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Notizie 1-15 novembre 2020


Netanyahu a Hamas: "Il prezzo per l'aggressione continua sarà alto"

"Non accetteremo alcun attacco contro lo Stato di Israele e contro i cittadini di Israele. Avverto le organizzazioni terroristiche a Gaza, anche durante la crisi del Covid-19: non provateci. Non elenco mai i nostri piani operativi, ma dico loro che il prezzo di un'aggressione continua sarà molto alto".

di Alfredo Raimo

MILANO - "Non accetteremo alcun attacco contro lo Stato di Israele e contro i cittadini di Israele. Avverto le organizzazioni terroristiche a Gaza, anche durante la crisi del Covid-19: non provateci. Non elenco mai i nostri piani operativi, ma dico loro che il prezzo di un'aggressione continua sarà molto alto". Lo ha scritto su Twitter il premier israeliano Benjamin Netanyahu. L'esercito israeliano ha affermato di aver colpito obiettivi di Hamas nella striscia di Gaza dopo che i militanti hanno lanciato due razzi dal territorio palestinese. In una dichiarazione, i militari hanno detto che alle prime ore dell'alba aerei da combattimento, elicotteri militari e carri armati hanno colpito le infrastrutture sotterranee di Hamas e le postazioni militari. L'azione militare è la risposta ai due razzi che sono stati lanciati dai palestinesi verso Israele, uno ha raggiunto la città israeliana meridionale di Ashdod e l'altro si è schiantato nel centro di Israele. Non ci sono state segnalazioni immediate di feriti su entrambi i lati. I militari hanno detto che i due razzi di Hamas sono atterrati in aree aperte. Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre e occasionalmente si confrontano, con atti di ostilità minori.

(Cronachedi, 15 novembre 2020)


Il numero 2 di Al Qaeda ucciso in strada a Teheran: regalo del Mossad agli Usa

Al Masri, mente degli attacchi alle ambasciate statunitensi nel 1998, è stato colpito in Iran con la vedova del figlio di Bin Laden. La teoria che dietro all'attacco ci siano i servizi israeliani

di Guido Olimpio

Il 7 agosto del 1998 Abdullah Ahmed Abdullah, nome di guerra Abu Mohammed al Masri (l'Egiziano), organizza il doppio attentato contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Il primo degli attacchi strategici di Al Qaeda. Il 7 agosto di quest'anno il terrorista è stato ucciso, insieme alla figlia, in una via di Teheran.
   È una storia dalle molte implicazioni, accompagnata da un'infinità di versioni. E ripartiamo dunque dalla prima, quella diffusa dalle fonti del quotidiano. Sono le 21 del 7, il presunto Abdullah è in auto insieme a una delle figlie, Myriam.
   All'improvviso una moto si accosta alla vettura e uno degli uomini in sella spara con una pistola dotata di silenziatore. Quattro colpi su cinque centrano i bersagli. Le autorità raccontano che la vittima è un libanese, il professore Habib Daud mentre i media mediorientali ipotizzano si tratti di un esponente dell'Hezbollah. Niente conferme, nessuno ha mai sentito parlare dell'insegnante. Gli interrogativi si sommano alla tesi su incidenti e attentati che hanno colpito in estate i siti iraniani, compreso il centro nucleare di Natanz, danneggiato da un sabotaggio. I pasdaran danno la caccia alle spie. I loro avversari li logorano con fughe di notizie.
   Pochi giorni fa l'agguato riemerge, gira la notizia che lo sconosciuto insegnante sia il qaedista Abdullah, egiziano, ricercato dall'Fbi e sulla cui testa c'è una taglia da dieci milioni di dollari. Poi lo scoop del giornale, subito smentito dal regime in imbarazzo. Il servizio segreto israeliano ha una tradizione di attacchi mirati in Iran, nel tempo ha eliminato diversi scienziati, agguati dove spesso sono comparse le moto. Attacchi resi possibile da un lavoro di intelligence, dalla presenza di informatori. Per anni Gerusalemme ha seguito la regola di missioni «bianco e blu», ossia dove erano gli israeliani ad agire, successivamente si sarebbero affidati anche agli stranieri.
   E nel caso iraniano potrebbero aver usato membri dell'opposizione interna. Ma non escludiamo neppure che la narrazione serva a proteggere i veri esecutori. La strategia degli omicidi mirati serve a liquidare il nemico ed è utile per seminare insicurezza. Evidente il messaggio: il Mossad è in grado di scoprire un personaggio di livello, lo «termina» e offre il successo agli Stati Uniti. Che hanno dato appoggio esterno con gli apparati elettronici. Lo hanno filato, sorvegliato e quando è stato il momento hanno passato quella che una volta era conosciuta tra gli israeliani come la «pagina rossa», l'ordine di ammazzare scritto con un inchiostro di quel colore.
   Il secondo spunto dell'intrigo è la presenza dei seguaci di Bin Laden nella capitale di uno Stato nemico dell'estremismo sunnita. Nessuna sorpresa. Dopo il 2001, con la sconfitta talebana, numerosi dirigenti jihadisti si rifugiano proprio in Iran. Ci sono Abdullah, Seif al Adel e altri quadri egiziani, con loro una delle mogli di Osama, Khairiah, e alcuni figli, compreso il prediletto Hamza che sposerà Myriam, la ragazza morta nell'imboscata. Nelle lettere scritte da bin Laden e trovate ad Abbottabad c'erano riferimenti precisi al paese e il capo temeva che gli 007 iraniani infilassero un microchip sotto pelle ad Hamza per seguirne le mosse.
   Li tengono in residenze speciali, alcuni finiscono in prigione. I mullah se ne fanno scudo per evitare attentati all'interno e li conservano come pedine in scambi. Indagini italiane dell'epoca tracciano contatti telefonici tra questo nucleo e un elemento che si muove nel quartiere di Porta Venezia a Milano, zona dove sono presenti estremisti nordafricani. Lo chiamavano il «fortino».
   Più volte gli Usa denunciano le coperture, gli ayatollah negano. Dopo il 2011 le autorità permettono a diversi esponenti di lasciare il Paese. Hamza finirà in Afghanistan, dove sarà incenerito da un raid statunitense. Stessa fine per altri due compagni d'avventura, Abu Khayr al Masri, altro genero di Abdullah, e Khalid al Aruri. Entrambi sono dilaniati da missili con lame rotanti lanciati sempre da droni statunitensi, erano in Siria con la micro-fazione Hurras al Din. Mesi difficili per il movimento, con il leader Ayman Zawahiri forse deceduto un mese fa. Nel suo giaciglio e per malattia.

(Corriere della Sera, 15 novembre 2020)


*


La strategia del Mossad. Demolire il nemico colpendolo a casa sua

Attacchi informatici, furti di dossier, assalti mirati. Per Israele i blitz in Iran sono routine.

di Gian Micalessin

Colpire il nemico al cuore, portargli la guerra dentro casa, instillargli un'insicurezza permanente. Così ragionava Meir Dagan, l'ex direttore del Mossad che nel 2010 dà il via libera alle eliminazioni degli scienziati coinvolti nei progetti nucleari iraniani. Da allora colpire al cuore Teheran è per Israele una routine. L'azzardo iniziato con quegli assassini mirati continua con la distruzione delle centrifughe atomiche affidata al virus Stuxnet, prosegue nel gennaio 2018 con la clamorosa sottrazione degli archivi nucleari iraniani e culmina lo scorso luglio con le misteriose esplosioni nel sito nucleare di Natanz e in una base missilistica alla periferia di Teheran. Esplosioni che precedono di un mese l'eliminazione a Teheran del numero due di Al Qaida Abu Muhammad Al Masri.
   Ma l'inizio di tutto risale al 10 gennaio 2010. Alle 7,58 di quella mattina Masoud Alimhammadi, un fisico al servizio della Repubblica Islamica viene dilaniato dall'esplosione di una moto-bomba parcheggiata accanto alla sua auto. È solo la prima delle quattro operazioni che da lì al gennaio 2012 costano la vita ad altri tre scienziati (Majid Shahriari, Darioush Rezaeinejad e Mostafa Ahmadi Roshan) responsabili dei progetti sull'atomica iraniana. Con quelle eliminazioni il servizio segreto israeliano istituzionalizza un'attività in territorio iraniano considerata fino ad allora troppo azzardata. A colpire non sono agenti israeliani, ma infiltrati iraniani reclutati tra la vecchia rete clandestina gestita dai Mujaheddin del Popolo, l'organizzazione anti-khomeinista appoggiata a suo tempo da Saddam Hussein. Ma ancor prima di mandare i suoi sicari a Teheran Israele ha già iniziato a colpire in maniera ben più subdola. Nel novembre 2009 i computer di Natanz, cuore delle ricerche nucleari degli ayatollah, impazziscono causando la distruzione di oltre mille centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. E' l'inizio di «Giochi Olimpici» nome in codice della prima vera operazione di guerra cibernetica della storia. Un'operazione realizzata grazie a Stuxnet, un virus cibernetico uscito dai laboratori di Unit 8200, l'unità di guerra cibernetica israeliana, sviluppato in quelli della Cia e transitato nella rete di Natanz dopo il suo inserimento nella chiavetta di uno scienziato iraniano.
   Ma l'operazione più clamorosa, studiata per oltre un anno e realizzata in poco più di sei ore la notte del 31 gennaio 2018, è la sottrazione, nel cuore di Teheran, di mezza tonnellata di documenti che illustrano i progetti per la realizzazione di una testata nucleare lanciabile grazie ai missili iraniani Shahab 3. Documenti che il premier israeliano utilizzerà per smentire gli accordi sul nucleare stretti dal presidente Obama e dalla Repubblica Islamica.
   Ma ancor più micidiale per quanto riguarda la capacità d'Israele di colpire a distanza risultano due «incidenti» della scorsa estate. Il due luglio una devastante esplosione distrugge centinaia di centrifughe nucleari di Natanz bloccando la produzione di uranio arricchito. Un'esplosione provocata inserendosi nei computer della base e facendo esplodere una conduttura di gas all'interno dei laboratori. Un'operazione seguita pochi giorni dopo da un'altra deflagrazione dentro una centrale missilistica alla periferia di Teheran. Niente di sorprendente per un'intelligence israeliana che a gennaio fornì alla Cia le coordinate per l'eliminazione a Baghdad di quel generale Qasem Soleimani, considerato, il vero grande stratega del regime iraniano.

(il Giornale, 15 novembre 2020)


*


L'islam terrorista con le spalle al muro. Il blitz costruito con la pace di Trump

L'accordo di Abramo ha rivoluzionato gli equilibri in Medio Oriente. Sancito dall'eliminazione di Soleimani e di al Masri.

COLTI SUL FATTO
L'azione smaschera l'asse criminale tra Teheran e il gruppo di Bin Laden
NUOVI ORIZZONTI
Anche gran parte del mondo musulmano vuole liberarsi dei fanatici

di Fiamma Nirenstein

I colpi esplosi in una calda notte d'estate, il 7 d'agosto, contro un Renault Bianca uccidendo quello che apparve all'inizio come un professore libanese di nome Habib Daoud e la sua figlia 27enne in un sobborgo di Teheran, quasi non si sentirono nella gran salva di botti che stava scuotendo il Medioriente: le esplosioni frequenti nelle centrali nucleari in Iran, l'immensa, tragica esplosione nel porto di Beirut legata agli Hezbollah, gli amici più intimi del regime degli ayatollah, la rumorosa discussione sull'estensione delle sanzioni all'Iran. I due motociclisti con la mitraglietta in realtà avevano fatto un colpo storico: l'uomo ucciso non era come sembrò nei primi giorni un militante degli Hezbollah ma il numero due di Al Qaida, Abu Muhammad al Masri, «l'Egiziano», il cervello degli attacchi alle ambasciate americane in Africa. Un gruppetto tutto sunnita, la cui presenza a Teheran mostra il nesso fra l'organizzazione terrorista intrisa di sangue occidentale e specialmente americano, e il Paese sciita, in testa alla lista del terrorismo mondiale. Bin Laden, si sostiene, era a suo tempo stato nascosto a Teheran.
   L'ascia fra i due gruppi, la cui violenta guerra religiosa è nota, è stata sotterrata in nome del comune odio senza quartiere per il mondo occidentale, in testa l'America e Israele. Oltre alla maestria consueta e al coraggio incredibile di uomini del Mossad di cui non si saprà il nome, si può solo lodare la fantastica capacità quando l'operazione riesce. Secondo punto importante: Israele ha dimostrato che la sua presenza sul terreno nemico è formidabile, come ha detto Netanyahu agli iraniani: «Sappiamo tutto quello che fate».
   Trump ha certamente in questi anni stabilito con Israele il rapporto che ha consentito questa impossibile operazione: della sua politica internazionale si dicono molte cose contrapposte, ma i gesti legati a Israele sono sostenuti da una logica matematica. Il riconoscimento del Golan ha smontato le ambizioni imperialiste del regime poliziesco e sanguinario del Ba'ath: per esso, Siria, Israele, Libano, sono parte della grande Siria. Trump ha messo un punto a questo motore di violenza regionale, pur uscendo dall'agone militare.
   Ma la cosa di gran lunga più importante è stata smontare la fantasia storicamente nefanda e insostenibile che il popolo ebraico non abbia diritto ad avere la sua capitale a Gerusalemme. È un'ipotesi talmente assurda che si può solo approvare la scelta americana di portare l'ambasciata nella Capitale. Anche Biden non ha espresso nessuna intenzione di spostarla. Infine, gli «accordi di Abramo» sono la cosa più rivoluzionaria per tutto il mondo e per le tre religioni monoteiste che sia mai stata portata a termine in Medioriente.
   Il suo valore consiste nel dimostrare che non c'è nessun conflitto fra il mondo occidentale e il mondo arabo, se non quello ideologico fomentato da gruppi minori. La decisione degli Emirati e del Bahrain è una mossa che rovescia il potere egemonico dell'Islam terrorista, e lo riconduce a un dialogo positivo con noi, ebrei e cristiani, quello che invece al Masri pensava dovesse essere fatto a pezzi e affogato nel sangue.
Come lo pensava anche Qassem Soleimani, il terribile stratega del potere sciita e di un enorme «stato islamico» per strada. La rivelazione del successo nell'operazione al Masri di Israele e Usa insieme è un segnale che gran parte del mondo islamico accoglierà con soddisfazione: aiuta a superare la paura delle organizzazioni terroriste sunnite e fa vedere come anche l'Iran sia un nemico che può essere battuto, e persino giocato sul suo stesso terreno.

(il Giornale, 15 novembre 2020)


Eliade, lemmi dal firmamento israelitico

Jaca Book ripropone il “Dizionario dell'ebraismo”, due tomi estratti dalla imponente "Encyclopedia of Religion" in sedici volumi ideata e curata da Mircea Eliade per MacMillan.

di Roberta Ascarelli

Era già anziano, Mircea Eliade quando decise di realizzare per la MacMillan una monumentale Encyclopedia of Religion in sedici volumi. Doveva essere un'opera universale, resa omogenea dalla convinzione che le religioni non fossero materia gregaria di altre discipline - dalla teologia, alla storia, alla filosofia -, ma un aspetto determinante dell'esistenza umana che irradia potente su ogni suo manifestarsi. Coinvolse allora il gruppo di studiosi che collaborava con lui alla cattedra di Storia delle religioni dell'Università di Chicago e un numero imponente di specialisti reclutati da paesi e orientamenti diversi. «L'enciclopedia sarà davvero internazionale: - scriveva Eliade nella lunga fase di progettazione - parteciperanno esperti da tutti i continenti e, in Europa, inviteremo studiosi dall'Ovest come dall'Est».

 Antiriduzionismo
  L'opera venne completata solo nel 1988, ma alla morte (avvenuta nel 1986) Eliade lasciò una breve, compiaciuta introduzione: di orientamento «ermeneutico e non riduzionistico», l'Encyclopedia è in grado - afferma - di riflettere tutti gli orientamenti «metodologicamente creativi» e storicamente fondati della antropologia culturale, della storia e della fenomenologia.
   Erano riemersi intanto tratti oscuri della sua biografia: le ombre del passato nella «Guardia di ferro», il ruolo modesto, ma non defilato, nell'antisemitismo rumeno, l'atteggiamento opaco nei confronti degli intellettuali ebrei con cui aveva stretto rapporti nella «nuova vita» americana. Gershorn Scholem, l'amico, chiese spiegazioni, si diffusero documenti, critiche, dubbi ma Eliade preferì tacere, aspettando che il silenzio disperdesse i sospetti: parlò di fraintendimenti, cercò di cancellare le tracce, eliminò dai suoi diari inglesi tutte le «note d'ordine strettamente personale, tutte le allusioni agli avvenimenti politici e le indiscrezioni», e pregò il suo «bibliografo» di tralasciare gli articoli che coinvolgessero il suo passato politico.
   L'enciclopedia è parte di questa strategia di cancellazione: un'opera immensa sostenuta da un rigoroso e innovativo impianto metodologico e affidata a intellettuali non collusi con il nazismo e mai apertamente antisemiti.
   Le voci dedicate alla vicenda ebraica «in tutte le diramazioni e componenti», «da Adamo ai giorni nostri» sono trattate con particolare attenzione da questo uomo geniale e «smemorato». Aveva coinvolto Jacob Neusner, specialista di tradizione rabbinica, per ricostruire la vicenda del popolo del patto, e con lui e Kaplan aveva individuato gli esperti da impiegare nella stesura, smussando il suo giudizio sull'ebraismo, una delle religioni, secondo Eliade, «che hanno perduto il contatto con l'idea di Cosmo, "cadendo" nella storia e rassegnandosi alla sua razionalità»: scelte prudenti e tradizionali che orientano senza scandali né sorprese attraverso «voci» ricche di dottrina, riferimenti e competenze.
   Nell'edizione europea della Encyclopedia con cinque volumi che raccolgono i lemmi di impianto generale e cinque sulle «grandi religioni», all'ebraismo è dedicato un tomo ponderoso che, meritoriamente pubblicato nel 2003 da Jaca Book, viene ora riproposto con un nuovo titolo e con un formato più amichevole alla lettura e alla diffusione: Dizionario dell'ebraismo (a cura di Mircea Eliade, 2 voll.: A-I e K-Z, pp. 462 e 474, € 50.00 a volume).

 Verso la chiarificazione
  «C'è un bisogno pressante di conoscere meglio l'ebraismo» scrive nell'introduzione Lawrence E. Sullivan, perché è l'ignoranza che «ha avuto conseguenze negative nelle relazioni tra ebrei e non ebrei».
   Questo processo di chiarificazione e di conoscenza si articola lungo 250 lemmi di tradizione biblica, di storia dell'ebraismo, di norme, esegesi e cultura che ricostruiscono senza scosse interpretative la grande costellazione ebraica: dalla rivelazione alle vicende del mondo, dai personaggi del Libro, a quelli della storia, al dialogo più o meno riuscito con prospettive e filosofie nate dentro e fuori le comunità.

(il manifesto, 15 novembre 2020)


Si rafforza il sistema difensivo di Israele

di Ugo Volli

In questi giorni è stata consegnata alla Marina israeliana la corvetta missilistica "Maghen" ("Scudo"), la prima di una serie di quattro che arriveranno entro l'anno prossimo, cui si aggiungeranno tre nuovi sottomarini in arrivo fra il 2021 e il 2027. "Maghen" è la nave più avanzata delle Forze di Difesa di Israele e probabilmente dell'intero scacchiere mediterraneo orientale, e lo sarà ancor di più dopo che nei prossimi mesi le saranno aggiunti i sistemi d'arma e l'elettronica prodotta in Israele, rendendola pienamente operativa nel 2022. Si tratta di un investimento molto consistente sulla difesa marittima, voluto da Netanyahu anche contro le resistenze dello stato maggiore. Insieme al rinnovamento della flotta aerea con gli aerei invisibili F35 e presto forse anche i più agili F22, e allo schieramento di sistemi antimissile multistadio, questo è un segnale del cambiamento in corso nella difesa di Israele, di fronte alla nuove realtà strategiche. I pericoli per Israele non vengono più, come in passato, dai carri armati dei paesi vicini: anche dalla Siria e dal Libano, i soli nemici terrestri confinanti rimasti tali, gli attacchi possibili sono missilistici, come quelli che potrebbero partire da Iran e Yemen. Essi potranno essere contrastati con gli antimissili e con i bombardamenti aerei e solo dopo e parzialmente neutralizzati dalla conquista terrestre delle basi. La marina deve invece assicurare la sicurezza delle piattaforme petrolifere e contrastare le possibili azioni ostili provenienti dalla Turchia. I sottomarini e anche le nuove navi, grazie alla loro mobilità e alla difficoltà di essere raggiunte, col loro armamento missilistico (forse nucleare) garantiscono una decisiva dissuasione israeliana contro attacchi di sorpresa che potrebbero arrivare dall'Iran e permettono di proteggere le rotte vitali per i rifornimenti. Al di là delle contingenti variabili politiche, nel grande gioco della politica mediorientale non è possibile presentarsi impreparati di fronte alle guerre possibili e bisogna anticipare i pericoli con molti anni d'anticipo. Un lavoro vitale, di cui questa nuova nave è una tappa importante.

(Shalom, 15 novembre 2020)


«Israele: in arrivo nuove navi missilistiche, "le più avanzate al mondo"»


Gaza lancia razzi in Israele, raid dell'esercito israeliano su posizioni di Hamas

L'esercito israeliano ha colpito posizioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in rappresaglia dopo il lancio di alcuni razzi in territorio israeliano da parte del movimento palestinese. Lo affermano diverse fonti.
Secondo quanto riportato, Israele sarebbe stata centrata da due razzi lanciati dal territorio palestinese. Subito dopo, aerei da combattimento, elicotteri e carri armati hanno 'colpito' posizioni di Hamas.
"Attualmente l'esercito israeliano sta valutando la situazione e resta pronto ad avviare azioni decisive contro operazioni terroristiche volte a colpire civili o a violare la sovranità israeliana", viene spiegato in un messaggio.

(swissinfo.ch, 15 novembre 2020)


Un orologio per festeggiare l'accordo Israele-Emirati Arabi Uniti

di Paolo Castellano

 
Morris Weiss, imprenditore ebreo di origine inglese, ha creato un orologio per celebrare lo storico accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. L'oggetto è in edizione limitata ed è provvisto di particolari dettagli che richiamano i colori della bandiera israeliana. Il creatore dell'orologio ha inoltre dichiarato di averlo messo in commercio come "segno d'amore per lo Stato d'Israele".
L'orologio da polso si chiama Israel Designer Watch (IDW) e presenta un fondello trasparente con una numerazione unica, attraverso cui è possibile scorgere il funzionamento e i componenti interni dell'oggetto da collezione. L'orologio è stato inoltre rifinito con parti in acciaio spazzolato e lucido. Nel quadrante spicca una stella di David accompagnata da lancette e rifiniture blu su sfondo bianco: chiaro riferimento ai colori di Israele. Sulla corona a lato dell'oggetto è stata inoltre applicata un'altra stella di David.
Come riporta il Jerusalem Post, l'IDW è un orologio da polso automatico. Ciò significa che non ha bisogno di una batteria ma viene alimentato attraverso i movimenti del polso di chi lo indossa - caratteristica molto apprezzata dagli intenditori.
Morris Weiss è un orologiaio e imprenditore inglese di 29 anni che ha fatto l'Aliya, trasferendosi in Israele. Come ha raccontato alla stampa, la passione per l'orologeria è incominciata al suo Bar Mitzvah.
«Mi piacerebbe vedere l'IDW al polso dei leader mondiali che celebrano l'accordo di pace. Ora sto valutando la possibilità di creare un orologio con la bandiera israeliana e la bandiera degli Emirati Arabi Uniti combinate», ha sottolineato Weiss.

(Bet Magazine Mosaico, 13 novembre 2020)



Invito alla saggezza

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 1
  1. Il timore del SIGNORE è il principio della scienza;
    gli stolti disprezzano la saggezza e l'istruzione.
  2. Ascolta, figlio mio, l'istruzione di tuo padre
    e non rifiutare l'insegnamento di tua madre;
  3. poiché saranno un fregio di grazia sul tuo capo
    e monili al tuo collo.
  1. Il timore del SIGNORE è il principio della scienza;
    gli stolti disprezzano la saggezza e l'istruzione.

    La scienza di cui si parla in questo libro non è un ramo specialistico del sapere che possa essere lasciato agli esperti della materia. Tutti dobbiamo diventare esperti della scienza della vita, perché tutti viviamo. E invece molti, anche se espertissimi in qualche particolare settore delle conoscenze umane, prima o poi rivelano di essere del tutto incompetenti nella vera scienza che conta: quella che insegna a vivere. Ma dov'è che s'impara a vivere? Dov'è che si possono trovare i principi che regolano la vita di ogni uomo? Il principio fondamentale è il timore del Signore, dove per Signore qui si intende il SIGNORE, il Dio che si è rivelato al popolo d'Israele, "il Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe" (At 3.13), "il Padre del nostro Signore Gesù Cristo" (2 Co 1.3). Questo è l'unico, vero Dio, "il SIGNORE, che ha creato i cieli e li ha spiegati, che ha disteso la terra con tutto quello che essa produce, che dà il respiro al popolo che c'è sopra e lo spirito a quelli che vi camminano" (Is 42.5). Chi altri potrebbe spiegare agli uomini le leggi fondamentali che regolano la loro vita se non Colui che ha creato gli uomini e tutto ciò che vive intorno a loro? La saggezza dunque comincia qui: nel temere il Signore, nel nutrirsi delle Sue parole, nel non osare allontanarsi dalle Sue indicazioni, perché il farlo significa allontanarsi dalla vita ed entrare nella zona della morte. Nel mondo si trovano molte persone competenti in tante cose, ma è vano sperare di trovare saggezza nelle cose veramente importanti della vita in coloro che non si preoccupano di conoscere quello che il Signore ha detto, perché se è vero che ogni scienza si fonda su alcuni principi basilari, nella scienza della vita il principio fondamentale è il timore del Signore.
    Ma la Scrittura, che è sempre realistica, avverte che molti non riconosceranno la validità di questo principio. Costoro non vengono presentati come onesti ricercatori di saggezza, rispettabili seguaci di una scuola diversa da quella biblica: il nome con cui vengono indicati è "stolti". Lo stolto del libro dei Proverbi è la stessa persona che in altri libri della Bibbia viene indicato come "peccatore". Infatti il peccatore è uno stolto, perché volendo agire di testa sua, disprezzando la saggezza e l'istruzione contenute nella parola di Dio, si trova poi a fare i conti con quelle leggi della vita che ha voluto trascurare, ma che alla fine inevitabilmente si attuano, e per lui si attuano come leggi di morte. Lo stolto biblico è paragonabile a un pazzo che decide di buttarsi dalla finestra di un grattacielo perché non crede e non vuole tener conto della legge di gravità. Per qualche istante ha l'impressione di volare, ma alla fine deve prendere atto che la legge di gravità effettivamente esiste. Ma per lui è troppo tardi.

  2. Ascolta, figlio mio, l'istruzione di tuo padre
    e non rifiutare l'insegnamento di tua madre;

    Fa parte del piano di Dio che la saggezza arrivi ai figli attraverso i genitori. E' vero che molto spesso questo non avviene, a causa delle mancanze dei genitori, ma questo non modifica la volontà di Dio. Al contrario, molti padri e molte madri dovranno un giorno rendere conto per quello che non hanno detto ai loro figli. Avere un figlio significa ricevere da Dio un incarico, che non consiste soltanto nel dargli cibi, vestiti e soldi, ma anche parole di verità. Prima ancora di essere un'esortazione ai figli, questo versetto è dunque un ammonimento per i genitori, i quali devono ricordare che "l'uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto quello che procede dalla bocca del Signore" (Dt 8.3). E i genitori sono chiamati ad essere la bocca del Signore per i loro figli.
    La parola "Ascolta" che il padre rivolge al figlio è la stessa che Mosè usa per portare la parola di Dio al popolo d'Israele: "Ascolta, Israele, le leggi e le prescrizioni che oggi io proclamo davanti a voi; imparatele e mettetele diligentemente in pratica" (Dt 5.1). Dio vuol dare ai genitori l'autorevole compito di trasmettere ai figli la Sua parola di verità e di grazia, ma poiché "il cuore dell'uomo concepisce disegni malvagi fin dall'adolescenza" (Ge 8.21), bisogna prevedere che i giovani non siano sempre ben disposti a seguire le indicazioni degli anziani. Per questo il figlio viene esortato ad ascoltare l'istruzione del padre e a non rifiutare l'insegnamento della madre. L'istruzione, che comprende la fissazione di norme e l'esercizio della disciplina, riguarda soprattutto il padre; mentre l'insegnamento, che è costituito di discorsi e colloqui, riguarda soprattutto la madre. Viene quindi sottolineata l'autorità di entrambi i coniugi, sia pure nel rispetto delle loro differenze. La donna virtuosa del capitolo 31"apre la bocca con saggezza, e ha sulla lingua insegnamenti di bontà" (31.26). Alla donna compete soprattutto il compito di indicare il bene con la parola convincente, mentre l'uomo deve combattere il male anche con il rimprovero e il castigo: "L'insensato disprezza l'istruzione di suo padre, ma chi tiene conto della riprensione diviene accorto" (15.5).

  3. poiché saranno un fregio di grazia sul tuo capo
    e monili al tuo collo.

    Per un adolescente di oggi è quasi una vergogna far vedere ai compagni che si attiene ai consigli e alle direttive dei genitori. Si pensa che un giovane possa acquistare una sua autonoma personalità soltanto rendendosi indipendente dalle opinioni e dai giudizi dei genitori, che da un certo momento in poi vengono considerati come un potenziale ostacolo al suo sviluppo. Nel piano di Dio è vero l'esatto contrario. La Scrittura avverte:" Figli, ubbidite nel Signore ai vostri genitori, perché ciò è giusto.«Onora tuo padre e tua madre» (questo è il primo comandamento con promessa) «affinché tu sia felice e abbia lunga vita sulla terra»" (Ef 6.1-3). Un figlio che ubbidisce alle parole che il Signore gli fa arrivare attraverso padre e madre si trova sotto una precisa promessa di felicità. Vivendo in armonia con le leggi di Dio, tutta la sua persona sarà armoniosa. La sua grazia interna, paragonabile a un prezioso abbellimento esterno, lo renderà attraente e amabile agli occhi degli altri.
M.C.

 

Gli israeliani comprano il vaccino da Putin

In Israele hanno fretta di uscire dalla pandemia, ma dell'Europa non si fidano troppo. Si trovano meglio con il vaccino russo. Già ordinate 1,5 milioni di dosi . Mentre continua la ricerca per un antidoto fatto in casa.

di Andrea Morigi

 
Gerusalemme ordina 1,5 milioni di dosi dello Sputnik, dopo aver collaborato con i russi alla sperimentazione con i russi e gli americani. Perciò il Centro Medico Hadassah di Gerusalemme ha già ordinato un milione e mezzo di dosi dello Sputnik, il vaccino russo contro il Covid-19, riservandosi la facoltà di ottenerne il doppio. La filiale russa dell'Hassadah ha potuto accertarsi, collaborando alle fasi 1 e 2 della sperimentazione che sul 92% delle "cavie" umane il prodotto, messo a punto nei laboratori del centro di innovazione Skolkovo di Mosca, ha avuto successo riducendo la probabilità di contrarre l'infezione da Coronavirus. È persino meglio del promettente 90% comunicato lunedì scorso dall'azienda farmaceutica Usa Pfizer e dalla tedesca BioNTech. Il problema semmai, fanno notare all'Agenzia europea del farmaco Ema, è che al ritrovato occidentale mancano ancora 2-3 step prima di sottoporre i dati alle autorità e va distribuito alla temperatura di -68°C. Inoltre, la Food and Drug Administration americana richiede almeno due mesi di raccolta dati con risultati positivi su almeno la metà dei pazienti del campione per esaminare una richiesta di autorizzazione urgente.
   Ma questo non ha impedito al premier israeliano Benjamin Netanyahu di firmare un accordo con la Pfizer per acquistarne 8 milioni di dosi, che dovrebbero arrivare in gennaio, consentendo di vaccinare quattro milioni di cittadini poiché ogni persona necessita di due iniezioni. Dovesse andare male, Gerusalemme ha comunque in corso negoziati per acquistare altri vaccini.
   Non per questo si arresterà la sperimentazione in corso nello Stato ebraico, all'ospedale Sheba, del «BriLife» creato a NessZiona dall'Istituto israeliano di ricerca biologica (IIBR), dove è stato iniettato a uno studente volontario di 26 anni. La seconda fase, prevista per dicembre, comprenderà test di sicurezza da condurre su 960 volontari. Nella terza ed ultima fase, in circa sei mesi, sarà testata l'efficacia del vaccino con la partecipazione di un massimo di 30mila volontari.
   Anche a un altro israeliano, un 34enne, è stato somministrato il medesimo vaccino nel Centro Medico Hassadah. Ma il direttore di quest'ultima istituzione, Zeev Rotstein, ritiene che lo Sputnik, già inoculato a decine di migliaia di persone, prometta risultati migliori rispetto ai concorrenti e pertanto ha chiesto al ministero della Sanità israeliana di autorizzarne l'importazione e l'utilizzo non appena la terza e ultima fase dei test si sarà conclusa con successo. L'autorità regolatoria di Mosca, ammette Rotstein al quotidiano Haaretz, non è fra le più esigenti, ma lui stesso conosce funzionari russi che sono stati vaccinati «e non sono cresciute loro le corna. Ora escono senza mascherina» perché «mi hanno detto di aver verificato che il livello degli anticorpi nel loro organismo è alto».
   Del ritrovato dell'università di Oxford in collaborazione con il centro di ricerca Irbm di Pomezia e prodotto dall'anglo-svedese Astra Zeneca, invece, non si parla nemmeno, sebbene sia già in produzione e prenotato dall'Unione Europea in 300-400 milioni di dosi, delle quali 20-25 milioni dovrebbero arrivare a gennaio.
   Il Coronavac della cinese Sinovac risulta invece il più problematico, tanto è vero che l'agenzia del farmaco brasiliana lo ha bloccato «dopo un grave incidente avverso» avvenuto il 29 ottobre durante i trial clinici e ha affermato di non poter fornire dettagli su ciò che è accaduto a causa delle normative sulla privacy, ma che tali incidenti includevano morte, effetti collaterali potenzialmente fatali, grave disabilità, ospedalizzazione, difetti alla nascita e altri «eventi clinicamente significativi». Altri dieci prototipi hanno già raggiunto l'ultima fase prima dell'approvazione. Ma a Gerusalemme non hanno tempo di aspettare solo per dar retta alla propaganda anti-Putin.

(Sputnik Italia, 14 novembre 2020)


Sottovalutato l’impatto degli Accordi di Abramo sulla stabilità del Medio Oriente

Con questa intesa, Emirati Arabi Uniti e Bahrain non legano più i loro rapporti con Israele alla questione palestinese. Ma non è l'unica novità sostanziale: per i Paesi arabi è un'assicurazione sul crollo del prezzo del petrolio legato alla pandemia e su un possibile riavvicinamento degli Stati Uniti di Biden all'Iran.

di Piecamillo Falasca

Occupati dalla crisi del Covid, e di recente dalle turbolenti elezioni americane, in Europa hanno destato meno attenzione del necessario le rapide e incredibili evoluzioni geopolitiche in corso in Medio Oriente. La firma tra agosto e settembre dei cosiddetti Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain - sotto l'egida degli Stati Uniti - per la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi arabi e lo Stato d'Israele rappresenta un tornante della storia da cui difficilmente si tornerà indietro.
   Sebbene il dialogo tra gli emiratini e gli israeliani fosse ormai solo un segreto pubblico, contornato da forme indirette di interazione e partnership economica, la formalizzazione del rapporto apre uno scenario inedito per il futuro economico e politico del Medio Oriente, da cui non si potrà prescindere nel post-Covid.
   A nessuno sfugge che un accordo di questo tipo ha almeno altri tre osservatori interessati, nel bene e nel male: l'Arabia Saudita, l'Iran e la Palestina. Sullo sfondo, poi, ci sono l'Europa e la Cina.
   Simbolicamente, il primo atto pubblico che ha portato alla sigla degli accordi di Abramo è stato un editoriale di metà giugno dell'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba, pubblicato in ebraico sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot, a seguito dell'esplicitazione da parte di Benjamin Netanyahu del piano di annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
   «O è annessione o è normalizzazione», iniziava l'articolo di al-Otaiba, smentendo la tesi più volte usata dal primo ministro d'Israele secondo cui l'annessione non avrebbe messo in pericolo le possibili relazioni con gli Emirati o l'Arabia Saudita. Due mesi dopo quell'editoriale, c'è stato l'annuncio dell'accordo e a metà settembre la stipula in pompa magna a Washington, nelle mani di un raggiante Donald Trump.
   Sul tema dell'annessione le due parti continuano a raccontarsi sfumature diverse (per Israele il tema è congelato, per i nuovi interlocutori arabi è archiviato), ma gli accordi abramitici segnano un cambio di paradigma ormai esplicito: Emirati Arabi Uniti e Bahrain, senza obiezioni sostanziali da parte dell'Arabia Saudita, non condizionano più il loro rapporto con Israele alla soluzione della questione palestinese.
   Non la accantonano, ma decidono di tenerla separata. I fattori che hanno spinto all'accelerazione sono di natura sia economica che geopolitica. Economicamente parlando, la paralisi globale indotta dalla pandemia ha fatto crollare un prezzo del petrolio già basso e ha pesantemente colpito i settori non-oil più promettenti per gli Emirati: il trasporto aereo, la logistica e il turismo.
   Con entrate di bilancio risicate, la transizione verso un'economia della conoscenza e l'attrazione di know how sono obiettivi vitali. La start-up nation, Israele, è il partner ideale per favorire la transizione.
   In ambito geopolitico, il nemico del mio nemico è mio amico: la stipula degli Accordi di Abramo nello scorcio finale di vita dell'amministrazione Trump (che i sondaggi davano già per perdente alle elezioni) è una piccola grande polizza assicurativa rispetto a qualsiasi cambiamento di scenario o di riapertura del dialogo con Teheran.
   Sul tavolo di quel dialogo, a cui l'amministrazione Biden proverà a tornare (ma senza concessioni eccessive al regime degli ayatollah), ora ci sono anche gli accordi di Abramo da tenere in conto. Non sarà poco.
   Emirati Arabi Uniti e Bahrain non saranno gli unici Paesi arabi a normalizzare i propri rapporti con Israele. Il Kuwait e l'Oman potrebbero presto aggiungersi, così come è già avviato il processo di normalizzazione per il Sudan.
   È evidente che tutto ruota intorno all'Arabia Saudita, i cui vincoli politici e religiosi per giungere a un rapporto esplicito con Israele sono chiaramente superiori a quelli dei suoi vicini peninsulari. Ma la strada è ormai tracciata, come dimostra l'apertura dello spazio aereo saudita ai voli da Tel Aviv a Dubai. Anche per Riyad la diversificazione industriale ed economica passa per un rapporto con Israele e per la creazione di un mercato regionale privo di barriere politiche e ideologiche.
   Non sono tutte rose e fiori, ovviamente. Prima di tutto, la questione palestinese non scompare. Anzi, nuove tensioni sociali potrebbero emergere, se dovesse prevalere una sensazione di tradimento da parte dei propri cugini arabi. Sarà cruciale che la diplomazia intra-araba funzioni e che i palestinesi abbiano un dividendo indiretto dal nuovo scenario.
   Se provassero a beneficiare economicamente e politicamente della situazione (magari evitando di opporsi agli accordi di Abramo, come imprudentemente hanno fatto i deputati arabi della Knesset), forse sarebbe più facile. È un tema che sia Israele che i suoi nuovi partner dovranno porsi.
   
(Linkiesta, 14 novembre 2020)


Israele, Iran, Siria, Hezbollah: la politica estera di Kamala Harris in meno di due minuti

Dal momento in cui Kamala Harris è stata presentata come candidata alla vicepresidenza per il Partito Democratico ad agosto, Donald Trump e il Partito Repubblicano hanno lanciato una campagna nel tentativo di etichettarla come un politico "radicale" che avrebbe attirato Joe Biden all'estrema sinistra.
Scegliendo Harris, Trump ha detto ai suoi sostenitori in una manifestazione di settembre, Biden aveva stretto un'"ampia alleanza con gli elementi più estremi e pericolosi della sinistra radicale". Kamala Harris è sul palcoscenico nazionale solo dal 2017, ma le posizioni che ha assunto nei suoi tre anni come senatrice la collocano piuttosto esattamente nel campo più filo-israeliano del suo partito.
Nel giugno 2017, Harris ha votato per una risoluzione approvata all'unanimità per celebrare il 50° anniversario della Guerra dei Sei Giorni del 1967. La risoluzione esprimeva sostegno alla legislazione del 1995 che considera Gerusalemme la "capitale indivisa di Israele". Ma è in un discorso all'Aipac che la Harris sintetizza le sue posizioni alla perfezione. Video.

(l'AntiDiplomatico, 14 novembre 2020)


Inchiesta del NYT: il numero 2 di Al Qaeda assassinato a Teheran da agenti israeliani

WASHINGTON - Il numero 2 di Al Qaeda, accusato di essere una delle menti principali degli attacchi mortali del 1998 alle ambasciate americane in Africa, è stato ucciso in Iran tre mesi fa. Lo hanno confermano al New York Times i servizi segreti. Il quotidiano americano pubblica con ampio rilievo questa mattina un articolo investigativo al quale hanno lavorato ben sei giornalisti: Adam Goldman ed Eric Schmitt da Washington, Farnaz Fassihi da New York e Ronen Bergman da Tel Aviv. Inoltre Hwaida Saad ha contribuito con un reportage da Beirut e Julian E. Barnes da Washington.
   
Il New York Times racconta che Abdullah Ahmed Abdullah, che si faceva chiamare con il nome di battaglia di Abu Muhammad al-Masri, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco per le strade di Teheran da due assassini che a bordo su una motocicletta il 7 agosto, anniversario degli attentati alle ambasciate di Nairobi e di Dar es Salaam, hanno affiancato la sua automobile. È stato ucciso insieme a sua figlia, Miriam, la vedova del figlio di Osama bin Laden, Hamza bin Laden.
   Quattro fonti diverse hanno spiegato al Times che l'attacco è stato compiuto da agenti israeliani su ordine di Washington.. Non è chiaro quale ruolo abbiano avuto gli Stati Uniti, che per anni hanno seguito i movimenti di al-Masri e di altri agenti di Qaeda in Iran.
   L'omicidio è avvenuto in un mondo talmente nascosto e segreto fatto di intrighi geopolitici e di spionaggio antiterrorismo; la morte di al-Masri (che in arabo significa "L'Egiziano") era stata annunciata, ma mai confermata fino ad ora. Per ragioni ancora oscure, Al Qaeda non ha comunicato la morte di uno dei suoi massimi dirigenti, i funzionari iraniani l'hanno insabbiata e nessun Paese ne ha rivendicato pubblicamente la responsabilità.
   Al-Masri, che aveva circa 58 anni, era uno dei padri fondatori di Al Qaeda e si pensa fosse il secondo in comando a guidare l'organizzazione terroristica internazionale dopo il suo attuale leader, Ayman al-Zawahri.
   A lungo inserito nella lista dei terroristi più ricercati dell'FBI, era stato incriminato negli Stati Uniti per crimini legati agli attentati dinamitardi delle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, nei quali rimasero uccise 224 persone e ferite centinaia. L'FBI ha offerto una ricompensa di 10 milioni di dollari per le informazioni su di lui. Fino a ieri la sua foto campeggiava ancora nella lista dei ricercati. nel sito dell'FBI.
   
(Africa Express, 14 novembre 2020)


Antisemitismo, torna in Germania

Questa volta è alimentato, nelle scuole, da troppi ragazzi provenienti dal Medio Oriente. Si parla di «mobbing religioso».

di Roberto Giardina

Ogni anno viene scelta Das Unwort, la non parola, da non tradurre con parolaccia, come si sarebbe tentati, spesso un neologismo: nel 2019, è stata Klimahysterie, nel 2017 Alternative Fakten, nel 2014 Lügenpresse, cioè stampa bugiarda, i lettori non apprezzano l'autocensura dei mass media soprattutto per quanto riguarda i problemi dell'emigrazione. Basta essere critici, o preoccupati, e si viene accusati di razzismo.
   Il film andato in onda in prima serata sullo Zdf, il secondo canale tv pubblico tedesco, il 9 novembre aveva il titolo «Das Unwort», cioè antisemitismo. Una non parola particolare perché è un tabù, e non si osa pronunciarla, 75 anni dopo la fine del Reich nazista. I tedeschi non vogliono scoprire che l'antisemitismo è ancora presente in Germania. Il 9 novembre dell"89 cadde il muro di Berlino, ma il 9 novembre del `38 è passato alla storia come «la notte dei cristalli», vennero date alle fiamme le sinagoghe, devastati i negozi degli ebrei.
   Una tragicommedia, viene definita nel programma, un'ora e mezza per raccontare la realtà nelle scuole di Berlino, la metropoli multikulti. Quasi un terzo dei berlinesi ha radici straniere, sono immigrati, o figli di profughi nati in Germania. Racconta abbastanza bene quanto avviene nelle scuole di Berlino. E una specie di antologia di fatti veri: sono diversi infatti i ragazzi ebrei che hanno abbandonato le scuole pubbliche, alcuni genitori li hanno spediti da parenti in Israele. E agli ebrei si consiglia di non farsi riconoscere come tali per strada in alcuni quartieri si è trasformata in un incubo, e la situazione è sfuggita di controllo dopo l'arrivo di molti profughi in breve tempo a partire dal 2015, quando Angela Merkel non chiuse le frontiere. In alcuni quartieri, in classe si ritrovano studenti di una dozzina di nazionalità diverse, i tedeschi sono spesso appena un paio.
   Il regista Leo Hashin, autore anche della sceneggiatura, ha ambientato il film in un liceo del Westend, un quartiere borghese, i ragazzi appartengono a famiglie di un ceto medio alto. Non è una zona calda della metropoli. Un giorno la professoressa legge in classe alcuni brani del «Diario di Anna Frank». Il quindicenne Max fa outing e rivela: io sono ebreo.
   Da quel giorno perde gli amici, viene mobbizzato, attaccato ogni giorno, finché si ribella: morde un orecchio a Karim e rompe il naso a Reza. La vittima si trasforma in colpevole, la prima reazione del preside è di espellere Max. I genitori si ribellano: perché il loro figlio deve lasciare il miglior liceo di Berlino, e non Karim o Reza?
   La professoressa non sa che fare, il preside teme per la sua carriera: la parola antisemitismo non deve neanche essere pronunciata nella sua scuola, si tratta di normali zuffe di ragazzi. Il padre di Karim è palestinese, la madre di Reza iraniana, e la madre di Max se protesta viene accusata di antislamismo, di razzismo. Il preside vuole rinchiudere i ragazzi ebrei durante la pausa nell'aula di chimica per evitare nuovi incidenti. Come in un ghetto?
   Felix, un altro ragazzo ebreo, si ritira e viene iscritto in una scuola ebraica. I professori cercano di giustificare i ragazzi musulmani: è la loro tipica cultura maschilista, pensate al Medio Oriente, si sentono vittime. A Max urlano: «Voi ebrei mangiate bambini», «Hitler aveva ragione», le solite frasi.
   Nonostante le intenzioni del regista, «Das Unwort» non riesce a trovare i toni da commedia, non bastano i litigi tra genitori durante le riunioni scolastiche. Ma racconta abbastanza bene quanto avviene nelle scuole di Berlino. E' una specie di antologia di fatti veri: sono diversi i ragazzi ebrei che hanno abbandonato le scuole pubbliche, alcuni genitori li hanno spediti da parenti in Israele. Le autorità scolastiche, per non parlare di antisemitismo, preferiscono registrare gli incidenti come risultato di «mobbing religioso». E agli ebrei si consiglia di non farsi riconoscere come tali per strada in alcuni quartieri.
   Il giorno dopo la trasmissione del filmato, un bambino arabo di undici anni ha minacciato la professoressa di tagliarle la testa, «come fanno in Francia». Le autorità scolastiche della capitale non hanno protestato contro il film. Da anni, si giustificano, a scuola invitiamo ospiti a spiegare la Shoa, e si invitano i ragazzi a riflettere, e a superare le divisioni dei genitori. A quanto pare, senza grandi risultati. Il film è visibile fino al novembre del `21 nella mediathek dello Zdf, e potrebbe essere visto a scuola nei computer di classe.
   
(ItaliaOggi, 14 novembre 2020)


La scommessa di 'Israele 360': un'informazione senza politica

di Tommaso Meo

ROMA - Parlare di Israele senza parlare di politica è possibile? Secondo Gabriele Bauer, fondatore e curatore del progetto Israele 360, la risposta è "sì". Progetto tutto italiano, nato come pagina Facebook nel 2013 e presente ora sui diversi canali social, Israele 360 ha da poco anche un sito internet. L'obiettivo però è sempre lo stesso: "Raccontare cosa succede in questo piccolo Paese, trattando di cultura, innovazione, cucina e vita di tutti i giorni". Tutto a eccezione dell'attualità politica, tanto presente - e pressante - nella vita degli Israeliani, spiega Bauer, che e' nato e cresciuto a Milano ma dal 2010 vive e lavora a Tel Aviv.
   "Mi sono accorto che le notizie che riguardavano Israele erano sempre di taglio politico e lo identificavano soprattutto per la questione palestinese" dice Bauer. "Vivendoci, mi sono reso conto di quanto sia invece un Paese con molti aspetti positivi da raccontare". I motivi della scelta editoriale sono pero' anche altri. "Ho pensato che di informazione politica su Israele ce ne fosse gia' troppa e non volevo essere identificato come uno dei tanti che, anche dall'Italia, ne scriveva" sottolinea l'ideatore del progetto: "Non mi avrebbe caratterizzato e non avrebbe aggiunto nulla in piu' a quello che volevo raccontare io".
Bauer dice di non interessarsi di politica, "a Milano come a Tel Aviv". Il sito ospita in effetti notizie su startup e tecnologia, approfondimenti su eventi culturali e consigli turistici e, assicura il fondatore, "finora il progetto ha avuto successo".
   "Per il prossimo anno puntiamo a produrre più contenuti originali" continua Bauer. "Durante il lockdown italiano abbiamo iniziato a fare alcune dirette da Tel Aviv che hanno avuto un grande ascolto. Molti si sono avvicinati così". Ad apprezzare il progetto non sarebbero solo italiani o persone di religione ebraica. Dati alla mano, Bauer dice che sito e pagina "sono seguiti in tutto il mondo, soprattutto in Europa, ma anche in Sudamerica".
   La sensazione è che ci si perda molto di quello che succede in Israele se si ha negli occhi solo il conflitto mediorientale con i palestinesi. Quello che il progetto racconta non e' un Paese senza problemi, ma comunque una realtà più aperta e inclusiva di cio' che traspare spesso sulla stampa, in qualche caso anzi pure all'avanguardia. "Si parla poco dei veicoli a guida autonoma e delle rinnovabili su cui si sta investendo molto" dice Bauer. "Così come forse non sono molto conosciute le centrali di desalinizzazione di acqua marina o le startup che sviluppano sistemi per fornire acqua dove è scarsa. Israele è inoltre il primo Paese al mondo per numero di vegani e in cui questo tipo di cultura salutare è all'avanguardia".
   Fare un'informazione su Israele che non risente dell'attualita' politica sarebbe pero' possibile anche in un'altra città, lontano da Tel Aviv, metropoli multiculturale? "Credo che sarei andato avanti anche vivendo altrove" risponde Bauer. "Tel Aviv pero' e' in effetti il centro tecnologico e laico di Israele e da qui e' piu' facile: sono a contatto con una realta' diversa, molto aperta".

