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Notizie 1-15 settembre 2023


Il filosofo Habermas prende posizione a favore di Israele: “Reazione giustificata”

La breve dichiarazione richiama già nel titolo un principio sacro su cui per anni, secondo il filosofo della Scuola di Francoforte, rischiò di infrangersi l’Europa: “Fondamenti di solidarietà”.

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO — «Le azioni di Israele non giustificano in alcun modo reazioni antisemite, e tanto meno in Germania». Sull’infuocato dibattito scoppiato nel Paese che si macchiò ottant’anni fa della Shoah è intervenuto adesso il più grande filosofo vivente, Juergen Habermas . L’allievo di Adorno e Gadamer che criticò ripetutamente Angela Merkel per l’austerità inflitta alla Grecia ha firmato una lettera con i politologi Nicole Deitelhoff e Rainer Forst e il giurista Klaus Guenther. La breve dichiarazione richiama già nel titolo un principio sacro su cui per anni, secondo il filosofo della Scuola di Francoforte, rischiò di infrangersi l’Europa: “Fondamenti di solidarietà”.
   Scopo della lettera, apparsa sul sito del centro di ricerca francofortese Normative Orders, è esprimere solidarietà a Israele e affermare che alcuni principi «non dovrebbero essere in discussione». Il massacro di Hamas del 7 ottobre, definito «di una crudeltà insuperabile», e «volto esplicitamente a cancellare la vita ebraica in generale», ha scatenato una reazione israeliana che gli autori ritengono «giustificata, in principio».
   Certo, preoccupa il massacro incessante di civili a Gaza, e bisognerebbe costruire «una prospettiva di pace». Ma qualsiasi riflessione sul conflitto a Gaza non dovrebbe mai sfociare in uno «slittamento della misura del giudizio» tale da indurre a pensare che Israele intenda compiere contro i civili palestinesi un genocidio. Le due cose, ossia l’eccidio di Hamas e i massacri a Gaza, sostiene Habermas , non sono paragonabili, perché la reazione israeliana non è uno sterminio intenzionale.
   Com’era avvenuto nelle scorse settimane con l’intervento fondamentale del vicecancelliere verde Robert Habeck , che aveva espresso la sua vicinanza a Israele rivolgendosi soprattutto alla sinistra e ai tedeschi, anche Habermas sembra guardare soprattutto alla Germania e ai veleni che stanno tornando a inquinare la vita pubblica tedesca. Niente può giustificare reazioni antisemite, si legge nella lettera, «tanto meno in Germania. È insopportabile che gli ebrei siano di nuovo esposti a minacce fisiche e che debbano avere paura di essere aggrediti per le strade. Alla coscienza democratica e imperniata sul rispetto dei diritti umani che fonda la Repubblica federale si lega una cultura politica che alla luce dei crimini di massa del nazismo riconosce alla sopravvivenza degli ebrei e all’esistenza di Israele un valore centrale e da proteggere in modo particolare. Il sostegno a questi principi è fondamentale per la convivenza politica».

(la Repubblica, 15 novembre 2023)

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La documentazione americana. L’ospedale Shifa è una base terrorista

di Ugo Volli

FOTO
La battaglia degli ospedali è entrata nel vivo. Ieri l’amministrazione americana aveva confermato con una conferenza stampa che anche l’intelligence Usa ha le prove che sotto il principale ospedale della città di Gaza, lo Shifa, vi è il centro di comando militare di Hamas, con depositi d’armi, caserme, centri di comunicazione, residenze dei leader, tutti scavati profondamente sotto l’ospedale, in modo da usare medici e pazienti come scudi umani e mimetizzare l’attività militare nell’ospedale, un’istituzione che per il suo carattere sanitario è oggetto di protezione particolare in ogni conflitto armato. Bisogna ricordare che questo comportamento è di per sé un crimine di guerra, che di conseguenza, secondo la legge internazionale, toglie all’ospedale la sua intangibilità, trasformandolo in un obiettivo militare legittimo. Del resto vi è abbondante documentazione che da sempre i gruppi terroristici palestinesi sfruttano la protezione medica, usando le ambulanze come trasporto di truppe e armi e travestendo i singoli terroristi, che in genere non portano divisa e si mescolano in mezzo alla popolazione civile, da medici o infermieri.

Shifa circondata
  Ieri i carristi israeliani hanno circondato il complesso dell’ospedale Shifa, che è piuttosto vasto; avevano già offerto alla direzione dell’ospedale dei rifornimenti di carburante per far funzionare i generatori elettrici necessari per far funzionare gli apparati medici, ma questa proposta è stata rifiutata per ordine di Hamas. Hanno anche indicato di nuovo delle vie di fuga per mettere in salvo medici e i pazienti in grado di muoversi o essere trasportati, e anche questo provvedimento umanitario si è realizzato solo in parte, perché ostacolato dei terroristi, che traggono utilità dagli scudi umani sia per rendere più difficoltose le operazioni dell’esercito, sia come strumento propagandistico per poter incolpare Israele. Le forze israeliane sono riuscite comunque a recapitare all’ospedale attrezzature e materiali medici.

L’ingresso dei militari nell’ospedale
  Infine nella notte scorsa forze militari israeliane sono entrate in una parte dell’ospedale, dove informazioni di intelligence avevano rivelato la presenza anche in superficie di forze terroriste, con cui c’è stato uno scontro a fuoco. Un avviso dell’operazione era stato anche dato alla direzione dell’ospedale, per garantire l’incolumità di sanitari e malati, anche a costo di allarmare i terroristi e di perdere il fattore sorpresa, mettendo assai più a rischio i soldati. Le forze militari includono squadre mediche e persone di lingua araba, che hanno seguito una formazione specifica per prepararsi a questo ambiente complesso e sensibile, con l'intento che non venga causato alcun danno ai civili utilizzati da Hamas come scudi umani. Come ha informato una fonte locale legata alla Federazione delle Associazioni Italia Israele, i militari israeliani hanno diffuso un ultimatum ad arrendersi per i terroristi presenti nell’ospedale: la resa dei terroristi è ormai diffusa, soprattutto perché sono stati eliminati i loro comandanti. Durante gli scontri sono stati liquidati cinque terroristi in armi. L’operazione prosegue anche nella giornata di oggi. Si tratta di un momento cruciale della guerra, proprio perché sotto gli ospedali vi è il nucleo direttivo dell’apparato terrorista.

La battaglia sotterranea è solo agli inizi
  Non bisogna pensare che la conquista della superficie dell’ospedale comporti la presa di questo nodo centrale della “metropolitana” terrorista di Hamas, fornito di collegamenti e pozzi di uscita distanti anche diversi chilometri dal centro. Anche al nord della striscia, che ormai Israele ha conquistato in superficie e dove sono stati distrutti circa 200 pozzi che portavano alle istallazioni sotterranee, danneggiando buona parte delle relative gallerie, continuano a emergere gruppi di terroristi che cercano di prendere i soldati alle spalle. Nella notte, militari della brigata Nahal hanno fatto irruzione nella base di Kashrut di Hamas (il loro centro di addestramento) dove hanno trovato tunnel, armi e mezzi bellici di vario tipo, tra cui razzi e mezzi di intelligence. Inoltre, un aereo di sorveglianza ha identificato alcuni terroristi che uscivano da una base di lancio anticarro nascosta in una casa, sempre nel nord di Gaza che portavano borse esplosive in direzione delle forze israeliane. L'aereo ha seguito i terroristi e ne ha eliminati due.

Le trattative per gli ostaggi
  Anche ieri si sono diffuse voci che danno per fatto lo scambio fra Israele e terroristi. Hamas rilascerebbe un centinaio di bambini e donne che ha rapito e continua a detenere (orribile crimine di guerra, bisogna ribadire, che i terroristi ammettono per lo stesso fatto di intavolare la trattativa sulla loro liberazione e che i loro sostenitori e in genere i “pacifisti” in occidente ignorano). In cambio vuole altrettanti terroristi, che però non sono stati rapiti ma regolarmente arrestati e condannati da tribunali e in più pretende una tregua sul terreno di cinque giorni. Israele considera la liberazione dei rapiti un obiettivo importantissimo e continua a ricercarli in ogni modo, offrendo ricompense, usando mezzo di intelligence umana e tecnologica. Ma interrompere l’operazione per alcuni giorni (e poi non poterla probabilmente riprendere) assicurerebbe l’impunità dell’apparato centrale dei terroristi e dunque la sopravvivenza di Hamas. Quella in corso è una guerra asimmetrica: per Israele la vittoria è assicurare la pace dei suoi cittadini, in particolare quelli intorno alla Striscia, e dunque l’eliminazione totale dei terroristi; per Hamas, Jihad Islamica e altri movimenti terroristici, la semplice sopravvivenza di nuclei delle organizzazioni è la vittoria, perché consentirebbe loro di riorganizzarsi e ripetere il 7 ottobre, come hanno molte volte pubblicamente ribadito. Per capire questa strana trattativa sempre annunciata da fonte vicine ai terroristi e mai conclusa, bisogna tener presente questa fondamentale asimmetria.

(Shalom, 15 novembre 2023)

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Perché Hamas non ha trasferito l’ospedale di Gaza

Israele è in guerra. L’Occidente (o quel che ne rimane) è sotto attacco, ma questa guerra non la vuole fare. Ha paura. Dei tagliagole e dell’opinione pubblica. Certo: il 12 settembre eravamo tutti pronti ad invadere l’Iraq e l’8 gennaio eravamo tutti Charlie Hebdo. Ma questa volta è diverso: questa volta ci sono ‘gli ebrei’ che, ancora oggi, “un po’ se la sono cercata”. Lo ha detto, del resto, anche Guterres. E poi c’è la propaganda: le vittime innocenti! Ed il ritorno di un grande classico: l’ospedale! E poco importa che tutti sappiano, da almeno un decennio, che sotto quell’ospedale c’è il cuore della struttura di comando militare di Hamas.
   Nessun giornale che l’ha sbattuto in prima pagina, quell’ospedale (Al-Shifa Hospital a Gaza, ndr), ha avuto la decenza, o forse il coraggio, non tanto di snocciolare tediose e cavillose norme del diritto internazionale sulla definizione, la natura, l’ubicazione e la destinazione di un obiettivo che credo chiunque faticherebbe a non definire militare, ma di osservare una banale evidenza: ogni singolo paziente, ogni singolo medico, ogni singola infermiera ed ogni singolo macchinario in quell’edificio, avrebbe potuto essere trasferito senza alcuna fatica e, ne sono sicuro, senza alcun impedimento da parte di Israele.
   Qualunque ospedale nel mondo ha un piano di evacuazione. Esistono le catastrofi naturali, gli incidenti, gli imprevisti. Sarebbe potuto arrivare un terremoto, un’inondazione, un’alluvione. Quella struttura doveva essere in grado di essere trasferita. Senza troppi problemi, mi auguro, considerati i miliardi di dollari che sono piovuti su Gaza, ben prima dell’artiglieria israeliana.
   Sono passati 34 giorni. Sono state firmate petizioni per boicottare le istituzioni accademiche Israeliane. In tanti, troppi, hanno preferito accodarsi alla, assurdamente, comoda propaganda di Hamas che ostendeva le incubatrici senza corrente di fronte ai “reporter” (che poi, spesso, si è scoperto essere molto, troppo, vicini alla ‘causa’) e nessuno si è domandato come mai la rete elettrica fosse fuori uso per le incubatrici, ma perfettamente operativa nei bunker di Hamas. Ma del resto, questa volta, si tratta ‘degli ebrei’.

(l'Opinione, 15 novembre 2023)

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Ospedale Gaza, cosa ha trovato Israele: dal centro di comando di Hamas al covo per gli ostaggi

L’esercito dello Stato ebraico mostra le immagini dei sotterranei del nosocomio pediatrico Rantisi di Gaza: "Qui i terroristi nascondevano anche i rapiti"

di Silvia Sfregola

«Sotto l'ospedale pediatrico di Gaza abbiamo trovato un centro di controllo e comando di Hamas». Le forze di Difesa israeliane (Idf) entrano nel nosocomio pediatrico Rantisi, a Gaza, dopo l'evacuazione e, in un video, mostrano le prove di quello che sostengono ormai da giorni: nei sotterranei del presidio ospedaliero c'è una base dei miliziani palestinesi e, proprio là sotto, sarebbero stati nascosti gli ostaggi rapiti il 7 ottobre scorso. «Nei sotterranei abbiamo trovato un comando dei terroristi, giubbotti esplosivi, granate, fucili d'assalto Ak-47, esplosivi, Rpg e altri armi», ha spiegato il portavoce delle forze armate Daniel Hagari nel filmato diffuso dalle Idf. «Abbiamo anche trovato segni indicanti che Hamas ha tenuto ostaggi qui, segnali sui quali si sta indagando», ha aggiunto Hagari. Al 39esimo giorno di guerra a Gaza la situazione è, intanto, sempre più insostenibile attorno all’ospedale di Al-Shifa, che si trova nel centro della città ed è il principale ospedale della Striscia.
   Da una parte i medici che denunciano di una «situazione catastrofica» con cure sospese a decine di pazienti e vittime anche tra i sanitari e neonati prematuri fuori dalle incubatrici, dall’altra Israele che ribadisce che Hamas ha all’interno dell’ospedale il suo quartier generale e usa civili come scudi umani. 

La base di Hamas nei sotterranei 
   «Abbiamo trovato prove che i terroristi di Hamas sono tornati in questo ospedale dopo il massacro del 7 ottobre, dopo aver massacrato gli israeliani nelle loro case. Hamas si nasconde negli ospedali. Oggi le mostriamo al mondo», ha affermato Hagari mostrando una moto, con fori di proiettili, probabilmente usata nell'assalto del 7 ottobre. In una stanza, una sedia con delle corde e abiti femminili a terra. Nel sotterraneo, anche docce e un bagno. Lì vicino pannolini e un biberon. In un'altra stanza, divani e poltrone. Nessuna finestra ma tende ai muri: «Una stanza usata per registrare video», ha spiegato Hagari, mostrando anche un foglio che conterrebbe i turni di guardia dei terroristi. Mentre i combattimenti a Gaza si intensificano e la trattativa per un cessate il fuoco appare sempre più lontana, Israele viene pesantemente criticata per l'assedio al complesso ospedaliero di Al-Shifa. Secondo Tel Aviv Hamas lo starebbe usando come nascondiglio e centro operativo ma le Nazioni Unite hanno ricordato a Israele che questo non li esime dall'obbligo di risparmiare i civili. Gli attacchi contro gli ospedali rappresentano un punto critico del conflitto fino a far rischiare a Tel Aviv di perdere il sostegno internazionale. Dagli Stati Uniti il presidente Joe Biden è tornato a invocare protezione per l'ospedale al-Shifa: «È mio auspicio che vi siano azioni meno intrusive nell'ospedale. L'ospedale deve essere protetto», ha detto ieri il presidente ai giornalisti riuniti nella Sala Ovale.

La guerra intorno all'ospedale di Al-Shifa e le immagini diffuse dall'Idf
   Israele sostiene da tempo che Hamas utilizza case, ospedali e scuole come scudi per i combattenti, in parte perché «il massacro dei civili crea proseliti nel movimento di liberazione palestinese e, poi perché suscita attenzione a livello internazionale» evidenzia la rivista americana Newsweek. «Tuttavia - evidenzia - Tel Aviv avrebbe fornito poche prove a sostegno di una base sotto l'ospedale e sia Hamas che il direttore dell'ospedale Shifa Mohammed Abu Selmia continuano a smentire l'esistenza di un centro di comando sotterraneo».
   «Se vediamo i terroristi di Hamas sparare dagli ospedali, faremo quello che dobbiamo fare», ha dichiarato all'Associated Press il portavoce dell'esercito israeliano, il tenente colonnello Richard Hecht. L'elettricità è stata interrotta all'ospedale, secondo il portavoce del ministero della Sanità di Gaza, Ashraf Al-Qidra, che ha spiegato a Reuters che molti pazienti, compresi i neonati, sono morti. Il New York Times ha riferito che migliaia di persone sono fuggite da Al-Shifa durante il fine settimana, e l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ieri che la situazione è ormai «terribile e pericolosa» per chi è all'interno del nosocomio.

(Il Gazzettino, 14 novembre 2023)

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Hamas ha fatto male i calcoli sul dopo. I documenti

Il piano di Hamas per il dopo non era suicida, era meticoloso e prevedeva di “purificare la storia” dagli ebrei.

di Cecilia Sala

Dopo cinque settimane e mezzo di guerra, dopo che i documenti addosso ai terroristi autori del massacro sono stati analizzati, dopo che decine di miliziani sono stati catturati e interrogati e dopo che i soldati israeliani hanno ispezionato le “sedi istituzionali” di Gaza City, è più chiaro cosa avesse in testa Hamas il 7 ottobre. E che il gruppo avesse sbagliato i calcoli. Quella mattina il capo militare di Hamas a Gaza, Mohammed Deif, disse “il giorno è arrivato”, appellandosi al Libano, allo Yemen, alla Siria, a un pezzo di Iraq, ai palestinesi con la carta d’identità israeliana e a quelli della Cisgiordania. Il pogrom nel sud di Israele doveva provocare, nel giro di poco, una guerra sufficientemente grande da rendere impossibile per Israele difendersi o concentrare le proprie forze nella distruzione di Hamas. E gli Stati Uniti dovevano essere colti di sorpresa.
   Il Washington Post ha avuto accesso in esclusiva a una serie di documenti raccolti sul campo e ha scritto che “le prove, secondo funzionari dell’intelligence di quattro paesi sia occidentali sia mediorientali, rivelano che gli ideatori dell’attacco volevano sferrare un colpo storico e contavano su una reazione spropositata israeliana”, che avrebbe dovuto funzionare per infiammare subito gli alleati di Hamas nella regione. La consapevolezza che Israele avrebbe cominciato a bombardare la Striscia con un’intensità senza precedenti non era considerata un limite ma un passaggio indispensabile per arrivare alla distruzione del nemico, una fase successiva della guerra che non si è realizzata e che il 7 ottobre Deif aveva auspicato come “il momento in cui la Storia apre le sue pagine più pure”. I combattenti di Hamas che a centinaia hanno sfondato le recinzioni di Gaza all’alba avevano con sé provviste di cibo e munizioni sufficienti per resistere molti giorni. Un gruppo cospicuo si è staccato dagli altri, indaffarati a uccidere e a rapire, raggiungendo Ofakim, cioè avanzando di venticinque chilometri, coprendo una distanza superiore al diametro di Roma e arrivando a metà strada tra Gaza e la Cisgiordania. Loro marciavano verso i palestinesi governati da Abu Mazen augurandosi che sarebbero insorti vedendoli arrivare, e a giudicare dalle provviste che si trascinavano dietro contavano di riuscire a proseguire verso la Cisgiordania. Quello di Hamas non era un piano suicida, ma studiato per oltre un anno e basato sulla consapevolezza che gli israeliani fossero molto deboli oltre il confine est della Striscia – come effettivamente erano, anche se meno deboli di quanto sperasse Hamas. I morti a Gaza dovevano servire come movente per portare i partner a entrare in guerra. Contemporaneamente gli avanzamenti di Hamas sul terreno dovevano dimostrare alle milizie amiche che Israele era più fragile del previsto e battibile militarmente, a patto di restare tutti uniti.
   La segretezza che imponevano i preparativi del 7 ottobre ha, da un lato, permesso a Hamas di sferrare un attacco senza precedenti evitando fughe di notizie che avrebbero allertato lo Shin Bet; dall’altro lato ha reso i capi di Gaza talmente isolati da indurli in errore rispetto a quella che sarebbe stata la reazione del resto del mondo e dei loro stessi alleati. Un analista che conosce molto bene Hamas come Michael Horowitz ha scritto che probabilmente neppure i leader del gruppo all’estero, come Ismail Haniyeh che vive in Qatar, conoscevano il quando e il come dell’attacco. Perché c’è una frattura tra le guide di Gaza (il capo Yahya Sinwar e la mente militare Deif) e i vertici in esilio. I primi, che hanno vissuto in prigione e rischiano le bombe, considerano i secondi utili a reperire risorse ma corrotti e poco affidabili, perché subiscono le pressioni delle autorità nei paesi che li ospitano e li proteggono. Se neppure Haniyeh conosceva il piano, è ancora meno credibile che lo conoscessero in Libano o a Teheran. Se Sinwar e Deif avessero testato prima i propri alleati, forse avrebbero potuto fare previsioni più esatte sul dopo. Teheran oggi fa la faccia feroce ma parla con gli americani attraverso il Qatar mettendo in chiaro che non ha intenzione di morire per Hamas. Hassan Nasrallah ha pronunciato quello che gli esperti hanno definito il discorso meno infuocato nella sua storia di oratore nonostante questi bombardamenti su Gaza siano i più spietati di sempre. Quando lunedì una delle teste di Hamas in Libano ha detto che “se Hamas sarà completamente distrutto, allora Hezbollah entrerà in guerra”, l’intenzione era formulare una minaccia ma la lettura più diffusa è stata: è l’ammissione disperata, da parte di Hamas, che Hezbollah non abbia intenzione di salvarli.

Il Foglio, 15 novembre 2023)

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L'arma segreta dei terroristi: la comunità internazionale

I terroristi palestinesi possono contare sul fatto che la turpitudine morale dell’Occidente li proteggerà dai colpi più pesanti che potrebbero arrivare da Israele. 

di Ryan Jones

GERUSALEMME - All'inizio Israele era contento del sostegno incondizionato dei leader occidentali, ma tale sostegno si è rapidamente trasformato in pressioni che potrebbero salvare Hamas. Alla comunità internazionale piace salvare i terroristi palestinesi.
Lo fa da più di cinquant’anni.
All'inizio degli anni '70, l'OLP di Yasser Arafat si stava affermando come la principale organizzazione terroristica del mondo. Aveva una portata globale e faceva cose che nessun altro gruppo aveva fatto prima, come dirottare aerei e compiere un attentato ai Giochi Olimpici. Tutto al servizio della causa palestinese. E come reagì il mondo? Nel 1974, Arafat fu invitato a parlare all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e a dire al mondo ciò che voleva.
Con una pistola nella cintura, Arafat si presentò davanti ai rappresentanti della comunità internazionale riuniti e disse loro di accettare il ramoscello d'ulivo che offriva o di affrontare ulteriori violenze terroristiche.
Era lì, armato, e minacciava il mondo con il terrorismo. Avrebbe dovuto essere arrestato all'istante.
Ma il mondo ama troppo un terrorista palestinese per arrestarlo nel suo momento migliore.
Il mondo non è stato in grado di dare ad Arafat ciò che voleva e così ha continuato a distruggere il Libano. Più tardi, dopo che Israele lo ha cacciato da Beirut, Arafat è riuscito a scatenare una rivolta tra gli arabi in Giudea e Samaria. E ancora una volta, invece di porre fine a questa minaccia terroristica, il mondo decise di negoziare con Arafat e di nominarlo presidente!
Riuscite a immaginare un dramma simile nel caso di Osama bin Laden e Al-Qaeda? No, certo che no. Nel momento in cui Al Qaeda è diventata una seria minaccia terroristica con le mani sporche di sangue, c'è stato un solo obiettivo e un solo risultato accettabile: la sua sconfitta ed eliminazione.
Ma i terroristi palestinesi sono qualcosa di speciale, di privilegiato. Proprio come i rifugiati palestinesi, che sono gli unici tra i vari gruppi di rifugiati del mondo ad avere una propria agenzia delle Nazioni Unite.
Nonostante il successo della campagna di pubbliche relazioni che equipara Hamas all'ISIS e ai nazisti, il gruppo rimane fiducioso che la pressione internazionale si concretizzerà prima o poi e li salverà dall'estinzione.
Sebbene gli Stati occidentali si siano espressi a parole sulla necessità di distruggere Hamas, è altamente improbabile che sostengano questa missione fino in fondo.
Il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha dichiarato ieri che le forze israeliane hanno due o tre settimane per raggiungere gli obiettivi principali della loro guerra a Gaza prima che Gerusalemme subisca un'intensa pressione internazionale per accettare un cessate il fuoco.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è passato da una "pausa umanitaria" a un "cessate il fuoco" quasi dall'inizio della guerra di terra.
Hamas deve solo resistere abbastanza a lungo.
Ma questa volta c'è qualcosa di diverso. In Israele c'è qualcosa di diverso. Il Paese è unito e determinato. Il 7 ottobre ha rotto il solito ciclo e ha risvegliato nella psiche israeliana qualcosa che era rimasto sopito fin dai primi decenni della lotta per la sopravvivenza dello Stato ebraico.
Bisogna esserci stati per capire la profondità di questo sentimento. Ma anche da una prospettiva politica superficiale, gli israeliani non accetteranno più di vivere con una minaccia così barbara alle porte di casa o con ostaggi nelle mani del nemico. E qualsiasi governo in una situazione del genere commetterebbe un suicidio politico.
Tutto sommato, è improbabile che tra due o tre settimane, quando il mondo eserciterà la sua forte pressione diplomatica, Israele sarà lo stesso fragile bastone su cui i venti dell'opinione pubblica internazionale soffieranno facilmente.

