Notizie 16-31 marzo 2025
Israele invia squadre di soccorso in Myanmar e Thailandia colpiti dal terremoto
Anche Israele si è attivato in soccorso delle vittime del devastante terremoto di magnitudo 7,7 che ha colpito il Sud-Est Asiatico. Una squadra di ingegneri e ufficiali del Comando del Fronte interno dell’Idf e del Ministero della Difesa è arrivata a Bangkok, in Thailandia, per assistere le autorità locali e supportare le operazioni di ricerca e soccorso.
Il team, composto da 21 persone, è guidato dal colonnello Yossi Pinto, comandante dell’Unità nazionale di ricerca e soccorso di riserva delle Idf. Gli israeliani hanno iniziato la propria missione eseguendo una valutazione della situazione e condividendo competenze tecnologiche con le autorità thailandesi.
Anche la ong israeliana SmartAid è già operativa nelle città di Mandalay, Naypyitaw e Sagaing, in Myanmar, coordinando gli sforzi con i partner governativi e non governativi locali.
Il devastante terremoto di venerdì scorso, avvertito in tutto il Sud-Est asiatico, ha avuto come epicentro Sagaing, in Myanmar, seguìto pochi minuti dopo da una scossa di assestamento di magnitudo 6,4, causando finora oltre 2mila morti e 3.400 feriti. Anche la Thailandia continua a contare le proprie vittime: almeno 18, a causa del crollo di un grattacielo di 33 piani in costruzione a Bangkok.
Vista l’entità dell’evento sismico, il capo del governo militare del Myanmar ha dichiarato lo stato di emergenza, chiedendo l’aiuto dei paesi vicini. Cina, Russia e India sono state tra le nazioni a rispondere alla richiesta.
(Shalom, 31 marzo 2025)
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Israele alla prova dell’“enigma Trump”
di Ugo Volli
Paese piccolo, con un’industria avanzata ma risorse limitate in termini di materie prime, mercato, territorio, circondato da nemici numerosi e accaniti, insidiato dal terrorismo, Israele non può permettersi di scegliere i suoi alleati. Il primo e spesso unico alleato dai tempi di Ben Gurion, sono gli USA, concretamente i loro presidenti. Alcuni erano sostenitori veri, come Truman e Reagan, altri scettici come Nixon, diffidenti e antipatizzanti come Carter e Obama, contraddittori come Biden. Oggi c’è Trump, cui Israele ha sempre riconosciuto appoggio e molti meriti, dal trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e gli accordi di Abramo nel primo mandato fino ai rifornimenti di armi di queste settimane. Ma si può essere sicuri che questo appoggio continuerà? Non potrebbe finire anche Israele nella situazione di isolamento e ostilità che il presidente americano ha riservato per esempio a Zelenski e all’Ucraina?
Di Trump non si può mai essere sicuri. L’incertezza su quel che farà, la sorpresa di alcune sue scelte, il carattere provocatorio e eccessivo delle sue dichiarazioni non sono casi isolati ma fanno parte del suo stile di governo e di comunicazione. Vi sono diverse ragioni per questo atteggiamento. La prima è che nella società dello spettacolo in cui viviamo per un leader è essenziale fare notizia e certamente le sue sparate lo mettono ogni giorno sui titoli di testa di quotidiani e telegiornali. La seconda è che in una trattativa chi, avendo una base di forza adeguata, fa pretese esagerate, può spesso concludere accordi migliori di quelli che avrebbe ottenuto con proposte accettabili. La terza ragione è, per così dire, ideologica. Trump è convinto di essere stato imbrogliato e sfruttato in maniera disonesta: lui personalmente con le elezioni del 2020 e i procedimenti giudiziari che ne sono seguiti; gli USA guidati da truffatori e da incapaci e circondati da alleati disonesti e ingrati che si sono approfittati della protezione americana. È necessario dunque, dal suo punto di vista, non solo riparare a queste ingiustizie, ma anche far vedere chi comanda, gridare, insultare, per ristabilire il giusto rapporto gerarchico fra USA e resto del mondo e naturalmente anche fra lui e il “deep State”. Sullo sfondo, vi è anche l’idea che la politica sia un gioco a somma zero, dove uno vince e gli altri perdono e bisogna a ogni costo essere vincitori.
Questo modo di fare sorprende molto l’opinione pubblica europea, da generazioni abituata a non preoccuparsi della sua difesa perché sta sotto l’ombrello americano, a consumare la cultura popolare e i prodotti made in USA, ma dall’altro si riserva il diritto di snobbare la “primitiva” società americana e di contrastare quanto può la sua politica, anche in Medio Oriente.
In Israele l’atteggiamento è diverso, non solo per la presenza massiccia di immigrati americani. Lo Stato ebraico, impegnato nella lotta quotidiana per la difesa da chi lo vuole distruggere, ha conosciuto pressioni e veri e propri ricatti da tutti i presidenti americani. Ci sono stati epici scontri fra Golda Meir e Nixon (o Kissinger che lo rappresentava), come fra Netanyahu e Obama e anche di recente con Biden. Israele sa insomma come discutere con un alleato essenziale e molto più potente e conosce i limiti della propria libertà d’azione, come si è visto negli ultimi tempi da certe decisioni come il ritardo nell’ingresso a Rafah o il recente cessate il fuoco. Di più, Israele sa di significare molto più per il popolo americano dell’Ucraina o dell’Unione Europea. Possiamo sperare che il mondo politico israeliano e in particolare Netanyahu, con la sua grande esperienza, continuerà a saper leggere l’“enigma Trump” e trovare con lui i necessari compromessi.
(Shalom, 31 marzo 2025)
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“Dobbiamo imparare dagli errori”: l’IDF mostra al pubblico i risultati dell’indagine sul massacro al Nova Festival
I famigliari delle vittime e dei superstiti sono stati invitati a delle presentazioni della ricerca dal 30 marzo al 3 aprile. L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area, avvenute il 25 marzo.
di Pietro Baragiola
All’inizio della prossima settimana le Forze di Difesa Israeliane inizieranno a presentare i risultati dell’indagine militare incentrata sul massacro al Nova Music Festival alle famiglie dei partecipanti uccisi e a coloro che sono sopravvissuti.
Questi risultati verranno presentati accuratamente dal capo della squadra investigativa del Nova, il generale di brigata Ido Mizrahi e dal generale maggiore Dan Goldfus.
“L’obiettivo di questa indagine sarà trarre conclusioni operative ottimali per imparare dagli errori e dai tempi di risposta dell’esercito israeliano durante il 7 ottobre” afferma il comunicato rilasciato dall’IDF. “L’analisi si concentrerà su diversi punti: le modalità di approvazione del festival; i preparativi militari; l’inizio del massacro; una panoramica completa degli eventi del 7 ottobre; la condotta delle truppe israeliane nel parcheggio di Re’im”.
Secondo quanto riportato dai portavoce dell’IDF, l’indagine non coprirà gli attacchi che si sono verificati al di fuori dell’area diretta di Nova, del suo parcheggio e del primo tratto dell’autostrada Route 232. Non verranno presi in considerazione neanche gli eventi e omicidi che si sono verificati su strade vicine, rifugi o in altre aree del sud di Israele in quanto sono oggetto di indagini di alto livello separate.
• Le presentazioni dell’indagine
Mercoledì 26 marzo i famigliari delle vittime e dei superstiti hanno ricevuto una comunicazione con le istruzioni su come iscriversi ad una delle presentazioni in cui verranno divulgati i risultati dell’indagine.
Questi incontri si svolgeranno dal 30 marzo al 3 aprile presso il palazzo dell’Expo di Tel Aviv e, secondo le comunicazioni ufficiali, si divideranno nel seguente modo: un incontro per le famiglie dei 344 civili uccisi durante l’attacco al Nova Music Festival; uno per i famigliari dei 16 soldati e dei 2 operatori dello Shin Bet caduti; uno per i parenti dei 40 partecipanti presi in ostaggio (compresi quelli che sono tornati a casa). L’ultimo incontro, che si terrà il 3 aprile, sarà dedicato ai sopravvissuti all’attacco e vedrà la partecipazione di consulenti e terapeuti esperti.
A ciascun gruppo verranno riservate le informazioni più rilevanti alla propria categoria e saranno dedicati due slot di appuntamenti in modo da permettere a tutti i famigliari di partecipare.
L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area.
• Le dimissioni del colonnello Cohen
Martedì 25 marzo il colonnello Haim Cohen, comandante della Brigata Nord dell’IDF ha infatti annunciato le sue dimissioni per il suo ruolo nei fallimenti dell’esercito israeliano.
“Il 7 ottobre la brigata sotto il mio comando non ha compiuto la sua missione di proteggere i residenti dell’area” ha dichiarato Cohen nella sua lettera di dimissioni. “Come dimostrano i risultati dell’indagine, ho fallito!”
La divisione dell’IDF schierata lungo il confine con la Striscia di Gaza è composta da tre brigate: Nord, Centro e Sud. Cohen e la sua brigata erano incaricati della supervisione dell’area che racchiude il festival di Nova, il Kibbutz Be’eri e Nahal Oz.
Secondo quanto emerso dall’indagine interna dell’IDF, Cohen ha dimostrato ‘una cattiva gestione operativa dalla base di Nahal Oz e non ha rappresentato accuratamente la situazione sul campo durante l’attacco di Hamas’.
“Non dimenticherò mai i campi pieni di civili innocenti che giacevano nel loro stesso sangue né l’inferno vissuto o l’eroismo mostrato dalle poche forze sotto il mio comando. Tutti riservisti e civili coraggiosi, figli della luce contro un barbaro esercito terrorista” ha scritto Cohen. “Non dimenticherò mai il profondo senso di delusione per la totale sorpresa e le prime ore in cui abbiamo combattuto da soli. L’odore di morte e le urla alla radio non lasceranno mai la mia memoria.”
Cohen ha concluso la sua lettera incoraggiando il nuovo Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir a “condurre l’esercito ad una vittoria completa”: “la missione non è finita! Dobbiamo urgentemente riportare indietro i nostri fratelli che languono in cattività e dare una degna sepoltura ai nostri caduti! Sono certo che lei condurrà l’esercito a una vittoria completa sui codardi. Porgo un saluto i miei fratelli e sorelle caduti in armi, con i migliori auguri di guarigione ai feriti e con la preghiera per la restituzione degli ostaggi.”
(Bet Magazine Mosaico, 31 marzo 2025)
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Chi è Eli Sharvit, nominato da Netanyahu a capo dello Shin Bet
Non conosce l'arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deciso di nominare l’ex comandante della Marina, il viceammiraglio (ris.) Eli Sharvit, come prossimo capo dello Shin Bet, ha annunciato l’Ufficio del primo ministro.
Sharvit sostituisce Ronen Bar, che il Gabinetto ha votato per il licenziamento formale all’inizio del mese.
Bar rimane al suo posto, con un’ingiunzione temporanea imposta al suo licenziamento dall’Alta Corte di Giustizia. Mentre la Corte ha congelato il licenziamento di Bar, ha permesso a Netanyahu di intervistare i candidati per sostituirlo.
Netanyahu ha intervistato sette candidati, secondo il PMO. La candidatura di Sharvit sarà ora esaminata dal comitato di controllo prima che la decisione arrivi al gabinetto.
Il viceammiraglio Eli Sharvit ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.
Secondo un rapporto di Ynet del marzo 2023, Sharvit si è unito a una protesta nella via Kaplan di Tel Aviv, insieme ad altri ex ufficiali militari. Non ha lanciato un appello a rifiutarsi di presentarsi in servizio, come hanno fatto altri riservisti, ma ha solo espresso preoccupazione per la legislazione prevista, secondo il rapporto.
Secondo quanto riferito, Sharvit non conosce l’arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Anche se questo non sarebbe un fatto inedito per un capo dello Shin Bet.
Ha iniziato il suo servizio in Marina nel 1985, diventando ufficiale. Nel corso degli anni ha comandato diverse navi missilistiche e ha ricoperto altri ruoli di rilievo.
Nel 2006, Sharvit è stato il vice comandante della flotta di navi missilistiche della Marina e, durante la Seconda guerra del Libano, ha comandato una delle sue squadriglie.
Tra il 2007 e il 2009 è stato capo dipartimento della Direzione delle operazioni dell’IDF, l’unico ruolo che ha ricoperto al di fuori della Marina.
Sharvit è poi tornato a comandare la flotta di navi missilistiche fino al 2011. Successivamente è stato nominato al comando della base navale di Haifa, dove ha prestato servizio fino al 2014.
Tra il 2014 e il 2016 ha ricoperto il ruolo di capo di stato maggiore della Marina, prima di essere promosso al grado di viceammiraglio e diventare comandante della Marina.
Sharvit ha comandato la Marina fino al 2021, anche durante il conflitto con Hamas del maggio 2021.
Da quando è uscito dall’esercito, ha ricoperto diversi ruoli di primo piano in aziende civili.
All’inizio di questo mese, Sharvit è stato nominato dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Ten. Gen. Eyal Zamir, membro di un gruppo di ex ufficiali che dovrà esaminare e valutare le indagini militari del 7 ottobre.
Sharvit non sarebbe il primo capo dello Shin Bet che viene dall’esterno dell’organizzazione e non ha familiarità con il suo funzionamento, con l’arabo e con gli affari palestinesi. Nel 1996, Ami Ayalon, anch’egli ex comandante della Marina, fu nominato a capo dello Shin Bet dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.
(Rights Reporter, 31 marzo 2025)
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L’Islam radicale – non il sionismo – vuole trascinare e colonizzare il mondo in una nuova guerra
di Rav Scialom Bahbout
La narrazione secondo la quale il ritorno degli ebrei in terra di Israele sarebbe una sorta di nuova colonizzazione simile a quella fatta dai paesi europei in Africa, in Asia eccetera, è assolutamente inconsistente e dimostra di non conoscere né la storia, né la cultura, né i riti che caratterizzano la vita ebraica. Spieghiamo perché: se gli ebrei avessero voluto colonizzare un paese qualsiasi avrebbero accettato la proposta di creare uno Stato in Uganda o in Argentina. Questa era una proposta inaccettabile perché gli ebrei in tutto il periodo in cui sono stati in Esilio hanno desiderato sempre di voler tornare solo a Sion (questo dicono gli ebrei nelle preghiere di tutti i giorni …. ). Inoltre il ritorno degli ebrei in terra d’Israele non è iniziato con il congresso di Basilea del 1897. Molti anni prima, gli ebrei, da quando sono stati cacciati dalla terra di Israele, chiamata provocatoriamente Palestina da Adriano per cancellare l’identità ebraica collegata con la terra, hanno cercato di tornare in terra di Israele. Basta leggere le storie dei gruppi e dei singoli che decidono di tornare in Erez Israel.
Questo è avvenuto nel corso dei secoli, ci sono esempi che chiunque può andarsi a leggere nei libri di storia di Israele. A parte questo, ci fu un tentativo di costituire un nucleo di stato ebraico non soggetto alle decisioni dei re o dei dittatori di turno era stato già tentato in periodo non coloniale: L’artefice di questo progetto fu Donna Grazia Mendes che, dopo essere stata costretta a vagare per l’Europa perché non riusciva a stare tranquilla da nessuna parte a causa delle persecuzioni cristiane, decise che era arrivato il momento di tornare alla terra di Israele e cercare un rifugio per il popolo ebraico. Si rivolse quindi al Sultano di Istanbul che accolse con favore la richiesta di Donna Grazia: è evidente che lui riteneva che la Terra d’Israele è il luogo destinato agli ebrei (come risulta dal Corano che lui conosceva molto bene).
L’unico rifugio possibile era la madre patria, e cioè la terra di Israele. Questo ha cercato di fare Donna Grazia Mendes, con il consenso del sultano. Questo accade nel 1550: la morte di Donna Gracia e altri motivi non permisero la realizzazione del progetto., ma dettero la spinta per creare nuove attività nella Galilea portarono all’immigrazione di molti arabi musulmani residenti al nord (Siria, Libano). La crisi che seguì il fallimento del movimento di Shabbetai Zevi, (che era assistito da Natan di Gaza) fece il resto. Quindi gli ebrei erano a Gaza fin dal XVII secolo e anche prima: ebrei rimasti in quelle terre ci furono e questo è testimoniato dai testi.
Come scrive Mark Twain, nel suo reportage sul suo pellegrinaggio assieme a un gruppo di protestanti in terra di Israele, la terra era desolata. C’erano abitanti quasi esclusivamente nelle città sante, le città che sono ricordate nella Bibbia, come in Gerusalemme, Jaffa, Hebron, Safed. Sono città nelle quali gli ebrei hanno continuato ad abitare come comunità e non come singoli, anche nei territori conquistati dai musulmani.
La verità è che il mondo islamico, sotto la spinta di Maometto e dei suoi successori, ha cercato di conquistare e colonizzare quanti più paesi possibili. Si è espanso in tutto il Mediterraneo e ha cercato anche di occupare l’Europa, ma non ci riuscì e fu costretto a interrompere la sua espansione. La narrazione di storici privi delle conoscenze storiche e culturali del popolo ebraico è contraria alla verità. L’Islam e i suoi seguaci colonizzarono la terra d’Israele. Non è irrealistico pensare che la causa palestinese possa divenire lo strumento che l’Islam potrebbe oggi usare per conquistare l’Europa.
Non è questa una narrazione inventata. Di fatto ci sono molti paesi in Europa in cui la presenza islamica oggi è molto consistente. Quindi il processo di colonizzazione da parte dell’Islam non è finito, è stato interrotto solo per alcuni secoli.
Ci sono naturalmente anche delle persone moderate nel mondo islamico, ma purtroppo le persone moderate sono irrilevanti perché sovrastate da minoranze che stabiliscono la narrazione e il progetto. da maggioranze da un punto di vista storico. Perché le maggiori rivoluzioni, i maggiori cambiamenti sono state fatte da piccoli gruppi che hanno poi trascinati gli altri volenti o nolenti. Semplicemente perché sono sempre le minoranze che fanno la storia, non la maggioranza.
E così è anche oggi per quanto riguarda gli arabi di Palestina. Perché quello che è accaduto è che Hamas non aveva certamente la maggioranza, ha preso il potere per tornare ad occupare quelle terre e a cacciare gli ebrei.
Quindi bisogna guardare alla realtà con una visione prospettica e non limitata semplicemente a quello che accade in questo momento. C’è un processo in corso e in questo processo l’Islam sta cercando di eliminare coloro che ritiene siano gli infedeli. Non tutti sanno che secondo gli sciiti (quindi Iran)i veri ebrei sarebbero i mussulmani.
Quindi hanno cancellato gli ebrei storici e hanno cercato di prendere il loro posto. E in un certo senso il processo che ha fatto la Chiesa per molto tempo stabilendo che la Chiesa è il vero Israel: noi siamo il vero Israel dicono gli Sciiti dopo aver cancellato quello storico.
Come abbiamo dimostrato nel corso della storia gli ebrei hanno continuato a desiderare di tornare a Gerusalemme ogni anno, almeno in due occasioni. Tutti hanno detto l’anno prossimo a Gerusalemme e questo sia nel giorno della sera di Pasqua che poi nel giorno di Kippur alla fine del digiuno. Questo è il desiderio: quindi il sionismo, quello che qualcuno vuole tacciare di colonialismo, non è mai stato colonialista, ma legato alla tradizione ebraica “L’anno prossimo a Gerusalemme”
Anche i sionisti tornati nell’Ottocento in terra di Israele, lo hanno fatto solo in quanto legati alla tradizione. L’unico gruppo che ha vissuto in terra di Israele lungo tutta la storia, anche se non sempre in grandi quantità proprio perché deportati e massacrati sono stati gli ebrei. Quindi nessuna colonizzazione ebraica. La colonizzazione vera è stata quella islamica fatta dagli arabi musulmani: la storia non può essere riscritta.
Concludo ricordando la storia della mia famiglia: cacciata dalla Spagna nel 1492 (con lingua madre lo spagnolo), si è spostata in Marocco, dove è rimasta per oltre 200 anni, fino a quando a causa del pogrom di Marrakesh (1864 – 1880) e il mio bisnonno, decise di muoversi per andare in Erez Israele. Lui, con la famiglia e con molti altri ebrei abbandonarono il Marocco sotto la pressione del pogrom di Marrakesh, e agli altri pogrom. Quindi il ritorno era previsto: è stata semplicemente una questione di tempo e di opportunità.
Comunque per completare il quadro, nel 1948 i soldati arabi della Giordania invasero Gerusalemme Vecchia e la mia famiglia fu costretta ad abbandonare la città. Una foto di mia nonna sui gradini di casa con un soldato giordano che la controllava è stata anche pubblicata su Life.
La stessa sorte subirono tutti gli ebrei che abitavano nel quartiere ebraico di Gerusalemme; le tombe del Monte degli ulivi furono profanate e le lapidi usate per scopi abitativi e financo per latrine; i sopravvissuti riuscirono a trasferirsi nella città nuova, portando con sé i sacri rotoli della legge. I rotoli ritorneranno in sinagoghe improvvisate dopo la tregua firmata a Rodi nel 1949 e definitivamente solo dopo la guerra dei sei giorni, scatenata dalla Giordania.
Di fronte a questo panorama che sembra non dare alcuna speranza, cosa bisogna fare se si vuole arrivare alla pace?
I palestinesi – Hamas e non – devono cancellare dagli statuti e dal loro progetto quello di volere distruggere e cancellare Israele e gli ebrei.
I palestinesi (e gli arabi di molti paesi in cui gli ebrei hanno vissuto) devono pentirsi di aver massacrato gli ebrei nel corso della Storia e chiedere perdono per tutti i pogrom e le uccisioni fatte
I palestinesi devono educare i propri figli ad amare e non a odiare gli ebrei: per questo obiettivo avranno bisogno di essere aiutati.
Una Commissione che controllerà per un periodo di tempo congruo che questi principi verranno osservati. Solo al termine di questo periodo si potrà aspirare a una pace.
(Kolòt - Morashà, 31 marzo 2025)
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Venerdì la maratona di Gerusalemme: «Corriamo per la speranza»
A tredici anni un giovane ebreo diventa bar mitzvah, entrando nel mondo dei grandi attraverso un rito di passaggio. Anche la maratona di Gerusalemme ha affrontato lo scorso anno una prova di maturità, nella sua 13esima edizione: la più complessa da organizzare a livello emotivo per via della presenza in gara e sulle strade della capitale d’Israele di ex ostaggi, loro familiari, amici e gruppi di sostegno, soldati feriti.
Si annuncia dello stesso tenore la quattordicesima, al via venerdì mattina con partenza dall’esterno del Museo d’Israele e arrivo nel parco Sacher dopo 42 chilometri e 195 metri tra i più movimentati del circuito internazionale. Se l’anno scorso i partenti raggiunsero la cifra record di 40mila unità, quest’anno il dato dovrebbe attestarsi attorno ai 35mila podisti complessivi, in gara nella corsa principale e su varie distanze. Tra le quali gli 800 metri della Community Race nata alcuni anni fa su proposta di Shalva, centro locale di assistenza per l’infanzia con disabilità fisico-psichica.
«Per la comunità dei podisti, tutto passa attraverso le gambe. Vogliamo dimostrare che andiamo avanti a testa alta, perché non abbiamo altra scelta», ha spiegato al Jerusalem Post la responsabile del dipartimento sportivo della municipalità di Gerusalemme, Ariella Rajuan. «Corriamo per dare un messaggio di speranza a Israele, per i soldati a cui diciamo “grazie” ogni mattina, per i feriti e per gli ostaggi, affinché possano tornare a casa sani e salvi al più presto». La corsa si svolgerà quasi tutta nei quartieri moderni fatta eccezione per un passaggio di alcune centinaia di metri nella Città Vecchia, tra le porte di Giaffa e Sion. «Correremo attraverso il cuore di Gerusalemme per dichiarare che questa città rappresenta l’intero paese», ha dichiarato Rajuan. Secondo la dirigente dell’amministrazione comunale, non esiste città al mondo con l’eterogeneità di Gerusalemme. La sua conclusione è che «la convivenza è possibile e con questo senso di unità andiamo avanti». a.s.
(moked, 31 marzo 2025)
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La verità in tempi di menzogna - una prospettiva biblica
Tra fake news, ideologia e fede: perché oggi è più importante che mai aggrapparsi alla verità divina.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ai nostri giorni, la verità è diventata qualcosa di commerciale e malleabile. Nell'era della tecnologia avanzata e della conoscenza accessibile, è difficile distinguere tra fatti, opinioni, notizie vere e fake news. L'influenza dei social media rafforza ancora di più questa sensazione. Sui social network le bugie vengono spacciate come verità.
Già nel passato, in tempi privi di Instagram, i profeti criticavano il fatto che “la menzogna è diventata più forte della verità”. Geremia diceva: “Gli uni ingannano gli altri e non dicono la verità”.
Oggi si tende a dire che non esiste una verità assoluta, ma che ognuno comprende la realtà e gli eventi a partire dalla propria visione del mondo. Verità personale o verità di Dio? La verità si confonde con gli interessi politici o ideologici. Non è facile distinguere tra verità e menzogna, ma anche ai tempi della Bibbia era difficile.
Nel contesto della Bibbia ebraica, ci sono connessioni interessanti. Nella Bibbia, la verità è chiamata emet (אמת). Emet deriva dalla radice A-M-N (א-מ-נ), così come Emuna - fede (אמונה) e “credo” - Amen (אמן). Concludete le vostre preghiere con la parola ebraica “Io credo” - la vostra verità. Fede e verità derivano dalla stessa parola Amen (אמן). In questo senso, anche la parola ebraica che indica la formazione Imun (אמון) deriva da Amen. Per mantenere la fede e la verità, bisogna abituare il cuore a seguire Dio e la verità, e a rimanergli fedeli. La mia fede determina la mia o la verità in senso biblico.
Emet אמת è composto dalla prima (א), media (מ) e ultima (ת) lettera dell'alfabeto ebraico. Questo indica la loro assoluta portata e perfezione, l'inizio e la fine. “Il Signore Dio è verità”, disse il profeta Geremia (10). La verità è collegata alla divinità. Nel Nuovo Testamento, Gesù ha detto: “Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine”.
Nella Bibbia, la verità appare in relazione a Dio, alla moralità e alla retta via. Anche le parole del salmista “grazia e verità si incontrano” indicano la qualità di Dio. Nella Bibbia la verità è sinonimo di stabilità, fede, giustizia e santità. È un attributo di Dio, la base per una società giusta e parte essenziale dell'alleanza con Dio. Per questo motivo, Dio deve costantemente formare, educare il suo popolo affinché mantenga la fede e la verità. Questo vale anche per noi. Per rimanere fedeli a Dio e alla verità, non dobbiamo lasciarci distrarre da altre “verità”.
Per il profeta Zaccaria, anche la Città Santa di Gerusalemme, in alto sul monte, è la “città della verità”. Agli occhi del profeta, Gerusalemme è il centro della rettitudine e della giustizia. Gerusalemme è la dimora di Dio, dove è stata stabilita la casa di Dio. “Così dice il Signore: Tornerò su Sion e abiterò di nuovo in mezzo a Gerusalemme, e Gerusalemme sarà chiamata la città della verità (עיר אמת, ir emet)”. Poi dice: “Di' la verità al tuo prossimo, giudica con giustizia e pace nelle tue porte”. E infine: “ma ama la verità e la pace”. E queste due cose spesso non vanno d'accordo. Cos'è più santo, la pace o la verità? Questa tensione tra verità e pace continua a commuovere gli uomini ancora oggi. Nessuno, sia a destra che a sinistra, vuole scendere a compromessi e rinunciare ai propri valori: la pace o la verità.
In un'epoca di fake news e disinformazione, la ricerca della verità è più importante che mai. Come nella Bibbia, anche oggi la verità è legata all'autenticità, alla fedele adesione a valori e convinzioni. Come nella Bibbia, la verità rimane un'ancora di stabilità in un mondo caotico. E in questa frenesia mediatica, noi di Israel Heute vogliamo essere una voce chiara, forte e vera per le nazioni da Gerusalemme.
(Israel Heute, 31 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Una parashah di generosità, devozione e fede
Il Tabernacolo era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.
di Ariel Winkler
Il 1° marzo 2025, 1° Adar 5785, nelle sinagoghe si è letta la parashah “Terumah”. Questa parashah è incentrata sulle istruzioni che Dio dà a Mosè per la costruzione del Tabernacolo e dei suoi utensili. Vengono descritte le donazioni necessarie da parte del popolo per la costruzione, tra cui oro, argento, rame, tessuti preziosi e legno di acacia. Inoltre, vengono spiegati in dettaglio gli utensili centrali del tabernacolo: l'arca dell'alleanza, la tavola dei pani, il lampadario, l'altare dell'incenso e il cortile che circondava il tabernacolo. Queste istruzioni dettagliate sottolineano la grande importanza che Dio attribuisce al tabernacolo come luogo di incontro con il suo popolo. Simboleggiano la santità e l'ordine richiesti per l'adorazione di Dio.
Il tabernacolo è stato costruito secondo un progetto che Dio ha mostrato a Mosè in cielo: “Secondo tutto ciò che ti mostro, il modello del tabernacolo e il modello di tutti i suoi utensili, così lo farai” (Esodo 25,9). Questo chiarisce che il tabernacolo non era solo un edificio fisico, ma aveva un significato spirituale più profondo. Il suo scopo era quello di essere il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: “Mi faranno un santuario, perché io abiti in mezzo a loro” (Esodo 25,8). Il tabernacolo incarna il piano di Dio per superare la separazione causata dal peccato di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden (Genesi 3). Era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.
La parashah inizia con la descrizione di come il popolo d'Israele lavori con gioia ed entusiasmo alla costruzione del tabernacolo. Essi portano donazioni volontarie di oro, argento, rame, tessuti preziosi, pietre preziose e altri materiali. La loro generosità finisce per superare il bisogno, così Mosè deve interrompere le donazioni (Esodo 36,5-7). Questo comportamento mostra la profonda gratitudine e devozione del popolo verso Dio e il suo desiderio di esprimere il proprio amore e la propria fede attraverso una gioiosa donazione.
Nel Nuovo Testamento, anche noi credenti siamo chiamati a mostrare generosità e a investire nell'edificazione della Chiesa. In Efesini 2:21-22 si legge: “Nel quale tutto l'edificio, unito insieme, cresce fino a diventare un tempio santo nel Signore, nel quale anche voi venite edificati per formare una dimora di Dio nello Spirito”. Proprio come il popolo d'Israele ha dato al tabernacolo, anche noi siamo chiamati a essere generosi e a contribuire con tempo, risorse e talenti a rafforzare il corpo di Cristo. La nostra generosità dimostra le nostre priorità, la nostra unità di credenti e il nostro desiderio di sostenere l'opera di Dio nel mondo.
Dio ha provveduto in anticipo a fare doni agli israeliti per costruire il tabernacolo, anche se sono usciti dall'Egitto come schiavi. Quando lasciarono l'Egitto, Dio ordinò loro di chiedere agli egiziani oggetti d'argento e d'oro e vestiti (Esodo 12,35-36), e gli egiziani diedero loro molto. In questo modo, Dio non solo preparò materialmente il popolo per il viaggio attraverso il deserto, ma anche per la costruzione del tabernacolo. Questa cura dimostra che Dio è la fonte di ogni abbondanza. E ciò che diamo è in definitiva un privilegio, in quanto gli restituiamo ciò che ci ha dato.
Come cristiani, crediamo che Dio si prenda cura di noi anche oggi e conosca i nostri bisogni. Come si legge in Filippesi 4:19: “Ma il mio Dio provvederà a tutte le vostre necessità secondo le sue ricchezze nella gloria, per mezzo di Cristo Gesù”. La sua cura non è solo per i nostri bisogni fisici, ma anche per la nostra preparazione a fare la sua volontà. Così come si è preso cura del popolo d'Israele nel deserto, ci dà i mezzi per servirlo e costruire il suo regno nel mondo.
Paolo invita le chiese del Nuovo Testamento a mostrare generosità e sostegno reciproco. In 2 Corinzi 8, ricorda alle chiese che la loro abbondanza non è solo per il loro uso personale, ma anche per condividerla con i bisognosi, specialmente con i fratelli e le sorelle di Gerusalemme che soffrivano di difficoltà economiche (Romani 15:26).
Questo sostegno è un'espressione dell'unità del corpo di Cristo e un ringraziamento a Dio, da cui provengono tutte le benedizioni.
Durante la guerra delle “Spade di ferro”, i credenti di tutto il mondo hanno mostrato solidarietà alle congregazioni messianiche in Israele e al popolo ebraico. Questo sostegno si è manifestato attraverso preghiere, donazioni finanziarie e aiuto pratico. Riflette la responsabilità reciproca nel corpo di Cristo e dimostra l'amore di Cristo attraverso l'unità e l'azione.
La parashah “Terumah” ci insegna la generosità, la devozione e la fede. Il tabernacolo non era solo una struttura fisica, ma un simbolo della presenza di Dio tra il suo popolo. Allo stesso modo, anche noi siamo chiamati ad applicare questi principi nella costruzione della Chiesa, che è il tempio di Dio. Come Israele nel deserto, anche noi possiamo sperimentare come Dio provveda a tutte le nostre necessità e ci inviti a far parte del suo piano. La generosità, il sostegno reciproco e l'unità sono testimonianze vive della nostra fede in Cristo, attraverso le quali possiamo portare luce e benedizione in questo mondo.
(Nachrichten aus Israel, marzo 2025/5785 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Sondaggio Israele: il 70% degli israeliani non si fida del Governo Netanyahu
di Sarah G. Frankl
TEL AVIV – Secondo un sondaggio andato in onda su Channel 12, alla domanda se gli israeliani si fidano dell’attuale governo Netanyahu, il 70% degli intervistati ha risposto di no, rispetto al 27% che ha detto di sì. Anche tra gli elettori della coalizione, solo il 51% ha detto di fidarsi del governo, rispetto al 36% che ha detto di non fidarsi.
Alla domanda su quale impatto avrà il bilancio approvato questa settimana dalla coalizione sulle tasche degli israeliani, il 54% degli intervistati ha risposto che danneggerà la loro situazione finanziaria personale, il 20% ha detto che non avrà un impatto e solo il 7% ha detto che migliorerà la loro posizione.
Alla domanda su chi sia più interessato al governo – gli israeliani ultraortodossi e altri settori affiliati alla coalizione o l’intera opinione pubblica – solo il 24% degli intervistati ha risposto la seconda, mentre il 66% dell’opinione pubblica ha risposto i primi gruppi.
Alla domanda sulla legge di revisione del sistema giudiziario che il governo sta avanzando, solo il 34% degli intervistati ha detto di sostenerla, rispetto al 50% che ha detto di non volerla e al 16% che ha detto di non essere sicuro.
Alla domanda su chi sia più adatto a ricoprire il ruolo di primo ministro, il 35% degli intervistati ha risposto Benjamin Netanyahu, contro il 26% che ha indicato il presidente dell’opposizione Yair Lapid mentre il 33% ha indicato nessuno dei due.
Quando Netanyahu è stato messo a confronto con il presidente di Unità Nazionale Benny Gantz, il primo ha ricevuto il 34%, rispetto al secondo, che ha ricevuto il 26% – una cifra particolarmente bassa per Gantz, che da tempo è in vantaggio su Lapid. Il 35% degli intervistati ha dichiarato che né Netanyahu né Gantz sono adatti a ricoprire il ruolo di premier.
Il numero due di Unità Nazionale, Gadi Eisenkot, è andato leggermente meglio contro Netanyahu, ricevendo il 29% e facendo scendere la categoria “nessuno dei due” al 29%.
Se confrontato con il capo dei Democratici di sinistra Yair Golan, Netanyahu ha ricevuto il 37%, rispetto al 21% del primo, mentre il 37% non ha detto nessuno dei due.
L’ex primo ministro Naftali Bennett è l’unico politico che ha ottenuto risultati migliori di Netanyahu in un testa a testa, ricevendo il 38%, rispetto al 31% dell’attuale premier, mentre il 24% degli intervistati ha detto che nessuno dei due è adatto a governare.
(Rights Reporter, 29 marzo 2025)
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“Se rifiutate la mano tesa, la risposta sarà ferma”: svelata la lettera di Trump a Khamenei
"È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo davanti a noi un'opportunità storica”.
La lettera inviata dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei è stata rivelata per la prima volta sabato mattina da Sky News Arabia. Nella missiva, Trump esprime il desiderio di avviare negoziati, formulando però un chiaro avvertimento: “Se rifiutate la mano tesa e scegliete la strada dell'escalation e del sostegno alle organizzazioni terroristiche, vi avverto di una risposta rapida e determinata”.
Il Presidente degli Stati Uniti inizia la sua lettera con un appello alla comprensione tra le due nazioni: “Scrivo questa lettera con l'obiettivo di aprire nuovi orizzonti per le nostre relazioni, lontano dagli anni di conflitti, incomprensioni e inutili scontri a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”.
“È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo un'opportunità storica davanti a noi”, ha proseguito, prima di chiarire che gli Stati Uniti ‘non resteranno inerti di fronte alle minacce del vostro regime contro il nostro popolo o i nostri alleati’.
Trump ha sottolineato la sua disponibilità ad avviare negoziati: “Se siete pronti a negoziare, lo siamo anche noi. Ma se continuerete a ignorare le richieste del mondo, la storia testimonierà che avete perso un'eccellente opportunità”.
La lettera è stata inviata dalla Casa Bianca circa tre settimane fa, in un contesto di crescenti tensioni con l'Iran. Teheran ha risposto formalmente all'inizio di questa settimana, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.
Il Presidente degli Stati Uniti ha ribadito ieri la sua posizione in una dichiarazione sulla questione del nucleare iraniano. “La mia preferenza è quella di andare d'accordo con l'Iran, ma se non lo facciamo, accadranno cose molto brutte”, ha avvertito.
In questo contesto di tensione, recenti immagini satellitari confermano che gli Stati Uniti hanno schierato bombardieri stealth dell'Aeronautica Militare nell'Oceano Indiano, vicino all'Iran e allo Yemen. La presenza di queste armi nella regione di Diego Garcia segnala un potenziale cambiamento nella postura militare statunitense nell'area indo-pacifica.
(i24, 29 marzo 2025)
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Israele e il paradosso della felicità: perché è tra i Paesi più felici al mondo?
Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce.
di Marina Gersony
Israele è uno dei Paesi più felici del pianeta. Da non credere, vero? Eppure, nonostante il conflitto in corso, le tensioni politiche, un contesto geopolitico complicato e le tragedie che hanno colpito le famiglie, gli israeliani sorridono decisamente più di tanti europei e americani. Tanto da classificarsi come ottava nazione più felice nel sondaggio globale, in netta controtendenza rispetto agli Stati Uniti che sono al 24° posto. Ma com’è possibile che un Paese costantemente sotto pressione riesca a essere così in alto nella classifica? Come si misura la felicità? Le risposte sono meno ovvie di quanto sembra.