(Dire, 13 novembre 2020)


l virus? «Ebrei, cristiani o musulmani dobbiamo solo fare in fretta»

L'emergenza negli ospedali di Tel Aviv. E nelle zone ultraortodosse nessuno ha la mascherina.

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - «Quando ci si trova in sala rianimazione, con i minuti contati, poco importa da dove si arriva, che lingua si parla e che religione si pratica. Bisogna fare in fretta. Punto». David Dozed è medico nel reparto Covid dell'ospedale Tel HaShomer di Tel Aviv. Da settimane non ha un attimo di riposo: turni massacranti, per lui come per il resto del personale. Che arriva da tutta Israele: ebrei, musulmani, cristiani, drusi, beduini. Esattamente come i malati.
   Il virus non fa differenze, lo staff medico nemmeno. Nelle terapie intensive come negli altri reparti. Ieri in ginecologia è nata Lea. È figlia di Elena, un'italiana, da tre anni in Israele, che è stata ricoverata e accompagnata al cesareo - tra estenuanti misure di sicurezza per i protocolli sanitari anti-Covid da un chirurgo ebreo, un caposala musulmano e un anestesista cristiano. «Sono lontana dall'Italia e dai miei cari. Eppure, anche in un momento tanto drammatico, questa esperienza in ospedale sarà per me uno dei ricordi più belli legati a questo Paese». Fuori, sul lungomare solitamente affollato di turisti, monopattini e biciclette, ci sono solo piccoli gruppi di colleghi, amici, famiglie. Come previsto dalle linee guida: dieci persone al massimo e la possibilità di consumare qualcosa in un take away, visto che i ristoranti sono chiusi dallo scorso 19 Settembre. Da quando, in concomitanza del Capodanno ebraico, e avendo registrato un'impennata di contagi, Israele, primo Paese al mondo, ha cominciato il suo secondo, durissimo, lockdown. Da allora, la strada che porta a Bnei Brak, una delle più grandi cittadine ultraortodosse, che confina con Tel Aviv, è praticamente deserta, poiché quella è "zona rossa". Per passare servono permessi speciali. Chani, che fa la maestra d'asilo, deve farsene rilasciare uno ogni giorno dal Ministero dell'Educazione. Sopra, alla voce "motivazioni del viaggio" c'è scritto: «Prima necessità». Perché la scuola, qui, viene prima di tutto. Hanno riaperto appena si è intravista una possibilità. Dallo scorso 19 ottobre, quando il lockdown è terminato, dopo un mese serratissimo, asili ed elementari sono una delle pochissime istituzioni a essere tornate alla normalità. Mentre scuole medie, superiori e università hanno attivato l'intero anno scolastico 2020-2021 in modalità online.
   Sono aperti i luoghi di culto e le yeshivah. A Bnei Brak come nel resto del Paese. I bambini si muovono in sciame per le strade, come sempre. E, come sempre, gli adulti entrano ed escono in fretta da abitazioni e negozi: nessuno indossa la mascherina. E sì che, all'inizio della pandemia, era stata proprio la loro ostinazione a non riconoscere l'esistenza di un problema sanitario ad aver fatto delle enclavi haredim dei focolai del virus. E sì che proprio qui si è registrato il numero più alto di morti. E di persone contagiate. Persone finite poi negli ospedali come il Tel HaShomer. Distante pochi chilometri, ma ad anni luce da qui.

(Avvenire, 13 novembre 2020)


Gli avocado israeliani beneficiano di un mercato europeo vuoto

di Jordi Fijnheer

 
Israele invia grandi quantità di mango e avocado in Europa. Tuttavia Jordi Fijnheer, sales manager dell'azienda olandese FruitPro, ha notato che quest'anno non è il migliore per nessuno dei due prodotti. Il Paese è stato colpito da ondate di caldo che hanno prodotto volumi insoddisfacenti. "E' stato un anno di pausa sia per i mango che per gli avocado. Ma a causa della carenza sul mercato, c'è molta richiesta di avocado".
   "Stiamo già utilizzando frutti giovani per ricaricare i volumi di Hass e degli avocado greenskin (a buccia verde, ndt) sul mercato europeo. E' una situazione completamente diversa rispetto allo scorso anno. Abbiamo dovuto lavorare sodo per creare la domanda per i nostri avocado israeliani. Ora siamo in una buona posizione e dobbiamo solo soddisfare la forte richiesta, in parte dovuta al coronavirus e alle rese inferiori".
   FruitPro collabora con la Galilee Export in Israele e fornisce un assortimento di prodotti israeliani come agrumi, melagrane, avocado e mango. "Di tutti i prodotti, gli avocado israeliani sono in testa alla lista in termini di volume. Israele è il maggiore produttore, come possiamo vedere tra le altre cose, dall'aumento dell'area di coltivazione. Inoltre, sempre più produttori aderiscono ogni anno alla Op Galilee Export, poiché desiderano esportare avocado in altri mercati".
   "La stagione israeliana va da settembre ad aprile per le varietà a buccia verde, e da dicembre a maggio per gli Hass. La varietà israeliana Ettinger è destinata principalmente ai mercati dell'Europa orientale e della Russia. La varietà Hass è destinata al mercato dell'Europa occidentale. Al di fuori di queste stagioni, integriamo la nostra gamma con gli avocado provenienti dal Sud America e dall'Africa, in modo da poter rifornire i clienti tutto l'anno".
   Secondo Fijnheer, il punto di forza di Israele è la sua stagione di commercializzazione. "Tra novembre e marzo, ci sono effettivamente poche alternative sul mercato. Il mercato europeo dipende quindi dalla regione mediterranea. Israele fornisce grandi volumi di avocado, melagrane e agrumi e arriva sul mercato leggermente prima del suo concorrente, la Spagna". A causa dei vantaggi nel trasporto, la Spagna può spesso vendere i suoi prodotti a un prezzo inferiore rispetto a Israele. "I nostri prodotti superano quelli spagnoli in termini di volume e qualità", continua Fijnheer.
   Sebbene la superficie coltivata ad avocado sia in aumento, quella dei mango rimane stabile. "Israele può essere molto più competitivo sul mercato globale dell'avocado, rispetto a quello del mango dove si crea una sovrapposizione con altri Paesi. Oltre alle famose varietà Kent e Keith, ci sono anche molte altre grandi varietà come Omer, Shelly e Maya. Con il loro colore scuro, sono molto accattivanti".
   Quando si tratta di raccogliere, imballare e spedire i suoi prodotti, FruitPro ha riscontrato pochissimi ostacoli dovuti al Covid-19. "I volumi sono arrivati come sempre. Ma non siamo riusciti a rispettare i nostri accordi con i coltivatori israeliani. Fortunatamente, le esportazioni israeliane sono ben organizzate. Nei Paesi Bassi, gli avocado possono ancora essere confezionati a richiesta in flow pack, casse o reti. La domanda di avocado ready-to-eat rimane però invariata. Siamo anche impegnati a commercializzare il nostro marchio, Favor", conclude Fijnheer.

(Freshplaza.it, 13 novembre 2020)


La Knesset vuole comportarsi meglio

Settanta tra membri della Knesset e ministri del governo israeliano hanno dichiarato che si sforzeranno di essere più rispettosi l'uno con l'altro e daranno un taglio agli attacchi personali. La promessa è stata siglata sotto forma di "patto di rispetto reciproco", firmato alla presenza del Presidente d'Israele Reuven Rivlin. L'accordo è stato promosso dal parlamentare di Shas Moshe Arbel e dal ministro di Kachol Lavan Michael Bitono, Un gesto simbolico che rappresenta un piccolo tentativo di cambiare l'aria che si respira alla Knesset, tra accuse e diffidenze. "Le dispute sono state usate come armi politiche dai partiti per ottenere voti - ha detto Rivlin - Questo meraviglioso patto che state stringendo mira a porre fine a tutto questo. Quando ci sono controversie, devono essere risolte con rispetto". "L'obiettivo del patto non è quello di porre fine ai nostri disaccordi, alle critiche e alle diverse prospettive, che sono necessari in una democrazia", ha spiegato Arbel. "II suo obiettivo è quello di mantenere il rispetto reciproco anche durante il corso delle nostre aspre divergenze di opinioni, mentre lottiamo per i nostri principi, ma senza provocare odio e fratture".
Difficile pensare che l'intesa abbia una vera efficacia: tra Kachol Lavan e Likud, i partiti principali della maggioranza, continuano a volare stracci. Il parlamentare del Likud Miki Zohar in particolare si è distinto per aver attaccato e minacciato di ritorsioni politiche avversari e alleati. Ma non è l'unico a giocare in questo modo. La polarizzazione politica all'interno della Knesset e del paese è molto forte. E gli attacchi contro i manifestanti anti-Netanyahu da parte di altri manifestanti della destra, così come le violenze contro la polizia e della polizia sono la dimostrazione che non solo la politica deve abbassare i toni. Ma l'intero paese.

(Pagine Ebraiche, novembre 2020)


Su Iran e Israele Biden vuol tornare ai disastri di Obama

di Michael Sfaradi

Amos Hochstein, esponente del Partito Democratico al Congresso degli Stati Uniti, che ha prestato servizio nell'amministrazione Obama sotto i Segretari di Stato Clinton e Kerry, e che attualmente è uno dei principali aiutanti di Joe Biden, durante un'intervista con l'emittente televisiva israeliana Channel 12 ha affermato che la nuova amministrazione rientrerà nell'accordo nucleare iraniano con le potenze mondiali subito dopo l'insediamento del prossimo 20 gennaio.

 L'Iran e il nucleare
  Hochstein ha affermato che rientrare nel Piano d'Azione globale congiunto (Jcpoa) è per Biden una priorità assoluta da raggiungere durante il suo mandato di presidente. "Credo che nei primi mesi della sua presidenza lo vedremo rientrare pienamente nell'accordo che chiamerei 'Jcpoa-meno', il che significa revocare le sanzioni in cambio della sospensione di alcuni dei programmi nucleari iraniani sviluppati negli ultimi tre anni ". Sempre secondo Hochstein, Biden potrebbe cercare di apportare alcune modifiche all'accordo, modifiche che però non sono state specificate.
   Il Jcpoa è stato originariamente firmato nel luglio 2015, ma durante l'amministrazione Trump, per la precisione nel 2018, gli Stati Uniti si sono ritirati dal patto. Hochstein nelle sue dichiarazioni sembra dimenticare, e se lo fa, lo fa volutamente, i documenti che sono stati sottoposti a tutti i servizi di Intelligence statunitensi, sui quali c'erano le prove che nonostante gli accordi la parte militare del programma nucleare iraniano era tutt'altro che ferma. Ad aggiungere benzina al fuoco, è proprio di questi giorni l'allarme dell'Aiea che per la prima volta ha trovato tracce di uranio artificiale in un sito non dichiarato. Allarme che ha fatto scaturire un monito di Francia, Germania e Gran Bretagna, potenze che non avendo lasciato l'accordo ne chiedono il pieno rispetto.

 La questione israelo-palestinese
  Per quanto riguarda la ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi, Hochstein ha detto che Biden vede la soluzione dei due Stati come preferibile a quella dello Stato unico, ma se proseguirà lo stallo sarà inevitabile una trasformazione di Israele in una nazione unica per arabi ed ebrei. Se davvero Biden pensa di trasformare Israele in uno Stato dove arabi e israeliani possano vivere in pace fra loro, sogna. E il suo sogno è un incubo che trasformerebbe la regione in un campo di battaglia dove ci sarebbe un sanguinoso tutti contro tutti: esattamente quello che si è cercato di evitare dal 1948 ad oggi, quando la separazione fra arabi ed ebrei fu decisa dalla Società delle Nazioni al momento della divisione del Protettorato britannico di Palestina. Divisione che portò alla creazione del regno di Giordania e di Israele.

 Scenario inquietante
  Qualcuno dovrebbe informare lui e i suoi consiglieri di questo particolare non da poco. Domenica scorsa, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha detto che la prossima amministrazione americana ha l'opportunità di compensare i suoi errori e ha segnalato la speranza che Usa e Iran possano ricalibrare il loro rapporto. Queste dichiarazioni non fanno altro che rinnovare uno scenario che abbiamo già visto fallire durante gli otto anni dell'amministrazione Obama, scenario che oltre ad aver scaldato molti fronti e tramutato le 'primavere arabe' in algidi inverni, ha visto arrivare al potere in alcune nazioni le peggiori dittature e far crollare i fragili equilibri sui quali si basava la calma relativa che teneva tranquilla la regione.
   Scenario che ha dato il via a troppe guerre e che ha lasciato dietro di sé una scia di sangue difficile da dimenticare e impossibile da perdonare. Scenario che durante l'era Obama vide i più importanti alleati degli Usa, soprattutto in Medioriente, come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Bahrein e Israele, allontanarsi da Washington e mantenere i rapporti al minimo sindacale. Gli stessi alleati che durante la presidenza Trump hanno, ufficialmente e non, normalizzato fra loro i rapporti diplomatici.
   Se Biden entrerà alla Casa Bianca e se rientrerà nel trattato Jcpoa vedremo nuovamente Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Israele prendere le distanze, e se durante Obama lo fecero alla spicciolata, è facile prevedere che in questa seconda ondata lo faranno in blocco. Questo perché, inutile girarci intorno, il mondo sunnita teme l'atomica sciita molto più dello Stato Ebraico per il semplice fatto che, al contrario di Israele, è completamente sguarnito di sistemi di difesa antimissilistica.
   Se a questo aggiungiamo che il 12 novembre la Tv iraniana ha riportato la notizia che Teheran, in barba alla risoluzione dell'Onu 1701 che prevede il disarmo di Hezbollah, ha fornito alla milizia sciita in Libano un gran numero di missili Fateh-110 insieme ad altri missili balistici antinave, e che in precedenza Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, aveva affermato che se necessario avrebbero colpito il reattore nucleare di Dimona in Israele proprio con i missili 'Fateh-110', che hanno un raggio d'azione di oltre 300 chilometri, ci rendiamo conto che, nonostante Biden stia ancora a casa sua, i venti di guerra si stanno già alzando.
   La vendita di missili a Hezbollah da parte dell'Iran non è una novità, ma è la prima volta che Teheran lo afferma pubblicamente. Il portale online Axios ha riferito domenica che l'amministrazione Trump sta pianificando una raffica di sanzioni contro l'Iran prima della fine del suo mandato, il che potrebbe mettere in crisi Biden ancora prima che metta piede nello Studio Ovale. Potrebbe però anche nascondere un piano per dare un colpo definitivo al programma nucleare iraniano prima di una eventuale uscita di Trump dallo Studio Ovale.

(Nicola Porro, 13 novembre 2020)


l virus? «Ebrei, cristiani o musulmani dobbiamo solo fare in fretta»

L'emergenza negli ospedali di Tel Aviv. E nelle zone ultraortodosse nessuno ha la mascherina.

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - «Quando ci si trova in sala rianimazione, con i minuti contati, poco importa da dove si arriva, che lingua si parla e che religione si pratica. Bisogna fare in fretta. Punto». David Dozed è medico nel reparto Covid dell'ospedale Tel HaShomer di Tel Aviv. Da settimane non ha un attimo di riposo: turni massacranti, per lui come per il resto del personale. Che arriva da tutta Israele: ebrei, musulmani, cristiani, drusi, beduini. Esattamente come i malati.
   Il virus non fa differenze, lo staff medico nemmeno. Nelle terapie intensive come negli altri reparti. Ieri in ginecologia è nata Lea. È figlia di Elena, un'italiana, da tre anni in Israele, che è stata ricoverata e accompagnata al cesareo - tra estenuanti misure di sicurezza per i protocolli sanitari anti-Covid da un chirurgo ebreo, un caposala musulmano e un anestesista cristiano. «Sono lontana dall'Italia e dai miei cari. Eppure, anche in un momento tanto drammatico, questa esperienza in ospedale sarà per me uno dei ricordi più belli legati a questo Paese». Fuori, sul lungomare solitamente affollato di turisti, monopattini e biciclette, ci sono solo piccoli gruppi di colleghi, amici, famiglie. Come previsto dalle linee guida: dieci persone al massimo e la possibilità di consumare qualcosa in un take away, visto che i ristoranti sono chiusi dallo scorso 19 Settembre. Da quando, in concomitanza del Capodanno ebraico, e avendo registrato un'impennata di contagi, Israele, primo Paese al mondo, ha cominciato il suo secondo, durissimo, lockdown. Da allora, la strada che porta a Bnei Brak, una delle più grandi cittadine ultraortodosse, che confina con Tel Aviv, è praticamente deserta, poiché quella è "zona rossa". Per passare servono permessi speciali. Chani, che fa la maestra d'asilo, deve farsene rilasciare uno ogni giorno dal Ministero dell'Educazione. Sopra, alla voce "motivazioni del viaggio" c'è scritto: «Prima necessità». Perché la scuola, qui, viene prima di tutto. Hanno riaperto appena si è intravista una possibilità. Dallo scorso 19 ottobre, quando il lockdown è terminato, dopo un mese serratissimo, asili ed elementari sono una delle pochissime istituzioni a essere tornate alla normalità. Mentre scuole medie, superiori e università hanno attivato l'intero anno scolastico 2020-2021 in modalità online.
   Sono aperti i luoghi di culto e le yeshivah. A Bnei Brak come nel resto del Paese. I bambini si muovono in sciame per le strade, come sempre. E, come sempre, gli adulti entrano ed escono in fretta da abitazioni e negozi: nessuno indossa la mascherina. E sì che, all'inizio della pandemia, era stata proprio la loro ostinazione a non riconoscere l'esistenza di un problema sanitario ad aver fatto delle enclavi haredim dei focolai del virus. E sì che proprio qui si è registrato il numero più alto di morti. E di persone contagiate. Persone finite poi negli ospedali come il Tel HaShomer. Distante pochi chilometri, ma ad anni luce da qui.

(Avvenire, 13 novembre 2020)


Gli avocado israeliani beneficiano di un mercato europeo vuoto

di Jordi Fijnheer

 
Israele invia grandi quantità di mango e avocado in Europa. Tuttavia Jordi Fijnheer, sales manager dell'azienda olandese FruitPro, ha notato che quest'anno non è il migliore per nessuno dei due prodotti. Il Paese è stato colpito da ondate di caldo che hanno prodotto volumi insoddisfacenti. "E' stato un anno di pausa sia per i mango che per gli avocado. Ma a causa della carenza sul mercato, c'è molta richiesta di avocado".
   "Stiamo già utilizzando frutti giovani per ricaricare i volumi di Hass e degli avocado greenskin (a buccia verde, ndt) sul mercato europeo. E' una situazione completamente diversa rispetto allo scorso anno. Abbiamo dovuto lavorare sodo per creare la domanda per i nostri avocado israeliani. Ora siamo in una buona posizione e dobbiamo solo soddisfare la forte richiesta, in parte dovuta al coronavirus e alle rese inferiori".
   FruitPro collabora con la Galilee Export in Israele e fornisce un assortimento di prodotti israeliani come agrumi, melagrane, avocado e mango. "Di tutti i prodotti, gli avocado israeliani sono in testa alla lista in termini di volume. Israele è il maggiore produttore, come possiamo vedere tra le altre cose, dall'aumento dell'area di coltivazione. Inoltre, sempre più produttori aderiscono ogni anno alla Op Galilee Export, poiché desiderano esportare avocado in altri mercati".
   "La stagione israeliana va da settembre ad aprile per le varietà a buccia verde, e da dicembre a maggio per gli Hass. La varietà israeliana Ettinger è destinata principalmente ai mercati dell'Europa orientale e della Russia. La varietà Hass è destinata al mercato dell'Europa occidentale. Al di fuori di queste stagioni, integriamo la nostra gamma con gli avocado provenienti dal Sud America e dall'Africa, in modo da poter rifornire i clienti tutto l'anno".
   Secondo Fijnheer, il punto di forza di Israele è la sua stagione di commercializzazione. "Tra novembre e marzo, ci sono effettivamente poche alternative sul mercato. Il mercato europeo dipende quindi dalla regione mediterranea. Israele fornisce grandi volumi di avocado, melagrane e agrumi e arriva sul mercato leggermente prima del suo concorrente, la Spagna". A causa dei vantaggi nel trasporto, la Spagna può spesso vendere i suoi prodotti a un prezzo inferiore rispetto a Israele. "I nostri prodotti superano quelli spagnoli in termini di volume e qualità", continua Fijnheer.
   Sebbene la superficie coltivata ad avocado sia in aumento, quella dei mango rimane stabile. "Israele può essere molto più competitivo sul mercato globale dell'avocado, rispetto a quello del mango dove si crea una sovrapposizione con altri Paesi. Oltre alle famose varietà Kent e Keith, ci sono anche molte altre grandi varietà come Omer, Shelly e Maya. Con il loro colore scuro, sono molto accattivanti".
   Quando si tratta di raccogliere, imballare e spedire i suoi prodotti, FruitPro ha riscontrato pochissimi ostacoli dovuti al Covid-19. "I volumi sono arrivati come sempre. Ma non siamo riusciti a rispettare i nostri accordi con i coltivatori israeliani. Fortunatamente, le esportazioni israeliane sono ben organizzate. Nei Paesi Bassi, gli avocado possono ancora essere confezionati a richiesta in flow pack, casse o reti. La domanda di avocado ready-to-eat rimane però invariata. Siamo anche impegnati a commercializzare il nostro marchio, Favor", conclude Fijnheer.

(Freshplaza.it, 13 novembre 2020)


Israele, scoprire i kibbutz tra tradizione e innovazione

 
SOTTOTITOLO
Cosa significa andare alla scoperta dei Kibbutz? Significa compiere un viaggio all'interno di una realtà che racconta l'evolversi della storia di Israele, che ha saputo adattarsi ai mutamenti di una società straordinariamente dinamica, che ha perfettamente coniugato tradizione con innovazione e natura e che oggi offre la possibilità di trascorrere una vacanza indimenticabile in perfetta armonia con la natura.

 Israele e i kibbutz
Della storia e dell'evoluzione dei kibbutz si è parlato l'11 novembre, in un incontro organizzato dall'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo che ha visto la presenza del professore Emerito dell'Università Ebraica di Gerusalemme Sergio della Pergola, della direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo Kalanit Goren Perry, del direttore della Guest House del Kibbutz Ketura Yuval Ben Hai e di Cristiano Veneziano, un frizzante massoterapeuta di origini italiane, trasferitosi nel Kibbutz Shafavim 12 anni fa.

 L'evento
La data scelta per realizzare l'incontro, - 11/11 alle ore 11 - , non è stata casuale se consideriamo l'11 il risultato della somma di 1+10 ovvero delle lettere alef e yud: la prima e la decima lettera dell'alfabeto ebraico. Alef rappresenta il principio e la luce, mentre yud è l'iniziale di Gerusalemme ed è un riferimento più ampio all'intero popolo di Israele. Un messaggio benaugurante dunque, ma anche un richiamo alla lunga e ricca storia di Israele.

 Storia
I kibbutz in Israele proliferano da ormai oltre un secolo. Il primo kibbutz, quello di Degania Alef, risale al 1909, quando già numerosi ebrei europei si erano trasferiti nella regione grazie alle prime due Aliyah, le ondate migratorie verso la Terra Promessa. La sua struttura innovativa, ispirata ai valori della condivisione e dell'uguaglianza, riscosse presto molto successo, tanto che venne replicata in molti altri centri sparsi per il Paese. I kibbutz sono ancor oggi un elemento importantissimo per l'economia israeliana. Da loro derivano il 40% della produzione agricola nazionale e il 10% di quella industriale. Il loro contributo non è certamente solo economico: i kibbutz sono spesso luogo di ricerca e innovazione per quanto riguarda la salvaguardia dell'ambiente. Oltre che una delle esperienze più singolari e autentiche per i tanti turisti che visitano Israele ogni anno.

 Turismo
I kibbutz sono infatti luoghi aperti ai turisti. E' possibile scoprire le bellezze nascoste del Paese e testare in prima persona la proverbiale ospitalità israeliana. In Kibbutz è possibile anche svolgere un'esperienza di volontariato che si è rivelata alquanto significativa per tutti coloro che l'anno scelta soggiornando in questi villaggi spesso immersi nel verde per un periodo minimo di due mesi. Questi splendidi e affascinanti villaggi sono anche un'ottima alternativa low-cost per una vacanza a stretto contatto con la natura. Hanno prezzi contenuti, ma molteplici attrattive.

(Time Magazine, 13 novembre 2020)


Norimberga. Il processo adesso è finito

Siamo tornati nell'aula 600, dove 75 anni fa furono giudicati i boia del Terzo Reich. Dopo decenni di rimozione, la Germania non ha più paura del suo passato più buio. e lo mette in mostra.

di Tonia Mastrobuoni

Quando Hermann Göring, il gerarca più potente del Reich dopo Adolf Hitler, si consegna il 9 maggio del 1945 agli americani, il colonnello Andrus lo descrive come «un uomo cianciante dal sorriso instupidito». Uno dei boia della "soluzione finale", l'architetto dell'Anschluss, il generale dei micidiali bombardamenti di Coventry e Canterbury, è l'ombra di se stesso, un signore obeso piegato dai barbiturici. Ma pensa di poter trattare con gli Alleati a nome del Reich. Agli americani scappa da ridere: Göring non ha capito che la Germania ha capitolato, che anche per lui è suonata l'ora zero e presto verrà giudicato in un'aula che passerà alla storia. Quella del tribunale militare di Norimberga.
   I cronisti accorrono a Kitzbühel, nella sua dorata prigione dei primi giorni. E Göring li accoglie quasi allegro, fresco di bagno, stretto nella sua uniforme grigia dalle frangette dorate. Loro vogliono conferme delle sue atrocità da ministro dell'Aviazione, lui le ammette candidamente. Soprattutto, vogliono sapere se sa di essere sulla lista dei criminali di guerra. Goring cade dalle nuvole: «Mi sorprende molto» risponde. «Non ne capirei il motivo».
   A Norimberga, un anno e 218 udienze dopo, sarà condannato a morte per impiccagione. Prima dell'esecuzione si toglierà la vita col cianuro, chiuso nella sua cella. Gli americani impazziranno per capire come se lo sia procurato, così come si erano maledetti per non aver trovato la capsula di cianuro nascosta in bocca a Heinrich Himmler, il capo delle SS che si era suicidato appena catturato alla frontiera. «Avrei accettato una fucilazione» scrive Göring all'amata Emmy, dopo il lungo processo che l'ha visto come uno dei principali imputati. «Ma il Reichsmarschall della Germania non può farsi impiccare».
   Settantacinque anni fa, il 20 novembre 1945, nell'Aula 600 del tribunale di Norimberga, per Göring e altri 23 gerarchi della dittatura nazista inizia il maxi processo che è diventato una pietra miliare della storia del diritto. Sul banco degli imputati sfilano, tra gli altri, Rudolf Hess, Joachim von Ribbentrop, Wilhelm Frick, Albert Speer, Hans Frank, Alfred Rosenberg e Franz von Papen, insomma alcuni dei maggiori criminali di guerra della storia.
   Quasi tutti, alla fine delle udienze che ricostruiscono 12 anni di inferno, si dichiarano innocenti. Quasi tutti sono condannati a morte o a lunghi anni di carcere.Tra i 250 giornalisti e scrittori che raccontano le strazianti udienze ci sono John Dos Passos e Alfred Döblin, Ilja Erenburg ed Erika Mann. Un giovane cronista tedesco inviato dai giornali norvegesi dopo un lungo esilio all'estero, un certo Willy Brandt, sintetizza il senso degli interrogatori: «Non fare i conti con i gerarchi nazisti sarebbe stato uno schiaffo al senso di giustizia universale».

 Un modello per l'Aja
  Klaus Rackwitz annuisce. «Questa è l'aula dove tutto cominciò. Dov'è nato il diritto internazionale e il principio che nessuno è al di sopra della legge, che i responsabili di guerre e atrocità devono sempre essere messi dinanzi alle loro responsabilità» ci racconta il direttore dell'Accademia internazionale dei principi di Norimberga. Le fondamenta giuridiche del tribunale dell'Aja, dei processi ai macellai dello sterminio in Ruanda o ai criminali delle "pulizie etniche" in Bosnia, sono qui. «Ma anche la perseguibilità dei terroristi dell'Isis o di Boko Haram» sono stati stabiliti per la prima volta, e in maniera universale, nell'aula della città della Franconia dove per un anno i boia di Hitler divisero la stessa stanza con le vittime e i giudici delle quattro potenze alleate.
   A distanza di tre quarti di secolo, l'Aula 600 sembra persino piccola. Le pareti in legno e i bassorilievi pseudobarocchi in marmo che decorano gli ingressi, la grande croce appesa al muro, danno l'idea di un posto nato un secolo fa. Ma non riescono più a trasmettere la solenne gravità del processo del secolo. Marcus König, sindaco di Norimberga, protesta: «Guardi che questo è il più grande edificio in Baviera, sono 600 stanze. E' un po' più piccolo di Buckingham Palace». Nel 1916, quando lo inaugura il re della Baviera Ludovico III, gli trovano persino una stanza per sistemare il trono.
   L'organizzatore di Norimberga, la figura chiave delle udienze, è Robert H. Jackson, rispettato giudice della Corte suprema americana. Il processo comincia con le sue parole. Le atrocità dei nazisti «non sono tollerabili da parte della nostra civiltà: non sopravviverebbe a una ripetizione delle stesse. Che quattro grandi nazioni, soddisfatte della loro vittoria e torturate dolorosamente dalle ingiustizie avvenute, non si vendichino ma consegnino i loro nemici catturati volontariamente a un tribunale, è una delle più importanti concessioni che il potere abbia mai fatto alla ragione». Non è un dettaglio da poco: il dittatore sovietico Stalin avrebbe voluto subito fucilare, tout court, i gerarchi nazisti; fu soprattutto il primo ministro britannico Churchill a battersi per un giusto processo. Soprattutto, Jackson sottolinea che non è un processo «al popolo tedesco».

 Ulcere e svenimenti
  Eppure, la Germania ha rimosso per decenni il tribunale di Norimberga. Nel 1946, quando si chiudono le porte del processo, l'Aula 600 viene restituita, fino al 2005, ai giudici locali: i tedeschi sembrano voler dimenticare, dedicando quelle sacre quattro mura a evasori o ladri di galline.
   Visitando il museo nuovissimo istituito finalmente nell'edificio, al terzo piano, si nota che gli oggetti sopravvissuti alle udienze, infatti, sono pochissimi. Ci sono i banchi su cui Hess si lamentava delle ulcere o l'ex ministro degli Esteri Ribbentrop svenne mentre l'accusa leggeva le mostruosità del suo regime. I materiali originali, i mobili, gli oggetti di quell'Aula storica, dopo decenni di Grande rimozione, sono quasi tutti spariti, ad eccezione dei voluminosi atti del processo.

 Ferite ancora aperte
  «E' ovvio» ci racconta lo storico dell'Università di Erlangen-Norimberga, Christoph Safferling: «Per il popolo tedesco quel processo è rimasto a lungo una ferita aperta. In tutto il mondo era considerato una rivoluzione, qui una vergogna. Chi aveva il coraggio di dire l'inesprimibile, parlava di "giustizia dei vincitori", ma in realtà Norimberga ricordava sempre ai tedeschi quanto fossero stati complici».
   I più conservatori facevano notare che anche le potenze vincitrici si erano macchiate di crimini di guerra. E in effetti, il processo rischiò persino di incagliarsi sul Patto Molotov-Ribbentrop, quando spuntò un documento che dimostrava per la prima volta che Stalin e Hitler si erano messi d'accordo per spartirsi la Polonia. Ma il documento, di origine ignota, fu dichiarato nullo. E il processo andò avanti.
   Tuttavia, nei decenni dopo la guerra, prosegue Safferling, «l'interesse internazionale non si è mai spento per questo luogo. E quindi anche i tedeschi hanno dovuto cedere, alla fine».
   Accadde a partire dal 1993, «quando i processi internazionali ai criminali nella ex Jugoslavia e in Ruanda diventarono una celebrazione indiretta del tribunale-madre. Per l'anima tedesca arrivò una tardiva legittimazione di Norimberga». Ma lo storico stesso racconta di essere cresciuto vicino alla città bavarese, di essere andato a scuola negli anni 80. «Si parlava tanto del nazismo, come in tutte le scuole tedesche. Ma nessuno menzionava mai questa sala».

(la Repubblica - il venerdì, 13 novembre 2020)


Israele, evitare la terza ondata

La cautela del governo nel riaprire il paese

 
Il secondo doloroso lockdown ha funzionato in Israele con una verticale diminuzione dei contagi da coronavirus (nell'immagine, l'evoluzione della curva da settembre a metà ottobre). La guardia però deve rimanere alta, tanto che i media del paese in questi giorni parlano già di rischio di terza ondata. "La morbilità è in aumento e stiamo facendo gli stessi errori dell'ultima volta", titola il più venduto quotidiano d'Israele Yedioth Ahronoth. Un virgolettato che arriva da una voce autorevole, quella di Moshe Bar Siman Tov, direttore del Ministero della Salute durante la prima fase della pandemia. "Ci sono segnali che indicano una terza ondata. Dobbiamo pensare a come tenere il più possibile sotto controllo il tasso di infezione", l'avvertimento dell'ex funzionario. Negli ultimi giorni c'è stato un leggero aumento nei dati legati al contagio: in particolare, nelle ultime 24 ore, su 38.722 tamponi, l'1,9% delle persone testate è risultata positiva, in leggero aumento rispetto all'1,6% del giorno precedente. Le autorità israeliane hanno fissato il 2% come livello di guardia per cui la situazione al momento viene considerata sotto controllo.
   Il governo sta però valutando la possibilità di introdurre un coprifuoco per diminuire la circolazione delle persone. L'attenzione è però concentrata sull'evitare di commettere nuovi errori, pur cercando di dare respiro all'economia e far tornare a una forma di normalità il paese: il governo sta valutando un coprifuoco per facilitare l'ingresso nella terza fase delle riaperture diurne. Per evitare di muoversi con troppa fretta, intanto, gli scienziati israeliani stanno studiando cosa è andato storto e cosa ha portato il governo a dover decidere per il secondo lockdown. "Come siamo arrivati a guidare la classifica dei casi Covid-19? Cosa ha causato la seconda ondata, perché è andata così male e l'isolamento sta funzionando?", le domande su cui ha lavorato Eran Segal, scienziato del prestigioso Weizmann Institute. Cinque gli elementi principali emersi dal suo lavoro, alcuni intuitivi:
  1. Non aprite le scuole con un elevato numero di casi giornalieri e un alto tasso di infezioni (R-0 circa a 1). Questo alimenterà un'ulteriore ondata, e comunque sarà inefficace a causa delle molte quarantene di bambini e insegnanti.
  2. Non gestite la pandemia basandovi sulle capacità del vostro sistema sanitario. Siete destinati a raggiungerla. A quel punto, l'epidemia arriverà a livelli record, ci sarà un alto numero di morti, sarà necessario un blocco, e ci vorrà molto tempo per ridurre i numeri. Agite in anticipo.
  3. Un'epidemia nella popolazione più giovane raggiungerà inevitabilmente gli anziani nel giro di poche settimane.
  4. L'epidemia in alcune città si diffonderà inevitabilmente in altre città, a causa del mescolamento della popolazione. Abbiamo avuto epidemie localizzate, ma non abbiamo potuto attuare un blocco differenziale per motivi politici, e alla fine si sono diffuse.
  5. In una popolazione eterogenea, l'isolamento può avere effetti diversi su gruppi differenti a causa dei diversi comportamenti di queste popolazioni".
(moked, 12 novembre 2020)


Scoperto a Gerusalemme un antico salvadanaio di mille anni fa con quattro monete d'oro

di Salvo Privitera

A Gerusalemme, durante uno scavo in un quartiere, è stato scoperto l'equivalente di quattro mesi di stipendio per un operaio comune di circa 1.000 anni fa. Il prezioso contenuto è stato accuratamente riposto all'interno di una piccola brocca fino ad oggi.
A trovare la brocca è stato l'ispettore dell'Israel Antiquities Authority (IAA) Yevgenia Kapil, un recipiente di argilla non molto più grande di una tazza. Tuttavia, al momento del ritrovamento, l'ispettore non portò alla luce il prezioso contenuto al suo interno. È stato il direttore degli scavi, David Gellman, a ribaltare il contenitore, rivelando le monete.
L'oro risale tra gli anni 940 e 970 d.C., secondo quanto affermato dall'IAA. In questo periodo ci fu uno dei principali cambiamenti politici di Gerusalemme, ovvero quando la dinastia sciita dei Fatimidi conquistò l'Egitto, la Siria e Israele, tutti paesi che in precedenza erano stati sotto il dominio della dinastia sunnita Abbaside.


Le monete rappresentano proprio questa transizione: due furono coniate durante il governo del califfo sunnita al-Muti (tra il 946 e il 961 d.C.), mentre le altre due furono coniate durante il regno del sovrano sciita al-Mu'izz (953-975 dopo Cristo). "Quattro dinari erano una somma di denaro considerevole per la maggior parte della popolazione, che all'epoca viveva in condizioni difficili", afferma Robert Kool, un esperto di monete dell'IAA. "Era uguale allo stipendio mensile di un funzionario minore, o quattro mesi di stipendio per un operaio comune".
Una scoperta simile è stata effettuata sempre in Israele un paio di mesi fa, dov'è stato trovato un vaso pieno di monete d'oro.

(Everyeye Tech, 12 novembre 2020)


Biden e il Medio Oriente: più sintonia con Israele rispetto a Obama, meno indulgenza con MBS

Biden comincia a preparare la sua squadra in una turbolenta fase di transizione. Tanti sono gli interrogativi su cosa farà, dall'emergenza sanitaria a quella economica e soprattutto in politica estera. Sul fronte Medio Oriente, gli analisti si aspettano una maggiore sintonia rispetto a Barack Obama, ma non la stessa ottenuta da Trump. Il tycoon scelse come prima visita ufficiale proprio l'Arabia Saudita, è improbabile che Biden faccia lo stesso, la sua priorità al momento è di tipo sanitario.
Biden sembra condividere con la sua vice Kamala Harris un impegno, definito "sentimentale" dal quotidiano israeliano Haaretz, verso la sicurezza di Israele, a differenza di Obama.
Sembra escluso che Biden possa rispostare l'ambasciata da Gerusalemme a Tel Aviv. Ha elogiato gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein, ma sarà meno indulgente verso il principe Mohammad Bin Salman e la violazione dei diritti umani.

(LaChirico.it, 12 novembre 2020)


Il primo velivolo F-35I "Adir" sperimentale utilizzato al di fuori degli Stati Uniti

Arrivato al Centro di collaudo dell'aeronautica militare israeliana

 
Ieri 11 novembre 2020, il primo velivolo F-35I ("Adir") sperimentale utilizzato al di fuori degli Stati Uniti è arrivato all'Israeli Air Force Flight Testing Center (FTC) di Tel-Nof AFB . Questa data, segna l'inizio di una nuova era nello squadrone dello IAF Flight Testing Center (FTC): per la prima volta in 14 anni, un jet da combattimento dotato di capacità sperimentali avanzate è stato preso in carico dallo squadrone.
L'arrivo dell'Adir (F-35I), sviluppato per la sperimentazione, arricchirà notevolmente l'indipendenza della Israeli Air Force nel migliorare la sua flotta di velivoli di quinta generazione. Cosa rende il jet così unico e in che modo i piloti della IAF estenderanno i limiti e le capacità di uno dei velivoli più avanzati al mondo?
"Con la nuova aggiunta dell"Adir alle linee di velivoli sperimentali nello squadrone FTC dell'aeronautica israeliana, stiamo assistendo a un evento storico, la cui entità non può essere sottovalutata, un obiettivo significativo nell'inaugurazione e nello sviluppo della divisione F-35 della IAF ", ha detto il Brig. Gen. Oded Cohen, comandante della base aerea di Tel-Nof. "Per il personale dello squadrone FTC l'arrivo dell'Adir pone nuove sfide. Non ho dubbi che in virtù della sua abilità e del suo spirito professionale saprà, come ha dimostrato in passato, come sfidare i limiti delle capacità dell'Adir e guidare la IAF verso nuovi orizzonti".
Uno degli aspetti straordinari dell'IAF è il suo utilizzo di sistemi operativi e armamenti di produzione nazionale sulle sue varie piattaforme di volo. Nella maggior parte delle acquisizioni effettuate in cooperazione con gli Stati Uniti, l'IAF ha l'opportunità di installare i propri sistemi di guerra elettronica, comunicazioni e armi, il tutto per adattare le piattaforme alle esigenze e ai requisiti operativi della forza aerea israeliana. Per l'F-35I la situazione è più complicata perché nel programma "Adir" l'IAF non ha accesso a tutto il sistema del velivolo e non può intervenire completamente.
La divisione "Adir" è destinata a svolgere un ruolo centrale nel futuro dell'attività operativa della Israeli Air Force avendo la necessità di testare il velivolo e adattare i suoi sistemi d'arma alla realtà operativa sul campo. L'F-35I sperimentale fungerà da elemento principale per l'acquisizione di nuove capacità di volo e consentirà l'installazione indipendente degli armamenti israeliani.
Le nuove armi influenzeranno l'aereo in modi diversi, così verranno eseguiti un'intera serie di test per certificare varie capacità, come test di carico, fluttering e fluidità di rilascio degli armamenti. Nei test di carico, verranno esaminate le interazioni delle armi con il velivolo durante l'esecuzione di manovre complesse. Nei test di flutter, verranno controllati i fenomeni aerodinamici che possono mettere in pericolo il velivolo. Durante i test della fluidità del rilascio, verranno analizzati i problemi nel processo di rilascio delle munizioni, un test significativo per l '"Adir" poiché il suo carico utile viene rilasciato dalla stiva interna del jet. Una volta completato il processo di test, le forze aeree israeliane saranno in grado di determinare le linee guida per operare con le nuove capacità.
Oltre ai reparti di volo e tecnici, lo squadrone FTC dispone di un reparto sistemistico per l'analisi dei dati. Gli aerei dello squadrone sono dotati di sistemi che raccolgono i dati che vengono successivamente utilizzati per esaminare i risultati dei test. Il dipartimento dei sistemi si concentra sulla raccolta e l'analisi dei dati dai sistemi dei velivoli, inclusa la condivisione delle informazioni in tempo reale allo squadrone a terra, dove il test è attentamente monitorato.
Lo scopo del reparto sistemistico è quindi fornire dati che il velivolo non è in grado di visualizzare da solo, consentendo così un'efficace esperienza di de-briefing e apprendimento. La maggior parte dei sistemi vengono installati durante la produzione del jet e il Reparto Sistemi può aggiungerne di nuovi in base al tipo di test. Durante la pianificazione dell'acquisizione dell'F-35I sperimentale, l'IAF ha iniziato a stabilire il tipo di test che si sarebbero svolti e di conseguenza, i sistemi appropriati sono stati sviluppati durante la produzione.
Nel prossimo futuro, in concomitanza con l'integrazione del velivolo, tecnici specializzati americani della Lockheed Martin arriveranno allo squadrone per fornire istruzioni sul velivolo al personale israeliano. "L'Adir parla una lingua diversa, una con cui dobbiamo connetterci e imparare a capire", ha detto il Magg. Manny Comandante del Dipartimento dei sistemi e il Ten. Col. Y comandante dello squadrone FTC ha aggiunto: "L'IAF sa come far funzionare l'Adir, ma non sa ancora come utilizzare il modello sperimentale. Abbiamo bisogno di ricevere le conoscenze rilevanti per poter utilizzare l'aereo e farlo volare prima dell'inizio dei processi di test".
La linea di volo del FTC - Flight Testing Center gestisce tutti i jet da combattimento della IAF e il dipartimento tecnico è responsabile della loro gestione regolare ed accurata. "L'aereo di quinta generazione è diverso dal resto degli aerei dell'FTC ", ha sottolineato il Mag. A. Technical Officer dello squadrone. "Di conseguenza, tutto il personale tecnico dell'Adir è stato sottoposto ad una serie di addestramenti designati al fine di massimizzare la propria indipendenza prima del arrivo del jet. L'integrazione dell'Adir aggiunge un livello di complessità alla routine del reparto poiché anche la manutenzione dell'F-35I è diversa. L'arrivo del velivolo costituisce una tappa significativa sia per la squadriglia che per l'ufficio tecnico".

 Un F-35 su misura per Israele
 
  Perché esattamente questo modello sperimentale di F-35I è il primo del suo genere al mondo? Ad oggi, gli unici modelli sperimentali di F-35 fabbricati erano velivoli di prova aeromeccanici di limitata capacità operativa o modelli di prova destinati a esaminare sistemi specifici. Il modello "Adir" in arrivo ha capacità avanzate di test aeromeccanici e capacità operative complete. Analogamente ad altri velivoli di prova in servizio nell'FTC potrà essere, se necessario, convertito in un modello operativo.
"Il modello di prova del F-35I Adir è il primo in assoluto ad essere prodotto negli Stati Uniti, su nostra richiesta. Ora, loro saranno probabilmente in grado di produrre altri velivoli sulla base di questo modello per se stessi", ha detto il tenente colonnello Y . "Non appena saremo completamente preparati, saremo in grado di far progredire la divisione 'Adir' e le sue capacità".
Lo sviluppo, non specificato, sempre più indipendente svolto da Israele ha portato quindi a produrre una versione dell'aereo espressamente adattata alle esigenze del paese mediorientale che differisce in modo significativo dalla versione di Lockheed Martin. Tutte le piattaforme aeree adottate da Israele sono state aggiornate nel corso del loro utilizzo per consentirne di svilupparne l'inviluppo di volo utilizzando i sistemi d'arma unici prodotti dall'industria israeliana. Le modifiche pianificate rispecchiano in molti modi il lavoro precedente che Israele ha svolto sui suoi caccia F-15 e F-16 di fabbricazione americana entrambi equipaggiati con sistemi, avionica e armi specifiche per il paese.
Nel 2016 la Israel Aerospace Industries aveva confermato che avrebbe installato una suite aggiuntiva di software di comando e controllo in aggiunta alla programmazione di base dell'F-35 quando avrebbe ricevuto i suoi primi jet. Nessun altro paese che partecipa al programma Joint Strike Fighter ha ricevuto il diritto di modificare l'aereo a questo livello, dovendo invece fare affidamento su strutture centrali con sede negli Stati Uniti per ideare nuovi pacchetti di codice. I funzionari israeliani non hanno mai rivelato ciò che le loro linee di codice aggiuntive aggiungeranno alle funzionalità esistenti dell'aereo.
Sembra ragionevole presumere che la modifica aiuterebbe a collegare il computer di missione e i sensori dell'aereo a reti specifiche di Israele, ma potrebbe includere anche una serie di altri cambiamenti pianificati per nuovi sistemi di comunicazione e contromisure elettroniche difensive, per nuovi sistemi di attacco elettronici attivi per bloccare i radar o le radio nemiche, per nuovi armamenti peculiari delle forze aeree israeliane. Queste modifiche potrebbero potenzialmente rendere i jet israeliani più polivalenti rispetto ai loro omologhi in tutto il mondo.
Avere accesso al software e all'architettura dei sistemi di missione potrebbe aiutare a mantenere i jet pienamente funzionanti anche se il paese si trovasse improvvisamente tagliato fuori dall'infrastruttura globale che le forze armate statunitensi, Lockheed e altri futuri operatori dell'F-35 hanno stabilito per supportare l'ALIS e il prossimo ODIN. Forse ancora più importante, Israele si è anche assicurato il diritto unico di eseguire la manutenzione a livello di deposito, per includere la revisione di motori e componenti della cellula, all'interno del paese. Gli operatori del Joint Strike Fighter dovranno invece inviare i loro aerei a strutture designate in paesi specifici.
Israele prevede di introdurre almeno fino a 75 esemplari del caccia di quinta generazione stealth F-35I (forse anche qualche esemplare della versione B), sostanzialmente equivalenti agli F-35A, ma che incorporano una proporzione crescente di tecnologie e armi di fabbricazione israeliana. Il 12 dicembre 2016, Israele è diventato il terzo paese a ricevere i propri F-35 sul suolo nazionale quando la prima coppia di caccia è arrivata sulla base aerea di Nevatim.

(Aviation Report, 12 novembre 2020)


Gli Accordi di Abramo e i 50 bombardieri invisibili

L'America sta per consegnare il meglio della sua tecnologia militare agli Emirati, ma c'è opposizione

di Daniele Raineri

ROMA - Martedì l'Amministrazione Trump, entrata negli ultimi settanta giorni di mandato prima del giuramento di Joe Biden, ha notificato al Congresso la vendita di cinquanta F-35Joint Strike Fighter agli Emirati Arabi Uniti. La questione diventerà l'argomento di discussioni dure perché non tutti i politici americani sono d'accordo con la cessione di queste armi così potenti a un paese arabo e anche in Israele c'è molta resistenza contro questo passo senza ritorno. In molti non vedono perché chiudere l'accordo in fretta e furia adesso, senza possibilità di pensarci meglio. Gli F-35 sono gli aerei militari più avanzati al mondo e sono anche il risultato del programma militare più costoso mai intrapreso dagli Stati Uniti. Il loro possesso grazie all'invisibilità ai radar e ad altri vantaggi tecnologici - il pilota può vedere e distruggere i bersagli molto prima di essere visto - cambia ogni equilibrio strategico e per questo motivo gli Stati Uniti li avevano venduti soltanto a Israele nell'area, che è considerato un alleato un gradino sopra gli altri paesi. Nel luglio 2018 tre F-35 israeliani decollarono da una base vicino a Tel Aviv e senza bisogno di rifornimenti e senza farsi individuare dai radar sorvolarono la capitale dell'Iran, Teheran, in quella che senza dubbio fu un'azione dimostrativa molto minacciosa. Quando i vertici dell'aeronautica iraniana lo scoprirono non ebbero il coraggio di confessare alla Guida Suprema che il paese era così vulnerabile alle incursioni dall'esterno - bombardieri israeliani sopra la capitale - e quando l'informazione cominciò a circolare furono licenziati.
La vendita degli F-35 fa parte, ma non dal punto di vista formale, degli Accordi di Abramo, quindi del patto di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti e Israele negoziato dall'Amministrazione Trump. "Non dal punto di vista formale" vuoi dire che la cessione di tecnologia militare non compare fra le clausole dell'accordo, ma tutti sanno che è inclusa nel pacchetto di intese creato per invogliare gli Emirati all'accordo. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in privato ha assicurato gli americani che non si sarebbe opposto, ma poi in pubblico ha detto di non avere mai detto quelle parole per la costernazione di americani ed emiratini. L'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, ha detto in una dichiarazione ufficiale che "non è vero" che Netanyahu abbia approvato la vendita degli F-35 e ha aggiunto di essere fiducioso che l'Amministrazione Trump vuole mantenere il vantaggio militare di Israele nella regione. La vendita da parte degli americani di tecnologia bellica in medio oriente include sempre anche incontri tecnici con gli israeliani per essere sicuri che non riduca il margine di superiorità di Israele e anche per questo motivo i tempi si allungano.
L'annuncio da parte dell'Amministrazione Trump parla di cinquanta F-35, diciotto droni Reaper e di bombe guidate per un totale di 23,7 miliardi di dollari. Gli Emirati sono una nazione di circa un milione di abitanti (quasi nove se si contano i lavoratori stranieri) che investe molto in armamenti per espandere la propria sfera d'influenza e per questo a volte è chiamata la "Piccola Sparta". In questi anni gli Emirati sono intervenuti spesso. Hanno partecipato alle operazioni militari nello Yemen assieme ai sauditi e hanno appoggiato l'offensiva del generale libico Khalifa Haftar per prendere Tripoli. Inoltre si parla dell'apertura di una base militare della Cina sul loro territorio. I critici temono questo: non è detto che gli Emirati userebbero gli F-35 per operazioni che sarebbero approvate dall'occidente e non ci sono garanzie che sappiano proteggerli dallo spionaggio cinese.

