo 2018)


E' nato il nuovo "asse del male"

Per fermarlo serve una nuova fede nel "mondo libero"

Scrive il New York Times (2/3)

E' davvero un asse del male" ha tuonato Bret Stephens sul New York Times. "Questa settimana (la prima di marzo, ndt) il Times ha riportato che gli investigatori delle Nazioni Unite hanno compilato un dossier di oltre duecento pagine contenenti ingenti prove che la Corea del nord starebbe fornendo al regime siriano di Bashar al Assad potenziali armi chimiche e componenti di missili balistici. Già in passato Pyongyang aveva tentato di rifornire Assad con un reattore nucleare, finché gli israeliani non lo hanno distrutto con un raid aereo, nel 2007. Pyongyang non è l'unica aiutante di Damasco. Lo scorso novembre Mosca, che fornisce ad Assad contingenti aerei per bombardare il suo stesso popolo, brandì il suo decimo e undicesimo veto, in difesa del governo siriano, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe istituito un gruppo separato di esperti col compito di investigare l'uso di armi chimiche in Siria. Pechino ha usato il suo veto per aiutare Assad ben sei volte. C'è poi l'Iran, che si è fatto carico della sopravvivenza di Assad sin dall'inizio delle rivolte contro di lui nel 2011. Attraverso Hezbollah, il suo tramite libanese, Teheran ha fornito ad Assad i più efficaci e spietati dei suoi contingenti militari. Ma perché un teocrate sciita, un cleptocrate russo, un ciccione coreano e un imperatore cinese dovrebbero allearsi così apertamente per salvare una dittatura baathista tanto fragile quanto criminale? Non ce lo si chiede abbastanza spesso. Nessuno di loro condivide un confine, una lingua, una religione né un'ideologia politica, con Assad. E ognuno ha pagato a caro prezzo il proprio interventismo", sia in termini di vittime umane, sia in termini finanziari e di immagine politica.
   "Ci sono, però, interessi che vanno al di là della vita e del denaro. Alcuni di questi sono relativamente minori. L'Iran vuole mantenere il cosiddetto crescendo sciita. La Russia spera di usare la propria posizione in Siria per ottenere concessioni sull'Ucraina. La Cina vuole ricostruire la Siria quando sarà tutto finito. La Corea del nord è semplicemente fuori di testa. E poi c'è anche il collettivo interesse che hanno in Dittatura s.p.a.", la multinazionale che vuole abbattere l'occidente e i suoi valori, la cui bancarotta richiede "un'amministrazione capace di progettare, coordinare ed eseguire una strategia militare e diplomatica coerente. Noi non ne abbiamo una. Richiede un presidente che comprenda i benefici della Pax americana, che non consideri la politica estera una serie in fila di giochi, che sia capace federare i propri alleati in una causa comune. Soprattutto, serve un vero credo in quel che un tempo era noto come 'mondo libero': nei suoi comuni principi morali, nei suoi interessi generali, nelle sue ambizioni di lungo temine. Non abbiamo nemmeno questo. L'asse del male è tornato per davvero (non che fosse mai effettivamente scomparso del tutto). La causa della libertà attende di essere salvata".

(Il Foglio, 26 marzo 2018)


La farsa egiziana e il silenzio europeo

Arriva il turno delle, diciamo così, elezioni in Egitto dove certamente sarà consacrato Al Sisi, che noi ingoiamo perché è sempre meglio un orribile despota laico che un orribile despota integralista islamico.

di Pierluigi Battista

È inutile lamentare la crisi delle nostre democrazie quando consideriamo benedetta, per evitare guai, turbolenze e soluzioni ancora più apocalittiche ogni dittatura, ogni violazione dei diritti umani, ogni forma di oppressione, persino lo sterminio dei popoli assoggettati, o che devono scomparire, come i curdi. Facciamo finta di considerare democratico il verdetto delle elezioni che in Russia hanno consacrato l'autocrazia di Putin: ma sopprimere o imbavagliare tutti i rivali non è esattamente un modello di libera campagna elettorale. Contiamo le vittime dei civili massacrati da Assad perché presto si raggiungerà il ragguardevole record dei 400 mila assassinati da un regime orrendo, che però è meglio preservare perché gli altri, come è noto, sono ancora peggiori. Ci affrettiamo a mandare l'assegno concordato a Erdogan, quel simpatico democratico che ammassava nudi in palestra i dissidenti, che commina ergastoli ai giornalisti invisi alla sua tirannia e che nel silenzio internazionale fa strage di civili curdi, perché così tiene a bada i profughi che l'Europa, la grande assente, la silenziosa e pavida Europa per cui noi dovremmo gioire e in cui dovremmo identificarci, vuole tenere oltre confine. Adesso arriva il turno delle, diciamo così, elezioni in Egitto dove certamente verrà consacrato Al Sisi. Certamente perché sono elezioni farsa, che noi ingoiamo perché è sempre meglio un orribile despota laico che un orribile despota integralista islamico. Perché noi vogliamo la democrazia sì, ma soltanto se ci conviene.
   Faremo finta di crederci, quando il carnefice laico verrà confermato nel suo trono. Abbiamo fatto finta di credere che dal Cairo qualcuno avrebbe collaborato per la verità sull'assassinio del nostro Giulio Regeni, abbandonato da tutti tranne che dalla sua famiglia. Così come fingiamo di ignorare che la prigione egiziana dove si pratica con maggiore efficacia la tortura è stata ribattezzata «la tomba». Silenzio, imbarazzo. Con il paradosso che l'unica indignazione viene riservata all'unica democrazia del Medio Oriente, Israele (a proposito, è nelle sale un film strepitoso come «Foxtrot» che ci fa, con l'arte e la narrazione, cogliere la temperatura morale di quella Nazione). Il solito silenzio e il solito imbarazzo di chi non ha più a cuore la democrazia. Tutto il resto ne è la conseguenza.

(Corriere della Sera, 26 marzo 2018)


Eppur si suonava le note sfuggite all'orrore

Le musiche composte dagli internati nei lager erano un aiuto per sopravvivere. Francesco Lotoro le ha recuperate e in aprile ne saranno eseguite alcune per la prima volta a Gerusalemme.

di Caterina Soffici

Sono musiche composte nei lager nazisti e mai più suonate. Alcune scritte su carta igienica o di giornale, altre trafugate in faldoni poi rocambolescamente ritrovati in soffitte a migliaia di chilometri di distanza, altre ancora memorizzate e poi trascritte dai sopravvissuti. È la resistenza dell'uomo di fronte all'orrore. La dimostrazione che anche la barbarie più atroce non riesce a togliere all'uomo la creatività. L'arte e la musica hanno aiutato questi uomini e donne a sopravvivere, vie di fuga e spazi di libertà dietro il filo spinato. Alcune delle musiche salvate verranno suonate per la prima volta a Gerusalemme in aprile dall'orchestra sinfonica israeliana di Ashdod, in uno degli eventi per celebrare il 70o anniversario della fondazione dello Stato di Israele.
   Dietro questa storia c'è la missione di un uomo, il pianista e compositore italiano Francesco Lotoro, 54 anni, originario di Barletta, che per 30 anni ha dato la caccia agli spartiti perduti ed è riuscito a rintracciare migliaia di canzoni, sinfonie e persino opere. Circa ottomila partiture, 12 mila documenti, centinaia di interviste ai sopravvissuti. Piccoli pezzi per spettacoli di marionette o semplici canzonette, pezzi sacri o grandi opere sinfoniche. La ricerca è iniziata dal lager di Dachau e poi si è estesa alla musica creata in tutti i luoghi di cattività durante la Seconda guerra mondiale, per arrivare fino al 1953, con l'amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei gulag.
   Lotoro ha raccolto materiali di ebrei, cristiani, zingari, comunisti, sufi, prigionieri civili e militari da tutti gli angoli del mondo, fino al Giappone e le Filippine. Nei suoi piani c'è anche la pubblicazione di un Thesaurus Musicae Concentrationariae, enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata nel 2022.
   Un progetto mastodontico cui Lotoro ha dedicato la vita e che è stato anche raccontato nel filmdocumentario Il Maestro del regista argentino Alexander Valenti. «Le composizioni dei campi di concentramento sono un patrimonio mondiale, un'eredità per quegli artisti che, nonostante abbiano perso la libertà nelle circostanze più inimmaginabili, hanno perseverato attraverso la musica. Attraverso il concerto ci stiamo impegnando per ridare vita e dignità a questi artisti» ha spiegato Lotoro.
   Tra i pezzi che verranno eseguiti per la prima volta in pubblico a Gerusalemme c'è una canzone scritta dalla poetessa e musicista ebrea Ilse Weber, che lavorava come infermiera nell'ospedale del campo di Theresienstadt e aveva insegnato alcune delle sue composizioni ai bambini reclusi. Ilse decise di seguire volontariamente, con il figlio Tommy, il marito Willi deportato ad Auschwitz nel 1944. Tutta la famiglia fini nei formi crematori ma la musica di Ilse, che non era mai stata scritta, è sopravvissuta grazie ad Aviva Bar-On, una delle bambine del campo, che si è salvata. L'aveva memorizzata e adesso la canterà per la prima volta.
   Sarà suonato anche un brano intitolato Tatata, di Willy Rosen e Max Ehrlich che, prima della deportazione da Westerbork ad Auschwitz, riuscirono a far uscire dal campo una cartella dei loro manoscritti. Rosen era un compositore ebreo tedesco, cantautore e noto cabarettista, assassinato ad Auschwitz nel settembre del '44. Ehrlich, attore, sceneggiatore e regista, era come Rosen una figura di spicco nella scena del cabaret tedesco negli anni 30. La cartella contenente la loro musica è stata ritrovata decenni dopo la fine della guerra in un attico nei Paesi Bassi e stava per finire nella spazzatura di un trasloco.
   Tra le storie raccolte da Lotoro c'è quella di Rudolf Karel, allievo di Dvoràk, morto a Terezin, che grazie alla dissenteria da prigioniero ha potuto scrivere un'opera in cinque atti sulla carta igienica, salvata poi da un secondino. Un altro musicista, Hans Van Collem, utilizzava i campi di patate come pentagramma e poi chiedeva ai compagni di memorizzare le note e trascriverle su carta igienica o di giornale: con questo sistema compose il Salmo 100 per coro maschile che venne eseguito di nascosto nelle latrine. Un altro prigioniero polacco dotato di memoria formidabile mise a disposizione dei suoi compagni di prigionia il suo prodigioso talento e come un registratore umano memorizzò centinaia di brani. Si salvò e fu ricoverato a Cracovia nel 1945. Pensavano che la guerra l'avesse fatto impazzire, perché non poteva smettere di cantare. Ha trascritto 764 canzoni scritte nei lager.

(La Stampa, 26 marzo 2018)


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La Shoah - Ilse Weber

Ilse Weber
Ilse Weber nacque a Witkowitz l'11 Gennaio 1903. Fu una poetessa ebrea e in particolare scrisse canzoni e poesie per i bambini ebrei.
   Sposò Willi Weber nel 1930 e si stabilì a Praga. Qui scrisse su riviste per bambini e divenne una produttrice per la radio ceca. Dopo l'occupazione nazista della Cecoslovacchia nel 1939, i Weber sono riusciti a mandare al sicuro il loro figlio maggior Hanus in Svezia su un ''Kindertransport'' prima di essere deportato nel ghetto ebraico di Praga. Hanus inizialmente fu invitato a trasferirsi in Inghilterra per vivere con un'amica di sua madre che era la figlia di un diplomatico svedese. Sopravvisse alla guerra in Svezia e vive a Stoccolma in pensione.
   I Weber arrivarono nel campo di concentramento di Auschwitz nel Febbraio del 1942. Ilse lavorò come infermiera per i bambini nel campo, senza la disponibilità di medicine, vietate nel campo per gli ebrei.
   Da piccola imparò a suonare la chitarra, il liuto il mandolino ed altri strumenti ma non ebbe successo nella carriera musicale. Scrisse più di 60 poesie durante la sua prigionia, alcune con musiche composte da lei con la sua chitarra, apparentemente semplici ma accompagnate da immagini che facevano capire l'orrore che la circondava. Alcune sue canzoni tra le più famose sono: "Lullaby", "I Wandered Through Theresienstadt", "The Lidice Sheep," "And the Rain Falls," e "Avowal of Belief." Il suo libro più famoso è "Mendel Rosenbusch: Libri per bambini ebrei". Il personaggio del titolo, un uomo gentile anziano, riceve misteriosamente una moneta magica che gli permette di diventare invisibile a volontà. Egli usa questo potere per eseguire anonime buone azioni per i suoi vicini. Fu portata ad Auschwitz volontariamente con i bambini di Theresienstadt e fu uccisa insieme a suo nipote Tommy nelle camere a gas.

 La sua vita.
  Nei primi di ottobre del 1944, 1500 internati del Campo di concentramento di Theresienstadt, in Cecoslovacchia, 60 km a nord di Praga, ricevettero l'ordine di salire su un convoglio destinato ad Auschwitz, fra questi vi era anche Ilse Weber, insieme al suo bambino Tommy e a quindici altri bambini malati dell'infermeria, dei quali si prendeva cura. Quando Willi Weber, marito di Ilse, detenuto nello stesso campo di concentramento, venne destinato ad Auschwitz, prima di partire, nascose sottoterra in tutta fretta, nel capanno degli attrezzi, le più di sessanta fra poesie e canzoni che la moglie Ilse aveva composto nei due anni di detenzione a Theresienstadt. Queste sono ora il tesoro preziosissimo che testimonia le inimmaginabili tragedie di tanti bambini, adulti e anziani che si sono consumate in quel campo di concentramento. A Theresienstadt dunque c'era una tomba che custodiva poesie. Forse, altri versi giacciono sepolti in altri campi. Versi che nessuno può leggere, perché sono morti coloro che li hanno scritti. In questo caso però sono stati ritrovati, non da Ilse Weber, eliminata assieme a tutti i suoi piccoli malati nei gas di Auschwitz, ma da suo marito scampato al martirio. Willi Weber, ridotto ad uno scheletro umano, si è salvato perché la sorte lo aveva destinato a sopravvivere e tornare a Theresienstadt per scavare tra le macerie del capanno degli attrezzi e riportare alla luce e a noi le parole, i versi e la musica che la moglie aveva scritto durante i due anni di internamento.Quelle poesie sono ora
 
diventate patrimonio comune dell'umanità. Erano parole di conforto e di speranza per i detenuti che le imparavano a memoria e vi si aggrappavano: luce nel buio profondo di quel Lager che la storia ricorderà come il Lager dei bambini; ninne nanne, filastrocche, versi nati nelle notti insonni che Ilse Weber passava in infermeria accanto ai piccoli malati, dopo le lunghe giornate trascorse ad accudirli con lo stesso amore che avrebbero avuto le loro madri se fossero state con loro. Ilse era una scrittrice di letteratura per l'infanzia, traduttrice, poetessa, musicista, molto attiva dal punto di vista intellettuale e collaborava a trasmissioni radiofoniche, aveva 39 anni quando fu deportata a Theresienstadt nel 1942, insieme al figlio Tommy e al marito Willi. Fu lei stessa a chiedere di potersi occupare dei bambini rinchiusi in quel campo. Molte delle sue composizioni sono cariche di struggente nostalgia per l'altro figlio, Hanus, che a soli otto anni era stato mandato in Svezia, in salvo presso un'amica. 150.000 furono gli ebrei adulti deportati a Theresienstadt. Questi organizzarono per i piccoli una scuola clandestina, dove i bambini potevano disegnare, scrivere e persino recitare. 15.000 furono i bambini e neonati ebrei deportati a Theresienstadt. Dopo la guerra ne ritornarono solo un centinaio. Nessuno di questo centinaio aveva meno di quattordici anni. Significa che gli altri 14.900 bambini più piccoli non esistevano più. Questi bambini ci hanno lasciato in eredità circa 4000 disegni e 60 poesie conservate nel Museo Ebraico di Praga, testimonianze quasi fotografiche, o forse più che fotografiche, di ciò che vivevano ogni giorno all'interno del Lager.
   Le poesie della Weber, nate nell'orrore, concepite nella paura e partorite fra le lacrime e la fame, sono rimaste sconosciute fino allo scorso ottobre 2008, anno della prima pubblicazione per la casa editrice tedesca Hanser. Terminiamo percorrendo gli ultimi attimi della vita di Ilse Weber. Al capolinea del treno su cui era salita volontariamente per non abbandonare i suoi bambini malati, arrivata ad Auschwitz dunque, pienamente consapevole della sorte che l'attendeva, fu riconosciuta da un detenuto che era stato deportato con lei a Theresienstadt; lui la vide che cercava di consolare i suoi bambini e le si avvicinò, mentre le sentinelle erano lontane e lei gli chiese: "È vero che possiamo fare la doccia dopo il viaggio?" Lui non volle mentirle e le rispose : "No, questa non è una doccia, è una camera a gas e ora ti do un consiglio. Ti ho spesso sentito cantare nell'infermeria. Entra con i bambini cantando nella camera a gas il più in fretta possibile. Siediti con i bambini sul pavimento e continua a cantare. Canta con loro ciò che hai sempre cantato. Così inalerete il gas più velocemente. Altrimenti verrete uccisi dagli altri quando scoppierà il panico" La reazione di Ilse fu strana. Rise, come assente, abbracciò uno dei suoi bambini e disse: "Allora non faremo la doccia" .
   La canzone che cantò insieme a suo figlio Tommy e agli altri bambini quel 6 ottobre 1944 entrando nelle docce di Auschwitz fu una sua ninna nanna: "Wiegala". Da quel giorno, quella ninna nanna fu cantata da altri bambini prima che entrassero nei gas di Auschwitz e rimase nella memoria dei sopravvissuti come simbolo del massacro degli innocenti.
Wiegala

(Ilseweber.weebly)


Diplomatico austriaco in Israele richiamato per una maglietta nazista

di Nathan Greppi

Il Ministero degli Esteri Austriaco ha richiamato Juergen-Michael Kleppich, un suo diplomatico dall'Ambasciata in Israele, dopo che questi ha postato su Facebook una sua foto in cui indossava una maglietta con la scritta "Mantieni la posizione, Frundsberg". Come riporta Arutz Sheva, Frundsberg era il nome della 10a Divisione Corazzata Tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, che deriva da Georg Von Frundsberg, un famoso guerriero del XV secolo.
Kleppich, che è iscritto al Partito della Libertà Austriaco (FPO in tedesco), ha acquistato la maglietta sul sito Phalanx Europa, un venditore online di abiti con tematiche identitarie e ultranazionaliste.
Questa non è la prima volta che Kleppich diventa protagonista di uno scandalo simile: in passato, quando era consigliere comunale a Vienna, mise su Facebook una foto del nonno con l'uniforme nazista. Karin Kneissl, il Ministro degli Esteri Austriaco, ha ordinato martedì 20 marzo che Kleppich venisse "richiamato a Vienna immediatamente, per essere sottoposto a un'indagine".
L'FPO, fondata nel 1956 da ex ufficiali nazisti, negli anni ha cercato di ripulire la propria immagine tanto che il suo attuale Presidente, Heinz-Christian Strache, ha dichiarato che il partito disapprova il razzismo. Tuttavia, a gennaio un candidato del partito per delle elezioni regionali si è ritirato dopo che la sua vecchia confraternita ha pubblicato un libretto pieno di canzoni che inneggiavano alla Shoah.
Strache ha visitato Israele più di una volta e ha dichiarato di voler spostare l'Ambasciata Austriaca a Gerusalemme, seguendo l'esempio di Donald Trump. Tuttavia, il Governo Israeliano ha dichiarato di non volere contatti diretti con l'FPO, una posizione condivisa dalle comunità ebraiche austriache.

(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2018)


Corbyn si scusa per 'sacche di antisemitismo' in Labour

Il leader laburista Jeremy Corbyn si dichiara "sinceramente dispiaciuto" per la presenza di "sacche di antisemitismo" nel suo partito e si impegna a ricostruire la fiducia con la comunità ebraica dopo una serie di polemiche che lo hanno investito anche personalmente.
"Il Labour è un partito antirazzista e io condanno totalmente l'antisemitismo", assicura Corbyn in un messaggio. "Voglio rafforzare la fiducia e il sostegno della comunità ebraica del Regno Unito, ma so che per farlo dobbiamo dimostrare il nostro totale impegno a recidere le sacche di antisemitismo emerse dentro e intorno al nostro movimento e che hanno causato sofferenza nella comunità ebraica", ammette, annunciando incontri a breve con dirigenti dell'ebraismo britannico.
Il messaggio s'incrocia con una lettera di protesta delle comunità ebraiche al gruppo parlamentare laburista e con un'ultima polemica su un post pubblicato su Facebook da Corbyn nel 2012 in difesa d'un controverso murales dipinto a Londra, riconosciuto solo ora come "scioccante" e di tono "antisemita".

(swissinfo.ch, 25 marzo 2018)


Sirene allarme a sud di Israele, Iron Dome attivato

25 marzo, 21:54 - Le sirene di allarme antimissili sono risuonate poco fa e ripetutamente nel sud di Israele attorno alla Striscia di Gaza. Lo segnalano i sistemi di rilevazione.
Secondo i media è stato attivato il sistema di difesa Iron Dome che, secondo altre fonti di informazione, avrebbero intercettato almeno un razzo.
Nella Striscia è in corso un'esercitazione dell'ala militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam.

(swissinfo.ch, 25 marzo 2018)


Tensione a Gaza, Hamas compie manovre

Continua a salire la tensione lungo la linea di demarcazione fra Israele e la striscia di Gaza mentre oggi l'ala militare di Hamas si accinge a compiere manovre militari "di carattere difensivo", secondo quanto ha preannunciato il movimento. I villaggi israeliani di confine hanno egualmente ricevuto istruzione di mantenere un elevato stato di vigilanza. Ieri quattro palestinesi sono penetrati in territorio israeliano e hanno sabotato un mezzo del genio militare adibito alla ricerca di tunnel di Hamas. I quattro sono poi rientrati indenni nella Striscia. In reazione l'aviazione israeliana ha colpito una base militare di Hamas a Rafah.

(ANSAmed, 25 marzo 2018)


Il palestinese di Berlino che farà rinascere la sinagoga

È il capogruppo della Spd della capitale tedesca: "Sarà un modello contro i pregiudizi". Il tempio fu distrutto dai nazisti nel 1938. Ora, dopo 80 anni, c'è il progetto.

di Tonia Mastrobuoni

 
Da sinistra: Raed Saleh, capogruppo della Spd a Berlino e Gideon Joffe, capo della comunità ebraica di Berlino
BERLINO - Dopo la preghiera, la tovaglia bianca e blu si riempie velocemente di "gefìlte fish", di pesce e insalate. Un profumo di pane fresco e di cipolle invade la piccola sala accanto alla sinagoga. Janet Ben Hassin ci porge un piattino di crauti, poi ci chiede sottovoce di nascondere il taccuino sotto al tavolo. «È shabat - sorride - il giorno del riposo». Arrossiamo, ci scusiamo, scorgiamo al centro della lunga tavola un'enorme bottiglia di whisky. Jonathan Marcus se ne serve un dito: «Il whisky - ridacchia - è un omaggio a Harry Nowalsky, l'ufficiale americano che nel 1945 ricostruì una parte della sinagoga».
   Sette anni prima, nell'atroce notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938, nelle ore buie del pogrom nazista che si abbatté sugli ebrei tedeschi, la sontuosa sinagoga neoclassica che si affacciava sui canali di Kreuzberg era stata la prima a bruciare fino alle fondamenta. La comunità tentò di resistere, le funzioni proseguirono per un po', tra deportazioni nei campi di concentramento, massacri e persecuzioni. Ma lo sterminio spazzò via la stragrande maggioranza di quei diecimila ebrei che vivevano tra Kreuzberg e Neukoelln. E Nowalsky fu il primo a restituire un piccolo tempio ai sopravvissuti, nell'estate del 1945. Quando nessuno avrebbe più pensato possibile una vita per gli ebrei a Berlino.
   In quell'"anno zero", un giovane e spericolato fotografo ebreo passò per la sinagoga. Voleva immortalare i sopravvissuti: la sua gente tornata dai campi di sterminio, dalle marce della morte, resuscitati dai nascondigli. Si chiamava Robert Capa, e in occasione del Rosh haShana, del capodanno ebraico, fotografò anche l'ufficiale.
   Nowalski, mentre pregava tra i banchi, con altri soldati americani. Un giornale di New Orleans descrisse la funzione, si soffermò sui «volti solcati dalle lacrime degli ebrei che cantano gli inni di Israele». Capa annotò, con enorme amarezza, che «agli ebrei berlinesi non è rimasto molto da festeggiare. Si stanno abituando al loro destino di essere gli ultimi sopravvissuti senza un futuro». Ma il più grande fotografo di guerra di tutti i tempi si sbagliava. E non solo perché la comunità non si è mai estinta e negli ultimi anni si è enormemente arricchita di ebrei che arrivano da ogni parte del mondo per vivere a Berlino. La notizia che ha riempito di felicità gli ebrei di Kreuzberg e Neukoelln, è che la sinagoga di Fraenkelufer, il tempio raso al suolo dai nazisti ottant'anni fa, sarà interamente ricostruita. Jonathan Marcus la chiama «il sogno che non osavamo sognare». E il miracolo nel miracolo è che la proposta è arrivata da un politico nato quarantuno anni fa in Palestina, Raed Saleh. Il capogruppo della Spd a Berlino ha presentato il progetto il 9 novembre scorso, proprio nell'anniversario del pogrom. «Io sono un socialdemocratico tedesco di religione musulmana che crede nella difesa della pluralità religiosa», ci ha spiegato, quando siamo andati a trovarlo nel suo ufficio al Comune.
   Anche in questo progetto, realizzato da un musulmano di origine palestinese per «garantire la prosperità della vita ebraica nella "mia" Berlino», si capisce l'attenzione della Germania per la propria storia. Nell'utopia delle religioni che si parlano, si ascoltano e si rispettano, per il socialdemocratico, «c'è un modello che mi piacerebbe vedere imitato anche nel resto dell'Europa e del mondo». Saleh è preoccupato per l'antisemitismo crescente, sottolinea, «sia tra i tedeschi, sia tra i giovani musulmani. E anche i partiti populisti come l'Afd hanno ricominciato a nutrirsi di pregiudizi contro gli ebrei». Il politico ha affidato all'architetto Kilian Enders la ricostruzione della sinagoga del 1916. «La differenza con quella originale - racconta - è che per segnalare la rottura, per ricordare la tragedia del rogo, sarà totalmente bianca». Il costo calcolato da Iris Spranger, responsabile Spd per l'urbanistica, dovrebbe aggirarsi attorno ai 20-25 milioni di euro, che in parte sarà coperto da fondi pubblici, in parte dai privati. Un altro dettaglio che colpisce è che la sinagoga sorgerà in un quartiere multietnico, in cui una delle comunità più grandi è quella musulmana. Negli anni Settanta si diceva che Kreuzberg fosse una delle più grandi città turche. Eppure Shmuel Slater, che si è fermato a parlare con noi all'uscita della sinagoga, è un ragazzo minuto australiano che ci vive volentieri. Ha gli occhi di un celeste quasi trasparente. È venuto a fare la scuola da rabbino a Berlino, che definisce «una città esemplare, dal punto di vista dei valori». E no, non ha mai avuto «neanche mezzo problema a girare a Kreuzberg e Neukoelln con la kippah», con il copricapo degli ebrei. Probabilmente Gideon Joffe, capo della comunità ebraica di Berlino ha colto nel segno, quando ha saputo della proposta di Saleh di ricostruire la sinagoga del Fraenkelufer: «Mai avrei pensato che un tedesco di origine palestinese avrebbe aiutato la comunità ebraica a sorgere a nuova vita. Questa è una storia meravigliosa». Già.

(la Repubblica, 25 marzo 2018)


I campi di sterminio non sono «polacchi»: come fa danni una legge così

da The Financial Times Limited

di James Shotter e Evon Huber

 
Manifestazione di solidarietà dei polacchi per gli ebrei vittime della Shoah. Varsavia 11 marzo 2018
 
Memoriale di Janusz Korczak che morì nella camera a gas di Treblinka nel 1942 coi bambini dell'orfanotrofio ebreo del Ghetto di Varsavia
VARSAVIA — «Alcuni uomini, più o meno tre settimane fa, sono entrati nel nostro cortile e hanno notato una targa sull'edificio che ne attribuisce il progetto a un architetto ebreo» racconta Malgorzata, ex insegnante della città di Cracovia. «Poi hanno detto: 'Ah, si tratta di una casa popolare di ebrei... Vivono qui, ma non lo faranno ancora a lungo'. Le loro parole mi hanno molto colpito. Un tempo, questo antisemitismo strisciante era poco evidente, mentre adesso è vistoso, lo si nota ovunque, perfino per strada». Malgorzata non è l'unica a preoccuparsi.
  Quest'anno il governo polacco ha introdotto un emendamento di legge per il quale attribuire i crimini nazisti alla nazione o stato polacco diventa un reato punibile con la reclusione fino a tre anni. La nuova legge ha innescato una discussione al calor bianco tra Polonia e Israele che, a sua volta, ha incrementato l'uso in Polonia di alcune espressioni antisemite che hanno messo profondamente a disagio molti ebrei che vivono nel paese.
  Anche se alcuni leader polacchi come il presidente Andrzej Duda e Jaroslaw Kaczynski, capo del partito conservatore al governo Diritto e Giustizia, hanno condannato l'antisemitismo ripetutamente, l'ambasciata di Israele a Varsavia nelle ultime settimane ha ricevuto un numero molto maggiore di messaggi ostili rispetto al passato, e analoghi sentimenti sono trasmessi dalla televisione polacca. In verità, quando un mese fa Duda ha preso in considerazione se firmare o meno l'emendamento, un gruppo di estrema destra ha organizzato una manifestazione di protesta davanti al palazzo del presidente. Tra gli striscioni, ce n'era uno sul quale si leggeva: «Togliti la kippah e firma la legge».
  La violenta reazione scatenata dalla nuova legge - che i leader di Diritto e Giustizia reputano indispensabile per proteggere il paese dalla diffamazione, ma che i suoi oppositori temono possa limitare la libertà di espressione ed essere sfruttata per edulcorare la Storia - ha portato le relazioni tra Polonia e Israele al loro punto più critico in una generazione. Oltretutto, il nuovo status quo ha sfilacciato i legami tradizionalmente molto solidi con Washington, proprio nel momento in cui Varsavia era già ai ferri corti con l'Ue per alcune riforme che, secondo il parere di molti, metterebbero a repentaglio la legalità.
  Tuttavia, nella comunità ebraica polacca si paventa che le conseguenze negative peggiori potrebbero essere a livello interno, e che l'amara disputa possa compromettere la trentennale rinascita della vita della comunità ebraica nel paese dell'Europa centrale che un tempo ospitava la maggior parte degli ebrei del mondo.
  «Questa è la prima volta dal 1989 che le relazioni tra polacchi ed ebrei sono sconvolte da un terremoto di questa portata» dice Anna Chipczynska, presidente della Comunità ebraica di Varsavia. «All'inizio, la si considerava soltanto una crisi politica… Di fatto, essa ha portato alla luce un antisemitismo di proporzioni senza precedenti negli ultimi anni. Occorreranno anni prima di ricostituire la fiducia. Come molte altre persone, devo ammettere con tristezza che mi sto chiedendo se non stessimo semplicemente vivendo nell'illusione che le cose andassero bene».
  La nuova legge è nata dal doloroso dibattito sulle sofferenze di ebrei e polacchi durante la Seconda guerra mondiale. Complessivamente, persero la vita circa sei milioni di cittadini polacchi, pari al 20 per cento della popolazione prebellica: tre milioni di loro erano ebrei polacchi, corrispondenti al 90 per cento della comunità ebraica in Polonia prima del conflitto. Molti morirono in campi di concentramento come Auschwitz e Treblinka che, quantunque ubicati in territorio polacco, furono costruiti e amministrati dai nazisti dopo l'invasione e l'occupazione della Polonia del 1939 da parte della Germania. Dal 2004, la Polonia si è battuta contro l'espressione "campi di sterminio polacchi" usata per descrivere i lager, sostenendo che con quelle parole si sottintende un'errata complicità della Polonia nell'Olocausto.
  I suoi sostenitori affermano che la nuova legge - in elaborazione da oltre un anno - darà a Varsavia lo strumento giusto per porre rimedio all'inaccuratezza che, vista la portata della devastazione arrecata alla Polonia dalla Germania nazista, provoca reazioni profonde in molti polacchi. «Quando uscì da un campo di lavori forzati in Germania, mio padre pesava 46 chili. Mia madre, invece, fu concepita in un altro campo, nacque sottopeso, ricoperta di piaghe e con la polmonite» racconta un funzionario polacco. «Quando uscì dal campo, le somministrarono della penicillina di uno dei primi lotti ad arrivare in Polonia dopo la guerra. Ma, poiché le fecero iniezioni di antibiotico in tenera età, oggi soffre di cuore. In Polonia quasi tutti hanno alle spalle una storia di questo tipo. E poi ci dicono che i responsabili fummo noi? Fanculo!»
  Sia Israele sia la Germania hanno affermato che l'espressione "campi di sterminio polacchi" è errata. Tuttavia, chi è contrario alla nuova definizione afferma che la legge è strutturata in termini talmente vaghi e ampi da poter essere utilizzata per sminuire episodi bui della storia della Polonia, anche se prevede possibili esenzioni per opere artistiche ed accademiche. Alcuni sospettano che possa addirittura impedire ai discendenti dei sopravvissuti all'Olocausto di raccontarne la storia.
  «Capisco perché la gente si offenda sentendo l'espressione 'campi di sterminio polacchi': la definizione è scorretta. Ma questa legge va ben oltre la questione» dice Rafal Pankowski dell'"Associazione mai più", un gruppo polacco che si batte contro i crimini dell'odio. «Capisco quindi la controversia, ma penso che tutto ciò adesso venga in secondo piano rispetto al problema principale. L'intera faccenda ha innescato pregiudizi e stereotipi antisemiti: credo che per trovare un precedente analogo si debba risalire alla fine degli anni Sessanta».
  In quel decennio le relazioni tra polacchi ed ebrei toccarono il minimo storico. Come altri membri del blocco sovietico, la Polonia ruppe le relazioni diplomatiche con Israele in reazione alla guerra arabo-israeliana del 1967. Sulla scia di una campagna antisemita del regime comunista, l'anno seguente più di diecimila persone lasciarono il paese, riducendo la comunità locale ebraica a poche migliaia di individui.
  Nel 1989, con la caduta della Cortina di ferro, iniziò l'opera di ricostruzione dei rapporti spezzati. Polonia e Israele riallacciarono relazioni diplomatiche. La vita degli ebrei in Polonia incominciò a riprendersi lentamente, e in tutto il paese nacquero numerose organizzazioni ebraiche. Gli storici iniziarono ad analizzare alcune fasi della storia della Polonia nella Seconda guerra mondiale ignorate sotto il regime comunista.
  Il governo di Varsavia non si arrese mai ai nazisti e, malgrado il fatto che i tedeschi imposero la condanna a morte per i polacchi che avessero aiutato gli ebrei, furono in migliaia a farlo: nello Yad Vashem Holocaust Memorial Centre di Israele, i polacchi ai quali si rende merito per il coraggio dimostrato nel mettere in salvo gli ebrei sono 6706, più di qualsiasi altro popolo.
  Gli storici, però, cominciarono anche a indagare alcuni episodi nei quali i polacchi avevano ucciso degli ebrei. Nel 2000 Jan Gross, uno studioso americano nato in Polonia, pubblicò un libro che documentava le responsabilità dei polacchi nel massacro di ebrei avvenuto nel 1941 nella cittadina di Jedwabne. Da quelle pagine si innescò un furibondo dibattito. «Jan Gross distrusse il consenso» dice Anita Prazmowska, che insegna storia internazionale alla London School of Economics. «Il suo libro affrontava quell'argomento in modo tale che non si poté far finta che non esistesse».
  L'anno seguente, Aleksander Kwasniewski, all'epoca presidente della Polonia, chiese formalmente scusa per il pogrom di Jedwabne. Anche se le sue scuse provocarono forti controversie in Polonia, molti le considerarono un momento cruciale ai fini della ricostruzione dei rapporti con la comunità ebraica e con Israele.
  «Le scuse formali di Kwasniewski furono un passo avanti di enorme portata e crearono le premesse per un dibattito. Prima, potevi parlare finché volevi, ma se non citavi Jedwabne o il pogrom di Kielce (nel quale nel 1946 furono uccisi una quarantina di ebrei), non c'era nient'altro di cui parlare» dice un ex diplomatico polacco.
  Un'altra svolta importante, aggiunge, è stata la realizzazione del Museo Polin della Storia degli ebrei polacchi, inaugurato a Varsavia nel 2013 anche grazie al sostegno di Kwasniewski e del suo successore Lech Kaczynski. «Per la prima volta, i ragazzi israeliani che visitavano il museo hanno avuto la possibilità di imparare non soltanto qualcosa a proposito dell'Olocausto, ma anche dei quasi mille anni di storia comune che abbiamo condiviso. Il museo è stato uno dei modi migliori per allacciare rapporti. Lech Kaczynski lo aveva capito benissimo» dice il diplomatico.
  Oltre alle iniziative di spicco di cui si sono occupati anche i giornali, e al lavoro di personaggi autorevoli come Papa Giovanni Paolo II e l'ex ministro degli Esteri polacco Wladyslaw Bartoszewski, anche la popolazione polacca ha avuto un ruolo di primo piano nella riconciliazione post-comunista: lo afferma Jonathan Ornstein, direttore del Centro della comunità ebraica di Cracovia. «Non è stata una politica governativa calata necessariamente dall'alto, bensì l'espressione della volontà del popolo polacco» dice. «Così facendo, i polacchi hanno dimostrato il loro desiderio di avere una comunità ebraica in Polonia, accanto a loro, e di lavorare mano nella mano per contribuire alla rinascita della vita degli ebrei».
  Malgrado ciò, a fronte della tempesta scatenata e alimentata dalla nuova legge, molte persone che appartengono alla comunità ebraica polacca - che oggi conta circa diecimila individui - si chiedono se sia effettivamente possibile mantenere ciò che è stato acquisito. Chipczynska riferisce che alcuni hanno iniziato a riflettere seriamente sul loro futuro in questo paese. «Mi pongo domande, mi chiedo se qui possiamo avere un futuro. Molti genitori stanno facendo altrettanto» dice. «Tanti ebrei si stanno chiedendo se potranno ancora esprimere apertamente la loro appartenenza all'ebraismo».
  A differenza di altri paesi europei come la Francia, che negli ultimi anni ha assistito a un'impennata dell'antisemitismo, le autorità della comunità ebraica polacca dicono di non essere a conoscenza di episodi di violenza a danni di ebrei. Tuttavia, il dibattito pubblico si sta facendo sempre più fosco e incoraggia la comunità ebraica polacca a prendere maggiori precauzioni.
  "Nella Seconda guerra mondiale morirono sei milioni di polacchi, tre milioni erano ebrei polacchi ovvero il 90% della comunità ebraica in Polonia prima del conflitto"
  «Per anni siamo andati orgogliosi del fatto che, mentre in Europa occidentale il modo migliore per individuare una sinagoga era cercare il carro armato parcheggiato di fronte, qui sicurezza voleva dire sentirsi chiedere ogni tanto di aprire la borsa per un controllo, quando se ne ricordavano» racconta Konstanty Gebert, columnist del quotidiano Gazeta Wyborcza. «Adesso, se pensiamo alla sicurezza, siamo un po' più preoccupati».
  I diplomatici e le autorità polacche stanno facendo di tutto per trovare una via di uscita dalla crisi. Sebbene con la sua firma abbia trasformato l'emendamento in legge, Duda l'ha poi inviata al tribunale costituzionale polacco per una verifica, passo che potrebbe preparare la strada per un cambiamento. Con un gesto ulteriore molto importante, giovedì scorso il presidente Duda ha espresso "profondo dolore" per gli allontanamenti del 1968, e ha chiesto perdono. Una delegazione polacca si è recata in visita in Israele per intavolare colloqui.
  Anche gli Stati Uniti adesso esercitano pressioni su Varsavia affinché pervenga a una soluzione. In ogni caso, se si tiene conto delle apprensioni e delle emozioni infiammate che dilagano sia in Polonia sia in Israele, sarà difficile trovarne una. «La Polonia corre in due direzioni contrarie a una stessa velocità e con una stessa determinazione» dice il rabbino capo del paese, Michael Schudrich. «Parte della popolazione sarebbe felicissima di porre fine a ogni relazione, ma l'altra metà si sta battendo con grande vigore per riportare i rapporti tra i due paesi dove erano in passato, e lotta accanitamente per una discussione improntata alla ragione. All'interno del governo sono in molti a voler garantire che questa relazione resti positiva».
  Eppure, anche nel caso in cui le autorità polacche riuscissero a trovare un modo per troncare la controversia con Israele, molti osservatori temono che la comunità ebraica in Polonia possa aver bisogno di molto più tempo per riprendersi del tutto. «All'apparenza, la situazione potrebbe appianarsi. Tutti hanno l'interesse a far sì che la situazione non degeneri. In ogni caso, sarà estremamente difficile ricostruire la storia di fiducia che ha richiesto gli ultimi trent'anni per consolidarsi» dice l'ex diplomatico polacco.
  «Stringere amicizia significa fare molti piccoli passi. Non si tratta di un processo spettacolare. Si raggiunge l'amicizia vera solo perseverando e usando determinazione. Negli ultimi trent'anni i piccoli passi avanti sono stati moltissimi e ci si è impegnati a livello personale. Avevamo ottenuto molto, ma adesso quel molto è andato in briciole. La prossima generazione dovrà ricominciare a ricostruire, proprio come facemmo noi dopo il 1968».

(Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2018 - trad. Anna Bissanti)


Israele accusa l'Onu di approvare Risoluzioni anti-israeliane

Israele ha accusato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di essere una farsa, in seguito all'approvazione, avvenuta venerdì 23 marzo, di 5 nuove Risoluzioni definite "anti-israeliane".
   Le 5 mozioni sono state presentate dai Paesi dell'Organizzazione della cooperazione islamica. Le decisioni prevedono che Israele ceda le Alture del Golan alla Siria e che il popolo palestinese ottenga il suo diritto all'autodeterminazione. Inoltre, le Risoluzioni interessano altresì la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est, e la legittimità degli insediamenti israeliani in tali aree, considerati illegali dalla Risoluzione 2334, approvata nel 2016. L'ultima mozione mette in discussione la legittimità della vendita di equipaggiamenti militari a Israele. La loggia ebraica B'na B'rith International ha spiegato che quest'ultima mozione dimostra che il Consiglio è indifferente ai diritti e al benessere dei cittadini dello Stato di Israele impegnati nella lotta per difendere il loro diritto alla vita.
   Il 24 marzo, il portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nachshon, ha pubblicato un post su Twitter dove ha affermato che l'organizzazione "prende in giro i nobili principi che finge di rappresentare. È una piattaforma anti-Israele esclusiva, manipolata da dittatori assetati di sangue che nascondono le loro imponenti violazioni dei diritti umani attaccando Israele".
   Venerdì 23 marzo, in seguito all'approvazione delle 5 Risoluzioni che condannano Israele, gli Stati Uniti avevano dichiarato di star perdendo la pazienza e avevano nuovamente minacciato di lasciare il Consiglio per i diritti umani. Gli Stati Uniti e l'Australia hanno votato a sfavore di tutte le 5 mozioni. I due Stati, insieme al Regno Unito, hanno richiesto l'abolizione della decisione, da parte del Consiglio per i diritti umani, di dibattere degli abusi dei diritti umani israeliani ad ogni sessione.
   L'ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, ha rilasciato una dichiarazione dove ha affermato che l'atteggiamento del Consiglio era esageratamente contro Israele, notando che l'organizzazione ha adottato solamente una Risoluzione a testa per la Corea del Nord, l'Iran e la Siria. "Quando il Consiglio dei diritti umani tratta Israele in maniera peggiore rispetto a Pyongyang, Teheran e Damasco, è il Consiglio stesso che diventa assurdo e indegno del suo nome. La nostra pazienza non è illimitata. L'accaduto di oggi dimostra che l'organizzazione manca della credibilità necessaria per essere un vero difensore dei diritti umani", ha aggiunto la Haley.
   L'Autorità Palestinese, da parte sua, ha accolto favorevolmente le nuove Risoluzioni. Il portavoce di Ramallah, Yusuf al-Mahmoud, ha elogiato le nazioni che hanno votato a favore delle misure adottate, "per la loro abilità di agire contro l'ingiustizia, l'arroganza e l'occupazione, respingendo minacce e coercizione".

(Sicurezza Internazionale, 25 marzo 2018)



L'Onu è illegale

 


Sharansky: Coloro che sostengono Israele ma odiano gli ebrei non possono essere nostri amici

"Tra interessi e valori dobbiamo optare per i valori, perché i nostri veri interessi stanno dove stanno i nostri valori".

Così come coloro che affermano di amare gli ebrei, ma odiano Israele, non possono essere considerati amici del popolo ebraico, allo stesso modo coloro che dicono di amare Israele ma sono ostili alla comunità ebraica dei loro paesi non sono veri amici, ma nemici. Lo ha detto il presidente dell'Agenzia Ebraica Natan Sharansky, noto in tutto il mondo per la battaglia da dissidente sionista che combatté nei gulag sovietici negli anni '70 e '80, intervenendo martedì scorso ad una commissione del sesto Forum Globale per la lotta all'antisemitismo, promosso dal Ministero degli esteri israeliano, focalizzata sulla crescita dei partiti e movimenti di estrema destra in Europa, e dei dilemmi che questo fenomeno pone al governo israeliano. Attualmente, ad esempio, il governo israeliano sta dibattendo se modificare la sua politica e iniziare a dialogare con il Partito della Libertà di estrema destra del vice cancelliere austriaco Heinz-Christian Strache....

(israele.net, 23 marzo 2018)


E se volessi criticare Israele ...

Avventure e disavventure di una vacanza

di Claudio Coen

Un mio caro affezionato lettore mi ha chiesto perché non avevo più nulla da scrivere.
  "Possibile che non ti sia capitato qualcosa di divertente con i correligionari"?
  No - rispondo subito - non ho nulla da dire su di loro. Forse potrei raccontare qualcosa di critico su Israele, ma sono sicuro che scatenerei una polemica infinita e poi mi deferiranno al Tribunale Rabbinico.
  "Perché, - continua uno dei pochissimi sostenitori che ho - che razza di critica sarà mai?"
  Dopo che ho raccontato un paio di cose che detesto, ho visto che è sbiancato.
  "Non puoi scrivere su Shalom una cosa del genere. Ti inimicherai tutti. Ti prenderanno per matto ... "
  "Le cose sono due: o dico quello che penso, oppure taccio e faccio il buonista".
  "Fai come vuoi - risponde il mio amico - a me sembra una grossa cavolata ... "
  Ebbene io provo a dire quello che odio di Israele.
  Da adesso in poi, prego i lettori che difendono Israele di non proseguire l'articolo, altrimenti potrebbero rimanere sbigottiti. Meglio andare a leggere altri articoli.
  Anche quelli che attaccano Israele continuamente, vorrei che non proseguissero. Non mi piacerebbe che dalle mie critiche possano montarci sopra una speculazione orribile.
  Questi i fatti, visto che ai primi di novembre ho fatto un nuovo viaggio in Israele per perfezionare il mio ebraico, aggiungendo anche un po' di turismo ad Eilat.
  Ancora una premessa, sono un romano che in genere fa colazione al bar. Prendo un caffè e scappo. Veniamo ora al punto, di ciò che detesto di Israele.
 
  1) Odio i bar israeliani, che quando chiedo un caffè, mi danno solo due alternative: sedermi, o portare via il caffè. Non capiscono la terza via, quella di berlo in piedi, senza sedersi. Per loro è inconcepibile, visto che hanno solo due tariffe da tavolino o da asporto. Diciamo poi quale caffè ... quando lo chiedo ristretto, o lo finisco con un sorso, oppure è colmo fino all'orlo del bicchierino. Allora, visto che non concordiamo su dove berlo, gli rispondo che lo porto via, pago quindi il prezzo da asporto e invece lo bevo davanti a loro, pronto a fare una scenata coi fiocchi se mi dovessero dire qualcosa. Poi li guardo in faccia per vedere come reagiscono. Una volta tanto sono io che li frego e non loro. Il problema però è che per provare questa gioia, bevo molti caffè e la notte non riesco a dormire. Pazienza ... ma ne vale la pena.
  2) La seconda cosa che odio, sono gli israeliani che non parlano ebraico con me. I miei insegnanti mi dicono di insistere nel dialogo. Anche se per loro stessa ammissione, mi dicono che loro sono molto sintetici nella risposta. Ma non ci riesco. Loro non dialogano. I tentativi precedenti sono stati, lo ricordo per alcuni lettori che si sono persi alcuni miei precedenti articoli, il tassista a cui avevo chiesto se era sposato, e mi ha scambiato per un gay ... poi ho provato con un altro tassista a cui ho fatto mille domande, ma non mi ha mai risposto, comunque mi sorrideva molto. Solo quando mi ha preso le valigie dal baule, ho scoperto che aveva un apparecchio acustico dentro l'orecchio. Sono andato poi al porto di Tel Aviv, per parlare con i pescatori, ma ad una mia domanda sul motivo perché non avevano pescato nulla, si sono straniti, dicendo che portavo sfortuna. Alla fine, avevo giurato di non parlare più in ebraico con loro, per non stressarli ulteriormente. E così è stato, fino a che non sono arrivato ad Eilat. Verso le 19 di sera giungo in albergo. Parcheggio la macchina, tiro fuori le valigie e vedo un tizio seduto su un trespolo davanti alla porta d'ingresso. Era quello della sicurezza che mi saluta con calore. Capisco che quella sarà la mia nuova vittima predestinata. Faccio il check in, poso le valigie e corro da lui. Ad Eilat in questo periodo, per l'escursione termica, fa molto caldo di giorno e fresco di sera. Lui, seduto, era vestito come un maestro di sci di Ovindoli. Aveva un cappello di lana che arrivava fino agli occhi ed una giacca a vento blu imbottita. Quando l'ho visto, pensavo facesse il gelo, mentre una russa entrava in albergo con un costume e sopra un pareo, io invece ero con una maglietta a maniche corte e stavo benissimo. Lo esamino per capire come approcciarlo. Giro intorno al trespolo, per vedere se avesse apparecchi acustici, per fortuna non era sordo. Penso tra me e me: e se fosse muto? Decido così di aspettare che gli arrivasse una telefonata, visto che gli israeliani stanno sempre al telefono. Difatti poco dopo arriva, facendolo chiacchierare per qualche minuto. Parla un ebraico perfetto. Lui che viene addestrato a riconoscere i terroristi, che annusa i pericoli, penso che non sia in grado di riconoscere i rompiscatole come me. Non glielo hanno ma insegnato. Decido di iniziare a parlare, chiedendogli se aveva freddo. Lui annuisce e il dialogo finisce qui. Non so come proseguire ... gli chiedo allora se c'è un supermarket nelle vicinanze. Pronuncia delle parole irripetibili, indicandomi un negozio proprio dietro le mie spalle, con una luce enorme che illuminava tutta la strada. Lo ringrazio e me ne vado. Forse mi aveva riconosciuto ... Attraverso la strada ed entro nel supermarket. Compro una bottiglia d'acqua e mentre sono in fila penso ad una frase per iniziare a chiacchierare con il cassiere, tanto non c'era nessuno ... Gli chiedo quando avrebbe chiuso il locale. Capisce benissimo la mia domanda in ebraico perfetto. La risposta purtroppo è lapidaria: "a Kippur" è l'unica risposta, e ride. Il dialogo anche qui finisce dopo un secondo. Volevo chiedergli se a Rosh Ha Shana rimanesse aperto. Ma i suoi tatuaggi e l'orecchino mi hanno fatto pensare di guadagnare velocemente l'uscita. E così dopo, a cena, ho parlato molto volentieri con mia moglie. In italiano. Decido poi ad Eilat di rifare una gita meravigliosa al Parco naturale di Timna. Una meraviglia di rocce, residui di miniere e panorami meravigliosi. Al termine della visita, con la mia auto presa a noleggio, mi avvio verso il nord, direzione Tel Aviv. Poco dopo, su una stradina di collegamento tra il Parco e la statale vedo due ragazzetti con zaino che facevano l'autostop. C'era il sole pieno e all'inizio ho pensato ad un miraggio. Penso tra me e me: "E mò so cavoli loro". Decido di prenderli in auto, ma per non farmi riconoscere parlo in inglese. "Che direzione andate?" Facendo capire che ero un turista.
  Mi rispondono con una località che è proprio sulla mia strada, gli apro la porta e salgono sulla mia piccola auto, mettendosi lo zaino sulle gambe. Erano due giovanissimi soldati in abiti civili, uno aveva gli occhiali e i capelli rossi, l'altro invece occhi chiari e capelli neri. Chiudono la porta, metto la sicura e parto, quando sono a circa 50 km orari, sufficienti per non scappare, decido che è il momento di iniziare a parlare ebraico. Non mi potevano sfuggire, inoltre mi dovevano essere riconoscenti e non potevano sottrarsi. "Dove abitate in Israele?". Sfoggiando il mio ebraico fluente. "Kibbutz Ga ... " risponde quello con gli occhiali da fumetto, poi china la testa sul finestrino laterale e si addormenta di colpo, rapito da un attacco di narcolessia, su cui i ricercatori dovrebbero analizzare la tempistica. L'altro più lucido, e cosciente che il suo amico non aveva potuto concludere la frase, continua: "Bri" e si butta all'indietro, sul poggiatesta dei sedili posteriori. Erano collassati, forse per la troppa attesa e il sole preso. In pratica avevano risposto con due parole in due. Kibbutz Gabri. Massimo storico. Io mi stranisco e provo a svegliarli facendo altre domande. Mia moglie mi strattona e dice: "Ma sei matto? Non ti permettere di svegliarli, poverini saranno molto stanchi!". "Ma come - replico innervosito - li avevo presi per parlare e questi crollano per la stanchezza, mentre parlano ebraico?" "Fai silenzio e non li disturbare", mi rimprovera mia moglie. "Ah, ora debbo pure stare in silenzio per tutto il tragitto?"
  Com'è finita? Che ho parlato in italiano con mia moglie mentre loro ronfavano? Assolutamente no! Silenzio e con la radio spenta, mentre i due soldatini si riposavano suonando un concerto di gola. Per giunta stonato.

(Shalom, febbraio 2018)



Giustificati per fede

Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall'ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione.

Dalla lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani, cap. 5

 


L'azzardo ecologista: con la lotta al cancro la Shoah non c'entra

In piazza contro l'inquinamento e le malattie con la stella di David sul petto a Napoli, scelta (giustamente) criticata dalla Comunità ebraica.

di Marco Demarco

Ne parliamo, e questo è quanto. Chi ieri a Napoli ha deciso di manifestare contro l'avvelenamento della Terra dei fuochi avendo appuntata sul petto la stella gialla della Shoah, lo ha fatto per una ragione molto semplice: perché la provocazione venisse raccolta e la protesta non passasse inosservata. Ma aver raggiunto l'obiettivo non dà ragione ai promotori dell'iniziativa. Tutt'altro. Li mette piuttosto in ombra sul versante della correttezza logica prima ancora che politica. Se infatti l'intento — lodevolissimo — era di denunciare il negazionismo sul fenomeno campano, il ritardo nell'azione di bonifica, l'imbarazzo sulle troppe morti per cancro, i silenzi sul mai operativo registro tumori regionale e le intermittenze nell'opera di prevenzione delle malattie, l'ultima cosa da fare era proprio quella di prendere a prestito il simbolo di un'altra tragedia (meglio: della tragedia in assoluto del Novecento) per rilanciare le ragioni della propria. Cos'è l'aggrapparsi o l'ammiccare simbolicamente ad altro, se non il cedimento, forse inconsapevole, di sicuro paradossale, alla logica negazionista di chi si contesta?
   Corretta è stata invece la reazione di Lydia Shapirer, presidente della Comunità ebraica napoletana, che pur si è guardata bene dal banalizzare l'emergenza campana. «Massimo rispetto per le ragioni della protesta. Ma per scuotersi — ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno — la società civile non ha bisogno di fare paragoni, perché tutto ciò che riguarda la Shoah non può essere utilizzato per altri fini». Ai manifestanti forse sarebbe bastato appuntare sul petto il numero 048. Un codice che è anche un simbolo. Lo usano le Asl per certificare i nuovi ammalati di cancro. È molto frequente nella Terra dei fuochi ed è poco considerato in una regione dove l'aspettativa di vita è di otto anni di meno rispetto alla media europea. Non c'era bisogno di sovrapporlo alla stella gialla.

(Corriere della Sera, 25 marzo 2018)


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«Ma è sbagliato banalizzare il simbolo dello sterminio»

La comunità ebraica ribadisce: inopportuno

di Anna Paola Merone

NAPOLI «Per noi ebrei la Stella gialla di David è il segno delle discriminazioni di cui siamo stati vittime. Un qualsiasi altro utilizzo non ci sembra possibile».
L'architetto napoletano Fabrizio Gallichi, fino a qualche anno fa consigliere nazionale della comunità ebraica, parla della scelta di sfilare in corteo con la stella gialla contro i negazionisti del biocidio. «C'è la negazione del biocidio, certo, ma non c'è discriminazione contro chi combatte il biocidio. Qui ci troviamo piuttosto di fronte alla banalizzazione dei simboli. Con il tempo diventano stereotipi e il sistema della comunicazione li digerisce come tali e ne fa un uso indiscriminato. Accade per le cose più disparate, anche per Che Guevara che si ritrova sulle t-shirt, ma per un ebreo questo è un motivo di sofferenza: utilizzare così la Stella significa minimizzare quello che i nostri genitori e nonni hanno subito e sopportato».

- Si rischia anche di travolgere le coordinate di una corretta memoria storica?
  «Assolutamente sì, non si contribuisce a mantenere e creare una memoria storica e c'è il rischio così di lasciare spazio finanche alle teorie negazioniste, E questo è davvero molto pericoloso oggi».

- Ritiene ci siano particolari condizioni di allarme?
  «L'antisemitismo sta alzando la testa. In Europa da più parti ci sono forti segnali dalle caratteristiche nuove. Se quello della chiesa era un antisemitismo religioso e quello dei nazisti era razziale, oggi c'è un antisemitismo politico dalle caratteristiche inedite, che colpisce tutti con vere e proprie aggressioni fisiche e discriminazioni sociali. Nelle scuole in Belgio si utilizzano libri che aprono al negazionismo. Il momento è difficile e la prospettiva è pericolosa e spaventosa».

- Napoli è però una città inclusiva e tollerante.
  «Tollerare è al di sotto del minimo di quel che è accettabile per un ebreo che ritiene che il rapporto tra gli uomini si basi su una responsabilità reciproca, dal momento che tutti discendono dallo stesso uomo, e non sulla tolleranza. In quanto a Napoli, non ha mai espresso un antisemitismo viscerale. Furono deportate per una serie di circostanze particolari alcune unità di ebrei dalla città, ma la città non ha mai vissuto né un ghetto né le persecuzioni razziali della seconda guerra mondiale».

(Corriere del Mezzogiorno, 25 marzo 2018)


Torna l'lsis, il cancro dimenticato

Terrore in Francia: ostaggi in un supermercato, 3 morti e 16 feriti

di Fiamma Nirenstein

Informazioni, ancora notizie, monitoraggio, conoscenza preventiva dei fatti senza limiti e senza pregiudizio, e ancora identificazione preventiva delle zone sensibili che possano produrre terrorismo, ovvero profiling senza paura, senza vergogna: questi sono i punti veri, i realistici suggerimenti che qualsiasi agente della sicurezza di Israele, il Paese che più di tutti nel mondo è investito dal terrorismo, può dare oggi all'Europa.
   Ieri a Trèbes l'onda di sangue è arrivata come un'inaspettata tromba d'aria, eppure il terrorista era un personaggio già legato al mondo che gli ha ispirato o ordinato l'attacco. Il terrorismo conta oggi in Francia 18mila candidati all'omicidio radicalizzati, 4mila pericolosissimi. Dovrebbero essere super sorvegliati eppure una nostra reticenza tutta europea probabilmente consente che possano riuscire in azioni inaspettate, che riescano a inverare il peggio della fantasia umana avendo ricevuto da Dio in persona l'ordine di conquistare il mondo a ogni costo.
   Il terrorismo è poliedrico e ormai gigantesco: ammazza i bambini a Tolosa nel 2012, attacca un museo a Bruxelles purché sia ebraico nel 2014, nel 2015 mette in scena l'omicidio di massa di Charlie Hebdo e dell'Hypercacher, poi il Bataclan come apoteosi della morte nel 2015 (129 morti) poi l'aeroporto di Bruxelles e Nizza e più avanti Wuerzburg sul treno, e Monaco, e ancora in Francia a Rouen, e quindi il mercatino di Berlino nel 2016 e via via ancora da Londra, a Manchester, a San Pietroburgo, a Stoccolma, a Barcellona, sempre col controcanto dei continui morti israeliani e con un filo di preferenza per le vittime ebree, la geografia del terrorismo europeo è molto compatta. Onnipresente, parla di tutte le cose di cui non si vuole parlare per paura di violare i principi sacrosanti della privacy e della libertà di opinione: parla di quartieri poveri, di scuole, di madrasse, di moschee, di giornali, film, spettacoli teatrali, di educazione dei bambini immigrati, di fastidi alle donne, di violenza di strada, della libertà religiosa. Parlare di terrorismo nella mentalità europea viola spesso le regole fondamentali che, nelle intenzioni del giudiziario impediscono il proliferare del razzismo antislamico. Anche la definizione di terrorismo, come si sa risulta impossibile perché richiede, per le istituzioni internazionali, una comunità di intenti che cancelli la possibilità che il mio terrorista sia il tuo combattente per la libertà, o il tuo «militante».
   Siamo ancora quasi fermi al momento in cui, quando a Parigi Ilan Halimi fu rapito il 21 gennaio del 2006 da un gruppo formato da decine di giovani islamici che lo torturano fino alla morte leggendo il Corano e motteggiando il fatto che era ebreo, la polizia si rifiutò di ascoltare la madre che suggeriva un rapimento terrorista legato alla radicalizzazione dell'islam.
   Lentamente, visto che sono centinaia gli attentati terroristi che come una tabe infestano il territorio europeo con epicentro in Francia, si sono compiute mosse importanti: si stringono i rapporti fra servizi segreti; la Commissione Europea ha appena votato una richiesta ai gruppi di social media di rimuovere entro un'ora i contenuti terroristi illegali, cioè esplicitamente dedicati alla propagazione della violenza. Si dovrebbe qui applicare una forma di censura finalmente legata a un codice di condotta antiterrorista. Subito Facebook, YouTube, Google, Twitter hanno espresso il loro «sconcerto» per la violazione del diritto alla libertà di opinione che questa raccomandazione esprime. Questo è lo stato delle cose, ma somiglia a quando l'Unione Europea fece fare una ricerca sull'antisemitismo e avendo scoperto che il più accanito è di parte musulmana, nascose i risultati. La difficoltà a combattere il terrorismo è volerlo conoscere, sapere cos'è veramente, misurare la crudeltà e l'idiozia di chi sceglie di uccidere donne, uomini, bambini, sicurissimo di andare per questo in un paradiso fra vergini innamorate e ottimi cibi e bevande, oppure semplicemente obnubilato da un odio radicato nella fede islamica di una società che si stringe intorno a testi, scuole, mense, amicizie. Ho incontrato vari terroristi: sono imbattibili se non li si affronta bene, perché pensano l'impensabile, colpiscono ciò che a nessuno verrebbe in mente di colpire, vengono da scelte impalatabili, tipo la guerra in Siria, quando in molti casi, si poteva benissimo andare per un'altra strada. Ma noi, soprattutto, non vogliamo affrontare una questione che ci porta a violare i nostri stessi principi di libertà e di privatezza. Eppure bisogna farlo per non soccombere.

(il Giornale, 24 marzo 2018)


In corteo con la stella di Davide

«Noi contro i negazionisti del biocidio»
In marcia con la Stella di Davide sul petto e il codice 048. Ammalati e ambientalisti saranno oggi in corteo a Napoli «contro i negazionisti del biocidio» in Terra dei Fuochi.
La comunità ebraica: la Shoah è ben altro
Lydia Schapirer, presidente della comunità ebraica di Napoli, dice: «La Shoah è stato ben altro, non si può chiamare in causa per queste manifestazioni».

di Luca Marconi

NAPOLI - «Sfileremo con la Stella di Davide 048», laddove 048 sta per esenzione ticket per le cure antitumorali: tutt'altro che una provocazione, dicono le rappresentanze di cento ammalati di tumore che manifesteranno oggi al corteo di Stop Biocidio da piazza Mancini alla Regione che, travolta dall'inchiesta di Fanpage, ha appena azzerato i vertici della società in house all'ambiente, la Sma.
   Solo cento ammalati indosseranno la Stella «perché tanti sono gli adesivi pagati di tasca nostra» dice il presidente dell'Isde Medici per l'Ambiente Napoli, Antonio Marfella, «eppure marciano per migliaia». Ma perché la Stella della Shoah? La Stella è sia per l'eccezionale incidenza delle malattie tumorali in alcune province campane, sia per l'aspettativa di vita che a Napoli è minore di 8 anni rispetto alla media europea e di 4 anni rispetto a Firenze stando alle stime dell'Iss rivelate dal direttore Ricciardi. E c'è chi ha scelto un'espressione più colorita per accompagnare gli appelli alla mobilitazione («marceranno agenti 048 con licenza di sp..'nfaccia») anche per la diatriba infinita che oppone i Medici per l'Ambiente e i comitati - che già si sono contati nel 2013 al corteo ribattezzato #fiumeinpiena - a istituzioni e professionisti bollati di "negazionismo", che davanti ai tumori attribuiscono maggiore peso agli «stili di vita» piuttosto che ai veleni nell'ambiente, mentre l'Isde e i comitati insistono chiedendo la pubblicazione dei dati del Registro Tumori Asl Napoli i « in ritardo di vent'anni, che siano validati e finalmente resi noti» dice Marfella. Una crociata per la salute, che vede all'incrocio dei venti soprattutto la Sanità campana, «composta da ottimi professionisti» ma sotto un fuoco d'accuse per le disfunzionalità organizzative, operative e soprattutto la prevenzione scarsissima ovunque, dalla ex area Sin oggi Sir di Castel Volturno ad Acerra, col comprensorio delle discariche delle ecomafie a ridosso del mercatone ortofrutticolo di Giugliano e le piramidi di "balle" di rifiuti (capitolo riaperto da un nuovo giudizio in cui Fibe-Impregio rischierebbe la condanna alle spese per la bonifica) fino ad Avellino-Ferrovia dove le analisi dell'aria riconfermano, immutato, l'allarme amianto per l'ex Isochimica. Ma la Campania è costellata di emergenze e il credere che l'indiscriminato interramento di rifiuti catalogati apposta come "tossici" non provochi conseguenze non ha logica ed è giudicato irresponsabile o criminale.
   Quindi al corteo di Stop Biocidio con una selva di associazioni ci sarà anche la Stella di David e così la spiega in una nota il direttivo Isde (Marfella, Costanzo, Tommasielli ed Esposito): «Contro il "negazionismo" sanitario della Shoah ambientale in Campania appunteremo sul petto la "Stella 048" mentre continuiamo a non ricevere alcun dato certificato dai registri tumori per Napoli Centro, dopo trent'anni di disastri. Questo "negazionismo" e la continua omissione o sottovalutazione dei dati ambientali e della salute vanno combattuti con tutte le nostre forze. Il popolo della Campania non vuole cedere al ricatto mortale di chi nega il disastro ambientale e sanitario per coprire gravissime responsabilità gestionali sull'Ambiente e in Sanità. A testimonianza di questa discriminazione "razziale" e "negazionista" abbiamo predisposto cento adesivi con la Stella di David centrata dallo 048 dei codici degli ammalati di cancro, che ancora non hanno, specie a Napoli Centro, neanche il diritto di sapere quanti sono. Cento "048" equivarranno ad un solo giorno di certificazioni dei cittadini che si ammalano di cancro, ma la comunità non ha diritto di disporre di dati certi e completi su cui basare valide azioni di prevenzione primaria. Ancora, oggi non abbiamo alcun controllo dei flussi dei rifiuti speciali — come ha dimostrato Fanpage — non tracciati e senza impianti finali a norma anche per gli scarti ospedalieri radioattivi. Sinora ci si è preoccupati soltanto di garantire tracciabilità e qualità delle nostre preziose pummarole ma niente è stato fatto per la tracciabilità dei rifiuti speciali a protezione della salute di tutti o dei manufatti o per la tutela della dignità dei lavoratori "a nero" (scarpe, borse e vestiti che producono rifiuti bruciati e interrati, non solo pomodori). Siamo ancora all'anno zero contro il lavoro "nero" che è la Terra dei Fuochi e ci affidiamo alla sola azione di contrasto, preziosa ma insufficiente, delle forze dell'ordine. Per questo, e contro il "negazionismo" sanitario nella regione, che ci sta facendo ammalare senza poter poi disporre di risorse sufficienti per curarci, saremo in piazza con la Stella della Shoah ambientale dei campani, discriminati come gli ebrei sotto i nazisti e fascisti prima di perdere la propria salute».


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«Ma la Shoah non puo essere utilizzata così»

Il parere di Lydia Schapirer, presidente della comunità ebraica di Napoli

Lydia Schapirer, presidente della Comunità ebraica di Napoli, non è contenta dell'utilizzo della Stella di Davide da parte degli ammalati di cancro e dei manifestanti che oggi scenderanno in piazza a Napoli.