(Israel Heute, 14 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Perché Israele

Intervento al convegno  “Davide doveva farsi uccidere da Golia”. Latina 

di Dario Petti

All’indomani del 7 ottobre, quando in Israele furono trucidate in modo orrendo 1.200 persone colpevoli solo di essere ebrei, ho visto immediatamente scendere il gelo attorno al popolo ebraico e allo Stato di Israele. Ancor prima che vi fosse l’ovvia reazione della parte offesa ho visto innalzarsi vessilli palestinesi senza una parola di solidarietà e pietà per quelle povere vittime. Mi sono chiesto come fosse possibile. Credo convergano oggi tre filoni, quello dell’antisemitismo “storico”, vecchissimo, fatto di pregiudizi duri a morire, che talvolta vedi riaffiorare sulle labbra di persone qualsiasi, durante una discussione, in modo sorprendente. Quello dell’ “antipolitica”, di coloro che abbracciano sempre posizioni avverse a priori a qualsiasi potere o istituzione “ufficiale”, il neoqualunquismo dove nascono le teorie complottiste. Infine quello più nutrito, che riempie le piazze, quello ideologico dell’antioccidentalismo, di chi accusa le “ricche” democrazie occidentali di ogni male contro il “povero” terzo mondo, esentando gli stati asiatici e africani da qualsiasi responsabilità per la loro condizione, una semplificazione che spinge verso polarizzazioni molto accese. Si assiste così a un “corto circuito valoriale” che vede i figli bene dell’Occidente, dove godono di libertà e diritti senza precedenti, solidarizzare con la “resistenza palestinese” guidata strumentalmente da Hamas che di quei diritti e libertà è il più feroce negatore.
   Mi sono immedesimato subito con i cittadini italiani di fede ebraica, con l’incubo delle leggi razziali del 1938, quando nostri connazionali collaborarono nel mandare nei campi di concentramento nazisti 7.000 uomini, donne e bambini, in cambio di 5.000 lire. Le bandiere di Israele bruciate, gli slogan sugli ebrei da uccidere, lo strappo dei manifesti coi volti degli ostaggi di Hamas, il danneggiamento delle pietre di inciampo, sono segnali di un rinascente fanatismo antisemita che dovrebbe indurre tutti a una seria riflessione. Noi partecipanti a questo convegno veniamo da storie politiche differenti, è una ricchezza e un fatto importante, quello che possiamo e dobbiamo fare sul nostro territorio è tenere i fanatismi e la connessa violenza lontani, mantenere aperto il dialogo con i giovani, fare leva sulla cultura, letteraria, cinematografica, per tenere vivo e sviluppare il senso critico. Si deve essere in grado di ascoltare un’opinione diversa senza schiumare di rabbia, invocare censure e scomuniche. Hamas teorizza e pratica l’eliminazione fisica degli ebrei in linea di continuità con il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, sostenitore di Hitler e dello sterminio della Shoah quando non esisteva nessuno stato di Israele. Oggi vi è una guerra, dove si contrappongono lo stato israeliano, con i suoi valori democratici, certo contestabilissimo, ma dall’altra vi è il fanatismo religioso, oscurantista e sanguinario di Hamas. Non è indifferente chi prevalga tra i due, non lo è per il Medio Oriente, per l’Europa e nemmeno per la giusta causa palestinese, perché mai uno Stato potrà sorgere sotto l’egida di Hamas.

(Fatto a Latina, 14 novembre 2023)

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Boicottaggio di Israele, la deriva anti-ebraica dei professori italiani

L’appello di 4mila docenti a non «collaborare» con nessuna università dello Stato ebraico

L’appello dei 4mila professori universitari italiani a boicottare le istituzioni accademiche israeliane sembra partorito da un tink tank di Hezbollah ma avrebbe messo di buon umore anche Joseph Goebbels.
   «Interrompere ogni collaborazione», scrivono gli invasati ai ministri Tajani e Bernini e alla Conferenza dei rettori in un crescendo rossiniano che accusa lo Stato ebraico di «segregazione razziale» e «genocidio» da «oltre 75 anni». Oltre 75 anni vuol dire l’intero arco di vita dello Stato ebraico che nacque, ricordiamolo, in seguito alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite e non per arbitrio divino.
   Al di là della conoscenza sommaria e parziale – o forse soltanto in malafede - della storia (nel ’48, nel ’67 e nel ’73 Israele è stato attaccato dai paesi arabi confinanti che volevano cancellarlo dalla faccia della Terra), quel che colpisce e avvilisce è il bersaglio individuato dai nostri professori.
   Non il governo Netanyahu e la sua destra messianica, non l’industria delle armi e il suo indotto miliardario, non la macchina della propaganda bellica, a finire nel mirino sfocato di questa ciurma farisaica è il mondo della cultura, dello studio, della ricerca, dell’incontro tra idee, ossia uno degli spazi più liberi e pluralisti della società israeliana, naturalmente e storicamente contrapposto al fanatismo dei nazionalisti e da sempre favorevole alla soluzione “due popoli due Stati”.
   È nelle aule degli atenei di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa che lo scorso anno è nato il movimento che, per interi mesi, ha contestato nelle piazze il premier e i suoi ministri, manifestando contro la riforma della Corte suprema ma anche contro l’espansione degli insediamenti illegali in Cisgiordania e per i diritti della popolazione palestinese. Cosa c’entrano mai i dipartimenti e le facoltà universitarie israeliane con i bombardamenti sulla Striscia Gaza e con la morte dei civili innocenti? La risposta data da Pierluigi Musarò, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Bologna al Corriere della sera è di quelle che fanno cadere letteralmente le braccia: «I miei colleghi non possono più collaborare con le università di Gaza rase al suolo in queste settimane. Il boicottaggio è uno strumento pacifico, non violento di pressione. Non ne abbiamo altri».
   Come spesso accade, chi è accecato dall’ideologia oltre alla ragionevolezza e alla logica smarrisce anche il senso del ridicolo inciampando nei paradossi più fastidiosi; e così i firmatari, prima di lanciare il boicottaggio dei loro colleghi ebrei, ribadiscono quanto per loro sia importante «l’impegno per la libertà di parola e il diritto degli studenti e delle studenti al dibattito». Libertà di parola sì, ma non per gli universitari israeliani, meritevoli di isolamento come degli appestati che capolavoro di ipocrisia!
   Altri docenti italiani hanno provato a lanciare un contro-appello in cui accusano i boicottatori di «pregiudizio antisemita», e soprattutto di «non rappresentare il pensiero di tutti gli accademici». Questo è sicuro, ma le adesioni al contro-appello sono state fino ad ora decisamente meno numerose, confermando che nelle nostre università abbiamo un problema grande come una casa.

(Il Dubbio, 14 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 39. La battaglia degli ospedali

di Ugo Volli

Hamas non è più padrone di Gaza
  Israele è ormai entrato nei luoghi simbolici del potere a Gaza. Ci sono foto che ritraggono i soldati della divisione di fanteria d’eccellenza Golani nella sede del comitato legislativo dove i capi di Hamas tenevano le loro riunioni pubbliche; altri sono entrati nella sede del governatore della città; i carri armati stazionano sulla “piazza del milite ignoto”, dove si tenevano le manifestazioni di massa del terrorismo. Buona parte della popolazione della città è sfollata verso il sud della Striscia ed è in difficoltà per le piogge abbondanti. Ci sono stati scontri fra la folla che cercava di ottenere il cibo dei soccorsi e i miliziani di Hamas che cercavano di sottrarglieli e impadronirsene. Sono stati anche riferiti saccheggi delle sedi dei movimenti terroristi e altri luoghi del potere di Gaza. Il problema è che tutti i paesi che esprimono solidarietà per i palestinesi non vogliono affatto accogliere i fuggitivi. Non intende farlo l’Egitto, che dall’inizio delle operazioni ha chiuso il valico di Rafah, lasciando passare solo in certi momenti i feriti e gli abitanti forniti di passaporto straniero. Esclude l’accoglienza anche l’altro paese che confina con Israele, dove sarebbe possibile portare facilmente i rifugiati, la Giordania, che ha parlato della possibilità che essi arrivino sul suo territorio come di una “linea rossa”. Nessuno fra gli stati arabi e musulmani che hanno fatto l’altro ieri grandi discorsi sul loro appoggio a Gaza ha offerto ospitalità. Questa situazione è un problema ora e lo sarà ancor di più in futuro, perché in mezzo alle famiglie normali vi sono terroristi e una maggioranza di loro sostenitori, che rendono pericolose queste folle.

La battaglia degli ospedali
  Seppure i punti strategici del suolo di Gaza sono in mano ai soldati israeliani, la guerra non è affatto finita. I terroristi sono ancora in grado di sparare grosse salve di missili su Israele come hanno fatto anche ieri sulla zona centrale del paese, colpendo anche direttamente una casa a Petah Tikvah. La fase molto delicata che è in corso ora è una battaglia sugli ospedali, dove è sempre più chiaro che i terroristi avevano stabilito i loro centri logistici, di comando, e perfino di prigionia. Il portavoce dell’esercito israeliano ha mostrato alla stampa le prove del fatto che nell’ospedale pediatrico Rantisi erano detenuti dei rapiti fra cui bambini: una motocicletta con la fascia di uno dei rapiti, biberon, corde con cui i rapiti erano legati alle sedie. Vi sono anche foto che mostrano nello stesso ospedale un luogo di tortura, fra cui una sedia attrezzata a questo scopo. Nell’ospedale Shifa è emersa una sala riunioni dei terroristi; dallo stesso ospedale è uscita ieri una squadra di terroristi che ha ingaggiato uno scontro a fuoco coi militari israeliani. Le forze israeliane si trovano a dover conquistare questi ospedali, che sono anche caserme e prigioni, cercando di non danneggiare i malati. C’è stato per esempio un trasferimento di incubatori da Israele a Gaza per utilizzarli a favore dei neonati di Gaza. La propaganda antisraeliana tratta questa battaglia degli ospedali come un esempio di crudeltà. Ma in effetti crudele e criminale secondo la legge internazionale è usare gli ospedali come istallazioni militari; il fatto che lo siano li rende obiettivi legittimi dell’azione bellica. Israele non vuole coinvolgere i malati, si dà da fare per aiutarne lo sfollamento; ma deve entrare in questi complessi che ancora nascondono sottoterra le principali istallazioni terroriste.

La trattativa sugli ostaggi
  Questa guerra, come ho spesso detto, è anche una corsa contro il tempo. Israele deve smantellare l’apparato terrorista prima che le crescenti pressioni internazionali lo mettano in difficoltà. E i terroristi cercano di comprare tempo con gli ostaggi. Ieri è emersa l’offerta di liberare 50 bambini rapiti in cambio della scarcerazione di donne arrestate e condannate e soprattutto di una pausa di cinque giorni nell’offensiva israeliana. Israele ha rifiutato, consapevole che una pausa del genere probabilmente significherebbe la fine della campagna. Oggi è chiaro che la liberazione degli ostaggi si può ottenere solamente aumentando la pressione su Hamas e non sospendendola. Le trattative comunque continuano in maniera riservata, probabilmente attraverso il Qatar.

Gli scontri al confine settentrionale
  Sono continuati e aumentati anche i combattimenti al confine settentrionale con Hezbollah, che si basano sul concetto di rappresaglia: Hamas attacca postazioni militari ma anche case civili di Israele soprattutto con razzi anticarro, provocando anche delle vittime. Israele risponde al fuoco con l’artiglieria e gli aerei, anche in profondità (ieri si sono visti bombardieri israeliani sopra Beirut). Hezbollah si vendica sparando di nuovo verso Israele e il ciclo continua, aumentando di intensità e di ritmo. Ci si chiede se non possa partire anche una battaglia in quella zona per eliminare la minaccia che incombe sui villaggi della Galilea, ormai sotto tiro da un mese. Un’operazione come quella del 7 ottobre ripetuta al Nord avrebbe effetti ancora più devastanti, perché Hezbollah è assai più forte di Hamas e ha la geografia in suo favore, partendo dalle alture. Ma è chiaro che uno scontro del genere rischierebbe di provocare una guerra regionale.

(Shalom, 14 novembre 2023)

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Gli arabi si identificano con Israele molto più fortemente di prima

L'attacco terroristico del 7 ottobre e la reazione di Israele stanno anche cambiando l'opinione della popolazione sullo Stato. Gli arabi sentono un legame più forte con Israele.

Il 20% di arabi che vivono in Israele abita anche in quartieri a maggioranza ebraica
GERUSALEMME - Dall'inizio della guerra di Gaza, il 7 ottobre, la solidarietà degli arabi israeliani con lo Stato di Israele è aumentata in modo significativo. Secondo un sondaggio dell'Israel Democracy Institute, il 70% degli arabi ha dichiarato di sentirsi parte di Israele e dei suoi problemi. Si tratta del dato più alto degli ultimi 20 anni. Nel giugno scorso, la percentuale era del 48%.
   Anche gli ebrei in Israele stanno mostrando una crescente solidarietà con Israele: la percentuale è stata del 94%, un livello raggiunto l'ultima volta nel 2003 durante la seconda "intifada". Dopo un minimo nel 2014 (78%), i sondaggi dal 2015 mostrano un valore medio dell'85%.
   L'Istituto per la Democrazia chiede regolarmente anche il desiderio di rimanere in Israele. Tra gli ebrei, la percentuale è scesa al 62% a giugno, probabilmente sotto l'effetto della riforma giudiziaria. All'epoca, il dato era persino inferiore a quello degli arabi (70%). A novembre, tuttavia, l'80,5% degli ebrei ha dichiarato di voler rimanere in Israele, rispetto al 59% degli arabi.

Visione divisa del futuro
  Il sondaggio ha anche rivelato che l'attuale approccio del governo alla questione degli ostaggi è in linea con l'opinione della maggioranza: il 38% degli israeliani è favorevole ai negoziati per il rilascio degli ostaggi mentre i combattimenti continuano. Circa il 22% è a favore di nessun negoziato, mentre il 21% è favorevole ai negoziati, anche se richiedono la sospensione delle ostilità. Circa il 10% è favorevole ai negoziati solo dopo la fine della guerra. Per quanto riguarda il futuro dello Stato di Israele, ebrei e arabi hanno opinioni diverse: il 72% degli ebrei è ottimista su questo tema, rispetto al 52% di giugno. Solo il 27% degli arabi vede un buon futuro per Israele, rispetto al 40% di giugno.

(Israelnetz, 14 novembre 2023)

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I prof si ribellano ai boicottaggi. «Israele non è uno Stato canaglia»

Contromobilitazione di alcuni docenti in risposta ai colleghi che chiedono di interrompere i rapporti con gli atenei ebraici: «Criticare Gerusalemme è legittimo, ma senza bugie: lì non c'è alcuna apartheid».

di Francesco Bonazzi 

Le università dovrebbero essere il tempio della ricerca, del sapere, della serietà e dell'inclusione. Anche in tempo di guerra. Invece, nei giorni scorsi, circa quattromila membri delle università italiane hanno firmato un appello per interrompere ogni forma di collaborazione con gli atenei israeliani come forma di presunta solidarietà con la popolazione di Gaza. Da domenica, con 2.500 adesioni in poche ore, è partita la risposta di chi trova questo boicottaggio «ingiusto e dannoso». Un contro-appello per nulla dogmatico, nel quale si respinge duramente «l'identificazione de facto tra critica alle azioni del governo Netanyahu - legittima e condivisibile - e rifiuto delle istituzioni culturali e accademiche israeliane che operano in piena autonomia dalla politica». 
   L'Appello contro il boicottaggio delle università italiane», già in rete sulla piattaforma di change.org, vede come primi firmatari Lucia Corso (Università Kore di Enna), Mathew Diamond (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Sissa, Trieste), Alessandro Silva (Sissa), Raffaella Rumiati (Sissa) e Cosimo Nicolini Coen (Università Bar Ilan, Ramat Gan, Israele). Il documento si preoccupa innanzitutto di confutare alcune tesi assai discutibili contenute nella «Richiesta urgente» di sabato scorso, con cui alcuni docenti si sono rivolti, tra gli altri, al ministro dell'Università, Anna Maria Bernini e alla Crui, la conferenza dei rettori . 
   La prima affermazione nel mirino è quella secondo la quale in Israele vi sarebbe un «illegale regime di oppressione militare e apartheid». Il contro-appello parla di «lettura distorta, univoca e semplificata», facendo notare che invece «la società israeliana è secolare e rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell'incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini». E ricorda che i cittadini arabi sono il 20%, «sono parte integrante della vita del Paese, partecipano alla vita culturale e istituzionale, siedono nelle medesime università e nei medesimi uffici e giocano nelle stesse squadre di sport». Poi il documento non si sottrae al tema spinoso dei coloni e afferma: «La politica degli insediamenti e la presenza militare in Cisgiordania, passibile di aspre critiche anche all'interno di Israele, non può non essere letta alla luce del contesto geopolitico, fra cui il naufragio degli sporadici tentativi di pace (Accordi di Oslo I e II) per responsabilità condivise e della spirale di violenza che affligge l'area innescata e sostenuta da tutti i soggetti coinvolti». 
   La seconda tesi che non va giù agli estensori del contromanifesto è quella di definire l'attacco di Hamas del 7 ottobre scorso una risposta quasi giustificabile a un'asserita oppressione coloniale. Qui, nel documento si ricordano vari accordi internazionali e poi si legge: «L'operazione di Hamas non è il gesto improvvisato di una vittima che ha subito vessazioni, ma il risultato di anni di pianificazione e di investimenti milionari. Hamas le ha dato un nome, come se fosse un'operazione militare legittima: Al-Aqsa Flood. Per esser sicuri di avere potere negoziale i terroristi hanno poi rapito più di 200 ostaggi, di cui 33 bambini». «Nulla giustifica gli atti orripilanti che sono stati commessi», continua il contro-appello, e qui c'è davvero poco da dire. 
   L'ultima argomentazione della «Richiesta urgente» che non è andata giù a molti professori e ricercatori italiani è quella che caratterizza la risposta militare israeliana come «punizione collettiva», una rappresaglia o una vendetta, con lo stereotipo antisemita dell'occhio per occhio sullo sfondo. Nel contro-appello, si parla invece di «operazione militare volta a neutralizzare la possibilità che vengano inferti ulteriori attacchi da parte di Hamas». Ipotesi non remota, perché «non solo i leader di Hamas hanno ribadito la volontà di espellere tutti gli ebrei dall'area, ma anche altri attori internazionali, come Hezbollah, Iran, Yemen e Siria, non perdono occasione per negare il diritto all'esistenza di Israele». 
   Rimessi in chiaro i termini del conflitto in corso, i redattori dell'appello pro Israele denunciano una situazione allarmante. Il boicottaggio proposto odora lontano un miglio di antisemitismo («in costante aumento anche all'interno delle nostre universìtà») perché un'iniziativa simile non è mai stata proposta «nei confronti di università di Paesi con politiche brutali e ciniche, come l'Iran e Siria». E ancora, «criticare Israele e le azioni di un suo governo è legittimo, dipingerlo ideologicamente come stato canaglia no». 
   Poi, c'è la profonda tristezza che suscita l'idea che in una nazione che ha avuto le leggi razziali si stia lì a discutere di boicottaggi, chiusure e rinunce a scambi, ricerca e maggior cultura. Con l'aggravante che l'idea di oggi nasce direttamente in qualche ateneo. Per il resto, giusto concludere con le parole dedicate dal contro appello alla guerra in corso: «Noi firmatari condividiamo l'angoscia e il dolore per l'immensa tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza ed esprimiamo l'auspicio per un'immediata e incondizionata liberazione degli ostaggi e conclusione del conflitto». 

