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Notizie 1-15 novembre 2019


Regge la tregua a Gaza

Decisiva la mediazione dell'Egitto e dell'Onu. La Jihad rivendica: "Israele ha promesso la fine degli omicidi di mirati"

di Giordano Stabile

Fra Israele e la Jihad islamica di Gaza è tregua dopo due giorni di scontri di una intensità senza precedenti. L'accordo è stato raggiunto nella notte fra mercoledì e giovedì e ha retto nonostante il lancio di almeno cinque razzi nel corso della giornata di ieri. La mediazione di Egitto e Onu ha alla fine convinto la leadership del gruppo jihadista, che alle 5 e 30 del mattino ha confermato il cessate-il-fuoco. Oltre alle pressioni dei mediatori sono state decisive anche quelle di Hamas, il movimento che governa la Striscia dal 2007, ora scavalcato in estremismo. La Jihad ha rivendicato la fine degli «omicidi mirati» promessa da Israele, anche se non ci sono conferme ufficiali. Hamas ha aggiunto di aver ottenuto la limitazione dell'uso di proiettili veri contro le «marce della pace» che si tengono ogni venerdì.
   I palestinesi sembrano soddisfatti, nonostante le 34 vittime subite, compresi alcuni civili e un bambino. Benjamin Netanyahu ha invece rivendicato in pieno «la vittoria». L'operazione, ha spiegato, «ha avuto successo» e «i nostri nemici hanno ricevuto il messaggio». Cioè il rischio di essere eliminati in qualsiasi momento, come accaduto al leader dell'ala militare della Jihad, Baha Abu al-Ata, ucciso martedì in un raid chirurgico contro la sua abitazione. I palestinesi contano anche 97 feriti, mentre 50 israeliani sono stati ricoverati per ferite lievi o in stato di choc.
   I jihadisti hanno però dato prova della loro pericolosità. In 48 ore hanno lanciato 400 razzi, mentre durante l'operazione Piombo Fuso (2008-2009) in venti giorni Hamas era riuscita a utilizzarne 380. Questo ridimensiona in parte il successo rivendicato da Netanyahu e cioè l'aver «fatto fuori un comandante della Jihad islamica assieme a decine di terroristi e di importanti infrastrutture». L'arsenale del gruppo jihadista era temuto dalle forze armate israeliane, tanto che l'operazione contro Abu al-Ata era già pronta da due anni ma è stata tenuta in sospeso. Finché il premier e il neoministro della Difesa Naftali Bennett hanno deciso di correre il rischio, anche su consiglio del direttore dei Servizi interni, lo Shin Bet, Nadav Argaman.
   Ieri l'esercito ha tolto le restrizioni di sicurezza e la gente è tornata alla vita normale. Sono stati anche riaperti il valico pedonale di Erez e quello commerciale di Kerem Shalm con Gaza. Uno sporadico lancio di razzi, cinque in tutto, non ha influito sull'accordo, anche se il ministro degli Esteri israeliano, Yisrael Katz, ha ribadito che Israele manterrà il cessate il fuoco fino a quando le milizie palestinesi rispetteranno i patti: «Alla calma risponderemo con la calma».

 II nodo del governo
  Netanyahu ora torna alle battaglie politiche. La situazione di emergenza ha ridato fiato a fautori di un governo di unità nazionale, compreso il suo sfidante all'interno del Likud, Gideon Saar. Il problema è che il leader dell'altro grande partito e premier incaricato, Benny Gantz, ha posto come condizione che Netanyahu ne stia fuori. Ha ancora una settimana per riuscire a trovare una maggioranza. Poi si rischiano le terze elezioni anticipate.

(La Stampa, 15 novembre 2019)


Il Pd ammette alla Camera: c'è antisemitismo a sinistra

di Alberto Giannoni

L'antisemitismo di sinistra esiste eccome, e non è molto diverso da quello di matrice opposta. L'antisemitismo di sinistra esiste, e a volte può essere perfino più insidioso, capace com'è di mimetizzarsi (anzi di «nascondersi schifosamente») in forme generalmente considerate più presentabili.
   Dopo giorni di polemiche spesso un po' insincere, l'accecante verità sull'odio antiebraico è stata finalmente svelata in un dibattito istituzionale dentro un'aula parlamentare, protagonisti Francesco Lollobrigida ed Emanuele Fiano. Il deputato Pd, tenendo fermo il punto sulla gravità e l'attualità della minaccia antisemita di estrema destra, ha ammesso chiaramente che esiste anche altro, «oltre a questo»; ha denunciato di avere ricevuto minacce «anche da coloro che si ritengono amici del popolo palestinese» e ha citato le assurde contestazioni patite dalla Brigata ebraica durante i cortei del 25 aprile. Sa bene di cosa parla Fiano, che è presidente della Comunità ebraica di Milano, dove da 15 anni le bandiere della formazione sionista che partecipò alla Liberazione dell'Italia vengono oltraggiate dai centri sociali. A Milano, d'altra parte, sono stati contestati - da «sinistra» - anche i reduci dei campi di sterminio (nel 2015) e il 25 aprile scorso l'ultimo sopravvissuto a Mauthausen è stato insultato da un antagonista, in un episodio talmente disgustoso da far dire all' Aned (l'Associazione nazionale degli ex deportati nei campi nazisti) che «in oltre 50 anni neanche i fascisti l'avevano mai fatto».
   Con un breve intervento in apertura di seduta, era stato il capogruppo di Fdi ad aprire la discussione sul tema, sollevando i casi di «chef Rublo» e dell'assessora napoletana Eleonora de Majo. Il primo da tempo sfoga in rete un irrefrenabile odio anti-israeliano in un crescendo di incontinenza verbale che pare essergli costato il posto in un programma tv (nonostante lo sciagurato intervento del renziano Michele Anzaldi che ha auspicato per lui un programma Rai). La seconda, appena nominata dal sindaco partenopeo Luigi De Magistris, si è avventurata nel più odioso e infondato degli stereotipi, paragonando Israele e al nazismo e insultando l'ideale sionista, che da 120 anni vuole assicurare una casa sicura al popolo ebraico. Le affermazioni dell'improvvida assessora hanno suscitato comprensibile sconcerto nella Comunità ebraica di Napoli, ma sono state difese da De Magistris, che d'altra parte in passato ha voluto concedere la cittadinanza onoraria al successore di Yasser Arafat, Abu Mazen, e poi a Bilal Kayed, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. E Mara Carfagna, che ieri come vicepresidente presiedeva i lavori della Camera, da consigliera comunale ha strenuamente osteggiato queste scelte, frutto di una sorta di malintesa «politica estera» municipale, la stessa che di recente ha visto un altro sindaco, il palermitano Leoluca Orlando, intitolare un tratto del lungomare allo stesso Arafat, storico patrocinatore del mondo terrorista palestinese.
   Fiano, senza troppi giri di parole, ha definito «immonde» le parole dello «chef» e «inaccettabili» le dichiarazioni dell'assessora, sottolineando che il paragone Israele-nazismo «trascende nei tratti dell'antisemitismo». Paradossale, ma eloquente, la circostanza che di tutto ciò si discuta mentre le città e i civili israeliani sono sotto il tiro di un numero senza precedenti di razzi che piovono da Gaza, la cui jihad è foraggiata dall'Iran che nega la Shoah.

(il Giornale, 15 novembre 2019)


L'assessore: mi oppongo a Israele e non mi faccio intimidire

Non sono espressioni come “un manipolo di assassini” o “porci accecati dall’odio”, riferentesi ai governanti dello Stato d’Israele, quelle che devono essere sottolineate per accusare di antisemitismo Eleonora De Majo, assessora alla cultura del comune di Napoli. Fino a questo punto infatti si rimane sul classico. Al punto che qualcuno potrebbe portare a giustificazione l’uso di un certo linguaggio comune, comprensibile quando si tratta di ebrei, che scappa di mano quando si vogliono esprimere generici sentimenti di indignazione emotiva. E’ importante invece sottolineare l’aspetto elevato e ragionato degli argomenti con cui l’assessora, in questa sua pubblica dichiarazione, vuole convincere i suoi oppositori della nobiltà dei suoi motivi e delle sue azioni. Ascoltiamola dunque. M.C.

di Eleonora De Majo
Assessore alla Cultura del Comune di Napoli

Essere radicalmente critici verso l'apartheid che lo Stato di Israele pratica nei confronti del popolo palestinese non ha nulla a che fare con l'antisemitismo Rivolgo un appello al sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, per la concessione della cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre. La mia opposizione alle politiche israeliane è figlia della stessa insopprimibile esigenza di schierarmi in difesa della Segre, vittima di antisemitismo vero.

Rivolgo un appello al sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, per la concessione della cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre, vittima di un'intollerabile ondata di insulti antisemiti e minacce di morte provenienti dall'estrema destra, che hanno costretto le autorità a assegnarle una scorta.
   Mi sembra il modo migliore per rispondere concretamente alle surreali accuse di antisemitismo che mi sono rivolte in queste ore, accogliendo una sopravvissuta all'orrore di Auschwitz, dove era stata deportata poco più che tredicenne, come membro della nostra comunità cittadina. In linea con l'operato che questa amministrazione porta avanti dal 2011, schierandosi sempre e comunque dalla parte di chiunque sia discriminato, offeso, minacciato, in pericolo di vita, o in una posizione di subalternità inaccettabile.
   Sono abituata da sempre, nel corso della mia militanza politica nata e sviluppatasi nei collettivi studenteschi e nei centri sociali, ad assegnare il primato alla realtà e ai gesti concreti. Da qui nasce il mio impegno contro ogni razzismo, che sia quello verso gli stranieri in Italia, i meridionali al nord, gli italiani all'estero, dove anche io ho maturato più di un'esperienza. Ci ho messo sempre la faccia contro le discriminazioni etniche, di genere, religiose, di censo, includendo per ovvie ragioni anche il duro contrasto all'antisemitismo, che è una piaga della civiltà occidentale da secoli.
   Ma c'è un margine politico per il quale schierarsi contro le politiche sioniste dello Stato di Israele non venga confuso tout court come "odio verso gli ebrei" in quanto tali? Se oggi, proprio mentre state leggendo queste righe, i missili israeliani continuano a colpire la prigione a cielo aperto di Gaza, provocando morti, feriti, traumi psicologici fra la popolazione civile, in un quadro di evidente sproporzione fra le forze in campo, possiamo denunciarlo senza che l'antisemitismo diventi la foglia di fico dietro la quale nascondere l'aggressione sistematica verso i palestinesi e la violazione del diritto internazionale?
   "Essere radicalmente critici verso l'apartheid che lo Stato di Israele pratica nei confronti del popolo palestinese non ha nulla a che fare con l'antisemitismo". L'ho scritto ieri e lo rivendico. Non sono la sola, a partire dalla famigerata lettera firmata da Einstein e altre personalità ebraiche, pubblicata dal New York Times nel 1948, che denunciava metodi affini a quelli del fascismo e del nazismo nelle modalità attraverso le quali si stava costituendo lo Stato di Israele.
   Sulle stesse posizioni si sono attestati nel corso del tempo accademici di origine ebraica come Norman G. Finkelstein, autore del famoso testo "La fabbrica dell'olocausto", in cui afferma che mentre lo sterminio degli ebrei è un fatto storicamente accertato, l'olocausto ne rappresenta la narrazione ideologica finalizzata alla progressiva oppressione della Palestina. E' antisemita Finkelstein, i cui genitori ebrei hanno vissuto l'esperienza del ghetto di Varsavia e condiviso con Liliana Segre la deportazione ad Auschwitz?
Nessuno pensi perciò di intimidirmi, perché la mia opposizione alle politiche israeliane è figlia della stessa insopprimibile esigenza di schierarmi in difesa della Segre, vittima di antisemitismo vero. Minacciata di morte dall'estrema destra per il semplice fatto di essere ebrea. Nulla a che vedere con la mia scelta politica di sostenere le vittime e non i carnefici, qualsiasi divisa indossino, qualsiasi passaporto abbiano in tasca, qualunque lingua parlino.
   L'umanità a cui mi rivolgo è una sola: quella degli oppressi di ogni Paese, cultura, genere e religione. Non mi farete tacere con la vostra macchina del fango che procede a colpi di account fasulli creati ad hoc per gettare discredito contro persone che come me, da sempre, ci mettono la faccia, assumendosi in pieno la responsabilità delle proprie posizioni politiche.

(Il Mattino, 15 novembre 2019)


A proposito di foglie di fico: "La mia opposizione alle politiche israeliane è figlia della stessa insopprimibile esigenza di schierarmi in difesa della Segre, vittima di antisemitismo vero". Sbandierare l’«icona Segre» con ampi gesti, come quello di chiederne la cittadinanza onoraria a Napoli, serve a coprire l'ultima forma di antisemitismo che si chiama “antisionismo”. M.C.


La Segre: «Io al Quirinale? Improponibile»

Non se ne parla. Liliana Segre non ci pensa proprio ad "accettare" la candidatura per il Quirinale. «Improponibile», ha fatto sapere ieri sera la senatrice a vita - che attualmente siede nel gruppo Misto di Palazzo Madama - con una nota.
   A lanciare il nome di Segre per il Colle - sul quale dal 2022 siederà il successore di Sergio Mattarella, eletto il 3 febbraio 2015 - era stata Lucia Annunziata sull'Huffington Post. La giornalista aveva proposto il nome della senatrice a vita - da giorni sotto i riflettori, prima per il varo della Commissione parlamentare sull'odio e l'intolleranza; poi per l'assegnazione della scorta dopo le minacce ricevute - nel corso di un seminario a Milano.
   «Vogliamo far partire da qui, da questo convegno, la proposta di candidare Liliana Segre - superstite dell'Olocausto - alla presidenza della Repubblica, per togliere il Quirinale dalla partigianeria della politica», aveva detto Annunziata. Idea subito accolta dal direttore di Repubblica, Carlo Verdelli: «Sottoscriviamo all'inizio di questa giornata una proposta alta e nobile. L'idea di Lucia Annunziata e dell'Huffington Post di candidare Segre significa candidare un simbolo che racconta un'altra visione dell'Italia. La notizia della scorta data a Segre, in seguito a minacce subite, ha scosso il mondo. Ci sarà una commissione anti-odio esperiamo che Segre, che ha sempre predicato la pace, resista alle pressioni che sta subendo. So che è turbata».
   Ma ieri la senatrice a vita si è tirata fuori dalla contesa, sulla quale peraltro i partiti della maggioranza giallorossa hanno già iniziato a fare un pensierino. «Ringrazio le persone che hanno proposto la mia candidatura al Quirinale ma, ovviamente, per motivi sia anagrafici che di competenza specifica tale candidatura va considerata improponibile».
   Parole che non ammettono retropensieri. Del resto subito dopo Segre tesse le lodi di Mattarella, il capo dello Stato che l'ha nominata a Palazzo Madama il 19 gennaio 2018. «C'è un presidente in carica che sta svolgendo il suo compito di garanzia costituzionale con rigore ed efficacia e che gode di grande popolarità e prestigio in Italia e all'estero».
   Insomma, chi già pregustava la chiusura della gara per il Quirinale del 2022, dovrà cercare un altro nome. T.M.

(Libero, 15 novembre 2019)


Le vere "line rosse" varcate dalla Jihad Islamica palestinese

La Dottrina della Responsabilità Limitata che piace ai nemici arabi d'Israele: facciamo la guerra, se vinciamo bene, altrimenti tutto deve rimanere come prima.

Non sorprende che, dopo l'uccisione a Gaza del capo terrorista Bahaa Abu al-Atta in un attacco aereo israeliano, il portavoce della Jihad Islamica palestinese Fawzi Barhoum abbia immediatamente dichiarato che Israele aveva varcato una "linea rossa" e che ora il suo gruppo si trovava in guerra con Israele.
Il signor Barhoum si è dimenticato di menzionare il fatto che, tra il 1987 e il 2006, la Jihad Islamica palestinese ha rivendicato più di 30 attentati suicidi. Dopo quell'anno, la maggior parte delle sue aggressioni è consistita in indiscriminati lanci di razzi e colpi di mortaio sulla popolazione civile nel sud di Israele con l'intento di mietere il più alto numero possibile di vittime (Bahaa Abu al-Attara aveva diretto, fra l'altro, il lancio di razzi di fine agosto su un festival musicale a Sderot a cui partecipavano circa 4.000 e l'escalation di 700 razzi nel maggio 2019 conclusa appena prima dell'inizio dell'EuroFestival a Tel Aviv e costata la vita a quattro israeliani, ndr). Il signor Barhoum ha anche omesso di ricordare che la Jihad Islamica palestinese è considerata un'organizzazione terroristica dalle autorità di paesi come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti ed è elencata dall'Unione Europea tra le organizzazioni da sanzionare con misure finanziarie anti-terrorismo....

(israele.net, 15 novembre 2019)


Venezia e l'acqua devastatrice, una risposta ebraica alla crisi

di Adam Smulevich

L'immagine di Venezia devastata lascia senza fiato. Un dolore che è dei veneziani, prima di tutto. Ma che è sentimento diffuso nel Paese e nel mondo intero. La mobilitazione per la solidarietà è globale.
   Ci saranno grandi interventi da fare e ferite da ricucire. I responsabili di questo sfacelo, se delle colpe umane saranno accertate, dovranno pagare. Soprattutto sarà però necessario un improcrastinabile scatto di consapevolezza. La posta in gioco è enorme. Come molti osservatori indicano il futuro stesso di Venezia è a rischio.
   Presentato nelle scorse settimane a Gerusalemme, dove è ancora in mostra nell'ambito della Biennale che vi si sta svolgendo, il progetto "Living Under Water" ideato da Beit Venezia cerca di indicare una via attraverso la storia e i valori ebraici. Un progetto sofisticato, cui è dedicato ampio spazio sul numero di novembre di Pagine Ebraiche, ma che è al tempo stesso alla portata di tutti attraverso parole, immagini, un percorso ben costruito. Il risultato dell'elaborazione concettuale originata dalla creatività di sei artisti che sono stati invitati nel 2018 in Laguna per un confronto sul tema del cambiamento climatico svoltosi nell'arco di tre settimane, coinvolgendo in alcuni incontri anche la comunità ebraica.
   "Una città unica e fragile" si legge nella presentazione del progetto, illustrato a Gerusalemme dalle due anime di Beit Venezia, i professori Giuseppe Balzano e Shaul Bassi. "L'arte ebraica - il loro messaggio - può aiutarci a continuare a vivere al di sopra dell'acqua".
   "Living Under Water" parla attraverso le immagini, evidentemente. Ma in realtà si è andati molto oltre, condensando in una riuscita zine distribuita a Gerusalemme il meglio della riflessione ebraica, contemporanea e non, sulla tutela del creato e sulle scelte che questa ci impone.
   "Se interpretiamo il nostro ruolo di padroni della terra come un'opportunità unica per servire veramente e prenderci cura del pianeta, delle sue creature e delle sue risorse - sottolinea ad esempio rav Jonathan Sacks, ex rabbino capo d'Inghilterra e del Commonwealth e tra i pensatori più influenti in circolazione - allora potremo davvero rivendicare il nostro status di amministratori del mondo e far crescere le nuove generazioni in un ambiente molto più vicino a quello dell'Eden".
   Serva una ferma presa di coscienza, avvisano gli artisti coinvolti. "La mia più profonda speranza - scrive l'artista Andi Arnovitz - è che tutti noi, artisti, studiosi, Beit Venezia, si sia riusciti a dar vita a qualcosa che sarà usato, diffuso, citato ed esaminato, dibattuto, condiviso e meditato. Una singola immagine può infatti scuoterci dal nostro torpore. Qualunque cosa troviate in queste pagine che possa aiutare a ripensare abitudini consolidate e a facilitare il cambiamento e l'azione a livello personale avrà reso l'intero progetto un'esperienza che è valsa la pena fare".
   C'è un pianeta da salvare. E da Venezia arriva in queste ore difficili anche un messaggio di speranza.

(moked, 14 novembre 2019)



*


Beit Venezia, un laboratorio sempre aperto

Shaul Bassi e Giuseppe Balzano a Gerusalemme durante l'inaugurazione di "Living Under Water"
"Beit Venezia è da tempo un laboratorio di idee e progetti. In questo senso 'Living Under Water rappresenta senz'altro il nostro più importante contributo alla riflessione su temi generali attraverso una lente ebraica. Uno stimolo a proseguire. perché la direzione è quella giusta".
   Non nasconde la soddisfazione Giuseppe Balzano, presidente di Beit Venezia. La Biennale a Gerusalemme si sta rivelando un grande successo. Per la qualità degli argomenti proposti, che hanno riscontrato un notevole interesse nel pubblico e tra gli addetti ai lavori. Ma anche per il modo in cui questi sono stati veicolati, anche attraverso l'apprezzatissima zine distribuita al presenti, e per l'Immagine di cui Il centro oggi gode anche all'estero.
   "Negli ultimi 10 anni - riflette Balzano - siamo stati spazio e luogo di incontro per artisti, studiosi, studenti e un pubblico ampio. Partendo da Venezia siamo arrivati, con un progetto di qualità, a Gerusalemme. L'ambizione è di continuare a sviluppare iniziative di un certo livello, che lascino il segno".
   Riconoscendo nel Ghetto di Venezia un crocevia storico dell'esperienza ebraica internazionale, missione del centro è "promuovere la ricerca scientifica, la creatività artistica, la formazione e la divulgazione a ogni livello". E ciò attraverso "corsi, conferenze, seminari, pubblicazioni, mostre, laboratori e altre forme educative" con cui si cerca di promuovere e diffondere la cultura e la storia ebraica, con particolare ma non esclusivo riferimento alla vita ebraica veneziana e italiana.
   In questa prospettiva si inserisce ad esempio il simposio "The Library of Memory" che Beit Venezia ha contribuito ad organizzare in settembre. un confronto a più voci sul libro come forma di memoria collettiva, sulle ferite del Novecento e la loro trasmissione su pagine di carta, sul ruolo degli ebrei veneziani nella storia della stampa. Ma anche l'occasione per un focus specifico sulla letteratura d'esilio, attraverso una installazione di Edmund de Waal accolta negli spazi dell'Ateneo veneto e del Museo ebraico veneziano che ha anche acceso uno stimolante dialogo che ha avuto come protagonisti lo stesso de Waal e lo scrittore israeliano David Grossman.
   Tra i molti progetti sostenuti da Beit Venezia anche un workshop tenutosi negli stessi giorni, organizzato assieme allo staff della Jewish Book Week che si terrà nel marzo del prossimo anno a Londra. ospiti del seminario, declinato sul tema dell'identità, giovani scrittori e traduttori arrivati da vari Paesi. L'inizio di una collaborazione che, sottolinea Balzano, "ci si augura possa durare nel tempo".

(Pagine Ebraiche, novembre 2019)



Cessate il fuoco tra Israele e Jihad Islamica. Una lezione per i terroristi

Perché tutti sono bravi a fare minacce a Israele, tutti sono bravi a mandare a morire la manovalanza, ma quando si tratta della loro vita diventano tutti improvvisamente più ragionevoli.

di Sarah G. Frankl

Da questa mattina alle ore 05:30 è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Jihad Islamica ottenuto con la mediazione dell'Egitto.
A confermarlo è il portavoce della Jihad Islamica, Musab al-Berim, il quale ha affermato anche che sarebbero state accolte alcune richieste avanzate dal gruppo terrorista legato all'Iran, tra le quali la fine delle uccisioni mirate dei loro leader.
Israele conferma indirettamente il cessate il fuoco ma non l'impegno a mettere fine alle uccisioni mirate. «Israele farà del male a chiunque cerchi di fargli del male» si legge in una nota del Ministero degli Esteri.
Il lancio di razzi è proseguito fino alle 02:30 con il sistema Iron Dome che ha intercettato diversi missili diretti contro agglomerati civili.

 Jihad Islamica abbandonata a se stessa
  Il fatto forse più importante di questa escalation scaturita dall'uccisione mirata del capo della Jihad Islamica a Gaza, Bahaa Abu al-Atta, e dal contemporaneo tentativo di uccidere Akram al-Ajouri, importante membro della Jihad Islamica a Damasco, è che nessuno ha seguito i terroristi legati all'Iran.
Hamas non ha alzato un dito, da Damasco nonostante l'attacco israeliano nel centro della città, nemmeno una parola di protesta, dall'Iran e da Hezbollah poche minimali proteste e solite minacce, ma nulla di che, nulla di più del solito.
La parola magica è "uccisioni mirate". Erano anni che Israele non adottava la tecnica di colpire i leader terroristi.
Il fatto di aver colpito due dei più importanti membri della Jihad Islamica in quelli che erano considerati rifugi sicuri, addirittura uno a Damasco in Siria, ha dimostrato che gli israeliani sono in grado di colpire chiunque, dovunque e in qualsiasi momento.
I leader di Hamas devono aver sentito un brivido scorrere nella schiena, così come quelli di Hezbollah.
Specialmente nel caso di Akram al-Ajouri, "scovato" a Damasco, gli israeliani hanno dimostrato non solo di sapere esattamente dove colpire ma anche che non si fanno problemi a colpire ovunque.
Perché tutti sono bravi a fare minacce a Israele, tutti sono bravi a mandare a morire la manovalanza, ma quando si tratta della loro vita diventano tutti improvvisamente più ragionevoli.

(Rights Reporters, 14 novembre 2019)


Vivere sotto i razzi al confine con la Striscia dove 15 secondi separano la vita e la morte

Nel Sud dello Stato ebraico i civili tentano di convivere con le sirene. Negozi e strade chiusi. I bambini sanno già tutto della guerra. I palestinesi che lavorano nei kibbutz corrono nei rifugi assieme agli ebrei.

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - Sono notti di luna piena che all'alba tramonta sul mare. Sono le sole ore in cui i razzi lanciati da Gaza verso Israele s'interrompono. Lo sconcerto del primo giorno, quando le sirene si sono sentite anche a Florentin, il quartiere hipster a Sud di Tel Aviv, ha lasciato il posto ai rituali di circostanza - così frequente da queste parti - che si ripetono sui social media e nella realtà.
   I turisti in arrivo chiedono su Facebook se viaggiare in Israele adesso è sicuro. Nel gruppo «Italiani in Israele», tra chi cerca panettoni a Gerusalemme e chi s'informa sulla validità del suo diploma in agopuntura, gli italiani in partenza si rivolgono ai connazionali che vivono qui: quanto è sicuro? «Più sicura di Tel Aviv non c'è nessuna città» è la prima risposta. Il tenore di quelle successive è identico.
   L'account Instagram di Tel Aviv ha virato su un profilo un po' più basso del solito: un surfista guarda il tramonto sul mare e augura ai follower una serata tranquilla. Un ragazzo sul lungomare, accanto al monopattino elettrico, invita alla calma e a tornare in spiaggia. A migliaia piovono i like, a decine i commenti di solidarietà. Ma Tel Aviv è famosa per essere una bolla e le reazioni dei suoi abitanti, quelli più giovani soprattutto, anche quando spaziano dal cinismo all'ironia, nascondono la necessità di tenersi in equilibrio tra voglia di normalità e senso d'insicurezza. Sono antidoto alla tensione, servono per sdrammatizzare.

 Sentirsi vicini con i red alert
  A ridosso della Striscia la situazione è molto diversa. Si capisce dalle notifiche della app «Red Alert», strumento che non solo serve come supporto all'allarme delle sirene ma consente di sentirsi più vicini ai figli arruolati, d'istanza proprio al Sud, o agli amici che vivono intorno all'enclave costiera palestinese. Al telefono, Alon Alseich, membro del kibbutz Nir Am, racconta di un enorme lavoro dietro le quinte. «Tenersi informati è fondamentale per la sicurezza. Io mi occupo di aggiornare i canali di comunicazione tra l'esercito e gli abitanti di dieci kibbutzim e un moshav. Le vie principali sono chiuse al traffico di civili, troppo esposte al lancio dei razzi. Ci possiamo muovere in auto, solo se necessario, lungo strade secondarie. Quasi tutti i negozi sono chiusi oppure aprono per un paio d'ore al giorno». E poi c'è la famiglia: la moglie, due figli (9 e 11 anni) e un cane. «Cuciniamo e mangiamo insieme. Facciamo brevi passeggiate. I ragazzi guardano i film o giocano al computer. Il loro gioco preferito è un video game di guerra. Li senti parlare, tra di loro, per finta, di armi e obiettivi colpiti. E poi al suono della sirena i razzi entrano nel loro mondo reale. Sanno già tutto della guerra e dei missili». E sanno già come si devono comportare quando suonano le sirene. «Abbiamo 15 secondi per ripararci nella stanza blindata, che è poi la camera di mio figlio maggiore. Mia moglie dice che sono 13. Lo so che suona surreale, ma sono preoccupato per il cane, mostra segni di stress per le sirene e le esplosioni. Ho comprato delle pillole ma non gliel'ho ancora date». Nir Am è a 4 km dal confine con la Striscia. «La cosa più fastidiosa è il rumore: quello dei razzi da Gaza, quello delle batterie antimissili, delle esplosioni. Ci sono diversi Iron Dome qui intorno». E poi c'è l'ironia della sorte. «Ho visto palestinesi, che lavorano nelle aziende agricole dei kibbutz, ripararsi nei rifugi con noi, per proteggersi dai razzi».
   Netanyahu, ieri pomeriggio, ha parlato al telefono con le autorità locali della zona. Ha detto che è stata rafforzata la deterrenza con nuovi mezzi che i nemici non potevano nemmeno immaginare. «Non so esattamente cosa significhi ma effettivamente abbiamo la percezione che l'esercito stia agendo diversamente dal solito. Sembra tutto più organizzato. E questo ci rassicura».

(La Stampa, 14 novembre 2019)


"C'è un patto degli arabi con Gantz per liberarsi di Netanyahu"

Difficile dire se lo scontro tra Israele e jihadisti di Gaza possa sfociare in una guerra, mentre si lavora a un'intesa tra partiti arabo-israeliani e nuovo governo.

di Filippo Landi

Il conto delle vittime nella striscia di Gaza è salito a 23 e oltre 70 sono i feriti. È il bilancio della risposta militare di Israele al lancio di razzi, che hanno colpito anche un'autostrada, da parte dei gruppi islamisti radicali che operano nella Striscia, scatenato a loro volta come risposta all'uccisione mirata di un leader della Jihad islamica palestinese, Baha Abu al Ata. Come sempre, alla luce della tensione continua tra Palestina e Israele, sorge la domanda: si tratta dell'ennesimo scontro temporaneo, come già successo tante volte, o si corre il serio pericolo che tutto possa sfociare in un conflitto più grave? Secondo l'ex corrispondente Rai in Medio Oriente e profondo conoscitore della regione, Filippo Landi, il quadro è in veloce evoluzione: "In Israele, dopo le ultime elezioni, si registra una situazione molto fluida, che potrebbe portare anche a cambiamenti di grande spessore. Il leader del partito centrista Blu e Bianco, l'ex generale Benny Gantz, incaricato di formare il nuovo governo, sta lavorando a un'apertura nei confronti dei partiti arabo-israeliani, che rappresentano il 20% della popolazione". Allo stesso tempo, aggiunge Landi, nel caotico quadro attuale del Medio Oriente, Israele si trova spiazzata dall'inversione di marcia di Trump nei confronti dell'Iran.

- Siamo di fronte a un conflitto limitato nel tempo o c'è il rischio che la situazione sfugga di mano? Hamas che ruolo sta giocando tra Israele e i gruppi della Jihad islamica palestinese?
  Come fanno notare in questi giorni alcuni giornali israeliani, Israele viene colpita e a sua volta colpisce la Jihad islamica mentre allo stesso tempo va avanti una trattativa segreta con Hamas, finalizzata al mantenimento di una tregua, che dovrebbe essere permanente. Se però il numero delle vittime a Gaza dovesse aumentare, la situazione potrebbe cambiare.

- In che direzione?
  Hamas potrebbe cedere alle pressioni del popolo di Gaza e iniziare un'azione parallela a quella intrapresa dalla Jihad islamica, fermo restando che sul lungo periodo entrambi i gruppi si considerano troppo deboli per dare inizio a uno scontro a tutto campo con Israele.

- È vero quanto riportano alcuni media che la morte di al Ata sarebbe considerata non del tutto negativa da Hamas, perché ritenuto un leader troppo radicale ed estremista?
  I rapporti fra Hamas e Jihad sono conflittuali non da oggi. Diverse volte Hamas è intervenuta, anche pesantemente, sui militanti radicali perché i suoi ordini venissero rispettati in tutta la Striscia di Gaza. Va poi aggiunto che a trattare non è solo Hamas, perché in questo momento c'è anche la politica israeliana nel suo complesso a interloquire con la Jihad.

- Il quadro del Medio Oriente è molto complicato, tra l'espansionismo di Erdogan, la crisi apertasi in Libano e il ruolo dell'Iran. In che modo tutto ciò influisce sullo scontro tra Israele e palestinesi?
  In questa situazione difficile e conflittuale in tutto il Medio Oriente sta emergendo un particolare nuovo. Per la prima volta in Israele i partiti arabi israeliani, che rappresentano la minoranza dei palestinesi in Israele, hanno assunto un ruolo nuovo. E questo attentato mirato va letto proprio all'interno di quello che sta succedendo a Gerusalemme.

- Di quale fatto nuovo si tratta?
  La persona che in questo momento sta cercando di formare un governo, il generale Benny Gantz, ha aperto un dialogo con questi partiti. Una cosa mai successa prima, anche se la prospettiva di un loro ingresso in un possibile governo non ha ovviamente possibilità di realizzarsi.

- Ma questo dialogo cosa rappresenta?
  La politica israeliana diventa interlocutrice della Jihad, che è contro ogni possibile intesa fra partiti arabi e un futuro governo israeliano. È anche interesse di Netanyahu, primo ministro ancora in carica, impedire questa intesa, perché il suo obiettivo è un governo di unità nazionale, in cui possa continuare ad avere un ruolo, magari come ministro degli Esteri o della Difesa. Quindi, nel caos generale, la politica in Israele annovera un nuovo protagonista.

- Questa collaborazione tra i partiti arabi e il partito di centro israeliano potrebbe portare a un cambiamento della politica estera di Gerusalemme?
  È molto difficile dirlo, come è difficile prevedere che tipo di sostegno, anche solo sotterraneo, il primo ministro incaricato avrà dai partiti arabi. Certo è che i palestinesi di Israele cercano di limitare il peso politico di Netanyahu e per questo sono disposti a dare un aiuto a Gantz, ex militare che nei confronti dei palestinesi non si è dimostrato una colomba. Ma per una parte del mondo politico arabo ridurre il peso di Netanyahu al momento è l'obiettivo più importante.

- Tornando al quadro mediorientale, che ruolo ha Israele? Come guarda ai sommovimenti in atto in Libano e alla minaccia turca?
  Israele è rimasta sorpresa dal comportamento di Trump. Gli israeliani pensavano che dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e il riconoscimento dell'annessione del Golan, il passo successivo sarebbe stato la formalizzazione di un piano di guerra contro l'Iran. Adesso, nonostante le tante parole del presidente americano e la sua decisione di mettere in crisi gli accordi sul nucleare, Trump sembra diventato molto più cauto. L'ipotesi di un incontro con il presidente iraniano ha scioccato i politici israeliani. In questo quadro Gerusalemme vuole capire le reali intenzioni di Trump, perché al momento non ha per niente chiaro che cosa il presidente americano sia disposto a portare fino in fondo.

(ilsussidiario.net, 14 novembre 2019)


«Sono d'accordo con i burocrati europei»

Lettera al direttore di "Il Foglio"

Mai come adesso sono d'accordo con i burocrati europei che vogliono etichettare i prodotti israeliani lavorati nelle colonie: il consumatore ha diritto di sapere. Certo la lunghezza delle etichette aumenterà, anche perché dopo il made in colonia israeliana, dobbiamo anche mettere il made in paesi che finanziano il terrorismo o sfruttano il lavoro minorile o violano i diritti umani: il consumatore ha il diritto di sapere.
Valerio Gironi



Il direttore Claudio Cerasa risponde:

Nella mattinata di martedì, mentre gli israeliani scendevano nei rifugi antimissile, la Corte di giustizia dell'Unione europea, come ha raccontato ieri Giulio Meotti sul nostro giornale, stabiliva per la prima volta che "i prodotti originari dei territori occupati dallo stato di Israele devono recare l'indicazione del loro territorio di origine accompagnata, nel caso in cui provengano da un insediamento israeliano all'interno di detto territorio, dall'indicazione di tale provenienza". Israele è diventato il primo e unico stato i cui beni provenienti da territori contesi sono marchiati con una speciale dicitura. Ci sono duecento contese territoriali nel mondo, dalla Crimea invasa dalla Russia al Tibet sotto dominio cinese fino a Cipro. Quattro anni fa, il Foglio aprì un comitato di solidarietà anti boicottaggio per promuovere la vendita di prodotti israeliani e invitare ad acquistare ciò che l'Europa vuole invece follemente marchiare. Esiste un modo semplice per rispondere al boicottaggio approvato dalla Corte di giustizia europea: comprare quei prodotti. Vi rioffriamo l'elenco.
Prodotti agricoli: agrumi e pompelmi (Mehadrin, Jaffa), datteri (Mehadrin, Haidaklaim, King Solomon, Jordan River), avocado, mango e melograni (Mehadrin, Kedem, Frutital, Sigeti, McGarlet), frutta secca, disponibili in tutti i supermercati italiani. Sodastream: prodotti gasatori per l'acqua frizzante. Ahava: azienda israeliana di cosmetici prodotti con i famosi fanghi del Mar Morto. In Italia si vende nelle farmacie, erboristerie, profumerie e grandi magazzini come la Rinascente. Vino: Golan Heights Winery e Barkan, due fra i maggiori e più pregiati vini israeliani disponibili in tutte le nostre enoteche. Comprate, please

(Il Foglio, 14 novembre 2019)


Europa ipocrita sulle etichette ai prodotti israeliani

di Fiamma Nirenstein

Mentre tutta la popolazione del sud di Israele è costretta nei bunker da centinaia di missili da Gaza sulle famiglie, mentre i bambini terrorizzati non possono andare a scuola, l'UE promulga l'obbligo per gli Stati membro di etichettare come prodotti di territori occupati i beni prodotti nel West Bank. Come mai non usa la stessa politica sui prodotti del Tibet occupati dalla Cina, o su quelli del Marocco confezionati nei suoi territori occupati, o su quelli di Cipro occupata dalla Turchia o di tante altre zone il cui possesso è in questione? Per Israele e per il diritto internazionale si tratta di territori contesi, non occupati, su cui si deve raggiungere un accordo politico! E non semplicemente sgomberare, come si fece a Gaza da cui adesso piovono missili.
Oltretutto, i primi a essere danneggiati da quelle etichette sono i palestinesi che in buon accordo lavorano e guadagnano nelle strutture israeliane che entrano in crisi per la discriminazione. Che irragionevole scelta è quella dell'UE? Non si capisce che una vera pace si può ottenere solo se i palestinesi accettano una volta per tutte l'esistenza dello Stato Ebraico? Allora si arriverà a discutere i territori. Ma l'istinto europeo che prevale forse è quello antico di etichettare i prodotti degli ebrei per metterli al bando.

(Facebook, 14 novembre 2019)


Si può scegliere di non odiare (come ci insegna Antonio Canova)

di Riccardo DI Segni
Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma

In una bella mostra a Palazzi Braschi a Roma dedicata allo scultore Antonio Canova, c'è un pannello che ricorda cosa gli accadde nel 1798 quando i francesi vennero a Roma e gli proposero di assumere una importante magistratura civica. Per farlo doveva recitare in Campidoglio una formula che iniziava con un solenne giuramento di odiare i sovrani. Canova rifiutò il giuramento e la carica, dichiarando, nel suo dialetto veneto, che non odiava nessuno.
   II tema dell'odio è tornato alla ribalta nelle polemiche politiche di questi giorni con denunce e accuse tra due fronti. La storia di Canova basterebbe a dimostrare come l'odio non sia una novità, e che, in ogni periodo di turbolenza politica e rivoluzionaria, l'odio è strumento di coinvolgimento di masse, forza minacciosa e coagulante consenso. L'Europa ha conosciuto molti di questi periodi turbolenti negli ultimi due secoli. E non c'è stata una grande inibizione, dalle varie parti contrapposte, a predicare odio verso l'avversario. Ma c'erano anche quelli, come Canova, che ne rimanevano fuori.
   I malesseri profondi che agitavano i popoli ai tempi della rivoluzione francese, o nelle lotte di indipendenza nazionale, o nei conflitti sociali e nella Grande Guerra che portarono al comunismo e al fascismo erano micidiali. A confronto con la situazione di oggi, nell'odio che si affaccia come un ingrediente minaccioso nel dibattito europeo e italiano, il rapporto tra malessere sociale e carica di odio appare sproporzionato, come se l'odio fosse una componente strumentale e un collante aggiunto in assenza di idee da proporre. Tutto questo senza sminuirne la gravità.
   Dato che poi quando si parla di odio non può mancare l'antisemitismo, il coinvolgimento degli ebrei diventa inevitabile. E' un dato innegabile l'affiorare, soprattutto nei social, di atteggiamenti violenti ed ostili antiebraici. La novità più recente non è la presenza di sentimenti antisemiti, che c'è sempre stata e perfettamente documentata da studi seri da decenni, ma l'affioramento a galla senza inibizioni, favorito dalle modalità di comunicazione anonima della rete. Controllare questi fenomeni e denunciarli è inevitabile e doveroso. Ma nel passaggio all'uso politico la cautela è d'obbligo e spesso non c'è stata.
   Gli ebrei italiani, per quello che rappresentano per la loro storia e la loro presenza sono stati, secondo un vecchio copione, usati e abusati in questi giorni. Da chi dice che non è un seminatore di odio perché condanna l'antisemitismo (ma tante altre cose no), a chi si serve dell'accusa di antisemitismo per attaccare l'avversario, ma ha idee molto varie su cosa sia l'antisemitismo: guai a insultare una grande figura di testimone e reduce dai campi (e ci mancherebbe) ma via libera a ogni forma di ostilità antisionista.
   La condanna dell'odio sociale non può essere strumentale, non può diventare un polverone che svanisce e lascia solchi ancora più profondi; per essere credibile richiede coerenza, cauta gestione e progettualità.
   A proposito di odio, vorrei ricordare le parole di Enzo Sereni, ebreo romano, socialista e sionista, combattente antinazista catturato e ucciso dal tedeschi: «Sono profondamente turbato quando sento dei capi del movimento operaio incitare all'odio del nemico. lo odio di un odio mortale ogni cosa che si oppone alla liberazione dell'uomo. L'odio che io voglio provocare e coltivare è l'odio al concetto, al regime, e non agli uomini».

(Corriere della Sera, 14 novembre 2019)


Firenze - Apre il consolato d'Israele. Salvini: qui come un amico

L'inaugurazione della sede diplomatica in via della Spada. Botta e risposta tra Nardella e il leghista.

Dopo il caso Segre
Nardella: la presenza dell'ex ministro forse è un ripensamento. La replica: niente lezioni.
Dialogo sull'aeroporto
Il leader del Carroccio a colloquio con Carrai su Peretola: «I fiorentini devono poter viaggiare».