- Signora Schapirer, ci spiega la ragione della sua contrarietà?
  «La Stella di Davide venne utilizzata, come tutti sanno, come il distintivo degli ebrei internati nei campi di concentramento».

- Gli organizzatori della manifestazione hanno voluto, a mo' di provocazione, tracciare un parallelo tra il negazionismo della Shoah e quello sui danni all'ambiente e alla salute.
  «Per quanto ne sappia prima di utilizzare l'adesivo giallo a forma di Stella di Davice, non ci hanno chiesto alcun parere né coinvolti in questa vicenda, noi non siamo stati consultati».

- Da qui il suo dispiacere?
  «Al di là di questo va aggiunto che non può essere fatto alcun paragone con i campi di concentramento, essi sono stati qualcosa di inimmaginabile per cui nessuno può compenetrarsi e capire cosa sia stato fatto nei campi di sterminio».

- Ma gli ambientalisti e gli ammalati hanno voluto sottolineare fortemente un problema di rimozione.
  «La società civile per scuotersi non ha bisogno di un paragone con i campi di concentramento. Non dico che è una cosa inappropriata, perché i problemi ambientali e della salute umane esistono. Ma il mio pensiero personale è che i campi di concentramento non possono essere strumentalizzati per altri fini. Tutto ciò che riguarda la Shoah non può essere utilizzato per altri fini. Detto ciò la manifestazione di oggi è degna del più grande rispetto su questo non c'è alcun dubbio».

(Corriere del Mezzogiorno, 24 marzo 2018)


“Il motivo della manifestazione sarà rispettabile, ma non è affatto da rispettare la banalizzazione di uno dei fatti più tragici avvenuti nella storia. M.C.


Nuovo possibile scandalo dell'Unesco: i palestinesi vogliono i Rotoli del Mar Morto

di Nathan Greppi

 
Mercoledì 21 marzo Shimon Samuels, uno dei direttori del Centro Simon Wiesenthal, parlando al 6o Global Forum contro l'Antisemitismo a Gerusalemme, ha dichiarato che i palestinesi potrebbero rivendicare all'Unesco il sito archeologico di Qumran, e con esso i Rotoli del Mar Morto.
Secondo il Jerusalem Post Samuels ha fatto un riassunto di tutti i luoghi biblici, ebraici e non, che i palestinesi sono riusciti a farsi attribuire da quando, nel 2011, l'ANP è diventata un membro dell'Unesco: tra questi, spiccano la Chiesa di Betlemme nel 2012, il villaggio agricolo di Battir nel 2014 (nel quale si trovano le rovine dell'antica fortezza ebraica di Betar), e la Tomba dei Patriarchi di Hebron nel 2017. A questi, si aggiungono altri 13 siti che l'Autorità Palestinese vuole farsi assegnare dall'Unesco.
Ma il loro successo più grande è stato forse riuscire a negare il legame che gli ebrei hanno con il Monte del Tempio e il Muro del Pianto, chiamati solo con i loro nomi islamici: Al-Haran al-sharif e Buraq Plaza.
Samuels ha dichiarato che, sebbene i Rotoli non siano tra i 13 siti in questione, è probabile che i palestinesi faranno richiesta per essi nel prossimo vertice dell'Unesco, che si terrà a luglio in Bahrain.

 L'ex direttore Unesco Bokova: "Sulle risoluzioni ho fallito"
  Il precedente direttore dell'Unesco, Irina Bokova, ha visitato Israele questa settimana e, parlando alla conferenza a Gerusalemme, ha riconosciuto di aver fallito nell'impedire che tali risoluzioni venissero approvate, sebbene lei non le condividesse. Ha spiegato che per salvare l'Unesco occorrerebbe "depoliticizzarlo".
Quando le è stato chiesto se è stato un errore accogliere l'ANP nel 2011, ha risposto che "non sono stata io a prendere quella decisione, e non mi sembra una domanda corretta. Non è il direttore generale a decidere." Tuttavia, poco dopo ha aggiunto che "beh, abbiamo perso i fondi americani, e - alla fine - l'organizzazione ha perso due membri." Infatti sia gli USA che Israele hanno confermato che lasceranno l'Unesco entro la fine dell'anno.
In relazione alla reazione di Israele alle ultime risoluzioni su Gerusalemme, si è schierata contro l'organizzazione che dirigeva, aggiungendo che "ho sempre pensato che Israele abbia molto da offrire all'Unesco e, attraverso di essa, al mondo." SI è dichiarata dispiaciuta per la decisione israeliana di uscire dall'organizzazione, raccontando che ha cercato di convincere loro e gli americani a restare poiché l'Unesco "è una delle agenzie dell'ONU più impegnate nella lotta contro l'estremismo."
Ha concluso il suo discorso spiegando che "penso che il miscuglio tra religione e politica sia molto pericoloso, e sfortunatamente questo è ciò che credo sia successo."

(Bet Magazine Mosaico, 23 marzo 2018)


Israele-India, primo volo attraverso lo spazio aereo saudita

Riad autorizza il collegamento di Air India fra New Delhi e Tel Aviv

di Giordano Stabile

Per la prima volta nella storia un volo dall'India a Israele ha sorvolato l'Arabia Saudita. Finora Riad aveva negato il proprio spazio aereo ai velivoli diretti nello Stato ebraico. L'autorizzazione è un importante segnale di distensione. Il Boeing 787 di Air India è atterrato ieri sera alle 10 all'aeroporto Ben Gurion dopo essere partito da New Delhi alle 6 locali. Con la nuova rotta il risparmio di tempo è di circa due ore, perché prima gli aerei dovevano fare una lunga deviazione e sorvolare il Mar Rosso.
Il volo di ieri è stato anche il primo collegamento diretto di Air India fra i due Stati. I collegamenti diretti finora erano assicurati solo dalla compagnia israeliana. La rotta sarà a cadenza tri-settimanale e segna un nuovo avvicinamento fra India e Israele, suggellato dalle visite del premier indiano Narendra Modi nello Stato ebraico, e del premier israeliano Benjamin Netanyahu in India.
Era stato proprio Netanyahu a chiedere a Modi di aumentare i collegamenti aerei fra i due Paesi, per favorire il turismo e gli scambi d'affari. Ma le compagnie indiane hanno posto come condizione che la rotta fosse accorciata, per tagliare i costi. Israele ha così chiesto all'Arabia Saudita di concedere il suo spazio aereo e Riad alla fine ha accettato. Anche i rapporti fra Israele e il Regno saudita sono sempre più stretti, nonostante i due Stati non abbiamo relazioni diplomatiche ufficiali. Ma l'alleanza in funzione anti-Iran sta portando a superare gli ultimi ostacoli.

(La Stampa, 23 marzo 2018)


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El Al presenterà denuncia alla Corte suprema per l'apertura dello spazio aereo ad Air India

GERUSALEMME - El Al ha chiesto a un gruppo lobbistico del settore aereo, l'International Air Transport Association, di aiutarla ad accedere allo spazio aereo saudita. Il vettore di bandiera israeliano ha anche accusato il governo di Gerusalemme per aver approvato la nuova rotta di Air India, mettendola in svantaggio. La possibilità di sorvolare lo spazio aereo saudita per i voli da e per Israele consentirà al vettore indiano di proporre tariffe più concorrenziali rispetto a quelle di El Al che dovrà allungare la rotta ed arginare l'Arabia Saudita. "Tale approvazione, che è stata concessa dallo Stato di Israele, offre un vantaggio significativo e ingiusto a una compagnia aerea straniera ed è contraria a qualsiasi principio di reciprocità nel mondo dell'aviazione internazionale", ha detto la compagnia di bandiera in una nota. Una portavoce di El Al ha confermato che la società intende presentare la sua denuncia alla Corte Suprema, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Il ministero israeliano del Turismo ha annunciato che il primo volo della Air India rappresenta un traguardo diplomatico e ha rivelato di aver avviato trattative anche con Singapore Airlines e con un vettore delle Filippine

(Agenzia Nova, 23 marzo 2018)


La prima volta di Liliana Segre al Senato: standing ovation per la testimone dell'Olocausto

Nominata a gennaio senatrice a vita, alla prima seduta post-elettorale i senatori le hanno tributato un lungo applauso, tutti in piedi.

Venerdì 23 marzo si sono insediati i due rami del Parlamento dopo le elezioni d'inizio mese. Primo atto, l'elezione dei rispettivi presidenti: ed è stato un nulla di fatto, con la "vittoria" delle schede bianche in attesa che le forze politiche (in particolare il centrodestra e il Movimento 5 Stelle) trovino la "quadra" sui nomi. Nessuno schieramento ha infatti la maggioranza assoluta, men che meno quella qualificata richiesta nelle prime votazioni per eleggere i presidenti di Camera e Senato.
Ma c'è stato un momento in cui, almeno al Senato, si è raggiunta (quasi, come vedremo) l'unanimità. E' stato quando Giorgio Napolitano (che presiede temporaneamente l'aula in quanto senatore anziano) ha accolto a Palazzo Madama Liliana Segre, nominata a gennaio senatrice a vita dal Capo dello Stato.
Al nome della Segre, praticamente tutti i senatori si sono alzati in piedi per tributarle un applauso caloroso: e si è alzata anche lei, ringraziando con gesti del capo, finché dopo qualche minuto Napolitano non ha interrotto l'acclamazione riprendendo a condurre la seduta. Tutti, si diceva, eccetto uno: il leghista Roberto Calderoli. Che poi, però, ha spiegato di essere rimasto seduto soltanto perché contrario all'istituto dei senatori a vita, ma ha aggiunto di non aver mancato di essere andato a presentarsi alla sua nuova collega e di averle tributato la stima che tutti gli altri, invece, hanno ritenuto doverosamente di manifestare con la standing ovation.
Milanese, classe 1930, Liliana Segre ha abbandonato la scuola elementare nel settembre 1938 a causa delle leggi razziali istituite, in quell'anno, dal fascismo. Dopo un tentativo di fuga in Svizzera col padre e due cugini, fu arrestata e, nel 1944, quando aveva 14 anni, deportata a Birkenau-Auschwitz col padre. L'arrivo nel campo di concentramento coincise con l'ultimo momento in cui vide il genitore: furono infatti separati e lei destinata alla sezione femminile. Pochi mesi dopo, il padre morì. Trasferita in tutta fretta nel 1945 nel campo di Malchow, venne liberata il 1 maggio.
Vive tuttora a Milano e presiede il Comitato per le "Pietre d'Inciampo".

(Milano Today, 23 marzo 2018)


Una festa aperta a tutti in nome di Israele

Si celebra a Milano, a cura dell'Adi, il 70o anniversario della fondazione di Israele. Intervista al presidente Eyal Mizrahi. La festa il 29 aprile nella sede della Società Umanitaria. Il tema dell'antisemitismo.

di Riccardo Gorrieri

Eyal Mizrahi, 57 anni, è nato ad Haifa (Israele), vive a Milano, esercita la professione di medico veterinario. Nel 2002 fonda l'associazione Amici di Israele (oggi federazione con più sedi in Italia) di cui fa il presidente fino a oggi. Oltre l'associazione Amici di Israele (Adi nazionale) è anche il presidente del gruppo sionistico di Milano e del movimento sionista internazionale Over The Rainbow -Italy (OTR) e il consigliere del Centro Studi nazionale della Brigata Ebraica.

- Cos'è l'Adi e di cosa di occupa?
  Adi è una Federazione nazionale, opera sulla quasi totalità del territorio italiano, con sedi operative a Milano, nella Regione Lazio, nella Regione Piemonte e nel Trentino - Alto Adige. Io sono il Presidente ed il fondatore di Adi, mentre Davide Romano è il Segretario nazionale. La Federazione si pone come obiettivi primari l'informazione sullo Stato d'Israele, sia a livello politico, sia a livello culturale. Inoltre si pone come finalità anche il contrasto all'antisemitismo, elemento purtroppo sempre più dilagante nell'opinione pubblica italiana. ADI ha sede presso la Sinagoga Beth Shlomo, la Sinagoga è un importante sito dell'Ebraismo italiano, fu fondata dai sopravvissuti alla Shoah, infatti la sua origine fu nel campo di internamento di Ferramonti. La Sinagoga Beth Shlomo è situata in Corso Lodi 8 a Milano. ADI, negli ultimi anni, si è fatta promotrice della memoria della Brigata Ebraica, portandone i vessilli nelle celebrazione del 25 Aprile. La Brigata Ebraica fu un corpo militare dell'esercito britannico composto da ebrei che operò in Italia e in Austria durante la seconda guerra mondiale. E' composta esclusivamente da volontari e si autofinanzia, non riceve alcun finanziamento governativo.

- Quando e dove saranno celebrati i festeggiamenti per il 70o anniversario della fondazione d'Israele ?
  Innanzitutto ci tengo a precisare che i festeggiamenti sono aperti a tutti, ogni persona può partecipare gratuitamente agli eventi in programma. Celebrazioni che si svolgeranno il 29 aprile a Milano nella Società Umanitaria, una delle più importanti istituzioni storiche del capoluogo meneghino, in via Daverio 7, alle spalle del Palazzo di Giustizia.

- Perché avete scelto come location la Società Umanitaria ?
  Adi conferisce molto importanza agli aspetti sociali e culturali, la Società Umanitaria è una degli enti morali più importanti di Milano, conseguentemente i festeggiamenti per l'anniversario d'Israele devono essere un'occasione di inclusione e dialogo, quindi ci è parsa la location maggiormente idonea.

- Il programma?
  I festeggiamenti inizieranno alle 11 del 29 aprile e termineranno alle 18, vi sono in programma diverse attività ed incontri, sia nel cortile, sia nella sala interna. Tra le principali vi segnalo la conferenza organizzata da Keren Hayesod Italia Onlus che affronterà il tema: Il Negev, cosa fa Israele per dare nuova vita al deserto . Un altro appuntamento da non mancare è la consulenza rabbinica gratuita del Rabbino Rodal della Sinagoga Beth Shlomo. Tutti gli altri appuntamenti della giornata li potete visionare nella locandina allegata.

(ItaliaStarMagazine, 23 marzo 2018)


Israele, identità e la diversità radicale

di Giovanni Matteo Quer

 
(da sinistra) Jonathan Nizar Elkhoury, Lorene Khateeb, Muhammad Ka'biya
Quanto si conosce la società israeliana? Quanto si comprende l'identità plurale? Le testimonianze di Jonathan Elkhoury, Lorena Khateeb e Muhammad Ka'biya raccontate da Giovanni Matteo Quer
  Israele, la sua storia e la sua cultura, sono necessariamente considerati attraverso il conflitto con i palestinesi. Le disquisizioni sulla legittimità o meno dell'esistenza di Israele, sulla definizione di Stato ebraico e democratico, sull'istituzionalizzazione delle discriminazioni fanno parte di un approccio che mette in ombra la realtà sociale di Israele. D'altra parte si conosce Israele tecnologica, moderna e imprenditoriale. Di Israele si apprezza la letteratura, la musica, la danza e il cibo. Quanto si conosce la società israeliana? Quanto si comprende l'identità plurale?
  L'interesse verso la società israeliana sta nella centralità dell'identità e nella sua definizione plurima, che si compone di diverse appartenenze linguistiche, nazionali, etniche, religiose e culturali. La prima divisione, e quella più conosciuta, è tra ebrei e arabi. Chi fa parte della maggioranza ebraica appartiene a gruppi culturali diversi, come gli ashkenaziti (ebrei del centro ed est Europa), i sefarditi (ebrei originari della Spagna), mizrahim (ebrei dei Paesi arabi) o etiopi. A questi gruppi si aggiungono i russi, immigrati in Israele dopo la caduta dell'Unione Sovietica, buona parte dei quali non sono considerati ebrei secondo il diritto ebraico. Chi fa parte della minoranza araba (un quarto della popolazione israeliana) appartiene a una pluralità di gruppi religiosi e culturali. La maggioranza musulmana (1,8 milioni di cittadini) si divide in arabi e beduini (350mila cittadini), che a loro volta appartengono a due grandi gruppi: i beduini del nord e quelli del Negev (il deserto del sud di Israele). Vi è poi la minoranza cristiana (169mila cittadini), che si compone di 12 denominazioni che perpetuano le tradizioni culturali delle Chiese cristiane di oriente. Infine i drusi (140mila cittadini), un gruppo religioso creatosi nell'XI secolo da uno scisma nell'Islam sciita ismailita in Egitto. A questi gruppi si aggiungono i circassi (circa 3mila), musulmani di religione, ma appartenenti a un gruppo linguistico ed etnico di origine caucasica e insediatisi nel Vicino Oriente dopo le guerre russo-turche del XIX secolo. Ancora, armeni (circa 4mila) e aramei fanno parte della minoranza cristiana, ma non sono arabi e mantengono l'appartenenza linguistica e culturale armena e aramaica.
  Il rapporto tra lo Stato e le minoranze è complesso: al riconoscimento dell'autonomia culturale e alla rappresentanza si aggiunge il senso di appartenenza allo Stato e alle sue istituzioni. Nei primi anni dopo la nascita dello Stato di Israele, la minoranza araba era soggetta alla legge marziale. Tra gli anni '50 e gli anni '60, Israele ha adottato una serie di leggi che hanno riconosciuto l'autonomia culturale e religiosa dei vari gruppi, secondo il sistema ottomano del millet, per cui ogni comunità religiosa gestisce autonomamente le questioni comunitarie - sistema criticato oggi assieme al diritto dello Stato che spesso confligge con le tradizioni religiose, in particolare sul principio di eguaglianza tra uomini e donne.
  Con gli anni '80 e '90, gli sviluppi politici nella regione, la minoranza araba ha iniziato un processo di definizione identitaria legata alla relazione con Israele, con il mondo islamico e con il conflitto. Arabi israeliani o palestinesi di cittadinanza israeliana? Arabi o cristiani? Israeliani arabi o arabi con passaporto israeliano? Alle varie appartenenze religiose si sommano poi le identità politiche che definiscono il rapporto con lo Stato. Jonathan Elkhoury, Lorena Khateeb e Muhammad Ka'biya fanno parte di un'organizzazione nata per difendere Israele principalmente nei campus universitari, Reservists on Duty, e il loro messaggio è che l'integrazione è la chiave del successo. "Il servizio militare è la via per l'integrazione: per tre anni presti servizio con persone di ogni estrazione culturale e sociale" sostiene Muhammad, che ha prestato servizio nell'aeronautica israeliana e vive nel villaggio Ka'biya, dal nome della sua tribù. I beduini si arruolano nell'esercito da volontari. "La mia famiglia ha un rapporto particolare con il popolo ebraico e con Israele. Nel 1936, durante la rivolta araba nella Palestina mandataria, le milizie arabe volevano assassinare Alexander Zeid, il capo della prima organizzazione di difesa ebraica "Hashomer". Il mio bisnonno ha nascosto la sua famiglia e ha respinto gli attacchi, perché nella tradizione islamica e beduina non si possono uccidere donne né bambini. Da allora abbiamo un'alleanza con il popolo ebraico e con Israele".
  Il servizio civile è un'altra via per l'integrazione. "Nel 2012, i cristiani si sono resi conto che non potevano dare per scontata l'esistenza di Israele" dice Jonathan. "Con la Primavera Araba, i cristiani hanno capito che Israele è l'unico Paese che li difende, dove hanno pieni diritti, e che pertanto devono contribuire alla società in cui vivono". Jonathan è di origine libanese. Arrivato in Israele nel 2001 come rifugiato, si è stabilito con la sua famiglia a Haifa. "Gli arabi non ci hanno accettati perché ci consideravano traditori, perché le nostre famiglie hanno collaborato con l'esercito israeliano nella difesa delle comunità cristiane sotto attacco dalle organizzazioni terroristiche durante la guerra civile libanese". Ora si sente israeliano, libanese e cristiano. Lorena anche ha fatto il servizio civile "perché nella mia comunità solo gli uomini possono fare l'esercito". I drusi sono presenti in Libano, Siria e Israele. "Siamo fedeli allo Stato in cui viviamo e non ci sposiamo con persone di altri gruppi: siamo una piccola minoranza nel mondo, circa un milione, sposarci fuori dalla nostra comunità vorrebbe dire scomparire nel giro di pochi anni". Per Lorena Israele è una terra di opportunità: "In Israele posso vivere liberamente la mia identità e come donna posso lavorare per migliorare lo status delle donne. Inoltre Israele è il primo Stato che ha riconosciuto i drusi come gruppo religioso indipendente". In altri Paesi, dice Lorena, questo non è possibile. "Non è scontato per me essere qui. Nella mia comunità una donna non si può allontanare dalla famiglia. Ma la società in cui vivo mi permette di emanciparmi". Non le piace essere definita una minoranza "leale": "Siamo israeliani, viviamo con altri gruppi, siamo legati alla nostra terra e al nostro Paese".
  La voce delle minoranze integrate non è isolata. "Se ne sente parlare poco, perché i rappresentanti arabi in Parlamento sono più interessati al conflitto e a difendere i palestinesi", dice Muhammad. Non nascondono i problemi delle loro comunità e della loro società, ma la loro esperienza è che l'integrazione porta a un cambiamento. "Non puoi startene in disparte pretendere che le cose cambino e poi decidere se essere parte o meno della società che vuoi cambiare", sostiene Jonathan. "La maggior parte dei giovani vuole integrarsi. Per esempio, i problemi con le comunità beduine del sud di Israele possono essere risolti, ma i rappresentati arabi ne fanno una questione politica. Vanno a visitare i villaggi beduini solo quando ci sono le manifestazioni anti-israeliane. I giovani sono pronti a vivere in città e in villaggi. Vogliono vivere uno stile di vita moderno, pur mantenendo le tradizioni". Così la pensa anche Lorena, che lavora in un'organizzazione di sostegno alle famiglie: "Le tradizioni sono una parte fondamentale della nostra società e non devono essere abbandonate. Non sono incompatibili con l'eguaglianza tra uomini e donne. C'è un cambiamento da fare, e Israele lo permette".
  La centralità di Israele e della storia del sionismo nel dibattito sul Medio Oriente mette in ombra l'evoluzione del pluralismo della società israeliana. Il senso di appartenenza a uno Stato che si definisce ebraico non è semplice gratitudine. "Siamo impegnati in commissioni parlamentari e in organizzazioni per l'avanzamento dello status delle nostre comunità", dice Jonathan; "se c'è qualcosa che non va, organizziamo manifestazioni, proteste, campagne sociali", dice Muhammad. Non è solo un senso di orgoglio patriottico, ma anche di orgoglio culturale. "Non amiamo che le persone parlino in nostro nome e strumentalizzino le minoranze per avanzare un'agenda anti-israeliana, perché a noi non si interessano e di noi non conoscono nulla". La volontà di cambiamento e appartenenza è la ragione di un duplice impegno: "In Israele difendiamo le nostre comunità; fuori Israele, difendiamo il nostro Paese".

(formiche.net, 23 marzo 2018)


Polonia - Il procuratore: legge sulla Shoah incostituzionale

VARSAVIA - Il procuratore generale polacco, che è anche ministro della Giustizia, ha definito «parzialmente incostituzionale» la controversa legge sulla Shoah. Una dichiarazione a sorpresa, in realtà, perché Zbigniew Ziobro è stato uno dei promotori del provvedimento che ha creato grosse tensione tra Polonia, Israele e Usa. Sulla legge, che prevede fino a tre anni di carcere per chi attribuisca allo Stato polacco i crimini dei nazisti della seconda guerra mondiale, dovrà esprimersi a breve la Corte Costituzionale. In particolare è stata dichiarata incostituzionale la parte della legge che prevede una punizione per chi attribuisca alla Polonia i crimini dell' Olocausto anche all'estero. Questo, secondo Stati Uniti, è il punto «disfunzionale» e contrario alla Costituzione, che vieta «un'interferenza eccessiva» negli affari di altri Paesi. Punire atti compiuti all'estero «potrebbe produrre risultati opposti a quelli desiderati e minare l'autorità della Polonia».
   Intanto, il governo polacco ha preso le distanze da alcune dichiarazioni del padre del premier Mateusz Morawiecki, Kornel Morawiecki, secondo cui gli ebrei andarono volontariamente nei ghetti durante l'occupazione tedesca della Polonia per fuggire dai loro quartieri non ebraici: il vice-ministro degli Esteri Bartosz Cichocki ha detto che tali dichiarazioni non riflettono la posizione del governo.

(Avvenire, 23 marzo 2018)


"Israele ha fermato i raid in Siria su ordine di Vladimir Putin"

Israele ha interrotto gli attacchi sulla Siria su "ordine" di Vladimir Putin. Queste le scottanti dichiarazioni dell'ex vice ministro della Difesa ed ex ministro dei Trasporti di Israele, il generale Efrahim Sneh, che getta nuova luce sulla disputa mediorientale fra Israele e Russia.
   "Perché Israele si è fermato? Una chiamata di Putin a Netanyahu in cui Putin ha detto 'basta'". Questa la spiegazione data dall'ex ministro laburista durante una conferenza in memoria dell'ex capo del Mossad Meir Dagan, morto nel 2016.
   Sneh non ha rivelato la fonte che gli dato queste informazioni riguardo ai raid dell'aviazione israeliana in Siria. Raid che, secondo le informazioni rilasciate dalle forze armate di Israele, avrebbero distrutto fino a metà delle batterie antiaeree siriane e in cui è stato abbattuto un F-16 israeliano. Tuttavia, mentre l'ex ministro resta convinto delle sue affermazioni, il governo non ha voluto rispondere né smentire quanto detto dal politico israeliano. E questi "no comment" da Tel Aviv suonano come tacite ammissioni.
   Secondo Sneh, quella conversazione ha dimostrato che Israele ha perso la sua capacità di agire liberamente nella regione. "Questo è definito come il limite della capacità di Israele di operare in Medio Oriente. Non ha altro nome". E in effetti è quello che sospettano molti vertici militari israeliani da quando è iniziata la guerra in Siria. L'intervento della Russia, che controlla lo spazio aereo siriano e che ha inviato i suoi sistemi contraerei, ha di fatto imposto a Israele il passaggio attraverso il Cremlino per operare liberamente in quell'area. E da tempo si riteneva che fosse stato Putin a fermare l'escalation.
   L'esempio del raid in Siria nel 2007, in cui è stato distrutto un reattore nucleare, è un esempio eclatante. Dieci anni fa, Israele, senza una guerra, poteva operare liberamente per declinare la sua strategia regionale. Oggi, con la Siria coinvolta in un conflitto di cui non si vede ancora la fine e con tutte le potenze più o meno interessate a intervenire, Tel Aviv dimostra di avere le mani quasi del tutto legate. In questo senso, si può dire che oggi l'aeronautica israeliana può colpire in Siria solo con il consenso russo.
   "Al giorno d'oggi, una mosca non può ronzare sopra la Siria senza il consenso russo" è la frase con cui un funzionario della Difesa israeliana commentò l'installazione in Siria del sistema S-400 al think tank International Crisis Group. E questa frase può essere una sintesi eloquente di cosa significhi per Israele l'arrivo dei russi a Damasco e dintorni.
   Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, le frasi dell'ex ministro non possono certo essere un aiuto. Frasi del genere non fanno che dimostrare quanto sospettato da molti, e cioè che ormai sia Putin il vero tessitore della trama mediorientale. Se oggi la torre di controllo degli interventi in Siria è a Mosca, significa che tutto passa per il Cremlino.
   Per Putin un compito non facile. Le forze in campo nella guerra di Siria, soprattutto in questa fase così complessa, hanno interessi diametralmente opposti. Molti sono finti alleate, altri, finti nemici. Controllare il gioco dei raid e degli interventi è difficile e adesso, con la ritirata americana dalla posizione di leadership del conflitto, è la Russia a dover gestire i suoi alleati, i suoi nemici ma anche Stati che non sono alleati ma che restano comunque inevitabili partner, vedi Israele.

(Gli occhi della guerra, 23 marzo 2018)


Gaza. Attacco al premier, «morto l'autore»

Hamas afferma di aver colpito l'uomo sospettato del fallito agguato al capo del governo palestinese Hamdallah. L'Anp: «Rapidità sospetta».

Le forze di sicurezza di Hamas hanno ucciso il principale sospettato per l'attentato contro il premier dell'Autorità palestinese, Rami Hamdallah (che è rimasto illeso), avvenuto durante la sua visita la settimana scorsa nella Striscia di Gaza. Hamas ha lanciato un vasta operazione, istituendo anche decine di posti di blocco in tutta l'enclave palestinese, per rintracciare l'uomo, che era stato identificato in Anas Abu Hussa, di circa 30 anni, appartenente a un clan beduino che vive nel nord della Striscia.
   Il blitz è scattato ieri mattina nel campo profughi di Nusseirat. Anas Abu Hussa è morto in seguito alle ferite riportate nell'operazione, in cui sono rimasti uccisi anche un suo complice e due agenti dei servizi di sicurezza di Hamas. Un altro presunto complice è stato catturato. Il tentativo di assassinio del primo ministro palestinese, avvenuto il 13 marzo mentre entrava a Gaza per una «visita storica» (durata poi solo un paio d'ore), ha rappresentato un duro colpo al processo di riconciliazione in corso tra l'Autorità nazionale palestinese, che governa in Cisgiordania ed è rappresentata dal presidente Abu Mazen, e il gruppo Hamas, che controlla la Striscia di Gaza. Lunedì Abu Mazen aveva accusato Hamas di essere responsabile dell'esplosione. Ma il movimento islamista si è sempre detto estraneo all'accaduto, dichiarando l'impegno a consegnare i responsabili alla giustizia. L'Anp ha lamentato di essere stata tenuta all'oscuro delle indagini condotte a Gaza da Hamas. Il generale Mohammad Mansur, un dirigente del ministero degli Interni palestinese, ha negato che Hamas abbia inoltrato al suo ufficio informazioni sull'andamento dell'inchiesta. Il governo di Hamdallah ha inoltre accusato Hamas di diffondere «scenari contraddittori e illusori, che nemmeno si conciliano con la logica». Secondo l'Anp, è sospetta la rapidità con cui Hamas ha indicato un sospetto. Due giorni dopo il fallito attentato, il premier palestinese Rami Hamdallah ha partecipato a Roma alla Conferenza ministeriale straordinaria dei Paesi donatori dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi. I donatori hanno promesso di coprire i 100 milioni di dollari di disavanzo di cui soffre l'agenzia. Un'importante boccata di ossigeno, di cui beneficeranno i palestinesi di Cisgiordania come quelli della Striscia di Gaza.

(Avvenire, 23 marzo 2018)


Il sionismo raccontato da un 'gentile'

Le parole e la musica di Carlo Giacobbe per una storia politica

di Massimo Lomonaco

Raccontato - come avverte l'autore dal titolo del libro - da 'gentile': ovvero da un non ebreo che nutre profonda adesione per una storia nazionale e politica dalle vaste implicazioni in atto ancora oggi. Con una premessa: Carlo Giacobbe - che è stato corrispondente dell'ANSA in Israele e non solo - sa di cosa parla. La scelta a favore dello stato ebraico, indipendentemente da chi sia l'altro in un ipotetico e nefasto gioco della torre, ha solide basi nate e alimentate dalla sua esperienza sul campo e dalla conoscenza dei temi in questione. Non è, tuttavia, una difesa aprioristica, non risparmia critiche anche aspre, non tace su una vulgata talvolta opportunista presente in questo campo e non fa sconti né alla destra né alla sinistra nelle loro posizioni sullo stato ebraico e sul conflitto con i palestinesi.
   Soprattutto alla seconda, che Giacobbe dice di avere come riferimento ideologico. Se il punto fermo è uno solo - "essere contro il sionismo, oggi come ieri, vuol dire essere contro l'esistenza di Israele" - questo non significa però aderire alla politica di tutti i governi israeliani che - ricorda Giacobbe - "peraltro incontrano spesso il dissenso anche radicale di molti cittadini e di chiunque giudichi negativamente certe politiche soprattutto recenti". Del sionismo raccontato dall'autore - che è "uno ma che può avere volti differenti" - l'aspetto principale preso in esame (e adottato) è il "maggioritario". Quello, spiega Giacobbe, "ispirato ai principi del socialismo e che successivamente si evolve nel socialismo riformista da cui in Israele sarebbe scaturito il Partito Laburista". E quindi né la forma comunista (che rivendica uno stato binazionale israelo-palestinese) né la religiosa né quella 'revisionista', di destra, opera di Zeev Jabotinsky (questi ultimi due al potere oggi nello stato ebraico).
   Nella prima parte del libro, dunque, Giacobbe analizza i leader del sionismo 'maggioritario': Theodor Herzl, Chaim Weizmann, David Ben-Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin. Non è un caso che questa parte del volume si concluda con 'Arringa per la mia terra', un formidabile testo scritto oltre 40 anni fa dall'artista multiforme Herbert Pagani. Una difesa appassionata del diritto di Israele ad esistere, richiamata anche nella prefazione al libro firmata dal presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello.
   Se dunque il sionismo ha "volti differenti", ben li mostra i 18 brani scelti - e interpretati insieme a vari artisti - dall'autore, che è anche cantante. Uno spaccato musicale multilingua: dall'yiddish al giudeo-spagnolo, all'ebraico di 'Shir laShalom' (Canto alla Pace). La canzone, questa, intonata insieme alla folla da Rabin prima di essere ucciso il 4 novembre 1995 da un ebreo radicale di destra, al termine di una grande manifestazione per la pace a Tel Aviv.
   
(ANSA, 23 marzo 2018)


Trattative per gas da Cipro e Israele

Royal Dutch Shell è in trattative per acquistare gas estratto a Cipro, nel giacimento (ancora da sviluppare) Aphrodite. Lo afferma Delek Drilling nel bilancio annuale, aggiungendo che il contratto, della durata di 15 anni, sarebbe per 6 miliardi di metri cubi l'anno. Secondo la compagnia un accordo potrebbe anche includere gas israeliano di Leviathan, in produzione dal 2019. Le forniture sarebbero indirizzate all'impianto di Gnl Idku, in Egitto, controllato da Shell. Nessun commento dalla compagnia anglo-olandese, che è socia di minoranza di Aphrodite.

(Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018)


Rappresentanti palestinesi negli USA

Cure mediche e spese da migliaia di dollari in un hotel di lusso

di Paolo Castellano

Nel dicembre del 2017 gli Stati Uniti hanno deciso di ridurre gli aiuti economici ai palestinesi. La decisione ha scatenato polemiche da parte dell'Autorità Nazionale Palestinese che non è riuscita a porre un argine alla dilagante povertà e indigenza nei territori di Gaza e della Cisgiordania. Molti hanno pensato che la stretta di vite degli USA avrebbe costretto a una riduzione della spesa diplomatica della rappresentanza palestinese. Così non è stato. La stampa israeliana ha infatti scoperto che nel mese di marzo l'Autorità Palestinese ha dissipato importanti cifre in un hotel di lusso americano.
Il "ministro degli Esteri" dell'Autorità Palestinese, Riyad al-Malik
Una ricevuta, ottenuta dal Jerusalem Post, mostra appunto che il ministro degli Esteri dell'Autorità Palestinese Riyad al-Maliki e il capo del Servizio generale dell'intelligence Majed Faraj, come due funzionari di più basso livello, soggiornarono nell'Hotel Four Season in Baltimora, collezionando un conto di 14,250 dollari, incluso il servizio in camera e un minibar contenente bottiglie di champagne del valore di 42 dollari e snack a 4 dollari.
  L'intero conto è stato coperto dalla delegazione della Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli Stati Uniti.