(La Verità, 14 novembre 2023)

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Il meritorio, ma patetico, stupore dei maître à penser di sinistra israeliani

Per decenni hanno contribuito a diffondere una visione distorta e demonizzate di Israele, ora si stupiscono della condiscendenza verso i tagliagole terroristi e i loro sostenitori.

dii Ben-Dror Yemini

Si tratta di un fenomeno notevole, allarmante e inquietante. Social network e canali tv mostrano ripetutamente brevi videoclip di giovani e studenti che strappano le foto coi volti degli ostaggi israeliani. Il gesto è diventato di tendenza, e non si limita agli studenti palestinesi o di origine mediorientale. Studenti provenienti da contesti e background diversi prendono parte alla nuova moda con aperto divertimento. Una giovane ragazza sorride intenzionalmente, alla ricerca del sostegno internazionale per la sua “liberazione”, mentre vengono strappate con derisione le immagini con quei volti.
   Non si tratta di schierarsi con Hamas. Il 90% di costoro non ha idea di chi o cosa sia Hamas. È la fissazione woke per cui il soggetto percepito come “debole” ha sempre ragione, anche se è uno spietato assassino, e quello percepito come “forte” è sempre un cattivo malvagio. Non importa che Hamas persegua l’annientamento degli ebrei, dei cristiani e il dominio sul mondo. Per costoro, Hamas rappresenta “i palestinesi”, che sono diventati gli oppressi per eccellenza, e Israele, dopo anni di indottrinamento, è ormai etichettato come uno stato “colonialista di apartheid” (benché non sia né l’una né l’altra cosa).
   Nelle ultime settimane, anche la sinistra israeliana si ritrova costernata per questa celebrazione dell’odio. Molti dei suoi esponenti condividono articoli in cui dicono addio alla sinistra globale, che ignora le atrocità e talvolta le giustifica. Meritano un applauso. Capiscono che qualcosa è andato molto storto nell’elaborazione del pensiero all’interno degli ambienti progressisti di sinistra, alcuni dei quali insistono nel sostenere o difendere Hamas con le ben note scusanti menzognere come “il loro diritto di reagire”, “Gaza è la più grande prigione del mondo”, “è colpa dell’oppressione e dell’occupazione” e altri slogan dello stesso campionario.
   Alcuni giorni fa, questi nuovi dissidenti della sinistra hanno sottoscritto una dichiarazione in cui prendono le distanze dalla sinistra globale. Dunque meritano l’applauso, ma anche un po’ di introspezione. Come mai solo adesso? Per decenni hanno dipinto Israele come un mostro, diffondendo bugie sul paese. Per decenni hanno etichettato la “nakba” come uno dei crimini più gravi della storia, benché siano decine di milioni le persone nel mondo che hanno subito lo sfollamento come conseguenza della creazione di stati nazionali. Per decenni hanno ignorato la “nakba” ebraica (dai paesi arabi), che non è stata meno dura di quella palestinese. Per decenni hanno chiuso gli occhi davanti al rifiuto arabo di qualsiasi proposta di spartizione e all’invasione di Israele mirata alla sua distruzione. Per decenni hanno ignorato il rifiuto palestinese di accettare qualsiasi soluzione a due stati. Per decenni hanno ignorato i proclami dei capi di Hamas sull’annientamento degli ebrei. Per decenni hanno fornito giustificazioni al terrorismo palestinese. E ora si stupiscono? La conseguenza ovvia di quel lavaggio del cervello è strappare i manifesti che raffigurano i volti degli ostaggi. Che diamine, le vittime sono i palestinesi!
   “Molti intellettuali ebrei sono segnati dalla macchia del peccato antisemita, come Peter Beinart, Noam Chomsky, Judith Butler, Avi Shlaim, Shlomo Sand”, lamentava la professoressa Eva Illouz esattamente undici anni fa. Ma predicava dall’interno, e non si è mai fermata un attimo. Ha condotto una straordinaria campagna, parte della quale è apparsa sulle pagine del francese Le Monde, per denunciare presunte ingiustizie di Israele. In uno dei suoi articoli, “47 anni schiavo”, Illouz spiegava che bisognava cambiare approccio: non le bastava più l’accusa di “apartheid”. Ora è “schiavitù”, nientemeno. L’articolo che scrisse allora era talmente pieno di imbarazzanti distorsioni che anche un quotidiano di sinistra come Ha’aretz dovette pubblicare una rettifica.
   Il professor Oren Yiftachel dell’Università Ben-Gurion è, insieme a Illouz, uno dei firmatari della recente dichiarazione. Davvero notevole, giacché Yiftachel è uno dei capiscuola della teoria che dipinge il sionismo come “colonialismo”. Oltre due decenni fa, quando un suo articolo su una rivista accademica venne rifiutato solo perché lui è israeliano, accettò di apportare modifiche equiparando Israele al Sud Africa. Successivamente, guidò la campagna per definire Israele come uno stato di apartheid. Nel 2009, durante l’operazione anti-terrorismo Piombo Fuso, andò oltre e pubblicò un articolo in cui suggeriva di interpretare gli attacchi missilistici di Hamas come “un tentativo di ricordare al mondo, e a Israele, ma anche alla leadership palestinese, che la questione dei profughi è viva e vegeta”. È un’affermazione così strampalata e stupida da meritare un posto nel Guinness dei primati. Decine di milioni di persone in Europa sono diventate profughi. Quasi ogni ebreo in questo paese discende da profughi delle persecuzioni in Europa orientale o nei paesi arabi. Dunque anche loro hanno il diritto di lanciare razzi sulla gente dei paesi da cui sono fuggiti o da cui sono stati espulsi per “ricordare la questione dei profughi”? La seconda guerra mondiale potrebbe rivelarsi solo un gioco da ragazzi, se si adottasse a livello globale il principio morale con cui Yiftachel giustificava la violenza. E se questa non è giustificazione del terrorismo, allora non si capisce cos’è.

(israelnet.it, 14 novembre 2023)

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Perché Israele è odiato: intervista a Ugo Volli

In attesa del prossimo libro di Ugo Volli, “La Shoà e le sue radici”, (Marcianum Press) abbiamo voluto intervistarlo a proposito della attuale guerra in corso, della quale, quotidianamente, rende conto con i suoi nitidi e preziosi bollettini su Shalom.

di Niram Ferretti

- Il 7 ottobre scorso, l’eccidio perpetrato da Hamas di sorpresa in Israele, di un solo colpo  ha manifestato  una inattesa vulnerabilità dello Stato  e ha mostrato al mondo come, dopo la Shoà, si venga ancora uccisi in massa in quanto ebrei e con una ferocia inimmaginabile. A un po’ più di un mese di distanza quali sono le tue considerazioni su quello che è accaduto?  
  La strage del 7 ottobre è colpa dei terroristi e non certo di Israele. Ma non è stata adeguatamente contrastata. Vi sono stati numerosi errori tattici: c’era troppa fiducia nei sistemi di allarme elettronico, i sistemi di comunicazione e di guardia erano vulnerabili, non vi era difesa autonoma delle comunità di frontiera, mancava una riserva militare di pronto intervento, si è consentita una festa con migliaia di ragazzi vicina al confine. Insomma il paese era vulnerabile. Ma ciò deriva da un atteggiamento di “whishful thinking” diffuso negli apparati politici, militari e informativi. Si è creduto davvero che Hamas fosse interessato alla pace e alla prosperità di Gaza, perché Israele vuole la prosperità e la pace. Un giusto calcolo strategico fatto vent’anni fa (è meglio un nemico diviso in fazioni contrapposti che unito e compatto) si è trasformato, soprattutto ad opera di certi settori politici e militari, nell’idea che l’esistenza del regime di Hamas potesse essere compatibile con la pace e dunque migliore per Israele della sua eliminazione.  

- Prima dell’7 di ottobre Israele è stato attraversato da una profonda lacerazione interna. Per quasi un anno ci sono state imponenti manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia. Si è accusato Netanyahu di volere condurre il paese verso il baratro, si è incoraggiata la diserzione. Quanto può avere influito secondo te questo stato di cose sulla decisione di Hamas di colpire Israele? 
  Ci sono state più che manifestazioni di piazza. C’è stato un tentativo, per dirla con Shmuel Trigano, di colpo di stato postmoderno, che aveva l’obiettivo di sottrarre la sovranità all’elettorato e al parlamento per riportarlo in mano alle élites economiche politiche e burocratiche di sinistra che l’hanno in sostanza detenuto dalla fondazione di Israele e che ora sentivano il rischio di doverlo cedere a un elettorato orientato a destra. C’è chi fra loro ha minacciato la “guerra civile”, chi ha lavorato con successo per indurre i settori più tecnologici (e dunque più elitari) dell’esercito alla diserzione (almeno dei riservisti) e al rifiuto della leva. Fra costoro vi erano anche gli ideologi del “campo della pace”, che vi vedevano la possibilità di una rivincita per le loro politiche fallimentari di appeasement con i terroristi. La colpa della strage, lo ripeto, è tutta dei terroristi. Ma i settori che hanno promosso, massicciamente finanziato, sostenuto e organizzato il tentativo di colpo di stato contro il governo Netanyahu hanno gravi responsabilità. Vale la pena di ribadirlo, perché molto probabilmente la pacificazione interna di Israele in seguito all’eccidio è provvisoria e il rischio di nuove scissioni ed eversioni si rinnoverà appena conclusa la fase bellica. 

- C’è, in corso da cinquanta anni un dispositivo ricorrente tutte le volte che Israele si difende da una aggressione, gli viene chiesto di rispondere “proporzionalmente”, di non esagerare, per poi subito evidenziare che le sue azioni belliche sono criminali, abnormi, ecc. Lo vediamo in questi giorni. Quali sono, a tuo avviso, i fattori principali che attivano questo dispositivo? 
  “Proporzionalità” in guerra è un’espressione insensata, perché l’obiettivo di ogni guerra è l’esercizio di una forza superiore al nemico, tale da costringerlo a rinunciare ai suoi progetti politici e ad adeguarsi a quelli del vincitore. Fin che le forze sono proporzionali, come sanno gli strateghi, la guerra continua. Di più, questa guerra è stata provocata da una serie di eventi criminali senza precedenti: non solo assassinii, ma stupri, mutilazioni, persone bruciate vive, torture di bambini e di anziani, veri e propri squartamenti. Dovrebbe Israele essere proporzionale ripetendo questi crimini sulla popolazione di Gaza? Naturalmente no. La richiesta che si fa a Israele è in realtà quella di non vincere: o di perdere (e allora ci sarà la soddisfazione del compianto rituale della memoria, che già si esercita il 27 gennaio) o al massimo di pareggiare, che significa continuare a subire stragi e distruzioni. Ciò deriva dalla vigliaccheria morale dell’Occidente, che ormai ha paura di affermare la propria identità e le proprie ragioni – e per questo quasi sempre le élites culturali e mediatiche occidentali in caso di conflitto si schierano col nemico, per barbaro che sia. Israele è odiato perché è l’avanguardia dell’Occidente da molti punti di vista, ma non si arrende. E poi vi è il marchio specifico dell’antisemitismo, figlio dell’antigiudaismo cristiano. Per esso i soli ebrei accettabili sono quelli sconfitti, dolenti, sofferenti, perché essi sono affetti dal marchio indelebile costituito dalla loro esistenza “abusiva”. Essi dovrebbero essere scomparsi da tempo, essersi fusi nella maggioranza cristiana, musulmana, comunista, postmoderna. Non lo hanno fatto e che allora paghino con la più crudele abiezione. Magari anche con le stragi più efferate compiute da terroristi che sono apprezzati nonostante le loro azioni, perché nemici degli ebrei. 

- La cosa sorprendente ma non per chi conosce a fondo la storia di Israele e i fatti, è l’esorbitante livello di mistificazione della realtà. Si è giunti progressivamente dopo la Guerra dei sei giorni, nel corso di due generazioni, a trasformare gli aggressori, gli arabi, in vittime, e gli aggrediti, gli israeliani in oppressori. Vorresti evidenziare cosa ha determinato questa narrativa  egemone? 
  Gli arabi sono nemici di Israele. Israele è il male. Lo è perché è rinato nonostante l’interdetto teologico cristiano, perché è uno stato liberale e capitalistico di successo, perché non si è piegato ai diktat sovietici prima, del politically correct poi. Israele è il male soprattutto perché è lo stato degli ebrei liberi e vivi, e gli ebrei vanno bene solo prigionieri e morti.  Vivo e prospero è l’ebreo degli stati, che va rimesso al suo posto. Gli arabi sono nemici degli ebrei e dunque buoni, anche perché hanno il petrolio. Magari sono governati da super-ricchi reazionari e sono loro stessi portatori di un modo di vita incompatibile con la modernità e il progresso. Ma i palestinesi sono speciali. Perché solo sì arabi, ma non hanno altre caratteristiche storico-sociali se non l’opposizione a Israele. Non c’erano prima degli anni Sessanta, sono stati inventati (come popolo, naturalmente non come individui) dai servizi segreti sovietici che avevano bisogno di un’etichetta per mettere in difficoltà l’Occidente in Medio Oriente. Non hanno un passato, non hanno una cultura, non hanno neppure un lingua; ma sono i nemici di Israele che gli contendono la terra e la legittimità. L’URSS non c’è più, ma l’influsso velenoso dell’ideologia sovietica ancora domina la politica, le università e i media occidentali. 

- Gli ebrei sono sempre la pietra di inciampo. Oggi, come duemila anni fa. Per secoli sono stati il capro espiatorio, il popolo su cui, più di ogni altro, si sono proiettati fantasmi, demoni, paranoie. Inevitabilmente questo ruolo spetta oggi a Israele. Cosa hai da dire in proposito? 
  Visto da dentro, il popolo ebraico non ha nulla di tutto ciò. E’ il popolo che ha portato al mondo la morale dei diritti e dei doveri uguali per tutti (sintetizzati dai dieci comandamenti), che sempre “sceglie la vita”, che è fedele a se stesso e ai suoi valori tanto da essere sopravvissuto ai suoi potentissimi oppressori politici: gli egizi, i babilonesi, i romani, la Chiesa, l’Islam, il socialismo reale, oggi il relativismo postmoderno. Forse per questa incredibile capacità di resistenza identitaria è odiato. Ma proprio grazie ad essa gli ebrei non odiano il mondo circostante, cercano buoni rapporti, voglio contribuire e collaborare, spesso si innamorano dei loro ospiti, che siano la Spagna, la Germania, il mondo arabo, Venezia: tutte piccole patrie rimpiante e desiderate. Verrà il giorno, speriamo, che questo amore non sarà ricambiato con l’odio. 

- L’obbiettivo di Israele è di sradicare Hamas dalla Striscia. Gli Stati Uniti vorrebbero che una volta che Israele sarà in grado di farlo, il governo di Gaza passi sotto la tutela dell’Autorità Palestinese. Netanyahu ha detto chiaramente che questo non succederà. Quale dovrebbe essere per te il futuro della Striscia? 
  Domanda molto difficile. L’Autorità Palestinese non è in grado di controllare neanche le città che oggi nominalmente ne dipendono, come Jenin. Se Muhamed Abbas è ancora presidente lo deve a Israele che ha scongiurato i tentativi di eliminarlo. Non può certo governare Gaza al posto dei terroristi, anche perché i suoi uomini hanno partecipato a tutta la recente ondata terrorista, incluso il 7 ottobre. Non credo a un governo dell’Onu o di altre agenzie internazionali, che sarebbe solo lo schermo dei terroristi. L’ideale sarebbe che l’Egitto si riprendesse la Striscia, che era sua fino al ‘67. Ma non lo farà, perché sarebbe solo una fonte di guai. Uno degli aspetti più tristi della situazione del campo palestinese è che non esistono neppure in esilio delle personalità non compromesse col terrorismo. Ce n’erano in Italia e in Germania durante il nazifascismo, c’erano nei paesi dell’Est europeo (non in URSS), Ci sono in Cina, ma non fra i palestinesi. Non conosco la soluzione. Ci potrebbero essere amministrazioni locali su base tribale, come propone Mordechai Kedar (ma a Gaza la popolazione è molto mescolata). E’ chiaro comunque che Israele dovrà essere presente e intervenire sul piano della sicurezza, perché anche sconfitte le organizzazioni terroriste, resteranno i loro vecchi membri e almeno parte dell’appoggio della popolazione.

- Due popoli, due Stati. Questo assunto fu alla base della Commissione Peel nel 1937, quando tradendo lo spirito del Mandato britannico per la Palestina del 1922 che assegnava all’abitabilità ebraica tutti i territori a occidente del Giordano, gli inglesi proposero agli arabi l’80% del territorio. Dissero di no allora. Dissero di no al piano di partizione dell’ONU del 1947, e da allora non hanno mai smesso. Eppure si continua a insistere. Perché?
  I due stati per due popoli ci sono già. Uno è Israele, l’altro è la Giordania che fu ritagliata dagli inglesi nel 1922 dal mandato britannico di Palestina come emirato di Transgiordania comprendendo l’80% circa del territorio, proprio per fornire uno stato agli arabi del Mandato. Oggi tre quarti della popolazione della Giordania ha origini o legami al di là del Giordano, compresa la regina. Chi vuole oggi dividere Israele in due stati, lo sappia o no, sta solo cercando di applicare la strategia del salame immaginata da Arafat: mangiare Israele una fetta per volta.

- La domanda più difficile, forse. Come vedi il futuro di Israele dopo questa guerra? 
  Lo vedo come oggi: uno stato dinamico, conflittuale, difficile, orgoglioso, radicato nel territorio e nella cultura, inventivo, multiforme, sentimentale ma lucido, religioso ma scientifico, vecchio-nuovo, come diceva Hertzl, pieno di memorie pesanti. Cui si è aggiunto il 7 ottobre.

(L'informale, 13 novembre 2023)

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La Biennale di Gerusalemme

di Antonietta Pasanisi

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Continua a battere il cuore d’arte della Biennale di Gerusalemme a Casale Monferrato in Italia e in altre parti del mondo come New York e Buenos Aires.
La manifestazione, giunta alla 6a; edizione, avrebbe dovuto iniziare il 9 novembre in Israele con 35 mostre e con 220 artisti in 22 sedi. A causa del conflitto Israele-Hamas è stata rinviata alla primavera 2024. Come gesto di solidarietà e sostegno a Israele, molti artisti e curatori hanno deciso di allestire lo stesso alcune delle mostre della Biennale in programma a livello internazionale nelle proprie città di origine.
   “La Biennale di Gerusalemme è diventata come un impulso che batte costantemente ogni due anni – ha dichiarato Rami Ozeri, fondatore e direttore creativo della Biennale di Gerusalemme – dal 2013, senza eccezioni e nonostante le numerose sfide”.
   “Adesso – ha proseguito – è come se il cuore avesse perso un battito. Ma anche adesso, dopo il dolore indicibile del 7 ottobre, abbiamo assistito a un’enorme manifestazione di solidarietà da tutto il mondo. In poche settimane, i nostri amici e partner sono riusciti a allestire nelle loro città le mostre che erano state create per la Biennale di Gerusalemme. E nei prossimi mesi è prevista l’apertura di altre in tutto il mondo. Continueremo a coltivare i legami di arte e cultura tra Gerusalemme e il mondo oggi più che mai. Questo cuore continuerà a battere sempre”.
   La Biennale di Gerusalemme è dedicata all’esplorazione degli spazi in cui si intersecano l’arte contemporanea e le tematiche del mondo ebraico. La sua missione è stata quella di permettere a molteplici forze creative di manifestarsi nell’ambito dell’arte ebraica contemporanea. Un’importante vetrina per molti artisti e curatori professionisti che direttamente e indirettamente hanno attivato una nuova discorsività sull’Ebraismo attraverso il pensiero e lo spirito.
   Il tema centrale di questa edizione 2023 è Iron Flock, traduzione letterale della frase ebraica Tzon Barzel. Un viaggio tra i fondamenti della cultura contemporanea. Sguardi di artisti provenienti dall’intero pianeta che attraverso le loro opere hanno rappresentato movimenti, idee, persone che il tempo ha reso beni culturali invendibili.

(Valigiamo, 14 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 38. Il nuovo antisemitismo

di Ugo Volli

Le due guerre
  Ci sono due guerre in corso in questo momento fra Israele e Hamas. Una è quella sul terreno, che a sua volta ha vari aspetti: la guerra sul terreno e quella aerea, il conflitto al nord e le operazioni antiterrorismo che si svolgono soprattutto in Giudea e Samaria per prevenire l’apertura di un fronte di attentati, l’aggressione di missili e droni dallo Yemen, che data la distanza e i mezzi degli islamisti yemeniti è ininfluente sul piano militare, ma se non è attentamente monitorata e contrastata dalle tecnologie antimissile israeliane (e anche dall’azione di Usa, Arabia Saudita ed Egitto che abbattono i proiettili sul loro territorio e sul Mar Rosso), potrebbe colpire i civili israeliani. Questa guerra sta procedendo in maniera assai migliore di quel che ci si potesse aspettare. Gli attacchi da nord si intensificano ma finora restano più segnali politici da parte di Hezbollah e della Siria che tentativi di aprire davvero il secondo fronte.

Il fronte di terra
  La maggior parte del territorio di Gaza è ormai sotto controllo israeliano, i militari caduti nell’operazione sono alcune decine - perdite dolorosissime ma limitate rispetto all’aspettativa. Anche i civili palestinesi, che Israele cerca per quanto è possibile di non colpire, sono stati coinvolti nelle operazioni assai meno di quel che poteva accadere in una guerra condotta con bombardamenti e combattimenti fra le case. Dei morti di Gaza, che il ministero della sanità di Hamas, dunque una fonte interessata, stima intorno ai 12 mila, probabilmente i due terzi sono terroristi inquadrati nelle unità di Hamas. Gli altri sono rimasti intrappolati nei combattimenti perché non hanno voluto seguire le indicazioni di fuga diffuse dall’esercito israeliano, o perché Hamas glielo ha impedito, per usarli come scudi umani. Altri sono vittime collaterali dell’eliminazione mirata dei capi terroristi, che si trovavano accanto a loro.

Le perquisizioni della grande caserma
  Le forze armate israeliane ora stanno svolgendo il compito molto lungo e difficile di andare di casa in casa nelle zone conquistate alla ricerca di terroristi, depositi d’armi, ingressi di tunnel. Per ora il combattimento sotterraneo è raro: si preferisce far saltare le imboccature dei pozzi che portano alle gallerie, o magari tutto il tratto che è possibile raggiungere dalla superficie, per sigillarle. I tunnel distrutti in questa maniera sono finora un paio di centinaia. Sono per il momento istallazioni periferiche, progettate come strumenti d’attacco contro i soldati. Sarà più difficile fare altrettanto con le grandi basi sotterranee, dove è certo ci siano i comandanti del terrore e soprattutto i rapiti del 7 ottobre. In questa capillare perquisizione che è iniziata dal lato settentrionale della Striscia sono emerse molte armi, apparecchi di trasmissione, materiali militari, esplosivi, piani di battaglia, ma anche un’edizione del “Mein Kampf” di Hitler fittamente sottolineata e annotata, che il presidente israeliano Yitzhak Herzog ha mostrato alla stampa internazionale. Insomma, si conferma che tutta la striscia di Gaza, per i suoi 40 chilometri di lunghezza è stata trasformata da Hamas in una caserma e in una roccaforte terrorista.

La guerra della politica
  L’altra guerra si svolge dentro l’opinione pubblica e ha per teatro soprattutto le piazze occidentali. È chiaro che i terroristi stanno perdendo e continueranno a perdere la guerra sul terreno, se essa continuerà. La sola loro speranza è che la campagna israeliana sia interrotta per ragioni politiche, come furono interrotte prima della conclusione le sei campagne precedenti (2006, 2008, 2009, 2012, 2014, 2021) provocate dai bombardamenti missilistici che venivano da Gaza. Se così accadesse anche questa volta, se Israele dovesse ritirarsi senza aver sradicato Hamas, i terroristi avrebbero in sostanza vinto e si potrebbero preparare alla prossima campagna. Il loro terreno di scontro è dunque l’opinione pubblica occidentale. I paesi dell’area, al di là delle parole, si dividono fra alleati e nemici dell’Iran e della fratellanza Islamica di cui i terroristi di Gaza sono espressione. Ai loro nemici, come Egitto, Arabia, paesi del Golfo, non dispiace che i terroristi siano sconfitti. L’appoggio di Russia e Cina è un cinico tentativo di mettere in difficoltà l’Occidente, con altre mire (Ucraina, Taiwan).

Il nuovo antisemitismo nelle piazze occidentali
  Dove l’opinione pubblica si divide è dunque l’Europa e gli Usa. Qui sono favorevoli ad Hamas buona parte degli immigrati islamici, che in certi paesi sono tantissimi, e la sinistra ideologizzata, che vede Israele come un paese “bianco” e capitalista, espressione di quella democrazia occidentale che essi detestano. Ma soprattutto in questa sinistra e nell’estrema destra extraparlamentare che li fiancheggia, riemergono le vecchie pulsioni antisemite, l’odio per gli ebrei in quanto tali. Accade così che anche in sede europea i governi più di sinistra (come la Spagna, il Belgio o l’Irlanda) siano i più nemici di Israele, che ci sia per esempio un parlamentare dell’estrema sinistra francese David Guirad di “La France Insoumise” (“La Francia ribelle”) che ha il funebre coraggio di andare in giro a dire che l’uccisione dei bambini ebrei e lo sventramento delle donne ebree del 7 ottobre sarebbe opera dell’esercito israeliano. Gira un appello nelle università italiane, firmato dai docenti di estrema sinistra, in cui sotto un sottile velo di equidistanza si attribuisce al “colonialismo” israeliano la responsabilità di quel che è accaduto: un colonialismo che risalirebbe a “75 anni” fa, cioè alla fondazione dello Stato di Israele, che quindi meriterebbe di essere distrutto con le buone o con le cattive, come cerca di fare Hamas. Dappertutto non solo gli immigrati islamizzati, ma anche studenti ideologizzati fanno manifestazioni massicce e strappano perfino i manifestini in cui vengono ricordati nome e facce dei morti e rapiti del 7 ottobre: il contrario esatto della memoria che viene esaltata il 27 gennaio. Lo scopo di questa guerra delle piazze e dei manifesti è far pressione sui governi occidentali perché costringano Israele a interrompere l’operazione e a lasciare in piedi Hamas, con tutte le nuove stragi di ebrei che questa sopravvivenza del terrorismo implica per il futuro. Ma quando si obietta che queste posizioni sono antisemite, la risposta sdegnata è che “i genocidi” ora sono gli israeliani e che altra cosa è opporsi al governo israeliano e altra onorare i morti provocati dal nazismo. Insomma, a questo nuovo antisemitismo gli ebrei piacciono solo da morti.