Un'apertura con una presenza ingombrante, quella del consolato d'Israele per Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna, il primo in Italia. Cioè la presenza del segretario della Lega, Matteo Salvini, unico leader nazionale di partito, tra quelli invitati, che si presenta prima all'Altana di Palazzo Strozzi per il convegno «ItaliaIsraele, un legame nella storia» e poi alla sede consolare in via della Spada. Salvini arriva dopo giorni di scontri politici feroci sul voto contrario del suo partito alla Commissione contro odio, razzismo e antisionismo voluta dalla senatrice a vita Liliana Segre. E dopo che sindaci del centrodestra in Toscana hanno fatto un balletto di «sì, no, forse» sulle proposte di cittadinanza
onoraria alla senatrice Segre.
   Un «pas de deux» va in scena però anche ieri a Palazzo Strozzi. Arriva il sindaco Dario Nardella e sulla presenza di Salvini commenta: «Io faccio il sindaco e partecipo a iniziative istituzionali. Salvini? E un libero cittadino, un parlamentare, può fare quello che ritiene. Mi auguro che la sua presenza qui possa anche significare in qualche modo un gesto di ripensamento rispetto all'attenzione che i suoi parlamentari hanno riservato a Liliana Segre nelle aule parlamentari».
   Ecco quindi Salvini, che a Nardella ribatte: «Quando sono stato in Israele l'ultima volta dal premier Netanyahu ho ottenuto il ringraziamento come grande amico d'Israele, quindi, con tutto il rispetto, dal sindaco di Firenze ho poco da imparare». Anche se poi, durante l'intervento in sala, Nardella riconosce la presenza di Salvini a questo evento «come messaggio all'elettorato di centrodestra, perché capisca che Israele e il suo popolo sono una cosa sola». Ma le distanze ci sono.
   Salvini parla dell'inchiesta sui presunti irriducibili fascisti di destra e del loro arsenale: «delinquenti o idioti, vanno o perseguiti o curati». Su Segre ribadisce «il rispetto» per la senatrice ma «un conto è la lotta contro la violenza di qualsiasi colore, di qualsiasi genere, passata presente e future, un conto è fare come fa il Pd, cioè far finta che sia razzismo il diritto degli italiani ad avere la priorità su alcuni servizi, come case popolari, bonus bebè, bonus affitto, bonus famiglia». Salvini non firma il «patto antirazzista» proposto da Nardella su Repubblica Firenze, «prima devo leggerlo». Ma insiste dicendo che «non c'è pericolo di fascismo o comunismo» in Italia, sono invece «fascisti quelli che non vogliono farmi parlare a Bologna». Perché secondo il segretario della Lega «se uno ha un fucile illegalmente il suo posto è la galera, se uno dice che Salvini non può venire a Bologna per quello che mi riguarda è pericoloso anche questo».
   Salvini non parla nella cerimonia-convegno all'Altana. Sul palco ci sono l'ambasciatore israeliano in Italia Dror Eydar, il presidente del Jewish Economie Forum Jonathan Pacifici e Fiamma Nirestein. La giornalista e responsabile europea del Jerusalem Center for Public Affairs ha ripercorso la storia tra i due Paesi fino ai tempi recenti, passando da quella «che ho nel mio sangue, quella di un partigiano della brigata ebraica, Alberto Nirestein, e di una fiorentina, Wanda Lattes», cioè i suoi genitori, con il padre «che organizzava le navi dei profughi dei campi di concentramento verso Israele, dopo la seconda Guerra mondiale, quando gli inglesi non volevano». Poi, tutti a piedi verso la sede del consolato, in via della Spada, l'appartamento dove Carrai (che con Salvini ha parlato di aeroporto: «io sono favorevole, i fiorentini devono potersi muovere», ha detto il leader leghista) e la moglie Francesca Campana Comparini hanno abitato i primi anni dopo il matrimonio «e di cui Francesca ha voluto far omaggio al consolato». M.F.

(Corriere fiorentino, 14 novembre 2019)


Raid israeliano a Gaza: ucciso leader della Jihad. Poi razzi contro Tel Aviv

Eliminato con la moglie. Dopo il lancio di missili dalla Striscia, uccisi altri 5 palestinesi.

Collegamenti
Abu Al Ata era in costante contatto con l'Iran, che perde un interlocutore
La spiegazione
Il premier Netanyahu: « Preparava attentati come fatto in passato»

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - L'ultima volta che Israele compì a Gaza l'eliminazione mirata di uno dei capi terroristi, Ahmad Jabari, nel novembre del 2012, questo causò la guerra con Hamas detta Pillar of Defense. Adesso, col fiato sospeso, si aspettano e si discutono le possibili conseguenze dell'attacco al cuore della Iihad Islamica a Gaza, quando l'esercito ha eliminato, ieri alle cinque di mattina, il potente capo militare del settore Nord, Bahaa Abu Al Ata con un'esplosione che ha risuonato in tutta Gaza.
Dunque, da ieri alle cinque Israele aspetta sotto le bombe e spera: lo stato d'allarme è stato proclamato, si sono aperti i rifugi, le scuole di metà del Paese sono rimaste chiuse, le ferrovie bloccate, le strade quasi deserte. I responsabili della popolazione civile hanno seguitato a chiedere ai cittadini di non esporsi, a scendere nei bunker senza esitare a ogni sirena: insomma, a restare al riparo delle case. Mentre la voce pacata («se siete lontani da casa sdraiatevi per terra con le mani in testa») fluiva dalla radio, la interrompeva ripetutamente la sirena, a Sderot, a Ashkelon, a Ashod, a Beersheba fino a Tel Aviv, e le parole: «zeva adom», colore rosso. La mappa degli obiettivi cui con i suoi missili ha mirato negli ultimi mesi la Jihad Islamica, che Hamas fosse d'accordo oppure no, è larga, ambiziosa, e così è la vendetta. Più di 180 missili sono stati sparati ieri su Israele. Il sistema di difesa «cupola d'acciaio» ha fatto il suo lavoro, intercettandone gran parte. Ma nell'annuncio israeliano la parola Hamas non si è sentita, si è parlato solo di Jihad Islamica, segno che si spera che le cose non degenerino necessariamente in una guerra guerreggiata. Dipende da questo: se Hamas deciderà di affiancare l'organizzazione che con maggiore frequenza attacca Israele o altri piani, nonostante coltivi lo stesso odio. L'Egitto è già all'opera per mediare una tregua. Ma l'Iran è il maggiore finanziatore della Jihad Islamica, con cui era in costante contatto Abu Al Ata, il forte, intraprendente, barbuto leader dell'organizzazione che è stato colpito a casa sua, con sua moglie, in una delle sue rare visite era il grande nesso con gli aiuti iraniani. Più tardi mentre venivano lanciati missili da Gaza, di nuovo l'esercito ha colpito cinque miliziani palestinesi in azione. E le Brigate al-Quds, braccio armato della Jihad Islamica, minacciano una «risposta senza limiti».
   L'Iran è probabilmente doppiamente colpito dalla giornata di ieri: gli ha tolto un interlocutore prezioso e gliene ha probabilmente colpito un altro, anch'esso importante. A Damasco infatti è stato bombardato un edificio accanto all'ambasciata libanese di un importante capo della Jihad Akram al Ajuri. Il ministero degli Esteri iraniano infatti ha emesso un comunicato in cui insieme condanna gli attacchi a Gaza e a Damasco. Netanyahu, spiegando l'attacco a Gaza, ha parlato della certezza che Abu al Ata stesse per compiere attentati che sono così stati fermati: missili, bombe, rapimenti, dopo aver bombardato per mesi tutto il sud d'Israele e aver distrutto una casa a Sderot il primo novembre. «L'uomo era una bomba innescata sulla strada verso altri attentati» ha spiegato Netanyahu e con lui i capi dell'esercito e dei servizi segreti dell'Interno, lo Shin Beth.
   Adesso si spera che le cose non debbano svilupparsi in una guerra: Netanyahu ha sempre pensato che con Hamas la politica di contenimento sia oggi la sola applicabile. Ma lo stillicidio della popolazione civile è proibito, e lo è anche l'alleanza aggressiva con l'Iran: qui Israele ha colpito. Cerca così, contrariamente a quel che può sembrare, una situazione di calma, in cui Gaza non sia trascinata in uno scontro globale islamista come vuole l'Iran.

(il Giornale, 13 novembre 2019)


*


Israele uccide il capo della Jihad palestinese

Gli islamisti rispondono con 200 razzi da Gaza sullo Stato ebraico. Il rischio di un'escalation è il più alto dal 2014.

di Giordano Stabile

Israele uccide il leader del più aggressivo gruppo jihadista a Gaza e la Striscia s'infiamma, con centinaia di razzi lanciati sulle città nel Sud del Paese. Il rischio di un'escalation militare è il più alto dall'estate del 2014 ma questa volta in prima linea non c'è Hamas ma la Jihad islamica palestinese. I suoi militanti hanno lanciato una sfida sia al movimento che governa Gaza dal 2007 che allo Stato ebraico. Hanno trovato appoggio nell'Iran e costituito un arsenale di razzi impiegato anche durante le tregue. Per questo il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di decapitare il gruppo.

 II blitz a Shejlaya
  Nella notte fra lunedì e martedì le forze armate e i servizi d'Intelligence, lo Shin Bet, hanno lanciato un'operazione congiunta. Hanno individuato l'appartamento del leader militare dell'organizzazione, Baha Abu al-Ata, in un edificio nel sobborgo di Shejlaya. Alle 4 e 30 del mattino un missile lanciato da un caccia ha centrato in pieno il terzo piano e l'ha sventrato. L'esplosione è stata udita a chilometri di distanza e Abu al-Ata è morto assieme alla moglie, quattro dei loro figli e un vicino sono rimasti feriti.
   Un'operazione «chirurgica» che ha fatto il paio con un altro raid, alla periferia di Damasco. Un missile lanciato da jet nello spazio aereo israeliano ha distrutto una palazzina e ucciso un altro comandante della Jihad, Alaam al-Ajouri, braccio destro del leader politico Ziad Nahala. Il gruppo gode del sostegno anche della Siria, dopo che Hamas è caduta in disgrazia per l'appoggio alla ribellione sunnita contro Bashar al-Assad. L'asse sciita ha così trovato un sostituto, sunnita pure questo ma vicino alle sue posizioni, per tenere sotto pressione Israele. Ed è per questo che era considerato il più pericoloso. Netanyahu ha spiegato che Abu al-Ata aveva«ideato e condotto numerosi attacchi terroristici, lanciato centinaia di razzi sulle nostre comunità: stava pianificando nuovi attentati, era una bomba a orologeria». Il capo delle forze armate Aviv Kochavi ha aggiunto che aveva «sabotato tutti gli sforzi per arrivare a un cessate-il-fuoco».

 La rappresaglia
La reazione è stata furibonda. Oltre duecento razzi sono stati lanciati da Gaza verso tutte le città del Sud, fino a Tel Aviv. In serata si contavano diciassette feriti lievi. Scuole e uffici sono rimasti chiusi. Le autorità hanno chiesto alla popolazione di limitare gli spostamenti. Un video ha mostrato un razzo che cadeva in mezzo all'autostrada verso Ashdod, con due macchine mancate per un pelo. Una ragazza è rimasta ferita in modo serio per una caduta mentre correva verso il rifugio più vicino nel sobborgo di Holon a Tel Aviv.

 Hamas si «allinea»
  Hamas si è allineata alla Jihad islamica: «Continueremo la nostra resistenza e l'omicidio di Abu al-Ata non passerà senza una risposta». È chiaro che la leadership della Striscia è costretta adesso a inseguire i più estremisti seguaci della Jihad ma il risultato potrebbe essere una guerra aperta.
   Nel tardo pomeriggio è arrivata la rappresaglia israeliana. Ondate di raid su obiettivi jihadisti, un tunnel d'attacco «che stava per essere usato per rapire o uccidere civili», depositi di armi e fabbriche di ordigni artigianali. Tre palestinesi, che stavano per lanciare un razzo, sono stati uccisi a Nord di Gaza, mentre tutta la città si illuminava per le esplosioni. Netanyahu, dopo l'escalation cominciata lo scorso marzo con le marce del ritorno e la dura risposta delle forze di sicurezza israeliane, ha finora cercato di evitare un'operazione di terra. Ma questa volta, come nota su Haaretz l'analista militare Amos Hard, «non ha il controllo totale della situazione» e «molto dipende da Hamas» e dalla sua volontà o meno di frenare i «cugini» della Jihad.

(La Stampa, 13 novembre 2019)


Cosa succede veramente tra Israele e la Striscia di Gaza

Uno sguardo in profondità su quello che sta accadendo tra Israele e la Jihad Islamica e su quello che potrebbe succedere.

di Paola P. Goldberger

Questa mattina presto, dopo una calma di diverse ore e dopo che ieri erano stati lanciati almeno 190 missili contro i civili israeliani, sono ripresi i lanci di missili da Gaza verso Israele.
Gli allarmi sono risuonati in tutto il sud di Israele fino al centro, nelle aree di Latrun e Beit Shemesh. Iron Dome ha intercettato diversi missili.

 Il Casus belli
  Il fatto scatenante, il casus belli, è stata l'uccisione da parte israeliana del capo della Jihad Islamica, Bahaa Abu al-Atta.
Una operazione decisa da diversi mesi e messa in atto con il consenso di tutte le parti israeliane, compreso Gantz, tranne la compagine araba che invece ha criticato fortemente la decisione israeliana.
L'operazione non si è svolta solo a Gaza ma anche in Siria dove ad essere colpito è stato un altro leader della Jihad Islamica, Akram al-Ajouri, che però è miracolosamente sopravvissuto (morti invece sua moglie e suo figlio).

 Due parole sulla Jihad Islamica
  La Jihad Islamica è il secondo più potente gruppo armato nella Striscia di Gaza dopo Hamas. Legata direttamente all'Iran dal quale riceve armi e denaro, negli ultimi tempi si è molto rafforzata tanto da mettere in discussione la stessa leadership di Hamas.
È responsabile di quasi tutti i lanci di missili contro Israele degli ultimi mesi e dispone di un arsenale di tutto rispetto, in parte composto da razzi costruiti a Gaza con parti inviate da Teheran, in parte composto da veri e propri missili di fabbricazione iraniana in grado di raggiungere facilmente anche Tel Aviv.
Sebbene la base operativa della Jihad Islamica sia la Striscia di Gaza, i terroristi legati a Teheran hanno basi anche in Libano e in Siria dove collaborano direttamente con Hezbollah.

 Perché sono così pericolosi
  Israele considera la Jihad Islamica palestinese più pericolosa di Hamas in quanto direttamente agli ordini di Teheran e quindi funzionale ai piani iraniani.
Ricevono molto denaro dagli iraniani e in più di una occasione si sono messi di traverso nelle trattative per un cessate il fuoco di lungo termine tra Hamas e Israele.
Non di rado hanno lanciato missili contro lo Stato Ebraico senza il consenso di Hamas che però ne ha subito le conseguenze in quanto Gerusalemme li considera responsabili di quanto avviene a Gaza.
La Jihad Islamica è la vera chiave strategica di Teheran per mantenere attivo l'accerchiamento a Israele e quindi tenerlo impegnato su più fronti, per questo è stata colpita da Israele.
Per la cronaca, a livello di importanza era più importante Akram al-Ajouri (sopravvissuto a Damasco) che Bahaa Abu al-Atta (ucciso a Gaza) in quanto era lui che teneva le fila con Teheran.

 Perché adesso?
  In molti si sono chiesti il perché questa operazione decisa da mesi si sia svolta proprio adesso che in Israele regna lo stallo politico.
I più smaliziati hanno visto in questa operazione un modo con il quale Netanyahu ha messo in ombra Gantz e addirittura un modo per demolire ogni possibilità per Gantz di fare un accordo di governo con i partiti arabi.
In realtà lo stesso Gantz ha dato l'OK all'operazione consapevole che la Jihad Islamica stava preparando un grande attacco contro Israele e che l'azione non poteva essere né rimandata né rimanere condizionata dai problemi politici di Israele.

 Un messaggio molto forte anche per i leader di Hamas
  Le due operazioni contro Bahaa Abu al-Atta e Akram al-Ajouri, solo in apparenza separate, sono un messaggio fortissimo anche per i leader di Hamas.
Le uccisioni mirate devono essere approvate dal Premier e dal suo gabinetto ed era dal 2014 che ciò non avveniva.
Israele negli ultimi anni ha sempre cercato di evitare anche solo di minacciare l'uccisione di un leader di Hamas, questo per non compromettere le possibilità di una accordo di lungo periodo con i terroristi di Gaza.
Il messaggio che ha mandato con l'uccisione del leader della Jihad Islamica è però inequivocabile: se minacci seriamente Israele diventi un bersaglio. E non c'è leader di Hamas, al di la delle dichiarazioni a favore di folla, che abbia intenzione di diventare un bersaglio.

 Cosa succederà adesso?
  Come abbiamo visto, in mattinata sono ripresi lanci sporadici di razzi dalla Striscia di Gaza. L'Egitto sta trattando con Hamas per convincerli a fermare la Jihad Islamica prima che tutto degeneri. Se la mediazione egiziana andasse in porto probabilmente assisteremo a una de-escalation significativa in poche ore.
Se, al contrario, la Jihad Islamica (magari pressata da Teheran) dovesse riprendere massicciamente il lancio di missili, non si esclude nessuna possibilità, nemmeno una azione di terra a Gaza.
Molto importante in tal senso la dichiarazione fatta questa mattina alla radio dell'esercito dal ministro israeliano della pubblica sicurezza, Gilad Erdan, secondo il quale «la politica israeliana di ritenere Hamas responsabile di tutto ciò che avviene a Gaza è stata rivista».
Anche questo è un messaggio ad Hamas: pensateci voi a fermare la Jihad Islamica prima che sia troppo tardi.

(Rights Reporters, 13 novembre 2019)


Missili da Gaza, boicottaggio da Bruxelles. Israele nel mirino

Mentre il jihad islamico filoiraniano bombardava le sue città, lo stato ebraico veniva marchiato dalla corte UE.

Accusando apertamente l'Iran per i missili lanciati dalla Striscia di Gaza, ieri il ministero degli Esteri israeliano ha twittato una mappa delle aree più colpite dai razzi palestinesi, spiegando che "un milione di civili israeliani sono costretti nei rifugi".
   Ieri mattina, l'esercito israeliano ha eliminato in un palazzo nel quartiere Shejaeya di Gaza il comandante del Jihad islamico Abu al Atta, responsabile fra l'altro, su ordine di Teheran, delle più recenti raffiche di lanci di razzi e missili contro civili israeliani nel sud del paese. Tornano gli omicidi mirati, "sakum" in ebraico, dei capi del terrorismo palestinese. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Abu al Atta era una "bomba a orologeria" che stava per lanciare nuovi attacchi terroristici contro Israele. Intanto emergevano i dettagli dell'eliminazione di un secondo leader del Jihad islamico a Damasco, in Siria (dove vive il leader politico del gruppo terroristico, Ziyad al Nakhalah). Alcuni analisti israeliani hanno suggerito che un attacco del 10 settembre, una settimana prima delle ultime elezioni israeliane, potrebbe aver segnato il destino di al Atta: quel giorno Netanyahu stava tenendo un comizio elettorale ad Ashdod, in un luogo annunciato e pubblicizzato, rompendo con le consuete precauzioni di sicurezza. Un missile lanciato sulla città ha spinto il primo ministro e il suo entourage a correre fuori dal palco per rifugiarsi. Amit Segal, giornalista del Canale 12, ha scritto che da quel momento c'era un "marcatore laser invisibile" sulla testa di al Atta.
   Da Gaza, i palestinesi ieri hanno risposto con il lancio di oltre 160 missili soltanto nella mattinata, raggiungendo anche Tel Aviv, mentre numerose case israeliane nel sud venivano centrate dai razzi (60 dei 160 missili sono stati intercettati da Iron Dome). L'esercito disponeva intanto nuove misure di sicurezza per i civili: scuole chiuse a Tel Aviv e i residenti della zona centrale al lavoro soltanto se avevano un rifugio nelle vicinanze. Negli ultimi mesi, Teheran ha incrementato i fondi per i jihadisti palestinesi. Nathan A. Sales, coordinatore del Dipartimento di stato americano per la lotta al terrorismo, ha rivelato la somma totale di denaro che l'Iran sta spendendo per finanziare il terrorismo: "Può sembrare difficile da credere, ma l'Iran fornisce solo a Hezbollah circa 700 milioni di dollari all'anno. Stanzia altri 100 milioni a vari gruppi terroristici palestinesi. Il regime iraniano spende quasi un miliardo di dollari all'anno solo per sostenere il terrorismo".
   Il Jihad islamico è la prima storica sigla dell'islamismo palestinese ed è il più legato all'Iran. Nacque nel 1979 da una scissione di studenti palestinesi ospitati in Egitto dai Fratelli musulmani. Lo studioso israeliano Meir Hatina, che più ha analizzato il Jihad islamico, ha scritto che il movimento è sempre stato "il ragazzo cattivo della politica palestinese il cui scopo principale è la liberazione di tutta la Palestina. Hamas ha scelto una combinazione dell'educazione islamica e della violenza per la liberazione. Il Jihad islamico si vede come il punto centrale nel confronto fra occidente e islam".
   Pessimo tempismo europeo, intanto. Nella mattinata di ieri, mentre gli israeliani scendevano nei rifugi antimissile, la Corte di giustizia dell'Unione europea stabiliva per la prima volta che "i prodotti originari dei territori occupati dallo stato di Israele devono recare l'indicazione del loro territorio di origine accompagnata, nel caso in cui provengano da un insediamento israeliano all'interno di detto territorio, dall'indicazione di tale provenienza". Israele diventa così il primo e unico stato i cui beni provenienti da territori contesi sono marchiati con una speciale dicitura. L'Unione europea non designa l'olio turco prodotto nella parte settentrionale di Cipro che è sotto occupazione, né il pesce del Marocco che proviene dal Sahara occidentale né i prodotti cinesi dal Tibet.
   Dal 2005, da quando Israele ha evacuato i propri insediamenti, è Gaza a essere occupata. Da Hamas e dal Jihad islamico, che in queste ore sta lanciando missili sui centri ebraici, usando la propria popolazione come scudo umano. Ma questa occupazione sembra non esistere per i soloni europei.

(Il Foglio, 13 novembre 2019)


La Shoah macchiata da ''Bella Ciao''

La manifestazione di solidarietà con la senatrice a vita trasformata in un'iniziativa contro la destra.

di Filippo Jarach
Cons. Municipio I Milano

Lunedì sera ero impegnato in una seduta del Municipio Uno e non sono potuto andare alla manifestazione di solidarietà a Liliana Segre organizzata davanti al Memoriale della Shoah. Se in un primo momento mi sono sentito in colpa, poi ho pensato, per fortuna non c'ero, perché quello che è successo è di una gravità inaudita.
   Per ovvi motivi comprendo quello che la senatrice Segre rappresenta sia per la sua storia personale, sia per il valore di testimonianza per la nostra religione. Per questo quando ho visto il video nel quale veniva intonata "Bella Ciao" davanti al monumento che ricorda uno degli episodi più tragici dell'umanità, mi sono indignato.
   Se tu vuoi fare una manifestazione di solidarietà verso una persona che è stata minacciata e offesa, la devi fare senza simboli di partito, in modo che possa coinvolgere tutti, anche il centrodestra che da sempre è amico di Israele ed è vicino alla comunità ebraica (a tal proposito vorrei ricordare che a Milano il Memoriale alla Shoah venne inaugurato alla presenza di Silvio Berlusconi e Alan Rizzi). Ma se tu canti "Bella Ciao" non solo offendi quel Memoriale, ma trasformi quella che doveva essere una manifestazione di solidarietà in una manifestazione di una parte politica, la sinistra, contro gli "avversari". In piazza l'altra sera c'erano anche esponenti di Forza Italia: posso solo pensare come si siano sentiti a disagio quando è stato intonato quel coro che con la Shoah non ha nulla a che spartire.
   Ecco, io a questo gioco non mi voglio prestare. E neanche all'ipocrisia che vi ruota attorno, perché molti di quelli che lunedì cantavano e inneggiavano alla Segre, sono gli stessi che abitualmente durante la sfilata del 25 aprile insultano la Brigata Ebraica sventolando le bandiere della Palestina e non hanno alcun rispetto per quello che il senatore Matteo Salvini in una recente intervista ha definito «l'unico Stato democratico in Medioriente», ovvero Israele.
   Lo dico sinceramente, anche a tanti esponenti della Comunità: sarebbe ora di smetterla di considerare alla stregua di pericolosi fascisti tutti quelli che si dichiarano di centrodestra. Serve un profondo esame di coscienza e un cambio di atteggiamento soprattutto da parte di noi ebrei. Il mondo è cambiato, è ora di rendersene conto.
   Chiudo dicendo che sono il primo a condannare qualsiasi tipo di minaccia e di insulto, ma non posso fare a meno di chiedermi una cosa: come mai nessuno ha sollevato il caso dell'imbrattamento al "Giardino dei Giusti"? Forse perché quelle scritte fatte con la vernice rossa erano chiaramente riconducibili agli ambienti dei centri sociali amici della sinistra? No, lo ripeto, da ebreo ed eletto nelle fila del centrodestra a Milano, credo che intonare "Bella Ciao" nella serata di lunedì abbia rappresentato una delle pagine più brutte non solo della storia della città, ma del Memoriale stesso. Perché quella di lunedì non è stata una manifestazione di solidarietà, ma una manifestazione politica fatta per cercare di infangare il centrodestra, usando la faccia della senatrice Segre, che assolutamente non merita questo trattamento.

(Libero, 13 novembre 2019)


Strumentalizzare politicamente, deformandolo, ogni avvenimento che sembri propizio ad appoggiare la propria causa o ideologia è riprovevole, ma non accorgersi fin dall’inizio che l’iniziativa della commissione Segre, presentata come di alto valore morale, aveva in realtà uno scopo di bassa politica di parte è, per chi doveva accorgersene, un elemento squalificante sul piano politico e culturale. M.C.


"Sionismo è nazismo", la Comunità Ebraica di Napoli contro Eleonora De Majo, neo assessore

Polemiche a Napoli per la nomina di Eleonora De Majo come assessore a Cultura e Turismo. La Comunità Ebraica partenopea si dice "sconcertata e preoccupante" per le sue uscite contro lo stato di Israele. In passato, infatti, la De Majo aveva paragonato il sionismo al nazismo, definendo anche l'allora premier israeliano Netanyahu come Hitler.

di Giuseppe Cozzolino

 
Eleonora De Majo con Luigi De Magistris
         Che coppia!
"Sconcerto e preoccupazione" da parte della Comunità Ebraica di Napoli nei confronti della nomina di Eleonora De Majo a nuovo Assessore alla Cultura e al Turismo di Palazzo San Giacomo. De Majo aveva attaccato duramente fino a poco tempo lo stato di Israele, definendo il governo israeliano "un manipolo di assassini" ed il popolo israeliano stesso "porci, accecati dall'odio, negazionisti e traditori finanche della vostra stessa tragedia". Parole durissime che sono ricomparse anche sulla pagine Facebook vicine ad Israele, tra la cui Comunità Napoletana stessa, dettasi preoccupata e sconcertata per la nomina a consigliere comunale durante il "rimpasto" operato dal sindaco Luigi De Magistris in questi giorni che ha promosso l'esponente del centro sociale Insurgencia a Palazzo San Giacomo.
   "Nel recente passato", ha fatto sapere la Comunità Ebraica di Napoli, "la De Majo aveva anche affermato che il sionismo è nazismo, paragonando l'allora premier israeliano Netanyahu a Hitler". La scelta di affidarle così la guida dell'assessorato alla cultura non è piaciuta alla Comunità, che ritiene "estremamente discutibile l'attribuzione di un assessorato tanto importante a chi ha espresso giudizi tanto superficiali quanto offensivi per quegli ebrei che, sia a Napoli che in tutta la diaspora e in Israele, sono stati testimoni del più grande progetto di genocidio che mente umana abbia mai concepito", sottolineando che questa scelta a loro avviso "appare un atto inopportuno e tale da non favorire il dialogo interculturale e l'impegno per la pace".
   Classe 1988, laureata in Filosofia, Eleonora De Majo è uno dei volti più giovani della giunta comunale di Napoli, e spesso viene indicata come "pasionaria", per il suo forte attaccamento ai propri valori ed ideali. Già tempo fa vi erano state non poche polemiche sulla De Majo e su Rosa Schiano, anch'essa candidata nel 2016 a Palazzo San Giacomo. In quell'occasione, era stata l'Unione delle comunità ebraiche italiane ad esprimersi duramente sulle presunte posizioni anti-Israele delle due candidate al Consiglio comunale di Napoli a sostegno di Luigi De Magistris. Lo scorso febbraio, invece, fu proprio la De Majo a finire nel mirino di alcune persone, rimaste anonime, che affissero un lugubre cartello di morte davanti all'ingresso del centro sociale Insurgencia. In passato, invece, era capitato che sempre la De Majo finisse nel mirino di politici di vecchia data, con Clemente Mastella che la querelò per un post su Facebook e Matteo Salvini che invece si dichiarò "minacciato" da lei per un altro post in cui commentava la sua visita a Napoli.

(Napoli fanpage, 13 novembre 2019)


Agosto 2016 - Eleonora De Majo: «È ancora una volta davanti a immagini come queste, che mostrano semplicemente la potenza militare di uno Stato che si abbatte su un popolo senza riconoscimento e senza esercito, che il governo di Israele si mostra per quello che è: un manipolo di assassini senza scrupoli. Un vero governo del terrore».



Sguardi del cinema israeliano

Al via sabato il Pitigliani Kolno'a Festival fra proiezioni gratuite di film, corti, doc e serie televisive.

di Federica Manzitti

C'è questa formidabile risorsa della cultura ebraica, la molteplicità di punti di vista concentrata sullo stesso orizzonte, che rende il cinema israeliano unico al mondo. Punti dislocati geograficamente ovunque - Canada o Etiopia, Germania o Sud America - da cui autori e interpreti guardano al presente della società e al passato della comunità e di cui avremo una generosa rappresentazione nella quattordicesima edizione del Pitigliani Kolno'a Festival a Roma da sabato 16 a mercoledì 20 novembre.
   Proiezioni gratuite di lungometraggj., corti, anteprime, novità, documentari, finzioni e serie televisive in una quattro giorni distribuita tra la casa del Cinema a Villa Borghese e il Centro Pitigliani a Trastevere. In programma la consueta sezione «Sguardo sul nuovo cinema israeliano» che propone titoli premiati dal pubblico e racconta la società contemporanea, un omaggio al regista Eran Riklis che vince il Premio alla Carriera, tre serie televisive tra le più recenti, il premio Luzzati per cortometraggi under 35 e infine la sezione «Percorsi ebraici» che apre il cartellone domenica mattina alla presenza del regista Eliran Malka, autore di The Unorthodox, storia legata alla fondazione del Partito degli ebrei sefarditi premiato dall'Israeli Film Academy.
   Tre i titoli in programma di Eran Riklis che ritirerà personalmente il Premio assegnatogli dalle direttrici artistiche del PKF 2019 Ariela Piattelli e Lirit Mash perché «ha saputo portare sul grande schermo capolavori della letteratura sperimentando linguaggi narrativi diversi e mettendo sempre al centro l'essere umano»: il celebre Il giardino di limoni del 2009, Dancing Arabs (lunedì 18) del 2014 e l'anteprima italiana di Shelter (domenica 17) una spy story ambientata in Germania le cui eroine sono un'agente del Mossad e un'informatrice libanese. Il regista sarà presente alle proiezioni di domenica e lunedì.
   Questioni di genere anche nel cinema israeliano come in Working woman di Michal Aviad, la storia di Orna assediata sessualmente dal capo ufficio e oberata dai fallimenti professionali del marito, o nel documentario sulla figura di Golda Meir, Golda di Bornstein-Nir-Rozanes e ancora in Mrs. G. ritratto della fondatrice della casa di moda specializzata in costumi da bagno Gottex, sopravvissuta alla Shoah, ma punita per la sua libertà e passione.
   Tra gli altri documentari il curioso esperimento «multisensoriale» 13, A ludorama about Walter Benjamin che racconta l'esilio a Parigi del filosofo ebreo tra materiali d'archivio, riprese contemporanee e animazioni, proiettato sia lunedì 18 che per le scuole.
   Universali sono infine i temi delle serie tv proposte dal PKF 2019: l'autismo, il reinserimento di ex detenuti e la classica crisi di mezz'età che non conosce frontiere, fiction delle ultime stagioni che dimostrano quanto l'audiovisivo israeliano sia diventato capace di emanciparsi dal tema del conflitto senza trascurarne il ruolo nella quotidianità e nella narrazione del presente.

(Corriere della Sera - Roma, 13 novembre 2019)


Ucciso Baha Abu al-Ata, il capo dell'ala militare della Jihad islamica palestinese

Altissima tensione fra Israele e Gaza, dove durante la notte in un'operazione militare israeliana è stato ucciso nella sua abitazione Baha Abu al-Ata, capo militare della Jihad islamica palestinese. "La sua abitazione è stata attaccata in una operazione congiunta delle nostre forze armate e dei servizi segreti", afferma un comunicato militare. Secondo la radio militare, Abu al-Ata è rimasto ucciso.
   L'emittente ha aggiunto che la stessa jihad islamica ha confermato la sua morte. Nella zona è stato subito elevato lo stato di allerta. Il premier Benyamin Netanyahu ha assicurato: "Non vogliamo l'escalation", ma dopo il lancio di decine di razzi di risposta da Gaza, Israele ha lanciato nuovi attacchi aerei su obiettivi della Jihad nella Striscia, uccidendo almeno altri due militanti.
   La Jihad islamica palestinese ha confermato la morte del suo comandante militare e, in un volantino diffuso a Gaza, e ha promesso: "La nostra reazione farà tremare l'entità sionista".Il leader politico della Jihad islamica, Ziad Nahale, ha affermato secondo i media locali che "Israele ha oltrepassato tutte le linee rosse. Reagiremo con forza".
   Decine di razzi sono stati sparati stamane da Gaza verso Israele, mentre l'allarme è risuonato ad Ashdod e Ghedera, nel sud di Israele, fino a Tel Aviv. "Stiamo ancora contando il loro numero preciso", ha detto una fonte militare in risposta alla domanda di un giornalista.
   Successivamente un velivolo militare israeliano ha centrato a Gaza due miliziani della Jihad islamica che rappresentavano "una minaccia immediata". Lo riferisce il portavoce militare israeliano. Fonti di Gaza precisano che i due miliziani erano a bordo di una motocicletta che si trovava presso Beit Lahya, nel nord della Striscia, e che sono rimasti uccisi. A quanto pare si apprestavano a lanciare razzi.
   "Israele non è interessato in una escalation. Faremo comunque tutto il necessario per la nostra difesa. Occorre aver pazienza e freddezza". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu al termine di una consultazione del consiglio di difesa del governo. "Baha Abu al-Ata era il principale organizzatore di terrorismo a Gaza. Stava per organizzare nuovi attentati. Era come una 'bomba in procinto di esplodere' ".
   Secondo il portavoce militare israeliano, Abu al-Ata era responsabile della maggior parte delle attività militari della Jihad islamica a Gaza ed era "come una bomba ad orologeria", perché si accingeva a compiere attentati terroristici. "Aveva addestrato commando che dovevano infiltrarsi in Israele ed attacchi di tiratori scelti, nonché lanci di droni e lanci di razzi in profondità".
   Nell'anno passato, secondo il portavoce militare, è stato responsabile della maggior parte degli attacchi giunti dalla striscia di Gaza e di ripetuti lanci di razzi. La sua uccisione, ha precisato il portavoce, "è stata decisa per sventare una minaccia immediata". E' stata ordinata da Netanyahu nella sua qualità di premier e ministro della difesa, un incarico che oggi egli si accinge a passare al nuovo ministro della difesa Naftali Bennett, leader del partito nazionalista 'Nuova destra'.

(ANSA, 12 novembre 2019)


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Netanyahu: l'operazione contro Jihad islamico è stata approvata 10 giorni fa

GERUSALEMME - L'operazione dell'aeronautica israeliana contro il leader del Jihad islamico palestinese (Pij), Baha Abu al Atta, è stata approvata all'unanimità dieci giorni fa dal gabinetto israeliano. Lo ha detto oggi il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, nel corso di un discorso televisivo. Abu Al Atta "era una bomba a orologeria", ha affermato. "Questo terrorista ha lanciato centinaia di razzi e pianificava ulteriori attacchi", ha aggiunto Netanyahu. Il capo dell'esecutivo ha ribadito: "Chiunque ci attacchi, sarà attaccato. Chiunque pensi che può evitare di essere raggiunto (da noi) si sbaglia. Non vogliamo l'escalation, ma risponderemo se necessario".

(Agenzia Nova, 12 novembre 2019)


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Il video di un razzo che colpisce un'autostrada in Israele

Da martedì mattina sta circolando un video girato da telecamere di sicurezza che mostra un razzo colpire un'autostrada israeliana vicino alla città di Gan Yavne, a nord della Striscia di Gaza. Il razzo è stato lanciato dalla Striscia come ritorsione per l'uccisione di un importante comandante del gruppo radicale palestinese Jihad Islamico, Baha Abu al Ata, compiuta da Israele nella notte tra lunedì e martedì. L'esercito israeliano ha detto che martedì dalla Striscia sono stati lanciati una cinquantina di razzi, di cui 20 intercettati dal sistema di difesa missilistico Iron Dome.

(il Post, 12 novembre 2019)



Israele: in cerca di un "compromesso" per un nuovo governo

di Massimo Caviglia

Le diverse risposte politiche di Gantz e Netanyahu all'ultimatum di Lieberman, che ha chiesto loro di accettare compromessi per un governo di unità nazionale, forse riusciranno a scongiurare una terza tornata elettorale in quest'anno. Offrendo i propri seggi a chi accogliesse il suo progetto, Lieberman ha proposto a Netanyahu di abbandonare i due partiti religiosi, alleati fedeli della coalizione di destra, e a Gantz di accettare che Netanyahu sia primo nella rotazione tra i due premier. Lieberman punta a spaccare il blocco della destra, ma ha ottenuto un netto rifiuto dal Likud che aveva già stipulato accordi con tutti i membri della sua coalizione. Gantz invece ha dichiarato che prenderà in seria considerazione l'ipotesi di compromesso, perché Netanyahu premier senza i suoi alleati sarebbe facile preda qualora Gantz intendesse farlo cadere in caso di incriminazione per frode. E, se Netanyahu non accettasse, i seggi di Lieberman basterebbero comunque a Gantz per essere il nuovo Presidente del Consiglio.
   Intanto, mentre l'Iran ha dato il via alla costruzione di un secondo reattore nucleare con la collaborazione della Russia, il Presidente iraniano Rouhani ha cercato di tranquillizzare l'Europa comunicando che tutti i passi sono reversibili e che il ritorno all'accordo sul nucleare sospenderebbe l'arricchimento dell'uranio. Ciò che Rouhani non ha detto è che dal momento in cui vengono azionate le centrifughe veloci e iniettato il flusso di gas UF6 il passaggio non è più reversibile, e l'Iran è pronto ad una svolta nucleare che nessun organismo internazionale può impedire. Infine il Presidente israeliano Rivlin ha inviato un messaggio alla senatrice Liliana Segre per esprimerle solidarietà e manifestare il disgusto per le minacce di morte e per il fatto che una donna novantenne reduce dal campo di sterminio di Auschwitz debba essere ancora esposta alle conseguenze dell'antisemitismo.

(Rtb San Marino, 12 novembre 2019)


Fallito attentato alla sinagoga di Berlino, nel 1989

Fu attribuito ai nazisti. Lo si deve ai rossi della Baader-Meinhof. Dieter Kunzelmann, uno dei leader della sinistra extraparlamentare, e fondatore della Kommune I, in una «Lettera da Amman», indirettamente giustificava l'attentato: «La Palestina», scriveva, «deve essere il nostro Vietnam ... quando la sinistra vorrà capirlo ... Israele, creazione sionista, è uno stato fascista».

di Roberto Giardina

BERLINO - Le rievocazioni della caduta del Muro a Berlino, il 9 novembre dell'89, hanno fatto quasi del tutto dimenticare un altro anniversario, la notte dei cristalli. Quel giorno, nel novembre del '38, vennero date alle fiamme le sinagoghe in tutto il Reich, e devastati migliaia di negozi e studi professionali degli ebrei. Una data scomoda, per questo la festa nazionale per la riunificazione delle Germanie è stata «spostata» al 3 ottobre, uno dei pochi giorni nella storia tedesca liberi da ricordi infausti.
   Nel '69, nel 31o anniversario del tragico pogrom, fu sventato casualmente un attentato alla sinagoga di Berlino Ovest, nella Fasanenstrasse, che conoscevo bene perché si trova a pochi metri dall'Hotel Kempinski, punto d'incontro al tempo del Muro dei giornalisti e dei politici. Perché scriverne mezzo secolo dopo? Perché gli autori non furono i neonazisti, come si volle credere, ma un gruppo di estrema sinistra, i Tupamoros West Berlin, da cui poi sarebbe nata la Baader-Meinhof. Un apparente paradosso, che spiega come oggi sia sempre forte l'antisemitismo nelle regioni della scomparsa Ddr, la Germania comunista.
   I giovani contestatori in Germania si ribellavano contro i padri, chiedevano loro come si fossero comportati «al tempo di Hitler», eppure erano contro Israele. E i gruppi della contestazione, a Berlino o a Monaco, nati prima del maggio parigino, erano infiltrati e influenzati dalla Stasi, il servizio segreto della Ddr. Dopo la guerra, e la divisione, dall'altra parte non fu compiuta alcuna analisi storica: i colpevoli, i nazisti, si trovavano tutti dalla parte capitalista. E si chiuse un occhio sui colpevoli, i capi e i semplici gregari. Nella Ddr trovarono rifugio 29 mila criminali nazisti, ma appena 49 furono processati. Bastava ottenere la tessera della Sed, il pc tedesco orientale, e tutto era dimenticato. Molti fecero carriera sotto la dittatura.
   Per tornare all'attentato del '69, il 10 novembre una donna delle pulizie, trovò un pacco sospetto avvolto in un mantello, nascosto dietro un distributore di bibite, nel guardaroba della sinagoga: una bomba rudimentale con un chilo e mezzo di esplosivo «fatto in casa». Il timer non aveva funzionato, altrimenti sarebbe bastato per distruggere l'edificio, nel pieno centro del settore occidentale. Subito furono incolpati gli estremisti di destra. Il retroscena viene solo ora spiegato nel libro di Wolfgang Kraushaar Die Bombe im Jüdischer Gemeindhaus (Hamburger Edition; 300 pag., 20 euro).
   Nel Republikanischen Klub, un centro studentesco, finanziato dalla Stasi, il servizio segreto della Germania comunista, non lontano dalla Fasanenestrasse, furono trovati volantini che incitavano a devastare i cimiteri ebraici di Berlino, e si annunciava che «una bomba era stata deposta nella sinagoga». Una chiara rivendicazione. Il 16 novembre, una audiocassetta venne spedita a Heinz Galinski, il capo della comunità ebraica berlinese, uno dei sopravvissuti a Auschwitz, in cui una voce femminile rivendicava l'attentato «in nome dei palestinesi oppressi da Israele».
   Sempre in quel novembre, Dieter Kunzelmann, uno dei leader della sinistra extraparlamentare, e fondatore della Kommune I, in una «Lettera da Amman», indirettamente giustificava l'attentato: «La Palestina», scriveva, «deve essere il nostro Vietnam ... quando la sinistra vorrà capirlo ... Israele, creazione sionista, è uno stato fascista». Pochi mesi dopo, il 12 febbraio del 1970, venne dato alle fiamme a Monaco, nella Reibanchstrasse, un centro per anziani ebrei. Morirono in sette, ed erano, come Galinski, sopravvissuti ai lager. Io fui inviato a Monaco, e ne scrissi, ma secondo tutte le informazioni fornite dalla polizia bavarese, i responsabili erano i neonazisti. Solo anni dopo, furono rese note altre testimonianze: i colpevoli andavano cercati tra i terroristi di quella che sarebbe diventata la Baader-Meinhof. Tra l'attentato alla sinagoga nella Fasanenstrasse e la notte dei cristalli era trascorso quasi lo stesso tempo che ci divide oggi dalla caduta del muro. Trent'anni sono un tempo breve o lunghissimo, dipende.

(ItaliaOggi, 12 novembre 2019)


Ma davvero siamo tutti matti?

Dalle credenze medievali fino alle teorie pseudoscientifiche di età moderna, malattia mentale ed ebraismo sono spesso stati associati. Una carrellata di storie di ordinaria (e libera) follia

di Michael Soncin

Jacques Fux, Sulla follia ebraica, trad. di Vincenzo Barca, grafica di Ada Rothenberg, Giuntina, pp. 228, euro 18,00, ebook 9,99
Suo padre fu sepolto vivo ad Auschwitz, poiché si rifiutò di lavorare durante lo shabbat, mentre era prigioniero. Era ancora piccola, una bambina, e considerate le vicende del tempo, si trovò contesa tra due madri. La sua, quella biologica, fu costretta ad affidarla a una donna cattolica, convinta antisemita, la quale, con la malizia e l'inganno tentò non solo di privarla in tutti i modi della propria ebraicità, ma di far preferire lei, madre adottiva, a quella reale. È la vita di Sarah Kofman - docente di filosofia alla Sorbona di Parigi - e della folle ingiustizia che la Shoah tatuò per sempre nella sua mente.
Questa è una delle otto vite "più una" protagoniste di questo libro che fornisce un ritratto caleidoscopico della follia, ognuno per vicende e significati diversi, attraverso personalità del mondo ebraico del calibro di Woody Allen o di Ron Jeremy Hyatt dalle alte aspettative nel campo della recitazione, le cui doti però trovarono spazio in un genere cinematografico vietato ai minori. Paradosso dei paradossi, ci sono anche ebrei follemente antisemiti come Bobby Fischer o Dan Burros, entrambi americani. Grigori Perelman, genio russo della matematica, famoso per aver dimostrato la congettura di Poincaré, ma che rifiutò nel 2006 - nonostante l'incessante insistenza della madre che non desiderava altro - la Medaglia Fields, l'equivalente del Nobel per i matematici; un rifiuto motivato da questioni di priorità, di natura morale. C'è anche Shabbetai Zvi, personaggio controverso del XVI secolo, dichiaratosi Messia. Nella lista non manca nemmeno Otto Weininger, omosessuale, che decise di abbandonare la vita all'età di ventitré anni. "Le sue idee - come scrive l'autore - furono seriamente discusse da Freud, Kafka, Wittgenstein e Joyce". Della follia parlò, nelle sue molteplici declinazioni, Erasmo da Rotterdam. Jacques Fux aggiunge un ulteriore significato al tema, percorrendo il tipico stereotipo dell'ebreo pazzo, pregiudizio ricorrente nelle diverse epoche storiche; e lo fa con maestria e tatto, tanto da ricevere nel suo Paese, il Brasile, il premio letterario Città di Manaus.
   Resta un dubbio: "…l'ebreo è davvero pazzo o, come qualsiasi altro essere umano, è al di là di ogni comprensione?".