 Soggiorno palestinese nell'hotel a 5 stelle
  Il soggiorno palestinese nell'hotel di lusso è avvenuto non molto tempo dopo le parole di Trump che avevano annunciato un drastico taglio dei fondi destinati a Ramallah, finché l'Autorità Palestinese non procedesse alle negoziazioni con Israele. Il Dipartimento di Stato aveva poi tagliato 110 milioni di dollari all'UNRWA, l'agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi e dei suoi discendenti. Gli Stati Uniti sono i più generosi donatori dell'UNRWA. Però il 15 marzo una dozzina di stati si è impegnata a inviare 100 milioni di dollari all'UNRWA.
Tra le spese di Faraj ci sono stati 900 dollari di "costi vari", più diversi pasti con il servizio in camera, inclusi 140 dollari di colazione, e uno snack notturno - sempre portato in camera - al costo di 91 dollari. Il funzionario ha poi razziato il minibar, spendendo 32 dollari di merendine in un giorno, inclusi 8 dollari per gli anacardi e i biscotti, e ha inoltre speso 120 dollari per i vestiti in lavanderia.
Faraj, uno stretto consigliere del presidente dell'Autorità Palestinese, è andato sotto i ferri negli Stati Uniti per un intervento al cuore. Nel frattempo, Abbas ha fatto un check-up di routine all'ospedale Johns Hopkins di Baltimora.
Rayad Faraj, che lavora con Majed Faraj nell'intelligence dell'Autorità Palestinese, ha inoltre ordinato il servizio in camera diverse volte, inclusi 42 dollari di Champagne.

 Le critiche di Israele all'Autorità Nazionale
Il viceministro degli Esteri israeliano, Tzipi Hotovely
Il viceministro israeliano degli Esteri Tzipi Hotovely ha detto che "i palestinesi hanno ricevuto la somma più alta di donazioni e aiuti dalla comunità internazionale rispetto ad altre popolazioni".
Finché i soldi vanno agli alti ufficiali dell'Autorità palestinese e alle famiglie dei terroristi, la volontà internazionale di aiutare i palestinesi è sprecata in edonismo e terrorismo», la Hotovely ha dichiarato.

(Bet Magazine Mosaico, 23 marzo 2018)


"Amare Israele"

di Adam Smulevich

"Gliel'ho dato. Mi ha detto che mi farà sapere il suo pensiero. Attendo fiducioso".
   Ride, all'altro capo del telefono, Fulvio Canetti. Cardiologo, si dedica da tempo anche alla scrittura. Il suo ultimo libro, "Amare Israele", pubblicato dalla casa editrice Altromondo, è un duro atto d'accusa nei confronti di quella parte di mondo cristiano che fatica a riconoscere la realtà dello Stato ebraico. E che, a detta dell'autore, non ha ancora superato un pregiudizio radicato nei secoli.
   Il destinatario cui allude è don Francesco Patton, custode di Terra Santa, che appena poche settimane fa ha chiuso il Santo Sepolcro per protesta nei confronti del governo di Gerusalemme "colpevole" di esigere una tassazione per istituzioni di proprietà della Chiesa che hanno anche finalità commerciali. Una decisione condita con un inaccettabile parallelismo tra i provvedimenti in materia fiscale delle autorità israeliane e le leggi che "furono promulgate contro gli ebrei in Europa nei periodi bui" (parole testuali di Patton e di altri leader cristiani, estensori a febbraio di una nota congiunta).
   Canetti, che è esponente della Comunità Italkim, gli italiani residenti in Israele, e che in passato ha anche esercitato l'attività di circoncisore, non ci sta. Ed è andato a dirglielo di persona nel corso di un recente confronto tenutosi a Gerusalemme sull'enciclica papale «Laudato sì». All'esponente francescano ha anche donato una copia della sua ultima fatica, che partendo dallo studio di testi canonici e della tradizione cristiana mette in luce vari elementi controversi che hanno permesso che la tesi del deicidio di Cristo diventasse materiale incandescente e motivo di tanto sangue versato.
   "Le parole vanno ponderate, perché le ripercussioni possono essere gravi. Chi ha responsabilità di un certo tipo dovrebbe saperlo" dice Canetti a proposito degli ultimi fatti. E nel libro ricorda, in modo accurato, a quali conseguenze abbia portato l'odio nell'Europa che - nel solco di quella tesi - rinchiudeva gli ebrei nei Ghetti, li sottoponeva all'Inquisizione, li massacrava nei Pogrom. Dal corpo di leggi antiebraiche promulgato dall'imperatore romano Costantino alle moderne Leggi Razziste: una lunga catena di rancore, e di parole dette e non dette. Come Israele. Quella moderna, lo Stato degli ebrei. Ancora un tabù, afferma Canetti, per una Chiesa gravemente in ritardo sul piano della consapevolezza.

(moked, 22 marzo 2018)


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Ma le cose stanno proprio così?

di Marcello Cicchese

Con l’amico Fulvio Canetti ho in comune alcune cose importanti: l’amore per Israele e la denuncia di quella particolare forma attuale di antisemitismo che è l’antisionismo, anche cristiano. Sono quindi perfettamente in linea con lui nella denuncia dell’indecente presa di posizione del “custode di Terra Santa” contro il governo israeliano “colpevole” a loro detta di voler far pagare le tasse anche agli esercizi alberghieri cattolici. Non posso però essere pienamente d’accordo con lo strumento usato, perché il libro “Amare Israele” contiene, oltre a giustissime accuse di molte forme di antisemitismo cristiano, anche valutazioni inaccettabili di certi testi evangelici. Cito testualmente dal suo libro:
    «Sappiamo per certo dalla stessa narrazione evangelica, che Gesù era egli stesso un fariseo, e dunque per quale motivo costoro avrebbero dovuto lapidarlo?
    Giuseppe Flavio riferisce che gli ebrei zeloti avevano attaccato Gerusalemme per la sua liberazione dal giogo romano e con molta probabilità anche Gesù partecipò a questa azione di guerra.
    Difatti come intendere il suo ingresso trionfale in Gerusalemme, acclamato dalla folla ‘’Re dei Giudei’’ se non come un appartenente al gruppo dei ribelli?
    Il tentativo armato di conquista della città fallisce e segue una feroce repressione da parte di Pilato, che chiede le teste dei caporioni della rivolta.
    Gesù e gli Apostoli fuggono nella valle del Kidron, trovando riparo nel frantoio del Getsemàni, nascosto tra la boscaglia ai piedi del monte degli Ulivi.
    Sperano tutti di guadagnare la Galilea, posto molto più sicuro, per loro, ma il piano fallisce. Gesù viene catturato ed arrestato nel Getsemàni dai soldati romani (Lc 22,66)».
Non so a quale tradizione interpretativa appartenga questa fantasiosa ricostruzione dei fatti narrati nei Vangeli, ma è chiaro che per un cristiano è inaccettabile. E anche sul piano meramente storico appare del tutto gratuita. Dissi a suo tempo all’amico Fulvio che ad attaccare i cristiani sul piano storico e personale si coglie molto spesso nel segno, ma quando ci si avvicina ai testi biblici bisogna fare molta attenzione, perché sono ispirati da Dio, e hanno quindi un’insospettabile capacità di resistenza. Proprio come Israele. Attaccare i Vangeli è come attaccare Israele: sembra sempre che possano essere spazzati via dal primo colpo di vento, ma in entrambi i casi chi pensa di poterlo fare è destinato a rimanere deluso.
Detto questo, il libro resta interessante e vale quindi la pena di leggerlo, anche perché obbliga il lettore a chiedersi continuamente: ma le cose stanno proprio così? M.C.

(Notizie su Israele, 22 marzo 2018)


"Diamogli il governo, tanto con il 30 per cento non va da nessuno parte"

Così Hitler prese il potere senza avere la maggioranza

di Siegmund Ginzberg

Da qualche tempo mi turba un'altra elezione. Sempre di marzo. Era la terza volta che votavano per le politiche in otto mesi. Ogni volta nessuno otteneva la maggioranza. Pubblicamente tutti rifiutavano i compromessi. A cominciare dal partito che aveva preso più voti (poco più del 30 per cento): pretendeva il governo tutto da solo. L'anziano presidente della Repubblica gli rispondeva picche. Ma tutti manovravano e trattavano dietro le quinte. Spesso all'insaputa e ai danni dei rivali nel proprio stesso schieramento. Finché un esponente della vecchia politica riuscì a convincere il presidente riluttante a provare col peggiore di tutti. Questa storia non ha a che fare con l'Italia, né con l'attualità. Eppure da qualche tempo mi toglie il sonno. Nella Germania di Weimar si votava. E se non c'erano maggioranze possibili si tornava a votare. Col proporzionale puro. Sulla scheda delle elezioni del 31 luglio 1932 figuravano oltre sessanta simboli. Primo risultò il Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori, col 37,27 per cento. Secondo il partito Socialdemocratico col 21,58. Terzo il Partito Comunista col 14,32. Al quarto posto il Centro, col 12,44. Il leader del partito che arrivò primo per tre volte di seguito i chiamava Adolf Hitler. I suoi comizi erano vere performance teatrali. Dopo ogni elezione rivendicava la nomina a cancelliere. Ma non aveva i numeri. Il presidente della Repubblica, l'anziano Maresciallo Von Hindenburg, lo disprezzava. Aveva fatto sapere a tutti che "mai e poi mai" avrebbe affidato il governo a quel "caporale boemo", a capo di un partito anticostituzionale. Socialisti e comunisti, arrivati rispettivamente al secondo e terzo posto, si odiavano tra loro peggio di quanto odiassero la destra. Avevano insieme più voti dei nazisti. Ma neanche loro una maggioranza. Una maggioranza aritmetica sulla carta ci sarebbe stata per nazisti più comunisti, o nazisti più socialdemocratici, o tutti e tre insieme. Il che era evidentemente impossibile.
   Fecero dei governi del presidente. Che però caddero uno dopo l'altro. Per andare a rivotare subito dopo. Il primo governo del presidente dopo il voto di luglio fu quello del centrista Von Papen. Si tornò a votare il 6 novembre. Risultato: pressappoco come prima. Unico mutamento percepibile, un cedimento dei nazisti: dal 37 al 33 per cento. Di nuovo un governo del presidente, con alla testa un militare, il generale Kurt Von Schleicher, centrista ma aperto al dialogo con la sinistra. Ma Von Papen odiava Schleicher, benché i due appartenessero alle stessa area politica. Tanto fece, brigò e manovrò dietro le quinte che gli fece lo sgambetto e convinse il presidente che non si correva alcun rischio a nominare al suo posto Hitler. "Datemi due mesi e lo metto all'angolo", "l'abbiamo messo nel sacco, è alle nostre dipendenze", spiegava ai dubbiosi.
   Von Papen aveva cercato e incontrato Hitler in segreto. Gli aveva promesso la cancelleria, a condizione che lo tenesse come vice e rinunciasse a Economia e Difesa. Hitler fino a un momento prima era inamovibile sulla posizione che ai nazisti spettava governare da soli perché erano il primo partito. Da un giorno all'altro accettò di guidare un governo in cui era in minoranza, con solo due ministri nazisti. I nazisti in quel momento erano in calo: tra le elezioni di luglio e quelle di novembre avevano perso due milioni voti, e l'economia si stava riprendendo.
   Hitler fu nominato cancelliere e giurò il 30 gennaio 1933. Il giorno dopo sciolse per la terza volta il Parlamento e fece convocare nuove elezioni per il 5 marzo. Sarebbero state le ultime. Si svolsero nel clima di violenze, intimidazioni e arresti di avversari politici seguiti all'incendio del Reichstag. Eppure neanche quella volta Hitler ebbe una maggioranza assoluta. I nazisti si fermarono al 43 per cento. Sinistra e centristi insieme avevano una percentuale analoga.
   Avrebbe confessato Goebbels nel suo diario: "La nostra fortuna fu che i marxisti e la stampa ebraica non ci presero sul serio [ ... ] Spesso e amaramente, i nostri avversari hanno dovuto in seguito rimpiangere di non averci assolutamente conosciuto, oppure, quando ci conoscevano, di aver solo saputo ridere di noi".

(Il Foglio, 22 marzo 2018)


Israele svela il raid contro il reattore di Assad e mette in guardia l'Iran sui piani nucleari

Resa nota la missione top secret del 2007 in Siria: "Nessuno può minacciarci". Il precedente nell'operazione Babilonia del 7 giugno 1981: Israele distrusse il reattore nucleare iracheno di Osiraq con un attacco aereo a sorpresa.

di Giordano Stabile

Fino al decollo, in una notte tiepida di settembre, i piloti avevano scherzato sui nomignoli dati all'obiettivo, il «Cubo», detto anche «Cubo di Rubik», o «Scatola da aprire», uno dei nomi in codice. Il «Cubo» però era un reattore al plutonio, piantato in mezzo al nulla nel deserto siriano, a poche decine di chilometri da Deir ezZour. Erano le 10 e 30 del 5 settembre del 2007 quando i motori di quattro F-16 e quattro F-15, carichi di 16 tonnellate di bombe di tutti i tipi, cominciarono ad andare al massimo. L'aviazione israeliana si lanciava in una delle missioni più delicate della sua storia.
   Il governo aveva battezzato la missione «Fruttero», ma non c'era nulla di idilliaco. I cacciabombardieri dovevano volare bassi, a 100 metri di altezza, in territorio siriano, con la strumentazione spenta, in silenzio radio, senza comunicare tra di loro. Fino all'ultimo i piloti erano stati tenuti all'oscuro dell'obiettivo. Sapevano però che avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo di una tremenda battaglia aerea, se Damasco avesse deciso di reagire. Non sapevano che il governo di Bashar al-Assad, per evitare imbarazzi, avrebbe invece deciso di far finta di nulla, e negare persino l'esistenza del reattore. E che la stessa Israele non avrebbe ammesso l'operazione.
   Ieri, invece, il governo israeliano ha deciso di rivelare tutto. Un «avvertimento» alla Siria e all'Iran, ora che i venti di guerra soffiano di nuovo forte: «Abbiamo colpito 11 anni fa, possiamo colpire ancora», è il messaggio. A carte scoperte i piloti hanno potuto ora raccontare le loro ore più tese e più belle. «Era un lungo volo, in una notte nera - ha rivelato il colonnello "Amìr" ai media israeliani -. Volavamo in un ambiente ostile. Se il sistema anti-aereo siriano si fosse risvegliato, ci saremmo ritrovati in un nido di vipere». Dopo quasi due ore i piloti vedono il «Cubo», una struttura quadrata, 40 metri per 40, che nasconde il segreto del regime siriano. Damasco ci lavora dalla fine degli Anni Novanta. Ma gli israeliani l'hanno scoperto alla fine del 2006, ed è diventato la loro ossessione.
   Il Mossad era stato messo in allarme dall'accordo fra Muammar Gheddafi e gli Stati Uniti sullo smantellamento del programma nucleare libico, nel 2003. Gli israeliani erano rimasti all'oscuro. Cominciano a guardarsi attorno. Qualcun altro potrebbe aver avviato un programma simile. È la Siria. Assad ha attivato i contatti con i nordcoreani attraverso il capo della Commissione per l'energia atomica siriana, Ibrahim Othman. Nel marzo del 2007 Othman è a Vienna, a una riunione dell'Aiea. Il Mossad penetra nel suo appartamento. In pochi minuti «svuota» il suo computer. È la svolta. Documenti. E fotografie che dimostrano che dentro il Cubo si cela un reattore atomico a grafite, progettato per produrre plutonio. È un modello britannico, poi copiato dai nordcoreani e riprodotto a Yongbyon. Il Cubo è identico.
   Il capo dei Servizi, Meir Dagan, riferisce al premier Ehud Olmert. «Non è più tempo di punti di domanda ma di punti esclamativi», è la sintesi: «Che facciamo?». Olmert risponde: «Distruggiamolo». C'è poco tempo per preparare la missione. Il ministro della Difesa Ehud Barak frena, vuole essere sicuro. Alla fine è il capo di stato maggiore a convincerlo: «I nostri piloti sono i migliori al mondo, fidati». Olmert è in contatto con il presidente americano George W Bush. La Casa Bianca è divisa, il vicepresidente Dick Cheney vorrebbe che fosse l'America a colpire, per «dare un avvertimento» ai nemici, cioè l'Iran. Alla fine Bush dà l'ok all'operazione israeliana.
   E' da poco passata la mezzanotte quando i piloti vedono il Cubo, grigio, confuso nell'oscurità. «Succede tutto in pochi secondi - racconta il colonnello "Amir" -. Tremende esplosioni illuminano la notte. Il sito è coperto di fumo, poi si vede che è demolito». Uno degli F-16 ha il compito di comunicare il successo alla base. La parola in codice è Arizona. Sono le 12 e 25. I piloti devono però tornare e a questo punto le difese siriane sono allertate. Puntano a Nord, verso la frontiera con la Turchia. La costeggiano a bassissima quota. Tutto sul filo, ma all'una e 30 gli aerei atterrano alla base.
   «Tutti saltavano su è giù - ricorda ancora il colonnello -. C'era un'euforia indescrivibile. Quando siamo atterrati ad attenderci c'era il comandante della base di Hatzerim, Shelly Gutman. Ci ha abbracciati e si è lasciato andare: "Siete i campioni"». Ora i piloti potranno essere decorati per la missione. Ma il racconto di quella notte ha un valore soprattutto politico. Come ha puntualizzato l'attuale capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot, la missione del 2007 è servita a ribadire la «dottrina Begin», cominciata con la distruzione del reattore di Saddam Hussein in Iraq nel 1981: «Israele non accetterà la costruzione di qualcosa in grado di minacciare la sua esistenza». L'Iran è avvertito.

(La Stampa, 22 marzo 2018)


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Israele svela la verità: «Fermata con le bombe l'atomica di Assad»

Nel 2007 i jet inviati dal premier Olmert distrussero l'impianto segreto di Deir ez Zor Lo Stato ebraico rivendica di aver salvato il mondo e non solo se stesso.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Per capire l'emozione che come un'onda altissima ha investito Israele ieri mattina, quando a 11 anni di distanza sono stati resi noti i particolari della distruzione della base atomica siriana di Deir ez Zor, bisogna mettersi nei panni di un padre che ha salvato il figlio da morte certa riprendendolo per un braccio. Questo figlio non è soltanto il popolo di Israele ma il mondo intero: infatti la sede della centrale, Deir ez Zor, la città più grande della Siria orientale, fu catturata dall'Isis nel 2014 ed è rimasta nelle sue mani per più di tre anni. Immaginiamoci quindi non solo cosa sarebbe successo se oggi Assad, insieme ai suoi amici iraniani e Hezbollah, avesse nelle mani il plutonio e le strutture per la bomba atomica, ma anche quali pazzeschi ricatti i tagliagole avrebbero potuto imporre a tutti se Israele non avesse lanciato i suoi F16 e F15 in questa operazione di salvataggio del suo popolo e del mondo.
   «È molto raro che il capo del Mossad chieda al primo ministro di vederlo immediatamente» racconta nel suo libro appena uscito l'ex premier israeliano Ehud Olmert «Quella volta mi disse "ecco la smoking
gun"». E sul tavolo si dispiegarono le incredibili foto rubate a Vienna a Ibrahim Matman, il capo siriano dell'operazione bomba, per cui quel cubo laggiù nel deserto, di cui né il Mossad né la Cia avevano indagato l'uso, si dimostrava un reattore nucleare che nel giro di giorni, se non immediatamente, sarebbe stato in grado di fornire a quell'individuo pazzoide e feroce che è Assad di Siria la bomba atomica. La tecnologia, fu subito chiaro, era fornita dalla Corea del Nord, ma la timidezza dei servizi israeliani era legata all'incapacità, a suo tempo, di capire che il Pakistan aveva fornito a Gheddafi la possibilità di costruire il suo reattore.
   Ma adesso Olmert vede la realtà dispiegate sul tavolo, la minaccia è immediata: il Mossad portò la «pistola fumante». Tuttavia già la discussione ferve e Aman, i servizi militari, rivendica la sua parte nell'osservazione dei fatti che tuttavia non era giunta alla conclusione. Il Mossad porta 30 foto rubate a Vienna dal computer del capo progetto siriano impegnato nel bar di un albergo con una signorina mentre vengono forzate la sua stanza e il suo computer.
   Olmert dopo riunioni molto nervose, mentre soprattutto ci si interroga sul pericolo che la struttura sia già «calda» e quindi, se colpito e ridotto in fumo, in grado di contaminare tutto il Medio Oriente, parla con George Bush. Alla fine di una discussione Bush dice tuttavia che gli Usa tenteranno la strada diplomatica. Olmert risponde: «Noi sappiamo che la struttura è pronta a usare la bomba, e quindi dobbiamo agire subito». Israele agisce da sola.
   Il raid di otto velivoli contro quell'anonimo quadrato di cemento prende corpo pochi minuti dopo la mezzanotte fra il 5 e il 6 di settembre. Un complicato sistema elettronico confonde il sistema antiaereo siriano, tonnellate di esplosivo distruggono fino nel profondo della terra il progetto imperialistico di uno dei peggiori tiranni del Medio Oriente, una struttura quasi identica a quella di Yongbyon in Nord Corea. Adesso il velo del silenzio è stato sollevato, le due grandi agenzie segrete di Israele confliggono; Ehud Barak che era ministro della Difesa si difende dalle accuse di Olmert di aver cercato di ritardare l'operazione. Israele è una società molto litigiosa, sempre. Resta il fatto che il mondo è già stato salvato dalla minaccia nucleare due volte dal coraggio di Israele: nell'81 con la distruzione della struttura di Osirak, in Irak, dove Saddam voleva costruire l'arma del suo impero, nel 2007 da quella di Assad ... il seguito alla prossima puntata?

(il Giornale, 22 marzo 2018)


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Così Israele ha impedito il caos nucleare in Medio Oriente

Iraq, Siria, Isis e Iran. Come sarebbe la regione più violenta e turbolenta del mondo senza gli strike militari di Gerusalemme.

di Giulio Meotti

ROMA - La notte del 5 settembre 2007 otto fra F-15 e F-16 israeliani partirono dalle basi di Hatzerim e Ramon per un volo fino a Deir El Ezzor, 450 chilometri dentro la Siria. Si stavano preparando da settimane a raggiungere una simile distanza, ma non sapevano ancora cosa avrebbero dovuto colpire. Quella sera arrivò l'ordine di distruggere un reattore nucleare della Siria, costruito con l'aiuto nordcoreano e di cui fino a poco tempo prima l'intelligence di Gerusalemme ignorava l'esistenza. Si temeva una débacle simile a quella che aveva preceduto la guerra dello Yom Kippur. Ma Israele riuscì "in una delle più straordinarie operazioni in 70 anni della sua esistenza", come l'ha definita ieri Nahum Barnea su Yedioth Ahronoth.
   Per la seconda volta, Israele aveva eliminato una minaccia esistenziale. In un comunicato diffuso dall'esercito israeliano ieri si legge: "Il messaggio dell'attacco al reattore nucleare nel 2007 è che lo stato di Israele non permetterà che vengano sviluppate capacità che possano minacciare la stessa esistenza di Israele". Ma Israele aveva anche cancellato una terribile fonte di caos in medio oriente. Da anni, su parte della stampa, in molti circoli diplomatici e pensatoi di politica estera, si è soliti definire Israele una "fonte di instabilità" in medio oriente (un sondaggio commissionato dalla Ue nel 2003 bollò lo stato ebraico come "principale minaccia alla pace nel mondo", prima anche della Corea del nord). Israele si è in realtà rivelato la principale fonte di stabilità e sicurezza nella regione più caotica e violenta del mondo.
   Cosa sarebbe successo in Siria, dove il regime di Assad nel 2014 non ha esitato a usare le armi chimiche, se Damasco avesse ottenuto anche la bomba atomica? Israele ha colpito il reattore a Deir el Ezzor, un'area a lungo nelle mani dello Stato islamico. E se il plutonio fosse finito all'Isis? Israele potrebbe aver sventato un Califfato nuclearizzato (dopo l'11 settembre al Qaida aveva piani di attacco con le "bombe sporche").
   Nel 1981, Israele bombardò il reattore nucleare di Saddam Hussein a Osirak. Era l"'Operazione Opera" decisa da Menachem Begin e contro il parere degli americani. Sembrava che quella di Baghdad dovesse essere la prima "bomba dell'islam". L'Iraq, potenza emergente del Golfo e nello scacchiere turbolento del medio oriente, era considerato da Gerusalemme come la minaccia potenziale più pericolosa per la sua sicurezza (moriranno misteriosamente anche molti scienziati, egiziani e occidentali, che lavoravano al programma di Saddam). Saddam non aveva già esitato a usare le armi chimiche contro i curdi iracheni e i soldati iraniani. Cosa sarebbe successo se Israele non avesse bombardato Osirak e nelle guerre del 1991 e del 2003 l'Iraq avesse avuto la bomba atomica? Il vicepresidente americano Dick Cheney ringrazierà gli israeliani per aver facilitato il lavoro di Desert Storm. Ma c'è un terzo paese a cui Israele finora ha impedito di sviluppare tecnologia nucleare: l'Iran. E' dal 1995 che si parla dell'atomica di Teheran e senza le pressioni politiche, militari e clandestine di Israele, oggi gli iraniani molto probabilmente ce l'avrebbero.
   E' Israele che è riuscito a far imporre sanzioni all'Iran da parte della comunità internazionale, è Israele che da anni minaccia gli iraniani di uno strike (ci si andò vicini nel 2012) e si parla della mano israeliana dietro alle numerose uccisioni di scienziati atomici iraniani e al sabotaggio delle sue centrali (virus informatici come Stuxnet, esplosioni). In un medio oriente già pesantemente iranizzato, cosa sarebbe successo oggi se Teheran avesse anche l'atomica? Israele, piccolo come uno stato del Golfo, è grande perché ha in mano la sicurezza e la stabilità del medio oriente.

(Il Foglio, 22 marzo 2018)


Il ministro Lieberman visita il Ruanda

Incontra il presidente Kagame e l’omologo Kabarebe

GERUSALEMME - Il ministro della difesa Avigdor Lieberman ha fatto una visita storica alla capitale ruandese di Kigali durante un tour di quattro giorni nel continente africano che toccherà anche Tanzania e lo Zambia. "La visita in Ruanda ha un significato storico per le relazioni tra i due paesi", ha detto Lieberman al presidente ruandese Paul Kagame. "Il Ruanda e Israele condividono il desiderio di un futuro migliore per i loro cittadini, la cooperazione e le partnership che si stanno costruendo", ha dichiarato il ministro citato dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Nell'incontro con Kagame, Lieberman si è detto di essere orgoglioso di essere il primo ministro della Difesa israeliano ad aver visitato Kigali, sottolineando la stabilità delle relazioni tra Ruanda e lo Stato di Israele. Durante la sua visita nel paese africano, Lieberman ha incontrato oltre al presidente Kagame, anche l'omologo James Kabarebe e il ministro degli Esteri Louise Mushikiwabo. Il responsabile della Difesa israeliano ha anche visitato l'edificio del parlamento ruandese, che è stato danneggiato durante la guerra civile avvenuta nel paese negli anni '90.
   Lieberman ha condotto vari viaggi in questi anni nel continente africano. Nel 2009 è stato il primo ministro degli Esteri israeliano a visitare la regione. Al viaggio del 2009 ha fatto seguito una tour nel 2014, sempre in qualità di responsabile della diplomazia, durato 10 giorni e che ha toccato Ruanda, Costa d'Avorio, Ghana, Etiopia e Kenya. L'attuale viaggio arriva dopo la serie di critiche da parte della comunità internazionale del trasferimento programmato da parte del governo israeliano di decine di migliaia di migranti africani verso paesi terzi anonimi in Africa, che si ritiene siano in gran parte il Ruanda e l'Uganda. Migliaia di africani, in maggioranza provenienti dall'Eritrea e dal Sudan, sono entrati illegalmente in Israele attraverso l'Egitto tra il 2006-2012 prima che Israele costruisse una nuova barriera di sicurezza lungo il confine del Sinai.
   La scorsa settimana, l'Alta corte di giustizia ha sospeso il piano del governo per espellere migranti maschi adulti non sposati, offrendo ad ogni immigrato 3.500 dollari e un biglietto aereo, chi si rifiuta di andarsene dovrà affrontare il carcere. La visita di Lieberman fa seguito ad una missione delle autorità di sicurezza israeliane sempre in Ruanda per promuovere armi e tecnologia militare. Alla visita hanno preso parte una delegazione della dipartimento della Cooperazione internazionale del ministero della Difesa e i rappresentanti di diverse aziende israeliane dell'industria della difesa come Elbit Systems, Israel Aerospace Industries e Imi Systems. Israele ha recentemente fornito il sistema di cannoni semoventi ATMOS 2000 al Ruanda, prodotti dalla Soltam Systems. L'esercito del Ruanda è anche equipaggiato con fucili d'assalto Tavor di fabbricazione israeliana.

(Agenzia Nova, 21 marzo 2018)


Le minoranze di Israele a Milano: "Raccontiamo la verità: in Israele siamo liberi"

di Carlotta Jarach

Da sinistra: Lorene Khateeb, Muhammad Ka'biya, Roberta Vital (Adei Wizo, organizzatore), Giovanni Quer (Ambasciata), Alessandro Litta Modignani (AMPI, organizzatore), Jonathan Nizar Elkhoury.
Un musulmano, un cristiano e una drusa si ritrovano una sera a Milano… No, non è l'inizio di una barzelletta, ma quanto avvenuto ieri, martedì 20 marzo, nella Sala Conferenze di Palazzo Reale. I protagonisti della nostra storia sono Muhammad, 27 anni, arabo musulmano beduino di Kabiya, Jonathan, 25 anni, cristiano libanese di Haifa, e Lorene, 21 anni, giovane donna drusa del villaggio di Smea. Tra di loro, un minimo comune denominatore: essere tutti appartenenti a minoranze etnico-religiose, in Israele.
   «Si dice spesso che le nostre città sono sempre più vicine alla realtà israeliana, e lo si dice dopo attacchi terroristici il più delle volte. Ma ci sono soprattutto altri aspetti che possono avvicinarci a Israele, in chiave positiva, aspetti che ci indicano una via per il futuro delle città europee e italiane» dice il Consigliere Matteo Forte, nei saluti iniziali. «La società israeliana incarna e rappresenta valori di accoglienza, inclusività, apertura e internazionalità» incalza poi Lorenzo Lipparini, Assessore alla partecipazione, cittadinanza attiva e open data.
   I tre ragazzi del Medio Oriente («o, come si diceva una volta, del Vicino Oriente» ricorda la moderatrice Elena Lowenthal) fanno parte dell'associazione Reservist on duty, istituita da soldati e ufficiali di combattimento israeliani che vogliono difendere lo Stato d'Israele «dalla troppa disinformazione dei media internazionali, che descrivono Israele come uno stato di apartheid, quando invece qui siamo tutti liberi», ci informa Jonathan; e ieri hanno tutti e tre raccontato il magico rapporto che esiste, tra le loro diverse identità, e il comune luogo in cui vivono, Israele appunto.
   Milano era la seconda tappa del loro tour italiano, dopo Torino, e prima di Bologna e Roma, dove saranno nei prossimi giorni; invitati dall'ambasciata israeliana, sono tre ragazzi diversi ma uniti nella loro militanza: «ho lasciato il Libano degli Hezbollah nei primi anni 2000, dopo che l'esercito israeliano si è ritirato dal territorio» dice Jonathan. Ad Haifa, continua, la comunità araba lo ha considerato traditore, ed è stato così che, all'età di 9 anni, è entrato in una scuola ebraica «mi hanno trattato come una sorta di esperimento» scherza lui «ed in meno di tre mesi ho imparato la lingua».
   Anche Muhammad ci parla della sua infanzia: «il primo ricordo che ho del forte legame con la maggioranza ebraica israeliana è una storia che mi è stata raccontata. Quando la leadership araba voleva uccidere Alexander Zaid, leader sionista, sua moglie, ed i suoi figli, noi beduini non potevamo accettarlo. Per noi è amorale, donne e bambini non si toccano. E fu proprio un beduino a salvare l'intera famiglia. Quel beduino era il mio bisnonno».
   «Chi odia Israele cerca di usare noi arabi per colpirla ma noi ci siamo impegnati a raccontare la verità: che viviamo in un Paese democratico, che ci offre tante opportunità, di cui ci sentiamo pienamente parte» afferma con forza Lorene, subito dopo la proiezione di un video girato all'Irvine University negli Stati Uniti durante la cosiddetta settimana dell'apartheid di Israele.
   I tre giovani israeliani appartengono sì a minoranze, ma all'unisono suona forte il loro attaccamento allo stato in cui vivono, e di cui si sentono orgogliosi: «avete sentito molte storie, molte informazioni, molti numeri stasera. Vi lasciamo con questo compito: non fatevi mai bastare una singola fonte, non fidatevi di una singola notizia, di un titolo sensazionale, non fidatevi nemmeno di noi. È vostra responsabilità controllare, e solo poi divulgare, quanto vi abbiamo detto stasera».
   Una serata ricca di aneddoti, ma soprattutto positività e speranza.

(Bet Magazine Mosaico, 21 marzo 2018)


A Gerusalemme l'incontro con la collettività italiana

Il ministro della Giustizia italiano, Andrea Orlando
Il ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked
GERUSALEMME - Il ministro della Giustizia italiano, Andrea Orlando, in Israele per partecipare al Forum internazionale sull'antisemitismo a Gerusalemme, ha avuto modo di incontrare la collettività italiana ivi residente.
Giungendo dallo Yad Vashem e accompagnato dall'Ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti e dal console generale d'Italia a Gerusalemme Fabio Sokolovitz, Orlando ha visitato il Museo d'Arte ebraica italiana U. Nahon e la sinagoga di Conegliano Veneto. Accompagnato nella visita da Mirella Nissim, il Ministro ha poi incontrato Sergio Della Pergola, presidente dell'Associazione degli ebrei di origine italiana in Israele e Beniamino Lazar, presidente del Comites di Gerusalemme, che si sono soffermati sulle caratteristiche della collettività italiana a Gerusalemme e in Israele, e hanno offerto una panoramica sulla Casa d'Italia a Gerusalemme che raccoglie diverse istituzioni e svolge diverse attività.
Nella sala degli Affreschi Orlando, dopo aver firmato il libro delle personalità, ha avuto occasione di incontrarsi con un gruppo di connazionali formato dai responsabili delle più importanti associazioni italiane operanti del paese.
Nei vari interventi sono state ricordate anche le visite effettuate alla fine del 2017 da due delegazioni di giudici italiani, e l'inaugurazione nelle vicinanze di Gerusalemme del bosco del KKL con 29 alberi in ricordo dei magistrati italiani uccisi negli ultimi decenni.
A seguire, l'incontro con il ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked.