(Il Foglio, 12 novembre 2020)


Antisemitismo contro avversari

Lo schema è sempre lo stesso. Serve a fanatizzare i conflitti e disumanizzare il nemico. Siamo tutti riconducibili a qualche gruppo da sterminare.

Lenin non era un antisemita, ma fu dagli antisemiti (e segnatamente dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un classico della disinformazia zarista) che egli imparò a falsificare la storia, a imputare colpe collettive a intere classi sociali e a interi popoli, a inventare sabotaggi, congiure e trame spionistiche inesistenti, come pure a esprimersi, in tema di «borghesi» e di «socialtraditori», nella neolingua cannibale dei disumanizzatori, degl'inquisitori, degli scanna giudei. Oggi, ottant'anni dopo la soluzione finale, 75 anni dopo la liberazione dei sopravvissuti dai lager, trent'anni dopo la fine del comunismo, viviamo in una sorta di Auschwitz a basso profilo (almeno in Occidente, e almeno per ora) ma diffusa e avvolgente. Ovunque il conflitto civile e politico degenera in scontro rabbioso. Ci sono ovunque demagoghi deliranti e assatanati che millantano identità e distribuiscono patenti di subumanità come colpi di karatè e manganellate tra capo e collo.

di Diego Gabutti

Non è più, se mai lo è stato, un pregiudizio religioso, e non è neanche più una Weltanschauung pseudoscientifica, come sotto Hitler e le SS: l'antisemitismo è un protocollo. Un protocollo che viene applicato indifferentemente a ogni sorta di nemico, e che scatta come la molla d'una trappola per topi quando il confronto assume una dimensione tribale, metafisica.
   Dalla rivoluzione d'ottobre in avanti non c'è più stato bisogno d'essere ebrei per finire catalogati tra «gli insetti da schiacciare», come fino a quel momento capitava soltanto ai «giudei». Sotto Pol Pot, quando «la spinta propulsiva della rivoluzione russa» (come Enrico Berlinguer caramellava la storia) non s'era ancora completamente esaurita, bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi un colpo alla nuca in quanto «sfruttatori», «nemici del popolo» e «usurai». Sotto il Presidente Mao, i «revisionisti» (insieme a tutti i loro congiunti) andavano incontro alle stesse sventure che sono sempre toccate ai «giudei» nei villaggi russi e polacchi.
   Ai generali argentini bastava che un cittadino qualsiasi avesse votato (prima del golpe) il partito sbagliato o letto un «giornale ostile» per scaraventarlo giù da un elicottero senza paracadute. Brigatisti rossi e neri, nell'Italia degli anni settanta, consideravano sacrificabile come un tacchino a Natale chiunque non abbracciasse la loro causa, quale che fosse (più tardi, deposte le armi, quel che rimaneva della loro claque avrebbe rubricato alla voce «antropologicamente inferiori» gli elettori di destra, trasformati con un abracadabra ideologico in «sporchi giudei» della democrazia borghese).
   Negli Usa di quegli stessi anni agiva un gruppo di terroristi di sinistra detto «Weather Underground»: dopo la strage di Bel Air, quando Sharon Tate (moglie incinta del regista Roman Polanski) e i suoi ospiti furono uccisi a forbiciate da Charles Manson e seguaci, i militanti del gruppo, detti «Weathermen», meteorologi, presero a salutarsi tra loro agitando indice e medio nell'aria: il «saluto delle forbici», evoluzione nazimaoista del classico pugno chiuso comunista.
   Un moderno jihadista, infine, non ha più bisogno di scuse: ai suoi occhi, chiunque non si genufletta due o tre volte al giorno in direzione della Mecca merita d'essere sgozzato, come un capretto per il kebab, «ebreo» o «crociato» o muslim tiepido che sia. Questi orrori, che hanno fatto del Novecento il secolo dei disumanesimi, sono tutti da ricondurre, dal primo all'ultimo, a una sola fonte primaria: l'antisemitismo, che ha fatto scuola, attraverso i secoli, a tutte le psicopatologie politiche, filosofiche, «razziali» e «biologiche» ideate e messe in pratica dalle comunità umane.
   In questo senso, poiché funziona da modello chiavi in mano d'ogni pregiudizio e fanatismo presente e passato, come pure di tutte le possibili persecuzioni (ma anche soltanto di tutte le possibili calunnie, diffamazioni, imposture e fake news) che incessantemente ne derivano, l'antisemitismo si è trasformato in protocollo. Basta applicarlo per ottenere il risultato che ci si prefigge: la fanatizzazione dei conflitti, la disumanizzazione del nemico.
   Lenin non era un antisemita, ma fu dagli antisemiti, e segnatamente dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un classico della disinformazia zarista, che imparò a falsificare la storia, a imputare colpe collettive a intere classi sociali e a interi popoli, a inventare sabotaggi, congiure e trame spionistiche inesistenti, come pure a esprimersi, in tema di «borghesi» e di «socialtraditori», nella neolingua cannibale dei disumanizzatori, degl'inquisitori, degli scannagiudei.
   Stalin, dopo aver «giudeizzato» l'intera Unione sovietica, trasformando in comunità da isolare e all'occorrenza da sterminare ogni gruppo sociale che non baciasse la pantofola dei bolscevichi e dei cekisti onnipotenti, pensò bene d'estendere il protocollo della giudeizzazione anche ai «giudei» per nascita e fede religiosa. Perché risparmiare proprio loro? E infatti non furono risparmiati.
   Oggi? Be', oggi, ottant'anni dopo la soluzione finale, settantacinque anni dopo la liberazione dei sopravvissuti dai lager, trent'anni dopo la fine del comunismo, viviamo in una sorta di Auschwitz a basso profilo (almeno in Occidente, e almeno per ora) ma diffusa e avvolgente. Ovunque il conflitto civile e politico degenera in scontro rabbioso. Ci sono ovunque demagoghi deliranti e assatanati che millantano identità e distribuiscono patenti di subumanità come colpi di karatè e manganellate tra capo e collo.
   Gli articoli di fondo e d'informazione sulla campagna elettorale americana (Trump boia, Biden un santo) che si leggono sulla stampa italiana e internazionale (idem i commenti che s'ascoltano in tv) sarebbero puramente e semplicemente inimmaginabili senza l'oscura tradizione della stampa antisemita dalle quali le gazzette militanti hanno appreso l'arte loro. (Sarebbero inconcepibili, d'altra parte, anche i balbettii di Trump, invulnerabile ai virus ma non alle domande scomode, quando gli chiedono, a giusto titolo, lumi circa i suoi rapporti con la supremazia bianca e con QAnon, una banda multinazionale di complottisti d'ultradestra, suoi elettori e supporter entusiasti, ma a dir poco psicopatici).
   C'è l'esperienza plurisecolare dell'antisemitismo, il suo inconfondibile segno di Zorro, anche dietro il populismo pentastellare: la «casta» è l'ultimo avatar della plutodemocrazia, o meglio del «complotto demo-plutogiudaico-massonico» evocato, tra le due guerre, dai tiranni fascisti e da quelli stalinisti (che evolverà, col tempo e le nespole, nel Sim, lo stato imperialista delle multinazionali fantasticato dalle Brigate rosse).
   Si sente odore di zolfo antisemita nei quartieri degradati dei social network dove non c'è questione da quattro soldi che non cresca in un lampo a guerra mortale tra tribù nemiche. Negli stadi, dove ventidue atleti in mutande corrono dietro un pallone, campeggiano cartelli e striscioni che richiamano parodisticamente gli slogan antisemiti. Per non parlare dell'antisemitismo propriamente detto: la guerra al sionismo attraverso l'aggressione a chi porta il kippah, il tifo per le bande armate palestiniste, per gli ayatollah, per i missili di Saddam Hussein che durante la guerra del Golfo piovevano su Israele, e poi il negazionismo e/o la giustificazione delle persecuzioni antisemite, Shoah compresa (se li perseguitano e ogni tanto li massacrano, be', di qualcosa devono pur essere colpevoli).
   Ci siamo dentro tutti. Sono tempi difficili. Non c'è cittadino onesto e liberale d'una qualsiasi nazione occidentale che non rischi di diventare bersaglio d'una campagna di criminalizzazione (come si dice, con espressione debole) modellata sul Mein Kampf. Agli occhi dei beppegrilli, dei nazisti e dei comunisti rinati, siamo tutti riconducibili a qualche gruppo sociale da liquidare in quanto tale: bottegai evasori, politici ladri, islamofobi, beffeggiatori delle teorie di genere, atei, apostati, «amici (o nemici, è lo stesso) dei negher», maschilisti, elettori senza vergogna di partiti politicamente scorretti, lettori di libri all'indice, liberi pensatori.
   
(ItaliaOggi, 12 novembre 2020)
   

Il robot che raccoglie la frutta direttamente dall'albero

Ecco l'ultima trovata della Start Up Nation

di David Zebuloni

Sorta dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, Israele è stata rinominata negli ultimi decenni la Start Up Nation, per la sua incredibile capacità di rinnovare e rinnovarsi. In un libro dal titolo Riparare il mondo, Avi Jorish ha raccontato l'istinto quasi innato dello Stato ebraico di progettare, migliorare, creare e poi condividere, insegnare, esportare, così da beneficiare delle proprie invenzioni insieme al resto dell'umanità. Un precetto che nella tradizione ebraica prende il nome di Tikkun Olam, mentre nella tradizione contemporanea prende il semplice nome di High-Tech.
   Il connubio vincente di Israele-Tecnologia-Agricoltura risale ai primi anni '60, quando un gruppo di pionieri si era congeniato per trovare una soluzione alla mancanza di acqua nell'arido deserto del Negev. Nacque così l'irrigatore a gocce, diventato poi uno strumento agricolo utilizzato in tutto il mondo. Da allora Israele non ha mai smesso di investire in questo settore, esportando al mondo altre invenzioni semplici e rivoluzionarie.
   L'ultima trovata sembra tuttavia provenire da un film di fantascienza. Come riporta il Times of Israel, la Tevel Aerobotics Technologies, una startup locale fondata da un gruppo di veterani dell'industria aerospaziale ed elettronica israeliana, sta testando un sistema robotico per la raccolta della frutta direttamente dall'albero. Tevel ha sviluppato una piattaforma di guida autonoma con svariati robot che, grazie ad un processo basato sull'intelligenza artificiale, consente loro di raccogliere solo i frutti maturi. Mentre i robot raccolgono dunque, il sistema aggiorna costantemente gli agricoltori tramite un'applicazione facilmente scaricabile sul proprio telefono cellulare. Agli agricoltori viene riferito con precisione quanti chili di frutta sono già stati raccolti e quanto tempo ci vorrà per completare l'intera raccolta.
   "Il nostro obiettivo era quello di risolvere il problema della carenza di manodopera agricola", spiega al Times of Israel il fondatore di Tevel, Yaniv Maor. "Tevel ha offerto agli agricoltori in difficoltà una soluzione che fosse a passo con i tempi. Questo è il nostro futuro".
   La soluzione di Tevel è ancora in fase sperimentale, ma l'azienda sta già provvedendo ad introdurre il suo prodotto in un mercato globale apparentemente entusiasta. Si stima infatti che il settore della robotica agricola, per un valore di circa 4,6 miliardi di dollari, continui a crescere di oltre il 30% ogni anno. Ecco che il robot raccogli frutta potrebbe essere la prossima grande promessa della Start Up Nation.

(Shalom, 11 novembre 2020)


Confagri con ambasciata Israele per risparmio di suolo e acqua

Si punta sull'idroponica "per produrre di più con meno risorse"

 
ROMA - Proseguono i rapporti di collaborazione tra l'ambasciata d'Israele in Italia e Confagricoltura "all'insegna della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica, mettendo in contatto ricerca e attività imprenditoriale in agricoltura". In occasione di Ecomondo Digital, l'ambasciata israeliana e l'organizzazione degli imprenditori agricoli, con il supporto dell'Israel Export Institute, "hanno promosso un incontro sulle novità cui stanno lavorando i ricercatori e le aziende israeliani Tap, Vertical Field, Growponics, Agam e Mapal per l'evoluzione della coltivazione idroponica".
   Israele "è leader nella coltivazione fuori suolo e nella microirrigazione, con una lunga e collaudata esperienza ultratrentennale. I suoi ricercatori hanno presentato alle imprese di Confagricoltura le ultime novità ad alto contenuto tecnologico per idroponica, agricoltura verticale, geoponica, aeroponica, serre innovative, soluzioni di deumidificazione e fertilizzazione organica".
   L'obiettivo primario è "produrre di più con meno risorse naturali, come terra e acqua, attraverso soluzioni che promuovano il raggiungimento degli obiettivi europei del Green New Deal e il contrasto alle conseguenze dei cambiamenti climatici. La coltivazione in ambienti chiusi, o comunque ad aerazione controllata, presenta poi l'ulteriore vantaggio di non impiegare fitofarmaci e di evitare malattie fungine e danni da insetti alieni".
   "Con lo Stato di Israele e la sua ambasciata in Italia - ha detto il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti - c'è un'importante collaborazione che è culminata in un protocollo d'intesa anche per facilitare l'incontro tra domanda e offerta di agro-innovazione. Vogliamo che le nostre imprese siano protagoniste del cambiamento, con l'avanzato know how israeliano possono esserlo ancora di più".
   "L'incontro - ha sottolineato il ministro degli affari economici e scientifici Raphael Singer nei saluti di apertura - costituisce un'occasione estremamente importante per presentare le tecnologie sviluppate in Israele per far fronte alla carenza d'acqua, e mostrare come queste ultime possano essere applicate in risposta ai bisogni italiani".

(askanews, 11 novembre 2020)


Israele: l'esercito afferma di aver abbattuto un drone di Hezbollah

L'esercito israeliano ha riferito di aver abbattuto un drone di Hezbollah entrato nello spazio aereo di Israele.
   A dichiararlo, martedì 10 novembre, il portavoce delle forze di difesa aerea israeliane, Avichay Adraee, il quale, in un Tweet, ha comunicato la notizia definendo il gruppo sciita "terrorista" , e precisando che il drone colpito proveniva dal Libano. "Le forze (israeliane) lo hanno monitorato tutto il tempo fino a quando non è stato abbattuto" ha dichiarato Adraee, affermando che l'incidente non ha provocato alcun danno nelle città vicine. Tuttavia, ha riferito il portavoce, nei territori settentrionali israeliani, le forze sono pronte a contrastare qualsiasi offensiva, e non permetteranno che la sovranità di Israele venga violata. Né Hezbollah né il governo di Beirut hanno commentato l'accaduto.
   Hezbollah, classificato come un'organizzazione terroristica da Israele e Stati Uniti, è un attore chiave nell'arena politica del Libano. Israele considera tale movimento sciita armato, sostenuto da Teheran, la più grande minaccia per il Paese proveniente dall'esterno dei confini nazionali. I due si sono scontrati nel 2006, in una battaglia lunga 34 giorni, nella quale circa 1200 persone sono morte in Libano, per lo più civili, e altre 158 hanno perso la vita a Israele, in gran parte soldati.
   Anche nel 2019 Libano e Israele sono stati protagonisti di una escalation di tensioni. Questa ha avuto inizio il 25 agosto, quando un drone israeliano è precipitato nelle periferie meridionali di Beirut, controllate dal gruppo islamista Hezbollah, e un secondo drone è esploso nelle vicinanze, nelle prime ore del mattino. Il giorno successivo, il 26 agosto, tre raid aerei, sempre di provenienza israeliana, hanno colpito una base palestinese, nei pressi del confine con la Siria, situata vicino al villaggio di Qusaya, nella Valle di Bekaa.
   Tra le mosse più recenti, le forze di difesa israeliane hanno annunciato, il 23 luglio, di aver inviato rinforzi al confine settentrionale con il Libano, dopo che Hezbollah ha minacciato una vendetta per la morte di un proprio combattente, Ali Kamel Mohsen, a seguito dell'attacco del 20 luglio. Israele non ha rivendicato l'attentato, ma è stato accusato da Hezbollah per aver ucciso uno dei propri combattenti, portando il partito sciita a minacciare una vendetta.
   Tuttavia, secondo quanto affermato dal vicesegretario di Hezbollah, Naim Qassem, nel corso di un'intervista televisiva del 26 luglio, nei mesi successivi non vi sarebbe stata nessuna guerra tra Hezbollah e Israele. Per Qassem, tra i due nemici esiste un equilibrio in termini di deterrenza, e, pertanto, il partito sciita non è disposto a cambiare né una tale "equazione" né le relative "regole di ingaggio".

(Sicurezza Internazionale, 11 novembre 2020)


La Knesset approva gli accordi di pace col Bahrein

Un mese dopo l'approvazione degli accordi di pace con gli Emirati Arabi Uniti, la Knesset ha approvato ieri anche gli 'accordi di normalizzazione, di pace e di amicizia' col Bahrein, raggiunti nel contesto più vasto degli Accordi di Abramo elaborati dalla amministrazione Trump. I voti a favore sono stati 62 e quelli contrari (in prevalenza della Lista araba unita) 14. Secondo i media, il ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif al-Zayani arriverà in Israele il 19 novembre. Inoltre una delegazione ufficiale israeliana partirà presto per il Sudan. Nel corso del dibattito il premier Benyamin Netanyahu ha rilevato con compiacimento che 41 anni dopo gli accordi di pace con l'Egitto e 26 anni dopo gli accordi con la Giordania, "in meno di due mesi" Israele ha adesso raggiunto nuovi accordi di pace e di normalizzazione con tre Stati arabi: gli Emirati, il Bahrein ed il Sudan. Il leader del Likud si è astenuto invece dal menzionare in alcun modo gli accordi di riconoscimento fra Israele e Olp del 1993. Ha sostenuto invece che lo sviluppo delle intese con i Paesi arabi si è reso possibile proprio avendo aggirato "il veto palestinese, che semplicemente bloccava la pace". Se Israele avesse dovuto attendere un ammorbidimento delle posizioni palestinesi, ha argomentato, "avremmo dovuto aspettare ancora molti anni". Proprio gli accordi con i Paesi arabi, a suo parere, potrebbero rendere più duttili le posizioni palestinesi. Secondo Netanyahu dagli accordi con gli Emirati e con il Bahrein l'economia israeliana riceverà ora un impulso molto forte, che sarà avvertito da ogni cittadino. Netanyahu ha inoltre previsto che altri Paesi arabi decideranno presto di stringere relazioni con Israele. "Voglio ancora ringraziare - ha concluso il premier - il mio amico Donald Trump per il suo sostegno possente allo Stato d'Israele. Saluto anche il mio amico Joe Biden, e con lui Kamala Harris, che hanno pure accolto con favore questi accordi".

(Shalom, 11 novembre 2020)


Addio a Gattegna, fu presidente delle comunità ebraiche

di Ariela Piattelli

 
Renzo Gattegna
ROMA - Ha guidato per un decennio l'ebraismo italiano, riassumendone e ascoltandone tutte le anime che lo compongono. E scomparso ieri a Roma, Renzo Gattegna, che ha ricoperto la carica di Presidente delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) dal 2006 al 2016. Avvocato civilista, con grandi doti di mediatore, Gattegna era attivo nelle istituzioni ebraiche sin da giovane, aderendo prima ai movimenti giovanili, poi al volontariato, impegnandosi nella difesa dell'ebraismo e del neonato Stato d'Israele.
   Cresciuto nella convinzione dei valori comuni a tutta la società civile e nella conoscenza del contributo dell'ebraismo italiano al dibattito pubblico, ha condotto i suoi tre mandati da presidente instaurando un dialogo con le istituzioni nazionali e i capi dello Stato: Gattegna era un interlocutore di primo piano per il Quirinale, prima con Giorgio Napolitano poi con Sergio Mattarella, che incontrò per la prima volta il giorno del suo insediamento da Presidente della Repubblica. In quell'occasione ringraziò il neo-capo dello Stato per aver voluto compiere trai suoi primi gesti una visita nel luogo dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e per aver ricordato nel discorso di insediamento Stefano Gaj Tachè, il bambino ebreo italiano vittima dell'attentato alla sinagoga di Roma nell'82: «Due momenti indelebili nella memoria degli ebrei italiani - disse Gattegna - ma che devono rimanere perpetuamente presenti anche nell'identità di quei cittadini che hanno a cuore i valori della democrazia e della convivenza».
   La sua leadership si è concentrata sul rispetto delle identità che compongono le 21 comunità ebraiche d'Italia: «Solo un atteggiamento unitario può consentire al mondo ebraico italiano di affrontare le sfide del contemporaneo - diceva -, in direzione di un nuovo patto civile capace di coniugare identità, dialogo e confronto». Mattarella ha ricordato di Gattegna «l'impegno profuso con intelligenza, garbo ed equilibrio». La sua rettitudine, la professionalità e la dedizione erano le qualità che lo definivano «con visione e determinazione per far conoscere l'immensità del nostro popolo e delle nostre tradizioni - ricorda la presidente dell'Ucei Noemi Di Segni - per essere in ogni momento e luogo di esempio agli altri».

(La Stampa, 11 novembre 2020)


Lutti e sfide dell'ebraismo europeo

Da Sacks a Gattegna, la scomparsa della leadership religiosa e civile

A settembre se ne era andato Amos Luzzatto, biblista, medico e presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. Ieri la scomparsa di uno dei suoi successori, l'avvocato Renzo Gattegna, che prima di lasciare il suo mandato aveva parlato di "un futuro dell'ebraismo che sia degno dei suoi valori universali e delle sue gloriose e plurimillenarie tradizioni". Gattegna faceva parte di quella leadership civile ebraica in una Europa tormentata dall'antisemitismo di ritorno. Quattro giorni fa, la scomparsa dell'ex rabbino capo del Regno Unito, Jonathan Sacks, non solo una delle più grandi voci dell'ebraismo contemporaneo, ma una delle più rispettate voci morali al mondo. "Un gigante del pensiero", secondo Tony Blair. Ad agosto, la morte di un altro grande rabbino, Adin Steinsaltz. Entrambi preoccupati da una minaccia forse più grave di quella fisica del terrorismo e del razzismo: l'assimilazione. Sacks ci aveva scritto un libro: "Avremo ancora nipotini ebrei?". La domanda era terrificante: "Riuscirà l'assimilazione a ottenere ciò che a Hitler non riuscì?". Alcuni giorni fa, un nuovo studio condotto dall'Institute for Jewish Policy Research di Londra ha rilevato che il numero di ebrei in Europa, incluse Gran Bretagna, Turchia e Russia, è sceso al minimo da mille anni. Solo 1,3 milioni di persone che attualmente vivono in Europa si definiscono ebree. E' la stessa cifra indicata dal famoso viaggiatore e studioso ebreo Benjamin di Tudela nel 1170. Dal 1970, l'Europa ha perso il 60 per cento della sua popolazione ebraica. 1,5 milioni di ebrei hanno lasciato l'Europa. Poi, oltre all'aliyah dalla Francia, lo studio rileva che il 40 per cento dei 118.000 ebrei tedeschi ha più di 65 anni, il che significa che la popolazione ebraica in Germania sta cominciando a scomparire. Anche i matrimoni misti stanno avendo un effetto sulle comunità ebraiche. La metà degli ebrei nei Paesi Bassi, in Danimarca e in Svezia si sposa al di fuori della comunità ebraica. Mentre stanno scomparendo le grandi figure civili e religiose dell'ebraismo europeo, questa è la grande domanda che la nuova generazione è chiamata a porsi, la domanda terribile di Sacks: avremo ancora nipotini ebrei?

(Il Foglio, 11 novembre 2020)


Coronavirus, l'autonomia ribelle dell'enclave chassidica

Le corti rabbiniche del mondo haredì si oppongono al lockdown imposto dal governo israeliano: se la chiusura delle sinagoghe rischia di allontanare i giovani dall'osservanza, "la cura della loro anima prevale sulla salvaguardia della salute fisica", dicono.
E anche se i contagi aumentano, i rabbini contano sull'immunità di gregge

di Aldo Baquis

TEL AVIV - La distanza maturata fra le strutture laiche di Israele e la minoranza degli ebrei haredìm non è mai stata così palese come nelle drammatiche giornate del lockdown per il coronavirus, iniziate alla fine di settembre e proseguite durante le ricorrenze di Rosh ha-Shanà, Kippur e Simchat Torah. Dal ministero della sanità giungevano bollettini "di guerra": 6.000, poi 8.000 e quindi anche 9.000 contagi al giorno. Quindici per cento di infezioni: un record mondiale, in proporzione alla popolazione. Decine di decessi al giorno: dai 1350 di fine settembre, si era giunti a 1900 solo due settimane dopo. Ospedali al limite della capacità di intervento. Dipartimenti di coronavirus aperti all'inizio della settimana, che dopo alcuni giorni erano già stracolmi. Personale medico esausto e traumatizzato per le tragedie quotidiane che doveva affrontare.
In queste circostanze il governo si è visto costretto ad imporre uno stretto lockdown nazionale. Nel mondo occidentale, Israele era il primo Paese a ricorrere per la seconda volta in pochi mesi ad una misura talmente drastica, e dalle ripercussioni dirompenti per l'economia e per diversi strati sociali.
Nel tentativo di aggiudicarsi la massima cooperazione, le autorità sanitarie hanno dovuto superare la resistenza della minoranza araba (là matrimoni affollati avevano contribuito ad accrescere i contagi) e mettere redini alle proteste di piazza dei contestatori di Benyamin Netanyahu (costretti da un decreto speciale a ridurre le dimensioni delle manifestazioni).
Quando si è giunti alla necessità di chiudere le sinagoghe e di passare a preghiere all'aria aperta, gli ebrei osservanti nazional-religiosi e gli ebrei ortodossi sefarditi - molto a malincuore - hanno in genere accettato le limitazioni richieste dal governo.
Molto diversa la situazione che si è creata in località popolate in maggioranza da ebrei ultraortodossi ashkenaziti: Bnei Brak (alle porte di Tel Aviv), Mea Shearim (Gerusalemme), Elad, Beitar Illit, Modiin Illit, alcuni rioni di Ashdod e di Rehovot. Diverse centinaia di migliaia di persone, in questi frangenti drammatici per il Paese, hanno freddamente intrapreso la via della disobbedienza civile. Malgrado agli israeliani fosse vietato ogni genere di assembramento e non potessero trovarsi più di venti nello stesso spazio chiuso, rabbini hassidici hanno convocato migliaia di seguaci per presenziare al "tisch", il tavolo imbandito del loro maestro. Ad Ashdod, al funerale di un importante rabbino (l'Admor di Pittsburgh) morto di coronavirus, la polizia aveva concesso la partecipazione di 60 persone distanziate fra di loro. Se ne sono accalcate invece 2500. Fra di loro spiccava l'ex ministro della sanità, il rabbino Yaakov Litzman, leader di un partito ortodosso che sostiene Netanyahu ed esponente della potente "setta" dei Gur.
I rabbini di corti rabbiniche con radici nell'Europa dell'Est (Vishnitz, Ponivezh, Belz, Breslav e altri ancora) hanno dato istruzione di proseguire con le preghiere nelle sinagoghe, anche a costo di scontri con la polizia. Giornalisti che hanno tentato di documentare queste infrazioni di massa sono stati scacciati e in alcuni casi malmenati. Agenti inviati a disperdere assembramenti sono stati accolti da grida "Nazisti, Hitler" e dagli sputi provocatori di bambini. La polizia ha presto compreso che nei rioni omogenei degli ebrei ashkenaziti non c'era modo di far rispettare le regole. Ogni sinagoga chiusa veniva subito riaperta all'uscita dell'ultimo agente.

 I dati della pandemia in Israele
Ad accrescere lo sbigottimento dei responsabili alla sanità c'erano anche le cifre dei contagi. Secondo l'Istituto Weizmann, a luglio, all'inizio della seconda ondata di coronavirus, fra i nuovi casi positivi il 20 per cento erano arabi, il 34 per cento ultraortodossi e il 46 per cento il resto degli abitanti di Israele. Verso la metà di ottobre la proporzione degli arabi era calata all'8 per cento, mentre quella degli haredim era salita al 47 per cento. Anche nelle corsie degli ospedali la percentuale dei degenti ultraortodossi era molto superiore al loro peso nella popolazione, stimato nel 10-12 per cento. Così pure per i decessi. Come spiegare un atteggiamento in apparenza così autolesionista?
In una intervista al giornale Hamahane Haharedi, organo della corte rabbinica dei Belz, il rabbino Pinchas Friedman ha spiegato l'approccio del suo maestro, il rabbino Yissachar Rokach. È vero, ha ammesso, che la dottrina insegna che la vita va preservata a tutti i costi. Ma occorre anche fare una distinzione: c'è la protezione del corpo fisico - ha spiegato - e quella dello spirito. Nel primo lockdown è stato notato che con la chiusura dei collegi rabbinici molti studenti erano rimasti disorientati, si erano perduti per strada. Un fenomeno che desta apprensione nei vertici rabbinici. Secondo dati raccolti dall'Istituto israeliano per la democrazia nel 2017 il 15 per cento dei giovani haredim di età compresa fra 20-24 anni (per lo più sefarditi, ma anche membri di corti hassidiche) hanno abbandonato lo stile di vita prettamente ortodosso, pur restando osservanti a tutti gli effetti. Una delle spiegazioni è che volevano aprirsi alla società, e non essere più condannati ad una vita di povertà. Una emorragia in atto da tempo, che l'establishment ultraortodosso cerca di arrestare.
Quando c'è "un pericolo certo per l'anima, di fronte ad un pericolo possibile per il corpo", ha proseguito il rabbino Pichas Friedman, occorre dare la precedenza al sostegno dell'anima. Composta da famiglie numerose, la società haredì è relativamente giovane. La sensazione diffusa è che sia dunque meno esposta ai pericoli del coronavirus. Alcuni hanno anche espresso la convinzione che essa sarebbe in grado di realizzare una "immunità di gregge".
Quando emissari del governo hanno cercato di persuadere la comunità ultraortodossa a rispettare i limiti del lockdown, hanno scoperto che, dopo la scomparsa di due grandi leader - il rabbino Menachem Eleazar Shach e il suo successore, Aharon Leib Steineman - la struttura di potere si è frammentata.
Non esiste più un unico interlocutore. Ciascuna corte rabbinica ha cominciato ad agire in maniera autonoma, amplificando i rispettivi messaggi mediante le reti sociali. Secondo uno studioso del mondo rabbinico, il dott. Avishay Ben Haim, fra gli ultraortodossi sefarditi e quelli ashkenaziti c'è un forte divario. I primi, sulla scia degli insegnamenti del conciliante rabbino Ovadia Yossef, cercano di non perdere mai i contatti con il resto della società israeliana. Quelli ashkenaziti invece, a suo parere, elevano attorno a sé mura alte di difesa dal mondo esterno. "Vogliono restare - sostiene - un 'Pach shemen tahor', una lattina di olio assolutamente puro". Se ciò comporta scontri con la polizia, il compattamento di quella società ne risulta rafforzato. Si crea allora un ethos di dedizione senza compromessi alla Torà, un confronto epico con il mondo esterno.
In passato tutti i governi israeliani hanno garantito al mondo ultraortodosso ampi spazi di autonomia. Fra questi, la esenzione di massa dal servizio militare e la gestione di una vasta rete di istituti educativi che da un lato viene sostenuta da finanziamenti statali, ma dall'altro è esente (di fatto) da controlli sui contenuti. La richiesta che al loro interno si insegnino materie di utilità per l'inserimento nella società moderna (fra cui matematica, inglese, educazione civica) resta spesso ignorata. Di conseguenza ampi settori degli ebrei haredim si trovano relegati ai margini della società. Tutto ciò rischia di aggravarsi ulteriormente nei prossimi decenni quando (ogni coppia di ebrei ultraortodossi ha mediamente sette figli) la loro percentuale nello Stato di Israele sarà ancora più marcata.
In questo senso, la crisi del coronavirus potrebbe avere anche un risvolto positivo: ossia potrebbe indurre i responsabili di governo a elaborare un nuovo patto sociale con la comunità haredì che da un lato assicuri che nessun attacco venga sferrato alla sua identità e al suo stile di vita, ma che dall'altro sventi il rischio che essa diventi un peso insopportabile per il resto del Paese.

(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2020)


Mantova, viaggio alle radici della qabbalah:dai primi "Zohar" al libro dell'alchimia

Il Fondo ebraico nella camera blindata della Teresiana. Una parte del patrimonio è finito a Budapest nel 1895

di Gilberto Scuderi

 
La Biblioteca Teresiana a Mantova
MANTOVA - Se in Teresiana entri nella camera blindata che custodisce i tesori della biblioteca, ti trovi al cospetto di librerie e scaffali con sopra una montagna di carta, manoscritta e stampata: libri antichi, in prevalenza. Senti il loro odore, che non sai definire, tanto è particolare, e nemmeno sai se sia quello originale, arrivato al nostro olfatto da un tempo remoto, o se qualche disinfestazione da parassiti e insetti, muffe o fioriture lo abbia più o meno recentemente trasformato.
Anche la climatizzazione della camera, il giusto grado di temperatura, umidità eccetera, contribuisce alla nostra incertezza, ma non a quella della carta la quale gode del comfort, magari dopo secoli di vita dura, grondante di sudore d'estate, afflitta da reumatismi in autunno e inverno, con qualche tiepido risveglio in primavera.
Accanto a codici miniati, incunaboli, cinquecentine e così via, occupano un buon numero di metri cubi i libri della biblioteca della Comunità ebraica, con quella calligrafia e quei caratteri che si leggono da destra a sinistra, che solo in pochi capiscono e leggono. Senza contare che questi libri si aprono non dalla prima pagina (dalla prima carta) ma dall'ultima, quella che per noi è l'ultima ma per loro è la prima. Ma al di là di queste differenze, è sufficiente sentire due titoli per aprire il nostro animo alla curiosità. La carta racconta di permutazione e di splendore. Il "Sefer ha-tzeruf" (Libro della permutazione, delle lettere dell'alfabeto, l'alchimia per tramutare i metalli vili in oro) è un manoscritto del XVI-XVII secolo, mentre il "Sefer ha-Zohar" (Libro dello splendore) è fondamento della qabbalah sefardita in tre volumi stampati a Mantova tra il 1558 e il 1560.
Lo "Zohar" - qui presente in 21 esemplari e rarissimo altrove - è stato stampato da Ya'aqov ben Naftali da Gazzuolo e Me'ir ben Efrayim da Padova. La libreria "israelitica" è stata depositata in Teresiana nel gennaio 1932, dopo la convenzione del dicembre 1930 tra la Comunità ebraica di Mantova, il ministero dell'Educazione nazionale e il Comune di Mantova. Dalla carta al web: il sito della Teresiana dà tutte le informazioni. Dal Quattrocento all'Ottocento Mantova fu un centro molto importante nella storia della cultura ebraica e durante il Cinquecento e la prima metà del Seicento numerosi rabbini e studiosi diedero vita a collezioni di manoscritti e stampati. Il fondo comprende 163 manoscritti (due di proprietà della Teresiana) databili tra il Trecento e il Settecento, e 1549 volumi a stampa tra cui bibbie rabbiniche, grammatiche, dizionari, testi filosofici e di letteratura giuridica. Molte edizioni sono uscite dalle stamperie ebraiche di Mantova e Sabbioneta. Difficile è ricostruire con esattezza la storia della biblioteca della comunità ebraica mantovana.
Già del suo nucleo iniziale - che ebbe origine nel maggio 1767, quando la comunità acquistò dei volumi da Rafa'el Menahem Mendola - si ignora la quantità. Così come ignoto è il numero dei volumi e dei manoscritti ceduti nel 1895 dal rabbino capo di Mantova, Marco Mortara, a David Kaufmann. La collezione Kaufmann, conservata a Budapest all'Accademia ungherese delle scienze, è composta da 600 manoscritti ebraici e da oltre 1000 vecchi libri e stampe, saggi accademici e frammenti di manoscritti che appartennero - oltre che a Gabriele Trieste, presidente della Camera di commercio di Padova - soprattutto a Mortara. Kaufmann poté acquistare tutto questo materiale grazie alla dote della moglie. Fu poi la suocera di Kaufmann, seguendo il volere della figlia, che donò l'intera collezione all'Accademia delle scienze di Budapest.
È molto probabile che questi volumi - a eccezione forse di quelli della libreria privata di Mortara - appartenessero alla libreria della comunità. Se così fosse, i cataloghi della collezione conservata a Budapest (consultabili online) potrebbero essere uno strumento per ricostruire la consistenza dell'intero fondo ebraico mantovano. Se la carta fu indispensabile per stampare i libri, oggi la digitalizzazione consente di leggerli a video, comodamente. Anche i cataloghi cartacei appartengono al passato. Quelli online sono versatili, per correggere errori, aggiungere e togliere in pochi minuti.

(Gazzetta di Mantova, 10 novembre 2020)


Israele: forte preoccupazione che Biden riproponga la politica di Obama in Medio Oriente

di Massimo Caviglia

La battuta che circola in queste ore in Israele dice molto sul nervosismo che traspare dopo le elezioni americane. Racconta del premier Netanyahu che telefona a Trump e gli propone la soluzione a due Stati. In realtà Netanyahu si è congratulato col neo Presidente evidenziando l'amicizia di lunga data.
   Ma non pochi a Gerusalemme temono che Biden riproponga in Medio Oriente la politica del Presidente Obama, tornando ad appoggiare i Paesi musulmani sciiti a discapito dei sunniti. L'Arabia Saudita è molto preoccupata, perché significherebbe un rientro americano nell'accordo nucleare con l'Iran, che porterebbe a modificare anche l'accordo di difesa con gli Emirati Arabi fino allo stop alla vendita dei caccia F-35, condizione richiesta da Teheran.
   Già il Presidente palestinese Abbas ha proposto al suo omologo di trasferire nuovamente l'ambasciata statunitense da Gerusalemme a Tel Aviv. Ma Biden cercherà di mediare, non spostando l'ambasciata e riaprendo il consolato americano a Gerusalemme Est e l'ufficio dell'OLP a Washington, e ripristinando gli aiuti economici ai palestinesi.
   Biden dovrà poi offrire qualcosa al senatore Sanders, altro candidato alla Casa Bianca che ha riversato su di lui i propri voti; un grande fautore del taglio degli aiuti militari americani ad Israele, che però il neo Presidente non vorrebbe ridurre.
   Infine Biden inviterà sicuramente l'Iran a fare qualche passo indietro sull'arricchimento dell'uranio come condizione per rientrare nell'accordo sul nucleare. Bisogna vedere però cosa farà quando Teheran cercherà di raggirarlo come ha fatto finora con gli ispettori dell'Agenzia per l'Energia Atomica.
   Un'indicazione per capirlo verrà dai nomi del Segretario di Stato e del Consigliere per la Sicurezza nazionale: se saranno ex membri dell'amministrazione Obama, Israele non dormirà sonni tranquilli. E, come scrive un utente sui social, l'unica cosa peggiore del COVID-19 sarà un BIDEN-20.

(GeosNews, 9 novembre 2020)


Libano-Israele: al via ai negoziati per le ZEE. Un'opportunità per l'Italia?

di Piercarlo Ghossoub

 
Lo scorso 14 ottobre Libano e Israele si sono seduti al tavolo delle trattative per discutere, per la prima volta in tre decadi, di questioni non concernenti la sicurezza nazionale. Un avvenimento acclamato da Washington come "storico", considerato che i due Paesi ad oggi continuano ad essere tecnicamente in guerra e non hanno relazioni diplomatiche formali.
  Le trattative, tenutesi sotto l'egida delle Nazioni Unite e con la supervisione degli Stati Uniti, hanno avuto luogo a ridosso della Linea Blu che separa i due Paesi, presso la base di Ras Naqoura di UNIFIL - United Nations Interim Force in Lebanon, una forza di interposizione dell'ONU creata per mediare tra Israele e Libano dopo lo scoppio del conflitto negli anni '70. L'obiettivo delle trattative è trovare una soluzione all'annosa disputa sulla definizione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE), alla luce della scoperta di ricchi giacimenti di idrocarburi presenti in un'area di circa 860 chilometri quadrati, sulla quale entrambi i Paesi rivendicano la propria sovranità.
  La controversia risale al 2011, quando Israele ratificò un accordo con Cipro utilizzando come punto di riferimento un confine marittimo che il Libano e la Repubblica cipriota avevano precedentemente concordato nel 2007; un accordo che, tuttavia, il Parlamento libanese non ratificò mai. Nel 2011 il Libano specificò, in una trattativa con le Nazioni Unite, che il suo confine marittimo comprendeva altri 860 chilometri quadrati a Sud della linea tracciata nel 2007. Israele non accettò tale revisione, dando inizio alla disputa che perdura ancora oggi.
  Le principali cause del ritardo nel trovare una soluzione alla questione possono essere ricondotte all'endemica fragilità politica libanese, caratterizzata dalle continue dispute interne tra le varie comunità religiose che inesorabilmente si riflettono sulla politica estera, in particolare nei riguardi di Israele perché, lo ricordiamo, il fatto di non essere formalmente riconosciuto dal Libano rende il negoziato ancor più complicato.
  Oggi, un decennio di mediazione statunitense, costellato da una serie innumerevole di crisi politiche croniche, sembra finalmente aver raggiunto un punto di svolta, paradossalmente anche grazie alla recente crisi finanziaria in cui è piombato il Paese dei Cedri. La Lira libanese ha perso l'80% del suo valore, povertà e disoccupazione sono state soggette ad una crescita repentina, andando drasticamente ad influenzare il rapporto PIL/debito pubblico che ha ampiamente superato la cifra record del 170%.

 La successiva esplosione del porto di Beirut del 4 agosto ha gettato litri di benzina sul fuoco.
L'inagibilità del porto ha privato il Libano delle importazioni fondamentali al soddisfacimento del fabbisogno nazionale per quei beni di prima necessità quali medicinali, derrate alimentari e risorse energetiche che il Paese non è in grado di produrre autonomamente e che hanno acuito inevitabilmente il disagio socio-economico e politico.
  In questo contesto, lo sfruttamento delle presunte risorse energetiche disponibili nella zona contesa potrebbero rivelarsi una concreta soluzione per risollevare economicamente il Paese.
  Resta doveroso l'utilizzo del periodo ipotetico. Le speranze libanesi rimangono infatti poco più di un miraggio. In primo luogo, l'effettiva esistenza delle riserve di gas deve ancora essere accertata. Infatti, un primo pozzo situato nel Blocco 4, esplorato ad aprile 2020, è risultato asciutto. In secondo luogo, anche se dovessero essere scoperti giacimenti di gas, alcune stime indicano che questi non potrebbero essere sfruttati adeguatamente almeno fino al 2030, fondamentalmente a causa dell'assenza di un'industria estrattiva e a causa degli esorbitanti costi e tempi necessari alla sua realizzazione.
  A ciò si aggiungerebbero alcune peculiarità libanesi: la creazione di una simile industria richiederebbe importanti infrastrutture tecniche, risorse finanziarie e capacità di gestione assenti in Libano a partire dallo scoppio della guerra civile e difficilmente recuperabili nelle circostanze attuali. Contemporaneamente, la corruzione, la negligenza e la cattiva governance che hanno prosciugato le finanze del Paese e portato il popolo all'esasperazione, potrebbero tramutare un'opportunità di rinascita economica e indipendenza energetica nell'ennesimo scontro tra interessi settari, incrementando conflittualità e povertà all'interno del Paese.
  Risulta evidente come, in un simile scenario, una radicale riforma strutturale dell'assetto istituzionale libanese sia necessaria tanto quanto inevitabile per poter sperare in una ripresa economica concreta. I recenti sviluppi che hanno visto per l'ennesima volta la nomina a Primo ministro di Saad Hariri, nonostante questi fu il bersaglio principale delle proteste anti establishment iniziate nell'ottobre 2019 che portarono alle sue dimissioni, rendono l'attuazione delle riforme un'utopia alla stregua della realizzazione di un'industria petrolifera efficiente.

 Un'opportunità per l'Italia?
Alla luce di quanto detto, appare chiara la necessità per il Libano di trovare sostegno in attori esterni al panorama politico nazionale. In questa prospettiva è doveroso per l'Italia assumere una posizione di preminenza nel contesto delle trattative israelo-libanesi.
  Grazie alla ormai pluriennale presenza sulla Linea Blu in seno alla sopracitata missione UNIFIL, l'Italia gode di uno status privilegiato nell'ambito delle trattative tra i due Paesi. L'intercessione condotta dal comandate in carica della missione Stefano Del Col (quarto comandante italiano dal 2006) all'interno del forum Tripartito, il principale strumento preposto all'attuazione degli obiettivi della risoluzione 1701 dell'ONU, deve essere un'occasione per riaffermare l'autorevolezza della capacità di mediazione dell'Italia in un contesto delicato come quello mediorientale.
  In linea con quanto affermato da Paolo Crippa e Lorenzo Marinone in un report del Ce.S.I., consolidando la collaborazione con le Forze Armate Libanesi, l'Italia si assicurerebbe una relazione privilegiata con una Forza Armata operante in un uno dei crocevia più importanti di tutto il Medio Oriente da un punto di vista strategico; essendo oggi l'Italia il secondo Paese fornitore del Libano, dietro la Cina e alla pari degli Stati Uniti, tale prospettiva garantirebbe interessanti sviluppi all'interno del panorama energetico offshore del Mediterraneo orientale e all'interno delle acque libanesi, dove ENI svolge un ruolo di primissimo piano detenendo un interesse partecipativo del 40% nei blocchi offshore 4 - come precedentemente detto, rivelatosi asciutto - e 9. Il blocco 9, in particolare, comprende proprio parte della ZEE contesa tra Libano e Israele, per cui la scoperta di un'eventuale giacimento di idrocarburi fornirebbe all'Italia una preziosa opportunità di investimento economico nonché la possibilità di garantirsi una nuova fonte di approvvigionamento energetico a condizioni privilegiate.
  Sebbene l'avvio dei negoziati sembrerebbe rappresentare l'inizio di un processo di normalizzazione dei rapporti tra i governi dei due Paesi, è prematuro credere che questi possano spianare la strada verso una pace concreta. Del resto, come più volte evidenziato da entrambe le parti, i negoziati sono stati avviati esclusivamente per motivi economici e quando si fanno affari, in particolare quando si tratta di gas e petrolio, è necessaria stabilità. Allo stesso tempo, nel contesto libanese, la realizzazione di una solida industria petrolifera, capace di sfruttare le eventuali risorse della propria ZEE, appare un miraggio senza un concreto piano di riforma politico-istituzionale. In questo scenario l'Italia, alla luce dell'onere e del privilegio attribuitegli dalla guida della missione UNIFIL, è chiamata ad assumere il ruolo che le spetta. Riscoprire il potenziale del suo capitale diplomatico è fondamentale non solo per il raggiungimento dell'agognata normalizzazione delle relazioni tra Israele e Libano, ma anche per contribuire in modo determinante alla pace e alla stabilità dell'intera regione mediorientale.
  Un progetto ambizioso ma necessario per un'Italia, che deve ritrovare il lustro perduto e puntare a divenire il fulcro delle sempre più cruciali dinamiche geopolitiche euro-mediterranee.