(Bet Magazine Mosaico, 12 novembre 2019)


Cinquemila in presidio per Liliana Segre

Il Cinquemila in presidio con un giglio bianco per Liliana Segre a Milano. La manifestazione si è tenuta davanti Memoriale della Shoah in solidarietà con la senatrice a vita, sopravvissuta alla deportazione dei nazisti a Auschwitz, costretta oggi ad avere una scorta per le minacce subite. Nonostante la pioggia, ai cittadini di Milano si sono uniti anche esponenti delle forze politiche dal Pd a Forza Italia. La mobilitazione è stata promossa dalle associazioni Bella ciao, Milano!, Anpi e Aned e su Facebook ha raggiunto le adesioni di oltre 12mila persone, insieme a quasi 100 sigle, tra forze politiche e anime del mondo civile e dell'associazionismo. Il giglio è stato scelto come simbolo di purezza, innocenza e candore, ma anche di fierezza e orgoglio, dal quale deriva proprio il nome di Liliana. Presenti anche i figli della senatrice Federica, Luciano e Alberto. Dopo i saluti istituzionali della vicesindaca Anna Scavuzzo e il canto di Bella ciao intonato da Checcoro in tanti esponenti di associazioni, partiti e cittadini comuni hanno voluto leggere messaggi di pace e solidarietà.

(il manifesto, 12 novembre 2019)


A Liliana Segre, trasformata in sacra icona degli ebrei morti per odio dentro alle nazioni, va oggi il deferente omaggio di chi odia l’ebreo vivente in mezzo alle nazioni rappresentato dallo Stato d’Israele. M.C.


L'appello all'Europa dall'uomo del Mossad

Il Vecchio continente dovrebbe occuparsi del suo destino, ma non ha una politica estera condivisa né un esercito comune. I rischi dell'isolazionismo e la mina medio oriente. Parla il generale Danny Yatom, ex capo del servizio segreto israeliano

L'embargo delle armi contro la Turchia, membro Nato, "è la prova di un'alleanza in crisi. Si tratta, per giunta, di uno strumento inefficace perché la Turchia che ha agito unilateralmente può contare su arsenali strapieni". Ogni paese sembra guidato da un solo criterio, l'interesse individuale, senza considerare che un medio oriente in balia del caos è destinato a incrementare la pressione migratoria con una ricaduta di conseguenze negative per l'Europa.

di Annalisa Chirico

L'accordo di Sochi tra Erdogan e Putin ridisegna la mappa della Siria nordorientale. Con l'operazione Fonte di pace, voluta dal "Sultano", svanisce il sogno curdo di costruire un governo autonomo nel Rojava.
"Sul piano geopolitico i vincitori sono Russia e Turchia", dichiara al Foglio il generale Danny Yatom, ex capo del Mossad, di passaggio in Italia per partecipare alla Scuola di Fino a prova contraria. "L'occidente ha giocato di rimessa: prima l'errore americano di ritirare le truppe dalla Siria, poi l'incapacità europea di far sentire una voce forte e unitaria. Il mondo libero deve mettere insieme le forze per stabilizzare il medio oriente senza abbandonarlo all'influenza russa. Il problema non riguarda il ritiro di mille soldati ma, più in generale, la ridefinizione del ruolo americano in senso isolazionista".
Yatom, settantaquattro anni, laurea in Matematica e Fisica alla Hebrew University di Gerusalemme, già consigliere per la sicurezza dell'ex primo ministro Ehud Barak, è stato il direttore del Mossad la cui identità, per la prima volta nella storia dei servizi segreti israeliani, fu resa pubblica. Già prima che Donald Trump s'insediasse alla Casa Bianca, gli facciamo notare, Barack Obama aveva avviato una politica di disengagement puntando sul quadrante asiatico.
"Il processo si è accentuato con l'attuale amministrazione - prosegue Yatom - Se gli Stati Uniti rinunciano al ruolo di guida negli equilibri internazionali, se smettono di essere il gendarme del mondo, se si ritirano da Iraq, Afghanistan e Siria, le conseg
uenze per la sicurezza globale saranno disastrose. Il terrorismo è una minaccia reale, non si può abbassare la guardia. A Kabul si registrano attentati di matrice talebana contro obiettivi occidentali, che siano targati Onu, Nato o Stati Uniti. All'indomani della Guerra fredda, l'America ha assunto il ruolo di peacemaker e poliziotto globale: se tale assetto viene meno, si rischia il caos. Una realtà complessa come quella attuale non può essere governata dall'anarchia. Per garantire ordine e stabilità, serve un paese leader, esattamente come un governo ha bisogno di un primo ministro e un'azienda di un capo. Ritengo perciò che, con il passare del tempo, anche il presidente Trump si renderà conto che l'impegno all'estero può essere rimodulato ma non azzerato: se commettesse l'errore di pensare il contrario, le truppe americane sarebbero probabilmente costrette a tornare nella regione mediorientale in un contesto persino deteriorato".

- Per Israele è una partita assai rilevante.
  "Se gli Usa, di cui siamo alleati, apparissero, agli occhi del mondo, più deboli, meno determinati a esercitare un ruolo o più propensi a isolarsi all'interno dei confini nazionali, i nostri nemici ne uscirebbero più forti. Diversi anni fa, nel corso di un negoziato con palestinesi, libanesi e giordani, il capo di stato maggiore delle forze armate siriane Hikmat Shihabi, militare di lungo corso, mi confidò che a quel tavolo la voce israeliana era particolarmente ascoltata in virtù dell'alleanza con gli americani".

- Erdogan ha ottenuto la "safe zone", centoventi chilometri di estensione e trentadue di profondità. Le unità curde di protezione popolare, le milizie Ypg, devono smobilitare.
  "I curdi sono letteralmente terrorizzati dagli effetti imprevisti del nuovo accordo: temono, per esempio, che l'Arabia saudita possa decidere di intervenire approfittando del ritiro americano. Il principe Mohammad bin Salman ha manifestato, di recente, la volontà di avviare un dialogo con l'Iran per disinnescare le tensioni regionali".

- L'embargo delle armi contro la Turchia, membro Nato, che cosa ci dice dell'alleanza atlantica?
  "C'è un imbarazzo generale. Un embargo tra paesi formalmente alleati è la prova di un'alleanza in crisi. Si tratta, per giunta, di uno strumento inefficace perché la Turchia che ha agito unilateralmente può contare su arsenali strapieni. Il mondo civilizzato dovrebbe, anzi avrebbe dovuto, impedire qualunque atto di ostilità nei confronti dei civili e della popolazione innocente".

- Erdogan ha ottenuto sei miliardi di euro dall'Unione europea per blindare la rotta balcanica. Dopo la minaccia turca di "aprire i cancelli" a 3,6 milioni di rifugiati siriani per inondare di profughi il Vecchio continente, l'Europa ha stanziato un ulteriore miliardo.
  "E' un ricatto a tutti gli effetti - replica Yatom - Per accogliere nel proprio territorio i rifugiati siriani, la Turchia ha già ottenuto dei fondi, il suo comportamento è inaccettabile. Nato e Ue non devono chinare il capo ma esercitare pressione affinché Erdogan rispetti i patti".

- Lei è favorevole all'ingresso di Ankara nell'Ue?
  "Sì, la Turchia dovrebbe essere, a un tempo, ponte e barriera tra l'occidente e i paesi musulmani confinanti a est e a sud. La Turchia è un attore rilevante sul piano militare, può contare su velivoli, carri armati ed equipaggiamenti moderni. Mi sono occupato per anni di lotta al terrorismo, e quello che ho imparato è che sai come entri in guerra ma non come ne esci".

- I curdi hanno pagato un enorme tributo di sangue nella guerra contro Isis.
  "Hanno difeso la libertà loro e dell'occidente potendo contare essenzialmente sulla fanteria semplice: la sproporzione di capacità rispetto, per esempio, alle forze armate turche è flagrante. In molti non si rendono conto che la minaccia terroristica è attualissima, anche dopo la scomparsa di Abu bakr al-Baghdadi. Esistono oltre cento organizzazioni terroristiche, e Isis, dopo aver agito come un'organizzazione militare capace di creare un'entità pseudostatuale, è tornata a far esplodere le autobombe: l'obiettivo finale è fondare uno stato con un esercito vero e proprio. Nell'area siriana sotto controllo curdo si trovano venti prigioni con circa 17 mila terroristi detenuti che, in caso di disordini, potrebbero tornare a piede libero. Questa non è propaganda, i curdi lo hanno detto a chiare lettere: se dobbiamo combattere per la nostra sopravvivenza non saremo più in grado di garantire la sicurezza delle prigioni. I terroristi dietro le sbarre potrebbero ricostituire un esercito o tornare in Europa da foreign fighter; a costoro si aggi ungono poi 30 mila persone che abitano nella zona e sono legate da vincoli di parentela".

- E' trascorso più di un secolo dal maggio 1916 quando l'ufficiale britannico Mark Sykes e il diplomatico francese Georges Picot firmarono un accordo per spartirsi il regno ottomano.
  "L'origine della instabilità attuale risale a quel periodo. Francia e Gran Bretagna, all'epoca, esprimevano un potere imperiale che tracciava i confini con il righello, tenendo conto principalmente dei propri interessi e non dell'esistenza di identità etniche, di clan e tribù locali. Le guerre del passato erano guerre tra paesi confinanti. Oggi invece il medio oriente è il teatro di un conflitto, di portata globale, tra mondo cristiano, islamico ed ebraico. Lo scopo strategico dell'islam radicale, delle varie organizzazioni terroristiche musulmane, di matrice sia sunnita che sciita, è uno soltanto: ricostruire il Califfato. Non a caso, al Baghdadi, capo di Isis, si era autoassegnato l'appellativo di 'califfo', primo successore di Maometto".

- Nel deserto del Niger l'Italia è tra i paesi europei che partecipano alle esercitazioni congiunte con l'aviazione israeliana. Secondo lei, l'Europa può giocare un ruolo maggiore come garante della sicurezza nel Mediterraneo?
  "L'Europa può farlo, anzi è chiamata a farlo, innanzitutto per ragioni geografiche. La Nato, fondata settant'anni fa, è l'alleanza di maggiore successo mai realizzata nella storia del genere umano, perciò essa deve rappresentare la leva di qualunque intervento militare nella regione".

- L'Europa non ha una politica estera condivisa, né un esercito comune: i paesi si muovono in ordine sparso.
  "Tra i membri della Nato e dell'Ue coesistono diverse concezioni su quando e come intervenire ma l'Europa dovrebbe occuparsi del suo destino. Quando si parla di terrorismo si parla anche di immigrazione. Nel mondo contemporaneo ogni paese sembra guidato da un solo criterio, l'interesse individuale, senza considerare, per esempio, che un medio oriente in balia del caos è destinato a incrementare la pressione migratoria con una cascata di conseguenze negative per il continente europeo. I foreign fighter, provenienti dalla Siria, si spostano anche verso il nord Africa. In Libia, dove è in corso un processo di disgregazione dell'entità statuale, si sono già insediate alcune formazioni terroristiche. Non è l'unico caso: le primavere arabe si sono trasformate in rigidi inverni che rischiano di rivelarsi letali per la sopravvivenza della democrazia. Gli Stati uniti, insieme alla Nato, dovrebbero intervenire in nord Africa prima che sia troppo tardi".

- Veniamo alla politica nazionale. In Italia, il leader della Lega Matteo Salvini ha impresso una svolta pro Europa, ripresa dalla stampa estera: il partito s'impegnerà per modificare le regole europee ma la permanenza nell'Eurozona è fuori discussione. Il populismo è un pericolo in sé?
  "Non essendo un cittadino europeo, non mi permetto di dare istruzioni. E tuttavia voglio dire che sul punto Salvini ha ragione: l'Italia deve provare a cambiare le cose da dentro, senza mettere in discussione l'appartenenza europea. Questa posizione non è populista".

- In Israele, per la prima volta dopo dieci anni, un leader diverso da Benjamin Netanyahu sta tentando di raccogliere i 61 voti sui 120 della Knesset necessari al governo. Se Benny Gantz fallisse, i cittadini israeliani tornerebbero a votare per la terza volta in meno di un anno.
  "Israele è una democrazia funzionante da settantuno anni, e noi difendiamo le sue regole. Il panorama politico è in evoluzione: il procuratore generale deve decidere se mandare a processo Netanyahu per capi di imputazione che includono corruzione, frode e abuso d'ufficio. In caso affermativo, sarebbe la fine della sua carriera politica. In ogni caso, quale che sia l'esito, ritengo che, dopo la permanenza del leader del Likud al governo per tredici anni, Israele possa inaugurare una stagione nuova puntando su figure diverse".

- Veniamo alla sua vita da spia: come sono i rapporti tra Mossad e 007 stranieri?
  "Coltiviamo buone relazioni con gli apparati di intelligence di tutti i paesi democratici. E, in alcuni casi, anche di quelli quasi democratici, come il Kgb russo. Con la Cia e con gli omologhi europei collaboriamo a un livello impensabile fino a qualche tempo fa. Con loro, oltre allo scambio di informazioni, c'è talvolta la gestione condivisa di operazioni congiunte. In questo quadro, ogni struttura è autonoma e indipendente, schierata in difesa dell'interesse nazionale, senza rapporti di subordinazione. Come ho già detto, per combattere il terrorismo, il mondo deve agire come se fosse un'unica organizzazione mettendo insieme i propri apparati di sicurezza e intelligence".

- Tra il 2003 e il 2006, lei è stato membro della Knesset nelle file del Partito laburista: ha nostalgia di quell'esperienza?
  "Nient'affatto, alla fine decisi di dimettermi. Quel mestiere non faceva per me: eccesso di carta, e troppo tempo sprecato in discussioni interminabili e inconcludenti".

- Un agente del Mossad smette di essere una spia?
  "Israele è una piccola nazione circondata da numerosi elementi ostili: le minacce ai nostri interessi vitali sono quotidiane. Il senso comune tra i cittadini è che il fardello della sicurezza debba essere condiviso dalla collettività intera. Molti di coloro che hanno fatto parte per anni delle forze armate, del Mossad o della polizia continuano a contribuire su base volontaria per rafforzare la nostra sicurezza. Ci siamo conquistati la nostra indipendenza, adesso vogliamo difenderla".

(Il Foglio, 11 novembre 2019)


''Shoah, non lasciamo soli i sopravvissuti''

 
Anita Winter, presidente della Fondazione svizzera Gamaraal, che aiuta i sopravvissuti alla Shoah
"Mio padre ogni tanto raccontava di come scampò alla Kristallnacht e di come riuscì a trovare rifugio in Svizzera, evitando tra mille difficoltà di essere espulso. Mia madre, deportata da Norimberga con i primi treni della morte nazisti, riuscì a mettersi in salvo e visse nascosta sotto falsa identità durante la guerra. Piangeva appena le facevo delle domande. Entrambi, Margit e Walter Strauss, ebbero la giovinezza cancellata dalla Shoah". Segnata dalla storia familiare, Anita Winter racconta a Pagine Ebraiche di essere cresciuta con la consapevolezza di quanto fosse difficile per i sopravvissuti parlare e al contempo di quanto fosse importante ascoltare le loro testimonianze. Aveva in mente da tempo di fare qualcosa per aiutare in qualche modo gli scampati al genocidio, poi una conversazione con un ministro israeliano le ha dato la spinta. "Alcuni anni fa incontrai Isaac Herzog allora ministro per gli Affari sociali, e gli chiesi cosa Israele avrebbe potuto fare di più per i sopravvissuti. Lui mi raccontò di come per molti anni nel paese l'argomento rimase un tabù e di come a lungo mancò consapevolezza rispetto al dolore dei sopravvissuti, traumatizzati e spesso in difficoltà finanziarie". Informandosi Winter ha così scoperto un dato che costituisce una vergogna: "Secondo le stime della Claims Confcrence sono 480.000 nel mondo i sopravvissuti alla Shoah ancora in vita e la metà di loro vive in povertà". Da qui l'idea di costituire una Fondazione, la Gamaraal, che presta aiuto e sostegno ai sopravvissuti in Svizzera. "Qui siamo a conoscenza di 480 sopravvissuti: con la Fondazione ne sosteniamo 84. Ma pensiamo che il numero di chi tace, ovvero non si fa riconoscere né come sopravvissuto né come ebreo, sia superiore a quello ufficiale".
   "Molti sopravvissuti temono l'antisemitismo e temono di poter tornare ad essere vittime di tali persecuzioni. La loro fiducia nell'umanità è stata distrutta. Altri hanno soppresso la loro sofferenza o hanno taciuto per non pesare sugli altri. Altri ancora hanno chiuso in soffitta la loro identità ebraica. Molti ebrei si sono concentrati dopo la guerra sul costruirsi una nuova vita, una nuova famiglia, sul sostituire il passato. Alcuni hanno avuto molto successo, ma molti no. In definitiva era ed è diverso da paese a paese e da persona a persona" Ed è proprio sui singoli su cui vuole concentrarsi la Fondazione Gamaraal che, spiega Winter, ha iniziato ad affiancare i sopravvissuti in difficoltà, in particolare attraverso contributi finanziari e con la copertura delle spese mediche. Ad aiutare economicamente la fondazione sono stati altri sopravvissuti o membri della Comunità ebraica ma anche banche, imprese e altri privati. "Mi ha persino chiamato da Basilea una signora, dicendomi di essere figlia di un collaboratore del regime nazista e di voler dare il proprio aiuto".
   "Ci troviamo in un momento cruciale per quanto riguarda la trasmissione delle conoscenze sulla Shoah, poiché tra di noi rimangono soltanto pochissimi testimoni diretti. La loro voce diretta è preziosa" ricorda Winter, spiegando di aver avviato progetti per far parlare i Testimoni che sono disponibili nelle scuole e in eventi pubblici. La Gamaraal si è impegnata anche nel filmare i loro racconti in modo da mantenere un archivio delle loro memorie. Inoltre ha promosso la mostra The Last Swiss Holocaust Survivors, dedicata proprio alla voce e ai volti dei Testimoni che oggi vivono in Svizzera. L'esposizione sta girando per il mondo ed è stata esposta al Memoriale della Shoah di Milano. "I testimoni provengono da diversi Paesi europei e oggi vivono nella Svizzera tedesca, in quella francese e anche in Ticino. I commoventi ritratti mostrano i volti di persone cui fu negata la dignità umana. Sono volti segnati dalla storia della vita. Tramite le biografie dei testimoni, l'esposizione intende mostrare a cosa può portare l'antisemitismo, che oggi si sta risvegliando in molti luoghi". Winter spiega che il suo impegno, così come quello del figlio che ha raccontato in un libro la storia di famiglia, è diretto ad assicurare una vita dignitosa a chi è scampato alla Shoah ed è stato dimenticato. "Tra pochi anni queste voci non ci saranno più È il momento di dimostrare oggi la nostra attenzione per loro. Adesso o mai più"

(Pagine Ebraiche, novembre 2019)


Danneggiato il Giardino dei Giusti inaugurato da Liliana Segre

 
A un mese dall'inaugurazione e due giorni dopo la notizia della scorta assegnata a Liliana Segre, protagonista dell'inaugurazione stessa, il Giardino dei Giusti del Monte Stella di Milano è stato deturpato con vernice rossa e scritte. Ad essere colpito è stato l'Anfiteatro Ulianova Radice, dedicato alla direttrice di Gariwo scomparsa prematuramente lo scorso anno. Questo spazio è il simbolo dell'impegno dell'Associazione per il Giardino dei Giusti - composta da Comune di Milano, Gariwo e UCEI con il compito di gestire questo luogo di memoria - per il dialogo e la riflessione con gli studenti delle scuole, che a migliaia ogni anno visitano il Giardino.
   "Ad appena pochi giorni dall'inaugurazione del Giardino dei Giusti alla presenza della Senatrice Segre - ha dichiarato il presidente di Gariwo Gabriele Nissim appena appresa la notizia - quanti cercano di creare un clima di odio nel nostro Paese hanno vandalizzato l'anfiteatro e gli impianti di illuminazione del Giardino del Monte Stella. Non è un caso che questa provocazione sia avvenuta il giorno dopo la decisione del prefetto di affidare una scorta alla Senatrice. Mi auguro che quanto prima possa essere dato al Giardino un servizio di sorveglianza da parte degli organi di sicurezza. Il Giardino di Milano è un luogo di pace e di dialogo, e per questo chi semina odio vuole ostacolarlo. A questa intimidazione, che non a caso ha voluto colpire l'Anfiteatro dove si ritrovano gli insegnanti e gli studenti delle scuole, Gariwo risponderà con il suo lavoro di educazione alla responsabilità nelle scuole e nelle città e con il grande convegno internazionale di GariwoNetwork il prossimo 27 novembre. L'odio si combatte con la persuasione, ma in questi tempi c'è anche bisogno di vigilanza attiva, come ha proposto al Parlamento Liliana Segre".
   Molto dura la reazione di Pierfrancesco Maran, Assessore a Urbanistica, Verde e Agricoltura del Comune di Milano, che non esita a paragonare quanto accaduto a un atto di fascismo. "Il fascismo è nostro nemico, ci combatte e noi lo combattiamo - ha sostenuto l'Assessore -. Chi deturpa il Giardino inaugurato poche settimane fa dalla Senatrice Segre per supposti motivi ambientali dimostra di avere una scala di valori così sballata da non comprendere che qualunque legittimo diritto di critica si ferma prima di deturpare un luogo così importante per la coscienza civile della nostra comunità, per di più in giornate difficili dal punto di vista del rispetto a questi valori e alle persone che hanno promosso e realizzato questo luogo. Ora non resta che rimetterci al lavoro e sistemare le cose perché tutto sia a posto quando settimana prossima visiteremo il Giardino insieme alla moglie di Vaclav Havel.

(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2019)


Due enclave agricole tornano alla Giordania

Israele ha consegnato domenica alla Giordania due enclave agricole che aveva in affitto dal 1994 in virtù del trattato di pace tra Gerusalemme e Amman. La Giordania si è rifiutata di negoziare un'estensione della locazione. Le aree in questione sono Naharayim, nella valle del Giordano, e Tzofar, nella regione meridionale di Arava. La prima comprende anche la cosiddetta "Isola della pace", un parco situato alla confluenza dei fiumi Giordania e Yarmouk dove sorge anche il memoriale dedicato alla sette studentesse israeliane assassinate sul sito nel 1997 da un soldato giordano mentre erano in gita scolastica. Una clausola del trattato di pace tra i due paesi ha permesso a Israele di mantenere il controllo delle due enclave per 25 anni, con l'intesa che la locazione sarebbe stata rinnovata automaticamente. Ma alla fine del 2018, di fronte alle crescenti critiche interne, re Abdullah II di Giordania si è avvalso della facoltà di interrompere il contratto. Fonti diplomatiche e politiche israeliane hanno espresso viva delusione per la decisione della Giordania, ma hanno anche detto che, date le forti pressioni interne su re Abdullah, era chiaro che Amman non avrebbe accettato nemmeno di negoziare. "Quando si tratta di relazioni con la Giordania - ha spiegato una fonte diplomatica ad Israel HaYom - tutte le questioni che vengono gestite dietro le quinte funzionano perfettamente, siano di sicurezza o economiche. Ma qualunque cosa esca sui loro mass-media o venga portata nel parlamento giordano incontra immediata opposizione".

(israele.net, 11 novembre 2019)


Iran, scoperto maxi giacimento di petrolio. E Teheran annuncia: nuovo reattore nucleare

Lo ha annunciato il presidente Rohani. Nello stesso giorno la tv di Stato dà notizia dell'inizio della costruzione di un secondo reattore nucleare nella centrale di Bushehr, con l'aiuto della Russia. Si riapre il caso Levinson

TEHERAN - Un nuovo giacimento petrolifero da circa 50 miliardi di barili è stato scoperto in Iran. L'annuncio lo ha fatto il presidente Hassan Rohani, che non ha mancato di mandare un messaggio a Trump: "Voglio dire alla Casa Bianca che nei giorni in cui sanziona le vendite di petrolio iraniano, i lavoratori di questo Paese e i suoi ingegneri sono stati in grado di scoprire 53 miliardi di barili di greggio", le parole del capo di Stato citate dall'agenzia Fars.
   Un'altra brutta notizia per Washington, che arriva nello stesso giorno in cui la tv di Stato iraniana dà la notizia, rilanciata dall'Associated Press, dell'inizio della costruzione di un secondo reattore nucleare nella centrale di Bushehr. E dopo il vanto del portavoce dell'Organizzazione per l'energia atomica dell'Iran (Aeoi), Behrouz Kamalvandi, che dall'impianto nucleare di Fordow ha rilanciato la capacità di Teheran di arricchire uranio fino al 60%, ben al di sopra di quanto richiesto dall'uso civile del nucleare, ma comunque inferiore al 90% necessario per la produzione di combustibile destinato alla bomba atomica.
   Il nuovo giacimento di 'oro nero', scoperto nella provincia di Khuzestan, potrebbe diventare il secondo più grande dell'Iran, dopo quello di Ahvaz che contiene 65 miliardi di barili. Sorride Rohani, nell'annunciarlo nel suo discorso pubblico, durante la sua visita nella città di Yazd: con questa scoperta aumenterebbero di un terzo le riserve di petrolio greggio dell'Iran, che al momento afferma di disporre di circa 150 miliardi di barili. E un rilancio per l'industria energetica iraniana, duramente colpita dalle sanzioni statunitensi dopo la crisi dell'accordo sul nucleare.
   Riguardo al nucleare sarà sempre la Russia ad aiutare Teheran nella costruzione del secondo reattore nella centrale di Bushehr, dopo aver fornito assistenza già per il primo, in funzione dal 2011, e dove si arricchisce l'uranio al 4,5% in violazione dell'accordo nucleare del 2015 siglato a Vienna. Ormai l'Iran ha iniziato un graduale disimpegno dall'intesa, dopo l'uscita unilaterale degli Stati Uniti, e sanzioni reintrodotte da Trump.
   Ma nello scontro tra Washington e Teheran, inaspettatamente si apre una luce sul caso di Robert Levinson, 58 anni, l'ex agente dell'Fbi scomparso in Iran nel 2007 durante una missione per conto della Cia. Dopo anni l'Iran ha riconosciuto, rispondendo al Gruppo di Lavoro dell'Onu che indaga sulle sparizioni forzate o involontarie, che esiste un caso ancora aperto presso la sua Corte Rivoluzionaria su Levinson. Ammissione che però arriva pochi giorni dopo che il dipartimento di Stato Usa ha annunciato una taglia da 20 milioni di dollari per chi fornisca informazioni utili all'individuazione dell'uomo, considerato da Washington l'ostaggio americano detenuto più a lungo (a cui si sommano i precedenti 5 milioni offerti dall'Fbi). Una cifra di 25 milioni di dollari, analoga a quella messa in palio per la cattura del leader dell'Isis Abu Bakr al-Baghdadi.
   La notizia, partita dalla famiglia di Levinson, però è già stata ridimensionata dal portavoce del ministero degli Esteri iraniano Abbas Mousavi, citato dall'agenzia Isna: "Nessun caso giudiziario è stato formato nei tribunali iraniani, incluso il tribunale rivoluzionario, sull'ex agente della Cia Robert Levinson", ma solo una mossa umanitaria per una "persona scomparsa". "Non abbiamo informazioni sul destino del cittadino americano, ma facciamo del nostro meglio per aiutare a risolvere il problema", ha detto Mousavi.

(Quotidiano.net, 11 novembre 2019)


Rivlin scrive a Segre: «Inorridito dalle minacce»

«Cara signora senatrice, sono rimasto inorridito nell'ascoltare la notizia che lei ha dovuto ricevere protezione a garanzia della sicurezza a causa delle minacce antisemite». Si apre così la lettera che il presidente israeliano Reuven Rivlin ha scritto ieri a Liliana Segre, invitandola a Gerusalemme. Per Rivlin la senatrice a vita è un «modello» per «il suo coraggio e la sua forza»: «Non ci sono parole per esprimere in modo adeguato il mio orrore e il mio disgusto nel vederla esposta a tale comportamento criminale - ha aggiunto-.
Come sopravvissuta all'Olocausto ha già visto le terribili e tragiche conseguenze dell'antisemitismo quando non viene fermato. Come senatrice a vita della Repubblica italiana, le sono stati riconosciuti i suoi "altissimi meriti per la patria"; come attivista contro il razzismo e l'antisemitismo, lei lavora instancabilmente per un mondo migliore».
Solidarietà alla Segre è arrivata anche dallo Yad Vashem, l'ente israeliano per la memoria della Shoah: «E inaccettabile che odio e xenofobia piaghino ancora la nostra società post-Olocausto».

(Corriere della Sera, 11 novembre 2019)


Decine di lapidi profanate in un antico cimitero ebraico in Danimarca

L’odioso episodio un antico cimitero ebraico a Randers, una cittadina danese dello Jutland dove ora la polizia sta indagando. “Disonorare i siti di sepoltura è un atto codardo. Abbiamo uno dei più antichi siti di sepoltura ebraici e lo custodiremo sempre”, ha dichiarato il sindaco della cittadina.

di Antonio Palma

Decine di lapidi profanate e distrutte e infine un adesivo giallo con la stella di David e la scritta "Jude", è l'odioso scenario che si sono trovati davanti nelle scorse ore alcuni addetti di un antico cimitero ebraico a Randers, una cittadina danese dello Jutland. A rivelare l'esecrabile accaduto è stato il giornale locale Randers Amtsavis raccontando di almeno una ottantina di lapidi prese di mira da profanatori con vernice, adesivi e oggetti contundenti. Molte sono state dipinte con graffiti verdi e alcune sono state rovesciate e danneggiate mentre su una delle lapidi è stato incollato un adesivo giallo con la stella di David e la scritta "Jude", un chiaro simbolo delle persecuzioni naziste. Il cimitero ebraico di Randers esiste dai primi anni del diciannovesimo secolo e la città ospita la più grande comunità ebraica della Danimarca.
A preoccupare ancora di più il fatto che l'episodio è avvenuto proprio in concomitanza con l'81esimo anniversario della Notte dei cristalli, le orribili ore tra il 9 e il 10 novembre del 1938 quando in Germania centinaia di cittadini ebrei furono uccisi dai nazisti e furono distrutte sinagoghe, cimiteri, negozi e case. Quanto accaduto nel cimitero ebraico risalente al 1807 non è stato sottovaluto dalle amministrazioni locali, che hanno denunciato pubblicamente il fatto. "Disonorare i siti di sepoltura è un atto codardo. Abbiamo uno dei più antichi siti di sepoltura ebraici e lo custodiremo sempre", ha denunciato infatti il sindaco della cittadina Torben Hansen. Anche la polizia danese ha deciso di andare fino in fondo sull'accaduto e ha subito avviato le indagini per risalire ai responsabili della profanazione del cimitero ebraico. “Non ci sono simboli o parole scritte sulle lapidi ma sono state imbrattate con la vernice e divelte”, ha spiegato il portavoce della polizia locale.

(fanpage.it, 11 novembre 2019)


Comunità ebraica di Roma. Lamorgese: "Mantenere sempre viva la memoria".

Dureghello: "Chiediamo a tutti un balzo in avanti nella coscienza civile per contrastare antisemitismo"

"È il momento di scegliere di stare con le altre culture. Di creare un circuito virtuoso tra comunità e tradizioni diverse, che devono essere vissute positivamente, come un'opportunità di crescita per tutti". Lo ha detto Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno, in visita oggi alla Comunità ebraica di Roma, la più antica d'Europa. Ad accoglierla la presidente Ruth Dureghello, il rabbino capo Riccardo Di Segni e il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni. Dopo un breve incontro privato con i rappresentanti dell'ebraismo romano ed italiano, il ministro ha visitato il Tempio Maggiore con i consiglieri della Comunità ebraica di Roma e il quartiere ebraico.
"Purtroppo in qualsiasi ambito, non si parla più in termini di confronto civile", ha affermato il ministro, che ha sottolineato come "la parte negativa di ognuno di noi abbia preso il sopravvento, dando spazio a linguaggi di odio che si tramutano in gesti di violenza concreta".
"Nonostante ciò, l'Italia - ha sottolineato - è uno dei Paesi più sicuri in Europa, perché oltre a non avere mai abbassato la guardia, ha sempre mantenuto viva la memoria, che dev'essere giornaliera e non legata a specifiche ricorrenze".
Lamorgese ha poi annunciato l'intenzione del Governo di intensificare le proprie attività di contrasto all'antisemitismo puntando "non solo sul vigilare situazioni di criticità" ma soprattutto sulla sensibilizzazione dei giovani "che saranno la classe dirigente del domani. Attraverso incontri nelle scuole e nelle università".
"Il nostro obiettivo - ha concluso - è la responsabilità di guardare avanti e di non farci ricorrere dalla storia".

(SIR, 11 novembre 2019)


Tutte le nuove vie della salute portano in Israele

A corpo sicuro

di Luciano Bassani

Oggi Israele è una delle nazioni leader nel mondo nella tecnologia medica e nelle innovazioni. Tra le novità troviamo come fissare la vista e ridare i dieci decimi. I ricercatori israeliani infatti hanno inventato delle rivoluzionarie nanogocce oculari che possono sostituire gli occhiali. Questo aiuterà milioni di persone dando un'alternativa alla correzione con il laser e con le lenti a contatto.
Non solo. Di tutti i tumori quello al polmone è uno dei più mortali, anche perché difficile da diagnosticare precocemente, spesso asintomatico fino a quando non è troppo avanzato. La start up israeliana Savicell ha brevettato un nuovo esame del sangue per diagnosticare il tumore al polmone al primo stadio, permettendo quindi l'impostazione di un trattamento immediato.
   Sempre nel campo dell'oncologia, la dottoressa Sharon Sbacham ha scoperto un farmaco per prevenire la proliferazione di cellule cancerose. Si tratta della prima e unica medicina approvata da Fda per il trattamento di pazienti con mieloma multiplo dando speranza a tanti pazienti affetti da questo male. Un nuovo studio dell'università di Tel Aviv, pubblicato su Oncotarget, rileva il ruolo di alcune proteine nell'uccidere le cellule tumorali di rapida duplicazione mentre si ha la divisione cellulare. La ricerca, guidata dal professor Malb Cohen Armon della Scuola di Medicina Sackler della Tau, ha scoperto che i derivati della fenantridina sono in grado di disturbare l'attività di alcune proteine che, se specificamente modificate, possono sfruttare un meccanismo di morte intrinseco che blocca la duplicazione delle cellule tumorali.
   La malattia di Alzheimer interessa 47milioni di persone e fino a oggi rimane una malattia incurabile e fatale. Anche su questo, gli scienziati israeliani sono in prima linea e stanno sviluppando un vaccino contro questa malattia. Per ora risultati sono stati ottenuti nel topo da un gruppo di ricercatori del Weizmann Institute of science, che hanno scoperto che l'anticorpo diretto contro la proteina PD-1, è in grado di agire positivamente sugli animali colpiti da Alzheimer. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Nature Medicine. Secondo gli scienziati israeliani un modo del tutto inaspettato per ottenere questo risultato sarebbe quello di agire a livello del sistema immunitario. Per arrivare a questo risultato, gli autori dello studio hanno somministrato a un gruppo di topi, che esprimevano elevati livelli di proteina beta amiloide nel cervello, questo anticorpo. Dalle analisi è emerso che nei topi trattati l'accumulo di proteina tossica è risultato ridotto del 50%.
   Con i grandi passi avanti compiuti negli ultimi anni nel mondo della ricerca si aprono nuove strade che fino ad oggi erano precluse. E patologie che sembravano incurabili, grazie ai grandi ricercatori di tutto il mondo, un giorno diventeranno problematiche di facile gestione.

(La Verità, 10 novembre 2019)


Israele - Bennett nuovo ministro della Difesa

I contatti per il nuovo esecutivo sono ancora in alto mare

Naftali Bennet
Il governo israeliano ha approvato oggi la nomina dell'ex ministro dell'Istruzione Naftali Bennett (leader della lista Nuova Destra) a ministro della Difesa, un incarico che negli ultimi mesi era stato svolto dal premier Benyamin Netanyahu. Lo ha reso noto la radio pubblica.
Nel frattempo restano in alto mare i contatti per la formazione di un nuovo governo. Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco, non è ancora riuscito a raccogliere il sostegno minimo di 61 dei 120 deputati della Knesset. I partiti restano in attesa di conoscere quale sarà la decisione definitiva di Avigdor Lieberman (del partito radicale di destra Israel Beitenu, forte di 8 seggi). Questi resta incerto se sostenere Netanyahu o Gantz. Intanto ha ribadito oggi che farà tutto il possibile per sventare il rischio che, in assenza di alternative, Israele vada a nuove elezioni. Sarebbero le terze in un anno.

(ANSAmed, 10 novembre 2019)


Il sillogismo illogico del cittadino Di Maio sull'antisemitismo

Non avere idee e dirle pure male

di Riccardo Mazzoni

l fatto che nel 2020 a una superstite dei campi di sterminio nazisti - la senatrice a vita Liliana Segre - debba essere assegnata la scorta a causa delle continue minacce ricevute è sicuramente una vergogna per l'Italia, e così l'ha opportunamente definita il Centro Wiesenthal. Una vergogna, purtroppo, che accomuna tutta l'Europa, dove in alcune nazioni l'antisemitismo sta perfino conquistando dignità di pensiero e di programma politico. Non è certo per un caso della storia se stiamo assistendo alla più grande fuga di ebrei dal Vecchio Continente dopo la Seconda guerra mondiale: da tempo sul tavolo del governo israeliano, ad esempio, c'è un piano dettagliato per accogliere 120.000 ebrei francesi in dieci anni, un quarto del numero totale degli ebrei che oggi vivono in Francia. Si tratta quindi di una situazione talmente preoccupante che dovrebbe sconsigliare ogni strumentalizzazione politica, per seguire l'indicazione giunta dal capo dello Stato, secondo cui «la solidarietà, la convivenza e il senso di responsabilità devono contrastare l'intolleranza, l'odio e la contrapposizione».
   In questo senso, alimentare ancora le polemiche sul voto del Senato al momento della nascita della Commissione Segre, per iscrivere surrettiziamente all'albo dell'antisemitismo chi non lo è mai stato, è un esercizio sgradevole e intollerabile. L'ultimo in ordine di tempo è stato Di Maio, che da ministro degli Esteri dovrebbe saper misurare le parole e che ha invece coniato un sillogismo del tutto illogico, in linea con la sua statura culturale, sostenendo che «se una senatrice a vita presenta una mozione in cui porta avanti il messaggio di tolleranza e di no all'odio», chi si astiene «avalla i comportamenti di chi ha offeso quella persona». Una semplificazione inaccettabile, perché la scelta di astenersi da parte del centrodestra non metteva assolutamente in discussione il contrasto all'antisemitismo, ma la vaghezza di altre fattispecie che rischiavano di limitare la libertà di pensiero e sanzionare chiunque non si inchini al relativismo imposto dalle nuove avanguardie di una mai estinta egemonia culturale, quella di derivazione gramsciana. C'erano infatti, nella mozione di maggioranza, due evidenti e gigantesche omissioni che la sinistra non ha voluto colmare: oggi la minaccia peggiore per gli ebrei è quella costituita dal fondamentalismo islamico e dalle organizzazioni che lo fiancheggiano e con cui l'Unione Europea tiene troppo spesso atteggiamenti ambigui per non dire complici; e il modo più coerente per combattere l'antisemitismo è stare al fianco dello Stato di Israele. Due requisiti imprescindibili, che però nella mozione di maggioranza non erano neppure citati. L'astensione non è stata dunque né un oltraggio alla memoria, né un tentativo di depotenziare la commissione Segre, ma la legittima riaffermazione del principio costituzionale della libertà di espressione, e la doverosa sottolineatura che in questo momento storico sta vivendo è necessario affrontare anche le derive anticristiana e l'antioccidentale, che sono i mantra micidiali della propaganda fondamentalista islamica. Utilizzare dunque la forza di un simbolo unificante nel tentativo di gettare sugli avversari politici ombre infamanti, come ha appena fatto il ministro Di Maio, diventa un'arma di distrazione che finisce per indebolire l'obiettivo comune: la guerra all'antisemitismo, appunto.