Il World Happiness Report 2025, che ogni anno misura il benessere delle nazioni, non si basa su semplici interviste a persone di buon umore. Il livello di felicità viene calcolato tenendo conto di sei fattori: reddito (più soldi, più serenità… almeno fino a un certo punto); salute e aspettativa di vita; supporto sociale e fiducia (avere qualcuno su cui contare); libertà personale; assenza di corruzione; generosità (sì, aiutare gli altri rende più felici).
Ora, osservando questi parametri, è chiaro che Israele ha qualcosa di speciale. Il 2022, prima dell’attacco di Hamas, è stato l’anno migliore per Israele, classificandosi al secondo posto. Nel 2023 era al 21° posto (un calo drammatico dovuto alla controversia interna derivante dalla riforma giudiziaria promossa dall’attuale governo israeliano, alla guerra scatenata da Hamas e alle dimensioni assunte dal conflitto armato); nel 2024 è salito al 7°, nel 2025 è previsto all’8°. Un’ascesa notevole, soprattutto considerando le sfide che il Paese affronta.
Ma cosa c’è dietro questa felicità? Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Definiti come noto “sabras” o fichi d’india, nessun altra espressione riflette il carattere tipico degli israeliani nati in Eretz Israel: possono sembrare diretti, schietti e talvolta bruschi, ma sono anche calorosi, leali e generosi.
Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce: le persone si aiutano tra loro, il volontariato aumenta, le donazioni fioccano. C’è un senso di appartenenza che in molti altri Paesi si è perso. Lo si è visto dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, con migliaia di persone in fila per donare il sangue o volontari che preparavano pasti per i soldati, pacchi per gli sfollati o andavano a lavorare nei kibbutzim colpiti.
Secondo uno studio dell’Università di Tel Aviv, nei momenti difficili l’empatia sociale in Israele sale alle stelle. Come hanno sottolineato in modi diversi numerosi pensatori e filosofi, le difficoltà comuni rafforzano i legami all’interno della comunità, favorendo la solidarietà e il benessere collettivo, dove famiglia e tradizione rappresentano i veri pilastri di questo equilibrio. Se chiedi a un israeliano qual è la cosa più importante nella sua vita, quasi sempre ti risponderà: la mishpacha, la famiglia. Mentre in molti Paesi occidentali si parla di crisi dei rapporti familiari, in Israele i legami restano forti e profondi. Un modo per ritrovare equilibrio, rafforzare i legami e sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Non a caso, secondo il Jerusalem Institute for Policy Research, il 78% degli israeliani considera la famiglia la principale fonte di felicità. Ma la felicità, qui, ha un significato diverso rispetto ad altre parti del mondo. Non è l’assenza di problemi, ma la capacità di affrontarli. Il concetto di Tikun Olam – di “riparare il mondo” – è profondamente radicato nella cultura israeliana. L’idea di fondo è semplice: anche nei momenti più difficili, c’è sempre qualcosa che si può fare per migliorare la propria vita e quella della comunità.
E poi c’è il servizio militare. Anche se può sembrare un’esperienza dura, crea legami fortissimi tra i giovani. «Nel momento in cui sai di poter contare sugli altri, affronti la vita in modo diverso», spiega la sociologa Anat Fanti dell’Università Bar-Ilan.
Felici nonostante tutto, Israele ci insegna che la felicità non è solo una questione di comfort o stabilità. È la forza di un gruppo, il supporto degli amici e della famiglia, la resilienza che nasce dalle difficoltà. In molti Paesi, la felicità è vista come qualcosa da raggiungere individualmente. In Israele, è un’esperienza collettiva.
In termini di libertà, tuttavia, gli israeliani hanno classificato il loro paese all’87° posto su circa 130 paesi studiati, mentre in termini di corruzione è visto solo come il 32° posto più corrotto. In termini di disuguaglianza, ha ottenuto il 15° punteggio più alto, dove un punteggio più alto significa meno disuguaglianza.
(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)
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Bufera su Conte: lo sdegno della comunità ebraica e della politica per le sue dichiarazioni
di Luca Spizzichino
Le recenti dichiarazioni di Giuseppe Conte, in cui chiede agli ebrei di dissociarsi da Israele, hanno suscitato un’ondata di polemiche e indignazione, in particolare da parte delle comunità ebraiche di Roma e Milano e di numerosi esponenti politici, che hanno definito le affermazioni del leader del M5S discriminatorie e potenzialmente antisemite.
Già nei giorni scorsi la dichiarazione di Conte era stata definita “oscena” dal direttore di ‘Shalom’ Ariela Piattelli, che in un editoriale ha ricordato come richieste simili in passato abbiano contribuito ad alimentare un clima antisemita.
Il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha reagito con fermezza in una lettera indirizzata al direttore de ‘Il Foglio’: “Non siamo qui per dissociarci da Israele. Israele è la nostra carne, la nostra storia, il nostro respiro. Non ci dissociamo, non ci discolpiamo, non ci nascondiamo. Non siamo colpevoli in quanto ebrei”. Fadlun ha poi ricordato l’appello di Conte sia una “replica inquietante di quel ‘Davide, discolpati’ che Rosellina Balbi denunciava su ‘Repubblica’ nel luglio 1982, dopo che un corteo sindacale scaraventò una bara davanti alla sinagoga di Roma per protestare contro le azioni del governo Begin in Libano. Pochi mesi dopo, il Tempio Maggiore fu teatro di un attentato terroristico, in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché. “Allora il dito era puntato su Israele. Oggi è quello di Conte, che abusa del termine ‘sterminio’, lo scandisce e lo cuce alla bandiera di Israele davanti alle telecamere.”
Sul medesimo tono si è espresso Walker Meghnagi, presidente della Comunità Ebraica di Milano, dichiarandosi “esterrefatto” dalle parole di Conte e definendole “razziste e anticostituzionali”. Meghnagi ha inoltre lanciato un appello al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché intervenga ufficialmente sulla questione.
Anche dal mondo politico si sono levate dure critiche. Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, ha accusato Conte di aver compiuto “un atto di razzismo”, ricordando che la definizione di antisemitismo adottata dal governo Conte stesso stabilisce che attribuire agli ebrei la responsabilità per le azioni di Israele costituisce una forma di antisemitismo. Maria Stella Gelmini, esponente di Noi Moderati, ha messo in guardia contro il rischio che la manifestazione pacifista del 5 aprile si trasformi in un “raduno antisemita”. Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, ha criticato aspramente Conte con un post su X: “Ci si chiede cosa sia l’antisemitismo. Per esempio, pensare che tutti gli ebrei italiani siano prima di tutto ebrei, una categoria. Poi, forse, eventualmente, anche degli italiani”.
(Shalom, 28 marzo 2025)
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Il cretinismo antisemita contagia Conte, l’appello agli “amici ebrei” del politico neopacifista assetato di voti
Manipolazione e negazione della verità
di Michele Magno
Il conflitto in Medio Oriente è ormai diventato – non solo in Italia – una specie di porto delle nebbie, in cui i figli delle vittime della Shoah sono ritenuti responsabili del massacro di un altro popolo. La semplice comparazione è ignobile, ma la sua percezione è diffusa. Da ultimo, ci ha pensato Giuseppe Conte ad accodarsi al “cretinismo antisemita” (spero a sua insaputa), con l’appello agli “amici ebrei” affinché condannino lo “sterminio” dei palestinesi.
La verità è che almeno dal 1982 – anno dell’invasione del Libano – la memoria dell’Olocausto si è scontrata con difficoltà crescenti. Anche perché, nell’antropologia del sacrificio, la vittima deve sempre apparire innocente. Lo Stato israeliano non è innocente, l’ebreo di Israele non è innocente, perché hanno osato difendersi e combattere per la loro sopravvivenza. E fin qui, per fortuna, con successo.
Ma dal 7 ottobre 2023 il proprio diritto a esistere è stato di nuovo messo in discussione, questa volta dai macellai di Hamas e dai suoi burattinai, a cui forse non dispiace che Gaza venga rasa al suolo per proclamare la “guerra santa” contro gli infedeli. Chi non ha perso il senno sa che da oltre mezzo secolo la questione israelo-palestinese provoca non una critica (lecita) delle politiche dei suoi governi, bensì la sua delegittimazione come Stato. Come se non bastasse, l’identificazione di sempre più ampi settori della diaspora con Israele ha steso il tappeto a un nuovo antiebraismo, non riconducibile né alla tradizione antigiudaica cristiana né all’antisemitismo razziale.
Manipolazione e negazione della verità, cioè di fatti accertati e provati, sono procedure caratteristiche della propaganda contro gli ebrei. La contrapposizione tra l’Europa cristiano-ariana e l’ebraismo rappresentava il centro della storia del mondo e giustificava la “funzione di salvezza” della missione del Führer. Per i negazionisti della sinistra radicale, eredi delle derive ideologiche dell’antimperialismo occidentale, tutti i regimi politici del Novecento (dalla democrazia liberale al fascismo) sono stati varianti di un unico dominio totalitario. E non da ora questo verdetto aberrante viene emesso contro l’unica democrazia che esiste nel Medio Oriente. Oggi ne possiamo vedere tutte le tragiche conseguenze culturali e morali, appunto, anche nelle dichiarazioni di un leader politico neopacifista assetato di voti.
(Il Riformista, 29 marzo 2025)
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Razzi dal Libano sul nord di Israele. Immediata risposta di Gerusalemme
di Sarah G. Frankl
Questa mattina presto almeno due razzi sono stati lanciati dal Libano meridionale verso il nord di Israele. Secondo l’IDF uno dei razzi è stato intercettato dal sistema Iron Dome in quanto potenzialmente diretto su un centro abitato, mentre l’altro è caduto in uno spazio aperto.
Questo è il secondo attacco dal Libano nell’ultima settimana, dopo i tre razzi lanciati su Metula il 22 marzo.
Quasi immediata la risposta israeliana. Caccia dell’aviazione di Gerusalemme hanno bombardato nella zona di Nabatieh, nel Libano meridionale. Più nello specifico hanno colpito le aree di periferia di Qaaqaait al-Jisr e la città di Khiam.
In un commento di pochi minuti fa il ministro della Difesa israeliano Israel Katz avverte che “il destino di Kiryat Shmona è lo stesso di Beirut”, in un’apparente minaccia alla capitale libanese.
Afferma che senza la pace nelle comunità del confine settentrionale di Israele, “non ci sarà pace nemmeno a Beirut”.
“Il governo libanese ha la responsabilità diretta di qualsiasi attacco alla Galilea”, accusa. “Garantiremo la sicurezza dei residenti della Galilea e agiremo con forza contro qualsiasi minaccia”.
(Rights Reporter, 28 marzo 2025)
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A Gaza terzo giorno di rivolta palestinese. «Hamas vada via, qui c’è l’inferno».
I jihadisti reprimono le proteste, Israele valuta la tregua offerta tramite l'Egitto. Un volo Ita devia la rotta per i missili degli Huthi
di Stefano Piazza
Ieri a Gaza, per il terzo giorno consecutivo, centinaia di palestinesi anti Hamas hanno nuovamente manifestato contro il gruppo jihadista. Stavolta hanno anche lanciato un messaggio alle persone in tutto il mondo che sostengono Hamas invece che loro. In uno dei tanti video che circolano in rete si vede un uomo disperato che grida davanti alle telecamere: «Vieni a vivere l'inferno che stiamo sopportando, poi potrai parlare». Le proteste di ieri sono state interrotte dall'inizio di un intenso bombardamento, del quale i manifestanti sono stati avvisati per tempo. Tra coloro che si sentono in sintonia con Hamas, oltre ai tanti pro Pal, sembra esserci anche il deputato Riccardo Ricciardi (Mss), che ha letto in Parlamento le ultime volontà di Hossam Shabat, un terrorista di Hamas che ha preso parte al massacro del 7 ottobre 2023; l'onorevole lo ha fatto come se parlasse del Mahatma Gandhi.
Tornando alle proteste nella Striscia di Gaza, Hamas sta facendo di tutto per soffocarle; mercoledì i miliziani sono intervenuti per disperdere una manifestazione nei pressi dell'ospedale indonesiano a Beit Lahia e alcuni manifestati sono stati picchiati. Ora si attende la vendetta sugli organizzatori delle proteste. Come vi abbiamo raccontato ieri, tutto avviene senza che l'emittente qatarina al-Jazeera dedichi un solo servizio alle proteste contro Hamas, perché ciò disturberebbe la Fratellanza musulmana, della quale Hamas è il braccio armato. Sui canali Telegram e gli altri social, Hamas sta provando a screditare le proteste, affermando che i manifestanti sarebbero «degli attori pagati dal Mossad. Chi c'è davvero dietro i tumulti? Prima di tutto, la disperazione di una popolazione portata allo stremo da Hamas, che ha rifiutato ogni accordo e che continua a tenere i 59 ostaggi israeliani (tra vivi e morti) nei tunnel usando la popolazione civile come scudo. Poi c'è sicuramente l'Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas, che da mesi chiede ad Hamas di lasciare il potere, ma su questo nessuno si illude più. Ieri, i clan delle province meridionali di Gaza hanno annunciato il ritiro del loro sostegno all'organizzazione islamista, intimandole di non reprimere le proteste pacifiche.
La guerra intanto prosegue: ieri mattina Hamas ha annunciato che il suo portavoce, Abdul Latif al-Qanou, è stato eliminato in un attacco israeliano a Jabalia, nella Striscia di Gaza settentrionale. AI-Qanou è colui che la notte del 18 ottobre 2023 divulgò la notizia secondo la quale, alle 18.59 di quella sera, Israele aveva bombardato l'ospedale al-Ahli di Gaza «facendo oltre 500 morti". Da qual momento iniziò quella campagna d'odio che dura ancora oggi contro Israele. Giorni dopo le prove mostrarono che invece si trattava di un missile difettoso lanciato dalla Jihad islamica, che fece 20 morti, ma il danno, in termini di immagine, è stato enorme, al punto che ancora oggi c'è chi ha il coraggio di parlare di «vicenda controversa».
Sempre nella giornata di ieri, secondo quanto riportato dal quotidiano libanese L'Orìent - Le Jour, tre appartenenti a Hezbollah sono stati inceneriti da un drone israeliano mentre si trovavano su un auto nell'area di Yohmor el-Chakìf nella regione di Nabatiye, nel Sud del Libano.
Nonostante le recenti operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Yemen - al centro dell'ormai noto chatgate» - gli Huthi continuano a ostacolare la sicurezza di rotte aeree e marittime nel Medio Oriente, tanto che, ieri, il volo Ita Airways AZ806, partito da Roma Fiumicino e diretto a Tel Aviv, ha dovuto deviare la rotta verso il mare a causa del lancio di due missili balistici provenienti dallo Yemen. Il velivolo è poi atterrato «in tutta sicurezza». Nel primo pomeriggio, le sirene d'allarme hanno risuonato in tutto l'aeroporto di Tel Aviv e in altre zone del Paese, in seguito al lancio di un missile partito dallo Yemen. L'esercito ha fatto sapere che entrambi i missili sono stati intercettati prima che potessero oltrepassare il confine israeliano. «Due missili lanciati dallo Yemen sono stati intercettati prima di entrare nel nostro spazio aereo. Le sirene sono scattate in linea con le procedure previste», ha reso noto l'Idf.
A fronte della situazione in Medio Oriente, le sigle sindacali Filt Cgil, Uiltrasporti e Anpac hanno inviato una richiesta formale alla Airways per un confronto immediato «in merito alla direttrice Tel Aviv e alla possibilità di una sospensione temporanea delle operazioni su quella tratta».
Infine, fonti della sicurezza hanno riferito a Reuters che Israele avrebbe dato segnali favorevoli a una nuova proposta per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza avanzata dall'Egitto, uno dei principali mediatori nei colloqui. Il piano includerebbe una fase di transizione, e - secondo alcune fonti - prevederebbe il rilascio da parte di Hamas di cinque ostaggi israeliani a cadenza settimanale.
(La Verità, 28 marzo 2025)
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Le proteste anti-Hamas a Gaza
di Seth Mandel
I palestinesi di Gaza stanno imparando a proprie spese che non hanno nemico più grande sulla scena mondiale degli antisionisti occidentali.
Beh, forse il Qatar. Chiamiamolo pareggio.
L’altro ieri, un palestinese trentaduenne di nome Ibrahim è andato a fare la spesa nel centro di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, e si è imbattuto in una scena straordinaria: centinaia di abitanti di Gaza stavano marciando per protestare contro Hamas. Così si è unito a loro. Il messaggio dei manifestanti a Hamas era semplice: andatevene da Gaza e non tornate più.
I
l New York Times riporta con adorabile onestà: “I gazani, almeno pubblicamente, tendono a incolpare Israele per gran parte della morte, della distruzione e della fame che la guerra ha portato. Ma almeno alcuni ritengono anche Hamas responsabile per avere iniziato il conflitto guidando l’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele, rapendo 251 persone a Gaza e continuando a combattere piuttosto che rinunciare al proprio potere in cambio di un cessate il fuoco”.
Per quanto possa essere difficile da credere, è vero: i cittadini di Gaza non sono stati completamente onesti in pubblico. C’è una ragione per questo. Per fare un solo esempio, Amin Abed è stato quasi picchiato a morte con dei martelli per aver criticato Hamas. Abed è stato salvato dagli astanti, quindi presumibilmente, l’intenzione era quella di finirlo. Durante il cessate il fuoco, i membri di Hamas si sono vantati di avere giustiziato dei “collaboratori” e si sono filmati mentre sparavano ai civili.
Ecco cosa rende le proteste ancora più significative. Protestare contro Hamas in pubblico significa mettere a repentaglio la propria vita. Ciò è particolarmente vero perché le proteste erano destinate a essere filmate, per fare arrivare il messaggio al mondo. Il motivo per cui il mondo ha bisogno di sentire quel messaggio è che gli occidentali sono stati gli strumenti di propaganda volontari di Hamas. Le proteste nei campus non sono “pro-palestinesi”, sono pro-Hamas, e la gente di Gaza è vittima di Hamas. Ciò significa che il movimento di protesta antisionista in tutto il mondo si schiera oggettivamente contro le vittime e i civili di Gaza.
È vero ciò che dicono: i sinistrorsi occidentali sono disposti a combattere Israele fino all’ultimo palestinese. Gli attivisti agiati di Morningside Heights invocano la “resistenza” perché non attribuiscono alcun valore alle vite di ebrei o arabi, israeliani o palestinesi. Si illudono anche di credere a cose che i cittadini di Gaza non possono permettersi di credere, ad esempio che Israele distrugga in modo sconsiderato gli edifici residenziali perché gli piace farlo. In realtà, i cittadini di Gaza sanno che Hamas costruisce ingressi ai tunnel del terrore nelle case dei civili perché è stato fatto nelle loro abitazioni. Non è l’IDF a nascondere le bombe all’interno degli animali di peluche nelle camerette dei bambini palestinesi insieme a una telecamera per sapere quando fare esplodere quell’orsacchiotto del terrore. I cittadini di Gaza sanno che le loro case sarebbero ancora in piedi se non ci fosse Hamas; è davvero così semplice.
Ecco perché i cittadini di Gaza stanno dicendo esattamente la stessa cosa che hanno detto il governo israeliano e il governo degli Stati Uniti. Nelle parole di un uomo di Beit Lahiya: “Se Hamas non se ne va, la prossima guerra sarà solo questione di tempo”.
Il punto chiave non è esplicitato: anche i cittadini di Gaza sanno che non è Israele a desiderare la guerra, ma Hamas. Se i palestinesi di Gaza non cadono nell’equivalenza morale tra Hamas e Israele, che scusa hanno gli americani?
La risposta è nessuna. Nessuno, da nessuna parte, ha una scusa per tentare di equiparare Hamas e Israele. E nell’istante in cui un palestinese a Gaza ha la minima possibilità di essere onesto, lo dice chiaramente. L’esistenza di Israele non necessita della guerra; quella di Hamas sì.
Durante le proteste ci sono state anche lamentele in merito ad al Jazeera, la televisione di propaganda del Qatar. Il Qatar sponsorizza Hamas e veste i terroristi con gilet da giornalisti rendendo quasi impossibile distinguere Hamas da chiunque altro. I cittadini di Gaza non lo apprezzano, e non apprezzano le bugie diffuse in tutto il mondo dalla piattaforma di al Jazeera. Quelle bugie, dopotutto, condannano a morte i cittadini di Gaza di tutti i giorni. (Forse Steve Witkoff può parlare con i suoi amici qatarioti, che ha subissato di elogi per il loro presunto desiderio di pace.)
Chiunque affermi di lamentarsi delle tragiche condizioni di Gaza e tuttavia sostenga la continua esistenza di Hamas sta contribuendo e aggravando la miseria palestinese nella Striscia di Gaza. Questo è un raro punto di accordo tra israeliani e palestinesi. La connessione tra Hamas e la devastante guerra a Gaza è la stessa della connessione tra gravità e caduta di oggetti. La differenza è che nel caso di Hamas, il problema può essere risolto.
(L'informale, 28 marzo 2025)
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Un documentario mostra il puro odio verso Israele nelle università d'élite
Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, gli studenti americani sono esplosi in un puro odio verso Israele. Un documentario fa capire che il gruppo terroristico ha lavorato per molti anni al fine di manipolare l'immagine di Israele in Occidente.
di Jörn Schumacher
Il documentario “8 ottobre” è proiettato nei cinema degli Stati Uniti dal 14 marzo. Il documentario fa luce sull'aumento dell'antisemitismo nelle università statunitensi, nei social media e nelle strade dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Una richiesta di Israelnetz di ottenere una copia del film per una recensione non ha avuto risposta. Non si sa se il film sarà mai tradotto in tedesco.
La regista del film, Wendy Sachs, ha intervistato quasi due dozzine di persone sugli indicibili disordini negli Stati Uniti. Tra gli intervistati figurano leader ebrei, analisti politici, accademici, autori, attori e studenti.
Nel documentario sono presenti, tra gli altri, il deputato democratico statunitense Ritchie Torres, l'attrice israeliana Noa Tishby, l'attrice americana Debra Messing e il regista Michael Rapaport. Parleranno di antisemitismo anche Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei membri fondatori di Hamas, la politica statunitense Kirsten Gillibrand e Shai Davidai, assistente israeliano di amministrazione aziendale alla Columbia Business School. Quest'ultimo è diventato famoso per la sua difesa a favore di Israele e contro le occupazioni pro-palestinesi del campus della Columbia University di New York nel 2024.
Si può vedere anche Sheryl Sandberg, l'ex co-CEO di “Meta” (ex Facebook). Nel giugno 2022 ha annunciato che in autunno si sarebbe dimessa dal ruolo di co-CEO per dedicare più tempo alla sua fondazione. L'anno scorso, la Sandberg ha realizzato “Screams Before Silence”, un documentario sulla violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre.
• Indignazione per le vittime che si ribellano
Le immagini degli accampamenti di protesta davanti agli edifici universitari hanno fatto il giro del mondo. Erano manifestazioni a sostegno dei palestinesi durante il conflitto tra Israele e l'islamico palestinese Hamas. Il limite dell’aperto antisemitismo è stato superato più volte.
Subito dopo il massacro, queste manifestazioni studentesche sono state organizzate per opporsi a Israele, anche se non se ne sapeva molto. Nelle prime ore dell'8 ottobre, 34 gruppi studenteschi dell'Università di Harvard hanno firmato una dichiarazione in cui ritenevano “il regime israeliano responsabile di tutte le violenze”.
Dan Senor, autore di “Start-Up Nation” e conduttore di podcast, riassume la situazione nel filmato come segue: “I terroristi di Hamas erano ancora nelle comunità del sud di Israele. Si combatteva ancora. Israele continuava a contare il numero di morti, mutilati, stuprati e rapiti. E c'era una protesta contro Israele a Times Square. L'indignazione non era contro coloro che massacravano gli ebrei, ma contro gli ebrei che resistevano al massacro”.
Gli studenti ebrei hanno denunciato molestie in diversi college e i professori della Ivy League hanno espresso gioia per l'uccisione degli ebrei il 7 ottobre. Lorenzo Vidino, direttore del programma sull'estremismo della George Washington University, afferma: “Abbiamo assistito a proteste che esaltavano le azioni della ‘resistenza’, che è una specie di parola in codice per Hamas. È stato chiaro fin dall'inizio che c'era un gruppo di persone a livello nazionale che promuoveva una narrativa a favore di Hamas”.
Vidino presenta le prove di una riunione del 1993 di 25 leader di Hamas a Filadelfia, registrata dall'FBI. I partecipanti hanno delineato un piano per “infiltrarsi nei media, nelle università e nei centri di ricerca americani”. Secondo Vidino, “hanno discusso principalmente su come ritrarre le attività di Hamas e renderle appetibili agli americani”.
• “Il mondo intero ha perso la testa”
Come riporta l'“Hollywood Reporter”, Sachs ha iniziato a progettare il suo film un anno dopo gli attacchi nel sud di Israele, ma nessun partner di distribuzione voleva finanziarlo. Gli studios a cui si è rivolta le hanno detto che il film piaceva, ma che non vedevano grandi opportunità di guadagno. La Sachs ha quindi finanziato il film con donazioni. È stato raccolto un budget di 2 milioni di dollari USA.
La regista ha dichiarato all'Hollywood Reporter che quando ha visto le proteste contro Israele nelle università americane d'élite ha pensato: “Il mondo intero ha perso la testa”. Le è sembrata “la versione moderna della Notte dei cristalli”. È rimasta scioccata dal fatto che il Congresso, i gruppi per i diritti delle donne e l'intera Hollywood siano rimasti in silenzio. La regista sottolinea: “Ci sono molte cose che la gente non sa su Israele, soprattutto i giovani. Su Israele, sulla storia ebraica”.
Nell'intervista, Noa Tishby racconta di aver vissuto in America per 20 anni, ma di essere accolta con grande diffidenza quando dice di provenire da Israele. Negli ultimi anni, l'Occidente è stato inondato da una massiccia ondata di propaganda su Israele.
Il “Jerusalem Post” definisce il film “completo, ben strutturato e convincente”. “Il documentario mostra in modo esauriente quanto sia diffuso l'antisemitismo e come sia stato promosso da Hamas”.
Giudizio della rivista “Variety”: “Questo film informativo attira l'attenzione su una questione importante”. Tuttavia, il recensore sottolinea che l'argomento del film è “unilaterale”: “La reazione di Israele agli attacchi è menzionata solo di sfuggita”. Tuttavia, il film “vale la pena di essere visto, se non altro per capire cos'è l'antisemitismo, quali sono i limiti della libertà di espressione, perché la retorica contro gli ebrei è così odiosa e perché i presidenti delle università d'élite si sono dimessi o sono stati licenziati dopo le proteste pro-palestinesi”.
(Israelnetz, 28 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In Usa, un quarto degli adulti cresciuti ebrei non si identificano più come ebrei
Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.
di Nina Prenda
Secondo un recente studio dell’istituto di ricerca Pew Reserch Center, quasi un adulto statunitense su quattro che è stato cresciuto come ebreo non si identifica più come tale, ha dimostrato un rapporto pubblicato mercoledì 26 marzo 2025.
Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Lo studio offre informazioni significative sull’identità religiosa e l’affiliazione nel XXI secolo.
“Il motivo per cui abbiamo scelto il termine ‘cambio religioso’ invece di ‘conversione’ è perché il cambiamento può avvenire in più direzioni”, ha detto Kirsten Lesage, autrice principale del rapporto, al Times of Israel in un’intervista telefonica. “Una persona può passare da un gruppo religioso a un altro, come dal cristianesimo al buddismo, ma potrebbe anche significare passare da una religione a nessuna religione, e questo include chiunque si identifichi come ateo, agnostico o niente in particolare”.
Lo studio ha dedicato un capitolo al passaggio religioso dentro e fuori dall’ebraismo, attingendo ai dati raccolti negli Stati Uniti e in Israele, dove, secondo il rapporto, circa l’80% degli ebrei del mondo vive. “Ci sono due motivi per cui abbiamo incluso un intero capitolo sull’ebraismo”, ha detto l’autrice Kirsten Lesage. “In primo luogo, avevamo un Paese, Israele, dove la maggioranza della popolazione è di religione ebraica. In secondo luogo, eravamo davvero interessati a guardare al cambio religioso in alcune delle principali religioni mondiali. Abbiamo intenzionalmente cercato di coprirne il maggior numero possibile. Siamo stati in grado di includere il cristianesimo, l’islam, l’induismo, il buddismo, l’ebraismo e i religiosi non affiliati”.
Nel complesso, Lesage ha evidenziato che l’ebraismo come gruppo religioso ha un alto tasso di ritenzione (significa che di tutte le persone che affermano di essere cresciute in un particolare gruppo religioso, la percentuale si descrive ancora come appartenenti a quel determinato gruppo religioso dove è cresciuta). Il cristianesimo, al contrario, è descritto nel rapporto come il gruppo con il più alto rapporto tra le persone che lasciano e quelle che si uniscono, nella maggior parte dei Paesi toccati dall’intervista.
Per quanto concerne l’ebraismo, le situazioni negli Stati Uniti e in Israele sono emerse come significativamente diverse.
Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.
Le domande chiave poste agli intervistati erano quale fosse la loro religione attuale (se presente) e se pensavano a quando erano bambini in quale religione fossero cresciuti (e se ancora presente).
“Le persone potrebbero identificarsi solo come culturalmente ebraiche o etnicamente ebraiche”, ha detto l’autrice del rapporto. In Israele, il 100% degli intervistati – 591 adulti intervistati faccia a faccia nella primavera del 2024 – ha dichiarato di essere stati cresciuti e ancora identificati come ebrei. “Naturalmente, del 100%, stiamo arrotondando all’intero più vicino”, ha detto Lesage. “Non significa necessariamente che ogni singola persona in Israele che è stata cresciuta come ebrea si consideri ancora ebrea oggi”.
Di tutti gli intervistati che si sono identificati come attualmente ebrei, solo l’1% in Israele ha dichiarato di non essere cresciuto come tale. Negli Stati Uniti, il 14% della popolazione ebraica è convertito, tra cui il 7% che è stato cresciuto come cristiano e il 6% che è stato cresciuto religiosamente non affiliato.
I ricercatori hanno anche documentato l’affiliazione della popolazione ebraica israeliana a diversi gruppi ebraici, in particolare Haredim (ultra-ortodossi), datiim leumim (religiosi nazionalisti), masortim (tradizionalisti) e hilonim (secolarizzati). Oltre un ebreo israeliano su cinque – circa il 22% – ha dichiarato di essere cresciuto in un gruppo ebraico diverso da quello con cui si identificano oggi. Inoltre, gli israeliani più anziani (dai 50 anni in su) avevano maggiori probabilità rispetto agli individui sotto i 35 anni di aver cambiato gruppo religioso (33% contro 8%).
Complessivamente, oltre 9 israeliani su 10 cresciuti laici continuano a identificarsi come tali in età adulta. Al contrario, solo il 60% di coloro che sono cresciuti come Datiim Leumi o Masortim hanno mantenuto la loro identità infantile (a causa delle limitazioni delle dimensioni del campione, i ricercatori non hanno potuto analizzare i tassi di ritenzione per coloro che hanno allevato Haredi separatamente).
In futuro, l’istituto di ricerca Pew rilascerà ulteriori risultati relativi alle pratiche religiose che hanno indagato mentre conducevano il sondaggio in Israele. “Abbiamo posto ulteriori domande su diverse credenze e pratiche religiose, e in realtà stiamo lavorando su altri rapporti esaminando le risposte a quelle domande”, ha detto l’autrice della ricerca Lesage.
• Similitudini tra ebraismo ed Islam
Ci sono risultati simili tra ebrei e musulmani intervistati. L’istituto Pew ha anche intervistato la popolazione musulmana in Israele e negli Stati Uniti. Simile alla controparte ebraica, praticamente nessuno che sia cresciuto come musulmano in Israele è successivamente passato a un gruppo religioso diverso.
Questo era coerente con le ricerche sugli individui musulmani in altri Paesi. Secondo il rapporto, 13 dei 36 Paesi analizzati avevano campioni di musulmani di dimensioni sufficienti per consentire l’analisi del passaggio religioso dentro e fuori dall’Islam, compresi gli Stati Uniti, dove circa l’1% della popolazione si identifica come musulmana. Nel complesso, i ricercatori hanno documentato che solo una piccola frazione della popolazione adulta aveva lasciato o si era unita all’Islam nella maggior parte dei Paesi, mentre il 20% della popolazione musulmana negli Stati Uniti è convertita.
(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)
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I soldi degli evangelici americani per portare gli ebrei in Israele. Così la terra promessa diventa un prodotto Usa
L'invito di Tel Aviv agli "olim" è quello di abitare le regioni di periferia - a nord e sud - in Cisgiordania. Un obiettivo sostenuto anche da gruppi di protestanti americani.
di Estefano Tamburrini
Tel Aviv potrebbe accogliere un milione di olim, ovvero di ebrei che da diverse parti del mondo emigrano in Israele, anche fra pochi anni. Il loro eventuale arrivo farebbe lievitare la popolazione israeliana di circa il 10%. La stima è stata data dal presidente dell’Agenzia ebraica Doron Almog, che tra le cause sottolinea l’aumento dell’antisemitismo a livello globale e la crescita della società israeliana nonostante la guerra su più fronti. L’Agenzia offre tutela, orientamento e reti di appoggio agli aspiranti olim. Ha facilitato il rientro di oltre 260mila persone dal 2010. Loro, i “nuovi arrivati”, discendono da madre ebrea o sono persone convertite all’ebraismo. Soltanto nel 2024 ne sono arrivati 32mila, di cui 11mila solo dagli Stati Uniti. Godono di uno status speciale una volta arrivati a destinazione: alloggio durante i primi mesi, assistenza sanitaria, sussidi, sconti fiscali e altri benefici. Elementi che rientrano nella cornice della Legge del ritorno approvata dal 1950 e che alcuni settori della Knesset vorrebbero riformare.
“Stiamo tornando a casa”, dice Benjamin Goldberg al fatto.it contestando il termine “trasferimento” per rivendicare una continuità “genealogica con il territorio israeliano”. A 27 anni ha abbandonato gli Usa nel nome dell’aliyah, cioè il rientro degli ebrei alla terra madre (che comprende anche i territori palestinesi). Ma a dire il vero l’aliyah, che ha origini settecentesche, ora si presenta come prodotto a stelle e strisce. E il suo main sponsor sono le Chiese evangeliche, anziché le diaspore (sempre più laiche, plurali, critiche). Basta citare il contributo di personalità come Yechiel Eckstein, dell’International Fellowship of Christian and Jews, che ogni anno dona 170 milioni per il ritorno degli olim. C’è poi una rete che si estende all’International Christian Embassy Jerusalem (Icej) parla di “nuova ondata” e promette di assistere “il maggior numero possibile di nuovi migranti in Israele“. Quello dell’ultradestra evangelica è quindi un sostegno “appassionato e inequivocabile”, per dirla con le parole di Ron Dermer, ministro degli affari strategici di Tel Aviv. Gli evangelici sono stati anche il primo gruppo incontrato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu durante la sua ultima visita in Usa, lo scorso febbraio. “Che il nostro meeting si svolga prima di quello con il presidente Trump e altre cariche è segno dell’amicizia storica che esiste tra Israele e i cristiani d’America”, ha allora commentato il pastore Jentezen Franklin.
Era presente anche John Hagee, fondatore di Cristiani uniti per Israele (Cui). L’organizzazione vanta dieci milioni di iscritti. “Il gigante del sionismo cristiano è sveglio”, ha commentato Hagee in vista del summit per il ventesimo anniversario che si terrà quest’estate a Washington, proprio a Capitol Hill. Parlando di “ordine divino”, Hagee dice di sostenere Israele perché “la Bibbia dice: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà”. Già in passato lo stesso pastore si è riferito ad Adolf Hitler come “mandato da Dio” affinché il popolo ebreo raggiungesse la terra promessa. Gruppi come quello di Hagee sostengono la continuità tra l’antico Israele e l’attuale Stato nazione, che è il destinatario delle Scritture. L’aliyah è quindi il presupposto per la venuta del Messia. Tesi sostenuta anche dal controverso pastore Benny Hinn, tra i primi sponsor del turismo in Israele, che parla di Israele riferendosi anche a Gaza e Cisgiordania. Non mancano poi le piattaforme online dedicate a facilitare il ritorno delle comunità ebree: Return ministries e la rete Keren Hayesod supportano anche economicamente “il popolo eletto” affinché “possa rivedere la terra promessa“.
Oltre al sostegno finanziario, le piattaforme offrono corsi di formazione culturale e religiosa e consigli pratici per la vita quotidiana in terre israelo-palestinesi. L’invito di Tel Aviv agli olim è quello di abitare le regioni di periferia – a nord e sud – in Cisgiordania. A tale scopo i ministri per l’aliyah e l’integrazione Olif Sofer e per le finanze Bezalel Smotrich hanno varato, a metà febbraio, un piano finanziario da 19 milioni di dollari per le famiglie destinatarie. Nelle stesse settimane, la National Religious Broadcaster Convention e altri membri della Camera hanno sostenuto di opporsi “all’uso erroneo del termine West Bank per descrivere la terra biblica al cuore dell’Israele biblico” e ha chiesto all’amministrazione Usa di ribattezzare la regione “Giudea e Samaria”. Pretesa non più folle, dopo che Trump ha deciso di rinominare Golfo d’America in Golfo del Messico. Ma anche a seguito della revoca delle sanzioni applicate dal suo predecessore Joe Biden ai coloni in Cisgiordania, che sono oltre 500mila. L’ultradestra cristiana sostiene anche di “difendere l’integrità dello Stato ebraico e offrire assoluto supporto alla sovranità israeliana su Giudea e Samaria”. E il traguardo è quasi raggiunto. Basti pensare che nel 2024 Tel Aviv ha confiscato 23 chilometri quadrati di terra in Cisgiordania e demolito quasi 2mila unità abitative appartenenti a cittadini palestinesi per “assenza di permessi”, causando 4.527 sfollati e 612 vittime. I permessi non sono poi facili da ottenere, come testimonia il fondatore di Tent of Nations, Daoud Nassar, a ilfatto.it, che da quasi trentaquattro anni mantiene una battaglia legale “per evitare la confisca delle terre” da parte dell’amministrazione israeliana. Per Nassar l’alternativa è quella di “resistere, incanalare il dolore e trasformarlo in proposte positive”. E ancora: “Non bisogna sedersi a piangere, né abbonare. E nemmeno cedere alla violenza”.