(MERCURIO, 9 novembre 2020)


I palestinesi invocano il boicottaggio di Israele, e poi chiedono a Israele di salvare loro la vita

Saeb Erekat ha invocato per anni il il boicottaggio e l'isolamento di Israele. Se e quando Erekat sarà guarito e farà ritorno a casa dai suoi familiari, farebbe meglio a scusarsi con la popolazione palestinese per averla privata delle eccellenti cure mediche che lui stesso ha ricevuto all'ospedale Hadassah di Gerusalemme, e potrebbe anche pensare di ringraziare i medici israeliani che hanno lavorato 24 ore su 24 per mantenerlo in vita.

di Bassam Tawil*

 
L'ospedale Hadassah Ein Kerem, a Gerusalemme, in Israele, dove Erekat ha scelto di essere ricoverato e curato
L'alto dirigente palestinese Saeb Erekat ha trascorso gli ultimi due decenni invocando il boicottaggio e l'isolamento di Israele. Negli ultimi mesi, Erekat, un leader dell'OLP, già capo negoziatore palestinese nel processo di pace con Israele, si è espresso contro gli accordi per normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
   Lui e altri leader palestinesi, tra cui il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, hanno accusato gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein di tradire i palestinesi e di pugnalarli alle spalle, facendo la pace con Israele.
   L'8 ottobre, Erekat ha dichiarato di aver contratto il Covid-19. Pochi giorni dopo, mentre le sue condizioni sembravano peggiorare, Erekat è stato portato d'urgenza dalla sua casa nella città cisgiordana di Gerico in un ospedale israeliano a Gerusalemme: l'Hadassah Ein Kerem. Un'ambulanza israeliana, scortata da soldati israeliani, ha trasferito Erekat all'ospedale israeliano su richiesta della sua famiglia e della leadership dell'Autorità Palestinese (AP).
   L'uomo che ha lavorato alacremente per danneggiare e diffamare Israele e che ha biasimato gli arabi per aver instaurato relazioni con Israele, alla fine ha scelto di farsi curare in un ospedale di quello stesso Stato che ha trascorso gran parte della sua vita a demonizzare.
   Quando ha dichiarato di essere stato contagiato dal coronavirus, Erekat ha ricevuto un'offerta da Re Abdullah di Giordania per ricevere cure mediche nel Regno. Esprimendo gratitudine al sovrano giordano, il leader dell'OLP ha declinato l'offerta.
   Piuttosto, quando la sua salute è peggiorata, Erekat, insieme ai suoi familiari e alla leadership dell'AP, si è rivolto a Israele per chiedere aiuto. Israele ha risposto inviando immediatamente a Gerico un'ambulanza e dei soldati per trasferire l'alto dirigente palestinese all'ospedale Hadassah, dove i medici israeliani si sono adoperati per salvargli la vita.
   La sua decisione paradossale non è passata inosservata a molti commentatori arabi.
   A quanto pare, alcuni arabi non sono noncuranti della mostruosa ipocrisia della leadership palestinese. Questi arabi considerano il ricovero di Erekat in un ospedale israeliano come un ulteriore segno dei discorsi ambigui e delle menzogne dei leader palestinesi, i quali, giorno dopo giorno, incitano il loro popolo contro Israele, ma che scappano in Israele ogni volta che sentono la necessità.
   Particolarmente assurdo è il fatto che Erekat sia stato ricoverato in un ospedale israeliano per usufruire delle migliori cure mediche in un momento in cui il governo palestinese nega ai comuni cittadini palestinesi i permessi per recarsi negli ospedali israeliani.
   A giugno, l'organizzazione non governativa israeliana Physicians for Human Rights ha annunciato che le agenzie palestinesi incaricate di mantenere i contatti con le autorità israeliane avevano bloccato l'invio delle domande per ottenere i permessi di ingresso in Israele per motivi sanitari. Il gruppo ha menzionato dei pazienti palestinesi i quali hanno dichiarato che il Ministero della Salute palestinese ha rifiutato loro la possibilità di rivolgersi a un ospedale israeliano o di coprire il costo delle cure sanitarie in Israele.
   Perché la leadership palestinese sta privando la propria popolazione di cure mediche avanzate e di assistenza sanitaria in Israele? Perché questa leadership ha deciso alcuni mesi fa di interrompere tutti i legami con Israele per protestare contro il piano israeliano di esercitare la sovranità in alcune parti della Cisgiordania. Se il piano non è mai stato attuato, per quale motivo Mahmoud Abbas e i suoi funzionari a Ramallah continuano a boicottare Israele?
   Evidentemente, questo boicottaggio non si applica quando è in gioco la vita di un alto dirigente come Erekat, che è segretario generale dell'OLP. Erekat non voleva andare in Giordania. Non ha chiesto aiuto all'Egitto o a nessun altro Paese arabo. Il suo appello è stato rivolto direttamente ai suoi vicini israeliani, i quali, senza avere la minima esitazione, gli hanno salvato la vita. Questa è stata probabilmente l'unica decisione saggia che Erekat abbia mai preso.
   Il giornalista ed editorialista libanese Nadim Koteich, commentando il ricovero di Erekat, ha rilevato "il pathos e le connotazioni simboliche" di un leader palestinese che, "nel suo complesso calvario di salute trova solo un ospedale e uno staff sanitario israeliano a cercare di salvargli la vita".
   Osservando che Erekat aveva respinto gli accordi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e i Paesi del Golfo, Koteich afferma che il ricovero del dirigente palestinese in un ospedale israeliano indica che gli stessi palestinesi "sono in una fase di piena normalizzazione dei rapporti con Israele".
   Koteich si domanda per quale motivo i palestinesi più di 25 anni dopo la creazione dell'Autorità Palestinese non abbiano ancora una moderna struttura ospedaliera. "Come mai i palestinesi non hanno un ospedale adatto a curare i palestinesi?" si chiede il giornalista libanese.
"È plausibile che un quarto di secolo dopo la creazione dell'Autorità Palestinese i palestinesi non abbiano ancora un centro medico degno degli specialisti palestinesi che lavorano in tutti gli ospedali di tutto il mondo? I palestinesi hanno conquistato l'intera Striscia di Gaza (dopo il ritiro di Israele nel 2005), e invece di trasformarla in una zona economica/industriale l'hanno fatto diventare un misero campo per l'Islam politico e un'arena per la guerra civile palestinese (tra la fazione di Fatah, guidata da Abbas, e Hamas)."
Il quotidiano londinese Al-Arab, riferendosi alle cure mediche ricevute in Israele dal leader palestinese, ha affermato che il fatto che Erekat abbia scelto di andare in un ospedale israeliano e non in uno giordano, è la dimostrazione del fatto che "ha piena fiducia negli israeliani, nonostante le sue dichiarazioni pubbliche contro di loro".
   Anche Ahmed Moussa, un noto personaggio mediatico egiziano, ha espresso le sue opinioni in merito alla diatriba sulle cure mediche prestate in Israele a Erekat. Moussa ha affermato che c'erano "molti interrogativi" sull'ospedalizzazione di Erekat in Israele, soprattutto in seguito agli attacchi da lui lanciati agli arabi che normalizzano i loro legami con Israele. "Ci sono ospedali palestinesi, ci sono ospedali in Giordania, in Egitto e in molti Paesi arabi", ha commentato Moussa.
"Molte persone ora si chiedono perché Erekat è stato trasferito in un ospedale israeliano? Solo pochi giorni fa Erekat attaccava gli arabi per aver instaurato relazioni con Israele. Ma ha deciso di essere curato in un ospedale israeliano. Egitto e Giordania hanno i migliori ospedali. Non è strano che Erekat abbia scelto un ospedale israeliano piuttosto che uno arabo? I palestinesi devono spiegare all'opinione pubblica perché lui ha preferito recarsi in un ospedale israeliano. Non sono l'unico a sollevare tale questione. Devono darci una risposta. Devono spiegarci perché hanno portato Erekat in un ospedale israeliano."
La domanda di Moussa non è affatto retorica. È stata posta per sottolineare l'ipocrisia dei leader palestinesi.
   I dirigenti palestinesi come Erekat possono permettersi le migliori cure mediche possibili per se stessi e i loro familiari, impedendo alla loro popolazione in Cisgiordania e a Gaza di recarsi negli ospedali israeliani. La questione di Erekat è un'ulteriore prova del fatto che l'attuale leadership palestinese non si preoccupa degli interessi né della salute della sua gente, ma solo di coloro che sono vicini a Mahmoud Abbas.
   Se e quando Erekat sarà guarito e farà ritorno a casa dai suoi familiari, sarebbe opportuno che si scusasse con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrein per aver stigmatizzato gli accordi per la normalizzazione delle relazioni con Israele da loro firmati. In seguito, farebbe meglio a scusarsi con la popolazione palestinese per averla privata delle eccellenti cure mediche che lui stesso ha ricevuto all'ospedale Hadassah di Gerusalemme.
   Forse Erekat potrebbe anche pensare di ringraziare i medici israeliani che hanno lavorato 24 ore su 24 per mantenerlo in vita. Inoltre, può ringraziare lo staff sanitario e i soldati israeliani che lo hanno scortato dalla sua casa di Gerico a Gerusalemme. E infine, Erekat potrebbe esprimere al mondo il suo rammarico per aver invocato il boicottaggio di Israele, il Paese a cui sapeva di poter rivolgersi per salvarsi la vita, a prescindere dal male che gli aveva inflitto.

* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 9 novembre 2020 - trad. di Angelita La Spada)


Morto Saeb Erekat, storico capo negoziatore dell'Olp. Aveva il covid-19

di Giacomo Kahn

Saeb Erekat, capo negoziatore e segretario generale del comitato esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e' morto per il Covid. Erekat, che aveva 65 anni ed era da tempo in cattive condizioni di salute, era stato ricoverato nell'ospedale Hadasah di Gerusalemme dopo aver contratto il virus. Erekat nel 2012 aveva subito un attacco di cuore e tre anni fa era stato sottoposto a un trapianto di polmoni, in quanto soffriva di fibrosi polmonare. Formatosi negli Stati Uniti, il diplomatico fu il protagonista delle trattative per gli accordi di Oslo con Israele del 1993, che portarono alla firma a Washington tra Israele e l'Olp di una Dichiarazione dei principi che prevedeva cinque anni di transizione per il passaggio della striscia di Gaza e di Gerico all'Autorità palestinese, la creazione di una polizia palestinese, elezioni. Poi, nel maggio 1994 al Cairo la firma definitiva tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, che decidono di affrontare in un altro negoziato lo stutus di Gerusalemme e l'Autorità palestinese. Trattative successivamente interrotte nel 2000 a Camp David, dove Arafat rifiuta il generoso compromesso, proposta da Ehud Barak, di attribuire alla'Autorità Palestinese oltre il 90% dei territori contesi. Dopo quel rifiuto ripartirà un lungo e sanguinoso periodo di terrorismo palestinese, anche attraverso l'uso di terroristi suicidi che causeranno oltre mille morti, e decine di migliaia di feriti, tra la popolazione israeliana.

(Shalom, 10 novembre 2020)


Guerra tra clan per la supremazia palestinese

di David Elber

 
I primi effetti concreti degli accordi di pace tra Israele e le monarchie del golfo persico si stanno riverberando in seno alla compagine politica palestinese. Infatti, le mai sopite rivalità tra le varie fazioni, in perenne guerra per il controllo del territorio e dei soldi che molto generosamente arrivano da tutto il mondo, si sono inasprite nelle ultime settimane.
   L'ultimo episodio cruento è stato uno scontro a fuoco nel campo profughi di Balata (vicino a Nablus), che ha visto come protagonisti le milizie di Fatah fedeli ad Abu Mazen contrapposte a quelle di Mohammed Dahlan, che a causato la morte di un comandante della fazione di Dahlan.
   Mohammed Dahlan, ex responsabile della sicurezza di Fatah a Gaza, fu esautorato del suo incarico e costretto in esilio negli Emirati Arabi dopo la clamorosa sconfitta militare patita da Fatah ad opera di Hamas nel 2007. Quell'anno Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza con un colpo di stato militare che costò la vita a centinaia di esponenti politici e militari di Fatah. Dopo questa disfatta Dahlan accusato di tradimento da tutta la dirigenza dell'ANP fu costretto a riparare negli Emirati per non rischiare di essere ucciso per vendetta. Dahlan ha però sempre mantenuto un certo controllo su varie fazioni palestinesi sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania legate da solidi legami tribali. Inoltre, ha saputo coltivare e accrescere numerose amicizie politiche ed economiche in vari paesi del Golfo persico ad iniziare dagli Emirati.
   Con la firma degli accordi di pace tra gli emiratini e Israele il suo nome è tornato in auge come possibile successore dell'ultra ottantenne e malato Abu Mazen, posizione fortemente voluta dagli sceicchi del Golfo. Eventualità decisamente avversata dagli altri esponenti di Fatah, niente affatto desiderosi di cedere il controllo delle centinaia di milioni di euro che ogni anno vengono versati nelle casse dall'ANP.
   Il contrasto per la gestione dei soldi si unisce alla più vecchia rivalità tra le fazioni palestinesi, la così detta leadership "interna" cioè quella che è sempre stata presente in Cisgiordania e a Gaza (tra di essi ci sono Dahlan e il suo clan e il gruppo terroristico di Hamas) e la leadership "esterna" cioè quella che è arrivata al seguito di Arafat da Tunisi dopo la firma degli accordi di Oslo.
   Fin dagli anni Novanta ci sono stati molti scontri tra le fazioni rivali per il controllo del potere. Ora Dahlan, che per quasi 15 anni era caduto in disgrazia, con il pieno appoggio degli Emirati e del Bahrein è tornato in auge e sta cercando di stringere nuove alleanze tra i clan palestinesi per averne l'appoggio quando Abu Mazen non sarà più in grado di detenere il potere. Gli altri esponenti della leadership "esterna", dal canto loro, stanno cercando con tutti i mezzi di contrastare i piani di Dahlan.
   In questa lotta di potere tra clan, vanno visti gli ultimi tentativi di riconciliazione tra gli esponenti di Fatah e di Hamas avvenuti in Turchia di alcune settimane fa. Ma anche questa volta i contrasti tra le due organizzazioni non hanno portato a nulla di concreto. Anzi, la posizione di Hamas è sembrata molto più affine a quella del clan di Dahlan, che come evidenziato, è accomunata dal fatto di essere "interna" e quindi molto ostile alla dirigenza venuta da Tunisi vista senza mezzi termini come straniera e ritornata solo per predare i soldi degli aiuti internazionali.
   Questi scontri sono probabilmente i primi che coinvolgeranno le tre maggiori fazioni palestinesi in vista della successione ad Abu Mazen. Ogni fazione ha i propri padrini: Mohammed Dahlan gli Emirati (e quindi l'Arabia Saudita), Fatah la UE e la comunità Internazionale, mentre Hamas gode dell'appoggio sempre più forte della Turchia e in seconda battuta dell'Iran. Vedremo se la contesa sfocerà in una guerra a tutto campo tra clan oppure se troveranno un'intesa sul modo di gestire i soldi internazionali.

(L'informale, 9 novembre 2020)


Firenze - Deportazione degli ebrei, celebrazione commemorativa al binario 16

L'assessore Sara Funaro: "Fondamentale commemorare questi momenti e sensibilizzare i giovani sulla lotta alle discriminazioni e sull' antisemitismo"

L'assessore Sara Funaro (al centro) con Fink (a sinistra) e Piperno  
FIRENZE - "Ritrovarci ogni anno al binario 16 a ricordare il passato e a porre l'accento sui fatti di intolleranza e razzismo che purtroppo continuano verificarsi intorno a noi ci fa capire quanto sia fondamentale, non solo commemorare questi momenti, ma anche e soprattutto lavorare sui giovani per sensibilizzarli sulla lotta alle discriminazioni e sull'antisemitismo". Lo ha detto l'assessore all'Educazione Sara Funaro, intervenendo alla cerimonia commemorativa che si tiene ogni anno al binario 16 della stazione di Santa Maria Novella da dove il 9 novembre 1943 partì il primo convoglio di deportati ebrei, con più di 300 persone ammassate su alcuni vagoni di un treno diretto ad Auschwitz.
   Alla commemorazione erano presenti, tra gli altri, l'assessore alla Memoria Alessandro Martini, il presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo, monsignor Vasco Giuliani, il rabbino Gadi Piperno, l'imam Izzedin Elzir, il presidente del Consiglio della comunità ebraica di Firenze Enrico Fink, un rappresentante dell' Aned e i Gonfaloni della città di Firenze, medaglia d'oro al valor militare, e di alcuni Comuni della città metropolitana.
   "Essere al binario 16 senza i nostri studenti fa provare un effetto molto strano perché questa cerimonia è un momento di formazione e riflessione importante per tutti noi e per i nostri ragazzi". Quest'anno, infatti, a causa dell'emergenza Covid-19 la cerimonia si è tenuta in forma ristretta nel rispetto delle norme per evitare il contagio.
   Nel suo intervento l'assessore Funaro ha sottolineato l'importanza del valore della memoria da coltivare "affinché non si ripetano le pagine buie della nostra storia e per far sì che il nostro presente e il nostro futuro siano migliori". L'assessore ha ricordato anche quanto Firenze sia legata alla senatrice a vita Liliana Segre, che un mese fa alla Cittadella della pace a Rondine ha fatto il suo ultimo intervento pubblico: "Il nostro Comune ha aderito al Comitato promotore dell'evento del 9 ottobre scorso, in occasione dell'ultima testimonianza pubblica della Segre ai giovani e alle scuole, con la quale ha contributo ancora una volta a promuovere i valori di pace, accoglienza, dialogo reciproco e rispetto dei diritti umani. Anche il nostro Comune è impegnato a tramandare questi messaggi attraverso progetti nelle scuole". "I giovani sono il nostro futuro ed è importante farli riflettere sul tema delle discriminazioni e del razzismo - ha concluso Funaro - che in passato hanno portato a tragedie che non vanno dimenticate. La scuola è il luogo ideale in cui coltivare la memoria perché i ragazzi sono il nostro futuro e la nostra speranza.

(Città di Firenze, 9 novembre 2020)


Atterrato a Dubai primo volo turistico partito da Israele

A Dubai è arrivato il primo volo turistico partito da Israele dopo gli accordi di normalizzazione tra i due paesi. L'aereo FlyDubai è atterrato alle 17.40 locali di ieri pomeriggio dopo tre ore di viaggio, pieno di turisti israeliani diretti verso la città. Il volo low cost è partito dal Ben Gurion di Tel Aviv ed ha sorvolato lo spazio aereo dell'Arabia Saudita, anche questo un fatto derivante dagli Accordi di Abramo firmati alla Casa Bianca lo scorso settembre tra Israele e gli Emirati.

(Travelnostop, 9 novembre 2020)


Netanyahu ringrazia Trump e fa gli auguri a Biden. I palestinesi sperano nel dialogo

Il premier: "Sono certo che continueremo a lavorare insieme per rafforzare l'alleanza speciale tra noi e gli Usa". Abu Mazen auspica che possano "migliorare le relazioni palestinesi-americane per ottenere libertà, indipendenza e giustizia per la nostra popolazione".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - C'è un aneddoto che circola in Israele quando si parla di elezioni americane: Levi Eskhol, primo ministro durante la Guerra dei Sei Giorni, allertato dell'imminente minaccia di siccità, chiese: "Dove?". Alla risposta: "In Israele", tirò un sospiro di sollievo: "Ah! Per un attimo mi sono spaventato, pensavo negli Stati Uniti".
Che la politica israeliana sia legata a doppio filo a quella del suo principale alleato strategico è noto. Dopo quattro anni di luna di miele Trump-Netanyahu, in Israele c'era una chiara preferenza per una rielezione del presidente uscente. Eppure, la partita elettorale che si è appena conclusa è stata definita come una sorta di win-win situation. Nel giorno della proclamazione della vittoria di Joe Biden, i messaggi che arrivano dall'establishment esprimono fiducia in una produttiva collaborazione con la nuova amministrazione democratica.
Benjamin Netanyahu ha aspettato un po' più di altri leader europei, ma questa mattina si è congratulato con Biden e Kamala Harris: "Conosco Biden da quasi quarant'anni ed è un grande amico d'Israele. Sono certo che continueremo a lavorare insieme con entrambi per rafforzare l'alleanza speciale tra Israele e gli Stati Uniti". Due tweet per due presidenti: parallelamente, Netanyahu ha rilasciato un altro cinguettio in cui ringrazia Trump per "la grande amicizia dimostrata allo Stato d'Israele e a me personalmente". Menzionando alcuni degli omaggi dell'amministrazione Trump: dal trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, al riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, dalla ferma posizione contro il nucleare iraniano, agli storici Accordi di Abramo che in due mesi hanno portato Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan ad allacciare relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.
La valutazione in Israele è che Biden non cederà alla frangia più radicale del Partito democratico per quanto riguarda la questione israelo-palestinese (quella che è riuscita a fare spostare solo di pochi punti il voto degli ebrei americani, tradizionalmente democratico, verso il Grand Old Party); anzi, la convinzione - anche tra i palestinesi - è che l'arena mediorientale non sarà predominante nell'agenda del nuovo presidente, concentrato sulle sfide interne.
Nei giorni della travagliata attesa dello spoglio elettorale, il primo ministro Mohammad Shtayyeh aveva espresso bene la preoccupazione palestinese rispetto agli esiti: "Che Dio ci aiuti se rivince Trump". Oggi invece, la leadership palestinese, messa all'angolo dai recenti accordi di normalizzazione tra Israele e mondo arabo, torna a respirare. Abu Mazen si è congratulato con Biden, auspicando che la sua elezione "rafforzi le relazioni palestinesi-americane per ottenere libertà, indipendenza e giustizia per la nostra popolazione".
In molti fanno notare che il sollievo è dato anche dal fatto che l'elezione di Biden potrebbe allontanare la prospettiva di una riconciliazione tra Fatah e Hamas e di elezioni parlamentari e presidenziali. Hany al-Masri, editorialista del quotidiano palestinese Al Quds, scrive che "in assenza di alternative e di fronte alla continua minaccia degli interessi palestinesi posta da Trump, un suo nuovo mandato avrebbe favorito l'unità e le elezioni". Con Biden invece, l'operazione di difficile riuscita - dal 2007, innumerevoli tentativi di riconciliazione Fatah-Hamas sono falliti uno dietro l'altro - si fa decisamente meno impellente.
Kamala Harris - il marito ebreo e il record di votazioni pro-israeliane al Senato non incutono per ora grandi timori nell'establishment israeliano - in un'intervista ad Arab American News la settima scorsa, ha anticipato che l'Amministrazione Biden riaprirà la missione dell'Olp a Washington, ripristinerà i fondi ai palestinesi e aprirà un consolato a Gerusalemme Est (con l'apertura dell'Ambasciata a Gerusalemme, l'ufficio consolare palestinese è stato inglobato nell'ambasciata che si trova a Gerusalemme Ovest). Non sono cambiamenti sostanziali che preoccupano gli israeliani. La sfida che più allarma Gerusalemme riguarda la probabilità che il Presidente eletto possa impegnare nuovamente l'America in un accordo con l'Iran sul nucleare. E lì, come dice Danny Danon, ex ambasciatore israeliano all'Onu appena rientrato in patria, "dovremo capire se ci sarà modo di dialogare con l'amministrazione sui dettagli, oppure se dovremo opporci con tutte le nostre forze, come ha fatto Netanyahu nel 2015".
Nel 2015, quando Netanyahu parlò davanti al Congresso Usa per scongiurare di non portare avanti l'accordo sul nucleare, l'allora vicepresidente Biden non presenziò intenzionalmente alla seduta. Quel discorso fu un momento chiave nel rafforzamento dei rapporti sottobanco, in chiave anti-iraniana, tra gli Stati arabi sunniti e Israele. E non è un caso che a oggi, dopo ormai svariate ore dalla proclamazione di Biden come 46mo presidente degli Stati Uniti, il grande convitato di pietra nella parata delle congratulazioni sia proprio l'Arabia Saudita: nel 2016 fu tra i primi a congratularsi con Trump, oggi non si esprime su Biden. Seppure Riad non si sia ancora esposta pubblicamente rispetto all'instaurazione di rapporti diplomatici con Israele, con la dipartita dalla Casa Bianca del "padrino" degli Accordi di Abramo, la cooperazione con Gerusalemme potrebbe uscirne rafforzata per fare scudo di fronte a un possibile riavvicinamento Usa-Iran. E c'è chi pensa che un annuncio di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele potrebbe avvenire ancora entro il 20 gennaio - giorno dell'effettivo passaggio di consegne tra Trump e Biden - come omaggio al presidente uscente.

(la Repubblica, 9 novembre 2020)


Israele: il governo approva la nascita di una nuova cittadina ai confini con Gaza

Il gabinetto di governo israeliano ha approvato ieri i piani per la costruzione di una nuova cittadina ai confini con Gaza. "Questa - ha detto il premier Benyamin Netanyahu - è una grande notizia per Israele e per le comunità dell'area al confine con la Striscia". La cittadina - che secondo i media per ora ha il nome temporaneo di Hanun - sorgerà a sud di Sderot, non lontano dal kibbutz Saad.

(ANSA, 9 novembre 2020)


Israele: in arrivo nuove navi missilistiche, "le più avanzate al mondo"

di Luiss Guido Carli

 
Corvetta missilistica Sa'ar 6
 
L'esercito israeliano ha annunciato che presto riceverà una nuova nave da guerra e, nello specifico, una corvetta missilistica di classe Sa'ar 6. L'obiettivo è consentire alla Marina israeliana di salvaguardare i propri interessi strategici nelle acque del Mediterraneo, con particolare riferimento alle risorse di gas.
   Secondo quanto riferito dal portavoce dell'esercito, Eliyahu Sharbett, la corvetta in questione, denominata INS Magen, è la prima di una serie di navi fabbricate in Germania, presso la Thyssenkrupp Marine Systems. Questa verrà consegnata presso gli stabilimenti israeliani, situati nel Paese europeo, a Kiel, l'11 novembre, per poi giungere in Israele agli inizi del mese di dicembre. Altre tre imbarcazioni da 2.000 tonnellate, invece, verranno completate e inviate, presumibilmente, nel corso del 2021. A detta di Sharbett, Israele sta assistendo ad un "evento storico", in quanto le navi missilistiche che si appresta a ricevere rappresentano "il prototipo più avanzato al mondo". Il loro obiettivo, è stato specificato, sarà proteggere gli interessi economici e strategici del Paese, nel quadro di una delle missioni principali della Marina israeliana.
   Le Sa'ar 6 derivano dalle corvette tedesche di classe Braunschweig, e sono dotate di elevate capacità difensive e offensive, grazie ai dispositivi tecnologici di cui dispongono, oltre a distinguersi per la capacità di vivere in mare per lunghi periodi, pari a circa 2000 ore l'anno per un periodo di trenta anni. La prima Sa'ar 6 giungerà presso il porto di Haifa priva di armamenti o sistemi di difesa, i quali, già sviluppati per il 90% da compagnie israeliane, verranno aggiunti in un secondo momento.
   Nello specifico, le imbarcazioni israeliane saranno equipaggiate con sistemi radar di ultima generazione, volti a rilevare qualsiasi tipo di bersaglio in mare, su terra o nello spazio aereo, e garantire risposte rapide ed efficaci. Parallelamente, le navi sono caratterizzate da un ponte di volo in grado di ospitare elicotteri ed aerei da caccia Sea Hawk, i quali operano su lunghe distanze e per lunghi periodi. Non da ultimo, verranno dotate di sistemi di difesa antimissile, tra cui la versione marittima di Cupola di Ferro, di suite di guerra elettronica di Elbit Systems, missili Barak della IAI e di sistemi di comunicazione avanzati, che consentiranno un'interazione rapida tra le diverse unità dell'esercito.
   Gli israeliani considerano le corvette Sa'ar 6 uno dei simboli principali che testimoniano la superiorità militare di Israele. Al contempo, secondo alcuni, le nuove imbarcazioni militari sono il segnale di un possibile cambiamento nella strategia offensiva e difensiva del Paese in mare. Come riportato dal The National Interest, Israele è noto per le proprie capacità militari, così come per l'impiego di velivoli hi-tech, tra cui gli F-35, volti a contrastare qualsiasi minaccia in Medio Oriente. Sino ad ora, però, la forza di Israele si è concentrata perlopiù sulla terraferma, dove il Paese ha maggiormente investito per dotare l'esercito di veicoli da combattimento e mezzi di difesa aerea.
   Israele ha sempre fatto affidamento su piccole motovedette e su un cospicuo numero di imbarcazioni missilistiche per affrontare le minacce in mare. Ora, però, le cose potrebbero cambiare, in quanto le Sa'ar 6, la "spina dorsale" della marina israeliana per i prossimi trenta anni, consentiranno a Israele di acquisire una "nuova potenza di fuoco", con il fine ultimo di salvaguardare i giacimenti di gas al largo delle proprie coste. Nello specifico, il Paese potrà contare su quindici navi di superficie, quattro navi Sa'ar 6, tre navi Sa'ar 5 e otto navi missilistiche.
   Secondo il The National Interest, non sono da escludersi tensioni presso i giacimenti di gas nel bacino del Mediterraneo, nei pressi delle coste del Libano e della Striscia di Gaza. Già nel 2006, una corvette israeliana di classe Sa'ar 5, INS Hanit, venne colpita da missili del gruppo sciita Hezbollah. Quest'ultimo, stando a rapporti recenti, potrebbe presto dotarsi del missile Yakhont di fabbricazione russa o di una sua variante. In realtà, Hezbollah già dispone di circa 150.000 missili e razzi, ottenuti grazie al sostegno dell'Iran, e continua a sviluppare munizioni guidate di precisione.
   Parallelamente, spiega The National Interest, la minaccia posta da missili in mare è ben nota. Già nel corso della guerra delle Falkland nel 1982, gli aerei argentini Dassault-Breguet Super Etendard lanciarono missili Exocet contro diverse navi britanniche. Durante la guerra tra Iran e Iraq nel 1987, anche la USS Stark fu colpita da un missile. Per tale ragione, Israele sta provando ad equipaggiarsi in modo adeguato, dotando le proprie imbarcazioni di mezzi di tecnologia furtiva, radar array a scansione elettronica, come Amir, oltre a dispositivi volti a intercettare eventuali minacce missilistiche.
   Il nome della corvette in arrivo, "Magen", deriva dal termine ebraico "scudo". Questo perché la nave rappresenterà uno scudo per le piattaforme di gas e le infrastrutture off-shore in cui Israele sta investendo, tra cui il gasdotto EastMed, che hanno visto il Paese avvicinarsi a Egitto, Cipro e Grecia, anche nell'ambito del Forum sul gas del Mediterraneo orientale. Non da ultimo, Israele sembra essere sempre più preoccupato dalla Turchia e dal suo crescente ruolo nel Mediterraneo Orientale.

(Sicurezza Internazionale, 9 novembre 2020)


"Il sole è la nostra energia. Zero carbone già nel 2026"

Fino a qualche anno fa era un Paese a secco di risorse naturali, oggi esporta energia. Così Israele è diventata, grazie agli investimenti in capitale umano, una "start up nation".

di Sharon Nizza

 
                           Sharon Nizza                                                      Yuval Steinitz
GERUSALEMME - Nel suo ufficio, il ministro dell'Energia Yuval Steinitz mostra una grande mappa del progetto EastMed siglata con gli omologhi di Cipro, Grecia e Italia. Era il 2017 quando venne firmata la prima intesa sull'ambizioso progetto di un gasdotto sottomarino che, sviluppandosi su 2.200 chilometri, mira a collegare i giacimenti di gas israeliani e ciprioti con l'Italia, passando per la Grecia. Steinitz, dottore in filosofia, un passato di militanza tra le file del movimento pacifista israeliano, oggi membro di spicco del Likud, il principale partito di governo, negli ultimi dieci anni ha ricoperto il ruolo di ministro del Tesoro, dell'Intelligence e, dal 2015, dell'Energia. Ha gestito la transizione israeliana da paese a secco di risorse energetiche naturali a Paese esportatore, dopo la scoperta 10 anni fa di ingenti giacimenti di gas offshore. Un'epopea che descrive anche in un libro appena pubblicato, "La lotta per il gas". EastMed è il suo cavallo di battaglia e Steinitz racconta come tutto nacque nel 2016 ad Abu Dhabi, quando ancora le visite di israeliani nel Paese del Golfo erano clandestine. Nella capitale emiratina, durante un incontro con l'allora Commissario europeo per l'Energia, Steinitz condivise l'idea di EastMed e dopo poco si riunirono a Gerusalemme con gli omologhi greci, ciprioti e per l'Italia l'allora ministro Carlo Calenda, per firmare la prima di una serie di intese.

- L'Italia però non ha firmato l'accordo finale a gennaio. II ministro degli Esteri Luigi Di Maio, in visita la settimana scorsa in Israele, ne ha parlato come di un progetto "a medio termine".
  «Siamo in contatto continuo con l'Italia. Uno dei nodi è relativo allo sbocco della condotta in Puglia, ma c'è una serie di idee alternative, compresa la possibilità di allacciarsi a un gasdotto già esistente. Per questo, nell'intesa attuale, non è ancora definito il punto di arrivo. Aspettiamo la firma italiana, siamo fiduciosi».

- Si parla di costi ingenti che potrebbero dar luogo a prezzi non competitivi del gas.
  «Crediamo sia possibile reggere la concorrenza con il gas russo. Ma è anche una questione strategica: l'Europa ha bisogno di gas naturale per altri 25 anni almeno. Nella fase di transizione verso le rinnovabili è atteso un incremento dell'1% annue, di consumo del gas naturale. L'Europa ha già dichiarato di voler diversificare le proprie fonti e EastMed è una garanzia: Israele e Cipro sono due alleati affidabili, membri dell'Ocse. Il gasdotto viaggerà a una profondità di 3 chilometri, impossibile da danneggiare».

- Come hanno impattato gli Accordi di Abramo le dinamiche regionali e che ripercussioni possono avere anche sul mercato europeo?
  «Prima ancora degli Accordi di Abramo, Israele ha iniziato a esportare gas a Egitto e Giordania. Abbiamo creato l'East Med Gas Forum, con Egitto, Italia, Cipro, Giordania, Grecia e Autorità Palestinese. È la prima volta in cui Israele siede - ed è tra i fondatori - in un forum economico-energetico con Paesi arabi ed europei. Anche la Francia ha chiesto di farne parte. È un ombrello che ambiamo a estendere a tutto il Mediterraneo. Con gli Emirati c'è grande sinergia e volontà di fare investimenti congiunti. Uno dei settori su cui c'è più interesse sono le start up specializzate nell'efficienza energetica. È già partita poi l'intesa per l'estensione del nostro oleodotto che da Eilat ad Ashkelon unisce il Mar Rosso al Mediterraneo, fornendo alle aziende petrolifere emiratine una scorciatoia verso l'Europa».

- Come si inquadra in questo contesto il recente ingresso di Chevron nel mercato israeliano?
  «Fino a poco tempo fa le grandi compagnie del settore temevano di fare affari con Israele per via del boicottaggio arabo. L'entrata di Chevron credo sarà un incentivo per altre società importanti, in Europa e in Italia».

- Dove si trova Israele rispetto agli obiettivi della transizione energetica?
  «Nel 2012, il 62% della nostra elettricità derivava da combustibili fossili. Oggi siamo dipendenti solo al 24% dal carbone e l'obiettivo è decarbonizzazione totale nel 2026. Sulla penetrazione del fotovoltaico negli ultimi cinque anni siamo passati dal 2% al 9%, secondi al mondo dopo l'Honduras. E abbiamo appena deciso di raddoppiare l'obiettivo: energia solare dal 17% al 30% entro il 2030. A oggi, abbiamo diminuito le emissioni inquinanti dalle centrali elettriche del 60%, con l'obiettivo di arrivare al 90-95% entro il 2025. Con il gas naturale le emissioni sono più basse, siamo in pari con gli obiettivi di Parigi. Guardiamo molto a progetti relativi alla cattura del carbonio».

- Israele è diventata la "Start up Nation" proprio per la scarsità dl risorse, investendo sul capitale umano. Come è l'offerta Israeliana nell'innovazione del settore energetico?
  «Ci sono centinaia di società specializzate non solo nell'energia solare, come il gigante SolarEdge, ma anche in efficienza energetica, immagazzinamento, mobilità elettrica. Stiamo investendo molto nello stoccaggio dell'energia. Entro il 2030 saremo tra i Paesi leader al mondo nel settore, perché ci permette di sfruttare al massimo il fotovoltaico, l'unica risorsa rinnovabile di cui disponiamo in abbondanza. Nella cyber security siamo un'eccellenza. La start up ElectReon sta progettando la prima strada elettrica che caricherà le batterie durante il viaggio».

- La settimana scorsa Snam è entrata nel mercato israeliano con una serie dl intese sulla mobilità sostenibile. Dove si colloca Israele rispetto a questa sfida?
  «Snam ha firmato con alcune aziende israeliane per portare avanti tra l'altro anche un pilot sulla progressiva conversione del trasporto pubblico a • carburanti alternativi. Come ministero dell'Energia stiamo per installare 2.700 stazioni di ricarica rapida per incentivare l'acquisto di veicoli elettrici. Abbiamo stabilito che a partire dal 2030 sarà possibile importare solo auto elettriche, a idrogeno o Gill. È un obiettivo molto ambizioso, ma anche se dovessimo arrivare al 50% di auto non inquinanti, la conversione del trasporto pubblico e quello pesante a energie verdi sarà parte fondamentale della transizione».

(la Repubblica, 9 novembre 2020)


Sospetto tenta un attacco all'arma bianca nei pressi di Hebron: neutralizzato

L'azione è stata compiuta da un 41enne palestinese residente a Duma: i militari, dopo avergli intimato di fermarsi, hanno aperto il fuoco neutralizzando la minaccia.

La Israel Defence Forces, IDF, ovvero le forze armate israeliane, hanno reso noto quest'oggi di aver neutralizzato il tentativo di attacco all'arma bianca da parte di un uomo avvenuto fuori dal campo profughi di al-Fawwar, a sudovest di Hebron, nella West Bank.
"L'assalitore è arrivato in macchina, è uscito dal vicolo e ha iniziato ad avvicinarsi ai militari della iDF con un coltello sguainato, nel tentativo di accoltellare i soldati che stavano pattugliando le strade", si legge nel comunicato.
Secondo i rapporti preliminari, i militari hanno prima intimato all'uomo di fermarsi e poi, visto il rifiuto di quest'ultimo e il suo atteggiamento di minaccia, sono stati costretti ad aprire il fuoco neutralizzandolo.
L'assalitore, identificato come un 41enne residente di Duma, è stato inviato presso una locale struttura ospedaliera per ricevere assistenza medica e le sue condizioni di salute non sono al momento note.

(Sputnik Italia, 8 novembre 2020)


Biden è presidente, ma comanda già Kamala

Ma ora il mondo non sarà migliore di prima

di Fiamma Nirenstein

L'America è spaccata in due, e l'impresa nazionale e internazionale di Trump è una pietra di paragone. Trump resiste perché nessuno ama essere un «loser», un perdente, tanto meno nella società americana, ancor meno quando si è Trump. Non accetta di uscire dalla Casa Bianca non solo perché afferma che sono i brogli ad aver portato il suo rivale alla vittoria ma anche perché sa che gli Usa siedono su un vulcano che erutta scontro culturale, sociale, etnico, senza fondo.
   Lo scontro non è politico, è molto di più. La vittoria di Biden è la festa di un modo di vedere il mondo, del multilateralismo, dell'internazionalismo in politica internazionale; e, all'interno, di un'estetica che esalta l'esibizione razziale e sessuale mentre spregia l'espressione della tradizione, che sposta lo sguardo dai «deplorevoli» operai o dai poveri piccolo-borghesi o contadini delle zone rurali americane sospettandoli di essere dei fascisti. Non importa se il supporto per Trump fra gli afroamericani e gli ispanici è molto cresciuto: molti sostengono che è frutto del «privilegio bianco».
   La vittoria di Biden, anche se l'uomo ha caratteristiche di medietà e di moderazione, è di un mondo che ha anche larghi toni estremi, di criminalizzazione dell'avversario visto come una specie di delinquente patentato. I nuovi eletti e i movimenti correnti prosperano nel disprezzo per la cultura occidentale in termini di colpa; nelle strade festeggia, oltre ai borghesi di New York e di Hollywood, anche chi può sventolare l'appartenenza a un gruppo che, in base al colore o alla appartenenza sessuale, vanta una supposta superiorità e magari bullizza altri gruppi, mentre a volte distrugge e saccheggia come a Philadelphia. Questi due mondi resteranno e non sarà facile placarli, Biden forse diventerà per i movimenti che lo hanno votato un suprematista bianco e un fascista.
   Nel mondo, i peggiori festeggiano: l'Iran spera in ciò che Biden ha promesso, una ridefinizione del trattato cancellato da Trump. Il presidente Hassan Rouhani ha già annunciato che «la futura amministrazione Usa soccomberà al volere del popolo iraniano» e anche se Biden cercherà di cambiare almeno la famosa «sunset clause» dell'arricchimento dell'uranio, questo non cambierà la famelica corsa al nucleare e in genere al potere islamico mondiale. L'Iran intanto cercherà di giocare un ruolo da poliziotto buono a fronte della Turchia sempre più aggressiva verso i suoi alleati nel Mediterraneo Orientale, che finge di controbilanciare l'Iran e la Russia ma fa guerra un po' ovunque e diffonde la shariah e il terrorismo nel mondo. La Cina è di buon umore, le revisioni degli accordi commerciali e dell'imperiale gestione della cosiddetta «proprietà intellettuale» cyber fatta da Trump hanno creato rapporti da guerra fredda, anche se difficilmente le cose potranno cambiare. In Russia Putin sta pensando a un «reset», e Biden potrebbe proporgli subito una rinfrescata del trattato Star di controllo delle armi che scade nei prossimi giorni, ribadendo così la cura per gli ambiti che Trump tralasciava. Biden tornerà a esaltare il ruolo dell'Onu, dell'Oms, dell'accordo di Parigi sul clima, del tribunale internazionale. Non criticherà più i Paesi Europei, anche quando non investono nella Nato. In Israele, Biden non sposterà l'ambasciata da Gerusalemme né frenerà la pace coi paesi sunniti che finalmente Israele ha stretto per opera di Netanyahu e Trump nelle settimane scorse. Sarà l'atmosfera a ricordare il gioco di Obama, che era attivista propalestinese e Biden non lo sarà. Tuttavia cercherà di riportare i palestinesi in gioco, ma questo bloccherà l'azione di pace perché i Palestinesi non sono interessati a un compromesso. La pace, la prospettiva di un mondo migliore a volte hanno la faccia e la mimica poco carine di Trump. Anche questa è l'America. A molti, piace di più Clint Eastwood di George Clooney. Con tutto il dovuto rispetto, e tanti auguri.

(il Giornale, 8 novembre 2020)


«Quel brutto vizietto della sinistra contro noi ebrei»

Il titolo dell’articolo non riflette il motivo dichiarato dell’intervista che mira a “capire come gli ebrei pensano la morte e l'Aldilà”, non quello che gli ebrei pensano della sinistra. Anche se quello che dice in proposito il rabbino Di Segni è indubbiamente vero. NsI

di Alessia Ardesi

Per capire come gli ebrei pensano la morte e l'Aldilà bisogna andare nel ghetto di Roma uno dei posti dove è passata la Storia. II cuore della più antica comunità ebraica del mondo fuori dalla Terra Promessa, violato il 16 ottobre 1943 dai rastrellamenti dei nazisti, è custodito da quasi vent'anni dal rabbino capo Riccardo Di Segni. Gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori, come diceva Giovanni Paolo II, e per sapere come immaginano l'oltretomba e la vita eterna ho parlato con lui.

- Rabbino Di Segni, com'è l'Aldilà per gli ebrei?
  «Al riguardo abbiamo molte idee, e anche principi di fede; ma non è un tema definito con estrema precisione dottrinale. Si parla in particolare di un principio: la resurrezione dei morti».

- C'è una vita oltre la morte?
  «In un momento della storia o dopo la storia, tutti coloro che hanno vissuto in questo mondo torneranno a vivere. Questo è un principio che noi ripetiamo tre volte al giorno nelle preghiere, benedicendo il Signore che resuscita i morti. Quando questo accada, però, non lo sappiamo. C'è un'idea fondamentale: l'Olam Abbà, cioè il mondo a venire, la dimensione dove entrano tutte le persone che sono state su questa terra e che ora non ci sono più».

- Ci spiega meglio, rabbino, l'Olam Abbà?
  «Cosa sia esattamente è un po' azzardato definirlo. E' il luogo in cui i giusti saranno premiati, mentre chi non si è comportato giustamente dovrà scontare delle punizioni. Ma nella religione ebraica l'attenzione e la concentrazione sono sulla vita in questo mondo, su quello che dobbiamo fare qui. E' molto raro che un maestro dica: "Fate così, perché così andrete nel (cosiddetto) Paradiso"».

- Ma allora anche per gli ebrei esistono il Paradiso, il Purgatorio e l'Inferno?
  «La parola Paradiso, che a quanto pare è di origine persiana, in ebraico rabbinico è il Pardes, che indica un frutteto. Usiamo piuttosto il termine "giardino dell'Eden", dal quale l'uomo è stato cacciato e che può essere il luogo in cui le anime tornano. Alcuni autori hanno parlato di qualcosa che assomiglia ai gironi infernali danteschi, su cui si dilunga lo Zohar (il libro dello Splendore, nda), mentre altri hanno omesso queste rappresentazioni».

- E lei, come se lo immagina l'Aldilà?
  «Non ci sono mai stato, per cui... (il rabbino sorride). Non è al centro delle mie attenzioni. Mi preoccupano di più le difficoltà terrene».

- E vero che la resurrezione della carne deriva dall'Antico Testamento e dalla visione di Ezechiele?
  «II profeta Ezechiele (37,1-14) la rappresenta in una profezia molto suggestiva: immagina una valle piena di scheletri e il Signore, parlando loro, li fa tornare piano piano in vita, infondendoli di spirito e ricoprendoli "di muscoli, tendini, carne e pelle"».

- Chi spera di riabbracciare per primo nell'Aldilà?
  «Bisognerà vedere se sarà un abbraccio, una contemplazione o un incontro. Non sappiamo quello che accadrà. Come principio di fede affermiamo che i morti torneranno a vivere. Come, dove, quando, in quali condizioni resta un grande punto interrogativo. L'idea essenziale è che con il passaggio della morte non finisce tutto perché è una transizione da uno stato all'altro».

- Cosa intende per stato?
  «Una situazione. Qualcuno per raccontarlo ha proposto un esempio molto suggestivo: la vita fetale, dove c'è una creatura che vive. Poi a un certo punto con il parto si esce in un mondo differente, si entra in un'altra dimensione».

- E la morte? Come sono i funerali nell'ebraismo?
  «Una persona che sta per lasciarci viene accompagnata negli ultimi momenti dai suoi cari o da un maestro che gli fa recitare alcuni dei nostri testi fondamentali. E lo invita a una confessione generica, senza entrare nei dettagli: "Abbiamo fatto... abbiamo peccato". Ognuno, nel suo rapporto con il Creatore, ci mette quello che vuole. Senza raccontarlo agli altri».

- E poi cosa avviene?
  «Dopo il decesso, è prescritto nella Bibbia, bisogna provvedere il più rapidamente possibile, nello stesso giorno, a una sepoltura in terra. Quanto sia antica questa prescrizione lo documenta anche la notizia dei Vangeli su Gesù che dopo la crocifissione venne subito sepolto, prima del tramonto, nel rispetto dell'usanza ebraica. I riti sono essenziali, accompagnati dalla lettura di alcuni salmi e dalle manifestazioni di lutto, a cui sono tenuti i familiari stretti».

- Di cosa si tratta?
  «Per sette giorni dalla sepoltura chi ha perso un proprio caro deve rimanere in casa, ricevere gli amici e i parenti che lo consolano, rispettando alcuni divieti. Dopo una settimana può riprendere lentamente una vita normale, ma sobria. Ad esempio resta per un periodo l'interdizione a partecipare a feste e eventi pubblici».

- Esistono anche altri riti?
  «Al ritorno dal funerale i vicini portano alle persone in lutto cibi simbolici: caffè, lenticchie e un uovo sodo, che rappresentano tra l'altro la circolarità della vita».

- Potete cremare i vostri morti?
  «Prima della sepoltura facciamo un lavaggio del corpo, ma non la cremazione. E' la scelta di una tradizione millenaria: il corpo deve tornare alla terra da cui è stato preso».

- E andate a trovare chi non c'è più?
  «Ci sono momenti speciali in cui si va al cimitero - in ebraico è chiamato Beth ha-kevaròth, "la casa delle tombe", ma anche, metaforicamente, "la casa dei viventi" - come gli anniversari e le vigilie di alcune ricorrenze. Ma senza esagerare: il rispetto per i morti non deve trasformarsi in culto».

- Dove va a finire l'anima?
  «Alcuni dicono che abbiamo cinque anime; ma secondo qualche cabalista sono decine. L'anima dovrebbe tornare alla fonte originaria, a quello che è chiamato tecnicamente il deposito originario delle anime».

- E la metempsicosi, la reincarnazione delle anime?
  «Nell'ebraismo questa idea compare molto tardivamente. Si è fatta strada nella tradizione, ma non è accettata da tutti i maestri che stabiliscono la dottrina».

- Come ha reagito la sua comunità alla pandemia? E al lockdown?
  «Come tutti: vivendo preoccupazioni, angosce, nevrosi indotte. E le difficoltà economiche che in alcuni casi sono state disastri micidiali. Per l'organizzazione comunitaria abbiamo dovuto fare sacrifici molto grandi».

- Qui?
  «La vita religiosa in sinagoga e in grandi riunioni famigliari è entrata in crisi, come il sistema di insegnamento. Però il mondo digitale ci ha spalancato platee di persone interessate che nemmeno pensavamo esistessero».

- Avete perso molti membri della comunità?
  «Si, d'altro canto il virus del Covid non è razzista».

- Qualcuno tra voi ha pensato che il Covid fosse una punizione divina?
  «Quando si parla in termini biblici di epidemie, esiste anche il tema della punizione. Ma oggi, nel nostro modo di concepire le cose, questo non è accettato. Piuttosto è il tema della responsabilità, che non può essere eluso».

- Responsabilità da parte di chi?
  «Se le cose vanno male esiste sempre una parte di responsabilità umana».

- Prima ha evocato altre pandemie della storia. A quali si riferisce?
  «La pestilenza del 1656 arrivò a Roma da Napoli. Ho tradotto le pagine del diario di un rabbino, Zahalon, che era anche un medico, che fu incaricato di gestire l'emergenza della comunità in quel momento. Le autorità pontificie sbarrarono i cancelli del ghetto e nella piazza antistante eressero una forca per dissuadere dalla disobbedienza. All'interno costruirono un lazzaretto. Era un regime terroristico. E ci furono tantissimi morti».

- La prova terribile della Shoah non ha indotto il popolo ebraico a dubitare dell'esistenza di Dio?
  «La Shoah è stata attraversata da non credenti che sono rimasti tali, da persone che prima credevano e poi non hanno più creduto, e da tanti altri uomini e donne che invece si sono rafforzati nella fede. Il popolo ebraico ha un rapporto dinamico con il suo Creatore. Sa bene che la sua è una storia difficile, fatta di conflitti. Malgrado questo in molti di noi c'è una fede incrollabile».

- La strage accanto alla Sinagoga di Vienna è l'ennesimo ritorno dell'antisemitismo?
  «Ancora non è ben chiaro cosa sia successo. Abbiamo di fronte un avversario per il quale l'odio antiebraico è solo un condimento di una pietanza più complessa, in cui ci sono l'Occidente, il cristianesimo, l'ebraismo».

- Esiste un antisemitismo di sinistra?
  «Come no, è quello che gioca sull'equivoco dei poveri contro i ricchi, identificando erroneamente gli ebrei come detentori dei poteri economici. Un vizietto che già compare nel giovane Marx, per quanto fosse il nipote di un rabbino».

- Chi è Gesù per gli ebrei?
  «Prima di tutto un figlio del nostro popolo. Neghiamo che sia Dio e che sia il Messia, o un profeta. Ma comunque lo riconosciamo come parte della nostra storia».

- Quando venne papa Francesco in sinagoga le disse che voleva discutere di teologia...
  «E io risposi di no, perché ognuno ha la sua. Avere un dialogo non significa necessariamente andare d'accordo».

- Cosa è la speranza per un ebreo?
  «Intanto diciamo che c'è speranza. Poi ci possono essere speranze individuali e collettive. Ma soprattutto non basta dire speranza, deve essere buona speranza».

- Perché buona?
  E un termine antico che compare nelle nostre preghiere, c'è speranza e speranza. E non è un caso che quando nel 1487 Diaz raggiunse un punto molto a Sud dell'Africa e gli diede il nome di capo delle Tempeste, alla corte portoghese qualcuno suggerì di non chiamarlo con un termine così negativo, ma con un nome beneaugurale. E dalla memoria inconfessabile di qualcuno che aveva imparato le preghiere ebraiche usci, appunto, Buona Speranza».

(Libero, 8 novembre 2020)


Morto a Londra Jonathan Sacks, rabbino britannico

72 anni, era considerato «un pilastro spirituale della nostra epoca»

di Francesca Nunberg

Jonathan Sacks
Per il mondo ebraico era «uno dei pilastri morali della nostra epoca». È morto oggi a Londra Jonathan Henry Sacks, 72 anni, rabbino britannico considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, già Gran Rabbino della Gran Bretagna e del Commonwealth dal 1991 al 2013. Un mese fa il suo staff aveva comunicato attraverso il suo account ufficiale di Twitter che al grande maestro (il suo nome ebraico era Yaakov Zvi) era stato diagnosticato un tumore.
   