(Il Tempo, 10 novembre 2019)



Non c'è pace per i figli di Caino
    Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati, e io vi darò riposo. Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me, perché io sono mansueto ed umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero. (Matteo 11.28-30).
di Marcello Cicchese

"Venite a me voi tutti che siete travagliati ed aggravati, e io vi darò riposo". Sono parole di Gesù che spesso sono usate a scopo evangelistico. Si immagina di vedere nell'interlocutore incredulo un uomo che va in giro come il ben noto personaggio del libro di John Bunyan, "The Pilgrim's Progress", con il suo pesante fardello di peccati sulle spalle, non sapendo come fare per sbarazzarsene. A lui sembra rivolto l'invito ad andare a Gesù, a confessare a Lui i suoi peccati, affinché si liberi del peso che lo aggrava e trovi riposo per l'anima sua, cioè ottenga la salvezza eterna.
   Certamente non è sbagliato usare anche così queste parole, ma la portata di questo invito di Gesù va ben oltre un obiettivo strettamente evangelistico-dottrinale.
   Anzitutto una domanda: dove sono oggi le persone che vanno in giro portando il peso dei loro peccati? Forse poteva essere cosi al tempo dei riformatori o dei puritani inglesi, ma adesso, più che dal peso dei propri peccati le persone si sentono oppresse dal peso dei peccati altrui. Basta fermarsi a parlare un po' con qualcuno per sentirsi non di rado elencare una lunga lista di soprusi, dispiaceri, preoccupazioni, tormenti, afflizioni che il poveretto deve sopportare per colpa di genitori, figli, coniuge, parenti, datori di lavoro, dipendenti, colleghi, politici, uomini di governo, ecc. La filosofia generale che sostiene il discorso è questa: io sto male, quindi qualcuno sta sbagliando. Bisogna rintracciarlo. E se proprio non ci si riesce, si addebita tutto alla sfortuna, alle circostanze sfavorevoli, al destino avverso: tutti modi più o meno indiretti per dire che la colpa è di Dio.
   E' possibile rivolgere l'invito al riposo di Gesù anche a persone che, come queste, non avvertono il peso dei loro peccati?
   Ma supponiamo che adesso il peccatore si sia pentito e convertito. Adesso sa di essere stato perdonato e di avere ottenuto il riposo della salvezza eterna. Ben presto però si accorge che, pur non avendo più quel peso, gli sembra che ce ne siano rimasti molti altri. Pur sapendo di essere "in pace con Dio", continua ad essere oppresso da preoccupazioni, inquietudini, rimorsi, cattivi sentimenti, paure. Non sono preoccupazioni che riguardano la salvezza eterna, questo no. Probabilmente è ben consapevole che si tratta solo di problemi "umani", di difficoltà "terrene", ma in ogni caso la pace non c'è.
   E' possibile rivolgere l'invito al riposo di Gesù anche a persone che, come queste, pensano che l'invito non li riguardi perché hanno già portato a Gesù il peso dei loro peccati?
   Per tutte e due le domande la risposta è positiva.
   L'invito di Gesù è semplice e chiaro: "Venite a me voi tutti che siete travagliati ed aggravati", quindi l'invito è rivolto a chiunque si sente "affaticato e oppresso", qualunque sia la causa a cui l'interessato ritiene di dover attribuire i suoi guai. E la promessa è altrettanto semplice e chiara: "Io vi darò riposo", senza alcuna limitazione ai soli problemi "spirituali".
   Supponiamo allora che sia proprio tu colui che in questo momento sente di non avere una pace profonda e stabile. Forse ti stai incattivendo per i torti che subisci; forse stai tentando di suddividere onestamente le responsabilità tra quelle tue e quelle degli altri; forse stai cercando affannosamente una via d'uscita. Devi smettere. La prima cosa da fare è riconoscere che, dal momento che ti senti "affaticato e oppresso", l'invito di Gesù è rivolto proprio a te. Anche se ti sembrasse di avere tutte le ragioni nei confronti dei tuoi simili, è certo che se rifiuti l'invito di Gesù cadi in torto nei confronti del tuo Signore, peccando di disubbidienza e incredulità. Se Gesù dice: "Venite a me", bisogna lasciare tutto e andare a Lui. E' un ordine, non un consiglio.
   Dopo essere andato a Gesù, devi prendere in seria considerazione la sua promessa: "Io vi darò riposo". Anche qui, non è il caso di stare ad immaginare come e quando questo potrà accadere: si tratta di credere, e di continuare a credere, che Gesù vuole e può darti il riposo. Ogni argomentazione aggiuntiva, per quanto possa apparire acuta e intelligente, è soltanto un'espressione della tua poca fede.
   Ma come farà Gesù a darti il riposo? Riuscirà forse a cambiare le circostanze intorno a te? Modificherà gli atteggiamenti delle persone che ti circondano? E' possibile, ma non è promesso. L'invito di Gesù non contiene simili assicurazioni.
   Forse allora Gesù riuscirà a consolarti; forse manifesterà comprensione e ti aiuterà a sopportare il peso delle circostanze avverse. Neanche questo è detto. Nella sua promessa Gesù non dice che ti toglierà la sofferenza del tuo peso, ma ti offre di portare con Lui il suo peso. E ti assicura che "il suo giogo è dolce e il suo carico è leggero".
   Il tuo problema dunque non è di sapere come riuscirai a sbarazzarti del tuo carico, ma di verificare se sei disposto a portare il carico che Gesù vuole importi. Anche qui si tratta di ubbidienza e fede: devi prendere su di te il giogo di Gesù e credere che il suo carico è dolce e leggero. Il carico leggero che Gesù ti imporrà si sostituirà al carico pesante che tu, anche se non vuoi ammetterlo, ti sei messo da solo sulle spalle.
   Gesù continua dicendo: "Imparate da me". E anche questo ti sorprenderà. Effettivamente non è usuale sentir dire a qualcuno che si trova nei guai: "Impara da me". Noi, quando vediamo qualcuno in crisi ci sentiamo a disagio e siamo disposti a dargli tutte le ragioni, o almeno a concedergli tutte le attenuanti. Abbozziamo qualche parola di conforto, qualche timido consiglio, oppure, come massima espressione di umile riservatezza, conserviamo un dignitoso silenzio. Gesù invece ti dice: "Impara". Dunque hai da imparare. Pensavi che intorno a te ci fossero tante cose che prima di tutto avrebbero dovuto essere modificate, tante persone che avrebbero dovuto imparare e cambiare. E invece sei tu che devi cambiare. Devi imparare, devi andare a scuola.
   Gesù dice: "Imparate da me". E che cos'ha Gesù da insegnare? E' forse una persona in gamba che sa destreggiarsi bene nelle faccende di questa vita? E' forse un fine psicologo che sa ascoltare il prossimo e dire buone parole di conforto che alleggeriscano il peso degli istinti di rabbia e dei sentimenti di colpa? O forse è un guru che insegna a rilassare i muscoli, a distendere i nervi e a rimanere calmi anche nelle più tumultuose circostanze della vita?
   Gesù dice: "Imparate da me, perché io sono mansueto ed umile di cuore". Ecco allora dov'è la causa profonda del tuo esaurimento nervoso: non sei né mansueto né umile, ma tu, come tutti noi figli di Caino, sei violento e superbo.
   Caino non accettò il giudizio di Dio sul suo operato e quindi, come dice la Scrittura, "ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto". Irritazione e abbattimento: non sono forse queste le manifestazioni più comuni di ogni forma di "stanchezza" psicologica? L'irritazione e l'abbattimento di Caino avevano le loro radici nella sua superbia di fronte a Dio. Egli si sentiva costretto a dipendere da una volontà superiore alla sua e a subire il giudizio di qualcuno di cui non voleva riconoscere l'autorità, ma di cui avvertiva soltanto che era il più forte.
   Non potendo sfogare la sua irritazione contro chi era più forte di lui, fece esplodere la sua ira contro chi era come lui. Non potendo vendicarsi di Dio, si scagliò contro la sua immagine, e con l'uso della violenza tentò di stabilire sulla terra la legge del più forte.
   Ma in tutto questo non trovò pace, tutt'altro. Trovò la paura: paura di Dio e degli uomini.
    "Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo, ed io sarò nascosto dal tuo cospetto, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà" (Genesi 4:14) .
Sei superbo come Caino quando ti ribelli in cuor tuo a ciò che ti capita e non dipende da te; quando ti chiedi: "Perché proprio a me?" quando pensi: "Una cosa cosi io non me la meritavo". Ti pesa di non poter disporre liberamente del tuo destino; ti pesa di non poter capire perché i fatti della vita smentiscano le tue previsioni e i tuoi giudizi; ti pesa che la tua volontà non sia pienamente fatta. In altre parole, ti pesa di non essere come Dio.
   Allora ti guardi intorno e cerchi una causa al tuo malessere. Inevitabilmente la trovi. C'è sempre qualcuno che con il suo comportamento "ti dà sui nervi", qualcuno che effettivamente si comporta male con te, qualcuno che sta peccando contro Dio e nel suo peccare opprime te. Questo ti spinge alla reazione violenta. Se il destino avverso è più forte di te e tu sei costretto a subirlo, lui, il tuo nemico, un uomo come te, non sei disposto a sopportarlo. In lui vedi la causa dei tuoi mali e quindi vuoi distruggerlo. Che tu lo faccia o no, la violenza che ti spinge contro il tuo simile ti domina, e le risonanze che provoca dentro di te impediscono che tu "conosca la via della pace".
    "La 'loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. I loro piedi sono veloci a spargere il sangue. Rovina e calamità sono sul loro cammino e non conoscono la via della pace" (Romani 3.14-17).
La tua mancanza di pace è dovuta al rumore di fondo del tuo rancore verso Dio e verso gli uomini. La pace che Dio vuole darti non è in primo luogo uno stato d'animo, ma una relazione. E tu manchi di pace perché sei in uno stato di guerra. Se le tue relazioni con Dio e con il prossimo sono relazioni di guerra, non puoi pretendere di godere internamente sentimenti di pace.
   Il rimedio che Dio ti offre è uno solo: porre fine allo stato di guerra. La pace di Dio si chiama "riconciliazione". Riconciliazione con Dio e con gli uomini. E questa riconciliazione passa necessariamente' attraverso Gesù Cristo, che è l'unica persona che non solo ha la pace, ma può anche darla.
   Gesù è l'unico uomo al mondo che sia stato umile con Dio e mansueto con gli uomini. Egli è rimasto in pace con il Padre, perché si è sottomesso in tutto alla sua volontà; ed è rimasto in pace con gli uomini, perché non ha mai smesso di amarli e proteggerli dal giudizio di Dio anche quando si sono scagliati contro di Lui.
   Rimanendo in pace con Dio come uomo, Gesù ha portato la pace di Dio anche tra gli uomini. Con pieno diritto quindi può dire: "Venite a me" e "imparate da me". Andando a Lui possiamo entrare nella giusta relazione con Dio e con gli uomini, e porre fine al nostro stato di guerra.
   A Lui dobbiamo andare confessando la nostra superbia e la nostra violenza, per ottenere attraverso di Lui la riconciliazione con Dio e con gli uomini.
   Da Lui dobbiamo imparare la mansuetudine e l'umiltà, in modo da diventare "facitori di pace", cioè uomini che diffondono la pace, favorendo ovunque vadano la riconciliazione degli uomini con Dio e degli uomini fra di loro.
   Restando uniti a Gesù nella sua umiltà e mansuetudine, conosceremo per esperienza quanto è vero che il suo giogo è dolce e il suo carico leggero, e verificheremo in prima persona la verità delle sue promesse. E capiremo che le sue parole: "Io vi lascio pace, vi do la mia pace" (Giovanni 14.27) non sono una bella formula dottrinale, ma una concreta, tangibile realtà.

(Notizie su Israele, 10 novembre 2019)

 


Israele corre in soccorso dei curdi dopo il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria

Israeli official: Jerusalem providing aid to Kurds since US pullout in Syria

da Times of Israel, 7/11/ 2019

Come appena dichiarato dal vice-ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hatovely alla Knesset, Tel Aviv sta fornendo aiuti ai curdi nella Siria settentrionale da quando gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi dalla regione, anche per evitare che la sconfitta del "popolo senza stato" possa in qualche modo aumentare l'influenza iraniana nell'area.
   "Israele ha ricevuto molte richieste di assistenza, soprattutto dal punto di vista diplomatico e umanitario. Comprendiamo il timore dei curdi e abbiamo deciso di assisterli attraverso i nostri canali speciali", queste le dichiarazioni della Hatovely come riportate dalla Reuters.
   Hotovely non ha fornito ulteriori dettagli sul tipo di assistenza fornita, ricordando solo che "nel dialogo con gli americani confermiamo la nostra posizione ferma sui curdi e siamo orgogliosi di schierarci al loro fianco". Queste parole sono la prima conferma del rispetto, da parte di Israele, dell'impegno assunto dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu il 10 ottobre nei confronti dei curdi: "Israele condanna fermamente l'invasione turca delle aree curde in Siria e mette in guardia contro la pulizia etnica dei curdi da parte della Turchia e dei suoi alleati", aveva detto Netanyahu in una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio stampa. "Israele è pronto ad estendere l'assistenza umanitaria al coraggioso popolo curdo".
   Il mese scorso gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro dalle aree occupate dai curdi nella Siria nord-orientale, consentendo a Damasco, Ankara e Mosca di spartirsele. La Turchia e i suoi alleati oltreconfine il 9 ottobre hanno lanciato un attacco contro le aree occupate dai curdi, prendendosi una striscia di 120 chilometri di terra siriana lungo la frontiera. L'incursione ha causato centinaia di vittime e costretto 300.000 persone a fuggire dalle loro case: l'ennesimo disastro umanitario di una brutale guerra che ormai dura da otto anni.
   La Turchia e la Russia hanno poi stretto un accordo a Sochi affinché altre forze curde si ritirino dalla frontiera su entrambi i lati dell'area turca sotto la supervisione delle forze russe e siriane.
   Hotovely ha affermato che Israele teme che le forze sostenute dall'Iran possano estendere la loro influenza nella regione. Israele ha a lungo combattuto per sradicare la presenza militare iraniana in Siria.
   "Israele ha un enorme interesse nel preservare i curdi e le altre minoranze moderate e filo-occidentali della Siria settentrionale", ha detto Hotovely. "L'eventuale crollo del bastione curdo rappresenta uno scenario fosco e pericoloso per Israele. È evidente che un evento del genere provocherebbe un rafforzamento degli elementi negativi nell'area capeggiati dall'Iran".
   La Reuters non ha potuto ancora contattare i curdi siriani per un commento alla notizia.
   Poche settimane fa un ufficiale delle forze democratiche siriane ha invitato Israele ad agire contro l'incursione militare turca nella Siria settentrionale. L'ufficiale, che ha voluto rimanere anonimo, ha anche espresso fiducia che il popolo ebraico non trascurerà i curdi nel nord della Siria, rievocando la sua storia di persecuzione.
   "Lo Stato di Israele deve impegnarsi a porre fine a questa guerra che sta uccidendo donne e bambini e cacciando i civili dalle loro case", ha dichiarato l'ufficiale al Times of Israel. "Sono certo che il popolo ebraico può capire meglio di tutti la situazione del popolo curdo, avendo rischiato di venire annientato per gran parte della sua storia. Sono sicuro che non resterà a guardare la nostra terra travolta dal terrore turco".

(totalitarismo.blog, 9 novembre 2019)


Israele, lo stallo politico costa caro

di Daniel Reichel

 
Lo stallo alla messicana è quella situazione tipica dei film western in cui due o più personaggi si tengono sotto tiro a vicenda e nessuno riesce a prevalere. È un po' quello che sta accadendo in Israele dove Benny Gantz, leader di Kachol Lavan, e Benjamin Netanyahu, leader del Likud, si sono tenuti per settimane nel mirino ma nessuno è riuscito ad avere politicamente ragione dell'altro. Entrambi affermano di volere formare un governo di unità nazionale unendo i 33 seggi di Kachol Lavan ai 32 del Likud ma nessuno dei due in un mese e mezzo dal risultato delle urne (17 settembre) ha voluto cedere su chi dovesse venire prima in un'eventuale rotazione della premiership e così si è rimasti bloccati. Sapendo che la situazione sarebbe rimasta in stallo Netanyahu ha rimesso l'incarico di formare il governo nelle mani del Presidente Reuven Rivlin che lo ha girato a Gantz, la cui situazione non è delle migliori. "Lavorerò per tutto il popolo d'Israele. Per un governo di cui Israele ha disperatamente bisogno - ha affermato il leader di Kachol Lavan, che può vantare di essere il primo da undici anni a questa parte ad aver ricevuto l'incarico da Rivlin (fino allo scorso aprile, Netanyahu era sempre riuscito ad avere una maggioranza alla Knesset) - Formeremo un governo che spingerà per la pace e saprà affrontare definitivamente ogni nemico" L'ex generale ha poi promesso che il suo governo servirà a unire il paese e a superare le fratture interne alla società israeliana: "Siamo qui per rappresentare tutti, i haredim, con i quali dobbiamo sederci e parlare come fratelli, i cittadini arabi, i nostri fratelli drusi, così come tutti gli altri", le sue parole in linea con quelle di Rivlin, che più volte ha fatto appello alle forze politiche perché superino le loro divergenze ed evitino terze elezioni.
   Per Gantz e i suoi il punto non ricevibile è la possibilità che Netanyahu governi mentre ancora non è chiara la sua situazione giudiziaria. L'autunno inoltrato (ma forse l'inverno) potrebbe essere decisivo su questo fronte: il procuratore Avichai Mandelblitt dovrebbe sciogliere le riserve e annunciare se incriminerà il leader del Likud in almeno uno dei tre casi in cui il Premier uscente è coinvolto. Per questo Netanyahu non è disposto a cedere sulla rotazione: vuole essere primo per poter gestire da Premier in carica la situazione. Il problema è che sono di più gli israeliani che vorrebbero vedere Gantz primo e Netanyahu secondo in caso di accordo per un'alternanza (46 contro 40 per cento secondo un sondaggio dell'emittente Kan) ma soprattutto una grande maggioranza - il 65 per cento, stando a un sondaggio dell'Israel Democracy Institut - afferma di volere le dimissioni di Netanyahu in caso di incriminazione. Il leader del Likud, anche se punta il dito nei confronti degli altri partiti, sembra voler forzare la mano nuovamente e cercare per la terza volta in un anno la via delle urne: il suo auspicio è di avere ciò che ad aprile e settembre 2019 non ha ottenuto, ovvero una maggioranza chiara Il problema per Bibi sono i numeri: matematicamente in pochi mesi ha perso seggi e voti (nonostante abbia inghiottito in estate due partiti, Kulanu e Zehut, ha ottenuto meno seggi a settembre rispetto che ad aprile) ed è difficile prevedere un risultato diverso in una terza elezione a inizio 2020. Anzi, gli elettori potrebbero punirlo, anche perché la maggior parte di loro (il 37% secondo Kan) lo riterrebbe responsabile in caso di ritorno ai seggi. D'altro canto Netanyahu è bravo nel fare miracoli elettorali, come la vittoria inattesa nel '96 dopo l'omicidio del Premier laburista Yitzhak Rabin, per cui ogni previsione rischia di essere sovvertita.
   Mentre i partiti si sono trascinati in discussioni e accuse, il bilancio del governo racconta di una situazione complicata: un deficit di oltre undici miliardi di dollari, con gli ospedali, le infrastrutture dei trasporti e le scuole sottofinanziati, secondo alcune inchieste giornalistiche. Il nemico Iran, grazie al ritiro Usa in Siria, ha acquistato potere e la violenza a Gaza vive di continue fiammate, "La necessità di un governo che 'spinga per la pace' e sappia trattare con ogni nemico - scrive Bernard Avishai sul New Yorker - è più di semplice retorica. Un Primo Ministro con il mandato di cambiare rotta, o semplicemente di agire con evidente legittimità, è importante. Non è chiaro quando Israele ne avrà uno di nuovo".

(Pagine ebraiche, novembre 2019)


9 novembre 1938, la notte dei cristalli. il pogrom con cui iniziò la Shoah

di Iaia Vantaggiato

Li chiamiamo poeticamente "cristalli". Erano le migliaia di vetrine di negozi e abitazioni degli ebrei tedeschi distrutte nel grande Pogrom nazista che fu scatenato dal dottor Goebbels tra il 9 e il 10 novembre 1938, nel corso della Notte dei Cristalli. Nella realtà di poetico non ci fu niente. Furono distrutte 267 sinagoghe in Germania e in Austria, altre 1400 furono pesantemente danneggiate. Furono attaccati dalle SA e dalla Hitler Jugend oltre 7mila negozi di proprietà ebraica. Furono violati i cimiteri ebraici, prese di mira 171 abitazioni private. Furono arrestate, picchiate selvaggiamente e internate oltre 3 milioni di persone. Furono uccisi 36 ebrei.
   La persecuzione durava da anni. Le leggi razziali di Norimberga erano in vigore già dal 1935. Ma un pogrom di quelle dimensioni non si era mai visto e non si sarebbe ripetuto. Non rientrava nel gelido modus operandi delle SS. Troppo rumoroso e plebeo. Troppo poco efficace. Il Reichsfuhrer delle SS Himler se la prese senza mezzi termini con "la megalomania e la stupidità di Goebbels". A decidere il pogrom fu infatti Goebbels - secondo il massimo storico della Shoah, Saul Friedlander - per rialzare le sue quotazioni in discesa agli occhi di Hitler.
   L'occasione fu offerta al ministro nazista della Propaganda dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi da parte di un giovane ebreo polacco Herschel Grynzspan. La famiglia dell'attentatore faceva parte degli ebrei polacchi immigrati in Germania a cui era stata tolta di punto in bianco la cittadinanza. Furono espulsi dalla Germania, ma respinti al confine polacco, costretti a vagare nella terra di nessuno.
Herschel, esule a Parigi, decise di vendicarsi. Con un revolver in tasca chiese di vedere l'ambasciatore ma la mattina del 7 novembre lo portarono invece da Ernst vom Rath, un semplice funzionario. Fu lui a essere colpito. Morì due giorni dopo. Per una tragica ironia era un antinazista.
   La notizia raggiunse Hitler mentre celebrava il quindecimo anniversario del fallito Putch di Monaco, nel 1923. II Fuhrer lasciò subito la birreria in cui era iniziato il fallito putsch. Al suo posto parlò Goebbels e diede di fatto mano libera alle SA, già pronte a entrare in azione.
   Nella notte i gerarchi si affrontarono in una rissosa riunione. Goering rinfacciò a Goebbels i danni economici provocati dal pogrom. La soluzione trovata rispondeva alla macabra ironia nazista: a pagare i danni sarebbero state le stesse vittime, gli ebrei. "Non vorrei essere un ebreo in Germania di questi tempi", commentò soddisfatto Goering.
   Ma pur restando un caso unico, la Notte dei Cristalli cambiò radicalmente la situazione. Sino a quel momento la persecuzione era stata essenzialmente basata su una crescente discriminazione. Dall'alba del 10 novembre diventò omicida, compì un feroce salto di qualità. Il caotico pogrom di Goebbels fu l'anticamera dello scientifico sterminio di Himmler e Deydrich.

(Shalom, 9 novembre 2019)


Museo ebraismo Ferrara, sbloccati 25 milioni di euro per il Meis

L'annuncio di Franceschini: "Lo dobbiamo a Liliana Segre"

FERRARA - Cancellati dal precedente governo, sono stati ripristinati oggi dal Mibact con 25 milioni di euro i finanziamenti per il Meis, il museo dell'ebraismo di Ferrara. Lo anticipa il ministro della cultura Dario Franceschini. "Lo dobbiamo a Liliana Segre - dice - a lei personalmente e a quello che rappresenta. La conoscenza è il migliore antidoto contro odio e intolleranza"
   A fine ottobre era stato firmato il protocollo d'intesa tra il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah (Meis), con sede a Ferrara (dove erano le vecchie carceri in cui fu imprigionato anche Giorgio Bassani), e il Parco archeologico del Colosseo. Un accordo che "dà il via a una collaborazione per realizzare progetti condivisi di ricerca e di valorizzazione", aveva spiegato il presidente del Meis, Dario Disegni, "con scambi finalizzati alla conoscenza della storia dell'ebraismo".
   Il Meis vide come padri fondatori Dario Franceschini e Vittorio Sgarbi, che per primi firmarono nel 2003 la legge 'bipartisan' di fondazione del museo (votata in Parlamento all'unanimità) "quale testimonianza delle vicende che hanno caratterizzato la bimillenaria presenza ebraica in Italia". Dopo complesse vicissitudini - legate ai finanziamenti dei vari blocchi di cui è composto - il museo è stato inaugurato il 14 dicembre 2017, completato solo in parte, con la mostra Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, che ricostruiva il primo segmento del percorso permanente. La volontà del museo è quella di comunicare, con l'uso di tecnologie all'avanguardia, l'unicità della storia e la peculiare presenza degli ebrei in Italia, con un'ampiezza e una completezza finora assenti. Attualmente al museo di Ferrara è in corso la seconda parte di storia, con Il Rinascimento parla ebraico.

(il Resto del Carlino, 9 novembre 2019)



Israele: la difesa del paese prima degli interessi personali

Un rischio così imminente come quello iraniano non lo affronti con le parole o facendo giochetti politici. Serve responsabilità e un governo nel pieno delle sue funzioni.

di Franco Londei

Per impostazione predefinita Rights Reporters cerca sempre di non entrare nelle questioni politiche che riguardano Israele.
È una scelta, la nostra, fatta molto tempo fa che punta alla difesa dello Stato Ebraico a prescindere da chi lo governi. Non stiamo con Israele a seconda di chi lo governa, stiamo con Israele sempre.
Perché faccio questa premessa? Perché per la prima volta ci troviamo di fronte a uno stallo politico che sta mettendo in grave pericolo Israele in un momento in cui il pericolo iraniano, un pericolo esistenziale, è più forte che mai.

 È il momento delle decisioni importanti e collegiali
  Quello che stiamo vivendo in Medio Oriente è un periodo particolarmente insidioso, forse il momento più difficile dai tempi delle guerre con gli arabi.
L'Iran ha accerchiato, letteralmente, Israele. Questo credo che nessuno possa negarlo.
Gli Ayatollah hanno come obiettivo dichiarato quello di attaccare e distruggere lo Stato Ebraico. Anche questo credo nessuno lo possa negare.
E non basta l'accerchiamento che potrebbe scaricare su Israele migliaia di missili al giorno, ora l'Iran ha ripreso in pieno il suo programma nucleare tanto che gli esperti della intelligence israeliana prevedono che gli Ayatollah potrebbero testare il primo ordigno atomico entro un anno.
Ora, chiunque capisce che con una situazione del genere quello di cui non c'è assolutamente bisogno è che in Israele ci sia uno stallo politico di questa portata e che dura ormai da diversi mesi.
Ora più che mai allo Stato Ebraico serve un Governo unito che possa prendere decisioni importanti e persino drammatiche sapendo di avere dietro di se tutto il Paese a prescindere dal credo politico.
Ad Israele non servono le ripicche politiche, non servono i giochetti come quello fatto ieri da Netanyahu con la nomina di Bennet al Ministero della Difesa quando dall'altra parte Gantz sta cercando di trovare una quadra per formare un Governo che possa prendere le decisioni necessarie alla difesa del Paese.
Non è più il momento dei giochi politici a salvaguardia degli interessi personali o delle fazioni politiche. L'Iran è a un passo e gli Ayatollah non li fermi con le parole o mantenendo una poltrona.
Non entro nel merito della accuse a Netanyahu o delle eventuali strumentalizzazioni su vicende che solo la magistratura può dirimere.
Tuttavia in questo momento non è nell'interesse di Israele fare il gioco degli Ayatollah non garantendo al Paese un governo forte e nel pieno delle sue capacità.
Un Paese diviso non può garantire quella sicurezza e compattezza che ora più che mai sono necessarie per la sua sopravvivenza.
E se qualcuno deve fare un passo indietro è arrivato il momento di farlo pensando al bene di Israele e non ai propri interessi e tornaconti personali e politici.
Il tempo sta scadendo, i nemici sono letteralmente alle porte, il pericolo è sempre più incombente ogni giorno che passa. Rimanere in questa situazione è un suicidio.

(Rights Reporters, 9 novembre 2019)


Caso Segre: «Malan mi sono astenuto, ma non ho tradito la mia storia di valdese»

 
Lucio Malan
PINEROLO - Lucio Malan, senatore di Forza Italia, da oltre vent'anni siede ininterrottamente sugli scranni di Palazzo Madama al punto di essere considerato un romano di adozione. Le sue radici però affondano nel Pinerolese e in particolare nella Val Pellice, terra di valdesi che, come gli ebrei, furono vittime di discriminazioni e di brutali persecuzioni. A molti suoi compaesani quindi ha lasciato l'amaro in bocca il fatto che proprio il valdese Lucio Malan, in qualità di vice-capogruppo in Senato, abbia sostenuto i motivi della dissociazione in forma di astensione del partito di Berlusconi rispetto alla mozione "Segre" con cui si chiedeva l'istituzione di una commissione straordinaria di contrasto ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione a odio e violenza.

- Senatore, con questa presa di posizione non crede di aver tradito la storia della sua terra di origine?
  «Ai valdesi, come un po' a tutti coloro che si sono indignati per la nostra astensione, chiedo di informarsi e di leggere gli atti dei lavori parlamentari prima di giudicare».

- L'astensione su un tema del genere non parla già da sola?
  «Guardi, il mio impegno personale e del mio partito contro ogni forma di antisemitismo, razzismo e istigazione all'odio è sempre stato coerente e costante molto di più di coloro che oggi ci additano come fascisti o addirittura nazisti».

- Per evitare questo rischio non sarebbe bastato semplicemente votare la mozione Segre?
  «Rispondo con una domanda: chi si indigna per l'astensione del centrodestra, perché non ha votato anche la mozione di Forza Italia che in fondo era dello stesso tenore, ma non conteneva le tante cose strane, secondo me strumentali e ambigue, inserite in quella votata da centrosinistra e Cinquestelle, che aveva solo il pregio di avere come prima firmataria una personalità indiscussa come la Segre».

- Cose strane? A cosa si riferisce?
  «Ad esempio la volontà di colpire atteggiamenti nazionalisti, perché su questo punto occorre intendersi: il nazionalismo distruttivo di Hitler è una cosa, ma ci sono invece espressioni di difesa dell'identità nazionale del tutto lecite, per dire, a suo modo anche Giolitti era un nazionalista; faccio un esempio: se io sostengo che democrazie come l'Italia o Israele, Stati di diritto, dove c'è l'uguaglianza tra uomo e donna e libertà religiosa sono superiori a quelle di quei Paesi dove queste regole e questi diritti sono negati, devo essere perseguito ed equiparato a Hitler?»

(L'Eco del Chisone, 9 novembre 2019)


La sen. Segre non è lo specchio dell'Italia ma è il testimone di accusa della nostra storia

La lotta contro l'antisemitismo non va banalizzata

di Giuliano Ferrara

Sottoscrivo tutto, ovvio e doveroso, di quanto si sta dicendo, scrivendo a proposito dell'osceno clima in cui si è rivelato necessario dotare Liliana Segre di una scorta. Osservo però che questa sottoscrizione è una cosa facile, e invece essere leali amici e concittadini degli ebrei è difficile. Quando si trascura questa difficoltà, segno tragico della storia e della metastoria, non si fa un servizio schietto e giusto alla causa dello sradicamento dell'antisemitismo. Agli ebrei si deve un riconoscimento che non sia sommario, che non sia scontato, la questione ebraica non è materia di educazione civica. Qualcosa non va se uno dice che vuole incontrarla, l'altra che è pronta a applaudirla (Salvini, Meloni), qualcosa non va se tutti, ma proprio tutti, si sentono tenuti a entrare nella scorta, e lo proclamano con toni stentorei come un fiocco di pura retorica ornamentale, pedagogica: la senatrice non è una signora con i capelli bianchi che deve essere accompagnata mentre traversa la strada, non è un testimonial tra gli altri possibili di quanto siamo buoni e di quanto sono cattivi gli altri, non ha nessun bisogno di entrare in un ordine di pace solidale a buon prezzo, ha un numero carnale tatuato sull'avambraccio, è entrata a Auschwitz-Birkenau e ne è uscita con la fine liberatoria della guerra mondiale, la sua storia è parte di una storia unica, è lo speciale stigma dell'elezione, è passione e riscatto complicati da tenere insieme per noi italiani, per noi europei, per tutti.
   A Dresda hanno deciso di votare una mozione contro il nazismo come problema e come pericolo della società tedesca risorgente, e il partito della Merkel non ha seguito l'iniziativa dichiarandola, come riferisce il Post, "puro simbolismo politico". Questa remora ha qualcosa di comprensibile. Gli ebrei non sono lì per consentirci la buona coscienza collettiva sotto il profilo simbolico. Non devono essere usati per affermare un messaggio universalista e umanitario che si incarni in un linguaggio simbolicamente corretto, sia pure quello che con ottime intenzioni e risultati ancora da decifrare ha generato le controverse legislazioni contro l'hate speech. Non hanno bisogno di un safe space come quelli in cui vogliono iscriversi i vittimisti ideologici dei campus americani. Sono di nuovo vittime di odio in molti paesi europei, sono assimilati alle politiche dello stato di Israele verso il quale entrano in azione disconoscimento e boicottaggio, e sono tutti loro, non in maniera simbolica, a richiedere una protezione speciale che non è solidarietà cantata, non è tiritera, non è leziosaggine e iconismo generico, è e deve essere dura e severa capacità di comprensione. Ma non è paradossale dire che sono loro a doverci scortare e proteggere, è dalla loro forza e dalla loro autorevolezza come bocche infuocate dello spirito novecentesco che dobbiamo tirare l'ispirazione. Non è possibile un giorno consegnare alla menzogna dello stato-apartheid il loro profilo nazionale ebraico, e un altro giorno ricoverarli a parole sotto l'ala protettrice della nostra indignata amicizia. Qualcosa non funziona nella catena delle certezze morali in dispiegamento, e nel linguaggio che si sono scelti. La senatrice Segre non è la reliquia veneranda di una storia trascorsa di fronte alla quale ci interroghiamo benevoli e accorati su come è ridotto il nostro paese per doverle assegnare una scorta. E' il testimone d'accusa della nostra storia e della nostra responsabilità di ieri e di oggi. E sono due persone diverse.

(Il Foglio, 9 novembre 2019)


"Israele che visse a cinecittà": una storia dimenticata di accoglienza

di Giorgia Calò

Giovedì 7 novembre nella sala di Palazzo Fellini degli Studios di Cinecittà è stata presentata l'anteprima del cortometraggio "Israel che visse a Cinecittà", che ripercorre i primi anni di vita di Israel Levy, figlio di due ebrei romani rifugiatisi a Cinecittà nel Teatro 5, che era diventato un centro di accoglienza per profughi, sfollati e sopravvissuti all'Olocausto.
È in questo ambiente che trovano alloggio sfollati romani, figli di coloni italiani in Libia, esuli giuliano-dalmati, sopravvissuti alla Shoah. Tra questi anche Klara e Imre che incontratisi e innamoratisi nelle fila del movimento giovanile Hashomer Hatzair, vorrebbero partire alla volta della Palestina ancora sotto mandato britannico. Ma giunti in Italia, Klara scopre di aspettare un bambino e la partenza salta. Israel che visse a Cinecittà ripercorre la storia di quel viaggio rimandato e della primissima infanzia di un bambino cresciuto e vissuto per due anni nel Teatro 5.
Ripercorrendo la sua storia è quella dei suoi genitori, il corto racconta come gli Studios abbiano rappresentato per molti la possibilità di tornare a sperare e a vivere.
Il cortometraggio è stato realizzato dall'Istituto Luce Cinecittà, insieme alla Fondazione Museo della Shoà.
All'anteprima hanno preso parte Mario Venezia, Presidente della Fondazione Museo della Shoà, Ariela Piattelli e Roberto Cicutto, Presidente e amministratore delegato di Istituto Luce Cinecittà. Alla proiezione del corto è seguita una visita guidata dei set all'aperto degli Studios e ai partecipanti e stata data l'opportunità di visitare la mostra permanente 'Cinecittà si mostra'.ù

(Shalom, 9 novembre 2019)


Israele, la leva e le spese da rivedere

di Aviram Levy, economista

Nei mesi scorsi in Israele si sono avviate le trattative tra il ministero del Tesoro e lo stato maggiore dell'esercito per concordare il nuovo budget quinquennale per le spese militari. Il confronto si preannuncia vivace e sul tavolo della trattativa vi è un argomento finora considerato tabù, ossia un accorciamento del servizio militare obbligatorio, attualmente di tre anni per gli uomini.
   La trattativa si è avviata perché l'attuale piano quinquennale (2016-20) si esaurisce tra un anno; le spese per la difesa sono peraltro l'unico capitolo del bilancio dello stato che gode, per ovvi motivi, del privilegio di un orizzonte quinquennale: per sua natura la spesa militare richiede una pianificazione non compatibile con una rinegoziazione e una approvazione annuale da parte del Parlamento. Le richieste dello Stato maggiore per il quinquennio 2021-25 (cosiddetto progetto "Tnufà", ossia slancio), che puntano ovviamente a rafforzare la superiorità e la deterrenza dell'Esercito nei confronti dei potenziali nemici, comportano un aumento significativo della spesa. Il ministero del Tesoro da parte sua è disposto ad accogliere queste richieste ma vorrebbe che una parte delle maggiori spese venisse finanziato con tagli ad altre spese della Difesa. Rompendo un tabù che da molti decenni nessuno osava mettere in discussione, il ministero del Tesoro ha proposto una riduzione della durata della leva obbligatoria, attualmente fissata a 36 mesi per i maschi, che scenderebbe a 24 mesi per i soldati che si congedano e a 28 mesi per quelli che decidono di rimanere nella carriera militare. Secondo le stime di alcuni analisti, una riduzione di 12 mesi della leva obbligatoria consentirebbe un aumento del prodotto lordo pari all'1,2% l'anno (i soldati di leva non producono reddito). Un'altra richiesta del Tesoro è quella di ridurre le pensioni dei militari che lasciano il servizio e che molto spesso cumulano il trattamento previdenziale con altri redditi (è il caso di quegli ex capi di stato maggiore che siedono in Parlamento e percepiscono anche l'indennità parlamentare). Lo stato maggiore considera irricevibile" la richiesta di accorciare la leva obbligatoria perché, a suo avviso, una riduzione degli organici metterebbe in pericolo la capacità e la rapidità di risposta a un attacco esterno. Tzahal chiede invece, spalleggiato dal primo ministro uscente Netanyahu, lo stanziamento di un budget non piccolo (40 miliardi di shekel, circa 10 miliardi di euro) che può essere speso senza previa autorizzazione e rendicontazione per spese che hanno esigenze di riservatezza.
   Come finirà la trattativa? Le due elezioni parlamentari svoltesi nell'arco di pochi mesi e l'assenza di un governo stabile stanno rallentando l'iter del nuovo budget quinquennale. Un eventuale accorciamento della leva obbligatoria sembra tuttavia improbabile: in primo luogo verrebbe considerato come un indebolimento dello status dell'esercito, sia sul piano politico sia su quello militare; in secondo luogo, per molti giovani israeliani il triennio di leva non è più considerato come un sacrificio pesante e inutile bensì come una scuola di "formazione professionale", specializzata nelle alte tecnologie, che facilita l'inserimento nel mercato del lavoro.

(Pagine Ebraiche, novembre 2019)



Un'immagine complessa

di Giorgio Pacifici

L'immagine degli ebrei italiani è oggi estremamente complessa, molto più articolata oggi di quanto non fosse nel secolo scorso, prima cioè della leggi razziste, dello sterminio nazista, dell'emigrazione all'estero, e poi della "nuova immigrazione ebraica" dai paesi musulmani, Egitto, Libia e Iran. Ma queste vicende storiche, che hanno mutato il volto della comunità ebraica italiana nel suo complesso, costituiscono solo una parte delle difficoltà che si affrontano quando si cerca di coglierne una immagine unitaria; l'altra parte delle difficoltà è rappresentata dal fatto che gli ebrei italiani sono divisi non soltanto in comunità locali dissimili per dimensioni e caratteristiche socio-economiche e socio-culturali, ma anche in gruppi di comuni origini geografiche e di formazione culturale diversa da quella italiana.
È probabile poi che un ulteriore fattore di complessità della immagine degli ebrei italiani sia rappresentato dal fatto che essa necessariamente si riferisce alla intera "popolitudine" ebraica italiana, cioè ad un insieme di persone che include non soltanto coloro che fanno parte del mondo ebraico, ma anche quanti "si trovino nelle sue immediate vicinanze con una relazione di connessione o affinità. In questa categoria forse si devono includere, almeno ai fini dell'immagine, anche quelli che si possono definire "ebrei d'apparence". Vi sono in effetti anche in Italia un certo numero di famiglie e di persone che pur non avendo nessun legame reale, talvolta neppure di simpatia, con la religione ebraica e con la comunità ebraica italiana sono normalmente dalla pubblica opinione identificate e vissute come "ebraiche?" Tutti i comportamenti, le abitudini, le azioni di questo gruppo sono ascritti automaticamente al mondo ebraico senza che vi sia nessuna possibilità di farli in qualche modo escludere. In generale queste gruppo di persone ha posizioni rilevanti nel mondo dell'economia e della finanza, e il loro comportamento, perfettamente funzionale alle posizioni ricoperte, può suscitare presso l'opinione pubblica commenti e reazioni che necessariamente vanno a incidere sull'immagine degli ebrei. Un po' come i comportamenti di chi appartiene alla noblesse d'apparence ricadono quasi necessariamente sull'immagine degli autentici aristocratici, ma con degli effetti estremamente più importanti. La cessione o l'acquisizione di imprese in settori tecnologicamente avanzati, per esempio, viene descritta dai media come una decisione "ebraica", concordata con la "finanza ebraica internazionale - anziché come una normale decisione di politica industriale da collocare nel quadro di processi storici di globalizzazione.
Anche per queste difficoltà, probabilmente, sull'immagine degli ebrei italiani è stato svolto un numero abbastanza esiguo di indagini.

(da “Ebreo chi? ", a cura di Ugo G. Pacifici Noja e Giorgio Pacifici


Unforgettable Childhood: artisti italiani e israeliani dialogano sull'esperienza dell'infanzia

Dal 5 novembre all'8 dicembre 2019 è in programma "Unforgettable Childhood - L'Infanzia indimenticabile", curata da Ermanno Tedeschi: la mostra si svolge a Torino al Polo del '900. Sarà aperta al pubblico con ingresso gratuito dalle ore 10.00 alle ore 18.00.

TORINO - Con “Unforgettable Childhood - L'Infanzia indimenticabile”, il Polo del '900 intende rispondere alle sollecitazioni dell'Unicef in vista di due importanti anniversari storici legati all'infanzia. Il 20 novembre prossimo, infatti, si celebra la Giornata mondiale dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza che coincide con il sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, redatta dalla Società delle Nazioni già nel 1924, in seguito alle conseguenze che la Prima guerra mondiale produsse in particolare sui bambini, e approvata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1959.
Per la mostra il curatore ha coinvolto artisti italiani e israeliani affinché dialogassero fra loro sull'esperienza dell'infanzia, con la convinzione che l'arte sia uno strumento di pace che possa creare nuove e forti relazioni contro falsi stereotipi.
La sperimentazione continua dei bambini nell'impadronirsi di tutto ciò che hanno a portata di mano trova corrispondenza nell'uso di differenti tecniche e materiali: il cucito, l'utilizzo della penna 10 colori, l'acquerello, i tessuti, il ferro, le graffette d'acciaio inox, il sughero, l'acciaio lucidato a specchio, i giornali, il nastro adesivo, il legno e la carta stagnola.
La mostra è prodotta dall'Associazione Culturale Acribia in collaborazione con il Polo del '900 di Torino e con il patrocinio dell'Ufficio Cultura dell'Ambasciata d'Israele in Italia. È stata realizzata con il contributo di Fondazione CRT e Camera di Commercio, con il sostegno di Banca Patrimoni Sella & C. e la sponsorizzazione della Società Reale Mutua Assicurazioni, della Fondazione De Benedetti Cherasco Onlus, di Chiusano & C. Immobiliare.

(Finestre sull'Arte, 9 novembre 2019)


Costumi e tradizioni israeliane: cosa dovresti sapere prima di partire per Israele

A mio parere, tutti dovrebbero visitare Israele.
Israele è un Paese piccolo, ciononostante è pieno di cose bellissime e luoghi che dovresti assolutamente visitare: città cosmopolite, piacevoli, una campagna fiorente, spiagge meravigliose, deserti, montagne e grandi parchi.
La sua gente è cordiale e disponibile, il cibo è favoloso e c'è sempre qualcosa di interessante da fare: visitare un sito storico, andare a un museo, abbronzarsi sulla spiaggia, fare sport o shopping, festeggiare come un matto, cenare fuori, vedere uno spettacolo, visitare il mercato o semplicemente camminare per le strade e osservare la gente.
Il popolo israeliano è probabilmente la cosa più interessante.
Alcune usanze e tradizioni ebraiche sono diventate una regola generale per tutti gli israeliani, mentre altri seguono le tradizioni dei propri Paesi d'origine. Troverai, infatti, un mix di varie culture. Israele racchiude culture di molti Paesi: Marocco, Polonia, Russia, Yemen, Etiopia, Germania, Turchia, Francia, India, Ungheria e molti altri ancora…
E questo parlando solo di tradizioni ebraiche: aggiungi i musulmani e i cristiani. Un'esperienza culturale sicuramente affascinante, anche se un po' confusa. Sono certa che non dimenticherai facilmente il popolo israeliano!...

(Lety goes on, 9 novembre 2019)


"Oggi la più grande spia è lo smartphone. Così abbiamo sconfitto la Terza Intifada"

di Fabiana Magrì

Abbiamo capito che questi ragazzi armati di coltelli vivevano tutti nello stesso luogo: Facebook. Il ruolo dell'agente è cambiato: accediamo alla routine degli obiettivi con dettagli a disposizione di tutti.

