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Notizie 1-15 novembre 2022


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TotalEnergies ed Eni firmano con Israele l’accordo sul giacimento condiviso con il Libano

TotalEnergies ed Eni hanno firmato con Israele un accordo quadro sul giacimento di gas condiviso con il Libano. È quanto si legge in una nota diffusa dal gruppo francese. Il Libano e Israele hanno concluso un accordo il 27 ottobre “per mettere in atto l’intesa sulla frontiera marittima” che assicura la divisione dei giacimenti di gas offshore nel Mediterranei orientale, si legge nella nota.
  Il patto riguarda soprattutto il Blocco 9 dove TotalEnergies ed Eni possono operare in una “prospezione già identificata”. “TotalEnergies come operatore del blocco 9 è fiero di essere associato alla definizione pacifica della frontiera marittima tra Israele e il Libano”, ha detto nel comunicato Patrick Pouyanné, presidente del gruppo francese. “Mobilitando la nostra esperienza nell’esplorazione offshore, risponderemo alla richiesta dei due Paesi di valutare la materialità delle risorse di idrocarburi e del loro potenziale produttivo in questa zona”, ha detto Pouyanné.

(Nova News, 15 novembre 2022)


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Cosa faranno Eni e Total con il gas di Israele e Libano – .

Eni e Total hanno raggiunto un accordo con Israele per esplorare un’area marittima al confine con il Libano alla ricerca di gas. Tutti i dettagli.

Eni e TotalEnergies hanno firmato un accordo con le autorità israeliane per la ricerca di giacimenti di gas naturale al largo delle coste di Israele e Libano, in acque precedentemente contese: uno sviluppo possibile grazie all’accordo sui confini marittimi raggiunto dai due Paesi un mese fa.

• Esplorazione del blocco 9
  Le due compagnie petrolifere – la prima italiana, la seconda francese – detengono rispettivamente il 40 e il 60 per cento del Blocco 9, nelle acque libanesi. Ma l’accordo consentirà loro di espandersi eventualmente all’interno della zona israeliana.

• Preparativi di inizio
  In una dichiarazione, TotalEnergies, l’operatore del Blocco 9, ha spiegato che i preparativi – compresa la mobilitazione di gruppi di ricerca, l’acquisto di attrezzature e l’ottenimento di macchinari per la perforazione – inizieranno immediatamente.

• Volumi e tempi
  Non è ancora chiaro l’ammontare delle riserve di gas contenute nel giacimento di Qana – che si estende tra Libano e Israele ed è gestito da un consorzio guidato da TotalEnergies. Quel che è certo, però, è che ci vorranno anni per estrarli e venderli. Pertanto, non sono di alcun aiuto per l’attuale crisi energetica europea, ma potrebbero rappresentare un bene prezioso in futuro.

• Il campo Karish è attivo
  Il mese scorso, la compagnia petrolifera britannica Energean ha annunciato l’avvio della produzione di gas dal giacimento di Karish nelle acque israeliane.

• L’accordo tra Israele e Libano, in breve
  L’accordo tra Israele e Libano, raggiunto grazie alla mediazione degli Stati Uniti, ha permesso di risolvere una vecchia disputa sulla definizione delle zone economiche esclusive tra i due Paesi – storicamente ostili, che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali – nel Mar Mediterraneo orientale.
  Israele ha concesso al Libano il diritto di trivellare il giacimento di Qana, che si estende tra le due zone economiche: Tel Aviv riceverà una compensazione per gli idrocarburi estratti all’interno della sua area marittima. Beirut, invece, ha rinunciato a rivendicare il vicino giacimento di Karish: Israele, quindi, potrà procedere al suo sfruttamento senza timore di rappresaglie armate da parte di Hezbollah, l’organizzazione politico-militare antisionista libanese appoggiata dall’Iran.

(Italy 24, 15 novembre 2022)

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Tre israeliani uccisi dai terroristi palestinesi ad Ariel

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Questa mattina con un attacco a colpi di coltello nella città di Ariel, tre israeliani sono stati uccisi dai terroristi palestinesi e altri tre ferite. I paramedici dell'IDF, insieme al personale dell'MDA e di United Hatzalah, hanno soccorso le vittime sul posto prima di trasferirle in ambulanza al Beilinson Medical Center di Petah Tikva.
  Una delle vittime, un uomo sulla quarantina, è stata gravemente ferita e in seguito è deceduta a causa delle ferite riportate. Un’altra vittima, all'incirca della stessa età, colpita alla stazione di servizio, è morta a causa delle ferite. Un’altra persona, di circa trent’anni, è stata colpita a morte.
  I tre feriti sono in condizioni critiche o gravi. L'attacco è avvenuto in due siti nella zona industriale di Ariel nella Samaria centrale, quando due terroristi hanno attaccato gli israeliani.
  Un terrorista è fuggito, ha detto un portavoce dell'esercito, ma è stato localizzato dalle forze dell'IDF e neutralizzato. Le forze di sicurezza stanno cercando un secondo terrorista.
  I media dell'Autorità palestinese hanno identificato un terrorista come un 19enne residente nella città di Hares, vicino ad Ariel. Secondo quanto riferito, è allineato con l'organizzazione terroristica Fatah, una fazione all'interno dell'OLP e il partito al governo dell'Autorità palestinese.
  Al terrorista era stato rilasciato un permesso di lavoro che gli garantiva l'ingresso ad Ariel.
  "I cittadini israeliani si sono svegliati in una mattinata dolorosa e difficile", ha detto il primo ministro Yair Lapid. "Uno spregevole terrorista ha compiuto un terribile attacco ad Ariel. A nome del governo israeliano e dello Stato di Israele, invio le mie condoglianze alle famiglie degli assassinati e auguro una pronta guarigione ai feriti".
  L'ambasciatore dell'Unione europea in Israele Dimiter Tzantchev ha twittato: "Triste mattinata perché almeno 3 israeliani sono stati uccisi, e altri feriti, da uno spregevole attacco di speronamento e accoltellamento fuori Ariel. Condanno senza riserve tutti gli atti di violenza. Condoglianze alle famiglie del defunto e auguri di pronta guarigione ai feriti”.

(Shalom, 15 novembre 2022)

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A2A in Israele: accordo di partnership strategica con fondo di VCSIBF

A2A ha firmato recentemente con il fondo di venture capital israeliano ‘Southern Israel Bridging Fund (SIBF)’ un memorandum d’intesa per la valutazione delle reciproche opportunita’ di investimento in start-up, sia italiane che israeliane, in particolare nel settore della transizione ecologica. SIBF e’ un fondo di venture capital con sede a Kfer Saba dedicato alle tecnologie di frontiera e investimenti in start-up e societa’ tecnologiche in Israele e all’estero (in particolare Australia, Svizzera e Stati Uniti). Conta ad oggi 450 milioni di dollari di investimenti e 50 start-up in portafoglio e mira a sostenere la crescita di queste ultime avvalendosi sia di un esteso network di partners nazionali ed internazionali sia di un costante monitoraggio dei processi di accelerazione.
  L’accordo con A2A contribuira’ a creare un legame rafforzato tra l’ecosistema di innovazione israeliano e le attivita’ di innovazione del gruppo italiano, considerato dal fondo una delle aziende protagoniste in Italia nella transizione energetica e l’economia circolare.

(Tribuna Economica, 15 novembre 2022)

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Usa, il dipartimento di giustizia apre un’inchiesta sulla morte di Shireen Abu Akleh. Israele: “Non collaboreremo”

L’indagine segnerebbe un precedente insolito nei rapporti tra i due Paesi

Shireen Abu Akleh
La morte di Shireen Abu Akleh apre un insolito precedente per la diplomazia e per la giustizia Usa. Wshington indagherà su Israele per capire come sia morta la reporter, colpita, secondo report e inchieste indipendenti, da un proiettile partito da una canna israeliana. La morte della giornalista, nata in Palestina, ma naturalizzata statunitense, segna una piccola incrinatura nei rapporti tra i due Paesi. 
  Il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato lunedì che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha avviato un'indagine sull'uccisione della giornalista palestinese-americana di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, condannando l'indagine come un «grave errore» e giurando di non collaborare. Un portavoce del Dipartimento di Giustizia non ha rilasciato commenti e non sono stati forniti dettagli su quando potrebbe iniziare un'indagine e su cosa comporterebbe, né quali potrebbero essere le sue conseguenze. Ma un'indagine dell'FBI sulle azioni israeliane sarebbe un passo insperato nella giusta direzione, sebbene senza precedenti. Un'indagine americana farebbe seguito a mesi di pressioni da parte della famiglia di Abu Akleh e dei legislatori statunitensi, delusi dai risultati inconcludenti di una precedente indagine militare israeliana sulla morte dell'importante corrispondente nel maggio scorso. I sostenitori di Abu Akleh accusano Israele di aver ucciso intenzionalmente la 51enne e hanno sollecitato Washington ad aprire un'indagine completa. Ma un'indagine rischia di mettere a dura prova la solida partnership tra Stati Uniti e Israele, in un momento in cui Israele si prepara a formare il governo più a destra della propria storia, a cui gli Usa guardano con postura più scettica.
  Gantz ha criticato l'apertura di un'indagine del Dipartimento di Giustizia statunitense sull'uccisione di Abu Akleh, affermando su Twitter che Israele ha chiarito agli Stati Uniti che «non coopereremo con alcuna indagine esterna». Gantz, che si appresta a lasciare il suo incarico dopo le elezioni che all'inizio del mese hanno riportato al potere l'ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, era ministro della Difesa quando Abu Akleh è stata uccisa. Palestinese di Gerusalemme, che per un quarto di secolo ha seguito le operazioni israeliane nella Cisgiordania occupata, Abu Akleh era un nome noto per molti arabi del Medio Oriente. La sua morte ha suscitato indignazione in tutto il mondo, accendendo i riflettori sul trattamento riservato da Israele ai palestinesi. I funzionari palestinesi, la famiglia di Abu Akleh e Al Jazeera accusano Israele di aver intenzionalmente preso di mira la reporter veterana. La giornalista indossava un casco e un giubbotto protettivo con la scritta «stampa» quando è stata colpita mentre copriva un raid militare israeliano nel campo profughi di Jenin. A settembre, Israele ha riconosciuto per la prima volta che il fuoco israeliano ha probabilmente ucciso Abu Akleh. Ma l'esercito non ha accettato di assumersi la responsabilità della sua morte, negando vigorosamente le accuse che un soldato l'abbia presa di mira e rifiutandosi di indagare sulle persone coinvolte.
  Anche una precedente valutazione del Dipartimento di Stato aveva stabilito che il proiettile che ha ucciso Abu Akleh era stato probabilmente sparato da una postazione militare israeliana, ma era troppo danneggiato per poterlo affermare con certezza.
  Una serie di indagini indipendenti condotte dalle Nazioni Unite e dai media internazionali, tra cui l'Associated Press, ha rilevato che le truppe israeliane hanno probabilmente sparato quel proiettile. I funzionari del Ministero degli Esteri palestinese non hanno risposto immediatamente alle richieste di commento sull'indagine statunitense. Una portavoce del Primo Ministro israeliano uscente Yair Lapid ha rifiutato di commentare, e anche l'ex Primo Ministro Netanyahu, che dovrebbe tornare a guidare il Paese nelle prossime settimane, non ha avuto commenti immediati. Il fratello di Abu Akleh, Tony Abu Akleh, ha dichiarato ad Al Jazeera che la famiglia è ottimista riguardo alle notizie di un'indagine statunitense, affermando che è «molto importante ritenere i responsabili e prevenire crimini simili. Speriamo che questo sia un punto di svolta nelle indagini sulla morte di Shireen. Speriamo che gli Usa ricorrano a tutti i mezzi investigativi in loro possesso per trovare risposte alla uccisione di Shireen e per consegnare alla giustizia i responsabili di questa atrocità».
  Il Council on American-Islamic Relations ha accolto con favore la notizia dell'indagine, esprimendo la speranza che «la nostra nazione ritenga finalmente Israele responsabile della sua violenza contro cittadini americani, giornalisti e altri civili». Non è insolito che l'FBI o altri investigatori statunitensi conducano indagini su morti o feriti non naturali di cittadini americani all'estero, in particolare se si tratta di dipendenti pubblici. Tuttavia, tali indagini separate non sono la regola ed è estremamente raro che si verifichino in un Paese alleato degli Stati Uniti come Israele, a cui Washington riconosce un sistema giudiziario credibile e indipendente. I gruppi per i diritti umani accusano da tempo l'esercito israeliano di non indagare adeguatamente sulle nefandezze commesse dalle proprie truppe e di ritenerle raramente responsabili. Israele sostiene che le sue indagini sono indipendenti e professionali. 

(La Stampa, 15 novembre 2022)

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Chi sono i nazionalisti integralisti ucraini?

di Thierry Meyssan

Come maggior parte degli analisti e commentatori politici occidentali, anch’io fino al 2014 ignoravo l’esistenza dei neonazisti ucraini. Quando fu rovesciato il presidente eletto vivevo in Siria; credetti si trattasse di gruppuscoli violenti che avevano fatto irruzione sulla scena politica per dare manforte agli elementi filoeuropei. Dopo l’intervento russo ho via via scoperto molti documenti e informazioni su questo movimento politico, che nel 2021 rappresentava un terzo delle forze armate ucraine. In questo articolo presento una sintesi delle mie ricerche.
  Nei primissimi anni in cui ha avuto inizio questa storia, ossia anteriormente alla prima guerra mondiale, l’Ucraina era una vasta pianura da sempre contesa fra l’influenza tedesca e quella russa. All’epoca non era uno Stato indipendente, ma una provincia dell’impero zarista. Era abitata da tedeschi, bulgari, greci, polacchi, rumeni, russi, cechi, tatari e da una forte minoranza ebraica, supposta discendere dall’antico popolo Cazaro.
  Un giovane poeta, Dmytro Dontsov, si appassionò ai movimenti dell’avanguardia artistica, ritenendo che avrebbero potuto far uscire il Paese dall’arretratezza sociale. All’impero zarista, immobile dalla morte della grande Caterina, Dontsov preferì l’impero tedesco, fulcro scientifico dell’Occidente.
  Allo scoppio della Grande Guerra, Dontsov si trasformò in agente dei servizi segreti tedeschi. Emigrò in Svizzera, dove per loro conto pubblicò in diverse lingue il Bollettino delle nazionalità di Russia, incitandovi all’insurrezione le minoranze etniche dell’impero zarista per provocarne il crollo. I servizi segreti occidentali ne adottarono il modello per organizzare, l’estate scorsa a Praga, il Forum dei Popoli Liberi di Russia [1].

(Réseau Voltaire, 15 novembre 2022)

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Ritrovare l’affetto per non perdere la speranza

di Nathan Greppi

Hédi Fried e Stina Wirsén, La storia di Bodri, traduzione di Alessandra Albertari, Einaudi Ragazzi, pp. 32, 13,90 euro

Hédi Fried era ancora una bambina quando il suo mondo, fino ad allora idilliaco, venne lentamente divorato dal sempre più forte antisemitismo nel suo paese natale, la Romania. Un clima di crescente tensione e paura che culminò nel 1944 quando, ventenne, venne deportata con tutta la famiglia ad Auschwitz e a Bergen Belsen, da cui fecero ritorno solo lei e la sorella Livia.
  In quel periodo buio, l’unica luce che teneva accesa la speranza in lei era il suo cane Bodri, che la attese fino alla fine della guerra. Una storia che la donna, oggi residente in Svezia e già autrice di diversi libri sulla Shoah, ha raccontato nel libro per bambini La storia di Bodri, illustrato da Stina Wirsén.
  Il libro racconta la storia di Hédi proprio durante l’infanzia e l’adolescenza in Romania, dove era nata in una famiglia benestante della borghesia ebraica locale (tra l’altro la sua città natale, Sighetu Marmației, è la stessa in cui nacque un altro importante scrittore sopravvissuto alla Shoah, Elie Wiesel). Se all’inizio la sua vita scorreva felice, tra le passeggiate con il cane Bodri e l’amicizia con una sua coetanea cristiana, Marika, l’aria si fece sempre più pesante per gli ebrei nel paese con il passare degli anni, specialmente dopo che con la Seconda Guerra Mondiale arrivarono le truppe tedesche nel paese. Dopo essere stati tutti deportati, mentre i genitori finirono nelle camere a gas, le due sorelle Fried vennero liberate nel luglio 1945, per poi essere portate dalla Croce Rossa in Svezia, dove in seguito la Fried mise radici e cominciò una nuova vita.
  La storia, pubblicata originariamente in svedese nel 2019, viene raccontata con il linguaggio di una ragazzina che però ha vissuto sulla propria pelle esperienze terribili. Nelle illustrazioni vi è un uso magistrale dei colori: ricalcano perfettamente l’andamento delle stagioni, e mettono in contrapposizione il giallo luminoso della casa di famiglia con il grigio e il blu fosco della guerra e dei campi di concentramento.
  La storia di Hédi Fried ci ricorda come anche nei momenti più bui non bisogna mai smettere di cercare la luce in fondo al tunnel, e che anche quando il mondo intero sembra odiarti ci sarà sempre qualcuno capace di amarti.

(Bet Magazine Mosaico, 15 novembre 2022)

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Herzog incarica Netanyahu per il nuovo governo

Ora ha 28 giorni di tempo per formare l'esecutivo

Il presidente Isaac Herzog ha affidato l'incarico di formare il nuovo governo a Benjamin Netanyahu. Netanyahu, nelle consultazioni di Herzog con i partiti, ha ricevuto il sostegno di 64 deputati (su 120 alla Knesset) della sua coalizione di destra ed avrà a disposizione 28 giorni per formare l'esecutivo, più una eventuale proroga di altre due settimane.
  "Il popolo, dopo tante elezioni, ha deciso in maniera chiara e netta per un governo guidato da me", ha detto il premier incaricato subito dopo aver accettato il mandato dal presidente Isaac Herzog.
  "Farò di tutto per un governo stabile che operi a favore di tutti gli abitanti di Israele. Non è una frase fatta ma - ha aggiunto - riflette quello che penso". Netanyahu - riferendosi alle divisioni dell'elettorato e ai timori del centro sinistra - ha sottolineato che "saranno protetti i diritti civili di tutti i cittadini". Netanyahu - che si è detto "emozionato" come 26 anni fa quando per la prima volta ricevette l'incarico - ha spiegato che agirà "sulle sfide che attendono Israele". Ed ha indicato i temi comuni per "intese allargate: Israele Stato-Nazione del popolo ebraico, protezione dei diritti civili di ogni cittadino, lotta al terrorismo, azione contro l'Iran e il suo nucleare diretto contro di noi, la ricerca di altri accordi di pace per mettere fine al conflitto arabo-israeliano come condizione per terminare quello con i palestinesi". "Pace - ha insistito - in cambio di pace".
  "Non sono all'oscuro, ovviamente, del fatto che ci siano procedimenti legali in corso contro Benjamin Netanyahu in Tribunale a Gerusalemme e non lo banalizzo affatto". Lo ha detto il presidente Herzog nel discorso di affidamento dell'incarico per la formazione del nuovo governo a Netanyahu. "Tuttavia - ha aggiunto - è importante notare che la Corte Suprema si è già espressa con chiarezza sulla questione delle incriminazioni pendenti contro un membro della Knesset nominato per il ruolo di formare un governo, in una serie di sentenze - anche con un collegio allargato di 11 giudici - quando il compito di formare un governo è stato assegnato al parlamentare Netanyahu dal mio predecessore, il presidente Reuven Rivlin". "Alla luce di tutto ciò, dopo aver considerato i fatti in conformità con la legge", Herzog ha deciso quindi di affidare il mandato a Netanyahu di formare il governo.
  "Un governo della distruzione". Così 'C'e' futuro', il partito del premier ad interim Yair Lapid ha definito il prossimo esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu. "Oggi è un giorno buio per la democrazia israeliana", ha insistito il partito centrista che, dopo aver attaccato Netanyahu sotto processo a Gerusalemme, lo ha accusato di "star ricattando i suoi complici". "L'obiettivo comune - ha concluso - è di tirarlo fuori dal processo e portare indietro lo Stato di Israele".

(ANSA, 14 novembre 2022)

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Il prefetto ‘blinda’ la Sinagoga di Trieste, l’Esercito anche nelle ore notturne

di Zeno Saracino

A seguito della comparsa della scritta di carattere diffamatorio verso la comunità ebraica redatta sul muro della Sinagoga di Trieste, il prefetto Annunziato Vardè alza il livello di guardia. La sinagoga, occorre ricordare, è la più grande in Italia e già di per sé stessa rimane un obiettivo sensibile, sottoposto a continua sorveglianza. Le misure di difesa pertanto sono già presenti; ora però verranno rafforzate. Il prefetto ha infatti promesso una vigilanza fissa dell’esercito e di una pattuglia speciale dei Carabinieri, oltre a una “intensificazione della vigilanza dinamica”.
  Il provvedimento è stato adottato sabato 12 novembre dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, a seguito del graffito vergato nella ricorrenza della Notte dei Cristalli (Kristallnacht). Lo sconosciuto autore del vandalismo, del quale si sa solo che è un uomo, non è ancora stato identificato, ma proseguono le ricerche a cura della Digos.
  Vardè intanto programma “uno specifico Comitato” per “un approfondimento del complessivo dispositivo di vigilanza a protezione degli obiettivi sensibili ebraici”.

(Triestenews, 14 novembre 2022)

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L’Italia, per la prima volta da tempo, ha votato contro una mozione anti-israeliana all’Onu

di Ugo Volli

• L’Onu contro Israele
  Delle risoluzioni dell’assemblea generale dell’Onu e della sue commissioni contro Israele non varrebbe la pena di parlare, perché si tratta di un fenomeno di inflazione autoreferenziale. C’è una pagina di Wikipedia che elenca le risoluzioni dell’Onu contro Israele: questa. L’elenco comprende 216 risoluzioni dell’Assemblea generale (ma solo fino al 2016, oggi saremmo ben più su); ma cita anche 45 risoluzioni dell’United Nations Human Rights Council (UNHRC), esattamente il 45,1% delle sue deliberazioni; 225 risoluzioni del Consiglio di sicurezza (sempre dall’inizio dello Stato di Israele al 2016). Nella sua settantaseiesima sessione  (2021-22) l’Assemblea Generale ha approvato 14 mozioni contro Israele e una sola a testa sulle situazioni più drammatiche in Iran, Siria, Corea del Nord, Myanmar, e Crimea (qui). Nel 2020 la classifica era stata di 17 mozioni contro Israele e sei contro altri stati (qui). Queste mozioni fortunatamente non hanno nessuna rilevanza pratica servono solo a compiacere i palestinisti e a consolidare l’odio contro lo stato ebraico. Ma si continuano a proporre e a votare.

• Una mozione particolare
  Vale però la pena di parlare di una di queste mozioni, non approvata ancora nell’assemblea generale, dove deve arrivare nei prossimi giorni, ma approvata nel suo quarto comitato (“Politica speciale e decolonizzazione). Essa è “intitolata ‘Pratiche israeliane che ledono i diritti umani del popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est’  (documento A/C.4/77/L.12/Rev.1). Secondo i suoi termini,  l'Assemblea chiederebbe a Israele di cessare tutte le misure che violano i diritti umani del popolo palestinese, compresi l'uccisione e il ferimento di civili, la detenzione arbitraria e l'incarcerazione di civili, lo sfollamento forzato di civili e il trasferimento della propria popolazione nel Territorio Palestinese Occupato, compresa Gerusalemme Est. Farebbe inoltre decidere all'Assemblea di chiedere alla Corte internazionale di giustizia di emettere urgentemente un parere consultivo sulle conseguenze legali derivanti dalla continua violazione da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione, dalla sua prolungata occupazione, insediamento e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967.” Questo è il riassunto pubblicato online dall’Ufficio Stampa dell’Onu, cui naturalmente lascio la responsabilità delle inesattezze e delle vere e proprie falsità di questo testo. Come sempre la proposta è stata approvata con 98 voti a favore, 17 contrari e 52 astensioni. Quel che interessa noi è che l’Italia ha votato contro, insieme ad Australia, Austria, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Ungheria e alcuni stati minori, oltre naturalmente a Usa e Israele. Invece Francia, Svizzera, Svezia, Giappone, India, Danimarca, Spagna si sono astenuti. E, con la solita ipocrisia, hanno votato a favore gli stati arabi che pure chiedono a Israele alleanza militare ed economica come gli Emirati o il Bahrein o il Marocco, ma anche l’Ucraina, che vorrebbe le armi da Israele ma ha votato come la Russia. In Europa, pure Polonia, Portogallo, Irlanda hanno votato contro Israele.

• Una rondine non fa primavera
  Possiamo festeggiare il cambiamento di posizione dell’Italia, che di solito vota sì alle mozioni contro Israele, o si astiene come ha fatto ancora una decina di giorni fa per la mozione che chiedeva che Israele fosse obbligato a disfarsi del suo deterrente nucleare? Sì e no. Il voto contrario a questa mozione è certamente un fatto positivo. Ma sempre nella quarta commissione e nella stessa sessione, l’Italia ha votato sì al prolungamento del mandato dell’URWA (l’agenzia Onu che funge da braccio assistenziale e educativo di Hamas, educando i bimbi palestinesi alla lotta armata) e all’aumento dei suoi fondi, a una mozione che chiede al segretario dell’Onu di occuparsi delle proprietà palestinesi e dei loro redditi (un modo per interferire nelle decisioni dei tribunali israeliani sull’attribuzione di proprietà immobiliari israeliane occupate da arabi); si è poi astenuta su due mozioni che riguardano il Golan e “i territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est”, in cui si imporrebbe a Israele di “desistere da ogni cambiamento fisico, demografico, istituzionale e legale”, e in particolare dalla “colonizzazione” di territori che almeno in parte fanno parte dello Stato di Israele. Nel secondo comitato (Economia e finanza), l’Italia ha votato a favore di una mozione intitolata  “Sovranità permanente del popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e della popolazione araba nel Golan siriano occupato sulle proprie risorse naturali”, oltre a un’altra in cui si chiedono i danni a Israele per bombardamenti in Libano durante l’ultima guerra fra i due paesi. Insomma, non si può proprio dire che l’Italia sia passata dalla parte dei difensori di Israele, anche perché queste votazioni in genere sono coordinate a livello europeo. L’eccezione è stata la votazione contraria alla prima mozione, in cui il fronte europeo si è spezzato. Ma una rondine non fa primavera. Da Meloni e Tajani ci si può attendere una maggiore decisione e coerenza, in particolare in occasione dei prossimi passaggi di queste mozioni nell’Assemblea Generale.

(Shalom, 14 novembre 2022)

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Immunità in rapido declino e di breve durata: Secondo i ricercatori israeliani, è ora di ripensare i richiami dei vaccini COVID

Uno studio israeliano ha concluso che l’immunità di breve durata e il rapido declino (dell’efficacia, ndr) del vaccino COVID-19 di Pfizer BioNTech rendono necessaria la rivalutazione delle future campagne di vaccinazione contro il COVID-19. Da un articolo di The Epoch Times rilanciato da The Defender.

di Sabino Paciolla

Uno studio israeliano ha concluso che l’immunità di breve durata e il rapido esaurimento (dell’efficacia, ndr) del vaccino COVID-19 di Pfizer BioNTech rendono necessaria la rivalutazione delle future campagne di vaccinazione COVID-19.
  Gli autori hanno affermato che, sebbene il vaccino sia stato efficace nel ridurre la morbilità e la mortalità, “il suo effetto relativamente piccolo sulla trasmissibilità dell’Omicron… e il suo rapido esaurimento richiedono una rivalutazione delle future campagne di richiamo”.
  Lo studio, sottoposto a revisione paritaria, è stato pubblicato il 7 novembre su Nature Communications.
  L’analisi retrospettiva ha esaminato l’effetto calante della protezione del vaccino, che secondo gli autori non era stato analizzato a fondo prima d’ora in termini di soglia di ciclo e infettività.
  Il valore di soglia del ciclo indica il numero di cicli necessari a un test di reazione a catena della polimerasi (PCR) per rilevare un virus.
  Il test della PCR è stato ampiamente utilizzato durante la pandemia per determinare se le persone avessero contratto il SARS-CoV-2, il coronavirus che causa la malattia COVID-19.
  La soglia di ciclo è correlata negativamente con la carica virale, che è uno dei principali fattori di infettività. Quindi un valore di soglia di ciclo più alto riflette una minore infettività.
  Lo studio ha confrontato i livelli di soglia del ciclo di individui non vaccinati, vaccinati con due, tre o quattro dosi, con individui guariti dalla COVID-19 e non vaccinati.

• Importanti implicazioni
  Gli autori affermano che, mentre l’efficacia di un vaccino viene solitamente misurata come protezione dall’infezione, dalla malattia clinica o dalla morte, questa definizione trascura il rischio potenziale di trasmissione quando c’è un’infezione.
  Quest’ultimo aspetto ha “importanti implicazioni per la definizione di politiche di salute pubblica volte a ridurre la diffusione dell’agente patogeno”.
  Gli autori affermano che, sebbene l’infettività sia determinata da numerosi fattori difficili da modellare, i valori soglia del ciclo sono una proxy comunemente utilizzata per l’infettività.
  Lo studio ha analizzato i risultati di oltre 460.000 individui con datazione compresa tra il 15 giugno 2021 e il 29 gennaio 2022, che coprono due periodi delle onde Delta e Omicron in Israele.
  Lo studio ha rilevato che il vaccino ha ridotto l’infettività a breve termine durante entrambe le ondate, ma il suo effetto è diminuito rapidamente entro 70 giorni.
  È stato inoltre osservato un tasso di diminuzione significativamente più lento tra le persone che erano guarite dal COVID-19.
  Pfizer non ha risposto a una richiesta di commento.

• Effetto trascurabile
  Gli autori hanno riscontrato che l’infettività delle persone guarite dalla variante Delta di COVID-19 era simile a quella delle persone che avevano ricevuto 2 e 3 dosi al picco della loro protezione virale, da 10 a 39 giorni.
  Durante l’ondata Omicron, le persone che avevano ricevuto una terza dose hanno sperimentato una riduzione dell’infettività per un breve periodo, a un livello simile a quello delle persone guarite da COVID-19.
  Per il resto, le differenze di infettività tra i vaccinati con 2 e 3 dosi e i non vaccinati sono state trascurabili, hanno osservato gli autori.
  In generale, l’effetto del vaccino durante l’ondata Omicron è stato meno pronunciato rispetto all’ondata Delta.
  La quarta dose in Israele è stata somministrata principalmente a persone di età superiore ai 60 anni, pertanto i ricercatori hanno effettuato un’analisi separata di questo gruppo.
  Hanno scoperto che l’infettività ha raggiunto “livelli simili a quelli degli individui guariti, e significativamente più alti di quelli dei non vaccinati, a 2 e 3 dosi… indicando almeno un’efficacia vaccinale a breve termine”.
  I risultati indicano che i vaccini “possono concentrarsi sulla necessità di richiami solo per i gruppi ad alto rischio”, hanno detto gli autori, aggiungendo che se la mancanza di immunità sterilizzante si dimostrerà consistente, “potrebbe avere importanti ramificazioni sulla preparazione globale alle pandemie” e sull’introduzione delle vaccinazioni.

(blog di Sabino Panciolla, 14 novembre 2022)

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Antisemitismo in aumento nelle scuole Usa/ Israele: “Odio più diffuso, va combattuto”

di Chiara Ferrara

I fenomeni di antisemitismo sono in aumento nelle scuole degli Usa. A denunciarlo, come riportato dal The Jerusalem Post, è l’Israeli-American Council (IAC), che un anno fa ha lanciato una iniziativa denominata “School Watch” attraverso cui vengono raccolte proprio le testimonianze degli episodi di cui gli israeliani sono vittime e vengono fatte delle segnalazioni agli istituti affinché si prendano provvedimenti. Il recente bilancio è molto preoccupante.
  Gli studenti e i genitori che hanno sperimentato l’antisemitismo in prima persona sono centinaia. Anche sui social network il fenomeno è sempre più ricorrente. “Non riesco a ricordare l’ultima volta che ci sono stati così tanti casi di adolescenti che hanno usato la parola ‘Hitler‘ nelle scuole pubbliche americane”, ha detto il CEO di IAC, Shoham Nicolet. “L’odio e l’incitamento sono diventati più popolari in giovane età: dobbiamo combatterli. Molti genitori – come i bambini stessi – non comprendono talvolta neanche che ciò che viene detto loro è in realtà antisemita. Gli israeliani americani stanno ancora imparando cosa significa essere una minoranza. È una questione di consapevolezza”.