(Shalom, 13 novembre 2023)

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Quando si urlano slogan contro gli ebrei, la civiltà è in pericolo

Scene identiche in città europee come Parigi, Copenaghen, Roma e Stoccolma, così come nelle città e nei campus del Nord America. Articolo del Jerusalem Post 

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Sono scene che stanno diventando familiari quanto le immagini della guerra stessa. In tutto il mondo, centinaia di migliaia di manifestanti pro-palestinesi sfilano nelle strade delle principali città gridando slogan che, nella migliore delle ipotesi, chiedono un immediato cessate il fuoco senza condizioni da parte di Israele, e molto spesso aggiungono il mantra palestinese "Palestina libera dal fiume al mare", più un assortimento di slogan antisemiti.
   Membri della sinistra liberal spesso si uniscono a queste manifestazioni, sventolando bandiere palestinesi e avvolgendosi nella kefiah. Pensano di essere i custodi dei valori democratici e umani, ma in realtà sono gli utili idioti di oggi. Queste manifestazioni di massa non chiedono mai a Hamas di smettere di lanciare razzi contro gli israeliani e non reclamano il rilascio immediato degli ostaggi rapiti da Hamas e deportati a Gaza: due cose che Hamas potrebbe e dovrebbe fare immediatamente per ottenere un cessate il fuoco.
   Ciò che fanno è invocare la distruzione dello stato ebraico, dello stato d’Israele. Non urlano contro l’inesistente genocidio di Gaza: urlano a favore del genocidio degli ebrei d’Israele. Queste manifestazioni di massa ricordano quelle che si videro nel 2014, quando Israele combatteva l’aggressione di Hamas da Gaza. Fu allora che per la prima volta da parte israeliana venne fatto il paragone tra Hamas e Isis. Ma il mondo non riuscì a vedere il nesso. Nel 2023 non ci sono più scuse. La barbarie assoluta dell’invasione di Hamas nel sud di Israele del 7 ottobre ha dimostrato che l’organizzazione terroristica islamista con sede a Gaza ha imparato dalle atrocità dell’Isis, e le ha portate a un livello ancora peggiore. Intere famiglie sono state legate e date alle fiamme, persone sono state decapitate, donne violentate e ci sono i segni e i video di orrende torture e mutilazioni.
   La libertà di espressione e la libertà di manifestare sono valori che ci stanno a cuore, valori che non esistono sotto Hamas e che ora vengono sfruttati. In nome della libertà di parola, sarebbe stata consentita in quelle stesse strade una protesta di migliaia di persone a sostegno dell’Isis? La situazione è chiaramente fuori controllo. In nome della libertà di espressione di coloro che sostengono un regime islamista totalitario e sanguinario, agli ebrei viene negata non solo la libertà di movimento, ma un basilare diritto al senso di sicurezza. A una recente manifestazione pro-palestinese a Londra hanno partecipato 100.000 persone, molte delle quali hanno scandito analoghe oscenità e minacce antisemite. Scene identiche si sono viste in altre città europee come Parigi, Copenaghen, Roma e Stoccolma, così come nelle città e nei campus del Nord America. Siamo nell’anno 2023 e in tutto il mondo gli ebrei si chiedono se sono al sicuro. E questo è il segnale d’allarme che tutti i governi occidentali dovrebbero comprendere e affrontare. L’Occidente, è stato sottolineato, si trova ad affrontare ‘una crisi di civiltà.  

Il Foglio, 13 novembre 2023)

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La Francia s’è desta: ondata di manifestazioni contro l’antisemitismo

di Anna Balestrieri

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Le piazze francesi si sono popolate di manifestanti domenica 12 ottobre. Da Marsiglia a Tours, da Strasburgo a Nantes più di 182,000 persone hanno voluto manifestare in piazza la propria solidarietà con il popolo ebraico: 105,000 solo a Parigi. Una “marcia transpartigiana” secondo Le Figaro, che ha voluto sottolineare la presenza nelle piazze di giovani musulmani “indignati per ciò che succede agli ebrei”.
Nel mese successivo all’attacco terroristico del 7 ottobre, il mondo ebraico ha dovuto fare i conti con un aggressivo movimento pro-palestinese ed antiebraico nelle piazze europee ed americane. Al grido dello slogan “dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo), la Palestina sarà libera”, le manifestazioni in supporto della popolazione civile a Gaza si sono trasformate in spazi in cui è negato ad Israele di esistere. Nell’omertoso silenzio di istituzioni governative ed accademiche, in particolare a sinistra. La Francia è stata tra i paesi più colpiti dalla recrudescenza di antisemitismo dell’ultimo mese
   La marcia contro l’antisemitismo ha avuto enorme impatto mediatico in Francia, dove le maggiori testate giornalistiche hanno seguito le manifestazioni con dei live. Tra le fila dei manifestanti, gli ex presidenti Hollande e Sarkozy.
   Non sono mancate le polemiche per la presenza nelle piazze del RN, il Rassemblement National guidato da Marine Le Pen, erede imbellettato di un Front National a storica connotazione razzista ed antisemita. Il collettivo ebraico contro l’antisemitismo Golem ha cercato di opporsi alla partecipazione del RN, accusando Le Pen di strumentalizzare la manifestazione. Fatta eccezione per la protesta di Golem, non si sono registrati altri incidenti.

(Bet Magazine Mosaico, 13 novembre 2023)

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Chi sono i palestinesi?

Golda Meir, ex Primo Ministro di Israele, si divertiva con i suoi visitatori a mostrare la sua carta di identità palestinese, datale dal Mandato Britannico, e a chiedere ad Arafat di fare altrettanto...
  La Palestina è comparsa nella storia moderna nel 1919 con la creazione da parte della Lega delle Nazioni (il precursore delle Nazioni Unite) del Mandato Britannico sulla Palestina al fine di trasformarla in "un focolare nazionale per il popolo ebraico". Prima era un territorio diviso in tre province o Vilayet dell'Impero Ottomano. La sua popolazione era composta da arabi musulmani, arabi cristiani, beduini, drusi, circassi, armeni greco ortodossi, e ebrei.
  Per decisione degli inglesi il nome del territorio da loro amministrato era Palestina, poiché il termine Giudea, suo nome storico, aveva connotazioni troppo ebraiche e d'altra parte non c'era a disposizione nessun nome arabo per indicare quel luogo.
  Per gli arabi la terra che divenne nota come Palestina faceva parte della Siria, e comprendeva il Libano e Giordania di oggi. Così, fino al 1917 niente distingueva la Palestina dalla Siria: né bandiera, né nomi, né lingua, né etnia, né altro. Fino al 1948 gli arabi rifiutavano il nome Palestina, perché per loro simboleggiava il Mandato Britannico, e quindi il "focolare nazionale ebraico". Sfido chiunque a trovarmi un solo gruppo politico arabo che abbia nella sua denominazione la parola "Palestina" prima del 1948.
  E' soltanto dopo il 1948, quando Ben Gurion scelse per lo Stato ebraico il nome "Israele" (non scelse il nome "Giudea" perché Ben Gurion era profondamente laico e socialista, e non mantenne il nome "Palestina" perché non è un termine ebraico ed è il nome di una provincia romana), che gli arabi di Palestina si impossessarono di questo nome che era stato lasciato libero. I palestinesi sono arabi di Palestina che appartengono alla nazione araba e sognano una Palestina araba che sia l'avanguardia di una totalità che riunisca l'intera nazione araba.
  Il termine Palestina non è una parola araba, non appartiene agli arabi e non è un brevetto arabo. Gli arabi di Palestina non hanno alcun diritto di pretendere di essere i soli palestinesi e di accaparrarsi questa parola e questa denominazione.
  Arafat, che era un arabo nato in Egitto, si sentiva solidale con la causa degli arabi palestinesi pur non essendo nato in Palestina... Questo non è mai stato un problema per gli arabi di Palestina: non fanno infatti tutti parte dello stesso popolo arabo che si estende dall'Oceano Indiano all'Atlantico?

(da una lettera scritta a "Le Monde" - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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I palestinesi vittime sacrificali dell’islam

Lo scontro con gli israeliani non è motivato dalla politica, ma dalla religione. E per l'Iran, arcinemico di Gerusalemme, potrà risolversi solo con lo sterminio degli ebrei. Il popolo di Gaza diventa così una pedina che serve a raggiungere lo scopo. 

di Silvana De Mari

Nel 2011 l'ajatollah Khatami, che se non ricordo male è quello moderato, ha detto che quando l'islam avrà la bomba atomica il problema palestinese sarà risolto: l'eufemismo vuol dire che gli israeliani saranno sterminati in un olocausto nucleare. Aggiunge Khatami: è questo che vuol dire essere una cultura di morte, gli israeliani risponderanno con le loro testate nucleari e ci faranno qualche milione di morti: siamo un miliardo e duecento milioni di persone, ce lo possiamo permettere. Khatami parla di un miliardo e duecento milioni di persone: il noi non indica gli iraniani, indica tutto l'islam che è compatto contro Israele e che è disposto a morire e a far morire i propri bambini pur di distruggerlo. 
   Questa è la differenza; quando ci fu la crisi di Cuba, l'ambasciatore sovietico e lo stesso Krusciov dissero: non siamo pazzi, non vogliamo morire. Al contrario, «perché non dovremmo voler morire?», chiede Khatami: chi muore per uccidere i nemici dell'islam va in paradiso. Le sue affermazioni non sono isolate esternazioni. Sono le affermazioni del capo spirituale dell'Iran, confermate l'anno successivo dal capo politico Mahmoud Ahmadinejad che espresse il desiderio di far «svanire dalle pagine del tempo il regime che occupa Gerusalemme». In un discorso del maggio 2012 tenuto ad un raduno della Difesa a Teheran, il capo di Stato maggiore delle forze armate dell'Iran ha dichiarato: «La nazione iraniana è nella posizione permanente della sua causa e questa è il completo annientamento di Israele». Il generale di brigata Gholam Reza Jalali, a capo dell'Organizzazione di difesa passiva dell'Iran, ha affermato nel 2013 che Israele deve essere distrutto. Il generale Mohammad Ali Jafari, il comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, disse che alla fine sarebbe scoppiata una guerra con Israele, durante la quale l'Iran avrebbe sradicato quello che definiva un «tumore canceroso». Il 2 ottobre del 2012 Hojjath al-Eslam Ali Shirazi, il rappresentante della Guida suprema dell'Iran l'Ayatollah Ali Khamenei, ha affermato che l'Iran ha richiesto solo «24 ore e una scusa» per sradicare Israele. 
   L'Iran e Israele non hanno nemmeno una frontiera in comune, le due nazioni erano cordialmente amiche fino a quando è stato al potere lo Scià Reza Pahlavi. Le dichiarazioni ripetute di olocausto nucleare dell'Iran sono sempre state considerate assolutamente lecite e non hanno scandalizzato nessuno. Benny Morris scriveva qualche anno fa: «Il secondo Olocausto sarà diverso. Un bel giorno, magari nel pieno di una crisi regionale, o quando meno ce lo aspetteremo, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto di Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet. I missili Shihab-g e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme. Qualche missile sarà dotato di testata nucleare. Per un Paese delle dimensioni e la conformazione di Israele, quattro o cinque lanci saranno sufficienti. E addio Israele. Nessun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale». Aggiungo che l'olocausto nucleare prospettato per Israele includerà anche i palestinesi che l'islam considera carne da macello, e Gerusalemme, che l'islam è serenamente disposto a distruggere. L'Iran ha serenamente minacciato la morte di g milioni di persone, 7 milioni di ebrei e due milioni di arabi, senza che nessun attivista o intellettuale lo trovasse sconveniente. 
   Israele e Iran non confinano. L'Iran non ha mai avuto nessun torto da Israele. Ha anche avuto qualche aiuto, all' epoca della guerra con l'Iraq, le fogne di Teheran sono state fatte dagli israeliani. C'è tuttora un notevole commercio grazie alla triangolazione di Paesi terzi tra Iran e Israele: l'Iran vende pistacchi e marmo e ottiene fertilizzanti e semi. L'Iran interviene per motivi religiosi. Che il popolo ebraico sia riuscito a riscattare la sua primitiva patria dall’occupazione islamica è un insulto all'islam. L'islam domina e non può essere dominato. Nel mondo ci sono state negli ultimi 75 anni miriadi di guerre e milioni di profughi. Alla fine le guerre finiscono e i profughi trovano una sistemazione nel mondo, spesso con dolore e sofferenza, almeno per la prima generazione, ma la trovano. I loro figli non sono più profughi. Fa eccezione il popolo cosiddetto palestinese. Il fatto di essere gli unici profughi che ricevono un tributo, gli unici che hanno un'agenzia dell'Onu espressamente a loro dedicata, ha fatto sì che la situazione di profugo diventasse per loro uno status pagato ed ereditario, che ora è arrivato alla terza generazione. Il fiume di denaro che i palestinesi ricevono ha permesso di selezionare una classe politica particolarmente corrotta e feroce che vede nella pace la fine del proprio potere e ha tutto l'interesse a non raggiungerla mai. Il popolo palestinese diventa la vittima sacrificale dell'islam, disposto a finanziarlo e a farne la sua bandiera, ma solo se resta in guerra. 
   Quindi piantiamola di parlare del problema Israele/palestinesi. Il problema e Israele/islam. La questione è irrisolvibile perché è una questione religiosa. Non può essere risolta dalla vecchia fallimentare teoria dello Stato palestinese. Può essere risolta solo con la distruzione di Israele. La notizia è che Israele il «problema palestinese» è già in grado di risolverlo, per usare l'eufemismo di Khatami, visto che ha un'aviazione militare e che i palestinesi non hanno una contraerea. Israele ha anche l'atomica? Fino ad oggi lo sapevano anche i sassi, ma non era ufficiale. Ha ufficializzato l'informazione Il ministro israeliano Amihai Eliyahu, affermando che l'uso dell'atomica su Gaza è un'opzione. Il governo ha sconfessato il ministro, ha affermato che l'opzione nucleare è qualcosa che non rientra tra le opzioni prese in considerazione dalle forze armate israeliane, e il ministro è stato invitato a dimettersi. Le sue parole hanno destato scandalo. Eppure quando le stesse cose le minacciano i capi religiosi, politici e militari dell'Iran, nessuno si scandalizza. Le parole di Amihai Eliyahu hanno avuto l'effetto di circoscrivere il conflitto. Né Hezbollah né la Cisgiordania interverranno. Il veri destinatari del messaggio però sono gli iraniani. Il popolo iraniano che è già da mesi in una situazione di rivolta, non ha nessuna intenzione di essere coinvolto in un conflitto che potrebbe essere mondiale e nucleare. Dopo le parole di Amihai Eliyahu l'astio degli iraniani per il loro governo è ulteriormente aumentato. 
   La situazione al momento non ha soluzione. È a dir poco velleitaria l'idea di uno Stato palestinese affidato alla corrotta Autorità palestinese che non ha né la volontà, né la capacità di fermare il terrorismo e il lancio di missili. L'odio ha raggiunto vertici mai raggiunti prima. Il crollo del turismo di Israele e della Cisgiordania è irreversibile. L'economia israeliana è in ginocchio, quella della Cisgiordania anche. L'aumento della disoccupazione palestinese, e di conseguenza la dipendenza delle persone dall'unica fonte di ricchezza, i finanziamenti all'Autorità palestinese, peggioreranno tutto il tessuto sociale. E interessante come nessuno noti che i palestinesi non  hanno mai fatto nulla per ottenere la pace. Non hanno mai usato cultura, arte, diplomazia per creare un fronte di vero pacifismo e affermare i propri diritti. Il loro essere vittima è fondamentale, come ha spiegato lo stesso capo di Hamas. Il sangue delle donne e dei bambini palestinesi deve essere sempre di più perché è il motore della macchina che prima distruggerà Israele e poi attaccherà militarmente l'Occidente. Abbiamo nelle nostre strade un esercito islamico pronto a mobilitarsi: lo abbiamo visto in questi giorni urlare morte a Israele. Fino a quando Israele resiste, l'attacco all'Occidente non può essere attuato. Il conflitto è in questo momento delimitato e il disastro rimandato. Paradossalmente le parole di Amihai Eliyahu sono state l'unica azione che ha limitato la guerra.  

(La Verità, 13 novembre 2023)

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Il paradosso dell’Europa che (con gli USA) ha fornito a Kiev le armi ora utilizzate da HAMAS

E deve mandarne altre per ordine di Zelensky

Le forze armate israeliane durante le operazioni militari nella striscia di Gaza hanno rinvenuto numerose armi di fabbricazione europea e statunitense che probabilmente fanno parte delle forniture occidentali inviate a Kiev, scrive il sito algerino Menadefense.net. Secondo quanto affermato dal sito algerino i militari israeliani avrebbero rinvenuto numerose armi di fabbricazione occidentale tra le quali 4, lanciarazzi NLAW presumibilmente originari dell’Ucraina. Le armi sarebbero arrivate nelle mani di Hamas ed Hezbollah dal 2022 attraverso una linea di approvvigionamento clandestina dall’Ucraina al Libano, all’Iraq e presumibilmente alla Siria. Le armi sarebbero uscite dai magazzini militari ucraini situati nelle regioni di Leopoli, Odessa, Mykolaiv, Khmelnytskyi e Chernihiv.
   Questa linea di approvvigionamento è operativa dal 2022. Nell’ultimo anno grazie a questa linea di rifornimento HAMAS ha ottenuto un numero non identificato di mitragliatrici MG3, lanciagranate M72 LAW, almeno 50 unità di Javelin FGM-148 ATGM, diverse dozzine di MILAN ATGM, 20 unità di Stinger FIM-92 MANPADS, 20 unità di obici trainati L118, 30 unità di droni Switchblade, circa 100 di Phoenix Ghost Drones e circa 50 droni da ricognizione Black Hornet Nano. Tutte le transazioni sono passate attraverso diversi terminali DarkNet non divulgati. Fonti locali ritengono che la linea di fornitura illegale di armi operi sotto la gestione di due vice ministri del MOD dell’Ucraina tra cui spicca il – neo nominato Yuriy Dzhygyr (ex vice ministro delle finanze) e Dmytro Klimenkov (ex vice capo del Fondo statale per la proprietà dell’Ucraina) per il coordinamento degli affari finanziari e degli appalti. La linea di approvvigionamento sarebbe organizzata con l’assistenza di società di comodo gestite dall’ex capo della regione di Odessa Maksym Marchenko e supervisionata dagli operatori della Direzione dell’intelligence militare ucraina sotto il comando di Kyrylo Budanov.
   Da tempo viene denunciato il fiorente mercato nero di armi provenienti dall’Ucraina in vendita nel dark web, di cui ho parlato in varie occasioni. Negli articoli che documentavano questo fiorente commercio avevo sottolineato che prima o poi tutte queste armi sarebbero state usate da qualcuno: ecco chi era uno dei clienti di questo traffico. Era ovvio che Hamas non potesse produrre da solo tutte le armi che sono usate nel conflitto. La rivelazione del sito algerino conferma anche una sensazione che avevo avuto. Pensavo da varie settimane dove Hamas avesse reperito le armi che sta usando e molto semplicemente avevo concluso che arrivassero dall’Ucraina. Ipotesi la mia però non suffragata da nessuna fonte. Ecco quindi la spiegazione: in Occidente non si poteva ammettere che le armi con cui Hamas ed Hezbollah stanno combattendo fossero di provenienza ucraina altrimenti la figuraccia sarebbe stata colossale.
   Una domanda: perché nessuno parla delle armi usate da Hamas ed Hezbollah? Semplicemente perché arrivavano dall’Ucraina attraverso i canali del mercato nero, più volte denunciato. Insomma grazie alle armi consegnate a Zelensky e soci oggi Hamas ed Hezbollah combattono contro Israele. Tutto combacia alla perfezione.
   Non solo: Bloomberg riferisce che l’Unione Europea non sarà in grado di fornire nei tempi stabiliti un milione di munizioni per l’artiglieria a Kiev dato che a metà del termine stabilito da Bruxelles sono arrivate a Kiev solamente il 30 per cento di quanto promesso.
   L’agenzia, citando persone informate sui fatti, ha riferito che Bruxelles non sarà in grado di fornire a Kiev il milione di munizioni per l’artiglieria promesse, infatti attualmente sono state consegnate solamente il 30 per cento delle munizioni stimate. L’Unione Europea aveva promesso che la fornitura di tutte le munizioni richieste sarebbe avvenuta entro la fine di marzo 2024.
   Le fonti hanno indicato che il Servizio europeo di azione esterna, il braccio della politica estera dell’UE, ha riferito questa settimana ai diplomatici dell’UE che il blocco probabilmente non avrebbe raggiunto l’obiettivo di consegnare il numero specificato di proiettili prima di marzo 2024. “La fornitura di munizioni all’Ucraina diventa ancora più urgente dato che la Russia è stata in grado di aumentare la propria produzione”, scrive Bloomberg.
   Recentemente, il ministro delle industrie strategiche dell’Ucraina, Alexander Kamyshin, ha detto che “la capacità di produzione di armi del mondo non è sufficiente” per sconfiggere la Russia.
   A Kiev però questo ritardo non va giù, infatti il capo dell’ufficio presidenziale dell’Ucraina, Andrei Yermak, ha avuto una conversazione telefonica con il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, a cui ha chiesto di accelerare le forniture di armi e munizioni a Kiev, riferisce sabato il sito web della presidenza ucraina. Allo stesso modo, Yermak ha informato Sullivan della situazione attuale sul fronte delle operazioni, e ha affrontato con lui le possibilità di attuare la cosiddetta “formula di pace” del presidente ucraino Vladimir Zelenski.

(Faro di Roma, 12 novembre 2023)
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Armi che arrivano all'Ucraina per la difesa della "libertà" del mondo occidentale e arrivano nelle mani di Hamas per la distruzione di Israele da parte dell'Islam. Dal che si vede il vantaggio che ha tratto Israele dalla causa provocata ad arte della "libertà in Ucraina". La causa israeliana è ben distinta dalla causa americana. Le cose si stanno vedendo sempre meglio. M.C.

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Il mistero esclusivo di Cristo

La posizione speciale dell'apostolo Paolo

di Norbert Lieth

In Efesini 3:1-12, l'apostolo Paolo scrive:

    «Per questo motivo io, Paolo, il prigioniero di Cristo Gesù per voi stranieri... Senza dubbio avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi; come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto in poche parole. Leggendo, potrete capire la conoscenza che io ho del mistero di Cristo. Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui; vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo, di cui io sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù della sua potenza. A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose; affinché i principati e le potenze nei luoghi celesti conoscano oggi, per mezzo della chiesa, la infinitamente varia sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che egli ha attuato mediante il nostro Signore, Cristo Gesù; nel quale abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui.»