TEL AVIV - «Il mio compito era uno, chiaro e semplice: Prevenire attacchi terroristici». Il termine «understatement» è un eufemismo nel caso di Arik (Harris) Brabbing. Oggi è una delle voci più autorevoli dell'Inss, l'Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale dell'Università di TelAviv, ma in 27 anni di servizio nello Shin Bet, l'agenzia di intelligence interna di Israele, ha ricoperto ogni tipo di incarico, dalle missioni sul campo a ruoli di responsabilità e controllo sull'area della Cisgiordania e Gerusalemme.
   La sua prima volta a capo di una divisione è stata nell'unità cyber, in un momento molto delicato: l'insorgere della Terza Intifada. «Lo Shabak era abituato ad affrontare organizzazioni terroristiche. Dalla mia posizione, oggi posso dire che è più facile combattere e infiltrarsi in un'organizzazione nemica, con gerarchie e routine, piuttosto che difendersi dai lupi solitari».
   Nel 2014 Brabbing si è trovato, per primo, a gestire il nuovo fenomeno. «Ci ha colto di sorpresa. Non avevamo strumenti per fermare o prevenire le azioni di questi individui, Ma noi israeliani siamo velocissimi ad adattarci e a trovare soluzioni». Soluzioni che sono diventate casi di studio e di esempio per altre nazioni, quando il fenomeno del terrorismo fai-da-te è dilagato anche in Europa. Se oggi Internet e i social media sono il territorio in cui si muovono tutte le agenzie di intelligence, si deve all'intuizione. di Brabbing e del team di agenti che hanno iniziato a usare Facebook e a setacciare il web per scovare i terroristi. «Abbiamo capito che questi ragazzini di buona famiglia, senza precedenti, armati di coltelli da cucina o dell'automobile dei genitori, vivevano tutti nello stesso luogo: Internet, specialmente Facebook. Qui sfogavano insoddisfazioni, amori non corrisposti, difficoltà finanziarie, fallimenti. E, sempre online, prendevano ispirazione da altri terroristi».
   Le tensioni tra israeliani e palestinesi diventano l'occasione per passare all'azione ma il vero movente sono i problemi personali. L'«istishhad», martirio in arabo, morire uccidendo il nemico, è percepita come l'unica possibilità di riscatto sociale. Come fermarli prima che agiscano? «Ricordo un ragazzo di Hebron, 21 anni. Aveva perso il lavoro ed era stato punito dal padre. Una nostra fonte, un suo amico, aveva raccolto una confidenza: «Domani sentirai parlare di me alla radio israeliana e vedremo chi è il più coraggioso». Abbiamo localizzato il suo telefono all'incrocio con il Gush Etzion, vicino agli insediamenti ebraici. L'analista aveva valutato che il livello di rischio fosse alto. Quando l'abbiamo trovato e interrogato, il ragazzo ha confessato che aveva intenzione di compiere una strage. Sarebbe diventato un martire e avrebbe avuto il suo riscatto sociale. Sentiva di non avere altra scelta».
   Com'è riuscito, un agente sul campo che per la maggior parte della sua vita si è basato su fonti umane, a guidare un cambiamento epocale di strategia? «Il direttore dell'Isa pensò che fosse fondamentale avere qualcuno che sapesse esattamente quello che serve sul campo e che spiegasse agli informatici come dovevano funzionare i nuovi strumenti. La più grande spia oggi è lo smartphone», spiega appoggiando il suo telefono sul tavolo.

 Siamo sempre localizzati
  «Prendi una fotografia. Su carta stampata, puoi solo guardarla. Con uno smartphone, invece, puoi raccogliere molte più informazioni su luoghi e orari. Grazie a Google e Waze, siamo sempre localizzati. Puoi scoprire chi ha scattato foto nello stesso luogo. Abbiamo strumenti per entrare nei telefoni e, anche se non possiamo accedere al contenuto dei messaggi, possiamo sapere per quanto tempo hai utilizzato le App. Accediamo alla tua routine attraverso l'analisi di dettagli tecnologici a disposizione di tutti. Sappiamo che Hezbollah ha moltissime informazioni su Israele, sulle nostre strategie, sulle infrastrutture. Il suo piano è colpirci in luoghi sensibili, non militari ma civili, come la Kirya, al centro di Tel Aviv. Chi dobbiamo ringraziare? Me, te e le persone qui intorno. Siamo una società aperta, postiamo tutto online, non abbiamo segreti».
   Come cambia il ruolo dell'agente, in questo scenario così aperto e senza misteri? «Un tempo il problema era reperire informazioni. Oggi ne abbiamo troppe. La vera sfida è sviluppare strumenti che, in automatico, raccolgano solo i tasselli utili. Sappiamo da quali App possiamo acquisire il maggior numero di informazioni per prevenire gli attacchi. Prima di tutto Facebook e Instagram. Poi quelle di messaggistica. Youtube è eccellente. E i siti Internet dei martiri, sorta di templi virtuali dedicati dalle famiglie. Perlustriamo la rete come con un satellite. Molte persone condividono video di attentati su YouTube nel momento in cui si vede l'assassinio. Per noi è facile individuare questi utenti e tenerli sotto controllo. Non necessariamente sono terroristi. Con l'intelligenza artificiale, attraverso il machine learning, stiliamo una classifica. Insegniamo alla macchina quali casi evidenziare. Avere troppi sospettati non aiuta, non possiamo tenere tutti sotto osservazione. Quando le macchine non ci restituiscono "l'odore" della persona, ci rivolgiamo agli uomini sul campo. E alla fine del processo c'è sempre un individuo, l'analista. Nella mia carriera - conclude Brabbing - ho partecipato a moltissime operazioni di intelligence con fonti umane ma non solo. Il nostro potere non è tanto nella conoscenza. La questione principale è l'integrazione di tutte le fonti».

COS'È LO SHIN BET

Lo Shin Bet, noto anche con il termine Shabak, acronimo di "Shériit Bitahon Klàli", è l'agenzia di controspionaggio e antiterrorismo interno in Israele. Un motto inscritto nel sigillo dell'agenzia è «Difende e non deve essere visto». Formato nel 1948, è una delle tre principali organizzazioni per la sicurezza dello Stato, assieme all'Aman (intelligence militare delle Idf) e al Mossad. Lo scorso anno ha sventato 450 attacchi terroristici.



LE TRE RIVOLTE PALESTINESI

1 - La prima Intifada scoppia il 9 dicembre 1987, è chiamata «Intifada delle pietre». Finisce nel 1993 dopo gli accordi di Oslo e la creazione dell'Autorità palestinese.

2 - Nel 2000 a Gerusalemme esplode la rivolta dopo la visita di Ariel Sharon alla spianata delle Moschee. Le violenze terminano cinque anni dopo, con lo stop agli scontri di Sharon e Abu Mazen.

3 - Nel 2015, l'«Intifada dei coltelli», mai appoggiata dalle organizzazioni ufficiali della resistenza: decine di israeliani vengono uccisi coi coltelli o investiti da veicoli guidati dai terroristi.

(La Stampa, 8 novembre 2019)


Israele ammette il suo aiuto alle milizie curde in Siria

 
Tzipi Hotovely, vice Ministro degli Esteri israeliano
Nelle dichiarazioni rilasciate ieri al parlamento israeliano e rilanciate dall'agenzia Reuters, la vice ministra degli Esteri israeliano, Tzipi Hotovely ha affermato che non entrerà nei dettagli su come Israele aiuta i gruppi armati curdo-siriani e ha semplicemente spiegato che il regime di Tel Aviv "aiuterà" i curdi con qualsiasi mezzo possibile e attraverso "canali diversi".
Israele, secondo Hotovely, ha ricevuto "molte richieste" per offrire la sua assistenza "diplomatica e umanitaria", motivo per cui sostiene le milizie curde attraverso "vari canali".
Senza specificare nulla, Hotovely ha inoltre aggiunto che "per quanto riguarda Israele, il crollo dei curdi" nella Siria settentrionale è "uno scenario negativo e pericoloso", quindi Israele farà di tutto per aiutarli.
"Israele, infatti, ha un profondo interesse nel preservare il potere dei curdi (...) nel nord della Siria, come attori filo-occidentali", ha precisato Hotovely.
"Il possibile crollo dell'enclave curda nella Siria settentrionale è uno scenario negativo e pericoloso per quanto riguarda Israele. È assolutamente chiaro che un evento del genere provocherebbe un rafforzamento degli elementi negativi nell'area, guidati dall'Iran".

(l'AntiDiplomatico, 8 novembre 2019)


L'agenzia Onu per i palestinesi sta peggio dei palestinesi

Senza soldi e col commissario generale costretto alle dimissioni.

di Maurizio Stefanini

«Il commissario generale dell'Unrwa, Pierre Krahenbiìhl, ha informato il segretario generale che si dimetteva con effetto immediato», è stato l'annuncio improvviso dato dal portavoce generale dell' Onu Stéphane Dujarrie. E si evidenzia così che neanche uno svizzero riesce a scampare alla maledizione dell'Unrwa. Cioè, quella Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi che mettendoli a parte sembrerebbe in teoria considerarli un po' i primi della classe, rispetto a tutti gli altri rifugiati trattati invece alla rinfusa dall'altra agenzia Acnur (Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Di fatto, però, contribuisce pesantemente alle loro disgrazie.
   Abuso di potere e nepotismo sarebbero i risultati preliminari di una inchiesta interna sfociata in una relazione dell'ufficio di controllo interno delle Nazioni Unite, e che aveva già fatto sospendere il commissario dalle sue funzioni. Si «escludono la frode o l' appropriazione indebita di fondi operativi da parte del commissario generale. Ci sono, tuttavia, questioni manageriali che devono essere affrontate». Krahenbììhl è stato dunque messo in aspettativa, in attesa che «tali questioni siano ulteriormente chiarite in modo da poter prendere una decisione definitiva e intraprendere qualsiasi azione adeguata». Nell'attesa al suo posto va a interim il britannico Christian Saunders.
   L'Unrwa fu dall'Assemblea generale istituita in seguito all'emergenza della guerra arabo-israeliana del 1948. Poi, visto che al mondo non erano solo i profughi palestinesi, nel 1950 nacque pure l'Acnure. Ma l'Unrwa non vi fu conglobato, come sarebbe stato logico. A fine luglio un rapporto del dipartimento etico dell'Unrwa, inviato alla segreteria generale delle Nazioni Unite, ha rilevato cattiva gestione e abuso di potere da parte di un piccolo gruppo di alti funzionari che avrebbero aggirato i meccanismi di controllo dell' Onu, mettendo a gravissimo rischio la sua reputazione.
   Da 700.000 che erano all'inizio, in 70 anni gli assistiti della Unrwa sono cresciuti fino a 5 milioni. La metà dei palestinesi sparsi tra Cisgiordania, Gaza, Giordania, libano e Siria sopravvivono grazie all'aiuto dell'Unrwa, soprattutto attraverso servizi essenziali di educazione e sanità. Sono quasi tutti palestinesi anche i 30.000 dipendenti.
   Fino al 2017 gli Stati Uniti contribuivano per oltre un terzo a un bilancio da 1,1 miliardi di dollari all'anno. Ma nel settembre del 2018 Trump ha deciso di tagliare questo contributo, e così l'Unrwa è entrata in una grave crisi finanziaria. Secondo il rapporto «la crisi finanziaria è servita come scusa per generare una estrema concentrazione di potere nella alta direzione. Si sono aggirate le regole e le procedure stabilite e l'eccezione è diventata la regola». A questo punto anche Svizzera, Paesi Bassi e Belgio hanno sospeso le loro donazioni. Il ministro degli Esteri israeliano lsrael Katz ha commentato osservando come lo scandalo dimostri che l'Unrwa «è una parte del problema e non la sua soluzione. L'agenzia perpetua il problema dei rifugiati in un chiaro modo politico eliminando così ogni soluzione».

(Libero, 8 novembre 2019)


Impossibile fare la pace con gli antisemiti

La negazione della Shoà non solo è falsa e immorale, ma fomenta l'antisemitismo e la delegittimazione d'Israele

di Edy Cohen

Nei paesi occidentali e in Israele la negazione della Shoà è un comportamento considerato intollerabile, in alcuni paesi un vero e proprio reato passibile di condanna a pene detentive. Nei paesi arabi è tutto diverso. In questi paesi, non solo la Shoà non viene insegnata nelle scuole, ma la sua esistenza viene negata spesso e volentieri nell'evidente intento di colpire Israele e il popolo ebraico.
   Circa tre settimane fa, il 14 ottobre, giornalisti e ricercatori giordani hanno partecipato a una conferenza nel loro paese intitolata "Olocausto: la più grande menzogna nella storia moderna". Un video pubblicato da MEMRI (Middle East Media Research Institute) mostra alcune delle affermazioni razziste fatte dai conferenzieri. Tra le varie dichiarazioni, è stato sostenuto che il numero di vittime perite nei campi di concentramento e sterminio sarebbe compreso tra 600.000 e 800.000, e che solo la metà di questi erano ebrei. In altre parole, sarebbero al massimo 400.000 gli ebrei assassinati nella Shoà. Rievocando un altro classico cliché antisemita, un relatore ha parlato dell''"influenza distruttiva" esercitata dagli ebrei nella società tedesca.
   Nelle conclusioni è stato sostenuto che non sarebbe mai stata trovata nessuna prova a sostegno dell'esistenza della Shoà come corpi, ceneri, camere a gas e simili, senza alcuna considerazione della profusione di tali prove documentate e facilmente accessibili a tutti. Verso la fine della conferenza, per rappresentare gli ebrei come bugiardi uno degli oratori ha citato il ministro nazista della propaganda: "Goebbels diceva: menti e menti ancora fino a quando il popolo ti crederà. E gli ebrei dicono: menti e menti ancora finché tu stesso ci crederai".
   Questa vergognosa conferenza (che non è un'eccezione nel mondo arabo) non si sarebbe potuta svolgere senza l'approvazione delle autorità giordane, i cui rappresentanti spesso negano pubblicamente ed esplicitamente la Shoà. Siamo di fronte a una pura e semplice falsificazione della storia e della scienza e allo sfacciato rifiuto di fatti e ricerche accademiche decennali. Un evento come questo non solo promuove la negazione della Shoà nel mondo arabo, ma fomenta anche l'antisemitismo, già di per sé in aumento nel mondo arabo e nel resto del mondo. Di più. E' del tutto evidente che lo scopo principale della conferenza, tesa a minimizzare sia l'importanza che la portata della Shoà, era quello di demonizzare gli ebrei e delegittimare Israele.
   Dovendo dare priorità ad altre questioni vitali, finora Israele si è mostrato esitante e non è sostanzialmente riuscito a smascherare in tutta la sua portata il crescente fenomeno della negazione della Shoà nel mondo arabo, e a contrastarlo. Circa tre anni fa ho tradotto il libro del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), basato sulla sua tesi di dottorato essenzialmente imperniata sulla minimizzazione e negazione della Shoà. Con mio rammarico nessun ente, comprese università e istituti di ricerca, ha accettato di pubblicare il libro, probabilmente nel timore di danneggiare il processo di pace o le prospettive di rilanciarlo. È giunto il momento di smetterla di ignorare il fenomeno del negazionismo arabo e impegnarsi in una battaglia contro coloro che lo abbracciano. In ogni caso, dialogo e riavvicinamento non potrebbero mai partire da posizioni fondate sull'antisemitismo e sulla negazione della Shoà.

(israele.net, 8 novembre 2019)


Cresce l'odio contro gli ebrei. In nove mesi registrati 190 episodi

L'analisi del ricercatore dell'Osservatorio che monitora l'intolleranza «Sdoganati pensieri e azioni impensabili fino a pochi anni fa».

In Italia l'antisemitismo c'è. A dirlo non sono solo gli ultimi episodi restituiti dalla cronaca, ma anche i dati dell'Osservatorio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. «Negli ultimi nove mesi abbiamo avuto segnalazioni di 190 distinti episodi di antisemitismo in Italia, un numero più elevato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno», spiega Stefano Gatti, ricercatore dell'Osservatorio.
   Di questi 190 episodi documentati il 700%circa viaggia online, la nuova frontieradell'odio, «si tratta prevalentemente di insulti, poi di vandalismo, solo molto raramente di violenze fisiche - spiega Gatti - nel 2019 solo due casi, un signore schiaffeggiato e una donna oggetto di sputi».
   L'Osservatorio non si limita a catalogare gli atti antisemiti ma ne investiga i motivi «anche se sono difficili da delineare».
   Quel che i ricercatori sottolineano è che la nuova deriva antisemita si inscrive in un quadro più vasto di intolleranza che ha sdoganato pensieri, oltre che azioni, fino a qualche anno fa neanche pensabili.
   «Da un lato notiamo la crescita di aggressività e pregiudizi nei confronti non solo degli ebrei ma anche di neri, omosessuali e altre minoranze - spiega Gatti -. Cose che fino a qualche anno erano impensabili, ad esempio la banalizzazione della Shoah, oggi accadono. Dall'altro lato la crescente visibilità dell'Osservatorio potrebbe aver inciso sull'aumento delle segnalazioni che ci arrivano». Preoccupante anche la crescita nel 2019 delle minacce a sfondo antisemita ed episodi anti ebraici nelle scuole.
   «Una premessa da fare - spiega il ricercatore - è che l'antisemitismo in Italia fortunatamente non assume i connotati violenti, talvolta omicidi, di altri Paesi». Il nuovo antisemitismo si nutre della vecchia ideologia: dal cospirativismo a tutto l'archivio dell'orrore, tra temi e immagini, di matrice nazista.
   Ed il fatto che sentimenti ed azioni antisemite siano più che presenti e spesso sono una concreta minaccia lo testimonia il permanere della scorta per tutti i vertici della comunità ebraica italiana. E forme di protezione anche per tutte le scuole ebraiche.
   «Il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib ha la scorta. Il rabbino Elio Toaff era scortato, il rabbino Riccardo Di Segni è scortato, come le presidenti di Roma, Ruth Dureghello, dell'Ucei, Noemi Di Segni. I nostri bambini entrano nelle nostre scuole scortati - dice il vicepresidente della comunità di Roma Ruben Della Rocca -. Significa che si teme che qualcuno possa far male anche a loro. Auschwitz non è bastato? C'è bisogno di un profondo ripensamento culturale e valoriale in questo paese», conclude».

(Il Secolo XIX, 8 novembre 2019)


Basket - Il Maccabi Tel Aviv ingrana la quinta, dominata l'Alba Berlino

Partita senza storia, il break decisivo nel secondo periodo

di Paolo Zerbi

Dominio totale e quinta vittoria consecutiva. Il Maccabi Tel Aviv si sbarazza dell'ostacolo Alba Berlin vincendo con un perentorio 104-78 emblema di una partita dominata.
I numeri nella consacrazione della vittoria israeliana: 61% da due, 50% da tre, cinque giocatori in doppia cifra. Su tutti John Dibartolomeo autore di 19 punti e 8/10 dal campo. Lui a trascinare anche dalla panchina, protagonista del break nel secondo periodo (31-18) che ha deciso la partita.
Poco da salvare, invece, per l'Alba di Aito. Troppo arrendevole e distratta, come testimoniano le 20 palle perse nell'arco della partita. Per i tedeschi, dopo la vittoria all'esordio con lo Zenit, sono sei sconfitte consecutive. E ultimo posto in classifica.

(sportando.basketball, 7 novembre 2019)



La storia di Israel, bimbo ''profugo'' a Cinecittà

Marco Bertozzi racconta in un cortometraggio la vicenda del figlio di Klara e Imre Levi, nato alla fine della guerra quando i suoi genitori erano bloccati a Roma in attesa di partire per la Palestina: visse due anni nel campo allestito in quella che presto sarebbe diventata la "Hollywood sul Tevere".

di Emanuela Genovese

Anni 40-anni 50: sono gli anni dell'occupazione nazista, gli anni della guerra, gli anni della Shoah. E poi gli anni della fine della guerra, della costruzione dei campi profughi, degli sfollati a causa dei bombardamenti e degli ebrei sopravvissuti, quelli che riescono a rientrare dai campi di concentramento. E a Roma, a Cinecittà, in quella "Hollywood sul Tevere", quel grande, agli occhi di molti, luccicante territorio del cinema si trasforma in un campo di rifugio e, quindi, di difesa per chi non ha più una casa dove vivere. A distanza di sette anni dall'uscita del documentario Profughi a Cinecittà con il quale il regista Marco Bertozzi aveva reso visibile una storia sconosciuta a molti, ora è stato prodotto un cortometraggio, Israel che visse a Cinecittà.
   Voluto dalla Fondazione Museo della Shoah in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà, il corto ripercorre quelle pagine amare e allo stesso tempo piene di speranza. Lì nel Teatro Cinque, anni prima che Federico Fellini lo scegliesse come teatro di posa per i suoi film, quello spazio enorme smise di essere teatro, per ospitare migliaia di persone, tra cui sopravvissuti della Shoah. Gli stessi, però, che prima di accedere a quelle mura, si sottoponevano insieme agli altri rifugiati (provenienti dall'Italia, dalla Libia, perché figli di coloni italiani, e dall'Istria perché esuli fiumani e dalmati), alla "disinfezione" in una palazzina adiacente per evitare la trasmissione di malattie e patologie.
   Lì, in quel teatro, vivevano Klara e Imre Levi, una coppia di giovani, lei ungherese, lui slovacco, che si erano conosciuti mentre erano militanti di Hashomer Hatzair, il movimento, tuttora esistente, nato in Polonia dalla fusione dello scout sionista Hashomer ("Il guardiano") e del circolo Ze'irei Zion ("I giovani di Sion''), ispirato al socialismo sionista. Klara e Imre sarebbero dovuti partire per la Palestina, ma la gravidanza di Klara li aveva bloccati a Roma. Nove mesi dopo nacque Israel, nell'ospedale Santo Spirito di Roma, e, convinti da alcuni amici a celebrare l'unione matrimoniale nella sinagoga romana, si erano poi dovuti trasferire nel campo profughi allestito a Cinecittà. Israel aveva pochi mesi e sarebbe rimasto lì per altri due anni. Semplice e diretto, Israel che visse a Cinecittà è un viaggio della memoria di Israel Levi (che oggi ha settantatré anni e vive in una cittadina israeliana), all'interno di quelle superfici e di quei ricordi, che sono, arricchiti dagli spezzoni di Umanità, l'ultimo lavoro del 1946 diretto dall'italiano Jack Salvatori. Grazie al lavoro dell'archivio di Istituto Luce Cinecittà, dentro quelle immagini, fissate e rese disponibili al pubblico, e quei video guidati anche dal protagonista, impressiona assistere al viaggio che gli uomini hanno compiuto attraverso il tempo, i desideri e l'indigenza. A imprimere quei ricordi c'è anche "Cinecittà in Mostra'' che, nell'ambito dei percorsi storici, ospiterà, da oggi in poi, il cortometraggio. «Conservare la memoria, il nostro patrimonio e il nostro territorio [dal 2012 l'Unesco ha definito Roma Città Creativa per il cinema, ndr], è uno degli obiettivi di Istituto Luce Cinecittà», ha spiegato il presidente e amministratore delegato Roberto Cicutto. «Nei decenni si è continuato a raccogliere materiali audiovisivi, quei materiali che sono un po' come internet del secolo scorso e che ci auguriamo possano diventare, per gli studenti e per tutti, un libro di testo audiovisivo storico».

(Avvenire, 8 novembre 2019)


L'Associazione Italia-Israele di Firenze si congratula con Marco Carrai

La soddisfazione del Presidente Baldacci

Mercoledì 13 novembre alle ore 16:00 si inaugura a Firenze, presso l'Altana di Palazzo Strozzi, il Consolato onorario d'Israele, alla presenza dell'Ambasciatore d'Israele a Roma, che sarà retto da Marco Carrai. All'evento parteciperà anche l'Associazione Italia-Israele di Firenze.
   Soddisfazione da parte del presidente Valentino Baldacci che dichiara: "A nome di tutti i soci dell'Associazione Italia-Israele Firenze è mia premura congratularmi con Marco Carrai per il prestigioso incarico che si accinge a ricoprire. Con Marco - prosegue - abbiamo instaurato un rapporto proficuo e di sincera amicizia, che ha prodotto una serie di iniziative di rilievo, non ultima quella di settembre dedicata ai rapporti tra Italia e Israele. La sua presenza e il suo impegno saranno indispensabili per contrastare l'antisemitismo, camuffato spesso da antisionismo, e per corroborare i legami tra la nostra città e Israele stesso".

(Il sito di Firenze, 8 novembre 2019)


Lo studioso israeliano difende il nazionalismo che la Segre condanna

Esce lo strepitoso saggio di Yoram Hazony sulle virtù dell'amor patrio. Che smaschera pure l'odio progressista nei confronti di popoli e Stati.

«I liberal ignorano o minimizzano l'astio che discende dalla loro brama di dare vita a un ordinamento politico universale» «L 'ideologia internazionalista è imperialista e si accanisce contro gli identitari prefiggendone ovunque la delegittimazione»

di Francesco Borgonovo

Oltre al razzismo, alla xenofobia e all'antisemitismo, la mozione Segre approvata nei giorni scorsi condanna pure «i nazionalismi e gli etnocentrismi», specificando che il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa li fa rientrare nei cosiddetti «discorsi di odio». Non stupisce: ormai viene dato per assodato, in Europa, che nazionalismo sia sinonimo di odio. Chi non è d'accordo e per questo non ha approvato la suddetta mozione, è stato immediatamente accusato di essere razzista, fascista, antisemita e nazista. Anche in questo caso, nulla di singolare. Volete sapere, invece, una cosa davvero sorprendente? ll più efficace difensore del nazionalismo a livello mondiale è un signore di nome Yoram Hazony, ebreo israeliano, autore di un libro straordinario intitolato Le virtù del nazionalismo, in uscita il 13 novembre per l'editore Guerini. Hazony è presidente dell'Herzl Institute e il suo saggio è stato premiato come Conservative Book of the Year, suscitando un profondo dibattito negli Stati Uniti. Ora che è disponibile anche da noi, si spera che gli strenui difensori della mozione Segre lo leggano con attenzione. Qualora lo facciano, si renderanno conto che - se dominasse l'ideologia che anima quella mozione - lo Stato d'Israele semplicemente non esisterebbe.
   «L'accusa più comune contro il nazionalismo è che fomenti l'odio», scrive Bazony. «I nazionalisti sono concentrati per lo più sul benessere della loro nazione, auspicandone il trionfo nelle sue varie competizioni con le altre. Questo interesse particolare per sé stessi sarebbe da intendersi come un'espressione di odio verso gli altri e come una forma di violenza». In realtà, dice lo studioso, c'è un'altra forma di odio ben più insidiosa e oggi molto più diffusa. Un tipo di odio estremamente comune tra i liberal, sostenitori di una ideologia universalista che facilmente si sovrappone all'imperialismo.
   «L'internazionalismo liberal», spiega Hazony, «non è soltanto un'agenda programmatica tesa a cancellare le frontiere nazionali e a smantellare in Europa e altrove gli Stati nazionali. Si tratta di un'ideologia imperialista, che si accanisce contro il nazionalismo e i nazionalisti, prefiggendone la delegittimazione ovunque possano comparire in Europa o in nazioni come gli Stati Uniti e Israele, questi ultimi intesi come discendenti della civiltà europea».
   Questa ideologia universalista, prosegue il professore, si sviluppa a partire dal paradigma antinazionalista del filosofo Immanuel Kant, il quale - nel celebre Per la pace perpetua. Un progetto filosofico del 1795 - sostenne che i particolarismi e le tendenze all'autodeterminazione dei popoli fossero prerogativa dei «barbari» e rappresentassero «ferine involuzioni del genere umano». I popoli sviluppati, in base a questa idea, dovrebbero dunque tendere verso un governo universale capace di imporre la ragione sugli egoismi nazionali.
   Il pensiero di Kant è tra le maggiori fonti d'ispirazione dell'Europa unita, oltre che degli organismi internazionali come l'Onu. I quali ovviamente sono tra i più spietati quando si tratta di condannare i nazionalismi e le pretese di sovranità degli Stati. Alle idee kantiane, poi, si è sommata negli anni la «condanna marxista degli Stati nazionali occidentali», seguita, più di recente, dall'«antinazionalismo liberista che con entusiasmo si adoperò per il tramonto del vecchio ordinamento in nome del progredire kantiano verso l'Età della Ragione».
   Queste tendenze culturali si sono sovrapposte e mescolate e oggi agiscono compatte un po' ovunque nel mondo sotto forma di ideologia liberal. L'ideologia a cui si ispira la mozione Segre.
   «In virtù del loro zelo per un ordinamento politico universale, gli imperialisti liberal tendono a imputare l'odio ai particolarismi nazionali o tribali (o anche alle religioni), mentre ignorano o minimizzano l'astio direttamente conseguente dalla loro brama di concretare un ordinamento politico universale», prosegue Hazony. Egli propone anche esempi concreti, parlando dell'indignazione che si è abbattuta sulla «Gran Bretagna non appena decise di far ritorno alla propria indipendenza nazionale e all'autodeterminazione, come pure su nazioni quali la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia, che restano ferme nel mantenere in vigore le proprie politiche immigratorie, non conformandosi alle teorie dell'Unione Europea circa il reinsediamento dei rifugiati».
   Secondo il pensatore israeliano, «in questi e in altri casi similari, qualsivoglia obiezione sostanziale è soltanto secondaria al risentimento conseguente dalla possibilità stessa che una nazione europea possa condurre proprie politiche indipendenti. Come nel caso di Israele, queste politiche indipendenti sono comparate al nazismo o al fascismo».
   Già, perché condannare nazionalismo ed etnocentrismo significa, nei fatti, mettere in dubbio pure l'esistenza stessa dello Stato di Israele. Il punto è che «se una nazione è europea, o di discendenza europea, allora ci si aspetta che si conformi ai criteri e ai requisiti europei, il che sempre più equivale alla kantiana rinuncia al diritto nazionale di poter deliberare e agire in indipendenza e autonomia, specie in relazione al ricorso alla forza. Al contrario, l'Iran, la Turchia, i Paesi arabi e il Terzo Mondo in genere, secondo questa opinione, sarebbero da considerarsi popolazioni primitive, che ancora non sono riuscite a lambire quel livello di Stato nazionale consolidantesi attraverso la legge. Il che significa, nelle sue declinazioni pratiche, che, per lo più, non si considera loro applicabile alcuno standard morale». Dell'atteggiamento occidentale descritto da Hazony abbiamo prove ogni giorno, specie quando si affronta il tema delle migrazioni. E sarebbe ora di ammettere che si tratta di un atteggiamento profondamente razzista. Non solo. Sarebbe anche ora di riconoscere e combattere l'odio che l'ideologia internazionalista esercita nei confronti degli Stati e dei popoli. Hazony lo descrive alla perfezione. Nazista pure lui?

(La Verità, 7 novembre 2019)


E' significativo che questa difesa della virtù del nazionalismo parta proprio da un israeliano. Se prima gli ebrei, privi di una propria nazione, disturbavano le nazioni esistenti, oggi l'esistente nazione degli ebrei disturba il mondo che ormai si propone il superamento delle nazioni per giungere all'universale. Il mondo segue tenacemente la via che porta al compimento, rimasto interrotto, della Torre di Babele, dal cui fallito tentativo sono nate le varie nazioni. Ed è proprio questo maldestro tentativo che ha indotto il Creatore a formarsi, per il raggiungimento dei suoi fini, una sua propria nazione, che oggi porta il nome di Israele. Nulla di strano dunque se in questi ultimi tempi le nazioni, originariamente disperse, abbiano voluto riprendere la loro strada verso l'universale unitario cercando un nuovo centro, e ritengano di averlo trovato nella nuova pianura di Scinear, a New York, nel Palazzo di Vetro, gloriosa sede delle Nazioni Unite. E' un caso che nel loro anelito all'universale queste Nazioni Unite vedano proprio nella particolare nazione Israele il nemico più pericoloso e ostinato? Ed è un caso che le medesime nazioni non trovino nulla di strano nel fatto che tra i membri di questo unitario consesso ce ne sia qualcuna che a chiare lettere dichiari apertamente di volerne distruggere un'altra? No, non è un caso. Per arrivare a combattere quella particolarissima nazione che porta il nome di Israele, si dovrà cominciare a combattere il nazionalismo, sottolineando l'aspetto odioso di ogni particolare opposizione al raggiungimento della fraternità universale. I sostantivi e gli aggettivi da usare sono già stati coniati e sono ormai di uso comune. E l'aggiornamento dell'universale ed eterno programma antisemita è a buon punto M.C.


Zolli, il rabbino che si convertì al cristianesimo

di Roberto Zadik

Un caso che ha sconvolto non solo Roma ma tutta l'Italia ebraica è stato quello del Rabbino Capo della Comunità romana Israel Zolli (nato Israel Anton Zoller) che alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel febbraio 1945, arrivò a convertirsi al cattolicesimo. Una scelta che ancora oggi lascia increduli. Su questa spinosa e interessante vicenda si è svolta la serata Kesher dello scorso 5 novembre: "Il caso Zolli". Condotta efficacemente dal Rabbino Capo di Roma, Rav Riccardo Di Segni e dallo storico Alberto Cavaglion la conferenza è stata seguita da una serie di domande e interventi dal pubblico, con chi addirittura nobilitava Zolli come "grande studioso e uomo di pensiero che teneva bellissime lezioni". Una vicenda che ancora oggi scatena discussioni molto accese su un personaggio a dir poco scomodo e controverso.
   Ma chi era Israel Zoller - poi diventato Eugenio Pio Zolli, fiero cristiano - che scrisse uno stravagante saggio sulle radici ebraiche del cristianesimo come Il Nazareno nel 1938? Dopo i saluti del Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib, un brillante inquadramento storico e sociale dello storico ebreo torinese Cavaglion ha tratteggiato non solo la sua figura umana, «sempre indeciso fra la dimensione di studioso e quella di rabbino, dal carattere burbero e scontroso, dopo aver lavorato a Trieste arrivò a Roma, ma non venne ben accolto dalla Comunità locale che non capiva il personaggio»; ma anche il contesto storico in cui visse. L'amicizia con studiosi e filologi biblici importanti come Umberto Cassuto, la condizione di ebreo polacco galiziano nato nella cittadina di Brody, la stessa del grande scrittore Joseph Roth, «una delle figure estere e ashkenazite importate nel nostro Paese come ce ne furono altre, si pensi al Rabbino Margulies quello della celebre Scuola rabbinica», e l'arrivo nella Comunità romana. «Il lavoro di Rabbino fra '800 e '900 - ha ricordato Alberto Cavaglion - non era per niente facile, segnato da forti contrasti e litigi con la Comunità, gelosie e invidie interne e stipendi spesso bassissimi», nettamente inferiori a quelli di docente universitario, titolo al quale Zolli aspirava fortemente. In conflitto fra essere uno studioso «col suo approccio scientifico ai testi» e rabbino, collega e amico di grandi personaggi come Giovanni De Vita, lo studioso Cassuto e il professor Bonaiuti che ebbe come allievo nientemeno che Enzo Sereni, Zolli visse i momenti più duri della sua vita a Roma. Accusato di indifferenza verso la Comunità, mostrò invece grande zelo nel cercare di capire come difendere la Comunità e contrastare l'avvento dei nazisti che si sarebbero diretti verso il Ghetto. Zolli cercò di convincere gli ebrei romani a scappare, «a chiudere il Tempio e gli uffici comunitari, a cancellare l'elenco dei nomi degli ebrei locali… ma senza successo, non venne ascoltato e questo provocò la deportazione degli abitanti del Ghetto in quel terribile 16 ottobre 1943 - come ha ricordato amaramente Cavaglion. - Gli ebrei romani del tempo erano caratterizzati da reazioni ingenue e incredule rispetto a quanto stava davvero accadendo, mentre Zolli, che veniva dal mondo austro-ungarico, i tedeschi li conosceva bene. Accusato, osteggiato, incompreso; dovette andarsene, scappare via, come fecero altri rabbini a quell'epoca e diversamente dal Rabbino di Genova, che rimase fino all'ultimo».
   Dopo la liberazione, Zolli fu oggetto di aspre critiche e duri attacchi. Come mai? La sua conversione così improvvisa e inspiegabile al cattolicesimo fu un terribile colpo per tutti.
   Molto efficace anche l'analisi di Rav Di Segni che ha ripercorso il passato di Zolli, la sua nascita a Brody «cittadina che visse un forte fermento culturale e un allontanamento dalla tradizione»; il destino di questo personaggio che visse sempre al confine e al limite, come predice il suo cognome "Zoller" che in tedesco significa "Doganiere", fra identità straniera e italianizzazione, e divenne Italo Zolli e poi Eugenio Pio Zolli, fra ebraismo e attrazione verso il cristianesimo. Ma fu quell'interesse a portarlo a una mossa tanto estrema come la conversione, oppure quelle contestazioni così pesanti, che lo allontanarono sempre più dalla Comunità e anche dal suo ebraismo? Difficile dare una risposta: tante sono le polemiche e gli interrogativi su questo inquietante personaggio. Però, come ha reso noto Rav Di Segni, «in quegli anni diversi ebrei, come lui, si convertirono». Tante le domande e le riflessioni dal pubblico, per un personaggio che, scomparso nel 1956 a 75 anni, è sempre stato animato - seppur in modo discutibile e tormentato - da una sua spiritualità, tanto che la biografa Judith Cabaud affermò che Zolli, il giorno di Kippur «ebbe una visione mistica cristiana».

(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2019)


Israel Zoller


Fazioni palestinesi rifiutano la proposta di Abbas per le elezioni

Condizioni "inaccettabili"

GERUSALEMME - Alcune fazioni politiche dell'Autorità palestinese e di Gaza hanno respinto un nuovo documento proposto dal presidente Mahmoud Abbas in merito alle future elezioni legislative, a causa di alcune condizioni ritenute "inaccettabili". Lo riferisce il quotidiano libanese "Al Akhbar", precisando che il testo proposto da Abbas prevede che si tengano elezioni nel consiglio legislativo dell'Anp prima delle elezioni per la carica di presidente. Le fazioni attive nella Striscia di Gaza, Hamas e il Jihad islamico, non accettano che si vada alle urne secondo gli accordi del 2007, che prevedono alcune condizioni ritenute "inaccettabili" per partecipare alle elezioni. Tra queste vi è il riconoscimento di tutti gli accordi sottoscritti dall'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), compresi quelli di Oslo, nonché il riconoscimento dell'Olp stesso come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. Questo elemento, secondo i gruppi di Gaza, mira ad escludere molte fazioni, in particolare Hamas e il Jihad islamico, che si oppongono alla decisione dell'Olp e al dominio politico di Fatah. Tra le altre condizioni rigettate dai gruppi palestinesi, inoltre, c'è il riconoscimento di Israele. La fonte citata da "Al Akhbar" sostiene che Abbas "dovrebbe ripensare alle sue condizioni, poiché includono aspetti che non erano stati concordati con gli altri".

(Agenzia Nova, 7 novembre 2019)


Milano - In via Padova la casa che unisce designer israeliani e palestinesi

Firma comune sul progetto: «Dìalogo perfetto». L'idea dell'affitto low cost agli studenti. Il team in «remoto» «È stata una sorpresa, abbiamo comunicato in conference call come un collettivo»

di Stefano Landi

Non era mai successo. Infatti, prima di riuscire a tirar su il cantiere, sono sbattute porte in faccia a destra e a manca. Poi però la scommessa ha preso forma. E il 21 novembre inaugurerà a Milano la prima casa progettata insieme da architetti israeliani e palestinesi. Nel backstage di via Padova, in un quartiere difficile, rotto da battaglie sociali, proprio come fosse un piccolo Medio Oriente. In una strada come via Arquà, che della NoLo frizzantina di oggi rappresenta l'East Village. Traversa, appunto, di via Padova, quella delle trattorie, delle bocciofile, degli ultimi cinema porno prima del blackout delle luci rosse. Tra case di ringhiera e storie di «ligera» (malavita «leggera»). Una volta ci arrivavano con la valigia le famiglie dal Sud, ora il concetto si è allargato e qui arrivano migranti da tutto il mondo. La palazzina adesso è abitata da nordafricani, sudamericani, gente dell'Est Europa. Non uno stabile a caso. Di questo luogo anni fa era stato scritto un libro che la prendeva ad esempio per illustrare la trasformazione della popolazione delle aree periferiche milanesi.
   Non poteva esistere un altro luogo in città per costruire un posto del genere. Pochi metri, tanto significato. Il progetto, ideato dall'imprenditore Luca Poggiaroni, si chiama nel modo più logico possibile: «Casa Comune». La storia è più o meno questa: un team di architetti, ebrei e musulmani, ha preso in mano insieme carta e penna. Senza nemmeno mai vistare l'appartamento di persona prima o durante i lavori. Lo vedranno per la prima volta il giorno dell'inaugurazione. Conference call su WhatsApp, file condivisi su cloud e 3D computer graphic, ognuno dalla sua scrivania: Tel Aviv, Riad e Londra. «All'inizio non sapevamo come lavorare in gruppo, se dividerci l'appartamento e disegnare ognuno in autonomia. Invece abbiamo optato per lavorare come collettivo sul concept dello spazio», racconta David Noah, 39 anni, architetto di Gerusalemme, che Milano l'aveva bazzicata da giovane ai tempi dell'università al Politecnico. «Abbiamo lavorato per costruire un posto armonioso, sia come spazi che come colori. Che fosse davvero comodo da vivere. Ed è poi quello che è successo tra di noi: le nostre conversazioni sono state sempre un piacere», aggiunge Mahmoud Ashmawi, architetto palestinese, figlio di rifugiati in Siria.
   Nell'ideazione dello spazio è stata prestata attenzione non solo alle esigenze dello spazio abitativo, ma anche a una serie di altri dettagli in modo che tutto fosse coerente con l'idea generale, come ad esempio i materiali. La Pietra di Gerusalemme è stata utilizzata per rappresentare la terra a cui è ispirato. Pietre originali provenienti sia da Israele che dalla Palestina sono state usate per posare il pavimento. L'ulivo, albero tipico della regione e simbolo di pace se ce n'è uno, ritorna in diversi angoli della casa. E poi ci sono ferro e acciaio, che sono stati utilizzati per non dimenticare i decenni di convivenza conflittuale che hanno segnato la storia moderna mediorientale.
   Milano vanta in giro la sua anima cosmopolita. Il suo carattere internazionale: quello che attrae i giovani come una calamita formidabile. A sfogliare i dati e le storie dei nuovi arrivati, si scopre che non sono più solo cugini spagnoli, francesi o comunque europei. I ragazzi arrivano sempre da più lontano. Da un nuovo mondo. Ma l'integrazione resta complessa. «Per poter realizzare una cosa del genere significa che in fondo qualcosa esiste già. Cioè esistono tante persone che pensano che non ci debba essere questa divisione, ma magari non riescono ad esprimerlo. Niente è di nessuno, tutto è di tutti», conclude Talal Qaddura, nato in Giordania da genitori rifugiati palestinesi e oggi trapiantato a Milano, dove ha studiato architettura.
Questa casa non è un albergo. Ne lo sarà mai. Perché l'obiettivo ora è di affittarla a prezzi logici a studenti, sfruttando la poca distanza dal Politecnico. Perché sarebbe anche il modo migliore di rinforzare il valore simbolico di questa storia. Che nasce lontano, ma può finire ancora più in là. E i giovani sono le persone più adatte ad abitare un viaggio così coraggioso.

(Corriere della Sera - Milano, 7 novembre 2019)



Israele - Bus di Shabbat, un progetto pilota

Ciclicamente in Israele vengono annunciati progetti per attivare il trasporto pubblico anche di Shabbat: annunci che creano puntualmente una divisione che, generalizzando, vede scontrarsi laici e religiosi. Sintomo di una società viva ma anche divisa su alcune questioni fondamentali. L'incontro-scontro tra questi due mondi - da non vedere come compartimenti stagni - è al centro della battaglia politica di questi mesi ed è tornato alla ribalta su di una proposta specifica: quella delle autorità locali di Tel Aviv di fornire gratuitamente il trasporto pubblico di Shabbat, collegando la metropoli con alcune località vicine (Ramat HaSharon, Givatayyim e Kiryat Ono). Annunciato come sistema "senza precedenti", gli autobus funzioneranno nei fine settimana durante le ore in cui il trasporto pubblico non è normalmente disponibile. Il servizio sarà gratuito e aperto a tutti nella sua fase iniziale. "Questa iniziativa si aggiunge al trasporto già esistente nel settimana, compresi gli Sherut (taxi condivisi) previsti dal Ministero dei Trasporti e le iniziative comunali di carsharing come AutoTel e Tel-OFun" ha dichiarato il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai.
   "Fornirà una soluzione alla domanda di trasporto del pubblico per tutto il fine settimana, contribuendo ad abbassare il costo della vita, alleviando i problemi di trasporto e di parcheggio e dando mobilità ai residenti che non possiedono un'auto". Le autorità hanno detto che il bilancio crescerà man mano che altre città si uniranno all'impresa, collegando fino a quattro milioni di residenti metropolitani. La rete interurbana sarà composta da sette linee di autobus che copriranno l'area di Tel Aviv. Frequenze, itinerari e orari saranno comunicati agli utenti attraverso le applicazioni del comune sul trasporto entro la fine dell'anno.
   "Il trasporto svolge un ruolo importante nella giustizia sociale se offre la stessa mobilità, 24/7 per l'intera popolazione, compresi coloro che non possiedono un'auto privata o non hanno la patente di guida" la posizione del vicesindaco di Tel Aviv Meital Lehavi. D'accordo, il primo cittadino di Givatayim, Ran Konik: "Questo progetto non è un passo contro il pubblico religioso, non ha alcun collegamento con la questione religiosa, l'iniziativa è diretta a sostenere larga parte della popolazione che ha bisogno di una soluzione di trasporto nei fine settimana, per far visita alle famiglie, ai pazienti ricoverati, per il tempo libero e altro ancora".
   Per l'organizzazione nazionalreligiosa Hotam il progetto "danneggia il rispetto dello Shabbat in queste città" ed è "parte di una più ampia campagna sull'identità ebraica d'Israele che dimostra che il sindaco di Tel Aviv sta creando uno Stato all'interno di uno Stato e sta cercando di minare le fondamenta dello Stato ebraico".
   L'iniziativa di Tel Aviv e dei comuni vicini è effettivamente un passo verso una direzione nuova ma, secondo i sondaggi, dalla loro parte hanno l'80% degli israeliani, favorevoli a un trasporto pubblico di sabato.