Dall’ottobre 2023 a oggi nei territori occupati sono state costruite 20mila unità abitative ed è stata approvata la costruzione di altre 10mila. “La linea che distingue la violenza dei coloni da quella dello Stato si sta sbiadendo e prima o poi scomparirà”, ha detto l’alto commissario Onu per i diritti umani Volker Türk denunciando l’impunità che dilaga in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’Onu ritiene che il trasferimento della popolazione civile israeliana nei territori occupati equivalga a un crimine di guerra. Ma per Washington il volume dei sermoni è più alto della flebile voce del Palazzo di vetro. Almeno in termini di voti e soldi.
(il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2025)
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Israele elimina leader di Hamas e Hezbollah in due operazioni mirate
di Luca Spizzichino
Israele ha intensificato le operazioni nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale, colpendo diverse figure chiave di Hamas e Hezbollah, indebolendo ulteriormente la loro struttura di comando.
Mercoledì notte, un attacco aereo israeliano a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, ha ucciso Abdel Latif al-Qanou, definito uno dei portavoce di Hamas. La notizia è stata inizialmente riportata dall’agenzia di stampa Shehab, affiliata ad Hamas, e successivamente confermata dalla stessa organizzazione terroristica giovedì mattina.
Questo attacco rientra in una serie di operazioni mirate contro i vertici di Hamas, che hanno visto anche l’eliminazione di Ismail Barhoum e Salah al-Bardaweel, membri del consiglio politico del gruppo. Secondo fonti interne ad Hamas, su 20 membri dell’ufficio politico, 11 sarebbero stati uccisi dall’inizio del conflitto nel 2023.
Parallelamente, Israele ha colpito obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano. In un attacco con droni avvenuto nelle prime ore di giovedì, l’IDF ha eliminato Ahmed Adnan Bajija, comandante di battaglione delle forze d’élite Radwan. Bajija era responsabile di numerosi attacchi contro Israele e, anche durante il cessate il fuoco, avrebbe continuato a pianificare operazioni contro obiettivi israeliani. L’attacco, avvenuto nel villaggio di Derdghaiya, nel distretto di Tiro, ha distrutto completamente il veicolo del comandante, come documentato dalle immagini diffuse dall’IDF.
Sempre giovedì mattina, un altro raid aereo israeliano ha colpito un gruppo di operativi di Hezbollah nella zona di Yohmor, mentre stavano trasportando armi.
(Shalom, 27 marzo 2025)
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Manifestazioni a Gaza: Hamas evita la repressione diretta ma manovra per soffocare la rivolta
Hamas lancia razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni.
Di fronte alle manifestazioni che si moltiplicano in Gaza, Hamas sta impiegando una serie di tattiche per contenere quelle che un funzionario israeliano ha definito “le più significative manifestazioni dall'inizio della guerra”. Il gruppo terroristico, visibilmente preoccupato, ha finora evitato la repressione diretta dei contestatori, temendo che una reazione violenta amplifichi il movimento di rivolta. Secondo fonti locali, Hamas ricorre piuttosto a metodi indiretti per soffocare la protesta.
Tra queste strategie vi è il coordinamento con il Jihad islamico per lanciare razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni. Hamas mobilita anche i suoi “agenti di sicurezza” per intimidire i manifestanti e sollecita il sostegno dei capi dei clan influenti per delegittimare il movimento e reindirizzare la rabbia popolare contro Israele.
La tensione è aumentata di un livello all'ospedale Amal, dove è scoppiato uno scontro fisico tra la direzione della struttura e membri di Hamas, che minacciano rappresaglie contro coloro che tentano di allontanarli.
Le proteste, che coinvolgono diverse roccaforti tradizionali del movimento come Sajayia, Jabalia e Khan Younès, esprimono l'esasperazione per l'impennata dei prezzi, la carenza d'acqua e la mancanza di servizi essenziali. I manifestanti denunciano anche la catena Al-Jazeera, accusata di non presentare i loro raduni e di sostenere attivamente Hamas. Questa contestazione rappresenta una sfida senza precedenti per l'autorità del gruppo terroristico, la cui gestione della crisi è ora apertamente messa in discussione da una parte della popolazione di Gaza.
(i24, 27 marzo 2025)
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Gli ebrei norvegesi nascondono la loro identità per ricevere cure mediche
In una lettera alle autorità sanitarie, i rappresentanti ebrei mettono in guardia da una tendenza estremamente preoccupante che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.
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La sinagoga di Oslo. La Norvegia è ancora sicura per gli ebrei?
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In Norvegia si sta verificando una tendenza estremamente preoccupante: i membri della comunità ebraica temono di ricorrere all'assistenza medica a causa del crescente sentimento anti-israeliano tra gli operatori sanitari. In una lettera senza precedenti alle autorità sanitarie, i leader ebraici avvertono che i membri della comunità nascondono la propria identità nelle strutture mediche, una situazione che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.
La lettera firmata da Marius Gaarder, presidente della comunità ebraica di Oslo, e John Arne Moen, della comunità ebraica di Trondheim, è motivo di grande preoccupazione.
“Poco dopo il 7 ottobre 2023, diversi membri della comunità ebraica hanno espresso la loro preoccupazione per il fatto che si sentirebbero a disagio nel ricevere cure mediche e temono che non riceverebbero cure ottimali se si identificassero come ebrei, data la crescente mobilitazione anti israeliana in alcune parti del personale sanitario, delle strutture sanitarie e della comunità medica”, si legge nella lettera. ‘Questa è una situazione che non abbiamo vissuto dalla seconda guerra mondiale’, continua.
Il dottor Rolf Kirschner, un medico ebreo con 45 anni di esperienza nel sistema sanitario pubblico norvegese e membro dell'Ordine dei medici norvegese, ha definito questo fenomeno senza precedenti. “Le persone non osano indossare simboli ebraici come la stella di David durante gli esami e i pazienti ebrei temono che i loro nomi vengano pronunciati ad alta voce nelle sale d'attesa, preoccupati che il personale sanitario o altre persone possano scoprire che sono ebrei”, ha spiegato.
La situazione è peggiorata perché i pazienti si trovano di fronte a contesti politicamente carichi. “Alcuni pazienti ebrei si sono sentiti a disagio quando hanno trovato manifesti e opuscoli politici di professionisti medici che esprimevano il loro sostegno ai palestinesi, e hanno paura di lamentarsi per paura di reazioni negative da parte del personale medico da cui dipende la loro salute”, ha aggiunto Kirschner.
Pur riconoscendo il diritto alla libertà di espressione in Norvegia, Kirschner ritiene che certe manifestazioni politiche dovrebbero rimanere fuori dalle strutture mediche: “La lettera chiede ai servizi sanitari, alle organizzazioni competenti e al governo di garantire che gli ebrei si sentano a proprio agio negli ospedali e non abbiano paura di cercare assistenza medica o di nascondere la propria identità negli ospedali”.
La popolazione ebraica della Norvegia è piccola: a livello nazionale sono registrati circa 1.500 ebrei, 800 dei quali vivono a Oslo. Questa vulnerabilità è ulteriormente aggravata dalla forte posizione filopalestinese del governo norvegese. Kirschner riferisce che i membri della comunità hanno espresso il timore di ricevere cure di qualità inferiore a causa della solidarietà di varie associazioni professionali mediche con le cause palestinesi e gli appelli al boicottaggio di Israele.
Kirschner ha citato solo cinque o sei casi documentati in cui i pazienti hanno espresso queste preoccupazioni ai leader della comunità, ma ritiene che indichino un modello più ampio. Questi timori sono aumentati dopo la diffusione virale di un video in cui il personale ospedaliero australiano descrive come maltratta i pazienti israeliani. In risposta, Kirschner ha esortato le associazioni professionali ad agire: “I sindacati dovrebbero informare i propri membri che gli operatori sanitari devono rimanere neutrali sul posto di lavoro e non devono ostentare simboli politici. Dovrebbero chiarire che ai membri del sindacato è vietato partecipare a manifestazioni politiche sul posto di lavoro”.
Il ministro della Salute norvegese, Jan Christian Vestre, ha risposto alle preoccupazioni dicendo: “Tutti i pazienti dovrebbero sentirsi al sicuro quando vengono curati nel nostro sistema sanitario pubblico. Nessuno dovrebbe sentirsi a disagio o preoccupato quando riceve assistenza sanitaria e mi aspetto che tutti siano trattati con dignità”. Ha sottolineato che la creazione di ambienti inclusivi è ancora “una responsabilità locale delle istituzioni mediche”, che le autorità dovrebbero “prendere sul serio”. Anche il capo dell'associazione infermieristica ha riconosciuto queste preoccupazioni e ha promesso di affrontarle.
On Alpeleg, che vive in Israele e Norvegia da oltre trent'anni, colloca queste preoccupazioni in un contesto storico preoccupante: “Il sistema sanitario norvegese ha un passato e un presente problematici, senza dubbio influenzati dall'influenza politica. La Norvegia ha sostenuto i nazisti nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio ed è oggi l'unico paese occidentale che rifiuta di riconoscere l'organizzazione omicida Hamas come organizzazione terroristica. Come cittadino ebreo della Norvegia, sono profondamente preoccupato per l'influenza della politica sull'etica e la professionalità del sistema sanitario”.
(da Israel Hayom)
(Israel Heute, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Per i giovani israeliani il servizio militare è una cosa ovvia
HANNOVER/BERLINO – Per Inbar (nome modificato) la questione del servizio militare, attualmente oggetto di accese discussioni in Germania, è sempre stata chiara: “Tutti quelli che mi circondano hanno svolto il servizio militare”, racconta l'israeliano di 24 anni. “Mia madre, mio padre, i miei nonni, zii, zie, proprio tutti. Per me non c'era dubbio che avrei fatto lo stesso”, dice lo studente di ingegneria elettrica che vive vicino a Tel Aviv. ‘Volevo restituire qualcosa al mio paese’.
Inbar non solo ha prestato servizio militare per due anni e mezzo nelle forze di difesa israeliane, ma si è anche impegnato per altri due anni. Oggi è tenente della riserva attiva e continua a prestare servizio. “Ciò significa che, anche se studio, devo partecipare più volte a esercitazioni durante il semestre ed essere costantemente pronto per un'operazione”, racconta. Inbar è quindi uno dei circa 470.000 riservisti dell'esercito israeliano. A questi si aggiungono circa 180.000 soldati attivi.
Lo studente considera il servizio militare come un contributo necessario alla protezione del suo paese. “Voglio proteggere il mio paese e i suoi valori. In caso di attacco da parte di un altro paese o di un'organizzazione terroristica, nessuno ci aiuterà se non noi stessi”.
Il giovane atletico ha trovato l'addestramento nell'esercito molto duro. “Mi ha portato ai miei limiti, sia mentalmente che fisicamente”. Ma l'esercito lo ha anche fatto maturare, trasmettendogli valori come la fiducia, l'umanità e la responsabilità. “Ho ricevuto molto, molto di più di quanto abbia investito”.
• Alto valore nella società
Rispetto ad altri Paesi, l'esercito ha un'importanza molto elevata nella società israeliana, afferma l'esperto di Medio Oriente Peter Lintl della Stiftung Wissenschaft und Politik di Berlino. Ciò è dovuto al fatto che Israele è un Paese piccolo e circondato da nemici potenziali o reali. “Esiste una sorta di contratto sociale secondo il quale l'esercito protegge gli israeliani e in cambio le famiglie mandano i loro figli al servizio militare”, spiega Lintl.
Tuttavia, in Israele solo il 50% circa dei giovani adulti viene arruolato per il servizio militare al termine della scuola: le donne per due anni, gli uomini dalla fine del 2024 per tre anni. Sono esclusi gli ebrei ultraortodossi e gli arabi israeliani. Secondo il politologo, questi ultimi sono molto critici nei confronti dell'esercito. Il servizio militare obbligatorio recentemente introdotto per gli ultraortodossi non viene di fatto applicato.
Inoltre, secondo Lintl, circa il 10% di una classe di età non presta servizio militare per motivi psicologici. Non esiste un servizio civile generale. Secondo Amnesty International, gli obiettori di coscienza rischiano la reclusione. Chi si rifiuta di prestare servizio per motivi pacifisti può essere esentato.
Inbar vede gli obiettori di coscienza in modo critico. Anche chi non vuole combattere può trovare molti compiti nell'esercito, ad esempio nella logistica o nell'assistenza sanitaria. Secondo il tenente, gli obiettori dovrebbero almeno adempiere a una sorta di obbligo di servizio civile.
• Crescere tra minacce e guerre
Per suo cugino Lasse (nome modificato), che è cresciuto e vive in Bassa Sassonia, il tema della coscrizione obbligatoria è lontano, nonostante la possibile minaccia della Russia. Il ventunenne studia relazioni pubbliche. Non ritiene che la coscrizione obbligatoria abbia senso in Germania. Piuttosto, la Bundeswehr dovrebbe diventare più attraente per i volontari.
La situazione in Israele è completamente diversa: “Gli israeliani crescono con la minaccia e la guerra”. Ecco perché il servizio militare obbligatorio è giusto e importante. Da giovane, ha anche pensato per un attimo di prestare servizio volontario nell'esercito israeliano. “So da Inbar e da altri che, per quanto strano possa sembrare ad alcuni, si sono divertiti nell'esercito”.
Il cugino Inbar è consapevole che anche lui, come soldato, rischia la vita. Ora, durante la guerra di Gaza, ci pensa più spesso: “Non voglio morire, non voglio vedere morire i miei futuri figli”. Ma in caso di emergenza, sacrificherebbe la sua vita per difendere Israele e i suoi cittadini, dice con enfasi: “Devi essere pronto a proteggere ciò che ami”.
(Israelnetz, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l'antisemitismo ha soprattutto un colore
Alla Conferenza del governo israeliano partecipano leader europei di destra. Gli avversari la snobbano
di Fiamma Nirenstein
Israele, ovvero il ministro per la Diaspora Amichai Chikli, ha invitato i rappresentanti politici e culturali di tutto il mondo a una Conferenza internazionale per combattere l'antisemitismo. È fondamentale per Israele essere alla testa di questa battaglia: da anni ormai l'odio antisemita è la base della vasta congrega woke in cui gli «oppressi» combattono gli «oppressori» ovvero: vogliono distruggere Israele. L'odio più antico si è trasformato in piazza e nelle università in moderna contestazione di tutti i valori giudaico-cristiani dell'Occidente. L'antisemitismo politico di massa è stata la sorpresa seguita alla strage del 7 ottobre, ogni ebreo del mondo è minacciato. Israele invita sia i rappresentanti della sinistra che denunciano giustamente gli eredi dei nazifascisti sia quelli della destra che indicano anche nell'islamismo radicale una delle centrali più attive dell'antisemitismo. È sbagliato? Certo che no: tutti gli attacchi, i numeri, gli studi, indicano che la strada è quella di affrontare il fronte dell'odio per Israele nelle università e nelle piazze.
Ma una parte degli invitati, pochi giorni prima di oggi, giorno dell'incontro, si è tirata indietro. Il rifiuto viene da chi sostiene che gli antisemiti veri siano i rappresentanti della politica europea di destra, che gli invitati dunque siano odiosi antisemiti. Ma allora, si sarebbe dovuto discutere, accusare, chiedere. L'antisemitismo è una malattia professata, altrimenti non ha senso. Gli inviti a Gerusalemme sono stati larghi, se qualcuno voleva contestare la destra europea, non andando l'ha invece evitata compiendo un gesto di delegittimazione verso l'ospite, Israele. Perché mai? Fra gli invitati compaiono Jordan Bardella, presidente del Rn francese, successore di Marine Le Pen, a sua volta succeduta al padre Jean Marie, lui sì antisemita. Ma Marine ha ripetuto di rifiutare l'antisemitismo del vecchio fascista: fu lei a dire che «la Shoah è il maggiore scempio della storia». E il 29enne Bardella, che del fascismo ha sentito parlare dai nonni, ha detto che la sua scelta «è quella di impegno totale nella lotta contro l'antisemitismo». Ma la sua riabilitazione come quella di Vox, dei Democratici Svedesi, del partito olandese per la Libertà, hanno allontanato molti ebrei: il presidente dell'European Jewish Congress Ariel Muzicant, l'Unione delle Comunità italiane e di quelle francesi, il capo rabbino d'Inghilterra e altre organizzazioni. Dato che la loro accusa è una presunzione di colpevolezza retroattiva, si manifesta nel presente soltanto contro Netanyahu.
Quando sulla Stampa una storica scrive che l'estrema destra e gli evangelici si sono avvicinati «all'Israele dei governi razzisti e antidemocratici come quello di Netanyahu» e per questo dice che a quella conferenza non si vuole riconoscere il vero antisemitismo ma «il presunto antisemitismo dell'Onu e delle Corti di Giustizia», le sue osservazioni non consentono neppure una risposta sensata, sono vuote. La democrazia in Israele splende. Alla Conferenza non è andato nemmeno Bernard Henry Levy: descrive le sue ragioni in un pezzo così autoreferenziato, da risultare un'autoaccusa a carattere psicoanalitico. Creda gentile professore, la nobiltà del sionismo consiste proprio nella battaglia per cui cerca di salvare la nazione ebraica in una dolorosa guerra di sopravvivenza.
«Kill the jews» nelle piazze americane e europee l'hanno gridato soprattutto schiere di propal di sinistra, tutta la costruzione di un'Israele immaginata come colonialista, razzista, genocida. Il terrorismo ha accompagnato l'antisemitismo. Questa è la storia. Con cautela Israele è arrivata a capire che a destra ormai ci sono anche molti amici. Anche Bardella.
(La Stampa, 27 marzo 2025)
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Le proteste palestinesi faranno cadere Hamas?
Le proteste contro il brutale regime di Hamas nel nord della Striscia di Gaza sono in aumento, segnalando un nuovo punto di svolta nella Striscia.
di Aviel Schneider
Oggi è un giorno cruciale. Ieri, numerosi video dalla Striscia di Gaza sono diventati virali sui social network e sui media, rivelando una svolta nella popolazione civile palestinese: I palestinesi protestano ad alta voce e apertamente davanti alle telecamere in funzione contro il loro stesso regime, Hamas.
Centinaia di residenti di Beit Lahia sono scesi in strada al tramonto e altre proteste sono state segnalate dopo il tramonto nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. Nella maggior parte dei video, i palestinesi gridano “Barra Hamas, Barra Hamas - Hamas fuori”. I palestinesi affermano davanti alle telecamere che Hamas ha rovinato la Striscia di Gaza e che vogliono vivere. Non gli importa chi li governa, sudanesi o altri, ma non Hamas.
Gli abitanti di Gaza, che almeno pubblicamente tendono ad accusare Israele per la morte, la distruzione e la fame che la guerra ha portato, hanno manifestato per la prima volta in una rara protesta contro Hamas. Dopo 17 mesi di guerra, il mondo si è abituato a raccontare le manifestazioni pro-palestinesi e i media internazionali di solito incolpano Israele per le conseguenze della guerra a Gaza. Ma dopo che ieri centinaia di palestinesi hanno manifestato per la prima volta contro Hamas, non sono mancate le reazioni internazionali. Le proteste sono state riportate anche nel mondo arabo e il giornale saudita Asharq Al-Awsat, pubblicato a Londra, ha persino dedicato la prima pagina alla questione. Il titolo recitava: “Gaza: le manifestazioni contro Hamas chiedono la fine della guerra”, con immagini delle proteste di ieri in basso.
L'emittente saudita Al-Hadath Al-Arabiya ha pubblicato nuovi filmati da Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, in cui i palestinesi gridano esplicitamente: “Hamas Barra, Hamas Barra, Hamas fuori, Hamas fuori”. I palestinesi alzano anche la bandiera bianca, segno di rinuncia.
In altri video si sentono i palestinesi dire che non vogliono più l'emittente qatariota Al-Jazeera nella Striscia di Gaza. Anche i palestinesi della Striscia di Gaza hanno capito che Al-Jazeera, che è vicina ad Hamas, non fa altro che aggiungere benzina al fuoco e non riporta la verità. Le reti e i media sauditi hanno riportato le proteste palestinesi contro Hamas, mentre l'emittente del Qatar non lo ha fatto.
Diversi canali arabi hanno anche pubblicato video delle proteste, diffusi da palestinesi della Striscia di Gaza. Un alto rappresentante palestinese è stato citato ieri dall'emittente saudita Al-Hadath per dire che le proteste si sarebbero probabilmente diffuse. Il giornalista egiziano Ahmed Moussa ha dichiarato nel suo programma sul canale egiziano Sada El-Balad che “le richieste dei residenti della Striscia di Gaza riflettono la sofferenza quotidiana del popolo palestinese di fronte alla crescente crisi”. Ha invitato Hamas ad ascoltare le voci del popolo e a cessare il fuoco per “salvare ciò che resta della Striscia di Gaza”.
La BBC, che ha assunto una linea chiaramente anti-Israele sin dallo scoppio della guerra, ha riferito della “più grande protesta contro Hamas dall'inizio della guerra, con centinaia di persone scese in strada per chiedere all'organizzazione di abbandonare il potere”. L'emittente britannica, che non descrive Hamas come un'organizzazione terroristica, ha poi riferito: “Combattenti di Hamas armati e mascherati, alcuni con pistole, altri con manganelli, hanno violentemente interrotto la manifestazione e attaccato alcuni dei manifestanti”.
L'agenzia di stampa di Gaza Shehab, legata ad Hamas, sta cercando di spingere una campagna online per etichettare chiunque pubblichi contenuti critici nei confronti del governo come parte della “rete mediatica del portavoce dell'esercito israeliano in arabo Avichay Adraee”. Shehab ha completamente ignorato le proteste di ieri nel nord della Striscia di Gaza e non ne ha dato notizia. Ora, però, l'agenzia sta cercando di prendere provvedimenti contro le proteste - senza nemmeno menzionare che hanno avuto luogo.
Cosa succederà ora? L'aspetto più notevole delle proteste finora è stato il loro semplice verificarsi - e il fatto che le grida contro Hamas sono state fatte apertamente e con grande coraggio, e a volto scoperto, è una novità. Ora dobbiamo vedere se le proteste pubbliche sono state solo un episodio isolato o se continueranno anche oggi. Le proteste prenderanno slancio e coinvolgeranno sempre più persone nella Striscia di Gaza? Quanti gazesi sono davvero abbastanza coraggiosi da prendere una posizione pubblica contro Hamas? Altre regioni della Striscia di Gaza si uniranno alle proteste? Hamas riuscirà a reprimere violentemente le manifestazioni - e sa esattamente come? I manifestanti riusciranno a mantenere il movimento?
Come l’esperienza dimostra, le probabilità di successo delle manifestazioni nella Striscia di Gaza sono molto basse. È possibile che Hamas intraprenda un'azione brutale contro le prossime proteste, e brutale significa sparare ai propri fratelli e sorelle. In che misura Fatah sarà coinvolta nel rovesciamento del regime di Hamas?
L'inizio delle proteste è stato senza dubbio un buon indicatore dell'efficacia della pressione israeliana sulla Striscia di Gaza, ma è ancora troppo presto per parlare di una “primavera araba a Gaza” che potrebbe portare al tanto atteso rovesciamento di Hamas. La pressione militare di Israele sulla Striscia di Gaza deve continuare con tutte le sue forze. In nessun caso Israele dovrebbe abbracciare o sostenere apertamente le proteste palestinesi a Gaza. Naturalmente, Hamas sta cercando di minare la legittimità delle proteste presentandole come una cooperazione con Israele.
(Israel Heute, 26 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Palestinesi contro Hamas: “vogliamo mangiare”
di Eugenio Vittorio
Le proteste continuano. Un evento più unico che raro, quello che ieri ha visto scendere in piazza diversi palestinesi per protestare contro il regime di Hamas. Come una miccia esplosa per autocombustione, così anche oggi decine di residenti del quartiere Shejaiya di Gaza city stanno partecipando a una protesta contro il governo dei terroristi, che da quasi 20 anni è al potere nella Striscia. I dimostranti hanno bruciato pneumatici e gridato Hamas fuori, stop guerra. Ieri le proteste si sono tenute nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. In passato (e ancora oggi) manifestazioni di questo tipo sono state estremamente rare.
Ma gli sfollati di Gaza non ce la fanno più, mai prima d’ora hanno patito una guerra così lunga e le successive privazioni, il freddo, la fame e il buio. La rabbia si è consolidata (e direi quasi autogestita) una settimana dopo la ripresa dei combattimenti nelle proteste scoppiate ieri. Decine di video postati sui social da account palestinesi hanno mostrato i cittadini di Gaza che urlano e chiedono la pace una volta per tutte. O almeno, la fine della guerra. Su Telegram e X ha preso a diffondersi fin dalla mattina di ieri l’appello alla protesta in un messaggio: “Tutta la popolazione di Gaza si rivolga ai propri anziani, ai notabili affinché tutti scendano in piazza domani per chiedere la fine della guerra e del governo della milizia di Hamas”. “Non so chi abbia organizzato la protesta”, ha detto all’Afp Mohammed, un manifestante che ha rifiutato di fornire il suo cognome per paura di rappresaglie, “ho partecipato per mandare un messaggio a nome del popolo: basta con la guerra”. Mohammed – il nome arabo del profeta Maometto, per chi volesse fare qualche parallelo – ha anche riferito di aver visto membri delle forze di sicurezza di Hamas in abiti civili interrompere la protesta. Come del resto mostrano i filmati postati nel pomeriggio da Beit Lahia, dove i manifestanti sono stati dispersi e inseguiti dai miliziani. Majdi, un altro ragazzo che ha preso parte alle proteste ha commentato che “la gente è stanca. Se Hamas lascia il potere a Gaza è la soluzione, perché Hamas non lascia il potere per proteggere il suo popolo?”, ha chiesto.
Il grido arrivato dal campo profughi di Jabalia, lascia poco all’immaginazione: “vogliamo mangiare”. Tra pneumatici bruciati, arrivano messaggi come “Risorgi, popolo, rompi la barriera della paura e dell’oppressione. Rivoltati”, ha scritto Mohammed su X, accusando duramente al Jazeera di essersi rifiutata di riprendere la rivolta. “La popolazione di Gaza smaschera i mercenari”, ha poi aggiunto. Nel frattempo i media della Striscia, legati a Hamas, stanno ignorando le manifestazioni, di cui non offrono alcuna copertura. L’inedita ondata di scontento degli sfollati invece non è passata inosservata in Cisgiordania, a Ramallah.
“Le manifestazioni nella Striscia di Gaza sono un grido dei residenti contro le politiche di Hamas”, ha dichiarato il consigliere del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, Mahmoud Al-Habash, alla tivù saudita al Hadath. Il leader palestinese ha precisato che la soluzione è ripristinare il controllo dell’Anp sulla Striscia. Ma probabilmente non è proprio questo che i manifestanti avrebbero in mente. “Dobbiamo concentrarci sulla rimozione di Hamas dal potere. Suggerisco all’organizzazione di ascoltare il popolo palestinese a Gaza”, ha sottolineato Habash, guardando al futuro dell’enclave, ma soprattutto, del suo partito.
(l'Opinione, 26 marzo 2025)
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Il mistero della ‘piramide’ rinvenuta nel deserto della Giudea
di Jacqueline Sermoneta
“Potrebbe essere una torre di guardia che sorvegliava un’importante rotta commerciale? Oppure un monumento funebre o commemorativo?”. Resta ancora un mistero per gli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità (IAA) la funzione della monumentale struttura piramidale di 2.200 anni fa, rinvenuta a nord di Nahal Zohar, nel deserto della Giudea. Costruita durante il periodo ellenistico, sotto il dominio tolemaico, la struttura sorge su una più antica stazione di sosta.
Il sito ha già restituito una eccezionale serie di reperti storici: papiri scritti in greco, monete di bronzo dei Tolomei e di Antioco IV, armi, utensili in legno e tessuti conservati in modo ottimale grazie al clima desertico. Per questo è considerato “uno degli scavi archeologici più ricchi e intriganti mai scoperti nel deserto della Giudea. – hanno affermato i direttori degli scavi Matan Toledano, Eitan Klein e Amir Ganor – La struttura piramidale è enorme. Alta circa 6 metri, è costruita con pietre tagliate a mano, ciascuna del peso di centinaia di chili. Questo è un sito davvero sorprendente: ogni momento vengono fatte nuove scoperte”.
Il lavoro di scavo fa parte di un progetto più ampio, avviato otto anni fa dall’Autorità israeliana per le Antichità allo scopo di preservare i reperti archeologici dai saccheggi. Il team ha esplorato ben 180 chilometri di scogliere nel deserto, scoprendo circa 900 grotte e migliaia di reperti rari – rotoli, monete, utensili e papiri.
“Contrariamente alle precedenti ipotesi che facevano risalire questa struttura al periodo del Primo Tempio – hanno affermato i ricercatori – ora si pensa che sia stata costruita più tardi, durante il periodo ellenistico, quando la terra di Israele era sotto il dominio tolemaico. Non sappiamo ancora con certezza quale fosse lo scopo per il quale fu eretta. È un avvincente mistero storico”.
“L’indagine del deserto della Giudea è una delle operazioni archeologiche più importanti mai intraprese nella storia dello Stato di Israele – ha detto Eli Escusido, Direttore dell’IAA, invitando il pubblico a partecipare allo scavo – Le scoperte sono entusiasmanti ed emozionanti e il loro significato per la ricerca archeologica e storica è enorme”.
Lo scavo è un’iniziativa congiunta dell’Autorità per le Antichità di Israele e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, finanziata da diversi dipartimenti governativi.
(Shalom, 26 marzo 2025)
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Israele – La maggioranza approva il bilancio 2025
In una seduta tesa, il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva la Legge di Bilancio per il 2025 con 66 voti favorevoli e 52 contrari. La manovra, da 755 miliardi di shekel (circa 189 miliardi di euro), assicura la sopravvivenza del governo di Benjamin Netanyahu, che sarebbe caduto senza il voto favorevole entro la scadenza del 31 marzo. La coalizione ha celebrato il via libera parlando di «vittoria responsabile», l’opposizione denuncia scelte miopi e tagli che colpiscono i cittadini più vulnerabili.
Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha difeso la legge, definendola «un bilancio di guerra e, con l’aiuto di Dio, il bilancio della vittoria». Secondo Smotrich, la manovra rappresenta una risposta necessaria all’emergenza nazionale, con misure che puntano a sostenere la Difesa, aiutare i riservisti e le loro famiglie, e garantire risorse alle imprese danneggiate dal conflitto. Il budget del ministero della Difesa per il 2025 è stato portato a circa 110 miliardi di shekel, rispetto ai 64 miliardi previsti per il 2024. Il secondo capitolo di spesa più rilevante è quello dell’Istruzione, con circa 92 miliardi di shekel.
Per il Financial Times, dietro l’apparente consolidamento del potere da parte di Netanyahu con l’approvazione del bilancio si cela una realtà più fragile: l’economia israeliana rimane sotto pressione a causa della guerra in corso e di una crisi istituzionale sempre più profonda. Il settore tecnologico, i sindacati e le amministrazioni locali hanno minacciato scioperi nel caso in cui il governo prosegua con il piano di rimuovere il capo dello Shin Bet e il procuratore generale, sfidando la Corte suprema. Le prossime settimane saranno cruciali, spiega il quotidiano economico, anche perché non è chiaro se l’esecutivo rispetterà le sentenze attese dal massimo organo giudiziario del Paese.
Anche il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha espresso perplessità sulla manovra, sottolineando come esista «spazio per ridurre spese che non contribuiscono a sufficienza al potenziale di crescita futura dell’economia». I critici sottolineano la decisione della coalizione di escludere dal bilancio i fondi previsti dalla cosiddetta “Legge Tkumah” per la ricostruzione delle comunità vicino a Gaza devastate il 7 ottobre, così come gli aiuti agli sfollati del nord.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha accusato il governo di disprezzare la classe media e di aver trasformato il budget in uno strumento di ricompensa politica. Nel suo intervento ha denunciato un sistema che toglie risorse a lavoratori e riservisti per finanziare settori che non contribuiscono né all’economia né alla sicurezza.
Critiche a cui il ministro delle Finanze ha replicato, dichiarando di aver elaborato il bilancio in collaborazione con le autorità locali, i sindacati e il settore imprenditoriale, e che si tratta di provvedimento volto «a rafforzare la crescita e mantenere la resilienza economica».
La coalizione si prepara a concentrare gli sforzi sulla discussa riforma giudiziaria. Un’iniziativa che promette nuove tensioni politiche, mentre la legge sulla leva militare, centrale per i partiti religiosi e al centro di un altro acceso dibattito, è ferma in Commissione Affari Esteri e Difesa, senza segnali di avanzamento.
(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)
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A Torino, un Purim internazionale per i giovani ebrei
È stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni, sia ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse.
di Nathan Greppi
Entrando nei locali della comunità ebraica torinese, si capiva fin da subito che non era uno Shabbaton come gli altri: a confrontare le rispettive esperienze dell’ultimo periodo non erano solo ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse, che hanno dato un tocco cosmopolita a tutto l’evento, e permesso che vi fosse una maggiore eterogeneità di esperienze da condividere per scambiare opinioni.
In sintesi, è stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni. Organizzato dall’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), l’evento ha visto come partner anche l’Unione degli Studenti Ebrei di Germania (JSUD), l’EUJS (European Union of Jewish Students), la NUIS (National Union of Israeli Students), l’Agenzia Ebraica, l’AJC (American Jewish Committee) e la Moishe House.
• Rompere il ghiaccio
Per dare inizio alle danze, venerdì pomeriggio la Moishe House ha organizzato un incontro dove i ragazzi potevano presentarsi e parlare un po’ di sé e delle loro vite, oltre a partecipare ad un quiz sulla storia degli ebrei in Italia. Dopo le prime attività ricreative, ci si è riuniti per accendere le candele di Shabbat, e dopo le preghiere di Minchà, Kabbalat Shabbat e Arvit i ragazzi hanno cenato tutti insieme nei locali della comunità. Più in generale, nel corso dell’evento chi voleva pregare ha sempre avuto un’occasione per farlo, sia per Shacharit la mattina che per Minchà e Arvit la sera.
• Dibattiti sull’attualità
Coloro che incarnano il futuro delle comunità ebraiche hanno avuto modo di confrontarsi sui temi più caldi del presente e puntare anche lo sguardo al passato, attraverso diversi dibattiti tenutisi in contemporanea sabato pomeriggio: Baruch Lampronti ha condotto una visita guidata della Sinagoga di Torino, illustrandone la storia e le peculiarità. Mentre la psicologa Ruth Mussi ha raccontato come si è evoluto, nel corso della storia, il ruolo della donna nell’ebraismo.
Passando dalla storia all’attualità, il rabbino capo di Torino Rav Ariel Finzi ha trattato la prospettiva ebraica sul rilascio degli ostaggi, sicuramente il tema che più di ogni altro oggi rappresenta una ferita aperta per gli ebrei in tutto il mondo. Più leggero, ma comunque di una certa importanza, il dibattito che ha visto confrontarsi tre esponenti del giornalismo ebraico giovanile, che hanno parlato del lavoro delle rispettive testate: David Di Segni per HaTikwa, organo di stampa dell’UGEI, Alexandra Krioukov per EDA, periodico della JSUD, e Ariela di Gioacchino per The Bridge, rivista in lingua inglese dell’EUJS. Un tema sentito è stato in particolare come queste realtà hanno reagito al 7 ottobre.
• Tra attivismo e divertimento
Siccome l’evento è stato organizzato per Purim, dopo la fine di Shabbat e la cena non poteva mancare la festa in maschera, dal titolo The enigma of Turin: Between Shadows and Wonders, tenutasi nella suggestiva cornice di Villa Sanquirico, nel cuore del capoluogo piemontese. Alla festa, oltre ad indossare i costumi e le maschere più svariate, i ragazzi hanno potuto ballare al ritmo dei grandi successi della musica italiana, israeliana e internazionale.
La mattina dopo, ancora stanchi dalla festa ma comunque reattivi, i ragazzi hanno fatto un giro a piedi alla scoperta di Torino e della sua storia. Al termine del tour, ognuno ha ripreso la strada di casa, portando con sé il ricordo di un fine settimana felice e carico di emozioni.
“Più di 170 ragazzi e ragazze da tutta Europa, e non solo, si sono incontrati in una delle città più suggestive del Bel Paese e che incarnava a pieno il tema scelto per le attività dello Shabbaton: ‘Tra Emancipazione e Liberazione’”, dichiara a Mosaico il presidente UGEI Luca Spizzichino. “Le discussioni di questi giorni ci hanno portato a una riflessione profonda su chi siamo oggi e sul nostro ruolo nella società civile come giovani ebrei italiani ed europei”.
(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)
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Calcio – Italia e Israele ancora di fronte, come nel 2024
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Abbraccio a fine gara tra Luciano Spalletti e Ran Ben Shimon, allenatori rispettivamente di Italia e Israele
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Le strade calcistiche di Italia e Israele si sono incrociate l’ultima volta lo scorso anno, in Nations League. Nel primo incontro in campo neutro, nella gara “casalinga” d’Israele disputata il 6 settembre a Budapest, gli azzurri vinsero per 2 a 1. Imponendosi una seconda volta il 14 ottobre, allo stadio Friuli di Udine, con un più netto 4 a 1. Curiosamente, torneranno a incontrarsi con uno schema quasi identico nel 2025: l’8 settembre in Israele, il 14 ottobre in Italia. A prevederlo è il calendario del gruppo I di qualificazione al Mondiale del 2026, il girone al quale l’Italia è stata assegnata dopo l’eliminazione per mano della Germania nei quarti di finale di Nations League. Prima di incontrare Israele — dovesse essere ancora in corso la guerra, il match dell’8 settembre sarà verosimilmente giocato in campo neutro — l’Italia debutterà il 6 giugno in casa della Norvegia, forse l’unica reale antagonista per la conquista del primo posto che vale l’accesso diretto al Mondiale (dove l’Italia manca dal 2014). Poche sulla carta le possibilità per Israele che stasera, nell’ungherese Debrecen, sfiderà proprio la Norvegia. Entrambe le squadre hanno vinto all’esordio. Israele ha battuto 2 a 1 l’Estonia, mentre la Norvegia ha avuto la meglio della Moldavia per 5 a 0.