• I casi denunciati
  I casi di antisemitismo nelle scuole degli Usa che sono stati denunciati all’Israeli-American Council (IAC) sono numerosi. In Colorado alcuni adolescenti hanno minacciato uno studente ebreo affinché indossasse una maschera antigas. Ad essere coinvolti talvolta sono anche i professori. In una scuola della Georgia, un insegnante ha distribuito un foglio contenente delle informazioni sulla crisi idrica del fiume Giordano, mostrando come Israele e gli ebrei rubassero l’acqua: “Gli ebrei hanno letteralmente tolto l’acqua dalle mani dei nostri figli”, c’era scritto. In Massachusetts invece un insegnante di fisica che scritto “Rovescia i colonizzatori, stai con la Palestina” su una lavagna.
  In questo anno dalla sua fondazione, la “School Watch” ha accolto denunce di ogni genere. “Gestiamo ogni richiesta”, ha detto Shoham Nicolet, invitando chiunque sia vittima di questi episodi a rivolgersi all’associazione, anche in forma anonima. 

(ilsussidiario.net, 13 novembre 2022)

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Miriam, un personaggio profetico (4)

di Gabriele Monacis

Il terzo racconto che parla di Miriam, sorella di Mosè, lo troviamo nel capitolo 12 del libro dei Numeri. Questo episodio è in controtendenza rispetto ai primi due visti nel libro dell’Esodo, in cui si vede una Miriam che riesce molto bene nelle sue imprese. Il terzo brano, invece, racconta di un affronto di Miriam all’autorità di Dio e le conseguenze che ne ebbe. Nel capitolo 10 del libro dei Numeri, quindi prima che il triste evento di Miriam accadesse, il popolo parte dal deserto del Sinai, dopo esserci rimasto per poco meno di un anno, per dirigersi verso il deserto di Paran, perché lì si era fermata la nuvola che si era sollevata dal tabernacolo (Numeri 10:11-13). Tramite il movimento di questa nuvola, infatti, il Signore indicava ai figli d’Israele quando partire dal proprio accampamento e quando invece rimanere fermi in un posto. 

    All'ordine dell'Eterno si accampavano e all'ordine dell'Eterno si mettevano in cammino; osservavano il comando dell'Eterno, secondo ciò che l'Eterno aveva ordinato per mezzo di Mosè (Numeri 9:23).

L’accordo tra il Signore e Israele era chiaro. Il popolo avrebbe dovuto seguire le istruzioni che il Signore gli avrebbe impartito tramite Mosè e avrebbe dovuto dirigersi dove il segno visibile della nuvola gli indicava. Durante questo viaggio, il Signore avrebbe condotto il popolo passo passo nel deserto, senza fargli mancare nulla. Avrebbe provveduto ai suoi bisogni di nutrimento, mandando la manna dal cielo ogni mattina per tutto il tempo che Israele avrebbe passato nel deserto. Avrebbe provveduto all’approvvigionamento di acqua lì dove non ce n’era. Avrebbe combattuto contro i nemici di Israele, come fece contro gli egiziani che annegarono nel mar Rosso. Israele, da parte sua, si sarebbe solo dovuto fidare del Signore, ubbidendogli.I patti erano chiari e l’amicizia tra Dio e Israele sarebbe dovuta perdurare a lungo. Senonché,

    il popolo si lamentò e questo dispiacque agli orecchi dell'Eterno; come l'Eterno li udì, la sua ira si accese, e il fuoco dell'Eterno divampò fra di loro, e divorò l'estremità dell'accampamento. Allora il popolo gridò a Mosè; Mosè pregò l'Eterno e il fuoco si spense (Numeri 11:1,2).
Da questi versetti non è chiaro il motivo per cui il popolo si lamentò. Non è neanche molto chiaro che cosa disse il popolo o fece per lamentarsi. Il testo originale di Numeri 11:1 non ci aiuta molto a dare una risposta a queste domande, visto che il verbo ebraico התאונן (hitonen) usato qui e tradotto in italiano con “lamentarsi”, si trova soltanto due volte in tutto l’Antico Testamento: in questo brano e in Lamentazioni 3:39, di cui riportiamo una possibile traduzione: “Perché si lamenta l’uomo vivente? Si lamenti l’uomo dei propri peccati.” Seguendo il principio secondo cui lo strumento migliore per interpretare la Bibbia è la Bibbia stessa, questo versetto di Lamentazioni ci potrebbe aiutare a capire meglio cosa successe quel giorno, quando il popolo si lamentò e l’ira del Signore si accese contro di loro.
  Con la domanda retorica “Perché si lamenta l’uomo vivente?”, la Scrittura in Lamentazioni 3:39 sembra voler dire che, invece di lamentarsi, l’uomo dovrebbe piuttosto chiedersi il perché del suo essere vivo e da qui riconoscere che la vita e la morte di ogni individuo dipendono esclusivamente dal Signore: è Lui che dà la vita all’uomo vivente e lo mantiene in vita. Riconoscere questa verità è una prerogativa di chi vive, visto che i morti non possono più farlo. Quando l’uomo vivente si lamenta, non solo mostra di non riconoscere questa verità, ma contesta anche il modo in cui il Signore svolge il suo operato, cioè di come mantiene in vita l’uomo vivente. Il versetto di Lamentazioni continua. L’uomo, anziché lamentarsi del modo in cui Dio lo mantiene in vita, dovrebbe piuttosto lamentarsi dei propri peccati, cioè di come lui, e non il Signore, conduce la propria vita malvagiamente.
  È possibile che questo sia stato ciò che fece Israele nella circostanza raccontata all’inizio del capitolo 11 dei Numeri: si lamentò del male che aveva, di ciò che non andava. Da notare è che il popolo non si rivolge al Signore per lamentarsi. Si lamenta e basta, senza meglio precisare chi è il destinatario della sua contestazione. E chi dovrebbe essere questo destinatario, se non il Signore che condusse il popolo fin lì? Infatti la Sua ira si accende. Essendosi Egli impegnato con Israele a prendersene cura sotto ogni aspetto, come un padre premuroso fa con i propri figli, la lamentela del popolo fu un attacco bello e buono alla Persona di Dio stesso e al Suo essere Padre. Questa lamentela fu così tracotante che giunse fino al cielo, alle orecchie di Dio: Egli la udì e non ci passò sopra. La Sua ira si accese. Il fuoco dell’Eterno divampò fra il popolo e divorò l’estremità dell’accampamento. 
  Al lettore moderno, questa del Signore potrebbe sembrare una reazione esagerata, visto che quella di Israele potrebbe sembrare un’innocua lamentela. I fatti dimostrano che la reazione di Dio non fu affatto fuori luogo, visto che il Signore raggiunse il suo scopo, cioè mettere fine alla lamentela fine a se stessa. Israele, scosso da quell’ira che lo toccò da vicino, gridò a Mosè. L’ebraico qui usa il verbo צעק (tzaaq). Quello di Israele non fu un grido di paura, come di uno che si spaventa davanti ad un incendio improvviso e grida. Fu bensì il grido di uno che è nel bisogno, immerso dai guai, e chiede aiuto con tutta la voce che ha in corpo. Così Mosè pregò al Signore e il fuoco si spense. La voce di Mosè in preghiera giunse anch’essa alle orecchie del Signore, come la voce del popolo che si era lamentato. Ma la voce di Mosè ebbe l’effetto opposto: attenuò il fuoco del Signore anziché alimentarlo. La voce di Mosè in preghiera placò l’ira del Signore.
  La frase “l’ira del Signore si accese” ricorre per ben tre volte in tutto il capitolo 11 di Numeri: la prima volta è, come appena visto, all’inizio del capitolo; la seconda è nel versetto 10, quando il popolo si lamentò nuovamente, questa volta perché non poteva mangiare manna ogni santo giorno, ma avrebbe voluto anche carne; la terza volta in cui l’ira del Signore si accese è nel versetto 33, quando Egli fa arrivare una montagna di quaglie e le fa cadere in prossimità dell’accampamento, tanto che il popolo raccoglie quaglie per due giorni. Mentre il popolo era tutto preso a raccoglier quaglie e aveva ancora la carne fra i denti senza averla neppure masticata, l’ira del Signore si accende contro Israele e lo colpisce con un gravissimo flagello. Il penultimo versetto del capitolo 11 spiega cosa spinse il popolo a ingozzarsi di carne. Quel luogo fu chiamato Kibroth-Hattaavah perché là seppellirono la gente che si era lasciata prendere dalla concupiscenza (Numeri 11:34).
  Il capitolo 11 dei Numeri si apre e si chiude con l’ira del Signore che si accende. All’inizio il popolo si lamenta e il fuoco del Signore divampa e divora una parte dell’accampamento. Alla fine, il popolo si ingozza di carne e la loro concupiscenza miete vittime, poi sepolte. La lamentela e la concupiscenza sono simili: sono entrambe un difetto di vista. La prima fa vedere tutto nero, tutto che non va; la seconda non fa vedere altro che l’oggetto che viene concupito, il resto è come se non esistesse. La lamentela all’inizio e la concupiscenza alla fine, furono per il popolo una forma di cecità spirituale che gli impedì di vedere Dio all’opera e quindi di fidarsi di Lui.
  In questo contesto, di sfiducia nei confronti di Dio da parte del popolo e di ira, da parte di Dio, nei confronti del popolo, si inserisce un nuovo racconto che la Scrittura dedica a Miriam. Riportiamo qui i primi due versetti del capitolo 12 dei Numeri.
    Miriam e Aaronne parlarono contro Mosè a causa della moglie Cusita che aveva preso; poiché aveva sposato una Cusita. E dissero: “L'Eterno ha parlato soltanto per mezzo di Mosè? non ha parlato anche per mezzo nostro?”. E l'Eterno l'udì.
In questo capitolo c’è una pausa narrativa. Il racconto del viaggio di Israele verso la terra promessa si interrompe per lasciare spazio ad un fatto che riguarda i tre fratelli alla guida del popolo. Miriam, Aaronne e Mosè sono in conflitto. Solo in apparenza questo è un dissenso circoscritto a questa famiglia, come ce ne sono tanti. In realtà, Dio in persona è coinvolto in questa brutta faccenda. 
  Non è chiaro chi fosse la moglie di Mosè di cui si parla in questi versetti: probabilmente Zippora, che Mosè aveva sposato quando era in terra di Madian dopo essere scappato dall’Egitto; o forse un’altra moglie avuta successivamente. Il termine “cusita” attribuito a questa donna viene dal nome Cush, il primo dei figli di Cam, secondogenito di Noè. È comunemente accettato che il paese di Cush sia da identificare con il territorio a sud dell’Egitto che comprendeva anche l’odierna Arabia. Un versetto del profeta Geremia fa intendere che il colore della pelle delle popolazioni che vivevano nella zona di Cush era diverso da quello dei figli d’Israele, verosimilmente più scuro. “Può un Cusita cambiare la sua pelle o un leopardo le sue macchie?” (Geremia 13:23a).
  Mosè, dunque, si era preso una moglie cusita, ma Miriam non era contenta di questa scelta, tanto che parlò contro di lui, e si portò dietro anche suo fratello Aaronne, da brava capofila qual era. Secondo la traduzione italiana della prima frase del versetto, sia Miriam che Aaronne parlarono contro Mosè. Ciò non corrisponde esattamente all’ebraico, in cui il soggetto del verbo “parlare” è solo Miriam. È comunque chiaro che Aaronne fosse dalla parte di sua sorella. Due fratelli contro uno, insomma, con Mosè lasciato solo. Almeno così pare all’inizio. 
  Il testo non chiarisce del tutto quale fosse il problema che Miriam trovava nella moglie di Mosè. Ma il testo fa capire che l’origine cusita di lei non le andava a genio. Forse era proprio il colore della pelle scura che non piaceva a Miriam. Ciò che sorprende maggiormente, però, è lo scarto che emerge tra l’oggetto della disputa nel primo versetto, cioè la moglie cusita di Mosè, e nel secondo il senso delle parole di Miriam e Aaronne, che mettono in dubbio l’autorità del loro fratello. Il loro dire si potrebbe riformulare così: “Chi sarà mai questo Mosè, che l’Eterno ha scelto per parlare al popolo? Non ha Egli parlato anche per mezzo nostro?”.
  Le parole dette rivelano molto di ciò che una persona ha in cuore, molto più di quanto facciano i pensieri inespressi. La moglie di Mosè e la sua origine cusita sembrano piuttosto un pretesto che Miriam e Aaronne usano per mettere in discussione l’autorità di Mosè. E siccome Mosè è colui che Dio ha scelto per guidare il popolo, in realtà l’autorità messa in discussione non è quella di Mosè, bensì quella di Dio. A detta loro, Mosè non sembra meritare la posizione che ha agli occhi dell’Eterno, visto che si è preso una moglie straniera. “Noi che certe cose non le facciamo – sembrano dire – non saremmo più meritevoli di lui di ricevere l’autorità che il Signore gli dà? Anche noi, come lui, siamo Suoi profeti!”.
  In realtà, Mosè è una scelta di Dio. Il merito non c’entra niente. È Dio che si è scelto Mosè per parlare al popolo. È Dio che decide di placarsi quando è Mosè, e nessun altro, a supplicarlo. Mosè va ascoltato e seguito non perché dimostra di essere più capace degli altri, ma semplicemente perché dietro quest’uomo c’è Dio stesso e le parole di Mosè hanno la più alta autorità perché sono Parola di Dio, e non di uomo. La vera natura della posizione di Miriam contro Mosè, dunque, è ribellione contro Dio, contro ciò che Egli fa e il modo in cui lo fa. Un po’ come il popolo di Israele quando, partito dal Sinai, si lamentò che le cose andavano male: quella lamentela era un affronto a Dio e al suo modo di essere. Sia nel caso di Miriam che in quello di Israele, la Scrittura rivela che il Signore udì quelle parole, tanto arroganti da arrivare fino alle Sue orecchie. Anche con Miriam, come con Israele, il Signore non ci passa sopra: decide così di scendere e parlare con i diretti interessati. Le premesse non promettono nulla di buono.

(4. continua)

(Notizie su Israele, 13 novembre 2022)


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Netanyahu è tornato. Ecco le sfide che lo attendono

Netanyahu ha a lungo vantato le sue doti diplomatiche. Questa esperienza sarà sicuramente utile al nuovo primo ministro. Ecco alcune delle sue sfide

di Lahav Harkov

Nel caso (probabile) in cui Benjamin Netanyahu dovesse tornare a ricoprire la carica di Primo Ministro nelle prossime settimane, lo farà con un’esperienza di gran lunga superiore a quella di chiunque altro sia in lizza per la premiership.
  Netanyahu si è a lungo vantato le sue doti diplomatiche, presentandosi in campagna elettorale nel 2019 come “di un altro livello” negli affari esteri e ripetendo spesso nell’ultimo anno e mezzo, mentre era leader dell’opposizione, di poter gestire i legami di Israele con il mondo molto meglio del governo in carica.
  Questa esperienza sarà sicuramente utile al nuovo primo ministro, che avrà un’agenda diplomatica completa fin dal primo giorno. In effetti, le questioni si stanno già accumulando, anche prima che Netanyahu sia stato formalmente incaricato di formare un governo. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha chiesto a Netanyahu di cambiare l’approccio di Israele alla guerra nel suo Paese e i funzionari americani hanno espresso la loro preoccupazione per la nomina a ministro del leader di Otzma Yehudit Itamar Ben-Gvir.
  Ecco alcune delle sfide diplomatiche che attendono il probabile governo Netanyahu.

• Il fattore Ben-Gvir
  L’apprensione internazionale per Ben-Gvir è stata gonfiata a dismisura dai media.
  Non si tratta di fake news: il ministro degli Esteri emiratino e i membri del Congresso degli Stati Uniti hanno davvero avvicinato Netanyahu prima delle elezioni. Il presidente Isaac Herzog questa settimana è stato davvero colto al microfono mentre esprimeva la sua sincera preoccupazione ai deputati di Shas MKs.
  Tuttavia, come ha detto una fonte diplomatica americana questa settimana, gli americani non pensano che “entrare in scena”, facendo un grande polverone pubblico su Ben-Gvir, possa aiutare in alcun modo. Washington intende dare a Netanyahu il tempo necessario per formare un governo, per capire se c’è un’alternativa senza Ben-Gvir o un modo per metterlo da parte.
  L’ambasciatore statunitense Tom Nides ha già esperienza di questa situazione, essendo stato vicesegretario di Stato sotto Hilary Clinton, mentre lei si teneva per lo più a distanza da Avigdor Liberman, all’epoca ministro degli Esteri e considerato un estremista da Washington.
  Andando più indietro nella storia di Israele, l’ex primo ministro Ariel Sharon era considerato nelle capitali straniere un estremista e persino un criminale di guerra, ma ha ricoperto diversi incarichi ministeriali di alto livello, tra cui quello di ministro degli Esteri per un breve periodo, prima della sua elezione a primo ministro quasi 20 anni dopo il massacro di Sabra e Shatila.
  Ben-Gvir non ricoprirà una posizione altrettanto elevata. E sebbene il portafoglio di sicurezza pubblica da lui desiderato sia influente, non richiede molti contatti diretti con funzionari stranieri.
  È improbabile che l’approccio americano sia il boicottaggio di Ben-Gvir. È più probabile che si tratti di tattiche per evitarlo combinate con un’articolazione di specifici disaccordi politici con Netanyahu.
  Nel frattempo, Nides ha dichiarato a KAN Reshet Bet di volere uno stretto rapporto di lavoro con Netanyahu: “Questo è un Paese che è una democrazia, che ha eletto il suo governo, e io intendo lavorare con loro”, ha detto giovedì.
  Il resto del mondo sembra adottare un approccio simile all’attesa, anche se le vignette politiche dei media arabi dimostrano che c’è una certa ansia in Medio Oriente.
  Biden e Bibi sono “amici” – fino a un certo punto
  Anche se l’amministrazione Biden troverà un modo per aggirare Ben-Gvir e lavorare in modo produttivo con Israele, ci sono altri probabili punti di contrasto.
  Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Netanyahu si conoscono da molto tempo, da quattro decenni, quando il primo era un giovane senatore e il secondo era vice ambasciatore a Washington. Una volta Biden ha detto, in un periodo di grandi attriti tra Netanyahu e l’amministrazione Obama sull’Iran, che sono “ancora amici”.
  Ma questa relazione di lunga data, e persino l’amicizia, non impedirà a Washington di esprimersi se questo governo perseguirà politiche che il Partito Sionista Religioso e gran parte del Likud favoriscono per quanto riguarda la Giudea e la Samaria.
  Il leader del RZP MK Bezalel Smotrich, ad esempio, ha chiesto nei colloqui di coalizione l’impegno del governo a compiere passi verso l’estensione della sovranità israeliana sugli insediamenti, trasferendo l’autorità dell’IDF su di essi ai ministeri governativi competenti. Inoltre, è favorevole all’autorizzazione degli avamposti e all’abrogazione del disimpegno dalla Samaria settentrionale, tra le altre cose che l’amministrazione Biden contesterebbe vigorosamente.
  Alla domanda su una spinta all’annessione da parte del probabile governo entrante, Nides ha detto che Washington “si opporrà a qualsiasi tentativo di annessione. Non sosteniamo l’annessione”.
  Qualsiasi mossa su questo fronte porterà condanne da tutto il Medio Oriente e anche dall’Europa.

• Affrontare un Iran senza accordo
  Un settore in cui Netanyahu potrebbe avere meno problemi di quanto previsto con Washington, Londra, Parigi e Berlino – ma soprattutto con Washington – è l’Iran.
  Netanyahu si è opposto a gran voce all’accordo nucleare iraniano nel 2015 e, dal giugno 2021, si è lamentato del fatto che il governo non abbia reso pubbliche come lui le sue remore nei confronti dei colloqui delle potenze mondiali con la Repubblica islamica per rilanciare l’accordo.
  In difesa del governo uscente, si è scelto di essere aperti sulle proprie obiezioni in un momento chiave e su questioni che hanno finito per essere punti critici nei negoziati, come la rimozione della designazione del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche come gruppo terroristico, che Biden ha rifiutato di fare, e il rifiuto dell’Iran di cooperare con le indagini dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Queste questioni, soprattutto la seconda, hanno contribuito a ritardare di mesi i colloqui, così come la guerra in Ucraina, perché la Russia è un garante dell’accordo con l’Iran.
  Ora, sembra che l’accordo sia in gran parte morto, con gli Stati Uniti e l’Iran incapaci di raggiungere un accordo finale. Come sanno i fan de “La principessa sposa“, “per lo più morto” significa “leggermente vivo”, ma almeno per ora l’amministrazione Biden ha riconosciuto che l’accordo è fuori discussione.
  Ciò significa che Netanyahu non deve condurre una campagna pubblica contro la politica iraniana dei principali alleati occidentali.
  Ma non significa che Netanyahu non farà una campagna pubblica sull’Iran. Il programma nucleare della Repubblica islamica è più avanzato che mai e il regime dei mullah continua a nasconderne i dettagli all’AIEA. È probabile che il presunto primo ministro cerchi di convincere il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro britannico Rishi Sunak a “riportare” le sanzioni all’Iran ai livelli precedenti al 2015, come possono fare le parti dell’accordo del 2015 che non lo hanno abbandonato – cosa che gli Stati Uniti hanno fatto nel 2018. Più in generale, Netanyahu cercherà di convincere il mondo ad ammettere che la diplomazia ha fallito e a trovare altri modi per reprimere Teheran, compresa una minaccia militare credibile.
  Due eventi in corso probabilmente lo aiuteranno a raggiungere il suo obiettivo. In primo luogo, le proteste in corso in tutto l’Iran, che hanno suscitato una certa reazione occidentale contro il regime oppressivo. In secondo luogo, il sostegno e la vendita di armi dell’Iran alla Russia nella guerra contro l’Ucraina, che dimostrano quanto gli israeliani hanno sostenuto negli ultimi dieci anni: L’Iran non è solo una minaccia solo per Israele, è una minaccia per il mondo.

• Un cambiamento nella politica sull’Ucraina?
  Un’altra area in cui Netanyahu ha criticato l’ultimo governo è stata la sua gestione della guerra in Ucraina – fino a quando non è diventato chiaro il coinvolgimento dell’Iran. A quel punto, la politica sull’Ucraina è diventata una delle poche aree in cui Netanyahu ha espresso sostegno al governo.
  All’inizio, Netanyahu ha detto che Israele non aveva bisogno di schierarsi. Dopo tutto, Netanyahu è stato l’artefice del meccanismo di deconfliction con Mosca, che ha permesso a Israele di colpire obiettivi iraniani in Siria nonostante la presenza militare russa. Non ha voluto rischiare. Ha accusato il Primo Ministro Yair Lapid e il Ministro della Difesa Benny Gantz di “blaterare” troppo sull’argomento e di creare una “crisi”.
  Mentre Israele ha votato la condanna della Russia alle Nazioni Unite e ha fornito aiuti umanitari all’Ucraina, il governo non ha mai fornito aiuti militari, nonostante le continue richieste di sistemi di difesa aerea da parte di Kiev, a causa del meccanismo di deconfliction.
  Poi sono arrivate le rivelazioni che Mosca stava usando droni iraniani contro Kiev e che l’IRGC stava addestrando i russi.
  Netanyahu ha cambiato sottilmente il modo in cui ha parlato dell’Ucraina, quando ha rilasciato una serie di interviste ai media statunitensi per promuovere la sua nuova autobiografia il mese scorso. Ha detto a USA Today che avrebbe “preso in considerazione” la possibilità di fornire armi all’Ucraina e di mediare tra Kiev e Mosca. Ma alla MSNBC, Netanyahu ha espresso la preoccupazione che le armi israeliane possano finire in mani iraniane se utilizzate nella guerra in Ucraina, pur lodando l’attuale politica come “prudente”.
  Questa settimana, Gantz ha dichiarato che Israele non ha la capacità di produrre abbastanza sistemi di difesa aerea per aiutare l’Ucraina, un Paese il cui territorio è 11 volte più grande di quello di Israele.
  Quando entrerà in carica, Netanyahu dovrà sicuramente esaminare le implicazioni del fatto che l’Iran stia testando le sue armi in Ucraina e minacci di rivolgerle contro Israele.

(Rights Reporter, 12 novembre 2022)

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Tenere Bibi al centro

Domenica Bibi riceverà l'incarico per il nuovo esecutivo, il sesto guidato da lui. Sarà composto da un'alleanza estremamente conservatrice che comprende, oltre al Likud, i partiti più a destra e con una grande connotazione religiosa.

Domenica Benjamin “Bibi” Netanyahu riceverà l’incarico per formare il nuovo governo di Israele, il sesto guidato da lui. Il presidente Isaac Herzog ha detto in un comunicato: “Alla fine delle consultazioni, 64 membri della Knesset hanno raccomandato alla presidenza di indicare come capo del governo il presidente del Likud Benjamin Netanyahu”. Altri 28 parlamentari hanno indicato il premier uscente, Yair Lapid, come primo ministro e gli altri non hanno dato indicazioni (la Knesset ha 120 parlamentari). Netanyahu ha ottenuto 32 seggi alle elezioni del primo novembre, Lapid 24 e la coalizione Sionismo religioso è arrivata terza con 14 seggi.
  Bibi ha 28 giorni per formare il governo dopo aver ricevuto formalmente l’incarico e con tutta probabilità, stando anche alle dichiarazioni fatte in campagna elettorale e dopo il voto, sceglierà di formare una coalizione con Sionismo religioso e altri due partiti ultraortodossi, Shas e Giudaismo unito nella Torah, che hanno ottenuto 11 seggi. Tra i nuovi partner di Netanyahu c’è il controverso Itamar Ben-Gvir, che potrebbe ottenere un ministero (lui vorrebbe la Pubblica sicurezza) e che, come ha detto anche il presidente Herzog, “preoccupa il mondo” perché è un ultranazionalista che faceva parte dell’ala giovanile del movimento Kach che è considerato un’organizzazione terroristica da parte degli Stati Uniti. 
  Da anni Netanyahu lavora e collabora con i partiti più a destra di Israele con una grande connotazione religiosa e con un consenso in aumento degli elettori. L’alleanza che si prospetta oggi è la più conservatrice possibile e questo preoccupa il mondo, tanto che alcuni, come l’Economist, dicono a Lapid di sparigliare e di aprire un dialogo di governo con Netanyahu, per tenere il Likud, Netanyahu e quindi Israele, ancorato al centro, cosa che potrebbe essere decisiva non soltanto per il futuro del paese ma anche per gli equilibri regionali e del resto del mondo.

Il Foglio, 12 novembre 2022)

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Israele-Ue, nuove vie di incontro

Bisognerà attendere il nuovo governo israeliano per sapere quali rapporti si instaureranno tra Gerusalemme e i vertici europei di Bruxelles. Le relazioni politiche - seppur per Israele l'Ue rappresenti il principale partner commerciale - non sempre sono state semplici.
  A lungo ad esempio non si è tenuta la riunione del Consiglio di associazione UE-Israele, il principale forum di dialogo tra le due realtà per confrontarsi su questioni di scienza, economia, energia e ambiente. Per dieci anni il Consiglio non si è riunito, fino alla decisione del Primo ministro uscente Yair Lapid di far ripartire la clessidra a inizio ottobre scorso. Sul tavolo del meeting, spiegava una nota diramata dall'Ue, discussioni di ampio respiro sulle relazioni bilaterali, nel contesto di sfide mondiali come l'aggressione militare della Russia all'Ucraina, la crisi energetica globale e la crescente insicurezza alimentare. "Per noi è importante rilanciare questa forma di dialogo politico ad alto livello tra l'Unione europea e Israele. È il modo migliore per dialogare con franchezza su molte questioni di interesse reciproco e, in particolare, sul processo di pace e la stabilità nella regione del Medio Oriente in generale. - ha dichiarato a margine della riunione Josep Borrell, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza - Sulla scena internazionale, dobbiamo lavorare insieme per affrontare le sfide globali e, di recente, la brutale aggressione russa nei confronti dell'Ucraina. Oggigiorno la cooperazione tra democrazie è più che mai cruciale".
  Di collaborazione e cooperazione hanno parlato anche i rappresentanti israeliani. "Di fronte alle enormi sfide a livello regionale e globale, è opportuno unire le nostre forze per mantenere lo slancio e infondere una nuova dinamica nelle relazioni UE-Israele", le parole dell'ambasciatore israeliano a Bruxelles Haim Regev. "Oggi più che mai è indispensabile che il nostro partenariato si rafforzi, poiché le sfide che dobbiamo affrontare non sono mai state così grandi. Il cambiamento climatico, la crisi energetica, la lotta contro la pandemia e una guerra che si svolge proprio alle porte dell'Europa hanno messo alla prova il mondo libero e democratico. - ha dichiarato Regev a margine dell'incontro -.
   Nel frattempo le minacce del passato non sono scomparse. Un regime estremista radicale e i suoi alleati cercano di destabilizzare il Medio Oriente e di acquisire influenza in tutta la regione. Armando e finanziando Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica, il regime iraniano fa di tutto per spegnere ogni speranza di stabilità e pace. Di fronte a queste enormi sfide, l'Unione europea e Israele si sono avvicinati". Temi di sicurezza dunque, senza tralasciare la questione dei negoziati con i palestinesi, su cui le posizioni non hanno trovato punti di contatto e con l'auspicio di Bruxelles di una riapertura dei negoziati. Un orizzonte molto difficile da vedere. Non così per un rilancio sulla collaborazione nel settore dell'energia: il giacimento Karish, hanno dichiarato le autorità israeliane, potrebbe dare un contributo per rifornire l'Europa in questo momento di bisogno.

(Pagine Ebraiche, novembre 2022)

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La Turchia nomina un ambasciatore in Israele dopo quattro anni

Si tratta di Sakir Ozkan Torunlar, già console generale della Turchia a Gerusalemme tra il 2010 e il 2014

La Turchia compie un nuovo passo verso la normalizzazione delle relazioni con Israele nominando un ambasciatore dopo quattro anni di gelo diplomatico. Sakir Ozkan Torunlar, già console generale della Turchia a Gerusalemme tra il 2010 e il 2014, è stato ufficialmente nominato ambasciatore nello Stato ebraico con un decreto presidenziale emanato ieri sera.
  Classe 1960, originario della città costiera di Mersin, Torunlar è entrato nel corpo diplomatico nel 1983, parla inglese e francese, e ha servito precedentemente come ambasciatore in Bangladesh dal 2008 al 2010 e in India dal 2018 al 2021. Vale la pena ricordare che Ankara aveva ritirato il suo rappresentante diplomatico in Israele nel maggio 2018, espellendo a sua volta l’inviato israeliano per protesta contro le operazioni militari israeliane nei territori palestinesi.
  I legami tra i due Paesi si erano inaspriti dopo che il leader turco Recep Tayyip Erdogan aveva criticato i precedenti governi guidati dal conservatore Benjamin Netanyahu. Tuttavia, il capo dello Stato turco ha inviato una lettera di congratulazioni a Netanyahu, leader del partito Likud, dopo la vittoria alle elezioni tenutesi all’inizio di questo mese.