Sacks era stato nominato baronetto e lord dalla Regina Elisabetta II per servizi resi alla Comunità e alle relazioni interreligiose. Dopo aver lasciato la carica di Gran Rabbino nel 2013, e in aggiunta ai suoi tour di conferenze e alla prolifica attività di scrittore, Sacks insegnava alla New York University e alla Yeshiva University quale professore emerito di filosofia ebraica. Sposato, con 3 figlie, plurilaureato, era anche professore di Legge, Etica e Bibbia al King's College di Londra. Nel 2004, il suo libro "The Dignity of Difference" è stato premiato col Grawemeyer Award nella categoria di Religione. Nell'aprile 2011 è stato invitato al matrimonio del principe William, duca di Cambridge, e Catherine Middleton, quale rappresentante della comunità ebraica.
   Il mondo ebraico ha appreso la triste notizia ieri pomeriggio alla fine dello Shabbat. Su Facebook il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni ha commentato: «La forza della sua personalità ha segnato questi ultimi decenni di vita ebraica. È stata la guida spirituale che ha saputo trasmettere i valori sempre attuali dell'ebraismo con un linguaggio attualissimo e seducente, forte della sua conoscenza dei più importanti sviluppi del pensiero occidentale. Nel Regno Unito e nel mondo occidentale le sue lezioni, i suoi discorsi e i suoi libri sono stati accolti con grandissima attenzione: probabilmente è stato il leader religioso più ascoltato e influente degli ultimi anni».
   «Di Rav Sacks - ha detto il rabbino capo della Comunità ebraica di Milano, Alfonso Arbib - ricorderemo principalmente il sorriso bonario e conciliante. Quello che metteva d'accordo tutti. Ebrei e cristiani, laici ed ortodossi, umili e potenti. La sua scomparsa lascia un vuoto enorme: è stato capace di diffondere le idee fondamentali dell'ebraismo in tutto il mondo occidentale. Sarà difficile trovare un altro leader religioso che abbia queste qualità. Credo però che il modo migliore di ricordarlo sia quello di fare tesoro di un suo insegnamento, la capacità di avere sempre lo sguardo rivolto al futuro». In uno dei suoi ultimi libri Sacks aveva provato a spiegare ai lettori cosa fosse la fede: «Se mi dovessero chiedere come si faccia a trovare Dio, io risponderei immediatamente: imparate ad ascoltare. Ascoltate il canto del mondo, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie, il rumore delle onde. Ascoltate coloro che vi amano e vedrete che sentirete Dio nelle loro parole. La fede ebraica non è altro che l'arte dell'ascolto».

(Il Messaggero, 7 novembre 2020)


Unorthodox, non una, ma due storie affascinanti

di Gilberto Bosco

Un fantasma si è aggirato per l'Europa. Anzi no, si è aggirato per il mondo intero: la breve serie di Netflix Unorthodox ha conquistato tutti, ebrei e goìm, chi capiva tutto, chi non capiva quasi nulla, e chi vedeva tutto come una storia esotica. E, a monte della serie, un libro di Deborah Feldmann con lo stesso titolo, esaurito più volte. Cosa è successo? Tutti presi da una storia "religiosa" sul mondo ultraortodosso? Proviamo a leggere. Con due premesse. La prima, un libro autobiografico fornisce la versione dell'autrice, non necessariamente "la verità". Seconda premessa, il telefilm è molto diverso dal libro, vediamo come e perché.

 Il libro
E' la storia dell'autrice, "lo scandaloso rifiuto delle mie radici Chassidiche", come recita il sottotitolo. La vita di una ragazzina nata e cresciuta nella comunità Satmar di Williamsburg, a New York.Una ragazzina, Deborah, non particolarmente fortunata: genitori divorziati e lontani (il padre con gravi problemi psicologici, la mamma gay), difficoltà di adattamento nel rigido mondo Satmar, difficoltà ad accettare molte delle norme che le vengono insegnate, appena adolescente subisce fastidiose molestie di un giovane della stessa comunità, riceve rimproveri immotivati per le sue amicizie femminili - nel timore di inclinazioni sessuali non accettate, a scuola è scarsamente apprezzata a causa della sua "indipendenza" - malgrado la ragazzina dimostri talento e amore per la scrittura e la letteratura. E una grande luce: un rapporto intenso e straordinario con la nonna paterna, nella cui casa cresce, e che le trasmette moltissimo: dall'amore per la cucina (kashèr, ovviamente!) al senso di esistere accanto e insieme e all'interno di un mondo maschilista.
  Si sposa giovanissima, come è uso nel mondo in cui vive. Subito iniziano i problemi. Lei e il marito hanno difficoltà a stabilire normali rapporti sessuali. E il marito si dimostra da subito psicologicamente inadatto a lei. Però…

 Una storia, due storie
Però ora la storia del libro e quella del telefilm divorziano, come i genitori di Deborah. Nel libro (non nella serie di Netflix), appena risolti i loro problemi fisici, i due riescono a concepire un bambino. Si trasferiscono lontano da Williamsburg. Ma la giovane donna continua ad essere infelice. Non ama suo marito (palesemente inadeguato psicologicamente) e insieme vivono malissimo.Dubita del suo rapporto con la religione. Vende i suoi gioielli, vende i diritti del libro (quello che stiamo leggendo); fugge con il figlio lontano dal marito. Qui finisce il libro.

 Il telefilm
I realizzatori del telefilm sono, a mio parere, geniali. E inventano una nuova storia, simile ma non uguale. Cambiano il nome di Deborah in quello più immediato di Esty, vezzeggiativo di Esther. Danno quel ruolo a Shira Haas un'attrice che appena si muove "buca" lo schermo (qualcuno la ricorderà nella parte di Ruhàmi, in Shtìssel). Iniziano la storia da metà: lanciando una serie di veloci flash back per raccontarci i fatti precedenti. Inventano delle varianti, importanti. La giovane Esty nel film (solo nel film!) non riesce a rimanere incinta; quando ci riuscirà, mentre sta cercando di dirlo al marito, questi le comunica che vuole divorziare: come non dare ragione alla fuga della donna?
  Esty fugge a Berlino (una assoluta invenzione rispetto al libro!), conosce con fatica il mondo dei goìm, tenta di vincere una borsa di studio per studiare musica. (Curiosa simmetria: l'autrice del libro vince una borsa di studio per studiare scrittura creativa in una istituzione prestigiosa…). Si avvia verso una vita "normale".
  Scene del libro ritornano, mutate, nel film. Probabilmente incomprensibili per chi non è ebreo. E altrettanto vale per scene completamente nuove, inventate con talento dagli sceneggiatori. Citerò la più straordinaria, assolutamente "inventata": il marito e un altro Satmar entrano in un albergo di Berlino, inseguendo Esty. Abito nero, camicia bianca, tsiztiòt ben visibili, inconfondibili. L'addetto alla registrazione degli ospiti li saluta con entusiasmo: "Benvenuti, israeliani!", uno dei due Satmar sibila con odio, tra i denti, "Tzionist!" (i Satmar sono ferocemente antisionisti…). E il film ci lascia, giustamente, in sospeso (come il libro), con questa giovane donna che scopre il mondo e la vita moderna.

 Conclusione?
Sappiamo qualcosa della vita (della vita "vera") della Feldmann da una sua conversazione/intervista. Si considera ancora ebrea, ha una cucina kashèr, educa suo figlio come un ebreo modern orthodox, sta scrivendo un libro, in tedesco (forse una riscoperta e una rivisitazione del suo yiddish nativo?). Aspettiamola alla pubblicazione, e auguriamole una vita (finalmente) felice.

(Kolòt, 8 novembre 2020)


'Voci di sommersi', l'arte dei compositori ebrei

Una ricerca storica e filologica nel nuovo disco di Gregorio Nardi in concerto col soprano Giulia Peri

di Maurizio Costanzo

FIRENZE - S'intitola «Voci di sommersi » il nuovo disco del maestro Gregorio Nardi, per canto e pianoforte, che lo vede protagonista insieme al soprano Giulia Peri. «Negli anni avevo molto lavorato sulla musica strumentale dei compositori ebrei, Giulia faceva dei concerti legati a Primo Levi. Al termine di un concerto mi chiese di lavorare insieme. Così facemmo, decidendo di fare dei programmi dedicati alle opere dei compositori ebrei e di registrarli. In tutto sono tre i dischi: il secondo sarà sugli ebrei italiani, mentre il terzo sulle compositrici ebree».
   «Voci di sommersi» è il primo dei tre dischi, uscito per la casa discografica Limen e acquistabile nei negozi o su piattaforme digitali, è dedicato a due autori stilisticamente molto diversi, che morirono però a distanza di pochi giorni: James Simon e Pavel Haas. Nel disco si trova un codice che permette, andando sul sito della Limen, di accedere al video del concerto, dove è presente anche il racconto dei pezzi a cura di Nardi e della soprano. «Pavel Haas - spiega Nardi - era di famiglia borghese, che fece qualsiasi lavoro per guadagnarsi da vivere. Si mise a comporre presto e il suo interesse era per il mondo della musica popolare: anche per questo motivo è stato riscoperto presto. Cosa diversa per Simon, proveniva da una famiglia importante di Berlino ma non era mai stato registrato: fu arrestato in Olanda dove era fuggito, mentre Pavel Haas non riuscì a lasciare Praga. Finirono entrambi ad Auschwitz e a distanza di pochi giorni vennero uccisi. Simon si era innamorato di una donna sposata che a un certo punto decise di andare in America col marito: ma lui decise di non seguirla, volle rimanere in Europa. Però le mandava regolarmente i manoscritti della sua musica: e così mentre i nazisti sono riusciti a distruggere la sua opera, sono rimasti questi manoscritti che inviava alla sua amata. Sono di una bellezza struggente». «Una delle ragioni che mi hanno spinto a fare questi lavori sui compositori ebrei - spiega Nardi - è che quando studiavo o non c'erano o apparivano come ancora vivi: non c'era notizia della loro morte. Dopo 25 e più anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la sorte dei musicisti ebrei era infatti ancora totalmente ignota»

(La Nazione - Firenze, 8 novembre 2020)



Perché l’uomo conosca la saggezza

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 1
  1. Proverbi di Salomone, figlio di Davide,
    re d'Israele;
  2. perché l'uomo conosca la saggezza, l'istruzione
    e comprenda i detti sensati;
  3. perché riceva istruzione sul buon senso,
    la giustizia, l'equità, la rettitudine;
  4. per dare accorgimento ai semplici
    e conoscenza e riflessione al giovane.
  5. Il saggio ascolterà e accrescerà il suo sapere;
    l'uomo intelligente ne otterrà buone direttive
  6. per capire i proverbi e le allegorie,
    le parole dei saggi e i loro enigmi.
  1. Proverbi di Salomone, figlio di Davide,
    re d'Israele;

    Al contrario dei proverbi popolari, le cui origini restano quasi sempre sconosciute, i proverbi biblici rivelano fin dall'inizio il loro autore. Quello che conta non è la paternità letteraria, ma l'origine divina delle sentenze contenute in questo libro. La sapienza dei proverbi biblici non è al di fuori del tempo, ma si inserisce nella storia della salvezza che ha come punti fondamentali l'elezione divina del popolo d'Israele e l'unzione del re Davide. Presentandosi come figlio di Davide, re d'Israele, Salomone obbliga i lettori a non separare questi detti di sapienza dal resto della rivelazione biblica. Dopo Salomone la storia della salvezza continua e arriva fino a "Gesù Cristo, figlio di Davide" (Mt 1.1). Chi trova interesse nei detti di Salomone è dunque costretto dalla Scrittura ad andare oltre e a prestare attenzione alle parole di Gesù, il quale un giorno disse ai suoi ascoltatori: "La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c'è più che Salomone!" (Mt 12.42).
    Chi dice di apprezzare i proverbi di Salomone ma di non essere interessato alle parole di Gesù deve sapere che si trova sotto la condanna divina che sarà operata dalla regina del mezzogiorno, perché non è consentito agli uomini di accettare spezzoni di sapienza scelti secondo i proprio gusti e rigettare le parole di "Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, ossia giustizia, santificazione e redenzione" (1 Co 1.30).

  2. perché l'uomo conosca la saggezza, l'istruzione
    e comprenda i detti sensati;

    Dopo aver indicato l'origine dei proverbi, in questo versetto si indicano gli scopi principali per cui sono stati scritti: perché l'uomo conosca la saggezza e l'istruzione. Per saggezza s'intende la capacità di comprendere la vera natura degli avvenimenti in cui l'uomo è coinvolto unita alla capacità di prendere decisioni adeguate. L'uomo saggio è come l'abile pilota di una barca a vela, il quale conosce bene il mare, i venti, la sua imbarcazione e le sue proprie forze, e in ogni circostanza sa prendere la decisione migliore per continuare senza danni il viaggio e arrivare alla meta prefissata. Per istruzione s'intende invece la disciplina che è necessaria per il conseguimento degli scopi che la saggezza ha individuato. Non basta conoscere in teoria ed essere abili in pratica, è necessario anche esercitarsi con costanza seguendo regole a cui sottoporsi con disciplina. I proverbi biblici non offrono soltanto buoni pensieri su cui riflettere, ma indicano anche norme di condotta da rispettare.
    Un altro scopo dei proverbi è far comprendere i detti sensati . Questo significa che chi ascolta le parole di Salomone imparerà ad imparare, perché otterrà quel discernimento che lo aiuterà a riconoscere le parole sagge che gli arrivano dal di fuori, anche quando queste vanno a cozzare contro le proprie radicate convinzioni. Uno dei più pesanti giudizi a cui Dio sottopone gli uomini ribelli è di lasciare che si radichino sempre di più nelle loro idee sbagliate e diventino sordi alle sagge riprensioni che potrebbero farli uscire dalla loro stoltezza.

  3. perché riceva istruzione sul buon senso,
    la giustizia, l'equità, la rettitudine;

    La vera istruzione conduce a fare scelte secondo giustizia, equità e rettitudine. La giustizia può essere considerata come aderenza alla norma, l'equità come adeguatezza alla situazione, la rettitudine come intima onestà e sincerità. Chi vuol prendere decisioni sagge e giuste deve anzitutto conoscere e voler osservare la norma esterna espressa dalla parola di Dio; poi deve considerare la particolare situazione umana in cui si trova ad operare; e infine deve proporsi di agire con integrità morale, rinunciando alle vie tortuose (2.15, 10.9) dei disonesti.

  4. per dare accorgimento ai semplici
    e conoscenza e riflessione al giovane.

    Il semplice e il giovane possono essere paragonati ai poveri. Se al povero manca la ricchezza, al semplice e al giovane manca la saggezza, ma non necessariamente per colpa loro. Sono persone prive di esperienza, e quindi incapaci di districarsi in mezzo a situazioni complesse. Ma Dio, che si dà cura dei poveri, si preoccupa anche di coloro che sono poveri di sapienza. Dio promette di dare loro quella particolare forma di ricchezza che consiste in accorgimento, conoscenza e riflessione. Quante volte si sente dire: "Non capisco quello che succede, non so che cosa fare". E' un'ammissione di povertà che può essere portata direttamente al Signore, il quale mediante la Sua parola risponde:"Se qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data" (Gc 1.5).

  5. Il saggio ascolterà e accrescerà il suo sapere;
    l'uomo intelligente ne otterrà buone direttive

    Ma le istruzioni contenute in questo libro non sono rivolte soltanto ai semplici e ai giovani. Il saggio sa di avere ottenuto la saggezza attraverso l'ascolto della parola di Dio. Proprio per questo manifesta un continuo desiderio di crescere in sapienza restando attento alle istruzioni che provengono dal Signore. La saggezza non può essere considerata acquisita una volta per tutte, come l'esempio stesso della vita di Salomone conferma: se non cresce, inevitabilmente diminuisce. Tutto quello che l'uomo ha imparato fino ad un certo momento della sua vita può diventare un ostacolo che gli impedisce di capire cose nuove. In questo modo la saggezza raggiunta si deteriora e si trasforma in stoltezza. "Hai mai visto un uomo che si crede saggio? C'è più da imparare da uno stolto che da lui" (26.12).
    L'intelligente esprime la sua intelligenza mostrando di saper capire dove ci sono cose da imparare. Egli dunque ottiene quello che cerca: buone direttive, cioè la capacità di dirigere in modo saggio e conveniente la sua vita. "A chi ha sarà dato"(Mr 4.25).

  6. per capire i proverbi e le allegorie,
    le parole dei saggi e i loro enigmi.

    Chi è disponibile all'ascolto ottiene la grazia di poter capire le parole dei saggi, i quali spesso parlano in modo che l'uomo superficiale non riesce a comprendere, non perché il loro linguaggio sia troppo complicato, ma perché le cose che dicono sono profonde, in quanto fondate sull'eterna parola di Dio. L'Ecclesiaste dice infatti che "le parole dei saggi sono come degli stimoli, e le collezioni delle sentenze sono come chiodi ben piantati; esse sono date da un solo pastore" (Ec 12.11). E l'apostolo Paolo ricorda che "l'uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché esse sono pazzia per lui; e non le può conoscere, perché devono essere giudicate spiritualmente" (1 Co 2.14). La saggezza viene offerta a tutti in dono, ma per ottenerla bisogna anche avere l'umiltà di ascoltare con attenzione chi ha raggiunto la saggezza prima di noi.
M.C.

 

Covid-19, il vaccino Sputnik V sarà il primo registrato in Israele

Il nuovo vaccino Sputnik V sta attraversando l'ultima e decisiva fase di test in Russia, prima che venga avviata la fase di produzione vera e propria.

Il vaccino russo contro il coronavirus Sputnik-V sarà il primo ad essere registrato nello Stato di Israele. A riferirlo a Sputnik è Zeev Rotstein, il CEO dell'Hadassah Medical Center di Gerusalemme.
"Dal momento che siamo a conoscenza del fatto che tutte le sperimentazioni vengono condotte in modo corretto, seguendo gli standard, abbiamo richiesto informazioni sul vaccino per presentarlo al Ministero della Salute israeliano per la registrazione. Il vaccino russo Sputnik V è il primo vaccino che sarà presentato in Israele", ha affermato Rotstein.
In precedenza era stato reso noto che l'Hadassah Medical Center avrebbe ordinato qualcosa come 1,5 milioni di dosi del primo vaccino russo contro il coronavirus Sputnik V.

 Il primo vaccino contro Covid-19 al mondo
La Russia ha registrato il primo vaccino contro il coronavirus al mondo, lo Sputnik V, sviluppato dal Centro Gamaleya l'11 agosto. Il vaccino è stato registrato dopo che due fasi di test di successo hanno dimostrato che era in grado di garantire l'immunità contro il virus in tutti i volontari coinvolti nei test. Attualmente, la Russia sta conducendo studi clinici post-registrazione del farmaco, coinvolgendo oltre 42mila persone in Russia e in tutto il mondo.
Il direttore del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, ha precedentemente rivelato che il fondo ha già ricevuto richieste da 27 Paesi per Sputnik V.

(Sputnik Italia, 7 novembre 2020)


Il sollievo degli ebrei ferraresi: "Ora più sereni"

Il rabbino capo Luciano Caro, il presidente della Comunità Arbib e il direttore del Meis Spagnoletto: "Capita di guardarci alle spalle"

di Federico Di Bisceglie

 
l rabbino capo di Ferrara Luciano Caro
FERRARA - Alla luce dei recenti atti terroristici di matrice islamista che stanno insanguinando l'Europa, il Prefetto ha stabilito, in via urgente, l'installazione di telecamere di sorveglianza per monitorare alcuni obiettivi 'sensibili'. Tra questi ghetto ebraico e sinagoga. Una notizia accolta con favore dal presidente della comunità ebraica Fortunato Arbib. "E' evidente come gli atti criminali che si sono perpetrati in Europa, non solo recentemente, ma anche in passato - dice Arbib - siano preoccupanti. Per questo, anche in altri tempi, avevo fatto richiesta al Prefetto di sistemi di sicurezza che vengono adottati per tutelare la Comunità e la sinagoga. Mi era stato risposto che, in linea con i protocolli nazionali, anche gli uffici ferraresi si adeguavano al servizio". Arbib riconosce quindi "un grande impegno da parte delle forze di polizia e dei carabinieri per il lavoro che portano avanti a tutela nostra".
   Ad ogni modo, prosegue il presidente, "in queste situazioni, nelle quali ci troviamo a guardarci le spalle quando varchiamo l'uscio di casa o della sinagoga, queste notizie non possono altro che alleviare il nostro stato d'animo". Il filo della paura corre tra le viscere d'Europa. E arriva anche qui, a Ferrara. E le parole di Arbib lo testimoniano. "Anche qui, ansia e tensione serpeggiano nella comunità - rivela - anche perché nella logica dei terroristi una città grande equivale a Ferrara". Anche il direttore del Meis, Amedeo Spagnoletto sostiene che gli episodi criminali siano "un campanello d'allarme molto preoccupante". Tanto più che "non si tratta di eventi sporadici, ma di atti che hanno una precisa regia di matrice ideologica: gli spazi di intervento di questi terroristi non hanno fine e l'Italia, pur essendo stata ancora 'graziata' non si deve sentire immune e alzare il livello di controllo". Seppure per il Museo Ebraico le misure di sicurezza siano più strutturate "mi meraviglio - confessa Spagnoletto ma senza toni polemici - che le telecamere di sorveglianza non siano state installate prima".
   Comunque il fatto che dagli uffici di Palazzo Giulio d'Este si sia deciso di montare le videocamere "è un atto concreto molto positivo che esemplifica un'importante presa di coscienza di un problema che non è da sottovalutare, neanche qui". Sulla stessa lunghezza d'onda anche il rabbino capo estense Luciano Meir Caro. "Pur trattandosi di questioni di carattere tecnico - dice in premessa - non posso che essere d'accordo con le decisioni del Prefetto. E' una misura che non andrà a tutela solamente degli obiettivi sensibili o della comunità. Ma si tratta di un innalzamento del livello di sicurezza che andrà a beneficio dell'intera collettività".

(il Resto del Carlino, 7 novembre 2020)


Perché la popolazione ebraica europea è diminuita del 60% negli ultimi 50 anni

Oggi risiede nel Vecchio Continente solo un ebreo su dieci, come nel XII secolo. Una ricerca fotografa il declino demografico di una delle più antiche comunità etnico-religiose.

di Simone Benazzo

L'Institute for Jewish Policy Research (Jpr) di Londra ha pubblicato uno studio dedicato alla situazione demografica degli ebrei europei, curato dai professori Sergio Della Pergola, nato a Trieste durante l'occupazione tedesca (1942), e Daniel Staetsky.
   Il report illustra la costante riduzione del numero di ebrei verificatasi a partire dal secondo dopoguerra in quasi tutti gli Stati europei, includendo nel novero i 27 Ue, i paesi dell'ex Unione sovietica (tre baltici esclusi) e tutti quelli che non rientrano in queste due categorie, come il Regno Unito.
   La ricerca inizia sottolineando che, poiché fenomeni come la crescita dell'estremismo di destra e di sinistra e la comparsa della minaccia islamista hanno portato alla diffusione di razzismo e xenofobia, è aumentata in parallelo anche la declinazione di questa ostilità popolare verso le minoranze che colpisce gli ebrei, l'antisemitismo. Osservazione che riecheggia le conclusioni di un approfondito studio sul tema pubblicato nel 2018 dall'Agenzia Ue per i diritti fondamentali.
   Anche il futuro di questa longeva comunità europea dipende così dalla tenuta geopolitica dell'Ue e dalla resilienza che essa saprà opporre a estremismi e autoritarismi di sorta. Come sintetizzano le conclusioni, "gli ebrei d'Europa andranno dove andrà l'Europa".
   Gli ebrei, minoranza senza terra, hanno infatti sempre sostenuto storicamente la creazione di strutture multinazionali non esclusive e non vincolanti culturalmente. il genere di entità politico-amministrative dove più hanno potuto prosperare e integrarsi, grazie alla tolleranza de facto garantita dalle autorità. Coerentemente, anche oggi tendono a essere più europeisti dei loro connazionali, soprattutto oltrecortina. Se nei paesi dell'Europa occidentale soltanto una fascia compresa tra l'8% e il 21% si sente "molto attaccata all'Ue", comunque superiore alle medie nazionali, in Europa centro-orientale - Ungheria e Polonia - questa adesione è invece vistosamente più marcata. Quasi la metà degli ebrei ungheresi e polacchi si definisce "molto attaccata all'Ue", contro medie nazionali inferiori al 20%.
   Si stima che oggi in Europa vivano circa 1,329,400 milioni di ebrei: 788,800 (il 59%) nei 27 paesi Ue, 210,400 (il 16%) in paesi ex sovietici (baltici esclusi) e 330,220 (25%) in paesi terzi - quasi tutti nel Regno Unito (90%).
   Tra questi si contano circa 70 mila cittadini israeliani, distribuiti perlopiù tra Regno Unito (18 mila), Germania (10 mila), Francia (9 mila) e Paesi Bassi (6 mila).
   Il calcolo è notevolmente influenzato dalla scelta tassonomica, in quanto ci sono vari modi di delimitare il concetto di "ebreo". Le stime menzionate considerano solo il cosiddetto "nucleo della popolazione ebraica", cioè le persone che si auto-identificano come ebrei per religione, etnia o cultura. Ma includendo per esempio i possibili beneficiari della Legge del ritorno - la norma che garantisce la cittadinanza israeliana a chiunque possa dimostrare di aver madre ebrea o di essersi convertito all'ebraismo, e non praticare alcun altro culto - il totale arriva a 2,820,800, più del doppio degli ebrei europei identificati tramite la concettualizzazione più riduttiva.
   Un divario così cospicuo tra le due cifre si spiega con il fatto che centinaia di migliaia di individui, specialmente in Europa centro-orientale, non si definiscano "ebrei" tout court, verosimilmente perché assimilati o perché timorosi di subire ritorsioni, ma potrebbero rivendicare ascendenze ebraiche.
   Un ulteriore problema nomenclaturale, inoltre, riguarda i fondamenti di questa auto-definizione. Nei paesi post-comunisti prevalgono i criteri di etnia e cultura, mentre in Europa occidentale - pur con differenze tra i vari paesi - è la religione il principale tratto distintivo. A Est si è quindi etnicamente o culturalmente ebrei, a ovest lo si è perlopiù per credo.
   Conteggiando solo gli individui che compongono il "nucleo della popolazione ebraica", l'attuale proporzione di ebrei europei (9%) sul totale della popolazione ebraica mondiale è paragonabile a quella (12%) stimata nel 1170 da Beniamino di Tudela, antesignano di Marco Polo. E oggi come allora gli ebrei rappresentano meno dello 0.5% della popolazione europea.
   La presenza demografica degli ebrei in Europa, insomma, è tornata ai livelli del XII secolo, dopo aver vissuto una crescita pressoché costante fino al primo Novecento.
   Nel 1880 nel Vecchio continente viveva l'88% degli ebrei mondiali, suddivisi tra Europa centro-orientale (75%) e Europa occidentale (13%). Mezzo secolo più tardi (1939), nonostante l'emigrazione in massa verso il Nuovo Mondo, gli ebrei europei costituivano ancora la maggioranza assoluta (58%). Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il nostro continente ospitava più di diciassette milioni di ebrei.
   Nel 1945 saranno undici. La Shoah estirperà quasi interamente le comunità ebraiche di alcuni Stati, principalmente in Europa orientale e nei Balcani. Un trauma collettivo di questa portata renderà impossibile a gran parte dei sopravvissuti e dei loro discendenti sentirsi di nuovo sicuri e accettati nei territori che erano abituati a considerare la propria patria, invogliandoli a emigrare non appena si fosse presentata l'occasione propizia. Che arriverà tre anni e una settimana dopo la resa della Germania nazista. Il 14 maggio del 1948 David Ben-Gurion fonda lo Stato di Israele.
   La nascita dello Stato ebraico è stato il primo evento geopolitico post-Seconda guerra mondiale a plasmare radicalmente le traiettorie demografiche degli ebrei europei. Ha agito fin da subito da catalizzatore per gli ebrei di tutto il mondo, ma in particolar modo per quelli europei, traumatizzati dalla Shoah. Tra 1948 e 1968 circa 620 mila ebrei abbandonarono l'Europa orientale; mezzo milione di loro si trasferì in Israele.
   Tuttavia, il calo della popolazione ebraica nell'Europa comunista (-22%) venne in parte contemperato dall'aumento di quella in Europa occidentale (8%), principalmente a causa della disgregazione degli imperi coloniali.
   La decolonizzazione è stato infatti il secondo degli eventi destinati a stravolgere le vicende umane e collettive degli ebrei del nostro continente.
   Il graduale ritiro soprattutto della Francia dai possedimenti coloniali in Africa settentrionale e Asia, ma anche quelli di Regno Unito, Italia, Belgio e Paesi Bassi, fu nefasto per gli ebrei residenti - a volte da secoli - in queste colonie extra-europee. Non solo, avendo sovente svolto la funzione di intermediari sociali ed economici tra potenza occidentale occupante e popolazione locale, gli ebrei furono reputati collusi con gli invasori, ma dopo l'esplosione dei conflitti arabo-israeliani iniziarono a venir sempre più identificati con Israele, il nemico numero uno delle popolazioni arabo-musulmane. Sottoposti a intimidazioni e soprusi continui, molti di loro scelsero di emigrare, spesso nelle metropoli europee, rimpinguando le comunità ebraiche di questi paesi decimate dalla Shoah. A partire dagli anni '50 la Francia da sola accolse oltre 250 mila ebrei, provenienti perlopiù dal Maghreb ex-francese.
   Un terzo evento è stato però quello più determinante nell'epopea degli ebrei d'Europa: il collasso del sistema comunista nel biennio 1989-91. Già a partire dai tardi anni '60, alcuni minimi allentamenti dei divieti imposti dal potere sovietico avevano permesso a molti ebrei di lasciare il paradiso dei lavoratori ed espatriare (solitamente in Israele). Il crollo del Muro di Berlino innescò però un esodo ingente, trascinatosi anche per i tre decenni successivi. Tra 1969 e 2020 più di 1,8 milioni di ebrei hanno lasciato la metà (post)comunista del continente.
   In termini percentuali, nell'ultimo mezzo secolo l'Europa ha perso il 59% della propria popolazione ebraica: solo il 9% di quella rimasta in Europa occidentale, ma l'85% di quella dell'Europa orientale.
   Se il picco dell'emorragia demografica si è avuto negli anni '90, ancora negli ultimi due decenni circa 335 mila ebrei europei sono trasmigrati in Israele, quasi due terzi dei quali dalle sole Russia e Ucraina. Secondo gli autori del report, si sarebbe ora in una fase di assestamento: la stragrande maggioranza (84%-92%) degli ebrei che abitano in Europa ha in programma di rimanerci. Tuttavia, anche qualora l'emigrazione cessasse, le comunità ebraiche europee potrebbero comunque assottigliarsi a causa di altri fattori - aumento dei matrimoni misti, assimilazione, progressivo invecchiamento.
   Gli ebrei non sono fuggiti dai paesi del Patto di Varsavia solo per le motivazioni che hanno spinto migliaia di concittadini a compiere la stessa scelta dopo il Crollo del Muro di Berlino: salari più alti e benessere a Ovest, polverizzazione dello Stato sociale e insicurezza generalizzata in patria. Come testimoniano le opere di Vasilij Grossman, l'antisemitismo era molto diffuso anche in Unione sovietica. E non ne soffriva solo il popolino, bensì anche l'intelligentia e le alte sfere, si veda il cosiddetto "complotto dei camici bianchi" scatenato da Stalin poco prima di morire.
   Un'interpretazione storiografica grossolana - opposizione dicotomica e irriducibile tra nazisti persecutori degli ebrei e sovietici liberatori dei lager - e le scorie della martellante retorica sovietica dell'amicizia tra i popoli, con cui il regime tentava di negare le tensioni interetniche e la xenofobia latenti nella popolazione, sono tra i fattori che hanno contribuito a occultare questa pagina ingloriosa. Iniziative propagandistiche come la tragicomica vicenda dell'Oblast'autonoma ebraica poco riuscirono a scalfire il radicato antisemitismo cui indulgeva così volentieri anche l'homo sovieticus.

(Linkiesta, 7 novembre 2020)


Ransomware: sempre più attacchi con Pay2Key

Prende di mira soprattutto aziende con sede in Israele

di Cristiano Ghidotti

Si moltiplicano le segnalazioni di attacchi messi a segno con il ransomware Pay2Key: il riscatto chiesto solitamente si aggira intorno ai 7-9 BTC.
Shapelined, Unsplash
Una nuova minaccia ha fatto di recente la propria comparsa tra i ransomware: battezzata Pay2Key, sembra aver fino ad ora preso di mira soprattutto aziende con sede in Israele, non è chiaro per quale motivo. È quanto riportano oggi i ricercatori di Check Point Software facendo riferimento a un numero di segnalazioni in costante aumento.

 Pay2Key è la minaccia ransomware del momento
Il modus operandi di chi esegue l'attacco è lo stesso di sempre, passando dalla compromissione dei sistemi informatici per arrivare a bloccare dispositivi e accesso ai dati, chiedendo il pagamento di un riscatto in criptovaluta se si desidera rientrarne in possesso. Stando a quanto trapelato la somma pretesa varia da 7 a 9 BTC: tradotto da Bitcoin alla nostra moneta sono circa 90.000-120.000 euro.
Congratulazioni! La vostra intera rete e tutte le vostre informazioni come computer, dati sui dipendenti, cartelle degli utenti, server, file, applicazioni, database ecc. nel network sono stati cifrati con successo! Alcune delle vostre importanti informazioni sono state scaricate e sono pronte per essere rilasciate nel caso non vogliate accettare un buon accordo!
La prima comparsa di Pay2Key risale alla fine di ottobre. Solitamente la sua azione si manifesta dopo la mezzanotte, quando di norma le società hanno meno personale tecnico a disposizione per intervenire in modo rapido sul problema. Si ritiene che la breccia nei sistemi intaccati avvenga sfruttando un punto debole del Remote Desktop Protocol.
I dati vengono cifrati con algoritmi AES e RSA e al momento non sono disponibili strumenti utili per ristabilire l'accesso ai contenuti senza cedere all'estorsione. Stando alle analisi fin qui condotte pare che il codice del ransomware sia stato scritto da zero (identificato con il nome in codice Cobalt durante la fase di sviluppo), senza basarsi su quello di altri già in circolazione o documentati.

(Punto Informatico, 7 novembre 2020)


Lui ebreo e lei cattolica: dalla valigia spunta la storia degli amanti divisi dal nazismo

I due tedeschi, in fuga dai nazisti, arrivarono in Abruzzo. La vicenda è venuta a galla dopo 75 anni, grazie al ritrovamento di una borsa dentro un baule a Civitella del Tronto.

 
Margarete Wagner e Ignaz Hain a Milano
GIULIANOVA (Teramo) - Una giovane coppia tedesca ai tempi di Hitler. Lei si chiamava Margarete Wagner e quando morì, lontano da lui, aveva appena 37 anni. Lui, Ignaz Hain, un giovane procuratore legale, ne aveva 42 quando, pensando a lei, due mesi dopo, chiuse gli occhi per sempre. Erano entrambi originari di Francoforte sul Meno. La loro sarebbe stata una storia d'amore come tante altre se non fosse che Margarete era cattolica e «ariana» e Ignaz era ebreo. E questo il regime non lo sopportava. Furono costretti prima a fuggire e poi perseguitati fino a morire (lei, malata, in Italia, e lui di stenti in un campo di concentramento in Germania) quando ormai il mondo era sul punto di liberarsi dal nazifascismo.

 Una lunga ricerca
La storia è emersa da foto e documenti contenuti in una vecchia borsa ritrovata per caso a Civitella del Tronto, provincia di Teramo, pochi mesi fa, 75 anni dopo la fine della guerra. Tutto si deve alla tenacia di un giornalista e studioso abruzzese, Walter De Berardinis, che compiendo alcune ricerche ha casualmente scoperto il nome di lei nell'archivio dell'Anagrafe di Giulianova, e al ritrovamento della borsa (dopo che se ne erano perse le tracce) nel fondo di un baule da parte del nipote del podestà dell'epoca, Guido Scesi, omonimo del nonno. Aiutati dal cugino di Guido, Giuseppe Graziani, storico, hanno ricomposto il puzzle di una vicenda destinata a finire nel dimenticatoio. «All'inizio — racconta De Berardinis — avevo solo un nome, Margarete, originaria di Francoforte e residente a Civitella del Tronto, deceduta a Giulianova il 14 gennaio 1945. Poi consultando vari database e incrociando i dati che raccoglievo negli archivi locali e nazionali, ho ricostruito i movimenti.

 Il giallo della valigia
Documenti contenuti nella valigia
A Civitella del Tronto, quando ho chiesto aiuto a Scesi, è saltata fuori questa borsa piena di foto e lettere della coppia e anche di documenti che fanno luce sulla loro drammatica storia». «Mio nonno — riferisce Guido Scesi — aiutò tanti ebrei. Ricordo che sua moglie, mia nonna Nina, ha custodito questa borsa per anni. Negli anni Ottanta si diede da fare per restituirne il contenuto alle loro famiglie ma non riuscì a rintracciarle. E la borsa è sparita e non l'abbiamo più trovata fino a pochi mesi fa».
Margarete e Ignaz si erano conosciuti e fidanzati a Francoforte sul Meno, poi erano fuggiti a Milano dove Hain venne arrestato nell'agosto del 1940 e trasferito in Abruzzo, nel campo d'internamento di Tossirla e successivamente in quello di Civitella del Tronto.

 Lei lo segue
Lei non si arrende e lo segue e, in base alle autorizzazioni rilasciate di volta in volta dalla Questura di Milano e da quella di Teramo, riesce saltuariamente a vederlo in una casa che prendevano in affitto a Civitella. «Nel maggio del 1944, però — continua De Berardinis — Ignaz viene condotto nel campo di smistamento di Fossoli di Carpi, il 16 agosto 1944 ad Auschwitz e il 25 gennaio 1945 a Mauthausen, dove muore l'8 marzo. Margarete, che era rimasta bloccata a Civitella del Tronto non potendo tornare né a Milano né a Francoforte a causa della guerra, si ammala e muore nell'ospedale di Giulianova pochi mesi dopo probabilmente per una fortissima nevrosi».
Nella borsa è stata ritrovata una dichiarazione del podestà, il quale sottoscrive che Margarete e Ignaz sono coniugi, che lei è di razza ariana «pura» e che si tratta di un matrimonio misto. Cosa che Ignaz sperava potesse salvarlo dalle persecuzioni. Ma non andò così. «Secondo un testimone, scomparso qualche anno fa — svela Giuseppe Graziani —, quando lui venne fatto salire sul camion che l'avrebbe portato a Fossoli e poi nei campi di sterminio della Germania, Margarete disperata si oppose urlando che non glielo portassero via». Fu l'ultima volta che si videro.

(Corriere della Sera, 7 novembre 2020)


Non facciamo i ciechi sull'Islam

Giovani ebrei picchiati? Sinora erano considerate rogazzate. Dopo i fatti di sangue anche la sinistra tedesca si pone il problema finora trascurato.

di Roberto Giardina

"Sull'Islam in Germania siamo ciechi dall'occhio sinistro», ha denunciato Kevin Kunert, il capo degli Jusos, i giovani socialdemocratici fino ai 35 anni. «Se continuiamo a non reagire, a non comprendere il pericolo, lasciamo il problema in mano all'estrema destra», ha messo in guardia Robert Habeck, il leader dei verdi. Quanto avviene in Francia in questi giorni ha convinto la sinistra tedesca a reagire. Finora, per una malintesa tolleranza, si sono evitati controlli sui profughi musulmani E si continua a tener nascosta l'etnia di chi compie aggressioni, o reati comuni.
   Il ministro degli Interni, il cristianosociale Horst Seehofer, ha dichiarato: «Un attentato è possibile anche da noi». Non è possibile garantire una totale sicurezza in Germania. I soggetti considerati altamente pericolosi, in grado di compiere un attentato sono moltissimi, impossibile giungere a una rapida espulsione, le procedure durano anni.
   «Sabato scorso lungo la Sonnenallee, la lunga strada nel cuore di Berlino, un giovane siriano con la classica jellabah bianca ha trascinato un uomo con la maschera di Macron, il presidente francese, con le mani legate. L'ha preso teatralmente a cinghiate dileggiandolo. E la recita è andata avanti a lungo senza che la polizia intervenisse.
   La provocazione è stata organizzata da Fayez Kanfash, un siriano di 23 anni, un noto youtuber con quasi un milione di seguaci in rete. Solo ore dopo, in serata, è stato arrestato sull'Alexanderplatz in compagnia di tre amici, anche loro siriani. Fayez, nato a Damasco, è fuggito in Germania quattro anni fa, non ha compiuto reati, non ci sono prove che abbia contatti con estremisti islamici. E' stata aperta un'istruttoria, ed è tornato subito libero.
   «Ho voluto aprire gli occhi all'Occidente», ha spiegato, «la libertà di pensiero deve avere un limite. Ma il mio obiettivo non è di provocare una reazione violenta. Se voi offendete il nostro profeta, dovete accettare che noi si prenda in giro un vostro capo politico». Il grave è che ci siano politici e intellettuali pronti a criticare la satira di Charlie Hebdo, e a relativizzare gli omicidi compiuti a Nizza e a Vienna.
   Il video di Fayez non è stato comunque ben accolto dalla comunità musulmana. Ma subito dopo l'uccisione del professore Samuel Paty, nella capitale gli immigrati arabi hanno manifestato contro la Francia, e non hanno preso le distanze dai terroristi.
   Nelle scuole di Berlino, i professori temono di commentare l'uccisione di Paty. Un professore ha riferito a Hendrick Nitsch, il preside del ginnasio Gustav-Feytag, che nella sua classe uno studente musulmano ha disturbato il minuto di silenzio dichiarando: «Ha avuto quel che si meritava, ha offeso il profeta». Altri quattro docenti si sono dovuti confrontare con il dissenso di allievi arabi. E' un problema diffuso nelle scuole di Berlino, ha riferito Nitsch al Tagesspiegel: «Abbiamo parlato con questi giovani, ma non è servito a nulla». Probabilmente sono fans dei video di Fayez, un idolo dei giovani.
   Un altro insegnante in un ginnasio berlinese ha riferito: «Un mio allievo mi ha detto che uccidere qualcuno non è poi così grave. Molti ragazzi la pensano come lui». Karina Jenichen, direttrice di una scuola con una forte percentuale di allievi stranieri ha confermato: «Queste idee sono diffuse ed è impossibile sradicarle».
   Una sua collega ha confessato: «Adesso ho paura». «Una certa paura l'abbiamo tutti», ha confermato Lea Hagen, direttrice di un ginnasio a Kreuzberg, il quartiere di Berlino con la più alta percentuale di musulmani. Il professor Nitsch non ha voluto rinunciare al minuto di silenzio per Paty, né ha consigliato ai suoi docenti di evitare dibattiti sulla libertà di pensiero in classe: «La resistenza degli studenti mi ha sorpreso».
   Frau Hagen, che fa parte del direttivo dell'associazione dei docenti berlinesi, ha aggiunto: «I politici del Senato cittadino, hanno trascurato a lungo il problema. Semplicemente non si è voluto vedere». Da anni i ragazzi ebrei, in forte minoranza in confronto ai coetanei musulmani, vengono aggrediti quasi giornalmente, ricevono minacce di morte, ma le autorità preferiscono giudicarle normali risse tra adolescenti o, al massimo, parlare di mobbing religioso pur di non pronunciare la parola antisemitismo.

(ItaliaOggi, 7 novembre 2020)


Israele, verso la riapertura di Eilat e Mar Morto

di Simonetta Clucher

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo a decidere per un secondo lockdown, una decisione difficile che ha però dato i suoi risultati. In questi giorni in Israele i dati relativi alla positività al Covid-19 è la più bassa degli ultimi quattro mesi e si attesta attorno ai dati di fine giugno.
In Israele sono iniziate le prime aperture, a cominciare dalle scuole per l'infanzia e di parte delle classi della primaria e si va avanti con una serie di allentamenti su molte restrizioni.

 La riapertura inizia a interessare anche il turismo
Un'apertura turistica che prevede norme molto strette. Il primo passo è quello di regolamentare le procedure di controllo in ingresso e in uscita dal Paese per i cittadini israeliani, che prevedono l'istituzione di due stazioni di test COVID-19 per i passeggeri in arrivo e in partenza dall'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
Si tratta di una stazione interna lo terminal e una esterna con la formula drive-in. Le due stazioni forniscono test che danno risultati entro 12-48 ore o a scelta anche quelli rapidi per i quali bastano 4 ore.

 Israele punta sul turismo green
 
Ein Bokek
  Intanto in Israele per la ripresa del turismo si sta procedendo per l'approvazione delle cosiddette "isole di turismo verde". Un'iniziativa voluta dal Ministero del Turismo Israeliano che comprende la città turistica di Eilat e l'area alberghiera di Ein Bokek-Hamei Zohar sul Mar Morto.
Questo porterà a dichiarare queste due località come "area turistica speciale", il cui ingresso sarà subordinato alla presentazione un test negativo al coronavirus, ovviamente recente, o di una certificazione comprovante la guarigione dal virus
Lo schema consentirà l'apertura di alberghi in queste zone, nel rispetto delle linee guida del Ministero della Salute e nell'ipotesi che vi sia un persistente basso livello di morbilità nelle aree.
Successivamente si prevede, in queste stesse aree, anche la riapertura delle attività commerciali a servizio degli ospiti degli hotel.

 Perché proprio Eilat e il Mar Morto
Eilat e il Mar Morto sono due località che al tempo stesso garantiscono un clima caldo e temperato tutto l'anno e un tipo di turismo verde che ben si presta (non solo in Israele) ad essere fruito rispettando i principi del distanziamento.
Questa riapertura verrà attuata dopo l'approvazione del disegno di legge in discussione in questi giorni - che dovrebbe arrivare a giorni - e naturalmente se i tassi di morbilità continueranno a rimanere bassi.

(Sulle Strade del Mondo, 6 novembre 2020)


Elezioni Usa, ebrei americani Pro Biden

La preoccupazione del Likud per una vittoria democratica

di Roberto Zadik

Sono giornate molto convulse per la scena politica americana, dove si preannuncia sempre più certa la vittoria del Democratico Joe Biden come nuovo presidente americano. Ma cosa sta succedendo nel mondo ebraico, verso il quale Trump si era mostrato tanto favorevole? L'autorevole sito del Times of Israel ha dedicato sia mercoledì che oggi, ampio spazio a queste intense elezioni. Mercoledì mattina è uscita la notizia che negli exit poll, gli ebrei americani preferirebbero Biden a Trump. Questo sarebbe emerso dai dati del sondaggio effettuato dall'istituto di ricerche americano GBAO per conto di J Street, gruppo ebraico liberale che al suo interno ha sostenuto il candidato Democratico, con 800 membri che hanno espresso la loro preferenza verso di lui. Stando allo studio, grazie al loro supporto egli ha superato con 45 punti di vantaggio Hillary Clinton che nel 2016 era stata sconfitta da Trump.
   Non si tratta solo di un dato isolato, ma di una tendenza elettorale a quanto pare piuttosto radicata nel mondo ebraico statunitense. Infatti il Times of Israel ha sottolineato come anche lo scorso ottobre un Comitato ebraico americano mostrasse la stessa preferenza verso Biden, con il 75 percento dei voti dei suoi membri mentre Trump aveva ottenuto solamente il 22 percento delle preferenze. Ma come mai? Stando ai sondaggi il sostegno ad Israele non sarebbe più in cima alle priorità per gli ebrei americani, crollando al 5 percento delle risposte mentre nel 2016 era al 9% mentre altri problemi detengono i primi posti nei sondaggi. Primo fra tutti la pandemia del Covid, seguita dalla sanità e dall'economia.
   Come ha detto il presidente del gruppo J Street promotore di questa ricerca, Jeremy Ben-Ami "in queste elezioni gli ebrei americani hanno totalmente ripudiato Trump e i Repubblicani catalizzatori in questi anni di idee destrorse e xenofobe. Mentre Trump incitava gli ebrei a un abbandono di massa dal partito Democratico abbiamo invece assistito a un cedimento del già scarso sostegno ebraico verso i Repubblicani". "La loro mentalità" ha continuato "basata sul mito che i voti ebraici possano venire sopraffatti dalla politica rapace di Israele è destinata a fallire. Gli ebrei americani hanno dimostrato di essere fra i membri più liberali dell'elettorato americano con una visione di Israele diplomatica e pacifista".
   La ricerca, inoltre, ha evidenziato anche altri elementi , come il conflitto fra israeliani e palestinesi. Riguardo a questo spinoso argomento, sebbene il 90 % si sia dimostrato critico verso la politica israeliana, anche se nonostante questo l'89% ha condannato qualsiasi boicottaggio di Israele. La maggioranza degli interpellati, circa il 72 percento, sarebbe invece favorevole alla soluzione pacifista dei "due popoli due stati" o con uno stato a due popoli mentre il 15 % appoggerebbe la restituzione dei territori permettendo ai palestinesi il voto alle elezioni municipali ma non a quelle nazionali. Sempre secondo questo studio, il 74 percento si è dichiarato favorevole a un rientro degli Usa negli accordi sul nucleare con l'Iran che Trump aveva bloccato dal 2018.

 In Israele la preoccupazione del Likud
Sempre il Times of Israel, giovedì 5 novembre, ha pubblicato un articolo che esprime la tensione all'interno dello staff della Destra israeliana e del Partito del Likud, riguardo a una possibile vittoria di Joe Biden e del Partito Democratico alla Casa Bianca. Citando la fonte della notizia, Zman Israel, versione ebraica del sito, ci sarebbe grande agitazione all'interno dello schieramento dell'attuale premier Netanyahu, vista la sua relazione molto stretta del Likud coi Repubblicani e il presidente uscente Trump e un probabile sovvertimento degli attuali accordi internazionali da lui stipulati con le Nazioni Unite. Stando all'articolo un membro di punta del Likud, che ha scelto l'anonimato, ha espresso la propria amarezza "Ora diranno a Netanyahu: il tuo amico se n'è andato, così anche tu dovrai andartene". "Criticheranno Netanyahu" ha proseguito " per aver rotto i rapporti coi democratici e parleranno del prezzo che pagheremo e di lui, che l'America la conosce meglio di chiunque altro, che ha scommesso sul cavallo sbagliato".
   Il Times of Israel e il Likud si interrogano, dunque, sulle conseguenze della vittoria di Biden per Israele e riguardo all'atteggiamento degli Stati Uniti verso Israele. Infatti la "vittoria di Trump avrebbe portato a elezioni in Israele mentre ora Netanyahu ha meno desiderio di ricandidarsi" ha detto un altro esponente anonimo. Un parlamentare del Likud ha detto "abbiamo preso un colpo, non abbiamo più persone come Nikki Haley, ambasciatrice alle Nazioni Unite nota per le sue posizioni filoisraeliane e Israele dovrà prepararsi a un nuovo scenario nei rapporti internazionali." "I Democratici " ha ricordato il membro del Likud, "hanno idee con cui l'attuale Governo potrebbe scontrarsi. Il partito Democratico americano è composto da alcune frange estremamente radicali che nemmeno la sinistra israeliana riesce a accettare". A questo si aggiunge il fatto che l'attuale ambasciatore israeliano negli Usa Ron Dermer ha stretti rapporti coi Repubblicani mentre i leader del Likud temono che l'amministrazione Biden abbandoni il piano di pace di Trump ponendosi radicalmente in opposizione ad esso con la soluzione dei "due popoli, due stati". Oltre a questo il Times of Israel ha concluso rievocando la freddezza di rapporti fra Netanyahu e Obama e il grande affiatamento della Destra Israeliana con l'amministrazione Repubblicana che da ora rischia di venire soppiantato da un clima decisamente più faticoso.