Negli scorsi mesi la federazione calcistica norvegese ha sostenuto l’istanza presentata da quella palestinese per sospendere Israele dalla Fifa, istanza ancora oggetto di approfondimento ai vertici del calcio mondiale. La presidente della federazione di Oslo, Lise Klaveness, in alcune dichiarazioni alla vigilia dell’incontro ha affermato: «Dobbiamo giocare, ma questo non significa che non sosteniamo i palestinesi, anzi. Sosteniamo la loro denuncia alla Fifa, ma boicottare la partita non è la mossa giusta». Alcuni calciatori norvegesi hanno rivolto critiche molto dure a Israele per il conflitto a Gaza. Erling Haaland, la star del team scandinavo, non si è invece espresso: «Non credo, come calciatore, di dovere dire la mia su questo argomento».
(moked, 25 marzo 2025)
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Il memoriale del Nova Festival attrae 7mila visitatori al giorno
di Michelle Zarfati

Il sito commemorativo per le vittime del Nova Festival creato dal KKL-JNF è diventato il luogo più visitato in Israele negli ultimi sei mesi, attirando circa 7mila visitatori al giorno che vogliono commemorare le vittime di quel terribile 7 ottobre 2023. Il sito presenta pilastri nel terreno che espongono le fotografie delle vittime insieme alle bandiere israeliane.
Meir Zohar, che ha perso la figlia Bar nel massacro, ha raccontato: “Come padre che ha perso la figlia durante il massacro del Nova, questo posto non è solo un luogo commemorativo per me e le altre famiglie in lutto, ma uno spazio in cui sentiamo che il nostro dolore è visto e ascoltato”. Il KKL-JNF ha intrapreso una missione davvero significativa: preservare la memoria delle vittime, rendere il sito accessibile e fornire alle famiglie un luogo dignitoso in cui entrare in contatto con i propri cari scomparsi. “Sono profondamente grato a tutti coloro che lavorano per garantire che questo posto rimanga così com’è, accessibile e degno, in modo che la storia delle vittime non venga mai dimenticata”, ha aggiunto Zohar.
Nelle discussioni con le famiglie e con l’obiettivo di rendere il sito più accessibile preservando al contempo la memoria delle vittime, il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund (KKL-JNF) ha stanziato 4 milioni di shekel per migliorare il parcheggio di Re’im . I miglioramenti includono la costruzione di percorsi accessibili, servizi igienici, segnaletica durevole e appropriata, spazi educativi, un boschetto commemorativo e altro ancora. Yaniv Maimon, Direttore della Regione Meridionale del KKL-JNF e leader di questa iniziativa, ha aggiunto: “Siamo orgogliosi di svolgere un ruolo significativo in uno dei siti più visitati in Israele oggi. Questo luogo ha una grande importanza nazionale. Inoltre, molti membri del team Southern Region del KKL-JNF, responsabili della manutenzione del sito, sono stati personalmente colpiti dagli eventi del 7 ottobre, aggiungendo dunque le vicende personali al loro profondo impegno personale ed emotivo verso questo luogo”.
Ifat Ovadia-Luski, presidente del KKL-JNF, ha affermato che il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund è stato al fianco delle famiglie colpite dal lutto fin dall’inizio, “migliorando e rendendo questo sito accessibile al pubblico, garantendo al contempo la dignitosa e rispettosa preservazione della memoria delle vittime: è per noi una missione morale e nazionale”.
L’organizzazione ha creato un luogo commemorativo aperto, ha piantato un boschetto insieme alle famiglie e ha ricostruito elementi chiave del festival, come il palco, il posto di comando, l’ambulanza e il container giallo: “Questo luogo non è solo un ricordo di ciò che è stato, è una testimonianza vivente della resilienza, dell’unione e del dolore dell’intera società israeliana”. Decine di migliaia di visitatori giungono al sito ogni settimana. La presidente sottolinea l’importanza del profondo bisogno del pubblico di ricordare e non dimenticare mai e che “questo non fa che rafforzare il nostro impegno a continuare a mantenere questo sito con l’onore che merita”.
(Shalom, 25 marzo 2025)
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Un altro Yad Vashem?
Quella mattina del 7 ottobre, i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma un’organizzata collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, quel risultato proprio non potevano immaginarselo.
Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina.
No, il memoriale di Nova Festival non sarà mai un altro Yad Vashem. M.C.
(Notizie su Israele, 25 marzo 2025)
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Quando la menzogna si fa sistema
L’odio per gli ebrei è l’impalcatura ideologica con cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti, condannandosi all’autodistruzione.
di Levi Meir Clancy
L’odio per gli ebrei non è solo un pregiudizio delle persone. È un fallimento strutturale delle società.
Una società che crede che gli ebrei siano coloro che controllano le banche non costruirà mai un’economia stabile. Una società che crede che gli ebrei manipolino i media non svilupperà mai il libero pensiero. Una società che crede che gli ebrei stiano costantemente orchestrando tutte le guerre non comprenderà mai le vere dinamiche della guerra e della pace. Una società che crede che gli ebrei siano il nemico supremo non sfuggirà mai alla propria autodistruzione.
Questa non è solo una teoria. È uno schema coerente e verificabile.
La Germania nazista incanalò tutte le sue ansie economiche nell’odio per gli ebrei, finendo col precipitare nella propria rovina finanziaria e nella distruzione totale.
La Russia stalinista epurò i suoi intellettuali e leader ebrei, lasciando ai posteri un’eredità fatta di disfunzione e paranoia.
Il mondo arabo ha espulso le sue secolari comunità ebraiche ed è sprofondato nella sconfitta, nella discordia, nella dittatura.
Ora, nella nostra epoca attuale, in America alt-left e alt-right (sinistra e destra alternative, alias estremiste ndr) smerciano odio per gli ebrei attraverso selettività e disinformazione, col risultato di garantire che i loro movimenti rimangano intrappolati nelle allucinazioni anziché confrontarsi con la realtà.
L’odio per gli ebrei diventa l’impalcatura mediante cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti. È così che acquisisce la sua intensità, la sua irrazionalità e la capacità di rimodellarsi per sopravvivere attraverso le generazioni.
Ovunque prenda piede, l’ossessione per il “controllo ebraico” non danneggia solo gli ebrei. Paralizza intere civiltà intente a riscrivere il passato, il presente e il futuro per adeguarsi alla menzogna.
Ecco perché i nazionalisti arabi insegnano che gli ebrei non hanno mai esercitato sovranità in Terra d’Israele, nonostante le schiaccianti prove del contrario.
Ecco perché americani frustrati ignorano i profughi ebrei dalle terre islamiche, mentre elevano gli arabi palestinesi al ruolo di vittime uniche e straordinarie.
Ecco perché persino la Shoah, meticolosamente documentata, viene ora distorta oltre ogni misura per descrivere, in sostanza, gli ebrei di oggi come aggressori anziché sopravvissuti.
Ciò che inizia come un pensiero cospirazionista diventa il fondamento di una visione politica del mondo. La menzogna si fa sistema.
Una società che vede gli ebrei come padroni dell’economia non si assumerà mai la responsabilità della propria crescita economica. La convinzione che gli ebrei manipolino la finanza globale consente a leader corrotti di sviare le accuse per i loro fallimenti. Epurano i loro cittadini più istruiti, limitano i commerci e giustificano politiche fallimentari dando la colpa a immaginari complotti ebraici.
Accusano lo stato ebraico di essere la fonte di ogni sofferenza, il che permette loro di non fare mai i conti con la corruzione, la dittatura e il settarismo nelle loro società.
Non è un caso se gli stati arabi che hanno espulso nel XX secolo oltre il novantanove percento dei loro cittadini ebrei, poi hanno subìto uno sbalorditivo declino economico e tecnologico.
Non è un caso se i paesi che oggi abbracciano sistematicamente l’odio per gli ebrei, dalla Repubblica Islamica dell’Iran alla Repubblica bolivariana del Venezuela, stanno collassando, mentre quelli che stabiliscono legami con lo stato di Israele, come gli Emirati Arabi Uniti, prosperano.
L’odio per gli ebrei non è solo una bancarotta morale. È un veleno. Un movimento che incolpa gli ebrei per i problemi globali non creerà mai nulla.
Una società che si impegna a distruggere gli ebrei, in tutto o in parte, si impegna inevitabilmente a distruggere se stessa.
La Germania nazista avrebbe potuto imporsi come un impero europeo. Invece, dedicò gran parte del suo sforzo bellico allo sterminio degli ebrei, anche quando ciò avveniva a costo di perdite militari. Risorse cruciali vennero sottratte allo sforzo bellico per mantenere i campi di sterminio. Pilastri dell’economia vennero sacrificati all’odio per gli ebrei, accelerando la sconfitta dell’Asse grazie alla tecnologia sviluppata dagli stessi ebrei che aveva esiliato.
Vediamo lo stesso schema in Egitto, dove proprietà e attività ebraiche esistono solo come ricordi fantasmatici di una comunità che esisteva solo pochi decenni fa.
E vediamo la Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo una delle nazioni islamiche più avanzate, sperperare decine di miliardi di dollari in Siria al solo scopo di picchiare ai confini dello stato ebraico.
L’odio per gli ebrei non si limita a frustrare coloro che lo coltivano. Li distrugge attivamente dall’interno.
Quando la Germania nazista cadde, non fu solo una sconfitta militare. Fu un crollo ideologico totale.
Quando l’Unione Sovietica è crollata, non ha solo perso la guerra fredda. Ha anche distrutto la credibilità di decenni di propaganda.
Quando diversi stati arabi iniziarono a normalizzare i rapporti con Israele, non si trattò solo di diplomazia. Fu il riconoscimento del fatto che l’ossessione pluridecennale per la distruzione degli ebrei non aveva portato da nessuna parte.
La domanda è: chi apprende dalla storia e chi si condanna a ripeterla?
L’odio per gli ebrei è suicida. Le società che lo rifiutano prosperano. Le società che lo abbracciano appassiscono.
Per secoli si è messo in conto che gli ebrei accettassero in silenzio la loro oppressione come vittime, collaboratori o spettatori passivi.
Ogni poche generazioni, i loro sforzi per l’autodifesa, l’autorappresentazione e l’autodeterminazione arrivavano quasi a ribaltare l’equazione. Quasi.
Poi finalmente il movimento sionista ha spinto questi sforzi oltre il punto di non ritorno.
La resilienza degli ebrei frantuma ogni predizione sulla loro fine. La sovranità ebraica contrasta ogni tentativo di distruzione. La sopravvivenza degli ebrei smaschera tutti i fallimenti di coloro che scommettono contro di loro.
Improvvisamente, noi ebrei non siamo più oggetti in balìa della storia: ne siamo gli attori, sostenuti anche dalla forza.
Non siamo una nota a piè di pagina: siamo la nostra stessa storia, sostenuti dalla verità.
(da Times of Israel, 15.3.25)
(israelnet.it, 24 marzo 2025)
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Ecco come nasce la recita delle quarte
di Anna Coen Di Segni
Giovanissima, appena diplomata, fui accompagnata da mia madre alla Scuola Polacco per “prendere confidenza con l’ambiente”. Erano i primi anni Sessanta, la scuola era nella “nuova sede” di Lungotevere Sanzio; mi pare che mia madre conoscesse la direttrice, l’anziana austera signora Ravenna, e qualche insegnante veterana: Emma Dell’Ariccia, Franca Nacamulli, Elisa Ascarelli. Io ero poco più di una bambina; non avevo ancora diciassette anni. La scuola mi sembrò subito bellissima: spazi grandi, aperti, terrazze su tutti i piani, un ambiente desueto rispetto alle scuole che avevo frequentato. Entrai per fare “tirocinio” all’inizio dell’anno scolastico, più incuriosita che intimidita. Respirai subito un’aria familiare; l’ambiente ebraico che frequentavo pochissimo e mi attraeva poiché ero in piena ricerca della mia identità si respirava in maniera inequivocabile; tutti si conoscevano ed erano imparentati, le custodi venivano chiamate dai bambini “zie”, la maestra “morà”; prima di iniziare la lezione i bambini recitavano lo Shemà con naturalezza e devozione. Non avevo mai frequentato altro che scuole comunali dove, durante la preghiera del mattino, mi riconoscevo solamente nell’amen finale che, sebbene pronunciato con un accento diverso, era l’unica parola che corrispondeva alle preghiere che sentivo al Tempio durante le feste. Sentire lo Shemà, che tutte le sere con mamma ripetevo nel mio letto, mi provocò subito una gioiosa sensazione di appartenenza. Ho imparato tanto nella mia carriera di insegnante alla Scuola Polacco: ho conquistato la mia agognata identità ebraica, completata con la frequenza assidua al Seminario Almagià, ho cominciato a capire un po’ del giudaico romanesco e, come tutti gli insegnanti, ho imparato tantissimo dai numerosi alunni ai quali ho cercato di insegnare in quaranta anni di servizio.
Ma la cosa più rilevante che ricordo è la storica irrinunciabile recita di Purim. Tutti gli anni, immancabilmente, la morà Enrica Dell’Ariccia e il morè Eliseo cominciavano a confabulare già dal mese di dicembre per scegliere l’argomento da prendere come spunto per far recitare i ragazzi delle quinte che raccontavano la storia della regina Ester, attualizzata e messa in scena imitando gli spettacoli del momento: una serie televisiva, un film per ragazzi, che servivano per trasformare in personaggi attuali, gli eroi protagonisti della nostra storia. La recita comprendeva sempre canti e cori con le musiche conosciute a cui venivano sostituite le parole e, il giorno di Purim, dopo aver adibito il salone con scenari costruiti dalle morot e dai ragazzi, scelti e creati sfondi e costumi, si andava in scena con grandissima emozione non solo dei protagonisti e degli insegnanti ma anche di genitori, zii, nonni e conoscenti che si assiepavano nel salone battendo le mani, commuovendosi e complimentandosi. Era sempre presente il Rabbino Capo che, oltre ad apprezzare quanto la recita servisse per approfondire e assimilare valori e messaggi della storia ebraica, mostrava di divertirsi anche lui. Il giorno successivo, Purim Shushan era la giornata di riposo più agognata dalle morot impegnate nella recita e sicuramente la più meritata dopo tanta fatica. Negli anni, quando per un breve periodo mi fu dato l’incarico di coordinatrice didattica, stabilimmo che la recita venisse fatta dalle classi quarte (tutte insieme) poiché la preparazione portava via molto tempo e le quinte classi dovevano affrontare l’esame finale del ciclo elementare. La cosa più difficile era sempre riuscire a coinvolgere tutti i bambini dando a tutti la sensazione di essere protagonisti, cosa non facile perché spesso le quarte comprendevano un totale di più di cento bambini. Quindi trovammo l’escamotage di far ricoprire lo stesso personaggio in scene diverse a bambini diversi delle varie classi in modo che ci fossero almeno quattro regine Vashtì, quattro Ester, quattro Mordechai e così via. Le altre classi poi non si esimevano certo dal fare la loro parte con una recita di classe ed assistevano alla recita ufficiale. I più piccoli con ammirazione per i compagni “grandi”, le quinte col rimpianto dell’anno precedente in cui erano state protagoniste, le terze con la certezza che l’anno prossimo sarebbe toccato a loro. Una tradizione che si è consolidata nel tempo e che resta tutt’ora punto cardine del percorso scolastico della Vittorio Polacco.
(Shalom, 18 marzo 2025)
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Regno Unito: il Parlamento pubblica un report completo e sconvolgente sulle atrocità del 7 ottobre
di Maia Principe
Un gruppo di legislatori britannici ha pubblicato un nuovo ed esauriente rapporto che documenta le atrocità dell’invasione del sud di Israele da parte dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas, avvenuta il 7 ottobre 2023, per stabilire una documentazione storica inconfutabile del massacro. La notizia, uscita sui media ebraici già settimana scorsa, è stata di fatto ignorata dai media occidentali.
“Lo scopo di commissionare il nostro rapporto è stato quello di descrivere gli eventi del 7 ottobre con chiarezza e meticolosa precisione, per garantire che non vengano mai dimenticati”, ha dichiarato Lord Andrew Roberts, un importante storico che ha presieduto lo studio di 318 pagine.
“La negazione dell’Olocausto ha impiegato alcuni anni per attecchire in alcune sacche della società, ma il 7 ottobre 2023 sono bastate poche ore per affermare che i massacri nel sud di Israele non hanno avuto luogo”, ha scritto Roberts nella prefazione del rapporto. “Hamas e i suoi alleati, sia in Medio Oriente che, altrettanto vergognosamente, in Occidente, hanno cercato di
negare le atrocità, nonostante il fatto ironico che molte delle prove dei massacri derivino da filmati di telecamere portate dagli stessi terroristi”.
“Il presente rapporto è stato redatto per contrastare tali opinioni perniciose e per fornire prove inconfutabili – per ora e per gli anni a venire – che quasi 1.200 persone innocenti sono state effettivamente uccise da Hamas e dai suoi alleati, molto spesso in scene di sadica barbarie che non si vedevano nella storia del mondo dal ratto di Nanchino del 1937”, ha continuato.
L’importante rapporto è stato prodotto dal
Gruppo parlamentare All-Party per il Regno Unito-Israele, un’alleanza informale di legislatori sia della Camera dei Comuni che della Camera dei Lord, attraverso un anno di ricerca e scrittura.
Tra le altre scoperte, il rapporto ha rivelato che durante l’assalto del 7 ottobre guidato da Hamas sono stati
uccisi più cittadini britannici (18) che in qualsiasi altro attacco terroristico straniero da quando Al Qaeda ha colpito gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
Il rapporto ha anche fornito dettagli sulla
più giovane vittima del massacro, Naama Abu Rashed, che è stata colpita da un proiettile mentre era ancora nel grembo della madre e ha vissuto solo 14 ore dopo la nascita.
In totale, secondo il rapporto, il 7 ottobre 2023
circa 7.000 terroristi palestinesi guidati da Hamas hanno ucciso 1.182 persone, ne hanno ferite più di 4.000 e hanno rapito 251 ostaggi – 210 vivi e 41 morti al momento del rapimento.
“È stato il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto e il più letale attacco terroristico pro capite, con poco più di un israeliano su 10.000 ucciso e il
terzo attacco terroristico più letale al mondo”, conclude lo studio.
Altri capitoli dello studio descrivono in dettaglio la
pianificazione di Hamas, le armi utilizzate e la violenza che si è verificata in ogni luogo, compresi i dettagli crudi di rapimenti, violenze sessuali, torture e profanazione di cadaveri.
“Le dichiarazioni dei testimoni oculari hanno confermato numerosi episodi di stupro e di stupro di gruppo, nonché lo stupro di cadaveri di donne. I testimoni oculari hanno anche raccontato l’abuso di vittime femminili che sono state passate tra più aggressori”, si legge nel rapporto. “Mentre le vittime fuggivano dal fuoco dei missili e dagli attacchi, i militanti inseguivano e davano attivamente la caccia alle vittime. Le vittime sono state trovate nude dalla vita in giù o completamente nude, molte con le mani legate dietro la schiena o legate ad alberi o pali intorno al sito del festival [Nova]. Altre hanno riportato ferite da arma da fuoco alla nuca”.
Lo studio descrive anche come
l’idea dell’attacco del 7 ottobre abbia cominciato a formarsi già nel 2014, con una preparazione ufficiale iniziata nel 2021.
Il rapporto identifica gli uomini maggiormente responsabili della decisione dell’attacco come “
Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar (fratello di Yahya),
Rawhi Mushtaha (membro fondatore di Hamas, anch’egli vicino a Sinwar) e
Ayman Nofal, uno dei più stretti collaboratori di Deif ed ex capo dell’intelligence di Qassam, comandante della Brigata Centrale delle Brigate e capo della sala operativa congiunta per la resistenza”. Il rapporto ha anche tracciato un profilo dei gruppi che hanno aiutato Hamas negli attacchi, in particolare la
Jihad islamica palestinese (PIJ), il
Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP), il
Fronte democratico per la liberazione della Palestina (DFLP), le
Brigate dei martiri di Al-Aqsa, il
Movimento dei mujaheddin palestinesi, i Comitati di resistenza popolare (PRC) e
Al-Ahrar.
“Il gruppo parlamentare del Regno Unito ha riconosciuto l’importanza di stabilire il resoconto storico del 7 ottobre, proprio come il generale Dwight D. Eisenhower ha riconosciuto l’importanza di documentare gli orrori dell’Olocausto – ha dichiarato
David May, Research Manager e Senior Research Analyst -. I negazionisti delle atrocità cercano di scagionare i colpevoli, negare alle vittime il loro diritto all’autodifesa, giustificare le azioni che negano siano avvenute e desiderarne altre in futuro. Sebbene questi obiettivi siano contraddittori, i negazionisti del 7 ottobre esistono al di fuori della realtà, in un mondo di teorie cospirative e disprezzo per la verità”.
“Questo rapporto è il resoconto più completo finora sulle atrocità commesse da Hamas e dai suoi alleati il 7 ottobre – Ben Cohen, FDD Senior Analyst e Rapid Response Director -. Non lascia dubbi sul fatto che Hamas abbia lanciato un pogrom contro i civili, nonostante la sua ingannevole insistenza sul fatto che ciò a cui il mondo ha assistito quel giorno fosse un’operazione militare. Non lascia dubbi nemmeno sulla natura selvaggia del nemico che Israele deve affrontare e sul suo implacabile desiderio di cancellare violentemente Israele dalla mappa”.
Il report completo
(Bet Magazine Mosaico, 24 marzo 2025)
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Simbolo di prosperità e segno del prossimo futuro
L'albero di fico fruttifica più volte all'anno. Nella Bibbia simboleggia, tra l'altro, un segno di una nuova era imminente.
di Gundula Madeleine
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Albero di fico in Israele
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Il fico è uno dei sette frutti della terra d'Israele, insieme a datteri, melograni, olive, uva, orzo e grano. Oltre ai suoi frutti deliziosi, le persone hanno apprezzato le grandi foglie del fico come fonte di ombra fin dall'inizio dei tempi. Giovanni 1:48-50 dice: “ Natanaele gli disse: ”Come mi conosci? Gesù rispose e gli disse: “Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti ho visto”. Natanaele rispose e disse: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele”. Gesù rispose e gli disse: “Perché ti ho detto: ‘Ti ho visto sotto l'albero di fichi’, credi? La Bibbia di Elberfelder riporta la seguente nota: “Secondo alcuni esegeti biblici, non si tratta di una domanda ma di una proposizione: Perché vi ho detto... voi credete. Vedrete cose più grandi di queste”.
Nello Shir HaShirim, il Cantico dei Cantici, al capitolo 2, il versetto 13 elogia il fico: “ Il fico arrossisce i suoi fichi, e le viti in fiore danno profumo. Alzati, amico mio, mia bellezza, e vieni!
• Fichi precoci particolarmente ricercati
Il fico, tə'enāh in ebraico, fruttifica più volte all'anno. Va notato che i frutti precedenti, i paggîm, non sono commestibili. I fichi precoci, i bikkûrîm, sono particolarmente ricercati a partire dalla fine di maggio e in giugno (Osea 9:10; Michea 7:1, cfr. Cantico dei Cantici 2:13). I fichi tardivi, i tə'enîm, si raccolgono alla fine di agosto e a settembre. I fichi secchi erano utilizzati come provviste durante i viaggi; sono stati apprezzati fin dai tempi biblici anche quando venivano pressati e trasformati in una torta. In 1 Cronache 12, 40-41 si legge: “ Rimasero con Davide tre giorni, mangiando e bevendo, perché i loro fratelli avevano provveduto a tutto per loro”. Quelli che abitavano vicino a loro, fino a Issacar, Zabulon e Neftali, portarono cibo su asini, cammelli, muli e buoi: piatti di farina, dolci di fichi e dolci di uva sultanina, vino e olio, buoi e pecore in abbondanza, perché c'era gioia in Israele.
• Fonte rapida di energia
I fichi sono considerati una rapida fonte di energia; i fichi freschi contengono il 15% di fruttosio. In 1 Samuele 30:12 si legge: L'Amalecita che riferì a Davide della morte del re Saul mangiò una parte di una torta di fichi pressati e due torte di uva sultanina e “tornò in vita”. Gli diedero anche un pezzo di torta di fichi e due torte di uva passa. E quando ebbe mangiato, tornò in sé, perché non aveva mangiato pane e bevuto acqua per tre giorni e tre notti. Quando si mangiano i fichi secchi, è importante notare che sono ricchi di carboidrati e hanno un alto carico glicemico, in quanto il contenuto di zucchero sale al 60%, quindi le persone con glicemia alta dovrebbero evitarli. La Bibbia cita spesso il fico insieme alla vite. Il motivo potrebbe essere che alle persone piaceva far arrampicare la vite sull'albero di fico. Sedersi sotto la vite e il fico simboleggia la prosperità e la pace, come si legge in 1 Re 5,5: Giuda e Israele abitarono al sicuro, ognuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, da Dan fino a Beer-Sceba, per tutto il tempo di Salomone.
• Impacco curativo di fichi per Ezechia
Il fico è molto apprezzato anche come pianta medicinale. In Isaia 38:21-22, viene menzionato come cataplasma per il re Ezechia, che a quanto pare stava morendo a causa di una pustola infiammata: “ E Isaia disse che bisognava prendere una torta di fichi - fatta di frutti di fico - e spalmarla sulla pustola perché guarisse. Allora Ezechia disse: “Qual è il segno che io salirò alla casa del Signore? Alcuni botanici ritengono che il fico sia originario della penisola arabica e la Bibbia lo cita già nella caduta dell'uomo: nel giardino dell'Eden, Adamo ed Eva si coprirono con foglie di fico. Il suo nome botanico è Ficus carica, il fico appartiene alla famiglia dei gelsi (moraceae). Cresce come piccolo albero o come grande arbusto. Le forme selvatiche del fico si trovano in tutta la regione mediterranea. Come pianta coltivata, il fico è documentato fin dall'VIII millennio a.C.. In Israele, i frutti secchi sono stati ritrovati nel kibbutz Gezer, situato nel centro del Paese, nella valle di Ajalon. Gli scienziati li hanno datati al 5000 a.C. circa. Gezer era una delle tre grandi città che sorvegliavano la Via Maris. La città si trovava in un punto strategicamente importante, dove la principale via commerciale conduceva verso l'interno per evitare le zone paludose lungo la costa. Oggi Tel Gezer è uno dei più grandi tumuli archeologici antichi di Israele. Documenti egiziani del 2700 circa e del III secolo a.C. menzionano il fico come un frutto importato in Egitto dalla Terra Santa insieme a olive, noci, miele e melograni. Lo storico romano Plinio il Vecchio (23/24 - 79 d.C.) riferisce di un fico minuscolo chiamato cottana - la radice della parola è ritenuta da alcuni essere nella parola ebraica katan, che significa piccolo. Era importato dalla Siria, una denominazione geografica che durante l'Impero Romano comprendeva anche l'odierno Israele.
• Prospera su terreni sassosi
Gli alberi di fico prosperano con poca irrigazione e anche su terreni sassosi. Le sue foglie sono ditate e ruvide. Vengono eliminate all'inizio dell'inverno e rispuntano all'inizio della primavera. Un albero di fico può vivere fino a 40 anni e impiega circa sei anni per dare il primo frutto. In natura, l'impollinazione incrociata è necessaria per la formazione dei frutti. Esistono alberi maschi e femmine. Si mangiano solo i fichi delle piante femmine. Il fico e i suoi frutti sono molto popolari anche nell'odierno Israele, dove si trovano sia allo stato selvatico che coltivati.
Il fico dà il nome a due villaggi sul Monte degli Ulivi, dove pare che i frutti crescessero particolarmente abbondanti: Betfage o Beit Pagi, la “casa dei fichi acerbi”, e Betania - Beit Te'ena, la “casa del fico”. Nei pressi di Betania, Gesù maledisse il fico che aveva foglie ma non frutti. Marco 11,12-14: E quando il giorno dopo furono partiti da Betania, egli ebbe fame. E, vedendo da lontano un fico che aveva delle foglie, andò a vedere se vi trovasse qualcosa; e quando vi giunse, non trovò altro che foglie, perché non era la stagione dei fichi. E cominciò a dirgli: “Nessuno mangerà più frutti da te”. E i suoi discepoli lo udirono. Altrove leggiamo in Marco 11,20-26: “ Passando di buon mattino, videro il fico appassito dalle radici. E Pietro si ricordò e gli disse: “Rabbì, ecco, il fico che hai maledetto è appassito”. E Gesù, rispondendo, disse loro: “Abbiate fede in Dio!Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: Chiunque dirà a questo monte: Sollevati e gettati nel mare, e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che ciò che dice avverrà, sarà fatto per lui. Perciò vi dico: Qualunque cosa preghiate e chiediate, credete che l'avete ricevuta e vi sarà fatta. E quando pregate, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni i vostri debiti.
• Visioni di cesti pieni di fichi
I profeti Geremia e Osea, l'unico dei profeti della Scrittura a provenire dal regno settentrionale di Israele, ebbero le seguenti visioni di cesti pieni di fichi: I “fichi buoni” - l'élite della nazione - sarebbero stati deportati a Babilonia, mentre i “fichi cattivi”, il re Zedekia, i suoi funzionari e la gente comune, sarebbero rimasti a Gerusalemme. Osea 9:10 vedeva la giovane nazione di Israele come “i primi frutti del fico”. La distruzione degli alberi di fico del paese era un simbolo profetico della distruzione della terra (Geremia 5:17; 8:13) e di Osea (2:12).
• Geremia 24:1-10
L'Eterno mi fece vedere - ed ecco che due ceste di fichi erano poste davanti al tempio dell'Eterno - dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva fatto prigioniero Geconia figlio di Jehoiakim, re di Giuda, i principi di Giuda, i fabbri e gli operai metallurgici di Gerusalemme e li aveva portati a Babilonia. Una cesta conteneva fichi molto buoni, come i fichi primaticci, e l'altra cesta conteneva fichi molto cattivi, che non potevano essere mangiati a causa della loro malvagità. Il Signore mi disse: “Che cosa vedi, Geremia? Io dissi: “Fichi; i fichi buoni sono molto buoni e i fichi cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare a causa della loro malvagità”. Allora mi giunse la parola dell'Eterno: “Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: ”Come questi fichi buoni, io guardo ai partenti di Giuda per il bene, che ho mandato via da questo luogo nel paese dei Caldei. Li tengo d'occhio per il bene e li riconduco in questo paese. Li edifico e non li abbatto; li pianto e non li sradico. E darò loro un cuore per conoscere me, che sono il Signore. Saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, perché torneranno a me con tutto il cuore. - Ma come i fichi cattivi che non si possono mangiare per la malvagità - sì, così dice il Signore - così farò di Zedekia, re di Giuda, dei suoi capi e del resto di Gerusalemme, di quelli che sono rimasti in questo paese e di quelli che si sono stabiliti nel paese d'Egitto. E farò di loro un terrore, una calamità per tutti i regni della terra, un rimprovero e un proverbio, uno scherno e una maledizione in ogni luogo dove li scaccerò. 10 E manderò in mezzo a loro la spada, la carestia e la peste, finché non saranno eliminati dal paese che ho dato a loro e ai loro padri. Nahum paragona le fortezze di Ninive, destinate alla distruzione, a fichi che cadono facilmente quando l'albero viene scosso (3,12-13): Tutte le tue fortezze sono alberi di fico con fichi precoci: Quando vengono scossi, cadono in bocca a chi li mangia. Ecco i tuoi guerrieri sono donne in mezzo a te! Le porte del tuo paese sono spalancate ai tuoi nemici; il fuoco consuma le tue sbarre. Anche il fico che non ha dato frutti per tre anni, ma a cui viene data la possibilità di dare frutti prima di essere tagliato, è una parabola biblica. Essa dice che a noi uomini è data la possibilità di pentirci, ma che il periodo di tempo per farlo è limitato (Luca 13:6-9). Ma egli raccontò questa parabola: Un tale aveva un fico piantato nella sua vigna; venne a cercarne i frutti e non ne trovò. Ma disse al vignaiolo: “Guarda, sono tre anni che cerco frutti su questo fico e non ne ho trovati. Taglialo! Perché rende inutile la terra? Ma lui risponde e gli dice: “Signore, lascialo per quest'anno, finché non ci scavi intorno e non ci metta del concime. E se in futuro porterà frutto, bene, ma se non lo farà, potrai tagliarlo”.
• Riferimento all'estate che si avvicina
L'Apocalisse (6:13) paragona la caduta delle stelle del cielo sulla terra all'apertura del sesto sigillo ai fichi tardivi scossi dal fico da un forte vento. Questo fa tremare la terra, il sole diventa nero, la luna diventa come sangue e le stelle cadono sulla terra (6:12-17): E le stelle del cielo caddero sulla terra, come un fico, scosso da un forte vento, getta i suoi fichi invernali. Anche Marco 13:28-31 parla di un tempo vicino ma ancora sconosciuto: “ Ma imparate la parabola dal fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, saprete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete accadere questo, riconoscerete che è vicino. In verità vi dico: Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non avranno luogo. I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Ma di quel giorno o di quell'ora nessuno sa, neppure gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre.
In Luca 21 si legge (29-31): E disse loro una parabola: “Guardate il fico e tutti gli alberi! Se stanno già germogliando, lo saprete da voi stessi quando vedrete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete questo, capirete che il regno di Dio è vicino”.
Anche Matteo 24 parla di un tempo vicino ma sconosciuto (32-33). Gesù insegnò ai suoi discepoli a interpretare i segni dei tempi: Ma imparate la parabola del fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, sapete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, saprete che è vicina la porta.
(Israelnetz, 24 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Aggredito un rabbino a Orléans
di Michelle Zarfati
Il rabbino Arié Engelberg di Orléans, in Francia, è stato violentemente attaccato davanti a suo figlio mentre tornava dalla sinagoga sabato, lo hanno riferito i notiziari francesi France 3 e France Bleu. Secondo i rapporti, il rabbino Engelberg stava tornando dalla sinagoga alle 13:30 – accompagnato da suo figlio di nove anni – quando è stato preso a calci e a pugni, morso alla spalla e insultato. Ha subito anche ferite alla testa. Un testimone dell’incidente ha condiviso filmati con la radio France Bleu Orléans. Secondo quanto riportato dalla fonte locale, un passante è intervenuto e l’aggressore ha lasciato la scena del crimine poco dopo.
Engelberg ha immediatamente presentato una denuncia alla stazione di polizia di Orléans. “Siamo inorriditi, indignati”, ha detto Joëlle Gellert, presidente della Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo a Loiret (LICRA). “Il razzismo non è un’opinione ma un crimine”. Il presidente del CRIF per la regione centrale della Francia, Eliane Klein, ha definito l’incidente “spaventoso”.
“Attualmente c’è un’atmosfera velenosa e chiaramente antisemita in Francia, ma non pensavo che avrebbe contaminato Orléans, che è una città pacifica. Fino ad ora, abbiamo notato graffiti di tanto in tanto, al massimo. Speravo che questa cancrena non si diffondesse a Orléans. Ecco perché è ancora più scioccante”, ha detto Klein. Yonathan Arfi, il capo del CRIF, ha prontamente inviato il suo sostegno al rabbino, definendo l’incidente un “attacco codardo e violento di fronte a suo figlio di nove anni”. Pascal Tebibel, vicepresidente dell’area metropolitana di Orléans, ha detto di essere stato “profondamente scioccato dall’attacco antisemita al rabbino Arié Engelberg a Orléans”.
“L’odio non ha posto nella nostra società. Siamo solidali con la comunità ebraica e non rimarremo in silenzio di fronte all’intollerabile”, ha scritto su X/Twitter il procuratore di Orléans che ha confermato a France 3 Centre-Val de Loire di aver aperto un’indagine sulla “violenza intenzionale commessa a causa della vera o presunta affiliazione religiosa della vittima”.
“Questo è un atto vile e intollerabile. La rinascita dell’antisemitismo in Francia e in tutta Europa non è solo allarmante, è un campanello d’allarme per i governi europei, i leader e la società civile. L’antisemitismo è pericoloso e richiede una risposta senza compromessi. Ci deve essere tolleranza zero per l’antisemitismo, e deve essere combattuto con incrollabile determinazione”, ha aggiunto Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha commentato l’incidente in un post domenica. “L’assalto al rabbino Arié Engelberg a Orléans ci sconvolge tutti. Estendo il mio pieno sostegno, così come quello della Nazione, a lui, a suo figlio e a tutti i nostri concittadini di fede ebraica”, ha scritto.
“L’antisemitismo è un veleno. Non cederemo al silenzio o all’inazione”, ha aggiunto.
La comunità di Orléans conta circa 400 persone. Engelberg è una figura di spicco all’interno della realtà comunitaria, avendo vissuto lì dal 2018, secondo un’intervista del 2020 con Hassidout. Il rabbino di Chabad-Lubavitch aveva raccontato a Hassidout dei numerosi elementi della vita ebraica sostenute nella comunità, tra cui lo studio della Torah, la carne kosher, una sinagoga, la preparazione del bar mitzvah e l’accensione pubblica delle candele durante Hanukkah. Il rabbino ha anche un canale YouTube, dove pubblica video sulla parte settimanale della Torah, sulla vita ebraica e sulla comunità di Orléans.
(Shalom, 24 marzo 2025)
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Cosa c’è di ebraico nel manifesto di Ventotene
di Ugo Volli
• Gli autori del Manifesto
Si è discusso molto nell’ultima settimana del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, che in realtà aveva come titolo originale “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Senza entrare in queste polemiche, vale certamente la pena di chiedersi se in esso vi sia una radice ebraica. La domanda è giustificata dall’identità degli autori. Il più noto dei tre antifascisti confinati nell’isola di Ventotene che lo scrissero nel 1941 (e due anni dopo furono fra i fondatori del Movimento Federalista Europeo) era Altiero Spinelli, anche perché fece una notevole carriera politica: fu deputato fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del PCI, poi deputato europeo, sempre col PCI, e anche membro della Commissione Europea. Ci sono testimonianze di un suo violento atteggiamento anti-israeliano, proseguito peraltro dalla figlia Barbara, anche lei politica di estrema sinistra. Il secondo firmatario del manifesto è Ernesto Rossi, giornalista, economista, polemista anticlericale e anche lui esponente politico nelle liste prima del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale.