(Nova News, 12 novembre 2022)

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Sinagoga a Catania: dopo 500 anni rinasce la comunità ebraica al Castello di Leucatia

di Valentina Friscia 

Castello di Leucatia
Lo scorso 28 ottobre è stata inaugurata presso il Castello di Leucatia la prima sinagoga a Catania da Napoli in giù. Diventerà il luogo di culto per la comunità ebraico-catanese che ha ben accolto l’arrivo in città della delegazione di Washington con in dono la Torah.
  Il 1492 fu l’anno in cui con l’Editto di Granada venne avviata una grave e profonda lacerazione tra gli ebrei di tutte le comunità, presenti non solo nella penisola iberica. Grazie al Pentateuco dei Cristiani, oggi Catania dopo più di 500 anni può tornare ad avere una sinagoga con tutte le sue funzioni liturgiche.
  Il rabbino capo della Comunità di Washington, rav Smuel Hertfield, è stato ben accolto da una grande presenza internazionale, istituzionale e di curiosi. La Sefer Torah è giunta al Castello di Leucatia dopo una processione partita da via Antinori, poi accolta presso il secondo piano del famoso castello di proprietà del Comune. Ricordiamo che anticamente il castello ospitava famiglie ebraiche e che l’ultimo proprietario, l’industriale Mioccio, donò il maniero gotico alla figlia che poi si suicidò gettandosi nel vuoto.
  Si è trattata di una gran giornata di festa per gli ebrei catanesi che finalmente hanno un luogo dove pregare e riunirsi. Purtroppo, però, l’UCEI non riconosca a oggi la comunità ebraica catanese. I rabbini che guideranno le preghiere nella neo sinagoga, infatti, dovranno essere autorizzati e chiamati direttamente da Israele.

• UCEI e comunità ebraica di Catania: prime contestazioni
  L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), infatti, è venuta a conoscenza della riapertura della sinagoga a Catania grazie all’invito da parte del segretario Bet Kenesette della Comunità Ebraica locale, Baruch Triolo, che ha annunciato il grande evento. Peccato che, secondo lo Statuto dell’Ebraismo italiano, è l’UCEI l’unico soggetto che può istituire una nuova Comunità Ebraica nel territorio italiano, previo decreto del Presidente della Repubblica e parere del Consiglio di Stato.
  Nasce così una contestazione da parte dell’UCEI per l’apertura della sinagoga a Catania. Pare infatti che non sia stata redatta e presentata alcuna richiesta per la sua costituzione. Per il segretario Baruch Triolo c’è solo stata poco intesa: si augura che, dopo essersi incontrato con l’UCEI, la nuova realtà ebraico-catanese potrà nascere ed evolversi.

(it.Catania, 12 novembre 2022)

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Dagli Usa alla Tuscia alla ricerca delle proprie radici…

Lettera al direttore di Tuscia Web

Civita di Bagnoregio
Gentile direttore,
la famiglia Servi, di nazionalità statunitense ma con origini italiane, sta percorrendo a piedi un itinerario che collega Orvieto al Mar Tirreno passando per Bagnoregio, Ischia Di Castro, Pitigliano. Proprio in quest’ultima cittadina, non a caso conosciuta come la “Piccola Gerusalemme”, è stata celebrata il 26 ottobre presso la Sinagoga una cerimonia in memoria del padre Italo Salomone Servi, scomparso nel 2020.
Sfuggito alle persecuzioni razziali del 1943 e in seguito emigrato negli Stati Uniti per completare i suoi studi al Mit, Italo Servi ha sempre portato nel cuore l’Italia e in particolar modo Pitigliano. Qui ha infatti avuto origine la sua famiglia e il museo ebraico lo ricorda con una targa a lui dedicata.
Nell’ultimo decennio il viaggio a piedi ha riscosso crescente popolarità, soprattutto grazie alla riscoperta delle antiche vie di pellegrinaggio come il Cammino di Santiago in Spagna e la Via Francigena in Italia. La filosofia del viaggio lento sta portando migliaia di turisti ad abbandonare le comodità di automobili e aerei per indossare zaino e scarpe da trekking alla scoperta non solo di storia e paesaggio ma anche di se stessi e delle proprie origini.
Un pellegrinaggio non solo religioso ma che segue nei territori della Tuscia un intreccio di percorsi attraverso la storia etrusca, romana, medievale e moderna e che oggi sta destando interesse fin oltre oceano.
Virginio Corsi

(Tusciaweb, 12 novembre 2022)

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Herzog, domenica mandato a Netanyahu per governo

Il Presidente lo ha convocato per domenica

 Il presidente Isaac Herzog ha annunciato che incaricherà Benjamin Netanyhu di formare il nuovo governo israeliano. Netanyahu - secondo l'ufficio di Herzog - sarà ricevuto domenica prossima per avere l'incarico formale.    
   L'annuncio di Herzog è avvenuto al termine delle audizioni dei partiti nella nuova Knesset. Per Netanyahu si sono espressi 64 deputati su 120 alla Knesset.
  A favore di Yair Lapid, attuale premier ad interim e capo del precedente blocco anti Netanyahu, si sono invece espressi 28 deputati mentre altri 28 non hanno dato indicazione. Herzog ha concluso le consultazioni con i partiti usciti dal voto del 1 novembre sentendo oggi i Laburisti. Netanyahu - dal momento della formalizzazione del mandato domenica prossima - avrà a sua disposizione 28 giorni di tempo per impostare il governo. In caso di difficoltà potrà contare, una volta avuto il via libera da Herzog, su altri 14 giorni. Ma sono molte le previsioni secondo cui Netanyahu farà in fretta il suo esecutivo.

(ANSA, 11 novembre 2022)
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L’ambasciatore statunitense in Israele respinge l’ipotetica annessione della Cisgiordania da parte del futuro governo israeliano

L’ambasciatore statunitense in Israele, Tom Nides, ha respinto giovedì un’ipotetica annessione totale o parziale della Cisgiordania da parte del futuro esecutivo israeliano, guidato dal Likud e nel quale l’estremista Otzma Yehudi potrebbe giocare un ruolo rilevante.
  «La nostra posizione è molto chiara: non sosteniamo l’annessione. Ci opporremo a qualsiasi tentativo in tal senso», ha sottolineato Nides durante un’intervista all’emittente pubblica Kan, riportata dal Times of Israel.
  Nonostante ciò, ha dichiarato di essere neutrale riguardo alla posizione di Washington sul nuovo gabinetto israeliano, che deve ancora essere formato, assicurando che non farà «dichiarazioni draconiane» per confondere la situazione.
  «Vogliamo vedere, retoricamente, cosa dicono e come agiscono. A questo punto il governo non è nemmeno formato (quando lo sarà), determineremo quali colloqui potranno avere luogo», ha dichiarato il diplomatico statunitense, come riportato dal Jerusalem Post.
  I commenti di Nides arrivano dopo che Yariv Levin, deputato del Likud, ha dichiarato, dopo il suo incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog, che l’annessione della Cisgiordania è sul tavolo e nell’agenda del futuro governo.
  Lo stesso Herzog ha dichiarato mercoledì che «tutti» sono preoccupati per il possibile ruolo nel governo del deputato di estrema destra Itamar Ben Gvir, che ha chiesto di essere messo a capo del Ministero della Pubblica Sicurezza come parte del suo sostegno al Likud.
  Herzog, le cui parole sono state catturate da un microfono aperto durante un incontro, ha detto che «c’è una questione di cui non vuole parlare perché non vuole mettere in imbarazzo nessuno». «Avranno un problema con il Monte del Tempio», ha detto, usando il nome ebraico della Spianata delle Moschee.
  Ben Gvir, leader dell’estremista Otzma Yehudi, è stato accusato in passato di incitare alla violenza e di alimentare le tensioni con i palestinesi. Il deputato ha fatto numerose visite alla Spianata delle Moschee ed è favorevole a permettere agli ebrei di pregare in questo sito, attualmente vietato.
  Se nominato Ministro della Pubblica Sicurezza, Ben Gvir sarà responsabile delle operazioni di sicurezza alla Spianata delle Moschee nella Città Vecchia di Gerusalemme, epicentro delle tensioni degli ultimi mesi tra israeliani e palestinesi che protestano contro le violazioni dello status quo nel sito.

(News360, 11 novembre 2022)

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Come l’accordo Libano – Israele può condizionare tutta la regione

Quali conseguenze positive può avere l'accordo Libano - Israele su tutta la regione mediorientale e sul bacino del Mediterraneo

di Gabriel Mitchell 

Nell’ultimo decennio, i politici hanno sostenuto che i giacimenti di gas naturale offshore del Mediterraneo orientale potrebbero contribuire a sostenere gli sforzi dell’Europa per liberarsi dagli idrocarburi russi. Ma le dispute marittime tra gli Stati del Mediterraneo orientale per l’accesso a queste risorse – e i dubbi sulla fattibilità di diversi progetti grandiosi – hanno smorzato l’interesse commerciale.
  Queste ipotesi sono state momentaneamente sospese quando Israele e Libano hanno finalizzato un accordo sui confini marittimi dopo 12 anni di sforzi interrotti e ripresi diverse volte. Con la mediazione di Washington, le parti hanno raggiunto termini che consentono a entrambi di sfruttare le ricchezze del mare e di incoraggiare gli investimenti stranieri. Per due Stati che condividono una lunga storia di violenza, rancore e sfiducia, si è trattato di un risultato significativo.
  La disponibilità al compromesso di Israele e Libano potrebbe mettere in moto un effetto domino che sblocchi lo sfruttamento degli idrocarburi della regione? E potrebbe accadere abbastanza rapidamente da aiutare l’Europa ad affrontare i suoi attuali problemi energetici? Israele e Libano non sono certo le uniche parti in lite della regione. La Grecia e la Turchia hanno una disputa marittima pluridecennale e il conflitto di Cipro ha anch’esso una dimensione marittima.
  La combinazione di incentivi, tempismo e mediazione efficace che ha funzionato per Israele e Libano sarà difficile da replicare. Tuttavia, il loro percorso verso il compromesso, in particolare la decisione di abbandonare le argomentazioni giuridiche internazionali a favore di interessi nazionali fondamentali, ha dimostrato con successo come altri attori del Mediterraneo orientale possano trovare soluzioni creative alle proprie controversie.

• Il cammino verso il compromesso
  Una confluenza di eventi ha creato circostanze particolarmente favorevoli al raggiungimento di un accordo tra Libano e Israele. Le condizioni economiche del Libano, esacerbate dalla tragica esplosione del 2020 a Beirut, hanno costretto il governo libanese e Hezbollah ad accantonare temporaneamente la loro opposizione ideologica a Israele in nome di un accordo che avrebbe potuto sbloccare preziosi giacimenti di gas ed evitare un conflitto aperto. Ma questo non è stato l’unico sviluppo geopolitico che ha reso possibile l’accordo. La firma degli Accordi di Abramo ha anche incoraggiato i colloqui indiretti, indebolendo l’opposizione araba all’impegno con Israele. E l’impegno dell’Occidente a trovare forniture alternative di petrolio e gas per l’Europa ha ulteriormente convinto l’amministrazione Biden a continuare a mediare tra le due parti. Anche la tempistica degli sviluppi politici interni è stata fortuita. A causa delle imminenti elezioni in Israele, Libano e Stati Uniti, ciascuna delle parti negoziali, così come la parte mediatrice, sperava che un accordo avrebbe favorito la propria posizione alle urne.
  In particolare, questa confluenza di eventi negli ultimi 18 mesi ha portato i negoziatori a spostare le argomentazioni legali internazionali verso gli interessi fondamentali di Israele e del Libano. Per Israele, ciò ha significato enfatizzare i problemi di sicurezza nazionale, come la stabilizzazione dell’economia libanese, l’istituzione di un meccanismo di deconfliction lungo il confine marittimo settentrionale, la possibilità di sviluppare in sicurezza il giacimento di gas di Karish e il riconoscimento de facto da parte libanese della linea di galleggiamento installata da Israele dopo la guerra del 2006 con Hezbollah. Per il Libano, questo ha significato trascurare il boicottaggio di Israele per convincere le compagnie petrolifere e del gas internazionali a esplorare e sviluppare le sue acque. In effetti, anche il potenziale di sviluppo futuro potrebbe essere sufficiente al Libano per migliorare la sua posizione presso il Fondo Monetario Internazionale e consentirgli di corteggiare gli investimenti di altri Paesi. Questo cambiamento è riuscito a sbloccare la situazione di stallo che aveva infangato i precedenti sforzi di mediazione.
  La decisione di Israele e del Libano di non concentrarsi sul diritto marittimo internazionale è in linea con lo spirito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che è stata concepita come una linea guida piuttosto che come un rigido regolamento per gli accordi di delimitazione. Nell’ultimo decennio si è assistito a una serie di potenziali mappe con linee di confine multiple e in competizione tra loro, che rappresentano le argomentazioni giuridiche rivali di ciascun Paese. È interessante notare che l’accordo attuale non prevede una mappa che gli oppositori politici nazionali potrebbero contestare. Ciò riflette la realtà di fondo che i benefici di un accordo superano i meriti tecnici di ogni specifica serie di rivendicazioni.
  Infine, l’accordo rafforza la tesi secondo cui un mediatore informato e investito può essere più efficace di uno neutrale nel produrre una svolta in certi negoziati. Storicamente, Israele si è sempre affidato agli Stati Uniti per mediare tra sé e i suoi vicini regionali, in gran parte perché Washington era l’unica parte che poteva offrire garanzie di sicurezza in cambio di concessioni israeliane. I negoziatori libanesi – a causa di una combinazione di preoccupazioni sulla neutralità americana e della posizione combattiva di Hezbollah – sono stati spesso riluttanti ad affidarsi alla mediazione degli Stati Uniti. In questo caso, però, hanno riconosciuto a malincuore che Washington era la parte che aveva maggiori probabilità di raggiungere un accordo.
  Tuttavia, gli Stati Uniti non hanno ottenuto questo risultato da soli. Attori di supporto come Francia e Qatar hanno incoraggiato le parti a raggiungere il traguardo. Anche le Nazioni Unite, osservatore durante il processo di mediazione, hanno svolto un importante ruolo tecnico che ha permesso alle parti di incontrarsi in diverse occasioni lungo il confine tra Israele e Libano. Infine, le compagnie energetiche Energean e Total hanno dimostrato creatività e flessibilità, sostenendo al contempo il pragmatismo.
  Questo sforzo collettivo avrebbe potuto essere ancora insufficiente se non fosse stato per la singolare figura dell’inviato speciale statunitense Amos Hochstein. Hochstein il quale non solo possedeva un’intima familiarità con l’industria energetica, con gli attori israeliani e libanesi e con lo stesso Presidente Biden, ma ha anche beneficiato del fatto di aver già tentato, senza riuscirci, di colmare le lacune tra le parti durante il suo periodo nell’amministrazione Obama. La combinazione di esperienza, accesso e investimenti personali ha permesso a Hochstein di superare gli ostacoli dove altri hanno fallito e di spingere le parti verso un accordo. In poche parole: Hochstein è stato molto più di un messaggero della Casa Bianca.

• Replicare i risultati
  Queste condizioni possono essere replicate altrove nel Mediterraneo orientale? I primi segnali indicano che il fermento internazionale attorno all’accordo tra Israele e Libano ha incoraggiato altri attori regionali a scongelare i propri negoziati congelati. Secondo quanto riferito, il Libano e la Siria hanno tentato (senza riuscirci) di riavviare i negoziati sulla loro disputa sui confini marittimi. Secondo varie fonti anche Egitto, Israele e Autorità Palestinese stanno cercando di far avanzare i colloqui per lo sviluppo del giacimento marino di Gaza, a lungo ignorato. Più realisticamente, Israele e Cipro hanno promesso di mettere a tacere le loro questioni in sospeso sul giacimento di Afrodite-Yishai.
  Ognuna di queste controversie presenta complessità uniche, ma impallidiscono di fronte al vero nodo gordiano del Mediterraneo orientale: le dispute marittime in corso e spesso interconnesse tra Grecia e Turchia e l’isola divisa di Cipro. Un accordo su queste questioni non solo ridurrebbe la probabilità di un conflitto regionale, ma potrebbe potenzialmente aprire la porta a partnership nel campo dell’energia, e non solo, precedentemente scartate. Le circostanze possono essere molto meno favorevoli in questo caso, ma si possono comunque trarre utili insegnamenti.
  In primo luogo, è stata la prospettiva di sfruttare le riserve di gas offshore a far sì che Libano e Israele vedessero un accordo vantaggioso per tutti. Nel caso di Grecia e Turchia, la loro disputa marittima non promette una ricompensa economica immediata, eliminando così il più ovvio incentivo potenziale per un accordo. Sebbene nelle acque cipriote siano stati scoperti idrocarburi offshore, la posta in gioco è notevolmente più alta, soprattutto per quanto riguarda la sovranità territoriale della Repubblica di Cipro.
  La tempistica delle elezioni nazionali ha contribuito a spingere Israele e il Libano oltre il traguardo. Tuttavia, le elezioni che si terranno a Cipro nel febbraio 2023, in Grecia nel luglio 2023 e in Turchia nel giugno 2023 avranno probabilmente l’effetto opposto. Con i vantaggi economici meno imminenti e le questioni di sovranità più importanti, le elezioni renderanno più difficile il compromesso per i decisori di Nicosia, Atene e Ankara.
  L’approccio della Turchia si rivelerà particolarmente cruciale. Come il Libano, le iniziative regionali in materia di energia l’hanno lasciata in disparte. Nell’ultimo decennio si è spesso inserita con la forza nella politica energetica del Mediterraneo orientale, spesso cercando di modificare le realtà giuridiche o di sicurezza in mare. La domanda è se le lezioni dell’accordo Israele-Libano incoraggeranno una linea più muscolare o più di compromesso da parte di Ankara. Il Ministero degli Affari Esteri turco ha rilasciato un comunicato stampa il 27 ottobre in cui accoglieva con favore l’accordo israelo-libanese e affermava che “questo modello, che riflette pratiche simili in tutto il mondo, costituisce un buon esempio per la regione e in particolare per i ciprioti turchi e greci”. Questo potrebbe far pensare a un atteggiamento più moderato. Ma il presidente cipriota Nicos Anastasiadis ha controbattuto osservando che la Turchia ha respinto i precedenti tentativi di mediazione e si è rifiutata di presentare richieste di arbitrato internazionale.
  È ingenuo aspettarsi risultati da un giorno all’altro. Israele e il Libano hanno negoziato per un decennio, subendo diverse battute d’arresto prima di giungere a una svolta. In confronto, molte delle altre dispute marittime della regione sono più indietro nel processo. A complicare le cose, l’Europa prevede di passare in misura considerevole alle energie rinnovabili entro la fine del decennio. Il lato positivo è che Grecia, Turchia e Cipro non devono affrontare le interferenze di un attore non statale come Hezbollah.
  L’accordo tra Israele e Libano suggerisce che il giusto equilibrio tra tempismo, interessi compatibili e un mediatore investito può produrre una svolta. Risolvere le controversie marittime non significa solo estrarre le risorse, ma anche eliminare le fonti di conflitto e sviluppare gradualmente la fiducia tra le parti in causa. Anche se l’era degli idrocarburi sta lentamente volgendo al termine, ci sono molteplici ragioni per cui gli Stati Uniti, l’Europa e gli Stati del Mediterraneo orientale dovrebbero perseguire simili tipi di accordi marittimi nei mesi e negli anni a venire. Il modello fornito da Israele e dal Libano è un ottimo punto di partenza.

(Rights Reporter, 11 novembre 2022)

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Il tempo e il rapporto fra padri e figli: il nuovo libro di Rav Della Rocca

di Sofia Tranchina

In occasione dell’uscita dell’ultimo libro di Rav Roberto Della Rocca Camminare nel tempo, il teatro Franco Parenti  ha organizzato una presentazione con firmacopie alla quale hanno partecipato anche il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, il filosofo e psicanalista Romano Màdera e il drammaturgo Gioele Dix.
  Durante la conversazione, moderata dalla direttrice del Franco Parenti Andrée Ruth Shammah, sono stati sviscerati i due macro temi trattati nel libro: il tempo e il rapporto tra padri e figli (o maestri e allievi).
  Il libro attraversa infatti le ricorrenze e la scansione del tempo in una collezione di lezioni-commenti alle parashot che partono dal complicato e si esauriscono in piccole “pillole”, come le ha chiamate Andrée Ruth Shammah: «sono brevi deduzioni di Rav della Rocca», che dispiegano il ragionamento ebraico «misterioso, complicato, e attraente proprio perché evita di affermare verità assolute».
  «Scrivere un libro di ebraismo è un’operazione complicata», aggiunge Gioele Dix, «perché l’ebraismo stesso è un mettere continuamente in discussione tutto ciò che si può affermare. Infatti – scherza – suppongo che questo libro non contenga niente di quello che Rav Della Rocca vorrebbe dire».
  È effettivamente impossibile distillare la conoscenza ebraica in massime statiche, ma il merito di Rav Della Rocca sta nell’essere riuscito a «tracciare una “guida all’uso”, per mettere in pratica gli insegnamenti che espone».
  «L’obbiettivo che ogni maestro dovrebbe avere», spiega Rav Arbib, «non è che i figli non si allontanino mai dalla educazione che abbiamo loro impartito. Questa sarebbe un’illusione. Bensì, l’obbiettivo è che i figli non si allontanino mai dal processo educativo». E i libri di Rav Della Rocca sono uno strumento adatto: «sono di stimolo all’attività di studio».
  Rav Della Rocca, molto noto anche al di fuori del mondo ebraico per le sue operazioni di apertura dell’ebraismo al dialogo, ha concluso la talk ricordando ai presenti che l’ebraismo deve aderire a un patto di corresponsabilità: «se non abbiamo il coraggio di aderire a un progetto comune all’interno della nostra comunità, non possiamo trasmettere niente al di fuori di essa».
  Infine, non bisogna accontentarsi di un ebraismo troppo codificato, spiega, ma bisogna bensì avvicinarsi allo studio per apprezzare «la ricchezza, il dinamismo, la propulsività che la Torah può offrire a un ebreo sensibile all’interpretazione».

(Bet Magazine Mosaico, 11 novembre 2022)

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Siria, quali sono i piani imminenti di Hezbollah?

Quali sono i piani imminenti di Hezbollah in Siria? I miliziani sciiti indossano divise del SAA e issano la bandiera di Damasco nelle postazioni a Rif Dimashq. Sono in arrivo armi dal Libano che vanno protette da Israele?

di Francesco Bussoletti

Quali sono i piani imminenti di Hezbollah in Siria? L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) riporta che membri di Hezbollah hanno indossato divise del SAA e hanno issato la bandiera ufficiale di Damasco in alcune postazioni nell’area di Rif Dimashq, vicino ai confini con il Libano. Quanto sta accadendo sembra un nuovo tentativo di mascherare qualche operazione soprattutto agli occhi di Israele, che periodicamente bombarda le posizioni del gruppo del paese mediorientale. Non a caso, nei giorni scorsi la leadership dei miliziani sciiti si era incontrata con quella delle Guardie Rivoluzionarie iraniane (IRGC) a Mayadeen (Deir Ezzor) per discutere di come proteggersi dai raid dello Stato Ebraico e dagli attacchi dei jihadisti pro-ISIS. Non ci sono conferme, ma non si esclude che nei prossimi giorni ci potrebbero essere movimenti di armi pesanti nel quadrante, provenienti dal Paese dei Cedri e destinati ai gruppi in Siria. DI conseguenza, c’è l’esigenza di proteggerli dagli strike nemici.

(Difesa e Sicurezza, 11 novembre 2022)

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Giorgia Meloni si congratula con Netanyahu per i risultati elettorali

di Luca Spizzichino

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Con un tweet il vincitore delle ultime elezioni in Israele, e prossimo a formare il governo, Benjamin Netanyahu ha fatto sapere della telefonata fatta dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per congratularsi dell'ultima tornata elettorale.
  "Abbiamo parlato di un prossimo incontro tra i due governi, del sostegno dell'Italia alla politica di Israele nei forum internazionali e dell'approfondimento dei legami e delle relazioni tra i Paesi" si legge nel tweet pubblicato sul profilo del leader del Likud.
  Già lunedì scorso il premier Meloni ha incontrato a Sharm el-Sheikh, dove si sta tenendo la Cop27, il Capo di Stato israeliano Isaac Herzog. I due hanno parlato della proficua collaborazione bilaterale, della transazione energetica e della difesa dei valori comuni, a partire dalla lotta all’antisemitismo.

(Shalom, 10 novembre 2022)

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In Israele è scoppiato un grande incendio nei pressi dell'impianto nucleare di Dimona

L'incendio vicino a un impianto nucleare israeliano è avvenuto tra le minacce delle milizie iraniane di rappresaglia per un attacco in Siria.
  La probabilità che l'area situata vicino all'impianto nucleare israeliano di Dimona sia stata attaccata dall'Iran o da forze filo-iraniane è molto alta. Ciò è accaduto sullo sfondo di come almeno 10 attacchi missilistici da parte di combattenti israeliani sono stati effettuati su strutture militari iraniane nella Siria orientale e formazioni filo-iraniane hanno minacciato Israele con conseguenze molto rapide.
  Nel filmato a disposizione dei giornalisti di Avia.pro, puoi vedere che l'area avvolta dal fuoco vicino all'impianto nucleare israeliano nel deserto del Negev è molto vasta. La parte israeliana non ha ancora commentato le informazioni secondo cui l'esplosione potrebbe aver causato tutto, tuttavia è noto che l'Iran dispone di droni in grado di raggiungere l'impianto nucleare israeliano.
  Se le informazioni sull'attacco dell'Iran a Israele sono confermate, ed è improbabile che Gerusalemme lo riconosca, la probabilità di un conflitto militare tra Israele e Iran aumenterà notevolmente.

(Avia.pro, 10 novembre 2022)

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Trieste, il muro della Sinagoga imbrattato con una frase antisemita

“Gli ebrei sono i nuovi razzisti e fascisti”, la frase comparsa la scorsa notte sulla facciata dell'edificio. Il presidente della comunità ebraica di Trieste, Alessandro Salonichio: "Scossi e arrabbiati".

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Nella notte tra mercoledì 9 e giovedì 10 la Sinagoga di Trieste è stata imbrattata da una scritta antisemita. “Gli ebrei sono i novi razzisti e fascisti” è la frase ritrovata sul muro dell'edificio, prodotta con uno spray nero. Lo riporta “Il Piccolo”.
  Il gesto, viene spiegato, è legato tra l’altro ad una data significativa per il mondo ebraico. La notte tra il 9 ed il 10 novembre 1938, infatti, coincide con quella che è conosciuta come la “Notte dei cristalli”, una serie di rappresaglie dei nazisti in Germania e nei territori annessi contro gli ebrei, tra saccheggi e atti di distruzione. E, riporta ancora “Il Piccolo”, proprio per ricordare quel momento, le luci della Sinagoga erano rimaste accese.

• La reazione del presidente della comunità ebraica di Trieste
  Dopo aver scoperto il gesto, è arrivato il commento del presidente della comunità ebraica di Trieste, Alessandro Salonichio. “Sono stato avvisato all’alba e rapidamente è intervenuta la Digos. Il materiale ripreso dalle nostre videocamere è già a loro disposizione”, ha spiegato, sottolineando come l’intero perimetro della Sinagoga sia monitorato dalle videocamere della sorveglianza che avrebbero ripreso un uomo. “Auspico, come è già successo in altre occasioni, che il responsabile venga individuato”, ha proseguito Salonichio. “Non ho elementi che possano indirizzare il colpevole a una specifica provenienza o impostazione politica, aspettiamo i risultati dell’indagine. Come comunità siamo scossi e arrabbiati: non ci si aspetta gesti come questo nell’anniversario, tra l’altro, della Notte dei cristalli”.

• I commenti del mondo politico
  “Sono vicina alla comunità ebraica di Trieste e mi auguro che vengano rapidamente identificati i responsabili di un gesto che considero inqualificabile. Sono azioni che non possono restare impunite”. Così il sottosegretario all’Economia, Sandra Savino. E Ettore Rosato, presidente di Italia Viva, ha twittato: “Delinquenti al lavoro sulla Sinagoga di Trieste. Ignoranti, da punire severamente”.

(Sky tg24, 10 novembre 2022)

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Israele: il ritorno di Netanyahu e le incognite di una coalizione variegata

Le elezioni legislative israeliane del 1° novembre 2022 saranno ricordate a lungo. Non solo per il risultato, di per sé non travolgente come vedremo, ma per il netto spostamento a destra dell’elettorato medio e per il probabile trionfale ritorno alla premiership di Benjamin Netanyahu.

di Fabio Bozzo

• La recente instabilità politica
  L’origine di questo voto risiede nell’estrema instabilità del sistema politico israeliano, che vede l’esistenza di un gran numero di partiti (a questo giro dieci avranno rappresentanza parlamentare), i quali devono disputarsi i 120 seggi monocamerali della Knesset con una legge proporzionale pura avente lo sbarramento al 3,5%. Tutto ciò ha portato alla quinta elezione in quattro anni.
  È vero che storicamente Israele, pur con lo stesso sistema elettorale, ha goduto di una grande stabilità politica, ma si trattava di un’era geopolitica fa. Ai tempi della Guerra Fredda la forte polarizzazione ideologica fece sì che a confrontarsi fossero essenzialmente due partiti, ossia i laburisti di centrosinistra e il Likud di centrodestra, che a loro volta erano l’evoluzione dell’Haganah e dell’Irgun, i movimenti clandestini che fondarono lo Stato di Israele. Certo già allora vi erano molti altri partiti e la politica israeliana è sempre stata caratterizzata da innumerevoli scissioni e fusioni, ma fino agli anni ’90 tutto, bene o male, ruotava intorno al suddetto bipolarismo. Inoltre la situazione d’emergenza quasi permanente (basti pensare a tutti i conflitti combattuti e vinti contro gli Stati arabi) costrinse Israele ad avere molti Governi di unità nazionale.
  Con la fine del mondo bipolare si sono liberate energie e problematiche che prima erano tenute sotto traccia. Questo perché la dipartita geopolitica dell’URSS ha privato gli Stati arabi del loro protettore internazionale, sancendo l’impossibilità di distruggere Israele con una guerra convenzionale, e perché la società dello Stato ebraico ha potuto esprimere più liberamente le sue enormi differenziazioni interne. Non dimentichiamo infatti che gli israeliani hanno tutti radici nella Diaspora, la quale li ha riportati nella terra ancestrale dai quattro angoli del pianeta: questo inevitabilmente ha creato una società di parziale melting pot, nella quale “l’uomo nuovo israeliano” necessita di almeno due generazioni per plasmarsi definitivamente.