(Bet Magazine Mosaico, 6 novembre 2020)


Veicoli da combattimento israeliani per l'esercito del Ghana

 
Israele ha accordato al Ghana una linea di credito di 74 milioni di dollari abbinata a un prestito commerciale di altri 12 milioni per finanziare l'acquisto di 19 veicoli da combattimento per la fanteria (IFV) realizzati da Elbit Land Systems: si tratta di 9 veicoli 8 x8 equipaggiati con torrette azionate a distanza da 30 mm Elbit Systems UT30 e 10 6x6 equipaggiati per le operazioni di ricognizione.
Dovrebbe trattarsi di 8x8 Sentinel e 6x6 che affiancherebbero circa 170 blindati EE-9 Cascavel, Ratel-90, 15 Ratel-20, Piranha e Type-05P .
Secondo quanto riferito dal sito sudafricano Defenceweb, il presidente della commissione parlamentare per le finanze Mark Assibey Yeboah ha affermato che approvando il prestito, il parlamento ha riconosciuto la necessità di equipaggiare l'esercito per affrontare potenziali impatti del terrorismo, del traffico di esseri umani e di altre minacce alla sicurezza lungo il confine settentrionale con il Burkina Faso.
Yeboah ha affermato detto che i veicoli blindati sono fondamentali nelle operazioni antiterrorismo e nel supporto alle operazioni di sicurezza interna della polizia.
L'acquisizione aiuterà l'esercito del Ghana a realizzare l'istituzione, da tempo ritardata, di due nuovi reggimenti (154° e 155°) dotati di veicoli blindati con sede a Sunyani e Tamale da aggiungere a quello già esistente (153°).
In ottobre l'ambasciata tedesca ha consegnato 7 veicoli (sei Toyota Hilux e un autobus) all'Unità di risposta rapida del Ghana Immigration Service (GISS come parte degli sforzi per rafforzare le agenzie di sicurezza del confine ghanese.

(Analisi Difesa, 6 novembre 2020)


Covid-19: Israele ordina 1,5 milioni di dosi del vaccino russo Sputnik V

L'Hadassah Medical Center di Gerusalemme ha ordinato 1,5 milioni di dosi del vaccino contro il coronavirus Sputnik V di fabbricazione russa. A riferirlo sono diversi media israeliani, citando il CEO dell'ospedale, Zeev Rotstein.
Secondo il quotidiano Haaretz, l'ospedale ora fornirà al ministero della Sanità israeliano tutte le informazioni rilevanti sul vaccino per ottenere l'autorizzazione per il suo utilizzo.
Come citato nel rapporto, Rotstein ha affermato che le paure diffuse dai media riguardo al vaccino non sono fondate e che hanno più a che fare con la lotta globale tra Russia e Stati Uniti piuttosto che con i dati scientifici.
Nel caso in cui il ministero rifiutasse l'autorizzazione, Rotstein ha dichiarato che Hadassah utilizzerà il vaccino nelle sue filiali estere. Secondo l'amministratore delegato, la filiale di Mosca ha già somministrato il vaccino a diversi pazienti e "con ottimi risultati", come citato nel rapporto.
Qualora l'autorizzazione venisse concessa, invece, lo Sputnik V sarà disponibile in Israele tra due o tre mesi al massimo.
Ad oggi sono ben due i vaccini prodotti e registrati ufficialmente dalla Federazione Russa. Un terzo vaccino, ancora in fase di sperimentazione, dovrebbe essere registrato prossimamente, secondo quanto dichiarato dalle autorità russe.
Il primo vaccino, lo Sputnik V, elaborato dal Centro Gamaleya in collaborazione con il Fondo russo per gli investimenti diretti, era stato registrato lo scorso 11 agosto. Il vaccino prevede l'iniezione di 2 dosi con un intervallo di tre settimane. Complessivamente 40mila volontari hanno preso parte allo studio, di cui 10mila hanno ricevuto un placebo, necessario per testare l'efficacia del vaccino. Alla fine di settembre, il direttore regionale europeo dell'OMS, Hans Kluge, ha ringraziato la Russia per i suoi "eccellenti sforzi profusi nella creazione di un vaccino sicuro ed efficace per la comunità internazionale".
Il secondo vaccino russo per il coronavirus, denominato "EpiVacCorona", è stato ufficialmente registrato dal Centro scientifico nazionale di virologia e biotecnologie Vektor di Novosibirsk il 14 ottobre. Lo ha annunciato il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.
La vicepremier russa Tatyana Golikova, alla presenza del capo di Stato russo, ha annunciato che il nuovo preparato, sviluppato dal Centro scientifico nazionale di virologia e biotecnologie Vektor di Novosibirsk, risulta essere assolutamente sicuro e ha reso noto che le prime 60.000 dosi dello stesso saranno messe in produzione nel prossimo futuro.
Il nuovo vaccino del Centro Vektor contiene frammenti del virus, degli antigeni peptidici sintetici. Grazie ad essi il preparato genera una reazione immunitaria contro il Covid-19 e garantisce lo sviluppo di un ulteriore livello di immunizzazione.
Il terzo preparato, per il quale il 19 ottobre inizierà la seconda fase di sperimentazioni cliniche, è invece in fase di sviluppo presso il Centro per la ricerca e lo sviluppo di farmaci immunobiologici M.P. Chumakov dell'Accademia delle Scienze russa.

(Sicurezza Internazionale, 6 novembre 2020)


Col fucile al bar: «Ammazzo gli ebrei»

Cade l'aggravante della discriminazione, verserà 900 euro di ammenda

Rischiava una condanna ben più pesante, invece ieri mattina in aula se l'è cavata alla fine con 900 euro di ammenda.
   È stata esclusa dai giudici scaligeri infatti l'aggravante della contestata discriminazione a sfondo religioso nei confronti del veronese Alberto S., finito sul banco degli imputati davanti al Tribunale collegiale presieduto dal giudice Sandra Sperandio per il burrascoso episodio di cui si era reso «protagonista» all'interno di un bar. Al momento dei fatti, in base alla ricostruzione delineata dalla Pubblica Accusa, l'imputato sarebbe entrato nel locale imbracciando un fucile ad aria compressa. Ma oltre alla scena già di per sé inquietante, ad aver gettato nello scompiglio i presenti facendolo finire nei guai, sono state le frasi che pronunciò. Più che delle parole, dalla sua bocca sarebbero uscite vere e proprie minacce: «Ammazzo gli ebrei».
   Venne immediatamente denunciato e indagato, mentre ieri a esprimersi su quanto accaduto è stato il Tribunale collegiale di Verona. Difeso da un avvocato del Foro di Vicenza nel corso del processo che si è chiuso 24 ore fa con la sentenza di primo grado, al veronese la Procura contestava nel capo d'imputazione oltre alle minacce aggravate dall'uso dell'arma seppure ad aria compressa, anche l'ulteriore circostanza aggravante prevista e punita dalla legge Mancino contro le discriminazioni a sfondo religioso, razziale, politico, di genere e quant'altro. A giudizio del collegio, tuttavia, in questo caso tale circostanza non si sarebbe concretizzata: per questo, alla fine, la pena inflitta ad Alberto S. si è limitata al versamento di un'ammenda da 900 euro. Secondo i magistrati veronesi, quelle frasi di minaccia, per quanto gravi, non sarebbero state indirizzate ad alcun soggetto specifico.
   Troppo generiche ed estemporanee, dunque, per configurare effettivamente un caso di discriminazione religiosa. Non solo: da quanto emerso durante le indagini effettuate sulla vicenda, l'imputato avrebbe sofferto anche di disturbi mentali, come dimostrato dal Tso (trattamento sanitario obbligatorio) a cui era stato sottoposto. Dietro quelle minacce contro gli ebrei gridate «esibendo» un fucile al bar, insomma, ci sarebbero ben altre motivazioni che un reale odio razziale o religioso.

(pressreader, 6 novembre 2020)


L'Autorità Palestinese condannata a risarcire le vittime di attacchi terroristici

A 16 anni dall'inizio della causa, il tribunale ha stabilito che alti funzionari dell'Autorità Palestinese furono complici e mandanti dell'attentato che uccise Gadi Shemesh e la moglie Tzipi, incinta di due gemelli

Da YnetNews, 3.11.20

Il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha stabilito lunedì che l'Autorità Palestinese deve pagare 13 milioni di shekel (ca. 3.250.000 euro) a titolo di risarcimento alla famiglia di Tzipi e Gadi Shemesh, uccisi in un attentato suicida nella capitale nel 2002.
   La sentenza giunge dopo che due anni fa era stato stabilito che l'Autorità Palestinese andava ritenuta direttamente responsabile dell'atto di terrorismo costato la vita alla coppia e ai loro nascituri gemelli.
   L'attentato venne perpetrato il 21 marzo 2002 nel centro di Gerusalemme. Tzipi e Gadi Shemesh stavano camminando lungo via King George dopo aver fatto un'ecografia da cui avevano appreso che Tzipi (29 anni, contabile alla libreria Akademon presso l'Università di Gerusalemme) aspettava due gemelli, quando l'attentatore suicida Muhammad Hashika attivò la sua cintura esplosiva. L'esplosione uccise Tzipi sul posto e ferì mortalmente il marito che fu trasportato all'ospedale dove perì poche ore dopo. Nell'attentato venne ucciso anche Yitzhak Cohen, padre di sei figli residente a Modiin, e vennero ferite o mutilate più di 80 persone.
   "Questa sera arriviamo finalmente alla conclusione dopo molti anni di battaglie in tribunale - hanno dichiarato Shahar e Shoval, le figlie della coppia assassinata - Sin dal primo momento ciò che è stato per noi più importante era che fosse fatta giustizia. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di dimostrare che possiamo opporci alle organizzazioni terroristiche e mostrare loro che siamo forti a fronte di quello che abbiamo subito".
   Il verdetto arriva sedici anni dopo che la famiglia ha intentato causa per la prima volta contro l'Autorità Palestinese e l'Olp, affermato che gli autori dell'attentato erano membri di un'organizzazione terroristica palestinese che ha agito grazie alla politica dell'Autorità Palestinese, che aveva dato via libera all'uccisione di civili israeliani innocenti. L'Autorità Palestinese, dal canto suo, ha sostenuto che le affermazioni della famiglia sono generali e irrilevanti e che le questioni sollevate sono questioni storiche complesse che non dovrebbero essere oggetto di sentenze in tribunale.
   Secondo la sentenza, il terrorista che ha perpetrato l'attentato era stato arrestato dall'Autorità Palestinese e poi rilasciato appositamente perché effettuasse l'attacco su richiesta di Abd al-Karim Avis, un ufficiale dell'apparato di Intelligence Generale dell'Autorità Palestinese. Inoltre, i materiali utilizzati per realizzare l'ordigno esplosivo provenivano dall'ufficio del capo del servizio di Intelligence Generale dell'Autorità Palestinese, Tawfiq Tirawi, che pagò un aiutante perché portasse il terrorista sul luogo dell'attentato. Anche il funzionario di Fatah Hussein a-Sheikh, oggi ministro incaricato dei rapporti con Israele, è ritenuto complice dell'attentato avendo consegnato denaro e bombe a mano al terrorista e ad altri coinvolti.
   Negli ultimi anni sono state intentate diverse azioni legali contro l'Autorità Palestinese da parte di famiglie di vittime in attentati compiuti durante la seconda intifada. Tre anni fa un tribunale distrettuale ha stabilito che l'Autorità Palestinese deve risarcire con 62 milioni di shekel la famiglia Ben Shalom, che perse i genitori Sharon e Yaniv Ben Shalom in un attacco con armi da fuoco sulla statale 443. Il tribunale ha stabilito che l'Autorità Palestinese non fece ciò che avrebbe potuto fare per fermare l'attacco. In un altro caso, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che l'Autorità Palestinese deve risarcire la famiglia di Amos Mantin, ucciso in un attentato terroristico a Baqa al-Gharbiya nel 2003. Amos Mantin venne colpito a morte da un ragazzo palestinese che frequentava un campo d'addestramento sponsorizzato dall'Autorità Palestinese.

(israele.net, 6 novembre 2020)


Arriva il vaccino anti-Covid

Lo produce l'Istituto di ricerca delle armi chimiche e biologiche d'Israele. Il suo nome è "Brilife" ed è il nuovo vaccino contro il Covid-19 che dal 1° novembre viene somministrato sperimentalmente in Israele su 80 "volontari" di età compresa tra i 18 e i 55 anni nell'ospedale Hadassah Ein Kerem dell'Università Ebraica di Gerusalemme e presso lo Sheba Medical Center di Ramat Gan, Tel Aviv.

di Antonio Mazzeo

 
Il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz in visita all'Israel Biological Institute di Ness Ziona
Il vaccino è stato sviluppato dall'Israel Institute for Biological Research (IIBR) di Ness Ziona, il principale istituto di ricerca chimico-biologico dello Stato d'Israele, sotto la giurisdizione dell'Ufficio del Primo ministro. Le sperimentazioni saranno condotte per un periodo di diversi mesi e a partire dal mese di dicembre i test coinvolgeranno un migliaio di "volontari" di età compresa tra i 18 e gli 85 anni in otto ospedali del paese. La terza ed ultima fase della somministrazione dei vaccini "Brilife" è prevista nella primavera del 2021 e avrà come cavie 30.000 persone circa. Secondo quanto dichiarato dal professore Yosef Karako, responsabile dell'Unità sperimentazioni chimiche dell'ospedale Hadassah, per la produzione del vaccino sono stati utilizzati vettori virali derivanti dal virus della stomatite viscerale (VSV), geneticamente ingegnerizzato con una proteina di Sars-Cov-2.
   L'1 febbraio 2020 era stato il Primo ministro Benjamin Netanyahu ad autorizzare l'Israel Institute for Biological Research ad avviare le attività di ricerca sul nuovo vaccino sperimentale anti-Covid e, contestualmente, ad istituire un centro di produzione vaccini nella cittadina di Yeruham, nel deserto del Negev. A fine marzo l'Istituto aveva effettuato i primi test del preparato sui roditori.
   Negli stessi mesi l'IIBR veniva pure incaricato dal Ministero della Difesa israeliano di effettuare la "raccolta plasma" dai pazienti convalescenti da coronavirus, nell'ambito di un programma d'individuazione di anticorpi specifici da trasferire poi in altri soggetti ricoverati nei presidi ospedalieri. I "risultati positivi" della prima fase di sperimentazione del cosiddetto "vaccino passivo" sono stati illustrati dai ricercatori in occasione della visita ai laboratori dell'IIBR del ministro della Difesa, Naftali Bennett, il 4 maggio 2020.
   E' stato lo stesso ministro a spiegare con un comunicato le tappe programmate dall'Istituto per lo sviluppo e commercializzazione degli anticorpi anti-Covid19. "Sono orgoglioso del personale dell'Israel Institute for Biological Research: la creatività e l'ingegnosità ebraica hanno portato a questo straordinario risultato", ha esordito Bennett. "In questi ultimo giorni l'IIBR ha completato un rivoluzionario sviluppo scientifico, determinando un anticorpo che neutralizza il SARS-COV-2. Tre sono i parametri: l'anticorpo è monoclonale, nuovo e affinato, e contiene una proporzione eccezionalmente bassa di proteine nocive; esso è in grado di neutralizzare il coronavirus; è stato testato su un virus aggressivo". Le procedure legali ed amministrative per la produzione e la commercializzazione dell'antidoto, ha concluso Naftali Bennett, "saranno coordinate dal Ministero della Difesa", quasi a voler sottolineare la piena subordinazione dell'Istituto di ricerca biologica all'autorità militare.
   Un reportage apparso su The Jerusalem Post il 6 maggio 2020, ha offerto una descrizione semi-inedita dell'Israel Institute for Biological Research di Ness Ziona. "Il centro è circondato da un muro inaccessibile pieno di sensori e con pattuglie di guardie armate che perlustrano il suo perimetro", riferisce il quotidiano. "Nessun aereo è autorizzato a sorvolare la facility ed essa non appare in nessuna mappa o guida telefonica dell'area. Per accedere al suo interno sono obbligatori l'uso di parole in codice e l'identificazione visiva e ci sono numerose porte blindate a prova di bomba che possono essere aperte da carte elettroniche i cui codici vengono modificati ogni giorno. Molti dei laboratori di ricerca sono ospitati nel sottosuolo".
   All'IIBR vengono impiegate 350 persone, di cui 150 sono scienziati con dottorati in biologia, biochimica, biotecnologia, chimica organica e fisica, farmacologia, matematica e fisica. Dal 2013 il direttore responsabile dell'Istituto è il professore Shmuel C. Shapira, docente di Amministrazione medica e direttore generale del Dipartimento di Medicina militare dell'Università Ebraica di Gerusalemme, nonché presidente del consiglio d'amministrazione del Life Centre Research Israel Ttd., società a cui è affidata la commercializzazione delle innovazioni tecnologiche brevettate dall'Institute for Biological Research.
   La storia dell'IIBR è intrinsecamente legata alle strategie degli apparati di difesa e sicuritari d'Israele. Esso fu fondato a Jaffa nel lontano febbraio 1948 - qualche mese prima che venisse fondato lo stato sionista in Palestina - con il nome di "Hemed Beit". Si trattava nello specifico di un'unità per la guerra biologica dell'organizzazione paramilitare "Haganah" (La Difesa, in lingua ebraica), sotto la direzione dell'ufficiale Yigael Yadin, poi Capo di stato delle forze armate e viceministro della Difesa. I report dell'intelligence britannica del tempo documentarono il diretto coinvolgimento di "Hemed Beit" in una serie di "operazioni coperte" contro la popolazione araba per costringerla ad abbandonare i villaggi natii e consentire la loro occupazione da parte di coloni e militari ebrei.
   Nel 1952 l'unità assunse l'odierno nome di Israel Institute for Biological Research e gli uffici e i laboratori furono trasferiti a Ness Ziona, villaggio a una decina di km. da Tel Aviv. A capo dell'IIBS fu nominato il professore Ernst David Bergmann, consigliere scientifico-militare del Primo ministro David Ben-Gurion e tra i promotori con il Weizmann Institute of Science dei primi programmi di ricerca sulle armi nucleari dello Stato d'Israele.
   Il ruolo di Ernst David Bergmann e dell'istituto da lui diretto furono fondamentali per lo sviluppo e la sperimentazione delle armi biologiche e chimiche e dei potenziali vaccini e antidoti anti-NBC, destinati alle forze armate e dei servizi segreti israeliani, primo fra tutti il famigerato Mossad che se ne avvalse per una serie di missioni top secret fuori dai confini nazionali. A partire dalla fine degli anni '70, l'IIBR ha pure firmato una serie di contratti di ricerca con agenzie degli Stati Uniti d'America, il Dipartimento della Difesa e U.S. Army. Il database del Pentagono riporta una spesa complessiva di 1.672.185 dollari a favore dell'Israel Institute for Biological Research.
   "Nel corso degli anni l'IIBR è stato impegnato nel campo delle scienze biologiche, chimiche e naturali in modo da offrire allo Stato d'Israele le necessarie risposte alle minacce chimiche e biologiche", si legge nella pagina web dell'Istituto di ricerca. "A partire del 1995, l'IIBR ha operato come unità affiliata al governo che effettua ricerche in tutte le aree della difesa contro le armi chimiche e biologiche, incluse le operazioni dei laboratori nazionali per il rilevamento e l'identificazione di queste minacce".
   Tra i programmi scientifici in ambito civile-militare vengono annoverati poi quelli finalizzati alla produzione di un vaccino anti-polio (1959); lo sviluppo di kit per il rilevamento di materiali esplosivi (1980); la sperimentazione di un farmaco contro la sindrome di Sjogren, malattia infiammatoria cronica autoimmune (1984); la produzione di un vaccino contro la sindrome respiratoria acuta (Sars) di origine virale che colpì la popolazione mondiale nel 2003.
   Il Centro di ricerca "James Martin" per la non proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche del Middlebury Institute of International Studies di Monterey (California) ha documentato gli studi dell'IIBR su diversi agenti e tossine, come ad esempio il batterio della peste (Yersinia pestis), del tifo, dell'enterotossina B da stafilococco (SEB), della rabbia, dell'antrace (Bacillus anthracis), del Clostridium botulinum, del virus dell'Ebola. Nel campo delle ricerche sugli agenti impiegati per la produzione di armi chimiche, l'Istituto israeliano annovera quelle sui gas nervini come il Sarin, il tabun, il VX, l'iprite (il cosiddetto gas mostarda) e altri composti organofosforici, ecc.. I laboratori hanno condotto analisi pure su un gel decontaminante da applicare sulla pelle per "neutralizzare gli agenti chimici e biologici".
   Le indagini delle autorità olandesi sulle cause dell'incidente avvenuto nel 1992 a un Boeing 747 della compagnia di bandiera israeliana El Al, precipitato in un villaggio poco distante da Amsterdam, hanno accertato che l'aereo trasportava un carico di 190 litri di dimetil metilfosfonato destinato all'Istituto di Ness Ziona. Il composto organofosforico viene normalmente utilizzato come ritardante di fiamma ma è indispensabile anche per la sintesi del gas nervino Sarin, arma bandita dalla Convenzione Internazionale sulle Armi Chimiche che Israele non ha mai inteso sottoscrivere. Le autorità di Tel Aviv dichiararono agli inquirenti olandesi che il materiale trasportato dal Boeing 747 non era tossico e che doveva essere utilizzato "per i filtri di prova contro le armi chimiche". Anche alcuni ricercatori indipendenti hanno ritenuto che la quantità di dimetil metilfosfonato a bordo del velivolo non fosse comunque sufficiente alla produzione di Sarin a fini militari.
   Nonostante l'inquietante profilo bellico del centro (in verità del tutto noto internazionalmente), il 10 luglio 2020 l'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze e la Fondazione Toscana Life Science hanno sottoscritto con l'Israel Institute for Biological Research un protocollo finalizzato alla ricerca di una cura contro il virus Covid-19. "Sulla base dell'intesa - riporta la nota dei partner italiani - l'AOU Careggi e la Fondazione TLS implementeranno insieme all'IIBR, uno dei centri di eccellenza mondiali nel campo della ricerca biologica e fautore di un rivoluzionario sviluppo scientifico per la cura al covid19, studi sierologici su campioni di plasma di persone colpite e guarite dal virus, al fine di mettere a punto una terapia efficace basata sulla individuazione e clonazione di anticorpi monoclonali".
   L'accordo, come sottolineato dall'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti, è "frutto di una collaborazione avviata durante un colloquio telefonico tra il Presidente del Consiglio Conte e il Primo Ministro Netanyahu".
   Ad perpetuam rei memoriam.
   
(Stampalibera.it, 5 novembre 2020)


L’autore dell’articolo parla di “famigerato Mossad” e sottolinea “il profilo bellico” dell’Istituto di Ness Ziona, ma per motivi di sopravvivenza Israele deve avere competenze su tutte le possibili armi di guerra, ivi comprese quelle chimiche e biologiche. Che gli studi fatti possano servire anche alle ricerche per la produzione di un vaccino anti-covid non può che rallegrare. M.C.
  Senza voler polemizzare con le questioni politiche ampiamente trattate in questo articolo che forse avrebbe dovuto essere piuttosto un articolo scientifico, credo che sia comunque necessaria una osservazione: dal giorno della sua nascita Israele ha dovuto sempre difendersi da ogni genere di attacchi, e, di conseguenza, ha sempre studiato i modi migliori per difendersi. Tra queste difese non si possono dimenticare quelle contro le armi chimiche e batteriologiche (usate da Saddam Hussein, per esempio), e, evidentemente, per trovare gli antidoti contro queste "armi", è necessario prima di tutto disporne. Come è ben noto, Israele non ha mai usato queste armi proibite in nessuna guerra. E.S.A.


L'Islanda pubblicherà un libro che nega la Shoah?

di Paolo Castellano

In Islanda, una casa editrice vuole pubblicare un libro che nega la Shoah nel periodo delle vendite natalizie. L'opinione pubblica islandese si è divisa sul tema, innescando un dibattito sulla libertà di espressione. Il volume in questione sarebbe una traduzione dall'inglese del libro - definito nazista dai media locali - intitolato L'inganno del ventesimo secolo: il caso contro il presunto sterminio degli ebrei europei dell'autore Arthur Butz.
   Come riporta un articolo del Jerusalem Post pubblicato il 4 novembre, il testo negazionista risale al 1976 e sostiene che la Shoah, le camere a gas e i sei milioni di vittime siano un'invenzione e una manovra propagandistica. Nonostante il contenuto falso e le deliranti posizioni dell'autore del saggio, in questi giorni il libro è stato pubblicizzato sul web con l'avviso della sua imminente distribuzione nelle librerie d'Islanda per il mercato natalizio.
   Nel frattempo, la città svedese di Malmö ha interrotto i legami con Arab Book Fair, un'associazione culturale che organizza eventi letterari in tutta Europa. I rappresentanti svedesi hanno accolto le segnalazioni di testi antisemiti presenti nelle fiere precedenti e nel sito dell'associazione. La denuncia dei libri antisemiti promossi dalla Arab Book Fair era arrivata anche dal Simon Wiesenthal Center.
   Tornando all'editoria islandese, nell'isola nordica non è vietato pubblicare testi negazionisti che disconoscono apertamente la Shoah. Seppur non ci sia una legge contro il negazionismo, l'associazione editori islandesi può interrompere la distribuzione e la vendita di volumi considerati altamente controversi.
   Potrebbe essere il caso della traduzione del libro di Butz, visto che il capo dell'associazione editori, Heiðar Ingi Svansson, ha rilasciato un'intervista al quotidiano online Vísir in cui paventa una possibile contromisura: «Se ci sarà una richiesta, verrà presa in considerazione a livello aziendale».
   Heiðar Ingi Svansson ha sottolineato che si tratti di una questione morale che si scontra con la mancanza di regolamenti che prima di oggi non sono mai stati adottati dall'Islanda.
   Fortemente contrario alla censura del libro nazista è Helgi Hrafn Gunnarsson, deputato islandese del Partito Pirata, che ne vuole la pubblicazione: «I fatti parlano da soli. Se questo genere di libri riescono davvero a convincere un numero significativo di persone, allora qualcosa è fondamentalmente sbagliato nella società, il che rende impossibile per le persone fare una distinzione tra vero e falso. Se questo tipo di sciocchezze riesce a convincere un gran numero di persone, significa che la democrazia stessa è a un punto morto».

(Bet Magazine Mosaico, 5 novembre 2020)


Bayern Hof, il primo club tedesco in Israele

di Roberto Brambilla

 
Nel 2020-2021, il SpVgg Bayern Hof, club dell'omonima città del nord della Baviera, sta disputando l'anomala doppia stagione della Bayernliga, la quinta serie del calcio tedesco. I gialloneri, che quando si chiamavano FC Bayern Hof militavano regolarmente nella Oberliga Süd, il massimo campionato regionale prima della Bundesliga, nel 1969 hanno scritto una piccola pagine di storia tedesca, fuori e dentro il campo.

 Una proposta inaspettata
Nell'autunno 1968, un ex giocatore del Bayern Hof diventato imprenditore Oskar Weissmann, propone al presidente dei gialloneri Franz Anders, di andare a giocare in Israele. Il massimo dirigente del Bayern Hof, nipote di Paula Jacoby, sopravvissuta all'Olocausto e nel 1941 l'unica ebrea di Hof, accetta.

 Lettere e supporto
Dopo aver detto sì a Weissmann Anders scrive due lettere: una è rivolta alla Federcalcio israeliana, in cui si spiega (mentendo) come l'iniziativa sia supportata dalla DFB, un'altra è indirizzata al Ministero degli Interni, in cui assicura che c'è un invito (a quel momento inesistente) dallo Stato d'Israele. In più c'è un problema: bisogna trovare qualcuno che paghi il viaggio, che è fissato nell'estate del 1969, immediatamente dopo la fine della stagione, che ha visto partecipare il Bayern Hof anche alla Coppa delle Alpi, competizione che coinvolgeva quell'anno club tedeschi, italiani, belgi, svizzeri. I soldi si trovano e pure l'invito. Il 5 giugno 1969 un aereo della El-Al, la compagnia di bandiera israeliana, parte da Monaco alla volta di Tel Aviv. Paga il Ministero degli Interni tedesco. Con loro viaggia anche Sammy Drechsel, giornalista sportivo e autore satirico, nonché ex attaccante nel Berliner SV 92

 Una (quasi) prima volta
L'atterraggio in Israele è un momento storico. La Germania Ovest nel 1952 ha siglato un accordo con il Paese mediorientale per il pagamento di risarcimenti per l'Olocausto e nel 1965 le due nazioni hanno ufficiali relazioni diplomatiche. Il calcio però è già avanti. Tra il 1957 e il 1965 la Federcalcio israeliana ha mandato nella Repubblica Federale una decina di allenatori per formarsi alla Deutsche Sporthochschule, tra cui Emmanuel Scheffer, che guiderà Israele al primo (e unico) Mondiale della sua storia. Docente: Hennes Weisweiler, il creatore del mito del Borussia Mönchengladbach. Qualche mese prima dell'arrivo del Bayern Hof, a cavallo tra il 1968 e il 1969, una nazionale giovane tedesca ha fatto un ritiro in Israele, giocando anche due partite, svoltisi a porte chiuse per ragioni di sicurezza. In campo tra gli altri Paul Breitner e Uli Hoeneß.

 Un'atmosfera particolare
Per il Bayern Hof in Israele ci sono in programma due partite: una a Nahariya contro una selezione del Nord d'Israele il 12 giugno, un'altra contro l'Hapoel Petah Tikva. Se per i tedeschi è poco più che un viaggio premio, per i locali, il doppio match ha una sapore particolare. In tanti, tra cui Mordechai Spiegler, autore nel 1970 dell'unico gol di Israele ai Mondiali, che è stato "prestato" per l'occasione al Hapoel Petah Tikva, non sanno come affrontare emotivamente i tedeschi. Emozionato è anche l'arbitro del primo incontro, che il Bayern Hof vince 2-0. Si chiama Abraham Klein, ha 36 anni ed è uno dei migliori fischietti al mondo. Prima di emigrare in Israele dalla Romania, è sopravvissuto all'Olocausto perdendo buona parte della sua famiglia ad Auschwitz. Nonostante le tensioni e i timori le due partite si giocano senza tensione. I calciatori del Bayern Hof sono accolti benissimo, tanto da allenarsi insieme agli avversari ed essere presi in simpatia del pubblico. Che durante un match chiede l'allontanamento di un difensore israeliano per un fallo eccessivamente duro su un calciatore ospite.

 La prima di tante
Quei 14 giorni lasciano il segno. L'anno seguente una squadra israeliana visita Hof e nel 1970 in Israele arriva il Borussia Mönchengladbach di Weisweiler. Il viaggio è rimasto nei cuori di calciatori e dirigenti di entrambi i Paesi, tanto che quarant'anni dopo il presidente Anders, insieme a uno dei giocatori Walter "Waldi" Greim è tornato sui luoghi di quella tournée, che è stata raccontata da un documentario "08397B". Nella pellicola c'è anche Abraham Klein, che tra il 1970 e il 1982 ha arbitrato in tre Mondiali. Tra le partite dirette, oltre a Italia-Brasile del 1982, il fischietto di origine romena è stato il guardalinee della finale del Mondiale spagnolo tra Italia e Germania Ovest e soprattutto l'uomo che ha diretto nel '78 in Argentina, Austria-Germania Ovest, in quella che per i tedeschi è "la vergogna di Cordóba", forse una delle sconfitte più cocenti della loro storia iridata.

(BundesItalia.com, 5 novembre 2020)


"La scrittura come salvezza, sotto il cielo di Israele". Parla Eshkol Nevo

Usare la realtà per immaginare

di Chiara Clausi

Il romanzo di Eshkol Nevo "L'ultima intervista", uscito in Italia per Neri Pozza e ora finalista al Premio Lattes Grinzane 2020, ci chiede di credere a ogni parola, e il risultato è che noi davvero crediamo a ogni parola. L'autore mischia realtà e finzione, nella forma di un'intervista a un sito internet di uno scrittore che scrive in ebraico e si chiama Eshkol Nevo, mettendo a nudo l'esistenza in un modo profondo. Anche e soprattutto nei sentimenti più contraddittori e ambigui e nel tracollo della felicità. Un esercizio che lui sembra voler continuare anche nella presentazione in Italia del suo romanzo, in una relazione intensa e continua fra Israele e il nostro paese. II luogo ideale di Eshkol Nevo è l'Italia di Calvino fatta di vita reale e letteratura.

- Quando parla di un mondo immaginario parla anche di sé, qual è il segreto?
"Di solito quello che faccio è prendere qualcosa che è successo nella vita reale in taglia molto piccola, diciamo 10 (un vicino ha bussato alla mia porta mentre mi sentivo solo, chiedendo una cipolla, e siamo entrati in una conversazione sorprendentemente intima che mi ha rallegrato), poi lo ingrandisco alla taglia 48 (un fuggitivo bussa alla porta di una donna sposata e sola, chiedendo rifugio. Incanta lei e i suoi figli e scuote il suo mondo — la seconda trama di "Tre Piani"). Dalla taglia 10 alla taglia 48: è così che uso la realtà per immaginare".

- Ma in Israele anche la violenza e la velocità con cui accadono le cose influenzano la scrittura.
"Israele è un paradiso per i narratori. La quantità di conflitti che abbiamo qui! Devi solo alzare la testa o aprire un giornale e hai abbastanza materiale per una trilogia. Oltretutto tengo al mio paese e uno dei motivi per cui scrivo è protestare contro il modo in cui sta cambiando in peggio. E naturalmente c'è l'ebraico. Cosa può esserci di meglio che scrivere in questa antica lingua a più livelli e in continua evoluzione? Detto questo, non mi dispiacerebbe passare un anno vicino al lago di Como, scrivendo, facendo escursioni e migliorando il mio italiano".

- Non è mai solo Israele la materia dei libri di Nevo.

"Molti italiani hanno visitato Israele prima della pandemia. Altri sono collegati alla vita reale qui attraverso i social media. D'altronde credo che i miei lettori in tutto il mondo trovino se stessi, il loro dolore, la loro gioia, i loro ricordi, nelle mie storie, e Israele è solo uno sfondo". Ma la storia del suo paese fa parte della sua memoria più intima: suo nonno Levi Eshkol è stato uno dei fondatori dello stato di Israele e il terzo capo del governo. "Levi Eshkol, mio nonno, è morto prima che io nascessi. Quindi la maggior parte dell'effetto che ha avuto su di me è stato attraverso sua figlia, mia madre. Immagino che il fatto che io dimostri ormai da 10 settimane, ogni sabato sera, contro il nostro primo ministro corrotto, sia collegato al fatto che sono cresciuto in una famiglia altamente politica. Sto parlando alle mie figlie di queste dimostrazioni, quindi spero che un giorno possano fare la stessa cosa".

- Il successo che hanno i suoi romanzi che cosa significa per lei?
"Per me il successo è una donna che dice di avere appena finito di leggere `Tre Piani' e che vuole ringraziarmi, perché `il libro l'ha aiutata a perdonarsi'. Non dimenticherò mai questo momento: quando la tua verità più profonda e oscura incontra la verità più profonda e oscura di un lettore, è un miracolo e la sua salvezza".

- Lei ha un lato oscuro?
"Quando ho fatto il servizio militare ed ero un soldato ero molto nostalgico, infelice. Quella tristezza mi faceva solidificare nel passato. Ho riversato i miei desideri inespressi mai realizzati nei miei personaggi, i dolori della vita, le scelte intraprese e le strade diverse che avrei potuto percorrere. Scrivere per me è stata una liberazione".

- Nel suo ultimo libro "Vocabolario dei desideri" un racconto è dedicato a Italo Calvino.
"Quando viaggiavo zaino in spalla si usava scambiarsi i libri tra compagni di avventura. In America latina quando mi trovavo all'Isola del Sol mi è capitato tra le mani `Le città invisibili'. La città dei miei sogni nel `Vocabolario dei desideri' è Rondovia, progettata perché nessuno dei suoi abitanti si trovi a incontrare per strada un amore del passato". La grandezza di Calvino? "Ama giocare. E quando si leggono i suoi libri si gioca con lui".

- Lei invece ama la solitudine?
"Non ho nessun amore per la solitudine. Io amo le persone, viaggiare, incontrare i miei amici e i miei genitori. In questo periodo di lockdown ho scritto molto, ero molto concentrato. Ma mi sentivo come un fiore a cui manca l'acqua".

- Uscirà anche, appena sarà possibile, il film molto atteso di Nanni Moretti tratto dal suo libro "Tre piani". Che cosa si aspetta?
"Sarà interessante sapere cosa non sapevo di aver messo nel mio libro. Io ho soltanto scritto la storia, quando lo facevo ero coinvolto, ma non conoscevo lo scopo dell'opera. Due mesi dopo un titolo di una recensione me lo ha chiarito: è un racconto sull'aspetto oscuro dell'essere genitori. Se avessi saputo il significato prima di scriverlo non l'avrei mai fatto". Lei ha fede nell'umanità? "Ovviamente. Altrimenti, perché scrivere?"

(Il Foglio, 5 novembre 2020)


Solomon Bibo. La storia di un capo indiano ebreo

di Ariel Arbib

Tutti ricorderanno di certo il famoso film "Scusi dov'è il West?" interpreto dallo spassosissimo Gene Wilder nei panni di un Rabbino e da un giovanissimo Harrison Ford, nel ruolo del pistolero buono. Una sceneggiatura esilarante che narra le avventure paradossali e a tratti eroiche di un Rabbino sbarcato a New York, arrivato fresco fresco dalla Polonia e diretto in California, con la sacra missione di sostituire un suo collega Rabbino nella Comunità ebraica di San Francisco rimastane appunto priva. Una storia banale direte, che ha di strano? Niente, certo! Se non fosse per il fatto che il tutto si svolge nel 1850 ed il nostro Rabbino, durante tutto il suo viaggio "coast to coast" e poi in pieno Far West, dovrà vedersela con sbandati tagliagole, pronti ad assalire e derubare malcapitati viaggiatori e poi ancora, l'incontro con una feroce banda di Indiani sul piede di guerra, con le facce dipinte e i variopinti diademi di piume sulla testa, ai quali, solo il suo coraggio e la sua testardaggine sapranno tener testa, permettendogli di mettere in salvo il rotolo della Torà che aveva portato con se. Le gags, si susseguono una dopo l'altra durante tutto il film, strappando risate a non finire e, come non può non essere in un film di Gene Wilder, la storia termina ovviamente con un lieto fine.
   Quella che sto per raccontare, è verosimilmente una storia simile, se non altro perché si svolge più o meno negli stessi anni e nei medesimi luoghi, precisamente nel New Mexico; a differenza della prima però, questa è una storia vera.
   Il prologo è simile a migliaia di altre storie come questa, fatta di milioni profughi, di carovane, di Ebrei erranti, di famiglie smembrate che lasciano l'Europa dell'Est con le loro misere masserizie, con l'unico scopo di inseguire il sogno di una nuova vita migliore, ma soprattutto di metterla in salvo. Sfuggono infatti a quei sanguinosi Pogrom che proprio in quegli anni e poi in quelli a venire, causarono disastri agli Ebrei in quelle terre del Nordest europeo, tra i primi dell'800 e l'inizio del '900.
   Con viaggi difficili ed estenuanti, molto spesso pericolosi e pieni di insidie, queste moltitudini di persone partite da ogni parte d'Europa, solcano l'Oceano Atlantico, per arrivare a quella che all'epoca veniva ritenuta la Terra Promessa, la Terra delle opportunità: l'America!
   L' interprete principale della nostra storia si chiama Salomon Bibo. Nato in Prussia nel 1853, con i milioni di europei prima di lui , approdò in America all'età di sedici anni, assieme ai suoi due fratelli. Lavorano assieme a New York, prima per un Ebreo anch'esso prussiano di nome Spielberg, (parente ? Chi sa!) dopo qualche anno però, si trasferiscono tutti e tre nel Nuovo Messico in cerca di fortuna e di maggiori opportunità. Avviano infatti, poco dopo il loro arrivo, una proficua attività di compravendita e scambio di merci varie, con gli indiani Navajos. Acquistano da loro prodotti della terra e del loro artigianato, che poi rivendono nei Forti dell'Esercito degli Stati Uniti, presenti in quel territorio.
   Stabiliscono subito con gli Indiani ottimi rapporti, imparano la loro lingua, divenendo presto, i loro intermediari col Governo americano. In seguito nel 1882, all'età di ventinove anni, Salomon, come si suol dire, apre bottega!! Stabilisce cioè un punto di commercio tra gli Indiani Acoma, la più antica (XIII Secolo) e prestigiosa tribù del Nuovo Messico. Sembra di vederlo, dietro al suo bancone di legno, tra lumi a petrolio, cordami, chiodi, padelle e utensili di ogni genere, assecondare i clienti esattamente come, la cinematografia classica dei film western, ci ha abituati. In poco tempo Salomon, diventa un esperto della situazione indiana di quei luoghi e dei problemi legali legati a quella tribù, guadagnandosi la piena fiducia dei Capi anziani, che oramai lo chiamano con riverenza "Don Solomono".
   Passando definitivamente dalla loro parte, negozia per loro conto, tutte le varie situazioni territoriali e amministrative col Governo di Washington, in quanto gli Indiani intuiscono, che per arginare le bramosie territoriali dei Coloni, in continua espansione, un rappresentante bianco è quel che ci vuole. Per tanto, con un contratto di affitto, stipulato con loro, i novantamila acri di terra di proprietà degli Acoma, passano direttamente sotto la sua giurisdizione, assieme al sottosuolo ricchissimo di carbone, prezioso per l'epoca come per noi oggi lo è il petrolio.
   Negoziare gli piace e gli riesce facile, come facile riuscì anche ad Henry Kissinger in altre situazioni, una ottantina di anni dopo. Si vede che i Geni della negoziazione, non per favorire se stessi, ma per mettere d'accordo gli altri, hanno probabilmente trovato uno spazio considerevole nel DNA degli Ebrei…
   E così infatti gli Indiani, per non avere sorprese, ne subire soprusi dal Governo, su consiglio di Bibo, decidono di affittargli l'intero loro territorio, per dodicimila dollari l'anno, valutando in dieci dollari la tonnellata il prezzo del carbone estratto, oltre al diritto di pascolo su quell'immenso appezzamento di terra.
   Divenuto di fatto il Capo indiano degli Acona, questo non gli impedì di continuare a professare la propria religione avita, ma anzi la "hutzpa"(tenacia e faccia tosta) da ebreo ashkenazita, uscì prepotentemente fuori, quando l'agente per gli Affari Indiani, tale Pedro Sanchez, provò a far invalidare, per ovvi motivi, il contratto di affitto stipulato precedentemente col "rico israelito".
   Bibo, con mossa astuta e repentina, arrivò invece a farsi riconoscere dal Governo degli Stati Uniti, il titolo di governatore del popolo Acoma, riuscendo in questo modo a mandare all'aria il piano di Sanchez e mantenere valido il contratto di affitto.
   Oramai ricco e potente, Solomon sposa all'età di quarantasei anni, la bella nipote di un dignitario indiano, la Principessa Juana Valle, convertitasi nel frattempo all'Ebraismo, divenendo così di fatto il primo e (unico??) Capo indiano ebreo della Storia.
   Dieci anni più tardi, lascia per sempre la sua concessione e la riserva indiana, trasferendosi a San Francisco, con la moglie e i figli, permettendo così a questi ultimi di ricevere una adeguata educazione ebraica.
   Visse là ancora a lungo e, nel 1934, all'età di ottantuno anni, rese l'anima a Dio. Venne sepolto nel Cimitero ebraico di Colma in California dove, sette anni più tardi, lo raggiunse la sua bella Principessa indiana.
   Due storie a lieto fine, quella del film citato sopra e questa, nelle quali risaltano la tenacia, l'intelligenza e la determinazione e perché no, anche quel pizzico di scaltrezza tutta ebraica dei due protagonisti, qualità tipiche che emergono negli uomini, soprattutto quando sono vittime di ingiustizie, soprusi e umiliazioni, motivi questi che, non solo non costringono ad abbandonare i propri ideali e le proprie radici, ma anzi ne rafforzano i legami marcandone spesso i contorni.

(Shalom, 5 novembre 2020)


Essere ebrei a Vienna oggi: una testimonianza all'indomani dell'attentato

di Ilaria Myr

 
La sinagoga di Vienna
All'indomani dell'attentato nel centro di Vienna, in cui sono morte 4 persone, lo sbigottimento in Europa e in particolare nella società austriaca per quello che è successo è ancora molto forte. Le informazioni su ciò che effettivamente è accaduto la sera di lunedì 2 novembre sono arrivate lentamente, mentre era ancora in corso una caccia all'uomo, rendendo ancora più incerto un quadro drammatico. "L'Austria è un Paese tranquillo, piccolo, con solo 9 milioni di abitanti. Perché colpire proprio l'Austria?" si chiede Jasmin Freyer, ebrea di Vienna, membro del consiglio di amministrazione della comunità ebraica e presidente di Esra, associazione di aiuto sociale e psichiatrico della comunità ebraica. Mosaico l'ha contattata la mattina successiva all'attentato, che, come è noto, è iniziato proprio di fronte alla sinagoga centrale di Vienna, l'ottocentesca Stadttempel, situata nella via centrale di Seitenstettengasse, senza però causare danni all'edificio né a persone della comunità ebraica.
  Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz non ha escluso del tutto il movente antisemita. Dal canto suo, la comunità ebraica locale ha subito chiuso tutte le istituzioni e esercizi in via precauzionale e ha invitato i propri membri a non uscire di casa. Le stesse indicazioni sono state date dalle istituzioni austriache chiudendo le scuole che avrebbero invece dovuto riaprire dopo una settimana di vacanza.

 Perché colpire la sinagoga Stadttempel?
"A quell'ora la sinagoga è chiusa, la preghiera è finita e gli uffici sono chiusi dalle 16.30: tutti lo sanno, e comunque sono informazioni facili da reperire - ci spiega al telefono -. Non si sa quali fossero le intenzioni dei terroristi, tutti gli austriaci sono stati invitati a non fare speculazioni finché i fatti non saranno accertati. Posso però dire che se volevano colpire la comunità ebraica, allora si sono organizzati male … Se invece era seminare il terrore nel centro, come è avvenuto subito dopo, il fatto di iniziare dalla sinagoga è sicuramente un simbolo, perché sarebbero potuti entrare nella zona dalla parte dell'Opera".
  La sinagoga in questione si trova in centro, in una zona piena di bar e ristoranti, anche kasher, dove di solito la gente esce la sera. "Questa fu l'unica sinagoga a rimanere in piedi dopo le distruzioni da parte dei nazisti dal 1938 e, poi, con la seconda Guerra Mondiale - spiega -. Questo perché è parte di un insieme di palazzi molto compatto, incastonato in stradine strette: nel caso di un incendio o distruzione si creerebbe l'effetto 'domino', danneggiando tutti gli altri edifici circostanti. Tutto intorno ci sono tanti locali e negozi e tutta la zona è molto facilmente accessibile con i mezzi pubblici. Ma la sera prima del lockdown c'erano molte meno persone del solito in giro. Un po' a causa del Covid, e un po' perché in questo periodo dell'anno gli austriaci alle 20 sono a casa, alle 16.30 è buio pesto", spiega Jasmine.
  L'attentato del 2 novembre ha riportato alla memoria un altro attacco terroristico avvenuto il 29 agosto del 1981, quando un commando palestinese lanciò 4 bombe a mano contro la stessa sinagoga Stadttempel mentre si stava svolgendo la cerimonia di un Bar Mitzvah alla quale avevano partecipato 200 persone. I terroristi uccisero due persone e ferirono 16 persone. Nel 1979, era avvenuto un altro attacco, ma fortunatamente non ci furono vittime.

 Essere ebrei a Vienna
Nata e cresciuta a Vienna da una famiglia austriaca da sempre, Jasmin è sposata con Ouriel, un ebreo francese, che si è trasferito a Vienna dopo averla conosciuta grazie al movimento giovanile Hashomer Hatzair, e hanno due figli, di 13 e 10 anni.
  "Essere ebrei a Vienna è bello, si vive bene qui - spiega Jasmin -. La comunità ebraica, che conta circa 8mila membri iscritti, è molto eterogenea, ed è perfettamente organizzata, forse la migliore d'Europa da questo punto di vista. I rapporti con il governo austriaco sono ottimi, abbiamo delle organizzazioni culturali, festival yiddish, klezmer, di cinema ebraico, e così via. Addirittura nel più grande ospedale di Vienna c'è anche un Sefer Torà, pagato dal Comune, e intorno alle zone ebraiche c'è un iruv. La vita ebraica qui è imbattibile. Certo, in quanto ebrei siamo sempre in all'erta, siamo coscienti che possiamo essere attaccati da diversi fronti: islamico, di sinistra, di destra. È sempre stato così, ma come ebrea mi sono sempre sentita bene in Austria.
  I nostri figli frequentano i movimenti ebraici e vanno alla scuola francese dove ci sono molti studenti ebrei che possono seguire anche dei corsi di ebraismo. I loro migliori amici sono musulmani, e mio figlio studia anche l'arabo a scuola. Il mondo deve essere così, così noi combattiamo l'antisemitismo: insegnando ai nostri figli che siamo tutti esseri umani, tutti creati per ultimi dopo gli insetti, come si dice in Berehsit….".
  Gli ebrei di Vienna avranno più paura dopo questo attentato?
  "No, non penso. Vivremo però ancora più consapevoli del pericolo".

(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2020)


Verso il processo a quattro antagonisti

Insulti alla Brigata ebraica, contestato l'odio razziale

Si scagliarono con insulti e minacce, ma anche con lanci di bottiglie e oggetti contro il corteo antifascista che sfilava per l'anniversario della Liberazione, il 25 aprile del 2018. I quattro indagati, tutti appartenenti alla galassia antagonista, rischiano ora il processo, Identificati come gli autori delle aggressioni, dovranno presentarsi mercoledì prossimo in udienza preliminare davanti al giudice Carlo Ottone De Marchi, che dovrà decidere se disporre il processo.Al gruppo, il capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e il pm Leonardo Lesti contestano l'odio razziale, aggravante che invece non è stata contestata a un quinto imputato.
   I cinque presero di mira, come accaduto in altre manifestazioni del 25 aprile, i rappresentanti della Brigata ebraica. Per la procura, quelle contestazioni violente in occasione dell'anniversario della Liberazione dal nazifascismo non sono semplici minacce, ma vere e proprie manifestazioni di "odio razziale".
   Tra gli indagati che rischiano il processo c'è anche Claudio Latino, già condannato anni fa in seguito all'operazione antiterrorismo del 2007 "Tramonto" sulle cosiddette "nuove br" del Partito comunista politico-militare.
   Latino, ritenuto dagli inquirenti il capo del gruppo milanese, fu condannato a undici anni e mezzo, ma la Cassazione stabilì per lui ed altri condannati che non si trattava di un'organizzazione terroristica. Ora è accusato di minacce aggravate verso la Brigata Ebraica in corteo, «simulando la sventagliata di una mitragliatrice», con un altro indagato che avrebbe rappresentato «il gesto dello sgozzamento».
   Gli altri due indagati avrebbero scagliato «in direzione dei suoi componenti della Brigata ebraica, una bottiglietta d'acqua ciascuno». Un quinto indagato, invece, è accusato di resistenza a pubblico ufficiale perché, partecipando al presidio "Fronte Palestina" all'interno dello stesso corteo, avrebbe colpito un agente con una canna da pesca che era usata come portabandiera.