(moked, 6 novembre 2019)


Israele - Governo di unità nazionale: ancora nebbia fitta

Si fa sempre più concreto il rischio di andare alla terza tornata elettorale in un anno

Praticamente non si vedono vie d'uscita e Israele, salvo svolte sorprendenti nelle trattative, rischia realmente di andare incontro alla sua terza tornata di elezioni parlamentari in meno di dodici mesi. È quanto affermavano lunedì sera diversi alti esponenti politici di Likud, Blu&Bianco, Israel Beytenu e Nuova Destra citati da Ariel Kahana su Israel HaYom.
Secondo uno di questi esponenti, le due parti sono più distanti che mai, specie dopo che la scorsa settimana i portavoce di Benjamin Netanyahu, e i loro telefoni cellulari, sono finiti nel mirino della polizia che indaga sui presunti casi di corruzione a carico del primo ministro. Lo stesso esponente sostiene che Blu&Bianco (la formazione guidata da Benny Gantz, attualmente incaricato di formare il nuovo governo) sta aspettando la decisione del Procuratore Generale Avichai Mendelblit circa l'incriminazione formale di Netanyahu. Mendelblit dovrebbe prendere la sua decisione all'inizio di dicembre. Per Blu&Bianco qualunque incriminazione, quand'anche cadesse la principale accusa di corruzione, metterebbe la parola fine su ogni possibilità di formare un governo con Netanyahu....

(israele.net, 6 novembre 2019)


Rajoub: Abu Mazen non si presenterà alle elezioni presidenziali

Il leader palestinese Abu Mazen (85 anni il prossimo marzo) non ha in programma di ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali, che dovrebbero svolgersi entro 3 mesi da quelle legislative in programma forse a febbraio o marzo del 2020.
Lo ha detto l'esponente di Fatah (la corrente di Abu Mazen) Jibril Rajoub in una intervista alla tv palestinese. Rajoub - capo della Federazione calcio palestinese, considerato uno dei possibili successori di Abu Mazen - ha spiegato, dopo aver ricordato l'età avanzata del presidente, che sarebbe meglio "nominarlo sceicco della tribù e capo spirituale del processo democratico".
"È - ha aggiunto - un tesoro nazionale". Un altro alto esponente di Fatah, Hussein al-Sheikh, ha tuttavia di recente confermato che Abu Mazen è "l'unico candidato" della fazione, la maggiore dell'Olp. Abu Mazen ha annunciato le prossime elezioni legislative e presidenziali (che non si tengono dal 2005/2006) nel suo intervento lo scorso settembre all'Assemblea generale dell'Onu.

(swissinfo.ch, 6 novembre 2019)


Ebrei all'ombra del Muro di Berlino e del Regime, fra ricordi, interrogativi e celebrazioni

di Roberto Zadik

 
Un murale con un Maghen David nella parte est della città, dipinto negli anni '90
Sono passati trent'anni da quella storica "Caduta del Muro", il 9 novembre 1989, eppure ben poco si sa su come visse la comunità ebraica locale quegli storici avvenimenti. Quali furono gli stati d'animo e le sofferenze della gente comune e come visse il mondo ebraico quell'evento che cambiò per sempre la storia europea e mondiale e quel tormentato periodo del Muro?
  A questo proposito in tema di celebrazioni e di commemorazioni, un articolo, del 17 agosto 2001 uscito sul sito www.jweekly.com, a nemmeno un mese da un altro Crollo, quello delle Twin Towers, riporta alcune testimonianze di chi negli anni '90 gestiva la Comunità ebraica berlinese e che visse quella fase storica così fondamentale e sorprendentemente così tralasciata. Per quasi un trentennio, dal 13 agosto 1961, un Muro lungo 96 miglia e rigidamente sorvegliato da controlli di polizia, check point e agenti pronti a aprire il fuoco su chiunque tentasse di fuggire a Ovest, "spaccava" in due la città e fra gli abitanti divisi e oppressi da questa invalicabile barriera c'erano anche i membri della Comunità ebraica locale.

 La comunità ebraica di Berlino negli anni del Muro
  Ma come vivevano gli ebrei berlinesi e chi erano? Si trattava, in quel 1961, di una comunità particolarmente provata dagli orrori della Shoah e formata dai sopravvissuti e dai loro figli e che nel 1933 con l'avvento del nazismo e della dittatura hitleriana vantava ben 175mila presenze, come riporta l'interessante articolo firmato da Tob Axelrod.
  Dall'inizio di quel Muro per 28 lunghi anni, la Comunità venne spezzata in due, come il Paese. Seimila ebrei vivevano nella prospera e emancipata parte Ovest della città, che negli anni '70 attirò l'interesse di grandi cantautori come David Bowie e il suo amico Lou Reed e la sua omonima "Berlin", mentre 800 rimasero intrappolati nella povera e disagiata parte Est della città sotto il controllo Sovietico.
  Oggi vivono circa 12mila ebrei nella città, in maggioranza provenienti dall'ex URSS e spesso e volentieri c'è chi inneggia a una "rinascita ebraica" con uno dei centri ebraici più affollati d'Europa anche se gli attacchi antisemiti sono in crescente aumento e la situazione sembra essere molto tesa da diversi anni.
  Ma cosa ne pensano i leader comunitari del Muro e quali i loro ricordi? Jerzy Kanal, ebreo polacco, presidente della Comunità dal 1992 al 1997, nato nel 1921 e sopravvissuto ai lager e al Ghetto di Varsavia ha affermato "questo Muro mi ricordava la divisione di Gerusalemme prima della Guerra dei Sei Giorni ma in quel caso la barriera separava gli israeliani dal nemico mentre nel nostro caso ci divideva dalla nostra gente e dalle nostre famiglie". Una spaccatura profonda non solo geografica ma anche e soprattutto emotiva e famigliare. In tema di ricordi e rievocazioni inedite, anche il Rabbino Andreas Nachama, di origini greche e presidente comunitario dal 1997 al 2001 ricorda perfino le prime fasi della costruzione del Muro. "Eravamo in Italia in quel periodo" ha rievocato "e al telegiornale serale abbiamo visto le prime immagini di quanto stava accadendo e pensavamo fosse l'inizio della Terza Guerra Mondiale". Figlio del hazan della Sinagoga locale, Estrongo, sopravvissuto ad Auschwitz e nato in Grecia, il Rabbino Nachama ricorda come suo padre inizialmente pensasse di andare a Venezia ma restò nella capitale tedesca ottenendo i permessi, come altri leader comunitari, di attraversare il Muro per celebrare circoncisioni e funerali che avvenivano nella parte Est della città.
  Divisioni e separazioni anche ideologiche segnavano i due tipi di ebrei berlinesi e molti erano convinti comunisti nonostante la situazione, altri riuscirono a salvarsi fuggendo a Ovest ai tempi delle feroci "purghe staliniane" o in cerca di libertà dall'oppressione sovietica. Questi elementi minacciarono la-sopravvivenza della minuscola Comunità a Est dove c'era una sola sinagoga e la maggioranza di chi scappò a Ovest erano religiosi dove c'erano una serie di Beth Ha Knesset.
  Per passare il confine e sopravvivere ai durissimi controlli e alle restrizioni poliziesche, Kanal ha detto "dovevi avere un permesso speciale per andare a Berlino Est e io non potevo andarci" mentre Nachama ricorda che "mio padre con passaporto greco non aveva problemi".
  Fra le testimonianze anche quella di Salomea Genin, all'epoca dell'articolo 69enne, figlia di una famiglia di ebrei tedeschi scampata al nazismo in Australia e tornata in Germania Est sospinta dagli ideali comunisti a tornare a Berlino Est nel 1972, anno delle terribili Olimpiadi di Monaco di Baviera. Lì rimase molto amareggiata nel vedere un gruppo di ebrei che cercava di dimenticare la Shoah cercando "nonostante questo con gente che sapeva di cosa stessi parlando". Nel suo racconto ricorda come fosse un taboo "parlare del proprio essere ebrei" in Germania Est e che stranamente il 9 novembre 1989 quando cadde il Muro era il 51esimo anniversario della Notte dei Cristalli in cui i nazisti devastarono e saccheggiarono una serie di negozi ebraici in Germania e Austria.
  Kanal nel suo racconto ricorda la felicità ebraica che seguì la Caduta del Muro, nonostante i dubbi nazionali che affliggevano la complessa riunificazione non solo berlinese ma tedesca che ancora oggi presenta differenze notevoli fra le ex "due Germanie". "Dopo la riunificazione, molte ebrei della Germania dell'Est riscoprirono l'ebraismo e alcuni trovarono una casa spirituale nel Club Culturale Ebraico di allora, che oggi è il Centrum Judaicum che ospita l'attuale Comunità ebraica, oltre a un archivio, a un museo e a una sinagoga Conservative". Ai tempi della DDR ha aggiunto l'ex presidente comunitario Kanal "gli ebrei di Berlino Est erano più comunisti degli altri, ora sono ebrei liberi".

(Bet Magazine Mosaico, 6 novembre 2019)


Italia-Israele, il Premio Montalcini 2019 a Caterina La Porta e Eytan Domany

Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato ai due scienziati per il progetto "Big Data and Tumors".

Caterina La Porta, Eytan Domany e il viceministro Emanuela Del Re alla cerimonia di consegna del Premio Rita Levi Montalcini 2019
Caterina La Porta, docente di Patologia generale all'Università Statale di Milano, e Eytan Domany, professore emerito del Weizmann Institute of Science (Israel), vincono il "Premio Rita Levi Montalcini per la cooperazione scientifica tra Italia e Israele" 2019 per il progetto "Big Data and tumors".
La cerimonia di consegna del premio si è tenuta il 5 novembre, a Roma, presso la Farnesina e alla presenza del viceministro Emanuela Del Re, nell'ambito dell'evento "Celebrating 70 years of Diplomatic Relations. Italy & Israel Side-By-Side for Innovation", dedicato ai progetti di maggior successo sviluppati dai due Paesi legati dall'Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica.
Il progetto "Big Data and Tumors" sarà sviluppato dal professor Domany sotto la supervisione di Caterina La Porta, presso il dipartimento di Scienze e Politiche ambientali dell'Università Statale e rappresenta un ottimo esempio di cooperazione in campo scientifico tra Italia e Israele.
Il Premio Montalcini 2019 è un ulteriore prestigioso riconoscimento per l'Università Statale di Milano e va ad aggiungersi a quello del 2018, assegnato al professor Ovadia Lev della Hebrew University of Jerusalem per il Progetto di Ricerca "Advanced Novel Analytical Methods for Faster Forensic and Medical Analysis", scritto in collaborazione con i gruppi di ricerca guidati da Luigi Falciola e Mariangela Longhi del dipartimento di Chimica.

(La Statale News, 6 novembre 2019)


Nucleare iraniano: Teheran è completamente fuori controllo

Annuncia che da oggi arricchirà l'uranio al 5%, vende acqua pesante quando non potrebbe. Ormai gli Ayatollah sono fuori controllo

di Sarah G. Frankl

L'Iran da oggi inizierà a arricchire l'uranio al 5% nella sua struttura nucleare sotterranea di Fordo. Lo ha annunciato il capo del programma nucleare iraniano, Ali Akbar Salehi.
«Da domani inizieremo ad arricchire l'uranio al 5% nell'impianto di Fordo» ha detto ieri sera alla agenzia ISNA il capo del programma nucleare iraniano aggiungendo che l'Iran dispone anche di una discreta scorta di uranio arricchito al 20%.
Ieri gli Stati Uniti avevano accusato l'Iran di "ricatto nucleare" giudicando ingiustificabile l'annuncio che avrebbero ripreso l'arricchimento dell'uranio nell'impianto di Fordo.
«L'Iran non ha motivo credibile di espandere il suo programma di arricchimento dell'uranio, presso la struttura di Fordo o altrove, a parte un chiaro tentativo di estorsione nucleare che non farà altro che approfondire il suo isolamento politico ed economico», ha detto un portavoce del Dipartimento di Stato.
Ma le minacce di nuove sanzioni non sembrano affatto intimorire gli Ayatollah iraniani che ormai si ritengono quasi intoccabili dopo che hanno potuto attaccare impunemente e per diverse volte l'Arabia Saudita.
Molto più credibile la minaccia lanciata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il quale ieri, saputo dell'intenzione iraniana di riprendere l'arricchimento dell'uranio nella struttura di Fordo e addirittura di potenziarla, ha ribadito con fermezza che Israele non permetterà mai all'Iran di dotarsi di armi nucleari.
«Questo non è solo per la nostra sicurezza e per il nostro futuro; è per il futuro del Medio Oriente e del mondo» ha poi specificato Netanyahu.
La riapertura dell'impianto di Fordo è particolarmente significativa perché in sostanza significa l'uscita dell'Iran dall'accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) il quale imponeva lo sgombero della struttura e lo svuotamento totale delle centrifughe.
Pochi giorni fa il capo del programma nucleare iraniano, Ali Akbar Salehi, aveva ammesso candidamente (e piuttosto spudoratamente) che l'Iran produce 20 tonnellate di acqua pesante all'anno e che la vendeva regolarmente ad altri paesi, in palese violazione del JCPOA.
Questa ammissione arriva dopo una serie di annunci molto preoccupanti nei quali gli Ayatollah hanno ribadito l'intenzione di potenziare le centrifughe per l'arricchimento dell'uranio (hanno annunciato anche una nuova centrifuga molto più veloce delle altre) e di tornare ad arricchire l'uranio su ampia scala.

 L'immobilità europea
  In questa escalation di annunci che in pratica confermano l'intenzione dell'Iran di uscire dall'accordo sul nucleare iraniano, l'Europa rimane alla finestra e non va oltre qualche flebile rimprovero invitando (ma con calma) l'Iran a tornare al JCPOA.

 Fuori controllo
  Ormai l'Iran è completamente fuori controllo e si sente autorizzato a fare qualsiasi cosa, minacciare Israele, interferire pesantemente in Iraq, in Siria e in Libano, bombardare l'Arabia Saudita, produrre armi nucleari.
Per troppo tempo si è sottovalutato il pericolo iraniano lasciando che gli Ayatollah posizionassero le loro pedine nel domino mediorientale e ora sarà quasi impossibile uscire da questa situazione senza provocare un conflitto regionale.
Abbiamo criticato per molto tempo l'Amministrazione Obama per l'accordo sul nucleare iraniano, la madre di tutti gli errori, ma non è che l'Amministrazione Trump abbia fatto tanto di più, anzi, se possibile ha fatto peggio dando una dimostrazione di debolezza incredibile che mai ci saremmo aspettati dall'America.

(Rights Reporters, 6 novembre 2019)


Un mare di fiamme

di Mattia Feltri

A Dresda, dov'è stata proclamata l'emergenza nazismo per l'infittirsi di violenze e manifestazioni razziste a braccia tese, fino a trent'anni fa la Frauenkirche, la Chiesa di Nostra Signora, era rimasta un cumulo di macerie, un monumento della Germania Est comunista alla malvagità dell'Occidente. Nella notte fra il 13 e il 14 febbraio del 1945 il bombardamento degli alleati risparmiò la Frauenkirche, ma le fiamme entrarono dalle finestre, fecero scempio e dopo qualche giorno, quando la temperatura era scesa dai mille gradi del picco, la chiesa collassò. Quella notte Dresda, una delle più belle città medievali tedesche, venne rasa al suolo da mille e cinquecento tonnellate di bombe esplosive e mille e duecento tonnellate di bombe incendiarie. Più o meno la stessa sorte toccata ad Amburgo, Norimberga, Colonia. Nel 1997 il grande scrittore Winfried Georg Sebald tenne una serie di conferenze sulla poetica di guerra, avventurandosi in un viaggio dall'approdo imprevedibile: le conferenze originarono un libro titolato Storia naturale della distruzione, uscito nel 2001, pochi mesi prima che Sebald morisse in un incidente stradale. Sebald aveva realizzato l'incapacità e più spesso la rinuncia degli scrittori tedeschi non soltanto a raccontare la Shoah, ma anche la conseguente e devastante punizione alla Germania. Tacquero gli scrittori e tutti gli altri. Bisognava tacere e ricostruire. Tacere e ricostruire. Il non voler prendere coscienza fu il presupposto del successo dei tedeschi, disse il poeta Hans Magnus Enzensberger.
   Quello che succedeva durante i bombardamenti, Sebald lo raccontò così: «Già un quarto d'ora dopo la caduta delle prime bombe, l'intero spazio aereo divenne un unico mare di fiamme (...) Il fuoco, levandosi in cielo in vampe alte duemila metri, attirava a sé l'ossigeno con una violenza tale che le correnti d'aria raggiunsero la forza di uragani (...) Giunta al culmine, la tempesta prese a sollevare i cornicioni e i tetti delle case, sradicò alberi e trascinò con sé esseri umani trasformati in fiaccole viventi. Dietro le facciate che crollavano, lingue di fuoco alte come palazzi salivano al cielo, si riversavano nelle strade a una velocità di oltre 150 chilometri all'ora (...) Chi era scappato dai rifugi cadeva adesso, in grotteschi contorcimenti, sull'asfalto liquefatto».
   La Germania ci aveva messo cinquant'anni per raccontarselo: quasi niente a Est, e quel poco giusto per significare l'elevatezza della dittatura sovietica, ancora meno a Ovest. Alla rimozione della Shoah— e della Guerra mondiale nel suo complesso — si è cercato di rimediare negli ultimi decenni, e su di essa sono stati scritti molti libri, l'ultimo (I senza memoria) è di Géraldine Schwarz, dettagliato e impietoso. Soltanto che rimuovere la storia non serve a niente. Prima o poi la storia presenta il conto, e tanto più se si è cercato di dimenticarla. Rifioriscono gli attentati alle sinagoghe, gli omicidi, le bastonature, le fiumane sotto le svastiche, e hanno molteplici cause, una delle quali sono i ragazzi come sono oggi: non hanno nulla da rimuovere, nessun male compiuto né subito, e nemmeno compiuto o subito dai loro padri, ignorano tutto quanto è successo, tutto quanto gli è semplicemente estraneo. E dunque e di nuovo contano di vincere il loro smarrimento coi manganelli in mano, contro la democrazia, lo straniero e il giudeo, nel nome mitizzato di uomo coi baffetti lontano e sconosciuto.

(La Stampa, 6 novembre 2019)


Un comitato approva il progetto di una funivia dentro la Città Vecchia di Gerusalemme

Ad annunciarlo il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon. Punto di partenza tra negozi e ristoranti, potrà caricare tremila persone all'ora.

GERUSALEMME - La questione era e resta controversa perché l'ultima parola spetta al governo ed è improbabile che arrivi. Intanto però ieri i piani stati approvati dal Comitato: il momento in cui i turisti a Gerusalemme potranno prendere una funivia e raggiungere alcuni dei principali luoghi sacri della Città Vecchia, si fa più delineato. E c'è chi contesta la Disneyficazione della Città santa.
La funivia potrà caricare tremila persone all'ora nella Città Vecchia, secondo un tweet del ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon che ha annunciato la decisione, presa durante una riunione del gabinetto sulle abitazioni.
Il piano, di cui si parla dal 2016, aveva già suscitato le proteste di conservatori, ambientalisti, progettisti, architetti israeliani inorriditi nell'immaginare il sito patrimonio dell'umanità in una specie di Epcot, il parco giochi del futuro in Florida, a tema ebraico, con migliaia di passeggeri all'ora stipati in enormi bolle che si innalzano nel cielo.
Ma i problemi della funivia non sono solo estetici. I piani attuali prevedono che passi sopra e attraversi Gerusalemme est, che i palestinesi e la maggior parte della comunità internazionale considerano territorio occupato.
Il punto di partenza della funivia, secondo il progetto, sarà in una stazione in mezzo a boutique e ristoranti, la First Station, nella parte occidentale della città. Attraverserebbe quindi la parte orientale, con una sosta sul Monte Sion, prima di terminare vicino all'ingresso Dung Gate della Città Vecchia, il punto di accesso più vicino al Muro occidentale e alla Cupola della Roccia.
Il progetto è in lavorazione dal 2016 quando l'allora sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, disse che sarebbe servito a far arrivare oltre dieci milioni di turisti nella Città Vecchia, e che avrebbe mostrato al mondo intero "chi ha davvero il controllo della città".

(la Repubblica, 6 novembre 2019)


Italia-Israele, un incubatore congiunto di idee e progetti

Dal 2002 i Paesi sviluppano progetto nell'ambito dell'Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica

di Francesca Paci

Che poi, quando si parla di ricercatori, le schematizzazioni sembrano inevitabili, o gli sfigati eternamente in attesa d'una cattedra più aleatoria di Godot o i geni di statura mondiale fuggiti all'estero e lì rimasti a raccogliere onori. La ricerca invece è per l'appunto ricerca e quindi anche quotidianità, dedizione, passione speculativa più che mediatica. Basta resistere all'allure poco sexy del faldone e sfogliare i «Protocolli esecutivi di cooperazione scientifica e tecnologica» per vedere quanto lavoro ci sia nel mezzo, centri high tech all'avanguardia, università prestigiose che si scambiano know how con poli accademici internazionali, cervelli apprezzati in tutto il mondo anche quando non sono in fuga.
   E' a questo sistema Paese in cammino nonostante la palude economica che fa riferimento il Premio Rita Levi Montalcini consegnato martedì 5 novembre nell'ambito del 70esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Israele, dalla vice-ministra Emanuela Del Re e dal sottosegretario del MIUR Azzolina al professor Eytan Domany, un luminare del dipartimento di fisica dei sistemi complessi dell'Istituto Weizmann di Tel Aviv che nei mesi scorsi ha condotto un periodo di ricerca con il gruppo guidato dalla professoressa Caterina La Porta del dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell'Università degli Studi di Milano. Un lavoro di cui Domany ha parlato alla Farnesina in una lectio, intitolata "Big data and tumors" (Big data e tumori).
   Sono molti i progetti sviluppati nel quadro dell'Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica che dal 2002 vedono Italia e Israele collaborare anche a distanza, un incubatore congiunto d'iniziative bilaterali per gli studiosi ma anche per le migliori startup e le PMI innovative. Fanno testo le cifre. In meno di vent'anni sono stati finanziati 209 progetti, di cui 135 di ricerca e sviluppo industriale e 74 di ricerca di base sviluppati da università e enti di ricerca (il Premio Rita Levi Montalcini, che premia e finanzia ogni anno la residenza di un ricercatore in Italia o in Israele è uno degli strumenti attivati).
   «La Montalcini è stato un esempio come donna, scienziata, una figura che ha affrontato molte sfide - osserva la vice-ministra Del Re - . Ed è significativo come questa collaborazione tra Paesi a cui si devono grandi risultati e speranze al futuro, anche nel segno delle start up di cui Israele è oggi Paese leader, venga riconosciuta con un premio che porta il suo nome». Un gemellaggio intellettuale che va al di là delle questioni geopolitiche e che l'ambasciatore israeliano Eydar associa alla ricorrenza del 70esimo, «70 nell'ebraismo è il numero che simboleggia una vita intera. Con l'augurio che, nel futuro delle nostre relazioni, se ne possa aprire un'altra di grande soddisfazione per entrambi».

(La Stampa, 6 novembre 2019)


Guerra Iran-Israele: uno scenario da incubo e una incombente domanda

Un lunghissimo articolo di Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington, disegna un quadro davvero drammatico in caso di guerra aperta tra Ira e Israele. Sarà verosimile? Difficile dirlo. Di certo non sarà una passeggiata.

di Adrian Niscemi

 
Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington
È uno scenario da incubo quello descritto da Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli USA, nel caso di una guerra tra Iran e Israele.
In un articolo a sua firma pubblicato su The Atlantic l'ex ambasciatore israeliano a Washington descrive in maniera cruda e agghiacciante quello che potrebbe succedere e si chiede cosa faranno gli Stati Uniti in caso di conflitto.
Secondo il quotidiano americano i Ministri israeliani si sono riuniti due volte la scorsa settimana per discutere la possibilità, più che concreta, di una guerra aperta con l'Iran.
Sul tavolo uno scenario da incubo che viene ben descritto nell'articolo senza tanti giri di parole. Una vera e propria pioggia di missili si potrebbe riversare su Israele, qualcosa come 4.000 missili al giorno.
Michael Oren descrive l'attuale situazione come "estremamente delicata". Il minimo errore, da una parte e dall'altra, potrebbe portare allo scontro aperto in brevissimo tempo.
Secondo Oren nelle riunioni della scorsa settimana «i ministri hanno esaminato il recente attacco di droni e missili da crociera iraniani contro due installazioni petrolifere saudite, concludendo che un simile attacco potrebbe essere lanciato contro Israele dall'Iraq».
Per questo motivo, secondo quanto scrive Oren «le forze di difesa israeliane hanno annunciato l'adozione di un piano di emergenza, nome in codice Momentum, per espandere significativamente la capacità di difesa missilistica di Israele, la sua capacità di raccogliere informazioni sugli obiettivi nemici e la preparazione dei suoi soldati alla guerra urbana».
«Le truppe israeliane - scrive ancora Oren - specialmente nel nord, sono state poste in stato di massima allerta. Israele si sta preparando al peggio e sta agendo sul presupposto che i combattimenti potrebbero scoppiare in qualsiasi momento».

 Scenario da incubo
  L'equilibrio è molto fragile, il minimo errore da una parte o dall'altra porterebbe allo scontro aperto. Nei mesi scorsi Israele ha compiuto diversi "attacchi di contenimento" contro obiettivi iraniani, ma si è sempre stati molto attenti a non superare determinate linee e, soprattutto, a non mettere in "imbarazzo" gli iraniani tanto da spingerli ad una reazione. Ma compiere un errore in questa situazione è davvero facile.
La conflagrazione, come tante in Medio Oriente, potrebbe essere innescata da un'unica scintilla. I caccia israeliani hanno già condotto centinaia di bombardamenti contro obiettivi iraniani in Libano, Siria e Iraq, preferendo scoraggiare piuttosto che mettere in imbarazzo Teheran
In queste condizioni, secondo Michael Oren, è molto facile superare il limite, basta colpire un obiettivo più sensibile di un altro, una parola di troppo da parte di qualche politico e il gioco è fatto.
«Il risultato - scrive Oren - potrebbe essere un contrattacco da parte dell'Iran, usando missili da crociera che penetrano nelle difese aeree israeliane e si schiantano contro obiettivi come il Kiryah, l'equivalente del Pentagono di Tel Aviv».
A qual punto si innescherebbe una reazione a catena. Israele risponderebbe bombardando il quartier generale di Hezbollah a Beirut e dozzine di postazioni lungo il confine libanese. Inizierebbero scambi di artiglieria e scontri armati su larga scala.
I razzi, che trasportano tonnellate di TNT, pioverebbero a centinaia su Israele; i droni armati di carichi esplosivi si schianterebbero in strutture cruciali, militari e civili
Scrive Oren: «il numero di missili potrebbe arrivare fino a 4.000 al giorno. La maggior parte delle armi nell'arsenale di Hezbollah sono missili di stallo con traiettorie fisse che possono essere rintracciati e intercettati dal sistema israeliano Iron Dome. Ma Iron Dome ha un'efficacia media del 90 percento, il che significa che per ogni 100 missili, 10 passano e le sette batterie operative non sono in grado di coprire l'intero paese. Tutto Israele, da Metulla a nord alla città portuale meridionale di Eilat, si troverebbe nel raggio di fuoco nemico».
Poi continua: «ma i missili a guida di precisione, un numero crescente dei quali si trovano negli arsenali iraniani, rappresentano una minaccia molto più mortale. Diretti da joystick, molti possono cambiare destinazione durante il volo. Il sistema Sling di David, sviluppato in collaborazione con gli Stati Uniti, può fermarli, in teoria, perché non è mai stato testato in combattimento. E ciascuno dei suoi intercettori costa 1 milione di dollari. Anche se non viene raso al suolo fisicamente, Israele può essere dissanguato economicamente».
Per non parlare poi della possibile paralisi di porti, aeroporti, ospedali, sistemi di comunicazione, linee elettriche anche dovuti ad attacchi provenienti dal Libano, dalla Siria e dalla Striscia di Gaza. Uno scenario veramente da incubo.

 Cosa farà l'America?
  Ma la domanda più importante che Michael Oren si pone nel suo articolo è: «cosa farà l'America se di dovesse presentare uno scenario simile?»
Se ci fosse un pericolo reale per la sopravvivenza di Israele, se ci fosse cioè uno scenario simile a quello immaginato da Oren, gli Stati Uniti interverrebbero militarmente? La risposta, secondo Oren, è SI. Non solo, metterebbero in atto tutti quei piani in vigore da sempre per rifornire massicciamente Israele di armi.
Ora, leggendo tutto l'articolo scritto da Michael Oren per The Atlantic, si potrebbe pensare che l'ex ambasciatore israeliano sia un po' esagerato. In realtà Oren disegna un quadro abbastanza verosimile. In fondo l'Iran negli ultimi anni ha agito proprio per creare uno scenario simile e accerchiare Israele. Riuscendoci, purtroppo.
La domanda più importante resta comunque l'ultima. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo nella sua ultima visita in Israele ha dato ampie garanzie sul supporto americano a Israele in caso di un conflitto aperto con l'Iran. E c'è da credere che gli americani manterranno le promesse.
Resta il fatto che errori di calcolo (anche grossolani) hanno permesso all'Iran di accerchiare Israele creando una situazione, verosimile o meno, che nella migliore delle ipotesi metterà a dura prova la resistenza del piccolo Stato Ebraico.

(Rights Reporters, 5 novembre 2019)


La Corte suprema israeliana ordina l'espulsione dell'attivista di Hrw Omar Shakir

GERUSALEMME - La Corte suprema israeliana ha ordinato l'espulsione entro 20 giorni di Omar Shakir, direttore di Israele e Palestina presso Human Rights Watch, per attività di boicottaggio contro lo Stato ebraico. La decisione, riferisce il quotidiano "Jerusalem Post", è stata presa all'unanimità. "Per anni, Shakir è stato sistematicamente, coerentemente e attivamente coinvolto nella promozione del movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni)", si legge nella decisione della Corte. Il governo del premier Benjamin Netanyahu ha approvato diversi mesi fa una legge che permette di impedire l'ingresso in territorio israeliano di persone che appoggiano apertamente il Bds. Human Rights Watch, da parte sua, ha invece accusato il governo israeliano di voler espellere Shakir per motivi politici.

(Agenzia Nova, 5 novembre 2019)


Italia-Israele: ambasciatore Eydar, relazioni iniziate prima della nascita dello Stato ebraico

Presentazione di Dror Eydar
ROMA - Le relazioni tra Italia e Israele sono iniziate prima della nascita dello Stato ebraico: il Risorgimento è stato fonte di ispirazione per gli ebrei d'Europa. Lo ha detto oggi l'ambasciatore d'Israele a Roma, Dror Eydar, in occasione del seminario bilaterale dal titolo "Celebrating 70 years of Diplomatic Relations. Italy and Israel Side-By-Side for Innovation", dedicato ai progetti di successo sviluppati nel quadro dell'Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica, tra Italia e Israele. "Dopo l'avvio delle relazioni bilaterali tra Italia e Israele, la cooperazione è fiorita", ha affermato il diplomatico. Eydar ha ricordato che "oggi vi sono migliaia di progetti in corso e la cooperazione scientifica è cresciuta nei settori della medicina, dell'aerospazio, e della nanotecnologia".
Infine, Eydar ha ringraziato il governo italiano e il ministero degli Affari esteri per "le profonde relazioni economiche e per la forte amicizia". Presenti all'evento, tra gli altri, la viceministro degli Esteri, Emanuela Del Re, e il direttore generale per la promozione del Sistema Paese della Farnesina, Vincenzo de Luca, che ha sottolineato come il successo della collaborazione a livello scientifico sia legata anche alla cooperazione a livello ministeriale.

(Agenzia Nova, 5 novembre 2019)


Isis, catturata la sorella di Al Baghdadi. Miniera di informazioni per gli 007

Rasmiya Awad, 65 anni, è stata catturata dai militari turchi nel nord della Siria

"Una miniera d'oro per l'intelligence" sull'Isis: gli 007 del mondo occidentale si aspettano grandi cose dall'arresto della sorella di Abu Bakhr al-Baghdadi avvenuto ieri sera. Rasmiya Awad, 65 anni, è stata catturata dai militari turchi nel nord della Siria, in un raid vicino alla città di Azaz, ad una decina di chilometri dal confine con la Turchia, in un'area controllata dall'esercito di Ankara dopo l'operazione 'Fonte di pace' lanciata ad ottobre. E secondo una fonte dell'intelligence turca, la donna potrebbe essere "una miniera d'oro".
   Si sa poco della sorella maggiore di al-Baghdadi, che aveva cinque fratelli e diverse sorelle, anche se non è chiaro se siano tutti ancora vivi, scrive il New York Times. Awad è stata trovata in una roulotte, dove viveva con suo marito, sua nuora e cinque figli. E' sotto interrogatorio per sospetto coinvolgimento con il gruppo terrorista. E adesso si cerca di capire quante informazioni possegga la donna o quanto tempo abbia trascorso con al-Baghdadi.
   "Non credo che possa essere al corrente di piani di attacco imminenti, ma potrebbe conoscere le rotte del contrabbando. Potrebbe conoscere le reti di cui al-Baghdadi si fidava, le persone a lui più vicine, le reti in Iraq che l'hanno aiutata nei suoi spostamenti e in quelli della sua famiglia", ha detto a Bbc World News Mike Pregent, un esperto di antiterrorismo all'Hudson Institute. "Dovrebbe essere in grado di fornire ai servizi segreti americani e a quelli alleati una visione delle reti dell'Isis e di come hanno spostato i membri della famiglia, di come hanno viaggiato e di chi si fidavano".

(Affaritaliani.it, 5 novembre 2019)


L'Iran decuplica la produzione dell'uranio

 
"Nel corso degli ultimi 60 giorni di ultimatum ai partner Ue" dell'accordo sul nucleare, "l'Iran ha aumentato di circa 10 volte, portandola a 5 mila grammi, la sua produzione quotidiana di uranio". Lo ha detto il capo dell'organizzazione per l'energia atomica di Teheran, Ali Akbar Salehi. "L'Iran sta mettendo in funzione 60 centrifughe avanzate IR-6 nel sito nucleare di Natanz, cioè il doppio di prima", in violazione dell'accordo sul nucleare del 2015. Lo ha annunciato alla tv di Stato il capo dell'Organizzazione per l'energia atomica di Teheran, Ali Akbar Salehi, parlando nel 40/o anniversario dell'occupazione dell'ambasciata Usa. Le centrifughe IR-6 possono produrre uranio arricchito a una velocità 10 volte superiore al modello IR-1 di prima generazione, ammesso invece dall'intesa, riducendo così ulteriormente il tempo teorico necessario per produrre l'atomica, che Teheran ha però sempre negato di voler possedere.

(Punto Stabia News, 5 novembre 2019)


Bene la lotta all'antisemitismo

Precisazione

di Fiamma Nirenstein

Non penso che il documento della senatrice Liliana Segre non serva. Come ho scritto e dichiarato, io l'avrei votato, perché combatte la terribile rinascita dell'antisemitismo coinvolgendo le istituzioni. La senatrice inoltre ha una storia personale che suscita amore e rispetto. Il mio pezzo portava tuttavia anche la mia analisi dell'antisemitismo. È un'idra genocida dalle molte teste, ma il suo scopo è sempre lo stesso: la distruzione del popolo ebraico. Il cuore di questo popolo oggi è senza ombra di dubbio Israele, cui gli ebrei con immensa fatica sono tornati dopo mille persecuzioni, avendo fondato qui la religione monoteista, a Gerusalemme. Da molti anni i miei lavori sull'antisemitismo, da prima che il bubbone diventasse di nuovo purulento, cercano di definire il centro della questione: esso consiste, da destra e da sinistra, nell'attacco contro lo Stato del popolo ebraico. Criminalizzandolo, coprendolo di menzogne ridicole (che pratichi l'apartheid o che persegua il genocidio dei palestinesi) si giustifica il terrorismo, l'odio, e persino la posizione dell'Iran che lo minaccia di distruzione. La mia analisi dell'antisemitismo, in testi recenti per Jerusalern Center for Public Affairs e nel mio lavoro per il Giornale, accetta le tre D di Sharansky: demonizzazione, doppio standard, delegittimazione di Israele. L'aggettivo sionista è diventato un' offesa per tutti gli ebrei invece del complimento che dovrebbe essere perché lo Stato degli Ebrei è un'impresa giusta e eroica. La famigerata mozione dell'Onu «sionismo uguale razzismo» è del 1975, ma ci siamo tornati. Il mio articolo di tre giorni fa se ne occupava in base a fatti di cronaca odierni. E che fare oggi? Il parlamento italiano dovrebbe per prima cosa riconoscere l'IHcra, la definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance già adottata da più di 30 Stati. Questo garantirebbe una forte battaglia.

(il Giornale, 5 novembre 2019)


La commissione Segre non è contestata soltanto da posizioni di destra, c'è anche chi pensa che possa essere uno strumento per coprire le malefatte di ebrei e di Israele in particolare. Da un sito decisamente antisionista: "... sono dell'idea che questa commissione sia stata creata appositamente per silenziare coloro che vogliono raccontare cosa succede in Israele", cosa che teoricamente potrebbe anche accadere. Questo conferma che la commissione Segre non è soltanto inutile: è disutile. M.C.


La storia dell'ebreo costretto a nascondere le sue origini nella Berlino di oggi diventa film

L'autobiografia dell'ebreo Arye Sharuz Shalicar diventa un film. Una storia di razzismo nella Berlino moderna in uscita nel 2020

di Francesco Trovato

Intervista a Arye Sharuz Shalicar
Wet Dog sarà il titolo del film basato sull'autobiografia di Arye Sharuz Shalicar. Il film sarà diretto da Damir Lukacevic e prodotto da Carte Blanche International e Warner Brothers Germany. Nel film il protagonista avrà lo pseudonimo di Soheil, e sarà interpretato dall'attore Doguhan Kabaday. Il film uscirà nelle sale tedesche nel 2020, sebbene ancora non vi sia la data certa. Il regista ha dichiarato: «la storia raccontata è molto più rilevante oggi di quanto non fosse 20 anni fa», proprio per questo il film sarà ambientato nella Berlino odierna. Il fatto che la Warner Brothers Germany abbia deciso di produrre il film, anche se la principale società di produzione di solito non sosterrebbe un progetto senza attori famosi nei ruoli principali, dimostra l'importanza della storia e dei temi affrontati.

 "Un cane bagnato è meglio di un ebreo secco", l'autobiografia su cui si basa il film
  Il titolo provocatorio è uno slogan antisemita che gli iraniani riservano agli ebrei. Shalicar infatti è figlio di iraniani in fuga dall'antisemitismo. La sua adolescenza a Wedding, quartiere di Berlino Ovest con una forte concentrazione di immigrati musulmani, cambia radicalmente quando si viene a sapere della sua credenza religiosa. Perde le amicizie dei suoi compagni musulmani, nonché quelle della sua crew con cui condivideva la passione per l'hip hop e i graffiti. La sua stessa incolumità fisica è in pericolo. «Per i tedeschi, ero un turco sporco, per i musulmani un ebreo, per gli ebrei un giovane criminale di Wedding», si legge nel libro autobiografico di Shalicar. Il libro, uscito nel 2010, è il racconto amaro di una vita completamente stravolta dal razzismo.

 La storia di Arye Sharuz Shalicar
  L'autore nasce nella Bassa Sassonia nel 1977. Approda nella capitale tedesca nei primissimi anni di vita. Cresce a Berlino coltivando amicizie e passioni, studiando alla Libera Università di Berlino, fino a quando la discriminazione razzista lo induce a cambiare vita. Nel 2001 infatti decide di trasferirsi in Israele per proseguire gli studi a Gerusalemme e poter vivere liberamente da ebreo. Nel 2009 diventa l'addetto stampa dell'esercito israeliano fino al 2016. Dal 2017 lavora nel ministero dell'Intelligence come direttore degli affari esteri. In un'intervista rilasciata al giornale di Aquisgrana, Shalicar dichiara come l'antisemitismo si manifesti in Germania nella vita ordinaria ai giorni d'oggi. «In molte scuole, si può osservare che i bambini usano la parola "ebreo" come un insulto. In alcuni distretti di grandi città tedesche, non ci si può identificare pubblicamente come ebreo. Sono cresciuto in una zona del genere e ho quasi pagato la mia vita ebraica».

(Berlino Magazine, 5 novembre 2019)



Per Trump non è più il momento di "scherzare" con il pericolo iraniano

Il ritiro americano dall'accordo sul nucleare iraniano ha messo in luce le drammaticità e gli errori commessi da Obama e dalla UE. Ora non si può più scherzare ma Trump ne deve essere consapevole

di Franco Londei

Amos Yadlin, ex capo della intelligence militare israeliana
Per molto tempo ho criticato Obama e la UE per l'assurdo accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e quando Donald Trump ha deciso il ritiro degli Stati Uniti da quell'accordo ne sono stato soddisfatto.
Tuttavia mi aspettavo da parte americana un piano di contingenza che mettesse al riparo il Medio Oriente e soprattutto Israele dai danni ormai provocati dalla assurda coppia Obama-Mogherini. E i danni non sono certamente pochi.
Nato fondamentalmente per rallentare il programma nucleare iraniano, ma non per fermarlo, il JCPOA non ha dato benefici immediati se non agli iraniani.
Ha impropriamente convinto il mondo di essere più al sicuro quando in realtà ha creato un pericolo mortale che solo oggi possiamo vedere in tutta la sua drammaticità.
Con quell'accordo l'Iran ha avuto improvvisamente a disposizione miliardi di dollari che ha immediatamente investito nelle sue attività belliche sviluppando da un lato un sistema missilistico convenzionale che, come dimostra l'attacco all'Arabia Saudita, è abbastanza letale, mentre dall'altro ha potuto finanziare le guerre in Yemen e in Siria nonché i propri proxy locali.
  Come fa giustamente notare l'ex capo della intelligence militare israeliana, Amos Yadlin, con quell'accordo l'Iran si è potuto muovere in tre diverse direzioni:
  1. ha potuto sviluppare comunque il suo programma nucleare
  2. ha sviluppato un sistema missilistico convenzionale in grado di coprire praticamente (ed efficacemente) tutto il Medio Oriente
  3. ha potuto finanziare guerre e interventi in tre Stati (Siria, Yemen e Iraq) che oggi permettono a Teheran di avere il controllo di una buona fetta di Medio Oriente e, soprattutto, gli hanno permesso di creare il tanto agognato "corridoio sciita" che ha portato l'esercito iraniano a pochi chilometri dal confine israeliano.
Questo dimostra che le motivazioni su cui si basava il JCPOA erano completamente sbagliate in quanto l'Iran non solo non ha aperto nessun tipo di dialogo né sul nucleare né sul suo programma balistico convenzionale, non solo non ha usato quel denaro per risollevare l'economia e quindi il benessere del suo popolo, ma lo ha usato solo in chiave bellica.
  Come dicevo prima, la decisione del Presidente Trump di uscire dal JCPOA è stata quindi sacrosanta, ma allo stesso tempo monca di un piano di contingenza.
  Nei fatti non ha minimamente influito sulla aggressività iraniana, anzi, se possibile ha reso la politica di Teheran ancora più ostile e aggressiva. Questo perché l'uscita degli USA dall'accordo sul nucleare iraniano è basata unicamente su misure finanziarie e non militari. Trump però, anche finanziariamente, ha chiuso la stalla quando i buoi erano già fuori, cioè quando l'Iran aveva già potuto godere degli enormi vantaggi finanziari derivati dal JCPOA.
  E di certo non ha aiutato la "non reazione" americana ai diversi attacchi portati dall'Iran contro l'Arabia Saudita. Quella immobilità ha reso le azioni iraniane ancora più spavalde.
  Ora però siamo a un bivio. Trump deve decidere in fretta come comportarsi con Teheran. Non può certo aspettare le elezioni americane per farlo. Non può continuare a rimanere impassibile di fronte a tanta aggressività solo perché tra un anno ci sono le elezioni. Un anno in Medio Oriente è un'era geologica. E non può nemmeno continuare a fare affidamento unicamente sulle sanzioni, abbiamo visto che non incidono sull'aggressività iraniana.
  Ora quel piano di contingenza serve e serve subito. L'Iran si sta posizionando da mesi intorno a Israele con l'obiettivo dichiarato di attaccare lo Stato Ebraico. Non è una ipotesi, è una certezza.
  Israele è certamente in grado di difendersi da solo, ma una guerra con Teheran potrebbe scatenare un conflitto regionale di grandi proporzioni che gli Stati Uniti non potranno certamente ignorare. L'impressione è che l'amministrazione americana non sia pronta a una tale devastante possibilità.
  Ora più che mai servirebbe affrontare il pericolo iraniano per quello che è in realtà, cioè un pericolo globale perché un conflitto regionale in Medio Oriente avrà ripercussioni su tutto il globo, non solo sulla regione.
  Trump deve uscire dalla ambiguità, deve dimostrare di essere ancora il capo della più grande potenza mondiale e mandare a Teheran un messaggio chiaro, contrario al messaggio di debolezza inviato sino ad ora.
  Il rischio non è solo quello di essere impreparati ad una guerra regionale in Medio Oriente con ripercussioni globali, ma anche quello che a prendere il posto degli USA siano le altre due grandi potenze, la Russia e la Cina. Davvero se lo può permettere Trump?