• Slittamento a destra e ascesa di Netanyahu
  Di conseguenza anche la politica di Israele ha visto due grossi cambiamenti. Il primo è stato il progressivo aumento delle sigle di partito. Il secondo il lento inesorabile declino della Sinistra classica. La crisi laburista nasce dall’avanzare della storia, poiché i tempi del laburismo eroico e pionieristico di Ben Gurion sono definitivamente passati insieme al senso di colpa collettivo che marchia chi è di destra. Inoltre negli anni ’90 e 2000 il Centrosinistra ha ripetutamente commesso l’errore di cercare il compromesso con i palestinesi offrendo sempre di più e ricevendo in cambio o rifiuti ai limiti dell’insulto o controfferte che, se accettate, avrebbero significato la fine di Israele. È indubbio che le intenzioni dei laburisti fossero buone e sincere, ed il rifiuto di mettere in gioco la sicurezza della Patria lo dimostra (in Israele a differenza che nel resto dell’Occidente il Centrosinistra non è mai stato antinazionale), ma gli eredi di Ben Gurion hanno pagato la loro ingenua disponibilità con intifade e terrorismo. Il risultato è stato che la Destra, più pragmatica e senza falsi sensi di colpa storici rielaborati dalla pseudo filosofia della Scuola di Francoforte, ha progressivamente preso il dominio della società civile.
  Arriviamo quindi a Benjamin Netanyahu. Conosciuto come “Bibi”, Netanyahu vanta la classica biografia del militare israeliano pluridecorato che passa alla politica, in questo indubbiamente aiutato dall’aura di eroismo che circonda la sua famiglia (suo fratello Yoni cadde guidando l’assalto al terminal dell’aeroporto di Entebbe, in quella che ad oggi resta la più spettacolare operazione di recupero ostaggi della storia). Alla guida del Likud Bibi, nel 1996, diventa il più giovane Primo Ministro nella storia di Israele. Da allora le vittorie e le sconfitte elettorali si alternano, così come i diversi incarichi di Governo o di capo dell’opposizione, ma Netanyahu imprime comunque un marchio personale al trentennio successivo.
  Tale marchio è caratterizzato da un relativo indurimento verso le pretese palestinesi, unito alla capacità di isolarli diplomaticamente, alla costruzione del muro antiterrorismo (vera e propria riedizione del limes romano) che fa crollare il numero dei civili assassinati dai palestinesi, a riforme economiche liberali che hanno permesso una notevole crescita economica del Paese, a forti incentivi alla crescita demografica e a due trionfi in politica estera. Questi ultimi sono stati il riconoscimento di Gerusalemme come unica capitale indivisibile di Israele e delle Alture del Golan come territorio israeliano a pieno diritto. Entrambe le vittorie storiche della diplomazia ebraica sono state frutto in gran parte della sintonia esistente tra Bibi e Donald Trump, allora Presidente repubblicano degli Stati Uniti e da sempre fiero sostenitore di Israele.
  Tuttavia la longevità della carriera politica di Netanyahu ha prodotto anche una serie di contrasti personali con altri esponenti della vita pubblica, che si sono sviluppati in un sentimento simile a quello che ha circondato Berlusconi durante i suoi anni d’oro: si era con lui o contro di lui. Ciò ha generato, in Israele come in Italia, la nascita di ampie e spesso troppo eterogenee coalizioni di centrosinistra, il cui obbiettivo primario era abbattere la figura carismatica a guida del cartello elettorale avversario. Da qui l’incredibile stallo politico che negli ultimi quattro anni ha costretto gli israeliani a votare cinque volte per il parlamento. Uno stallo che difficilmente sarà del tutto superato dal risultato del 1° novembre, malgrado la vittoria di Netanyahu. Vediamo perché nell’analisi del voto.

• Analisi del voto
  Le ultime elezioni hanno visto un marcato spostamento a destra del corpo elettorale, con i laburisti ridotti al lumicino di 4 parlamentari, frutto di uno stentato 3,69%. Triste involuzione per il partito che si vanta, in larga parte a ragione, di discendere da coloro che hanno fondato lo Stato. Ancor più sintomatica dei tempi è il fatto che il partito storico a sinistra di quello laburista, il Meretz, non abbia neppure superato la soglia di sbarramento. Anche le liste dei partiti arabi (meglio sarebbe dire degli arabo-islamici) sono state ridimensionate, ma non spazzate via, rispetto alla passata legislatura. Questo perché il cartello elettorale assemblato la volta scorsa si è frantumato per rivalità interne e perché gli arabo-musulmani hanno visto l’astensione in aumento. Un brutto colpo per la Sinistra occidentale, che da sempre spera nella demografia interna di Israele per l’indebolimento dello Stato ebraico.
  Pertanto l’opposizione, forte di 56 deputati dei quali 51 della coalizione anti-Bibi, da chi è rappresentata? Per lo più da partiti centristi, come lo Yesh Atid (“C’è un Futuro”, centrista e leggermente anticlericale) e il Partito di Unità Nazionale (liberal-nazionalista). Questi due movimenti politici, come si denota anche dai nomi, non hanno una piattaforma programmatica troppo distante da quella del Likud. A separarli dal Centrodestra storico, tuttavia, concorrono l’alleanza (spesso numericamente necessaria) di quest’ultimo con la Destra religiosa e i dissapori personali tra i leaders centristi e Netanyahu. Come si vede nella Knesset, la Sinistra vera e propria, tolti i 4 highlander laburisti, è quasi evaporata, anche perché gli arabo-musulmani con cittadinanza israeliana non saranno mai, piaccia o non piaccia, membri affidabili della società di Israele.
  Chi ha fatto eleggere, invece, i 64 parlamentari che quasi sicuramente sosterranno il prossimo premierato di Bibi? 32 sono del Likud, l’usato sicuro ed al contempo il nocciolo duro della Destra classica. Vi sono poi i 14 eletti del Partito Sionista Religioso (PSR), che ad un forte conservatorismo sociale unisce un acceso nazionalismo sulla questione demografica e territoriale, in modo molto simile agli 11 dello Shas. Quest’ultimo partito, tuttavia, oltre ad essere leggermente più vecchio del PSR, storicamente non ha avuto troppi problemi ad entrare anche in governi di centrosinistra, pur a determinate condizioni. Concludono la compagine i 7 deputati dell’Ebraismo della Torah Unita, cartello elettorale di due partiti, il cui programma è religiosamente ancor più spinto di quello degli altri movimenti confessionali.
  Bisogna ricordare infine la curiosa posizione di Israel Beiteinu, partito fondato e guidato dall’istrionico Avigdor Lieberman, ebreo russo nato nella Moldavia sovietica. Israel Beiteinu nasce con l’obbiettivo di tutelare politicamente i recenti immigrati ebrei di lingua e cultura russa, che sono tra i più laici di Israele pur essendo socialmente conservatori e nazionalisti. Questo fa sì che la piattaforma politica del movimento sia una via di mezzo tra quella del Likud e dei nazional-liberali laici. Non solo: Lieberman è stato il primo politico israeliano a proporre apertamente l’unica soluzione realistica per far cessare il conflitto con gli arabi, ossia uno scambio di popolazione, affinché i territori governati dai rispettivi Paesi abbiano nazionalità ben definite e separate. Questa soluzione, che all’inizio venne tacciata di nazismo ed oggi raccoglie sempre più consensi, in parte avvicina Israel Beiteinu persino alla Destra religiosa, che per il resto lo disprezza a causa del suo marcato laicismo. Perché allora Lieberman, che in passato fu un valido alleato del Likud, stavolta è stato organico alla coalizione anti-Bibi eleggendo 6 parlamentari e per il momento (mai dire mai) ha escluso un appoggio all’ennesimo Governo Netanyahu? Neanche a dirlo: per diatribe personali con l’uomo forte della coalizione vincente.

• Conclusione
  In conclusione Israele ha dato l’ennesima vittoria alla sua guida esperta, Netanyahu, leader del partito base della Destra storica, il quale negli ultimi trent’anni ha oggettivamente conseguito notevoli risultati. Il più importante tra questi, sebbene il meno appariscente, è l’aumento degli israeliani, frutto sia dell’arrivo di ebrei dopo la caduta dell’URSS sia degli incentivi alla natalità dati dallo Stato (una lezione per il resto dell’Occidente, Italia in testa).
  Tuttavia il nuovo Governo avrà una maggioranza risicata, appena 4 deputati. Vista la variegata coalizione che Bibi si troverà a guidare non è da escludere qualche colpo di scena. Esso potrà essere essenzialmente di un tipo, ossia la perdita della maggioranza parlamentare, probabilmente a causa della destra religiosa. A quel punto le strade da percorrere sarebbero due. O tornare per l’ennesima volta alle urne (ma a questo punto sarebbe consigliabile attuare prima una riforma elettorale che aumenti la soglia di sbarramento o, in alternativa, garantisca un premio di maggioranza) oppure sostituire i partiti di destra eccessivamente spostata sull’asse confessionale con quelli nazional-liberali. A ben vedere essi sono più vicini al Likud di quanto non lo siano gli attuali alleati a guida rabbinica, oltre che più compatibili con la natura laica ed occidentale dello Stato di Israele. Certo, per riuscire in questa manovra di palazzo, sarebbe necessario superare i personalismi e le astiosità personali che ruotano intorno alla persona di Netanyahu.
  Niente di nuovo sotto il sole: in Israele come nel resto dell’Occidente la Destra sa vincere le elezioni e sa anche governare i propri Paesi, ma fatica a governare se stessa.

(Centro Studi Machiavelli, 10 novembre 2022)

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A Gerusalemme inaugurata la piazza “Aristides de Sousa Mendes”, dedicata al diplomatico “Giusto tra le Nazioni”

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Il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion ha inaugurato martedì nel quartiere di Kiryat HaYovel una piazza intitolata al diplomatico portoghese Aristides de Souza Mendes, che ha rilasciato visti a circa 10.000 ebrei durante la Shoah ed è stato nominato “Giusto tra le Nazioni” dallo Stato di Israele nel 1966.
  Nel 1940 Sousa Mendes era console in Francia, nella città di Bordeaux. Mendes sfidò gli ordini del dittatore Antonio Oliveira Salazar e consegnò visti agli ebrei e ad altri in fuga dai nazisti.
  All'epoca, i diplomatici portoghesi dovevano chiedere il permesso prima di concedere i visti agli ebrei e ad altre categorie di richiedenti, eppure Sousa Mendes decise di farlo senza chiedere, rischiando la sua vita. Quando Salazar, che governò il Portogallo con il pugno di ferro per più di tre decenni, scoprì la disobbedienza di Sousa Mendes, gli ordinò di tornare a Lisbona licenziandolo dal servizio diplomatico. Mendes e la sua famiglia lottarono per sbarcare il lunario morendo in povertà vessati dalla vergogna pubblica legata al suo operato. Morì in povertà nel 1954.
  "È un grande onore per la capitale del popolo ebraico inaugurare la piazza in nome di Mendes, un Giusto tra le nazioni, che ha rischiato la vita e salvato molti ebrei dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. – ha detto sindaco Moshe Lion durante la cerimonia di inaugurazione – Da oggi, la grandezza e l'eroismo di Mendes saranno orgogliosamente commemorati per molte generazioni".
  La piazza è stata inaugurata alla presenza, oltre che del sindaco, dell'ambasciatore del Portogallo in Israele Jorge Cabral, del direttore del dipartimento dei Giusti tra le nazioni a Yad Vashem Il dottor Yoel Zysnoin, di alcuni membri della famiglia di Aristides de Sousa Mendes, e dell'ex ambasciatrice israeliana in Portogallo, la signora Colette Avital.

(Shalom, 10 novembre 2022)

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Israele, il Likud: Nethanyahu nostro candidato premier

Il presidente israeliano Isaac Herzog ha iniziato oggi [9 nov] una tre giorni di incontri con i rappresentanti dei partiti eletti dopo le elezioni dell'1 novembre per la formazione del nuovo governo. I primi a presentarsi sono stati i rappresentanti del partito Likud di Benjamin Netanyahu. "Abbiamo avuto il grande privilegio di incontrare, qualche minuto fa, il presidente, a nome del partito Likud - il più grande partito della Knesset con 32 membri - e a nome di molti cittadini israeliani che ci hanno sostenuto, e che ringraziamo , per raccomandare Benjamin Netanyahu come nostro candidato per formare il prossimo governo di Israele", ha dichiarato Yariv Levin, membro del Likud e della Knesset.

(Tiscali Notizie, 9 novembre 2022)

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Israele: Herzog riceve risultati voto, inizia consultazioni

Domenica affiderà l'incarico della formazione del nuovo governo

TEL AVIV - Il capo dello Stato Isaac Herzog ha ricevuto oggi i risultati ufficiali delle elezioni legislative del primo novembre ed in giornata avvierà le consultazioni con le liste rappresentate alla Knesset per stabilire a chi affidare l'incarico della formazione del nuovo governo.
  "Non è un segreto che io ho sempre creduto e credo tuttora in una formula di unità. Ma contrariamente a quanto pubblicato io non ho agito e non opero nemmeno adesso per la costituzione di un governo di unità nazionale. Lascio ogni incombenza al sistema politico". Nel pomeriggio Herzog riceverà i rappresentanti del Likud, di Yesh Atid (il partito centrista di Yair Lapid), di 'Campo istituzionale' (il partito centrista di Benny Gantz) e del partito ortodosso Shas. Le consultazioni proseguiranno fino a venerdì. Domenica Herzog annuncerà l'affidamento dell'incarico per la formazione del nuovo governo.

(ANSAmed, 9 novembre 2022)

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9 novembre 1938: la Notte dei Cristalli. rare immagini dimostrano che non fu un pogrom spontaneo

di Michelle Zarfati

Recentemente è stata presentata al pubblico una raccolta di immagini davvero rare, che mostrano la documentazione nazista della tristemente famosa Kristallnacht, la Notte dei Cristalli: un vero pogrom contro gli ebrei ordito dal partito nazista la notte tra il 9 e il 10 novembre 1938. Una notte tremenda in cui i Nazisti scatenarono, in Germania e nei territori annessi, atti di violenza senza precedenti. Quella notte, le case, le sinagoghe, e i negozi di proprietà degli ebrei furono saccheggiati e distrutti, lasciando le strade tappezzate di frammenti di vetro: di qui il nome Notte dei Cristalli.
  L'album delle immagini, che d'ora in poi sarà conservato al museo Yad Vashem, dimostra che i pogrom delle SS non furono spontanei; "Le fotografie presentano chiaramente il meccanismo di odio messo in atto dal regime nazista contro gli ebrei", spiega il Presidente di Yad Vashem Dani Dayan. La famiglia Gold originaria dell’America, era in possesso delle immagini da tempo anche se, nessun membro della famiglia ne ha fatto mai parola.
  Il padre della famiglia prestò servizio in Europa durante la Seconda guerra mondiale, precisamente nella divisione di controspionaggio dell'esercito americano, dopo la sua morte, sua figlia, Anne Leifer e le sue due figlie, scoprirono l'album pieno di fotografie dei pogrom della Notte dei Cristalli risalenti al novembre 1938.
  "Quando ho aperto l'album, ormai vecchio di 84 anni fa, mi sentivo come se avessi il fuoco tra mie mani", ha detto Elisheva Avital, la nipote di Gold. La famiglia ha deciso di donare l'album allo Yad Vashem, al World Holocaust RemembranceCenter e al suo progetto Gathering the Fragments. L'album è stato consegnato con l'aiuto di un membro della famiglia, il rabbino Joshua Pas, CEO della ONG Nefesh B'Nefesh, responsabile della promozione della Jewish Aliyah da: Stati Uniti, Canada e Regno Unito. Le immagini dell'album mostrano pogrom a Norimberga e una città tedesca di nome Fürth, con le foto scattate dai fotografi nazisti. “È difficile e terrificante guardare le fotografie di queste sinagoghe brutalmente profanate", ha detto Dani Dayan. “Le fotografie presentano chiaramente il meccanismo dell'odio che il regime nazista ha attuato in quegli anni, in modo quasi istituzionalizzato".
  Le prime immagini dell'album mostrano scatti di case di ebrei completamente sfondate dai nazisti, gli ebrei sono visti in piedi in pigiama, alcuni feriti e altri ancora nei loro letti - tutto parte della propaganda nazista. "Questa è una prova importante che sarà d'ora in poi conservata negli archivi di Yad Vashem e aiuterà a raccontare la storia della Shoah ad ogni persona in Israele e all'estero, fungendo così da monito di avvertimento nei confronti del crescente antisemitismo", ha aggiunto Dayan.
  Jonathan Matthews, responsabile dell'archivio fotografico, ha detto: “Dall’ispezione iniziale delle fotografie, si può notare che si tratta di immagini insolite, perché mostrano da vicino le vittime ebree e documentano le azioni degli stessi nazisti in quel momento del loro verificarsi. Si tratta di qualcosa che non abbiamo mai incontrato prima - ha detto Matthews - Possiamo vedere membri di Schutzstaffel (SS) e Sturmabteilung (SA) che eseguono fisicamente i pogrom. Distruggono, incendiano e bruciano negozi e sinagoghe ebraiche, umiliano gli ebrei, il tutto mentre il pubblico si fa da parte e osserva. Questa è un'ulteriore prova che l'ordine è stato dato dai leader nazisti, e questi pogrom non erano spontanei, come ha cercato di dire la Germania successivamente", ha aggiunto Matthews. Durante i pogrom della Notte dei Cristalli, dozzine di sinagoghe furono bruciate e migliaia di negozi di proprietà di ebrei furono distrutti. Inoltre, 92 ebrei furono assassinati, centinaia furono feriti e non meno di 30.000 furono portati nei campi di sterminio.

(Shalom, 9 novembre 2022)


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Notte dei Cristalli: una luce accesa in tutte le sinagoghe d’Italia

Sinagoga
di Torino  
Una luce accesa in tutte le sinagoghe e in tutti i luoghi ebraici d’Italia, un momento dedicato allo studio della Torah. È l’invito rivolto oggi – mercoledì 9 novembre 2022 – dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane a tutte le Comunità distribuite sul territorio nazionale.
  Un gesto di Memoria nella giornata in cui si ricordano le violenze e i morti della Kristallnacht, la Notte dei Cristalli.
  La Kristallnacht fu l’ondata dei pogrom antisemiti divampati su scala nazionale nella Germania nazista tra il 9 e il 10 novembre 1938. Furono colpiti simboli, strutture comunitarie e i mezzi di sostentamento della comunità ebraica; oltre 520 sinagoghe vennero bruciate o completamente distrutte, centinaia di case di preghiera e cimiteri vennero demoliti, furono assaltate scuole e orfanotrofi e migliaia di luoghi di aggregazione ebraici, assieme a migliaia di esercizi commerciali e abitazioni private.
  Nella giornata di oggi si diffonde un messaggio di identità ebraica viva, di testimonianza e di luci ancora accese con le quali si continua a trasmettere un pensiero attraverso le generazioni nonostante i propositi di chi cercava di distruggere l’ebraismo europeo.
  La Comunità Ebraica di Torino terrà accese le luci della Sinagoga per tutta la notte, in ricordo delle violenze che scoppiarono in Germania e Austria.

(Comunità Ebraica di Torino, 9 novembre 2022)

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Israele: scoperto antico pettine in avorio con incantesimo per sradicare i pidocchi

Questa è la prima frase mai trovata in lingua cananea in Israele e molto probabilmente la frase è più antica mai rinvenuta”.

di Lucia Petrone

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Il pettine che si ritiene essere stato realizzato intorno al 1700 a.C. , è stato trovato nel sito di Tel Lachish nel 2017, ma le 17 lettere in lingua cananea non sono state notate fino all’inizio di quest’anno dopo un ulteriore esame. “Il manufatto fornisce “prove dirette” dell’uso dell’alfabeto cananeo nella vita quotidiana“, ha affermato Yosef Garfinkel, professore di archeologia all’Università Ebraica. “Questa è la prima frase mai trovata in lingua cananea in Israele”, ha osservato Garfinkel, definendola “una pietra miliare nella storia della capacità umana di scrivere”. Secondo i ricercatori credevano anche che la frase incisa sul pettine fosse un “incantesimo” per “sradicare i pidocchi”. “Non è stato trovato nulla di simile prima. Non è l’iscrizione reale di un re… è qualcosa di molto umano. Sei immediatamente connesso a questa persona che aveva questo pettine”.
  Garfinkel ha aggiunto che i cananei furono i primi a usare lettere che rappresentavano i suoni nel loro sistema di scrittura, che si è evoluto nell’alfabeto fenicio, greco e poi latino che è più comunemente usato oggi. “I Cananei inventarono l’alfabeto. … Oggi ogni persona nel mondo può leggere e scrivere usando il sistema alfabetico. Questo è davvero uno dei risultati intellettuali più importanti dell’umanità“. Lachis, a circa 40 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme, era una città cananea chiave. Gli archeologi hanno trovato lì 10 iscrizioni, ma il pettine segna la prima “intera frase verbale” scritta nella lingua parlata dagli abitanti dell’antica Lachis, ha affermato l’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha notato che il pettine stesso era probabilmente un oggetto di lusso importato, poiché non c’erano elefanti a Canaan e quindi nessun avorio. Quella che potrebbe essere la più antica frase mai rinvenuta recita così: “Possa questa zanna sradicare i pidocchi dei capelli e della barba.”

(Scienze Notizie, 9 novembre 2022)

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“Lotta al cambiamento climatico, Israele sarà protagonista”

Israele non solo punta alle emissioni zero entro il 2050, ma vuole diventare un punto di riferimento a livello regionale per quanto riguarda la lotta ai cambiamenti climatici. A dichiararlo da Sharm El Sheikh, dove è in corso la conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP27, il Presidente israeliano Isaac Herzog. “Israele è pronto a guidare lo sforzo verso la resilienza climatica regionale. – ha affermato Herzog, intervenendo dalla località egiziana – Intendo guidare lo sviluppo di quello che definisco un Medio Oriente rinnovabile, un ecosistema regionale di pace sostenibile”. Un impegno in prima persona per dare voce alle conoscenze israeliane che toccano diversi ambiti. “In una regione che sta subendo un’accelerazione della desertificazione, Israele ha la capacità e il know-how per rispondere alle gravi carenze idriche e per offrire soluzioni all’insicurezza alimentare. Siamo desiderosi di condividere tutte le nostre competenze e i nostri strumenti pratici.
  Questo è il volto di un Medio Oriente rinnovabile”, le parole di Herzog, che a Sharm El Sheikh ha incontrato per la prima volta la presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni. Intanto, a margine del COP27, Gerusalemme ha già portato a casa un risultato: la firma di un memorandum d’intesa con Giordania ed Emirati Arabi Uniti per dare seguito all’accordo siglato tra le parti nel 2021 in cui Amman si impegnava a fornire energia solare agli israeliani e gli israeliani a convogliare acqua desalinizzata verso il Regno Hashemita. A rappresentare il governo di Gerusalemme, i ministri uscenti Esawi Frej (Cooperazione regionale) e Karine Elharrar (Energia).

(moked, 8 novembre 2022)

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Israele: scoperto un nuovo deposito di gas al largo della costa

di Luca Spizzichino

La Energean, società internazionale di esplorazione e produzione di idrocarburi, in particolare di gas naturale, ha annunciato ieri la scoperta di un giacimento commercialmente valido contenente circa 13 miliardi di metri cubi di gas naturale.
  Secondo quanto scritto in una nota da parte della società anglo-greca, la scoperta è stata fatta nel sito di perforazione Zeus-01, situato al largo delle coste israeliane. Attualmente Energean sta conducendo delle analisi post perforazione dei pozzi.
  Nella stessa dichiarazione è stato riportato inoltre il risultato dell’audit voluto dalla società per il giacimento Athena, adiacente a quello della scoperta fatta ieri. Le valutazioni fatte dalla Energean hanno di fatto corretto le stime riguardo la quantità di riserve di gas naturale contenute nel giacimento da 3 a 14,75 miliardi di metri cubi.
  “I risultati del pozzo Zeus e dell'analisi post-perforazione di Athena forniscono a Energean ulteriore fiducia sui volumi e sulla commercializzazione della Olympus Area e l'azienda sta ora portando avanti il ​​suo piano di sviluppo sul campo", si legge nella dichiarazione. Olympus Area è quella parte della zona economica esclusiva di Israele di cui Energean detiene il 100% delle partecipazioni nei contratti di locazione, e che si trova tra i giacimenti di Karish e Tanin.
  “Dopo l'inizio della produzione dal nostro giacimento di Karish la scorsa settimana, sono lieto che il nostro programma di perforazione, che ora ha consegnato cinque pozzi di successo su cinque, continui a fornire valore, garantendo la sicurezza dell'approvvigionamento e la concorrenza energetica in tutta la regione” ha affermato il CEO di Energean Mathios Rigas.
  “Stiamo valutando una serie di potenziali opzioni di commercializzazione per la Olympus Area che sfruttano sia la nuova infrastruttura che quella esistente” ha aggiunto.
  La società anglo-greca lo scorso ottobre aveva annunciato l’inizio dell’estrazione di gas naturale da Karish, situata al largo di Haifa. Un momento descritto da Energean come una “pietra miliare nella promozione di una visione di un mercato del gas israeliano competitivo e nell'aumento della sicurezza energetica e dell'indipendenza del paese”.

(Shalom, 8 novembre 2022)

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Calo demografico e allontanamento dalle Comunità le sfide del XXI secolo per il mondo ebraico

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E'una fotografia molto ampia e articolata dell'ebraismo in Europa quello emerso dall’incontro tenutosi domenica 6 novembre, alla Biblioteca Fondazione CDEC, che ha visto dialogare il demografo e studioso Sergio Della Pergola con Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio Antisemitismo, sulle future sfide che l’ebraismo si trova ad affrontare in Europa. Qui una sintesi dei punti principali di un incontro molto ricco di contenuti.
   “Mentre in Israele la natalità è in crescita, stiamo assistendo a un’involuzione demografica nelle comunità della diaspora – ha spiegato Sergio Della Pergola -. Inoltre, il mondo ebraico è diventato sempre più occidentale: nei Paesi arabi è quasi scomparso, mentre quello dell’Europa dell’Est si è spostato verso l’Occidente o Israele”.
  Cresce il ruolo di Israele, sempre più punto di riferimento per gli ebrei di tutto il mondo, che da anni vive una crescita economica importante, tanto da essere il 20° Paese più sviluppato al mondo.

- CHI E' EBREO?   

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Della Pergola ha poi affrontato la questione dell’identità ebraica, prendendo come base i dati raccolti dall’agenzia europea FRA (European Agency for Fundamental Rights) nel 2018. Per quanto riguarda la definizione di ebraismo nei diversi Paesi, essa è ovviamente differente. L’Italia, come si vede dalla slide, è uno dei paesi in cui l’aspetto legato alla religione è più forte di quello invece legato alle radici ebraiche.

- VALORI ESSENZIALI
  A livello europeo, fra gli aspetti essenziali dell’identità ebraica, quello più sentito è ‘ricordare la Shoah’, seguito dalla ‘lotta contro l’antisemitismo’ e ‘l’appartenenza al popolo ebraico’.
  In particolare, è cresciuta molto la percezione fra gli ebrei europei dell’antisemitismo, considerato in aumento negli ultimi 5 anni dall’85% degli intervistati.
  Da segnalare che l’Italia è l’unico Paese in cui il fare parte di una comunità ha una posizione centrale fra i valori.

- LA COMUNITA' EBRAICA ITALIANA  

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Venendo alla composizione della popolazione ebraica in Italia, Della Pergola ha illustrato come le persone si definiscono: il 54% si dichiara ‘solo ebreo’, il 13% ‘tradizionale’, il 12% ‘haredi’, mentre il 10% vicino ai ‘riformati/progressivi’. “È interessante vedere che questi due ultimi dati sono molto vicini fra loro – ha commentato Della Pergola – perché dimostra la presenza di una forte polarizzazione”.
  “Trovo preoccupante che ci siano così tante persone che non rientrano in alcuna definizione precisa e sono di fatte escluse, nonostante l’interesse e il legame siano forti  – ha aggiunto Betti Guetta -. Le istituzioni comunitarie devono a mio avviso farsi delle domande per capire se è giusto continuare a escludere queste persone. Soprattutto, penso che debba esistere  un cappello più ampio di quello previsto dall’Ucei, che dia la possibilità di essere considerati ebrei senza rientrare per forza nella alachà”.
  “Personalmente sono nettamente favorevole a creare un tavolo di conversazione con gruppi e individui che non fanno parte dell’Ucei, in cui ci si confronti e si parli ascoltandosi”, ha aggiunto Della Pergola.
  “È giunto il momento di iniziare un processo di trasformazione dell’Ucei – ha commentato dal pubblico Giorgio Mortara, ex vicepresidente Ucei – che, come il Crif in Francia, raggruppi tutte le entità che si riconoscono all’ebraismo. Questo deve essere tema centrale della riflessione all’interno dell’Unione e nelle comunità per creare un clima di dialogo necessario per rinforzarsi”.

- ELEZIONI IN ISRAELE   

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Infine, non poteva mancare un’analisi di Della Pergola sulle recentissime elezioni in Israele, che hanno visto vincitrice  la destra di Nethanyahu, alleata all’estrema destra. “In Israele il grosso problema oggi è il costo della vita – ha spiegato -. Inoltre, i recenti attacchi terroristici hanno creato una reazione fortemente emotiva in persone che in generale non vanno a votare. Cosa potrebbe fare questo governo? La cosiddetta estrema destra è composta da elementi impresentabili, dell’entourage dell’assassino di Rabin. La prima attività potrebbe quindi essere ridurre il potere del giudiziario e attribuirlo al governo. Molte persone però si sentono alienate dalla deriva a destra che ha preso la politica”.
  In conclusione Betti Guetta ha annunciato che a dicembre si terrà la seconda parte di questo incontro, con un evento a cui verranno invitate a partecipare diverse persone del mondo ebraico che, secondo il format ‘Dilemma Caffè’ dovranno affrontare, divisi in focus group, i temi caldi del mondo ebraico oggi.

(Bet Magazine Mosaico, 8 novembre 2022)

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“Operazione fuori dagli schemi”: lo scrittore Michael Sfaradi presenta il suo nuovo libro

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“Operazione Fuori dagli schemi”: un piano perfettamente congegnato, rischiosissimo e non convenzionale, grazie al quale le spie del Mossad proveranno a sventare quella che sembra a tutti gli effetti una delle più grandi minacce di sempre allo Stato ebraico. Dopo "Mossad”, Una notte a Teheran", Michael Sfaradi firma un altro romanzo ad alta tensione, svelando i retroscena dello spionaggio internazionale e mescolando alla finzione narrativa i veri giochi di potere delle grandi potenze. Oltre un centinaio di persone, tra amministratori e simpatizzanti di Verona Domani, hanno assistito lunedì sera all’hotel San Marco alla presentazione dell’ultima fatica letteraria del noto giornalista e scrittore nativo di Roma, ma israeliano di cittadinanza. L’incontro è stato moderato dal presidente di Verona Domani Matteo Gasparato e da Stefano Casali, presidente di Agsm. 
  “Una storia di spionaggio ad alta tensione ed appassionante che non dimentica il dramma della Shoah subita dal popolo ebraico. Un romanzo di estrema attualità, inspirato ad una storia realmente accaduta, ma poco conosciuta – hanno commentato Casali e Gasparato – Ringraziamo Sfaradi per essere stato nostro ospite a Verona, dove la comunità ebraica è una delle più antiche ed importanti di Italia”. 
  “Operazione Fuori dagli schemi” contiene la prefazione del neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, anche lui ospite fisso ad incontri e appuntamenti di Verona Domani.

(TG Verona, 8 novembre 2022)

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Il Marocco firma un contratto con una società israeliana per la fornitura del sistema Alinet

Lo scorso luglio, il capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), Aviv Kohavi, aveva incontrato a Rabat l’omologo marocchino El Farouk

Il Marocco ha firmato un contratto con la società israeliana Elbit Systems per la fornitura del sistema di signal intelligence “Alinet”. Lo ha riferito il sito web d’informazione “Assahifa”, secondo il quale il contratto ha un valore di 70 milioni di dollari. Secondo il sito web “Military Africa”, il contratto sarebbe stato firmato lo scorso giugno.
  L’accordo sarà attuato in un periodo di due anni e include la fornitura del sistema Alinet con lo scopo di sviluppare le capacità del Regno nordafricano nel campo della guerra elettronica. L’accordo di inserisce in un progressivo rafforzamento delle relazioni bilaterali nell’ambito della difesa.
  Lo scorso luglio, il capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), Aviv Kohavi, aveva incontrato a Rabat l’omologo del Marocco El Farouk, durante una visita volta a rafforzare la cooperazione militare tra Israele e il Regno nordafricano. Secondo quanto riferito dall’emittente “Israeli Broadcasting Corporation” durante gli incontri di Kohavi a Rabat erano state esaminate questioni di sicurezza bilaterale e la possibilità di un’alleanza regionale volta a “frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente e Nord Africa”.

(Nova News, 8 novembre 2022)

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Livorno - Luci accese in Sinagoga in ricordo della Notte dei Cristalli

Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 utilizzando come pretesto l’assassinio, da parte di un giovane esule ebreo, del diplomatico della Germania nazista Ernst von Bath, il regime hitleriano scatenò in tutta la Germania la propria furia contro i luoghi ebraici.
  Quella tragica notte è nota alla storia come “Notte dei Cristalli” (Kistallnacht): quasi duecento persone vennero trucidate e furono attaccati e distrutti migliaia di luoghi ebraici, tra Sinagoghe, uffici, negozi e case. Circa 30.000 ebrei vennero poi avviati verso i campi di sterminio.
  Nel fare memoria di ciò, domani notte la Sinagoga di Livorno, come migliaia di altre nel mondo, terrà accese le proprie luci in ricordo delle luci che vennero spente a suo tempo.