(la Repubblica, 4 novembre 2020)


Il "Morbo di K"

Quando nel 1943 all'ospedale Fatebenefratelli di Roma fu inventata un'epidemia per salvare vite umane.

di Giorgia Calò

In un momento storico in cui le parole "morbo" ed "epidemia" sono all'ordine del giorno, la mente ritorna a quel tragico anno del 1943, quando, e sembra quasi ironico, un'epidemia salvò decine di ebrei italiani dalla deportazione.
   Parliamo del "Morbo di K" una malattia inventata durante la Seconda Guerra Mondiale dal Medico Adriano Ossicini e dal Dott. Giovanni Borromeo, per salvare gli ebrei dalle persecuzioni e impedire che fossero deportati nei campi di concentramento.
   Ossicini, che lavorava all'Ospedale Fatebenefratelli di Roma, a pochi passi dal Ghetto, iniziò a compilare le cartelle cliniche dei suoi pazienti ebrei, facendo riferimento a questa malattia contagiosissima, il "Morbo di K" (dove la K indicava l'iniziale degli ufficiali nazisti Kesselring e Kappler), così da dissuadere i nazisti dal controllare i nomi dei pazienti.
   La nuova malattia divenne così "pericolosa" che fu allestito un reparto isolato, in cui vennero ricoverati ebrei e polacchi sotto falso nome, in attesa di ricevere documenti falsi per poter fuggire, dopo esser stati dichiarati morti con i loro veri nomi, in modo che nazisti e fascisti non potessero più cercarli.
   Durante il rastrellamento del Ghetto di Roma il 16 Ottobre 1943, quando migliaia di ebrei furono arrestati e mandati nei campi di concentramento, alcuni di questi trovarono rifugio all'Ospedale Fatebenefratelli, dove i medici Borromeo, Ossicini e Vittorio Emanuele Sacerdoti, li dichiararono affetti da Morbo K, impedendo così ai tedeschi di avvicinarli.
   Dalla firma dell'Armistizio dell'8 settembre 1943, il Fatebenefratelli faceva parte del territorio vaticano: nonostante ciò nessuno si oppose all'operato dei tre medici, bensì l'Ospedale divenne un luogo di rifugio per i fuggitivi partigiani ed ebrei.
   Persino i frati non si opposero, bensì aprirono l'ospedale ai perseguitati: in particolare uno di loro, fra Maurizio Bialek rimane impresso nella mente di Gabriele Sonnino, che all'età di 4 anni si nascose con la sua famiglia al Fatebenefratelli: «Vivevamo come fossimo in una bolla: ci sentivamo al sicuro ma al contempo prigionieri, anche nel modo di essere salvati», racconta Gabriele in un'intervista, ma i giorni di quel bambino nell'Ospedale all'Isola Tiberina rimangono sempre «custoditi nel cuore e sono pieni di gratitudine, soprattutto per la figura di fra Maurizio Bialek».
   Nel 2004 il Museo Yad Vashem ha riconosciuto Giovanni Borromeo come Giusto fra le Nazioni, per aver salvato cinque membri della famiglia Almajà-Ajò-Tedesco.
   Nel 2016 all'Ospedale Fatebenefratelli è stato conferito da parte della Fondazione Raoul Wallenberg il titolo di "Casa di vita", per ricordare il contributo dell'Ospedale ad aver salvato decine di ebrei dalla deportazione.

(Shalom, 4 novembre 2020)


Ebrei a Roma, gli anni dall'Unità al '38 visti attraverso l'esperienza degli asili

di Rav Riccardo Di Segni*

In libreria da domani con Fefè Editore, "Ebrei a Roma. Asili infantili dall'Unità alle Leggi Razziali" propone un originale e stimolante punto di vista sul periodo storico che va dalla fine del Ghetto alla stretta antisemita del fascismo. Anni segnati da libertà e diritti sconosciuti, ma anche da una necessaria riorganizzazione di modelli, spazi e strutture. A firmare questo interessante contributo è Giovanna Alatri, laureata in pedagogia, già docente montessoriana e da anni collaboratrice del museo Storico della didattica Mauro Laeng di Roma e dell'Opera Nazionale Montessori.
Si tratta di un libro che, sottolinea nella prefazione che qui vi anticipiamo il rabbino capo rav Riccardo Di Segni, "apre un'ulteriore finestra su un periodo storico che malgrado contributi di studi importanti lascia ancora molto da scoprire".
L'arrivo del regio esercito sabaudo a Roma, nel settembre del 1870, segnò, per gli ebrei di Roma, ultimi tra gli ebrei viventi in Italia, l'emancipazione da tempo desiderata. Per i circa quattromila ebrei che vivevano nel ghetto iniziò una nuova era che comportò cambi di ogni tipo, nella vita privata e in quella pubblica. Le forme organizzative comunitarie vennero ristrutturate mentre lo stesso storico quartiere dove erano stati rinchiusi per secoli venne demolito. Un problema fondamentale da gestire era, come sempre, quello assistenziale; la struttura sociale della comunità era di tipo piramidale con una larga base di indigenti e strati sempre più sottili di benestanti che dovevano sopperire alle loro necessità. In questa situazione il supporto all'infanzia rappresentava una componente essenziale.
Durante il periodo del ghetto funzionavano due asili distinti, uno per i maschi e l'altro per le femmine. Dopo il 1870 fu avvertita la necessità di riordinare questo servizio, accorpando i due asili, dargli una organizzazione funzionante, una sede dignitosa e un indirizzo pedagogico efficiente. Fu un lavoro lento che durò decenni; la sede inizialmente si spostò da un locale all'altro nel vecchio e malsano ghetto in attesa di demolizione e solo nel 1913 fu possibile avere sul Lungotevere Sanzio una palazzina dedicata a questo scopo. I programmi furono sistematizzati e particolare attenzione fu dedicata ai metodi educativi, introducendo i concetti pedagogici froebeliani che per l'epoca erano una novità.
Di tutta questa vicenda, ancora poco nota e esplorata, parla questo lavoro di Giovanna Alatri che ne mette in evidenza alcuni aspetti significativi. L'autrice di questa ricerca ha sposato un Alatri, pronipote di Samuele Alatri che fu presidente della comunità ebraica per decenni, a cavallo della liberazione dal ghetto, e che ebbe importanti incarichi economici e politici nel Comune di Roma e nel Parlamento. Il figlio Giacomo ne continuò l'impegno comunitario e fu lui il protagonista, dopo Tranquillo Ascarelli, del primo e principale riassesto degli Asili dopo il 1870. Altri Alatri, in seguito, si occuparono a vario titolo degli Asili. In qualche modo questa ricerca racconta una storia di famiglia, ma è una storia che si intreccia con la storia della comunità di Roma e della Roma diventata capitale d'Italia.
La storia degli Asili è esemplare come modello dei processi di integrazione e riorganizzazione degli ebrei romani dopo il passaggio al Regno d'Italia. Particolarmente interessanti sono i documenti portati alla luce, tra i quali i discorsi tenuti in varie occasioni celebrative o di commemorazione, che, per il loro tono enfatico e retorico, danno un'immagine eloquente dello spirito dell'epoca.
Gli amministratori e i sostenitori degli Asili si impegnavano a fornire un'adeguata risposta a un problema sociale molto sentito, certamente educativo, ma con una primaria attenzione alle necessità assistenziali di un pubblico in grosse difficoltà economiche. La preoccupazione di fornire un pasto quotidiano (e non solo in alcuni giorni della settimana) ne è sufficiente dimostrazione. C'era anche la necessità di fornire una formazione religiosa e questo sembra un dato scontato visto il contesto.
Ma questo dato va messo a confronto con un altro: l'assenza di una scuola elementare ebraica. In pratica i bambini ebrei del dopo 1870, finita la frequentazione degli Asili si iscrivevano alle scuole pubbliche, mentre la comunità, dal punto di vista religioso forniva loro in orario extrascolastico un Talmùd Torà che non si sa quanto fosse frequentato e quali servizi offrisse. Bisognerà aspettare il 1924 per vedere nascere una scuola elementare (che sarebbe stata frequentata nei primi tempi solo dalle classi più povere), e questo solo in seguito all'approvazione parlamentare della riforma Gentile che introduceva l'insegnamento religioso cattolico nelle scuole. Fu solo l'atavica opposizione al cristianesimo, rinforzata dalla memoria delle vessazioni dei tempi del ghetto, a riportare la comunità alla coscienza di una necessità di educazione ebraica. Nel frattempo quasi tutto sembrava ridursi alla formazione degli Asili. A proposito del metodo froebeliano è interessante rilevare che uno dei maggiori sostenitori dell'introduzione di questo metodo in Italia fu il triestino Vittorio Castiglioni, che prima di essere rabbino era docente e pedagogo, e che dal 1904 al 1911 fu capo rabbino a Roma; non è escluso, alla luce di quanto emerge in questa ricerca, che questo suo impegno pedagogico sia stato uno dei motivi della sua scelta alla carica.
Questo lavoro apre un'ulteriore finestra su un periodo storico che malgrado contributi di studi importanti lascia ancora molto da scoprire, e ci si augura che sia uno stimolo a ulteriori ricerche.

* Rabbino Capo di Roma

(moked, 4 novembre 2020)


Film israeliani d'autore online

Per festeggia il 30° anniversario, la Sam Spiegel Film School di Gerusalemme, la prima scuola nazionale di cinema in Israele, fondata nel 1989, fa un regalo agli appassionati dello schermo. Fino al 30 novembre, sul sito , il pubblico può scoprire - o riscoprire - gratuitamente i 30 migliori film diretti dagli studenti della scuola. A stilare la classifica è stata una giuria internazionale di cento personaggi del cinema in quarantacinque paesi diversi.
   Tra le pellicole in visione ci sono opere prime e capolavori di registi puri primati come Nir Bergman (Selezione ufficiale di Cannes 2020), Dani Rosenberg (Selezione ufficiale di Cannes 2020), Nadav Lapid (vincitore della Berlinale 2019), David Ofek ("Born in Jerusalem" e "Still Alive", 2019), Yehonatan Indursky (la serie "Shtishel"), Mihal Brezis e Oded Binun ("The Etruscan Smile"), Talya Lavie ("Zero Motivation"), Tom Shoval ("Youth") e molti altri. "Anthem", di Elad Keidan, è stato votato al primo posto della classifica. Keidan (nato nel 1979) è stato il primo studente della Sam Spiegel Film School a vincere un premio importante al Festival di Cannes, il primo premio Cinefondation 2008, proprio con "Anthem". La pellicola, un medio metraggio di 40', è un poetico racconto di come anche la più modesta vigilia di un tranquillo Shabbat in un quartiere di periferia a Gerusalemme possa prendere una svolta curiosa per uno scapolo di mezza età uscito a comprare il latte. Successivamente, il suo primo lungometraggio, "After Thought", è stato presentato in anteprima mondiale alla selezione ufficiale del Festival di Cannes nel 2015, ha vinto il primo premio all'Haifa International Film Festival e tre Israeli Academy Awards. Oggi Keidan insegna alla scuola di Gerusalemme, sotto la direzione di Dana Blankstein Cohen.
   Il nuovo sito VOD consente agli spettatori di rivedere e rivivere i momenti della storia della Scuola. I materiali extra documentano la fondazione della Sam Spiegel, le storiche visite di David Lynch, del presidente Reuven Rivlin e dell'attrice scomparsa Ronit Elkabetz. Ma ci sono anche contributi e commenti di critici ed esperti ci cinema.
   A partire dal 1° dicembre 2020, per accedere ai contenuti del sito si pagherà una piccola quota, che servirà per finanziare le borse di studio per gli studenti.
   Per il curatore e promotore del progetto, il fondatore della scuola Renen Schorr, "è un'occasione unica - per gli studenti e gli insegnanti ma anche per tutta l'industria cinematografica, in Israele e all'estero - per verificare la coerenza dello spirito della Scuola negli anni. Spero che questo portale stimoli una conversazione sul genere del cortometraggio, sui film della Sam Spiegel nel loro insieme, sui nostri alunni, sulla loro scrittura personale e sul loro spirito collettivo".

(Shalom, 4 novembre 2020)


Gli ebrei nella Catania del '400

di Giuseppe Matarazzo

Il 21 novembre del 1900 lo studente Carmine Fontana consegui la laurea in lettere e filosofia nell'Università degli studi di Catania con il massimo dei voti, la lode e la dignità di stampa discutendo una tesi che si intitolava "Gli ebrei in Catania (sec. XV) ". Per realizzare il suo lavoro Fontana trascrisse 607 documenti risalenti al periodo 1413-1495 tra quelli allora conservati nelle circa ventimila pagine raccolte in quaranta volumi custoditi nell'archivio storico del Comune etneo. «Nessuno di quei documenti è sopravvissuto all'incendio che distrusse l'archivio e parte dell'edificio che lo ospitava, appiccato al palazzo comunale di piazza Duomo, il 14 dicembre del 1944, dagli appartenenti alla leva degli anni 1922-1924 che protestavano contro la temuta chiamata alle armi. Pochissimi documenti studiati e trascritti nella tesi furono inseriti nel breve saggio che Fontana stesso pubblicò l'anno dopo la laurea», scrive Giuseppe Speciale, professore di Storia del diritto medievale e moderno dell'Università di Catania, nell'introduzione al volume Gli ebrei a Catania nel XV secolo. Tra istituzioni e società di Andrea Giuseppe Cerra (Bonanno editore, pagine 248, euro 20,00). Il giovane studioso di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche riprende il manoscritto e rivisita i documenti del "collega" Fontana, indagando con perizia su quel periodo storico, sulla presenza degli ebrei in Sicilia e le consuetudini commerciali, sull'assetto urbano della giudecca etnea e i luoghi vissuti dalla comunità ebraica sino alla cacciata del 18 giugno 1492. «La comunità ebraica di Catania all'indomani dell'Editto di Granada, a differenza di quanto accadde in Castiglia e Aragona, ne vide l'applicazione in Sicilia ben tre mesi dopo. Non a caso, il ceppo giudaico originario definisce la Sicilia "Achèr Israel", ovvero "Altro Israele". Ciò ci permette di ipotizzare un particolare ruolo della comunità ebraica relativamente al tessuto economico e sociale siciliano e, specificatamente, catanese», evidenzia Cerra. Un contributo storico - sul filone della cosiddetta public history che ha lo scopo di elaborare nuove ipotesi interpretative che diano ragione della sopravvivenza di modelli culturali e comunitari ebraici nell'area etnea E un invito a guardare sempre con occhi diversi - illuminati dalla storia - la città di oggi.

(Avvenire, 4 novembre 2020)


«Si sfruttano le nostre paure mentre ci sentiamo vulnerabili»

Intervista a Noemi Di Segni

di Giuseppe Crimaldi

«Strategia della paura? No, io direi piuttosto sfruttamento della paura. Perché chi compie questo genere di attentati lo fa attaccando i sentimenti feriti e i timori della gente, mai come oggi tanto comprensibili ai tempi della pandemia». A parlare è Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei - l'Unione delle comunità ebraiche italiane - che per tutta la notte ha seguito le notizie che rimbalzavano dal centro di Vienna, ultimo teatro di un sanguinoso attentato terroristico.

 - Presidente, l'Europa è sotto attacco. E torna l'incubo del terrorismo islamico e dell'antisemitismo.
«Sul raid di Vienna non mi pronuncio: almeno fino a questo momento, mentre parliamo, non abbiamo ancora elementi che possano con assoluta certezza richiamare ad una matrice dichiaratamente antiebraica. Tuttavia l'assoluta gravità del fatto è fuor di dubbio. Ma cedere alla paura è sempre funzionale al terrorismo».

 - Prima la decapitazione di un professore che aveva mostrato ai suoi alunni le vignette su Maometto, poi il sangue all'interno della cattedrale di Nizza. Adesso un attacco nella zona della capitale austriaca in cui ci sono una sinagoga e gli uffici della locale comunità ebraica. Che cosa sta succedendo?
«Come dicevo, l'antisemitismo riesce sempre a trovare una paura da cavalcare. Stiamo vivendo momenti delicati e difficili, basterebbe guardare alle forme di protesta violenta nelle piazze italiane. Anche su questo versante non posso che essere preoccupata».

 - Perché?
«Oggi lo sforzo più importante deve essere finalizzato a tenere nervi saldi e lucidità. Cominciamo allora a mettere bene a fuoco i valori costituzionali: protestare è legittimo, ma nelle forme e nei modi che rientrino nella legalità e della ragione. Cedere invece alla paura significa offrire una sponda al terrorismo. L'agitazione è tanta e le persone hanno più che mai bisogno di sicurezza. In Italia, in Europa e nel resto del mondo. Assistere anche in Italia a scene in cui estrema destra e sinistra vanno ben oltre il solco della legalità dimostra che siamo di fronte a una situazione incendiaria».

(Il Mattino, 3 novembre 2020)


«Su Israele prevarrà lo status quo, chiunque sarà il vincitore»

Il ricercatore Noah Slepkov: con il Covid il Medio Oriente non sarà la priorità. E se vengono smentiti i sondaggi sul presidente perdente, Netanyahu rimonterà.

di Fiammetta Martegani

 
Noah Slepkov
«Chiunque dovesse vincere queste elezioni americane, per Israele il più grande riflesso non sarebbe tanto sul piano dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e i vicini mediorientali, quanto su quello della politica interna». Così commenta Noah Slepkov, ricercatore per il Jppi (Jewish People Policy Institute), consulente strategico della Knesset per i rapporti internazionali, e nota firma del quotidiano Haaretz.
   Secondo l'analista canadese, se il 3 novembre dovesse farcela Donald Trump, a discapito di tutti i pronostici che da settimane lo danno perdente, «la conseguenza diretta sull'opinione pubblica israeliana (e soprattutto sull'attuale primo ministro in carica) sarebbe quella di vedere smentita l'efficacia dei sondaggi. Sondaggi che danno anche l'attuale premier israeliano in discesa. A quel punto, Benjamin Netanyahu potrebbe ribaltare il discorso dominante e (oltre a vedere rinnovata la consolidata amicizia con Trump) ritroverebbe la sicurezza che è stata messa severamente in discussione in questo periodo pandemico. Potrebbe insomma giocarsi la carta del parallelismo con il grande alleato d'Oltreoceano e cominciare la rimonta nei consensi». Dovesse vincere Joe Biden, invece, inevitabilmente diventerà prioritaria, nel rapporto tra Israele e il nuovo inquilino della Casa Bianca, la questione Covid. «Perché il presidente neoeletto si troverà a dover gestire prima di tutto le drammatiche conseguenze della pandemia sul fronte interno, sia a livello sanitario che economico - spiega Slepkov - lasciando in secondo piano la politica internazionale, e di conseguenza anche quella in Medio Oriente. Di fatto, l'eventuale (e più probabile) vittoria di Joe Biden, per quanto non gradita all'elettorato della destra israeliana, finirà per non compromettere i risultati ottenuti dal suo predecessore con gli Accordi di Abramo, garantendo, anzi, lo status quo della regione».
   Il discorso è diverso per il nodo Iran. «La vittoria di Biden potrebbe riaprire quel dialogo introdotto da Obama e poi blindato da Trump. E Teheran, trovandosi ormai isolata proprio in conseguenza del nuovo assetto regionale consolidato, potrebbe vedere nel leader dei democratici un partner privilegiato con cui provare a ricucire i rapporti».
   Quanto alla questione palestinese, infine, forse è possibile attendersi qualche mutamento sensibile: «Dalle parti di Ramallah, un candidato democratico verrebbe accolto con molta più benevolenza rispetto al rivale repubblicano: proprio a causa dell'approccio sfacciatamente filo-israeliano dell'attuale presidente americano, in questi ultimi anni i palestinesi si erano ostinatamente ritirati sulle loro posizioni. Biden potrebbe avere l'opportunità di riaprire il dialogo». Il che potrebbe non piacere a buona parte dell'opinione pubblica israeliana. Specialmente a quanti si aspettavano, e ancora aspettano, l'annessione di parte dei Territori promessa da Trump. «Verrebbe sicuramente congelata - sottolinea Slepkov - in nome dello stretto legame tra il partito democratico e quella larga fetta di elettorato americano di origine ebraica che guarda al processo di pace e chiede una soluzione di due Stati. Il che esclude fermamente ogni tipo di annessione».
   In sostanza, conclude Slepkov, «a prescindere dal vincitore, per Israele si tratta di una win-win situation. Mentre, per Bibi, per lui sì, le cose potrebbero cambiare. E in modo decisivo».
   
(Avvenire, 3 novembre 2020)


A Wtm Virtual il primo summit sul turismo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain

Wtm Virtual, la piattaforma online che dal 9 all'11 novembre sostituirà la versione "live" di Wtm London, ospiterà la prima riunione dei ministri del turismo di Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain dalla firma degli storici accordi di Abraham.
   Gli accordi di Abraham, firmati il 15 settembre, hanno messo in moto una serie di opportunità commerciali e accordi intergovernativi tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, oltre a creare per la prima volta una serie di prospettive turistiche nella regione. Da quando sono stati firmati gli accordi, il primo volo commerciale israeliano - che trasportava una delegazione proveniente da Israele e dagli Stati Uniti - è atterrato negli Emirati Arabi Uniti, mentre il primo volo passeggeri commerciale per Israele operato da un vettore degli Emirati Arabi Uniti è atterrato all'aeroporto Ben-Gurion lo scorso ottobre.
   Come risultato degli accordi di Abraham, inoltre, il ministero dei Trasporti israeliano ha annunciato che ci saranno 28 voli settimanali diretti che collegheranno Tel Aviv con Abu Dhabi e Dubai.
   Al dibattito, intitolato The Path to Peace in the Middle East che si svolgerà lunedì 9 novembre, alle 15.00 - 16.00 (GMT), parteciperanno Orit Farkash-Hacohen, ministro del turismo per Israele; Ahmad bin Abdullah Belhoul Al Falasi, Ministro di Stato per l'imprenditorialità e le piccole e medie imprese per gli Emirati Arabi Uniti e Zayed R. Alzayani, Ministro dell'Industria, Commercio e Turismo del Regno del Bahrein e Presidente dell'Autorità per il Turismo e le Esposizioni del Bahrain.

(L’Agenzia di Viaggi, 3 novembre 2020)


Adler produrrà tessuti antibatterici e antivirali per le auto

Accordo italo-israeliano sull'utilizzo esclusivo della tecnologia antibatterica su tappetti e tessuti per interni sulle auto.

Il Gruppo Adler - , con un fatturato di 1.5 miliardi di euro e sede in Campania - e l'israeliana Sonovia - specializzata nella produzione di tessuti antibatterici e antivirali high tech - hanno siglato un accordo sull'utilizzo esclusivo della tecnologia antibatterica su tappetti e tessuti per interni per il settore della mobilità, dall'automotive, all'aerspazio, treni, pullman, autobus.
La firma è avvenuta a Tel Aviv, in occasione della visita ufficiale del Ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, del Ministro israeliano degli Affari Esteri, Gabi Ashkenazi, e degli ambasciatori Gianluigi Benedetti e Dror Eydar.
Paolo Scudieri, Presidente del Gruppo Adler, grazie all'Osservatorio Tecnologico AdlerInlight di Tel Aviv (fondato assieme a Roberta Anati, Ceo e fondatrice di Inlight) ha individuato in Sonovia il partner industriale per sviluppare tessuti e materiali per interni di auto e mezzi di trasporto con proprietà antibatteriche e antivirali.
Tale tecnologia è in fase di test sui tappetti e tessuti di produzione Adler per il settore mobilità e ha già ottenuto i primi ottimi risultati da laboratori certificati.
Paolo Scudieri e Roberta Anati di AdlerInlight sono, per questo, lieti di aver raggiunto questo importante risultato durante la visita del Ministro di Maio in Israele.

(QN Motori, 3 novembre 2020)


La Dichiarazione Balfour e la ridicola querela dei palestinesi

Una mossa disperata che nasconde motivazioni e interessi personali dei regimi di Ramallah e Gaza.

di Ugo Volli

La notizia può sembrare semplicemente comica: tre gruppi palestinisti piuttosto improbabili (il "Raggruppamento nazionale degli indipendenti", la "Fondazione internazionale per la prosecuzione dei diritti del popolo palestinese" e il "Sindacato dei Giornalisti Palestinesi") hanno depositato una querela contro il governo di Sua Maestà Britannica per la Dichiarazione Balfour. E naturalmente l'hanno fatto in un tribunale di Nablus, non in Inghilterra. La notizia è ridicola per almeno due ragioni: perché la Dichiarazione è stata emessa il 2 novembre del 1917 e dunque cento e tre anni fa, ben al di là di qualunque giurisdizione. Pensate a qualcuno che volesse sporgere querela per annullare il trattato di Westfalia (1648) o anche solo quello di Versailles (1918) o magari eccepisse all'incoronazione imperiale di Carlo Magno (800): insensato. L'altra ragione è che gli stati sono sovrani e le loro scelte politiche non hanno lo stesso statuto giuridico delle responsabilità personali. La Dichiarazione Balfour non è un atto legislativo, è esplicitamente un gesto politico (inizia così: "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo") La Gran Bretagna non può essere processata, tanto meno per una dichiarazione di intenti di cent'anni fa.
Le corti dell'Autorità Palestinese, la cui credibilità è comunque molto scarsa perché tollerano torture nelle carceri, corruzione del governo, assenza di elezioni, possono sentenziare quel che vogliono, è difficile che Boris Johnson si turbi. E allora, perché l'hanno fatto? E' chiaro che in una dittatura come quella dell'Autorità Palestinese queste iniziative non sono "indipendenti" o "spontanee", ma rispondono alla linea politica del partito dominante (Fatah), riguardano la politica e non la giustizia. Le cause che hanno portato a questa iniziativa a me sembrano tre. Una è una certa abitudine allo sfregio e all'insulto come strumento di lotta politica: tirare scarpe, bruciare bandiere e ritratti, pubblicare immagini insultanti e video minacciosi sono attività diffusissime nel mondo islamico degli ultimi decenni, violenze simboliche che fungono da premessa della violenza vera del terrorismo, o la sostituiscono quando quest'ultima "purtroppo" non è praticamente realizzabile. E' un modo di far politica perdente e sciocco, che nel pubblico non produce consenso ma disprezzo e negli avversari non paura ma allarme e misure di contenimento. Ma essa disgraziatamente si è diffusa anche in Occidente: si pensi alla "cancel culture" e all'abbattimento delle statue.
La seconda ragione è l'abuso che la giustizia ha fatto di se stessa in buona parte del mondo, disprezzando le regole e politicizzandosi. Si pensi a quel che non ha combinato la magistratura italiana per danneggiare gli avversari politici della sinistra, o agli interventi di quella americana contro Trump. Soprattutto si pensi al tentativo, ancora in corso, del Procuratore della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda di applicare la giurisdizione della Corte contro il suo stesso statuto, a stati che non hanno aderito al suo trattato istitutivo, per esempio Israele e Stati Uniti, allo scopo tutto politico di condannare le loro politiche. Che c'è di male in un processo farsa in più dopo questi esempi? Insomma la giustizia si è largamente politicizzata dappertutto, perdendo molta autorità. E in effetti l'esempio del processo propagandistico contro l'Occidente è stato prontamente seguito dal più rumoroso dittatore islamico del momento, Erdogan, che ha fatto querelare i suoi critici europei come il politico olandese Wilders e il giornale satirico francese bersagliato dai terroristi "Charlie Hebdo".
Ma c'è un terzo aspetto, che è il più specifico. Grazie al rifiuto di Trump di adeguarsi al vecchio luogo comune che non vi può essere pace in Medio Oriente senza il consenso dei "palestinesi" da qualche mese in qua il panorama politico della regione è completamente cambiato. E' accaduto qualcosa di molto più profondo dei trattati "freddi" firmati a suo tempo da Israele con Egitto e Giordania. Sono partire iniziative comuni in campi diversi come l'economia, la scienza, la medicina e perfino la religione. C'è stato un effetto contagioso che non è ancora finito e potrebbe coinvolgere anche vecchi nemici come Libano e Qatar. In sostanza gli arabi, tutto d'un colpo, hanno potuto prendere atto che gli ebrei fanno da sempre parte del panorama mediorientale, che sono un soggetto legittimo della regione e non un "colonialista" e che la collaborazione con loro può essere utile a tutti.
Chi è rimasto tragicamente fuori da questo benefico bagno di realtà sono proprio i palestinisti, quelli che potrebbero trarre maggiore beneficio da una analoga presa di coscienza e integrazione. O meglio, ne sono rimasti certamente fuori i loro dirigenti. E' difficile dire che cosa si muova nella testa della gente comune. Ma è chiaro che a molti fra Ramallah e Gaza sarà venuto in mente che forse cambiare gioco, accettare l'impossibilità del progetto genocida su cui si è fondata finora la loro identità "nazionale", tentare davvero la strada della convivenza e della collaborazione potrebbe essere una buona idea, una ricetta per incominciare finalmente a vivere meglio. E' chiaro che questi pensieri, la tentazione della "normalizzazione", sono una minaccia mortale per un vertice burocratizzato che ha fondato il proprio potere sul terrorismo e sulla rapina degli aiuti internazionali. E' urgente per loro trovare delle ragioni propagandistiche per tenere in vita il vecchio gioco mortifero, magari in attesa che i vecchi luoghi comuni antisraeliani tornino di moda a Washington, grazie a una vittoria di Biden in cui sperano molto. A questo può servire anche una propaganda grossolana come il processo alla Dichiarazione Balfour.

(Progetto Dreyfus, 2 novembre 2020)


Israele: riapertura graduale iniziando da Mar Morto e Eilat

L'ingresso nelle zone di turismo green sarà subordinato alla presentazione di un test aggiornato negativo al coronavirus
  La positività al COVID 19 è risultata negli ultimi giorni la più bassa degli ultimi 4 mesi: questi i dati diffusi in data 28 ottobre dal Ministero della Salute di Israele.
  Il Ministero della Salute ha quindi dichiarato che la percentuale attuale dei positivi corrisponde a quella dello scorso 21 giugno.
  Questi sviluppi arrivano una settimana dopo che è iniziato a sbloccarsi il secondo periodo di lockdown. Sono state riaperte le scuole per l'infanzia ed è stata approvata la riapertura di parte delle classi della scuola primaria.
  Si procede poi all'allentamento di alcune restrizioni su attività come parrucchieri e saloni di bellezza nell'ambito di un piano di riapertura multifase. E' anche in discussione la conferma definitiva per la riapertura di zimmerim (bed and breakfast).
  Si comincia anche a regolamentare le procedure di controllo in ingresso e in uscita dal Paese per i cittadini israeliani.
  Le stazioni di test COVID-19 per i passeggeri in arrivo e in partenza presso l'aeroporto Ben Gurion sono ora completate e in attesa dell'approvazione finale del Ministero della Salute. Ci saranno due stazioni di prova, una funzionante come struttura drive-in e la seconda situata all'interno dell'edificio del terminal.
  Due livelli di test saranno messi a disposizione dei cittadini israeliani
  • Test NIS 45 - l'opzione più economica disponibile in Israele - con risultati entro 12-48 ore.
  • Test NIS 145: opzione in grado di fornire risultati entro 4 ore

 Mar Morto e Eilat
L'iniziativa del Ministero del turismo israeliano di definire la città turistica di Eilat e l'area alberghiera di Ein Bokek-Hamei Zohar sul Mar Morto come "isole di turismo verde", che è stata approvata il 25 ottobre dal governo, ha superato la sua prima lettura Plenum della Knesset.
  Sarà così consentito dichiarare la città di Eilat e il complesso alberghiero del Mar Morto come "area turistica speciale". L'ingresso nelle aree di turismo verde sarà subordinato alla presentazione di un test COVID-19 negativo aggiornato o di una prova di guarigione dal virus.
  Lo schema consentirà l'apertura di alberghi in queste zone, nel rispetto delle linee guida del Ministero della Salute e nell'ipotesi che vi sia un persistente basso livello di morbilità nelle aree. In una fase successiva anche le attività commerciali di queste aree potranno riaprire a servizio degli ospiti degli hotel. Eilat e Mar Morto offrono un clima caldo e temperato tutto l'anno e, dal benessere al turismo attivo, sono perfette per offerte turistiche in linea con i principi del distanziamento.
  Le discussioni sull'iniziativa, inclusa la logistica della presentazione dei test COVID negativi, saranno approfondite ulteriormente nel comitato legislativo della Knesset che si riunirà successivamente. Una volta raggiunto l'accordo, il disegno di legge deve passare una seconda e una terza lettura nel Plenum della Knesset che potrebbe essere già questa settimana.
  Se non ci sono condizioni aggiuntive e i tassi di morbilità rimangono bassi in queste aree, gli hotel dovrebbero riaprire a Eilat e nel Mar Morto immediatamente dopo l'approvazione del disegno di legge.

(Pianeta Salute, 2 novembre 2020)


A 25 anni dall'assassinio di Rabin, Netanyahu dice di essere minacciato di morte

Rivlin: "L'odio divide ancora il Paese"

di Roberto Zadik

 
In Israele sono giorni molto intensi e il 4 novembre saranno passati 25 anni da quando il premier Itzhak Rabin fu ucciso da Yigal Amir che gli sparò mentre a Tel Aviv, durante una manifestazione, cantava Shir ha Shalom (Canto per la pace). A questo proposito il Times of Israel ha sottolineato la preoccupazione dell'attuale premier Netanyahu, 71 anni lo scorso 21 ottobre, che durante le proteste popolari di questi mesi, scatenate dalle accuse per corruzione a suo carico, avrebbe ricevuto diverse "minacce contro di lui e la sua famiglia". Giovedì 29 ottobre, data ebraica dell'anniversario di Rabin, il premier, commemorando l'assassinio, durante una speciale seduta parlamentare indetta alla Knesset, ha affermato che "è in corso una campagna di incitamento all'uccisione del primo ministro e dei suoi famigliari e nessuno dice nulla".
  Nel suo intervento Netanyahu non ha però specificato quali fossero queste minacce. Secondo l'articolo, la polizia avrebbe analizzato sui social network una serie di attacchi, anche se la loro attendibilità resta dubbia. "Non dobbiamo accettare nessuna forma di incitamento all'odio riguardo a chiunque, che siano ebrei, arabi o personalità politiche. Se non lo faremo ci troveremo ancora sull'orlo dell'abisso" ha proseguito durante la seduta parlamentare. Ha poi espresso la necessità di una condanna globale di qualsiasi discorso violento sottolineando l'importanza della democrazia e dei social network "anche se nemmeno lì devono esservi messaggi che inneggino all'omicidio e alla violenza verso nessuno".
  L'assassinio di Rabin avvenne in un clima politicamente a dir poco esplosivo, come ha rievocato il Times of Israel e, come ben si vede nel documentario di Amos Gitai Rabin-The Last Day, un misto di cronaca politica e fiction, in seguito agli accordi di Oslo la società israeliana era in subbuglio e durante le proteste di quei tormentati mesi Rabin era stato accusato dalla folla di essere "un traditore".

 Le reazioni al discorso di Netanyahu, la commemorazione del presidente Rivlin
In seguito al discorso di Netanyahu, subito sono arrivate le reazioni di alcuni esponenti della sinistra israeliana. La deputata del Meretz, Tamar Zandberg ha infatti espresso la propria indignazione su Twitter: "E' davvero doloroso nel pieno delle commemorazioni su Rabin, sentire che adesso la vittima è Netanyahu". Successivamente Yair Lapid leader del partito di centro Yesh Atid (C'è un futuro) ha detto "l'eredità di Rabin non è collegata né alla pace né alla guerra ma alla fiducia. La gente che credeva in lui, gli crede ancora oggi". Soffermandosi sul momento attuale Lapid, attualmente in coalizione con Netanyahu ha ricordato la difficoltà dell'attuale momento politico israeliano "uno dei più difficili nella nostra storia non solo per la pandemia del Covid ma per il ritorno dell'incitamento all'odio e della legittimazione della violenza". Questo però secondo lui deve far riflettere perché "l'odio rappresenta uno strumento politico e un fallimento della leadership".
  A conferma di questa situazione il portavoce della Knesset Yariv Levin ha sottolineato il vistoso peggioramento di questo clima così avvelenato in questi anni, proprio dopo l'assassinio di Rabin. Egli ha ricordato come si siano rafforzati "l'odio fratricida, la polarizzazione e un'atmosfera inaccettabile anche quando vi è netto dissenso fra le parti".
  In tema di interventi istituzionali, il presidente israeliano Reuven Rivlin durante la cerimonia di commemorazione di Rabin tenutasi a Gerusalemme giovedì 29 ottobre (nella foto durante la cerimonia del 2019) ha acceso una candela in sua memoria nella sua residenza esprimendo profonda amarezza per le divisioni che ora più che mai lacerano la società israeliana. "Mi interrogo sull'anima del Paese che Yitzhak amava così tanto e venticinque anni dopo la sua morte il Paese è diviso come il Mar Rosso e l'odio ribolle sotto i nostri piedi. E' incredibile che ci siano delle minacce contro giornalisti e cittadini, che la polizia venga offesa, che qualcuno consideri l'omicidio di un premier". L'articolo ha ricordato il contributo militare di Rabin, comandante delle forze dell'esercito a capo della squadra che vinse la Guerra dei Sei Giorni e successivamente impegnato nella ricerca della pace, vincendo il Premio Nobel nel 1994, un anno prima della sua morte, in quel 4 novembre 1995.

 Yigal Amir, per i servizi segreti "è ancora oggi una minaccia per la sicurezza nazionale"
Secondo un articolo apparso sull'edizione francese del Times of Israel, Yigal Amir, l'uomo che sparò a Rabin, stando a quanto affermano i membri dei servizi segreti dello Shin Beth rappresenterebbe ancora oggi un pericolo. Nonostante Amir, 50 anni compiuti lo scorso 23 maggio, nato a Herzlya da famiglia yemenita, sia stato condannato all'ergastolo, i servizi segreti affermano che ancora oggi abbia dei sostenitori fuori dalla prigione che potrebbero rivelarsi minacciosi. A conferma di questo, il sito, sempre riportando le informazioni fornite dall'indagine dei servizi segreti, ha rivelato che recentemente dei giovani, identificati come attivisti di destra, hanno formato un gruppo di supporto ad Amir e che, stando agli inquirenti, sarebbero disposti a commettere i suoi stessi crimini.
  Durante l'inchiesta sono emersi diversi particolari decisamente sconvolgenti. A quanto pare Amir non si sarebbe mai pentito del suo gesto e probabilmente per questo motivo potrebbe tentare di dirigere questa organizzazione avendo cercato ripetutamente di farsi scagionare dall'ergastolo attraverso alleanze politiche. Infatti la moglie, Larissa Trembovler, ebrea russa sposata in circostanze controverse nel 2005, avrebbe creato il partito (Mishpat Tzedek-Giusto processo) invitando la giustizia israeliana a rivedere la condanna del marito assieme a quella "di tutti gli innocenti finiti in galera". L'interessante articolo ha raccontato anche che in questi anni, Amir vivrebbe in condizione di totale isolamento nella sua cella. Le restrizioni a suo danno sarebbero state inasprite dopo una sua presunta telefonata al rapper Yoav Eliasi, soprannominato "L'Ombra", attivista di estrema destra, implorandolo di battersi per la sua scarcerazione, ma egli avrebbe rifiutato.
  Sempre giovedì 29 ottobre si è tenuta una commemorazione a Tel Aviv, nel luogo dell'omicidio di Rabin, diventata poi Kikar Rabin (Piazza Rabin); sono state accese 25.000 candele proprio come nel novembre del 1995 poco dopo il suo assassinio.

(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2020)


Fermare Erdogan, una minaccia

E' un pericoloso leader islamo-nazionalista

Scrive il Jerusalem Post (28/10)

Gli Stati Uniti devono contrastare il crescente estremismo della Turchia sotto il regime di Recep Tayyip Erdogan. All'avvicinarsi delle elezioni americane, è essenziale che chiunque vinca la Casa Bianca non adotti una politica di appeasement verso le continue minacce di Ankara e condanni, invece, l'ospitalità che essa offre ai terroristi di Hamas, il suo continuo tentativo di destabilizzare il medio oriente e le sue ripetute minacce contro gli alleati europei. [L'altra] domenica il regime turco si è lanciato in un'altra sfuriata contro l'Europa, sostenendo che i musulmani in Europa vengono trattati come gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale. Il presidente della Turchia non ha usato il termine "Olocausto" perché Ankara usa la sofferenza ebraica nel corso della storia per calunniare Israele come un paese "nazista" descrivendo i musulmani come le sue vittime. Questa ideologia ha le sue radici nell'antisemitismo dei Fratelli Musulmani così come lo si ritrova nella Carta fondativa di Hamas, che fonde teorie complottiste anti-ebraiche con il moderno terrorismo. Evocare la Shoah per condannare Israele e l'Europa, e non per commemorarne le vittime, è tipico della propaganda alimentata da Ankara per fomentare tensioni. Negli ultimi mesi la Turchia è diventata sempre più ostile a Israele, con Erdogan che promette di "liberare al-Aqsa" e rilascia dichiarazioni in cui si afferma che "Gerusalemme è nostra". Questo fa parte dell'ideologia del partito al governo in Turchia, che cerca di fomentare il conflitto tra Israele e palestinesi e si serve della religione per alimentare l'odio verso Israele. Il tentativo di Ankara di promuovere questo programma è simile ai proclami del regime iraniano, quando anch'esso giura che "libererà" la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme. [...]
   Israele e Turchia hanno molto in comune in quanto moderne economie ed erano due paesi che condividevano un'analoga visione laica che fonde la tradizione con la guida di leader moderni e lungimiranti. Ma negli ultimi anni Ankara si è trasformata in un luogo oscurantista che cerca sempre più di creare conflitti in tutto il medio oriente, compreso il sostegno a estremisti siriani che poi usa come mercenari all'estero. Ed ha prontamente intensificato la sua retorica anti-israeliana, ospitando già due volte quest'anno capi di Hamas ed esortando i paesi a opporsi a Israele. Questo tipo di retorica ha conseguenze ed è concepita per avvelenare le menti dei giovani della regione in un momento in cui Israele e stati arabi stanno muovendo verso la pace. Oggi Ankara appare come il paese al mondo più ostile a Israele, dopo l'Iran.
   Ma le politiche di Ankara non sono ostili solo a Israele: prendono di mira anche altri alleati degli Stati Uniti, dalla Grecia all'Egitto al Golfo. [...] Gli Stati Uniti devono affrontare questa politica e devono chiarire che non ci sarà alcun appeasement a fronte alle minacce della Turchia. Devono sostenere Grecia, Israele, Francia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Cipro, Iraq e gli altri paesi minacciati da Ankara. Erdogan deve essere fermato.
   
(Il Foglio, 2 novembre 2020)


Covid, un italiano fra le cavie del vaccino israeliano: al via la sperimentazione

Primo giorno di somministrazione del Brilife. Sono due i volontari a cui è stata fatta l'iniezione (una di vaccino e l'altra di placebo). Uno di loro è Aner Ottolenghi, doppia cittadinanza: "Israele e Italia sapranno uscirne".

 
GERUSALEMME - È iniziata oggi la fase di sperimentazione umana del vaccino made in Israel per il Covid-19. Si chiama Brilife (che sta per "Bri", la prima sillaba della parola in ebraico briut, "salute", il, la sigla di Israele e life, "vita") e le star indiscusse di oggi su tutti i media israeliani sono i primi due volontari a ricevere l'iniezione (uno del vaccino e uno del placebo). Uno dei due è Aner Ottolenghi, 34 anni, dottorando di immunologia all'Università Ben Gurion, ed è di origini italiane.
   "Mio nonno Aldo, di Torino, si trasferì in Israele poco dopo l'emanazione delle leggi razziali, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Noi siamo la terza generazione in Israele, ma abbiamo la cittadinanza italiana e un grande legame con le nostre origini" racconta in una conversazione con Repubblica Ottolenghi, che stamattina ha ricevuto l'iniezione (se del vaccino o del placebo, lo saprà solo a sperimentazione conclusa). Ora trascorrerà 24 ore sotto osservazione all'ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme. "Quando sono arrivate le prime notizie su come l'Italia fosse stata colpita duramente dalla pandemia, mi si è spezzato il cuore. Ma è un Paese forte e sono sicuro che saprà uscirne, come tutti noi".
   Due eccellenze nel settore medico riconosciute a livello internazionale, l'Ospedale Hadassah insieme all'Ospedale Sheba di Tel Hashomer nei pressi di Tel Aviv, conducono la prima fase di sperimentazione del vaccino creato dall'Istituto Biologico di Nes Ziona (IIBR). IIBR è il centro di ricerca che in genere conduce esperimenti top secret, affiliato all'Ufficio del primo ministro e al ministero della Difesa. Già a fine gennaio Netanyahu aveva incaricato l'Istituto di dedicarsi alla ricerca di un vaccino e di una cura per il nuovo virus che allora doveva ancora diventare così predominante nelle vite di ognuno di noi.
   Il vaccino israeliano si basa su un modello di ricerca simile a quello di Oxford, ovvero l'utilizzo di vettori virali derivati da un virus già esistente. "Nel nostro caso, ci siamo basati sul virus della stomatite vescicolare (VSV), geneticamente ingegnerizzato con una proteina di Sars-CoV-2", ci spiega il prof. Yossef Karako, capo dell'unità per le sperimentazioni cliniche dell'ospedale Hadassah. È lo stesso procedimento utilizzato per creare il vaccino contro l'Ebola, dimostratosi altamente efficace. "Tra le varie tipologie di vaccino, quelli basati sui vettori virali si sono dimostrati in passato tra i più sicuri ed efficaci" dice Karako. L'ospedale Hadassah, nella sua sede di Mosca, è coinvolto anche nella ricerca del vaccino russo.
   Aner Ottolenghi, tra i fondatori della ong "Midaat", che si occupa di contrastare la diffusione di fake news sulla ricerca scientifica e in particolare sull'uso dei vaccini, dice di non aver esitato a partecipare perché conosce i risultati del vaccino contro l'Ebola e la mancanza di effetti collaterali significativi sugli esseri umani. "È un grande onore per me fare parte della sperimentazione. Invito il pubblico a prendere parte all'esperimento e aiutare così tutti noi".
   "Penso a tutte quelle persone che hanno perso il lavoro di una vita. Questa è la mia piccola occasione di aiutare" ha detto il secondo volontario, Segev Harel, 27 anni, personal trainer e bagnino rimasto senza lavoro a causa della pandemia.
   Durante un raro intervento pubblico, alla conferenza stampa all'ospedale Tel Hashomer, il prof. Shimon Shapira, il direttore dell'IIBR, ha parlato di "momento storico. Crediamo in questo vaccino. Sono dieci mesi che ci lavoriamo e per i parametri che abbiamo potuto verificare per ora è sicuro ed efficace. Non abbiamo preso nessuna scorciatoia, abbiamo avuto l'approvazione degli enti regolatori tedeschi e della Fda americana. Brilife è un vaccino eccellente, sicuro e a portata di mano che servirà la popolazione israeliana".
   La sperimentazione umana durerà fino a giugno. La prima fase, iniziata oggi, durerà un mese, con 80 volontari sani tra i 18 e i 55 anni che inizieranno la somministrazione al termine delle 24 ore di osservazione sui due volontari iniziali. Nella seconda fase, la cerchia dei volontari verrà estesa a mille partecipanti fino agli 85 anni e con malattie pregresse. Da gennaio è prevista la fase di sperimentazione di massa, con migliaia di partecipanti. "A seconda del livello di morbosità che avremo allora in Israele, dovremo considerare se effettuare parte dei test anche in Paesi con un maggiore tasso di contagio. L'obiettivo stabilito dalla Fda è verificare che il contagio tra i soggetti a cui è stato somministrato il vaccino vero sia del 50% inferiore rispetto ai soggetti cui è stato somministrato il placebo", ci dice Karako.
   "Mentre continuiamo con la nostra ricerca, sono in contatto con Stati Uniti, Germania, India, Russia e Italia per garantire alla popolazione israeliana dosi dei vaccini in lavorazione" ha detto Netanyahu, spiegando di aver anche dato il via all'istituzione del primo centro di produzione di massa per vaccini, che probabilmente vedrà luce nella cittadina di Yeruham, nel deserto del Negev.
   In parallelo, l'IIBR conduce da quest'estate insieme all'ospedale Carreggi di Firenze e all'Ente Toscana Life Science, una ricerca congiunta per lo sviluppo e la clonazione di anticorpi che potrebbero fornire una cura al Coronavirus, basata sull'isolamento di otto anticorpi monoclonali individuati a giugno dall'istituto israeliano.

(la Repubblica, 2 novembre 2020)


Vignette su Maometto: gli Emirati Arabi Uniti si schierano con Emmanuel Macron

Mentre la Francia sta affrontando il boicottaggio dei suoi prodotti da molti paesi musulmani, Emmanuel Macron ha recentemente ricevuto un chiaro sostegno dagli Emirati Arabi Uniti. Il Paese, per mezzo della voce del suo ministro degli Esteri Anwar Gargash, ha difeso il presidente francese nella disputa sulle vignette del profeta Maometto.
  In un'intervista con il quotidiano tedesco Die Welt lunedì, Anwar Gargash ha respinto l'idea che Emmanuel Macron avesse espresso l'idea di escludere i musulmani. "Bisogna ascoltare ciò che Macron ha veramente detto nel proprio discorso, non vuole la ghettizzazione dei musulmani in Occidente, e ha assolutamente ragione", ha detto. Secondo il ministro, i musulmani devono integrarsi meglio e lo Stato francese ha il diritto di trovare il modo per raggiungere questo obiettivo, combattendo nel contempo il radicalismo e l'isolamento sociale.
  Per il ministro degli Esteri degli Emirati, le controversie sono principalmente dovute alla ripresa politica del capo di stato turco, Recep Tayyip Erdogan. "Quando Erdogan vede una lacuna o una debolezza, la usa per aumentare la sua influenza. Solo quando gli viene mostrata la linea rossa è pronto per i negoziati", ha aggiunto Anvar Gargash.

 Gli attentati in Francia
A Nizza il 29 ottobre un uomo ha ucciso tre persone in un attacco all'arma bianca avvenuto all'interno della Basilica di Notre Dame di Nizza, mentre qualche ora dopo un'altra persona si è lanciata al grido di Allah Akbar contro le forze di polizia ad Avignone, venendo abbattuto dal fuoco di risposta degli agenti.
Poco dopo è stato reso noto che un agente di sicurezza del consolato francese a Jeddah, in Arabia Saudita, è stato accoltellato da uno sconosciuto, finendo in ospedale dove si trova non in pericolo di vita. L'uomo è stato invece arrestato dalla polizia saudita.
Solo qualche settimana fa il Paese transalpino era stato scosso dall'attentato che aveva portato alla morte per decapitazione di Samuel Paty, un professore di storia di Parigi.