(Rights Reporters, 4 novembre 2019)


Gaza nella morsa fra Hamas e Jihad Islamica

Israele cerca di preservare la relativa calma, ma prima o poi dovrà affrontare il pericolo posto a sud dai terroristi al servizio dell'Iran.

Scrive Ron Ben-Yishai su YnetNews: Dopo la raffica di razzi palestinesi lanciati venerdì sera da Gaza contro le comunità civili israeliane, i rappresentanti israeliani si sono affrettati a sottolineare che Hamas, la fazione che controlla la striscia, in realtà non vuole un'escalation e si sta anzi impegnando nel tentativo di preservare la calma al confine con Israele. Ma a quanto pare vi sono alcuni elementi della Jihad Islamica palestinese, la seconda più grande fazione terroristica a Gaza, che stanno cercando di sabotare gli sforzi di Hamas.
Il comandante militare della Brigata settentrionale della Jihad Islamica a Gaza, Baha Abu al-Ata, è emerso come l'uomo che guida gli attacchi contro Israele, e la cui agenda militante è persino più estremista di quella della dirigenza della sua stessa organizzazione, che ha sede nella capitale siriana Damasco. A differenza di Hamas, Abu al-Ata non ha una popolazione civile di cui occuparsi e, di conseguenza, è insensibile ai corteggiamenti e alle minacce degli ufficiali dell'intelligence egiziana che vorrebbero impedirgli di trascinare Gaza in una guerra aperta....

(israele.net, 4 novembre 2019)


L'Inferno vissuto da Alberto Sed 'Fa impallidire quello di Dante'

Testimone della Shoah, tra gli ultimi reduci di Auschwitz, si è spento a 91 anni

"Ero rimasto zitto per tutta la vita, sapevo che parlare significava non essere capiti" "Gli antisemiti sono i primi a sapere cosa è successo: per questo si affannano tanto"

di Francesca Paci

 
Alberto Sed
ROMA - Chiedeva sempre d'incontrare i bambini, Alberto Sed, a chi lo andava a trovare nel suo appartamento romano dove, in una speciale stanza dei ricordi, custodiva le foto in bianco e nero del ritorno alla vita, un quadernone su cui annotare in bella calligrafia i nomi degli ospiti, le lettere e i biglietti di auguri degli studenti che, da quando nel 2006 aveva deciso di raccontare il passato, erano diventati gli amici del futuro. Uno degli ultimi sopravvissuti al lager di Auschwitz se ne va così, tenendo per mano il passato e il futuro, una catena allacciata con fatica ma anche con la consapevolezza di una caducità in agguato, l'oblio sempre più minaccioso sulla memoria dell'Olocausto man mano che i testimoni si spengono, uno dopo l'altro.
   «Io, come tanti, ero rimasto zitto per tutta la vita perché sapevo che parlare significava non essere capiti e magari finire al manicomio o da uno psichiatra a farsi imbottire di pillole. Nonostante le leggi razziali mi abbiano precluso gli studi ho fatto in tempo a leggere la Divina Commedia e dico che se Dante aveva intuito bene il Purgatorio e il Paradiso, sull'Inferno si è sbagliato per difetto, perché l'Inferno è quello che ho vissuto io a 15 anni. Incredibile dall'esterno. Meglio il silenzio». Le parole di Alberto restano nelle orecchie di chi le ha ascoltate sul divano accanto a questo signore sempre rasato a puntino e in abito chiaro con la cravatta, cura e cortesia d'altri tempi.
   Le porte dell'inferno si chiudono adesso come gli occhi di Alberto Sed, 91 anni e l'energia compressa del bambino interrotto come i binari all'ingresso di Auschwitz-Birkenau. Abbiamo però ancora la storia che, senza tregua, anche quando i movimenti diventavano più ardui e l'udito lo abbandonava, ha continuato a raccontare nelle scuole, con quel marcato accento romanesco con cui ammetteva che, pur essendo uno sfegatato tifoso giallorosso, aveva abbandonato lo stadio dopo la comparsa degli striscioni antisemiti.
   «Gli antisemiti sono i primi a sapere quello che è successo, lo sanno meglio degli altri, per questo si affannano tanto. Ho visto Auschwitz ma paradossalmente era come stare in villeggiatura rispetto a quello che mi sarebbe capitato dopo, la marcia della morte, il lavoro nella miniera così devastante da farmi improvvisare pugile e combattere per il divertimento dei miei carnefici, il ritorno alla vita con i fantasmi di Auschwitz, la perdita di Fatina». Fatina per Alberto era il paradigma del dolore, un ricordo da rivivere per punirsi di essere vivo. Fatina, la sorella adorata che accompagna l'Inferno fino alla fine, che ritrova il fratello in una Roma devastata dalla guerra ma bramosa di ripartire, che si rimette in marcia insieme a lui ma che non ce la fa, arranca, non riesce a cancellare il laboratorio di Mengele, le ceneri della madre e della sorella Emma disperse nel vento, le urla dell'altra sorella, Angelica, fatta sbranare dai cani davanti ai suoi occhi. Fatina che alla fine molla, si ammala, non mangia più e pian piano se ne va lasciando Alberto nell'abisso, in attesa di Godot.
   «Durò ancora un po', un giorno rispondendo ai richiami di mia moglie alzò la voce dicendo "Non hai capito che voglio andare via da Auschwitz? E portate via pure mio fratello". La ricoverammo in un istituto di suore e un giorno mentre eravamo tutti intorno a lei mi chiamò per dirmi addio, si era lasciata morire». Piangeva piano Alberto rivelando il suo incubo peggiore durante la stesura dell' ebook pubblicato dalla Stampa nel 2004, Se chiudo gli occhi muoio. Diceva che l'aveva uccisa, proprio così.
   Dopo Fatina era cambiato tutto, ancora una volta, come quando il mondo si era capovolto all'avvento delle leggi razziali. Come allora, peggio, Orfeo incapace di salvare la sua Euridice dall'Inferno. «Ricordate ogni parola, parlate ai bambini, se smettete saremo davvero morti tutti» ripeteva ancora il 25 aprile scorso, alle Fosse Ardeatine, l'uomo che dopo Auschwitz non era più riuscito a tenere in braccio un bambino, neppure i suoi. È quanto ci ha lasciato, ai piccoli ma soprattutto ai grandi.

(La Stampa, 4 novembre 2019)


Attenzione agli effetti liberticidi della commissione Segre

L'inquietante zelo degli oppressori a fin di bene. Il programma del nuovo organismo parlamentare si contraddistingue per la troppa genericità e ambiguità.

di Andrea Amata

Non si sono ancora spente le polemiche che si sono innescate in seguito all'astensione della Lega, di Fratelli d'Italia e di Forza Italia sulla istituzione della Commissione parlamentare contro l'antisemitismo e il razzismo proposta dalla senatrice Segre. L'antisemitismo e il razzismo sono espressioni illecite e volgari che tutte le forze politiche, senza distinzioni, sono disposte a censurare. Tale premessa lapalissiana e banale si rende necessaria per evitare automatismi concettuali per cui chi si oppone alla costituzione della Commissione di «controllo e indirizzo», con finalità di contrasto del razzismo e dell'antisemitismo, possa imbattersi nell'accusa di tollerare la discriminazione e l'incitamento all'odio. Nel rispetto della prima firmataria della proposta, la senatrice a vita Liliana Segre, testimone e vittima della perniciosa ideologia antisemita, si contesta l'iniziativa nel promuovere l'ennesima Commissione per la genericità e l' ambiguità del suo programma.
   Il nostro sistema normativo, da cui prolificano sanzioni contemplate, peraltro, dal codice fascista del 1930, detiene gli strumenti per reprimere i reati di natura discriminatoria. Pertanto, la risposta burocratica affidata a "giurie" parlamentari deputate ad intercettare le pulsioni nocive per la convivenza civile, nell'ambito di un palinsesto astratto che comprende il nazionalismo, l'etnocentrismo, gli stereotipi e i pregiudizi, può concorrere a limitare la libertà di manifestazione del pensiero così come solennizzata dall'articolo 21 della Costituzione. L'ampiezza della missione censoria che si vuole assegnare alla Commissione genera perplessità per le limitazioni che possono derivare su opinioni che, pur non avendo propensioni razziste, vengono assimilate come fautrici di odio. Se affermo «prima gli italiani» qualcuno ritiene la locuzione etnocentrica, propugnatrice di discriminazione e, quindi, suscettibile di repressione? Se sostengo che la maggior parte dei reati, in proporzione alla presenza di immigrati irregolari, sono commessi da stranieri qualcuno può accusarmi di validare uno stereotipo? Chi stabilisce che il nazionalismo sia foriero di disprezzo verso il diverso?
   L'antisemitismo, che tutti aborriamo, con tali domande che contiguità logica può avere? Non vorremmo che la lotta al razzismo e all'antisemitismo, che gode della collettiva e unitaria adesione, sia per qualcuno lo strumento per includervi surrettiziamente le legittime idee sovraniste che non possono essere equiparate a ideologie criminali. La biografia della senatrice Segre è come un usbergo che la protegge dalla trafitture polemiche della miserevole quotidianità, ma utilizzare la sua autorevolezza morale per perseguire le opinioni che hanno la sola "colpa" di non avere la patente di legittimità, rilasciata dalla cupola del politicamente corretto, equivale a servirsi della nobiltà di un ritratto, quello della senatrice, per soffocare il pensiero difforme. La democrazia liberale non può partorire dal suo grembo parlamentare Commissioni da cui si possono ingenerare arbitrari impulsi inquisitori con la conseguenza di fomentare l'odio anziché placarlo.
   Altro discorso attiene il fenomeno della sterminata diffusione di fake news, di bufale "aromatizzate" dall'iperbole, che merita un capillare intervento culturale per contenerne la propagazione senza il bisogno di delegare a nuove leggi o a Commissioni parlamentari il compito di arginare il germe della menzogna.

(Il Tempo, 4 novembre 2019)


Destra e sinistra, i due negazionismi su ebrei e Israele

Antisemitismo contro antisionismo. Ovvero negazionismo della Shoah contro quello del diritto di esistere dello Stato di Israele. In una continua gara tra il bue e l'asino nel dirsi "cornuto" l'un l'altro si consuma l'ennesimo teatrino dell'ipocrisia della politica italiana e forse anche mondiale. Peggio di così solo l'islamismo che nega tanto l'Olocausto quanto il diritto di Israele al proprio posto nella carta geografica del Medio Oriente. E almeno fa chiarezza sui propri intenti.
   E l'antidoto a tutto ciò che riesce a inventarsi la politica varia dall'ostentazione dell'amicizia adulatrice verso Israele e il suo governo alle continue proposte di censura - irrealizzabile - contro chi scrive bestemmie antisemite sui social o le rende palesi in riunioni conviviali tra il reducismo e la provocazione. Nessuno è sincero. Né verso gli ebrei della diaspora né verso quelli che vivono in Eretz. Che devono fondamentalmente difendersi da soli tanto contro le minacce di odio interne al Nord Europa (Francia e Germania) quanto contro quelle insite e implicite in un Medio Oriente a trazione estremista islamica, sunnita o sciita, che di fatto circonda l'unica democrazia e l'unico paese civile di quelle latitudini. In realtà, a ben vedere, le accuse reciproche in patria e in Europa di "antisemiti" contro "anti-Israele" è solo un'altra cinica maniera di strumentalizzare una doppia e seria questione ad esclusivo scopo politico. Ci si fa la guerra politica sulla pelle degli ebrei, interni ed esteri. E, a pensarci bene, questa reciproca strumentalizzazione è sintomo di mancato rispetto sia della tragedia dell'Olocausto, ridotta a macabra Disneyland dei viaggi dei sindaci che si ripuliscono la coscienza portando le scolaresche a farsi i selfie ad Auschwitz senza alcun costrutto, sia di quella della situazione geopolitica dello Stato ebraico, anche essa strumentalizzata con mantra inconcludenti tipo "due popoli e due Stati" e "pace, pace, pace".
   A sinistra come a destra però è l'indifferenza e il calcolo politico che la fanno da padroni. Di simili solidarietà - e anche di improbabili commissioni parlamentari che si propongono di censurare il male e di promuovere il bene - i primi che possono farne a meno sono proprio gli ebrei e gli israeliani.

(L'Opinione, 4 novembre 2019)


Svezia: La Chiesa che diffonde odio

Il fatto che un'istituzione così grande come la Chiesa di Svezia raccolga fondi in tutto il Paese per sostenere una scuola che diffonde l'odio e la propaganda bellica dovrebbe essere visto come un enorme problema.

di Nima Gholam Ali Pour*

La Società svedese di Gerusalemme, fondata nel 1900, ha dedicato la propria mission alle opere di carità a Gerusalemme e a Betlemme. Per diversi decenni, tuttavia, è stata ostile allo Stato ebraico di Israele. L'associazione ha tre obiettivi ufficiali nei territori palestinesi:
  • Rafforzare la posizione delle donne
  • Contribuire alla pace e alla riconciliazione
  • Rafforzare la minoranza cristiana
Nonostante questi nobili obiettivi, la Società svedese di Gerusalemme pubblica una rivista in cui i contenuti, sebbene riguardino spesso Israele, hanno un tono assai ostile e fazioso. Nel primo numero della pubblicazione uscito nel 2018, si può leggere un'intervista a una preside di una scuola palestinese, in cui la donna afferma:
"Noi soffriamo da così tanti anni, e potremmo soffrire per qualche altro anno, ma non è giusto dare il nostro denaro a qualcun altro. Perché non condividerlo?"
Nello stesso numero, il vescovo della Chiesa luterana in Giordania, che appoggia il documento Kairos Palestina, afferma in un'intervista:
"Il popolo eletto siamo anche noi cristiani, e non solo il popolo ebraico. Essere scelti non può mai accadere a spese di qualcun altro".
Nello stesso numero, in un'intervista al politico palestinese Mustafa Barghouti, il vescovo paragona lo Stato di Israele al Sudafrica dell'apartheid. È importante rilevare che quando Barghouti ha fatto questo raffronto non gli sono state poste domande cruciali. Inoltre, non vi erano rappresentanti da parte israeliana autorizzati a commentare o a fornire alcun tipo di replica. Di conseguenza, ciò che permea i contenuti della rivista dell'organizzazione è la demonizzazione di Israele.
   La maggior parte dei membri del consiglio della Società svedese di Gerusalemme ha lavorato, o lavora tuttora, per una delle più grandi istituzioni svedesi, la Chiesa di Svezia - e anche quest'ultima ha un rappresentante ufficiale nel board della Società svedese di Gerusalemme. Il fatto che un'associazione ostile a Israele abbia stretti rapporti con la Chiesa di Svezia non sorprende affatto: il sottoscritto ha già spiegato in un precedente articolo come la Chiesa di Svezia sostenga il falso e decisamente distorto documento Kairos Palestina.
   L'attività principale della Società svedese di Gerusalemme nei territori palestinesi sembra ora consistere nella raccolta di finanziamenti a favore della Scuola svedese del Buon Pastore di Betlemme. Sebbene la scuola, che offre livelli di istruzione dalla prima elementare alle superiori, sia ufficialmente cristiana, il 98 per cento dei suoi studenti proviene da un background musulmano.
   E per quanto la Società svedese di Gerusalemme qualifichi la Scuola svedese del Buon Pastore come "una scuola di pace", Tobias Petersson, direttore del think tank Perspektiv pa Israel, ha rivelato che i libri di testo adottati dalla scuola hanno contenuti jihadisti che incoraggiano la guerra santa contro lo Stato di Israele.
   Questi manuali rendono omaggio al terrorista palestinese Dalal al-Mughrabi, membro di un commando di 11 terroristi che, l'11 marzo 1978, uccise 38 civili in Israele, tra cui 13 bambini. Inoltre, in quei testi, gli ebrei vengono descritti come bugiardi e corrotti. Petersson ha esaminato altresì i contenuti dei manuali scolastici con i traduttori arabi che vivono in Svezia. E ha anche verificato le traduzioni chiedendo una seconda opinione per confermarne l'accuratezza.
   Le cartine geografiche nei libri di testo e sui muri della Scuola svedese del Buon Pastore non mostrano lo Stato di Israele; invece, la sagoma di Israele è stata sostituita da quella identica dello "Stato di Palestina". La scuola ha aperto le braccia al controverso arcivescovo greco-ortodosso palestinese Atallah Hanna, famoso per le lodi tessute dei terroristi e per le parole piene di odio contro Israele.
   La Società svedese di Gerusalemme, secondo le informazioni pubblicate sul suo sito web, raccoglie circa 1,8 milioni di corone all'anno (approssimativamente 182 mila dollari; 167 mila euro) per sostenere la Scuola svedese del Buon Pastore di Betlemme. In Svezia, chiunque può scegliere di finanziare scuole che indottrinano i bambini al jihadismo, all'antisemitismo e all'incitazione alla guerra, anche se è contrario all'etica. Il problema è che il 65 per cento del denaro elargito alla Società svedese di Gerusalemme proviene dalle offerte raccolte in tutto il Paese dalla Chiesa di Svezia. I donatori appartengono a congregazioni che potrebbero non avere alcun interesse a sostenere tale indottrinamento, e che potrebbero aborrire ogni forma di violenza.
   I membri della Chiesa di Svezia potrebbero non sempre condividere l'ostilità nei confronti di Israele appoggiata dal clero. Molti sono persone normali che sono diventate automaticamente membri della Chiesa quando la Chiesa di Svezia era riconosciuta come religione di Stato, prima del 2000, quando tutti i cittadini svedesi diventavano direttamente membri della Chiesa.
   La Chiesa di Svezia, come religione di Stato, è stata parte ufficiale dello Stato svedese fino al 2000. Da allora, ha continuato ad essere una delle maggiori istituzioni svedesi, mantenendo un "legame particolare" con lo Stato. La Chiesa riscuote le tasse funebri da tutti i residenti svedesi, indipendentemente dalla religione che professano, ed è responsabile delle attività funebri, tranne nelle municipalità di Stoccolma e di Tranas. Attualmente, il 57,7 percento della popolazione svedese è membro della Chiesa di Svezia, ciò significa che, su una popolazione nazionale che non arriva a dieci milioni di abitanti, la Chiesa di Svezia conta circa 5,9 milioni di membri.
   Il fatto che un'istituzione così grande come la Chiesa di Svezia raccolga fondi in tutto il Paese per sostenere una scuola che diffonde l'odio e la propaganda bellica dovrebbe essere visto come un enorme problema. La pratica dimostra inoltre che non solo gli aiuti svedesi vanno a organizzazioni che diffondono l'odio, ma anche che le grandi istituzioni presenti nel Paese hanno aperto canali secondari per inviare annualmente milioni di corone svedesi alle scuole, come la Scuola svedese del Buon Pastore, che diffondono altresì l'odio.
   Per capire quanto sia dannosa questa situazione, si può immaginare cosa succederebbe se una delle più grandi istituzioni di Israele - o di un altro Paese - raccogliesse fondi per sostenere una scuola che insegni ai bambini a odiare la Svezia e a celebrare i terroristi che hanno ucciso cittadini svedesi? Sarebbe ovviamente un grande scandalo e totalmente inaccettabile. Ma in Svezia, questo è esattamente ciò che sta accadendo ora.
   La Chiesa di Svezia non nega che il denaro raccolto nelle congregazioni della Chiesa di Svezia sia poi inviato alla Scuola svedese del Buon Pastore attraverso la Società svedese di Gerusalemme. La Chiesa rileva che i libri di testo potrebbero essere intrisi di antisemitismo e di jihadismo. Quando l'Associazione per l'Amicizia tra Svezia e Israele ha avuto un incontro con la Chiesa di Svezia in merito alla Scuola svedese del Buon Pastore e ad altre scuole simili presenti in Cisgiordania e sostenute dalla Chiesa di Svezia, il direttore internazionale della Chiesa di Svezia, Erik Lysén, ha affermato che i valori trasmessi nella scuola prevalgono sul materiale utilizzato nell'insegnamento. E ha aggiunto:
"La questione del materiale didattico fa parte del dialogo in corso che la Società svedese di Gerusalemme intrattiene con la direzione della scuola e la questione verrà nuovamente sollevata".
È deplorevole che una delle maggiori istituzioni ufficiali svedesi, soprattutto una chiesa, stia di fatto elargendo fondi per la promozione di un conflitto sanguinoso tra i palestinesi e Israele sostenendo una scuola che insegna ai giovani palestinesi a odiare. Una chiesa che finanzia l'odio non può mai essere una voce per la pace nel mondo o un esempio di comportamento morale.

* Nima Gholam Ali Pour è consulente politico dei Democratici svedesi nella città di Malmö. È autore di due libri in svedese "Därför är mangkultur förtryck" ("Perché il multiculturalismo è oppressione") e "Allah bestämmer inte I Sverige" ("Allah non decide in Svezia").

(Gatestone Institute, 4 novembre 2019 - trad. Angelita La Spada)


A 92 anni riabbraccia i «ragazzi» ebrei che aveva salvato dai nazisti

Ogni anno gli incontri tra sopravvissuti e salvatori rischiano di essere gli ultimi. Dina ha incontrato tutta la discendenza della famiglia Mordechai, che 75 anni fa aveva salvato dall'eccidio a Veria, vicino Salonicco, uno dei più atroci dei nazisti.

 
GERUSALEMME - «Adesso posso morire tranquilla»: così la 92enne Dina Melpomeni ha salutato i 40 discendenti di un gruppo di fratelli ebrei che la donna, all'epoca adolescente, 75 anni fa ha nascosto, nutrito e protetto, salvandoli dalla furia nazista. Oggi è stata la prima volta che Dina ha incontrato la famiglia Mordechai al completo, dopo averla sottratta all'Olocausto. Un tempo, questo rito era abituale allo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la memoria della Shoah di Israele, ma questi incontri si stanno riducendo gradualmente a causa dell'età avanzata dei sopravvissuti e degli uomini e delle donne che li hanno salvati, i «Giusti tra le nazioni», come sono stati riconosciuti i 27 mila non ebrei che hanno rischiato la vita per salvare ebrei durante l'Olocausto: 355 venivano dalla Grecia, e tra questi c'era anche la signora Dina. «Il rischio che lei e la sua famiglia si sono assunti per salvare un'intera famiglia sapendo di mettere in pericolo loro stessi è incredibile- dice Sarah Yanai, allora 9 anni, oggi 86enne, che era la più anziana dei cinque fratelli che Dina mise al riparo- Ma ora siamo una famiglia grande e felice ed è solo grazie a loro».

 La soffitta e le razioni di cibo
  Non ci sono solo Oskar Schindler- l'uomo a cui si ispirò Spielberg per Schindler's list raccontando l'impresa di aver salvato ben 1000 ebrei- o Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese che avrebbe salvato 20 mila ebrei prima di sparire misteriosamente. Ma ci sono anche persone come Dina e la sua famiglia, che hanno trovato del tutto normale sottrarre i loro amici ebrei da quell'eccidio improvviso e atroce. La famiglia Mordechai viveva a Veria, in Grecia, vicino a Salonicco, dove quasi tutta la comunità ebraica fu annientata in pochi mesi durante una delle esecuzioni più brutali dei nazisti. Quando iniziarono a radunare gli ebrei per la deportazione, all'inizio del 1943, gli amici non ebrei della famiglia procurarono loro false carte di identità e li nascosero nella soffitta della vecchia moschea turca abbandonata. Rimasero lì per quasi un anno, sentendo le urla degli ebrei radunati nelle piazze. Ma alla fine dovettero andarsene perché la soffitta, buia e mal areata, stava logorando la loro salute. Fu allora che Dina e le due sorelle maggiori decisero di ospitare la famiglia in casa, in una stanza nella periferia della città, dividendo con loro le magre razioni di cibo. Uno dei bambini, Shmuel, si ammalò gravemente e dovettero portarlo in ospedale, nonostante i rischi: morì purtroppo. Ma poco dopo la famiglia riuscì a scappare: Sarah, la sorella più grande, si diresse verso i boschi, un'altra andò verso le montagne e la madre uscì a piedi con i due figli più piccoli sopravvissuti, alla ricerca di un altro nascondiglio. Avevano addosso i vestiti di Dina e delle sue sorelle.

 La fuga tra i boschi
  La famiglia riuscì a riunirsi dopo la fuga e a costruire in Israele il proprio futuro. Yossi Mor, oggi 77 anni, era solo un bambino quando la sua famiglia fu accolta, ma ricorda ancora: «Ci hanno dato da mangiare, le medicine, ci hanno lavato i vestiti, ci hanno dato protezione», ha detto. E poi ha aggiunto, indicando Dina: «Mi amava moltissimo». Yossi e Sarah avevano già visto Dina in Grecia anni fa, ma questa era la prima volta che la donna poteva vedere tutte le generazioni: dalle ragazzine con le trecce ai soldati che spingevano orgogliosamente la sua carrozzina. Un comitato speciale, presieduto da un giudice della Corte Suprema, è responsabile di esaminare tutti i casi per assegnare il titolo di «Giusto tra le nazioni»: ne vengono trovati tra i 400 e i 500 all'anno e il processo continua anche se il titolo deve essere assegnato postumo, perché l'eroe o l'eroina sono morti. «È un modo per rendere omaggio, per testimoniare la relazione speciale tra sopravvissuti e discendenti. Ed è sempre emozionante vederli incontrare, sapendo che ogni volta l'incontro potrebbe essere l'ultimo», ha detto Joel Zisenwise, direttore del dipartimento di Yad Vashem. I nomi di quelli che sono stati onorati per aver rifiutato di essere indifferenti al genocidio sono incisi lungo un viale di alberi nel memoriale di Gerusalemme. Si ritiene che solo poche centinaia siano ancora vivi.

(Libero, 3 novembre 2019)



Israele: meta ideale per gli sportivi

L'inverno israeliano è adatto per chi vuole rilassarsi e visitare luoghi dalla storia millenaria, ma in Israele la stagione fredda porta con sé anche una grande stagione di eventi sportivi, adatti a tutti gli appassionati di natura e aria aperta, soprattutto per gli amanti delle maratone, visto che il calendario da qui alla primavera prossima include almeno 6 grandi appuntamenti internazionali dedicati alle corse sulle lunghe distanze.

 Ultraman Israel - 19-21 novembre 2019
  Già a novembre avremo il primo grande evento sportivo della stagione: la Ultraman Israel. Questo appuntamento, dedicato agli appassionati di triathlon, permetterà ai partecipanti di attraversare il Paese da nord a sud, con la prima prova (il nuoto) svolta nel Mar di Galilea e l'arrivo della corsa finale previsto a Eilat, sul Mar Rosso. In mezzo anche l'altro mare israeliano, il Mar Morto, avrà il suo momento di gloria: lungo le sue coste, infatti, si svolgerà la prova di ciclismo.

 Sea of Galilee Tiberias International Marathon - 3 gennaio 2020
  Il primo appuntamento dell'anno nuovo sarà la 43esima edizione della maratona di Tiberiade, una delle più basse del mondo (corsa a 200m sotto il livello del mare). Il tracciato segue la costa del Mar di Galilea e ripercorre, nel corso dei suoi 42.195m, gli splendidi paesaggi della Valle del Giordano. La Kinneret Urban Association penserà agli eventi collaterali, dando anche a chi non parteciperà in prima persona alla corsa l'occasione di divertirsi.

 Israman Ironman Garmin Race Eilat - 29 gennaio 2020
  Torna anche quest'anno un appuntamento per veri duri: la Ironman di Eilat, una sfida sportiva ai limiti dell'estremo composta da 3,8km di nuoto, 180 di bicicletta e 42 di corsa. L'evento richiede una preparazione non indifferente, ma se si vogliono provare le emozioni di una corsa Ironman senza pagarne troppo le conseguenze, è anche possibile partecipare alla Half Israman: le distanze sono dimezzate, ma l'adrenalina è la stessa!

 Dead Sea Marathon - 7 febbraio 2020
  Dopo il successo dello scorso anno, ritroviamo anche la Dead Sea Marathon, un'esperienza unica che porterà i runner a correre intorno alle saline del Mar Morto vicine al confine giordano. Queste si trovano a circa 400 metri sotto il livello del mare e offrono un clima particolarmente adatto all'attività sportiva, oltre che a stupendi panorami desertici.

 Tel Aviv Samsung Marathon - 28 febbraio 2020
  Oltre 40.000 corridori sono attesi alla maratona di Tel Aviv, uno degli eventi più attesi della città. Il percorso si snoda attraverso alcune delle strade e nei luoghi più iconici: dal lungomare passando per Dizengoff Street, Rothschild Avenue, the Azrieli Towers e Rabin Square, dove ammirare gli edifici in stile Bauhaus della Città Bianca. Non sono molte le maratone che possono vantare un tracciato urbano così!

 Jerusalem Winner Marathon - 20 marzo 2020
  L'ultimo appuntamento da segnare in rosso sul calendario è la maratona di Gerusalemme, una corsa che l'anno scorso è stata capace di radunare 20.000 corridori da 50 Paesi. È possibile iscriversi a percorsi di diversa lunghezza (da 4 a 42km), in base al proprio livello di allenamento. Il percorso completo si articola tra i luoghi più famosi della città; la Knesset, la torre di David, il Monte Sion, il Monte degli Ulivi e molti altri ancora. In una città ricca di storia come Gerusalemme, però, anche il più breve dei tracciati sarà in grado di offrire ai partecipanti degli scorci incantevoli.

(cosasifa, 3 novembre 2019)



La commissione Segre è inutile: ecco perché

di Fiamma Nirenstein

Il bel Caffè Greco è in crisi, deve vendere, si parla di acquirenti ebrei... qui da Gerusalemme sinceramente l'elemento fattuale della vicenda è poco interessante se non per il dolore di vedere un bene culturale così popolare e grazioso in discussione. Ma ecco un post che teme che la faccenda finisca per beneficiare i «sionisti»: il movimento «Bds» si mette in moto e, come nel suo compito (boycott and disinvestment) promette il boicottaggio del caffè. E gli astuti padroni attuali garantiscono che esso non finirà in mani sioniste. Attenzione: «sionista» è la parola chiave, qui diventa un'offesa che indica la perfidia e la spregevole natura degli ebrei. Invece è, in Europa e in tutto il mondo occidentale, un complimento: perché è l'aggettivo derivato da «Sionismo», da Sion, omonimo di Gerusalemme, il movimento di autodeterminazione nazionale nato nell'800.
   Potrebbe aiutare come diceva il Foglio di sabato, la riapertura del bell'auspicio di Pannella che l'Ue inviti Israele a fame parte? La risposta è che l'Ue ha creato una palude di fango da cui deve lavarsi fin dal tempo di Olof Palme, di Willy Brandt, di Bruno Kreisky, di tutta la svolta europea ispirata dal dialogo socialdemocratico con la Russia Sovietica per cui Israele diventa imperialista e colonialista e sostiene le guerre arabe. L'Ue ha perseguitato Israele a ogni occasione con le sue mozioni di biasimo, pratica la repellente mossa dell'etichettamento dei prodotti dei territori contestati, avrebbe condannato il riconoscimento di Gerusalemme come Capitale se non fosse stato per i Paesi di Visegrad. Come se il responsabile dello scontro sempre in corso fosse Israele e non l'insistito rifiuto di ogni accordo da parte palestinese.
   Nei giorni scorsi il documento di Liliana Segre ha fatto molto discutere: chi scrive l'avrebbe votato perché solleva un tema vero e per amore e rispetto della storia della senatrice. Ma l'antisemitismo teorizzato e organizzato, che ha fatto sei milioni di morti, non c'entra nulla con gli altri problemi legati alla cultura dell'odio. Il documento inoltre implicitamente suggerisce che l'antisemitismo sia di destra. Questo non è vero. Esso è misurabile sulle tre D di Sharansky, delegittimazione, demonizzazione, doppio standard di Israele, e purtroppo la sinistra è campione. Gli esempi sono eclatanti, da Corbyn ai campus americani a Bemie Sanders che dichiara Israele «razzista», proprio come la famigerata dichiarazione «sionismo uguale razzismo» votata all'Onu nel 1975. Poi è stata cancellata ma Israele, si suggerisce, fa parte del nemico collettivo che ogni oppresso deve combattere da un unico fronte. Una follia contro il popolo che non solo ieri è stato il più perseguitato del mondo, e che allo stato attuale delle cose subisce la persecuzione antisemita. Se il Parlamento italiano vuole combattere la sua lotta contro l'antisemitismo insegni la vera storia di Israele, costringa l'Ue a abolire il labeling e le risoluzioni che le garantiscono un'unità fittizia e automatica, tolga gli stigma esistenti all'ebreo collettivo. Combatta, finalmente.

(il Giornale, 3 novembre 2019)


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Giorgio Segre avrebbe votato contro

di Pasquale Graziano

Giorgio Segre è stato il più grande farmacologo italiano del dopoguerra. Sono stato suo allievo interno a Siena 45 anni fa e mì è stato maestro non solo di medicina ma anche di politica. Era un socialista democratico libertario. Essendo stato in sintonia con lui, posso credere che se oggi fosse stato senatore non si sarebbe solo astenuto sulla Commissione Odio, ma avrebbe addirittura votato contro. O meglio, avrebbe preventivamente convinto la Liliana, di fronte alla cui storia dobbiamo inchinarci anzi inginocchiarci, a non commettere l'ingenuità di rendersi involontariamente strumento di una sinistra figlia di una ideologia comunista che ha sempre vissuto di odio, di classe e di schieramento, ma anche di antisemitismo seppur camuffato da antisionismo. La sinistra è notoriamente abile a creare trappole politiche nelle quali si fa credere vero il falso e falso il vero, per questo non capisco quella parte di comunità ebraica e quella parte della Chiesa cattolica che vi sia caduta dentro. Dietro il paravento della sacrosanta lotta alla cultura dell'odio e all'antisemitismo, il padre di tutti i razzismi, si cela invece l'antico sogno della sinistra di introdurre il reato di opinione, da usare beninteso solo verso i suoi awersari politici. Liliana Segre ripresenti la sua mozione riferendosi solo alla cultura dell'odio ed all'antisemitismo e non a tutte le altre opinioni celate dietro il paravento, che verrà votata all'unanimità, sempre che qualche sinistro non si sfili all'ultimo con sofismi.

(Libero, 3 novembre 2019)


È morto Alberto Sed, sopravvissuto ad Auschwitz e calciatore "più forte di Totti"

Scomparso a 91 anni, in "Sono stato un numero" raccontò l'inferno dei campi di concentramento. Tifoso della Roma e giovane promessa, la sua carriera sportiva venne troncata dalle leggi razziali

di Valerio Piccioni

MILANO - Era un uomo buono e coraggioso, Alberto Sed, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, memoria lucidissima di quell'inferno, morto ieri sera all'età di 91 anni. La guerra e l'inferno di quei giorni gli avevano tolto anche un sogno: quello di diventare calciatore. Prima della guerra, era stato un giocatorino di belle promesse, uno di quelli di cui dici, con De Gregori, che "si farà, anche se ha le spalle strette".

 Meglio di Totti
  Quelle gambe avevano inventato già diversi gol, uno in particolare: una rovesciata acrobatica che neanche Totti. Ce lo disse diverse volte e lo disse anche al capitano della Roma, incontrandolo. "Se non ci fossero state le leggi razziali, sarei diventato più forte di te". Quel gol diventò il portafortuna dei suoi pensieri, ma anche il suo rimpianto: la follia nazista si portò via tutto, pure quel momento e soprattutto quelle speranze. Il suo amore per la Roma era grande. Ricordava Masetti, "un portiere che non finiva più". E poi tirava giù la formazione del primo scudetto tutta di un fiato. "Mi chiamavano 'Il piccolo Amadei', perché ero nato con il pallone", raccontò in un'intervista al sito della Roma qualche mese fa. Fino a quando capì: "Dovetti smettere perché un ebreo non poteva giocare neanche più a pallone".

(La Gazzetta dello Sport, 3 novembre 2019)


L'amore, la musica e Dio. «La fiamma» di Cohen è viva

A tre anni dalla morte esce una raccolta di poesie e disegni del cantautore. Il 22 novembre il disco postumo. L'artista componeva su taccuini che lasciava ovunque, e sui quali lavorava anche per anni.

di Antonio Lodetti

«Se le carte le dai tu / io sono fuori della partita_/ se chi guarisce sei tu / io sono storpio e sciancato / se tua è la gloria / allora mia dev'essere l'onta / tu vuoi che sia più buio / noi uccidiamo la fiamma» ... Così cantava Leonard Cohen nel suo ultimo album, e così torna a raccontarsi in versi e parla del suo contraddittorio rapporto col divino e con le cose di tutti i giorni con il suo linguaggio lirico e ispirato. Il figlio Adam (cantautore e curatore dell'opera del padre) ha permesso di pubblicare il libro di poesie e disegni La fiamma (Bompiani, traduzione di Luca Manini, pagg. 298, euro 24) raccolta di opere scelte dai quaderni. È un periodo d'oro per gli appassionati di Cohen; infatti il 22 novembre uscirà il disco postumo Thanks for the Dance, anticipato dall'intenso singolo, uscito in questi giorni, Happens to the Heart.
   Si sa che Cohen era tanto parco nel parlare quanto bulimico nello scrivere romanzi, racconti, poesie; la sua urgenza di comunicare ha permeato la storia della musica e della letteratura contemporanea. «Per lungo tempo ti ho trascurato / ma ho trascurato me stesso per più tempo ancora», scrive nel maggio 2000 rimettendosi al centro della scena, lui che si è dedicato per così tanto tempo agli altri nel tentativo di trovare se stesso. Sempre alla ricerca di Dio e dell'uomo, ora devoto ora sofferente per le crisi spirituali quando scrive. «Puoi dire che tutto è stato scritto / ma io non riesco a leggere il testo / è l'amore che mi distrae / da un momento all'altro». Il libro ha un valore notevole sia per le innate qualità di scrittura di Cohen, sia perché, come scrive Adam, «è l'ultima prova di mio padre come poeta». Prima di qualsiasi altra cosa Leonard Cohen era un poeta, senza dimenticare la forza prorompente delle sue canzoni (che a loro volta sono poesie in musica). Come ha scritto nei suoi quaderni, era una missione per conto di D-o (il non scrivere per intero il nome di Dio, vecchia abitudine ebraica, indica quanto fede e libertà convivessero in lui). Cohen aveva molto da dare al mondo, e sapeva (per averlo scritto in precarie condizioni di salute) che questo libro sarebbe stato la sua «ultima offerta». Scrive nella poesia omonima: «Prego per avere coraggio / alla fine / per vedere arrivare la morte / come un'amica». Parole terribili e al tempo stesso sublimi che raccontano il tormento di un uomo vicino all'addio (morirà il 7 novembre 2016, tra pochi giorni saranno tre anni) ma dallo spirito mai domo. «Lavoravo sempre con rigore / ma non la chiamavo arte», scrive aprendo Accade al cuore del 24 giugno 2016.
   La fiamma è una raccolta postuma ma vera e viva, cui Cohen ha lavorato con tutte le sue forze rimaste, consumato dal dolore e dal dubbio eterno ... e dall'amore, un amore totale (e spesso distruttivo) per le donne e per il divino (che poi spesso per Cohen sono la stessa cosa). «Sono sempre stato sulla strada / sono sempre di passaggio / ma tu sei il mio primo amore, e l'ultimo/ non c'è nessuna, nessuna dopo di te». È palpabile la spontaneità, l'urgenza di scrivere di Cohen, che riempiva interi taccuini, e a volte foglietti sparsi qui e là, persino nel frigorifero («una volta gli chiesi se aveva della tequila - scrive Adam nella prefazione - mi indirizzò al freezer, e aperto lo sportello trovai un inatteso quaderno congelato»). Tutto il volume nasce dagli appunti e dai quaderni di Cohen. Fin da bambino, ricorda Adam, Leonard depositava quaderni e taccuini ovunque. «La verità è che conoscere mio padre significava, tra mille altre cose meravigliose, conoscere un uomo con fogli, quaderni e tovagliolini di carta, ciascuno con una grafia ben precisa, sparsi (con ordine) ovunque». Non dimentichiamo che Cohen ha selezionato personalmente il materiale da inserire in questo libro, lavorando a stretto contatto con il professor Robert Faggen, cui poi per l'editing (veramente complesso e laborioso) si è aggiunta la professoressa Alexandra Pleshoyano. Il volume è così diviso in tre sezioni, su indicazione di Leonard; una raccolta di 63 poesie complete e inedite ( a volte la stesura di una sola di esse comportava un lavoro di anni in continuo divenire), tra queste è particolarmente intrigante la moderna Kanye West non è Picasso. La seconda sezione comprende i testi di poesie diventate poi canzoni dei suoi ultimi quattro album, una selezione di testi dai quaderni che Leonard aveva annotato dagli anni dell'adolescenza fino alla fine. Faggen ha così supervisionato oltre tremila pagine scritte in sessant'anni di vita! Alcune di queste poesie e questi disegni si trovano - con il permesso di Leonard - sul sito web Leonard Cohen Files, curato da Jarkko Arjatsalo.
   Infine il fuoco e la fiamma sono termini che identificano al meglio Cohen. Già sul retro di copertina del primo album ci sono le fiamme che inseguono Giovanna d'Arco. Nel suo lavoro ci sono fuochi e fiamme per creare e distruggere, per desiderare o per consumarsi perché, come scrive Adam: «Ogni pagina che ha riempito d'inchiostro è segno perenne di un'anima in fiamme».
   Per il disco ci vuole ancora un pochino di pazienza. Il brano apripista, Happens to the Heart, è in perfetto stile Cohen, ombroso ed evocativo quanto basta. In rete c'è anche l'altro singolo The Goal. L'album intero - anche questo l'ultimo progetto cui Cohen stava lavorando - Thanks for the Dance, comprende illustri e sofisticati ospiti come Javier Mas, che ha accompagnato Leonard dal vivo negli ultimi otto anni, e poi Damien Rice, Leslie Feist, Richard Reed Parry al basso e Bryce Dessner dei The National alla chitarra. «Nel comporre e arrangiare le musiche perché si adattassero alle sue parole abbiamo seguito la sua impronta musicale, tenendolo così con noi», racconta Adam.

(Controcultura, 3 novembre 2019)



Per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio

Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 8


 


Totem e randello

di Niram Ferretti

Occorre un preambolo cautelativo quando si parla della senatrice Lilliana Segre, e non dovrebbe neanche essere necessario, ma i tempi sono quelli che sono, e dunque, per non essere accusati di essere seguaci di Codreanu, di Himmler o di Preziosi, va specificato il rispetto per la sua storia personale, per ciò che questa storia dolorosa rappresenta. Detto questo si deve però avere il diritto pieno di potere criticare alcune sue dichiarazioni e soprattutto si deve potere dire che la signora è stata trasformata dalla sinistra in un totem a cui si chiede di professare cieca devozione.
  Abbiamo assistito a quanto è accaduto intorno alla Commissione contro l'odio che prende origine da una sua mozione. Al Senato, il centrodestra unito non l'ha votata, e per ottime ragioni, e subito si è scatenata la solita penosa accusa di complicità con odiatori, antisemiti e razzisti, quasi che questa inutile commissione possa costituire l'argine supremo nei confronti degli odi sparsi in rete e altrove.
  In realtà essa è solo uno strumento da usare contro il centrodestra e in modo specifico contro due partiti, Lega e Fratelli di Italia, considerati a priori impresentabili. Tra i votanti di Salvini e della Meloni ci sarebbero infatti, e solamente lì, quei deplorables che Hillary Clinton indicava con sussiego come il bacino di elettori principali di Donald Trump.