(Inform, 21 marzo 2018)


Otto mesi di carcere alla palestinese che schiaffeggiò soldati

Ahmed Tamimi, 16 anni all'epoca dei fatti, uscirà in estate

Una corte militare israeliana ha accettato l'accordo di patteggiamento a otto mesi di carcere per l'adolescente palestinese, Ahed Tamimi, divenuta simbolo della lotta dei palestinesi dopo la diffusione di un video che la ritrae mentre schiaffeggia due soldati israeliani.
La decisione della corte significa che Tamimi, 16 anni all'epoca dei fatti risalenti allo scorso dicembre, sarà rilasciata la prossima estate, stando a quanto precisato dal suo avvocato Gaby Lasky.

(Diario del web, 21 marzo 2018)


Turismo, successo a Tel Aviv dell'evento promozionale su destinazione Sardegna

Argiolas: "Il mercato israeliano è ancora limitato come numeri assoluti - ha detto l'assessora del Turismo, Artigianato e Commercio Barbara Argiolas, presente a Tel Aviv - ma la tendenza è di forte crescita e, grazie anche alla collaborazione della Camera di Commercio Israel Italia, contiamo di promuovere con sempre maggiore efficacia la destinazione Sardegna per il pubblico israeliano".

 
CAGLIARI - Mare, paesaggio, cultura e buon cibo: di fronte a un pubblico di istituzioni, operatori del settore turistico e dei viaggi, giornalisti specializzati e alla presenza dell'ambasciatore italiano Gianluigi Benedetti, la Sardegna si è presentata ieri a Tel Aviv con un evento promozionale 'esperienziale', incentrato sulle eccellenze territoriali e gastronomiche dell'isola e organizzato con la collaborazione di UnionCamere Sardegna. "Il mercato israeliano è ancora limitato come numeri assoluti - ha detto l'assessora del Turismo, Artigianato e Commercio Barbara Argiolas, presente a Tel Aviv - ma la tendenza è di forte crescita e, grazie anche alla collaborazione della Camera di Commercio Israel Italia, contiamo di promuovere con sempre maggiore efficacia la destinazione Sardegna per il pubblico israeliano".

 Dati in crescita
  Secondo i dati tendenziali del 2017, sono state 21mila le presenze da Israele, più che raddoppiate rispetto all'anno precedente, in virtù anche dei collegamenti aerei che uniscono la Sardegna con l'aeroporto di Tel Aviv. "Abbiamo voluto questo evento di presentazione, multimediale e multisensoriale - spiega ancora l'assessora - perché quello israeliano è un pubblico esigente e alto spendente: proponiamo una narrazione diversa della Sardegna, non più limitata alle bellezze naturali e paesaggistiche ma allargata a storia, tradizioni, archeologia e cultura, con particolare attenzione all'enogastronomia, grazie anche ai sapori offerti dallo chef Pierluigi Fais".

 Interesse verso la Sardegna
  105 gli accreditati alla serata, che rientra nel calendario di appuntamenti promozionali che l'Assessorato del turismo sta organizzando in questi mesi con la collaborazione di UnionCamere Sardegna. Tra loro, oltre all'ambasciatore Benedetti, numerosi operatori del settore turistico specializzati in viaggi verso l'Italia, giornalisti di testate dedite al life style e viaggi, rappresentanze di vettori di linea e charter, istituzioni israeliane e italiane. "I partecipanti - dice Argiolas - hanno apprezzato l'approccio immediato della presentazione e hanno mostrato molta curiosità, oltre che per l'ambiente, anche per il nostro patrimonio culturale e per la grande diversità di paesaggi che la Sardegna, finora poco conosciuta in Israele, può offrire. Con questi eventi, stiamo portando avanti un lavoro importante con le Camere di Commercio dell'isola, con azioni di comunicazione che hanno toccato mercati importanti o emergenti come Olanda, Francia, Gran Bretagna e Germania".
  Soddisfazione è stata espressa anche dal vice presidente della Camera di Commercio Israel Italia Simone Botti: "Dobbiamo capire - ha detto - che a volte vi sono paesaggi, luoghi e aspetti della cultura italiana che tendiamo a dare per scontati, e che dovremmo cercare di evidenziare a quei visitatori che nell'Italia vedono un arricchimento a tutti i livelli".

(Regione Sardegna, 21 marzo 2018)


Indovina chi ti invita a cena?

Visitato tutti i luoghi turistici, testato tutti i ristoranti di Tel Aviv e ballato in tutti i festival israeliani si può pensare di sapere tutto su Israele?
Ebbene c'è di più: come condividere una tipica cena israeliana con veri israeliani!
Per i turisti che visitano Israele e cercano un'esperienza "locale", Betzavta è un nuovo concetto di esperienza di viaggio in Israele che imperversa dal 2017!
In verità questa idea è geniale, e si potrebbe, forse addirittura si dovrebbe, rubare questa idea per costruire amicizia proprio qui da noi, in Italia o in qualsiasi altro paese Europeo.
"Betzavta" in ebraico significa "insieme", ed è una iniziativa che offre ai turisti che visitano Israele l'opportunità di condividere una cena autentica con un ospite israeliano, assaporare uno degli innumerevoli piatti israeliani, scoprire la cultura dell'altro e osservare un nuovo aspetto di Israele, questo è ciò che Betzavta propone di vivere! Tutto quello si deve fare è compilare il modulo di domanda e avere un buon appetito!
I fondatori di questa iniziativa sono Niv Saar e Ori Pearl: hanno viaggiato in lungo e in largo per il mondo ed hanno avuto l'opportunità di incontrare i residenti locali, condividere un momento con loro e scoprire la cultura locale con un nuovo obiettivo.
Tornati in Israele e dopo aver lavorato per un po ', hanno voluto ricreare in Israele ciò che avevano avuto la possibilità di vivere durante i loro viaggi. Così è nato Betzavta!
Oggi, quasi 40 ospiti accolgono i turisti a Tel Aviv e dintorni, Ramat Gan, Givatayim e presto a Gerusalemme. L'idea è stata resa attiva solo nel febbraio del 2018 ma i turisti provenienti da Stati Uniti, Hong Kong, Russia o Europa la hanno già sperimentata.
I padroni di casa si impegnano a offrire un menu tipico israeliano ai loro ospiti, il cui numero può arrivare a 4. Secondo Niiv Saar, il mantenimento di un piccolo numero di ospiti assicura uno spirito amichevole e incoraggia le amicizie! Il sito attraverso cui poter ricevere ospitalità garantisce che i padroni di casa parlino inglese e offre anche la possibilità ai turisti di far presenti le loro possibili restrizioni dietetiche.
Chi cercasse dunque un'esperienza autentica durante il tuo soggiorno in Israele, non deve far altro che sperimentare.
"Condividere un pasto" è un'esperienza realizzata per creare connessioni e legami tra persone di culture diverse e chi l'ha già sperimentata ha fatto nuovi amici per tutta la vita.
Quello che fa Betzavta è aiutare i viaggiatori ad incontrare davvero le persone.
Chi ospita sono famiglie che desiderano condividere il loro senso di ospitalità e accoglienza affettuosa e incontrare nuovi amici da tutto il mondo. Lo fanno su base volontaria e il contributo economico che ricevono è appena sufficiente a coprire il costo degli ingredienti.
Il contributo per adulto (sopra i 12 anni) è di $ 35,00 USD, per i bambini (4-12 anni) è $ 20,00 USD. I bambini sotto i 4 anni sono ospiti gratuitamente.
Betzavta è tutto incentrato sulla cucina casalinga.
Attualmente l'iniziativa è attiva a Tel Aviv e in non moltissime altre località, ma sta per espandersi rapidamente.

(Israele Storia e Cultura, 21 marzo 2018)


Abu Mazen ormai ridotto agli insulti

di Fiamma Nirenstein

Mahmoud Abbas, al secolo Abu Mazen, il presidente dei palestinesi dal 2005, anno in cui si è insediato al potere senza mai più tenere elezioni, ha accumulato in tanti anni solo astii e inimicizie, e ora ne raccoglie i frutti. Invece di parlare inveisce ovunque, e non solo contro Israele di cui seguita a dire che è un regime colonialista e razzista, e quindi da distruggere. Ormai la lista dei suoi amici è inesistente, esiste solo una piramide di potere fatta di armi e di denaro, non c'è stato né processo di pace né unificazione sotto il suo comando, e i palestinesi cominciano a temere le conseguenze dei suoi aumentati sintomi di angoscia e paranoia. Le sue ultime picconate colpiscono all'impazzata dentro e fuori i suoi confini geopolitici: nei titoli dei giornali palestinesi, arabi e israeliani si legge soprattutto come Abu Mazen abbia pubblicamente dichiarato lunedì l'ambasciatore americano David Friedman «un figlio di un cane», e Friedman gli ha risposto ieri di fronte alla platea di una conferenza a Gerusalemme chiedendosi se «si tratta di antisemitismo o di un discorso politico». Questo appellativo non ha proprio lo stesso significato che ha nella nostra lingua, l'espressione non è colloquiale ma di estremo disprezzo, come quando Mubarak la usò contro Arafat che rifiutava di firmare un accordo di pace da lui garantito.
   Abu Mazen ha detto di Friedman, intendendo farne un paradigma dell'atteggiamento americano, che è parente di gente che risiede negli insediamenti: in pratica cioè, è anche lui un colono, e che non si capisce se sia israeliano o americano. Abu Mazen sembra la frustrazione impersonificata: con gli americani rifiuta di parlare mentre essi stanno per presentare il loro progetto di pace, ha dichiarato il suo disprezzo per l'Egitto che non sa garantire l'accordo con Hamas, e l'Arabia Saudita perché ha interessi in comune con Israele contro l'Iran. Per l'Europa conserva un po' di cuore, e la Mogherini per Abu Mazen, cui ieri dopo averne descritto la fragilità ha tuttavia espresso la solita speranza che il processo di pace (che solo lei vede in movimento) non subisca ulteriori fermate.
   Il vero obiettivo politico di Abu Mazen nel suo discorso era però Hamas, cui ha annunciato sanzioni. Ha dichiarato la sua delusione verso il fallimento del processo, ha accusato esplicitamente Hamas di aver tentato di assassinare il primo ministro Rami Hamdallah e il capo dei servizi Majed Faraj il 13 marzo. Ha detto che Hamas deve cedere il controllo di Gaza o prendersi tutta la responsabilità della situazione attuale, che come si sa è di miseria, di ferocia, di integralismo terrorista.

(il Giornale, 21 marzo 2018)


"La mia rivoluzione hardware per l'Intelligenza Artificiale"

Addestramento e inferenza andranno in parallelo. Al Technion si studia come replicare la logica del cervello.

di Fabiana Magrì

Il Technion di Haifa
In un kibbutz a 30 chilometri da Haifa, sta maturando la prima rivoluzione dell'hardware. La bandierina sulla cronologia della storia dell'informatica ricorderà il momento in cui è cambiato il modo di costruire i computer. Shahar Kvatinsky, 37 anni, è assistente di ingegneria elettronica all'Istituto Technion, dove insegna una volta alla settimana. Per il resto lavora da casa, una villetta con un giardino pieno di biciclette. Oggi e domani sarà in Italia all'Università della Tuscia a Viterbo e a Tor Vergata a Roma e per una conferenza sull'Intelligenza Artificiale, organizzata dall'Italian Technion Society.

- In che cosa consiste la rivoluzione dell'hardware?
  «Finora lo sviluppo dei computer si è basato sulla legge di Moore: Gordon Moore, cofondatore di Intel, già 50 anni fa si accorse che ogni due anni la dimensione del transistor si sarebbe dimezzata. Da un'altra prospettiva, quella delle aziende, ogni due anni si sarebbe potuto raddoppiare il numero dei transistor in una stessa area e costruire di più allo stesso prezzo. Questo è un esempio di come l'industria, oggi, usi la tecnologia: per potenziare computer con le stesse funzioni di sempre. A me, invece, interessa creare hardware capaci di impieghi diversi».

- Quali tipi di impieghi?
  «Hardware più appropriati per l'Intelligenza Artificiale. Senza entrare nella questione filosofica, i computer che abbiamo usato per 70 anni hanno una sorta di intelligenza, ma teorica: quando parliamo di Intelligenza Artificiale, intendiamo i compiti che tradizionalmente i computer non erano in grado di svolgere, come il riconoscimento delle immagini. Pensiamo a Facebook: pochi anni fa poteva distinguere la presenza di un volto in una foto, oggi suggerisce la persona a cui potrebbe appartenere. Il risultato è frutto di anni di lavoro su algoritmi e software, ma per fare calcoli sempre più complicati l'unica soluzione, oggi, è aggiungere computer su computer. Va da sé che sviluppare l'Intelligenza Artificiale con hardware convenzionali è costoso sia in termini economici sia di energia. Per limitare i danni Facebook e Google hanno costruito enormi infrastrutture: centrali elettriche e impianti di raffreddamento, in Scandinavia e vicino al Polo Nord, così da contenere i milioni di computer di cui hanno bisogno. Oggi circa il 2% della corrente elettrica negli Usa è utilizzata per i server e il trend è in crescita».

- È quindi giunto il momento di una svolta?
  «Il primo computer programmabile è stato costruito negli Anni '40 e, se oggi i computer sono più veloci, nella struttura di base sono come 70 anni fa: un processore elabora e una memoria raccoglie i dati».

- Come dovrebbero cambiare?
  «Nei computer convenzionali viene scritto un programma che la macchina esegue, passo dopo passo. Con l'Intelligenza Artificiale, invece, il computer dovrebbe comportarsi in modo più simile a noi: il cervello svolge molte operazioni in parallelo e gli algoritmi si basano sul parallelismo massivo».

- Quanto siamo in grado di replicare il nostro cervello?
  «Il problema è che non sappiamo come funzioni il cervello! Sennò la cosa più semplice sarebbe costruire una macchina fatta nello stesso modo. Per ora ci possiamo solo ispirare».

- Quindi qual è ora la differenza?
  «Quando parliamo di "machine learning" ci sono due passaggi: la formazione e l'inferenza. Se per la seconda fase ci sono nuovi hardware come il "Tpu", un circuito integrato sviluppato da Google, ora tutti lavorano sulla prima fase, il training. Io cerco di costruire una macchina che svolga entrambe le funzioni in parallelo, come nel cervello».

- Chi sono i partner in questa rivoluzione?
  «Al Technion collaboriamo con gruppi diversi su diversi temi. Abbiamo come partner alcune aziende e lavoriamo con chi scrive gli algoritmi. Siamo poi in contatto con team di neuroscienziati e in Italia guardiamo con interesse al Politecnico di Milano e all'Università di Bologna».

- Che impatto avrà questa rivoluzione sulla vita di suo figlio, che è appena nato?
  «Mi chiedo se avrà mai bisogno di una patente: le auto autonome saranno realtà appena i nuovi hardware potranno supportare l'Intelligenza Artificiale in modo più appropriato. Guidare sarà un hobby, un divertimento o uno sport».

(La Stampa, 21 marzo 2018)


Siberia, la Terra promessa oltre le paludi ghiacciate

Alla scoperta di Birobidzhan, nell'Estremo Oriente russo, la capitale del Territorio Autonomo degli Ebrei: che oggi rafforzano la loro Comunità.

di Gianni Vernetti

BIROBIDZHAN - Non è semplice raggiungere Birobidzhan, la capitale del remoto «Yevreyskaya Avtonomnaya Oblast», il Territorio Autonomo degli Ebrei. Quando venne fondata da Stalin nel 1932 gli oltre 50.000 ebrei che vi emigrarono percorsero migliaia di chilometri per raggiungere il remoto avamposto siberiano, fra paludi ghiacciate, permafrost e terra dura.
  Siamo alla confluenza dei fiumi Bira e Bidzan, entrambi tributari del grande Amur che con il Trattato di Nercinsk del 1689 diventò il confine tra le aree di influenza russe e cinesi nell'Estremo Oriente siberiano a Nord della Manciuria. Oggi il Territorio Autonomo degli Ebrei è uno degli 83 soggetti giuridici costituenti la Federazione Russa.
  Raggiungiamo Birobidzhan, la «Sion rossa», percorrendo con la Transiberiana 8.320 chilometri dalla stazione Yaroslavskaya di Mosca. La stazione ferroviaria di Birobidzhan già racconta il luogo: un edificio di mattoni rossi, con il nome della città in caratteri cirillici ed ebraici, in russo e yiddish. Anche tutte le insegne stradali sono bilingue e appena scesi dal treno ci accoglie una grande menorah in cima a un obelisco, accanto a una scultura di bronzo con l'eroe popolare ebraico inventato da Sholem Aleichem: Tewje il lattivendolo, qui diventato l'icona dei primi pionieri.

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 Le due correnti rivali
  Poco distante, tra l'immancabile Ulitsa Lenina e la Ulitsa Sholem Aleichem, ecco la sinagoga più grande della città, ornata con una grande stella di David intagliata nel legno. Qui incontriamo il giovane rabbino Eli Riss che guida la comunità ebraica di circa 3.000 membri, oggi soltanto lo 0,5% della popolazione dell'intera regione. «Mio padre venne qui negli Anni 50 e appena poté emigrò con tutta la famiglia in Israele. Dopo alcuni anni però la Comunità di qui desiderava un rabbino giovane ed energico che avesse voglia di rivitalizzare la cultura ebraica in questa remota regione. Ed eccomi qua».
  Il rabbino ci guida nel piccolo Museo che racconta la sorprendente storia del Birobidzhan, e nel Centro Culturale Ebraico, l'Obshina Frejd (pace in yiddish). Alla radio locale si ascolta un programma in yiddish e viene ancora pubblicato il settimanale Birobidjaner Sthern.
  Accanto alla Sinagoga c'è un piccolo ma animato cantiere edile: «Stiamo ampliando il Centro culturale ed entro pochi mesi inaugureremo una nuova caffetteria e un ristorante kasher: quando tornerai qui - dice soddisfatto -, potrai assaggiare il Gefilte fish, la carpa farcita, piatto fondamentale della tradizione yiddish».
  Ma la sonnolenta cittadina di Birobidzhan sperduta fra la Manciuria cinese e la Siberia russa è anche l'esito tormentato della contrapposizione tra due correnti di pensiero ebraico che si sono duramente confrontate all'inizio del secolo scorso: il Bund (la Lega generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Russia, Polonia) e il movimento sionista fondato da Theodor Herzl. Sullo sfondo, la tormentata storia degli ebrei di Russia: cinque milioni all'inizio del Novecento, confinati in «zone di residenza» nelle aree più povere del Paese, banditi dall'amministrazione pubblica, sempre in fuga dai continui pogrom. Solo fra il 1881 e il 1914 ben due milioni di ebrei russi emigrarono negli Stati Uniti e 60 mila in Palestina. La rivoluzione bolscevica rappresentò per molti un'occasione di riscatto e di emancipazione e nel 1917 gli ebrei aderirono in massa alla Rivoluzione.

 La «Sion rossa»
  Sono gli anni di Sergej Ejzenstein, il regista della Corazzata Potiomkin, di Vasilij Grossman, prima che scrittore, corrispondente di Stella Rossa (il quotidiano dell'esercito), di Boris Pasternak, Mare Chagall, Ossip Mandel'stam ... Ma furono anche anni di duro scontro politico tra il «bundismo» e il sionismo. I comunisti ebrei del Bund erano decisamente anti-sionisti, con l'obiettivo di edificare una «nazione ebraica senza Stato»; i sionisti, per la nascita di uno Stato ebraico in Palestina, con una capitale naturale: Gerusalemme.
  In questo scontro tra visioni antagoniste, l'allora presidente del Soviet supremo Michail Kalinin propose a Stalin di creare una regione autonoma per gli ebrei: una «Sion rossa», un'alternativa comunista per frenare le ondate migratorie degli ebrei verso Palestina e America. Era il 1934, mancavano solo 16 anni alla proclamazione dello Stato di Israele, e le autorità spedirono a Birobidzhan migliaia di famiglie, per costruire uno Stato ebraico socialista e ateo, con lo yiddish e non l'ebraico come lingua nazionale.

 Dopo il sogno, le purghe
  Il sogno finì presto sotto le nuove purghe staliniane degli Anni Cinquanta che colpirono interi popoli (i calmucchi e i tatari), grandi parti della dirigenza bolscevica e anche gli ebrei della remota regione siberiana. La folle politica di Stalin rese impossibile per Birobidzhan diventare il centro della vita ebraica in Unione Sovietica e gran parte degli ebrei dell'Estremo Oriente emigrarono in Israele.
  Oggi Birobidzhan è un posto civile nel quale non c'è traccia di antisemitismo e i pochi ebrei rimasti possono rafforzare la propria comunità, studiare lo yiddish, coltivare la storia e le tradizioni ebraiche, e il Territorio Autonomo degli Ebrei rimane una preziosa testimonianza di una delle vicende meno note della diaspora. Ma non c'è dubbio che ebbe ragione Theodor Herzl quando nel primo Congresso mondiale ebraico di Basilea del 1897, con il suo «Se lo volete, non sarà un sogno», indicò la strada irreversibile che portò alla nascita dello Stato di Israele.

(La Stampa, 21 marzo 2018)


Roma - Il segreto del ghetto ebraico tra cultura e tradizione

Alla scoperta dei simboli della comunità giudaica, la più popolosa d'Italia, fra museo e sinagoga.

 
La sinagoga di Roma
 
Il museo ebraico annesso alla sinagoga
La scoperta di Roma non può prescindere dalla zona dell'antico ghetto, vicoli e strade carichi di storia che ancora oggi sono capaci di trasmettere il fascino della cultura ebraica, con le sue tradizioni e le sue contaminazioni. Ad oggi, gli ebrei romani sono circa 15 mila e costituiscono la più importante comunità italiana. Non tutti loro abitano, ovviamente, nel ghetto e rappresentano un ottimo esempio di integrazione.

 ll museo
  Il ghetto di Roma fu istituito da Papa Paolo IV nel 1555 ed è uno dei più antichi del mondo. Oggi i confini del ghetto si sono persi, ma all'epoca le mura delimitavano lo spazio in cui si muoveva la comunità ebraica. Usi, costumi, storia e tradizioni oggi sono ripercorribili visitando il Museo Ebraico, che nelle sue sette sale illustra ai visitatori la complessa storia della presenza semita a Roma, una presenza che dura da 2000 anni. Tutto questo attraverso oggetti della quotidianità, cimeli liturgici e simboli della tradizione giudaica.

 La sinagoga
  Il museo è annesso alla sinagoga di Roma, il Tempio Maggiore, inaugurato nel 1904. Solo dopo il 1870, infatti, in Italia fu possibile per gli ebrei erigere i propri luoghi di culto: solo in quell'anno, con la breccia di Porta Pia, Roma divenne parte integrante del regno d'Italia, mettendo fine al potere temporale dei Papi. Dal punto di vista architettonico mancavano al momento della stesura del progetto - affidato a Osvaldo Armarmi e Vincenzo Costa - modelli di riferimento. Il risultato è quello che vediamo oggi: un edificio eclettico, ispirato a forme assiro-babilonesi, dalla pianta quadrata. L'edificio è diviso su due piani: nei sotterranei c'è, appunto, il Museo Ebraico. Qui ha sede anche un'altra piccola sinagoga, detta Tempio Spagnolo, allestita con arredi provenienti dalla struttura che accoglieva la precedente sinagoga - formata da cinque "scale", dette la Castigliana, la Catalana, la Siciliana, la Nova e l'Italiana - all'interno del ghetto. La sinagoga grande è un luogo affascinante e che ben rappresenta la fede ebraica. L'edificio è costituito da una grande stanza centrale e da due piccole navate laterali, che conducono lo sguardo verso due piccoli Aron Ha-Kodesh (armadi sacri) provenienti dalle vecchie scale del ghetto. La grande stanza centrale, invece, è dominata dall'imponente Aron Ha-Kodesh del Tempio Maggiore, che troneggia sul lato est della Sinagoga. Sugli altri tre lati è presente anche il matroneo, la balconata dedicata alle sole donne. Tutto l'ambiente interno del Tempio
Maggiore è riccamente ornato e l'aspetto opulento dell'esterno trova un suo corrispettivo negli interni: tutto è decorato da magnifici motivi orientali.

(la Repubblica - Roma, 21 marzo 2018)


Quei sedicimila cristiani uccisi in Nigeria di cui l'occidente non vuole sentir parlare

di Giulio Meotti

ROMA - 3.850 cristiani della Nigeria sono stati assassinati dai jihadisti di Boko Haram e dai pastori islamici Fulani negli ultimi tre anni. Solo nei mesi di dicembre 2017 e gennaio 2018 sono stati registrati oltre 350 cristiani uccisi nel paese più ricco di petrolio di tutta l'Africa. In due giorni, cinquanta cristiani sono stati uccisi dalle orde islamiste negli stati di Kogi e Plateau. Due giorni prima c'era stato un funerale di massa per i cristiani assassinati in una sola giornata di attacchi. Il vescovo Joseph Bagobiri, della diocesi di Kafanchan, morto poche settimane fa, aveva fornito la contabilità degli attacchi islamici solo nella sua area: "53 villaggi bruciati, 808 persone uccise, 1.422 case e 16 chiese distrutte". Si chiama pulizia etnica. A fine febbraio, almeno dodici cristiani erano stati uccisi nel nord della Nigeria come rappresaglia per i tentativi dei fedeli di salvare alcune ragazze dalle conversioni islamiche forzate.
   Diviso fra un nord musulmano e un sud cristiano che controlla la maggior parte delle risorse petrolifere, il gigante africano deve affrontare da dieci anni attentati e rapimenti drammatici perpetrati dal movimento islamico Boko Haram. Su un conflitto che ha origini economiche e tribali si è innestato il tumore del fondamentalismo islamico di cui fanno le spese i cristiani. Lo scrittore algerino Boualem Sansa! nel suo recente libro "In nome di Allah" (Neri Pozza) parla di una " guerra totale" che "abbiamo visto all'opera in Somalia, in Afghanistan, in Algeria, nel Mali settentrionale e nelle province musulmane della Nigeria dominate dal gruppo jihadista Boko Haram". E lo scrittore nigeriano premio Nobel per la Letteratura, Wole Soyinka, paragona la situazione del suo paese a quella "degli algerini che combatterono con i fondamentalisti assassini per dieci anni". Impiegano armi da fuoco, bombe a mano, kamikaze, machete, gridando "Allah Akbar" (Dio è grande) quando attaccano di sorpresa un gruppo di contadini e fedeli cristiani.
   L'opinione pubblica occidentale, sempre poco recettiva sulla persecuzione dei cristiani, di questi nigeriani non vuole sentir parlare. Ma come ha detto il vescovo cattolico di Nomadi, Hyacinth Egbebo, "se la Nigeria cade in mani islamiste, tutta l'Africa sarà a rischio". E poi toccherà all'Europa. Secondo Philip Jenkins, uno dei massimi esperti di cristianesimo, è in Nigeria che verrà deciso l'equilibrio tra l'islam e il cristianesimo in Africa. Il "destino religioso della Nigeria potrebbe essere un fattore politico di immensa importanza nel nuovo secolo", ha scritto Jenkins.
   Questo è il motivo per cui gli islamisti massacrano i cristiani. Si vuole spostare la linea di faglia religiosa e demografica. Lo scorso febbraio, mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump era a colloquio con il suo omologo nigeriano, Muhammadu Buhari, emergeva un rapporto che parla di 16 mila cristiani assassinati in Nigeria dal giugno 2015.
   Un rapporto della Società internazionale per le libertà civili e lo stato di diritto ha rivelato: "Si stima che 16 mila morti siano specificamente composti da 2.050 vittime di violenza diretta da parte dello stato, 7.950 vittime della custodia della polizia o uccisioni di prigionia, 2.050 vittime dell'insurrezione di Boko Haram e 3.750 vittime delle uccisioni di mandriani Fulani".
   I musulmani estremisti non solo macellano i cristiani; distruggono anche i loro luoghi di culto. Cinquecento chiese sono state rase al suolo nello stato nigeriano di Benue, uno dei più martoriati nella guerra fratricida lanciata dai fondamentalisti islamici. E almeno duemila chiese cristiane sono state rase al suolo da Boko Haram nella sua campagna per cacciare tutti i cristiani dalla Nigeria settentrionale.

(Il Foglio, 21 marzo 2018)


Le storie di quegli ebrei d'Italia che si salvarono dall'inferno dei lager

Il libro "Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945" di Liliana Picciotto presentato al Consolato Generale d'Italia di New York. Il volume, edito da Einaudi, presenta un punto di vista radicalmente nuovo della narrazione sull'Olocausto. Un'opera frutto di più di diecimila interviste, che mettono al centro le vittime e, soprattutto, quell'oltre 81% di ebrei italiani sfuggito alla furia nazista

di Ilaria Maroni

 
Sala gremita alla presentazione del libro di Liliana Picciotto presso il Consolato Generale d'Italia a New York.
Nonostante gli appelli dell'Unione Europea e delle comunità ebraiche, lo scorso 6 febbraio il presidente Andrzej Duda ha firmato la controversa legge sull'olocausto, che prevede fino a tre anni di reclusione per chi asserisce il coinvolgimento di cittadini polacchi nella persecuzione degli ebrei. Il provvedimento, approvato dal parlamento pochi giorni prima, ha provocato le accese proteste di Israele e suscitato le ire degli Stati Uniti. Tra le critiche generali, il governo di Varsavia si è giustificato replicando che nessuna nazione si è distinta quanto la Polonia per aver aiutato gli ebrei durante la guerra. Ma perché negare una realtà storica, pur dolorosa? Perché commemorare soltanto i "giusti tra le nazioni", senza parlare di chi è riuscito a salvarsi?
  "Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945" è appunto il titolo dell'ultimo libro di Liliana Picciotto, edito da Einaudi. Presentato lunedì sera al Consolato Generale di Italia a New York, il volume propone un punto di vista radicalmente diverso rispetto alla tradizionale narrazione della Shoah e della sopravvivenza. Come chiarisce l'autrice nel corso della serata, l'opera è il frutto di più di diecimila interviste che riaccendono i riflettori sulle vittime e su come più dell'81% dei 30,000 ebrei, presenti in Italia al momento dello scoppio del conflitto mondiale, sia riuscito a sfuggire alla furia nazista.
  Dopo una breve introduzione del Console Francesco Genuardi, è la direttrice del Centro Primo Levi, Natalia Indrimi, a sottolineare alcuni degli aspetti più innovativi di "Salvarsi": la profonda attenzione al contesto storico di riferimento, l'abbandono del discorso morale o politico che ha caratterizzato i pochi studi sulla sopravvivenza finora prodotti, il coraggio di ribadire che non esiste solo il male e il bene ma tante zone d'ombra offuscano persino le storie dei "giusti".
  Con l'armistizio del 1943 e con l'occupazione tedesca, quale destino attendeva gli ebrei in Italia, già umiliati dalla promulgazione delle leggi razziali e adesso in pericolo di vita? "Lo stato di diritto dovrebbe proteggere i cittadini, ma gli ebrei si trovavano in quel momento nella situazione opposta, costretti a rimanere al di fuori della legge", spiega Liliana Picciotto. In clandestinità, gli ebrei reinventarono completamente il loro modo di vivere: c'è chi si trasferì e cambiò indirizzo; chi si procurò carte di identità false corrompendo i funzionari pubblici con il poco denaro a disposizione; chi educò i propri figli a imparare dei nuovi nomi cristiani e a ripeterli più volte per essere convincenti. C'è anche chi salutò per sempre i familiari più anziani per potersi spostare da un luogo all'altro più rapidamente. Le possibilità di salvarsi dipesero dal contesto, dallo status sociale, dalla generosità degli amici e dei vicini, dalla località in cui si era inseriti, dal rapporto con le parrocchie locali, dalle capacità di autocontrollo, e da tanti altri fattori esaminati dall'autrice.
  "Questa ricerca è così estesa, sorprendente… Difficile da descrivere in soli dieci minuti": secondo Susan Zuccotti, relatrice della conferenza, Liliana Picciotti ha avuto il grande merito di raccontare ai lettori le storie spesso dimenticate di donne e uomini ebrei che contribuirono a nascondere e mettere in salvo altre vittime. La storica americana non risparmia però delle critiche alla tendenza diffusa di inventare nuovi eroi e di esagerare le gesta di quelli già conosciuti nella memoria collettiva. Susan Zuccotti conclude il suo intervento con un'unica nota di biasimo ("Avrei sperato di vedere maggiori approfondimenti sulle controversie legate a questo tema") e, pur apprezzando comunque lo spirito positivo del progetto, mette in guardia sul rischio di trascurare i "carnefici" a favore della cosiddetta "buona gente".
  Mordechai Paldiel - storico ed ex direttore dell' Institute Of The Righteous allo Yad Vashem - prende la parola per ultimo e chiude l'evento con delle importanti riflessioni per gli spettatori. Il professore dello Stern College cita i paradossi di Guelfo Zamboni e Giorgio Perlasca, il primo esponente del regime, il secondo simpatizzante fascista, che portarono in salvo centinaia di ebrei al di fuori dell'Italia. Parla della sua esperienza personale, quando con la famiglia riparò a Grenoble in un momento di relativa "quiete prima della tempesta" per gli ebrei perché l'area era amministrata dalle truppe italiane. Paldiel applaude alla creazione dello Stato di Israele e si chiede se, e cosa sarebbe cambiato se gli ebrei avessero avuto un loro focolare prima dell'ascesa al potere di Hitler.
  L'immenso lavoro di Liliana Picciotto non sarebbe stato possibile senza il sostegno della Andrew Viterbi della Viterbi Family Foundation. Parlando alla platea all'avvio della conferenza, un Viterbi visibilmente emozionato si era augurato che le generazioni future potessero imparare molto da questo libro.

(La Voce di New York, 20 marzo 2018)


Sul futuro della Palestina adesso pesa anche il contrasto tra Hamas e ANP

Nella riunione dei dirigenti palestinesi che si è tenuta lunedì a Ramallah, il presidente dell'ANP Mahmoud Abbas ha apertamente accusato Hamas di essere responsabile dell'attentato contro il primo ministro Rami Hamdallah ed il capo dell'intelligence Majid Faraj della scorsa settimana a Gaza, aggiungendo che per questo prenderà provvedimenti nei suoi confronti.
Quali siano tali misure, Abbas non lo ha specificato, ma è difficile credere che per colpire Hamas non finiranno poi per colpire la popolazione palestinese residente a Gaza, anche se lo ha escluso.
Mahmoud Abbas ha accusato Hamas di sabotare gli sforzi per la riconciliazione tra le due fazioni, buttando a mare il lavoro di mesi, senza che alcun risultato sia stato ottenuto.
Abbas ha aggiunto che non attenderà i risultati delle indagini di Hamas sull'attentato "perché sappiamo che loro ne sono gli autori", perché gli omicidi non sono nuovi ad atti simili... ma il tentativo avrà conseguenze.
Abbas ha detto che Hamas sta cooperando con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump per distruggere il progetto nazionale di indipendenza palestinese, perché loro vogliono realizzare uno Stato a Gaza.
Un disegno che si sposa - sempre secondo il presidente dell'ANP - a quello degli Stati Uniti che, con la separazione tra Cisgiordania e Gaza, otterrebbero che non nascesse di fatto uno Stato palestinese. Disegno, tra l'altro alimentato dal riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e dal taglio degli aiuti all'Agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro e il soccorso dei profughi della Palestina, UNRWA.
Abbas ha poi attaccato l'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, David Friedman, definendolo "figlio d'un cane", un colono che sostiene gli insediamenti, per aver dichiarato che Israele li stava costruendo nel proprio territorio e non in zone occupate.