• Eugenio Colorni, ebreo medaglia d’Oro della Resistenza
Quel che ci interessa, perché era ebreo, è invece Eugenio Colorni, forse il meno noto dei tre, se non altro perché non sopravvisse alla guerra, essendo stato ucciso dai tedeschi durante un’azione partigiana in Via Livorno a Roma poco prima della liberazione della città, il 30 maggio 1944. Gli fu assegnata per la sua attività partigiana la medaglia d’oro per il valore militare alla memoria. Colorni non poté dunque partecipare all’attività politica dell’Italia libera e non sappiamo se e come l’avrebbe fatto; la sua attività fu innanzitutto un gesto morale di resistenza al fascismo e poi all’occupazione nazista, ma la sua vocazione principale era diretta al pensiero filosofico; il suo precoce talento in questo campo era stato riconosciuto dai grandi filosofi italiani del tempo, Croce e Gentile. Vale la pena di usare questa occasione per ricordarne la bellissima figura. Nato a Milano nel 1909, secondogenito di Alessandro, industriale ebreo mantovano, e della pisana Clara Pontecorvo, fu fortemente influenzato in gioventù dal cugino Enzo Sereni, fervente sionista che immigrò in Israele nel 1927 e morì poi a Dachau ucciso dai nazisti dopo essersi paracadutato nel 1944 nell’Italia occupata. Colorni probabilmente pensò anche lui ad andare in Israele, sappiamo che da liceale si dedicò allo studio dell’ebraico, ma poi si iscrisse alla facoltà di filosofia a Milano, si laureò nel 1930 con Martinetti con una tesi su Leibniz. Frequentava nel frattempo circoli antifascisti, scrisse i primi articoli, poi un libro su Croce; fece un periodo da lettore di italiano all’Università di Marburgo dove ebbe occasione di vedere i nazisti in azione; tornò in Italia quando essi presero il potere. Nel 1934 ottenne una cattedra in un istituto magistrale a Trieste, dove rimase fino all’arresto del settembre 1938. A Trieste frequentò Eugenio Curiel, altro ebreo medaglia d’oro della Resistenza, Umberto Saba, Bruno Pincherle. Assolto in tribunale per insufficienza di prove dall’accusa di attività sovversiva, fu comunque messo al confino nel 1939 a Ventotene e poi spostato nel 1942 a Melfi, dove incontrò Ludovico Geymonat e insieme a lui abbandonò le posizioni idealiste per avvicinarsi alla filosofia della scienza. Nel frattempo era passato dagli ambienti del Partito d’Azione alla militanza nel Partito Socialista. Evaso dal confino, si diede tutto all’attività della Resistenza. Pubblicò allora per la prima volta il Manifesto di Ventotene, diresse l’edizione clandestina dell’”Avanti” e partecipò alla lotta armata antinazista, fino alla sua tragica fine.
• Le critiche
Torniamo al “Manifesto”. Nonostante le polemiche, è evidente a chi lo legga che le critiche di Meloni al testo sono difficilmente confutabili. L’idea di Europa che ne esce è “socialista”, con uno spazio solo residuale per proprietà privata e iniziativa individuale; la federazione europea dev’essere costituita da un “partito d’avanguardia” che agisca di forza senza badare all’opinione dei cittadini, le varie nazioni d’Europa possono avere delle specificità, ma devono obbedire alle scelte del centro europeo, anche perché costrette da un esercito la cui funzione principale è proprio questa. C’è una profonda sfiducia nel popolo e quindi nella democrazia, un atteggiamento elitario e dirigista, pochissima disponibilità per il pluralismo e il dissenso. Insomma, anche se nessuno dei tre firmatari era membro del partito comunista (Spinelli lo era stato per molti anni fino al 1937, quando fu espulso per “trotzkismo”), il modello è quello dell’Urss e del colpo di stato con cui Lenin prese il potere nella “rivoluzione d’ottobre”. Non ha senso giustificare queste idee autoritarie per il fatto che i tre erano confinati; certamente tutti conoscevano anche il pensiero liberale e democratico, avevano letto Croce, Calogero, Gobetti e tanti altri autori. Il punto è che scelsero una posizione di concorrenza all’Urss (che in quel momento era sostanzialmente alleata al nazismo, bisogna ricordare) ma restando sullo stesso terreno “rivoluzionario” e in sostanza autoritario. Un atteggiamento forse comprensibile allora. Che questo sia un modello per l’Europa di oggi invece preoccupa molto.
• C’è stata un’influenza ebraica sul “Manifesto”?
È chiaro che questo quadro mentale è profondamente lontano non solo da quello realizzato dal socialismo sionista in Israele, il solo esperimento veramente democratico di collettivismo democratico; ma anche da tutta la tradizione ebraica che almeno dalla diaspora è sempre stata fondata sulla dialettica delle idee e su organizzazioni comunitarie partecipative. Va aggiunto che la condanna degli stati nazionali, che è il fondamento del “Manifesto”, dell’attività successiva soprattutto di Spinelli e anche oggi di molti atteggiamenti europeisti, è il contrario della speranza sionista. Sul rapporto fra ebraismo ed Europa ci sarebbe molto da dire; è chiaro che nei venti secoli e passa di presenza ebraica sul continente i tempi di persecuzione e discriminazione sono stati lunghissimi e terribili; comunque che anche quando non vi era violenza, per esempio nell’Europa liberale fra rivoluzione francese e nazifascismo, la spinta all’assimilazione e alla riduzione dell’ebraismo da cultura di un popolo a religione privata è stata assolutamente dominante. Ed è chiaro anche che da quando c’è Israele l’Europa politica ha avuto in genere più simpatia per i suoi nemici che per lo Stato ebraico. Sul manifesto di Ventotene e sull’Europa insomma si può discutere; ma difficilmente si può attribuire loro un carattere ebraico.
(Shalom, 23 marzo 2025)
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Le illusioni e la realtà
di Niram Ferretti
In una recente intervista con Tucker Carlson, tra i giornalisti preferiti di Donald Trump, Steven Witkoff, l’inviato speciale per il Medio Oriente con delega speciale anche per il dossier Russia-Ucraina (è l’unico membro dell’Amministrazione Trump che nelle ultime settimane ha incontrato Vladimir Putin per due volte), ha affermato che ritiene che Hamas non sia così estremista come viene dipinto e che se accetterà di disarmarsi potrà avere un ruolo politico a Gaza in futuro. Questo dopo avere premesso che Hamas non potrà continuare a governare la Striscia.
L’ignoranza di Witkoff relativamente a cosa sia Hamas, alla sua storia, al jihadismo in senso stretto, nonché la sua totale inesperienza diplomatica e politica relativa al Medio Oriente, lo ha messo in pole position per il ruolo che gli è stato assegnato. Witkoff, infatti, è un immobiliarista, un coriaceo negoziatore del Bronx, e per Trump questo è quello che è sufficiente.
L’approccio trumpiano a problemi di natura politica e geopolitica è strettamente negoziale, è quindi del tutto irrilevante se non controproducente essere esperti relativamente alla cultura, alla storia e alla filosofia politica di un Paese, o di una entità con la quale si negozia, conta solo il fatto nudo e crudo della transazione, il do ut des.
Pensare che, soprattutto dopo il 7 ottobre, con Hamas sia possibile accordarsi, che Hamas possa disarmarsi, che Hamas possa dismettere i panni del radicalismo islamico per indossare quelli pragmatici di un attore negoziale, significa rimuovere dal tavolo il ruolo fondante e fondamentale delle idee e dell’ideologia.
Il pragmatismo transazionale può funzionare alla grande se ci si siede al tavolo per la compravendita di un immobile a New York, ma è assai diverso se dall’altra parte del tavolo siedono i talebani (con cui, prima della disastrosa uscita di scena dall’Afghanistan messa in atto da Joe Biden, l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo concordò per conto di Donald Trump i termini dell’abbandono americano del Paese), o Hamas.
Witkoff, il cui Hotel Park Lane a New York venne rilevato nel 2023 dal Qatar per 623 milioni di dollari, ha, sempre nella stessa intervista, speso parole di grande apprezzamento per l’Emirato, grande sponsor di Hamas e del radicalismo islamico. I qatarioti sono alleati degli Stati Unti, ha detto, “Persone per bene animate da ottime intenzioni…Sono un piccolo Paese che desidera essere riconosciuto come un facitore di pace…la gente li accusa di avere altri motivi, è insensato”. Sì, hanno peccato di radicalismo nel passato ma ora si sono moderati, e di loro ci si può fidare.
Come ha evidenziato Daniel Pipes in un articolo dedicato al ruolo del Qatar :
“L’influenza del Qatar è forse più evidente nel sostegno fornito a gruppi jihadisti in luoghi così diversi come l’Iraq (al-Qaeda), la Siria (Ahrar al-Sham, Jabhat al-Nusra), Gaza (Hamas) e la Libia (Brigate di Difesa di Bengasi). Inoltre, il Qatar sostiene importanti reti islamiste in tutto il mondo – tra cui i Fratelli Musulmani in Egitto, l’AKP in Turchia e Jamaat-e-Islami in Bangladesh…In Occidente, il potere del Qatar adotta più cautele e prospera incontrastato. Ad esempio, finanzia le moschee e altre istituzioni islamiche, che esprimono la loro gratitudine protestando all’esterno delle ambasciate dell’Arabia Saudita, a Londra e a Washington…Doha cerca anche di influenzare le istituzioni educative occidentali. La Qatar Foundation controllata dal regime elargisce decine di migliaia di dollari a scuole, college e ad altri istituti d’istruzione in Europa e nel Nord America. In effetti, il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane. I suoi finanziamenti sovvenzionano i costi per l’insegnamento della lingua araba e delle lezioni sulla cultura mediorientale e la loro inclinazione ideologica è talvolta sfacciatamente evidente, come nel modulo didattico delle scuole americane intitolato “Esprimi la tua fedeltà al Qatar”.
Witkoff non è il primo né l’ultimo funzionario americano che sul Medio Oriente e sulla natura del radicalismo islamico prende delle cantonate, lo hanno fatto molti altri prima di lui, e con curriculum assai più consistenti.
L’idea che la Fratellanza Musulmana fosse un interlocutore rispettabile è stata al centro della diplomazia mediorientale di Barack Obama, mentre la convinzione che ci si potesse fidare di Arafat e dell’Autorità Palestinese, ha informato trent’anni di politica americana in Medio Oriente. Questa ottica distorta è purtroppo stata fatta propria anche da una parte rilevante dell’establishment politico israeliano a cominciare con gli Accordi di Oslo del 1993. L’approccio transazionale che è il fulcro ideologico dell’Amministrazione Trump, e di cui Witkoff è una emanazione, contro il radicalismo islamico non ha funzionato mai.
Con Hamas non si può negoziare niente, se non una resa, come con i talebani. C’è un solo modo per risolvere il problema Hamas a Gaza ed è quello della sua sconfitta sul terreno con conseguente occupazione transitoria del territorio da parte di Israele, ma certamente non è quello che vuole il Qatar che nell’arco di quasi vent’anni ha fornito alla formazione jihadista miliardi di dollari, di cui una parte cospicua è servita per la costruzione di un reticolo lungo 800 chilometri di tunnel sotterranei.
Il Qatar, che ne dicano Witkoff, suo diretto beneficiario e Trump anche esso elogiativo dell’emiro Al Tahani, definito “uomo di pace”, quando, nel settembre del 2024, andò a trovarlo in Florida, è un attore infido e subdolo che sul palcoscenico interpreta vari ruoli, tra cui “alleato” degli Stati Uniti e sostenitore del jihad.
La guerra non ancora vinta da Israele, e di cui Hamas è un tassello, è una guerra contro il jihad. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo a Witkoff.
(L'informale, 22 marzo 2025)
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Desideriamo ardentemente il ritorno del Signore?
di David R. Reagan
Molti insegnanti biblici pensano che una delle prime preghiere della chiesa sia stata «Maranata!» (1 Corinzi 16:22). La parola è un'espressione in aramaico che significa: «Vieni Signore!» Questa preghiera esprime ciò che viene ribadito in numerosi altri passi biblici, ossia che la chiesa del primo secolo desiderava profondamente che il Signore Gesù ritornasse presto.
La chiesa del XXI sec. pare aver perso questa brama. Il cristiano medio di oggi non prega «Maranata!» e la maggior parte dei credenti non desidera che il Signore ritorni. Invece dello struggimento nell'attesa prevale la noia: un fenomeno molto triste, visto che la Bibbia afferma che il ritorno del Signore è la nostra «beata speranza» (Tito 2:13).
Le Scritture ci esortano ripetutamente ad aspettare il ritorno del Signore e a essere pronti. Gesù stesso disse: «I vostri fianchi siano cinti, e le vostre lampade accese» (Luca 12:35).
Esistono almeno sei motivi per cui ogni cristiano dovrebbe desiderare ardentemente che il Signore Gesù ritorni.
- Gloria del Signore Gesù. Quando Gesù Cristo ritornerà, riceverà ciò che gli spetta: onore, gloria e potere. Nella storia passata è stato umiliato, in quella futura sarà confermato e glorificato. Sarà incoronato Re dei re e Signore dei signori e governerà il mondo intero sul Monte Sion a Gerusalemme (Isaia 24:21-23).
- Sconfitta di Satana. Quando Gesù Cristo ritornerà, Satana riceverà quel che merita: sconfitta, disonore e umiliazione. Il destino di Satana è stato suggellato sulla croce, ma le sue azioni malvagie non finiranno prima che il Signore ritornerà. Allora Satana sarà schiacciato (Romani 16:20; Apocalisse 20:1-3).
- Ristoro per la terra. Quando Gesù Cristo ritornerà, il creato riceverà ciò che gli è stato promesso: restaurazione. La terra sarà rinnovata dopo essere stata scossa da terremoti e da fenomeni soprannaturali nel cielo. Il risultato sarà una terra più bella. Le forze distruttive della natura saranno vinte. I deserti fioriranno. La flora e la fauna saranno riscattate. Piante e animali velenosi non saranno più tali. Tutta la natura smetterà di combattere contro se stessa e coopererà invece in armonia per l'utile dell'umanità e per la gloria di Dio (Isaia 11:6-9; 35:1-10; 65:17-25; Atti 3:19-21; Romani 8:18-23).
- Pace per le nazioni. Quando Gesù Cristo ritornerà, le nazioni riceveranno ciò che è stato loro promesso: pace, diritto e giustizia (Isaia 9:6-7; 11:3-5; Michea 4:1-7).
- Posizione di privilegio per gli ebrei. Quando Gesù Cristo ritornerà, gli ebrei riceveranno ciò che è loro stato promesso: la redenzione e una posizione di privilegio. Verso la fine della tribolazione, un residuo degli ebrei accetterà Gesù come suo Messia. Tale residuo sarà riunito e Israele sarà stabilito come primo popolo della terra (Osea 2:14-20; Isaia 60-62; Romani 9-11).
- Benedizione per la Chiesa. Quando il Gesù Cristo ritornerà, i santi riceveranno ciò che è loro stato promesso: un corpo glorioso, una terra redenta, il dominio sui popoli e l'essere nuovamente riuniti con le persone amate che sono già andate con il Signore (Filippesi 3:20-21; Matteo 5:5; Apocalisse 2:26-27; 1 Tessalonicesi 4:14).
Queste sono sei ragioni per cui ogni cristiano dovrebbe provare un forte desiderio del ritorno del Signore. Invece nella realtà prevale l'indifferenza. Perché?
A mio parere, le cause della diffusa indifferenza nei confronti del ritorno del Signore fra i cristiani sono quattro:
- mancanza di fede,
- ignoranza,
- paura,
- carnalità.
Molti credenti professanti non credono che il Signore Gesù ritornerà. La maggior parte di loro ha un approccio liberale alla Bibbia e interpreta il significato del ritorno in modo figurato e spirituale, come chi dà un'interpretazione puramente rappresentativa alla nascita di Gesù da una vergine e ai suoi miracoli.
Tuttavia, la maggior parte dei cristiani probabilmente è solo ignorante per quanto riguarda gli avvenimenti che accompagnano il ritorno del Signore. Di conseguenza non può nutrire alcun entusiasmo per cose che conosce appena. Per trent'anni io stesso facevo parte di questo gruppo di cristiani. Nonostante frequentassi regolarmente le riunioni della mia assemblea, non ero informato perché la mia comunità trascurava l'insegnamento e la predicazione della parola profetica. Alcuni cristiani hanno paura del ritorno del Signore Gesù e cercano di rimuovere il pensiero che lui possa tornare dal cielo da un momento all'altro. Temono che possa ritornare in uno dei loro momenti «brutti» o quando un «peccato ignoto» pesa sulla loro coscienza. Queste persone sono prigioniere della convinzione che le buone opere conferiscano un qualche diritto o merito davanti a Dio. Non capiscono che sono salvate per grazia e che non c'è «più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» (Romani 8:1).
Ci sono inoltre numerosi cristiani carnali che non nutrono alcun entusiasmo per il ritorno del Signore perché amano il mondo. Con un piede sono nella chiesa e con l'altro nel mondo. Desiderano che il Signore ritorni ma, se possibile, non prima che abbiano compiuto gli
ottant'anni e gustato tutto ciò che il mondo ha da offrire. In altre parole: desiderano che lui ritorni ma non vogliono che scombussoli la loro esistenza. Il messaggio del prossimo ritorno di Gesù Cristo è una spada a due tagli. Essa riguarda tanto i credenti quanto gli increduli. Per chi non crede, il messaggio consiste in: «Sfuggite l'ira futura (cfr. Matteo 3:7) e correte fra le braccia tese di Gesù (Matteo 11:28-30)!» Il messaggio per i credenti è: «Smettete di fare soltanto finta di essere una chiesa e prendete sul serio la dedizione a Cristo vivendo una vita santificata (1 Pietro 1:13-16)!»
Permettetemi la domanda:
Continuate a essere indifferenti? Se sì, perché? Se non dipende dalla paura o dall'ignoranza, dipende allora dalla mancanza di fede o dalla carnalità?
Vi invito a esporre i vostri cuori alla luce dei riflettori dello Spirito Santo per scoprire la ragione di qualsiasi indifferenza che possiate nutrire nei confronti dell'imminente ritorno del Signore.
Se ciò che vi frena nei confronti della profezia biblica è la mancanza di fede, mi appello a voi perché accettiate la validità di tutta la Parola di Dio per fede, e non solo la verità dell'evangelo (2 Timoteo 3:16-17). Riflettete sul fatto che, se mettete in dubbio una parte della Parola di Dio, ne mettete in discussione la validità nel suo complesso. Non sta a noi scegliere ciò che vogliamo credere della Parola di Dio e cosa preferiamo rifiutare. Siamo chiamati ad accettare per fede ogni sua affermazione (Romani 1:17).
Se il vostro problema è la carnalità, perché siete scesi a compromessi con il mondo, allora vi invito a impegnarvi a vivere una vita santa, permettendo al Signore Gesù di regnare su ogni aspetto della vostra esistenza (Romani 13:12-14). Fate un inventario della vostra vita e chiedetevi: Il Signore Gesù è il Signore dei film che guardo? È il Signore del mio televisore? Come stanno le cose
riguardo alla musica che ascolto e a ciò che leggo? È il Signore del mio lavoro? Del mio matrimonio? Del mio tempo libero? Di qualsiasi aspetto della mia vita? Mi viene in mente un'altra preoccupazione che può sorgere riguardo al ritorno del Signore Gesù e che potrebbe provocare un atteggiamento indifferente o esitante da parte vostra. Forse vi dite: «Vorrei che il Signore venga, ma vorrei che prima alcuni membri della mia famiglia e alcuni amici affidino la loro vita al Signore Gesù.»
Se questa è la vostra preoccupazione, non avete motivo di rimproverarvi perché si tratta di un atteggiamento spiritualmente corretto. È giusto preoccuparsi del destino eterno dei nostri familiari e amici. Considerate però che il Signore ritornerà esattamente al momento giusto; affidate quindi a lui la vostra preoccupazione per gli amici e i familiari e lasciate che se ne occupi lui. Egli desidera che il vostro cuore sia colmo di un desiderio incondizionato del suo imminente ritorno (2 Timoteo 4:7-8).
Ho esposto solo alcuni motivi per cui ogni cristiano dovrebbe nutrire un profondo desiderio del prossimo ritorno del Signore Gesù, ma vorrei aggiungere anche alcuni miei motivi personali. Desidero che Gesù ritorni perché
vorrei stare con lui,
vorrei gioire della presenza del suo amore e della sua santità,
vorrei vedere la gloria di Dio faccia a faccia,
vorrei baciare le mani forate e dire:
«Grazie
che sei morto per me,
che mi hai perdonato,
che mi hai trasformato,
che mi hai guidato,
che mi hai consolato,
che non mi hai mai abbandonato,
che hai dato un senso e uno scopo alla mia vita.»
Inoltre vorrei cantare con i santi e le miriadi celesti: «Degno è l'Agnello.» - Maranata!
(Chiamata di Mezzanotte, sett/ott 2021)
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Il capo dell'IDF: la guerra contro Hamas include anche Giudea e Samaria
Il ministro del governo afferma che le operazioni militari devono essere accompagnate da un'espansione degli “insediamenti” che porti alla sovranità sul cuore biblico.
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Carri armati israeliani durante un'operazione militare nella città di Jenin, nella Samaria settentrionale, 19 febbraio 2025
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L'attenzione rimane concentrata su Gaza, soprattutto sulla scena internazionale, ma Hamas deve essere sconfitto anche nel cuore biblico della Giudea e della Samaria, ha sottolineato il nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF, generale Eyal Zamir.
A Gaza abbiamo lanciato un'operazione sorprendente e potente, con la restituzione di tutti gli ostaggi come priorità assoluta, per la quale siamo impegnati in ogni azione”, ha detto Zamir durante una valutazione della sicurezza nella cosiddetta ‘Cisgiordania’.
“Quando parliamo di sconfiggere Hamas, significa sconfiggere Hamas ovunque, anche qui in Giudea e Samaria. Continuiamo le operazioni antiterrorismo in corso insieme a una difesa solida”, ha aggiunto.
Le forze israeliane hanno operato in silenzio (almeno per quanto riguarda la copertura mediatica internazionale) in Giudea e soprattutto in Samaria dallo scoppio della guerra il 7 ottobre 2023, concentrandosi sulla roccaforte del terrorismo di Jenin, nel nord della Samaria.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu questa settimana ha visitato le unità della Polizia di frontiera sotto copertura che svolgono molte delle operazioni antiterrorismo in Giudea e Samaria, descrivendo il loro lavoro come “un lavoro sacro per lo Stato di Israele”.
“Mentre stiamo conducendo un'intensa guerra contro Hamas a Gaza, siamo consapevoli della possibilità che un fronte più ampio e più intenso possa aprirsi qui in Giudea e Samaria”, ha sottolineato Netanyahu.

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Netanyahu con forze di polizia di frontiera sotto copertura in Samaria
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Secondo i dati diffusi dall'ONG “Hatzalah Judea e Samaria” (Soccorritori senza frontiere), il 17 febbraio, i terroristi palestinesi hanno attaccato gli ebrei in Giudea e Samaria almeno 6.343 volte nel 2024. Secondo il rapporto, 27 israeliani sono stati uccisi in Giudea e Samaria e oltre 300 altri sono stati feriti.
• Spinta alla sovranità
Il ministro dell'Economia e dell'Industria Nir Barkat insiste sul fatto che la soluzione a lungo termine del problema in Giudea e Samaria è che Israele ripristini la sua sovranità sull'antico cuore biblico.
“Ora è il momento della sovranità; è il momento di piantare i paletti nel terreno e sfruttare la finestra di opportunità che abbiamo ora”, ha dichiarato Barkat durante una visita alla zona industriale di Barkan, nella Samaria centrale.
Il ministro ha invitato il governo a espandere le comunità israeliane in Giudea e Samaria e a “consolidare la nostra presenza in tutte le parti della Terra d'Israele”.
“Più agiamo e applichiamo la sovranità nelle aree di Giudea e Samaria, più determiniamo il futuro dello Stato di Israele per generazioni”, ha aggiunto Barkat, membro del partito Likud al governo.
Il capo del Consiglio regionale della Samaria, Yossi Dagan, ha ringraziato Barkat e ha detto: “La vittoria è la terra, la vittoria è assicurare la nostra presa qui in Samaria, la vittoria è la sovranità - e la sovranità è la vittoria”.
Il leader della Samaria ha anche invitato il governo di Gerusalemme a “non perdere l'opportunità storica di applicare la sovranità nella regione”.
All'inizio del mese, Dagan ha visitato Washington e ha consegnato a Paula White, consigliere senior della Fede, una mezuzah da appendere alla Casa Bianca - un atto che molti hanno visto come un'enfatizzazione della posizione positiva dell'amministrazione Trump sulla sovranità ebraica in Giudea e Samaria.
A febbraio è stato chiesto al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump se fosse favorevole all'annessione ufficiale della Giudea e della Samaria. In quell'occasione ha risposto che la questione era ancora in fase di discussione e ha suggerito che Israele aveva esposto bene le sue ragioni.
Nello stesso periodo, il presidente della Knesset Amir Ohana (Likud) ha fatto una dichiarazione simile, sottolineando che il pieno controllo israeliano su Giudea e Samaria è l'unico modo per raggiungere una vera pace:
“Queste parti bibliche e originali della nostra terra, che raccontano la storia del nostro popolo nella Bibbia, sono destinate a noi, al popolo di Israele. Devono essere nel territorio dello Stato di Israele, sotto la proprietà israeliana, sotto la piena sovranità israeliana. Oggi questo è più chiaro che mai”.
I sondaggi mostrano costantemente che la maggioranza degli israeliani sostiene la sovranità israeliana in Giudea e Samaria e rifiuta i piani per la creazione di uno Stato arabo palestinese indipendente.
(Israel Heute, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Trump vuole instaurare un «clima di fiducia» con l’Iran
Trump è un uomo di pace, per questo ha dato ulteriori due mesi agli Ayatollah, tante volte non avessero abbastanza tempo per sistemare le cose.
L’inviato di Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, ha dichiarato che il Presidente degli Stati Uniti sta cercando di evitare un conflitto armato con l’Iran costruendo un rapporto di fiducia con Teheran.
In un’intervista con il conduttore di news online Tucker Carlson pubblicata su X, Witkoff afferma che la recente lettera di Trump alla Repubblica islamica non era intesa come una minaccia.
Witkoff, difendendo l’approccio di Trump, dice a Carlson che Trump ha il sopravvento militare e sarebbe più naturale per gli iraniani spingere per una soluzione diplomatica.
“Invece è lui a farlo”, dice a proposito della lettera.
“Diceva grossomodo: ‘Sono un presidente di pace. Questo è ciò che voglio. Non c’è motivo di agire militarmente. Dovremmo parlare”, dice Witkoff.
“Dovremmo creare un programma di verifica in modo che nessuno si preoccupi di armare il vostro materiale nucleare… perché l’alternativa non è molto buona”.
Witkoff afferma che le discussioni degli Stati Uniti con l’Iran continuano attraverso “canali secondari, attraverso più Paesi e più canali”.
Trump, afferma, è “aperto all’opportunità di ripulire tutto con l’Iran, in modo che torni al mondo e sia di nuovo una grande nazione… Vuole costruire la fiducia con loro”.
(Rights Reporter, 22 marzo 2025)
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“Il 7 ottobre ha definitivamente seppellito l'illusione di una soluzione a due Stati”
Il dottor Ido Netanyahu (fratello del Primo Ministro) espone la sua visione del futuro di Israele e critica aspramente il sistema giudiziario.
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Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro
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“La giornata del 7 ottobre ha cambiato la nostra percezione e quella del mondo intero”. Con queste parole il dottor Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro israeliano, ha aperto il suo discorso al forum culturale “Shabatarbout” di Beer Sheva questo sabato. In un discorso dalle forti sfumature politiche, il medico di formazione ha analizzato la situazione in Israele e le lezioni da trarre dall'attacco terroristico che ha scosso il Paese.
“La stragrande maggioranza degli israeliani si è scrollata di dosso l'illusione che due Stati per due popoli possano portare la pace”, ha detto a un pubblico attento. “Solo una minoranza ne parla ancora. La gente ha finalmente capito cosa vogliono davvero i nostri nemici: la nostra distruzione, la nostra eliminazione”. Il fratello del capo del governo non ha nascosto la sua incomprensione per quella che considera una presa di coscienza tardiva: “Non so perché questa realtà non fosse evidente durante l'Intifada, dopo gli accordi di Oslo o dopo il disimpegno da Gaza. Oggi i nostri avversari dicono apertamente che Israele non ha diritto di esistere, il loro vero volto è finalmente svelato”. In questo contesto, Ido Netanyahu è stato categorico sulla necessità di mantenere il controllo israeliano: “Non dobbiamo rinunciare alla nostra presa minima tra il mare e il Giordano, compreso il controllo militare su Gaza finché vi risiede una popolazione ostile”.
• Un'indagine sistemica piuttosto che personale
Passando alla delicata questione di una commissione d'inchiesta sugli eventi del 7 ottobre, Netanyahu ha sostenuto la necessità di un approccio incentrato sulle disfunzioni istituzionali piuttosto che sulle responsabilità individuali. “Dobbiamo indagare, naturalmente, ma questa indagine non deve essere personale, nemmeno contro il Capo di Stato Maggiore”, ha sottolineato. L'obiettivo deve essere quello di evitare che simili disastri si ripetano, non di puntare il dito contro le colpe”. Per il fratello del Primo Ministro, la colpa principale risiede in un “malinteso generale” che prevaleva prima dell'attacco. “Dobbiamo trasformare i nostri sistemi in modo che funzionino correttamente, in modo che non ci sia un'unica concezione dominante. Potrebbe essere necessario rafforzare la cooperazione tra lo Shin Bet e l'esercito, che era chiaramente insufficiente”.
• Lo “Stato profondo” di Israele sotto tiro
Ido Netanyahu ha attaccato frontalmente quello che percepisce come uno “Stato profondo” che opera all'interno delle istituzioni israeliane. “Lo Stato profondo è questa burocrazia che ha accumulato troppo potere e non obbedisce più ai rappresentanti eletti dal popolo”, ha denunciato. “Questi funzionari pubblici pensano di sapere meglio di chiunque altro, perché si considerano più intelligenti e più istruiti dei cittadini comuni”. La sua critica più aspra è stata rivolta alla magistratura: “La Corte Suprema e la Procura lavorano fianco a fianco. Si considerano i saggi, i buoni, quelli che devono impedire a questi 'barbari' di governare il Paese. È una concezione elitaria direttamente collegata alla visione di [ex presidente della Corte Suprema] Aharon Barak di una 'democrazia sostanziale' in cui sono gli 'illuminati' a governare”.
• Posizioni forti su questioni di attualità
Sulla questione del recente licenziamento del capo dello Shin Bet, Netanyahu ha difeso fermamente la decisione del governo: “È diritto e persino dovere del governo decidere chi dirige gli organi di sicurezza dello Stato”. Ha inoltre criticato i ricorsi presentati alla Corte Suprema contro la decisione, affermando che avrebbero dovuto essere “respinti ad ogni livello”. Nonostante le attuali tensioni sociali e politiche in Israele, Ido Netanyahu si è detto fiducioso che il Paese non scenderà in una guerra civile, “perché la maggioranza del popolo non appoggia un simile scenario”. Queste dichiarazioni del fratello del Primo Ministro arrivano in un momento critico in cui la società israeliana è profondamente divisa, tra coloro che sostengono la politica del governo e coloro che manifestano regolarmente contro alcune decisioni, in particolare la riforma giudiziaria e il recente licenziamento del capo dello Shin Bet. Alla domanda del conduttore sui suoi legami con il fratello Primo Ministro, Ido Netanyahu ha risposto semplicemente che stava esprimendo le sue opinioni personali, frutto delle sue riflessioni di cittadino israeliano, senza pretendere di parlare a nome del governo.
(i24, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’ostaggio all’Onu
di Giulio Meotti
ROMA -“Mi chiamo Eli Sharabi. Ho 53 anni. Sono tornato dall’inferno. Sono tornato per raccontare la mia storia”.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu non l’aveva mai sentito un discorso simile. Lo ha pronunciato uno degli ostaggi israeliani liberati il mese scorso dalla prigionia da Gaza, sfinito, si reggeva appena in piedi, senza più la moglie e le figlie, uccise da Hamas.
“Il 7 ottobre il mio paradiso si è trasformato in inferno. Per 491 giorni, sono stato tenuto sotto terra nei tunnel del terrore di Hamas, incatenato, affamato, picchiato e umiliato. Sono sopravvissuto con avanzi di cibo, senza cure mediche e senza pietà”.
Quando è stato rilasciato, Eli pesava 44 chili. Ne aveva persi 30, la metà del suo peso corporeo.
“Ho sognato di rivedere la mia famiglia e solo quando sono tornato a casa, ho scoperto la verità”, ha detto Sharabi al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La moglie e le figlie massacrate dai terroristi di Hamas. Il corpo di suo fratello Yossi, assassinato durante la prigionia, è ancora in ostaggio.
“Mentre mi trascinavano fuori, ho gridato alle mie figlie: ‘Tornerò’. Ma quella è stata l’ultima volta che le ho viste. Ho visto più di cento terroristi filmarsi mentre festeggiavano, ridevano, facevano festa nei nostri giardini mentre massacravano i miei amici e vicini”.
Quando è arrivato a Gaza, una folla di civili ha cercato di linciarlo.
“Mi hanno tirato fuori dall’auto, ma i terroristi mi hanno portato via di corsa in una moschea. Ero il loro trofeo”.
Per i primi 52 giorni, Eli è stato tenuto in un appartamento. Era legato con delle corde.
“Le mie braccia e le mie gambe erano legate così strettamente che le corde mi laceravano la carne. Non mi hanno dato quasi niente da mangiare, niente acqua e non riuscivo a dormire. Il dolore era insopportabile”.
Poi Hamas lo ha portato in un tunnel. A cinquanta metri sotto terra. Le catene non gliele hanno mai tolte.
“Quelle catene mi hanno lacerato fino al giorno in cui sono stato rilasciato. Ogni passo che facevo non era più lungo di dieci centimetri. Ogni passeggiata verso il bagno richiedeva un’eternità. Non riesco nemmeno a descrivere l’agonia. Era un inferno”.
Gli davano da mangiare un pezzo di pita al giorno. La fame consumava tutto.
“Mi picchiavano. Mi rompevano le costole. Non me ne importava. Volevo solo un pezzo di pane. Non c’era mai abbastanza cibo. A volte, se imploravamo abbastanza, ottenevamo qualcosa in più. Dovevamo scegliere: un pezzo di pita in più o una tazza di tè. A volte ci lanciavano datteri secchi, e sembrava il regalo più bello del mondo. Dovevamo implorare cibo, implorare di andare in bagno”.
L’implorazione era la sua esistenza. Un giorno Eli si è tagliato con un rasoio per fargli credere che era ferito.
“Sono crollato mentre andavo in bagno così avrebbero pensato che ero troppo debole e li avrebbero incoraggiati a darci altro cibo. Ha funzionato. Ci hanno dato altro cibo. Siamo sopravvissuti grazie a quelle piccole vittorie”.
Ha fatto solo un bagno al mese, con mezzo secchio di acqua. Un giorno, un terrorista ha sfogato la sua rabbia su Eli. Gli ha rotto le costole.
“Non sono riuscito a respirare correttamente per un mese”.
L’8 febbraio Eli è stato rilasciato. Pesava 44 chili.
“Meno del peso corporeo della mia figlia più piccola, Yahel. Ero un guscio di me stesso. Lo sono ancora”.
Una rappresentante della Croce Rossa gli ha detto: “Ora sei al sicuro”.
“Dov’era stata la Croce Rossa negli ultimi 491 giorni?”, ha detto ancora Eli all’Onu.
“Dov’erano le Nazioni Unite?”
A redigere rapporti in cui Sharabi è ritratto come il colpevole del proprio rapimento e dell’uccisione dei suoi famigliari, ecco dov’era.
Il Foglio, 22 marzo 2025)
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Il pogrom è tuttora in corso d'opera. Esseri umani sono rinchiusi, incatenati, seviziati, torturati e tenuti sul mercato come merce di scambio a condizioni vantaggiose per i torturatori. Il mondo lo sa, ed è indignato non per quello che fanno i torturatori, ma per come reagisce Israele. M.C.
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Il governo vota all’unanimità per porre fine al mandato del capo dello Shin Bet Ronen Bar
di Luca Spizzichino
Il governo israeliano ha votato all’unanimità per porre fine al mandato di Ronen Bar come capo dello Shin Bet, secondo quanto annunciato dall’Ufficio del Primo Ministro nelle prime ore di venerdì mattina. Bar lascerà l’incarico il 10 aprile o quando verrà nominato un nuovo capo dello Shin Bet, a seconda di quale evento si verificherà per primo.
La decisione di licenziarlo è stata avanzata dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che domenica sera aveva annunciato la sua intenzione di proporre la rimozione del capo dello Shin Bet con 18 mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Netanyahu ha motivato la sua decisione affermando di aver perso fiducia in Bar dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Secondo il Primo Ministro, Bar sarebbe stato “troppo morbido” e “non la persona giusta per riabilitare l’organizzazione”. Ha inoltre sostenuto che la sua rimozione dalla squadra negoziale abbia ridotto significativamente le fughe di informazioni e migliorato le trattative per il rilascio degli ostaggi.
Tuttavia, Bar ha replicato con una lettera inviata ai ministri del governo, in cui ha criticato le accuse mosse contro di lui definendole “pretestuose e basate su motivazioni estranee alla sicurezza nazionale”. Ha anche affermato che la decisione del governo rischia di indebolire il paese “sia internamente che nei confronti dei suoi nemici”.
Alla riunione di governo ha partecipato anche il Procuratore Generale Gali Baharav-Miara, mentre Bar non era presente. Nel frattempo, centinaia di israeliani si sono radunati fuori dall’ufficio del Primo Ministro a Gerusalemme per protestare contro la decisione dell’esecutivo di destituire il capo dello Shin Bet.
(Shalom, 21 marzo 2025)
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Quanto è indipendente Israele?
Quanto è indipendente il sistema politico e militare dalle potenze straniere?
di Aviel Schneider
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Il nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, Eyal Zamir, all'inizio di marzo al Muro del Pianto di Gerusalemme
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GERUSALEMME - Israele può davvero decidere tutto da solo? Probabilmente no. Da tempo nel Paese si discute se la leadership dell'esercito, in particolare dello Stato Maggiore, sia caratterizzata da un'ideologia di sinistra e se i suoi concetti strategici nel Paese siano irrealistici. Queste critiche provengono principalmente dai circoli conservatori nazionali, che accusano i vertici militari israeliani di non intraprendere azioni sufficientemente decisive contro i nemici di Israele e di essere troppo attenti alla politica. Anche il governo israeliano guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu è accusato di essere controllato dall'estero. Lui e la sua coalizione religiosa di destra si trovano sempre più spesso di fronte all'accusa che la politica bellica di Israele sia determinata da Washington.
I critici sostengono che molti ufficiali e generali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno una visione del mondo piuttosto liberale o di sinistra. In particolare, si sottolinea che gli ufficiali spesso entrano in politica dopo la carriera militare e si posizionano a sinistra, come Benny Gantz, Ehud Barak o Moshe Yaalon. Di conseguenza, Israele mostra un'eccessiva indulgenza nei confronti dei suoi nemici, è l'accusa.