La gestione implica il compito di gestire, pianificare, organizzare e dirigere una famiglia. L'amministrazione o il governo della casa a cui Paolo fa riferimento riguarda la Chiesa. In questo passaggio emerge chiaramente l'importante compito dell'apostolo. Svela diverse informazioni sul mistero che egli affronta e al quale fa anche riferimento: «il mistero di Cristo!»

- 1 . Il mistero del corpo di Cristo è stato svelato esclusivamente all'apostolo Paolo. Tre volte nel testo sopra citato Paolo parla di un «mistero» (vv. 3.4.9), e dice: «avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi» (v. 2).
Se non comprendiamo questa speciale rivelazione dell'apostolo Paolo sulla Chiesa, non potremo comprendere l'intero insegnamento del Nuovo Testamento su questo argomento e non capiremo i Vangeli. Infatti, se si ritiene che l'insegnamento di Paolo sulla Chiesa fosse già stato rivelato nei Vangeli, ciò implica che non era più un segreto nelle sue lettere e che le affermazioni dell'apostolo non sono affatto corrette. Inoltre, se si identifica la 'Chiesa come il corpo di Cristo ovunque nei Vangeli, anche se questo non è stato ancora menzionato, inevitabilmente si confondono molte cose, come ad esempio Israele, i discepoli, la chiesa giudaica, e si cade involontariamente preda della sostituzione teologica.

- 2. Già nel paragrafo precedente Paolo scrive riguardo al mistero della Chiesa: «mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto» (v. 3). Si tratta dell'unico corpo come nuovo corpo in un solo spirito, composto da ebrei e gentili.

- 3. Questo mistero non è stato rivelato alle altre generazioni e ai figli degli uomini prima della Pentecoste. Esso era nascosto in Dio, nascosto per tutti i secoli (vv. 5,9; cfr. Colossesi 1:26). Non se ne è mai parlato, mai è stato menzionato. Quindi, anche Gesù non ha mai parlato di questo mistero, neanche in Matteo 16:18. Al contrario, ha sempre distinto gli ebrei dai gentili. (Matteo 10,5-15; 15,24-26). In Matteo 16:18, il Signore Gesù parlò di una futura chiesa, anche se giudaica, come appare anche in Atti 1-10. Ha parlato anche dell'importanza di essere in Lui e che Lui è nei suoi (Giovanni 14,20; 15,1ss). All'inizio si riferiva solo ai suoi discepoli e ha anche chiarito, e ne parla già l'Antico Testamento (Isaia 65,1; Romani 10,20), che le persone delle altre nazioni possono essere salvate (Giovanni 12:20 ss.). Ma della rivelazione che il Signore diede poi a Paolo, Cristo non parlò nei vangeli. Questo era chiaramente un segreto nascosto in Dio fin dalle più remote età (Efesini 3:9). Nel passo parallelo dei Colossesi si legge: «il mistero che è stato nascosto per tutti i secoli e per tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi» (Colossesi 1,26).

- 4. Questo mistero è stato rivelato solo «ora», «per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti» ( Efesini 3,5). Ciò significa in questo momento per lo Spirito e non nei Vangeli!
   Il Signore lo rivelò per primo dal cielo tramite Paolo. In merito a questa verità, ci sono tre eventi evidenti nella storia biblica:

  1. Pietro fu il primo a riconoscere che Dio non fa più differenza tra ebrei e gentili (Atti 10). Dio glielo rivelò attraverso la visione del drappo con gli animali puri e impuri che scendevano dal cielo (Atti 10,11-16.44-48; 15,8-9).
  2. Come risultato della conversione di Cornelio, gli apostoli e i fratelli che erano in Giudea furono i successivi a constatare questa verità (Atti 11:1,18; Atti 15:9).
  3. Paolo ricevette una visione più profonda rispetto a quella che avevano ricevuto gli altri apostoli, ma che il Signore gli aveva dato separatamente: il mistero dell'unico corpo spirituale. Solo lui ha ricevuto questa rivelazione. Non si tratta del compimento delle promesse dell'Antico Testamento per il popolo ebraico, ma di qualcosa di completamente nuovo, ossia che attraverso Cristo Gesù «in un solo Spirito abbiamo accesso al Padre» (Efesini 2,18).

- 5. Si tratta del mistero in cui i Gentili sono incorporati nella parte ebraica credente e non vi è più alcuna differenza: «vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo» (vv. 3,6).
Una corporazione in cui tutti hanno uguale importanza, in cui Israele non ha più alcuna prerogativa né alcuna esclusività al di sopra delle nazioni.
Nel Vangelo secondo Matteo 15,24 leggiamo: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele».

- 6. L'apostolo Paolo è amministratore di questo mistero e ministro degli incorporati: «del quale io sono stato fatto ministro» (Efesini 3,7), «senza dubbio avete udito di quale grazia Iddio m'abbia fatto dispensatore per voi» (v. 2), «di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero» (v. 9).

- 7. Mediante la rivelazione di questo mistero la multiforme sapienza di Dio è resa nota e dichiarata ai principati e alle autorità nei luoghi celesti, «secondo il disegno eterno che egli ha attuato mediante il nostro Signore, Cristo Gesù» (Efesini 3,11). Possiamo gioire ed essere grati di far parte di questo mistero. Tuttavia, dovremmo tenere presenti queste verità anche durante i nostri studi biblici, in modo da restare sulla retta via e non smarrirci.

(Chiamata di Mezzanotte, set/ott 2023)


 

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Cancellato il 7 ottobre in tv

Il giornalismo “indipendente” che demonizza Israele e il suo diritto all’autodifesa fa il gioco di Hamas

di Claudio Cerasa

Giornalisti complici: ma in che senso? L’organizzazione non governativa israeliana HonestReporting, due giorni fa, ha diffuso una notizia che ha suscitato una certa curiosità nelle redazioni di tutto il mondo. Secondo HonestReporting, il 7 ottobre i terroristi di Hamas non sono stati gli unici a documentare, con le loro telecamere, i crimini di guerra commessi nel sud di Israele, in quanto alcune di quelle atrocità sono state documentate da alcuni fotoreporter con base a Gaza, la cui presenza mattutina nell’area di confine violata, scrive la ong, “solleva serie questioni etiche” e spinge a porsi una serie di domande.
   Per esempio. I fotoreporter convocati sul campo che informazioni avevano avuto? I fotoreporter si sono mossi coordinandosi con Hamas? È verosimile pensare che i fotoreporter convocati la sera prima dello sterminio degli ebrei fossero convinti che l’operazione segnalata da documentare fosse una raccolta di margherite in un kibbutz di Israele? A giudicare dalle immagini del linciaggio, del rapimento e dell’assalto al kibbutz israeliano, scrive la ong, sembra che il 7 ottobre il confine sia stato violato non solo fisicamente, ma anche giornalisticamente.
   La vicenda dei fotoreporter andrà naturalmente approfondita, studiata e verificata. Ma nell’attesa di capire qualcosa di più su questa storia si può tentare di mettere a fuoco un tema speculare, che riguarda un’altra forma di giornalismo che senza aver neppure bisogno di lavorare embedded con i terroristi ha scelto di raccontare la guerra in medio oriente utilizzando un’inquadratura non troppo diversa da quella che utilizzerebbe Hamas per raccontare la sua “resistenza” contro Israele. In attesa di saperne di più dei fotoreporter convinti certamente di essere stati convocati da Hamas il 7 ottobre per documentare una manifestazione pacifica di fronte al kibbutz di Kfar Aza, è sufficiente collegarsi con una qualsiasi trasmissione tv, in Italia e fuori dall’Italia, per rendersi conto di un fenomeno crescente: il tentativo quotidiano, da parte dell’informazione libera, indipendente e a schiena dritta, di trasformare Israele nell’aggressore, non più nell’aggredito, cancellando progressivamente il 7 ottobre e facendo di ogni programma televisivo, tranne rare eccezioni, un processo a senso unico contro chi un mese fa ha subìto rastrellamenti simili a quelli che l’umanità ha visto durante la stagione della Germania nazista.
   Il giornalismo complice della propaganda di Hamas è quello che usa con cautela la parola “terroristi”. È quello che usa a sproposito la parola “proporzionalità”. È quello che usa le dichiarazioni di Hamas come fonti ufficiali. È quello che accusa Israele di genocidio, di pulizia etnica, dimenticando che differenza c’è fra una tragedia e un genocidio, dimenticando chi è che in questa guerra usa i civili come scudi umani, dimenticando di ricordare che le vittime sono tutte uguali ma la mano di chi spara no e dimenticando di ricordare che i vigliacchi di Hamas non hanno aggredito soldati nelle caserme ma hanno ucciso donne, bambini, neonati, sopravvissuti alla Shoah, bruciando vive intere famiglie, cavando gli occhi a padri, tagliando i seni a madri, mutilando volontariamente bambini di 6-8 anni prima di ucciderli.
   Giovedì pomeriggio, 750 giornalisti americani hanno firmato una lettera aperta per criticare la copertura della guerra da parte dei media occidentali, per invitare i colleghi a usare “termini precisi ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani”, come l’Onu, tra cui “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio”. Nelle stesse ore in cui l’appello veniva pubblicato, il Washington Post ha scelto di rimuovere una vignetta, disegnata da un premio Pulitzer, che raffigurava un leader di Hamas mentre usa civili come scudi umani, in quanto “troppo razzista”. Il cerchio si chiude. Il popolo aggredito diventa il popolo aggressore, il 7 ottobre è cancellato e l’unico giornalismo indipendente è quello che demonizza Israele e il suo diritto all’autodifesa. Da Hamas24news è tutto, a voi studio.

(Il Foglio, 11 novembre 2023)

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È bravo Hamas a disinformare o i nostri media sono in malafede?

di Franco Londei

In un articolo di qualche giorno fa chiedevo quanti fossero in realtà i morti nella Striscia di Gaza, chi ne tenesse conto e come facevano ad averne i numeri in pochi minuti.
   Naturalmente le mie erano domande provocatorie perché tutti sappiamo che quei dati vengono forniti da Hamas, cioè da quel gruppo terrorista responsabile del massacro del 7 ottobre, e dalla UNRWA, cioè da quella organizzazione ONU specifica per i palestinesi, amministrata dai palestinesi e che fino ad oggi ha avuto solo due compiti, portati pienamente a compimento, quello di moltiplicare il numero dei cosiddetti “profughi palestinesi” e quello di fomentare odio verso gli ebrei nelle sue scuole.
   Ebbene, tutto quello che trasmettono Hamas e la UNRWA, viene preso dai media occidentali come oro colato, come se dietro al fantomatico “Ministero della sanità di Gaza” ci fosse una equipe medica e non un gruppo di tagliagole, o come se dietro alla UNRWA ci fosse davvero una agenzia ONU imparziale.
   È deontologicamente serio? Direi di no. È deontologicamente serio sbattere ai quattro venti la notizia che Israele aveva sparato un missile su un ospedale a Gaza facendo un migliaio di morti, in maggioranza donne e bambini (perché è importante ripetere all’infinito questa equazione) quando poi si è scoperto che il missile era un razzo difettoso della Jihad Islamica caduto sul parcheggio di un ospedale per un totale di qualche decina di morti? Ditemi voi se lo è.
   Eppure nessuno in quei momenti ha avuto il minimo dubbio. Ha preso le parole di Hamas per oro colato. TV di tutto il globo hanno trasmesso per ore la stessa falsa notizia mentre in tutto il mondo i musulmani insorgevano contro il “mostro ebreo”. Nessuno di loro ha chiesto scusa, salvo il New York Times che però continua imperterrito a pubblicare le veline di Hamas.
   Sono bravi quelli di Hamas a disinformare o i giornalisti occidentali sono cialtroni o, peggio, sono in malafede? Impossibile che ci siano così tanti cialtroni, quindi sono propenso a credere che siano in malafede.
   La cosa è quindi gravissima, perché in qualche modo la cialtronaggine sarebbe scusabile, la disinformazione involontaria per scarsa conoscenza dell’argomento. Ma la disinformazione volontaria, il trasmettere una notizia sapendo che nel migliore delle ipotesi arriva da fonti dubbie e nella peggiore è falsa, beh quella si chiama malafede o, nel caso specifico, antisemitismo.
   Perché fanno ridere i vari Cip e Ciop dei talk show nostrani che si offendono se gli dai dell’antisemita quando fanno deliberatamente disinformazione o vanno in TV a chiedere una tregua a Israele sapendo che tutto ciò favorirebbe Hamas. O quelli che nemmeno menzionano le parole di Khaled Mesh’al che senza tanti giri di parole ha ordinato ai cittadini di Gaza, vecchi, donne e bambini, di fare da scudi umani. Ho scritto “ordinato” perché quello era un ordine, fatto puntualmente rispettare dai suoi tagliagole.
   Ma il mostro è Israele. Quelli di Hamas hanno spazzato via un intero asilo nido, decapitato bambini, aperto il ventre di una madre incinta, messo un bambino a cuocere in un forno a legna davanti a sua madre (testimonianza dopo aver visto video, foto e documenti dell’Assistente del Segretario di Stato, Barbara A. Leaf, e dell’Assistente del Segretario alla Difesa, Dana Stroul, di fronte alla Commissione Affari Esteri della Camera sul sostegno degli Stati Uniti a Israele), ammazzato senza pietà 1400 israeliani, ma il mostro è sempre Israele. Perché? Perché quei cialtroni antisemiti dei giornalisti (sic) occidentali diffondono quotidianamente le veline di Hamas.
   Alla fine i tagliagole sembrano le vittime e le vittime sembrano i tagliagole. Ma sbaglia chi pensa che sia bravo Hamas a disinformare. Certo, i terroristi se ne inventano ogni giorno una nuova, ma i veri responsabili sono dall’altra parte, quelli che all’ombra di giornali di importanza mondiale continuano a diffondere le veline di Hamas e a istigare volontariamente odio contro gli ebrei e contro Israele.

(Rights Reporter, 11 novembre 2023)

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Prosor ai cristiani: possiamo contare su di voi

L'ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor ringrazia i cristiani per il loro sostegno. E sottolinea gli obiettivi della guerra contro Hamas.

di Martin Schlorke

BERLINO - L'ambasciatore di Israele in Germania, Ron Prosor, ha ringraziato i cristiani per la loro solidarietà di fronte al terrore di Hamas. "Possiamo contare su di voi", ha detto Prosor venerdì a Berlino. Lo hanno dimostrato nel recente passato. Perché i veri amici si riconoscono nel momento del bisogno. L'attacco terroristico è un attacco ai valori che ebraismo e cristianesimo condividono, "al nostro modo di vivere". Coloro che non hanno ancora capito nulla non possono essere aiutati. Per quanto riguarda i rappresentanti delle varie comunità religiose, Prosor ha affermato che coloro che non condannano il massacro di Hamas "non sono e non saranno mai nostri amici o partner". Prosor è intervenuto al Summit su Israele dell'organizzazione Christen an der Seite Israels (Cristiani dalla parte di Israele).

• La lotta contro Hamas continuerà
  Per quanto riguarda l'offensiva di terra, il diplomatico ha sottolineato che "ogni vita a Gaza conta". Questo non deve essere perso di vista. Tuttavia, Hamas è l'unico responsabile della situazione a Gaza. Offre ai palestinesi solo povertà e sofferenza. Israele continuerà la sua azione militare e si fermerà solo quando Hamas e le sue infrastrutture saranno state distrutte. Prosor ha citato l'azione contro lo Stato Islamico (IS) come giustificazione della necessità di questo obiettivo. L'ideologia dell'IS è ancora presente, ma non ha più i mezzi per metterla in pratica e massacrare cristiani, ebrei e altri.

• Responsabilità dei media
  Prosor ha invitato i media e la società a esercitare pressioni sulla Croce Rossa. L'organizzazione umanitaria internazionale deve fare di più per il benessere degli ostaggi, ma "non vediamo e non sentiamo nulla dalla Croce Rossa", ha detto l'ambasciatore.

(Israelnetz, 10 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Spade di ferro - giorno 36. Le pause umanitarie e gli ospedali

di Ugo Volli

Perché il cessate il fuoco non è possibile
  I sostenitori dell’islamismo in tutto il mondo, seguiti dai “pacifisti” più o meno sinceri, continuano a richiedere un “cessate il fuoco” che poi rapidamente diventerebbe una tregua a tempo indeterminato: esattamente lo stato che vigeva prima del 7 ottobre e che ha permesso la preparazione della strage. Hamas, colpita duramente ma non annullata, riprenderebbe il potere su Gaza, userebbe gli aiuti internazionali (non solo quelli dell’Iran da cui dipende e del Qatar e della Turchia che la appoggiano per solidarietà ideologica) non per dare sollievo alla popolazione ma per ricostruire il proprio arsenale. L’ha dichiarato con molta franchezza in un’intervista ai giornali occidentali l’altro ieri Khalil al-Hayya, vice leader di Hamas nella Striscia di Gaza: "L'obiettivo di Hamas non è governare la Striscia di Gaza e fornirle acqua ed elettricità, né migliorare la sua situazione. Questa battaglia non è avvenuta perché avevamo bisogno di carburante o di manodopera", ha aggiunto. “Il nostro scopo non è di migliorare la situazione nella Striscia di Gaza. Questa battaglia mira a cambiare completamente la situazione". Secondo al-Hayya, i leader di Hamas pensano che la questione palestinese sia stata relegata in secondo piano e che solo un'azione decisiva possa "ravvivarla [... in maniera tale che] ora nessuno nella regione avrà la pace”. Questa è la vera posta in gioco. I terroristi non vogliono “la pace”, anzi la detestano; quel che progettano è “rifare una, due, tre volte il 7 ottobre e poi ancora, fino alla distruzione di Israele”, come hanno dichiarato in un’altra occasione. Per tale ragione, come ha spiegato ieri Netanyahu in un’intervista, ma pensano tutti i dirigenti israeliani. il cessate il fuoco sarebbe “una resa a Hamas”. Lo stesso Biden, interrogato dai giornalisti in merito ha detto: “una tregua oggi non è possibile”.

Le pause umanitarie
  Tutt’altra cosa sono le “pause umanitarie” che l’esercito israeliano pratica ormai da qualche giorno, in tempi determinati (di solito dalle 12 alle 16) e in luoghi precisi (il grande asse stradale Al-saledin che congiunge l’estremità settentrionale e quella meridionale di Gaza). Si tratta qui di permettere alla popolazione civile di uscire dal teatro principale della battaglia, che comprende la parte settentrionale e centrale della Striscia. Israele non vuole colpire i civili. Essi non sono, come si dice, “innocenti”: hanno votato in grande maggioranza per Hamas nelle uniche elezioni tenute dall’Autorità Palestinese nel 2006, hanno continuato a sostenerlo nei sondaggi, hanno partecipato in massa alle sue manifestazioni e ai suoi festeggiamenti per gli attentati, inclusi quelli del 7 ottobre. È ormai chiaro che un certo numero di persone non inquadrate nei gruppi terroristi, cioè “civili” hanno partecipato a questa strage, compiendo alcuni fra i crimini più terribili che vi sono avvenuti.

Svuotare la vasca
  Ma la responsabilità è individuale e Israele non sta cercando né vendette né punizioni collettive. Semplicemente Hamas applica da sempre la teoria maoista della “guerra di popolo”, mescolandosi e mimetizzandosi nella popolazione civile “come pesci nell’acqua”, non indossando uniformi, mettendo le armi in case d’abitazione, scuole, moschee, ospedali - cose che sono crimini di guerra per la legge internazionale. In questa maniera i civili sono usati come scudi umani, imponendo un terribile dilemma: se Israele esclude ogni azione che li metta a rischio, i terroristi sono protetti e possono continuare a compiere i loro crimini; se invece li colpisce si attira odio e criminalizzazione. Contro la strategia dei “pesci nell’acqua” funziona solo la contro-strategia di “svuotare la vasca”: mandare via i civili in luoghi dove possono stare al sicuro e costringere i terroristi a combattere a viso aperto. È quello che fa Israele in questi giorni, col doppio obiettivo di salvare i civili e di eliminare i terroristi.

Vicini al centro della ragnatela
  Le truppe israeliane hanno da tempo circondato la città di Gaza, hanno eliminato decine di centri fortificati in Gaza, liquidando molti terroristi e i loro capi. Hanno investito i dintorni dell’ospedale Rantisi, come tutti gli ospedali usato da Hamas nei sotterranei come centro di comando, magazzino d’armi e caserma. Sono arrivati al complesso di Ansar a Gaza City, il luogo in cui si trovano tutti i quartier generali di tutti i meccanismi di sicurezza di Hamas nella Striscia di Gaza, compresi gli uffici del Ministero degli Interni. Vi sono stati attacchi israeliani anche al complesso dell’”ospedale indonesiano” nel nord della Striscia e al Rantisi nel centro. I soldati di Israele sono ormai ad alcune centinaia di metri dall’ospedale centrale della città di Gaza, il Shifa. Questa scelta di obiettivi non è casuale né naturalmente deriva da un’avversione di Israele all’attività medica (è vero il contrario, come tutti sanno). Il problema è la scelta criminale dei terroristi di nascondere le loro principali istallazioni proprio sotto gli ospedali, per sottrarli ai bombardamenti. Shifa non è solo l’ospedale più grande di Gaza, ma la sede sotterranea dei comandi generali di Hamas, come Israele ha abbondantemente documentato e abbiamo riportato anche su Shalom. Il fatto di essere arrivati vicini “nel cuore della città di Gaza” dove Israele non era entrato da decenni, è un progresso importante. Ma non bisogna farsi illusioni: se il combattimento al suolo procede bene, più velocemente e con meno perdite del previsto, c’è ancora la battaglia sotterranea, quella decisiva. Ci sono tre livelli di tunnel, a quanto pare, a 20 metri sotto il suolo (il livello operativo), a 40 (il livello dei magazzini delle armi) e a 70, dove stanno i capi e i centri operativi. Venti metri d’altezza è come una casa di sei piani; settanta metri, la dimensione di un palazzo di venti: tutto fortificato e pieno di trappole. Ma non sono palazzi bensì gallerie, labirinti, la famosa “metropolitana di Gaza”, che i terroristi sperano sia imprendibile, ma si sbagliano.

L’uso degli ostaggi
  Ieri la Jihad Islamica ha imitato Hamas nel tentativo di usare gli ostaggi per la guerra psicologica: ha fatto pronunciare ieri in video a una donna anziana e a un bambino frasi di accusa contro il governo israeliano e Netanyahu e l’hanno diffuso in rete. Poi i terroristi hanno dichiarato che intendono liberarli. Nel frattempo il capo del Mossad e quella della CIA si sono incontrati in Qatar con esponenti del governo locale, che è fra i grandi protettori di Hamas e anche l’editore del network televisivo filoterrorista di Al Jazeera. Ma non bisogna farsi illusioni: la liberazione vera degli ostaggi non si può fare con uno scambio di prigionieri o una tregua, che darebbero la vittoria ai terroristi, ma solo con la loro completa sconfitta.