(fai.informazione.it, 20 marzo 2018)


Musk cerca tecnologia in Israele.

Elon Musk a caccia di partner in Israele. Il ceo di Tesla, durante una visita nel Paese medio orientale da lui stesso illustrata con diverse foto sui social network, avrebbe approfondito i colloqui con la start up di Gerusalemme Cortica che si occupa di sviluppo dell'intelligenza artificiale. Non è ancora chiaro se i contatti sfoceranno in una collaborazione o addirittura in una acquisizione da parte della società della Silicon Valley.

 Vista ai robot
  Cortica è specializzata nello sviluppo di sistemi che permettono all'intelligenza artificiale alla guida di riconoscere gli oggetti in movimento e di prendere decisioni tenendo anche conto dei possibili cambiamenti nell'ambiente circostante. Fondata nel 2007, Cortica ha ricevuto finanziamenti da parte di investitori di Hong Kong e anche dal gruppo russo Mail.ru.
A sua volta Tesla ha già lavorato in Israele collaborando fino al 2016 con Mobileye, successivamente acquisita da Intel per 15 miliardi di dollari.

(l'Automobile, 20 marzo 2018)


Gerusalemme e i lupi solitari

di Fiamma Nirenstein

Dopo che Israele ha seppellito altri due ragazzi di vent'anni, Zvi Daus e Nethaniel Kahalani che un terrorista palestinese ha investito insieme ad altri tre lungo una strada a sud ovest di Jenin (due sono all'ospedale in condizioni molto gravi); mentre le truppe israeliane al confine con Gaza facevano saltare per aria altre due gallerie costruite giusto per far entrare ancora e ancora terroristi dentro Israele; ieri è stata la volta di sangue spillato con la lama di un coltellaccio. Una guardia davanti al Muro del Pianto, il più ovvio fra i luoghi simbolici di Israele, è stata assalita e colpita al petto e al ventre, ed è morta per le ferite; il terrorista è stato inseguito e ucciso, si tratta di Abed el Rahman, 27 anni, sposato con due figli, ispirato dalla magnifica opportunità di ammazzare un ebreo presso la Spianata delle Moschee.
   È ora di smettere di parlare di «lupi solitari»: si tratta sempre dell'incitamento palestinese. La strategia terroristica dei palestinesi è di massa, conta migliaia di morti, si accanisce sulla sovranità ebraica, spera di terrorizzare non alcune persone, ma un popolo intero inducendolo alla fuga per liberare l'Ummah islamica. Questa scelta, nutrita di precetti religiosi legati alla Jihad, ha contagiato secondo la loro intenzione l'intero mondo musulmano, ed è questo il compito principale che si è data: non costruire uno stato, che i palestinesi hanno rifiutato per tre volte nonostante includesse Gerusalemme; non sedersi a un tavolo dei colloqui per discutere la nuova proposta di Trump ma avvalersi di una continua minaccia di sangue, praticandola giorno dopo giorno e facendola balenare come l'unico orizzonte possibile.
   Il terrorista che ha accelerato sui corpi di cinque soldati di leva che camminavano sul bordo della strada e ha anche fatto marcia indietro per schiacciarli bene era un giovane di Barta'a vicino a Jenin, Alaa Kabha, 26 anni, un prigioniero di sicurezza rilasciato, ora in prigione. Un lupo che perde il pelo ma non il vizio. I «lupi» sono una massa affamata. Solo nel 2017 ci sono stati 1300 attacchi privi di un supporto organizzativo, e l'anno prima 2200. Evidentemente la polizia ha imparato quest'anno come scoprirli prima che vadano all'attacco, ma non abbastanza. Kabha si pregia di aver condotto l'attentato per i cento giorni della dichiarazione di Trump, gli anniversari non mancano, e si può essere sicuri che essi verranno tutti celebrati da Fatah e da Hamas insieme al «sacrificio» o al coraggio dei terroristi, e in carcere essi riceveranno uno stipendio. Se uccisi, lo riceverà la loro famiglia. Fatah e Hamas incitano a uccidere e a essere uccisi, il terrore è l'unica arma malamente nascosta da strumenti diplomatici che di fatto seguitano a coprire il terrore e a foraggiarlo.

(il Giornale, 20 marzo 2018)


Ecco le vere ragioni dell'accordo tra Egitto ed Israele sul gas

Motivi economici, religiosi, ma anche di opportunità, hanno sancito un'intesa che sembrava impossibile fino a qualche tempo fa.

di Sebastiano Torrini

La scoperta del gigantesco giacimento di gas egiziano di Zohr nell'agosto 2015 era stata annunciata come la soluzione ai problemi energetici del paese. Eppure, nonostante abbia già cominciato la produzione di gas, di recente l'Egitto ha siglato un accodo per importare gas naturale dal suo ex nemico Israele. La Dolphinus Holdings, una società privata egiziana, ha firmato il 19 febbraio un'intesa con Noble Energy e i suoi partner per acquisire gas proveniente dai due più grandi giacimenti offshore di Israele e cioè Leviathan e Tamar. Il controverso accordo non è che l'ultimo capitolo di una saga egiziana del gas che è passata dal trionfo alla tragedia, per giungere ora a una sorta di rinascimento.

 Un po' di storia
  Nel 2006 l'allora ministro del Petrolio egiziano Sameh Fahmy era stato accusato dalle compagnie petrolifere internazionali che lavoravano nel paese di mantenere i prezzi del gas troppo bassi, rendendo di fatto difficile se non impraticabile sviluppare il settore. La primavera araba, poi, fece definitivamente crollare la produzione nel 2011. Al tempo stesso i gasdotti che attraversavano il Sinai per raggiungere l'Egitto da Israele e Giordania vennero distrutti dagli insorti, creando una situazione di carenza di combustibile nel paese. Anche i due impianti di Gnl costruiti da BG (ora Shell) e Idku vicino Alessandria e da Eni a Damietta, nel Delta orientale del Nilo interruppero l'export, aggravando ulteriormente i problemi del paese. La svolta è arrivata con il governo del Presidente Abdel-Fattah Al-Sisi che ha affrontato il problema a partire dal 2015, aumentando i prezzi del combustibile, tagliando le sovvenzioni e iniziando a importare Gnl attraverso nuovi terminali galleggianti realizzati per alimentare una serie di centrali elettriche rapidamente messe in servizio per porre fine ai frequenti blackout nel paese. Tuttavia, gli acquisti di Gnl sono risultati costosi, pari a circa 3,55 miliardi di dollari per l'esercizio finanziario 2015-2016, e hanno rappresentato una quota consistente del disavanzo delle partite correnti dell'Egitto, pari a 18,7 miliardi di dollari. Il rapido sviluppo di Zohr, a soli due anni e mezzo dalla scoperta ha rappresentato quindi una svolta grazie all'aumento dei prezzi di gas e all'urgenza del governo di trovare in fretta altre fonti di approvvigionamento. Da allora, infatti, insieme ad altre scoperte di Eni e BP, ha notevolmente ridotto il fabbisogno di Gnl, con l'obiettivo di terminare le importazioni quest'anno per avere un'eccedenza a partire dal 2019.

 Le vere ragioni dell'accordo tra Israele ed Egitto
Alla luce di ciò, risulta ancora più difficile capire lo scopo dell'accordo con Israele. In realtà, invece, la spiegazione è semplice secondo Robin Mills di Bloomberg: "Da un lato, l'Egitto deve coprire la domanda futura. Il rapido declino della produzione di base e l'aumento della domanda da parte delle nuove centrali possono far sì che, in assenza di nuovi sviluppi, il paese possa tornare ad essere un importatore netto già nel 2021". Per questo il paese "dovrà gestire la sua domanda di gas ricorrendo all'energia solare, eolica e carbonifera e, se mai, a una centrale nucleare di costruzione russa che dovrebbe entrare in funzione solo nel 2029". Ma l'Egitto ha anche l'ambizione di trasformarsi in un hub del gas. Un target "strategico" secondo Bloomberg visto che la commercializzazione del gas nel Mediterraneo orientale è sempre stata difficile a causa dei contrasti sui confini e per via di due importanti ostacoli diplomatici: "Il mancato riconoscimento della Repubblica di Cipro da parte della Turchia e la mancanza di relazioni tra Israele e Libano. A riprova di ciò il 23 febbraio scorso, alcune navi da guerra turche hanno impedito, infatti, all'Eni di perforare un pozzo a est di Cipro, sostenendo che anche la parte turco-cipriota dell'isola doveva avere voce in capitolo. A ciò va aggiunta la modestia dei mercati di Cipro, Israele, Libano e Giordania e il fatto che le scoperte effettuate finora, tutte in acque profonde, non erano economicamente convenienti in presenza di bassi prezzi del gas. Ma a livello più generale tutto ciò significa, in sostanza, che realizzare progetti di export richiede aggregazioni di paesi e società diverse e l'utilizzo di un mix di infrastrutture preesistenti e nuove.
  Anche le rivalità aziendali svolgono un ruolo importante. "Il consorzio Noble si trova ad affrontare un nuovo concorrente in Israele: la società greca Energean, che, pur operando in campi più piccoli, ha gareggiato aggressivamente sui prezzi, rendendo difficile per il primo aggregare vendite sufficienti per procedere con lo sviluppo del Leviathan - sottolinea Bloomberg -. Eni ha appena fatto una grande scoperta, chiamata Calypso, forse grande come Zohr, al largo della costa sud-occidentale di Cipro, e preferirebbe svilupparla attraverso il gasdotto Zohr e probabilmente utilizzare parte del gas per il suo impianto Gnl di Damietta. L'Eni non ha particolari ragioni per aiutare lo sviluppo del gas di Noble, né quello del più piccolo giacimento cipriota di Afrodite di proprietà di Noble/Shell, che è ancora in fase di sviluppo. La prospettiva di concorrenza di Calypso può avere forzato la mano di Noble nei suoi rapporti con Dolphinus. Il prezzo apparente del gas concordato è infatti leggermente inferiore a quello di Zohr".

 Aspre critiche sull'accordo in Egitto
  L'accordo attuale ha suscitato accese critiche all'interno dell'Egitto, dove gli oppositori del progetto sono scontenti di acquistare gas da Israele quando si suppone che il loro paese abbia raggiunto l'autosufficienza. Senza dimenticare che le parti non hanno scelto una via di export tra le varie opzioni: e cioè passare attraverso la Giordania (le cui importazioni di gas da Israele hanno pure suscitato proteste), per cercare di resuscitare il gasdotto distrutto da Ashkelon a El Arish, oppure costruire un nuovo gasdotto sottomarino che scavalchi il Sinai settentrionale. Non bisogna trascurare, infine, il fatto che i due impianti di Gnl egiziani sono in grado di esportare circa 7,5 miliardi di metri cubi di gas all'anno mentre la fornitura concordata con Dolphinus è di 64 miliardi di metri cubi in un decennio circa, che, se non fosse necessaria per usi domestici, consentirebbe agli impianti di Gas liquefatto di operare quasi a pieno regime facendo ritornare il paese alle esportazioni. "Un'altra possibilità è un accordo con l'Arabia Saudita, che è a corto di gas nonostante la sua ricchezza petrolifera, e attualmente sta discutendo la possibilità di importare gas naturale liquefatto con la Russia - ha sottolineato Bloomberg - . La sua nuova città di Neom nel nord-ovest del paese, adiacente a Giordania, Israele ed Egitto, potrebbe essere un buon posto per importare gas egiziano adeguatamente rietichettato". Insomma, chiosa il quotidiano finanziario "se gli egiziani riusciranno a superare il disagio di acquistare da Israele, avranno la possibilità di soddisfare le proprie esigenze future e di essere l'attore indispensabile del gas del Mediterraneo orientale".

 Accordo strategico anche per Israele
  L'accordo sul gas naturale siglato con l'Egitto ha un grande valore strategico anche per Israele. "Nella nuova realtà creatasi, qualsiasi danno da parte di Hezbollah o Hamas alla capacità di Israele di produrre gas influenzerà anche la fornitura di energia elettrica in Giordania, Egitto e Autorità palestinese", ha ammesso l'Istituto per gli Studi di Sicurezza Nazionale (INSS) in uno studio dei ricercatori Oded Eran, Ofir Winter, ed Elai Rettig pubblicato la scorsa settimana. Secondo quanto riporta il sito Globes citando la ricerca, questo interesse "diventerà una componente importante nella cooperazione di intelligence e sicurezza con i paesi vicini per identificare e prevenire il sabotaggio, e un catalizzatore per cercare la calma in caso di scoppio di combattimenti con una di queste organizzazioni". Insomma l'accordo "potrebbe migliorare l'equilibrio di potere in Medio Oriente e la stabilità con il Libano e l'Autorità Palestinese, e alleviare la minaccia iraniana".
  È inoltre probabile che costituisca un punto di svolta per i decisori del ministero delle Infrastrutture, dell'Energia e delle Risorse idriche di Gerusalemme. "La costruzione di un gasdotto tra Israele e l'Italia non è economicamente conveniente, e dovrebbe essere riconsiderata alla luce dell'accordo che è stato firmato. La quantità di gas naturale nel Mediterraneo orientale è relativamente ridotta rispetto al consumo in Europa, che può essere in parte fornito dai giacimenti della nostra regione trasportando il gas agli impianti di liquefazione in Egitto e inviandolo in Europa in autocisterne". Secondo lo studio dei ricercatori israeliani, inoltre, l'Egitto ha avuto una serie di importanti ragioni per sostenere l'accordo: "In primo luogo, l'Egitto cerca di liquidare gli 1,76 miliardi di dollari a titolo di risarcimento che le società egiziane del gas sono state chiamate a versare all'Israel Electric Corporation (IEC) nell'ambito di una sentenza arbitrale internazionale del 2015. In secondo luogo, la decisione di destinare la maggior parte del gas del campo di Zohr al consumo interno egiziano apre la strada al flusso di gas da Israele, Cipro e altri paesi verso gli impianti di liquefazione di Damietta e Idku per l'esportazione in Europa… La terza considerazione è la promessa di entrate stimate a circa 22 miliardi di dollari in 10 anni". Per quanto riguarda Israele, al di là dei vantaggi economici, "l'obiettivo celebrato da al-Sisi sembra aver posizionato Israele ed Egitto come giocatori della stessa 'squadra' che lavorano per promuovere obiettivi condivisi", afferma l'articolo. Ma secondo i ricercatori, "…è ancora troppo presto per considerare l'accordo una svolta nella normalizzazione delle relazioni. Poiché dagli anni '80 esistono accordi in materia di energia tra Israele e l'Egitto. Inoltre, in questa fase è difficile valutare in che misura i frutti dell'intesa si ripercuoteranno sull'opinione pubblica egiziana e rafforzeranno il suo entusiasmo per la pace".

(Energia Oltre, 20 marzo 2018)


Prelievi di minerali e Giordano a secco. Il Mar Morto diventa un deserto di sale

Il bacino nella depressione più profonda perde un metro ogni anno.

990 kmq
Cinquant'anni fa, come nel secolo scorso, il bacino aveva una superficie di quasi mille chilometri quadrati
667 kmq
Oggi l'area occupata si è ridotta a soli 667 chilometri quadrati, e il livello delle acque si riduce di un metro l'anno

di Carla Reschia

 
Il Mar Morto sta morendo: è un pessimo gioco di parole, ma è decisamente vero. Da tempo il bacino d'acqua che forma la depressione più profonda della Terra tra Israele, Giordania e Cisgiordania sta scendendo al di sotto dei 423 metri certificati sotto il livello del mare (erano 394 negli anni '60). E si restringe, perdendo un metro all'anno: sono otto milioni i metri cubi d'acqua che evaporano quotidianamente. In più, nelle aree scoperte si formano e si moltiplicano i sinkholes, voragini del diametro di diversi metri: il primo di questi cedimenti del terreno fu registrato nel 1980, oggi se ne contano a migliaia.
   Ci dovrebbe pensare il fiume Giordano, suo unico immissario, a ricolmare il lago. Ma il fiume è munto senza pietà dai prelievi d'acqua per l'irrigazione. Il risultato è ben visibile nelle immagini dal satellite: il Mar Morto è diviso in due bacini, con quello inferiore - da sempre meno profondo - ridotto a una serie di aree di evaporazione da cui vengono estratti cloruro di potassio, bromo, magnesio e altri minerali di cui sono ricche le sue acque, otto volte più salate di quelle marine, utili per produrre cosmetici e fertilizzanti. Ma la ritirata delle acque è un'esperienza che può raccontare chiunque abbia visitato l'area negli ultimi 15-20 anni: hotel che si affacciavano sulla spiaggia ora persi nel deserto, il corso della strada litoranea ormai lontano dalla costa, resort abbandonati alla sabbia, la rocca di Masada da cui si contempla solo la striscia di terra che divide in due il lago.
   Vittima della fragilità del suo ecosistema, dello sfruttamento umano e del cambiamento climatico, il Mar Morto potrebbe evaporare completamente in una cinquantina d'anni o meno, lasciando al suo posto un instabile deserto salino. Anche i modelli climatici indicano il progressivo inaridimento della regione, con Israele che affronta il suo quinto anno di siccità.
   È uno scenario che si è già verificato: secondo una ricerca presentata nel 2011 all'Associazione dei geofisici americani, 120mila anni fa il Mar Morto era del tutto prosciugato per effetto delle alte temperature dell'interglaciazione Rìss-Würm, la più lunga e calda, iniziata 130mila anni fa e terminata 114mila anni fa. Lo studio degli strati di roccia mostra anche periodi in cui invece occupava tutta la valle, e il livello dell'acqua era 260 metri più alto.
   La crisi attuale è reversibile? I progetti seguono puntuali agli allarmi, ma restano lettera morta. Dagli anni '70 torna ciclicamente l'ipotesi di un canale - o un tunnel, o un acquedotto - tra il Mar Rosso e il Mar Morto (o tra il Mediterraneo e il Mar Morto), che oltre a rialzare il livello dell'acqua servirebbe anche a generare energia elettrica grazie al dislivello. L'ultimo progetto, nel 2013, ha avuto l'avallo della Banca Mondiale, ma l'idea suscita perplessità tra gli ambientalisti, data la grande differenza di salinità tra i due mari e le peculiarità del bacino del Mar Morto. L'ultimo piano, il Red Sea - Dead Sea, approvato nel luglio scorso sia da Israele che dalla Giordania e dall'Autorità Palestinese, prevede la realizzazione di un grande impianto di desalinizzazione sul Mar Rosso, che garantirebbe preziosa acqua potabile, e un canale che raggiunga il Mar Morto per riversarvi la salamoia residua, affine per grado salino alle sue acque. Naturalmente è esclusa l'ipotesi più semplice: cessare i prelievi di acqua dal Giordano e fermare le estrazioni di minerali dal Mar Morto.
   Il «male» del Mar Morto è diffuso. In tutto il mondo i grandi laghi salati si stanno riducendo, e per gli stessi motivi. Dal Great Salt Lake dello Utah, negli Stati Uniti, al Lop Nur in Cina, al lago dalle acque rosse di Urmia, in Iran, al lago andino Poopò in Bolivia, ormai quasi scomparso fino al mare di Arai, è un lungo e triste elenco di meraviglie della natura in via di estinzione.

(La Stampa, 20 marzo 2018)


Mahmoud Abbas: c'è Hamas dietro l'attentato contro il premier Hamdallah

RAMALLAH - Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha accusato oggi il movimento islamista Hamas della responsabilità dell'attentato contro il premier Rami Hamdallah avvenuto lo scorso 13 marzo nella Striscia di Gaza, minacciando sanzioni legali e finanziarie contro il gruppo rivale. Lo riferisce l'emittente panaraba "Al Arabiya". Abbas aveva già in precedenza accusato il movimento islamista di avere una responsabilità nell'attacco contro Hamdallah, tuttavia solo oggi ha accusato apertamente il gruppo di essere "dietro l'attentato". Lo scorso 13 marzo, un ordigno esplosivo improvvisato è esploso al passaggio del convoglio del primo ministro palestinese Hamdallah nella parte settentrionale della Striscia di Gaza, senza causare morti, ma danneggiando alcune auto del convoglio. Secondo fonti locali, l'attacco sarebbe un messaggio della fazione di Hamas che si oppone alla riconciliazione con Fatah. Hamdallah era insieme ad alcuni esponenti di Fatah e doveva inaugurare dei nuovi progetti nell'enclave di Gaza. L'attacco è avvenuto mentre una delegazione della sicurezza egiziana stava facendo la spola tra Ramallah e Gaza nell'ambito degli sforzi del Cairo per favorire la riconciliazione intra-palestinese.

(Agenzia Nova, 19 marzo 2018)


Israele, la ministra consigliera Sharon Kabalo per la prima volta in Puglia

La visita istituzionale prevede l'incontro con il presidente dell'Autorità portuale del Mare Adriatico Meridionale, Ugo Patroni Griffi, e la visita della Farmalabor, una delle più importanti aziende farmaceutiche pugliesi.

La ministra consigliera israeliana Sharon Kabalo
"E' la prima volta che il ministro consigliere agli Affari economici, Sharon Kabalo, viene nel Sud Italia e il fatto che abbia scelto il nostro territorio mi riempie di profondo orgoglio". Così il console onorario di Israele per la Puglia, Luigi De Santis, annuncia la visita dell'importante esponente dell'Ambasciata Israeliana a Roma a Bari, Canosa e Molfetta. "Una full immersion di due giorni per incontrare esponenti istituzionali e visitare realtà produttive, eccellenze non solo pugliesi ma nazionali - continua De Santis - per intrecciare nuovi rapporti, ma anche per consolidare quelli già operativi".
La ministra consigliera Sharon Kabalo - che sarà sempre accompagnata in tutti gli spostamenti e appuntamenti dal console onorario De Santis - arriverà questa mattina a Bari. Nel primo pomeriggio incontrerà il presidente dell'Autorità portuale del Mare Adriatico Meridionale, Ugo Patroni Griffi. In seguito visiterà, a Canosa di Puglia, una delle più importanti aziende farmaceutiche, FARMALABOR, ad accoglierla l'amministratore delegato Sergio Fontana, presidente Confindustria Albania e vice presidente Confindustria Bari-Bat.
Il giorno dopo, martedì 20 marzo, in mattinata, parteciperà, insieme all'assessore regionale allo Sviluppo Economico, Michele Mazzarano, a Villa Romanazzi Carducci al seminario "L'ecosistema dell'Innovazione in Israele e le opportunità di cooperazione".
A seguire, nel corso della giornata avrà incontri a Bari con il presidente di Confagricoltura Puglia, Donato Rossi, il direttore generale della Asl di Bari, Vito Montanaro. Nel primo pomeriggio, infine, visiterà a Molfetta, una delle realtà italiane più importanti nel settore dello sviluppo tecnologico, EXPRIVIA. Qui ad attenderla ci sarà il presidente Domenico Favuzzi, già presidente Confindustria Puglia.

(IlikePuglia, 19 marzo 2018)


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"Ci sono grandi possibilità di collaborazione fra Puglia e Israele"

 
 
Porti pugliesi e ricerca farmacologica, ministro consigliere israeliano, Sharon Kabalo: "Ci sono grandi possibilità di collaborazione fra Puglia e Israele"
I porti pugliesi che possono diventare per Israele un nuovo punto di accesso per l'Europa e una nuova sinergia fra l'eccellenza farmaceutica pugliese e le aziende di ricerca farmacologica israeliana.
Sono questi i risultati dei primi incontri tenuti oggi dal ministro consigliere agli Affari Economici dell'Ambasciata Israeliana, Sharon Kabalo, nella prima delle due giornate in Puglia.
Accompagnata dal console onorario di Israele, Luigi De Santis, Kabalo è stata prima dal presidente dell'Autorità Mare Adriatico Meridionale, Ugo Patroni Griffi.
"Stiamo valutando concrete operazioni di cooperazione - ha detto Kabalo -, la Puglia con i suoi 800 chilometri di costa e' di grande interesse per Israele, anche in virtù della sua vicinanza. I suoi porti possono diventare per noi una nuova porta verso l'Europa sia per gli scambi mercantili e tecnologici sia per quelli turistici. Con il presidente Patroni Griffi stiamo anche valutando uno studio che metterebbe in sinergia i porti pugliesi con quelli tirrenici della Campania e quelli israeliani, nei prossimi mesi avremo un incontro con il presidente dell'Autorità Mare Tirreno Centrale, Pietro Spirito, proprio per esplorare e potenziare sul piano marittimo innovazioni e tecnologia"
Nel pomeriggio il ministro consigliere israeliano ha visitato Farmalabor: "Israele investe e sostiene tantissimo la ricerca farmaceutica e sanitaria - ha concluso Kabalo - ci piacerebbe tantissimo iniziare un rapporto di interscambio con quella che è un'eccellenza italiana nel campo farmaceutico, uno scambio di esperienze che potrebbe interessare soprattutto giovani ricercatori".

(Puglia live, 19 marzo 2018)


Orlando: serve un'alleanza di più paesi contro l'antisemitismo sul web

Il ministro della Giustizia a Gerusalemme per il Forum internazionale per combattere l'antisemitismo

di Fabiana Magrì

«La mia presenza ha una valenza particolarmente forte nell'anniversario delle leggi razziali nel nostro paese. L'Italia vuol essere qui anche per non rimuovere le responsabilità storiche che purtroppo il nostro paese si porta dietro.» Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando si trova a Gerusalemme per il Forum internazionale per combattere l'antisemitismo che inaugura questa sera. Domani interverrà in un panel con gli omologhi di Israele, Grecia e Malta. «Il tema su cui collaborare, anche al di là dell'evoluzione del quadro normativo, è un'azione comune per contrastare i reati d'odio nella loro diffusione sulla rete. Con la Ministra israeliana ho avuto un incontro a Parigi a latere di un vertice OCSE e abbiamo già valutato la possibilità di creare forme di cooperazione e l'Unione Europea ha firmato un protocollo con le piattaforme della rete per chiedere la rimozione dei contenuti d'odio. Credo che un'alleanza di più paesi sia una delle condizioni per battere questa vera e propria escalation attraverso i nuovi mezzi d'informazione. Fenomeno fatto sia di contenuti espliciti ma talvolta - ed è anche più insidioso - di vere e proprie leggende nere, diffuse come presupposto a un clima che genera l'odio razziale, religioso o di genere».

(La Stampa, 19 marzo 2018)


Israele: la sicurezza arresta l'assassino del rabbino Ben Gal

Le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato l'uomo ritenuto responsabile dell'attacco terroristico che portò lo scorso febbraio alla morte del rabbino Itamar Ben Gal ad una fermata di autobus nei pressi dell'insediamento ebraico di Ariel in Cisgiordania.
Lo ha annunciato lo Shin Bet (la sicurezza interna di Israele) al termine di una lunga caccia all'uomo durata più di un mese. Abed al-Karim Assi (19 anni) è stato arrestato nella città palestinese di Nablus insieme a altri sospetti in un'operazione congiunta tra polizia, esercito e Shin Bet.
Ben Gal (29 anni), padre di 4 figli, è stato accoltellato a morte lo scorso 5 febbraio in un attacco mentre aspettava l'autobus: il suo assassino - come mostrano le immagini di un video diffuso in rete - dopo essere sceso da un taxi si era avventato contro di lui colpendolo più volte. Poi si era dileguato.

(swissinfo.ch, 19 marzo 2018)


Arrestato a Gerusalemme un impiegato consolare francese

L'uomo è stato ammanettato insieme a nove palestinesi

Un cittadino francese impiegato nel Consolato francese di Gerusalemme è stato arrestato dalle autorità israeliane perché sospettato di aver utilizzato un veicolo diplomatico per trafugare da Gaza in Cisgiordania - in cinque occasioni diverse - 70 pistole e due fucili d'assalto.
Lo ha reso noto un portavoce dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano) secondo cui con lui sono stati arrestati anche nove palestinesi. Le indagini, precisa lo Shin Bet, si sono svolte in coordinamento col Ministero degli esteri israeliano che ha tenuto costantemente informate le autorità francesi. Secondo il comunicato il cittadino francese è sospettato di aver agito per lucro, di propria iniziativa e all'insaputa dei suoi superiori. ''Si tratta di un episodio estremamente grave'' ha affermato un dirigente dello Shin Bet.
Da parte sua la stampa francese precisa che si tratta di uno degli autisti del Consolato.

(la Regione, 19 marzo 2018)


Shanghai e il console Ho, la Cina che salvò gli ebrei

La città ospitò diciottomila ebrei in fuga dalla Shoah: un volume domani in uscita svela un'epopea dimenticata.

di Marco Del Corona

La voce si sparse tra gli ebrei di Vienna nell'estate del 1938, quando l'Austria era già stata incorporata nel Terzo Reich con l'Anschluss: il consolato cinese rilasciava visti grazie ai quali era possibile raggiungere Shanghai. In altre parole: salvarsi. Dietro la generosità della rappresentanza diplomatica della Repubblica di Cina non stava una scelta strategica del governo nazionalista di Chiang Kai-shek ma la decisione personale del console, Ho Feng Shan. Che, in contrasto con le indicazioni dei superiori, si mise a concedere visti, uscendo indenne anche da un'indagine disciplinare.
Ho aveva agito deliberatamente per consentire agli ebrei austriaci e tedeschi, ormai sul ciglio della Shoah, di mettersi in salvo. Come scrive Nissim, aveva scelto «la difesa del carattere morale» della propria patria. Un «Giusto tra le nazioni», Ho, al quale la scorsa settimana Milano ha dedicato una piazzetta nella zona di via Paolo Sarpi, tra le più antiche Chinatown d'Europa (che, peraltro, patì a sua volta l'applicazione delle leggi razziali fasciste).
L'epopea di speranza della metropoli cinese, pagina laterale ma significativa della tragedia della Shoah, è raccontata ora da Ebrei a Shanghai. Storia dei rifugiati in fuga dal Terzo Reich (ObarraO) curato dalla storica Elisa Giunipero, direttore dell'Istituto Confucio dell'Università Cattolica di Milano, con testi di Li Tiangang, Agostino Giovagnoli, Gabriele Nissim e Sonja Mühlberger e la prefazione di Paolo Salom. Città cosmopolita, sede di concessioni straniere, «Parigi d'Oriente» per quanto in declino, Shanghai ospitava già una forte comunità occidentale, con una significativa presenza di famiglie ebree. Nel caos seguito all'invasione nipponica le particolari condizioni amministrative e logistiche consentirono di accogliere gli ebrei in fuga: oltre 18 mila. Lì, non solo fra i cinesi ma persino fra i giapponesi alleati dei nazisti, l'antisemitismo non aveva presa.

(Corriere della Sera, 19 marzo 2018)


Gerusalemme, una nuova vittima del terrorismo palestinese

Adiel Kolman è la nuova vittima del terrorismo palestinese. L'uomo, 32 anni e padre di quattro figli, è stato pugnalato a morte ieri dal suo aggressore - 28enne proveniente da Aqraba, cittadina nei pressi di Nablus, nel nord della Cisgiordania - mentre si trovava nel quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme. A riportare la notizia dell'attentato, solo La Stampa in una breve in cui si ricorda che l'attacco di ieri "arriva due giorni dopo l'uccisione di due soldati israeliani, investiti da un palestinese in auto nei pressi di un insediamento in Cisgiordania".

(moked, 19 marzo 2018)


Uccidere a freddo, senza risentimenti personali, senza averne alcun beneficio e senza neppure sperare di averne qualcuno in futuro, ma solo come espressione di puro odio, è il massimo della perversione morale. E chi giustifica o dice di comprendere una simile perversione, vi partecipa. M.C.


Israele: cosa è il COGAT e come contribuisce allo sviluppo e al benessere dei palestinesi

Unità che si impegna nel promuovere e attuare aiuti in materia civile, per facilitare le questioni umanitarie, economiche e infrastrutturali nel cosiddetto West Bank e Striscia di Gaza.

Secondo fonti dell'esercito israeliano ogni anno migliaia di pazienti palestinesi residenti nella Striscia di Gaza entrano in Israele per ricevere cure mediche, la maggior parte di essi sono malati di cancro.
"Centinaia di pazienti da Gaza entrano in Israele ogni giorno per ricevere cure mediche", afferma un portavoce del Coordination of Government Activities in the Territories (COGAT).
Presso l'Al-Shifa Hospital di Gaza si registra una grave mancanza di attrezzature per la radioterapia, come spiega Jaled Thabet, capo del reparto oncologico dell'ospedale, all'agenzia di stampa spagnola EFE. Il motivo è che purtroppo, la Striscia di Gaza è controllata dall'organizzazione terroristica di Hamas, che cerca costantemente di sfruttare gli aiuti destinati ai civili palestinesi per fini terroristici, danneggiandoli direttamente....

(Progetto Dreyfus, 19 marzo 2018)


Israele ospita il primo vertice mondiale Forbes Under 30

Il primo Forbes Under 30 Summit Global avrà luogo dal 6 al 9 maggio 2018 in Israele. Il convegno riunirà circa 800 giovani imprenditori di maggior successo presenti nella classifica 30 Under 30 (una top list dei migliori giovani nominati nelle varie categorie delle diverse liste in tutto il mondo).
Queste le parole di Randall Lane, direttore di Forbes:
Questo vertice rappresenta un vero crocevia, un incontro di persone che aiuteranno a gestire ogni settore di ogni paese per il prossimo mezzo secolo.
Il Forbes Under 30 Summit è un'estensione dell'annuale 30 Under 30 US list. I partecipanti al Summit Global saranno selezionati tra 30 liste Under 30 negli Stati Uniti, Europa, Asia, Africa e Medio Oriente.
L'obiettivo del summit è quello di promuovere idee e collaborazioni rivoluzionarie.
I quattro giorni di convegno includeranno panels, performance, dimostrazioni di prodotti e idee fondamentali per mettere in evidenza la cultura di Israele. I punti salienti dell'itinerario includono la Borsa di Tel Aviv, un giro nei bar e ristoranti nel famoso mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme, un festival musicale e una festa in spiaggia a Tel Aviv con piatti tipici della cucina arabo-israeliana.