• La politica militare di Israele
Non sono solo i politici di destra, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ad accusare da anni i generali. L'intero panel del canale televisivo conservatore 14 è dello stesso parere. Essi sostengono che la tolleranza porta a una politica militare cauta, spesso contenuta, che indebolisce la deterrenza di Israele.
Israele non è un esercito aggressivo e questo è di per sé un punto debole in Medio Oriente. L'esercito israeliano è semplicemente troppo misericordioso per gli standard arabi e non si possono vincere le guerre con un colpo di mano in una regione islamica. Basti pensare alle azioni di Israele nell'attuale guerra a Gaza. L'opinione maggioritaria nel Paese è che dovrebbe tagliare le forniture di elettricità e acqua ai suoi nemici a Gaza e sospendere tutte le consegne di aiuti umanitari finché gli ostaggi israeliani sono tenuti nei tunnel del terrore.
Voci conservatrici, tra cui politici e commentatori, accusano i militari di aggrapparsi a concetti falliti come la strategia della concessione in cambio della pace. Le critiche sono state particolarmente forti dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 e la falsa convinzione che le concessioni territoriali potessero portare sicurezza. Dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, ci sono state accuse massicce contro i militari per aver valutato male la minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza.
• L’influenza di Washington
Un'accusa frequente è che Washington influenzi indirettamente la leadership militare di Israele. Si sostiene che gli Stati Uniti esercitino pressioni per moderare le azioni di Israele nei conflitti. Alcuni critici ritengono addirittura che i generali di alto rango vengano promossi per il loro allineamento con gli interessi americani.
La controargomentazione è che i processi decisionali militari sono spesso complessi e le strategie si basano su analisi di sicurezza piuttosto che sulla semplice ideologia politica. L'esercito israeliano agisce spesso con la mano pesante quando è necessario, il che non si concilia con una posizione di sinistra. Le buone relazioni con gli Stati Uniti sono fondamentali, poiché la dipendenza militare ed economica dagli USA rende inevitabile il coordinamento con Washington. Questa discussione rimane parte integrante della politica israeliana ed è stata sottolineata più volte, soprattutto dopo il 7 ottobre.
L'accusa dei politici di destra, che accusano i vertici dell'esercito di essere l'America a determinare la strategia e i generali di Israele, vale quindi anche per il governo. Da quando Donald Trump è tornato presidente degli Stati Uniti, in Israele si sono moltiplicate le critiche al fatto che Benjamin Netanyahu sia sottoposto a pressioni da parte di Washington, questa volta da parte di un'amministrazione repubblicana. Netanyahu si è spesso scontrato in passato con i rappresentanti delle amministrazioni democratiche statunitensi, come Barack Obama o Joe Biden, ma ora si sta piegando ai desideri di Trump per quanto riguarda l'accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco con Hamas, si dice.
I critici sostengono che Netanyahu abbia ammorbidito la sua dura posizione su un possibile accordo con Hamas perché Trump glielo chiede. Trump potrebbe essere interessato a garantire che il conflitto in Medio Oriente non si inasprisca ulteriormente, dal momento che ha annunciato di essere venuto per portare la pace, sia nel conflitto tra Russia e Ucraina che in Israele. Gli Stati Uniti sono coinvolti nei negoziati per il rilascio degli ostaggi israeliani e si ipotizza che l'amministrazione Trump stia usando pressioni o incentivi per convincere Israele a scendere a compromessi.
Si dice che Trump abbia esortato Netanyahu a limitare le operazioni militari nella Striscia di Gaza o ad accettare un cessate il fuoco temporaneo. Il motivo potrebbe essere che Trump non vuole mettere Israele in una situazione di guerra regionale di massa con l'Iran e gli altri suoi scagnozzi, che sarebbe problematica anche per gli Stati Uniti.
• Non abbastanza coerente
Le critiche del campo della destra rimproverano quindi a Netanyahu di non aver agito con sufficiente coerenza contro Hamas e di essersi lasciato guidare dagli americani. Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da un lato, vuole presentarsi come un leader forte che non si lascia imporre nulla dagli Stati Uniti. Dall'altro lato, Israele dipende dagli Stati Uniti dal punto di vista economico, diplomatico e militare. Alcune voci conservatrici - cioè della sua base elettorale - lo accusano di essersi subordinato a Trump, mentre i critici di sinistra e centristi dicono che sta giocando sul tempo e che sfrutterebbe ogni opportunità per rimanere al potere. Netanyahu ha sottolineato pubblicamente che Israele prende le proprie decisioni, ma gli addetti ai lavori vedono Washington giocare un ruolo importante nei negoziati.
Netanyahu è noto per la sua resilienza di fronte alle pressioni degli Stati Uniti. In passato, ha sfidato Obama e Biden sulla politica iraniana e sulla costruzione degli insediamenti. Ma Trump è di un altro livello. Non vuole mettersi contro di lui perché Trump e Netanyahu hanno tradizionalmente mantenuto stretti rapporti. Come controargomento, è più probabile che i due abbiano interessi simili su molti punti piuttosto che Trump stia “dando istruzioni a Netanyahu”.
Le accuse a Netanyahu di essere “dettato” da Trump provengono principalmente dagli integralisti di destra che non vogliono un compromesso con Hamas, oltre che dai critici di sinistra che vedono Netanyahu come tatticamente opportunista - ancora una volta, gli stessi ministri sopra citati e il canale televisivo 14. Sebbene sia ovvio che gli Stati Uniti stiano giocando un ruolo importante nel cessate il fuoco e nella questione degli ostaggi, rimane il dubbio se Netanyahu stia davvero agendo direttamente su istruzioni di Trump - o se semplicemente ritenga politicamente prudente lavorare con l'amministrazione Trump.
La politica fa parte della vita, allora come oggi. Ma la Bibbia sottolinea ripetutamente che Israele deve dipendere dal suo Dio prima che le potenze straniere possano interferire con la vita in Israele.
(Israel Heute, 21 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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È tempo di invadere Gaza e concludere con Hamas
di Giovanni Giacalone
Il 29 gennaio 2024 scrissi un breve articolo per il Washington Outsider intitolato “Limitazioni di tempo, negoziati e cessate il fuoco non vanno d’accordo con l’obiettivo di sradicare Hamas”, in cui criticavo la pressione esercitata dall’ex amministrazione statunitense su Israele per porre fine frettolosamente alla guerra a Gaza e negoziare con Hamas. Tra le altre cose, scrivevo che era assurdo anche solo pensare che sarebbe stato possibile sradicare 17 anni di governo di Hamas in un paio di mesi; che non si trattava solo di una guerra tra Hamas e Israele, ma di un conflitto regionale più ampio che coinvolgeva l’Iran e i suoi altri delegati, gli Houthi e Hezbollah.
Per quanto riguarda i negoziati sugli ostaggi, scrivevo che era altresì impossibile sradicare Hamas e allo stesso tempo cercare di concludere un accordo con essa, poiché, in quanto organizzazione terroristica e genocida, non è affidabile. Ma, cosa più importante, chiarivo che gli ostaggi sono l’unica assicurazione che possiede Hamas contro il suo sradicamento da Gaza. È quindi da ingenui credere che tutti gli ostaggi saranno rilasciati.
Siamo nel marzo 2025 e Hamas è ancora a Gaza, così come vi si trovano 59 ostaggi (24 indicati come ancora vivi e il resto presumibilmente morto, secondo le ultime informazioni). Hamas non ha rispettato l’accordo, rifiutandosi di liberare altri ostaggi e incolpando Israele, come sempre.
Lo ripeto ancora una volta, Hamas non libererà tutti gli ostaggi. Non c’è assolutamente alcun interesse da parte del gruppo terroristico a farlo. I leader di Hamas punteranno a trascinare il processo di rilascio per mesi, forse anni e, nel frattempo, Hamas chiederà garanzie sulla sua permanenza e sul suo ruolo politico a Gaza, mentre si riorganizza e si riarma.
Inoltre, l’intero meccanismo di rilascio di alcuni ostaggi al momento non avvantaggia nessuno, tranne Hamas (e chiunque altro desideri mantenere la situazione attuale). Gli ostaggi rimasti ancora vivi non sopravviveranno a lungo nei campi di concentramento sotterranei di Hamas. Inoltre, è ingiusto che alcuni vengano rilasciati e altri no. Meritano tutti di essere liberati immediatamente.
Il meccanismo del “pochi per volta” non fa che prolungare la problematica questione israeliana interna relativa alle manifestazioni a favore di un “accordo” che implicherebbe la resa a Hamas e al terrorismo transnazionale. Naturalmente, le famiglie degli ostaggi desiderano credere che accettare le richieste di Hamas sarebbe la soluzione, e ciò è comprensibile data la situazione drammatica in cui si trovano. Tuttavia, non viviamo nel Paese delle Meraviglie di Alice e la realtà spesso differisce da ciò che desideriamo.
Hamas deve essere sottoposta a una pressione tale da non avere altra scelta che quella di rilasciare gli ostaggi. Anche il Qatar, in quanto sostenitore di lunga data di Hamas, nonostante il suo presunto ruolo di “mediatore”, dovrebbe essere sottoposto a pressioni, e gli Stati Uniti hanno tutti gli strumenti per poterlo fare.
Come ho scritto più volte, stringere accordi con i terroristi è sbagliato, non solo sotto un profilo etico, ma anche pratico.
- I negoziati e gli accordi incoraggiano i terroristi a ripetere le atrocità già commesse, perché sanno che alla fine del gioco le loro richieste saranno soddisfatte. Negoziare con i terroristi significa mettere a rischio la vita di più cittadini, perché diventeranno bersagli di più azioni terroristiche, dentro e fuori i confini. (Hamas ha riconfermato che perpetrerà altri attacchi, e lo farà, forse attraverso le mani di coloro che vengono rilasciati da Israele. Inoltre, è emerso di recente che Hamas stava pianificando un nuovo attacco in stile 7 ottobre da Gaza). Non dimentichiamo inoltre che l’eccidio del 7 ottobre è stato il risultato di precedenti negoziati.
- I negoziati forniscono legittimità politica all’organizzazione terroristica, elevandola a interlocutore legittimo, quando invece andrebbe emarginata e sottoposta a forti pressioni con tutti i mezzi a disposizione.
- I negoziati e i possibili accordi permettono ai terroristi di potenziare la loro propaganda, presentando i risultati ottenuti come una “grande vittoria della resistenza”. È esattamente ciò che è accaduto durante la liberazione degli ostaggi, con Hamas che ha allestito un palcoscenico per dimostrare di essere ancora al potere, mentre umiliava gli ostaggi liberati.
- I terroristi e i loro sostenitori tendono a chiedere che il livello del conflitto venga innalzato quando sono in preda all’esaltazione. Ciò è chiaro e ovvio, perché quando i terroristi percepiscono la negoziazione come una “vittoria della resistenza” o una “resa del nemico”, mirano a persistere nella lotta con maggiore intensità.
L’unico modo per sradicare Hamas da Gaza è invadere la Striscia, occuparla militarmente e soffocare l’organizzazione terroristica fino alla sua resa completa. Il nemico deve essere accerchiato e totalmente isolato per evitare la possibilità di rifornirsi di armi, carburante e qualsiasi altro bene. Tutti i suoi leader devono essere braccati, ovunque si nascondano.
Questo è ciò che la coalizione guidata dagli USA ha fatto a Mosul contro l’ISIS; questo è ciò che l’esercito russo ha fatto in Cecenia durante la seconda guerra cecena. I ceceni hanno utilizzato tunnel e nascondigli sotterranei per evitare le truppe russe, ma questo espediente non li ha aiutati nel medio-lungo termine. Sarebbe stato ipotizzabile che gli USA o la Russia avrebbero concesso “aiuti umanitari” e carburante al loro nemico nel corso dell’assedio?
È arrivato il momento di entrare in azione e completare il lavoro. Contrariamente a quanto alcuni leader europei e arabi vorrebbero credere, l’unico ostacolo alla pace è Hamas, non l’attività militare israeliana, e il conflitto non può finire finché l’organizzazione terroristica non sarà stata sradicata.
(L'informale, 21 marzo 2025 - trad. Niram Ferretti)
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Israele è all’ottavo posto nella classifica dei Paesi più felici al mondo
di Jacqueline Sermoneta

Sebbene stia vivendo uno dei periodi più difficili della sua storia, Israele resta nella top ten dei Paesi più felici al mondo. Lo Stato ebraico si posiziona all’ottavo posto, secondo la classifica del World Happiness Report 2025, la pubblicazione annuale delle Nazioni Unite. Il rapporto valuta, attraverso un sondaggio di auto-valutazione, il benessere globale della vita da parte dei cittadini e si basa su fattori quali reddito, supporto sociale, livello di istruzione, salute pubblica, livello di corruzione, libertà di stampa e fiducia nelle istituzioni.
Israele, nonostante sia sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, continua a eccellere nella qualità delle relazioni sociali, anche se si rileva una minore aspettativa di vita e un calo della fiducia nelle istituzioni governative.
Le nazioni nordiche dominano la classifica. La Finlandia è al primo posto per l’ottavo anno consecutivo, seguita da Danimarca e Islanda, poi da Svezia e Paesi Bassi per chiudere la top five. Costa Rica e Norvegia precedono Israele che è seguito da Lussemburgo e Messico. L’Australia si è classificata all’11esimo posto, mentre gli Stati Uniti, mai stati così infelici, scendono al 24esimo, posizione attribuita soprattutto alla solitudine e ai problemi economici che hanno i giovani americani.
Israele detiene il primo posto fra i Paesi più felici in Medio Oriente. Il Libano è quasi in fondo alla classifica con il 145esimo posto, lo Yemen è al 140 e l’Iran al 99. L’Afghanistan è ancora una volta all’ultimo posto (il 147), preceduto da Sierra Leone, Libano, Malawi e Zimbabwe. L’Italia è salita di una posizione rispetto all’anno precedente, collocandosi al 40esimo posto.
Il World Happiness Report è realizzato grazie alla partnership tra la multinazionale di statistica Gallup, il Centro di Ricerca Wellbeing di Oxford, il Network delle Soluzioni per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
(Shalom, 21 marzo 2025)
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Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)
Esodo 35:1-38:20, 38:21-40:38
- Le due parashot Va-jakel (convocò l'assemblea) e Pecudè (inventario del Santuario) che chiudono il libro dell'Esodo, sono consacrate alla realizzazione del Tabernacolo. Dopo aver dato il programma per la sua costruzione nelle parashot di Terumà e Tezavè, la Torah ritorna sui dettagli per completarne l'opera. Bisogna notare che tra queste parashot si inserisce la parashà di Ki-Tissà con l'episodio del vitello d'oro. Per riparare questo peccato di idolatria, secondo Rashì, D-o ordina a Moshè di continuare la costruzione del Santuario e di osservare il giorno del sabato. "Per sei giorni lavorerai, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo, sabato consacrato al Signore" (Es. 35.2).
Quale è il legame tra il Tabernacolo e il sabato? Il primo è la santificazione dello spazio mentre il secondo è la santificazione del tempo. Le due dimensioni della Creazione a cui si aggiunge quella dell'Essere, che tramite la sua opera, malgrado la sua caduta per il peccato, può continuare nella realizzazione del processo di Redenzione mediante l'osservanza del sabato. Rabbi Eliezer sostiene che per merito dello shabat ogni peccatore viene salvato dal gheinnom (inferno). Il Bet Halevì sostiene che il ricordo e l'osservanza del sabato permettono la teshuvà (pentimento) e il perdono. Il tempo sacro del sabato deve essere usato dall'uomo per conoscere l'amore di D-o verso le sue creature come scritto: "Signore misericordioso, tardivo nella collera, pieno di bontà e di verità" (Es. 34.6).
Da questa ottica la costruzione del Santuario può essere considerata come la costruzione della casa "nuziale" dove i novelli sposi sono uniti con amore e fedeltà. Ma dopo il peccato di idolatria, la sposa adultera è terrorizzata dal pensiero che lo sposo possa abbandonarla, cosa questa che non accade. Lo sposo le offre la possibilità di riparare con il dono del sabato che più di ogni altro giorno, esprime il perdono Divino.
La costruzione del Tabernacolo
"Tutti gli uomini saggi di cuore tra di voi, verranno e faranno quello che il Signore ha ordinato" (Es. 35.10). L'espressione "saggi di cuore" è ripetuta per ben quattro volte nella nostra parashà. Quale è il significato di questa ripetizione? L'opinione comune è che la saggezza risieda nella mente dell'uomo e non sia legata al suo cuore che invece ne determina il suo comportamento. Difatti un uomo può essere un grande saggio, ma nella realtà si comporta senza etica. La Torah con questo vuole insegnarci che colui che costruisce la Casa di D-o deve essere un uomo saggio di cuore nel senso che non vi sia contrasto tra la sua saggezza e il suo comportamento.
Le offerte
"I principi delle tribù recano pietre d'onice e pietre da incastonare per il dorsale e il pettorale del gran Sacerdote" (Es. 35.27). Un commento alla Torah (il kelì yacar) fa notare che la parola "principi" è scritta senza la lettera Yod ed interpreta questa omissione come una punizione per costoro. Difatti i principi delle tribù dicono: "Aspettiamo che il popolo abbia finito di offrire e poi quello che manca verrà offerto da noi". Questo atteggiamento di orgoglio nell'ostentare la propria ricchezza, è stato punito dal Signore, togliendo il suo Nome (lettera Yod) dal contesto.
Con le ultime parashot sulla costruzione del Tabernacolo si chiude il libro dell'Esodo. A questo punto un ebreo, osservante della Torah, deve domandarsi: "Cosa vengono ad insegnarci e in come possono cambiare la nostra vita?" In Pecudè è scritto: "Questi sono gli inventari del Tabernacolo, il Tabernacolo della testimonianza" (Es. 38.21). Perché la parola Tabernacolo è ripetuta due volte? La Torah, spiegano i nostri Saggi, fa allusione ai due Santuari che in Gerusalemme verranno distrutti. Questa profezia sembra contraddire i fondamenti della morale sulla libertà dell'uomo nelle sue scelte. In realtà gli avvenimenti previsti nella Storia dalla profezia, sono inevitabili, ma saranno gli uomini a determinarne i processi con le loro azioni.
Il libro dell'Esodo, per terminare, è il libro della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto e si chiude con la parashà di Pecudè. La storia del popolo ebraico, fatta di ombre e di luce, ha inizio per raggiungere la sua meta finale (Redenzione) con la costruzione del terzo Tempio in Gerusalemme, che sarà una "Casa di preghiera per tutti i popoli della terra" (Isaia 56.7). F.C.
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- Riprendiamo il commento da dove siamo rimasti la volta scorsa.
La terribile crisi del Sinai
Con il suo intervento Mosè è riuscito a far recedere Dio dal suo proposito di sterminare il popolo. Ma la questione resta ancora tutta aperta. Adesso Mosè ha capito la gravità di quanto è accaduto, che non è una semplice disubbidienza, ma la rottura di un patto solennemente concluso poco prima. Al popolo dice: "... ora salirò all'Eterno; forse potrò fare espiazione (cafar, כפר) per il vostro peccato" (Es. 32:30, Nuova Diodati). Molte traduzioni usano qui il verbo "perdonare", ma espiare non è la stessa cosa di perdonare, quindi è meglio tradurre alla lettera.
E' importante il termine "forse", da cui si capisce che in questo momento è ancora tutto in gioco. Mosè adesso deve intraprendere un difficile tentativo di riconciliazione con Dio. Secondo alcune traduzioni, Mosè dice al Signore: "... nondimeno, perdona ora il loro peccato" (Es. 32:32), ma anche questo non è esatto. Mosè non chiede in modo diretto di perdonare, ma presenta al Signore due "se": "SE tu perdoni (lett. sopporti) il loro peccato... (sottinteso: bene), SE NO, cancellami dal tuo libro" . La cosa insomma è messa in forma di aut aut. Il Signore naturalmente lo capisce, ma non si sottopone al dilemma. La sua risposta comunque è enigmatica, aperta a molte interpretazioni. Non cancella Mosè dal libro della vita, perché non è lui che ha peccato, ma quanto al popolo si riserva di decidere quando sarà il momento di punirlo per il suo peccato. In che modo? Non è detto, ma certamente non si può pensare che sia lo sterminio dei tremila idolatri gozzovigliatori avvenuto poco prima: quello è soltanto un segno dell'ira di Dio che incombe su tutto il popolo.
"Andate pure, ma io non vengo"
Nel drammatico confronto fra Dio e Mosè che ha come posta in gioco il destino di Israele, Mosè adesso assume decisamente la parte del popolo. Parte pericolosa, perché un errore nella scelta delle parole potrebbe renderlo complice del popolo, e quindi partecipe della relativa condanna.
Il Signore potrebbe aver detto a Mosè qualcosa del genere: "Tu mi hai ricordato che ho promesso ad Abramo di dare alla sua progenie un paese; va bene, allora va', prendi il popolo che hai tratto dal paese d'Egitto e conducilo nel paese che ho promesso di dargli. Non ti preoccupare, manderò davanti a te un angelo come guida e sconfiggerò i nemici che ti verranno contro, ma io non salirò in mezzo a te". E dicendo "te", il Signore identifica Mosè con il popolo.
Il resto delle parole potrebbe essere immaginato così: "Quindi puoi anche risparmiarti la fatica di costruire il tabernacolo, che doveva servire a far sì che Io potessi abitare in mezzo a te, perché tanto non ci verrò". Dio dunque non cancella il popolo, come Mosè gli aveva chiesto, ma cancella tutto quello che aveva detto a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti. Tabula rasa. Si riparte da zero.
Mosè riferisce queste parole al popolo e intorno a lui si spande il terrore. L'Eterno però non si commuove, anzi insiste, e incarica Mosè di dire ancora una volta al popolo che è di collo duro, e che devono essere contenti se Lui non va' con loro, perché se lo facesse, dovrebbe distruggerli.
Ma allora, adesso, che succederà? E' certamente il pensiero del popolo. Il Signore risponde con una frase sibillina: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:59). Parole certamente non rassicuranti.
La situazione è tesissima, drammatica, col rischio di finire in tragedia. Mosè però non molla. Non vuole lasciare così le cose. Vuole tentare il tutto per tutto; vuole verificare, come si direbbe oggi, se esiste ancora "uno spazio per il dialogo". Allora, visto che il Signore non vuole avvicinarsi al popolo e non vuole che il popolo si avvicini a Lui, di sua propria iniziativa monta una tenda fuori dell'accampamento e la chiama "Tenda d'incontro". Incontro tra Dio e Mosè, naturalmente, perché in questo momento il popolo è completamente tagliato fuori. Il Signore accetta il dialogo, e in quella tenda s'intrattiene con Mosè parlando con lui "faccia a faccia", come si fa tra uomini. Il popolo osserva in silenzio, timoroso. A distanza segue le severe istruzioni ricevute: alzarsi in piedi quando vedono Mosè andare verso il luogo d'incontro, seguirlo con lo sguardo e non avvicinarsi mai alla tenda. Non è riportato quello che i due si sono detti in quella tenda, ma tutti capiscono che è dall'esito di quei colloqui che dipende la salvezza del popolo.
I secondi quaranta giorni e quaranta notti
Sappiamo dal resoconto del Deuteronomio che Mosè passò altri quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai, a digiuno, a parlare animatamente col Signore. E' in questo tempo che probabilmente si svolse il colloquio riportato sinteticamente in Esodo 33:12-16. E' un colloquio d'importanza eccezionale: si può dire che proprio qui avviene la svolta decisiva che determinerà il futuro d'Israele.
All'inizio della vicenda storica d'Israele, quando il popolo si trovava ancora sotto il giogo del Faraone, si vede Dio che chiama Mosè dal roveto ardente e fa pressioni su di lui affinché accetti di tornare in Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù e portarglielo al Sinai, dove stringerà con lui un patto di unione. Adesso invece è Mosè che fa pressioni su Dio, cercando argomenti per convincerlo a non staccarsi da quel popolo che ora si trova davanti a Lui.
Lincipit del suo discorso è straordinario. "Vedi, - inizia Mosè con il tono affettuoso di chi vuole portare qualcuno, con grande pazienza, a rendersi conto di quello che in fondo già conosce - tu mi dici: Fa' salire questo popolo". Magistralmente Mosè conduce l'attenzione del Signore non sul popolo, non su se stesso, non su qualche principio di morale universale, ma su quello che Dio stesso ha detto. Questo è di importanza fondamentale nel rapporto dell'uomo con il Dio vivente e vero; con gli idoli invece è tutto un altro discorso. Quando Dio aveva manifestato la volontà distruggere Israele, Mosè gli aveva ricordato quello che aveva detto ad Abramo; adesso, quando Dio minaccia di non voler salire in mezzo al popolo, Mosè gli ricorda quello che ha detto a lui.
In tutto il suo argomentare le parole chiave sono due: "conoscere" (yada, ידע) e "grazia" (khen, חן), che in soli cinque versetti compaiono entrambe quattro volte. Fino a questo momento, il Signore, come diremmo noi oggi, "non aveva ancora scoperto le sue carte". Con l'ermetica frase: "Conosco io quello che ti farò", si era riservato di procedere a modo suo su tutta la faccenda. Lobiettivo di Mosè adesso è di arrivare a conoscere quello che Dio vorrà, e naturalmente di indirizzarlo verso quello che desidera. Cerchiamo allora di immaginare quello che Mosè può aver detto a Dio.
"Tu dici che mi conosci per nome, ma non mi fai conoscere chi verrà con me". La domanda inespressa è: verrai o non verrai? Poi aggiunge: "Tu dici che mi conosci per nome e che ho trovato grazia agli occhi tuoi, ma come farò io a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi se tu non mi fai conoscere le tue intenzioni". E aggiunge: "E considera che questa nazione è popolo tuo".
Dio gli risponde come se pensasse che Mosè sia preoccupato del suo destino personale e gli dice di stare tranquillo: "La mia presenza (lett. faccia) verrà, e io ti darò riposo". La frase non è chiara: Mosè può pensare che Dio voglia rassicurarlo personalmente, senza sbilanciarsi su quello che farà del popolo. Allora si fa ardito e lo mette un'altra volta davanti a una specie di aut aut, in cui accosta sempre "io" e "il tuo popolo":
"Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo fatto distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).
Un segno di pace
Il Signore acconsente alla richiesta fattagli, con una motivazione che è sempre e soltanto legata alla persona di Mosè: "... perché tu hai trovato grazia agli occhi miei e ti conosco per nome" (Es. 33:17).
A questo punto Mosè diventa ancora più ardito e chiede a Dio di dargli un segno di pace, qualcosa che lo possa rassicurare, che gli dia la certezza che tutto è tornato come prima: gli chiede di farsi vedere nella sua gloria, come era accaduto quando si trovavano gioiosamente insieme con i settanta anziani sul monte Sinai, dopo la firma del patto. Lo chiede umilmente, con timore. Nel testo infatti compare linteriezione na (נא) che alcune traduzioni tralasciano, altre rendono con un ti prego, altre ancora con un antiquato ma più espressivo Deh! Una traduzione efficace potrebbe essere: Su, fammi vedere la tua gloria! che Mosè pronuncia in tono di supplica, perché questa volta teme di non poter essere esaudito. Ed è così. Il Signore risponde che nella stessa forma di prima non è possibile: adesso, dopo quello che è accaduto, neppure Mosè può vedere la faccia di Dio e vivere: la morte è entrata nella storia del popolo. E tuttavia, per dare un segnale che Dio stesso si incaricherà di risolvere il problema di vita o di morte presente nel popolo, acconsente a farsi vedere da dietro.
Questo però non avverrà subito: prima Dio dovrà dare a Mosè nuove istruzioni.
Le nuove tavole
Dio ordina a Mosè di tagliare due tavole di pietra, come quelle di prima, e di portargliele sul monte il giorno dopo, di buon mattino, assolutamente solo (Es. 34:1-4). Su queste tavole Dio scriverà le stesse dieci parole che aveva scritto nelle prime, ma è chiaro che la situazione ora è diversa. Adesso c'è la mano dell'uomo. Questo è qualcosa di meno, rispetto alla volontà originaria di Dio espressa nelle prime tavole, ma è qualcosa di più, rispetto al peccato del popolo, il quale, se non fosse stato per l'opera mediatrice di quell'uomo che ha tagliato le tavole, sarebbe scomparso dalla faccia della terra.
Dopo averle prese in mano, il Signore acconsente alla richiesta di Mosè e si fa vedere da dietro nella sua gloria (Es. 34:5-9). Quello che Mosè sente sono parole di misericordia, benignità, fedeltà di Dio, ma anche di peccato, iniquità, trasgressioni del popolo. E minacce e punizioni. Non è lo stesso linguaggio del primo patto.
Subito dopo Mosè s'inchina a terra, adora e chiede a Dio tre cose: 1) "Venga il Signore in mezzo a noi; 2) "Perdona la nostra iniquità e il nostro peccato"; 3) "Prendici come tua eredità" (Es. 34:8-9).
Possiamo ritenere che il Signore abbia esaudito tutte queste richieste, ma il compimento di questi esaudimenti avverrà lungo un decorso storico secolare. Si discute sui tempi e sui modi in cui questi esaudimenti sono avvenuti o devono ancora avvenire, ma in ogni caso continua ad essere presente nei secoli il segno indiscutibile di un fatto che Mosè è riuscito ad ottenere da Dio: il popolo d'Israele vive.
Un altro patto
"L'Eterno rispose: 'Ecco, io faccio un patto: farò dinanzi a tutto il tuo popolo meraviglie..." (Es. 34:10). Prima di questo versetto, alcune Bibbie scrivono come soprattitolo: "Il patto rinnovato (o confermato)". Questo secondo patto però non è un rinnovo o una conferma del primo, così come il patto con Noè non è un rinnovo o una conferma del patto con Adamo. Questo secondo patto, come il patto con Noè, è conseguenza della rottura di un patto precedente. In entrambi i casi si può parlare di un patto di conservazione dell'esistente in vista di una redenzione futura. In questo "esistente" ci sono segni visibili del peccato avvenuto, ma solo per allusioni e accenni si possono intravedere segni della futura redenzione.
Se si fosse trattato di un rinnovo, non ci sarebbe stato bisogno di riscriverlo; invece, dopo aver ripetuto in forma diversa solo alcune disposizioni del precedente patto, Dio dice a Mosè: "Scrivi queste parole, perché sul fondamento di queste parole, io ho contratto alleanza con te e con Israele" (Es. 34:27). Il popolo qui non parla, a lui non si chiede di prendere impegni, a lui non si chiede neppure di formulare una chiara richiesta di perdono; qui è solo Dio che parla, in risposta alla preghiera di Mosè, sentendosi impegnato soltanto dalla Sua sovrana volontà. Resta dunque valido quello che Dio aveva annunciato al popolo subito dopo la sua rovinosa caduta: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:5). Anche il popolo lo conoscerà, ma solo dopo che Dio avrà fatto tutto quello che aveva deciso di fare.
La storia continua
Dopo la mediazione di Mosè, il rapporto tra Dio e il popolo si ristabilisce, ma il passato non si cancella e non smette di pesare sulle sorti di Israele. Il tabernacolo sarà ricostruito e Dio verrà ad abitarci, ma sarà un'abitazione sempre pericolante, sempre a rischio di crollare da un momento all'altro, come poi è accaduto. La violazione di quel patto di sangue che richiedeva la morte del trasgressore ha fatto gravare sul popolo un debito di sangue che il Signore non ha cancellato immediatamente, ma di cui ha rinviato il momento in cui potrà essere estinto. Questo momento arriverà alla venuta del Messia. Anzi, è già arrivato. M.C.
(Notizie su Israele, 23 marzo 2017)
“Ho molta paura per il mio Paese”
di
Alisa Ashkenasi
Alisa Ashkenasi, fotografa che scrive su Israel Heute |
Un'ombra pesante grava sul nostro amato Paese.Il governo sta agendo in vari modi - alcuni direbbero illegali - per garantire la propria sopravvivenza. Le famiglie degli ostaggi, i caduti e il popolo nel suo complesso chiedono una commissione d'inchiesta governativa. Una commissione che indaghi su tutto ciò che è accaduto in quel giorno maledetto, il 7 ottobre 2023, e prima. Ma il governo e il suo presidente la respingono con varie scuse. Tutti i responsabili dei servizi militari e di intelligence si sono già assunti la responsabilità e hanno annunciato che lasceranno i loro incarichi non appena i combattimenti saranno terminati. Ma questo non è sufficiente per il governo, e così vengono sacrificati uno ad uno. Il primo ad essere licenziato è stato il Ministro della Difesa dello Stato di Israele, Yoav Galant. Nel bel mezzo di una guerra!

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Israeliani protestano a Gerusalemme il 19 marzo 2025 contro la decisione di Netanyahu di licenziare il capo dello Shin Bet, Ronen Bar
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Qualche settimana fa tutti i movimenti di protesta hanno iniziato a mobilitarsi con lo slogan “Preparatevi al giorno X”. In questo giorno, volevano marciare verso Gerusalemme per manifestare. Originariamente era stato scelto il 24 marzo, ma quando il primo ministro
Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di licenziare il capo dello Shin Bet Ronen Bar e successivamente il procuratore generale
Gali Baharav-Miara, la data è stata immediatamente anticipata al 19 marzo. Di conseguenza, 100.000 cittadini si sono trovati ieri in marcia verso Gerusalemme. Tutti i movimenti di protesta e le famiglie degli ostaggi si sono uniti in un'azione comune.
I leader della protesta hanno trascorso la notte nei pressi della città, si sono alzati al mattino e hanno iniziato la marcia verso la Città Santa, accompagnati da migliaia di cittadini. Altre migliaia erano già in attesa all'ingresso della città per unirsi alla marcia verso la Knesset.
Anch’io mi sono recata direttamente al complesso della Knesset e lo spettacolo è stato travolgente. Ammetto di essermi commossa. Una delle sensazioni peggiori è quella di sentirsi soli e pensare che solo tu hai paura di ciò che sta accadendo. Folle di persone che portavano bandiere blu e bianche di Israele e degli ostaggi, arrivavano da ogni dove. Alcuni sono arrivati in treno, altri in veicoli privati o in autobus organizzati. I leader della protesta hanno pianificato di manifestare prima davanti alla Knesset e poi di marciare insieme verso Azza Street, dove si trovano sia la casa privata del Primo Ministro che la residenza ufficiale attualmente in ricostruzione, entrambe diventate simbolo del potere. Ironia della sorte, questa strada si chiama Gaza.
Nello stesso momento, la “Guardia 101” era seduta in Piazza Francia, alla fine di Azza Street. Qualche parola su questo gruppo: “Guardia 101” è stata fondata da donne appartenenti a famiglie di ostaggi che temevano per la sorte dei loro cari. È stata fondata quando gli ostaggi nella Striscia di Gaza erano ancora 101; oggi sono 59, di cui 24 ancora vivi. Continuano a partecipare anche le famiglie degli ostaggi che sono già tornati e quelle dei loro cari assassinati, come Carmel Gat, uccisa durante la prigionia. Ai partecipanti viene chiesto di venire vestiti di bianco e di sedersi in silenzio sull'asfalto. Niente discorsi, niente parole: solo silenzio condiviso.
Ieri, 19 marzo, i cittadini hanno protestato davanti alla Knesset contro la politica del governo, la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, il fatto che gli ostaggi non siano ancora stati liberati e l'imminente licenziamento di Bar e Baharav-Miara. Allo stesso tempo, donne e uomini sedevano in silenzio in bianco per strada.
Inoltre, gruppi di manifestanti sono entrati in città in auto e si sono divisi in gruppi più piccoli. A ogni gruppo è stata assegnata una destinazione diversa a Gerusalemme. Ogni colonna era composta da circa 30 veicoli che percorrevano lentamente diverse strade per rallentare il traffico. Ad alcuni incroci, i conducenti sono scesi improvvisamente, hanno chiuso le loro auto e sono scomparsi. Questo ha paralizzato il traffico in tutta la città, creando enormi ingorghi e bloccando i trasporti pubblici per diverse ore. La città era bloccata.
Come cittadina preoccupata, partecipo personalmente a tutti i raduni, le marce e le azioni per la restituzione degli ostaggi - soprattutto a Gerusalemme, occasionalmente anche a Tel Aviv. Per me è importante perché voglio essere convinta di aver fatto tutto il possibile per fare la differenza. Per me, rimanere semplicemente a casa non è un'opzione. Le madri, le sorelle, le zie e le cugine hanno bisogno di sentire che non sono sole e che ricevono un sostegno completo. Spesso mi ritrovo a piangere quando riconosco qualcuno e penso ai suoi cari, a quello che stanno passando nei tunnel. Partecipo anche alla veglia delle madri almeno una volta alla settimana. La polizia di solito accompagna queste azioni con comprensione e pazienza. È solo durante le manifestazioni del sabato che gli incontri con la polizia finiscono spesso in modo violento.
Ieri la polizia è stata a lungo tollerante, fino a quando non è arrivato un carro attrezzi per rimuovere una delle auto all'incrocio. I manifestanti hanno cercato di impedirlo, sedendosi sul carro attrezzi e bloccandolo. All'improvviso, un folto gruppo di agenti di polizia e di polizia di frontiera si è unito, gettando i manifestanti sull'asfalto in modo estremamente brutale.
L'operazione è stata tremendamente dura, una donna ha dovuto ricevere cure mediche ed essere portata in ospedale. L'ufficiale di polizia incaricato, uno dei più alti ufficiali sulla scena, non ha mostrato alcuna emozione.
Ora sono seduta a casa e sto cercando di riprendermi da queste scene terribili. Ma fuori ci sono ancora molte persone che non vogliono arrendersi. Alcuni passeranno la notte in tenda. E domani? Domani si andrà avanti..
(Israel Heute, 20 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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USA: si attiva l'unione dei cristiani sostenitori di Israele
WASHINGTON - La rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha dato slancio alle organizzazioni filo-israeliane. Già in precedenza, nel settembre 2024, diversi gruppi cristiani si erano uniti a Washington, D.C. per dare più peso al loro voto.
Secondo Luke Moon, uno dei co-fondatori della “Conferenza dei presidenti delle organizzazioni cristiane a sostegno di Israele”, era già chiaro allora che “misure concrete” sarebbero state prese solo dopo le elezioni americane. Allora “la situazione politica sarebbe stata molto più chiara”. Ora si è tenuto un incontro inaugurale a Gerusalemme.
• La “CoP”
Tra i fondatori della “Conferenza dei Presidenti” (CoP) figurano Mario Bramnick, presidente della Coalizione Latina per Israele, Tony Perkins, presidente del Consiglio per la Ricerca Familiare, l'ex membro del Congresso Michele Bachmann e Luke Moon, direttore del Progetto Philos. All'inizio di marzo 2025 si sono incontrati con i presidenti di altre organizzazioni al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme.