(Qui Livorno, 8 novembre 2022)

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Roma - Cori antisemiti in Curva Nord, Giudice sportivo annuncia un supplemento di indagine

Dopo il comunicato redatto dalla società biancoceleste, ecco la nota ufficiale della Lega Serie A

Il Giudice Sportivo, Gerardo Mastrandrea, ha annunciato ufficialmente l'apertura di un'inchiesta sui cori di matrice antisemita intonati dalla Curva Nord durante il derby tra Roma e Lazio. La Procura Federale effettuerà un supplemento di indagine per verificare quanto accaduto. Dopo il comunicato redatto dalla società biancoceleste, ecco la nota ufficiale della Lega Serie A.

    "Il Giudice sportivo, in relazione al rapporto della Procura federale pervenuto in data 7 novembre 2022, ha altresì disposto in ordine ai cori beceri, oltraggiosi e discriminatori di matrice religiosa rivolti da parte dei sostenitori della SS Lazio assiepati nei settori di pertinenza, e rivolti verso la tifoseria avversaria, intervenuti più volte prima dell'inizio dell'incontro nonché, in un caso, anche durante l'incontro stesso, un supplemento di indagine da parte della Procura Federale volto a confermare che tali cori sono stati percepiti nell'intero impianto, precisando ulteriormente il numero degli occupanti dei settori nei vari momenti descritti, acquisendo se del caso elementi anche dai responsabili dell'Ordine pubblico. Ha disposto inoltre di acquisire e segnalare le iniziative assunte dalla detta Società, anche nei confronti della tifoseria, per prevenire, dissociarsi, individuare i responsabili e non da ultimo impedire il ripetersi di simili cori incresciosi".

(Forzaroma.info, 8 novembre 2022)

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Israele ricorda l’assassinio di Yitzhak Rabin. Lapid: “Non ci sono ‘noi’ e ‘loro’. Siamo una patria”
  
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Il premier israeliano uscente Yair Lapid ha ricordato, domenica 6 novembre, in una cerimonia a Gerusalemme, il primo ministro Yitzhak Rabin, ucciso dall’estremista di destra ebreo Ygal Amir in un attentato a Tel Aviv il 4 novembre 1995. Rabin, fautore degli accordi di Oslo con i palestinesi, fu insignito del Premio Nobel per la pace nel 1994.
  La cerimonia, con cadenza annuale assume quest’anno un significato particolare, in quanto alle elezioni del 1 novembre è uscito vittorioso il blocco di destra, di cui fanno parte anche i gruppi di estrema destra di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Quest’ultimo, in particolare, seguace di Meir Kahane e ammiratore di Baruch Goldtsein (che uccise 29 palestinesi in preghiera in un attacco a Hebron), è ricordato per essersi più volte, quando ancora Rabin era in vita e lui era un ragazzo, espresso in modo violento contro il premier. Nel 1995, ad esempio,  apparve in tv brandendo lo stemma strappato dalla Cadillac dell’allora premier Yitzhak Rabin: “Come siamo riusciti a raggiungere questo simbolo, possiamo raggiungere anche lui”. Alcune settimane dopo, il leader laburista veniva ucciso da un colono estremista, contrario al processo di pace di Oslo.
  All’omaggio a Rabin hanno preso parte anche il presidente di Israele Isaac Herzog, l’ex capo dello Stato Reuven Rivlin e il ministro della Difesa Benny Gantz.
  “Secondo il destino, questa commemorazione per Yitzhak Rabin avviene solo pochi giorni dopo che lo Stato di Israele ha tenuto le elezioni e ne è uscito ancora una volta diviso, arrabbiato e minacciando di dividerci in ‘noi e loro’ – ha dichiarato il premier uscente Lapid -. Non ci sono ‘noi e loro’, solo noi. L’omicidio di Rabin è stato un tentativo di assassinare l’idea stessa della nostra convivenza. Siamo sopravvissuti a malapena, ma le ferite non sono ancora rimarginate. Il nostro compito è guarirle ogni giorno di nuovo”.
  Nel suo discorso, Lapid ha cercato di sottolineare la fratellanza fra tutti gli israeliani e il comune senso di appartenenza. “La nostra democrazia potrebbe non apparire nelle scritture, ma questa cerimonia ci ricorda che la nostra democrazia è santificata nel sangue – ha dichiarato -. Yitzhak Rabin è stato assassinato da qualcuno il cui violento incitamento ha fatto credere di non dover accettare la decisione degli elettori. Anche questo dobbiamo ricordare e non dimenticare. (…) Quello che dobbiamo imparare dalla vita e dalla morte di Yitzhak Rabin è che amare la nostra patria è innanzitutto amare coloro che vivono insieme a voi in quella patria”.

• Herzog: “Ci sono segni di violenza che erodono le basi della democrazia”.
  “Anche 27 anni dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, sembra che non sia cambiato molto, non sia cambiato abbastanza. Nella società israeliana ci sono segni di incitamento e indignazione che privano il sonno, di violenza che erode le basi della democrazia“. Queste le parole del presidente Isaac Herzog durante la cerimonia, con cui ha invitato la coalizione risultata vincente a trattare con “rispetto” la coalizione in uscita.
  Herzog ha poi lanciato un appello ai sostenitori del governo uscente, agli ebrei all’estero e a tutte le persone preoccupare delle azioni del futuro governo. “Non è la fine del Paese. La decisione delle urne deve essere rispettata. Siamo tutti legati alla sorte dello Stato di Israele e ai suoi valori fondamentali in quanto Paese ebraico e democratico, nonché al mantenimento dello Stato di diritto e degli esseri umani e civili e al rispetto di tutti i gruppi minoritari”.

• Il partito laburista: “Qui durante la manifestazione per la pace c’è chi gridava ‘morte a Rabin’
  Sabato 5 novembre si è tenuta anche una cerimonia organizzata dal partito laburista – grande sconfitto in queste elezioni – per celebrare l’assassinio dell’ex primo ministro e leader del partito Yitzhak Rabin in piazza Zion a Gerusalemme. Durante l’evento l’attuale leader laburista Merav Michaeli ha criticato i suoi rivali elettorali, il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu e il deputato di estrema destra Itamar Ben Gvir, per una protesta di destra contro gli Accordi di Oslo tenutasi a Zion Square nel 1995, un mese prima che un estremista di destra uccidesse Rabin a una manifestazione di Tel Aviv.
  “Un grande e coraggioso leader israeliano che ha portato Israele a grandi traguardi e pace – è stato chiamato qui, da molte persone, un traditore. Qui hanno gridato ‘morte a Rabin'”, ha detto Michaeli, riferendosi ai canti che sono stati ascoltati durante la manifestazione per la pace del 1995.

(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2022)

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Cop 27, Meloni in Egitto vede il premier israeliano Herzog: insieme contro l’antisemitismo

di Alessandra Parisi

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Nuova trasferta all’estero per Giorgia Meloni. Questa volta in Egitto per la Cop 27 sul clima. In mattinata il premier ha raggiunto il centro congressi di Sharm el Sheikh. dove si tiene la conferenza internazionale sulla lotta al cambiamento climatico. L’intervento del premier è previsto in sessione plenaria alle ore 18. Nel quadro dell’impegno italiano alla riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030, assunto dell’Europa, e del raggiungimento delle emissioni zero entro il 2050.

• Clima, Meloni in Egitto: la stretta di mano con al Sisi
  L’accoglienza alla prima donna premier italiana è sugellata dalla stretta di mano con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Che danno il via alla cerimonia di inaugurazione della Cop27. Prima di prendere  parte, alle 13,30, alla tavola rotonda “Just Transition”, dopo la foto di famiglia con i leader, Meloni ha avuto una serie di colloqui bilaterali.

• Faccia a faccia con il premier etiope
  Accompagnata dal ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto, ha incontrato  il primo ministro della Repubblica federale democratica di Etiopia, Abiy Ahmed. Al quale ha espresso soddisfazione per la recente conclusione di un accordo di pace tra il governo etiopico e il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino. Meloni e Abiy hanno richiamato gli storici rapporti bilaterali. E discusso delle opportunità di rafforzamento dei legami economici soprattutto in campo energetico. Il capo del governo italiano ha poi sottolineato come la collaborazione con l’Africa sia centrale per la politica estera italiana.

• Incontro con Herzog: insieme contro l’antisemitismo
  Quindi ha visto il presidente israeliano Isaac Herzog: un faccia a faccia particolarmente significativo. Lo scambio si è concentrato sull’eccellente collaborazione bilaterale e sulla transizione energetica. Meloni si è detta pronta a collaborare con il futuro nuovo governo israeliano per rafforzare ulteriormente il partenariato italo-israeliano. Nell’ambito industriale e tecnologico e in particolare nel settore delle tecnologie pulite per l’ambiente. Nel corso del colloquio è stata condivisa una forte assonanza sulla difesa dei valori comuni a partire dalla lotta all’antisemitismo.

• A colloquio con il premier del Regno Unito Sunak
  Ultimo round di questa prima parte di bilaterali, il colloquio con il primo Ministro del Regno Unito, Rishi Sunak. I due premier hanno discusso le principali sfide che la Comunità internazionale deve affrontare. Prima fra tutte l’esigenza di una risposta unitaria all’aggressione russa all’Ucraina. E hanno sottolineato l’importanza della cooperazione tra Italia e Regno Unito in ambito G7 e Nato. L’intervento del presidente del Consiglio nella sessione plenaria è programmato per le 18.

• Alle 18 l’intervento nella sessione plenaria
  Durante la giornata, Meloni potrebbe avere un faccia a faccia con Al Sisi. L’invito alla conferenza sul clima dell’Onu era stato rinnovato proprio dal presidente egiziano al premier italiano all’indomani dell’insediamento del governo. In quell’occasione, si era congratulato con la presidente del Consiglio, augurandosi di sviluppare presto “le relazioni bilaterali” tra Egitto e Italia. E  segnare dunque una nuova tappa verso la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.  Sono circa 30mila i partecipanti attesi nel Paese delle piramidi per discutere di surriscaldamento globale, emissioni nocive e delle modalità per far fronte ai cambiamenti climatici.

(Secolo d'Italia, 7 novembre 2022)

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Israele: Adesso Netanyahu deve fare il governo

di Ugo Volli

• Che cosa ha determinato i risultati
  Il risultato delle elezioni israeliane è ormai ben chiaro: la coalizione di centro-destra guidata da Bibi Netanyahu ha vinto 64 seggi su 120, il centro-sinistra di Lapid, Gantz, Liberman e i laburisti 46 seggi e i partiti arabi 10. È anche chiaro che il vantaggio del centro-destra in termini di voti è più limitato e ciò che ha fatto la differenza è stata soprattutto la capacità di fare coalizione: Netanyahu ha praticamente costretto a correre assieme Ben-Gvir e Smotrich, leader di due partiti dai rapporti non sempre facili, e ha aiutato a scongiurare una scissione del partito religioso askenazita, che si prospettava all’inizio della campagna. Lapid non è riuscito a riunire Meretz e laburisti, che avevano programmi radicali di sinistra molto simili, col risultato della sparizione di Meretz dalla Knesset e non ha scongiurato la scissione degli estremisti di Balad dalla Lista Unita araba, che, è vero, non apparteneva alla sua coalizione dello scorso governo, ma di cui aveva bisogno per ottenere la maggioranza nella prossima legislatura. Bisogna aggiungere a ciò il suicidio del partito Yamina di Bennett, che dopo le dimissioni da primo ministro non si è personalmente presentato alle elezioni, lasciando Ayalet Shaked a cercare di fronteggiare il fallimento del suo ex leader e le scissioni a destra e a sinistra che l’hanno lacerato, tentando di cambiare schieramento. Tutto ciò ha comportato una perdita per la coalizione sinistra-arabi, di alcuni seggi, che avrebbero potuto forse riportare in parità il risultato. Ma non si tratta solo di un fatto tecnico, o della mancanza di leadership della coalizione che molti hanno rimproverato a Lapid. Al contrario, si tratta di un dato politico: pur con diversi accenti la coalizione di centrodestra è unita su alcuni grandi valori, innanzitutto l’idea che Israele debba essere lo stato nazionale del popolo ebraico e che debba rispettare la sua tradizione religiosa. La coalizione opposta invece era unita solo dall’avversione personale verso Netanyahu.

• Le regole per la costituzione del nuovo governo
  La legge israeliana per la formazione del governo è un po’ tortuosa, ma chiara. Entro martedì (una settimana dalle elezioni), ma forse già oggi o domani al presidente Herzog verranno comunicati i risultati; egli avrà una settimana per consultare i partiti presenti alla Knesset perché gli indichino il nome di un possibile primo ministro. Alla fine darà l’incarico a chi secondo lui ha maggiori probabilità di formare il nuovo governo (che sarà Netanyahu). Costui avrà da allora quattro settimane di tempo (prolungabili su sua richiesta motivata di altre due) per formare il governo, facendo gli opportuni accordi, compresi eventualmente quelli di alternanza nella posizione di primo ministro. Se non ci riuscisse il presidente nominerebbe un altro candidato con altre quattro settimane per le trattative di governo. E se anche lui fallisse vi sarebbero ancora due settimane in cui qualunque parlamentare potrebbe sottoporre le firme di almeno 60 colleghi (con lui sarebbero la maggioranza) che lo designano a formare il governo. Se questo non accade si va a nuove elezioni. Se invece si forma un governo, questo deve ottenere la fiducia della Knesset prima di entrare nel pieno dei propri poteri.

• La trattativa
  Questo percorso è stato seguito fino a diverse tappe nelle scorse quattro elezioni: due volte c’è stato un governo di alternanza e due volte si è andati diritti a nuove elezioni. Questa volta c’è una solida maggioranza dietro a Netanyahu e non dovrebbero esserci sorprese. Ma la formazione del governo nella politica israeliana è sempre un lavoro molto complesso, con pretese, ultimatum, compensazioni, confronti, che spesso risultano in formazioni molto ampie che soddisfano le richieste di riconoscimento dei politici, anche se talvolta non danno loro un grande potere reale. Inoltre vige una regola chiamata “legge norvegese” per cui i ministri in carica, finché svolgono il loro ruolo, vengono sostituiti alla Knesset dai primi fra i non eletti della stessa lista, ampliando il numero degli interessati. Insomma si prospetta una trattativa dura, che però Netanyahu, a quel che si dice, vorrebbe concludere molto rapidamente anche per evitare colpi di coda del precedente governo, possibilmente addirittura entro il 16 novembre, quando sarà convocata la seduta inaugurale della nuova Knesset.

• Le richieste dei partiti
  Si sa che Ben-Gvir ha chiesto il ministero della sicurezza pubblica (quello che in Israele controlla le forze dell’ordine, che non dipendono dal Ministero dell’Interno) e Smotrich ambisce al Ministero della Difesa. I partiti religiosi di solito puntano ai ministeri di spesa da cui possono aiutare le comunità che li esprimono, cioè i ministeri che regolano i sussidi, le abitazioni, la scuola). Vi sono altri posti pesanti da attribuire come gli Esteri, su cui però tradizionalmente l’influenza di Netanyahu è dominante), la Giustizia, l’Economia. su cui si concentrano le ambizioni dei membri più influenti del Likud. Si sa che le trattative sono già iniziate, ma esse si svolgono naturalmente in maniera riservata. La formazione del governo è resa più complicata dal fatto che in Israele e anche negli Usa vi sono forti pressioni perché Netanyahu non assegni ministeri chiave ai sionisti religiosi, in quanto “estremisti”. Vi è anche chi lavora perché al nuovo ministero sia associato Gantz, che avrebbe a sua volta delle richieste pesanti per rimangiarsi le sue promesse di non andare mai con Netanyahu e per dimenticare la pessima esperienza del governo di coabitazione di due anni fa. E c’è anche chi vorrebbe che Bibi scaricasse del tutto dalla maggioranza Ben Gvir e Smotrich per sostituirli con Ganz e il suo partito. È difficile dire quanto queste pressioni andranno a effetto. Abilissimo politico, Bibi sa di non dover deludere il suo elettorato, ma preferisce non sbilanciarsi troppo e avere sempre delle alternative. Solo fra qualche giorno o settimana conosceremo le sue scelte.

(Shalom, 7 novembre 2022)


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Israele: Ben Gvir vorrebbe il ministero dell’istruzione

In Israele la coalizione di destra si sta riunendo per formare il nuovo governo. Il controverso parlamentare di estrema destra Ben Gvir ha detto che vorrebbe avere un ruolo di alto livello nel prossimo governo di Israele. Secondo quanto riferito, Gvir vorrebbe sia il ministero dell’istruzione che quello della sicurezza pubblica.

di Simona Lazzari

Le elezioni in Israele si sono concluse con la vittoria del blocco di destra guidato dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. La vittoria del blocco di destra è dovuta anche grazie al boom di consensi ottenuti dall’estrema destra, guidata dal controverso parlamentare Ben Gvir. Dopo la vittoria della destra molti si sono chiesti se Netanyahu darà molto spazio a Gvir. Ora, secondo quanto riferito, Gvir avrebbe intenzione di chiedere nei colloqui informali della colazione che al suo partito Otzma Yehudit possa essere affidato il ministero dell’istruzione e quello della sicurezza pubblica, ministro che sovraintende la polizia. Secondo l’emittente pubblica Kan, Gvir vorrebbe applicare nuove riforme all’istruzione, tra cui la modifica dei programmi scolastici laici. Gvir vorrebbe che tali programmi venissero sottoposti ad una revisione per approfondire la storia ebraica e gli studi sul patrimonio ebraico.  
  Netanyahu ha iniziato domenica i colloqui informali sulla formazione del suo prossimo governo, anche se non gli è stato ancora ufficialmente conferito il mandato dal presidente Isaac Herzog. Ha incontrato i leader delle due fazioni del giudaismo della Torah unita, Moshe Gafni e Yitzhak Goldknopf, e Bezalel Smotrich, leader del partito del sionismo religioso di Ben Gvir. Secondo quanto riferito, Smotrich ha espresso interesse per il portafoglio della giustizia o della difesa. Tuttavia, il notiziario di Channel 12 ha riferito che durante un incontro all’inizio della giornata, Smotrich gli ha chiesto di ricevere il portafoglio della difesa o quello finanziario. Il notiziario afferma anche che Smotrich ha appoggiato la richiesta di Ben Gvir di essere nominato ministro della pubblica sicurezza.

• Le preoccupazioni di Washington
  Nel frattempo, funzionari statunitensi hanno espresso la loro preoccupazione per un possibile incarico di governo a Ben Gvir. Inoltre, molti gruppi ebraici della diaspora hanno espresso allarme per l’ascesa dell’estrema destra e in particolare per la prospettiva che Gvir possa entrare a far parte del gabinetto. Netanyahu è probabilmente preoccupato per la potenziale reazione degli USA e di altri alleati occidentali se consegna a Ben Gvir una posizione di alto livello.

(Periodico Daily, 7 novembre 2022)


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Israele, una democrazia più fragile

di Claudio Vercelli

La vittoria della coalizione di destra in Israele è netta e incontrovertibile. Nessun dato aggiuntivo potrà quindi trasformarne gli echi di fondo di un tale stato di cose. Che ci dicono alcune cose, sulle quali è necessario riflettere. La prima è che il successo elettorale è consegnato a uno scarto di poche migliaia di voti. In altre parole, a fronte di 4.793.641 elettori (su un totale di 6.778.804 aventi diritto), con una bassissima percentuale di voti bianchi o invalidati (lo 0,62%), in ragione della legge elettorale proporzionale, che pone una soglia di sbarramento del 3,25% alle liste che si presentano al riscontro delle urne, la differenza tra le due coalizioni, quella di destra e quella anti-Netanyahu, è stata di 28 mila voti a favore della prima.
   In sostanza, le destre – meglio usare il plurale – riconfermano il loro seguito elettorale, con alcune differenze e compensazioni (ad esempio, il fatto che una parte di giovani elettori ultraortodossi abbia scelto il Partito del sionismo religioso, di contro ai partiti religiosi propriamente detti). La vittoria personale di Benjamin Netanyahu, che consegna al suo partito Likud il 23,41% dei voti e 32 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano, è tangibile ma non fa da sé la vera differenza.
   La quale, ed è la seconda considerazione da fare, deriva sia dall’indiscutibile capacità di fare coalizione dell’ex premier, in grado ora di garantirsi un governo con una buona maggioranza parlamentare, pari a 64 seggi (di cui solo 8 occupati da donne), sia dall’incapacità di ciò che resta della sinistra di aggregarsi in un’alleanza elettorale anche solo di mero scopo temporaneo. Mentre i laburisti quasi dimezzano la loro presenza (raccogliendo il 3,69% dei voti e 4 seggi), il Meretz, storico partito della sinistra sionista, non supera la soglia fatale d’accesso, attestandosi al 3,16%, rimanendo quindi escluso per la prima volta dalla sua fondazione, avvenuta nel 1992, dal Parlamento. Già questo basterebbe da sé per capire quale sia il trend prevalente in Israele, scontando a priori una debolezza strutturale della proposta politica della sinistra che, nella sua evanescenza, oramai è divenuta pressoché irrilevante.
   Ma se a ciò si aggiunge poi – terza considerazione in ordine a quelle precedenti – la disillusione del voto arabo, l’elevato astensionismo e il convincimento che per via parlamentare ben poco si possa ottenere, allora il quadro della forza dei vincitori si fa ancora più chiaro. Contrariamente alle elezioni del 2015, quando, unendosi, i partiti arabi avevano ottenuto una quindicina di seggi, le liste separate (Ra’am e Hadash-Ta’al) questa volta ne hanno raccolto solo una decina. Peraltro divise al proprio interno, tra conflitti e rivalità di vario genere.
   Il quarto elemento da prendere in considerazione è invece il successo della destra radicale, con la quale Netanyahu si prepara a varare un governo che raccoglierà la destra nazionalpopulista (il Likud), la destra religiosa (Shas, United Torah Judaism) e gli stessi estremisti (Sionismo religioso, con il 10,83 dei voti e ben 15 seggi). Si tratta di una maggioranza di governo che non ha precedenti in Israele, dove la destra storica, quella di Begin, Shamir e Sharon, era stata quasi sempre in coalizione non solo con una parte dei partiti religiosi ma con liste e componenti centriste; se non, in alcuni casi, in veri e propri governi di unità nazionale. Peraltro, fino ad anni recenti, la disposizione implicita un po’ in tutte le istituzioni nazionali era quella che indicava di escludere gli estremisti, le «teste calde», dai ruoli e dalle funzioni più delicate. Se la destra radicale dovesse ottenere alcuni dicasteri, com’è plausibile, allora potrebbe avere accesso ai dossier più impegnativi. Tra di essi anche quelli della sicurezza, dove alcuni suoi esponenti politici sono stati fatti oggetto di verifiche, indagini e sorveglianze da parte degli stessi apparati di protezione dello Stato. Tanto per dire.
   L’exploit del Partito del sionismo religioso, che nasce dalla (precaria e contingente) convergenza di due figure fondamentali dell’attuale radicalismo etnico e ultranazionalista, Bezalel Yoel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, le cui posizioni di fondo sono in rotta di collisione con il non meno fragile equilibrio tra democrazia ed ebraicità nello Stato, rischia di creare grandi problemi alla navigazione di «Re Bibi», così come lo chiamano i suoi sostenitori. Benché sia un politico navigato, al netto dei suoi guai giudiziari, l’alleanza di potere che dovrà gestire da qui in avanti sarà caratterizzata per una marcata propensione all’instabilità. La visione del futuro d’Israele che i gruppi estremisti manifestano (in particolare Otzma Yehudit e Noam) è d’altro canto profondamente illiberale e antipluralista.
   Tra gli orizzonti politici conflittuali ci sono i confini a venire del Paese, il rapporto con la componente araba, che costituisce circa il 20% della popolazione nazionale, e la concezione dell’essere ebrei come appartenenza etno-identitaria. Nel primo caso il mandato che il Sionismo religioso (che, va ripetuto, è un blocco elettorale, non una formazione politica unitaria) si è dato è quello di far coincidere lo Stato d’Israele con Eretz Israel, la terra d’Israele per come è richiamata nei Testi sacri dell’ebraismo. Ciò comporterà un nuovo e pesante capitolo di tensioni che avrà ad oggetto gli insediamenti in Cisgiordania, costantemente in crescita nel numero di residenti. Una tale politica non solo proseguirà nei fatti, in un processo di inarrestabile espansione territoriale, ma renderà ancora più problematica la capacità delle istituzioni israeliane di evitare che ciò si trasformi da subito sia in fattore di crescente attrito con gli interlocutori internazionali sia in una potenziale fonte di attriti all’interno del sistema di pesi e contrappesi dello Stato.
   Il territorialismo della destra radicale, infatti, rivendica anche una svolta (che sarebbe una vera e propria frattura) all’interno del sistema istituzionale, a detrimento degli organi di rappresentanza, di intermediazione e di garanzia, a partire dall’autonomia dei poteri giurisdizionali. Per ciò che concerne la presenza araba nella società israeliana, Smotrich e Ben-Gvir non hanno mai nascosto il loro proposito, ossia quello di arrivare al giorno in cui essa sarà neutralizzata. Plausibilmente, con l’ipotesi di una sorta di trasferimento in massa di questa in altre terre. L’inattuabilità, morale e civile, prima ancora che politica e fattuale, di una tale ipotesi nulla toglie alla capacità di coalizzare e fidelizzare consensi posizionati su versanti sempre più radicalizzati.
   Ancora una volta, il sospetto, che si fa avversione, nei confronti delle minoranze interne serve a costruire un blocco di elettori il cui collante è una sorta di “timore spavaldo”, ossia la propensione a osare di pensare l’altrimenti inaccettabile. Dando mandato ad alcuni politici di farsi portavoce in tale senso. Inutile richiamare l’avversione per i diritti civili, che nel radicalismo fa da corredo a una visione agorafobica del mondo, ispirata a una sorta di riduzione della politica a mero esercizio di forza. A tale riguardo, la proposta della destra radicale odierna è infine quella di etnicizzare l’appartenenza ebraica, riformulandone i suoi significati: non più elemento di una cittadinanza giuridica e civile, ma indice di una condizione originaria, quella di “natura”, che si fa in sé dimensione politica totalizzante. L’essere ebrei, in quest’ottica, non è più il costituire parte di un tutto, dove si collocano anche i non ebrei, ma una totalità che vive di luce propria, a prescindere da qualsiasi obbligo di mediazione con il resto delle collettività. L’israelianità è ebraismo, e non altro. Ma l’ebraismo, a sua volta, è qui inteso essenzialmente come un carattere etno-nazionale e non al medesimo tempo come anche qualcosa d’altro, molto differenziato al suo interno. Anche da questa premessa si alimenta quindi la crescente spaccatura nei confronti della componente araba del Paese. Netanyahu, durante la campagna elettorale, ha parlato di volere formare un esecutivo «Yamina malè», di «destra piena», per cui chi non è con lui può diventare un traditore, una sorta di antipatriota.
   La proposta della destra radicale odierna è quella di etnicizzare l’appartenenza ebraica, riformulandone i suoi significati: non più elemento di una cittadinanza giuridica e civile ma indice di una condizione di “natura”
   Un’ultima considerazione va poi fatta. Lo sfarinamento del blocco anti-Netanyahu segna anche una significativa inversione di tendenza sul piano politico per gli avversari del premier entrante. Dai primi anni Duemila in poi diversi esponenti politici, in origine sia di destra sia di sinistra (ad esempio Sharon, Peres, Livni), in assenza di un negoziato con la controparte palestinese, avevano tentato di lanciare la carta centrista, ossia della formazione di un partito in grado di diventare il baricentro del sistema politico nazionale, posizionandolo su un versante moderato e secolarizzante. Una tale operazione configurava e precorreva una soluzione unilaterale del conflitto con i palestinesi, di fatto disegnando dei confini tali da favorire Israele ma anche in grado di definire, una volta per tutte, le linee di divisione tra israeliani (compresi tra di essi gli stessi arabi con cittadinanza) e la comunità nazionale palestinese. Il ritiro da Gaza, nel 2005, si inscriveva in questo orizzonte. Che si rifletteva sulla logica del sistema politico interno, senz’altro in tale modo destinato a mutare, tuttavia preservando la rappresentanza pluralista e secolarizzante delle istituzioni nazionali. Oggi, ciò che resta di quell’esperimento si è definitivamente concluso. I 24 seggi conquistati dal partito centrista Yesh Atid di Yair Lapid non sono indice di una potenziale alternativa allo smottamento a destra, ma solo il segnale che alla sinistra, cannibalizzata nel voto dagli stessi centristi, si sostituisce un partito liberale ma completamente estraneo alla progettualità che fu, in un tempo oramai da molto trascorso, della sinistra sionista. Qualcosa, in fondo, che è allineato agli standard che vanno confermandosi rispetto all’affermarsi del nazionalpopulismo e dei sovranismi identitari in molti Paesi a sviluppo avanzato.

(il Mulino, 7 novembre 2022)

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Acquisti israeliani per soluzioni guerra elettronica

MAROCCO - Il Marocco ha effettuato un ordine con la società israeliana Elbit Systems per 70 milioni di dollari di soluzioni di guerra elettronica (Electronic Warfare) e signal intelligence (Sigint), riporta un media specializzato in armamenti, Military Africa.
  Il contratto, che sarà eseguito in un periodo di due anni e mezzo, secondo la lettura del sito d’informazione “è la risposta del Marocco all’acquisizione da parte del suo rivale algerino del sistema cinese Cew-03A Mobile 6×6 per camion Ew, ricevuto a settembre per aggiungerlo a i suoi sistemi russi Krashuka-4 e Avtobaza Ew”, aggiunge lo stesso sito. Il gruppo israeliano aveva annunciato, in un comunicato stampa pubblicato a giugno, di aver vinto un contratto “per fornire una soluzione di guerra elettronica a un cliente internazionale”, ma senza rivelarne l’identità. “In base al contratto, Elbit Systems fornirà unità di terra Ew e Sigint dotate di elettronica di supporto, contromisure elettroniche e sistemi di comando e controllo.
  Queste unità creeranno un quadro aereo e terrestre completo e forniranno un ordine di battaglia elettronico, che consente una risposta efficace alle minacce aeree e terrestri”, aveva precisato la Elbit in quel momento. Oren Sabag, direttore generale di Elbit Systems, ha dichiarato: “Stiamo assistendo a una crescente domanda per le nostre soluzioni Ew e Sigint poiché le forze armate di tutto il mondo riconoscono sempre più l’importanza fondamentale di dominare lo spettro elettromagnetico”.
  Il sistema di signal intelligence “Alinet” viene utilizzato per sopprimere le difese aeree nemiche cercando segnali radar e segnali radio in grado di localizzare posizioni come posti di comando. Queste informazioni possono essere combinate con i droni Bayraktar Tb2 (turco) e Harop (israeliano), due tipologie di velivoli senza pilota già in servizio nei ranghi delle Forze armate reali marocchine (Far). Marocco e Israele hanno concluso, nel giugno 2021 a Rabat, un accordo sulla sicurezza informatica che copre la cooperazione operativa, la ricerca, lo sviluppo e la condivisione delle informazioni. [

(InfoAfrica, 7 novembre 2022)

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Inaugurata una sinagoga in un’università del Marocco

di Luca Spizzichino

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Per la prima volta nel mondo arabo è stata aperta una Sinagoga all’interno di un ateneo. È successo in Marocco, dove è stata inaugurata nei giorni scorsi la Beit El Synagogue presso l'Università Politecnica Mohammed VI di Marrakech.
  Il progetto è stato promosso dalla Mimouna Association e dalla American Sephardi Federation. Entrambe le organizzazioni si adoperano da diverso tempo nel preservare la cultura ebraica in Marocco e in Medio Oriente.
  Questa è solo una delle tante iniziative portate avanti per la popolazione ebraica locale e la promozione della sua ricca storia ebraica a partire da dicembre 2020, quando il Marocco è entrata a far parte dei paesi che hanno aderito agli Accordi di Abramo.
  Elmehdi Boudra, fondatore e presidente di Mimouna, ha spiegato a The Media Line come questa nuova sinagoga sia stata costruita accanto a una nuova moschea del campus. Le due strutture condividono un muro come simbolo di unità religiosa.
  "Non è una grande sinagoga, ma può contenere un minyan. - ha affermato Boudra - I rotoli della Torah e tutti gli oggetti religiosi sono stati donati dalle comunità ebraiche di Fez e Marrakech."
  “L'ebraismo marocchino fa davvero parte della storia marocchina da quasi 2.000 anni” ha aggiunto.
  Il rabbino Elie Abadie, del Consiglio ebraico degli Emirati, era presente alla cerimonia di inaugurazione, che ha visto ebrei e musulmani riuniti per attaccare la mezuzah, una piccola scatola contenente un rotolo di pergamena con alcuni passi della Torah e che viene affisso allo stipite destro di tutte le case e luoghi ebraici.
  "Il significato dell'apertura di una sinagoga all'università in Marocco, in particolare quella che prende il nome del Re, è di grande importanza", ha sottolineato Abadie.
  Al momento non ci sono studenti ebrei nell'Università Politecnica Mohammed VI di Marrakech, tuttavia grazie agli accordi tra i due paesi e tra l'università e le istituzioni accademiche israeliane, nei prossimi anni potranno arrivare nel campus marocchino molti studenti dallo Stato Ebraico.