(SiliconWadi, 19 marzo 2018)


Anche la sinistra può essere antisemita

Le rivelazioni su Corbyn e la cecità del Labour

Scrive il Times (14/3)

David Collier è un ebreo britannico che dedica gran parte della sua vita alla cronaca degli atteggiamenti anti-israeliani e anti-ebraici che sono diventati epidemici nella vita politica e intellettuale. La settimana scorsa, ha prodotto un rapporto di 280 pagine che esponeva un gruppo segreto di Facebook chiamato 'Palestine Live', un forum pro-palestinese e anti-israeliano creato nel 2013 i cui membri includevano politici e altri membri del Partito laburista e della sinistra. Questo gruppo era un vero e proprio pozzo nero dell'antisemitismo. Collier ha rivelato con abbondanti dettagli il suo ribollente odio per gli ebrei. I membri sostenevano che gli ebrei fossero 'demoni', che fossero dietro l'attacco terroristico dell'11 settembre e di Parigi del 2015, che controllassero i media e la finanza e che fosse una 'cabala' a tirare le fila della politica americana. La rivelazione più esplosiva di Collier, tuttavia, fu che Jeremy Corbyn ne faceva parte dal 2013 o dall'anno successivo fino al 2015". Così Melanie Phillips sull'antisemitismo nel Labour:
    "Il Partito laburista trova impossibile affrontare l'antisemitismo nei suoi ranghi più ampi perché questo è un problema che non andrà via. Per la sinistra, colpire Israele e sostenere i palestinesi è una nobile causa. Quindi non c'è motivo di sospettare che chiunque sia associato ad esso sia diverso. Questo significa ignorare la connessione simbiotica tra Israele e l'antisemitismo. No, ciò non significa che la critica a Israele sia antisemita. E' legittimo come la critica di qualsiasi altro paese. Il modo in cui viene trattato Israele, tuttavia, è totalmente diverso dal trattamento di qualsiasi altro paese. Stiamo parlando della demonizzazione: una campagna unica basata interamente su maltrattamenti maliziosi, che accusano Israele di crimini di cui non solo è innocente, ma in realtà è la vittima. Questa campagna impiega luoghi comuni diffamatori e incendiari - come l'uccisione volontaria di bambini - per presentarli come una cospirazione globale e una minaccia per il mondo. Questi sono tutti i segni del classico antisemitismo attraverso i secoli. La sinistra, tuttavia, crede in perfetta fede che si regga solo per cose buone come la coscienza e i diritti umani. Di conseguenza, solo la destra può essere antisemita. La sinistra 'antirazzista' crede di essere totalmente incapace di antisemitismo. Quindi è cieca. Sostiene i palestinesi perché ritiene che, come il resto del mondo in via di sviluppo, siano vittime dell'occidente e quindi il loro terrorismo e il rifiuto di Israele debbano essere giustificati o condonati come 'resistenza'. Eppure i palestinesi, insieme a gran parte del mondo arabo e musulmano, pompano costantemente diffamazioni antisemite di stampo nazista contro Israele e il popolo ebraico. La sinistra non può ammettere che quelli che sostiene siano vittime: sono in realtà antisemiti".
(Il Foglio, 19 marzo 2018)


La musica dovrebbe abbattere le barriere, non crearle

Sono molti gli artisti che, rischiando l'ostracismo, rifiutano di boicottare Israele. Anche la musica è stata inquinata dal pregiudizio politico anti israeliano

di Luca D'Ammando

 
C'è chi vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della Terra attraverso le bombe e chi utilizza i media e la cultura per diffondere un messaggio antisemita. Non smette di allungarsi la schiera di artisti che considera lo Stato israeliano il nemico da combattere. Il caso più recente è quello di Lorde. La giovane popstar neozelandese, salita alla ribalta mondiale con Royals, ha cancellato il concerto programmato per il 5 giugno a Tel Aviv, esibizione che avrebbe dovuto concludere il suo tour mondiale "Melodrama". Per spiegare la sua decisione, ha fatto sapere di aver ricevuto un «numero enorme di messaggi e lettere» dai suoi fan favorevoli al boicottaggio. «Ho parlato con molte persone sull'argomento e considerato tutte le opzioni. Grazie per avermi istruito, imparo sempre», ha aggiunto la 21enne su Twitter. Mentre il ministro della Cultura israeliano, Miri Regev, ha chiesto a Lorde di riconsiderare la sua decisione, senza successo, il rabbino americano Shmuley Boteach ha comprato un'intera pagina del Washington Post per contestare la cantante. «Lorde si è unita al boicottaggio globale antisemita contro Israele ma si esibirà in Russia nonostante il sostegno di Putin al genocidio di Assad in Siria», è stata l'accusa di Boteach, che ha denunciato inoltre come in Nuova Zelanda, patria dell'artista, «un crescente pregiudizio contro lo stato ebraico abbia ormai raggiunto anche la sua gioventù». Va ricordato infatti che la Nuova Zelanda è stato uno dei Paesi a votare all'Onu contro la decisione del presidente Usa Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele. La rinuncia di Lorde rappresenta l'ultimo "successo" del movimento Bds (Boycott, Divestment and Sanctions) che ha lanciato la campagna contro Israele richiamandosi addirittura a quella avviata a suo tempo contro il regime sudafricano responsabile dell'apartheid. Molti gli artisti che hanno seguito i proclami di Bds: per restare nel mondo della musica si va da Brian Eno a Roger Waters, da Elvis Costello a Lauryn Hill. E poi gli scrittori Arundhati Roy e Eduardo Galeano e il regista Ken Loach.
   Eppure sono molti i grandi artisti che hanno ignorato la pressione del movimento di boicottaggio e si sono esibiti in Israele negli ultimi anni. Elton John, Leonard Cohen, Lady Gaga, Rihanna, i Metallica, Madonna, Paul McCartney, i Red Hot Chili Peppers, i Rolling Stones, sono per citarne alcuni. Da ultimo le richieste del movimento non hanno avuto effetto su Nick Cave, che lo scorso novembre ha fatto registrato due sold out a Tel Aviv. Gli «Artisti per la Palestina», con in testa l'ex Pink Floyd Roger Waters - ormai ossessionato da questa causa - avevano pubblicato una lettera aperta a Cave invitandolo a non suonare in Israele «finché ci sarà l'apartheid». Lettera a cui l'artista australiano ha risposto a tono, accusando il movimento Bds di cercare di dividere i musicisti, «bulleggiandoli» e «imbavagliandoli». Cave ha anche aggiunto di «aver preso una posizione di principio» scegliendo di esibirsi a Tel Aviv: «I musicisti che ora suonano in Israele ora sono costretti a subire le umiliazioni pubbliche di Roger Waters e compagnia».
   Stessa dinamica era avvenuta pochi mesi prima con i Radiohead, aggrediti pubblicamente dalla cricca di artisti anti-israeliani, e poi regolarmente saliti sul palco a Tel Aviv. «In molti hanno parlato di questo concerto, ne ho lette di tutti i colori. Alla fine abbiamo suonato la nostra musica», è stato il commento di Thom Yorke allo Yarkon Park prima di salutare i fan israeliani. «La musica e l'arte devono superare i confini, non crearne di nuovi. Noi ci occupiamo di menti aperte, non chiuse», ha spiegato il frontman dei Radiohead. Un messaggio che difficilmente farà breccia nelle menti degli odiatori di Israele.

(Shalom, febbraio 2018)


Milano-Sanremo, israeliani protagonisti

Nibali si volta a guardare Neilands poi decide di andarsene
Continua a stupire la Israel Cycling Academy, la prima squadra professionistica israeliana di ciclismo che sarà al via del prossimo Giro d'Italia. Protagonista in ogni tappa alla Tirreno - Adriatico appena pochi giorni fa, ieri ha nuovamente lasciato il segno in quella che è considerata una delle 'classiche' di primavera per eccellenza: la Milano-Sanremo. Quasi trecento chilometri dalla pioggia lombarda al sole ligure in cui la Academy ha dato prova di grande forza e compattezza. Due uomini in fuga per quasi tutta la tappa (tra cui l'israeliano Guy Sagiv, già distintosi alla Tirreno-Adriatico) e il campione lettone Krists Neilands a tentare il colpaccio, sul mitico Poggio ai sette chilometri dal traguardo.
Un'azione che ha innescato il controscatto di Vincenzo Nibali, poi vincitore sul traguardo di Sanremo.

(moked, 18 marzo 2018)


Scoperto un nuovo tunnel di Hamas a Gaza

Le forze israeliane hanno scoperto e demolito un nuovo tunnel scavato nella Striscia di Gaza dai militanti di Hamas per pianificare attacchi transfrontalieri.
   Il tunnel in questione era già stato sventato durante l'operazione militare Margine di Protezione, avvenuta nell'estate del 2014 all'interno del più ampio conflitto della Striscia di Gaza tra le forze israeliane e i guerriglieri palestinesi di Hamas. Il gruppo terroristico Hamas ha cercato di ripristinare la galleria e renderla nuovamente operativa, secondo quanto riportato da un portavoce dell'esercito israeliano. Il passaggio sotterraneo sarebbe stato scavato all'interno dell'enclave attualmente nelle mani di Hamas, a svariate centinaia di metri di distanza dalla rete di confine con Israele. Per bloccare il tunnel, le forze israeliane non hanno dovuto attraversare la frontiera, bensì si sono avvalse di una nuova tecnica militare, spiegata ai giornalisti dal tenente colonnello Jonathan Conricus. Egli ha spiegato che non c'è stato bisogno di usare ordigni esplosivi, ma è bastato riempire il passaggio con una sostanza particolare, un composto da poco brevettato dall'esercito.
   Il ministro della Difesa israeliano ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che, per mezzo delle più evolute tecnologie di cui il Paese dispone e tramite la collaborazione delle forze di intelligence, Israele sta distruggendo, uno ad uno, tutti i tunnel scavati dai membri di Hamas.
   Un portavoce di Hamas, l'organizzazione terrorista palestinese politica e paramilitare operante nella Striscia di Gaza, e principale avversario di Israele, ha riferito che l'esercito israeliano sta millantando falsi risultati, con lo scopo di risollevare il morale dei soldati e dei civili residenti nei pressi dell'enclave.
   Israele ritirò le proprie truppe da Gaza nel 2005, ma ad oggi mantiene uno stretto controllo dei propri confini marini e terrestri. In egual misura, l'Egitto pattuglia rigidamente i propri confini con Gaza per le medesime questioni di sicurezza. Durante il conflitto scoppiato nella regione l'8 luglio 2014 e culminato con un cessate-il-fuoco da ambo le parti il 26 ago dello stesso anno, i combattenti di Hamas usarono decine di tunnel per aggirare le forze militari israeliane, di numero superiore. Da quel momento in poi, Israele ha iniziato a mettere a punto avanzati sistemi per sventare tali strategie palestinesi, tra cui una barriera sotterranea fornita di sensore che occupa tutti i 60 km del confine di Gaza. Tale progetto, costato un miliardo e 100 milioni di dollari, vedrà la luce definitivamente entro la metà del 2019.
   L'ultima operazione condotta da Israele nei confronti delle gallerie palestinesi di Hamas nella regione e divulgata pubblicamente risale al mese di gennaio. In tale occasione, le forze israeliane hanno reso noto che il passaggio scoperto collegava Hamas anche con il vicino Egitto.

(Sicurezza Internazionale, 18 marzo 2018)

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Netanyahu: fondi per Gaza usati per i tunnel

Dopo la scoperta di altre due gallerie sotterranee di Hamas

"E' arrivato il momento che la comunità internazionale realizzi che i fondi di assistenza per Gaza vengono sepolti sotto terra". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu dopo la scoperta e la distruzione da parte dell'esercito di due strutture sotterranee costruite da Hamas a Gaza. "La nostra politica - ha aggiunto - è quella di entrare in azione contro ogni tentativo di attaccarci e di eliminare sistematicamente le infrastrutture terroristiche dei tunnel. E così continueremo".

(ANSAmed, 18 marzo 2018)


Andreina Contessa ripercorre la storia dell'ebraismo mantovano

di Annalisa Antonini Grossi

“Mantova e Gerusalemme. Arte e dei Gonzaga" è il titolo di un prezioso libro scritto dalla dottoressa asolana Andreina Contessa, corredato da splendide fotografie di Stefano Solazzi e presentato sinora solo a Gerusalemme e Tel Aviv. Venerdì 9 marzo l'autrice, che ha vissuto trent'anni in Israele diventando conservatrice del Museo di arte ebraica italiana "Umberto Nahon" a Gerusalemme e che attualmente è direttrice del Museo storico e parco del castello di Miramare a Trieste, prima di altre tappe mantovane ha voluto farne parte alla comunità del proprio paese nella sala dei Dieci del Comune di Asola. L'arte, la ricerca appassionata e la storia si sono intrecciate inaspettatamente e felicemente con l'universo femminile. Andreina Contessa, introdotta dall'amica Francesca Zaltieri, vicepresidente della Provincia di Mantova, e presentata da Luisa Genevini, assessore comunale alla Cultura, ha voluto dedicare alla madre la sua opera in cui si rivelano importanti figure di donne del Rinascimento mantovano. In quell'epoca la comunità ebraica di Mantova era una delle più numerose d'Italia. Vivace e intraprendente, viveva buoni rapporti sociali ed economici con la parte cristiana, con i Gonzaga e la Chiesa. Il contesto culturale, con Isabella come marchesa, era fecondo di arte e bellezza. Mantova contava allora nove sinagoghe ricche di opere che ora, in gran parte, si trovano al Museo "Nahon" di Gerusalemme. Andreina Contessa ha scoperto che due dei più pregevoli oggetti sacri qui custoditi, la splendida Arca della Torah di Mantova-Sermide del 1543, la seconda più antica del mondo, e il Mahzor, libro di preghiere scritto e illustrato stupendamente, nacquero per volontà di una donna: Consiglia Sara Norsa. Pur sapendo che la committenza femminile nel Rinascimento era legata a doni devozionali cui affidare la propria memoria, questa nuova conoscenza in ambiente ebraico apre orizzonti inattesi. Contessa ha raccontato in maniera competente e coinvolgente la storia dell'ebraismo mantovano e della sua produzione artistica insieme a vicende umane esemplari, rivelando e facendo apprezzare un mondo complesso e coraggioso come quello ebraico di cui molto si parla, ma che poco si conosce veramente.

(Cittadella di Mantova, 18 marzo 2018)


Il gioco sporco dell'Università di Torino

Ancora una volta l'ateneo del capoluogo piemontese si dimostra ostile alle ragioni dello Stato di Israele. La denuncia di Emanuel Segre Amar, presidente del Gruppo Sionistico Piemontese.

di Emanuel Segre Amar

Il cammino della Università di Torino sembra procedere spedito nella direzione indicata da tempo da professori virulentemente antisionisti oggi in pensione, come Angelo d'Orsi, che sembrano aver "ben seminato". Da oltre un anno, personalmente colpito nel vedere che alcuni dipartimenti di questa Università organizzavano seminari ferocemente anti israeliani, nei quali tuttavia il Magnifico Rettore riscontrava il crisma della "scientificità", ho cercato di aprire una finestra che guardasse ad Israele in modo corretto. In fondo, mi chiedevo, se ai convegni organizzati da dipartimenti universitari come quello denominato "Culture, Politiche, Società", si aggiungevano i tanti organizzati da Progetto Palestina, da collettivi vari o da rappresentanti del BDS, perché il Gruppo Sionistico Piemontese non poteva far arrivare nelle aule universitarie dei giovani israeliani che raccontassero le loro esperienze dirette?

(Progetto Dreyfus, 18 marzo 2018)


Moshe è ebreo, la fidanzata no: la lite con la zia di lui

La difesa appassionata di Moshe nei confronti della fidanzata Cia durante un'interminabile conversazione via messaggio con la zia è sfociata in un furibondo dibattito religioso, la donna ha tentato di convincerlo a interrompere la relazione perché la ragazza non è ebrea.

 
Moshe e Cia
Moshe, avvocato di New York City, è di religione ebraica ma ora si dichiara ateo, un fatto che ha chiarito alla zia quando ha iniziato a mettere in discussione il motivo per cui usciva con una donna di religione diversa. Moshe ha condiviso sul web uno scambio di messaggi con la zia, che inizialmente l'aveva invitato a cena fuori per parlare di religione, dei progetti che aveva con la fidanzata, per capire se poteva far cambiare idea al nipote.
   "Ho sentito dai miei figli che frequenti una ragazza non ebrea, l'hanno visto su Facebook e vorrei parlarne. Voglio la tua felicità. Posso invitarti fuori a cena?". Moshe le spiega che da quattro anni è ateo e non vuole parlarne con lei perché sta benissimo con Cia, che è una "ragazza non ebrea bella dentro e fuori".
   Accetta l'invito ma sottolinea che non è interessato a parlare di religione e non vuole sentirsi in colpa perché frequenta Cia, scrive il Daily Mail. Ma la zia non è soddisfatta della risposta e scrive: "La scelta di avere una storia con una non ebrea, in futuro non ti darà la felicità".
   Messaggio dopo messaggio la conversazione si trasforma in un dibattito sulla religione, la zia gli ricorda "quanto sia importante continuare la nostra tradizione ebraica". Moshe ribatte dicendo che non importa chi sposa, è irrilevante se continua o meno la tradizione ebraica perché è ateo ma la zia non cede: "Se avrete dei figli saranno non ebrei e quella sarà la fine della tua discendenza ebraica".
   Continuano nel botta e risposta su quello che accadrebbe ai figli se sposasse una donna non ebrea e alla fine la zia commenta: "Questa conversazione non sta andando da nessuna parte. Voglio solo che tu sappia che mi importa molto del tuo futuro e voglio che tu sia felice". Moshe apprezza le parole gentili della zia e dice: "Grazie. Questa ragazza mi rende felice e credo che continuerà a essere così. Abbiamo un bel cucciolo che accresce la nostra felicità".
   Ad un certo punto la discussione diventa accesa poiché la zia sostiene che nella tradizione ebraica c'è molto di più di quello che pensa lui, "essere ebreo vuol dire che ami Israele e ti preoccupi per l'antisemitismo". Moshe si infastidisce dicendo che i non ebrei possono amare Israele e "non devi essere ebreo per preoccuparti dell'odio o dell'omicidio. Devi essere soltanto umano".
   Verso la fine dell'interminabile conversazione, la zia inizia a inviare al nipote fatti e statistiche sull'antisemitismo e sulla storia ebraica. Moshe cerca di tagliare corto dicendo: "Spero di aver reso chiare le mie convinzioni religiose. E' la mia vita e devo a me stesso la possibilità di essere felice". Ma la zia non molla: "Siamo in sintonia, anche io voglio che tu sia felice ma non credo che la tua scelta porterà la felicità, nel tempo ti pentirai. E' come lanciarsi da un aereo senza paracadute".
   Moshe conclude la conversazione scrivendo un lapidario: "Non sono affatto d'accordo ma sono contento che siamo in sintonia". Al sito Bored Panda, Moshe ha detto che la zia gli vuole bene ed è mossa da buone intenzioni. "Non tutti i familiari accettano il mio ateismo ma quasi tutti mi rispettano nonostante le convinzioni religiose". Alla domanda su quale religione lui e Cia sceglieranno per il cane Pebbles, Moshe ha risposto scherzando: "Deciderà quando sarà più grande".

(blitz quotidiano, 18 marzo 2018)



«La creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio»

Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza.
Dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, cap. 8


 


"Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni"

Presso il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) - Ferrara

Con la legge n. 91 del 17 aprile 2003, emendata dalla legge n. 296 del 27 dicembre 2006, è stato istituito il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) al fine di far conoscere la storia, il pensiero e la cultura dell'ebraismo italiano e promuovere attività didattiche, organizzare manifestazioni, incontri nazionali ed internazionali, convegni, mostre permanenti e temporanee, proiezioni di film e di spettacoli sui temi della pace e della fratellanza tra i popoli e dell'incontro tra culture e religioni diverse.
A tal riguardo, lo scorso 17 settembre, è stato siglato un protocollo di intesa fra il Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca e il MEIS al fine di realizzare attività di collaborazione su iniziative didattiche ed educative rivolte a studenti ed insegnanti delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado scolastico.
Le attività che il MEIS attualmente propone alle scuole ruotano intorno al percorso espositivo "Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni", inaugurato lo scorso dicembre alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
La mostra illustra l'unicità della storia dell'ebraismo italiano, descrivendo come la presenza ebraica si sia formata e sviluppata nella Penisola dall'età romana al Medioevo e come gli ebrei d'Italia abbiano costruito la propria peculiare identità, anche rispetto ad altri luoghi della diaspora. A introdurre i temi, l'installazione multimediale "Con gli occhi degli ebrei italiani", a cura di Giovanni Carrada (autore di "Superquark") e Simonetta Della Seta (Direttore del Museo).

(Miur, 17 marzo 2018)


A Milano il design di Dori Hazan, tra talento e una piccola vena di follia

Israeliano, classe 1989, laureato al Politecnico di Milano, l'artista/designer ha realizzato il suo sogno di creare uno spazio dedicato al design, specializzandosi in illuminazione e lighting design

 
MILANO - Sono tutti pezzi unici quelli esposti nello Studio milanese di Dori Hazan, dove il designer israeliano ha finalmente coronato il suo sogno. Arrivato da Israele (nasce a Eilat nel 1989) con una forte motivazione, una solida base culturale e una innata creatività, dopo essere stato etichettato come "folle", per alcuni progetti in cui il suo talento si è espresso ben oltre le convenzioni, Dori ha finalmente visto riconosciuto il suo stile personalissimo ed autentico.
Sono quattro le collezioni in edizione limitata esposte presso lo Studio Dori Milano, situato nel pieno centro della città. Opere che coniugano funzionalità ed aura artistica.Come racconta lo stesso designer, le sue fonti di ispirazione derivano principalmente dalla natura, ma anche dalla bellezza femminile, nobile, selvaggia, misteriosa e intelligente allo stesso tempo.
La sua specialità sono sicuramente le lampade, sottolinea Dori. In queste creazioni il design moderno si fonde a un approccio più artigianale e allo stesso tempo multidisciplinare, dove le materie prime utilizzate, anche le più ruvide e selvagge, sposano perfettamente la sinuosità e l'eleganza delle forme, e dove infine prevale sempre la cura del dettaglio.
Nella sua continua ricerca, il designer non tralascia infine la considerazione dei processi produttivi che saranno alla base della realizzazione delle sue creazioni e che, come lui stesso evidenzia, "sono parte integrante dell'attività di progettazione".
All'attivo ci sono inoltre una serie di collaborazioni prestigiose, in particolare quella con Pernod Ricard Italia, che ha commissionato al designer la realizzazione di una lampada a partire da una bottiglia di Absolut Vodka, esposta anche in occasione di un evento durante il Salone del Mobile 2017.

(Arte Magazine, 17 marzo 2018)


Don Carlo a Tel Aviv dirige Daniel Oren

Successo per l'opera verdiana con nuove tecniche recitazione

TEL AVIV - L'opera verdiana più adattata e rappresentata, Don Carlo conquista il palcoscenico dell'Opera House di Tel Aviv. Fino al 23 marzo, a Tel Aviv, il maestro Daniel Oren dirige la nuova produzione del capolavoro di Verdi.
Amore, amicizia, intrighi politici e la battaglia tra potere religioso e temporale: Don Carlo, su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dalla tragedia di Friedrich Schiller, parte dagli eventi storici di un personaggio classico come Carlos, Principe delle Asturie e svolge la trama della sua vita.
L'opera è considerata la migliore creazione musicale di Verdi, quella che ne esprime la visione del mondo liberal-umanista.
Unisce le qualità operistiche, a partire dalle tradizionali arie del Belcanto, duetti e ensemble creati appositamente ai grandi strumenti dell'opera francese. La produzione coinvolge un grande cast di cantanti e strumentisti, tra cui gli italiani Gustavo Porta nel ruolo di Don Carlo e Carlo Striuli in quello del monaco. Regia di Giancarlo Del Monaco-Zukerman.

(ANSA, 17 marzo 2018)


Israele, il suo ruolo strategico nell'area medio orientale

di Rebecca Mieli

Il 2017 è stato per Israele un anno fondamentale. In un anno gli scenari geopolitici dell'area mediorientale sono cambiati in maniera notevolmente radicale: la lenta fine della guerra in Siria, le politiche di Donald Trump, il rafforzamento della posizione iraniana al confine con la Siria, le problematiche interne legate alle accuse di corruzione contro Netanyahu e gli accordi di riconciliazione tra Hamas e Fatah.
   In primo luogo, la guerra in Siria è giunta alla sua fine. L'ISIS ha perso due dei pilastri sui quali l'organizzazione contava maggiormente: la leadership e la sovranità territoriale. Quello che era stato stabilito come un vero e proprio stato islamico si è trasformato in semplice, seppur sostanzioso, capitale umano radicalizzato. Qualsiasi futuro sceglieranno i Foreign Fighters, una via che comprenda la creazione di una nuova organizzazione terroristica, o il loro inglobamento da parte di Al Qaeda, o il tentativo di spostarsi per iniziare una nuova guerra contro "Al-Adou al-Baeed" (ovvero il nemico lontano, identificato nell'occidente), è certo che abbiano perso ogni possibilità di spodestare Assad dall'infuocato trono siriano.
   La Russia e l'Iran sono considerati ad oggi i veri vincitori della guerra. Negli ultimi mesi è emersa con chiarezza l'intenzione di Teheran di stabilire delle roccaforti in Siria, in particolare nelle zone dove potrebbe facilmente dialogare anche con Hezbollah. Il Golan è assolutamente intoccabile per Israele che ha paventato l'ipotesi di una vera e propria guerra qualora fosse impossibile convincere l'Iran a non avvicinarsi ai confini con lo stato ebraico.

(Report Difesa, 17 marzo 2018)


Un italiano a Tel Aviv

Nicola Trezzi, 36 anni, è il direttore del Cca: centro per l'arte contemporanea della città israeliana. Ed ora inaugura la sua prima mostra.

di Fabiana Magri

Nicola Trezzi
È stato un lungo corteggiamento quello tra Nicola Trezzi, italiano nato a Magenta nel 1982, e la città di Tel Aviv. Nel 2014, sei anni dopo il primo viaggio di lavoro in Israele come giornalista per Flash Art - anni trascorsi tra Praga (per la Prague Biennale Foundation), Parigi (come curatore di diverse mostre al Palais de Tokyo), Milano, Stoccolma, New York e Bali collaborando ad esposizioni e con spazi artistici di livello internazionale - Trezzi fu chiamato a dirigere il master in Fine Art della Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme. Qualche mese fa il passaggio alla direzione del Cca, Centro per l'Arte Contemporanea di Tel Aviv, nel ventennale della fondazione della principale istituzione israeliana per l'arte sperimentale contemporanea. Il Cca, nato appunto nel 1998 nel cuore di Tel Aviv, promuove la ricerca artistica locale, con uno sguardo al panorama internazionale. Il prossimo 30 marzo inaugura Kedem-Kadem-Kadima (fino al 26 maggio), prima mostra curata dal nostro Trezzi nel suo nuovo incarico. Le tre parole - kedem (antico), kodem {prima) e kadima (avanti) - hanno in ebraico la stessa radice. Tra gli artisti presenti, anche l'italiana Monica Bonvicini, con la sua iconica Hammering Out (an old argument). Molte opere saranno site-specific e alcune, per loro natura, si potranno vedere e scompariranno al termine della mostra. Che è anche un omaggio alla memoria di Jannis Kounellis (1936-2017), la cui ultima esibizione fu concepita e presentata proprio in Israele.

(la Repubblica, 17 marzo 2018)


Perché Israele vuole far vedere i Mondiali ai paesi arabi

La tv israeliana farà telecronache in arabo delle partite del torneo e le trasmetterà gratis. Gli egiziani son sospettosi ma contenti: l'alternativa era pagare

Spendere 45 dollari in una paese dove la somma può equivalere a uno stipendio mensile. Oppure guardare le partite dei Mondiali di calcio gratis, ma sul canale dello storico rivale e vicino di casa israeliano. Chissà se prevarranno le ragioni economiche o quelle politiche in Egitto il 14 giugno al fischio d'inizio della Coppa del Mondo in Russia.
  Kan, emittente pubblica d'Israele, ha da poco annunciato che trasmetterà anche in arabo telecronaca e commenti di tutti i match di Russia 2018. Oltre all'audience palestinese, l'obiettivo dell'inedita programmazione sembrano essere quei vicini come Egitto e Giordania - con cui Israele ha relazioni diplomatiche - e paesi vicini abbastanza da poter intercettare un segnale ma con i quali la possibilità di un confronto militare diretto resta sempre aperta, come il Libano.
  L'Egitto è il paese più interessato all'operazione: la sua nazionale si è qualificata ai Mondiali dopo 28 anni (l'ultima partecipazione era stata quella a Italia '90), facendo impazzire una popolazione innamorata del pallone. La tv di stato, però, non ha acquistato i diritti per trasmettere le partite. Come la maggior parte del mondo arabo, gli egiziani si affidano al Qatar quando si tratta di guardare il calcio, con abbonamenti a beIN, servizio dello stesso proprietario di al Jazeera. Ed è qui che una storia di solo pallone si trasforma in geopolitica.
  L'annuncio israeliano di voler fornire gratuitamente lo stesso servizio che al Jazeera dà a pagamento è stato visto da molti nella regione come una sfida diretta al Qatar isolato dal resto del Golfo, Emirati e Arabia Saudita, accusato d'essere sponsor regionale dell'islam politico, dei Fratelli musulmani.
  Nei delicati equilibri dell'area si individuano negli ultimi mesi impercettibili condivisioni di direzione tra due nemici su carta -Arabia Saudita sunnita e Israele: formalmente tra i paesi non esistono relazioni diplomatiche. Riad non riconosce neppure l'esistenza di Israele, ma la comune antipatia per l'Iran sciita, alleato del Qatar, avvicina i due rivali. "Uno schiaffo benvenuto al Qatar", così ha detto un commentatore egiziano alla notizia della programmazione calcistica israeliana. L'Egitto, nel torneo regionale politico, fa il tifo per sauditi ed Emirati.
  Dall'altra parte, non esiste una reale normalizzazione tra Cairo e Israele. Benché i due abbiano fatto pace nel 1979, e i militari egiziani abbiano un rapporto quotidiano e collaborativo con l'esercito israeliano nel tentativo di contenere gruppi jihadisti lungo il confine comune, i sentimenti di popolazione e stampa locale sono rimasti gelidi nei confronti di Israele. I vicini sono sempre al centro delle interpretazioni complottistiche nazionali. Così, per un altro commentatore tv, quell'Ahmed Moussa solidamente pro-regime, le telecronache della tv israeliana potrebbero veicolare messaggi destabilizzanti.
 
                                    Mohamed Salah                                                                   Mohamed Aboutrika
  Lo stesso giornalista ha più di una volta contrapposto politicamente le due star incontestate del calcio egiziano: Mohamed Salah, stella del Liverpool e idolo della nazionale egiziana, il giocatore che ha segnato il rigore del 2-1 contro il Congo nella partita che ha riportato a ottobre l'Egitto in Coppa del Mondo, e il veterano Mohamed Aboutrika, ex campione dell'Ahly ritiratosi nel 2013.
  Se Momo Salah è diventato il protetto della stampa di regime, l'egiziano dalle origini umili che porta la nobiltà del paese sui campi di calcio europei - e dona 300mila euro a un fondo di sviluppo creato dal presidente Abdel Fattah al Sisi -, Aboutrika è passato da eroe nazionale a traditore. Il suo endorsement nel 2012 al presidente dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi gli è costato l'inserimento sulla lista dei sostenitori del terrorismo e l'esilio. Eppure, forse anche l'euforia nazionale per la qualifica in Coppa del Mondo ha in queste ore spinto la Corte di Cassazione a rivedere la sua sentenza. Il paese attende il suo ritorno, mentre dall'autunno sui social gira l'hashtag #AboutrikaaiMondiali.
  La storia di Israele che diventa lo schermo sul quale parte del mondo arabo pazzo per il calcio finirà per guardare la Coppa del Mondo è soltanto uno degli episodi in cui in Medio Oriente la politica si fa a colpi di pallone: negli stadi della regione si solidificano o incrinano alleanze.
  A volte il calcio ha la meglio sulla politica: soltanto il pallone è riuscito infatti ad aprire una crepa nell'embargo al Qatar. Davanti alle lamentele di sauditi ed Emirati, che si sono rifiutati di spedire i propri giocatori a Doha e di riceverne le squadre durante l'Asian Champions League, la Federazione ha imposto il suo rifiuto. E i potentati si sono piegati: togliere ai sudditi il Campionato regionale è forse un rischio che neppure re ed emiri possono permettersi.
  I reali sauditi hanno optato per la diplomazia del pallone con il vicino Iraq. Qualche settimana fa si è giocata a Basra un'amichevole tra le due nazionali, densa di simbolismi e carica di politica. L'Iraq si è aggiudicato un solido 4 a 1 contro la nazione saudita che si era qualificata per i Mondiali di Mosca, ma il successo più importante è stato quello di immagine. La FIFA infatti decide questo mese se cancellare un lungo divieto di giocare partite ufficiali nel paese, legato ai conflitti lo hanno investito.
  C'è dell'altro però dietro alla partita di Basra. Erano anni che tra Riad e Baghdad le relazioni politiche e diplomatiche erano a pezzi. L'ambasciata saudita ha riaperto soltanto l'anno scorso. Dopo la caduta del rais Saddam Hussein nel 2003, la conseguente emarginazione della minoranza sunnita - una volta élite di governo -, le lotte settarie tra sunniti e sciiti e l'espansione dell'influenza dell'Iran, arcirivale di Riad, i rapporti con l'Arabia Saudita sono precipitati. Il fatto che si sia giocato a Basra, nel sud del boom petrolifero lontano dalle battaglie contro l'Isis, è carico di simbolismo: la città è sciita.
  La diplomazia del pallone apre così un'era di disgelo con una telefonata post partita di re Salman al premier iracheno Haider al Abadi, e una promessa: un nuovo, gigantesco stadio di calcio a Baghdad pagato tutto da Riad.

(Il Foglio, 17 marzo 2018)


Air India, spazio aereo Arabia Saudita "aperto" per raggiungere Israele

Dal 22 marzo "permesso" di sorvolo all'insegna della "distensione" per una rotta più breve con risparmio sui costi d'esercizio

I voli di Air India diretti in Israele potranno sorvolare lo spazio aereo saudita. Il permesso di transito scatta giovedì 22 marzo e consente di seguire una rotta più breve con risparmio sui costi di esercizio. I voli da New Delhi a Tel Aviv, operati con frequenza trisettimanale (martedì, giovedì e domenica), impiegheranno 7 ore e 10 minuti.
Il via libera da parte dell'Arabia Saudita al sorvolo del proprio spazio aereo per i collegamenti con Israele ha una doppia valenza, politica e commerciale. Il regno di Ryad, infatti, non consente, come altri stati arabi del Medio Oriente, alle compagnie aeree di transitare sul proprio spazio aereo se sono dirette nello Stato ebraico, con cui appunto l'Arabia saudita non ha relazioni diplomatiche.
L'attraversamento dell'Arabia Saudita permetterà ad Air India di risparmiare circa due ore di tempo nel volo ma soprattutto, segna un significativo successo nella campagna dello stato ebraico per maggiori e nuovi legami con il Golfo. Da parte sua El Al, compagnia di bandiera di Israele, che oggi impiega circa 8 ore e mezza per arrivare in India, sarà aiutata dallo Stato per le perdite economiche dovute alla "nuova rotta" rispetto al concorrente indiano.