Bachmann ha spiegato che sostenere Israele dopo il 7 ottobre è un dovere speciale per la comunità cristiana. “Ci troviamo in un momento molto speciale, in cui ho visto più fiorire la comunità cristiana e quella ebraica che mai nella mia vita”, ha detto.
“I nemici dell'Occidente sanno come unirsi”, ha spiegato Bramnick, riferendosi alle alleanze tra la sinistra e gli islamisti negli Stati Uniti e in Europa. Per questo motivo, è un imperativo del momento che i cristiani evangelici si uniscano. ‘Crediamo che una voce comune sarà una voce forte nei confronti dell'amministrazione Trump, sia a livello legislativo che statale’.
Moon ha spiegato la sua motivazione per il progetto con i suoi sforzi dopo il massacro di Hamas: “Ho davvero desiderato spesso di non dover visitare ogni singola organizzazione che conosco e dire: ‘Affrontiamo questo insieme’.”
• Il modello ebraico
I cristiani prendono a modello un'altra “conferenza dei presidenti”, quella delle organizzazioni ebraiche. La “Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations”, guidata da William Daroff, è spesso abbreviata in “CoP”. Bramnick ha viaggiato diverse volte in Israele con il predecessore di Daroff, Malcolm Hoenlein. Dalle conversazioni è nata l'idea della “CoP” cristiana.
“La comunità ebraica rappresenta circa il 2% della popolazione americana”, spiega Bramnick. ‘La comunità cristiana rappresenta circa il 30%. Il potenziale di una tale organizzazione per sostenere con forza uno Stato di Israele sicuro e sovrano è enorme’. Il suo compagno di lotta Moon vede un altro punto a favore della coalizione cristiana rispetto a quella ebraica: “Probabilmente ci sono meno conflitti interni”, dice. Questo perché l'organizzazione ebraica ombrello unisce gruppi politicamente e ideologicamente molto eterogenei, alcuni dei quali hanno una visione critica di Israele.
• Gli obiettivi
La Conferenza cristiana dei presidenti vuole esercitare un'influenza sulla politica statunitense a livello esecutivo, legislativo e statale a favore di Israele. In questo contesto, sottolineano che l'obiettivo non è da ultimo la sovranità israeliana sulla Cisgiordania. Perché tutti gli altri approcci sono falliti. Secondo Bramnick, l'organizzazione vuole “sostenere pienamente tutte le misure” che Israele deve adottare “per bandire il terrorismo dai suoi confini”.
Inoltre, la “CoP” vuole combattere l'antisemitismo negli Stati Uniti. “Il nostro obiettivo è essere un polo opposto alla Columbia University e a tutte queste università d'élite”, dice Bachmann in riferimento alle proteste anti-israeliane che si svolgono lì. “Vogliamo lavorare con scuole e chiese laiche, ebraiche e cristiane e creare una base informativa su Israele, il popolo ebraico e il diritto alla terra”.
• Influenza sul governo Trump
I cristiani evangelici negli Stati Uniti vedono nel presidente Trump uno strumento di Dio a sostegno di Israele. “Ho letteralmente la sensazione che Dio stia dando a Israele un assegno in bianco su cui può scrivere e sognare di nuovo”, dice Bramnick. “La mano di Dio è su Israele!”
Con questo atteggiamento, i cristiani evangelici sono stati un importante blocco di elettori per “il presidente più filoisraeliano di tutti i tempi”. Questo sostegno sarà ora ricambiato dai repubblicani. La “CoP” vuole sfruttare questa finestra di opportunità per fornire a Israele tutto l'aiuto possibile.
(Israelnetz, 20 marzo 2025)
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Gerusalemme: due nuove mostre esplorano la storia, l'arte e il misticismo ebraico
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Il Bible Lands Museum di Gerusalemme
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Fin dalla sua fondazione nel 1992, il Bible Lands Museum di Gerusalemme ha esplorato la cultura dei popoli menzionati nella Bibbia, tra cui gli antichi Egizi, i Cananei, i Filistei, gli Aramei, gli Ittiti, gli Elamiti, i Fenici e i Persiani, con l'obiettivo di collocare questi popoli nel loro contesto storico.
Di recente, il museo di Givat Ram ha inaugurato due nuove mostre che uniscono storia, arte e misticismo ebraico: “Kuma”, che rende omaggio a un artista che fu anche uno dei soldati israeliani uccisi in combattimento a Gaza, e “Lettere che fluttuano nell’aria”, che esplora il profondo simbolismo dell’alfabeto ebraico nella tradizione ebraica.
Kuma presenta un rotolo illustrato lungo tre metri, creato da Eitan Rosenzweig, un soldato israeliano morto in combattimento il 22 novembre 2023 a Gaza.
Prima di essere chiamato al servizio militare, Rosenzweig studiò arte in una yeshiva. Ha creato questo rotolo durante la pandemia di COVID-19, combinando simboli, citazioni e figure della Bibbia, del Talmud e della Cabala con riferimenti alla storia ebraica e alla cultura israeliana contemporanea. L'opera è divisa in tre sezioni: la storia biblica antica, l'Olocausto e Israele moderno.
Il nome deriva dalla frase ebraica "Kuma, Mei-Afatzim Vekankantum", che si riferisce agli ingredienti utilizzati per produrre l'inchiostro nei testi sacri.
La seconda mostra, “Lettere fluttuanti nell’aria”, è stata inaugurata nel febbraio 2025 ed esplora il significato esoterico delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, considerate nella tradizione ebraica i mattoni fondamentali della creazione.
Create dagli artisti russo-israeliani Sergey Bunkov e Tenno Pent Sooster, insieme all'artista digitale Maxim Bunkov, i visitatori possono utilizzare l'app Artivive per vedere le lettere prendere vita nello spazio digitale, un'attrazione particolare per il pubblico più giovane.
(Aurora Israel, 20 marzo 2025)
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Il gioco di scacchi Israele-Siria si muove tra curdi e drusi
di Nina Prenda
Israele in Medio Oriente non ha amici. Al massimo, si può parlare di vicini di casa che non disturbano. Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti negli ultimi anni stanno sembrando tali, ovvero le élite che governano questi Paesi arabi si stanno dimostrando tali. Quanto ai popoli che vi abitano, invece, spesso l’odio contro lo Stato ebraico è diffuso e il malcontento popolare si fa sentire riguardo alla bussola della politica estera; ma poiché non è sempre il popolo a scegliere chi governa bensì la faccenda è in mano a pochi, al momento questo delicato equilibrio sembra reggere. La questione palestinese e la guerra in corso a Gaza – ripresa nella sera del 17 marzo dopo il cessate il fuoco precariamente durevole dal 19 gennaio 2025 e un integrale scambio tra ostaggi e prigionieri fallito – si è rivelata un’ottima miccia per consentire agli animi e alle voci arabe ostili ad Israele di tornare in piazza e farsi sentire, spesso animate da bambini recitanti slogan inneggianti alla morte del nemico.
In questo frammentato e intricato scenario chiamato Medio Oriente, una regione che vive d’incastri politici spesso fortuiti e molti giochi di specchi, un’area di mondo dove niente è come sembra e tutto è il suo contrario, si colloca la Siria di Abu Muhammad al-Jolani. Il Paese esce da un momento estremamente delicato per la sua storia: dopo quasi tre decenni, il dittatore Bashar Al-Assad è caduto al grido di vendetta di Hay’at Tahrir al-Sham (in arabo: Organizzazione della Liberazione del Levante dove per “Levante”, per il momento, si intende l’attuale Stato della Siria). HTS è una formazione armata islamica siriana di orientamento salafita, derivante da una costola di Al-Qaeda insieme alla quale sono confluiti altri gruppi islamici, attiva e coinvolta nella guerra civile siriana, al cui capo c’è Abu Muhammad al-Jolani.
Il cartello islamico è così animato e mai sopito che, dal 2 dicembre 2024, ha iniziato la sua scalata al potere dell’intero Paese marciando verso Aleppo, Hama, Homs, fino alla conquista della capitale Damasco, facendo cadere Bashar al-Assad l’8 dicembre 2024. Al-Jolani è riuscito a far capitolare l’intero Stato – fino a quel momento nelle mani di Assad solo nella forma, giacché importanti erano e rimangono le sacche dell’opposizione – e a conquistare il potere. HTS non si era ufficialmente presentato al mondo come un nuovo ISIS bensì puntava a proporsi come una nuova organizzazione politica inclusiva e perfino rispettosa delle minoranze. Ma appena due mesi dopo la nomina a Presidente di Al-Jolani (che da leader ha cambiato nome e ora si fa chiamare Ahmed Al-Sharaa) gli scontri all’interno della Siria tra il nuovo governo e le minoranze sono ferocissimi. Tra gli alawiti e i curdi si contano già migliaia di morti.
• La Siria di Al-Jolani su Israele
Il giorno dopo la presa di Damasco, il 9 dicembre 2024, la CNN riferiva che Al Jolani aveva voluto rassicurare Stati Uniti e Israele che “la nuova Siria comprende i loro interessi”. L’emittente televisiva sottolineava come, negli anni, Al-Jolani avesse avuto molto tempo a disposizione per affinare la propria strategia comunicativa: per il suo primo discorso a Damasco non a caso ha scelto la Grande moschea degli Omayyadi (non uno studio televisivo né il palazzo presidenziale da cui era fuggito l’oramai ex presidente siriano Assad).
Il 17 dicembre 2024, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Times, Abu Mohammad Al-Jolani sottolineava che la Siria “non verrà utilizzata” come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro Stato, tornando a chiedere la fine agli attacchi aerei israeliani sul territorio siriano. “La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane – diceva Al Jolani – e quella giustificazione è venuta meno”.Tutt’oggi continuano gli scontri tra jihadisti sciiti di Hezbollah in Libano e jihadisti sunniti di HTS in Siria.
• Israele, curdi e drusi
La “politica periferica dello Stato ebraico”, ovvero la posizione in politica estera di Israele nella regione che si basa sul guardare oltre il cerchio dei vicini ostili per cercare amici, vede nei drusi e nei curdi alcune risposte. Secondo il Times Of Israel il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar presenta una visione di alleanze con le comunità curde e druse in Medio Oriente, dicendo che le minoranze della regione dovranno stare insieme, nella cerimonia del passaggio di consegne con il ministro uscente Israel Katz. “Il popolo curdo è una grande nazione, una delle grandi nazioni senza indipendenza politica – ha detto Sa’ar. – Sono i nostri alleati naturali”. Chiamando i curdi “vittime dell’oppressione iraniana e turca”, Sa’ar dice che Israele “deve raggiungere e rafforzare i nostri legami con loro”. La regione autonoma del Kurdistan in Iraq è strategicamente situata lungo i confini dell’Iran e della Turchia, il che la rende un potenziale alleato strategicamente potente per Israele.
Per quanto concerne i drusi, la situazione è complessa e coinvolge lo Stato ebraico da vicino poiché questo gruppo etnico-religioso che deriva dall’Islam sciita, abita soprattutto le Alture del Golan (è diffuso tra Israele, Siria, Giordania e Libano). In Israele, i drusi sono circa 150mila e godono della cittadinanza israeliana a pieno titolo, partecipano alla società e, contrariamente alla maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria, servendo nell’esercito (Tzahal, IDF) con un forte senso di lealtà verso lo Stato ebraico. È bene sottolineare però che proprio nel Golan, molti drusi non hanno accettato la cittadinanza israeliana e si identificano ancora come siriani. La loro identità è un mix unico formato da una forte appartenenza alla regione araba. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha recentemente ordinato la consegna di pacchi alimentari contenenti aiuti umanitari per assistere i drusi in Siria. In un’operazione condotta nelle scorse settimane, sono stati consegnati 10mila pacchi di aiuti umanitari ai drusi siriani nelle zone di combattimento. L’operazione è stata condotta in coordinamento e cooperazione con il capo della comunità drusa, lo sceicco Tarif, e in collaborazione con il Consiglio religioso druso, l’esercito israeliano e altri elementi della zona.
I rapporti tra Israele e Siria sono una partita a scacchi che si gioca su più livelli. La tolleranza che prova la nuova Siria può essere definita settaria. Il rapporto che lega il Paese ad Israele, altrettanto. E molto dipenderà dalla leadership al comando dello Stato ebraico e dal rapporto con le minoranze contese che legano i due Stati.
(Bet Magazine Mosaico, 20 marzo 2025)
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Hamas aveva pianificato una nuova invasione di Israele

Il Ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato che Hamas si sta “preparando costantemente” per una nuova invasione di Israele.
Secondo un rapporto di Channel 12 News, Hamas sta radunando le forze e preparando piani per un'invasione di terra delle comunità israeliane durante il cessate il fuoco.
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha recentemente tenuto una riunione d'emergenza per discutere le indicazioni secondo cui Hamas starebbe pianificando un altro attacco in stile 7 ottobre, che vedrebbe i terroristi infiltrarsi in Israele.
Il rapporto non dettaglia l'intelligence ottenuta da Israele, ma sottolinea che le osservazioni sono abbastanza significative da causare preoccupazione tra i servizi di sicurezza.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato a un gruppo di residenti delle comunità vicine a Gaza che Hamas si sta “ costantemente preparando” a compiere un'invasione.
Katz ha sottolineato che l'esercito israeliano “ deve colpirli e finire il lavoro completamente in attacco e in difesa” per prevenire un'altra incursione.
Secondo fonti arabe, Hamas ha passato gli ultimi due mesi a riorganizzarsi, in particolare estendendo la sua rete di tunnel, reclutando nuovi agenti per sostituire i terroristi uccisi e consolidando i suoi depositi di armi.
Secondo le stime di Channel 12, Hamas dispone di circa 25.000 uomini armati con un certo livello di addestramento.
L'esercito israeliano ha anche registrato un aumento dei tentativi di attacco alle sue truppe a Gaza da parte di membri di Hamas, suggerendo che potrebbero prepararsi per un altro attacco in stile 7 ottobre.
In una dichiarazione rilasciata martedì, Hamas ha negato di pianificare un attacco contro il sud di Israele e di prendere sempre più di mira i soldati dell'IDF a Gaza.
Le “ affermazioni di Israele secondo cui la resistenza si sarebbe preparata ad attaccare le sue truppe sono pretesti infondati e falsi per giustificare il ritorno alla guerra e l'escalation della sua sanguinosa aggressione”, ha dichiarato Hamas.
“Quando Hamas offre un solo soldato, Edan Alexander, in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni, è chiaro che ha un ottimo senso di stabilità e che Israele non lo sta minacciando", ha dichiarato a Channel 12 il dottor Harel Horev, ricercatore dell'Università di Tel Aviv.
“Dobbiamo rompere e minare questa situazione, anche se vogliamo un accordo sugli ostaggi”, ha aggiunto.
(World Israel News, 19 marzo 2025)
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Gal Gadot è la prima attrice israeliana a ricevere una stella sulla Walk of Fame
di Michelle Zarfati
Da Rosh Ha’ayin alla Walk of Fame di Hollywood: Gal Gadot ha consolidato il suo posto nella storia come prima attrice israeliana a ricevere una stella sull’iconica Walk of Fame. “Per me è surreale e mi sento la donna più fortunata del mondo in questo momento”, ha detto Gadot durante la cerimonia, avvenuta ieri. “Sono solo una ragazza di una piccola città israeliana non avrei mai potuto immaginare un momento del genere”.
Combattendo contro l’emozione del momento, Gadot ha riflettuto sul significato di questo traguardo: “Per me, vale più di qualsiasi altro premio perché possiamo condividerlo con il mondo. La stella mi ricorderà che con duro lavoro, passione e un po’ di fede, tutto è possibile. Non ho raggiunto questo momento da sola, ho così tante persone incredibili da ringraziare, che mi hanno sollevato lungo il cammino. Gadot si è poi rivolta al co-protagonista di Fast & Furious, Vin Diesel, e lo ha ringraziato. “Vin, mi hai accolta con amore nella famiglia di Fast & Furious – ha detto – È stato il mio primo film e la tua fiducia mi ha cambiato completamente la vita. Grazie mille per quello che hai fatto per me, grazie saremo per sempre una famiglia”.
Durante la cerimonia l’attrice si è anche presa un momento per ringraziare i suoi fan, suo marito Jaron, la sua famiglia e le sue figlie, inclusa la più grande, Alma, che ha festeggiato il suo compleanno proprio quel giorno. “Vi amo tutti, siete nel mio cuore”, ha aggiunto in ebraico. Alla cerimonia hanno partecipato membri del team di produzione del prossimo film di Gadot, Snow White, tra cui il regista Marc Webb. Tuttavia, la protagonista Rachel Zegler non era tra i presenti. Tra gli ospiti anche l’attrice israeliana Shira Haas e la regista di Wonder Woman Patty Jenkins.
Diesel ha aperto l’evento, ricordando il momento in cui ha capito che l’attrice sarebbe stata perfetta per il ruolo di Gisele nella saga di successo. “Ho guardato Gal e ho capito: era quella giusta”, ha detto Diesel. “È volata subito a Los Angeles e il resto è storia”. Mentre si svolgeva la cerimonia a Hollywood, nelle vicinanze si è svolta una piccola protesta pro-palestinese, che ha attirato solo una manciata di dimostranti.
(Shalom, 19 marzo 2025)
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Antisemitismo – La Conferenza a Gerusalemme tra rinunce e conferme
Una nuova defezione si è aggiunta alla lista di ospiti che non parteciperanno alla Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo a Gerusalemme, promossa dal ministero israeliano della Diaspora. Dopo il rabbino capo di Gran Bretagna, Ephraim Mirvis, il presidente dello European Jewish Congress, Ariel Muzicant, anche il direttore dell’americana Anti-Defamation League (Adl), Jonathan Greenblatt, ha annunciato che non ci sarà al forum organizzato per il 26 e 27 marzo.
La decisione di Greenblatt arriva come forma di protesta per la partecipazione di esponenti dell’estrema destra europea. Un portavoce dell’Adl ha spiegato: «Alla luce di alcuni dei partecipanti recentemente annunciati alla conferenza del governo israeliano sull’antisemitismo, Greenblatt ha deciso di non partecipare più all’evento». Una scelta per sottolineare l’imbarazzo, condiviso da diversi leader ebraici internazionali, per l’apertura della Conferenza a partiti populisti e nazionalisti europei, alcuni dei quali in passato hanno espresso posizioni controverse sull’antisemitismo e la Shoah.
Muzicant, presidente dell’European Jewish Congress, è stato tra i più critici dell’iniziativa del governo israeliano. Anche Jonathan Arfi, presidente del Crif (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France), ha espresso la sua preoccupazione. «C’è chi immagina che in questo modo si possa alleggerire l’isolamento politico e diplomatico di Israele. Ma in pratica il risultato sarà l’opposto: si intensificherà la demonizzazione di Israele e degli ebrei nel mondo, senza contare che questa scelta è in totale contraddizione con la politica delle organizzazioni ebraiche nei confronti dei partiti populisti europei».
La lista degli ospiti contestati include Jordan Bardella, presidente di Rassemblement National (RN), distaccatosi dalle posizioni di Jean-Marie Le Pen, il politico francese negazionista e antisemita che fondò il Front National, poi trasformatosi in RN, partito più votato in Francia alle ultime elezioni; Marion Maréchal, eurodeputata francese del partito di estrema destra Identity–Liberties e nipote di Le Pen; Hermann Tertsch, eurodeputato spagnolo del partito nazionalista Vox; Charlie Weimers, del partito svedese di estrema destra Democratici Svedesi, parte della coalizione al governo a Stoccolma, e Kinga Gál, del partito ungherese Fidesz, del premier Viktor Orbán.
Per Natan Sharansky, ex dissidente sovietico e statista israeliano, le critiche sono comprensibili, ma è necessario andare oltre. «È importante per la lotta contro l’antisemitismo includere tutti gli schieramenti politici, da sinistra a destra. Coloro che continuano a sostenere posizioni antisemite ovviamente non hanno posto nelle conferenze contro l’antisemitismo. Tuttavia, chi afferma di aver cambiato idea nei confronti degli ebrei merita di essere ascoltato», ha spiegato Sharansky, tra i relatori della Conferenza a Gerusalemme. La due giorni prevede interventi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, del presidente israeliano Isaac Herzog, del ministro Chikli e del presidente argentino Javier Milei.
(moked, 19 marzo 2025)
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La guerra d’Israele
Parla Mordechai Kedar: “Hamas vuole tenersi per sempre alcuni ostaggi ed è pronta a sacrificare tutta Gaza per la sua guerra”. La realtà di Gaza è nel ricatto del gruppo terroristico che, vistosi con le spalle al muro, si comporta esattamente come la Germania nazista: sacrifica tutto quello che ha piuttosto che dichiarare la sconfitta. Israele, per vincere, deve fare una sola cosa: obbligarli alla resa totale.
di Giulio Meotti
ROMA - Nella prima ondata di attacchi dall’inizio del cessate il fuoco il 19 gennaio, martedì mattina Israele ha iniziato a condurre una serie di raid aerei su vasta scala a Gaza contro comandanti di Hamas e alti dirigenti politici del movimento islamico. Ucciso il capo del comitato amministrativo di Gaza, Issam al Da’alis, e altri leader del movimento islamista, così come il portavoce del Jihad islamico, Abu Hamza. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha detto: “Nelle ultime due settimane e mezza, abbiamo raggiunto un punto morto: senza nostri attacchi né ritorno degli ostaggi, e questa è una cosa che Israele non può accettare. Il ritorno ai combattimenti è una continuazione del nostro impegno per raggiungere gli obiettivi della guerra”.
Hamas ha preso tempo dal primo marzo, quando è terminata la prima fase della tregua, continuando a riarmarsi senza restituire un solo ostaggio, né in vita né deceduto (su 59 ostaggi rimasti a Gaza, si ritiene che 22 siano ancora vivi). Hamas si è rifiutata di rilasciare altri ostaggi il primo marzo, l’8 marzo e di nuovo il 15 (a oggi avrebbe dovuto rilasciarne nove). Nel frattempo, Hamas ha rifiutato le proposte dell’inviato statunitense Steve Witkoff, accettate invece da Israele. L’Hostages and Missing Families Forum accusa il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”. “La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”. Molti kibbutz al confine con Gaza sono di nuovo in corso di evacuazione preventiva.
Gli attacchi aerei sono progettati non solo per spingere Hamas a cedere gli ostaggi, ma anche per degradare le sue capacità militari, dopo che è uscita la stima dell’intelligence secondo cui il gruppo terroristico è tornato a una forza di 25 mila uomini e il Jihad islamico a cinquemila. Elementi noti alle Forze di Difesa israeliane. Ma finché c’era la speranza di arrivare a un accordo sugli ostaggi, Israele si era astenuto da attacchi. Ora la situazione è cambiata. E al governo torna la destra di Itamar Ben-Gvir, che aveva posto come condizione la ripresa della guerra.
Hamas ha riferito di quattrocento morti nei raid, sebbene non c’è modo di verificare i numeri o di distinguere tra terroristi e civili dall’inizio della guerra. L’attacco è stato coordinato con gli Stati Uniti e sincronizzato con gli attacchi aerei americani contro gli houthi dello Yemen. “Siamo tornati a combattere a Gaza alla luce del rifiuto di Hamas di rilasciare i rapiti e delle minacce a soldati e comunità israeliane”, ha detto il ministro della Difesa Israel Katz. “La decisione di attaccare è un accordo tra l’Amministrazione Trump e il governo di Benjamin Netanyahu per sbarazzarsi dei tentacoli della piovra iraniana”, dice al Foglio Mordechai Kedar, accademico, tra i massimi esperti di geopolitica mediorientale e a lungo nelle Forze armate (è ancora colonnello della Riserva). “Gli americani attaccano in Yemen e Israele a Gaza”.
Secondo Kedar, “quando l’Iran sarà privato dei suoi proxies, come in Iraq, Siria e Libano, sarà più facile piegarlo anche nelle sue ambizioni nucleari. Il messaggio da Gaza è rivolto all’Iran: questo accadrà a voi se non vi arrenderete. Israele capisce che Hamas vuole solo prendere tempo per riprendersi dal 7 ottobre e farlo di nuovo. Israele sa che Hamas non può rimanere al potere”. Cosa succederà ora dipende da Hamas: “Se rilascia gli ostaggi, la guerra si ferma di nuovo. Ma non consentiremo a Hamas, che è come al Qaida e Isis, di vivere accanto a noi. Fanno parte della stessa guerra jihadista. Usano la popolazione per proteggere se stessi e non hanno alcuna cura del loro popolo. Tutti quelli di Gaza possono essere uccisi nella guerra a Israele. In occidente non capite che dall’inizio della guerra, Hamas non ha mai dato una lista degli ostaggi, chi è vivo e chi no. Tutti i numeri che girano sono israeliani. La ragione è che Hamas vuole tenere alcuni ostaggi con sé per sempre, in modo che la guerra non riprenderà mai. Si prendono un vantaggio sulla psicologia israeliana, che conoscono molto bene. Lo slogan ‘rilasciate tutti gli ostaggi’ è senza significato. Nessuno qui sa chi sono, se sono vivi o morti”. In occidente però la guerra di Israele è orfana nell’opinione pubblica. “All’occidente dico: quello che succede a Gaza fa parte delle atrocità nel mondo arabo”, conclude Kedar. “Guardate il massacro in Siria con gli alawiti, in Yemen, in Sudan, in Libano, in Iraq. Hamas non ha alcun interesse su Gaza, è la cultura del mondo arabo islamico, ma gli europei non lo capiscono. L’Europa pensa tutto attraverso lenti europee, ovvero diritti e vita umana. Ma qui in medio oriente, diritti e vita sono al fondo delle società e dei loro capi. Sacrificheranno sempre il loro popolo per i loro obiettivi: gli sciiti vogliono dominare il mondo islamico come era fino al VII secolo e i sunniti il resto del mondo. E Israele è un ostacolo sul loro cammino. E se dovesse cadere Israele, l’Europa sarebbe la prossima. Ricordatevelo bene”.
Il Foglio, 19 marzo 2025)
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Arriva la primavera in Israele
E con essa il fiore Italia Valeriana sulle colline di Gerusalemme
La valeriana è un genere di piante da fiore della famiglia delle Caprifoliaceae, i cui membri sono comunemente noti come valeriane. Sono piante erbacee perenni con radici legnose e fiori a forma di cupola.
La valeriana italiana è una specie di questa famiglia, che cresce in Israele ma anche in tutta la regione del Mediterraneo orientale, in Turchia, Bulgaria e Grecia.
Oltre al suo caratteristico stelo singolo e ai fiori rosa, che per la loro forma ricordano a molti i fuochi d'artificio, ciò che davvero contraddistingue questo fiore è il suo profumo.
Sebbene il suo profumo sia intenso e caratteristico, molti lo descrivono come sgradevole. Il suo forte aroma, infatti, ha proprietà stimolanti e, in passato, veniva utilizzato in campo medico: i paramedici erano soliti portare con sé piccole boccette con questo profumo per rianimare le persone svenute, poiché il suo forte profumo le faceva reagire rapidamente e riprendere conoscenza.
Nonostante l'odore, la valeriana italiana ha proprietà medicinali ed è coltivata in Europa per scopi terapeutici.
In Israele la sua presenza si estende a diverse regioni, in particolare sul Monte Carmelo, sul Monte Gilboa, in Galilea e sulle colline di Gerusalemme, dove contribuisce alla diversità floreale della regione.
Con l'arrivo della primavera, uno spettacolo floreale si prepara a stupire chi viaggia attraverso queste regioni nei mesi da febbraio ad aprile.
(Aurora Israel, 19 marzo 2025)
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Benvenuti a Utopia – lo stato ebraico immaginato dal giudice Aharon Barak
23 anni dopo aver posto le basi per un regime in cui viene stabilita la supremazia dei giudici sugli eletti, Aharon Barak può finalmente sorridere. La Corte Suprema, il Procuratore Generale, lo Shin Bet e i vertici dell’IDF hanno creato lo stato che aveva previsto nella sua visione.
di Irit Linur
Nel marzo 2002, nel pieno della seconda Intifada, il presidente della Corte Suprema Aharon Barak tenne un discorso alla Knesset, per commemorare i 30 anni dell’Ufficio del Difensore Civico. Nel suo breve discorso delineò la sua utopia. Riconobbe il terrorismo dilagante ma chiarì: “Spesso la democrazia ha combattuto con una delle sue mani legate dietro la schiena“, e questo è anche il suo consiglio per affrontare l’ondata attuale. Riconobbe che la democrazia è il governo della maggioranza ma si preoccupò di bilanciare: “Non c’è democrazia senza il governo della maggioranza e non c’è democrazia senza diritti per la minoranza e per l’individuo“. Barak si rammaricò del fatto che non abbiamo una costituzione, poiché “non è appropriato che una semplice maggioranza dei membri della Knesset possa introdurre un cambiamento sostanziale nella struttura del nostro sistema di governo“.
Per questo ci sono i tribunali, che devono esercitare il controllo giudiziario sulla legislazione (cioè, approvare, modificare o invalidare le leggi), e spiegò ulteriormente: “Si deve presumere che parte delle controversie pubbliche che ci divideranno nei prossimi anni troveranno la loro strada nei tribunali. Come accade nelle democrazie. Sempre più problemi politici si spogliano della loro forma politica e assumono una forma legale e vengono portati alla decisione dei tribunali“, o in breve: tutto è giudicabile, il tribunale è l’arbitro finale su ogni questione, sia essa legale o che si sia spogliata (o sia stata spogliata) del suo abito politico – cioè, sottratta al pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti e trasferita nelle mani dei giudici.
Perché si dovrebbe espropriare il diritto della maggioranza democratica di decidere su questioni che devono essere rivestite di veste giuridica? La supremazia dei giudici, ovviamente: “In effetti, la magistratura non è un lavoro, è uno stile di vita. Uno stile di vita che non prevede la ricerca di ricchezza materiale, e non c’è ricerca di pubblicità e relazioni pubbliche. È uno stile di vita basato sulla ricchezza spirituale; uno stile di vita che include una ricerca obiettiva e neutrale della verità. (…) Non una decisione secondo le correnti passeggere (diciamo, le elezioni), ma un percorso coerente basato su concezioni profonde e valori fondamentali“. In totale contrasto con i rappresentanti eletti del pubblico, che purtroppo assomigliano al pubblico – cioè, privi di concezioni profonde e valori fondamentali.
La visione utopica di Barak ha tardato a realizzarsi, ma siamo stati fortunati e si è concretizzata. Al controllo giudiziario sulla democrazia – cioè, il diritto all’ultima parola – si è aggiunto anche il controllo militare, il controllo dello Shin Bet, e naturalmente il controllo del Procuratore Generale – che non è un giudice, ma Barak stesso ha conferito a questo ruolo le qualità speciali del giudice.
Ci si sarebbe potuti aspettare che nel corso dei decenni in cui si è consolidata qui l’utopia di Barak, essa avrebbe funzionato senza inutili attriti. La supervisione dello stato affidata a una specie superumana come i giudici dovrebbe garantire ordine, prosperità, democrazia e vittoria in guerra anche con una mano legata dietro la schiena. Purtroppo, i risultati sono un po’ preoccupanti. Soprattutto quando altre istituzioni governative, non elette, hanno seguito la strada di Barak e si sono autonominate al di sopra dei rappresentanti eletti, al di sopra di ciò che viene disgustosamente chiamato “considerazioni politiche”. Gli esempi si accumulano uno dopo l’altro:
Suleiman Maswadeh, reporter della televisione di stato (anche questo non è un lavoro, ma uno stile di vita), ha riferito questa settimana di un “sospetto nel gabinetto: il ministro Smotrich sta utilizzando una talpa all’interno dell’IDF. Fonti di sicurezza e politiche hanno testimoniato che il ministro era solito arrivare alle riunioni con informazioni non precedentemente riportate nel gabinetto“. Il rapporto ha ricevuto reazioni scioccate dai cittadini dell’utopia, come se Smotrich fosse un agente straniero e non uno dei responsabili della gestione dei combattimenti che cerca di svolgere il suo lavoro nel miglior modo possibile, non accontentandosi di dosi misurate di informazioni preparate per lui dall’esercito. È possibile che il ministro abbia saltato le procedure convenzionali (o forse è uno stile di vita che semplicemente conosce persone che servono nell’esercito e ci parla a volte), ma è sorprendente che questo fatto sia molto più scioccante del sospetto non del tutto infondato che l’esercito stia nascondendo informazioni rilevanti al governo.
Anche lo Shin Bet gode della protezione della torre d’avorio della Corte Suprema. Ma non temete, nel suo discorso Barak ha chiarito che “il giudice si trova a volte in una torre d’avorio, ma è una torre nelle montagne di Gerusalemme e non sull’Olimpo greco“. Forse è per questo che sia il reporter di Canale 12 Yaron Avraham che Sima Kadmon di “Yedioth Ahronoth” hanno elogiato il capo dello Shin Bet Ronen Bar per essersi astenuto dal pubblicare informazioni imbarazzanti sul Primo Ministro e sulla sua famiglia. Anche se potrebbe essere che a un certo punto la pazienza di Bar si esaurisca. “Netanyahu“, ha scritto Kadmon, “sta conducendo una campagna molto infame contro Ronen Bar, ma farebbe bene a pensarci due volte prima di rompere i ponti e sollevare contro di lui i capi dello Shin Bet di tutte le generazioni. Dopo tutto, si tratta di persone che sanno una cosa o due su di lui, sul suo sostegno vitale e sul figlio che gli è caro. Queste informazioni personali sensibili sono conservate in una cassaforte virtuale, il che aumenta la probabilità di un equilibrio del terrore nucleare“. Il vice capo dello Shin Bet ed ex membro della Knesset Israel Hasson ha sottolineato il punto: “Ascolti, signor Primo Ministro, lo Shin Bet conosce tutti i suoi segreti. Una parola è trapelata? Se ci fosse stata una giunta, sarebbe rimasto un secondo sulla sua sedia?“. La risposta è “se il governo esiste per grazia del sistema di sicurezza – allora si tratta di una Junta“.
Il Primo Ministro ha l’autorità legale di licenziare il capo dello Shin Bet. Bar, a quanto pare, non è d’accordo. Vuole determinare la data del suo pensionamento (dopo il ritorno dell’ultimo ostaggio) e anche nominare il suo successore. È stato nominato per svolgere un certo lavoro (e ha fallito in questo), e non grazie a informazioni imbarazzanti che lo Shin Bet ha raccolto sul Primo Ministro e sui suoi familiari. E se il Primo Ministro decidesse di licenziarlo – l’ufficio del Procuratore Generale è già pronto a impedire all’abominio che Barak ha chiamato “maggioranza semplice” di realizzare il piano.
In risposta alla richiesta dell’attivista di sinistra Gilad Sher, il vice procuratore generale Gil Limon ha scritto: “Se si considererà tale procedura, il livello politico dovrà sottoporre la questione a un esame preliminare del consulente legale del governo, prima della sua attuazione“. E se il Primo Ministro insistesse per licenziare Bar – si può presumere che la Corte Suprema sia già pronta con un’ordinanza condizionale. È chiaro perché: in un’utopia governata da giudici e non dal pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti – si devono garantire libertà extra anche allo Shin Bet per mantenere il suo potere. Qualcuno deve tenere tutto sotto controllo. Anche la più bella delle utopie ha bisogno di un braccio esecutivo forte.
(da Israel Hayom, 12/3/2025)
(Kolòt - Morashà, 19 marzo 2025)
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Israele riprende gli attacchi a Gaza
Israele ha ripreso i bombardamenti mentre le famiglie dei rapiti accusano il Governo di aver scelto di abbandonare i loro cari
Il fragile cessate il fuoco tra Israele e Hamas è crollato martedì mattina dopo circa due mesi, quando l’IDF ha lanciato decine di attacchi in tutta Gaza dopo aver ricevuto l’ordine dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “agire con la forza” contro il gruppo terroristico a causa di quello che il premier ha definito il suo ripetuto rifiuto di rilasciare gli ostaggi israeliani.
L’ufficio di Netanyahu ha affermato che la decisione di riprendere gli attacchi poco dopo la mezzanotte di martedì “è seguita al ripetuto rifiuto di Hamas di rilasciare i nostri ostaggi, nonché al rifiuto di tutte le proposte ricevute dall’inviato speciale degli Stati Uniti presso l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff e dai mediatori”.
Hamas ha insistito per attenersi ai termini originali dell’accordo, che avrebbe dovuto entrare nella sua seconda fase all’inizio del mese. Quella fase prevedeva che Israele si ritirasse completamente da Gaza e accettasse di porre fine definitivamente alla guerra in cambio del rilascio degli ostaggi ancora in vita. Mentre Israele ha firmato l’accordo, Netanyahu ha a lungo insistito sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra finché le capacità di governo e militari di Hamas non saranno state distrutte.
Di conseguenza, Israele si è rifiutato persino di tenere colloqui sui termini della fase due, che avrebbe dovuto iniziare il 3 febbraio.
Ciononostante, il cessate il fuoco è rimasto in vigore per circa due settimane e mezza dopo la conclusione della prima fase, mentre i mediatori lavoravano per concordare nuove condizioni per l’estensione della tregua.
Accettando l’avversione di Israele alla fase due, Witkoff ha presentato la scorsa settimana una proposta ponte che avrebbe visto la fase uno estesa per diverse settimane durante le quali sarebbero stati rilasciati cinque ostaggi viventi. L’inviato degli Stati Uniti ha affermato domenica che la risposta di Hamas all’offerta era un “non-starter” e ha avvertito delle conseguenze imminenti se il gruppo terroristico non avesse cambiato il suo approccio.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato a Fox News che Israele si è consultato con l’amministrazione Trump prima di lanciare gli attacchi di martedì.
• Lo sgomento del forum degli ostaggi
L’Hostages and Missing Families Forum rilascia una dichiarazione in seguito alla ripresa degli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, accusando il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”.
“La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”, si legge. “Siamo inorriditi, furiosi e spaventati dall’intenzionale interruzione del processo di ritorno dei nostri cari dalla terribile prigionia di Hamas”.
“Il ritorno ai combattimenti prima del ritorno dell’ultimo ostaggio ci costerà i 59 ostaggi che sono ancora a Gaza e che possono ancora essere salvati e riportati indietro”, afferma il forum, aggiungendo che una dichiarazione secondo cui la mossa mira a riportare indietro gli ostaggi è “un completo depistaggio” poiché “la pressione militare mette in pericolo ostaggi e soldati”.
Dei 59, si ritiene che solo 24 siano ancora vivi. Le famiglie degli altri stanno cercando di far tornare i loro cari per poterli salutare e seppellire come si deve.