(Shalom, 7 novembre 2022)

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Miriam, un personaggio profetico (3)

di Gabriele Monacis

Il secondo brano della Torah che parla di Miriam si trova al capitolo 15 dell’Esodo. Nel capitolo precedente, la Scrittura racconta il passaggio del mar Rosso da parte del popolo d’Israele. Il mar Rosso non lo avevano attraversato a nuoto, ma all’asciutto, con le acque che formavano un muro alla loro destra e alla loro sinistra. Il passaggio del mare non costituì solo il superamento di un ostacolo insormontabile, se Dio non avesse aperto le acque davanti a loro. Quel giorno Israele, davanti alla morte dei loro nemici annegati nel mare mentre era in salvo sulla riva del mare, assistette con i propri occhi alla fine di un’epoca, quella della schiavitù sotto la mano degli egiziani, coloro che lo avevano tenuto schiavo per centinaia di anni e che ora non accettavano di vederlo libero. Nel tentativo di riacciuffare quel popolo in fuga, gli egiziani si erano spinti ad attraversare anche loro il mare spaccato in due. Aiutati dalla velocità dei loro cavalli, non sarebbe stato difficile raggiungerli e dargli una bella lezione, pensavano. Ma ad un certo punto devono aver realizzato che non era affatto come pensavano, tanto che arrivarono a dire: “Fuggiamo davanti a Israele, perché l'Eterno combatte per loro contro gli Egiziani”. (Esodo 14:25). Gli inseguitori erano diventati i fuggitivi. Israele stava per vincere la guerra senza aver nemmeno iniziato a combatterla, perché il Signore degli eserciti combatteva per loro.
  Infatti, una volta che l’ultimo membro del popolo di Israele raggiunse la riva del mare e fu in salvo, il Signore fece sì che le acque del mare si richiudessero su se stesse, ingoiando carro, cavallo e cavaliere egiziani. La disfatta fu tremenda, non ne scampò neppure uno. Le acque del Nilo, per ordine del faraone, dovevano essere la tomba dei maschi del popolo d’Israele. Le acque del mar Rosso divennero la tomba dell’esercito egiziano. 

    “Così, in quel giorno, l'Eterno salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide sul lido del mare gli Egiziani morti. Israele vide la grande potenza che l'Eterno aveva mostrato contro gli Egiziani, e il popolo temette l'Eterno e credette nell'Eterno e in Mosè suo servo” (Esodo 14:30,31).

Una volta salvi dai propri nemici, Mosè e i figli d’Israele cantarono un canto al Signore, noto in ebraico come il canto del Mare. Egli aveva appena combattuto per Israele. I nemici di Israele erano diventati i nemici del Signore. In questa guerra, fu ovviamente il Signore a trionfare e la vittoria del Signore diventò anche la vittoria di Israele. Dio aveva gettato nel mare cavallo e cavaliere egiziani, sprofondati nelle acque più profonde. Israele invece era passato sull’asciutto, il mare si era aperto davanti a loro, senza sopraffarli. 
  Questa narrazione ricorda molto quella del diluvio, che coprì la terra intera. In quella circostanza, Dio mandò il suo giudizio sugli uomini, a motivo della loro grande malvagità. Noè, che trovo grazia agli occhi di Dio, non perì. Insieme con la sua famiglia, Noè rimase nell’arca durante il diluvio, cioè sopra le acque e non sotto. Il resto dell’umanità invece perì sotto le acque del diluvio. Allo stesso modo, gli egiziani affondarono nel mare, sotto il giudizio di Dio, per essersi ostinatamente opposti, nella persona del faraone, alla richiesta di Dio di lasciare andare il suo popolo. Il destino di Israele, invece, sarebbe stato completamente diverso da lì in avanti. Non solo non erano morti sotto l’acqua, ma Dio li avrebbe condotti ad un monte, un luogo elevato, il luogo che Egli aveva preparato per loro, la Sua dimora, il santuario che le Sue mani avevano stabilito, lì dove Egli avrebbe regnato per sempre, in perpetuo (ved. Esodo 15:17,18). 
  Il destino di Israele, dunque, non sarebbe dovuto essere un destino di giudizio, di morte e di oblìo, come per i nemici di Dio. Anzi, il Signore aveva in mente per loro un futuro di benedizione e di vita, nel luogo della Sua dimora, per l’eternità.
  E qui entra in gioco Miriam, sorella di Mosè. Al termine del canto che Mosè e i figli di Israele cantarono al Signore, al culmine della lode al Dio d’Israele, eterno e glorioso, nella narrazione biblica compare improvvisamente Miriam, impegnata ad organizzare una cerimonia di lode al Signore. 

    Miriam, la profetessa, sorella di Aaronne, prese in mano il tamburello, e tutte le donne uscirono dietro a lei coi tamburelli e con danze. E Miriam cantava loro: «Cantate all'Eterno, perché si è grandemente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere»” (Esodo 15:20,21). 

Nella sua iniziativa, Miriam riesce a trascinare un gruppo numericamente considerevole di persone – tutte le donne – dimostrando una spiccata dote da condottiera. Come già detto in precedenza, questa organizzata da Miriam rappresenta la prima forma di adorazione collettiva di Israele al Signore, con tanto di strumenti musicali e danze.
  Dopo Miriam almà in Esodo 2, in questo brano di Esodo 15 troviamo Miriam la profetessa, un altro appellativo importante che la Scrittura attribuisce a questa donna. E anche quello di profetessa, come quello di madre che le viene dalla parola almà, costituisce un ruolo determinante. All’uscita del mar Rosso, con ancora i resti inermi dell’esercito egiziano sotto gli occhi, finito il canto con cui Mosè espresse tutta la grandezza del Signore e del suo piano per Israele, Miriam capisce che quel momento è storicamente unico, il popolo va spinto a realizzare pienamente ciò che il Signore ha appena fatto per loro e che non ha fatto per nessun altro popolo, e questa è una cosa da imprimere nelle memorie di tutti per sempre. Proprio per questo Miriam è una profetessa. I profeti erano persone che Dio chiamava in circostanze storiche e sociali particolari e avevano l’incarico di scuotere i loro ascoltatori affinché si risvegliassero: per pentirsi dei propri peccati e abbandonarli, e per offrire al Signore, e a nessun altro, la lode e l’adorazione che spettano soltanto a Lui, come fece Israele all’uscita del mar Rosso sotto la guida di Miriam.
  Si è già notato in precedenza che la figura di Miriam non ha solo una dimensione storica, cioè riferita al tempo e al luogo in cui è vissuta, ma ha anche un valore profetico, cioè rappresenta una realtà che va oltre il tempo e lo spazio in cui è vissuto questo personaggio. Ciò non è soltanto vero per quanto riguarda l’essere almà, termine che collega Miriam, sorella di Mosè, all’altra Miriam, la madre di Gesù, vissuta diversi secoli dopo la prima. Il valore profetico del personaggio di Miriam lo troviamo anche nel suo ruolo di profetessa, che la Parola di Dio le attribuisce. In quanto tale, Miriam anticipa il ruolo che avrebbe avuto il popolo di Israele nella sua storia nei confronti delle altre nazioni: Israele profeta di Dio, colui al quale Dio rivela la sua Parola, cioè il suo essere e la sua volontà, e attraverso il quale la Sua Parola raggiunge le altre nazioni. 
  Dio, nel corso della storia, si è sempre servito di Israele per parlare agli uomini, che fossero essi membri del popolo di Israele o del resto delle nazioni. Il libro noto con il nome di Bibbia è giunto fino a noi grazie a scrittori che facevano parte del popolo di Israele. La diffusione del Vangelo stesso è frutto del lavoro di annunciazione svolto in primis dagli apostoli, che erano tutti membri del popolo di Israele.
  Miriam profetessa sta ad Israele popolo, come Israele profeta di Dio sta al resto delle nazioni. Miriam, in quanto profetessa, ha svolto un ruolo all’interno del suo popolo simile a quello che Israele ha svolto all’interno delle nazioni: cioè esortare gli esseri umani ad abbandonare le divinità pagane e cominciare ad adorare il Signore, l’unico vero Dio che è degno di ricevere la lode e la riconoscenza delle sue creature.
  E se Miriam rappresenta bene il popolo di Israele nel ruolo di profeta, può rappresentare Israele anche nel ruolo di almà? La risposta è affermativa ed è legata a Gesù il Messia. Come visto in precedenza, l’almà Miriam, sorella di Mosè, è una figura in parallelo con l’altra Miriam, la madre di Gesù, che lo mise al mondo e lo protesse dalle minacce di morte di re Erode. Anche Miriam protesse il suo fratellino Mosè dalla minaccia di morte del faraone quando lo accompagnò nella cesta sulle acque del Nilo. Ma non possiamo certo dire che Miriam mise al mondo Mosè, essendo sua sorella e non sua madre. Allora in che modo quella Miriam svolse pienamente la funzione di madre che mette al mondo qualcuno? Lo ha fatto nel momento in cui la figura di Miriam è anche un personaggio non solo storico, ma anche profetico, che rappresenta bene il popolo di Israele, il quale ha dato i natali a Gesù il Messia.
  Il fatto che la Scrittura non dia alcuna informazione sulla famiglia di Miriam è molto interessante: non sappiamo se fosse sposata e se abbia avuto dei figli o meno. Queste domande apparentemente senza una risposta, dovrebbero indurre il lettore a ricercare questa risposta non nel personaggio storico di Miriam, ma in ciò che questo personaggio rappresenta, cioè il popolo di Israele. Il quale non solo è profeta a cui Dio ha parlato nel corso della storia, ma è anche il popolo nel quale il Messia è nato, è cresciuto, è diventato uomo, il popolo dal quale il Messia ha assorbito la lingua, la cultura, la storia, il modo di pensare. Proprio come fa ogni essere umano che nasce all’interno di un gruppo di persone accomunate dalla stessa etnia.
  Questa è senza dubbio una posizione di enorme privilegio che ha Israele rispetto a tutte le altre nazioni. Nessun altro popolo può dire di essere l’interlocutore dell’unico vero Dio, a cui Egli ha affidato la Sua Parola eterna. E nessun altro popolo sulla faccia della terra, se non Israele, può dire di essere stato la famiglia del Messia in senso lato, coloro in mezzo ai quali Gesù ha fatto ciò che ogni essere umano fa, da quando nasce a quando muore.
  In base al racconto dell’Esodo fino al capitolo 15, sembra proprio che anche Miriam fosse in una posizione privilegiata, unica nel suo genere. Poteva vantare non soltanto di essere parte della famiglia leader all’interno del popolo, essendo la sorella maggiore di Mosè, la guida spirituale di Israele, e di Aaronne. Ma era lei stessa una profetessa, a cui Dio aveva affidato un ruolo di grande rilievo in un momento chiave della storia di Israele. Un curriculum vitae di tutto rispetto quello di Miriam, non c’è dubbio.
  Ma la sua storia continua e non finisce con i suoi privilegi di almà e profetessa. Così come la posizione di Israele non consiste solo nei privilegi che Dio gli ha dato. C’era un passo che Miriam doveva ancora fare nella sua vita di personaggio di spicco, un passo interiore e spirituale, per il Signore, affinché capisse che non erano i privilegi che Dio le aveva dato quelli che la tenevano in vita. Ma questo lo vedremo nella prossima occasione.

(3. continua)

(Notizie su Israele, 6 novembre 2022)


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Le tre sfide di Netanyahu. Biden, Accordi di Abramo e Cina

Casa Bianca, Accordi di Abramo: per Bibi ci sarà da gestire gli equilibri tra gli interessi interni, le componenti politiche della maggioranza e le relazioni internazionali di Israele. Il caso Ben-Gvir, con l’Amministrazione che fa trapelare di non voler averci a che fare.

di Emanuele Rossi

“Il mago” della politica, come lo chiamano i suoi ammiratori è tornato a guidare il governo israeliano, ma per Benjamin Netanyahu la vera magia non è stata la vittoria alle urne. Il ritorno era quasi dato per scontato, ora la sfida sarà quella di tenere insieme gli alleati e muovere il Paese all’interno delle dinamiche complesse regionali e internazionali che riguardano il Medio Oriente e Israele.
  È abbastanza certo che le politiche su una robusta sicurezza nazionale e forte spinta alla crescita economica, vengano riprese da Netanyahu da dove le aveva lasciate poco più di un anno fa – quando, caduto il suo governo, l’esecutivo era passato in mano a un’alleanza che aveva come amalgama più che altro l’avversità nei suoi confronti. Ma oltre ai temi interni, ci saranno quelli esterni da rimodellare, anche perché nel frattempo è esplosa la guerra russa in Ucraina e con essa si sono dinamizzati meccanismi che hanno portato a nuove fluidità negli affari internazionali.
  Per esempio, sebbene il mantenimento dell’alleanza con gli Stati Uniti sia sempre stata una priorità per Netanyahu nel corso della sua carriera politica, dovrà di nuovo scontrarsi con una Casa Bianca che – come ai tempi di Barack Obama – vede in Joe Biden non proprio la sponda perfetta. Differentemente, come dimostrato già dalle reazioni entusiaste di congressisti ed ex membri di amministrazioni passate, Netanyahu godrà tra i Repubblicani di un appeal insolito per un leader internazionale.
  L’amministrazione Biden sta già facendo trapelare alla stampa che potrebbe “rifiutarsi di impegnarsi” (cioè ostracizzare) uno dei leader del cartello politico di estrema destra che quasi certamente sarà un ministro del nuovo governo, Itamar Ben-Gvir, su cui pendono accuse di razzismo contro gli arabi e di conservatorismo religioso ipertrofico. A prescindere dalle opinioni personali sul cananista Ben-Gvir, si tratta di un’azione rischiosa per Washington, sebbene ne è comprensibile la radice in quanto guidata dai Democratici. Da Israele sono arrivate già, in forma non ufficiale, le prime reazioni: fonti criticano i due pesi e due misure usate nel chiudere la porta a Ben-Gvir e lasciare spiragli al dialogo con gli iraniani.
  Negli Stati Uniti, il tema Israele è diventato sempre più polarizzante, con un sostegno concentrato soprattutto tra i conservatori, in particolare tra i cristiani evangelici. E con una maggioranza apparentemente più ampia del previsto di 65 seggi alla Knesset e una potenziale maggioranza repubblicana al Congresso, tuttavia, Netanyahu potrebbe non avere troppi vincoli con l’amministrazione statunitense.
  L’obiettivo sarà una collaborazione pacifica, dove gli apparati svolgono il ruolo principale. Netanyahu diventerà immediatamente il volto dell’opposizione al regime iraniano e potrebbe essere presto invitato dal prossimo Congresso a maggioranza repubblicana a parlare contro una ricomposizione del Jcpoa (ormai poco probabile) o il tentativo di raggiungere un nuovo accordo sul programma nucleare iraniano, come è già successo nel 2015.
  Per Israele, la questione Iran è in cima alle agende di preoccupazione. Temono che prima o poi Teheran raggiunga non tanto le capacità di arricchire l’uranio a livello militare – che sono già quasi raggiunte – ma di poter miniaturizzare una testata e inserire nei missili il cui programma sta procedendo (e più di una volta Gerusalemme ha protesta a proposito). C’è la possibilità che Israele lanci un attacco preventivo contro l’Iran? Non è da escludere.
  Connesso anche all’Iran e agli Stati Uniti c’è il quadro delle relazioni regionali. Il primo ministro uscente, Yair Lapid, aveva avviato un programma di implementazione per gli Accordi di Abramo – gli accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi che hanno trovato anche nella volontà di contenere l’Iran un punto di contatto ai tempi in cui l’amministrazione Trump, con Netanyahu, li costruirono. “Se gli Stati arabi ritengono di essere imbarazzati da legami stretti con un governo” che contiene figure come Ben Gvir - ha spiegato sul The Atlanticist il direttore della N7 Iniziative ed ex ambasciatore Usa Ben Shapiro “ - i progressi nell’approfondimento degli Accordi di Abramo e nella loro estensione a nuovi Paesi saranno in salita”.
  Anche a questo si lega parte della presa di distanza statunitense dal leader cananista. E sarebbe un altro problema nei rapporti con gli Usa, che ritengono gli Accordi di Abramo una delle forme di maggiore successo per costruire partnership esterne con cui esercitare controllo remoto sulla regione.
  Altro tema poi è la Cina. Nel corso dell’amministrazione Trump, Netanyahu ha dimostrato una crescente comprensione della minaccia che la Repubblica popolare rappresenta per Israele, dal rischio che il porto di Haifa finisca in mano di colossi come Cosco che possono mettere in difficoltà la collaborazione delle Sesta Flotta del Mediterraneo (che usa Haifa come scalo abituale per le operazioni sul lato levantino). E anche sul 5G aveva accettato i suggerimenti (o qualcosa di più) statunitensi sul non cedere ad aziende cinesi. Ma questo non è un punto di vista universale in Israele e dovrà essere costantemente rafforzato dagli Stati Uniti. Su questo, forse più di ogni altra cosa, Netanyahu si giocherà gli equilibri del rapporto con Washington.
  Inoltre, “con la guerra in Ucraina che ha mostrato i legami russi con l’Iran a diventare molto più stretti e le relazioni russo-americane a peggiorare, Netanyahu potrebbe essere meno in grado di avere lo stesso buon rapporto di lavoro che aveva avuto in passato con Vladimir Putin” e di avere meno spazio “per manovrare con successo tra Washington e Mosca”, ha spiegato Mark Katz dell’Atlantic Coiuncil.

(Formiche.net, 5 novembre 2022)

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Morbo di K: la malattia che salvò decine di vite

di Marco Capriglio

Un titolo decisamente insolito, incomprensibile. Quasi in grado di destare perplessità e forse spavento, se pensiamo al nostro periodo storico, tristemente popolato da complottisti e no-vax. Andiamo però per ordine.
  Roma, 1943. Viene scoperto il morbo di K, una malattia che salverà decine e decine di ebrei romani.

• La malattia contagiosissima
  Come già detto, andiamo per ordine. Roma, più precisamente Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, sulle rive del Tevere, anno di grazia 1943. Due anni prima della fine del secondo conflitto mondiale.
  Giovanni Borromeo, primario dell’ospedale e convinto antifascista, insieme allo studente partigiano Adriano Ossicini, scoprì un nuovo morbo, definito nelle loro cartelle cliniche “contagiosissimo“, il morbo di K.
  “K” però non era l’iniziale di un elemento chimico o di un illustre ricercatore, ma le iniziali dei cognomi degli ufficiali nazisti Albert Kesselring e Herbert Kappler, all’epoca in servizio per conto delle SS nella capitale italiana e incaricati di organizzare la deportazione degli ebrei italiani.

• Il falso morbo
  Il morbo scoperto all’ospedale romano era totalmente inventato. Definito “contagiosissimo” nelle cartelle cliniche dei medici, la malattia era inesistente. Inventata solamente con il nobile scopo di salvare le vite di decine di persone.
  All’ospedale Fatebenefratelli venne dedicato un intero reparto al morbo di K, in cui furono ricoverati i “malati” dell’appena scoperto morbo, ovvero ebrei e polacchi. Dichiarati morti con il vero nome, ricevevano documenti falsi da una tipografia clandestina e fuggivano con la loro nuova identità, aiutati dal giovane Ossicini, che aveva trovato a sua volta aiuto in monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI.

• Il rastrellamento del Ghetto di Roma
  Il 16 ottobre 1943 le truppe tedesche fecero irruzione nel ghetto della capitale, arrestando oltre mille persone, la maggior parte delle quali deportate direttamente ad Auschwitz.
  Molti ebrei, a conoscenza del pericolosissimo morbo, corsero all’ospedale Fatebenefratelli. Qui vennero subito ricoverati dal dottor Borromeo e dalla sua squadra, che falsificò tutte le cartelle cliniche.
  Le truppe naziste arrivarono per un controllo e il dottor Borromeo, in grado di parlare tedesco, spiegò ai soldati quanto il morbo fosse aggressivo e pericoloso, facendoli desistere dall’ispezionare le stanze. Il morbo veniva descritto come molto simile alla tubercolosi. I nazisti terrorizzati lasciarono l’edificio.
  Il figlio del dottor Giovanni Borromeo, Pietro, ha pubblicato un volume dal titolo Il Giusto che inventò il morbo di K, edito nel 2007 da Fermento Editore. Adriano Ossicini, morto nel 2019, diventò uno psichiatra e politico, ricoprendo anche il ruolo di ministro della Famiglia tra il 1995 e il 1996.

(theWise Magazine, 5 novembre 2022)

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Antisemitismo in crescita con l’invasione russa in Ucraina: lo dice l’Agenzia europea per i diritti

La disinformazione e l’odio contro gli ebrei sono fioriti su Internet durante la pandemia di Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia, la registrazione degli incidenti antisemiti rimane scarsa in tutta Europa. Ogni paese raccoglie i dati in modo diverso e alcuni non raccolgono affatto i dati. È quanto mostra l’ultima panoramica annuale degli incidenti antisemiti dell’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali (FRA), che esamina i dati provenienti da fonti internazionali, governative e non governative in tutti i paesi dell’UE, nonché in Albania, Macedonia del Nord e Serbia. Raccoglie i dati dal 1 gennaio 2011 al 31 dicembre 2021.
  “L’antisemitismo resta un problema serio nelle nostre società. La pandemia di Coronavirus e l’aggressione della Russia contro l’Ucraina hanno ulteriormente alimentato tale odio”, afferma il direttore della FRA Michael O’Flaherty.
Già a giugno la riunione del gruppo di lavoro aveva evidenziato “i rischi di narrazioni false” e disinformazione che alimentano l’antisemitismo, poiché la Russia ha giustificato la sua guerra, iniziata a febbraio, usando impropriamente “termini come ‘nazista’ e ‘genocidio'” per descrivere il governo in Ucraina.
  Nel suo rapporto annuale, che è stato compilato lo scorso luglio, la FRA ha affermato che “le comunità ebraiche in tutta Europa” sono state “profondamente colpite” dall’odio online e dalla disinformazione nel contesto dell’invasione russa e dell’epidemia.

• Mancanza di dati da alcuni Paesi
  Un problema però è la registrazione degli incidenti antisemiti che rimane scarsa in tutta Europa, sottolinea il report, con la raccolta e la classificazione dei dati che variano in ogni paese. Non erano, ad esempio, disponibili dati ufficiali sugli incidenti antisemiti registrati da due Stati membri dell’UE, Ungheria e Portogallo, il che rende difficile confrontare in modo significativo la situazione in tutto il continente. “Senza dati adeguati non possiamo sperare di essere efficaci nel contrastare incidenti antisemiti di lunga data – continua Michael O’Flaherty –. È giunto il momento che i paesi dell’UE intensifichino i loro sforzi per incoraggiare la segnalazione e migliorare la registrazione, in modo da poter affrontare meglio l’odio e il pregiudizio contro gli ebrei”.
  La disinformazione e l’antisemitismo online sono aumentati sulla scia della pandemia e dell’invasione dell’Ucraina. In alcuni paesi (Austria, Finlandia), la maggior parte degli incidenti registrati è avvenuta online.
  Per quanto riguarda le strategie nazionali dal report emerge che solo 14 paesi dell’UE hanno strategie nazionali o piani d’azione dedicati per combattere l’antisemitismo. Otto paesi stanno attualmente sviluppando tali strategie e piani.
  Inoltre, un numero crescente di paesi utilizza la definizione operativa di antisemitismo sviluppata dall‘International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) nell’istruzione, nella formazione e nella sensibilizzazione.
  La Commissione europea ha invece presentato la sua prima strategia in assoluto per combattere l’antisemitismo nell’ottobre 2021 e dovrebbe pubblicare relazioni sull’attuazione della sua strategia rispettivamente nel 2024 e nel 2029, basandosi anche sui dati della FRA sugli incidenti antisemiti per la loro valutazione.

(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2022)

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Studio israeliano registra allarmanti risultati sull’inquinamento da microplastica sulle spiagge

di Michelle Zarfati

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L’emergenza climatica è ormai al centro delle riflessioni del momento. Sono tanti i dati preoccupanti che ci spingono a riflettere su come il pianeta stia cercando di comunicare la necessità di un cambiamento. Un recente studio israeliano ha rivelato risultati estremamente allarmanti sul livello di inquinamento da microplastica sulle spiagge del Paese. La costa israeliana sarebbe contaminata da oltre due tonnellate di microplastica. Tra le più inquinate troviamo Tel Aviv e Hadera. I risultati della ricerca mostrano che le maggiori fonti di inquinamento derivano da imballaggi alimentari, prodotti in plastica monouso e reti da pesca. Alla luce dei preoccupanti risultati, i ricercatori avvertono che, data l'attuale situazione in Israele, l'esposizione ai rifiuti microplastici, pericolosi per l'ambiente e la salute umana, è inevitabile.
  La ricerca è stata condotta da un team dell'Università di Tel Aviv in collaborazione con il Centro di ricerca sul Mar Mediterraneo d’Israele, che ha esaminato il livello di inquinamento da microplastiche lungo la costa israeliana. Lo studio è stato successivamente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Marine Pollution Bulletin’.
  Ethan Rubin, responsabile della ricerca, ha spiegato che nel corso del 2021 i ricercatori hanno raccolto campioni da sei aree lungo la costa di Ashkelon, Rishon LeZion, Tel Aviv, Hadera, Dor Beach e Haifa. I materiali sono stati quindi portati al laboratorio per eseguire le analisi, tra cui il conteggio delle particelle, misurazioni della massa, analisi delle immagini e analisi chimiche per identificare il polimero, di cui era composta la plastica, nonché gli elementi assorbiti sulle particelle di microplastica. I ricercatori hanno scoperto, tra le altre cose, che i campioni includevano plastica proveniente da imballaggi alimentari, prodotti in plastica monouso e reti da pesca. "È stato interessante vedere che la plastica di origine terrestre, come gli imballaggi per alimenti, era maggiore rispetto a quella di origine marina come le reti da pesca", ha spiegato Rubin. "Questo indica la necessità di una migliore regolamentazione dei rifiuti costieri".
  Il livello di contaminazione delle spiagge di Tel Aviv e Hadera, che si trovano vicino agli estuari dei torrenti (Yarkon a Tel Aviv e Nahal Alexander ad Hadera), era quattro volte superiore a quello di Rishon Lezion e Dor Beach, che sono le due spiagge con la più bassa concentrazione di microplastiche. Tuttavia, anche nella riserva naturale di Dor Beach, è stata trovata una notevole quantità di particelle di microplastica. La valutazione dei ricercatori è che l'alto livello di inquinamento delle spiagge di Tel Aviv e Hadera e il fatto che si trovino in prossimità di ruscelli, indica che le acque dei ruscelli portano con sé particelle di microplastica in mare, intensificando così il livello di contaminazione sulla spiaggia. "La nostra ricerca rivela che la costa israeliana contiene probabilmente oltre due tonnellate di rifiuti di microplastica", ha detto Rubin. “Le condizioni ambientali scompongono lentamente questa plastica in particelle. Più piccole sono le particelle di plastica, più è difficile rimuoverle e più sono pericolose per l'ambiente e per la nostra salute. Le particelle di microplastica che vanno alla deriva nel mare, vengono inghiottite dai pesci e i loro resti alla fine raggiungono l'uomo".
  Il dottor Zucker, che ha guidato la ricerca, ha aggiunto che "questo studio sulla microplastica rivela lo stato attuale dell'inquinamento da microplastica lungo la costa mediterranea di Israele e fornisce conoscenze sugli effetti della presenza di microplastiche nell'ambiente. Stiamo lavorando per valutare gli impatti ambientali e sanitari, che possono derivare data la prevalenza e le elevate concentrazioni delle particelle che abbiamo trovato. In una prospettiva pratica, sono necessari provvedimenti normativi per ridurre il contributo di Israele all'inquinamento da microplastiche nel Mediterraneo".