(Shalom, 10 novembre 2023)

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Stai dalla parte di Hamas? O sei antisemita o sei idiota. O entrambe le cose

Lo scrittore israeliano Jonathan Yavin: “Ci siamo stancati di spiegare. Se il mondo non ci ascolta, perché dovremmo ascoltarlo noi?”

di Jonathan Yavin

Dopo l’orrendo massacro del 7 ottobre, i traumatizzati israeliani stanno facendo del loro meglio, a partire dai social network, per far capire al mondo il loro orrore. Vogliamo che il mondo sappia, vogliamo che il mondo si convinca, vogliamo che il mondo sia dalla nostra parte – una volta tanto. Perché non è stato così negli ultimi… beh, non saprei: duemila anni?
   L’antisemitismo non tocca il culmine quando viene sbandierato apertamente da qualche naziskin che sventola bandiere con la svastica, ma quando viene furbamente spacciato da studiosi in cerca di notorietà sotto forma di una bugiarda campagna “per la libertà”, fatta propria e divulgata da celebrità alla moda, che non sanno un cavolo, affinché venga abbracciata da moltitudini di studenti sprovveduti e facilmente influenzabili.
   Quando i puri malvagi vengono fatti passare per poveri derelitti, allora l’antisemitismo si presenta nella sua forma più contagiosa e pericolosa. Si appiccica in modo astuto e molto persuasivo agli ingenui e agli ignoranti, che ben presto si rifiutano di prendere atto di qualsiasi fatto che metta in discussione la loro “narrazione”. E alla fine si trasformano in ipocriti compiacenti, sempre alla ricerca dell’opinione “giusta” da esibire.
   Abbiamo provato di tutto, con questa gente, senza alcun risultato. Abbiamo fatto vedere filmati orribili (cosa che Israele finora non aveva mai fatto, per rispetto delle vittime ndr). Abbiamo fatto sentire le vane, strazianti suppliche di genitori che imploravano di risparmiare la vita dei loro figli. Abbiamo mostrato lo spietato sadismo di Hamas nella sua forma più cruda e atroce. Eppure, in qualche modo, i “cattivi” in questa storia siamo ancora noi.
   Bene, ecco una piccola notizia per queste persone: ne abbiamo abbastanza di spiegare. Tutto si è ribaltato. Tutto si è ribaltato in quelle case devastate dei kibbutz aggrediti, e tutto si è ribaltato in ogni altro senso. In Israele, praticamente tutti coloro che tendevano la mano in segno di pace ora stringono i pugni. Abbiamo perso ogni speranza di vivere in pace accanto ai nostri vicini palestinesi. E sicuramente non ci importa niente di quello che Greta Turnberg dice di noi ai suoi amici super-fighi: non quando sono in ballo le nostre vite e, a quanto pare, la nostra morte.
   La parte giusta, nelle atrocità del 7 ottobre, è quella israeliana. Lo capisce chiunque sia sano di mente. Decapitare neonati, stuprare centinaia di donne, bruciare intere famiglie, rapire bambini  e anziani sopravvissuti alla Shoà e persone disabili sono tutte cose che non possono trovare nessuna giustificazione in nessun contesto. Questi non sono atti di poveri derelitti, questi sono atti di despoti sanguinari.
   Ma è come parlare a un muro, è assolutamente inutile. E se nessuno ascolta, perché dovremmo ascoltare noi? Quindi non diteci di fermare la guerra a Gaza: non accadrà.
   Francamente, non abbiamo più bisogno del vostro permesso o della vostra approvazione. Se non andiamo a salvare i nostri cari, che genere di ebrei saremmo? Che genere di israeliani? Che genere di esseri umani? E segnatevi questo: se non scoveremo e non sradicheremo questi psicopatici, loro continueranno a uccidere noi e se stessi, e alla fine verranno anche da voi. Datevi un’occhiata attorno, lì in Europa.
   Vivo nel centro di Israele, nell’area metropolitana di Tel Aviv, non in qualche sperduto insediamento nei territori occupati. Oggi ho portato la mia famiglia nel rifugio tre volte perché venivano lanciati missili contro la nostra città. Due anni fa un missile distrusse la clinica del nostro pediatra: per fortuna era chiusa, l’unico che rimase ucciso fu un senzatetto. Sbaglio, dovrei dire che la sua anima è stata liberata dal corpo grazie a Hamas. Ho dovuto spiegarlo in qualche modo ai miei figli, che da più di un mese non frequentano una giornata di scuola regolare. Ora devo spiegare loro perché un neonato di 9 mesi è tenuto prigioniero da un mese nelle segrete sotterranee di Hamas.
   Ma a coloro che ancora stanno dalla parte di Hamas non sento il bisogno di spiegare niente. Non più. Per quanto mi riguarda, o sono antisemiti o sono idioti. E molto probabilmente sono entrambe le cose.
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da YnetNews, 5.11.23

(israele.net, 10 novembre 2023)

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Hamas: vogliamo una guerra permanente con Israele

"L'obiettivo di Hamas non è amministrare la Striscia di Gaza e portarle acqua, elettricità e così via", ma "ribaltare completamente la situazione".

di Joshua Marks 

Hamas non è interessato a governare Gaza ma vuole una guerra infinita con Israele, hanno dichiarato i membri del gruppo terroristico in un articolo del New York Times pubblicato mercoledì.
   Secondo i leader di Hamas, questo era uno degli obiettivi principali dell'invasione del 7 ottobre del Negev nord-occidentale, durante la quale migliaia di terroristi armati hanno massacrato 1.400 persone, per lo più civili, ne hanno ferite più di 5.000 e hanno portato più di 200 ostaggi a Gaza.
   "Spero che lo stato di guerra con Israele diventi permanente su tutti i confini e che il mondo arabo si schieri con noi", ha dichiarato Taher el-Nounou, consigliere di Hamas per i media, al quotidiano statunitense.
   Khalil al-Hayya, membro del politburo del gruppo terroristico in Qatar, ha dichiarato che l'attacco del 7 ottobre è stato pianificato per "cambiare l'intera equazione e non solo per avere uno scontro", aggiungendo che "siamo riusciti a riportare la questione palestinese all'ordine del giorno e ora nessuno nella regione è tranquillo".
   "L'obiettivo di Hamas non è governare la Striscia di Gaza e fornirle acqua, elettricità e così via", ha detto al-Hayya. "Hamas, Qassam e la resistenza hanno svegliato il mondo dal suo sonno profondo e hanno dimostrato che questo problema deve rimanere all'ordine del giorno".
   Ha aggiunto: "Questa lotta non ha avuto luogo perché volevamo carburante o lavoratori. Non si trattava di migliorare la situazione a Gaza. Questa lotta vuole ribaltare completamente la situazione".
   Il 24 ottobre, l'alto funzionario di Hamas Ghazi Hamad ha dichiarato all'emittente televisiva libanese LBC TV che il gruppo terroristico continuerà a compiere massacri come quello commesso nel sud di Israele il 7 ottobre fino a quando lo Stato ebraico non sarà distrutto.
   "Israele è uno Stato che non ha posto sulla nostra terra. Dobbiamo eliminare questo Paese perché è un disastro politico, militare e di sicurezza per la nazione araba e islamica e deve finire", ha detto Hamad, secondo una traduzione dell'intervista fatta dal Middle East Media Research Institute.
   "Non ci vergogniamo di dirlo con fermezza", ha aggiunto.
   L'esistenza di Israele è "illogica", ha detto, aggiungendo: "L'esistenza di Israele è la ragione di tutto il dolore, il sangue e le lacrime".
   "Il 'diluvio di Al-Aqsa' [termine con cui Hamas indica l'attacco terroristico del 7 ottobre] è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza e una quarta, perché abbiamo la determinazione, la risolutezza e le capacità per combattere", ha detto Hamad.

(Israel Heute, 10 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Sei ragioni per cui Israele non può concedere una tregua

Ron Ben-Yishai scrivendo su Yediot Ahronoth argomenta con estrema precisione e semplicità le sei ragioni per cui Israele non può concedere un cessate il fuoco.

Ron Ben-Yishai sostiene che Israele può accettare al massimo una “pausa” umanitaria di 4-5 ore. Questo è il tempo necessario per fornire ai residenti civili di Gaza gli aiuti umanitari di cui hanno bisogno per migliorare le condizioni degli sfollati, dei feriti e dei malati. In generale, Gaza è un’area piccola e anche chi si sposta a piedi dal nord alle aree di rifugio nel sud, può farlo in quattro ore o meno. Non c’è bisogno di più per i camion carichi di cibo, acqua e medicine che si dirigono da Rafah all’ospedale Shifa alla periferia del quartiere di Jabalia, nel nord di Gaza.
   Se si considera la questione in tutti i modi possibili, si capisce perché Hamas insiste tanto per avere un “cessate il fuoco” di due o tre giorni. Questo gli darà vantaggi significativi senza che sia costretto a dare quasi nulla in cambio, se non qualche rapito con cittadinanza straniera o doppia cittadinanza tra i circa 240 ostaggi. Ecco sei motivi per cui Israele non deve accettare:
  1. Dal punto di vista logistico, i combattenti di Hamas e la leadership che si trovano nei tunnel otterranno quasi tutto ciò di cui hanno bisogno per rifornirsi sottoterra. Sarebbero in grado di saccheggiare le strutture dell’UNRWA e i magazzini di cibo e carburante di Gaza, prolungando così la loro capacità di rimanere sottoterra per molti altri giorni.
  2. Il cessate il fuoco consentirà ad Hamas di ripristinare le linee di comunicazione che sono state danneggiate tra i suoi vari compound sopra e sotto la superficie. All’interno dei tunnel corrono molte linee di comunicazione che permettono alla leadership di trasmettere ordini agli avamposti che stanno ancora combattendo. Un cessate il fuoco permetterebbe di farle funzionare di nuovo e forse anche di liberare i passaggi nei tunnel che sono stati bloccati dalle bombe dell’aviazione o dall’attività dell’IDF sul terreno.
  3. Dal punto di vista operativo, il cessate il fuoco permetterà ad Hamas di riorganizzarsi e di armarsi per continuare i combattimenti. Ad esempio, i terroristi potranno ricaricare i lanciarazzi situati vicino alle aree in cui si combatte. Questi lanciatori vengono svuotati dopo aver sparato i razzi o le bombe di mortaio, e la sospensione dei combattimenti ne consentirà l’accesso. Ciò significa che un cessate il fuoco di alcuni giorni permetterà un drastico aumento dei lanci verso Israele.
  4. Hamas potrà anche riorganizzare le sue forze e rafforzare gli avamposti isolati. La sua rete di tunnel da combattimento non è continua, e anche le parti che lo sono sono state danneggiate e tagliate dagli attacchi dell’aviazione. Per questo negli ultimi giorni i terroristi hanno avuto difficoltà a muoversi e a rinforzare i settori raggiunti dall’IDF. Un cessate il fuoco consentirà ai terroristi di scendere a terra, o di sfondare i passaggi tra i tunnel, e di trasportare truppe, missili anticarro e ordigni esplosivi improvvisati.
  5. Come abbiamo visto durante l’operazione “Protective Edge”, il cessate il fuoco è solo una raccomandazione per Hamas, mentre l’IDF si considera obbligato a mantenerlo. In qualsiasi scenario, è probabile che la storia si ripeta. All’epoca, quando i terroristi di Hamas uscivano dai pozzi e uccidevano i soldati nelle vicinanze, ciò accadeva o perché erano scollegati dalla leadership di Hamas, o semplicemente perché i terroristi non obbediscono sempre agli ordini. Non rischieremo né l’uno né l’altro.
  6. Ma la conseguenza più grave è quella di mettere a rischio la possibilità di liberare gli ostaggi. Un cessate il fuoco di qualche giorno permetterà ad Hamas di spostarli, danneggiando così gli sforzi dell’intelligence israeliana e vanificando la possibilità di liberarli attraverso un’azione militare. Inoltre, il tempo a disposizione permetterà ad Hamas di raccogliere gli ostaggi che sono nelle mani di altre parti a Gaza, aumentando così il suo potere contrattuale.
La linea di fondo è chiara: Israele non ha nulla da guadagnare da un cessate il fuoco, se non qualche punto di approvazione da parte dell’opinione pubblica internazionale, che svanisce piuttosto rapidamente come abbiamo visto dall’esperienza passata. D’altro canto, un cessate il fuoco pregiudica la possibilità di liberare gli ostaggi, ritarda il processo di smascheramento e distruzione dei tunnel del terrore, consente ai terroristi di Hamas di migliorare le loro posizioni e di trasportare le attrezzature, oltre a prolungare il loro tempo potenziale sottoterra. Dal punto di vista di Israele, tutto ciò è inaccettabile. Il massimo che Israele può concedere sono pause umanitarie di poche ore e solo alla luce del giorno. In questo modo si soddisfano le richieste dell’amministrazione Biden e della comunità internazionale di aiuti umanitari alla popolazione civile.

(Rights Reporter, 10 novembre 2023)

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Lo scandalo dei fiancheggiatori dei jihadisti

di Giovanni Sallusti

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Ti imbatti nell’assurdo così, di primo pomeriggio, scorrendo meccanicamente l’IPhone, come mille altre volte. «Reporter al seguito di Hamas». Il dito si arresta da solo, la mente si rifiuta. «Reporter al seguito di Hamas il 7 ottobre». È come scrivere reporter al seguito delle Ss negli anni della soluzione finale, reporter al seguito dei khmer rossi durante il genocidio cambogiano, reporter al seguito dell’Isis sulla spiaggia delle decapitazioni. Professionisti dell’informazione a braccetto coi professionisti dell’orrore, a documentare l’Inumano mentre accade, il tutto restando umani (come vuole un noto slogan progressista), senza mostrare il minimo turbamento, il minimo cenno di disapprovazione. O, peggio, condividendo la macelleria, forse conoscendola già da prima, perché pedine consapevoli del piano. Sono le terrificanti domande sollevate da Honest Reporting, ong che si occupa di “combattere i pregiudizi ideologici” contro Israele, quotidianità nel circo mediatico. Quel che è stato documentato ieri, però, va oltre. Quattro nomi, e una dose non banale di riscontri fattuali. I nomi sono Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali, quattro fotoreporter freelance di origine araba che lavorano per colossi dell’informazione globale (parliamo di Associated press, Reuters, Cnn, New York Times). 

Sul luogo della mattanza
  Ebbene, costoro in quella dannata mattina del pogrom erano lì, sul luogo della mattanza, l’hanno raccontata in diretta, tramite scatti, video, post che hanno fatto il giro del mondo. Come nota il report di Honest, e come risulta autoevidente a chiunque abbia conservato un grammo di lucidità, «la loro presenza in quel luogo» solleva una montagna di “questioni etiche”. Inezie come: «La loro attività era stata coordinata con Hamas? Questi freelance hanno informato le loro testate?». Questi «giornalisti» si sono alzati quel mattino sapendo che si andava allegramente a sgozzare bambini, seviziare donne, bruciare i figli davanti ai padri e viceversa? Sono giornalisti o nazisti del nuovo millennio?
   Non sono iperboli: una fotografia segnalata da Hosting Reporter mostra uno dei cosiddetti “reporter”, Hassan Eslaiah, felicemente abbracciato a Yahya Sinwar, semplicemente il leader di Hamas a Gaza, il tagliagole in capo che ha organizzato il pogrom, addirittura intento a schioccare un bacio sulla guancia a quello che è evidentemente un amico. Lo stesso Eslaiah ha postato (e poi cancellato, coda di paglia abbastanza dilettantesca per un reporter) su X un video dove si lo vede di fianco a un carro armato israeliano in fiamme, senza nessun elemento che lo identifichi come “stampa”, mentre ci informa che “tutti i soldati sono stati rapiti dalle Brigate Al Qassam”. Anche Masoud era presente sulla scena. Sempre in diretta, sempre così segugi da essere allo stesso tempo così bravi e così fortunati?
   L’ufficio stampa del governo israeliano ha chiesto spiegazioni ai network internazionali su un coinvolgimento che chiaramente supererebbe «ogni linea rossa, professionale e morale» (ma anche umana, quando il coltello affonda nella culla la persona non può non prevalere sul “reporter”). Associated press ha dichiarato di «non essere a conoscenza degli attacchi del 7 ottobre prima che avvenissero», ma di aver comunque chiuso la collaborazione “occasionale” con Eslaiah. Anche Reuters «nega categoricamente di essere stata a conoscenza dell’attacco», e afferma di aver «acquisito le fotografie di due fotografi freelance con sede a Gaza che si trovavano al confine la mattina del 7 ottobre» (e non quella del 6 o dell’8, costellazione favorevole). Secondo Ynet News, la Cnn «ha deciso di sospendere il rapporto con Eslaiah nonostante non abbia trovato alcun motivo per dubitare dell’accuratezza giornalistica del lavoro che ha svolto» (forse fin eccessiva). Intanto, “reporter” e “Hamas” diventano un unico sintagma, un’unica tendenza social. Il non-senso a portata di polpastrello, in questo scampolo psicotico di Novecento.

Libero, 10 novembre 2023)

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Espulsione dal Gush Katif - Cento giorni dopo

Diciotto anni fa Israele ha sgomberato Gaza. Il mondo ha lodato Ariel Sharon, perché effettivamente soltanto lui poteva riuscire a far ingoiare agli israeliani un boccone così amaro. Soldati israeliani costretti a far uscire con la forza altri israeliani dalle loro case, dalle loro fattorie, dalle loro aziende a cui avevano lavorato con cura. A stretto malincuore gli ebrei di Gaza si sono lasciati espellere e per diversi mesi sono vissuti come profughi nel resto di Israele. Abituati alle fughe, i profughi di Gaza in Israele si sono riadattati e adesso non se ne parla più. Bisognerebbe invece ripensarci e riparlarne. Un sito come “Notizie su Israele” si presta bene a ritrovare tracce di quella inutile violenza che Israele ha imposto a se stesso con il plauso del resto del mondo. Ripresentiamo un articolo del dicembre 2005. E’ una “profuga di Gaza” che parla.

Gush Katif, come era una volta
Sono un'espulsa dal Gush Katif e devo dirvi che, nonostante tutto quello che i media vi vogliono far credere, il mio mondo è crollato! La nostra vita trascorreva serena, per quello che era possibile, mio marito ed io lavoravamo e guadagnavamo per mantenerci. Non eravamo ricchi, ma vivevamo senza dover chiedere niente a nessuno. Eravamo anche riusciti a risparmiare un po' di denaro e ad acquistare una bella casetta. Non era lussuosa ma ci stavamo bene, vi abbiamo cresciuto dei bambini felici, e tutti eravamo contenti di quello che eravamo riusciti a fare. Nel Gush non c'era disoccupazione, e adesso siamo senza lavoro ed abbiamo finito i nostri risparmi. Una volta eravamo noi a dare offerte fisse per i bisognosi e all'improvviso siamo noi che dobbiamo vivere della carità altrui per comprarci da mangiare, che vergogna!
   All'inizio ho continuato a lavorare per qualche ora nel mio posto di lavoro, ma non ho resistito alle lunghe ore di viaggio per attraversare quasi tutto il paese e poi il viaggio mi mangiava quasi tutto quello che percepivo. Noi viviamo con le valigie pronte per partire. Questo, dove stiamo adesso, è il quinto albergo "maledetto da quando siamo stati espulsi. Stiamo tutti quanti in due piccole stanze. Debbo però confessare che ci sono persone che stanno peggio. Ci sono espulsi che vivono nella stessa camera con la nonna mentre altri hanno figli e figlie grandi che vivono nella stessa stanza, ed altri che vivono in stanze contigue ma non comunicanti. Vari giovani si sono sposati per scappare da una situazione così deprimente e certuni hanno anche abbandonato il paese visto che non lo ritengono più la loro patria. Non è bello parlare così degli alberghi, ma li odio! Che punizione! A che misera esistenza siamo stati ridotti! Non c'è neanche la spazzola per pulire il gabinetto. Non ci è consentito l'uso del telefono ed il conto dei telefonini cellulari è salito alle stelle. Non abbiamo la cucina, il cibo è stantio ed avariato. A pranzo e cena c'è carne ed i nostri bambini, che non ci sono abituati, stanno a digiuno, ed anche noi ci siamo stancati. è naturale che non possiamo ricevere ospiti, è impossibile invitare la mia vecchia madre, che il Signore Le conceda una lunga e sana esistenza, e come faremo a festeggiare il bat-mizwa di nostra figlia?! E, la cosa peggiore, siamo costretti a pagare le lunghe ore noiose che trascorriamo in questo albergo "maledetto”. Il prezzo ci viene dedotto dal già misero indennizzo. La convivenza con mio marito è diventata impossibile, litighiamo tutto il tempo, mio marito da calmo e tranquillo che era è diventato triste, nervoso, ansioso e pieno di paure. Ha incominciato ad andare dallo psicologo e a spendere perciò soldi che non abbiamo. Molte mie amiche non hanno retto al cambiamento ed hanno divorziato. Mio figlio maggiore è diventato aggressivo ed è arrabbiato col mondo intero: col governo, con lo Stato, con l'esercito, con i Rabbini, con tutti, anche con noi. Ha smesso di andare a scuola come molti altri ragazzi. Vari suoi amici, che erano nel Gush ottimi studenti, oggi sono svogliati. Ragazzi abituati ad un'intensa vita sociale sono diventati dei "lupi solitari". La figlia che abbiamo messo in una scuola a tempo pieno, perché farla andare avanti-indietro era impossibile, piange tutto il tempo che vuole tornare a casa. Anche questa scuola ci costa caro, ma almeno è in buona compagnia. Ma non me la posso prendere più di tanto, perché tra i miei amici ci sono ragazzi che non hanno retto a questa situazione traumatica ed hanno incominciato a bere e a drogarsi, altri hanno addirittura tentato di suicidarsi! Oltre a tutto ciò la burocrazia sta facendo di tutto per darci il "colpo di grazia". "Ah volete ricevere gli indennizzi!?" "Dovete innanzi tutto dimostrare che siete stati realmente abitanti del Gush.... la carta d'identità non basta... ci si può far scrivere quello che si vuole... dimostrate di aver comprato la casa... portate l'atto di acquisto... portate la dichiarazione del catasto di Beer Sheva... questo non basta, dimostrate di averci abitato... portate le bollette della luce e la dichiarazione della Società Elettrica di Beer Sheva che avete sempre pagato.... adesso occorre il certificato del Ministero dell'Educazione che i vostri figli hanno studiato nel Gush, anche questo non basta, forse il certificato è falso, dovete portare le pagelle delle classi prima, seconda... i documenti sono nel container? La cosa non ci riguarda!"
   Diteci, ci volete uccidere? Dopo averci espulso ci volete anche ammazzare! Non sappiamo dove sia il nostro container in mezzo a tutti gli altri, non per colpa nostra ma perché gli impiegati del governo non hanno fatto una lista ordinata.
   Oh quanto dolore ci ha causato tale container. Mentre lo preparavano, molti oggetti di valore come il computer sono spariti come cari ricordi di famiglia. Ancora non riesco a capire perché tale container lo dobbiamo pagare di più di uno preso sul mercato! Al contrario, quando si tratta di prenderci i soldi tutto fila liscio come l'olio: noi continuiamo a pagare alla banca il prestito per una casa che non esiste più, a pagare l'assicurazione su una casa dalla quale siamo stati espulsi, ed anche a pagare la società elettrica per averci tolto la corrente!
   Ma gli uffici governativi ci trattano come fossimo dei bugiardi e noi dobbiamo impazzire per dimostrare il contrario. Mi spediscono dal nord del paese sino a Beer Sheva per portare un certificato della Società Elettrica quando con il computer possono ottenere tutte le informazioni che desiderano su di noi!
   È chiaro che ciò non è disordine amministrativo, ciò è stato predisposto, ci vogliono vedere distrutti! Ciò avviene con tutti, anche con quelli che si erano accordati con l'amministrazione dell'espulsione e se ne erano andati anzi tempo. Quanto sono senza cuore, o lo hanno di pietra, coloro che hanno mandato in malora le nostre vite e ancora continuano a ripetere nei mezzi di comunicazione che tutto va per il meglio. "C'è una soluzione per ogni evacuato!" così proclamarono e continuano a proclamare: bugiardi sfacciati!
   Se osiamo parlare siamo accusati di essere dei piagnucoloni, degli imbroglioni, degli approfittatori, dei "ruba" indennizzi! Così osano chiamare noi, che abbiamo trasformato una zona desertica nel giardino di D.o sotto il fuoco nemico! Ed ora ci dicono che dobbiamo dimenticare quello che ci hanno fatto e perdonare quello che ci stanno facendo. Questo è l'ottantunesimo colpo!
   Questa espressione, per chi non lo sapesse, fu coniata da un superstite della Shoah, che testimoniò al processo Eichmann, che disse di aver ricevuto 80 frustate, e, quando qualcuno gli chiese se ne era certo, rispose: questa è l'ottantunesima! Ma, nonostante tutto, non li odio perché ciò non è da me! Non sono abituata ad odiare, non mi piace odiare! Mi piace amare, ballare ed essere felice di ciò che ho anche in tempi difficili come questo. Ho la fortuna di avere fatto nuovi amici, tutti volontari dal cuore d'oro contenti di aiutarci. Ci offrono denaro, tempo, consigli amministrativi e legali, appoggio morale, assistenza medica, ci aiutano con i bambini, fanno il bucato e le pulizie e moltissime altre cose. Grazie infinite carissimi amici, quando vi penso resto commossa e mi viene da piangere. Non so ancora quale sarà il mio futuro in questo paese ingrato, ma, nonostante tutto, continuo ad amarlo e mi faccio coraggio. È tutto assai difficile ma cerco di riprendermi e tirare avanti. Pensavo che avevamo finito con la diaspora millenaria, ma non è così! Perché essa è rimasta dentro di noi e sembra che non basti un giorno per liberarsene. Essa trova nuovi modi per colpirci e perciò sono felice per ogni giorno che resisto e riesco a vivere in Haaretz! In "Mesilath iesharim" è scritto che la vita è piena di prove e difficoltà, non è facile vivere senza certezze materiali ma quelle spirituali ci aiutano a resistere. La vita è diventata più difficile materialmente ma ho scoperto dentro di me vitalità e forze nuove. In questo mare in tempesta che è la vita nazionale ho dei punti di appoggio. Il Rav Kook disse che senza punti di appoggio l'uomo non può vivere. Anche nella diaspora più nera il Popolo d'Israele continuò a vivere con indomito coraggio perché possedeva degli ideali. Che cosa mi dà la forza di tirare avanti ? Ciò che è nel mio "cassiere" e nessuno mi può togliere! Come ad esempio l' "Unione" (Iacad). Il rapporto tra noi profughi, non sono riusciti a spezzarlo! Ho infinite discussioni sia in famiglia che con le altre espulse a causa di tutti i disagi e le privazioni a cui ci sottopongono, ma conserviamo l' "Unione"! Una grande regola nell' "Unione" è che non siamo obbligati ad avere le stesse opinioni. Quello che abbiamo in comune sono il ricordo del Gush e la mancanza di certezze per il futuro, perciò non importa se la pensiamo differentemente, è come in yeshiva dove le discussioni sono serrate ma tutti si rispettano. I nostri ragazzi sono diventati degli esperti nelle discussioni: amano mettere tutto in dubbio! Qualsiasi cosa dico loro lo discutono. Io non mi arrabbio, non mi impongo con autorità, anzi sono contenta di avere dei figli che ancora si interessano a ciò che accade intorno a loro perché ciò significa che hanno un futuro. C'incolpano di tutto. Ma ho imparato a non prendermela troppo e a non sentirmi offesa, ma a cercare ciò in cui andiamo d'accordo e a rafforzare in loro i buoni sentimenti, faccio comunque di tutto per non essere la loro psicologa ma di restare semplicemente la loro madre. Il mio bambino di due anni è tornato a farsela addosso e ha paura di ogni cosa. Anche la mia bambina un po’ più grandicella ha gli stessi sintomi dovuti allo shok subito: io li prendo tra le braccia, li coccolo e gioco con loro e ciò dà a loro un po' di fiducia e di coraggio. Mio figlio che studia in terza elementare è diventato assai aggressivo, usa espressioni come: io lo ammazzo! non mi spavento perché sono sicura che non ucciderà nessuno, e non lo zittisco perché se no avrà paura di esprimere i propri sentimenti e presso di me esistono la libertà di parola e quella di pensiero.
   Non so perché vi stia annoiando con cose così personali, ma sembra che anch'io mi debba sfogare! Tutto il tempo debbo rispondere ai miei figli piccoli che chiedono: "Mamma, questo soldato è buono e ci protegge o è un soldato cattivo che ci viene a buttare fuori di casa?" Sono ancora spaventati e perciò cerco di dare a loro tutto il mio affetto e protezione e cerco di ricreare intorno a loro quello che era il nostro ambiente domestico. Non mi nascondo che ciò sia impresa improba e che il futuro ci riservi molte incognite ma, con l'aiuto di D.o, spero di riuscire ad affrontarle e superarle nei migliori dei modi. Sappiate, figli adorati, che qualsiasi cosa ci capiterà resterò sempre al vostro fianco per affrontarlo insieme. Maritino mio, sappi che ti resterò sempre vicino per aiutarti e sostenerti, molte cose del nostro mondo sono andate in frantumi, ma io non ho ceduto perché so che il Signore non ci ha abbandonato, ho la certezza che è Lui che ci ha fatto tornare in Patria e tutto quello che stiamo affrontando sono esami con i quali ci sta mettendo alla prova per renderci partecipi dell'avvento dell'era messianica.