“Il cessate il fuoco deve essere ripreso. Molte vite sono in gioco”, conclude il forum, chiedendo al presidente degli Stati Uniti Donald Trump di continuare a lavorare per la liberazione di tutti i rapiti. “Non ci sarà sicurezza, nessuna vittoria e nessuna redenzione finché l’ultimo ostaggio non tornerà a casa”.
(Rights Reporter, 18 marzo 2025)
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Benvenuti all'inferno?
L'attacco aereo israeliano ha colpito la Striscia di Gaza all'improvviso, nel bel mezzo del Ramadan.
di Aviel Schneider
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Fumo innalzato dopo un attacco aereo israeliano a Gaza City, 18 marzo 2025.
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GERUSALEMME - L'aviazione israeliana sta effettuando attacchi massicci in tutta la Striscia di Gaza. I vertici della sicurezza sottolineano che si tratta di un'operazione aerea su larga scala, pianificata in anticipo e approvata dai vertici militari e politici. Allo stesso tempo, le truppe di terra sono pronte per un'eventuale operazione. Nella Striscia di Gaza sono stati attaccati numerosi obiettivi, tra cui comandanti di alto livello di Hamas, attivisti dell'organizzazione terroristica, sistemi di tunnel e depositi di armi. L'operazione è complessa e progettata per colpire il maggior numero possibile di obiettivi strategici contemporaneamente, al fine di indebolire l'efficacia di Hamas. Secondo i resoconti palestinesi, più di 300 persone sono state uccise finora dagli attacchi dell'IDF. Nelle reti e nei media palestinesi, Trump è accusato di aver “aperto le porte dell'inferno”. Un palestinese in fuga dalle bombe israeliane ha commentato: “Avrebbe dovuto almeno aspettare fino a dopo il Ramadan”.
Il cessate il fuoco è finito. I palestinesi stanno fuggendo dalle aree contese. Le Forze di Difesa israeliane hanno emesso un ordine di evacuazione urgente per i residenti del nord della Striscia di Gaza per cercare sicurezza dagli attacchi mirati. L'evacuazione dell'area lungo il confine con Israele indica una possibile espansione della zona di sicurezza (zona rossa) che Israele sta pianificando nella Striscia di Gaza. Il valico di Rafah verso il confine egiziano è stato chiuso all'uscita di malati e feriti dopo essere stato aperto per circa 40 giorni. Ciò significa che i palestinesi stanno perdendo la presunta pace del Ramadan - un risultato diretto della politica di Hamas.
Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha dichiarato all'emittente araba Al-Arabi: “Israele ha ripreso la guerra di annientamento e questo avrà grandi conseguenze. Non solleviamo il governo degli Stati Uniti dalle sue responsabilità e crediamo che il presidente americano Donald Trump sia personalmente coinvolto nell'escalation - soprattutto dopo la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca secondo cui ci sono state consultazioni sugli attacchi a Gaza in precedenza”. Hamas ha anche minacciato di giustiziare gli ostaggi israeliani se Israele avesse continuato ad attaccare la Striscia di Gaza.
L'inaspettato attacco alla Striscia di Gaza ha lasciato le famiglie degli ostaggi in preda alla paura. I loro cari sono ancora detenuti a Gaza e il massiccio bombardamento potrebbe mettere a repentaglio le loro vite. Le famiglie temono che le possibilità di restituire tutti i 59 ostaggi, vivi e morti, detenuti a Gaza da 529 giorni, stiano diminuendo. Un post emotivo di Lishi Miran-Lavi, moglie del rapito Omri Miran, su X (ex Twitter) ha fatto scalpore: Ha condiviso un'emoji con il cuore spezzato in risposta a un post del fratello Moshe Emilio Lavi, che aveva usato lo stesso segno. Le famiglie stanno ora cercando disperatamente un dialogo con la leadership politica di Gerusalemme. La situazione è insopportabile per loro e per i loro parenti in cattività.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha sottolineato che:
"Se Hamas non rilascerà tutti gli ostaggi, le porte dell'inferno si apriranno sulla Striscia di Gaza e gli assassini e gli stupratori di Hamas si troveranno ad affrontare una potenza di fuoco mai vista prima. Non smetteremo di combattere finché non saranno restituiti tutti gli ostaggi e non saranno raggiunti tutti gli obiettivi di guerra”.
Tuttavia, parole così concise rischiano di suscitare aspettative che potrebbero non essere soddisfatte.
Gli ambienti della sicurezza hanno annunciato che i nuovi attacchi alla Striscia di Gaza non sono limitati nel tempo. “D'ora in poi Israele agirà contro Hamas con una forza militare sempre maggiore”, hanno dichiarato gli ambienti governativi. La ripresa dell'offensiva coincide con gli attacchi militari statunitensi contro obiettivi Houthi in Yemen. Tra l'altro, gli Houthi sono responsabili del terzo attacco a una portaerei americana. Questo avviene nonostante le minacce di Trump. Ignorando gli avvertimenti pubblici del Presidente Trump e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, gli Houthi affermano apertamente di aver colpito la USS Harry S. Truman con due missili e due droni come rappresaglia per gli attacchi statunitensi a Sanaa. Hanno anche attaccato un cacciatorpediniere americano con un missile da crociera e quattro droni.
Israele si sta preparando a possibili attacchi degli Houthi con missili balistici e droni, soprattutto dopo la ripresa degli attacchi aerei alle postazioni di Hamas. La palla è ora nel campo di Trump: ha annunciato che sarà l'Iran a pagarne le conseguenze se gli Houthi continueranno a colpire obiettivi israeliani e americani. Come sappiamo, le minacce di Trump non sono parole vuote e questo potrebbe essere un segnale importante anche per Israele.
L'ultima escalation ha spinto anche il Segretario di Stato americano Marco Rubio a lanciare un chiaro avvertimento: “Gli Houthi esistono nello Yemen e controllano parti del Paese. Sostengono di essere il governo legittimo, ma non lo sono. Negli ultimi 18 mesi, gli Houthi hanno compiuto 174 attacchi a navi militari. Non sarebbero in grado di farlo senza il sostegno dell'Iran. L'Iran fornisce agli Houthi tecnologia sofisticata per i droni e sostegno finanziario. Senza l'aiuto di Teheran, non sarebbero una seria minaccia. L'Iran ha creato questo mostro e ora deve assumersene la responsabilità”.
L'intensificarsi delle minacce del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro l'Iran e il dispiegamento di forze navali americane in Medio Oriente stanno causando disordini a livello internazionale, soprattutto a Teheran. “Nessuno deve essere ingannato: Qualsiasi ulteriore attacco da parte degli Huthi sarà accolto con grande violenza, e non c'è alcuna garanzia che questa violenza si fermi”, ha avvertito Trump in una dichiarazione tagliente sulla sua piattaforma Truth Social.
L'esperto di Iran Benny Sabti dell'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) ha spiegato ai media israeliani: “Gli iraniani sono sorpresi dalla velocità con cui Trump sta agendo. Si aspettavano minacce, ma non l'immediato dispiegamento di truppe e pattuglie di droni sulle coste iraniane. Se questo sviluppo continua, potrebbe cambiare in modo permanente il Medio Oriente”.
(Israel Heute, 18 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Fine dello stallo?
Il raid aereo compiuto dall’IDF stanotte a Gaza dopo circa due mesi di tregua, sigla la sua fine e certifica ciò che era palese fin da prima; che Hamas è ancora pienamente operativo all’interno della Striscia e in grado di controllare il territorio nonostante quindici mesi di guerra. Con la tregua finalizzata alla liberazione degli ostaggi ancora detenuti ha acquisito solo tempo per ricompattarsi.
Certifica ulteriormente che la strategia di guerra condotta fino ad oggi non ha raggiunto lo scopo prefissato e molteplici volte dichiarato da Netanyahu, lo smantellamento operativo dell’organizzazione terroristica e dei suoi addentellati.
A gennaio, Steven Witkoff, l’inviato per il Medio Oriente scelto da Donald Trump, aveva sostanzialmente imposto a Netanyahu di accettare un accordo con Hamas finalizzato alla liberazione degli ostaggi. Quell’accordo, che ha fruttato il rilascio di altri ostaggi liberati nel contesto di orrendi spettacoli inscenati da Hamas, non ha e non poteva che lasciare accantonato il problema principale, la presenza di quest’ultimo a Gaza e il futuro dell’enclave.
Appare chiaro che non esistono soluzioni che possano conciliare la liberazione di tutti gli ostaggi rapiti da Hamas durante l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la sua eliminazione.
Fin dal principio Hamas ha utilizzato gli ostaggi come sua principale salvaguardia e arma di ricatto nei confronti di Israele. Se la priorità del governo israeliano e dell’appartato militare è quella di sconfiggere Hamas, non resta che prendere atto, come è stato evidente fin dal principio, che la sorte degli ostaggi, dolorosamente, diventa secondaria, altresì, la situazione non può che perdurare in questo modo.
I fatti ci dicono che la guerra contro Hamas cominciata nell’ottobre del 2023, Israele non l’ha ancora vinta. Hamas non ha alcuna intenzione di lasciare Gaza, e il suoi effettivi, pur essendo stati fortemente diminuiti, si sono rimpinguati. Secondo i Servizi americani le nuove reclute di Hamas ammonterebbero tra i dieci e i quindicimila effettivi.
Per vincere la guerra Israele ha bisogno dell’appoggio fermo e risoluto dell’Amministrazione Trump. In questo senso la dichiarazione del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, secondo il quale “Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per estendere il cessate il fuoco, invece ha scelto il rifiuto e la guerra”, va nella direzione giusta. Bisognerà, tuttavia, vedere fino a che punto Washington sarà disposta ad appoggiare Israele e fino a che punto Israele vorrà andare avanti, modificare la propria strategia, dandosi come obiettivo definitivo la sconfitta di Hamas, se no, nel secondo anniversario del 7 ottobre, ci troveremo ancora in uno stallo.
(L'informale, 18 marzo 2025)
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Un pericoloso braccio di ferro nella politica israeliana – Bar contro Bibi
di Ugo Volli
• La guerra continua
Anche se al momento non si combattono grandi battaglie, Israele si trova sempre in guerra, con pericoli gravi provenienti da tutte le direzioni. Le trattative per prolungare la tregua sono fallite (parola di Hamas) e il momento della ripresa della guerra a Gaza sembra sempre più vicino; gli Houti ricominciano a cercare di bombardare Israele dallo Yemen; il caos infuria fra Siria e Libano; l’Iran corre verso l’armamento atomico; in Giudea e Samaria i terroristi cercano di riorganizzarsi e sono necessarie continue operazioni militari per evitare che si impadroniscano del territorio.
• Una crisi politica paradossale
Ma la politica israeliana non riesce a tenere l’unità nazionale necessaria per la guerra e rischia seriamente di piombare in una nuova crisi paragonabile a quella provocata nell’anno precedente al 7 ottobre dall’opposizione violenta e senza compromessi alla riforma giudiziaria: una spaccatura verticale della società così profonda da paralizzare l’istinto di sopravvivenza. L’occasione dello scontro è molto paradossale: l’opposizione politica e sociale si sta mobilitando con manifestazioni di piazza, ricorsi alla corte suprema, scioperi dei rettori delle università, scuole chiuse dai presidi per favorire le manifestazioni, per impedire al governo di licenziare Ronen Bar, il direttore del servizio segreto interno, lo Shin Bet (o Shabak come vocalizzano la sigla gli israeliani). Bisogna dire che lo Shin Bet è del tutto diverso dal Mossad che ha invece competenza sulle operazioni all’estero e che non ha responsabilità per il 7 ottobre, ma anzi è stato fondamentale in questa guerra, eliminando i quadri di Hezbollah e Hamas con i cercapersone esplosivi o direttamente.
• Il fallimento e le dimissioni
Il paradosso sta nel fatto che non solo la legge che regola il servizio preveda esplicitamente la possibilità che il governo sfiduci il suo capo, ma che lo stesso Shabak in un’inchiesta interna resa pubblica nei giorni scorsi, ha ammesso il suo gravissimo fallimento fra le cause immediate dell’incapacità di Israele di prevedere l’attacco terrorista del 7 ottobre e di difendersene subito, ma che lo stesso Bar ha annunciato l’intenzione di dare le dimissioni per questa sua pesantissima responsabilità. Sennonché poi ha posto pubbliche condizioni a queste sue dimissioni. Per andarsene Bar vuole scegliere lui stesso il suo successore (cosa che nessun funzionario pubblico al mondo ha mai potuto fare, figuriamoci il responsabile fallito di un servizio segreto), Vuole inoltre che per accertare le responsabilità del 7 ottobre, oltre all’inchiesta del controllore pubblico, che in Israele è una figura importante e rispettata, a quella della sua commissione e a quelle di altri corpi militari, che nelle ultime settimane hanno portato alle dimissioni di ufficiali molto meno responsabili di lui, dal capo di stato maggiore delle forze armate al capo della sua divisione meridionale, a quello dei servizi militari fino al portavoce dell’esercito, ci sia un’indagine complessiva (che naturalmente contestualizzerebbe la sua responsabilità fra i tanti errori che hanno reso possibile l’attacco terrorista). È ovviamente una richiesta giusta, anche se non si vede perché si permetta di farlo uno dei principali responsabili del disastro.
• L’attacco al governo
Bar pretende però che si nomini non una commissione parlamentare come propone il governo, neutrale perché costituita con membri scelti da maggioranza e opposizione, ma una “commissione di Stato” una formula di inchiesta usata qualche volta in passato, i cui membri sono tradizionalmente scelti dal presidente della Corte Suprema. Ora si dà il caso che questo presidente, Isaac Amit, sia stato appena nominato con un colpo di mano contro il parere del governo, che lo riteneva improponibile in quanto portatore di un conflitto di interessi e di comportamenti scorretti, tanto che Netanyahu e il ministro della Giustizia Levin hanno rifiutato di partecipare alla cerimonia della sua presa di servizio. Volerlo rendere arbitro di una commissione di inchiesta significa invitarlo a vendicarsi, cioè cercare di scaricare tutte le responsabilità sul governo. Del resto un intero paragrafo della relazione preparata da Bar sulle responsabilità del suo istituto non riguardava l’indagine di quel che era successo nei giorni e nelle ore precedenti all’attacco terrorista. Esso cercava di attribuire le responsabilità del disastro non ai fallimenti informativi, all’impreparazione dell’esercito, alla lentezza delle reazioni militari, alla censura sugli indizi dell’operazione terroristica denunciati invano anche da molti dipendenti di Bar, ma di scaricarli sulle politiche generali da lungo tempo attuate da Israele (e condivise dal governo attuale ma anche da quello precedente gestito dall’attuale opposizione, oltre che dai servizi di informazione e dalle forze armate) che certamente avevano sottovalutato il pericolo di Hamas ed erano cadute nella finzione buonista dei terroristi.
• Le reazioni di Bar
Insomma, il capo dei servizi segreti competenti per il territorio di Israele e per Gaza, quando la guerra era ancora aperta, sembrava dedicarsi più che al tentativo di individuare i rapiti e di eliminare i terroristi, alla caccia ai suoi nemici interni ad Israele, in sostanza il governo e Netanyahu. Bisogna aggiungere una serie di soffiate provenienti dallo Shabak per esempio sulle trattative con i mediatori, che in diverse occasioni hanno messo in difficoltà il governo. O altre che nelle ultime settimane, quando Bar era già in odor di licenziamento, insinuavano alla stampa che lo Shabak stesse indagando su innominati “collaboratori del primo ministro”, bizzarramente sospettati di aver ricevuto doni addirittura dal Qatar. Quando Bar era rimasto l’unico dei responsabili prossimi del fallimento del 7 ottobre in servizio, Netanyahu gli ha chiesto formalmente di dimettersi, di fronte al suo rifiuto (di nuovo reso pubblico con un attacco politico al governo), ha annunciato di aver iniziato la procedure per licenziarlo, che dovrebbe concludersi con un voto del gabinetto, mercoledì.
• Il fronte contro il governo
A questo punto è partito uno strano coro di soccorsi a Bar. Si è fatto intervistare in TV il suo predecessore Nadav Argaman minacciando di “ rivelare tutto quel che sa e che finora ha tenuto per sé” sui rapporti con Netanyahu; un avvertimento che lo stesso Netanyahu ha qualificato come “mafioso” arrivando a denunciare Argaman alla polizia. Ha parlato naturalmente anche il capo dell’opposizione Lapid, che nell’ultimo anno e mezzo ha rifiutato costantemente la politica di unità nazionale che è nella tradizione di Israele durante la guerra. Si è pronunciata anche con una lettera formale il procuratore generale e consulente legale del governo Gali Baharav-Miara, cercando di proibire a Netanyahu di procedere al licenziamento. Ma anche lei si trova in conflitto di interessi, non solo perché a sua volta soggetta a una procedura di impeachment parlamentare essendo in conflitto costante ed esplicito con la linea politica del governo, ma anche per il fatto di essere, lei e soprattutto suo marito, stretti amici di Bar. E mercoledì in tutto Israele vi saranno manifestazioni organizzate secondo il modello e l’ideologia delle agitazioni contro la riforma della giustizia, compreso un assedio programmato alla sede del governo e alla residenza di Netanyahu, in concomitanza con la votazione del governo su Bar.
(Shalom, 18 marzo 2025)
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Etica in tempo di guerra, voci a confronto
di Adam Smulevich
Viene prima la vittoria contro Hamas o la liberazione degli ostaggi?
L’interrogativo attraversa la società israeliana da mesi e si è riaffacciato con forza in queste ore con la fine della tregua a Gaza. «È il dilemma etico forse più lacerante di questo periodo storico», conferma Michael Ascoli, rabbino e ingegnere nato a Roma ma residente ad Haifa dal 2010. La sera di mercoledì 19 marzo ne parlerà a partire dalle 20 al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma, dove è in programma un incontro su “etica ebraica in tempo di guerra”. Al suo fianco ci saranno Yonathan Bassi del kibbutz Maale Gilboa e il giornalista Massimo Lomonaco, ex corrispondente dell’Ansa da Israele. L’iniziativa è parte del ciclo di conferenze “I tanti volti di Israele” promosso dal Pitigliani insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e risponde, secondo Ascoli, «al bisogno molto forte che c’è oggi di ascoltare, intervenire e confrontarsi su temi che investono non soltanto Israele in modo diretto ma anche la diaspora in senso ampio; anche perché l’ebreo diasporico si sente in qualche modo un rappresentante d’Israele verso il mondo esterno e tiene talvolta a questo compito molto più di quanto facciano le istituzioni israeliane».
• La scelta del rabbino Mirvis
Temi sui quali discutere certo non mancano. «È di ieri», sottolinea Ascoli, «la notizia che il rabbino capo del Regno Unito Ephraim Mirvis non parteciperà a una conferenza sull’antisemitismo organizzata dal governo israeliano per via della presenza di alcuni politici di estrema destra tra i relatori». Per Ascoli questa presa di posizione «molto forte» da parte del rabbino Mirvis è «un ottimo esempio delle titubanze proprie di una parte dell’ebraismo europeo a rivolgersi verso quel tipo di destra, anche per via del ricordo della Shoah». Altro tema etico sensibile riguarda le modalità di svolgimento della guerra. «La tradizione ebraica afferma dei principi alti, anche nel rapporto con il nemico, principi però non sempre semplici da applicare dal punto di vista sia emotivo che pratico». Secondo Ascoli, «l’esercito israeliano si è finora distinto per esserci riuscito piuttosto bene». Allo stesso tempo «i massacri del 7 ottobre e il tremendo appoggio internazionale di cui Hamas ha goduto hanno fatto sì che, anche in Israele, guadagnasse consenso la posizione di chi vuole scrollarsi di dosso il “fardello” di essere sempre bravi e morali». Chi si fa latore di questa istanza, prosegue il rav, «interpreta un sentimento istintivo e ha gioco facile in una società sottoposta a un trauma prolungato». E così l’idea «fa breccia, rompendo anche i muri dell’elettorato tradizionale di questi politici; lo si vede ad esempio sul tema della possibile espulsione dei gazawi per la ricostruzione della Striscia; un tema che gode di ampio consenso, malgrado i problemi etici molto grandi che pone».
(moked, 18 marzo 2025)
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Hamas, Iran e Hezbollah. I piani segreti per una guerra totale contro Israele rivelati da documenti trafugati
I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.
di Nina Deutsch
Immaginate un mosaico di documenti segreti, frammenti di un piano oscuro, scoperti tra le macerie di Gaza. Questi documenti, rinvenuti dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), rivelano una strategia meticolosamente orchestrata da Hamas per infliggere un colpo devastante al cuore di Israele. Come riferisce il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, emergono sempre nuovi dettagli su attacchi su larga scala pianificati da anni per una guerra totale contro lo Stato ebraico.
I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.
Dopo la campagna della Spada di Al-Quds (Operazione “Guardiano dei muri”) nel maggio 2021, è iniziato un cambiamento nell’approccio di Hamas, poiché ha preso forma il riconoscimento che la distruzione di Israele era diventata un obiettivo raggiungibile nel breve termine. Il cambiamento è evidente anche in una serie di dichiarazioni pubbliche dei leader di Hamas, che secondo i documenti rinvenuti, avrebbero potuto essere percepite dalla parte israeliana (ed è probabile che siano state percepite in questo modo) come false vanterie.
Già negli anni scorsi sono emerse notizie su queste strategie mirate alla distruzione dello Stato ebraico, ossia di carte che rivelano che Yahya Sinwar, leader di Hamas, aveva delineato tre scenari per annientare Israele, coinvolgendo Hezbollah e milizie provenienti da Iraq, Yemen e Siria. L’obiettivo era un attacco sincronizzato su più fronti, sfruttando momenti di vulnerabilità come le festività ebraiche, considerate detonatori di tensione nella regione. In una lettera del giugno 2022, Sinwar descriveva dettagliatamente questi piani, evidenziando una collaborazione strategica con le forze filo-iraniane, come riportato dal Wall Street Journal.
Un documento del luglio 2022 indica che Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, aveva approvato la strategia, sollecitando ulteriori discussioni con i vertici iraniani. Comunicazioni intercettate nell’aprile 2023 tra Sinwar e un comandante di Hezbollah confermano che Hamas percepiva l’esercito israeliano come «esausto» e incapace di rispondere con forza a un’offensiva improvvisa, secondo quanto riportato sempre dal Wall Street Journal.
Ma le ambizioni di Hamas non si fermavano qui. Come rivelato dal giornale tedesco Die Welt, il gruppo aveva pianificato attacchi su larga scala, tra cui l’occupazione di edifici governativi a Gerusalemme e grattacieli a Tel Aviv, nel tentativo di provocare un collasso interno di Israele.
Inoltre, secondo quanto rivelato da The Sun, Hamas avrebbe addirittura progettato un attacco in stile 11 settembre, con l’obiettivo di far esplodere grattacieli israeliani.
È inquietante pensare come, mentre la vita quotidiana scorreva apparentemente tranquilla, nelle ombre si tessessero trame così minacciose. Questi piani, se attuati tutti quanti, avrebbero potuto portare a una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, con un bilancio di vittime e una destabilizzazione regionale senza precedenti.
Il documento integrale
(Bet Magazine Mosaico, 17 marzo 2025)
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La “Conceptzia”: un difetto fatale di pensiero che continua a vivere
Alla luce dei passi falsi del 7 ottobre, l'approccio del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF dovrebbe essere accolto con favore. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.
di Ruthie Blum
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Attivisti israeliani di sinistra protestano contro la guerra, la crisi umanitaria a Gaza e le operazioni dell'IDF in Giudea e Samaria, Gerusalemme, 12 marzo 2025
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La reazione del movimento di protesta e dei suoi rappresentanti nello Stato ombra alla nomina del tenente generale Eyal Zamir a comandante in capo delle Forze di difesa israeliane era prevedibile. Chiunque sia stato approvato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu per sostituire Herzi Halevi è stato screditato fin dall'inizio - come una scelta politicamente motivata - indipendentemente dalle sue eccellenti qualifiche professionali.
Questo fa parte della campagna riflessiva contro il governo in generale e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu in particolare, che tiene in vita l'élite d'opinione di sinistra - così come alcuni ex funzionari della sicurezza. E non solo in senso figurato. Purtroppo, gli orrori del 7 ottobre 2023 non hanno rallentato le ruote della macchina della disinformazione. Al contrario.
Tuttavia, l'atteggiamento nei confronti di Zamir non solo non sorprende, ma è anche allarmante se si guarda al quadro generale. Invece di sostenere la missione dichiarata del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF - rivedere l'indagine finora inadeguata sulla serie di errori incomprensibili commessi in quel giorno mortale e servire come arma di attacco contro qualsiasi nemico che si sollevi contro Israele - i critici accusano ogni sua parola di essere una macchia.
Data la portata del fallimento di Israele nel prevedere e prevenire il massacro di Hamas di oltre 17 mesi fa, l'approccio di Zamire dovrebbe essere accolto con favore, se non a braccia aperte. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.
Il che ci porta alla cosiddetta “ conceptzia”. La corruzione ebraica del termine inglese conception è meglio traducibile come pregiudizio di conferma.
Questo fenomeno psicologico è stato descritto da varie fonti nel corso della storia, tra cui il filosofo e scienziato inglese Francis Bacon.
“La comprensione umana, quando si è formata un'opinione“, scrisse nel 1620, ”dispone tutto il resto in modo da sostenerla e concordare con essa. E anche quando sono presenti un maggior numero e peso di prove contrarie, queste vengono ignorate, disprezzate o in qualche modo messe da parte o respinte”.
Questa è una descrizione perfetta della cecità israeliana che ha permesso ad Hamas di pianificare ed eseguire le peggiori atrocità contro gli ebrei dai tempi della Shoah. E questo in uno Stato ebraico sovrano, con un esercito ammirato in lungo e in largo.
Riconoscere questo triste fatto è necessario per correggerlo. Ma purtroppo non basta.
Un'intervista approfondita con Ofer Grosbard, ex capo del dipartimento di ricerca dell'IDF Intelligence Directorate (Aman), pubblicata sulla rivista N12 nel fine settimana, è rivelatrice. Grosbard, psicologo con un dottorato in analisi e risoluzione dei conflitti conseguito presso la George Mason University in Virginia, ha assunto l'incarico nell'agosto del 2021.
Sei mesi dopo è stato licenziato perché ha osato esprimere opinioni in contrasto con Conceptzia. Naturalmente, all'epoca nessuno chiamava così l'opinione consolidata di Aman. Ma era presente in tutto il suo arrogante splendore.
Ironia della sorte, Grosbard era stato assunto proprio per le competenze per le quali è stato poi licenziato: dopo l'operazione militare “Guardians of the Walls” contro Hamas, avrebbe dovuto fornire “una prospettiva originale sulla mentalità del nemico”.
“L'Aman, come l'intero esercito, è strutturato gerarchicamente in modo da limitare il pensiero aperto, critico e creativo”, ha dichiarato a N12. “I comandanti vogliono salire nei ranghi, quindi non si permettono di esprimere liberamente le proprie opinioni. Questi elementi sono particolarmente critici nel lavoro di intelligence, che dovrebbe essere il cervello dell'esercito e dello Stato”.
Un esempio lampante è la percezione che la comunità di intelligence ha del leader di Hamas Yahya Sinwar.
“Ho incontrato persone che hanno osservato da vicino il comportamento di Sinwar per anni e lo hanno studiato nei dettagli”, ha riferito. “Ho chiesto loro di esprimere i loro sentimenti su di lui. Alcuni hanno detto di rispettarlo; uno era dispiaciuto per lui; un altro lo vedeva come un padre caloroso; un altro ancora ha ammesso di odiarlo”.
Grosbard ha riconosciuto che le sue raccomandazioni, sebbene razionali, erano fortemente influenzate dalle emozioni: coloro che vedevano Sinwar come una “figura paterna” erano meno propensi a suggerirlo come obiettivo per l'assassinio. Chi lo odiava era favorevole alla sua eliminazione.
“Prendono un paio di psicologi clinici e dicono loro: “Scrivi una relazione su Sinwar”. Dal loro punto di vista, Sinwar è fondamentalmente 'ashkenazita'”, ha detto Grosbard. “Escono dai loro uffici, tracciano un profilo e concludono che è uno psicopatico. Ma non si può etichettare un'intera cultura come psicopatica. Anche nel DSM, il nostro manuale diagnostico dell'Associazione Psichiatrica Americana, è chiaro che un comportamento deviante può essere considerato patologico solo se si verifica in una certa percentuale della popolazione - non in tutti i residenti di Gaza o in tutti i terroristi di Nukhba”.
E ha continuato: “Questo è un ottimo modo per evitare di capire come pensa l'altra parte. Se si definisce Sinwar come uno psicopatico, ci si assolve dalla necessità di capirlo. Ma se si dice che ha un pensiero messianico, combinato con una comprovata capacità di eseguire i suoi piani per anni, e che intende ogni parola che dice, allora la questione è completamente diversa”.
Ha anche ricordato una conversazione con l'assistente dell'allora direttore dell'Aman Aharon Haliva, che giustamente si è dimesso in disgrazia l'anno scorso. Il vice di Haliva, ha detto Grosbard, “ha respinto ogni possibilità di generalizzare sulle culture, sostenendo che si trattava di sciocchezze - tutti la pensavamo allo stesso modo”.
Grosbard ha esteso la sua critica allo Stato di Israele nel suo complesso.
“Senza un'introspezione emotiva, siamo sulla strada della distruzione”, ha sottolineato. “Stiamo parlando di due fonti di errore: Una è l'incapacità di comprendere il modo di pensare del nemico, l'altra è la nostra stessa repressione - la repressione di un'intera nazione”.
E ha continuato: “C'è qualcosa di incredibilmente potente nella repressione collettiva. Gli esseri umani tendono a reprimere i pericoli, soprattutto quando esistono per lungo tempo. Non siamo progettati per essere in uno stato costante di alta tensione. A un certo punto ci si stanca, si desidera la pace e si reprime il pericolo”.
Questa dinamica, ha aggiunto, non è tipica solo di Israele.
“L'Occidente è così narcisista nella sua percezione culturale che trova difficile capire che qualcuno gli sta mentendo”, ha detto.
Speriamo che Eyal Zamir riesca a colmare questo divario.
(Israel Heute, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Netanyahu vuole licenziare il capo dello Shabak
Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha annunciato l'intenzione di licenziare il capo dell'intelligence interna Ronen Bar. Il motivo è la mancanza di fiducia.
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu intende licenziare il capo del servizio di intelligence nazionale Shabak, Ronen Bar. Il leader del Likud ha dato l'annuncio domenica in un discorso video. In esso ha spiegato di non avere più fiducia nel suo capo dello Shabak. La sua sfiducia nei confronti di Bar ha continuato a crescere negli ultimi mesi. Questa situazione è inaccettabile in vista della guerra. Con il licenziamento di Bar, Netanyahu ha detto di voler anche evitare un nuovo 7 ottobre. Questo perché Netanyahu incolpa ampiamente lo Shabak per il massacro terroristico di Hamas.
Come riporta il quotidiano online “Times of Israel”, Netanyahu ha convocato il capo dei servizi segreti nel suo ufficio domenica e lo ha informato della sua decisione. Netanyahu aveva recentemente rimosso Bar dalla squadra di negoziatori per il rilascio degli ostaggi israeliani.
Appena quindici giorni fa, lo Shabak, responsabile del monitoraggio dei terroristi palestinesi, ha ammesso di aver commesso gravi mancanze nel corso dell'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023. Quando quindici giorni fa è stato pubblicato il relativo rapporto investigativo, Bar ha dichiarato: “Se lo Shabak avesse agito diversamente (...), il massacro avrebbe potuto essere evitato”. Allo stesso tempo, il rapporto attribuisce parte della colpa alla politica israeliana. La “politica della calma” ha permesso ad Hamas di costruire il suo arsenale di armi. Il rapporto critica anche i pagamenti del Qatar ad Hamas autorizzati dal governo israeliano.
L'esercito aveva precedentemente ammesso il suo “completo fallimento”. Subito dopo la pubblicazione del rapporto dello Shabak, l'ufficio di Netanyahu ha criticato duramente i risultati dell'indagine. Questo perché Netanyahu vede l'esercito e le autorità di sicurezza come responsabili del 7 ottobre, non i politici.
• Dimissioni sì, ma...
Secondo i media israeliani, il gabinetto deciderà su Bar in una riunione speciale mercoledì. Tuttavia, al momento non è chiaro se ciò avverrà. Il procuratore generale Gali Baharav-Miara ha dichiarato domenica sera che non è possibile avviare alcuna procedura di licenziamento nei confronti di Bar fino a quando non sarà stata esaminata la “base fattuale e legale”, al fine di escludere la possibilità che l'azione sia stata influenzata da conflitti di interesse. Ha inoltre affermato che “la posizione di capo dello Shabak non è una posizione di fiducia personale al servizio del primo ministro”.
Lo stesso Bar ha annunciato che si dimetterà 'anno prossimo, prima della fine del suo mandato avuto nel 2021. Ha citato come motivo il suo fallimento nel prevenire l'attacco di Hamas. Tuttavia, non ha voluto dimettersi immediatamente, ma sarebbe rimasto in carica fino a quando non fossero stati compiuti progressi sul rilascio degli ostaggi israeliani. Vuole inoltre portare avanti le indagini sulle presunte relazioni illegali tra i confidenti di Netanyahu e il Qatar. L'accusa: i confidenti avrebbero ricevuto denaro dal Qatar per migliorare l'immagine dell'emirato. A causa della natura esplosiva e della portata della questione, è lo Shabak e non la polizia a indagare sulla vicenda.
I media israeliani ipotizzano che queste indagini si basino su un conflitto di interessi che rende giuridicamente difficile per Netanyahu licenziare Bar. L'ex primo ministro Yair Lapid (Yesh Atid) ritiene che questo sia il motivo del previsto licenziamento. Il ministro della Giustizia, Yariv Levin (Likud), e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotritsch (Sionismo religioso), hanno invece accolto l'annuncio di Netanyahu come un “passo necessario”.
(Israelnetz, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Valsesia, la “Terra Promessa” in provincia di Vercelli, è la nuova casa degli israeliani in fuga dal conflitto
In un territorio a rischio di desertificazione demografica, un ebreo italiano residente in Israele ha sviluppato il progetto Baita per accogliere i tanti israeliani che stanno lasciando il Paese. Nel 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite e 400 di loro sono soci del Progetto. Un esempio di iniziativa e integrazione con la gente della zona, che apprezza questa novità.
di Pietro Baragiola
L’incertezza e la tensione generate dal conflitto in Medio Oriente ha spinto sempre più israeliani a lasciare le proprie dimore in cerca di una nuova casa.
Per rispondere a questa esigenza è nato il Progetto Baita, l’associazione senza scopi di lucro che intende proporre come meta prescelta l’area verdeggiante di Valsesia, incastonata nel cuore delle alpi.
“Tutti si innamorano della Valsesia, affascinati dalla bellezza del suo paesaggio e dall’accoglienza dei suoi abitanti” ha affermato Ugo Luzzati, fondatore del progetto, nella sua intervista rilasciata a La Stampa. “Vediamo arrivare sempre più famiglie che decidono di trasferirsi e investire nel nostro territorio in cerca di una vita tranquilla e serena, lontana dai pericoli della guerra.”
• La creazione del Progetto Baita
Originario di Genova, Ugo Luzzati ha vissuto gran parte della sua vita in Israele, dove si è sposato ed ha avuto cinque figli.
“Durante le vacanze la mia famiglia ed io venivamo spesso in Valsesia, ma ad un certo punto ho iniziato a trascorrerci sempre più tempo fino a decidere di trasferirmici definitivamente” ha raccontato Luzzati. “Israele sta cambiando, sento che si è rotto qualcosa.”
L’idea di aprire l’invito a tutti gli israeliani è nata da una conversazione con una maestra del comune di Valsesia che si lamentava di continuo con lui di come le scuole fossero quasi sempre vuote in quanto c’erano sempre meno studenti.
“È stata quella conversazione a darmi un’illuminazione: portiamo le famiglie israeliane in Valsesia” ha affermato Luzzati che nel 2022 ha ufficialmente fondato Progetto Baita con l’obiettivo di seguire passo dopo passo gli immigrati israeliani per aiutarli ad inserirsi e ad ambientarsi nella nuova realtà.
Il nome dell’associazione deriva dalla parola ebraica “bait” che significa “casa”.
Oggi a causa della guerra con Hamas sempre più cittadini israeliani si sono trasferiti nel comune della zona che si estende da Borgosesia passando per Varallo, Cravagliana, Civiasco, Balmuccia e Scopello, fino a Rimasco.
“Dal 7 ottobre in poi la nostra associazione ha avuto un ruolo fondamentale” ha affermato Luzzati, spiegando che entro la fine del 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite nell’area e 400 di loro sono soci del Progetto Baita.
• Gli israeliani della Valsesia
Come precisato da Luzzati, quasi tutti i nuovi arrivati sono laureati e ricoprono posizioni di rilievo: medici, ingegneri, informatici e farmacisti.
“Durante gli ultimi convegni sulla sanità si è iniziato a parlare della possibilità di coinvolgere questi professionisti nelle strutture locali” ha raccontato il fondatore di Progetto Baita.
In modo da agevolare la propria transizione molti israeliani hanno scelto di frequentare corsi di lingua italiana prima dell’arrivo a Valsesia e chi ha già dimostrato dimestichezza con il nuovo idioma si è inserito velocemente trovando subito lavoro.
Come affermato su Il Foglio da Gianni Tognotti, ex sindaco di Rimasco e vicepresidente del Progetto Baita, i nuovi arrivati prediligono terreni e case indipendenti in pietra, tipiche della zona, ‘comode e sicure ma con la possibilità di dotarsi di collegamenti a internet’.
“È ammirevole la volontà di queste persone di integrarsi a pieno nel territorio. Molti in età pensionabile hanno chiesto di poter aiutare le associazioni locali come volontari” ha spiegato l’ex sindaco sottolineando che persino le scuole hanno raggiunto un indice di produttività e presenza che non si vedeva dagli anni ’60.
A Varallo la pronipote del premio Nobel per la letteratura Shmuel Yosef Agnon ha aperto un corso di ebraico riservato a classi di 30 italiani per agevolare la comunicazione con i nuovi arrivati. Questa cultura di integrazione è stata molto apprezzata anche sui social, aggiudicandosi diversi commenti di approvazione.
“Prima del loro arrivo il nostro era un territorio a rischio di desertificazione demografica. Oggi siamo rinati e, insieme, possiamo rendere ancora più bella la nostra comunità” ha concluso Tognotti.
(Bet Magazine Mosaico, 16 marzo 2025)
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