(Shalom, 4 novembre 2022)

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In Israele il futuro è ogni giorno

Nonostante l'instabilità politica, Gerusalemme è sempre più avanguardia mondiale. E mentre svetta nelle tecnologie (anche in campo bellico) punta al rango di potenza energetica. [L’articolo è stato scritto pochi giorni prima delle ultime elezioni in Israele. NsI]

di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi 

Cinquecento chilometri quadrati nel Mar Mediterraneo, potenzialmente ricchi di gas e con un valore stimato in miliardi di dollari. A contenderseli, due Paesi che tra loro non hanno relazioni diplomatiche, hanno già combattuto guerre ufficiali e guerre ibride, e formalmente si trovano ancora in «stato di guerra» sin dalla loro nascita come Stati indipendenti. Sono Israele e Libano, una democrazia compiuta la prima e un complicatissimo sistema politico il secondo. Entrambi condividono una crisi di leadership dei rispettivi governi: con Gerusalemme che ha visto avvicendarsi tre premier al governo in altrettanti anni, e con il Libano in piena decadenza di legittimità politica, colpito da una spaventosa recessione economica e una paralisi delle istituzioni. 
  E’ lo specchio dei due volti più rappresentativi di quel Medio Oriente che affaccia sul Mediterraneo e, almeno nelle intenzioni, vorrebbero proiettarsi nella partita energetica del nuovo secolo, dopo gli sconvolgimenti della guerra in Ucraina, candidandosi a rifornire l'Europa di gas (Israele) e a uscire da un perdurante stato di ristrettezze in cui è precipitato (Libano). Orfani in piena pandemia del politicamente longevo Benjamin Netanyahu - tuttora sotto processo per corruzione, frode e violazione della fiducia - gli israeliani si sono affidati a maggioranze ballerine fino all'arrivo di un nuovo premier, Yair Lapid, diventato primo ministro ad interim lo scorso luglio succedendo al primo ministro Naftali Bennett. Ora, però, ad attenderlo c'è un nuovo voto politico, il quinto in tre anni, che potrebbe persino riportare Netanyahu al governo, nonostante le accuse dei tribunali. 
  E’ uno scenario niente affatto improbabile, visto che in tutti i sondaggi il Likud di Netanyahu è ampiamente il primo partito, anche se questo non basterà a garantirgli una maggioranza e costringerà il Paese a un'instabilità di fondo che non giova agli affari né alle relazioni internazionali. Lo sanno bene i libanesi, la cui élite politica è cresciuta all'ombra di pesi e contrappesi politici, forse utili a bilanciare una realtà multiculturale e multiconfessionale, ma che hanno reso il Libano uno dei sistemi politici più complessi al mondo e una realtà così frammentata che, anche geograficamente, è impossibile dire chi comanda davvero e dove. 
  Così, oggi a Beirut la politica vive la fase più acuta di una crisi di legittimità che dura da decenni. Specie dopo che nel 2019, con l'esplosione della bolla finanziaria, la popolazione ha dato vita a movimenti di protesta per chiedere le dimissioni dell'intera classe dirigente. Facile comprendere il motivo: il debito pubblico è al 135 per cento del Pil, la lira libanese si è svalutata del 90 per cento rispetto al dollaro Usa e l'inflazione ha generato una crisi sociale che ha precipitato l’80 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà. Senza contare la semidistruzione del porto di Beirut nell'agosto 2020, che ha spazzato via la speranza di risollevare i traffici mediterranei. 
  Ecco perché un accordo commerciale tra Israele e Libano è visto da entrambi come salvifico e benaugurante. L'intesa sui rispettivi confini marittimi e lo sfruttamento dei promettenti giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale potrebbero segnare un deciso passo in avanti, accelerare le loro performance economiche, far valere la pace in Medio Oriente, allontanare i fantasmi della guerra civile tra le fazioni laiche e religiose libanesi e quelli della «guerra guerreggiata» tra le forze armate israeliane e gli Hezbollah. 
  Può essere un risultato storico. Il Libano si assicurerebbe un tratto di mare a Nord-Est che ingloba il sito chiamato Qana, la cui produzione deve ancora cominciare e di cui non si conoscono le potenzialità energetiche. Avrà tutti i diritti di esplorazione e sfruttamento del giacimento, anche se parte del sito si trova in acque israeliane. Gerusalemme, parimenti, si assicurerà il giacimento offshore di Karish, già interamente nelle acque israeliane, le cui riserve accertate e probabili potrebbero fruttare qualcosa come 40 miliardi di metri cubi di gas e 61 milioni di barili di olio, pari a 317 milioni di barili di petrolio equivalente. Una fortuna e un volano per l'opportunità - non meno storica - di fare di Israele uno dei principali fornitori di gas naturale dell'Europa. Che dovrebbe prendere lezione. 
  Con questi numeri in giro, ecco perché probabilmente l'Alta corte di giustizia dello Stato di Israele ha respinto lo scorso 23 ottobre le numerose petizioni che avevano come scopo bloccare l'accordo sulla demarcazione dei confini marittimi col Libano, aprendo la strada al governo di Gerusalemme per approvarlo e firmarlo entro l'autunno. Le petizioni erano state presentate da due organizzazioni non governative - Kohelet e Lavi - e dal religioso sionista e deputato Itamar BenGvir, ma dietro ci sarebbe lo zampino del redivivo Netanyahu, che si presenta alle elezioni osteggiando ogni accordo politico del rivale Lapid, specie se siglato con il «nemico» storico: «L'accordo con il Libano equivale a una resa a Hezbollah» ha tuonato Bibi. 
  Ma non c'è solo questo. Lapid potrebbe catapultare lo Stato ebraico al rango di potenza mondiale energetica, raggiungendo persino l'autosufficienza e battendo le mire geopolitiche anche della Turchia, altro candidato a sostituire la Russia nel rifornire di energia l'Europa. Secondo il premier, infatti, è un «risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell'economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale». Del resto, il vero nemico dello Stato ebraico è l'Iran. I cui droni attualmente impegnati in Ucraina appaiono sempre piu come un test per scatenare poi una guerra contro Gerusalemme. 
  Che da par suo studia nuovi sistemi di difesa ultra tecnologici. Per questo, il presidente Volodymyr Zelensky vorrebbe ricevere da Gerusalemme il sistema Iron Dome, il più efficace scudo di difesa missilistica al mondo, che riesce a intercettare fino a 1.100 missili simultaneamente entro 70 chilometri di distanza. 
  Si accontenterebbe comunque anche dei droni e dell'addestramento dell'intelligence israeliana: «Siamo pionieri nel campo dei veicoli senza pilota e siamo considerati un leader mondiale nello sviluppo delle tecnologie relative» dichiara orgoglioso il generale Amikam Norkin, già comandante dell'aeronautica e sicuro che la sfida hi-tech tra Iran e Israele è una partita già vinta, consapevole che Avnon Group, lsrael Aerospace lndustries, Elbit e Spear sono già oggi considerate le aziende migliori al mondo nel settore. Come sostiene Jonathan Menuhin, ceo dell'Israel lnnovation Institute, è anche merito della capacità di fare squadra degli israeliani: «Ogni governo crea le opportunità e gli strumenti per consentire all'ecosistema nazionale di portare innovazione continua. E mette insieme imprenditori, ong, start up e opportunità diffuse, che aiutano a mantenere un sistema vibrante e attrattivo per gli investimenti. Non solo ogni università ha un suo corpo tecnologico e di ricerca. Non solo abbiamo Tel Aviv, che è il centro propulsore dello sviluppo tecnologico, ma anche Haifa, Beer Sheva, Gerusalemme vedono oggi attività fiorenti». 
  Le dinamiche di questo «ecosistema» si fondano su «una cultura dell'innovazione finalizzata a creare nuovo business» e consentono a Israele di primeggiare in molti settori: «Mobilità, salute, agricoltura, cambiamento climatico, sono solo alcune delle più importanti realtà che vedono il mondo del lavoro e della ricerca strettamente connessi». 
  Nelle tecnologie per il cambiamento climatico, per esempio, Israele vanta 694 start up. Al punto che una nuova impresa su 7 oggi sviluppa tecnologie orientate al clima e all'energia. «E un settore che nei primi sei mesi dell'anno ha già totalizzato investimenti per 1,47 miliardi di dollari». Ad aver attratto il maggior numero di finanziamenti tra il 2018 e il 2021 sono la mobilità e i trasporti sostenibili, le proteine alternative, l'agricoltura intelligente e i sistemi energetici puliti, che insieme rappresentano il 58 per cento dei finanziamenti totali. 
  Si spiega quindi perché un accordo tra Israele e Libano - mediato dagli americani - consentirebbe non solo una spartizione dei giacimenti di gas naturale, ma il ritorno prepotente del Mediterraneo al centro della geopolitica e della geoeconomia mondiale. 

(Panorama, 2 novembre 2022)

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Le forze israeliane lanciano un raid contro un sito sotterraneo utilizzato da Hamas

Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato di aver lanciato, nelle prime ore di oggi, un raid aereo contro la Striscia di Gaza, dopo che, ieri, da uno a quattro razzi sono stati lanciati contro Israele dall’enclave controllata dal gruppo palestinese Hamas.
  Le Idf hanno dichiarato di aver lanciato attacchi aerei contro un impianto sotterraneo adibito alla produzione di razzi utilizzato dal “gruppo terroristico” Hamas. Hanno anche diffuso una foto satellitare di quello che Israele ha affermato essere il sito colpito. Si tratta di un’area vicino a diversi edifici e appezzamenti agricoli sul confine nord-ovest del campo profughi di Al Maghazi, nel centro di Gaza. A detta delle forze israeliane, è stato il terzo impianto di questo tipo colpito dall’aprile scorso.
  “L’attacco è stato effettuato in risposta ai lanci dal territorio di Gaza contro il territorio israeliano”, hanno precisato le Idf in un comunicato, affermando di voler “danneggiare i tentativi del gruppo terroristico Hamas di costruire e armarsi di razzi”. Un corrispondente dell’agenzia di stampa palestinese “Wafa” ha riferito che l’attacco è stato lanciato per mezzo di aerei israeliani F-16. Sono almeno sei i razzi lanciati contro l’enclave, provocando danni e incendi anche alle abitazioni e proprietà di cittadini, ha riferito “Wafa”. In alcune parti del campo di Al Maghazi vi è stata anche l’interruzione dell’energia elettrica.

(Nova News, 4 novembre 2022)

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L’FBI lancia l’allarme: “abbiamo informazioni su una grande minaccia per le sinagoghe del New Jersey”

L’FBI- Federal Bureau of Investigation degli Stati Uniti ha avvertito di una “ampia minaccia” per le sinagoghe in tutto il New Jersey giovedì 3 novembre, suscitando allarme e promesse di una maggiore protezione della polizia nei luoghi di culto ebraici. Lo riporta il Times of Israel.
  “L’FBI ha ricevuto informazioni credibili su un’ampia minaccia alle sinagoghe nel New Jersey”, ha twittato l’agenzia di sicurezza. “Vi chiediamo in questo momento di prendere tutte le precauzioni di sicurezza per proteggere le vostre comunità e strutture. Condivideremo maggiori informazioni non appena possibile. State attenti.”
  Le forze dell’ordine hanno aggiunto che stanno “prendendo una misura proattiva con questo avvertimento mentre si svolgono i processi investigativi”.
  Il gruppo ombrello dell‘Unione ortodossa ha immediatamente twittato di stare “parlando con l’FBI e comunicando agli shul  (sinagoghe) di questo in questo momento”.
  L’Anti-Defamation League ha anche affermato che stava lavorando con l’FBI per “mobilitarsi per affrontare questa minaccia credibile. Consigliamo alle sinagoghe e alle altre organizzazioni ebraiche di rimanere calme e in uno stato di maggiore allerta”.
  Il New Jersey ospita circa 500.000 ebrei, con i principali centri di popolazione ortodossa a Lakewood, Passaic, Toms River e Teaneck e congregazioni di tutte le denominazioni nella maggior parte delle città e paesi dello stato.
  Il governatore del New Jersey Phil Murphy ha dichiarato di essere stato in contatto con l’ufficio sul campo dell’FBI a Newark, nel New Jersey, nonché con il procuratore generale dello stato e il suo ufficio per la sicurezza nazionale.
  “Stiamo monitorando da vicino la situazione e stiamo lavorando con le forze dell’ordine locali per garantire che tutti i luoghi di culto siano protetti”, ha affermato Murphy.
  L’allerta dell’FBI è stata pubblicata dopo che i funzionari hanno scoperto una minaccia online diretta ampiamente alle sinagoghe del New Jersey, ha affermato un funzionario delle forze dell’ordine. Il messaggio, tuttavia, non prendeva di mira nessuna sinagoga specifica per nome, ha affermato il funzionario all’Associated Press in condizione di anonimato.
  Molte sinagoghe locali in tutto lo stato hanno inviato messaggi di avvertimento ai loro membri esortandoli a rimanere vigili durante le preghiere e le attività quotidiane e a prestare attenzione ad attività sospette.
  “È raro ricevere un rapporto come questo nel New Jersey”, ha detto il rabbino David Levy, che dirige l’ufficio dell’AJC nel New Jersey. “Lo stiamo prendendo sul serio e sono grato che le forze dell’ordine lo stiano prendendo sul serio. Stanno aumentando il pattugliamento intorno alle sinagoghe e alle strutture ebraiche”.

(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2022)

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Il Likud si aggiudica 32 seggi al parlamento israeliano: la rivincita di Netanyahu

Il blocco dei partiti che sostengono Benyamin Netanyahu ha ottenuto 64 seggi sui 120 della Knesset secondo i dati definitivi (ma ancora non ufficiali) delle elezioni legislative del primo novembre. Il primo partito è il Likud con 32 seggi, seguito dai centristi di Yair Lapid con 24 seggi, e da Sionismo religioso con 14 seggi. In un annuncio alla stampa la responsabile dello spoglio dei voti Orly Ades ha detto che i risultati ufficiali saranno pubblicati mercoledì. Gli aventi diritto di voto erano 6.788.804. La percentuale di voto è stata del 70,6 per cento. I voti validi sono stati 4.763.694. La soglia minima di ingresso alla Knesset del 3.25 per cento dei voti validi (equivalente a quattro deputati) è stata di 154.820 voti.

• Il fairplay di Yair Lapid
  Il primo ministro uscente, il centrista Yair Lapid, si è congratulato con Netanyahu e ha incaricato il suo ufficio di preparare un passaggio di consegne ordinato. Dopo dodici anni al potere, Netanyahu è stato estromesso lo scorso anno tra gravi accuse di corruzione e diversi processi aperti. Dopo le elezioni legislative di domenica, torna al potere sostenuto dai partiti di estrema destra e ultraortodossi e sullo sfondo della peggiore recrudescenza della violenza tra israeliani e palestinesi degli ultimi anni.

(euronews, 4 novembre 2022)

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«Il suprematista Ben Gvir sarà il vero premier»

Una presentazione dei fatti di un sito in posizione nettamente anti-israeliana. NsI

di Michele Giorgio

Il blocco dei partiti di estrema destra e religiosi che sostengono Benyamin Netanyahu ha ottenuto 64 seggi sui 120 della Knesset secondo i dati definitivi (ma non ufficiali) delle elezioni del primo novembre.
  Il primo partito è il Likud con 32 seggi, seguito dai centristi del premier uscente Yair Lapid con 24 seggi, e da Sionismo religioso che da sette passa a 14 seggi diventando il terzo partito di Israele.
  Il Meretz (sinistra sionista) è fuori dal parlamento per la prima volta in trent’anni.
  Il successo di Sionismo religioso, formazione ultranazionalista con evidenti venature razziste, e l’enorme popolarità conquistata dal suo leader Itamar Ben Gvir, animano il dibattito e generano timori e preoccupazioni in quella parte del paese che non si riconosce nella destra vittoriosa.
  Intanto la tensione non cala in Cisgiordania dove ieri sono stati uccisi altri tre palestinesi: due in raid dell’esercito israeliano a Jenin e uno durante proteste contro l’occupazione a Beit Duqu. Un quarto palestinese, che aveva ferito un poliziotto, è stato ucciso a Gerusalemme.
  Sulle ripercussioni della vittoria elettorale della destra guidata da Netanyahu e Ben Gvir abbiamo intervistato Meron Rapoport, ex caporedattore del quotidiano Haaretz e ora analista per diverse testate giornalistiche israeliane e straniere.

- Martedì, scrivono e dicono tanti, è avvenuta una rivoluzione «kahanista» e «bibista», realizzata dal Sionismo religioso di Itamar Ben Gvir, l’estremista di destra seguace del razzista Meir Kahane, e dai sostenitori di Benyamin (Bibi) Netanyahu. È d’accordo?
  Il bibismo c’entra poco. Siamo davanti a un nuovo fenomeno, a un partito (Sionismo religioso) che non dipende da Netanyahu. Al contrario è Netanyahu che dipende da questo partito che è fascista, non neofascista. Una forza che esprime chiaramente il suo razzismo e che afferma che gli ebrei hanno più diritti degli altri. Che questa terra è soltanto per loro. E chi si oppone a questo regime può essere ucciso come terrorista o si può deportarlo, anche se è un ebreo. Tutto questo non l’abbiamo visto dal 1948 (dalla Nakba palestinese, ndr).

- Itamar Ben Gvir è stato sdoganato nel paese e dalla maggior parte delle organizzazioni pro-Israele nel mondo, mentre, fino a poco fa, era tenuto ai margini. Questo può dare luce verde alla attuazione del suo programma se e quando diventerà ministro della pubblica sicurezza?
  Non sappiamo adesso ciò che farà e se avrà il potere di farlo. Conterà anche l’opposizione dei palestinesi con la cittadinanza israeliana (gli arabo israeliani, ndr) e di quelli nei Territori occupati e l’eventuale pressione della comunità internazionale. L’Amministrazione Biden ha già fatto sapere che non incontrerà e coopererà con Ben Gvir. Non siamo nel 1948, (Ben Gvir) non può fare tutto quello che vuole, il panorama politico israeliano e internazionale non è quello di 74 anni fa. Allo stesso tempo c’è il dato significativo di centinaia di migliaia di israeliani che lo hanno votato sapendo perfettamente ciò che dice e vuole fare. Ben Gvir sarà l’uomo forte del nuovo governo, Netanyahu è solo un simbolo, anche questo peserà nelle dinamiche future.

- Se il nuovo governo dovesse attuare anche solo una parte del programma di Sionismo religioso, prevede un rischio concreto di guerra civile tra ebrei e arabi in Israele e di scontro sempre più violento tra coloni israeliani e palestinesi nei Territori occupati?
  Guerra civile è una parola grossa ma una violenza diffusa, continua, in Cisgiordania e nelle città miste di Israele è possibile. Siamo in un momento delicato, in cui è difficile prevedere tutto ciò che accadrà sul terreno di fronte a determinate politiche. Ricordo che il capo della polizia, Kobi Shabtai, l’anno scorso, durante le proteste (nel quartiere palestinese) di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, dichiarò che gran parte delle violenze furono causate dalle provocazioni di Ben Gvir. Tra poco Ben Gvir potrebbe essere il suo capo.

- Perché il leader di Sionismo religioso è diventato un eroe, un mito, per tanti giovani israeliani di destra, inclusi quelli religiosi ultraortodossi?
  Ben Gvir rappresenta agli occhi dei giovani e non solo loro, la supremazia ebraica. Il leader di Sionismo religioso osserva, come i suoi tanti sostenitori, l’avvenuto rafforzamento della minoranza palestinese in Israele a livello economico, dell’istruzione universitaria e in altri campi. Negli ospedali ci sono tanti medici arabi, nelle università lo stesso. Così gli ebrei che abitano nelle periferie, nelle aree più emarginate del paese pensano che gli arabi siano avanzati più di loro. Ben Gvir e i suoi elettori hanno visto un partito arabo (l’islamista Raam, ndr) entrare nel governo e prendere parte ai giochi politici nazionali. E che il centrosinistra lo ha accettato, volentieri o non volentieri non si sa, ma lo ha accettato. Tutto questo, a loro modo di vedere, mette in pericolo la supremazia ebraica in Israele.

- Quanto ha inciso la fine o la riduzione del pericolo esterno per l’esplosione del fenomeno Ben Gvir?
  Parecchio. La mancata annessione della Cisgiordania a Israele nel 2020, di fatto in cambio della firma degli Accordi di Abramo tra Israele e alcuni paesi arabi, ha evidenziato che il conflitto non è più all’esterno. Per Ben Gvir questo conflitto è ora all’interno di Israele. In fondo parla poco dei coloni in Cisgiordania sebbene sia lui stesso un colono a Hebron. Il suo discorso politico è centrato sul conflitto che lui vede dentro Israele. La destra ora si concentra sulla presunta minaccia interna, i palestinesi cittadini di Israele.

- In questo quadro a tinte fosche c’è spazio per un raggio di luce?
  Chissà, questi processi in atto potrebbero innescare dei ripensamenti nella sinistra ebraica in Israele sui rapporti con la minoranza palestinese. Gli ebrei di sinistra e anche quelli di centro devono capire che senza i diritti per quella minoranza, la democrazia stessa è in pericolo. La sopravvivenza della democrazia per gli ebrei dipende da quella per i cittadini arabi palestinesi.

(il manifesto, 4 novembre 2022)

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L’Ambasciatore di Israele S.E. Alon Bar a Casale Monferrato

Giovedì 3 novembre ha fatto visita al complesso ebraico e alla Sinagoga

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CASALE – L’Ambasciatore di Israele in Italia S.E. Alon Bar giovedì 3 novembre ha fatto visita al complesso ebraico e la Sinagoga di Casale Monferrato. Alon Bar ha assunto questa carica a settembre del 2022, sostituendo l’ambasciatore S.E. Dror Eydar che si era recato alla Comunità Ebraica casalese solo pochi mesi prima: il 29 aprile.
  Accolto dalle autorità della Provincia e dalla vicepresidente della Comunità Ebraica Adriana Ottolenghi, Alon Bar è arrivato in vicolo Salomone Olper intorno alle 17,30, insieme a una delegazione del Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv (ANU), un gruppo di 21 persone provenienti da Israele e dagli USA, guidato dalla Presidente Irina Nevzlin, dal Direttore Dan Tadmor e dal Responsabile per l’Europa Enia Kupfer Zeevi, in visita ai luoghi più belli dell’Ebraismo nell’Europa Settentrionale. La sinagoga casalese non poteva mancare. Spiega Claudia Debenedetti direttrice dei Musei Ebraici casalesi.
  “Il Museo di Tel Aviv è molto aperto alle Comunità della diaspora che vede come emblematiche del cammino del Popolo Ebraico, tanto da custodire al suo interno diverse testimonianze dell’ebraismo italiano. Il complesso casalese era una tappa obbligata della visita”. E in effetti la bellezza del luogo ha conquistato anche il nuovo Ambasciatore che ha ammirato ogni dettaglio della Sinagoga, facendo domande su ogni particolare a Daria Carmi, alla stessa Adriana Ottolenghi e a Roberto Gabei presidente della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica. L’ambasciatore e la delegazione dell’ANU hanno poi proseguito la visita ai musei del complesso.

(Il Monferrato, 4 novembre 2022)

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Netanyahu si gode la rivincita. Per la Casa Bianca adesso c’è un problema in più

Il capo del Likud vince le elezioni. Sul suo tavolo il dossier ucraino e la possibilità (poco gradita) di inviare armi a Kiev. Nervi tesi con i dem americani per via dell'Iran.

di Stefano Graziosi 

La riscossa di Benjamin Netanyahu. È in questo modo che possono essere sinteticamente riassunte le elezioni parlamentari israeliane, tenutesi martedì scorso. Stando ai risultati quasi definitivi noti ieri sera, il partito dell'ex premier, il Lìkud, è arrivato primo con almeno 32 seggi. Non solo: la sua coalizione elettorale di orientamento conservatore si sarebbe aggiudicata un totale di 65 seggi, blindando così la maggioranza alla Knesset. Netanyahu era stato estromesso dal governo a giugno dell'anno scorso, quando Naftali Bennett e Yair Lapid avevano stretto un accordo, per formare un esecutivo di larghe intese, poggiato di fatto su una conventio ad excludendum ai danni del Likud. Un esecutivo di larghe intese che si è rivelato sin da subito scricchiolante, per entrare poi in crisi lo scorso giugno e aprire così la strada alle elezioni (le quinte, in Israele, dal 2019). Salvo sorprese, Netanyahu dovrebbe quindi essere in grado di formare un nuovo governo: un governo che, se vedrà la luce, risulterà probabilmente collocato su posizioni nettamente conservatrici. Basti pensare che il Partito sionista religioso di Itamar Ben-Gvir si è collocato al terzo posto (dietro allo schieramento di centrosinistra di Lapid, Yesh Atid). Le formazioni di destra sociale e religiosa di Shas e Uti si sono invece piazzate rispettivamente alla quinta e alla sesta posizione. Alla luce di tutto questo, c'è quindi da chiedersi che cosa cambierà soprattutto sul piano internazionale. 
  Cominciamo dalla crisi ucraina. Secondo quanto riferito dal sito Axios lo scorso 25 ottobre, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, avrebbe riservato delle tacite critiche a Netanyahu, a causa della sua posizione giudicata troppo blanda sull'invasione russa dell'Ucraina. «Se qualcuno non capisce che la realtà è cambiata, questa è una sua responsabilità politica e morale ... perché le ruote della storia stanno girando nella direzione opposta a quella su cui molti politici avevano costruito la loro carriera», dichiarò il ministro ucraino in riferimento all'ex premier israeliano. Sempre secondo Axios, Bibi ha comunque corretto la sua posizione nelle ultime settimane, assumendo una linea di maggior fermezza nei confronti del Cremlino. Interpellato a ottobre da Usa Today sull'eventualità di fornire armamenti a Kiev, si è detto infatti possibilista, dichiarando: «Mi è stato chiesto di recente e ho detto che lo esaminerò quando entrerò in carica». Ricordiamo che il governo israeliano uscente (al netto di qualche distinguo interno) non ha mai fornito armamenti all'Ucraina, limitandosi a inviare aiuti umanitari sistemi di allerta missilistica e - stando a quanto riportato recentemente dal New York Times - informazioni di intelligence. Un mancato invio di armi che, soprattutto nelle ultimissime settimane, aveva significativamente irritato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. 
  Bisognerà quindi capire che cosa deciderà di fare un eventuale governo guidato da Netanyahu. Da una parte, inviare armi a Kiev gli consentirebbe di marcare la differenza rispetto al predecessore. Senza contare che molti funzionari israeliani temono sempre più che i droni iraniani usati dai russi in Ucraina possano prima o poi essere usati contro lo stesso Stato ebraico. Dall'altra parte, non va trascurato che, da premier, Netanyahu ha avvicinato notevolmente Israele alla Russia. In particolare, negli ultimi anni Gerusalemme e Mosca hanno messo in piedi un «meccanismo di deconflitto» in territorio siriano: un meccanismo che consente agli israeliani di colpire i miliziani filoiraniani nell'area. È anche per salvaguardare questa intesa che lo stesso Lapid ha probabilmente evitato di coinvolgere troppo pesantemente Gerusalemme nella crisi ucraina. Che cosa sceglierà dunque di fare il nuovo (probabile) premier israeliano? 
  Un'altra incognita riguarda i rapporti con la Casa Bianca. E’ dai tempi dell'amministrazione Obama che Joe Biden e Netanyahu si sopportano poco. Nel 2021 poi la tensione riemerse dopo che l'attuale presidente americano decise di tentare il ripristino del controverso accordo sul nucleare con l'Iran: accordo a cui Netanyahu si è sempre fermamente opposto. Una posizione, questa, che - a ben vedere - era di fatto condivisa da Lapid. Nonostante i toni più distesi, emersero infatti dei significativi attriti tra Biden e il premier israeliano uscente sull'intesa iraniana lo scorso luglio, quando il presidente americano si recò in visita nello Stato ebraico. Gerusalemme considera infatti quell'accordo come una minaccia alla propria sicurezza, indipendentemente dal colore politico dei governi. Ne consegue che la già traballante influenza mediorientale di Biden rischia adesso di indebolirsi ancora di più. Non dimentichiamo d'altronde che, oltre a Israele, anche l'Arabia Saudita non vede di buon occhio il tentativo di rilancio dell'accordo iraniano: quella stessa Arabia Saudita che intrattiene rapporti pessimi con Biden e che si è recentemente vendicata di lui, spingendo l'Opec Plus a tagliare significativamente la produzione petrolifera. 
  Ma non è finita qui. Un ulteriore fronte di attrito tra Netanyahu e il titolare della Casa Bianca potrebbe rivelarsi la questione palestinese. Senza poi trascurare che Bibi gode storicamente di ottimi rapporti con il Partito repubblicano americano: un partito che, martedì prossimo, potrebbe ottenere un considerevole risultato alle elezioni di metà mandato, riconquistando la Camera dei rappresentanti e -forse- anche il Senato. Già in passato, nel 2015, Netanyahu giocò di sponda con un Congresso a guida repubblicana, per cercare di spingere Barak Obama a non siglare l'accordo sul nucleare con l'Iran. Insomma, la vittoria di Bibi e una (eventuale) debacle dei dem alle Midterm (il tutto nello spazio di appena pochi giorni) potrebbero rivelarsi due fattori decisamente problematici per l'attuale inquilino della Casa Bianca. 

(La Verità, 3 novembre 2022)


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Il ritorno di Bibi

Netanyahu vince con la demografia e il riflusso identitario d’Israele

di Giulio Meotti

ROMA - “Voi della sinistra laica non fate figli e non vi sposate, che futuro avete?”. Moshe Zar, l’eroe di guerra che combatté nella 101esima divisione sotto Ariel Sharon e che oggi acquista terra per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ha risposto così a chi gli chiedeva chi avrebbe governato Israele. La demografia riporta al potere la coalizione di destra del redivivo Benjamin Netanyahu verso la maggioranza di 65 seggi. “I dati demografici di Israele lo manterranno a destra per sempre?”, si domandava ieri Haaretz, il giornale della sinistra israeliana. Basta vedere i leader del partito di estrema destra dei “sionisti religiosi”. Di figli, Bezalel Smotrich ne ha sette, il doppio della già altissima media nazionale israeliana (altissima se paragonata ai canoni occidentali). Itamar Ben-Gvir, l’altro volto in ascesa della destra, di figli ne ha cinque. Sono il terzo partito alla Knesset con ben quattordici seggi.
  Una drammatica trasformazione per Ben-Gvir, condannato nel 2007 per incitamento al razzismo contro gli arabi e sostegno al Kach, un gruppo terrorista nelle liste nere di Israele e Stati Uniti.
  La crescita demografica israeliana ogni anno si attesta all’1,9 per cento. Ma c’è un gruppo che cresce il doppio degli altri al 3,5: gli insediamenti, la casa di Smotrich e Ben-Gvir. Le due comunità più fertili in Israele sono gli insediamenti di Modi’in Illit e Betar Illit. La popolazione ebraica in Cisgiordania è aumentata del 42 per cento dal 2010. Il numero di abitanti nei soli due insediamenti ha raggiunto i 140.053, un aumento del 435 per cento rispetto al 2000, quando la popolazione era di appena 32.200 persone. E in due generazioni, il 25 per cento di tutta Israele sarà composta da ultraortodossi (bastava vedere il milione di persone accorse lo scorso marzo a Bnei Brak, quartiere ortodosso vicino Tel Aviv, per le esequie del rabbino Chaim Kanievsky, leader della comunità ortodossa lituana). Si avvererà la profezia contenuta nel libro di Sefy Rachlewsky, “L’asino del Messia”, pubblicato nel 1998 e che annunciava, a esorcizzarlo, uno stato religioso in Israele?
  Uno sguardo alla mappa elettorale di Israele rivela due paesi e modelli di società secondo linee socio-culturali diverse. “Uno stato per due nazioni ebraiche” è il titolo dell’editoriale di Haaretz che fa il verso a “due stati per due popoli”. Il 40 per cento degli elettori di Ashkelon ha scelto il Likud. Meretz, la sinistra radicale, ha ottenuto l’11 per cento dei voti a Tel Aviv ma ha fallito nel raggiungere il minimo elettorale per entrare alla Knesset. A Gerusalemme gli ortodossi di United Torah Judaism sono al 23,7, il Likud al 19,1, Shas al 18,3, i sionisti religiosi al 14,2, mentre il partito al potere attualmente di Yair Lapid, Yesh Atid, si ferma al 7,5 per cento.
  Il Likud stravince a Rishon LeZion (32), a Holon (34,5), a Netanya (35,5), a Petah Tikva (28,5), ad Ashdod (Likud 28,4), a Sderot (40). Netanyahu ha sfondato in città periferiche e minacciate dai missili di Hamas e Hezbollah, come Kiryat Shmona e Nahariya a nord, Sderot, Ashdod, Ashkelon e Beersheba a sud. Ashdod, la terza città più povera di Israele e una di quelle che crescono di più demograficamente, si è confermata un bastione della destra. Joshua Hantman, consulente di Number 10 Strategies, che ha lavorato con diversi leader politici e partiti in Israele e all’estero, dice che “con l’incredibile crescita della popolazione israeliana hai decine di migliaia di nuovi elettori ogni ciclo e questi elettori sono per definizione più giovani e molti sono soldati, che hanno maggiori probabilità di essere di destra ed eccitati dalla retorica ultranazionalista”.
  Durante i primi trent’anni di Israele in cui la sinistra era al potere, gli ortodossi facevano parte di coalizioni guidate dai laburisti. Uno dei fattori trainanti dell’alleanza Haredi (coloro che hanno paura, terrore di Dio) con la destra è stata la percezione che la sinistra volesse secolarizzarli e instillare valori universali liberali. Inoltre, negli ultimi anni, gli ortodossi sono passati dal rifiuto alla scelta dell’ideologia sionista. Dagli anni Ottanta, c’è stato un forte aumento della percentuale di ortodossi che sono ebrei sefarditi di origine mediorientale e che tendono a votare a destra.