(Sputnik Italia, 2 novembre 2020)


Storia degli ebrei in Iran: "Un occhio guarda verso Gerusalemme, e l'altro verso Isfahan"

di Gavriel Hannuna

Circa 2750 anni fa, gli ebrei del regno d'Israele vennero deportati dagli Assiri e dai Babilonesi. Questo terribile evento fu l'inizio di una delle più grandi comunità ebraiche al mondo: quella persiana.
  Nell'ultima serie tv israeliana Tehran, una spy story ambientata tra Israele e Iran, ci sono poche tracce di questa comunità. Si vedono immigrati iraniani in Israele e la zia della protagonista, convertita all'Islam, con una famiglia fanatica del regime iraniano. Oltre agli agenti del Mossad, questi sono gli unici ebrei persiani che vengono rappresentati, ed è quindi una sorpresa andare a scoprire che la comunità ebraica di Teheran esiste ancora: conta più di 8000 persone, facendone la più grande comunità mediorientale al di fuori d'Israele. La storia di questa comunità è lunga e complicata, e ci mostra quanto sia cambiata la società iraniana nell'ultimo secolo.

 La caduta degli Ottomani
Da quando l'Impero Ottomano cadde, e gli inglesi presero il controllo dell'allora Palestina, i sionisti iniziarono a muoversi dalle comunità persiane verso la terra che vedevano come casa. Questa "prima aliya" non è stata particolarmente estesa: ha riguardato principalmente le fasce più povere della comunità, andate nella nuova terra in cerca di fortuna. La chiamata verso Sion non fu abbastanza forte per smuovere le grandi masse persiane che, in paesi come la Persia, vivevano molto bene. Intanto, in Palestina iniziarono rivolte e scontri tra arabi, ebrei e inglesi.

 La nascita d'Israele
Arriva il '48: sin dalla nascita Israele è già circondata da nemici, tra i quali però non c'era l'Iran. Infatti, fu uno dei primi stati a maggioranza musulmana a riconoscere Israele, mentre la vita ebraica in Medio Oriente iniziò ad essere minacciata dall'antisionismo verso le comunità ebraiche. Molti ebrei lasciarono il Nordafrica e l'Asia occidentale per andare in uno stato dove si sentivano al sicuro; intanto, in Iran la comunità ebraica persiana resistette, poiché non volevano assolutamente lasciare la terra che vedevano come casa loro da millenni. Tel Aviv e Teheran iniziarono una lunga storia di commerci, tra petrolio e armamenti, che continuò per vari anni. L'El Al iniziò a volare verso Teheran, gli uomini d'affari israeliani vennero accolti con grandi feste e banchetti organizzati dallo Shah; alcuni israeliani iniziano persino a comprare case in Iran. Si stima che gli ebrei iraniani fossero tra i 100.000 e i 150.000 in quel periodo.

 Le rivoluzioni del '79
Dopo anni di malgoverno, repressione e poca attenzione verso le fasce più povere della popolazione, milioni di cittadini si ribellano al governo dello Shah. Gli storici spesso si riferiscono al plurale alla rivoluzione del '79 perché sostengono che fu caratterizzata da due eventi differenti: una rivoluzione laica e una religiosa. La prima coinvolse la quasi totalità della popolazione, fino al 90% secondo alcune stime, e consistette in numerose proteste contro il governo in tutto l'Iran. Anche gli ebrei furono coinvolti nelle manifestazioni, sperando di poter contribuire all'inizio di un nuovo governo, più aperto e democratico.
Ma nel giro di qualche giorno, la rivoluzione prese un'altra piega: Ruhollah Khomeini, guida spirituale fuggita in Francia per le sue attività antigovernative, torna dall'esilio per guidare l'Iran in una rivoluzione a stampo islamico. Quando la situazione era ormai chiara, molti ebrei scapparono dall'Iran, e con l'inizio della Repubblica Islamica un forte sentimento antisionista, e spesso antisemita, si propagò tra la popolazione. Iniziarono ad avere luogo numerosi atti vandalici contro la comunità ebraica e contro i segni degli accordi economici tra Israele e Iran. Intanto, una delegazione della comunità ebraica aveva già parlato con Khomeini, il supremo leader religioso della neonata Repubblica Islamica, per mettere in chiaro una cosa: la lealtà della comunità ebraica persiana risiede con l'Iran, e non con lo Stato Ebraico.
  L'Iran ha sempre fatto distinzione tra ebraismo e sionismo, riuscendo a mantenere buoni rapporti con gli ebrei in Iran, offrendogli anche un posto in parlamento in quanto minoranza. Dal 1979 ad oggi Israele ha spesso incitato gli ebrei persiani rimasti a fare l'aliya, ma ciononostante loro hanno sempre rifiutato, spesso accusando Israele di minare i rapporti tra la loro comunità e lo stato. Nonostante i buoni rapporti istituzionali, molti vedono segni di violenze verso questa antica comunità, che ormai costituisce meno dello 0,01% della popolazione iraniana. Eppure, gli ebrei persiani sono ancora attaccati alla loro terra, a costo di rischiare la vita e di rinnegare Israele. Su questo punto la seria israeliana Tehran ha sicuramente fatto centro.
  In tutte le puntate la nostalgia degli ebrei persiani verso la loro terra è tangibile, tant'è che una delle frasi più ricorrenti è: "Un occhio guarda verso Gerusalemme, e l'altro verso Isfahan." Una frase che mostra chiaramente la dualità e l'attaccamento degli ebrei iraniani verso la loro terra. Una frase che forse riassume il sentimento di molti altri ebrei mediorientali, meno fortunati degli iraniani, che da un giorno all'altro hanno subito pogrom e violenze da coloro che vedevano come amici, e che hanno lasciato la loro terra correndo, sapendo che non l'avrebbero mai più rivista.

(Unione Giovani Ebrei d'Italia, 2 novembre 2020)


"Sogno un Iran che parli con Israele e conceda diritti"

"La nostra politica estera non ha fatto che aumentare i nostri problemi: è sbagliato non avere rapporti con gli Usa". Intervista a Faezeh Hashemi Rafsanjani, figlia dell'ex presidente.

di Francesco De Leo

Faezeh Hashemi, politica e attivista iraniana, è la figlia dell'ayatollah `Ali Akbar Hàshemi Rafsanjàni, presidente dell'Iran dal 1989 a1 1997, presidente dell'Assemblea degli Esperti dal 2007 al 2011 e presidente del Consiglio per il Discernimento dal 1989 sino alla sua scomparsa nel 2017:57 anni, parlamentare dal 1996 al 2000, si è battuta per i diritti di genere. È Presidente della Lega femminile del Partito Executives of Construction. Ha subito due condanne per propaganda anti-regime, che le sono costate 12 mesi di carcere.

- Come va l'Iran? Che fase è questa per il suo Paese?
  «E una domanda complessa. La situazione politica ed economica non è facile e non mi sembra che le autorità diano risposte adeguate».

- Qual è il futuro della Repubblica Islamica? II suo rapporto con la modernità come procede?
  «L'Iran è un Paese moderno, ma non dal punto di vista della cultura della modernità. Possediamo gli strumenti della modernità, ciò che esiste in Occidente e nei Paesi sviluppati. Ma la modernità si arresta quando si tratta di pensare e ragionare, specie di diritti delle donne».

- Alcuni giornali internazionali hanno scritto di una sua possibile candidatura alle presidenziali del 2021. Ci ha pensato davvero?
  «No. Non ho al momento preso una decisione. E non mi piacerebbe diventare presidente della Repubblica nella situazione odierna il presidente qui non ha nessuna autorità».

- Che trasformazioni sogna per l'Iran?
  «Che la nostra politica cambi sul piano internazionale, innanzitutto. Perché secondo me finora la nostra politica estera non ha fatto che aumentare di giorno in giorno i nostri problemi. Per quanto riguarda la nostra politica interna poi — i diritti umani, la libertà di parola, i diritti delle donne — beh... necessitano di un grande cambiamento».

- Ci sono alcuni Paesi arabi che hanno firmato accordi in questi ultimi mesi con Israele. Che idea se ne è fatta?
  «Sono Paesi sovrani che hanno il diritto di decidere le loro politiche con Israele. Anche se fossimo contrari non potremmo vincolarli o protestare per le loro scelte. Penso che l'Iran oggi debba riuscire ad avere relazioni con tutti i Paesi del mondo».

- Una pace dell'Iran con Israele sarebbe una rivoluzione per il Medio Oriente con sviluppi nell'intera comunità internazionale. Si arriverà mai a questo?
  «È poco probabile. La pace in Medio Oriente e l'ostilità tra i due Paesi sono però questioni molto diverse tra loro. Ad esempio, in alcune discipline sportive i palestinesi gareggiano con gli israeliani. Noi no. Oppure, i palestinesi dialogano con gli israeliani, mentre noi manteniamo un atteggiamento minaccioso. Possiamo non fare una pace vera, ma possiamo mutare la nostra politica. Ancora, i palestinesi riguardo all'accordo degli Emirati, del Bahrein e del Sudan con Israele, hanno reagito in un modo diverso dagli iraniani. Non hanno avuto una reazione così contraria. Questi accordi con Israele non ci impediscono di dialogare. Possiamo trovare una via di mezzo tra inimicizia e dialogo».

- Sarebbe auspicabile un rapporto nuovo tra Iran e Israele?
  «Non ritengo importante mettersi alla ricerca di qualcosa del genere. È più importante il rapporto con gli Stati Uniti. Non avere un rapporto con l'America ci ha creato moltissimi problemi».

- Com'è la situazione del Covid nel suo Paese?
  «Non è affatto positiva. Ci sono dei morti in aumento e mancano regole sul distanziamento sociale».

- Si è sempre occupata delle questioni di genere. Cosa può dirci attualmente della condizione della donna nella società iraniana?
  «Sono molte le cose da fare riguardo alla questione della donna. Da quando ho iniziato ad occuparmene, non è cambiato molto. Ma le nuove generazioni sono molto attive e consapevoli dei loro diritti. Hanno coraggio, scendono in piazza, pagano un caro prezzo per rivendicare diritti».

- In alcune manifestazioni di protesta per il carovita si sono evocati i Pahlavi. Non era mai successo. Che impressione le ha fatto?
  «Il popolo fa bene a manifestare. La cosa che mi addolora è che noi autorità al governo non abbiamo fatto nulla affinché la gente non rimpiangesse lo Shah. La Repubblica Islamica non ha avuto una condotta positiva ed è questo il motivo per cui la gente acclama il nome di Reza Shah: sono stati bruciati 40 anni».

(la Repubblica, 2 novembre 2020)


Israele e i passi avanti sul vaccino, al via la sperimentazione sull'uomo

 
"Mi sento benissimo e scherzo con lo staff medico. Come ogni cosa nella vita che ha un rischio, dobbiamo guardare al beneficio che può venire fuori da qui: la speranza di un vaccino israeliano". Sorride e si dice fiducioso Segev Harel, il primo paziente a cui è stato somministrato il vaccino contro il Covid-19 sviluppato dall'Israel Institute for Biological Research. Tra telecamere e discorsi ufficiali è infatti iniziata in queste ore la fase di sperimentazione clinica del vaccino israeliano; una sperimentazione che vede coinvolti 80 volontari che saranno testati in due strutture, il Hadassah Ein Kerem e lo Sheba Medical Center. "C'è una pandemia globale che sta cancellando vite umane e io ho la possibilità di aiutare. - ha raccontato Harel ai media israeliani dallo Sheba -. Se questo è il minimo che posso fare per liberarmi di questo virus, perché no?". Sulla stessa lunghezza d'onda, Anar Ottolenghi, anche lui parte del primo gruppo di volontari e a cui il vaccino è stato somministrato allo Hadassah. "Mi sento bene. Sono emozionato - racconta Ottolenghi - e vorrei incoraggiare quante più persone possibile a partecipare all'esperimento e aiutare l'intera società".
Oggi inizia dunque la sperimentazione sull'uomo della Fase I del vaccino israeliano. Gli 80 volontari hanno età compresa tra i 18 e i 55 anni. Ognuno di loro sarà monitorato nel corso delle prossime tre settimane per determinare se ci sono effetti collaterali causati dal vaccino. Se la prima fase dovesse essere un successo, si passerà alla seconda a cui prenderanno parte 30 mila volontari in un periodo di 6 mesi.
"In un modo o nell'altro, con un vaccino sviluppato qui da noi o all'estero, porteremo abbastanza vaccini ai cittadini di Israele, e poi potremo finalmente liberarci da questa piaga. Vedo la luce alla fine del tunnel, vedo i vaccini nello Stato di Israele", ha dichiarato il Primo ministro Benjamin Netanyahu, in una conferenza stampa dopo la somministrazione ad Harel e Ottolenghi delle prime dosi. "Questo è un processo lungo e ci vorrà del tempo per elaborare i dati. È necessario avere pazienza", la cautela espressa dal ministro della Difesa Benny Gantz, in visita al Hadassah. Qui Gantz ha raccontato di aver parlato con Harel. "Mi ha detto: 'Sono venuto qui anche per dirvi di aiutarci. Dall'inizio della crisi ho dovuto cambiare tre posti di lavoro'. Mi ha detto che il Paese deve avere un piano economico". Il paese è uscito di recente dal secondo lockdown, e le riaperture sono state attuate in modo graduale. Tra queste quello della scuola: in queste ore circa mezzo milione di bambini israeliani delle elementari (dal primo al quarto grado) sono rientrati nelle proprie scuole. I piccoli studenti, secondo le direttive dell'autorità, sono divisi in gruppi di massimo 20 compagni e sono tenuti a indossare la mascherina durante l'intera giornata scolastica, compresa la ricreazione.
"La decisione è stata presa all'ultimo minuto… spiegheremo ai bambini l'importanza delle mascherine, e daremo loro anche lo spazio per dar voce al proprio disagio", ha raccontato a ynet Rachel Kedar, direttrice di una scuola elementare di Rishon Lezion. "Lasceremo che si tolgano la maschera qua e là per qualche minuto vicino a una finestra e faremo del nostro meglio per dare il buon esempio". Sempre a ynet, la psicologa Clodie Tal ha sottolineato l'importanza di mantenere aperto il sistema scolastico. "Le conseguenze psicologiche dell'interruzione della routine scolastica di uno studente, della separazione da amici e insegnanti e dell'ampliamento dei divari tra gli studenti a causa delle risorse psicologiche e finanziarie delle rispettive famiglie sono molto più gravi del disagio di indossare una mascherina", ha spiegato Tal, caldeggiando l'apertura delle scuole. Ma a chiedere l'apertura sono anche i negozianti d'Israele. Soffocati dalla crisi economica, molti chiedono al governo di riaprire subito, a partire da domani, e minacciano di farlo anche in violazione degli attuali divieti. Dalla loro parte si è schierato il ministro delle Finanze Israel Katz, che ha attaccato i colleghi del ministero della Sanità perché - a fronte di una diminuzione significativa dei contagi - si sono per il momento opposti a far alzare le saracinesche ai negozi. La replica è arrivata dal ministro della Sanità Yuli Edelstein, che chiede pazienza e di non soffiare sul fuoco. "Chi pretende oggi, dopo l'aumento del coefficiente di infezione, un'apertura spericolata dell'economia, ci porterà a un'ulteriore chiusura e a un disastro economico, sociale e sanitario".

(moked, 1 novembre 2020)


Se l'Osservatore Romano censura la parola "chiesa"

L'attacco di Nizza è avvenuto "in un luogo di amore e consolazione", scrive il giornale vaticano.

Non parlare di attacco "islamista", benché "islamista" sia aggettivo che designa la degenerazione violenta dell'islam e non la religione musulmana, è comprensibile: il criterio della prudenza è accettabile, anche per non fomentare rivolte contro i cristiani in quei paesi dove i cristiani sono minoranza spesso senza grandi tutele da parte dello stato. L'Osservatore romano, organo ufficiale della Santa Sede, compie però un salto carpiato nel campo del pol. corr. più ortodosso e censura anche la parola "chiesa", quasi che la decapitazione di una settantenne e lo sgozzamento di un sacrestano siano avvenuti al mercato o in qualche altro luogo pubblico della bella città francese. "Attacco a Nizza: morte in un luogo di amore e consolazione", titolava ieri a caratteri cubitali il giornale del Papa, dove per "luogo di amore e consolazione" si intende proprio la basilica di Notre-Dame. L'editoriale di spalla è ancora più prudente: "Si segue la pista terrorista", quando fin da subito la matrice dell'assassinio era chiara.
   Va bene il dialogo con il grande imam di al Azhar che - ha riconosciuto Francesco - è l'ispiratore dell'enciclica Fratelli tutti (grande imam che la narrazione vaticana ha trasformato in una sorta di apostolo di pace quando in realtà è teorico della "proliferazione degli attacchi di martirio che terrorizzano i cuori dei nemici di Allah", come disse nel 2002 in qualità di Gran muftì d'Egitto), va bene non surriscaldare gli animi già focosi, ma nascondere scientemente il fatto che l'attentato in nome di Dio sia avvenuto in una chiesa, è qualcosa cui neanche Michel Houellebecq avrebbe potuto pensare ai tempi della sua Soumission. Ben chiare hanno invece le idee i vescovi francesi che subito, nel loro comunicato di giovedì mattina, hanno parlato di "martirio", ricordando che "queste persone sono state aggredite e assassinate perché erano nella basilica. Rappresentavano un simbolo da distruggere". Niente deferenze né ipocrisie: chi è in prima linea sa bene quali parole scegliere e usare.

(Il Foglio, 1 novembre 2020)


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La Chiesa istituzione e le chiese in muratura

di Marcello Cicchese

Il commento del Foglio all’articolo dell’Osservatore Romano mi è stato segnalato da un caro amico ebreo che ci segue da anni con interesse e che qui pubblicamente ringrazio. E’ strano che l’assenza della parola “chiesa” su un documento di provenienza papale abbia sollevato l’interesse di un laicissimo giornale come il Foglio e poi di un ebreo, mentre si direbbe che la questione per sua natura sia di ambito squisitamente cristiano. Lo fa notare lo stesso articolo riportando la dichiarazione di altro tono espressa dai vescovi francesi: "queste persone sono state aggredite e assassinate perché erano nella basilica. Rappresentavano un simbolo da distruggere". E le cose stanno proprio così.

 Il disappunto dei laici
Ma qual è il simbolo che gli islamisti volevano distruggere? Molti risponderebbero: la cristianità. Ma se tu non sei cristiano, che t’interessa questo simbolo del cristianesimo? si potrebbe chiedere a un laico dichiarato e convinto. “Perché non possiamo non dirci «cristiani»”, potrebbe rispondere, rifacendosi a un breve saggio di Benedetto Croce del 1942 che porta questo titolo. A questo saggio si riferisce un libro di Arturo Diaconale, che fin dal titolo si rivolge all’attuale papa con una domanda: “Santità, ma possiamo continuare a dirci cristiani?”
   Così presenta Diaconale il saggio di Croce:
    «Nel "libretto" di Croce non ci sono riferimenti espliciti al cristianesimo inteso come valore alternativo ai disvalori razzisti e non c'è neppure un qualche aggancio diretto alla realtà storica del momento segnata da una guerra mondiale che si combatteva nei cinque continenti ma che aveva il suo epicentro nel Vecchio Continente e le sue onde telluriche nei quattro angoli del mondo. Ma nella concezione della storia del filosofo, la rivoluzione dello spirito realizzata da un cristianesimo che non ha alternative per chi crede nel valore dell'uomo e nell'evoluzione dell'umanità non è collocata nell'alto dei cieli ma ha radici ben piantate nella terra.»
Ecco dunque il motivo del disappunto dei laici: vedere nella profanazione della basilica cristiana l’abbattimento di un simbolo che rappresenta “la rivoluzione dello spirito realizzata da un cristianesimo... che crede nel valore dell’uomo e nell’evoluzione dell’umanità ... con radici ben piantate nella terra”. Il pensatore laico occidentale ritiene di appartenere al cristianesimo in senso culturale, non certo dogmatico, ma s’indigna se il papa, non difendendo il dogma, espone la civiltà occidentale giudaico-cristiana-laicizzata agli assalti dell’inciviltà orientale islamica.
   Più avanti Diaconale aggiunge:
    «Croce non avverte nessuna forma di frattura tra cristianesimo e civiltà occidentale. Nel suo tempo non esiste alcun genere di frizione tra religione e civiltà. Tutti i contrasti dei secoli passati sono stati superati, la separazione tra Dio e Cesare si è consumata e stabilizzata e se ogni cristiano non può non dirsi occidentale neppure ogni laico, credente, agnostico o ateo che sia, non può non dirsi cristiano. E c'è di più. Nel tempo di Croce questa unità concettuale poggia sulla convinzione addirittura inconscia e scontata del primato mondiale sia della religione cristiana che della civiltà occidentale.»
L’irruzione dell’islam ha messo in discussione questo primato, e la cosa sembra dare enormemente fastidio sia al laico liberale, sia al cattolico tradizionale. Ma non a papa Bergoglio. Perché lui sembra aver capito che il tradizionale richiamo a Dio della chiesa cattolica, strumentalizzato da cosche ecclesiastiche mafiose in lotta fra loro per la conquista del potere e metabolizzato da scuole di pensiero laico che cercano in vari modi di far scendere in terra tutto ciò che una volta aveva posto in cielo, non ha più influenza determinante nell’area culturale in cui è cresciuta la cristianità occidentale e a cui il papato appartiene.
Ecco allora la sintetica conclusione di Diaconale sulla persona e la politica dell’attuale papa:
    «Insomma, a me Papa Bergoglio dà l'impressione di uno che ha mangiato la foglia sull'impossibilità del Vicario di Cristo di interloquire in qualche modo con il Padreterno (sempre che esista) e si sia acconciato, da buon gesuita cresciuto in Argentina a pane peronismo e terzomondismo anticolonialista e anticapitalista, a trasformare la Chiesa di Roma nella più grande Ong del pianeta specializzata nell'assicurare ai propri fedeli il "prozac" dei buoni sentimenti politicamente corretti al posto della promessa, non più proponibile, della vita eterna al cospetto di Dio.» Amen.
 Le perplessità dei cristiani e le preoccupazioni degli ebrei
Può sembrare strano, ma a certi cristiani non disturba affatto che nel riferire quel feroce episodio di Nizza non sia stato usato il termine “chiesa”. Chi scrive è cresciuto spiritualmente in un ambiente evangelico in cui il termine “chiesa” veniva usato con una certa difficoltà al di fuori dei riferimenti biblici, e sempre con le dovute precisazioni. Perché? Perché nel Nuovo Testamento il termine “chiesa” non indica mai un edificio. Mai. Naturalmente gli studiosi cattolici sanno bene che il termine “ekklesia” in greco significa “assemblea” e che è un termine generale usato per riunioni di tutti i tipi; ma nell’uso popolare che ne ha fatto l’istituzione papale il termine ha assunto principalmente due significati: 1) Chiesa come istituzione mondiale sacra che esprime visibilmente la presenza di Dio in terra; 2) chiesa come edificio in muratura in cui si trova la presenza di Dio nell’ostia consacrata contenuta nel Tabernacolo e intorno alla quale si radunano i fedeli sotto la guida del sacerdote insignito di una sacralità che lo abilita al maneggio di oggetti divini. Entrambi i significati non hanno alcuna attinenza con i testi biblici. E se è questo il simbolo che si è voluto colpire, i cristiani evangelici degni di questo nome non si sentono colpiti. La chiesa in senso neotestamentario non è stata colpita, né può esserlo in questo modo. Quindi la rinuncia all’uso di questo nome non genera alcun disagio. Anzi. Genera molte perplessità, certo, ma di altro tipo.
   Gli ebrei invece possono avere seri motivi per sentirsi minacciati, sia dall’atto islamico con cui si è voluto colpire un simbolo, sia da quello che il simbolo stesso significa. Perché ogni chiesa in muratura esprime la volontà di rappresentare e sostituire quello che voleva essere l’unico Tempio ebraico: la casa di Dio. Chi scrive ha sentito parlare di Tabernacolo la prima volta quando da ragazzo gli hanno spiegato che è la nicchia in cui viene conservata l’Ostia consacrata. Sono dovuti passare anni prima di scoprire che la nozione di Tabernacolo appartiene al popolo ebraico e che il suo nome è stato usato e strumentalizzato per indicare oggetti che ne rappresentano un’imitazione deformante. Quindi per un ebreo il ricordo di quello che vuol significare un edificio chiamato “chiesa” e la riflessione su quello che ha voluto significare l'atto di un fanatico islamico che ne ha colpito il simbolo con un feroce atto omicida non può che costituire una somma di pensieri inquietanti. Che certamente non potranno essere leniti andando a visitare qualche altro “luogo di amore e consolazione”.

(Notizie su Israele, 1 novembre 2020)


Israele nell'era del low cost

Alle origini dell'identità ebraica, tra Diaspora e Sionismo. "La scelta di Abramo" torna in libreria dopo 14 anni. In un tempo in cui va ripensato il senso della cittadinanza.

di Wlodek Goldkorn

E' 13 gennaio 2015, a Gerusalemme. A Har Hamenuchot (il monte dell'eterno riposo), si celebrano i solenni funerali di quattro persone: Yoav Hattab, Yohan Cohen, Philippe Braham e François-Michel Saada. I quattro sono francesi. Sono stati assassinati a Parigi, in quanto ebrei, in un supermercato kasher, da un terrorista islamista, in seguito all'attentato, sempre di terroristi islamisti, alla sede del settimanale satirico "Charlie Hebdo". Francia, Europa e Occidente sono rimasti scossi, sconvolti per l'accaduto (...). A Gerusalemme, ai funerali dei quattro sono presenti il presidente d'Israele Reuven Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu e, in rappresentanza del governo di Parigi, la ministra Ségolène Royal. Tutti e tre gli esponenti delle istituzioni fanno un discorso. Rivlin dice: «Indipendentemente da quali possano essere le motivazioni perverse dei terroristi, è palese che i leader europei debbano agire e impegnarsi a prendere misure fermissime per restituire un senso di sicurezza agli ebrei d'Europa». E aggiunge: «La Terra di Israele è terra di scelta. Vogliamo che scegliate Israele per amore d'Israele». Spiegazione: se volete venire a vivere qui e non più nella Diaspora perché là vi sentite poco sicuri, sappiate che la scelta deve essere dettata dall'amore, dalla speranza, dalla fede in un futuro, non dalla paura del presente. Royal sottolinea come i valori della Repubblica non siano solo quelli di Voltaire (la tolleranza), tanto invocati a proposito dell'attacco a "Charlie Hebdo", ma anche quelli di Émile Zola, l'autore del "J'accuse!", lo scrittore che ha saputo mobilitare l'opinione pubblica in difesa del capitano Dreyfus, vittima di una montatura antisemita. Anche qui, le parole sono importanti.
   Notoriamente, l'affaire Dreyfus, portò Theodor Herzl, giornalista della "Neue Presse" di Vienna, alla conclusione che gli ebrei non potevano restare in Diaspora, perché l'assimilazione non avrebbe posto fine all'antisemitismo. Il sionismo come movimento politico nasce da quella convinzione. Però, spesso si dimentica (ed è quello che voleva forse dire Royal) che quell'affaire vede una reazione vigorosa della pubblica opinione democratica in Francia, che capisce quanto la resistenza all'antisemitismo (cosa all'epoca non ovvia) fosse legata alla difesa della Repubblica. Infine, giungono le parole di Netanyahu: «Credo che gli ebrei sappiano nel profondo del loro cuore di avere un solo Paese, lo Stato di Israele, che è la loro patria storica e che li accoglierà sempre a braccia aperte». Lo stesso concetto, il premier israeliano l'aveva espresso parlando agli ebrei francesi a Parigi. Qualche mese dopo, a Firenze, davanti alla lapide che commemora le vittime della Shoah, nel giardino della sinagoga, non in presenza dei giornalisti (...), sempre Netanyahu disse: «Ora, con lo Stato d'Israele non succederà più». Lasciamo da parte Netanyahu. L'abbiamo citato perché, in fondo e con genuina convinzione, l'uomo rappresenta un'idea semplice: gli ebrei, ovunque nel mondo, corrono sempre e sempre correranno il pericolo di essere non solo perseguitati, ma sterminati, motivo per cui al di fuori dello Stato d'Israele la vita degli ebrei è priva di senso e senza futuro.
   Notiamo invece quanto, sia per Rivlin che ovviamente per Royal, la presenza degli ebrei in Europa sia un fatto naturale, così come è del tutto ovvio che quattro ebrei francesi possano trovare l'eterno riposo a Gerusalemme. Quello che ci interessa è il lato simbolico dei funerali, il nostro punto di partenza. Intanto un dato, in apparenza tecnico. Le bare dei quattro sono state portate a Gerusalemme in un aereo. Ecco, sembrerà banale, ma all'epoca dei collegamenti aerei frequenti (sebbene interrotti dalla pandemia di Covid-19), a costi non elevati, il contatto, fisico, non solo immaginario e virtuale, fra chi abita la Terra promessa (usiamo di proposito un termine biblico) e chi vive nel resto del mondo - e viceversa - è facile ed è rapido. Riguarda i vivi (gente che abita addirittura sia qui che là, ci torneremo), ma pure le questioni legate al lutto e alla sepoltura, quindi a istanze arcaiche e primarie. Farsi seppellire a Gerusalemme era stata per secoli l'aspirazione di molti pii ebrei. Semplificando: nella mappa dell'immaginario ebraico c'era al centro Eretz Israel, la Terra d'Israele, con Gerusalemme, il Monte del Tempio e il Sancta sanctorum, il luogo dove era deposta l'Arca dell'Alleanza. Porta del Paradiso quella, seppure metaforica. Si veniva a morire a Gerusalemme perché qui sarebbe stato ricostruito il Tempio e allora il tempo sarebbe diventato il tempo dopo il tempo nel regno del Messia. Essere seppelliti a Gerusalemme significava avere la certezza di risorgere, fra i primi, nel tempo dopo il tempo, essere le avanguardie del Messia, perché qui avrebbe avuto inizio l'opera della Resurrezione. Per poter finire i propri giorni qui, occorreva però venire a piedi, in carrozze scomodissime, in nave, fra briganti, pirati, tempeste: lontani dalla famiglia e dagli effetti, solitari in attesa della morte. Ma non c'era solo la morte e il cimitero. Terra promessa e Gerusalemme erano pure la vita. Però era una vita immaginaria. Il calendario ebraico seguiva da sempre le stagioni di Israele, ragione per cui, ad esempio, in Polonia l'inizio della primavera i bambini ebrei lo festeggiavano nei boschi pieni di neve e con temperature sotto lo zero. La festa riguardava la prima fioritura dei mandorli, alberi che questi bambini potevano vedere (forse) solo nelle fotografie o in un dipinto. La vita non immaginaria invece, quella fra le nevi e in mezzo ai gentili, molti la consideravano solo provvisoria. Una provvisorietà però di lunga durata, destinata a concludersi solo con l'avvento del Messia.
   Quello che ci interessa qui è semplicemente dire: l'ebraismo era diviso fra due poli. C'era il polo Gerusalemme e l'opposto, la Diaspora. Poi è venuto il sionismo. La carica messianica è stata tradotta in un progetto politico e culturale laico (sebbene alcuni laici usassero un lessico religioso e alcuni religiosi utilizzassero idiomi laici parlando della fede), dove la contrapposizione Diaspora-Terra d'Israele era centrale e costitutiva. La contrapposizione però non riguardava più i sogni ma la realtà. La modernità nella sua versione positivista postulava quello che Herzl tradusse in una frase celebre: «Se lo vorrete, non sarà un sogno». Ingegneri, agronomi, uomini d'affari, attivisti politici erano chiamati a lavorare per costruire una realtà nuova, all'avanguardia delle promesse della modernità. (...) Tutti quanti, i liberali e i socialisti, comunque, davano per scontata la «minorità» dell'ebreo e la sua subalternità, e ne trovavano la radice nella Diaspora. Diaspora era la malattia, Sion la cura. (...)
   Se è vero che gli israeliani sono oggi molto propensi a cercare e rivendicare le loro radici diasporiche, gli ebrei non israeliani non sono altrettanto disposti a identificarsi con Israele. Il movimento non è simmetrico, benché Israele resti importante per l'immaginario degli ebrei, ovunque, anche di coloro che con Israele non hanno un buon rapporto o non vogliono avere rapporto alcuno. E c'è di più. Per certi versi si può sostenere che Israele è oggi una delle comunità della Diaspora, una comunità che ha deciso di darsi la forma di uno Stato. La cultura quotidiana di Israele è del resto permeata da quello che per i padri del sionismo era «la mentalità diasporica»: astrazione, mediazione, nevrosi, amore per le metropoli a scapito del lavoro della terra, cosmopolitismo. Pochi agricoltori e tantissimi avvocati, medici, imprenditori; mestieri tipici degli ebrei in Diaspora ai tempi della modernità. Israele è una nazione start-up.

(l'Espresso, 1 novembre 2020)



Sostenere che “Israele è oggi una delle comunità della Diaspora” significa dire in parole educate che Israele non è uno Stato ebraico, non è lo Stato degli ebrei. Ci sono molti modi per esprimere il proprio antisionismo, forma giuridica attuale dell’antisemitismo. M.C.


Quel passaporto Usa che riconosce Gerusalemme capitale di Israele

di Ugo Volli

 
Con una piccola cerimonia, l'ambasciatore americano a Gerusalemme David Friedman ha consegnato venerdì il passaporto americano a Menachem Binyamin Zivotofsky, un ragazzo americano nato 18 anni fa a Gerusalemme. Un atto del tutto normale? No, perché sul passaporto c'era scritto che Zivotofski era nato in Israele. Ancora una cosa normale? Dopotutto il ragazzo è nato nella capitale dello stato di Israele e se si vuole essere pignoli nella parte che appartiene allo stato ebraico dalla sua fondazione. E invece questo è stato il primo passaporto americano ad ammettere che Gerusalemme è in Israele, nonostante una legge approvata dal Congresso nel 1995 che ha imposto al governo di farlo e nonostante ben due cause legali intentate dai suoi genitori al governo, arrivate fino alla Corte Suprema, con le amministrazioni Clinton e Obama impegnate a difendere questa assurda negazione e la Corte, allora dominata dalla sinistra del tutto incapace di affermare la logica e il diritto. Del resto l'Italia fa la stessa cosa: sui documenti dei nostri concittadini residente a Gerusalemme scrive che vivono in ZZZZZ (letteralmente così in uno stato fatto solo di zeta). Un piccolo atto simbolico, se volete, ma la politica è fatta di simboli, che segue quello della settimana scorsa in cui gli Usa hanno esteso gli accordi di collaborazione con Israele alle città e ai villeggi di Giudea e Samaria. E prima ancora, ricordiamolo, è stato Trump a superare tutti gli ostacoli per gli accordi fra Israele e tre stati arabi, lui a trasferire l'ambasciata a Gerusalemme, lui a tagliare le oscure collaborazioni delle amministrazioni precedenti con le organizzazioni palestiniste in odor di terrorismo. Insomma, Trump è il presidente più amico di Israele e degli ebrei della storia, forse perché sua figlia si è convertita, forse perché suo padre è noto per aver aiutato gli ebrei fuggitivi dalla Shoà. Ma anche per realismo: Israele è il principale e più leale alleato degli Usa in Medio Oriente e riconoscere i suoi confini è puro realismo; aiutarlo a consolidare la sua posizione e ad accordarsi con gli arabi filoamericani è ovvio interesse degli Usa. Insomma, Trump può avere tratti non garbati, può riuscire antipatico, ma è un grande politico, un grande presidente e un grande amico di Israele. Possiamo solo sperare che fra qualche giorno sia rieletto.

(Shalom, 1 novembre 2020)



L'impegno di seguire Gesù e il singolo uomo
    «Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle, anzi la sua stessa vita, non può essere il mio discepolo» (Lc. 14,26).
La chiamata di Gesù a seguirlo fa del discepolo un uomo isolato. Volere o non volere, deve decidersi, e da solo. Non si tratta di una scelta personale di voler essere un uomo isolato; è Cristo a isolare colui che egli chiama. Ognuno è chiamato come singolo; deve seguire come singolo. Sgomentato da questo isolamento l'uomo cerca protezione presso gli uomini e le cose attorno a lui. Scopre improvvisamente tutte le sue responsabilità e si aggrappa ad esse. Vuole decidere protetto da queste; non vuole trovarsi solo di fronte a Gesù, prendere le sue decisioni guardando solo a lui. Ma né padre né madre, né coniuge né figlio, né nazione né storia proteggono in questo frangente colui che è chiamato. Cristo vuole che l'uomo sia isolato, non deve vedere nessuno tranne colui che lo ha chiamato.
   Nella chiamata di Gesù è già compiuta la rottura con l'ambiente naturale nel quale l'uomo vive. Non è l'uomo che segue Gesù a compiere tale rottura, ma Cristo stesso l'ha già compiuta quando chiama. Cristo ha sciolto l'uomo dai suoi rapporti immediati con il mondo e lo ha trasferito in un rapporto immediato con sé. Nessuno può seguire Cristo senza riconoscere e accettare questa rottura già compiuta. Non è l'arbitrio di una vita secondo la propria volontà, ma Cristo stesso a condurre il suo discepolo a questa rottura.
   Ma perché dev'essere così? Perché non è possibile un processo di adattamento senza rottura, un lento progresso santificante, che sciolga l'uomo dagli ordinamenti naturali e lo conduca alla comunione con Cristo? Quale molesta potenza si pone fra l'uomo e gli ordinamenti della sua vita naturale dati da Dio? Questa rottura non è forse una metodicità legalistica? Non è forse quel torvo disprezzo dei buoni doni di Dio, che non ha nulla a che vedere con la libertà del cristiano? È vero, realmente qualcosa si frappone fra chi è chiamato da Cristo e il suo normale modo di vivere. Ma non si tratta di un torvo disprezzo della vita, di una legge della pietà; è la vita e l'Evangelo stesso; è Cristo stesso. Con la sua incarnazione Gesù si è posto tra me e la realtà di questo mondo. Non posso tornare indietro. Egli sta in mezzo. Egli ha sottratto a colui che egli chiama ogni rapporto immediato con questa realtà. Egli vuole essere il mediatore, tutto deve accadere solo per suo tramite. Egli non sta solo tra me e Dio, ma appunto anche tra me e il mondo, tra me e gli altri uomini e le altre cose. Egli è il mediatore, non soltanto tra Dio e gli uomini, ma anche tra uomo e uomo, tra uomo e realtà. Dato che tutto il mondo è creato per mezzo di lui e per lui (Gv. 1,3) e da lui provengono tutte le cose e anche noi siamo per lui (1 Cor. 8,6; Ebr. 1,2), perciò egli è l'unico mediatore nel mondo. Dopo Cristo non c'è più nessun rapporto immediato dell'uomo né con Dio né col mondo; Cristo vuole essere il mediatore. E vero, si offrono abbastanza divinità che concedono all'uomo un accesso immediato, e il mondo cerca con ogni mezzo di essere in rapporto immediato con l'uomo, ma appunto in ciò è nemico di Cristo, il mediatore. Divinità e mondo vogliono strappare a Cristo ciò che egli ha loro sottratto, cioè di essere lui l'unico e solo ad avere un rapporto immediato con l'uomo.
   La rottura con i rapporti immediati del mondo non è altro che la conoscenza di Cristo come Figlio di Dio, il mediatore. Non è mai un atto arbitrario con cui un uomo si scioglie dai legami del mondo per seguire un qualche ideale, sostituendo così un ideale minore con uno maggiore. Questo sarebbe esaltazione, arbitrio, anzi, si rientrerebbe di nuovo in un rapporto immediato con il mondo. Solo l'accettazione di un fatto compiuto, cioè che Cristo è il mediatore, separa il discepolo di Gesù dal mondo, dagli uomini e dalle cose. La chiamata di Gesù, se non viene considerata come ideale, ma come parola del mediatore, compie in me questa rottura col mondo. Se si trattasse di soppesare gli ideali, si dovrebbe in ogni modo cercare un compenso, che poi potrebbe andare forse a favore di un ideale cristiano, ma non dovrebbe mai essere unilaterale. Dal punto di vista dell'idealità e delle 'responsabilità' della vita una radicale valorizzazione dell'ordine naturale di fronte a un ideale di vita cristiana non sarebbe giustificabile. Anzi, molte cose parlerebbero in favore di una valorizzazione inversa - beninteso, proprio anche dal punto di vista di un'idealità cristiana, di un'etica delle responsabilità e della coscienza cristiana. Ma appunto perché non si tratta di ideali, di valutazione della responsabilità, ma di dati di fatto e della loro accettazione, cioè della persona del mediatore stesso che si è posto fra noi e il mondo, non c'è altro che la rottura con i rapporti immediati della vita, e chi è chiamato deve trovarsi come uomo singolo di fronte al mediatore.
   Chi è chiamato da Gesù apprende, dunque, che è vissuto, nei suoi rapporti con il mondo, in un'illusione. Questa illusione si chiama immediatezza. Essa gli ha impedito di credere e di obbedire. Ora egli sa che persino nei legami più stretti della sua vita, nei vincoli di sangue con padre e madre, con i figli, con fratelli e sorelle, nell'amore coniugale, nelle responsabilità storiche non può avere alcun rapporto immediato. Da Gesù in poi i suoi discepoli non possono più avere rapporti immediati né naturali, né storici, né sperimentali. Tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra uomini singoli e il popolo sta Cristo, il mediatore, lo riconosciamo o no. Per noi non esiste contatto con il prossimo se non tramite Cristo, tramite la sua Parola e il nostro cammino dietro a lui. Il rapporto immediato è un'illusione.
   Ma poiché si deve odiare l'illusione che ci nasconde la verità, i rapporti immediati con le realtà della vita devono pure essere odiati per amore del mediatore Gesù Cristo. Dovunque una comunità ci impedisce di essere uomini singoli di fronte a Cristo, dovunque una comunità pretende di creare un rapporto immediato, essa deve essere odiata per amore di Cristo; infatti ogni rapporto immediato è, coscientemente o incoscientemente, odio verso Cristo il mediatore, anche proprio quando vuole essere considerata cristiana .
   E' un grave errore della teologia servirsi della mediazione di Gesù tra Dio e uomo per giustificare con essa rapporti immediati della vita. Se Cristo è il mediatore - così si afferma - egli ha preso su di sé il peccato di ogni nostro rapporto immediato con il mondo e ci ha così giustificati. Gesù è il mediatore tra noi e Dio, affinché noi possiamo mantenere, con buona coscienza, rapporti immediati con il mondo, con quel mondo che lo ha crocifisso. E così l'amore per Dio è ridotto allo stesso denominatore dell'amore per il mondo. La rottura con la realtà del mondo ora diviene fraintendimento 'legalizzato' dalla grazia di Dio, la quale appunto desiderava evitarci tale rottura. Le parole di Gesù sulla necessità dell'odio per i rapporti immediati si mutano ora in naturale e lieta accettazione delle «realtà date da Dio» in questo mondo. La giustificazione del peccatore si muta di nuovo in giustificazione del peccato.
   Per i seguaci di Cristo si possono avere «realtà date da Dio» solo tramite Gesù Cristo. Ciò che non mi viene dato da Cristo, fatto uomo, non mi è dato da Dio. Ciò che non mi è dato per amore di Cristo non viene da Dio. La gratitudine per i doni della creazione viene espressa tramite Gesù Cristo, e la richiesta di una benevola conservazione della vita viene espressa per amore di Cristo. Non devo ringraziare per nessuna cosa per la quale non possa farlo per amore di Gesù Cristo; sarebbe per me un peccato. Anche la via verso «realtà date da Dio» dell'altro uomo, con il quale vivo, passa per Cristo, altrimenti è una via errata. Tutti i tentativi di superare l'abisso, la distanza, la diversità, l'estraneità dell'altro mediante legami naturali o spirituali devono fallire. Non esiste via propria da uomo a uomo. L'immedesimazione più amorevole, la psicologia più approfondita, la sincerità più naturale non raggiungono l'altro; non esistono contatti spirituali immediati: Cristo sta in mezzo. Possiamo raggiungere il prossimo solo passando per Cristo. Perciò l'intercessione è la via migliore per raggiungere l'altro, e la preghiera comune nel nome di Cristo è la comunione più vera.
   Non è possibile riconoscere i doni di Dio senza conoscere il mediatore, per amore del quale essi ci vengono dati. Non si può ringraziare sinceramente per la propria nazione, la propria famiglia, la storia, la natura senza un profondo pentimento, che dà a Cristo solo l'onore per tutti questi doni. Non esiste legame con le realtà del mondo creato, non esiste vero senso di responsabilità nel mondo senza riconoscere la rottura che oramai ci separa da esso. Non esiste vero amore per il mondo tranne l'amore con cui Dio ha amato il mondo in Gesù Cristo: «Non amate il mondo» (1 Gv. 2,15), ma «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv. 3, 16).
   La rottura con i rapporti immediati è inevitabile. Che sia una rottura esteriore con la propria famiglia e il proprio popolo, che uno sia chiamato a portare in terra visibilmente il disonore di Cristo, ad accettare il rimprovero di odio del genere umano (odium generis humani) o che questa rottura debba rimanere nascosta, nota solo a lui stesso, mentre, però, resta pronto a compierla, in qualunque momento, anche in forma visibile, non fa, in fondo, differenza. Abramo divenne esempio per ambedue i casi. Dovette abbandonare amici e patria, Cristo si pose fra lui ed i suoi. La rottura dovette essere visibile. Abramo divenne straniero per amore della terra promessa. E questa fu la sua prima chiamata.
   In seguito Abramo fu chiamato da Dio a sacrificare il figlio Isacco. Cristo si pone fra il padre della fede ed il figlio della promessa. Qui viene spezzata non solo una relazione immediata naturale, ma anche una relazione spirituale. Abramo deve imparare che la promessa non è legata nemmeno ad Isacco, ma appunto solo a Dio. Nessun essere umano viene a sapere di questa chiamata di Dio, neppure i servitori che accompagnano Abramo fino al luogo del sacrificio. Abramo resta completamente solo. E di nuovo completamente uomo singolo, come quando emigrò dalla sua patria. Egli accetta la chiamata così come gli è stata rivolta, non cerca interpretazioni sofisticate, non la spiritualizza; egli prende Dio alla lettera ed è pronto a obbedire. Egli obbedisce alla parola contro ogni rapporto naturale immediato, contro ogni rapporto religioso immediato. Egli sacrifica il figlio. E pronto a compiere la rottura in maniera visibile, per amore del mediatore. E in quello stesso momento gli viene donato di nuovo tutto ciò che aveva sacrificato.
   Il figlio viene restituito ad Abramo. Dio gli mostra una vittima migliore, che deve sostituire Isacco. E una svolta di 360 gradi; Abramo possiede di nuovo Isacco, ma in maniera diversa da prima. Lo ha avuto dal mediatore e per amore del mediatore. Poiché era pronto ad ascoltare e osservare alla lettera il comandamento di Dio, egli ora può tenere Isacco come se non lo possedesse, può averlo tramite Gesù Cristo. Nessun altro lo sa. Abramo ritorna dal monte con Isacco come vi era salito, ma tutto era cambiato. Cristo si è posto tra padre e figlio. Abramo aveva abbandonato tutto e aveva seguito Cristo, e proprio mentre si trova al suo seguito ora può vivere di nuovo nel mondo, nel quale era vissuto prima. Esteriormente nulla è cambiato. Ma le cose vecchie sono passate, ecco tutto è divenuto nuovo. Tutto ha dovuto passare per Cristo .
   Questa è l'altra possibilità di essere isolato in mezzo alla comunità, in mezzo al proprio popolo, nella casa paterna, in mezzo ai propri beni e alle proprie ricchezze; essere seguace di Cristo. Ma è appunto Abramo a essere chiamato a questa vita, Abramo, il quale prima dovette subire la rottura visibile, Abramo, la cui fede divenne esemplare per il Nuovo Testamento. Troppo facilmente vorremmo generalizzare questa possibilità di Abramo, intenderla in maniera legalistica, cioè riferita senza altro a noi stessi. Questa, così diciamo, è appunto anche la nostra esistenza cristiana, seguire Cristo conservando il possesso dei beni terreni, ed essere così degli isolati. Ma non c'è dubbio che la via più facile per il cristiano è di essere portati alla rottura esterna piuttosto che portare, per fede, la rottura in segreto. Chi non lo sa, cioè chi non lo ha appreso dalle Scritture e dall'esperienza, certamente seguendo l'altra via imbroglia se stesso. Ricadrà nei rapporti immediati e perderà Cristo. Non dipende dalla nostra volontà scegliere questa o quella possibilità. Veniamo chiamati secondo la volontà di Gesù, in una maniera o nell'altra, a uscire dai rapporti immediati, e dobbiamo divenire degli isolati, visibilmente o in segreto.
   Ma lo stesso mediatore che fa di noi degli isolati, in questo modo è anche causa di una comunione assolutamente nuova. Egli sta al centro, tra l'altro uomo e me. Egli separa, ma unisce pure. Ogni via immediata per raggiungere il prossimo è sbagliata; ma ora a chi segue Cristo viene indicata una via del tutto nuova e l'unica reale, che raggiunge l'altro passando per il mediatore.
    «Pietro prese a dirgli: 'Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito'. Rispondendo Gesù disse: 'In verità, vi dico, non c'è nessuno che abbia abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi per amar mio e il vangelo e non riceva il centuplo ora in questo tempo, in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi insieme a persecuzione e nel tempo a venire la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi» (Mc. 10,28-31).
   Gesù qui si rivolge a quelli che sono divenuti degli isolati per amor suo, che hanno lasciato tutto quando egli li chiamò, che possono dire di sé: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito». A costoro viene promessa una nuova comunione. Secondo la Parola di Gesù già in terra riavranno il centuplo di ciò che hanno abbandonato. Gesù qui parla della sua comunità che si ritrova in lui. Chi ha abbandonato il padre per amore di Gesù trova sicuramente un altro padre, trova fratelli e sorelle; e per lui sono pronti persino campi e case. Ognuno entra come singolo al seguito di Gesù, ma nessuno resta isolato seguendo Gesù. A colui che, obbedendo alla sua Parola, osa divenire un isolato viene donata la comunione della comunità. Egli si ritrova in una confraternita visibile, che gli ridà centuplicato ciò che ha perduto. Centuplicato? Appunto perché ora possiede tutto solo tramite Gesù, lo possiede tramite il mediatore; ciò, però, vuol dire «insieme a persecuzione». 'Centuplicato' - «insieme a persecuzione»; ecco la grazia della comunità che segue il suo Signore sotto la croce. Questa è la promessa per chi lo segue: divenire membro della comunità sotto la croce, essere popolo del mediatore, popolo sotto la croce.
    «Erano dunque sulla strada che saliva verso Gerusalemme e Gesù andava davanti a loro; essi erano turbati e quelli che seguivano avevano paura. Allora, presi di nuovo in disparte i dodici, cominciò a dire loro ciò che stava per accadergli» (Mc. 10,32).
Quasi a conferma della serietà della sua chiamata a seguirlo, ed allo stesso tempo dell'impossibilità di seguirlo con le loro forze umane, e della promessa che chi lo segue apparterrà a lui nella persecuzione, Gesù precede sulla via verso Gerusalemme, verso la croce; e turbamento e meraviglia per questa via, sulla quale egli li chiama, afferra quelli che lo seguono.

(Da “Sequela” di Dietrich Bonhoeffer)

 


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