(Rav Shlomo Aviner, "Olami lo carav" (Il mio mondo non è crollato!), BEAVAH UVEHEMUNAH n. 542, 9/12/05, pp. 6-8; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair)

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Dal 7 di ottobre metà degli israeliani si è dedicato al volontariato

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Durante le prime due settimane della guerra di ottobre, innescata dai brutali attacchi terroristici contro uomini, donne e bambini israeliani, sono emerse più di 1.000 iniziative civili in tutto Israele e il 48,6% della popolazione israeliana si è impegnata nel volontariato, secondo un rapporto dell’Istituto per la Studio sulla società civile e la filantropia in Israele presso l’Università Ebraica.
   “L’impegno della società civile in Israele durante l’operazione Spade di ferro: tendenze emergenti e approfondimenti preliminari” offre un’analisi approfondita del massiccio sforzo di mobilitazione della società civile sotto lo slogan “Difendere la nostra casa”.
   Mettendo da parte le recenti divisioni sociali che alcuni temevano avrebbero portato a una guerra civile, gli israeliani si sono uniti per effettuare operazioni di salvataggio, evacuazioni, fornitura di alloggi temporanei, distribuzione di cibo vitale e forniture mediche, sostegno psicologico ai sopravvissuti e alle famiglie in lutto e altro ancora.
   I ricercatori hanno riscontrato un notevole aumento del volontariato rispetto al tasso osservato durante la crisi del Covid-19 (33%) e hanno notato che il volontariato è trasversale a tutte le fasce di età, genere e affiliazione religiosa. A differenza del volontariato prevalentemente giovanile osservato durante la pandemia, il 46% di quelli di età compresa tra 18 e 35 anni, il 52% di quelli di età compresa tra 35 e 55 anni e il 52% di quelli sopra i 55 anni si sono impegnati nel volontariato durante le prime due settimane di guerra.
   Il tasso di volontariato tra la popolazione arabo-israeliana durante la guerra ha raggiunto il 29%, rispetto al 19% registrato durante il Covid-19.
   Il rapporto rivela inoltre che il 28% dei volontari durante le prime due settimane di guerra non avevano mai fatto volontariato prima. Questi nuovi arrivati sono prevalentemente laici e con redditi superiori alla media.
   Le attività di volontariato più importanti includono la raccolta, l’imballaggio e la distribuzione di cibo e attrezzature; trasporto di persone, cibo e attrezzature; assistere le forze di sicurezza; partecipazione ad attività di sensibilizzazione attraverso i social network; e offrire aiuti essenziali agli sfollati.
   Secondo il rapporto, molti volontari hanno integrato il proprio impegno con contributi economici, partecipando ad iniziative volontarie e campagne di crowdfunding.
   Inoltre, “l’uso della tecnologia per il volontariato digitale ha esteso la portata alle popolazioni remote e con mobilità limitata, sottolineando l’adattabilità e l’inclusività di questi sforzi di volontariato”, hanno scritto i ricercatori. “Il rapporto sottolinea l’importanza di un coordinamento efficace tra le organizzazioni civili e gli enti governativi per garantire una risposta unitaria ai bisogni urgenti. Suggerisce inoltre che le organizzazioni civili possono evolversi in una preziosa forza di supporto per le attività governative durante le operazioni di combattimento in corso”.

(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2023)

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Palestina libera!

di Niram Ferretti

“Liberare la Palestina”, da cosa? Non ci vuole molta fantasia, dagli israeliani, quella “specie” di ebrei che, dal 1948 in poi invece di farsi condurre come pecore al macello, combatterono contro gli Stati arabi che volevano portare a compimento l’opera di annichilimento ebraico che Hitler aveva perseguito in Europa.
   Se Montgomery non avesse fermato l’avanzata di Rommel in Nord Africa, la distruzione dello Yishuv, la comunità ebraica costituitosi in Palestina, difficilmente si sarebbe potuta evitare.
   Come sottolinea Matthias Küntzel  nel suo ultimo libro: “Era la volontà esplicita di Hitler di espandere il programma di assassinio di massa conosciuto come ‘soluzione finale’ ai circa 700,000 ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente”. 
   Quello che non fu in grado di fare Hitler in Medio Oriente, cercarono di eseguirlo gli eserciti arabi appena Israele dichiarò la propria indipendenza, e poi di nuovo cercarono di farlo nel 1967 e poi di nuovo nel 1973.
   Ciò nonostante, nel 1967, la Giordania, quando occupò i territori della Giudea e Samaria che il Mandato Britannico per la Palestina aveva assegnato agli ebrei nel 1922, si sbrigò a renderlo judenfrei, e la stessa cosa fece a Gerusalemme est. Ebrei cacciati, sinagoghe distrutte, al cui posto furono messe delle latrine, l’importante era liberare.
   Fallito il compito di “liberare” la Palestina in virtù degli eserciti si pensò quindi di riconvertire l’opera attraverso varie sigle terroristiche, tra cui l’OLP diventò quella dominante, fino a quando, con la crescita di Hamas, l’organizzazione terrorista di Arafat dovette contendere il basto del comando con la formazione integralista jihadista fondata dal pio Ahmed Yassin.
   Il pregio di Hamas rispetto all’OLP è l’intenzionalità programmatica esplicita. La “liberazione” della Palestina è intesa in senso hitleriano come liberazione  territoriale dagli ebrei, come recita senza fronzoli lo Statuto del 1988, documento politico-teologico mai abrogato, in cui viene citato un celebre hadit di Maometto, in base al quale, in una prospettiva escatologica, non potrà darsi Giorno del Giudizio se prima gli ebrei non verranno eliminati.
   “Dal fiume al mare Palestina libera” recita lo slogan tanto in voga nei cortei pro-palestinesi, zeppi di utili idioti, di antisemiti coriacei e di musulmani pro Hamas, libera dagli ebrei, ovviamente, e da chi se no?
   Sentiamo ripetere spesso in questi giorni che, come da copione, la reazione di Israele a Gaza è eccessiva, sproporzionata, criminale, il solito ineffabile Antonio Guterres ci informa per sua bocca o bocca a cui vengono fornite le parole più di effetto, che Gaza è “un cimitero di bambini”.
   Le cifre relative ai morti civili a Gaza le fornisce doviziosamente Hamas, lo stesso che ci informò che l’ospedale Al Shifa era stato bombardato dagli israeliani e che erano morte 500 persone.
   Ma ammettiamo pure che le cifre fornite da Hamas siano vicine alla verità. Sicuramente sono parecchie le migliaia di vittime civili, e sicuramente molte di esse sono bambini. Non esistono guerre in cui i bambini non muoiano, non si tratta di una affermazione cinica, si tratta di una constatazione ovvia. Se non si vuole che in guerra muoiano i bambini c’è solo un modo per evitarlo, non farla.
   Gli Stati Uniti, assai sensibili alle vittime civili, e continuamente prodighi di esortazioni nei confronti di Israele a ridurne il numero e a concedere pause umanitarie, sono gli stessi che a Mosul, nel 2017, per distruggere l’Isis che ne aveva fatto una sua roccaforte diedero vita a una delle più brutali guerre urbane della storia contemporanea, bombardando a ritmo serrato la citta e distruggendo uno dopo l’altro gli edifici. Il numero preciso di morti civili, tra cui bambini, non si conosce con esattezza, né, con ogni probabilità, si conoscerà mai. La stima dell’Associated Press è tra i 5000 e gli 11,000, quella dei Servizi curdi, la innalza a 40,000.
   Non si ricordano pressanti esortazioni sugli americani per aprire corridoi umanitari e nemmeno affermazioni da parte di Guterres su Mosul, cimitero di bambini.
   L’obbiettivo americano era di distruggere l’ISIS, e per raggiungerlo era legittimo, secondo loro, radere Mosul al suolo, ma per Israele, si sa, valgono criteri difformi, anche se il suo obbiettivo è il medesimo che gli Stati Uniti si erano dati nel 2017, distruggere una formazione terroristica islamica che, quanto a radicalismo e a capacità di efferatezze, il 7 ottobre scorso ha superato l’ISIS.
   Concludiamo, dedicandoci a un altro refrain, quello dell'”innocenza” dei gazawi, ovvero, della non colpevolezza dei civili per le atrocità commesse da Hamas, nei confronti del quale nessuno dei due milioni e mezzo di abitanti della Striscia si è mai ribellato dal 2007 a oggi.
   L'”innocenza” dei civili, della popolazione, relativamente ai regimi dispotici che hanno permesso venissero in essere, e contro i quali non si sono mai ribellati, (come è avvenuto più volte in Iran, per esempio, con, purtroppo, scarso successo), è una questione scabrosa. Con il medesimo criterio bisognerà sostenere che fossero innocenti anche i sessanta milioni di tedeschi che negli anni ’40 fecero del Führer il loro incontrastato beniamino (con una parentesi per i bambini, loro sì, vittime innocenti di un clima culturale nutrito di odio). 
   Impossibile separare i fiancheggiatori e i sostenitori dagli avversatori e dai ribelli, il criterio, a Gaza manca.
   In una guerra, come in quella attuale di Israele a Gaza, e come fu per gli Stati Uniti a Mosul, la morte dei civili, uomini, donne, bambini,  diventa, come in ogni guerra, il corollario inevitabile dell’obbiettivo che ci si è posti, distruggere il nemico.

(L'informale, 10 novembre 2023)

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Parashà di Chayè Sarà: L’ospitalità della famiglia di Avraham

di Donato Grosser

In questa parashà viene raccontato che Avraham incaricò il suo fedelissimo servitore, manager dei suoi possedimenti, di andare a Charàn, la città del padre Nachòr, dove aveva origine la sua famiglia, a cercare una moglie per il figlio Yitzchàk.  Data l’importanza del compito, Avraham gli fece giurare di non prendere per Yitzchàk una delle figlie dei Cananei, ma di andare “al mio paese e al mio parentado, e vi prenderai una moglie per il mio figlio Yitzchàk” (Bereshìt, 24:4). 
             R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 167) chiede “Per quale motivo Avraham insisteva che il figlio sposasse una ragazza della sua famiglia?“. Egli risponde dicendo che poiché l’Eterno aveva  scelto proprio lui dalla famiglia di Nachòr, ci doveva essere qualcosa di buono e di speciale in quella famiglia. La virtù che li distingueva era il chèssed, la benevolenza, che veniva espressa nell’ospitalità. Avraham si distingueva per questa mitzvà. L’ospitalità richiede non solo chèssed, ma anche pazienza.  A differenza di altri atti di benevolenza,  l’ospitalità richiede pazienza e perseveranza. La pazienza costituisce uno dei tredici attributi divini, erekh appàim. L’Eterno ha pazienza e attende che il peccatore faccia teshuvà. L’ospitalità non è sempre piacevole. Uno straniero entra a casa nostra, talvolta non è raffinato, ha strane opinioni e disturba la nostra privacy. Avraham sacrificò tante cose per accogliere ospiti, senza verificare se fossero raffinati o volgari. Inoltre l’esperienza centrale della vita di Avraham era l’esilio. Questa esperienza insegnò ad Avraham a sentire le sofferenze del prossimo. Per questo voleva alleviare le sofferenza degli altri per quanto gli era possibile.
            Anche Lot, nipote di Avraham, si distingueva per questa mitzvà. Quando i malakhìm, gli angeli in sembianza umana, vennero a Sodoma, “Lot che stava alla porta della città, come li vide si alzò incontro a loro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: signori miei, deviate verso la casa del vostro servo, passate la notte, lavatevi i piedi e domani mattina riprenderete il viaggio” (Bereshìt, 19:1-2).
            Quando il servitore di Avraham arrivò a Charàn e incontrò Rivkà alla fonte, voleva accertarsi della sincerità delle sue azioni. Erano motivate da nobiltà e generosità spirituale o solo dall’etichetta? Le richieste del servitore erano esagerate. Perché lasciò che una giovinetta di quattordici anni, come affermano alcuni dei nostri maestri (r. Shemuel Chassid Shapira, citato in Tosefòt, Yevamòt 61b) andasse multiple volte alla fonte per abbeverare i suoi dieci cammelli?  Non poteva farlo fare ai suoi uomini? Ma il servitore voleva esaminare la pazienza di Rivkà. Ed ella diede prova di saper essere ospitale anche se la richiesta era stata esagerata. 
             R. Israel Belsky (New York, 1937-2015) in Einei Isroel (p. 141) afferma che perfino Lavan, fratello maggiore di Rivkà, che anni dopo si comportò da furfante con Ya’akòv, figlio di Yitzchàk e Rivkà, in questa circostanza appare come un perfetto galantuomo. Invitò il servitore e i suoi uomini con queste parole: “E disse: Entra, benedetto dall’Eterno! perché stai fuori? Io ho preparato la casa e un luogo per i cammelli” (Bereshìt, 24:31). Rivkà non fu influenzata dalla malvagità di  Lavàn proprio grazie al fatto che Lavàn si comportava da galantuomo. Nella sua giovane età, Rivkà, giovane e idealista, non si poteva rendere conto del secondo aspetto del fratello maggiore. Assorbì tuttavia l’impressione del comportamento da galantuomo di Lavàn. Aveva quindi le doti necessarie per diventare moglie del figlio di Avraham.  

(Shalom, 10 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Chaye Sarah (Vita di Sara)

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Giornalisti al seguito di Hamas nel massacro del 7 ottobre. Complici o testimoni?

di Ugo Volli

Giornalisti coinvolti nel massacro
FOTO
C’erano giornalisti, in particolare fotografi “indipendenti” ma sotto contratto per alcune delle principali testate internazionali fra le squadre di terroristi che hanno invaso Israele e praticato il più orribile massacro antisemita dopo la Shoah. Il sito americano “Honest Reporting” ha rivelato ieri questo fatto inquietante, che è stato ripreso poi da diversi autorevoli giornali internazionali, fra cui il “Washington Post”. È emerso in rete anche il filmato di uno di loro, Hassan Eslaiah, collaboratore della “CNN” e del “New York Times” che era una sorta di telecronaca fra i terroristi che esultano vicino a un carro armato; c’è anche - a testimoniare il suo ruolo- una foto precedente che lo ritrae abbracciato al leader di Gaza di Hamas Yahya Sinwar. Ma soprattutto sono emerse immagini di fotogiornalisti che riprendono tranquillamente il rapimento terrorista di una donna del Kibbutz Kfar Aza. È una notizia inquietante che suggerisce diverse considerazioni.

Terroristi che documentano il massacro e giornalisti che sapevano
  La prima è ovviamente il fatto che i terroristi volevano che il loro sadismo fosse documentato e diffuso, per restare nella storia o per infiammare così degli imitatori. Nelle scorse settimane si sono visti molti filmati dell’eccidio, riprese degli stessi massacratori sui loro cellulari o anche su quelli delle loro vittime. Stando a quanto emerso nei media, la novità è che si sono portati al seguito anche giornalisti accreditati di testate importantissime. Questo implica che questi giornalisti sapessero in anticipo che qualcosa di grosso stava per avvenire, e soprattutto che assistessero senza reagire alle più terribili atrocità del massacro. Vi è in sostanza una complicità di questi fotografi con la strage, molto probabilmente non solo professionale ma ideologica. Non è una novità: la stampa internazionale si avvale spesso nei territori dominati dai terroristi palestinesi di informatori locali (detti “stringers”) che nel caso di Gaza e dei territori controllati dall’Autorità Palestinese sono scelti dalle autorità locali per la loro fedeltà come strumento di controllo. Ma accade anche che le agenzie di stampa internazionali svolgano una funzione attiva di censura di immagini e notizie a favore dei terroristi. Vi sono articoli che documentano per esempio come la “Reuters” una decina di anni fa tagliò le immagini degli scontri sulla nave “Mavi Marmara” della flottiglia per Gaza, in maniera tale da nascondere le armi dei terroristi. Ancora oggi, Hassan Esleiah ha pubblicato su X-twitter un post minaccioso per i suoi datori di lavoro: “C’è molto incitamento contro di me sui media israeliani in seguito alla mia copertura della guerra di Gaza. Chiedo alle parti rilevanti di prendersi la loro responsabilità”. Le “parti rilevanti” sono evidentemente i giornali per cui lavora, che in effetti hanno tolto il riferimento all’autore dalle foto pubblicate. Ma forse le “responsabilità” della CNN e del New York Times non sono solo queste, forse le redazioni erano state avvertite in anticipo e hanno ritenuto di tacere, privilegiando l’agibilità professionale a Gaza sulla possibilità di prevenire una strage. Sono scenari sconvolgenti, che quanto meno testimoniano di un accomodamento della stampa internazionale col terrorismo, al limite della complicità.

Le operazioni sul terreno
  Nel frattempo la guerra va avanti col passo lento del combattimento. L’esercito israeliano ha conquistato l’”Avamposto 17” una posizione militare importante di Hamas a Jabalyia nel nord della Striscia, scoprendo e distruggendo numerosi tunnel. Lì vicino hanno anche individuato e smantellato una fabbrica di droni, sistemata in un asilo infantile. Si sono aperti anche dei fronti di combattimento significativi nella parte meridionale di Gaza, vicino a Kahan Younis. Un civile israeliano è stato ucciso da un razzo anticarro di Hezbollah a Kiriat Shmonah. Al confine con la Siria vi sono stati scontri più importanti del solito, che hanno ucciso una decina di militari siriani. Si è risvegliato anche il teatro di Giudea e Samaria, dove ci sono stati diversi tentativi di attentato.

Il coinvolgimento americano
  Continuano gli attentati contro gli americani per il loro appoggio a Israele. Gli Houthi yemeniti hanno rivendicato l’abbattimento di un drone da ricognizione americano che volava sopra le acque internazionali del Mar Rosso. Per rappresaglia degli attacchi alle loro basi in Iraq e Siria dei giorni scorsi, gli americani hanno bombardato un deposito di armi dei terroristi iracheni, provocando una decina di morti. Questi hanno reagito promettendo nuovi attacchi. Anche se la proposta americana di un cessate il fuoco “umanitario” è stata respinta da Netanyahu (“niente cessate il fuoco fin che vi sono persone rapite nelle mani di Hamas”) la presidenza americana continua a esprimere un forte appoggio politico a Israele. In risposta a una domanda provocatoria di un giornalista di sinistra, che in una conferenza stampa chiedeva che cosa gli Usa intendevano fare per bloccare il genocidio israeliano, il portavoce della presidenza ha dato la risposta più giusta: “Il solo genocidio oggi in Medio Oriente è quello di Hamas”.