• La crisi della sinistra
  Da dieci anni in Israele c’è una maggioranza regolare di destra”, dice al Foglio Ofir Haivry, storico, vicepresidente dell’Herzl Institute di Gerusalemme, fra i fondatori dello Shalem College. “I partiti di centrodestra ricevono il 60 per cento dei voti del totale della popolazione. Se si considera soltanto la parte ebraica, siamo al 70 per cento. Ma questa maggioranza si era defilata sul referendum pro o contro Netanyahu e una parte della destra che si oppone a Bibi per la sua personalità è tornata a sostenerlo. Due o tre partiti di destra erano andati a sinistra solo per la presenza di Netanyahu”.
  Secondo Haivry ci sono due spiegazioni: “La demografia traina la destra e la sinistra si è identificata troppo con la soluzione ‘due stati’. Ma dopo gli accordi di Oslo e gli attentati, anche molti israeliani che erano di sinistra non ci credono più. Dal 2006-2007, la stragrande maggioranza del paese vota a destra. E questo voto è anche il riflesso di tendenze popolari. In queste elezioni il partito di destra di Ben-Gvir e Smotrich ha preso metà dei seggi del Likud ma quelli che lo votano non sono religiosi, sono conservatori identitari. La società israeliana in generale è sempre più tradizionalista e conservatrice a ogni generazione, ma non in senso religioso. C’è un generale rafforzamento dell’identità”.
  Le città dove vince il Likud sono medio-piccole, dove la stragrande maggioranza è tradizionalista e di reddito medio-basso. “Come Roma al Pd e le sue borgate alla destra. La sinistra di Meretz vent’anni fa aveva dodici seggi, stavolta ne ha quattro. Il Labour, che è stato per decenni il potere, il vostro Partito democratico, è ridotto al lumicino e forse avrà quattro seggi. Il minimo storico. La sinistra è rappresentata da Yair Lapid, che è l’equivalente del vostro Renzi. Un centrista liberale nella società e che nell’economia non è distinguibile dal Likud. Lapid viene da una famiglia di destra e non si definisce mai di sinistra. Perde anche la sinistra araba antisionista. Siamo dunque di fronte a un generale e storico slittamento sempre più a destra dell’opinione pubblica israeliana”.

Il Foglio, 3 novembre 2022)


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I motivi dell'ascesa di Ben Gvir

di Fabiana Magrì

Ben Gvir
“Abbiamo assistito alla vittoria politica più clamorosa di Netanyahu dal 1996, in termini numerici per il gap tra gli schieramenti. Eppure - osserva il giornalista Aviv Bushinsky, ex consigliere per i media di Benjamin Netanyahu - a guardare i risultati, il Likud non è cresciuto poi tanto ma ha sostanzialmente conservato il suo potere. Il vero fenomeno di queste elezioni è stato Itamar Ben Gvir”.
  Stella nascente nella politica israeliana, nelle elezioni del 2021 l’allora leader di Otzma Yehudit si era candidato in una lista congiunta con il Partito Sionista Religioso di Bezalel Smotrich, secondo un accordo orchestrato e favorito da Netanyahu, meritando un seggio su sei. Oggi HaZionut HaDatit viaggia verso i 14 seggi, più che raddoppiando la presenza alla Knesset.
  Avvocato, 46 anni, Ben Gvir è un personaggio controverso, accusato dalla sinistra di razzismo e incitamento all’odio. Nel nuovo esecutivo guidato da Netanyahu, punta al ministero della pubblica sicurezza. Tra le sue promesse elettorali, l’annessione dell'intera Cisgiordania, regole più morbide sull'apertura del fuoco per soldati e agenti di polizia, la possibilità per gli ebrei di pregare liberamente sul Monte del Tempio a Gerusalemme e il ridimensionamento dei poteri della Corte Suprema nei riguardi delle leggi votate dalla Knesset.
  Quali fattori hanno concorso ad accelerare la sua carriera politica in questa campagna elettorale? “In tutta la Knesset, il suo partito è stato l’unico capace di veicolare un messaggio chiaro”, spiega Bushinsky. “Possiamo anche discutere sulla bontà delle sue posizioni, ma ha saputo esprimerle con semplicità. Ed ecco perché - insiste l’ex capo dello staff di Netanyahu - ha conquistato soprattutto l’elettorato più giovane”.
  I tre elementi sostanziali su cui Ben Gvir ha puntato sono la carenza di sicurezza interna, un atteggiamento giudicato troppo a favore degli Arabi dell’attuale governo e la presa di distanza da Netanyahu di alcuni principali leader della destra. “Di nuovo, si può discutere se Ben Gvir abbia soluzioni migliori - ribadisce l’analista Bushinsky - ma lui è riuscito a toccare i nervi scoperti dell’elettorato”.
  Quasi elencasse le vittime di una maledizione che colpisce chi volta le spalle a “King Bibi”, il suo ex media advisor ricorda cosa è accaduto a chi ha sacrificato la propria ideologia per predicare contro Netanyahu a ogni costo. Da Avigdor Lieberman a Benny Gantz, da Gideon Saar a Naftali Bennett, lo slogan “tutto tranne Netanyahu” alla lunga si è ritorto contro chi l’ha perseguito. Chi avrebbe dunque dovuto votare un elettore laico di destra, che non si identifica nei partiti ultra religiosi, che non riesce a sorvolare sul processo a Netanyahu e magari prova antipatia per Sara, ora che Bennett, Lieberman, Gantz e Saar si sono spostati in altri territori? Come l’uomo giusto al momento giusto, è arrivato Ben Gvir a raccogliere tutte quelle preferenze.
  Alcuni in Israele, stanno lanciando un grido d’allarme, profetizzando la fine della democrazia. Ma una cosa è la campagna elettorale, suggerisce Bushinsky, un’altra è la realtà. “Non credo che le aspirazioni di Ben Gvir finiscano qui. In due o tre anni Netanyahu potrebbe non essere più la star che è oggi”, sostiene il giornalista. Potrebbe scomparire fisicamente, per il risultati del processo, o biologicamente, per questione di età o di salute. Nel “day after” Netanyahu potrebbe esserci posto per Ben Gvir. E se Ben Gvir nutre aspirazioni politiche fino a quella di diventare Primo Ministro, osserva Bushinsky, "dovrà ammorbidire le sue vedute e andare gradualmente dall’estrema destra verso il centro destra e fermarsi lì. Quindi non credo che metterà in pratica le sue idee più estreme. Non gioverebbe alla sua carriera politica”.

(Shalom, 3 novembre 2022)


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«La svolta verso l’ala politica più estrema può non scongiurare la ingovernabilità»

L'analista Nahum Barnea: la questione della sicurezza rischia di portare a un'implosione 

di Fiammetta Martegani 

TEL AVIV - Il successo schiacciante del partito sionista religioso ricorda la storia di altri movimenti estremisti che si sono trasformati nei partiti che hanno segnato l'Europa degli anni bui». Con queste parole commenta i primi risultati elettorali Nahum Barnea, editorialista di Yedioth Ahronoth, primo quotidiano per distribuzione in Israele. Nel 1981 ha vinto il Sokolov Prize per il giornalismo con "Sparare e piangere" seguito, nel 1999, da "I giorni di Netanyahu" e nel 2007 dall'Israel Prize per la Comunicazione. 

- Ora quali possibili scenari ci si può aspettare? 
  Netanyahu sembra inevitabilmente destinato a tornare a essere premier. La domanda è con chi e a che prezzo. I numeri per un esecutivo ce li ha, ma affiancato da una destra estrema rischia l'ingovernabilità, specie con un'ala radicale come quella del partito sionista religioso, con cui sarebbe sempre costretto a scendere a compromessi difficili da digerire. Da oggi ci sono 45 giorni a disposizione per formare un esecutivo e Netanyahu farà di tutto per attirare alcuni dei partiti che ora si trovano all'opposizione. Non sarà impresa facile ma non è escluso che, anche chi aveva giurato di non allearsi mai più con lui, potrebbe trovarsi a farlo, paradossalmente, per salvaguardare la sicurezza. 

- Il grande, e inaspettato, vincitore è stato ltamar Ben Gvir, perché? 
  Ben Gvir è cresciuto politicamente in un movimento estremista, Kach, che, come partito, venne escluso dalla Knesset per via della sua agenda razzista, al punto da venir dichiarato illegale dallo stesso Likud di Yitzhak Shamir. La pericolosa operazione manovrata da Netanyahu in questi anni è stata quella di rilegittimare questo movimento, per raggiungere i voti che gli mancavano, specie tra i giovani "persi'; che hanno abbracciato quest'ideologia radicale come risposta a un vuoto lasciato da altri partiti. Eppure, Ben-Gvir è sempre stato molto chiaro nei suoi messaggi. Ritiene che il 20% dei cittadini israeliani, gli arabi, debbano essere trattati diversamente rispetto al resto della popolazione dello Stato ebraico. E che questo, in quanto tale, dovrebbe includere i Territori della «Grande Israele», a scapito della popolazione palestinese che ci abita. 

- Quali pericoli rischia Israele nel caso di deriva verso la destra estremista? 
  Una delle condizioni che Ben Gvir ha posto a Netanyahu per far parte del suo esecutivo è che gli venga affidato l'incarico di Ministro della sicurezza interna, il che implicherebbe molte più restrizioni nei confronti dei cittadini arabi - e dei palestinesi che tutti i giorni transitano dai Territori - oltre a facilitare l'impiego di armi tra i civili come accade negli Usa. A questo si aggiunge il tentativo di rompere il confine tra Stato e religione, tornando indietro rispetto al modello laico su cui è stato fondato Israele. Infine, la vera questione, è quella della sicurezza, soprattutto perché potrebbe portare ad un'implosione tra i due popoli e, dunque, una nuova, e sempre più pericolosa, escalation di violenza. 

(Avvenire, 3 novembre 2022)


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Meretz, un tonfo che parte da lontano

di Michele Giorgio

Zehava Galon leader di Meretz
GERUSALEMME - Appena qualche giorno fa, Rami Livni, giornalista, editorialista e attivista aveva chiesto agli elettori progressisti di non avere esitazioni e di andare numerosi alle urne per bloccare il ritorno di Benyamin (Bibi) Netanyahu al potere e l’avanzata della destra estrema. «Le persone di sinistra o di centro-sinistra – ebrei e arabi, sionisti e non sionisti, pragmatici e radicali, persone del campo ‘chiunque tranne Bibi’ – vadano a votare. Preferibilmente per il Meretz, perché nonostante le sue carenze è il partito il cui impegno per la sinistra come visione del mondo è coerente e più credibile» aveva scritto. Non sembra che il suo appello sia stato recepito. Il Meretz, il partito che è stato, con nomi diversi, la casa di personalità politiche ed intellettuali come Shulamit Aloni e Yossi Sarid, tra i primi israeliani ebrei sostenitori della nascita dello Stato di Palestina, ha subito una pesante emorragia di voti. Ieri sera era posizionato dalla Commissione elettorale centrale sotto, seppur di pochissimo, la soglia di sbarramento del 3,25%, quindi fuori dalla Knesset dopo quasi trent’anni. Un risultato che, se confermato, rappresenterà un disastro per l’unico partito sionista che nella Knesset chiede uno Stato per i palestinesi sotto occupazione militare e un vantaggio per la coalizione di Netanyahu che guadagnerebbe altri seggi.
  Per la leader del Meretz Zehava Galon, tornata appena qualche mese fa alla guida del partito, è cominciata la fase delle riflessioni e, forse, come già chiedono alcuni, delle dimissioni dal suo incarico. I sondaggi prima del voto avevano messo in allarme la direzione del Meretz. Galon aveva letto i dati come la conseguenza dell’appello a laici e progressisti giunto dal premier centrista Yair Lapid al «voto utile» ossia a sostenere il suo partito, Yesh Atid, più grande e più in grado di contrastare il Likud di Netanyahu e le destre. Non pochi simpatizzanti del Meretz, secondo Galon, pur di fermare il ritorno di Bibi avrebbero scelto Yesh Atid indebolendo il partito e condannandolo, forse, a lasciare la Knesset a vantaggio proprio della destra.
  Una motivazione fondata ma che è una causa secondaria del tonfo del Meretz, spiega al manifesto Yigal Bronner, docente universitario di scienze politiche e attivista di ciò che resta del cosiddetto «campo della pace» israeliano. «Il Meretz era in declino da anni» dice «non ha voluto e saputo ridefinire il suo ruolo di forza di sinistra, ha continuato ad essere solo un punto di riferimento per la classe media istruita, progressista, ashkenazita e non si è avvicinato alle classi popolari, alle periferie delle città dove il costo della vita, la disoccupazione e il degrado sono un flagello. Non solo, sotto l’urto delle tendenze ultranazionaliste ora prevalenti nell’opinione pubblica, ha diluito l’impegno per una soluzione negoziata con i palestinesi. Errori tragici». Eppure, conclude Bronner, «i suoi dirigenti continuano a denunciare l’appello di Lapid e il mancato accordo elettorale con i Laburisti».

(il manifesto, 3 novembre 2022)

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Israele, elezioni. Si profila un trionfo per la destra israeliana

di Ugo Volli

Sembra proprio che Bibi Netanyahu ce l’abbia fatta un’altra volta. Gli exit poll pubblicati subito dopo la chiusura delle urne davano al Likud un risultato buono ma non entusiasmante (30 seggi su 120 della Knesset) e alla sua coalizione appena la maggioranza (61/62 seggi), soprattutto grazie all’exploit dei sionisti religiosi (Smotrich e Ben Gvir). I risultati reali, pubblicati progressivamente dalla commissione elettorale, segnano una vittoria molto più ampia. Alle 8.30, ora di Israele, con oltre il 70% dei voti contati, al Likud erano assegnati 32 seggi, sempre 14 ai sionisti religiosi, 12 seggi al partito sefardita religioso Shaas, 9 agli askenaziti, per un totale di 67 seggi su 120 alla coalizione di Bibi. A Lapid erano assegnati 23 seggi, 12 a Gantz, 5 a Lieberman e al partito arabo Ra’am parte della precedente coalizione, 4 ai Laboristi, per un totale di 49 seggi. Alla lista araba unita, che non partecipa alle coalizioni della Knesset, erano attribuiti 4 seggi. Non passavano la barriera di ingresso il partito di estrema sinistra Meretz e la lista araba vicina al terrorismo Balad.
  Queste esclusioni sono determinanti per la notevole vittoria di Netanyahu; se questi partiti che sono appena sotto il limite del 3,25% necessario per entrare alla Knesset recuperassero quel che manca loro con gli ultimi voti da contare, si tornerebbe probabilmente a una maggioranza di destra, che è tale anche in termini di percentuali di votanti, ma più limitata. Quella che si profila è dunque una coalizione di nuovo guidata da Bibi Netanyahu, in cui avranno molto peso i leader del sionismo religioso e dei partiti che esprimono le opinioni e il modo di vita dei charedim (i “timorati” del Cielo), che la stampa tende a chiamare ultraortodossi. Non è dunque solo una scelta sulla persona di Netanyahu, ma sulla definizione di Israele come stato della nazione ebraica.

(Shalom, 2 novembre 2022)


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Elezioni in Israele, il ritorno di Benjamin Netanyahu «a un passo da una grande vittoria»

Con il conteggio dei voti ormai quasi terminato, Bibi avrebbe i numeri per riprendersi il governo dopo una ventina di mesi all’opposizione. L’affluenza oltre il 70 per cento.

di Davide Frattini

GERUSALEMME – Ha aspettato le tre del mattino, che la notte andasse verso l’alba, che i dati si stabilizzassero. Benjamin Netanyahu ancora esita almeno nelle formulazioni – «siamo a un passo da una grande vittoria» – e alla folla nel quartier generale del Likud che lo acclama chiamandolo «re» risponde: «Non lo sono, mi avete scelto voi». 
  Con il conteggio dei voti ormai vicino al 100 per cento (per i risultati finali bisogna aspettare domani) il Likud raggiunge i 31 deputati e la coalizione di destra – ormai ultranazionalista ed estrema – mette insieme una maggioranza di 65 su 120. C’è un futuro di Yair Lapid è il secondo partito con 24 e Sionismo religioso è al terzo posto con 14. I laburisti scendono ancora verso la scomparsa (4), la soglia che sbarra l’ingresso in parlamento, Meretz – fino a questo punto della conta – resta fuori dalla Knesset, dove entrano di poco le formazioni arabe principali. 
  Netanyahu avrebbe i numeri per riprendersi il governo, è rimasto all’opposizione per una ventina di mesi dopo essere stato primo ministro per 12 anni consecutivi. L’affluenza oltre il 70 per cento è la più alta dal 2015, la stanchezza da elezioni (le quinte in meno di quattro anni) non ha tenuto gli israeliani a casa. Gli ultraortodossi sommano il peso di 20 rappresentanti e l’alleanza tra il Potere ebraico di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – ultrà religioso, omofobo – diventa una forza centrale nella coalizione: il movimento che sostiene le colonie, contrario a qualunque accordo con i palestinesi, non aveva mai messo insieme così tanti deputati. Se Netanyahu riceverà l’incarico, dovrà concedere ai due quello che ha promesso: Smotrich (che in un audio lo ha chiamato «bugiardo, figlio di un bugiardo») chiede il ministero della Difesa anche se soldato – ed è una rarità in questo Paese – non è mai stato; Ben-Gvir vuole diventare ministro per la Pubblica Sicurezza: ha impostato la campagna su «legge e ordine», al di qua e al di là della Linea Verde, questa mattina un palestinese ha investito con un furgoncino un militare a un check point ed è stato ucciso mentre cercava di pugnalarlo. Soprattutto insieme vogliono ribaltare il sistema giudiziario, sottoporlo al controllo della politica e far passare una legge che vieti di incriminare un primo ministro in carica, retroattiva per tirar fuori Bibi, come lo chiamano tutti, dal processo per corruzione. Glielo devono: è stato lui due anni fa a spingere per l’intesa tra le fazioni estremiste, senza forse rendersi conto di aver creato i futuri contendenti al suo ruolo di monarca incontrastato dei conservatori. «Voleva solo costruire uno zombie per tenere insieme i voti delle frange – scrive Anshel Pfeffer su Haaretz, il quotidiano della sinistra –. Non pensava di dare così la sua benedizione a tanti elettori del Likud per spostarsi ancora più a destra. La sua ridicola pretesa di non essere fotografato assieme a Ben-Gvir non è servita, il messaggio uscito è: Itamar è Bibi al quadrato». 
  Lapid dimostra di non essere più il celebre giornalista diventato politico. Per qualche mese è stato primo ministro ad interim, ha firmato l’accordo sui confini marittimi con il Libano, ha gestito con i generali le operazioni in Cisgiordania per smantellare le nuove organizzazioni di miliziani. Sulle prossime trattative per il governo c’è l’incognita Benny Gantz e il suo partito degli ex capi di Stato Maggiore (12 deputati). Come ha già fatto potrebbe accettare – pur avendo promesso in campagna elettorale che mai sarebbe successo – di allearsi con Netanyahu per ridimensionare il peso degli estremisti.

(Corriere della Sera, 2 novembre 2022)

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Nelle università americane, fucina dei leader di domani, la lotta contro gli ebrei è arrivata a un grado altissimo di virulenza

di Paolo Salom

Qualcuno potrà pensare (e magari giustamente) che io mi ripeta. Tuttavia, trovo che il grado di irrealtà diffusa nel lontano Occidente sia a un punto tale da meritare di essere raccontata: ancora una volta. Mi riferisco, naturalmente, alle prese di posizione anti-israeliane dei cosiddetti benpensanti (e auto nominati “difensori degli oppressi”) che evitano accuratamente di condannare con la stessa sicumera le azioni, queste sì irresponsabili e terroristiche, della Russia in Ucraina. Tanto per intenderci: Tsahal entra nel Territori amministrati dall’Anp per inseguire e arrestare i responsabili di sanguinosi attacchi in Israele (il più delle volte contro civili inermi), ne segue una sparatoria con miliziani di questa o quella fazione, e l’onere di eventuali morti e feriti tra i combattenti arabi, ovviamente, viene gettato tutto contro lo Stato ebraico.
  Io davvero non riesco a capire come questi personaggi riescano a vedere il mondo così, suddiviso in compartimenti stagni che rimangono serrati e non comunicanti: alcuni sono famosi, vedi l’ex Pink Floyd Roger Waters o la modella Gigi Hadid e ancora attori di Hollywood come Susan Sarandon o Mark Ruffalo; altri meno ma non pochi, ahimè, sono ebrei.
  Cambiamo scenario: non si sono accorti, ancora, questi signori della natura spietata della guerra in Ucraina? Quel Paese dell’Est Europa (non all’altro capo del mondo) è praticamente raso al suolo. Mesi di incessanti bombardamenti da parte dell’Armata russa. Missili e altri ordigni lanciati consapevolmente (ovvero: di proposito) contro obiettivi civili: palazzi, scuole, ospedali. E tutto quello che riesce a emergere dalle bocche dei soliti censori non è: “Putin sei un terrorista, fermati!”. Piuttosto: “Chi lo dice al presidente ucraino Zelensky che è ora di trattare la pace?”.
  Ecco: queste stesse anime belle del lontano Occidente – e qui bisogna riconoscer loro una certa coerenza – sono ovviamente in prima linea quando si tratta di condannare i “crimini e l’apartheid dei sionisti”. Qualche esempio? Quando in uno scontro a fuoco muore un terrorista armato, ecco gridare all’“assassinio di un adolescente palestinese”. Quando da Gaza arrivano razzi a decine, silenzio. Quando Israele risponde, facendo attenzione a colpire soltanto i combattenti, strepiti di “genocidio”. O quando invece un giovane arabo di Hebron, che ha trovato rifugio e asilo a Tel Aviv perché gay, viene rapito e brutalmente ucciso dai suoi compatrioti, il silenzio è assordante.
  Non funziona così. Il mondo è uno solo e non è accettabile questa assoluta ipocrisia. E non dovremmo essere noi a dirlo. Già, perché la verità dei fatti, quando esce dalla bocca (o dalla penna) di un ebreo, conta poco a dispetto di chi afferma che i media occidentali sono “controllati dai sionisti”.
  Insomma, siamo alle solite. La campagna d’odio contro l’unico Stato ebraico rinato miracolosamente dopo duemila anni di esilio è incessante, scientifica, ricca di risorse (provate a riflettere: quanti megafoni antisemiti sono pagati per il loro “lavoro”?). Nelle università americane, fucina dei leader di domani, la lotta contro gli ebrei sembra arrivata a un grado di virulenza che avrebbe fatto sorridere Hitler. Non è una novità: quando ho frequentato l’ateneo di Venezia, qualche decennio fa, l’attivismo anti-israeliano degli studenti arabi era formidabile. Ora, qualcuno ha capito che la chiave della lotta contro lo Stato ebraico (che ovviamente “va distrutto”, nessuno pensa a un futuro di coesistenza in questi ambienti) è oltre oceano più che in Europa. E sta ripetendo la stessa macchina del fango.
  Sta a noi dunque resistere e continuare, senza mai stancarci, a denunciare la follia dell’odio antisemita.

(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2022)

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Il Monferrato. Pier Franco Irico in Sinagoga

Pier Franco Irico, storico trinese e presidente della locale sezione dell’ANPI, è un personaggio decisamente di casa nei locali attorno alla Sinagoga di Casale Monferrato. Le sue numerose ricerche relative alla fiorente comunità ebraica che ha popolato per lungo tempo proprio Trino, hanno fornito una importante ricostruzione del passato di questo attivo comune del vercellese, già sede della corte dei Paleologi e importante centro commerciale e culturale del Monferrato.
Domenica 6 novembre alle ore 16 nel polo culturale ebraico di Casale, in Vicolo Salomone Olper, si presenta un nuovo volume curato dal ricercatore: My father was a jew (Mio padre era ebreo).  Il libro racconta la vita del medico trinese Adriano Muggia, licenziato dall'ospedale Santo Spirito di Casale nel 1938 in quanto ebreo.  Muggia intuendo la gravità della situazione decide di emigrare in Australia, dove ricostruisce la sua vita lontano dagli orrori della Shoah e dalle persecuzioni nazi-fasciste. Finita la guerra, nel 1946, rientra in Italia e ritorna alla sua occupazione in ospedale. Morirà nel 1979 sentendosi sempre un miracolato per essere scampato al massacro. È sepolto nel cimitero ebraico di Trino.
Irico parlerà di questo nuovo lavoro con Patrizia Ferrarotti, consigliere comunale di Trino.
L’ingresso è libero.
Per informazioni 0142 71807 www.casalebraica.org

(Il Monferrato, 2 novembre 2022)

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Gli USA accolgono la delegazione del battaglione neonazista Azov

di Michele Manfrin

Una delegazione del battaglione Azov ha compiuto un tour degli Stati Uniti e ha incontrato politici e membri di varie organizzazioni che supportano le attività della milizia neonazista ucraina. Azov è la colonna militare dell’organizzazione Corpo Nazionale, come spiegato anche nell’inchiesta de L’Indipendente, sull’Internazionale Nera. La delegazione era composta da sei persone, tre uomini e tre donne: i primi sono veterani del battaglione, le donne sono le mogli di alcuni componenti di Azov. Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, la delegazione ha soggiornato in vari Stati degli USA con l’intento di promuovere l’organizzazione e fare pressione sui politici statunitensi in riferimento alla guerra e al suo supporto. Una missione durante la quale la delegazione del battaglione ucraino ha incassato il sostegno di diversi esponenti del Congresso americano.
  Tra gli uomini vi era Giorgi Kuparashvili, co-fondatore del reggimento Azov e leader della sua scuola militare Yevhen Konovalets, dal nome del fondatore dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini. La prima apparizione della delegazione ucraina di Azov è stata presso l’Ukrainian American Cultural Center of New Jersey (UACCNJ), a Whippany, sabato 17 settembre. Durante l’evento, la cui partecipazione ha visto una maggioranza di pubblico al di sotto dei sedici anni, i veterani di Azov hanno raccontato la “loro storia sulla resistenza a Mariupol”. Dell’esperienza sul campo, gli uomini hanno anche parlato in un’intervista sul canale Newsmax.
  Il 20 settembre, le tre donne che rappresentano l’Associazione della famiglia dei difensori di Azovstal, guidata da Kateryna Prokopenko, moglie del comandante di Azov, Denys Prokopenko, hanno partecipato ad una manifestazione in sostegno dell’Ucraina, davanti alla Casa Bianca, organizzata da US Ukrainian Activists (USUA). Yulia Fedosiuk, intervistata anch’ella da Newsmax ha detto: «Vogliamo ringraziare tutto il popolo americano per il sostegno dell’Ucraina. Lo apprezziamo molto, ma allo stesso tempo chiediamo aiuto per influenzare su questo».
  Il tour della delegazione ha poi fatto tappa, il 24 settembre scorso, in una chiesa ucraina di Detroit. Per l’occasione, migliaia di volantini hanno inondato la città con un QR Code che portava alla campagna “Support Azov”, creata per ricevere donazioni internazionali. Sasha Tkachenko, co-fondatrice del gruppo locale “United Support for Ukraine” ha gestito l’organizzazione dell’evento di Detroit. L’Ukrainian-American Crisis Response Committee of Michigan (UACRCM), formato all’inizio di quest’anno, ha trasmesso in diretta l’evento.
  A Washington DC, la delegazione Azov ha incontrato almeno tre membri del Congresso, appartenenti al Partito Repubblicano: i senatori Todd Young e Rick Scott e il rappresentante Pete Sessions.
  Giorgi Kuparashvili dice però che la delegazione ha incontrato una cinquantina di politici, di entrambi gli schieramenti, i quali avrebbero tutti espresso sostegno all’Ucraina e l’intenzione di togliere il divieto di fornire armi e addestramento al battaglione Azov da parte degli Stati Uniti. Infatti, dal 2018, il Congresso ha deciso di non fornire più direttamente armi e addestramento ai membri del battaglione Azov perché ritenuto estremista. Addirittura, nel 2020, Max Rose, un ex membro democratico del Congresso, aveva richiesto, senza successo, che il Dipartimento di Stato etichettasse il reggimento Azov come “organizzazione terroristica straniera”. Kuparashvili si è detto convinto che la legge non arriverà a naturale scadenza, nel 2025, ma che verrà fatta decadere già da questo anno.
  Durante un’asta di beneficenza in favore di Azov, Kuparashvili ha spiegato l’identità nazionalista del suo gruppo e ha fatto riferimento all’idea di Natiocrazia. Durante il discorso, Kuparashvili si è rivolto al pubblico dicendo: «Ora, tutti voi siete Azov». Due giorni dopo, l’Istituto ucraino di arte moderna di Chicago ha ospitato un’altra asta di beneficenza in favore di Azov. A quest’ultimo evento benefico, sono intervenuti anche i consoli di Germania e Polonia, Wolfgang Mössinger e Paweł Zyzak.
  Il primo di ottobre, la delegazione ha poi fatto tappa nella prestigiosa Stanford University. In quell’occasione è intervenuto a sostegno del battaglione Azov l’ex ambasciatore USA in Russia, tra il 2012 e il 2014, Michael McFaul, professore di studi internazionali proprio alla Stanford University.
  Il Center for International Security and Cooperation della Stanford University, all’inizio di questo anno, ha pubblicato un rapporto dettagliato proprio su Azov, in cui viene descritta l’idea di Natiocrazia: «Mykola Stsiborksyi, un ideologo anziano in un partito politico nazionalista ucraino nel 1930, ha stabilito l’idea di Natisiokratii, o Natiocrazia, un sistema totalitario influenzato dal fascismo italiano [..] Secondo il piano Natiocracy di Stsiborksyi, l’élite nazionale governa sotto un unico dittatore, l’economia è interamente sotto il controllo dello stato e la parità di diritti non esiste». Gli ideologici di Azov che portano avanti tali idee hanno oggi coniato il concetto di “cittadinanza multilivello”.
  In apertura del rapporto, il Centro ha descritto così l’organizzazione ucraina: «Il Movimento Azov è una rete nazionalista di estrema destra di organizzazioni militari, paramilitari e politiche con sede in Ucraina. La componente paramilitare del Battaglione Azov si è formata nel 2014 prima di integrarsi nella Guardia nazionale ucraina come reggimento per scopi speciali. Dopo l’integrazione, i veterani del reggimento Azov ampliarono il movimento per includere un’ala politica, il Corpo Nazionale, e un’ala paramilitare, la Milizia Nazionale. È noto per il suo reclutamento di combattenti stranieri di estrema destra dagli Stati Uniti, dalla Russia e dall’Europa, nonché per ampi legami transnazionali con altre organizzazioni di estrema destra».

(L'indipendente, 2 novembre 2022)

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Israele oggi al voto. Netanyahu a caccia di un seggio, ma può finire ancora in pareggio

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - Oggi Israele torna alle urne per la quinta volta in quattro anni, a conferma di un Paese diviso, come i due blocchi: quello pro e quello anti- Benjamin Netanyahu, primo ministro in carica dal 2009 e dal 2021. Dodici anni di luci e ombre: dagli Accordi di Abramo tra Israele e i principali interlocutori del Golfo, ai continui guai con la giustizia e i tre processi ancora in corso.
  Anche questa tornata è un referendum su questa figura tanto carismatica, quanto scomoda. Ma non solo. Uno dei dati che salta all’occhio – aldilà dei sondaggi che danno la coalizione dell’ex premier in vantaggio con 60 seggi, rispetto ai 56 del blocco del primo ministro in carica, Yair Lapid e a uno solo dalla maggioranza alla Knesset – è l’incredibile successo della destra estrema.
  In particolare, con 15 seggi, il partito sionista religioso che fa capo a Itamar Ben Gvir. È lui il vero protagonista mediatico di questa campagna elettorale e qualunque saranno i risultati di queste elezioni – qualora anche dovesse essere confermato il pareggio e si dovesse tornare alle urne per la sesta volta in 4 anni – questo politico verrà ricordato per aver sdoganato quell’ideologia estremista che una volta quasi non osava far sentire la propria voce pubblicamente.
  Non si tratta più solo dei coloni che anelano alla «Grande Israele», ma anche di giovani che vivono al di là della Linea Verde, completamente disillusi sia nei confronti del processo di pace che dello “statu quo” – tanto perseguito dallo stesso Netanyahu – che vedono in Ben Gvir l’«uomo forte» l’unico in grado di garantire la sicurezza del Paese.
  Talmente forte – fu definito dai generali di Zahal «una testa calda» – da essere stato esonerato dall’Esercito stesso, normalmente obbligatorio per ogni cittadino israeliano, poiché troppo pericoloso. Queste elezioni, dunque, mostrano non solo l’inesorabile declino della sinistra laburista che fondò il Paese, ma soprattutto l’ascesa di una destra estrema. Con tutte le conseguenze che questo comporterà al processo di pace, in stallo già da decenni. E il fresco accordo con il Libano che Netanyahu ha ricordato ieri di voler annullare.

(Avvenire, 1 novembre 2022)

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