(Teleborsa, 17 marzo 2018)


La Giornata della Memoria Corta

Berto l'edicolante

di Mario Pacifici

Sebbene sia nato dopo la guerra, Berto si considera un testimone della Shoah. Sa di non esserlo, naturalmente, ma con due nonni trucidati a Treblinka, potrebbe accreditarsi in qualunque Tribunale della Storia come persona informata dei fatti. O per dirla con Dina Vardi come una Candela della Memoria.
Fin dall'infanzia è cresciuto nella consapevolezza della tragedia. In casa se ne parlava e suo padre non aveva mai voltato pagina. Quell'incubo lo aveva perseguitato covando al margine della sua vita e gli anni non lo avevano rimosso. Berto aveva dovuto imparare a convivere con quelle ombre e già adolescente aveva tentato di metabolizzarle, leggendo tutto quello che gli era capitato a tiro. Narrativa, inchieste, testimonianze. Aveva attinto ovunque, con una domanda fissa in mente: come è stato possibile? Quella domanda, cui non aveva mai trovato un'adeguata risposta, ne presupponeva una seconda, ancor più inquietante: come evitare che possa ripetersi?
Berto aveva trovato in Simon Wiesenthal ed Elie Wiesel risposte diverse e complementari che non aveva faticato a fare proprie. Reprimere in modo esemplare. Rendere la memoria indelebile.
Il mondo intero sembrava aver recepito quegli auspici. Processi, opere letterarie, viaggi della testimonianza avevano dato loro concretezza, facendo della Shoah uno spartiacque della civiltà.
Never again! Mai più! E la Giornata della Memoria aveva dato a quel giuramento una sua ritualità e una sua liturgica concretezza. Ora, Berto di tutto questo è perfettamente consapevole ma proprio quella ritualità del ricordo e quella liturgia delle commemorazioni lo rendono scettico e sospettoso. Dov'è l'emozione? Dov'è la sofferenza? Dov'è la caparbia determinazione del giuramento? Tutto si consuma, di anno in anno, in una melassa di buoni sentimenti e di lodevoli iniziative ma la madre di tutte le domande rimane avulsa da quelle rievocazioni: cosa ha reso possibile la Shoah? quale ne è stato il brodo di coltura?
Berto sarà pure un autodidatta ma sa perfettamente che non si comprende la Storia ripercorrendone gli episodi o esaminandone gli interpreti. Sono i popoli, le società, le culture che fanno la Storia. I grandi protagonisti ne sono solo l'espressione finale. Ne cavalcano l'onda con destrezza e sembrano governarla ma è la potenza della marea che li innalza e li sospinge oppure li travolge. Noi vediamo le onde infrangersi sugli scogli ma la loro potenza si sedimenta in mare aperto, in un processo lontano e ininterrotto. E allora, pensa Berto, come si può attribuire la responsabilità del genocidio alla mente malata di uno sciagurato caporale austriaco? Quello ha solo messo il suo talento perverso al servizio degli esecrabili ideali che covavano in Europa. Lui e i suoi accoliti hanno soffiato sulla brace ma l'incendio è divampato perché le fiamme hanno trovato esca in un sottobosco, reso arido da un lavorio di secoli.
Di tutto questo però la Giornata della Memoria non si fa carico. Dalla melassa caritatevole dei suoi racconti
Non bastano gli orrori sviscerati da una sequenza ininterrotta di immagini a rendere pieno conto della Shoah. Senza la chiamata in correità di chi ha creato, diffuso ed instillato nei popoli l'antisemitismo, il racconto dell'Olocausto rimane oscuro e reticente. Popoli interi se ne chiamano fuori con una narrativa mendace e fuorviante.
escono immagini agghiaccianti e storie tragiche ma i papi, i monarchi, i clerici, i filosofi che hanno ammucchiato tutta l'oscena sterpaglia da cui il fuoco è divampato, rimangono fuori dai riflettori, in un backstage che nessuno ricorda, che nessuno racconta.
Tutto questo inficia il senso della ricorrenza, pensa Berto. Non bastano gli orrori sviscerati da una sequenza ininterrotta di immagini a rendere pieno conto della Shoah. Senza la chiamata in correità di chi ha creato, diffuso ed instillato nei popoli l'antisemitismo, il racconto dell'Olocausto rimane oscuro e reticente. Popoli interi se ne chiamano fuori con una narrativa mendace e fuorviante. I francesi del Velodrome erano forse meno colpevoli dei nazisti? E i volenterosi ucraini? E l'italica brava gente, silenziosa e inerte complice del Fascio?
Quella cattiva coscienza si riflette oggi nel negazionismo, pensa Berto. Tutti innocenti perché il fatto non sussiste.
La Shoah negata. La Shoah banalizzata. La Shoah fatta a brandelli da chi ne oscura le radici e ne insabbia le responsabilità.
Ecco pensa Berto. Oggi non basta più assicurare che la memoria non illanguidisca nei passaggi generazionali. Oggi bisogna impedire che le radici della Shoah riprendano vigore e si estendano sotto nuove spoglie con l'antica virulenza. Negare l'Olocausto non è una discutibile opinione. Non è un'astrusa valutazione storica. È un deliberato tentativo di riscrivere arbitrariamente la Storia. Si spogliano gli ebrei della loro tragedia e li si trasformano in odiosi manipolatori, capaci di ideare e mercificare la Shoah.
Affrancato dal ruolo della vittima, il popolo maledetto diviene il bersaglio legittimo di una nuova odiosa delegittimazione.
È vero, pensa Berto. Nella Giornata della Memoria il mondo civile confuta e condanna questa riscrittura della Storia. Lo dichiara con orgogliosa fermezza. Lo proclama in tutte le sedi con una forza pari solo all'abisso della sua ipocrisia.
Non si può riscrivere la Storia, grida.
Ma intanto giura che i sepolcri di Avraham, Itzhak e Yacov, i sepolcri di Sarah, Rivkah, Rachel e Leah sono retaggio eterno del popolo palestinese.
Come Gerusalemme e il Monte del Tempio.

(Shalom, febbraio 2018)


Cisgiordania, attacco ai soldati israeliani: due morti. Hamas: "Azione eroica"

Un palestinese di 26 anni ha travolto con la sua auto alcuni militari nei pressi di Jenin: un terzo soldato è in gravissime condizioni. Soddisfazione del gruppo estremista della Striscia di Gaza.

Due soldati israeliani sono stati uccisi e un terzo è in gravissime condizioni per l'attentato terroristico che un palestinese di 26 anni ha messo a segno oggi in Cisgiordania con la sua auto. A 10 chilometri da Jenin, nei pressi dell'insediamento ebraico di Reihan, il giovane Ala Rateb Abdedlelatif Kabha ha guidato l'auto a tutta velocità contro un gruppo di soldati che era appena sceso da una jeep. L'attacco è avvenuto nella nuova "giornata di rabbia" indetta dalle fazioni palestinesi a 100 giorni dall'annuncio di Trump su Gerusalemme capitale di Israele ed è stato subito salutato da Hamas a Gaza come «azione eroica contro l'occupazione».
   Ala Rateb Kabha, originario del villaggio di Bartaa nel nord ovest della Cisgiordania, ha lanciato la propria auto su un gruppo di soldati israeliani che stavano presidiando le strade adiacenti la comunità di Meivo Dotan. Dopo essere stato ferito, Kabha è stato portato in ospedale dove è stato interrogato. Secondo i media israeliani, l'uomo è un ex prigioniero di sicurezza rilasciato dal carcere israeliano circa un anno fa. I due soldati morti - di cui non sono ancora stati resi noti i nomi - sono un ufficiale e un militare di leva: tutti nei loro venti anni come gli altri due feriti.
   L'attacco è avvenuto quando i quattro sono scesi dalla loro jeep e sono stati colpiti dalla vettura guidata dal palestinese. A seguito dell'attentato il generale Yoav Mordechai, il coordinatore per le attività di governo nei Territori, ha ordinato la sospensione dei permessi di lavoro in Israele per l'intera famiglia del palestinese autore dell'attacco: in tutto 67 provvedimenti.
   Quello di oggi è il secondo attentato contro soldati israeliani in due settimane: il primo è avvenuto ad Acco (nel nord di Israele) ad inizio mese. Il ministro della difesa Avigdor Lieberman, citato dai media, ha parlato di "demolizione della casa del palestinese e di assicurare alla giustizia tutti quelli che hanno collaborato con lui". Poi ha ricordato che l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen "dà i soldi alle famiglie dei terroristi".

(la Repubblica, 16 marzo 2018)


Perché il Medioriente potrebbe costare molto caro a Vladimir Putin

Lo "zar" ha vinto in Siria ed è oggi l'attore più importante della regione. Ma il suo eccessivo attivismo è anche un rischio e prima o poi dovrà fare scelte politicamente dolorose

di Gigi Riva

 
Il quarto mandato presidenziale di Vladimir Putin nascerà sotto il segno della Siria esattamente all'ingresso dell'ottavo anno di conflitto nel Paese. Se ci sono tanti sconfitti, lo zar del Cremlino è uno dei sicuri vincitori di quella guerra. Resta ancora da capire a quale prezzo.
   Putin si infilò nella mischia, con accurato tempismo, nel 2015 quando volgevano al peggio le sorti dello storico alleato Bashar Assad, approfittando di un disimpegno statunitense disegnato da Barack Obama e perseguito, pur con diversi accenti, dal suo successore Donald Trump. L'America sulla via dell'autosufficienza energetica e nauseata dal pantano iracheno considerava ormai marginale il Medio Oriente per volgere sguardo e sforzi verso la sfida del Pacifico che considera cruciale per il futuro.
   Siccome i vuoti in politica si riempiono presto, nella cronica assenza dell'Europa Mosca è stata lesta ad approfittare dell'occasione. Basta dare uno sguardo alla carta geografica per capire il perché. Il sogno di un controllo del mare caldo sta da secoli nell'immaginario russo. Rientra in quella logica anche il blitz per strappare all'Ucraina la Crimea, base di partenza più prossima verso il Mediterraneo della flotta di Putin. Va aggiunto il desiderio di tornare potenza dopo le convulsioni e la marginalità del periodo post-sovietico.
   Nel caos dell'area più infiammabile del pianeta, il Cremlino aveva il vantaggio di una strategia chiara e semplice. Salvare Assad e conservare la base navale logistica di Tartus; sconfiggere lo Stato islamico, formidabile richiamo per centinaia di suoi foreign fighters soprattutto delle aree caucasiche. Fatto.
   Tuttavia il Medio Oriente è cibo indigesto anche per stomaci forti e nelle guerre che lì si susseguono è assai più facile entrarci che uscirci. E le alleanze a geometria variabile si sfaldano e si ricompongono, obbligando a peripezie diplomatiche acrobatiche. Putin è il solo, oggi, da referente assoluto di ogni crisi, a poter parlare con l'Iran degli ayatollah e con l'Israele di Netanyahu, con i curdi siriani e con il sultano Erdogan, col re d'Arabia e i ribelli houti dello Yemen. Più gli altri attori importanti a partire dall'egiziano al Sisi.
   Proprio perché centrale in ogni partita, non può sottrarsi a un suo impegno anche militare. E per questo si susseguono le notizie sul ritiro delle truppe e invece di un attivismo che continua in situazioni sempre sull'orlo del precipizio. E tocca a lui promuovere tregue, come nella Ghouta quando vengono meno quelle concordate a livello di un organismo ormai obsoleto come le Nazioni Unite.
   L'equilibrismo pericoloso non potrà reggere a lungo, Putin IV si troverà, prima o poi, a dover scegliere tra l'ondivago Erdogan e i curdi, tra l'asse sciita e quello sunnita comunque in perenne contrasto per l'egemonia dell'area, tra Assad e Netanyahu. Perché le ragioni di ciascuno, superate le emergenze, riprenderanno le loro radici lunghe e le inimicizie torneranno tali. Lo zar dovrà risolvere rebus contro cui hanno in passato sbattuto la testa tutti coloro che si erano messi in testa l'idea meravigliosa di pacificare il Medio Oriente.

(Espresso, 16 marzo 2018)


Israele-Libano, tensione a nord

Il 27 febbraio scorso, di ritorno da una visita con un delegazione del Congresso americano in Medio Oriente, il senatore repubblicano Lindsey Graham ha annunciato che il Libano meridionale sarà il teatro della "prossima guerra". Parlando con i giornalisti Graham, senatore della Carolina del Sud, ha spiegato che i funzionari israeliani hanno messo in luce che Israele è pronta a colpire il movimento terroristico libanese Hezbollah e le sue fabbriche di missili. "Ci hanno detto senza mezzi termini che se questa minaccia continua, saranno costretti a intervenire", ha detto Graham. E i terroristi di Hezbollah, rileva l'analista franco-libanese Moni Alami, sembrano essere pronti a questa possibilità. Il movimento "sta affinando le sue competenze e svolgendo un ruolo poliedrico in Siria, dove ha anche conseguito diversi importanti obiettivi, secondo uno dei suoi militanti e secondo fonti vicine al gruppo libanese", scrive Alami. A confermarlo le parole rilasciate a Reuters del vice segretario generale di Hezbollah, lo sceicco Naim Qassem, secondo cui il movimento terroristico "è pronto ad affrontare un'aggressione se dovesse avvenire, o se Israele dovesse decidere di intraprendere qualche azione folle". "Ma - ha aggiunto Qassem - non sembra che le circostanze siano favorevoli per una decisione israeliana verso una guerra".
   Lo scorso gennaio il capo di Stato maggiore israeliano Gadi Eisenkot ha avvertito che Hezbollah sta implementando la sua capacità militare, infrangendo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma secondo il Primo ministro libanese Saad Hariri, intervenuto ieri alla Farnesina, la principale minaccia per il suo paese sarebbe Israele, non i terroristi di Hezbollah che erodono il suo potere. Davanti ai rappresentanti di 40 nazioni, del segretario dell'Onu Guterres e dei membri della Lega Araba arrivati a Roma per partecipare alla seconda conferenza ministeriale di Roma per il sostegno alle forze di sicurezza di Beirut, Hariri ha sostenuto che i finanziamenti stanziati per il Libano non finiranno nella mani di Hezbollah.

(moked, 16 marzo 2018)


Scontri al confine tra Israele e la striscia di Gaza

Torna alta la tensione tra Israele e la striscia di Gaza. Alcuni ordigni sono esplosi questa mattina lungo la linea di confine. Lo riferisce il portavoce militare israeliano secondo cui nessun militare è stato colpito. In reazione, ha aggiunto, carri armati israeliani hanno colpito postazioni vicme «dei terroristi di Hamas». Il governo israeliano ha ribadito che riterrà Hamas l'unico responsabile di ogni atto ostile da Gaza.
Dalla Striscia fonti locali hanno confermato gli attacchi israeliani, secondo quanto riporta la France Presse. Ci sarebbero stati anche scontri al confine tra soldati israeliani e gruppi di palestinesi. Si ha notizia inoltre di un palestinese ferito.
Nel frattempo, l'amministrazione Trump è tornata ieri a esprimersi sulla situazione umanitaria nella Striscia. «Il peggioramento delle condizioni umanitarie nel territorio palestinese - si legge in una nota della Casa bianca - necessita di un'attenzione immediata». Nel comunicato si sottolinea che secondo Washington «la situazione deve essere risolta per questioni umanitarie e per garantire la sicurezza di Egitto e Israele».
Il comunicato dà conto dei risultati di una conferenza che si è svolta ieri alla Casa Bianca sulla questione della ricostruzione a Gaza. Sono intervenuti i rappresentanti di venti paesi, tra cui numerosi stati arabi e Israele, dell'Onu e dell'Unione europea.
I funzionari della Casa Bianca hanno anche presentato progetti specifici per il rilancio economico della Striscia.

(L'Osservatore Romano, 16 marzo 2018)


Per difendersi da pasdaran, missili e gas Israele costruisce il bunker del sangue

Nel cantiere dell'Mda, dove i laboratori sotterranei possono trasformarsi in rifugio

Il rendering della futura Banca-Bunker del Sangue a Ramla, nel centro di Israele, a mezz'ora dall'aeroporto Ben Gurion
«Abbiamo quasi terminato gli scavi. Siamo cinque metri sotto terra, dobbiamo scendere a quindici». Nell'ufficio della direzione dei Servizi del Sangue del Magen David Adom, presso l'Ospedale Tel HaShomer di Ramat Gan, Comune satellite di Tel Aviv, Eilat Shinar, ematologo di fama mondiale, illustra le immagini trasmesse in diretta al suo smartphone dalle telecamere puntate h24 sul cantiere della futura Banca-Bunker del Sangue a Ramla, nel centro di Israele, a mezz'ora dall'aeroporto Ben Gurion. «Questo è nuovo!» esclama puntando il dito sullo schermo per indicare i progressi delle scavatrici. E aggiunge: «La nuova infrastruttura sarà il massimo dell'avanguardia»

 Nell'occhio del ciclone
  Dalla prospettiva israeliana, il Medio Oriente è un ciclone e lo Stato Ebraico è proprio nel suo occhio: la minaccia di Hezbollah a Nord e - non è escluso - dal mare, quella di Hamas dalla Striscia di Gaza, in Siria i Pasdaran iraniani. In Israele sanno bene l'importanza di essere pronti ad affrontare lo scenario più cupo, anche perché i Fateh-110, sofisticati missili con una gittata in grado di colpire qualsiasi obiettivo in Israele, sono già da qualche anno in dotazione a Hezbollah e infrastrutture militari siriane nascondono centri per la produzione di armi chimiche. A prescindere dalle reazioni militari in caso di attacchi e guerre o in circostanze di calamità naturali, quello che conta, e per cui Israele si sta attrezzando con azioni preventive, è la salvaguardia della popolazione. Fin dal 2000, anno dell'esplosione della seconda intifada, il direttivo del Mda ha portato all'attenzione della Protezione civile, dell'esercito, del ministero della Difesa e di quello della Salute la necessità di costruire infrastrutture adeguate per far fronte a nuove potenziali situazioni di emergenza.
  Ogni episodio - dalla guerra del Libano del 2006 alle varie operazioni a Gaza nel 2008, 2012 e 2014 - è stata una nuova conferma. Senza contare che la popolazione sta crescendo al ritmo del 2% annuo: le proiezioni dell'Ufficio centrale di statistica (Cbs) mostrano che il traguardo di 10 milioni di abitanti potrebbe essere raggiunto entro il 2020, anno nel quale è fissata l'inaugurazione della Nuova Banca del Sangue. Se negli Anni 80, quando l'attuale centro servizi è stato costruito, l'Mda forniva 175 mila unità di sangue l'anno, oggi ne procura 250 mila.
  Nella nuova sede, per i prossimi trent'anni, la quantità potrà raddoppiare fino a mezzo milione di unità. A quel punto, entro gli Anni 60 di questo secolo, anche la popolazione israeliana potrebbe essere raddoppiata fino a 20 milioni. Per non parlare dell'aumento dei turisti, anche loro al centro dell'attenzione del Mda. «In tutto questo tempo non abbiamo perso tempo - sorride Shinar - abbiamo visitato altre strutture nel mondo per vedere come lavorano gli altri e per raccogliere dati. Siamo stati alla Croce rossa in America, in Australia e in Gran Bretagna. E nei laboratori Avis a Milano». L'edificio, progettato dagli architetti Mochly-Eldar, studio specializzato in strutture sanitarie, edifici pubblici e industriali, non sarà soltanto una banca del sangue all'avanguardia, ma anche un rifugio blindato sotterraneo capace di garantire la sicurezza delle scorte di sangue e assicurare la continuità delle attività nei laboratori anche durante una guerra.

 In caso di guerra
  In sintesi: «Automazione, spazi più vivibili ma anche più protetti e nuove tecnologie in un edificio progettato con grande rispetto dei principi di sostenibilità», riassume la direttrice dei «Servizi del Sangue» del Mda. Più nel dettaglio «nei piani in superficie ci saranno spazi operativi quotidianamente ma che, in caso di guerra, possono essere chiusi e abbandonati: un auditorium, classi per corsi e lezioni, la sala per le donazioni del sangue, una caffetteria e gli uffici. Nei livelli sotterranei si svolgeranno le principali attività che non si possono interrompere per nessun motivo: laboratori per test e analisi, raccolta del sangue, supporto logistico per le ambulanze, sistemi di comunicazione.» L'Associazione Amici americani del Mda ha donato la fetta più grande del budget necessario. «Abbiamo raccolto 90 milioni di dollari. Dobbiamo arrivare a 130 milioni». Anche per questo motivo il prossimo 25 marzo Shinar volerà a Milano per presentare il progetto in un evento organizzato dall'Associazione Amici di Maghen David Adom Italia al Teatro Elfo Puccini.

(La Stampa, 16 marzo 2018)


Israele, a febbraio +55% di italiani

Il paese, che quest'anno festeggia i 70 anni dalla sua fondazione e che ospiterà la partenza del Giro d'Italia, fa registrare il +28% di arrivi internazionali.

 
Yariv Levin, ministro del Turismo israeliano
+28% di arrivi globali a febbraio rispetto allo stesso mese del 2017, con il mercato italiano che fa registrare 9.000 arrivi, +55% rispetto al 2017. Sono questi i dati del turismo israeliano, pubblicati dal Central Bureau of Statistics di Israele.
Gli arrivi internazionali nello scorso mese sono stati complessivamente 299.400, il 28% in più rispetto a febbraio 2017. "La crescita più notevole - si legge in una nota - è stata riscontrata in quei paesi dove il Ministero sta maggiormente investendo in attività di marketing: +50% in Italia e Germania, + 26% negli Stati Uniti, +170% in Polonia, +87% in Svezia".
"Mese dopo mese, stiamo assistendo a numeri record in termini di arrivi turistici - spiega il ministro del Turismo Yariv Levin - e sono lieto che anche a febbraio siano stati registrati importanti risultati e una crescita notevole. Le attività di marketing e le iniziative innovative che stiamo portando avanti, combinati con incentivi per le compagnie aeree e investimenti nelle infrastrutture, dimostrano mese dopo mese i propri frutti, in quanto l'industria turistica continua a contribuire in modo significativo all'economia israeliana e al mercato del lavoro."
Il 2018 sarà un anno ricco di appuntamenti per Israele, a partire dai festeggiamenti del 70o anniversario dello Stato di Israele. Anche l'Italia sarà coprotagonista di uno dei momenti chiave dei prossimi mesi, con la partenza del Giro d'Italia che sarà ospitata il 4 maggio a Gerusalemme.

(Guida Viaggi, 16 marzo 2018)


I palestinesi sono ormai un peso anche per il mondo arabo

di Dimitri Buffa

Della causa palestinese ormai non importa più niente a nessuno. A cominciare dai cari fratelli del mondo arabo, specie sunnita, che intravedono nella sterile prosecuzione di aiuti alla corrotta dirigenza dell'Anp solo un ostacolo alla necessaria normalizzazione dei rapporti con Israele in chiave anti-iraniana.
   A dare il là a questo redde rationem è stato da ultimo il principe saudita Salman che ha anche una mezza idea di troncare il flusso ininterrotto di milioni di euro di aiuti che ha legato per decenni la corona a Ramallah. È come se Abu Mazen e il suo staff abbiano perso tutto per sfinimento. Per consunzione. Solo l'Europa della anti-israeliana Federica Mogherini dà ancora retta alle grottesche richieste di aiuto economico che continuano ad arrivare a Bruxelles, anche se molti Paesi europei non nascondono la propria irritazione per l'attivismo filo Anp della signora Pesc.
   In America ormai prevale la linea Trump che all'Onu è portata avanti dall'ambasciatrice Nikki Haley. Che proprio contro Abu Mazen e le proprie velate minacce ai cittadini statunitensi e israeliani rivolte durante l'ultimo discorso al palazzo di vetro a metà dello scorso gennaio ha tuonato nel discorso di replica della medesima sessione. Non è ancora lontana la eco delle continue condanne antiisraeliane delle Nazioni Unite, ma presto questo trend potrebbe diventare solo un ricordo. I palestinesi si sono fregati con le loro stesse mani: da una parte nella West Bank una leadership poco credibile e corrotta sul modello di quella ultra trentennale di Arafat, dall'altra, a Gaza, una quinta colonna filo iraniana e alleata degli hezbollah a pochi chilometri dall'Egitto sunnita e dall'Arabia Saudita. Quest'ultimo Paese in pratica con l'Iran è già in guerra per interposto movimento di guerriglia nello Yemen, i famigerati huthi.
   In questo quadro, già oggettivamente sfavorevole a livello geopolitico alla causa palestinese, passata in secondo piano dopo la crisi siriana, la guerra con l'Isis e quant'altro, il passo falso di chiamare a una nuova intifada contro la decisione di Donald Trump di spostare la diplomazia americana a Gerusalemme, riconoscendola di diritto oltre che di fatto come la vera capitale dello stato ebraico, può costare carissimo ad Abbas. E il discorso all'Onu del 17 gennaio rischia di essere lo sterile canto del cigno di un ex capo guerrigliero sull'orlo del pensionamento. Lui stesso si è dimostrato consapevole di questo andazzo dicendo alla stampa che "forse non mi rivedrete più qui".
   Ma anche la petizione degli affetti sembra essere andata a vuoto: nei giorni successivi tanto nei media arabi quanto in quelli israeliani il discorso che doveva infiammare gli animi dei combattenti palestinesi è scivolato nelle pagine interne. E adesso, dopo quasi due mesi da quelle sparate sterili, molti cominciano a credere che della causa palestinese nel mondo, al netto di Federica Mogherini, non freghi proprio più niente a nessuno.

(L'Opinione, 16 marzo 2018)


"Le armi dell'esercito libanese non finiranno a Hezbollah''

Il premier Hariri alla conferenza di Roma. Dall'UE altri 50 milioni

di Francesca Paci

Saad Hariri e Angelino Alfano durante la conferenza stampa finale del'incontro di Roma alla Farnesina
ROMA - «Un pomeriggio di successo» chiosa il premier libanese Saad Hariri al termine della seconda Conferenza di Roma degli amici del Libano, quella che ha riunito alla Farnesina 40 nazioni, il segretario dell'Onu Guterres e la Lega Araba per finanziare il rafforzamento dell'esercito di Beirut, vale a dire ridimensionare il contropotere militare di Hezbollah. La stabilità del Paese dei Cedri passa da qui e l'Italia si è spesa molto per prendere in mano l'iniziativa, lanciata da Obama e poi raccolta da Trump, a cui Parigi contribuirà con l'apertura di una linea di credito da 400 milioni di euro in favore delle forze armate e l'Ue - dice l'Alto rappresentante Federica Mogherini - assicurerà altri 50 milioni di euro entro il 2020 (3,5 milioni in training e attrezzature per la sicurezza dell'aeroporto di Beirut).
   La comunità internazionale fa quadrato intorno allo Stato che Guterres definisce «l'unica eccezione nel caos mediorientale e uno dei pochi pilastri di pace»: puntellare la neutralità del Libano mettendolo al riparo da nuove tensioni settarie è urgente. Ma sullo sfondo resta la domanda delle domande: come essere certi che le armi destinate non finiscano alle milizie sciite del Partito di Dio? Il premier sunnita ascolta e risponde piccato: «Non succederà mai. La storia del Libano dimostra che gli aiuti stranieri alle nostre forze di sicurezza sono sempre arrivati a destinazione, non abbiamo mai perduto armi e mai succederà. Chi mette in giro queste voci è Israele, ma si tratta di propaganda contro di noi». Il ministro degli esteri Alfano non aggiunge altro e sottolinea invece l'importanza della Conferenza ai fini di «un più ampio sostegno istituzionale alla politica di dissociamento del Libano dalle crisi regionali».
   Già durante la conferenza stampa con il premier Gentiloni, che aveva annunciato l'aumento dell'impegno italiano per la sicurezza e la conferma della presenza Unifil, Hariri si era pronunciato in modo analogo, spiegando come Israele rimanga «la principale minaccia per il Libano» di cui «continua a violare la sovranità nazionale». In serata liquida le polemiche, ricorda l'impegno del suo Paese che accoglie un milione e mezzo di siriani «in fuga dal regime di Assad» e si concentra sul piano concordato: «Non si tratta di aiuti condizionati, nessuno dei donatori ci ha mai posto condizioni. L'obiettivo è la sicurezza. Secondo la risoluzione Onu 1701 dovremmo avere a disposizione tra i 10 e i 15 mila soldati mentre ne abbiamo meno di 7 mila: il nostro rafforzamento è nell'interesse di tutti, prova ne sia come abbiamo combattuto l'Isis pur con poche capacità».
   Quello di Roma è il primo di tre summit il secondo dei quali, sul rilancio economico del Libano, si svolgerà il 6 aprile a Parigi. L'ultimo, il 24 aprile, sarà a Bruxelles e verterà sui profughi.

(La Stampa, 16 marzo 2018)


Alfano è dimissionario ma aumenta i fondi ai palestinesi

Dopo che Trump ha stretto i cordoni della borsa

di Maurizio Stefanini

Alfano sta per lasciare la Farnesina e anche la politica, visto che non si è neanche ricandidato. Ma fa ancora in tempo a promettere 11 milioni di dollari dei contribuenti italiani a favore dell'Unrwa: quell'agenzia Onu che nacque una settantina di anni fa per risolvere la crisi dei rifugiati palestinesi, e che ha invece contribuito a renderla infinita.
O forse non sono esattamente 11 milioni: «Nel 2018 l'Italia intende raddoppiare il supporto finanziario alle attività umanitarie gestite dall'Unrwa in Siria. Non faremo mancare il nostro appoggio a questa Agenzia», ha detto infatti il ministro degli Esteri durante la Conferenza ministeriale straordinaria a sostegno della United Nations Relief and Works Agency far Palestine Refugees in the Near East, questo è il significato esatto dell'acronimo, che si è tenuta ieri a Roma presso la sede della Fao. «Per fronteggiare la crisi in Siria», ha spiegato, «negli ultimi anni l'Unrwa ha dovuto incrementare le proprie attività di assistenza e soccorso alle centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi rimasti nel Paese, soccorrendo anche altre decine di migliaia di sfollati in Libano e Giordania».

 Le cifre
  È possibile dunque che Alfano non voglia raddoppiare il contributo italiano nel suo complesso, ma solo un'aliquota. Cifre esatte non ne ha date: non è chiaro se per non spaventare i contribuenti italiani perché erano troppo forti, o non deludere gli intervenuti perché troppo esigue.
L'evento romano si proponeva di affrontare l'emergenza che si è creata nel momento in cui Trump ha annunciato il taglio dei fondi Usa. Non è che ci sia riuscito. Sono stati infatti promessi 100 milioni di dollari, ma il deficit è quattro volte e mezzo tanto: 446 milioni! Creata con la risoluzione 302 del 1949 per assistere i profughi palestinesi in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente rappresenta il caso unico di un'agenzia Onu che si occupa di un gruppo di rifugiati specifici. Tutti gli altri rientrano nell'ombrello dell'Acnur: quell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati della cui Rappresentanza per il Sud Europa Laura Boldrini fu portavoce tra 1998 e 2012.

 Il confronto
  È servito ai palestinesi essere trattati a parte? L'efficienza dell'Umwa si può misurare comparandola col caso degli esuli giuliano-dalmati in Italia, che più o meno erano lo stesso numero, e furono espulsi dalle loro terre quasi in contemporanea. La questione istriana è ancora dolorosa per l'Italia, ma nel giro di qualche anno quei rifugiati furono risistemati e reinseriti. Non li si tenne per 70 anni ammucchiati in campi profughi ai confini con la Jugoslavia e a spese di un'agenzia Onu, apposta per poter continuare a tenere la rivendicazione in piedi ed usarli come strumento di propaganda politica! Ciò, senza neanche entrare nel merito di quanti effettivamente di questi soldi vadano a quelli che vivono nei campi e quanti siano invece intercettati dalla nomenklatura di Al Fatah o Hamas.
Anche Israele dovette reinserire un bel po' di ebrei espulsi dai Paesi arabi: nel 1948 e negli anni successivi. Per questo chiede oggi che l'Unrwa sia smantellata, passandone all'Acnur anche le sue competenze. Il bello è che i profughi assistititi dall'Unrwa sono da sempre una leva di propaganda anti-occidentale e anti-Usa, ma ne sono poi Usa e Occidente i principali finanziatori. Trump ha ridotto il sostegno da 364 a 125 milioni di dollari proprio sostenendo che è l'Unrwa a spingere di fatto i palestinesi a fare ostruzionismo sulle proposte di pace.

(Libero, 16 marzo 2018)


Quando Peres si travestiva per incontrare gli arabi in segreto

Il diario del consigliere

di Marco Ansaldo

Shimon Peres come non l'abbiamo mai visto né conosciuto. Non solo nella figura di grande statista, oppure di uomo ironico e fine, che si potevano entrambe evincere durante gli eventi pubblici o intervistandolo personalmente. Ma nei suoi malinconici pensieri suicidi, nelle tattiche politiche nascoste, addirittura nei travestimenti adottati per alcune missioni in Medio Oriente.
   L'immagine inedita del presidente, e prima ancora premier e ministro degli Esteri israeliano morto nel 2016, assume contorni inaspettati nel libro appena pubblicato dal suo consigliere personale. Avi Gil è stato a fianco di Peres per ben 28 anni. E a margine degli incontri internazionali, in viaggio in aereo, nelle pause fra un meeting e un altro, l'uomo ombra del leader israeliano tirava fuori un taccuino e prendeva appunti annotando tutto. Il suo stesso capo sapeva che un giorno, forse, il suo assistente lo avrebbe messo a disposizione del pubblico. Ma lo ha sempre incoraggiato, mai frenato.
   Il volume si intitola "La formula Peres: diario di un confidente", e in questi giorni in Israele e nei Paesi arabi si apprestano a leggere le pagine di un diario in grado di illuminare in modo diverso un leader capace di una forte immagine a livello internazionale, ma probabilmente meno brillante in patria.
   A colpire tutti è sicuramente la foto di un Peres negli anni della maturità, che partendo per una missione segreta in Giordania si è truccato rendendosi irriconoscibile. In testa un cappello di colore beige, sotto il naso un paio di baffoni grigi, sul volto un occhiale dalla montatura larga. A saperlo, oggi lo riconosciamo subito. Ma allora chi poteva immaginare che dietro quell'aspetto allampanato si nascondesse il capo della diplomazia di Gerusalemme?
   Come non tuffarsi poi nelle pagine in cui il posato statista apprezza una "shìksa", una bella donna non ebrea, in lingua yiddish, appena salita sul suo stesso volo, dilungandosi sul genere femminile.
   Ovviamente intensa tutta la parte degli incontri con i protagonisti mondiali e i dettagli sulla preparazione degli accordi di Oslo, con Bill Clinton e Yasser Arafat. Peres ne esce come un grande visionario, un maestro di intrighi e stratagemmi, un uomo spesso condiscendente verso gli arabi. Ma anche un politico ossessionato dalla figura di Yitzhak Rabin. E infine lacerato sul proprio ruolo e il pensiero della morte, svelando al suo confidente, davanti a un cognac, le proprie tendenze suicide: "Non ho paura della morte. Non mi fa impressione".

(la Repubblica, 16 marzo 2018)


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