 Fascisti, razzisti, xenofobi, omofobi.
  Starebbero solo a destra i peccati più tremendi, così ce la racconta una sinistra che non si perita mai di condannare Israele tutte le volte che si difende dall'estremismo islamico, o che si genuflette ossequiosa davanti all'Iran o porge omaggi a Jeremy Corbyn che ha trasformato il partito laburista, quello sì, in un covo di antisemiti e antisionisti.
  Dunque si apparecchia una commissione a nome della Segre, e prima di questa commissione si fa uscire su i giornali, Repubblica in testa, un rapporto del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) dal quale risulta che la senatrice Segre viene regolarmente ricoperta di insulti antisemiti in rete. Certo, gli insulti sono veri, ma servono anche alla bisogna, a produrre soprattutto un sillogismo truffaldino che potrebbe così suonare, "Se si è solidali con la senatrice Segre per gli insulti che subisce, si sarà necessariamente solidali con la commissione parlamentare che nasce da una sua mozione".
  In realtà tra le due cose c'è una distanza enorme, come quella, ancora più vistosa tra i migranti morti in mare e gli ebrei uccisi durante la Shoah, accostamento ormai sdoganato a sinistra, soprattutto da quella pro-immigrazionista.
  Gli insulti antisemiti nei confronti della senatrice Segre sono riprovevoli, come sarebbero riprovevoli anche quelli nei confronti di Gad Lerner, il quale non si perita mai di ingiuriare con l'epiteto di "razzista" e di "fascista" chi non ritiene come lui che i migranti sono da considerarsi alla stregua degli ebrei che fuggivano la persecuzione nazifascista. Ma la Commissione contro l'odio contiene troppi tipi di odio e troppo selettivi per non essere scambiata per ciò che è; un comitato ideologico che recepisce il dettato della UE, secondo il quale è nel nazionalismo che si anniderebbe ogni male.
  La senatrice Segre si presta a tutto ciò con candida solerzia. Ha dichiarato chiaramente di non intendersi di politica, la sua è una battaglia morale. Beata ingenuità. Fare delle battaglie morali quando si è accuditi con amorevole e interessata cura da una ben precisa parte politica, snatura vistosamente la purezza e la lodevolezza dell'intento. Di questo, la senatrice, probabilmente non si è accorta.
  Va aggiunta un'altra cosa. Diventando senatrice, certo non per sua scelta, ogni sua dichiarazione è impossibile sottrarla alla politica e, inevitabilmente, alla sua strumentalizzazione. Per questo, a Liliana Segre, va ricordato con garbo che la sua battaglia morale è stata, purtroppo, sequestrata da chi la usa per colpire l'avversario. Sicuramente, la signora, non aveva alcuna intenzione di diventare un totem che alla bisogna viene convertito in un randello.

(Caratteri liberi, 2 novembre 2019)


Russia e Turchia avviano pattugliamento congiunto in Siria

La polizia militare russa ha effettuato un pattugliamento congiunto con i soldati turchi nel nord della Siria, riferisce il corrispondente di Sputnik sul campo.

"Il primo pattugliamento congiunto russo-turco con unità terrestri e aeree è attualmente condotto ad est di Al-Darbasiyah, nella Siria nord-orientale, conformemente agli accordi raggiunti dai presidenti dei due Paesi a Sochi il 22 ottobre scorso", ha twittato il dicastero militare turco."
Come notato dal ministero della Difesa russo, la pattuglia comprende i veicoli corazzati Tigr, Tayfun per la parte russa ed i mezzi Kirpi delle guardie di frontiera turche. La sicurezza del convoglio è garantita dai veicoli corazzati

 Il via all'operazione turca in Siria
  Il presidente turco Tayyip Erdogan aveva annunciato mercoledì 9 ottobre scorso l'avvio dell'operazione militare "Fonte di Pace" in Siria contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e il gruppo terroristico dello Stato Islamico (Isis, noto anche come Daesh - ndr).

 Accordo tra Usa e Turchia sulla Siria
  Il 17 ottobre gli Stati Uniti e la Turchia hanno concordato di sospendere l'operazione militare "Fonte di Pace" per 120 ore e di ritirare le forze curde dalla zona cuscinetto di 30 km al confine turco-siriano, che Ankara intende controllare in modo indipendente. Il cessate il fuoco è terminato martedì alle 21 dell'orario italiano.

 Memorandum di Russia e Turchia sulla Siria
  L'incontro tra i presidenti di Russia e Turchia Vladimir Putin e Tayyip Erdogan si è svolto martedì 22 ottobre a Sochi, a margine del quale è stato firmato un memorandum per normalizzare la situazione in Siria.
Secondo il documento, le forze di autodifesa curde devono ritirarsi a 30 chilometri dal confine con la Turchia, ad ovest e ad est della zona operativa dell'operazione "Fonte di Pace", che Ankara ha avviato lo scorso 9 ottobre.
Da mercoledì le unità della polizia militare russa e le guardie di frontiera siriane sono entrate nella zona del confine siriano per facilitare il ritiro dei curdi.

(Sputnik Italia, 2 novembre 2019)


Lunedi 3 Marcia della Memoria, a 76 anni dalla shoah contro gli ebrei genovesi e liguri

La città si stringe attorno alla Comunità ebraica per riaffermare le ragioni della libertà e la follia della persecuzione contro chi ha una fede diversa ma è più genovese, ligure, europeo, essere umano di chi ha perso ogni coscienza e intelligenza. La Shoah è un'infamia commessa contro l'intera umanità.
   Il 3 novembre 1943, con un agguato dentro la sinagoga, iniziò la deportazione degli ebrei genovesi: furono arrestate circa venti persone, ed altri arresti seguirono nei giorni immediatamente successivi. In tutto furono deportate 261 persone, e fra queste furono solo venti i sopravvissuti.
   A 76 anni da quei tragici fatti, la Comunità di Sant'Egidio, la Comunità ebraica di Genova e il Centro Culturale Primo Levi hanno organizzato una marcia della memoria, per ricordare una delle pagine più nere della vita della città.
   Lunedì 4 novembre, alle ore 17.30 a Genova, è in programma una marcia silenziosa da Galleria Mazzini, dove prenderanno la parola Fernanda Contri e Piero Dello Strologo, fino alla Sinagoga di via Bertora. Interverranno: il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, il presidente della Comunità Ebraica di Genova Ariel dello Strologo, l'assessore al Comune di Genova Pietro Picciocchi, a nome della Comunità di Sant'Egidio Andrea Chiappori. Parteciperà il coro Shlomot.
   Alla marcia parteciperanno molti genovesi: anziani, giovani, nuovi europei per ricordare il razzismo di ieri e per riaffermare le ragioni della convivenza tra popoli e fedi diverse.

(Tigullio News, 2 novembre 2019)


Iraq: ancora disordini

Manifestanti bloccano tutte le strade per il porto di Umm Qasr

 
Moqtada Al Sadr
BAGHDAD - Il 30 ottobre, nel corso di una visita segreta a Baghdad, il generale iraniano Qassem Soleimani, capo della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione islamica, avrebbe chiesto alle milizie irachene delle Unità della mobilitazione popolare (Pmu) di sostenere il primo ministro Adel Abdul Mahdi, di cui i manifestanti chiedono da giorni le dimissioni. Lo indicano fonti citate dall'emittente satellitare "al Arabiya". Soleimani, figura centrale dell'architettura di alleanze regionali dell'Iran, sarebbe intervenuto per evitare la caduta di un governo nato proprio sotto gli auspici di Teheran sulla base di un'asse tra il noto predicatore Moqtada al Sadr, capo del blocco Al Sairoon (prima forza politica della Camera dei rappresentanti), e il leader sciita Hadi al Ameri, alla guida dell'alleanza Fatah.
   Da tempo Al Sadr chiede con forza la caduta del governo, ventilando l'ipotesi di una "guerra civile" e auspicando la convocazione di elezioni anticipate sotto la supervisione delle Nazioni Unite e senza la partecipazione dei partiti politici tradizionali. Martedì 29 ottobre, dopo una visita segreta in Iran, il predicatore si è anche fatto vedere tra i manifestanti a Najaf.
   Al Ameri, che ha grande influenza sulle Pmu, ha invece preso immediatamente le distanze dalle proteste, sostenendo che dietro vi siano "gli Stati Uniti e Israele". Nei giorni scorsi il premier Abdul Mahdi ha affermato di essere disposto a un passo indietro, ma solo in presenza di un accordo tra Al Sadr e Al Ameri sul futuro esecutivo.

(Agenzia Nova, 2 novembre 2019)


Israele di nuovo sotto attacco. Tre ondate di missili da Gaza. IDF risponde

Colpita in pieno una casa a Sderot. Iron Dome abbatte setti missili diretti sui centri abitati. Paura per 600 scout. Nella notte la risposta israeliana.

Dopo un periodo di relativa calma Hamas torna a colpire il sud di Israele con tre ondate di missili per buona parte intercettati dal sistema di difesa Iron Dome.
Colpita in pieno una casa a Sderot per fortuna senza né vittime né feriti in quanto la famiglia che la abita si trovava in casa di un vicino. Poteva essere una strage.
Secondo le forze di difesa israeliane il sistema Iron Dome ha abbattuto sette missili diretti contro i centri abitati.
Circa 600 bambini che fanno parte del movimento degli scout che stavano facendo una gita nel Parco di Eshkol sono stati evacuati nella notte.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che è anche il ministro della difesa, ha dichiarato di essere «in costante contatto con il capo dell'IDF e con i funzionari della sicurezza» e ha detto di aver dato ordine di «compiere i passi necessari per accertare chi sono i responsabili dell'attacco».
Da Gaza non è arrivata nessuna rivendicazione ma Israele ritiene Hamas responsabile di quello che avviene sul territorio amministrato dal gruppo terrorista.

 La reazione israeliana
  Nella notte la risposta israeliana. L'IDF ha annunciato di aver colpito con attacchi aerei diversi obiettivi terroristici nella Striscia di Gaza.
Tra gli obiettivi colpiti, un complesso militare appartenente alle forze navali del gruppo terroristico di Hamas, un complesso militare appartenente al sistema di difesa aerea dell'organizzazione, un simulatore missilistico, strutture di addestramento, un sito di produzione di armi, e un complesso militare usato come deposito di armi.

(Rights Reporters, 2 novembre 2019)


L'ipocrisia di chi ha sempre detestato Israele

di Karen Rubin

L'indignazione che ha suscitato l'astensione del centrodestra per la commissione contro l'odio, il razzismo e la xenofobia, promossa dalla senatrice a vita Liliana Segre, appare come la reazione di un politicamente corretto superficiale ed ipocrita. E il perché è presto detto. Coloro che mostrano grande sdegno verso gli astensionisti sono proprio gli stessi che oggi sostengono la senatrice Segre, ebrea, superstite della Shoah, ma chiedono il boicottaggio dello Stato ebraico, quando addirittura non manifestano un malcelato odio verso Israele, dal momento in cui sconfiggendo i suoi nemici commise il «peccato» della sopravvivenza. Israele che si difende, che non si lascia aggredire, che umilia il mondo arabo che fu alleato di Hitler non piacque più. Davide non doveva diventare il simbolo del coraggio e della forza che riesce a sconfiggere il terribile Golia. Per essere amato doveva farsi castrare o soccombere. Dovremmo credere alla buona fede di Manlio Di Stefano, che detesta Israele e non credere invece a Berlusconi, o Salvini, che lo Stato ebraico hanno riconosciuto e mostrato di rispettare da sempre.
   Indigna la strumentalizzazione di un tema così serio e delicato, che attraversa l'Europa. Irrita profondamente che antisemitismo e razzismo vengano usati a scopo politico ed elettorale e non per combattere fenomeni che si manifestano sempre più pericolosamente, e non solo in rete. Le dichiarazioni buoniste dei Cinque Stelle sono completamente inattendibili. Non c'è una pagina in rete, nei siti a loro vicini, dove l'astio contro Israele non emerga mostrando un antisemitismo radicato che trova le sue origini in tesi complottiste ottocentesche in cui l'ebreo è il ricco capitalista spregiudicato e senza scrupoli: il nemico del popolo.
   L'affetto che stanno mostrando verso Liliana Segre, utilizzando un linguaggio formalmente corretto, nasconde la loro ostilità verso Israele e il popolo ebraico. Si può credere alla stima di Leoluca Orlando per la Segre? Prima le conferisce la cittadinanza onoraria e poi intesta il lungomare a Yasser Arafat, che aveva come unico obiettivo la distruzione di Israele e del popolo ebraico.
   L'antisemitismo c'è e si mostra attraverso il boicottaggio di uno Stato, quello israeliano, in cui si riversano da anni gli ebrei che non sono solo vittime degli haters, ma rischiano la vita in una Europa che sceglie di tacere, o di voltarsi dall'altra parte, sulla condizione in cui vivono oggi in Francia, in Belgio o in Germania. Si chiama formazione reattiva, è un meccanismo di difesa attraverso il quale si evitano impulsi angosciosi manifestando la tendenza opposta. Un bambino che odia il fratellino appena nato lo bacia e lo abbraccia, ma in realtà, geloso e rabbioso, amerebbe tormentarlo.

(il Giornale, 2 novembre 2019)


Decidere chi è "presentabile" (e chi no) non fa bene alla democrazia

Caso Segre. C'è il rischio che una nobile intenzione, come quella di Liliana Segre, finisca per essere usata per dividere i buoni dai cattivi.

di Dimitri Buffa

Di commissioni parlamentari per promuovere il bene e combattere il male - almeno in Italia - sono lastricate le strade dell'inferno. A cominciare da quella per antonomasia, l'antimafia, che, tranne per gli organismi bicamerali varati nei primi anni 70, nel tempo è di fatto diventata una delle tante armi improprie di lotta politica. Adesso la cosa si ripete con questa commissione, pensata dalla stimabilissima senatrice a vita Liliana Segre. Che, se nelle intenzioni dovrebbe occuparsi di monitorare l'antisemitismo e il razzismo nel Bel Paese - di sicuro a un livello minimale se solo pensiamo alla Francia, alla Germania e ai paesi dell'Est europeo - nella successiva realizzazione pratica finirà per pretendere di censurare i messaggi di odio sui social e nella rete. Confondendo causa ed effetti e arrogandosi il potere, com'è già accaduto con le commissioni antimafia delle ultime due legislature, di decidere chi sia o meno "presentabile" per le future elezioni politiche.
   Così magari i commenti dei fan di Salvini contro la Raggi, contro la Boldrini e purtroppo anche contro la stessa Segre verranno equiparati all'odio antisemita o al razzismo che è tutt'altra cosa delle esternazioni di antipatia verso questo o quell'esponente politico. D'altronde nei social del Movimento 5 Stelle, che pure ha votato disciplinatamente a favore dell'istituzione di questa commissione dall'oggetto assai confuso, criticata da magistrati come Carlo Nordio e da editorialisti come Mattia Feltri, si legge di tutto. Ben più e ben di peggio dei commenti alle provocazioni social della cosiddetta "Bestia" di Salvini.
   Se nei fatti questa commissione parlamentare d'inchiesta, che in Italia come diceva anche Montanelli "non si nega a nessuno", sposterà la propria attenzione come prevedibile dalle cause agli effetti dell'odio razziale e antisemita, non c'è da stare allegri. Un altro organismo di censura pedagogica con il marchio della commissione parlamentare non serve a nessuno e anzi rischia di essere controproducente. Come ha scritto Nordio sul Messaggero, la pentola a pressione dell'odio social si sfoga scrivendo "cazzate" sulle bacheche dei partiti e dei movimenti. O di singoli esponenti politici. Come una volta si scrivevano idiozie e infamità sui muri dei cessi in autostrada. Solo che all'epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di istituirci sopra una commissione parlamentare d'inchiesta. Altra cosa sarebbe se la violenza squadrista, a forza di evocarla, venisse esercitata nelle piazze.
   Ma l'impressione assai fastidiosa è che questo organismo parlamentare - come si diceva - possa essere utilizzato, con la grancassa di quotidiani che inzuppano il pane in tutto ciò, per decidere chi fa parte del bene e chi delle forze oscure del male in Italia. Ponendogli addosso un bollino nero Docg. Se si pone attenzione a questo punto di vista, l'astensione dal votarla in Parlamento, da parte di Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia, non è poi così scandalosa. Anzi, ha il sapore di una reazione di ripulsa epidermica quasi inevitabile.

(ilsussidiario.net, 2 novembre 2019)


La Svizzera lasciò gli ebrei in mano ai nazisti?

Lettera a “La Verità”


Mi risulta che Liliana Segre, quindicenne, abbia cercato nel 1943 di riparare in Svizzera con il padre e un paio di cuginetti. Furono però respinti alla frontiera. Poco dopo, con il padre e altri parenti, fu deportata ad Auschwitz, e sopravvisse solo lei. Io sono stato più fortunato. Mio padre (ebreo) aveva pensato pure lui di fuggire in Svizzera con noi figli (io avevo 6 anni) e moglie. Avvertito, però, del comportamento svizzero, preferì riparare sui monti del natio Veneto, sopra Valdagno (in piena Repubblica di Salò) con moglie e figli. Sopravvivemmo tutti (con l'aiuto di preti e suore), e lui riebbe, nel 1946, il posto di ingegnere presso la Breda, da cui era stato licenziato nel 1938 per le leggi razziali. Non mi pare che la generosa «accoglienza» svizzera sia mai stata debitamente commentata... Aggiungerei che la mozione Segre si presta a nascondere scopi assai meno nobili di quelli dichiarati.
Adriano Orefice, Milano

(La Verità, 2 novembre 2019)


Offese antisemite ai proprietari del Caffè Greco. Scatta la denuncia

di Maria Berlinguer

ROMA - Istigazione all'odio razziale. I proprietari dell'immobile del Caffè Greco di via dei Condotti, cioè l'Ospedale Israelitico di Roma, presenteranno lunedì prossimo una denuncia alla Procura della Repubblica per gli insulti antisemiti apparsi sulla pagina Facebook del locale. A 24 ore dall'astensione del centrodestra in Parlamento sulla mozione Segre che istituisce una commissione per il contrasto ai fenomeni di intolleranza, di razzismo e di istigazione all'antisemitismo, lo sfratto dello storico caffè Greco è la cartina di tornasole della situazione del Paese. Almeno sul web. La paginaFb del Caffè Greco è infatti stata tempestata di messaggi antisemiti, contro la proprietà della mura che da due anni ha dato lo sfratto ai gestori del locale, chiedendo alla famiglia che lo gestisce da 20 anni un cospicuo aumento del canone di affitto.

 Le frasi razziste sulla pagina Fb
  Una querelle infinita che potrebbe concludersi con la chiusura del bar che vanta 250 anni di storia. «Se la gestione di questo locale dovesse passare ai sionisti allora si dovrà includere anche questo locale nel boicottaggio contro Israele», propone qualcuno. «Gli israeliani non muoiono di fame, sono i più ricchi del mondo», «Gli ebrei romani sono israeliani non romani», farnetica qualcun altro. Con l'immancabile chiosa di un altro account che bolla gli ebrei come «avidi». «L'Ospedale Israelitico di Roma sta raccogliendo i contenuti di alcuni post dai chiari toni antisemiti apparsi sulla pagina Facebook dell'Antico Caffè Greco che saranno oggetto di una denuncia per istigazione razziale: lunedì i nostri legali completeranno la stesura della denuncia che sarà presentata presso la Procura della Repubblica», annuncia Bruno Sed, presidente dell'Ospedale Israelitico. «Ci dissociamo ovviamente da qualsiasi commento dai toni antisemiti, purtroppo non controlliamo ogni commento ma lo faremo», prende le distanze Carlo Pellegrino, legale rappresentante dell'Antico Caffè greco.
  «L'aspetto più agghiacciante dello scambio di commenti è il riaffiorare di termini tipici dell'epoca più cupa del '900 come «sionisti» e la riesumazione dei più triti luoghi comuni sugli ebrei utilizzati dal gruppo Bds Italia, tutto questo è inquietante e scandaloso e lo è ancora di più nei giorno degli attacchi alla Segre», avverte il renziano Luciano Nobili. «Lo storico caffè deve restare tale e speriamo che il contenzioso si risolva ma niente può giustificare pericolosi rigurgiti antisemiti», dice Mariastella Gelmini di Forza Italia.

(La Stampa, 2 novembre 2019)


Naturalmente c’è chi continua a dire che una cosa è l’antisemitismo e un’altra l’antisionismo. L’antisemitismo sarebbe odio razziale, mentre l’antisionismo è soltanto odio nazionale. E questo, quando la nazione odiata è Israele, per molti è più che comprensibile. M.C.


ll matrimonio ebraico fra oggetti rituali, tradizioni e simboli

Esemplare di Ketubah
FIRENZE - Un viaggio fra antiche e decorate ketubbòt, i contratti matrimoniali che a Firenze si caratterizzavano per la particolare forma a cupola, oggetti rituali come il tallèd, il manto sotto cui gli sposi ricevono la benedizione, e tradizioni, come la simbolica rottura del bicchiere. Domenica 3 novembre il Museo ebraico di Firenze promuove un doppio appuntamento, alle 11.30 e alle 15.30, con una visita tematica alla scoperta del matrimonio ebraico fra significato, ritualità e tradizioni.
Insieme ai particolari contratti matrimoniali, piccoli capolavori abbelliti con motivi di architetture, fiori, oppure da interi brani in micrografia, piccolissime lettere ebraiche che creano la struttura ornamentale del disegno, il Museo conserva un ricco patrimonio di oggetti rituali, oltre a ottocenteschi fazzoletti nuziali e sacchetti da confetti. Completano il percorso preziosi asciugamani ricamati e corredi per il bagno della sposa, la cerimonia di immersione nel mikvé, la vasca rituale, che anticipa la cerimonia.

(Stamp Toscana, 2 novembre 2019)




Il fenomeno «allosemitismo»

di Michael Brenner
Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli.
(1 Samuele 8,5)

Il celebre filosofo di Oxford Isaiah Berlin amava raccontare che una volta, negli anni trenta, durante un party una signora britannica aveva approcciato il leader dell'Organizzazione sionista mondiale Chaim Weizmann, che ammirava e che sarebbe poi diventato il primo presidente dello Stato di Israele: «Dottor Weizmann, non capisco. Lei fa parte del popolo più acculturato, civilizzato, brillante e cosmopolita della storia, e vuole abbandonare tutto questo per diventare come ... l'Albania?». Weizmann - continuava il racconto di Berlin - ci aveva riflettuto un po', poi la sua faccia si era illuminata e aveva esclamato: «Sì! L'Albania! L'Albania!».
   Diventare un popolo come qualsiasi altro! Fu questa l'idea che molti sionisti avevano in mente quando cercarono di realizzare il loro progetto di uno Stato ebraico. La Dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele avrebbe fatto proprio questo concetto in un passo centrale che recita: «Il diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano». Gli ebrei - si argomentava - erano sempre stati archetipicamente l'«altro» nella storia. Soltanto mettendo fine alla situazione di «anormalità» relativa alla loro dispersione nella diaspora mondiale e ripristinando il proprio Stato dopo due millenni, sarebbe stata riconquistata la «normalità» in forma di un piccolo Stato ebraico. Così gli ebrei sarebbero diventati una nazione «come tutte le altre», e il loro Stato uno Stato come tutti gli altri: un'immaginaria Albania.
   Per oltre due millenni gli ebrei hanno ricevuto un'attenzione che andava ben oltre il loro peso numerico, come ha osservato lo storico David Nirenberg: «Per vari millenni si è riflettuto sull'ebraismo. Gli antichi egizi consumarono grandi quantità di papiro sugli ebrei; i primi cristiani (e anche i successivi) riempirono pagine e pagine cercando di distinguere tra ebraismo e cristianità, tra nuovo e vecchio Israele; i seguaci di Maometto rifletterono sulle relazioni del loro profeta con gli ebrei e i "figli di Israele"; gli europei del Medioevo evocavano gli ebrei per spiegare questioni diverse come la carestia, la peste e le politiche fiscali dei loro principi. E consultando gli ampi archivi dell'Europa premoderna e moderna, e delle sue colonie culturali, sarebbe alquanto semplice dimostrare che parole come "giudeo", "ebreo", "semita", "israelita" e "Israele" appaiono con una frequenza assolutamente sproporzionata rispetto alle popolazioni di ebrei viventi nelle relative società»
   Il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato questo fenomeno «allosemitismo». A differenza del termine negativo «antisemitismo» e del positivo «filosemitismo», il concetto di «allosemitismo», costruito sulla parola greca che indica «altro», si riferisce alla «consuetudine di descrivere gli ebrei come un popolo radicalmente diverso dagli altri, per la cui descrizione e comprensione sono necessari concetti particolari e che richiede di assumere un atteggiamento speciale nella totalità o quasi dei rapporti sociali [...]. Il termine non contraddistingue in maniera chiara l'odio o l'amore per gli ebrei ma contiene il germe di entrambi e indica che qualunque dei due sentimenti appaia esso sarà intenso ed estremo. L'allosemitismo era endemico in Europa e al di fuori di essa, ed era dovuto in gran parte al retaggio della Chiesa cristiana, che considerava gli ebrei come «incarnazione stessa dell'ambivalenza»: erano amati come il popolo di Gesù ma odiati come assassini di Cristo; erano stimati per l'Antico Testamento ma disprezzati in quanto non accettavano l'interpretazione neotestamentaria delle profezie bibliche. In epoca moderna gli ebrei divennero i più «mobili» tra tutti i paria e parvenu. «Erano l'emblema dell'incongruenza: una nazione non nazionale, e ciò gettava un'ombra su un principio fondamentale del moderno ordine europeo, ovvero la nazione come essenza del destino umano.
   L'immagine degli ebrei come «alterità» era usata ovviamente anche dagli stessi ebrei, fin dai tempi antichi. Essa era nata assieme al concetto biblico di «popolo eletto» ed era stata ripetuta in varie forme nei libri della Bibbia e successivamente nella letteratura rabbinica e nella liturgia ebraica. La quotidiana preghiera dell'Aleinu contiene il passo «perché Dio non ci ha fatto come i popoli delle nazioni, né come le altre famiglie della terra. Dio non ci ha messo nella stessa situazione degli altri, e il nostro destino non è quello delle moltitudini». L'alterità è già citata in antiche fonti ebraiche come causa dell'odio verso gli ebrei. Nel libro biblico di Ester, Amàn, il consigliere del re persiano, afferma:
    Vi è un popolo segregato e anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva le leggi del re; non conviene quindi che il re lo tolleri. Se così piace al re, si ordini che esso sia distrutto (Ester 3,8-9).
Se il moderno movimento dell'ebraismo riformista ha cercato di eliminare alcune delle auto-differenziazioni presenti nella liturgia e nella pratica, l'idea che gli ebrei fossero «diversi» fu condivisa da molti, ebrei e non-ebrei, anche nel Novecento. Israel Mattuck, il più importante rabbino liberale in Inghilterra nella prima metà del XX secolo, scrisse nel 1939: «Gli ebrei sono anomali perché non rientrano in nessuna delle tre normali categorie di classificazione dei gruppi umani [...]. Sebbene gli ebrei non siano una razza, sono un gruppo separato; sebbene non siano una nazione hanno memoria, da tempi remoti, di una vita nazionale; sebbene siano dispersi sono uniti. L'unità degli ebrei è psicologica, prodotta dalla loro religione, storia ed esperienza. Gli ebrei sono unici».
   Il sionismo mirò a superare questo senso di alterità cercando di inserire gli ebrei in categorie sociopolitiche in voga nel XIX e nel XX secolo. Una volta che gli ebrei fossero stati considerati universalmente come una nazione, con un proprio Stato, essi non sarebbero stati più vulnerabili di fronte agli attacchi contro la loro presunta unicità e avrebbero cessato di essere vittime di aggressioni antisemite. Il sionista Joseph Heller sintetizzò questa posizione quando scrisse, poco prima della fondazione dello Stato di Israele: « Una nazione, come un individuo, è normale e sana solo quando è in grado di usare tutte le doti innate e di dispiegare tutte le forme di creatività economica e culturale. A tal fine, la nazione ha bisogno della libertà politica e del diritto di utilizzare le risorse naturali del suolo come basi per la sua crescita economica. L'obiettivo della normalizzazione rappresenta per gli ebrei una vera e propria "trasvalutazione dei valori", in ragione dell'incontestata egemonia dello spirito attraverso tutta la storia della diaspora. [...] Ma, soprattutto, la nazione deve "tornare alla terra" non solo in senso fisico ma anche in quello psicologico».
   Settanta anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, Israele ha raggiunto molti obiettivi del movimento sionista, ma non è stato ancora esaudito il desiderio di diventare uno Stato «come qualsiasi altro». Se gli ebrei sono stati nella storia l'archetipo dell'«altro», ironicamente Israele - che tanto avrebbe voluto cancellare questo marchio di alterità - è diventato l'«ebreo» tra le nazioni. Lo Stato ebraico viene raramente considerato come uno Stato qualsiasi. Piuttosto, è reputato unico ed eccezionale: o uno Stato modello o uno Stato-paria.

(da “Israele: sogno e realtà dello Stato ebraico”, di Michael Brenner)

 


Hezbollah prova con un missile ad abbattere un drone israeliano

di Giordano Stabile

L Iran è una minaccia «sempre più sfacciata» e Israele «non porgerà l'altra guancia». Benjamin Netanyahu torna ad attaccare il principale avversario dello Stato ebraico, in una regione infiammata dalle rivolte in Libano e Iraq, e dove il ritiro americano dalla Siria rischia di offrire nuove opportunità ai Pasdaran. L'allarme lanciato dal premier israeliano arriva nel giorno che ha visto l'Hezbollah libanese, stretto alleato della Repubblica islamica, cercare di abbattere un drone israeliano con missile anti-aereo, una novità anche sulla frontiera arroventata con il Libano. L'arsenale delle milizie sciite continua a crescere e a migliorare, come ha dimostrato il raid condotto dagli Houthi yemeniti sulle principali installazioni petrolifere saudite, lo scorso 14 settembre.
   E in questo scenario che Netanyahu ha spiegato come «la sfacciataggine dell'Iran aumenta perché non trova risposta, ma Israele non porgerà l'altra guancia, non esiterà ad assestare un colpo pesante a chiunque provi a danneggiarci». Il riferimento è alla reazione molto contenuta degli Stati Uniti dopo l'abbattimento di un loro drone sullo Stretto di Hormuz e dopo il blitz contro gli impianti dell'Aramco. La regione mediorientale, ha continuato' «è turbolenta, burrascosa, le minacce vengono da ogni angolo, Siria, Yemen, Gaza, Libano e dallo stesso Iran», che lavora "senza sosta" per armarsi sempre di più. Lo stato dall'allerta è stato confermato dal comandante dell'Aviazione Amikam Norkin: la difesa aerea, ha precisato, è "in allerta" e le forze armate sono convinte che Teheran tenterà un colpo come quello messo a segno in territorio saudita, con missili cruise che hanno bucato le difese anti-aeree. L'attenzione è concentrata sull'arsenale missilistico delle miilizie, Hezbollah prima di tutte. Israele è impegnato in una campagna di Intelligence e raid con droni per impedire che il Partito di Dio si doti di missili ad alta precisione, con materiale proveniente dall'Iran. Quest'anno ha spostato il contrasto all'interno del Libano, per scoprire dove sono le fabbriche di combustile solido e di sistemi di puntamento. In questo contesto si spiega il tentativo di Hezbollah, ieri pomeriggio, di abbattere un drone di sorveglianza nel Sud del Libano, vicino alla cittadina di Nabatiyeh. L'aereo senza pilota non è stato colpito e le forze armate israeliane hanno confermato che «un missile anti-aereo è stato lanciato sopra il territorio libanese verso un nostro velivolo». La milizia sciita libanese dispone di decine di migliaia di razzi e missili terra-terra. Ma il suo arsenale anti-aereo era finora considerato limitato. E in questo senso quello che è successo ieri è un nuovo campanello di allarme.

(La Stampa, 1 novembre 2019)


Tel Aviv, decolla il super-aereo del governo israeliano

Si tratta di un Boeing 767 con apparecchiature sofisticate e segrete

 
Boeing 767 israeliano
Domenica partirà il primo volo di collaudo dell'aereo destinato a traportare nei prossimi venti anni i primi ministri ed i capi di Israele nelle loro visite ufficiali.
Si tratta di un Boeing 767 prodotto circa 20 anni fa, che in passato è stato in funzione nelle linee aeree australiane. Il velivolo evidenzia i colori nazionali blu-bianco e la scritta: Stato d'Israele.
L'apparecchio è in grado di volare senza fare mai scalo dallo stato israeliano verso mete molto remote, come la Cina ed il Giappone. In caso di necessità potrà rendersi invisibile a quanti di norma seguono gli itinerari dei voli civili.
Il progetto è costato 180 milioni di euro, la cifra che include l'acquisto del velivolo, la sua conversione e la sua gestione per i prossimi anni.
L'aereo è stato acquistato nel 2016 per poi essere sottoposto ad una profonda conversione tecnologica. A bordo sono state installate apparecchiature di comunicazione sofisticate che durante le tratte consentiranno ai dirigenti dello Stato ebraico di conversare in segretezza con i vari leader esteri.

(L'Unione Sarda, 1 novembre 2019)


Il primo giorno di Piperno nuovo rabbino a Firenze. «Un onore»

di Simone Innocenti

Rav Gadi Piperno
«È un grande onore e soprattutto una grande responsabilità», dice Gadi Piperno, che da oggi è il nuovo rabbino capo a Firenze. Ingegnere elettronico, romano, 46 anni, già rabbino di una sinagoga di Roma, Piperno è coordinatore del Collegio rabbinico italiano e responsabile del Progetto Talmud per la traduzione e digitalizzazione in italiano del Talmud babilonese (progetto che coinvolge la casa editrice fiorentina «Giuntina»). La Comunità ebraica di Firenze, che ha reso noto la notizia, saluta «con affetto e gratitudine» il rabbino Amedeo Spagnoletto che «ha guidato con passione e competenza la Comunità per due anni e lascia il suo incarico per tornare a Roma». L'assessore del Comune di Firenze ai rapporti con le comunità religiose Alessandro Martini dà il benvenuto al nuovo rabbino e dice: «Ho avuto modo di relazionarmi con il rabbino Spagnoletto trovando un interlocutore attento e sensibile. Spero che ci incontreremo presto con il nuovo rabbino per continuare nel solco di una esperienza importante già avviata». Anche il presidente della Toscana Enrico Rossi e la vice presidente ed assessore regionale alla cultura Monica Barni salutano il nuovo rabbino capo. «I rapporti tra la Comunità ebraica di Firenze e la Regione Toscana sono molti ed hanno dato vita a collaborazioni strette in questi anni - ricordano Barni e Rossi nel dare il benvenuto a Piperno - L'abbiamo fatto nell'educazione ad una convivenza pacifica. Grande è stata la collaborazione e l'alleanza sul fronte delle politiche della memoria.

(Corriere fiorentino, 1 novembre 2019)


I finti difensori degli ebrei
         Articolo OTTIMO


L'unico modo per contrastare l'antisemitismo è appoggiare lo Stato d'Israele, cosa che i progressisti non hanno mai fatto. La sinistra strumentalizza l'astensione del centrodestra sull'istituzione della commissione contro l'odio.

di Riccardo Mazzoni

La sinistra non si smentisce mai, e ha utilizzato ancora una volta la forza di un simbolo - la commissione Segre - per strumentalizzare la storia e gettare sugli avversari politici ombre infamanti, come la connivenza con l'antisemitismo, una malapianta che sta di nuovo avvelenando l'Europa. Ma la sinistra in questo non è senza peccato, e non può scagliare la prima pietra contro nessuno, perché oggi l'unico modo per essere al fianco degli ebrei e della loro storia è sostenere lo Stato di Israele. Una consapevolezza, questa, che ieri Berlusconi ha giustamente rivendicato, avendo fatto dell'amicizia con Israele il tratto distintivo della sua politica estera, ma che è troppo spesso mancata nella sinistra italiana, divisa tra i sinceri amici di Israele e l'anima filopalestinese che non esita invece a sfilare ogni 25 Aprile insieme ai gruppi che, tra fischi e urla, insultano sistematicamente la Brigata Ebraica, che tanti meriti ha avuto nella liberazione d'Italia. Per non parlare dei Cinque Stelle, che non hanno battuto ciglio nell'assolvere preventivamente un senatore che ha recentemente dato credito alle teorie aberranti dei Protocolli dei Savi di Sion.
   Le duecento minacce al giorno nei confronti della senatrice Segre, simbolo e insieme memoria dell'unicità della Shoah, segnano certo una deriva preoccupante e a suo modo tragica. Per questo era sicuramente auspicabile che il documento istitutivo della commissione Segre fosse approvato all'unanimità, ma chi ha seguito i lavori del Senato sa che la maggioranza ha presentato un testo considerato inemendabile, tanto da votare pregiudizialmente contro la mozione di Forza Italia, che dava ugualmente il via libera senza ambiguità alla commissione Segre. Non c'è stata insomma, alcuna volontà di convergere su un testo comune. Ieri, poi, il ministro Spadafora ha rincarato la dose, accusando addirittura chi ha scelto di astenersi di essere complice della violenza. Un'accusa sconsiderata e intollerabile, perché nell'aula del Senato nessuno si è opposto al contrasto dell'intolleranza sul web, che sfocia troppo spesso nell'incitamento all'odio e in un progressivo imbarbarimento culturale e sociale. Un fenomeno vergognoso che va combattuto senza mai sottovalutare la pericolosità dei comportamenti discriminatori, ma anche discutendo in modo approfondito sulle forme più opportune per contrastarli. La ricerca di una soluzione unitaria si è arenata proprio su questo, perché la mozione delle sinistre parte sì dalla condanna dell'antisemitismo, ma poi si estende enormemente l'ambito dei fenomeni «da contrastare» con sanzioni penali o «sociali». Ad esempio, vengono inclusi nell'incitamento all' odio argomenti come la superiorità della propria razza, etnia, nazione o gruppo, senza però fare distinzioni tra l'ideologia nazista e i nazionalismi di oggi. Una semplificazione strumentale che contiene peraltro colpevoli omissioni, mancando del tutto ogni riferimento alla minaccia del radicalismo islamico, e quindi alla necessità di contrastare le campagne di odio alimentate dagli Stati-culla dell'islamismo autoritario che intende cancellare la memoria stessa dell'Olocausto e allo stesso tempo non esita a perseguitare i Cristiani. Fra le righe di quella mozione, insomma, traspare il pensiero unico del relativismo culturale, male senile del Vecchio Continente, che mette sullo stesso piano la civiltà occidentale, in cui c'è la separazione netta tra Stato e religione - e in cui i diritti umani sono interamente rispettati - e gli Stati islamici in cui invece si pratica la sharia e le donne vengono sistematicamente sottomesse. Ecco: affermare che la superiorità della nostra civiltà non può rischiare di diventare un elemento discriminatorio da condannare, e soprattutto da equiparare alle aberrazioni dei totalitarismi razzisti.
   Le opposizioni hanno insomma posto un problema di fondo: chi si ispira ai princìpi liberali ha il diritto di porsi la domanda se la condanna per legge delle opinioni, anche le più discriminatorie, non possa prefigurare una limitazione della libertà di espressione. Il lungo e tormentato dibattito parlamentare della passata legislatura sul negazionismo del genocidio degli ebrei - spacciato per ordinario processo di revisione storica - ha testimoniato quanto sia difficile per il legislatore punire anche questa odiosa fattispecie senza introdurre nell'ordinamento un mero reato di opinione e trasformare così, paradossalmente, i negazionisti in vittime della verità di Stato. L'astensione non è stata dunque un oltraggio alla memoria, né un tentativo di depotenziare la commissione, ma la riaffermazione del principio della libertà di espressione sancito dalla Costituzione, mettendo in discussione i troppi margini di ambiguità lasciati ad esempio sulla definizione di «dichiarazioni sgradite», anche quando queste non ledono la dignità della persona. La storia insegna, infatti, che definizioni troppo vaghe minano la certezza del diritto e aprono la strada all'arbitrio.
   
(Il Tempo, 1 novembre 2019)


Una delle ultime tracce viventi della Shoah è stata trasformata in sacra icona da venerare al fine di far dimenticare quello che è stato fatto ieri agli ebrei ed elevarla oggi a sacro simbolo contro ogni forma di odio verso ogni essere umano. Dal particolare ebreo all’universale umano dunque: la linea di pensiero e d’azione è già tracciata. E anche le forme di culto: tutti sono chiamati a prendere posizione. In ginocchio, naturalmente. Senza se e senza ma. E guai a chi non lo fa. E di sicuro qualcuno ha già chiaro in mente che tra i più grandi odiatori del genere umano si trovano i cittadini di quel controverso Stato che odia - è chiaro, odia, lo dicono in tanti ormai - quei poveri rappresentanti del genere umano che sono i palestinesi. Sarà sbandierando l’icona Segre che l’Italia cercherà di liberare i poveri palestinesi dall’odio dei feroci israeliani? M.C.


Da Israele una famiglia di Ebrei torna a riabbracciare la piccola comunità di Chiusi della Verna

di Francesca Mangani

 
Chiusi della Verna
Quella che lega il medico Joel Mahor Franchetti, ebreo fuggito da Firenze durante il nazismo, e la piccola comunità casentinese di Giampereta, che ai tempi offrì rifugio alla sua famiglia salvandola dallo sterminio, è una storia di gratitudine e amicizia.
Fra' Achille speziale alla Verna, trovò rifugio alla famiglia Franchetti che fu ospitata e protetta nella colonica dei Ciuccoli. Da quel momento tra le due famiglie è nato un rapporto profondo, rimasto ancora oggi molto forte. Martedi 5 novembre, proprio a Giampereta, gli eredi dei Franchetti e dei Ciuccoli si riabbracceranno: il nipote del medico Franchetti verrà infatti a visitare quei luoghi tanti cari nella memoria del padre. La giornata prenderà il via alle 9 con i saluti del sindaco di Chiusi della Verna Giampaolo Tellini, seguiti da un'introduzione del referente della Banca della Memoria Pierangelo Bonazzoli e dagli interventi della giornalista Maria Maddalena Bernacchi e di due testimoni, Alvaro Norcini e Maria Pia Becherini. All'incontro sarà presente anche una classe della scuola di Chiusi della Verna con gli studenti che saranno chiamati ad intervenire. Alle 11 nella sede comunale, il sindaco consegnerà alle due famiglie una pergamena commemorativa. Successivamente è previsto un incontro con il Padre Guardiano della Verna e con i frati francescani che accompagneranno le famiglie in una visita del Santuario.
   "Sarà una giornata di amicizia, di ricordi e di tante emozioni - ha commentato il sindaco Tellini - dalla persecuzione raziale è nata un'amicizia profonda e un senso di gratitudine rimasti nel tempo molto forti e sentiti. Il comune di Chiusi della Verna è onorato di partecipare a questo incontro che vede riuniti gli eredi di due famiglie lontane fisicamente ma vicine nei sentimenti".

(Arezzo 24, 1 novembre 2019)


Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel Cinema

Torna dal 16 al 20 novembre 2019 alla Casa del Cinema di Roma e presso il Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani - a entrata gratuita fino a esaurimento posti - il Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel Cinema, giunto alla quattordicesima edizione, dedicato alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico.

(Teatri Online, 1 novembre 2019)


70 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Israele, un seminario alla Farnesina

Martedì prossimo, 5 novembre, nell'ambito delle celebrazioni del 70o anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Israele, avrà luogo alla Farnesina il seminario bilaterale dal titolo "Celebrating 70 years of Diplomatic Relations. Italy and Israel Side-By-Side for Innovation", dedicato ai progetti di successo sviluppati nel quadro dell'Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica, tra Italia e Israele.
All'evento interverranno, in apertura, il Vice Ministro per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, Emanuela Claudia Del Re, il Sottosegretario del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Lucia Azzolina, il Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese della Farnesina, Vincenzo de Luca, e l'Ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar.
   Quindi, Del Re e Azzolina consegneranno il Premio Rita Levi Montalcini al Professor Eytan Domany, del Dipartimento di Fisica dei Sistemi complessi dell'Istituto Weizmann di Tel Aviv, che soggiornerà per un periodo di quattro mesi presso l'Università di Milano, Dipartimento Scienze e Politiche Ambientali, dove collaborerà con la Professoressa Caterina La Porta, group leader del laboratorio "Oncolab" anch'essa presente alla cerimonia.

(Com.Unica, 1 novembre 2019)


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