(Shalom, 9 novembre 2023)

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Fatti e Misfatti

Fondamenta dei diritti legali internazionali del popolo ebraico e dello Stato di Israele

PREFAZIONE

Fino a una decina di anni fa la dizione territori occupati riferita alle zone amministrate dall'Autorità Palestinese era usata soltanto dagli estremisti arabi ed era fermamente rifiutata dai governanti israeliani. Col passar del tempo la dizione è diventata talmente comune, ovvia accettata internazionalmente da non sembrare più bisognosa di alcuna spiegazione o precisazione. L'attenzione si è concentrata tutta sul comportamento dello Stato d'Israele, accusato di non volere ritirarsi da territori che non sono suoi.
Purtroppo, nella battaglia contro questa falsa accusa, i sostenitori di Israele in gran parte hanno sbagliato strategia perché hanno collocato la linea del fronte a una distanza troppo vicina ai fatti attuali. Si parla di sicurezza militare o di mancati accordi di equo scambio fra i contendenti, ma non si va alle radici originarie del problema.
Il presente estratto del lavoro di Cynthia Wallace, Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People and the State of Israel, indica invece il luogo dove dovrebbe essere posta la linea di difesa dello Stato d'Israele: quello del diritto internazionale, secondo cui tutti i cosiddetti territori occupati appartengono di diritto allo Stato d'Israele. Se si vuol dire che sono territori occupati, bisogna aggiungere che sono stati illegalmente occupati, prima da Egitto e Giordania, poi da Fatah e Hamas con il consenso di quelle Nazioni Unite che sono state le prime ad agire illegalmente sul piano internazionale negando a Israele il diritto di esercitare la totale sovranità su quella striscia di terra che le potenze vincitrici della Guerra Mondiale avevano ritagliato all'interno dello sconfitto Impero Turco all'unico scopo di dare agli ebrei la possibilità di ricostituire la loro nazione in quel paese, come dichiara testualmente il documento costitutivo del Mandato per la Palestina, redatto nella Conferenza di Sanremo del 24 aprile 1920 e approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922.
Marcello Cicchese

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POSTFAZIONE
del benedire e maledire Israele

Leggendo questo elaborato si comprende quanto importante sia stata la Dichiarazione di Sanremo dell'aprile 1920 e quanto tragiche siano state le conseguenze, ma ancora oggi riscontrabili, riguardo la sua mancata applicazione.
Tale adempimento verso una risoluzione chiaramente e dettagliatamente indicata, conferma inoltre il giudizio divino sulle nazioni coinvolte (Gioele 3:2).
Non solo le nazioni firmatarie (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) sono state coinvolte in questo giudizio storico, ma anche singoli personaggi che in misura diversa hanno ostacolato o reso difficile la risoluzione della dichiarazione, hanno sperimentato vere tragedie personali.
Tutto ciò è evidente; partendo dal ruolo poco chiaro dello sceicco Faysal interessato all'area ad est del confine con la Palestina, che morì improvvisamente nel 1933 [solo un anno dopo della partecipazione dell'Irak alla Società delle Nazioni]; arrivando alla sorte del figlio che morì in un incidente d'auto nel 1939. Il suo successore, nipote di Faysal, venne ucciso nel 1958 nel corso di un colpo di stato. Nel 1935 Thomas Edward Lawrence, (Lawrence d'Arabia) perse la vita in un incidente di moto. Anche Gertrude Bell, archeologa faccendiera vicina a Faysal e allo spionaggio britannico, si suicidò nel 1926.
Il diplomatico britannico Arnold Wilson, che si dimise poco dopo per lavorare con l'Anglo-Persian Oil [la scoperta del petrolio fu una delle concause che mandò a monte la Dichiarazione di Sanremo], cadde in combattimento mentre era in servizio come mitragliere su un aereo in volo sopra Dunkerque.
Anche sul fronte francese possiamo ricordare la decadenza della carriera diplomatica di Picot che lo portò a ritirarsi dal servizio diplomatico francese nel 1932 scomparendo dalla Storia.
Sia la Gran Bretagna che la Francia pagarono un prezzo molto elevato per il ruolo da loro svolto negli accordi di pace in Medio Oriente.
Per le altre due nazioni presenti a Sanremo il 25 aprile 1920 è sufficiente considerare la storia recente: l'Italia con il fascismo, le leggi razziali e la tragedia della II Guerra Mondiale mentre il Giappone con i bombardamenti atomici di Hyroshima e Nagasaki.
La profezia di Gioele 3:2 non stonerebbe titolando qualche attuale commento giornalistico sulla politica estera in Medio Oriente:

    [ ... ] le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele che esse hanno disperso tra le nazioni, che hanno spartito fra di loro.

Conseguente al Mandato Britannico per la Palestina risulta evidente che la vicenda dello Stato di Israele è stata caratterizzata da fatti più o meno ingarbugliati e misfatti senz'altro più evidenti.
Tutto questo ci ricorda un eloquente passo della Bibbia:

    Perciò Dio manda loro una potenza d'errore perché credano alla menzogna (2Tessalonicesi 2:11)

Quale può essere il compito di quanti hanno a cuore Israele e il suo popolo in un tempo come questo?
Una metafora ostetrica può aiutarci a capire meglio il nostro ruolo. Israele è stato concepito nel grembo della storia il 25 aprile 1920 con la Dichiarazione di Sanremo. Si è verificata poi una tremenda minaccia d'aborto con la Shoà. Scampato il pericolo, l'inizio delle doglie corrisponde al 29 novembre 1947 con la risoluzione 181 all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per poi nascere il 14 maggio del 1948.
Ma Israele nacque con il forcipe della storia e come spesso succede in questi casi è nato lesionato e mutilato di gran parte del suo territorio. Da allora c'è un processo di riabilitazione e di recupero ... recupero di tutti i territori biblici di cui si vuole disconoscere l'ebraicità in primis Giudea e Samaria impropriamente chiamate West Bank.
Ecco noi dovremo essere i tecnici di riabilitazione e recupero per riportare Israele nello stato territoriale delle decisioni di Diritto Internazionale sostenendo tutte le iniziative con questa finalità.

Ivan Basana

(Notizie su Israele, 9 novembre 2023)
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"Israele: serviamo la verità sulla Palestina"

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Israele, il comandante Nethanel (un insegnante): «Richiamato per guidare carri armati». Ecco cosa succede nella base prima dell'attacco

Il carrista: «Non è facile combattere di fronte a civili usati come scudi da Hamas»

SDEROT - Il centro di comando sud dell’esercito israeliano è immenso, una base militare grande come una città. È da qui che si gestisce la missione che sta circondando la città di Gaza. Siamo in mezzo al deserto, in una località che per ragioni di sicurezza non si può rivelare. L’area dove vengono stipati i blindati è enorme, carri armati a perdita d’occhio. Alla 14° brigata viene concesso di parlare con i giornalisti «seguendo le indicazioni dei superiori». C’è un comandante che parla italiano, si chiama Nethanel e mentre passeggia tra le macchine da guerra racconta la sua storia: «Nella vita normale faccio l’insegnante ma sono stato richiamato per guidare uno di questi». Un professore su un carro armato, è questa la realtà oggi in Israele. Nethanel schiva con la testa il cannone di un Merkava: «Vecchia roba, questa, è un seconda serie. Io sono stato al comando di un "quarta generazione", altra storia».
   Il carrista non è ancora stato impiegato per le operazioni nella Striscia, ma è in contatto con gli amici al fronte: «Non è facile combattere una guerra quando ti trovi davanti i civili, Hamas li usa come scudi umani. La differenza tra Israele e Hamas è che noi proteggiamo i civili, loro li usano per proteggersi».
   Nella base è in corso una dimostrazione delle manovre di primo soccorso. John - medico di brigata - mostra come applicare un tourniquet (laccio emostatico, ndr) in caso di ferite gravi. «Il nostro battaglione di carristi e la nostra fanteria sono a Gaza. Portare via i feriti è molto pericoloso ma è il mio lavoro». Tante le storie dei suoi uomini caduti in battaglia, ma tra queste ce n’è una che non riesce a rimuovere dalla mente: «Uno dei nostri è stato colpito alla clavicola da un cecchino, ci abbiamo messo meno di un minuto per intervenire. Abbiamo provato a fare tutto il possibile per salvarlo ma purtroppo non c’è l’ha fatta. Non lo conoscevo ma è come se mi fosse morto mio figlio». Un medico salva le vite tutti i giorni, anche in guerra e anche quelle del nemico: «Se incontriamo un ferito dobbiamo curarlo. Non importa che sia un civile o un combattente di Hamas, i nostri medici devono fare tutto il possibile per salvarlo. Io stesso ho curato dei terroristi in passato, inclusi dei kamikaze che hanno cercato di farsi saltare in aria».
   In Israele la leva è obbligatoria per tutti, tre anni per gli uomini e due per le donne. Tanti sono i giovani che si ritrovano con un’arma in mano pronti a difendere il proprio paese, con tutti i rischi che comporta: «Serve disciplina, è fondamentale indirizzare i novizi. Noi siamo uomini adulti con esperienza, con le famiglie a casa che ci aspettano, non siamo diciottenni appena arruolati - spiega il tenente colonnello Daniel Helob Arama -. I rischi maggiori per i nostri soldati a Gaza sono i razzi anticarro dei terroristi e le mine. A questi si aggiungono i fucili AK-47 molto in voga tra i combattenti di Hamas. Sono minacce importanti ma non fermeranno la nostra missione, abbiamo tecnologie di difesa molto avanzate in grado di proteggere i nostri ragazzi». La logistica è un aspetto fondamentale per combattere una guerra. «Mi occupo di fornire alle nostre forze in prima linea tutto quello di cui hanno bisogno», spiega Ram, un soldato riservista che il 7 ottobre si è presentato al centro di comando pronto a dare il suo contributo: «Dopo aver realizzato cosa stava accadendo ho preparato il mio zaino e ho detto a mia moglie “non tornerò a casa finché non avrò finito la mia missione. Ci sono persone da salvare e non posso lasciare che questo accada di nuovo”». 

• VITE SOSPESE
  Vite sospese, famiglie spezzate. Ram ha una bambina di 3 anni: «Mi manda video tutti i giorni, mi chiede quanto tornerò». Ma come fa un padre di famiglia a vivere con il rimorso di aver ucciso degli innocenti? «Lo scopo di tutto questo non è uccidere più palestinesi possibile. Noi stiamo soffrendo per via di Hamas, i palestinesi hanno lo stesso problema: Hamas li sta costringendo a rimanere a Gaza con la forza, dobbiamo fermarli». Kim è una giovane soldatessa che imbraccia orgogliosa il suo fucile d’assalto di ultima generazione, un Tar-21. Non può essere impiegata a Gaza per via della poca esperienza, però è determinata: «Non avrei paura di andare al fronte. Israele è la mia patria è farò qualsiasi cosa per difenderla. Lo devo ai caduti, al mio comandante che è morto in battaglia». Proviamo a chiederle cosa pensa quando vede le immagini di feriti e morti civili di Gaza che corrono sui social ma veniamo interrotti da un superiore: «Non è una domanda a cui lei è autorizzata a rispondere». 

(Il Messaggero, 9 novembre 2023)

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Israele ripete a Biden: nessun cessate il fuoco per Gaza!

Israele non rischierà che Hamas si riorganizzi e certamente non farà concessioni finché gli israeliani saranno tenuti prigionieri a Gaza.

L'amministrazione Biden continua a fare pressione su Israele per una "pausa umanitaria", se non per un cessate il fuoco completo, nella sua offensiva contro le forze di Hamas a Gaza. Questo nonostante la Casa Bianca affermi di sostenere pienamente gli sforzi di Israele per sradicare la minaccia di Hamas che ha portato tanta morte e distruzione nel sud di Israele il 7 ottobre e ha scatenato l'attuale guerra.
   Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha confermato martedì che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto la sua ulteriore richiesta di una pausa nei combattimenti a Gaza.
   "Gli ho chiesto una pausa. Ha rifiutato", ha detto Biden rispondendo alla domanda di un giornalista durante un evento alla Casa Bianca a Washington. "Sto ancora aspettando altre cose".
   Durante una telefonata di lunedì, i due leader hanno discusso "la possibilità di pause tattiche" per consentire ai residenti di Gaza "di uscire in sicurezza dalle aree in cui sono in corso i combattimenti, per garantire che gli aiuti raggiungano i civili che ne hanno bisogno e per consentire l'eventuale rilascio di ostaggi", secondo un rapporto della Casa Bianca.
   Netanyahu ha ribadito lunedì in un'intervista con ABC News che "non ci sarà alcun cessate il fuoco a Gaza senza il rilascio dei nostri ostaggi".
   Una simile pausa, ha detto Netanyahu, "ostacolerebbe lo sforzo bellico. Ostacolerebbe i nostri sforzi per liberare gli ostaggi. L'unica cosa che funzionerà su questi criminali di Hamas è la pressione militare che eserciteremo", ha spiegato.
   Le forze israeliane hanno aperto ogni giorno da sabato un corridoio umanitario nella Striscia di Gaza per consentire ai residenti del nord di Gaza di evacuare attraverso Wadi Gaza verso la zona sicura a sud, nonostante il fuoco dei terroristi di Hamas.
   Avichay Adraee, il portavoce di lingua araba delle Forze di Difesa Israeliane, ha pubblicato martedì un video di un convoglio di centinaia di residenti di Gaza che camminavano verso sud lungo il percorso di Salah al-Din. Alcuni di loro sembravano alzare le mani e altri portavano bandiere bianche.

• Herzog a Harris: nessun cessate il fuoco fino alla restituzione degli ostaggi
  Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto martedì alla vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris che non ci sarà alcun cessate il fuoco nella lotta contro Hamas finché il gruppo terroristico palestinese non rilascerà gli oltre 240 ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza.
   Harris ha chiamato Herzog per esprimere la sua solidarietà allo Stato ebraico mentre il Paese osservava una giornata di commemorazione un mese dopo l'invasione di Hamas del 7 ottobre e il massacro di 1.400 persone.
   Herzog "ha ribadito l'apprezzamento del popolo israeliano per l'incrollabile sostegno del presidente Biden e della sua amministrazione  e  "ha ribadito la dichiarazione del Primo Ministro Netanyahu che non ci può essere cessate il fuoco senza il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas, che includono donne, uomini, anziani, bambini e neonati di soli 10 mesi", si legge nel comunicato.
   Harris "ha espresso il suo sostegno al diritto di Israele all'autodifesa e ha sottolineato l'importanza del benessere della popolazione civile e della situazione umanitaria a Gaza".
   Nella sua risposta, Herzog ha sottolineato che Gerusalemme sta rispettando il diritto umanitario internazionale, continuando a difendersi e a distruggere le infrastrutture terroristiche di Hamas radicate nella popolazione civile della Striscia di Gaza.
   Il Presidente ha anche fatto riferimento al "continuo impegno di Israele nella consegna di aiuti umanitari a Gaza, che sono aumentati in modo significativo negli ultimi giorni, anche se agli ostaggi israeliani è stato negato l'accesso alla Croce Rossa Internazionale e non è stata data alcuna informazione sul loro benessere", si legge nel comunicato.
   Infine, i due leader hanno parlato della loro comune preoccupazione per il drammatico aumento dell'antisemitismo nel mondo, con Herzog che ha espresso la sua preoccupazione per la morte di un sostenitore di Israele a seguito di una manifestazione pro-Hamas negli Stati Uniti.

(Israel Heute, 9 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’innocenza dei civili e l’ipocrisia americana

Sentiamo ripetere spesso in questi giorni che, come da copione, la reazione di Israele a Gaza è eccessiva, sproporzionata, criminale, il solito ineffabile Antonio Guterres ci informa per sua bocca o bocca a cui vengono fornite le parole più di effetto, che Gaza è “un cimitero di bambini”.
Le cifre relative ai morti civili a Gaza le fornisce doviziosamente Hamas, lo stesso che ci informò che l’ospedale Al Shifa era stato bombardato dagli israeliani e che erano morte 500 persone.
Ma ammettiamo pure che le cifre fornite da Hamas siano vicine alla verità. Sicuramente sono parecchie le migliaia di vittime civili, e sicuramente molte di esse sono bambini. Non esistono guerre in cui i bambini non muoiano, non si tratta di una affermazione cinica, si tratta di una constatazione ovvia. Se non si vuole che in guerra muoiano i bambini c’è solo un modo per evitarlo, non farla.
Gli Stati Uniti, assai sensibili alle vittime civili, e continuamente prodighi di esortazioni nei confronti di Israele a ridurne il numero e a concedere pause umanitarie, sono gli stessi che a Mosul, nel 2017, per distruggere l’Isis che ne aveva fatto una sua roccaforte diedero vita a una delle più brutali guerre urbane della storia contemporanea, bombardando a ritmo serrato la citta e distruggendo uno dopo l’altro gli edifici. Il numero preciso di morti civili, tra cui bambini, non si conosce con esattezza, né, con ogni probabilità, si conoscerà mai. La stima dell’Associated Press è tra i 5000 e gli 11,000, quella dei Servizi curdi, la innalza a 40,000.
Non si ricordano pressanti esortazioni sugli americani per aprire corridoi umanitari e nemmeno affermazioni da parte di Guterres su Mosul, cimitero di bambini.
L’obbiettivo americano era di distruggere l’ISIS, e per raggiungerlo era legittimo, secondo loro, radere Mosul al suolo, ma per Israele, si sa, valgono criteri difformi, anche se il suo obbiettivo è il medesimo che gli Stati Uniti si erano dati nel 2017, distruggere una formazione terroristica islamica che, quanto a radicalismo e a capacità di efferatezze, il 7 ottobre scorso ha superato l’ISIS.
Concludiamo, dedicandoci a un altro refrain, quello dell'”innocenza” dei gazawi, ovvero, della non colpevolezza dei civili per le atrocità commesse da Hamas, nei confronti del quale nessuno dei due milioni e mezzo di abitanti della Striscia si è mai ribellato dal 2007 a oggi.
L'”innocenza” dei civili, della popolazione, relativamente ai regimi dispotici che hanno permesso venissero in essere, e contro i quali non si sono mai ribellati, (come è avvenuto più volte in Iran, per esempio, con, purtroppo, scarso successo), è una questione scabrosa. Con il medesimo criterio bisognerà sostenere che fossero innocenti anche i sessanta milioni di tedeschi che negli anni ’40 fecero del Führer il loro incontrastato beniamino (con una parentesi per i bambini, loro sì, vittime innocenti di un clima culturale nutrito di odio).
Impossibile separare i fiancheggiatori e i sostenitori dagli avversatori e dai ribelli, il criterio, a Gaza manca.
In una guerra, come in quella attuale di Israele a Gaza, e come fu per gli Stati Uniti a Mosul, la morte dei civili, uomini, donne, bambini, diventa, come in ogni guerra, il corollario inevitabile dell’obbiettivo che ci si è posti, distruggere il nemico.

(L'informale, 9 novembre 2023)

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Il vento dell’odio sul Regno Unito. Parla l’esperto Michael Whine

di Nathan Greppi

Da quando si sono verificati gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la conseguente reazione israeliana contro il gruppo terroristico a Gaza, nel Regno Unito, così come in molti altri paesi europei, si sono moltiplicati esponenzialmente gli episodi di antisemitismo e le manifestazioni contro Israele. Un clima che ha portato anche a faide interne al Partito Laburista, dove l’attuale leader Keir Starmer dal 2020 cerca di ripulire il partito dagli elementi antisemiti che proliferavano sotto la guida del suo predecessore Jeremy Corbyn.
   A fare il punto della situazione con Mosaico, forte di una pluridecennale esperienza in merito, è il ricercatore Michael Whine: co-fondatore del Community Security Trust (CST), la più importante organizzazione britannica per la lotta all’antisemitismo, vi ha lavorato per 35 anni, ricoprendo nell’ultimo periodo il ruolo di Direttore per il Governo e gli Affari Internazionali. Negli anni è stato consulente per il contrasto dei crimini d’odio per diverse istituzioni, tra le quali il World Jewish Congress, il Ministero della Giustizia britannico e il Crown Prosecution Service (il pubblico ministero inglese per i procedimenti penali). Ha scritto decine di saggi e articoli per riviste scientifiche in merito ai temi dell’antisemitismo, del terrorismo e degli estremismi politici e religiosi.

- Nelle ultime settimane, abbiamo visto molte proteste antisraeliane nel Regno Unito, e persino persone che strappavano i manifesti degli israeliani rapiti. Quanto è diffuso l’odio antisraeliano e antiebraico nel paese?
   L’antisemitismo è aumentato drammaticamente dall’inizio delle ostilità il 7 ottobre. Secondo il CST, 1019 episodi gli sono stati riportati negli ultimi 28 giorni, il più alto tasso mai registrato in un tale periodo di tempo. Questo numero è probabilmente destinato ad aumentare intanto che si indaga su ulteriori rapporti, ma già adesso includono 47 aggressioni, 67 casi di danni e vandalismi a proprietà ebraiche, 102 minacce rivolte direttamente ai singoli e altro ancora.
Si è verificato anche un aumento considerevole della propaganda antisraeliana, in alcuni casi sanzionabile secondo il diritto penale. La settimana scorsa, il Crown Prosecution Service ha annunciato che due persone verranno indagate per materiali antisemiti che hanno esposto ad una manifestazione antisraeliana.

- Dopo che è emerso come Israele non c’entrava con il razzo caduto vicino all’ospedale, la BBC si è dovuta scusare per aver dato credito alla versione di Hamas. Nei media inglesi vi è un forte pregiudizio nei confronti d’Israele?
   Generalmente i media cartacei inglesi sono neutrali, e molti dei più importanti quotidiani nazionali sono filoisraeliani e riconoscono l’antisemitismo delle organizzazioni palestinesi. La stampa periodica di solito è pro-Israele, anche se propensa a pubblicare titoli beceri in prima pagina per attirare i lettori.
   I problemi sorgono con le principali emittenti televisive e radiofoniche. La BBC, che sarebbe tenuta ad adottare una posizione neutrale, nell’ultimo mese ha licenziato o sospeso molti dei suoi corrispondenti dal Medio Oriente a causa di discorsi antisraeliani. All’interno della comunità ebraica e del Parlamento, vi è una critica diffusa verso la BBC per aver considerato la propaganda di Hamas come una fonte veritiera senza aver prima verificato i fatti, e per aver chiamato quelli di Hamas “miliziani” invece che “terroristi”.
   Personalmente, già 25 anni fa ho partecipato ad incontri con i piani alti della loro redazione, per esprimere la nostra preoccupazione in merito alle loro trasmissioni antisraeliane. In passato hanno nominato una figura chiave per monitorare il loro lavoro, ma pare che siano ritornati alle vecchie abitudini. Le emittenti commerciali, quali l’ITN, Sky e i canali locali, sono più attente al riguardo.
   Quello che invece accomuna tutti i media è la preoccupazione per i civili palestinesi ritrovatisi in mezzo al fuoco incrociato, anche se in pochi fanno notare che è l’Egitto a rifiutarsi di far passare i profughi.

- Vi è una divisione interna ai laburisti tra le posizioni di Starmer e gli elettori filopalestinesi. Il partito è cambiato dopo che Corbyn ha perso la leadership, o hanno ancora problemi di antisemitismo?
   Il Partito Laburista sta ancora attraversando una fase dei cambiamenti imposti da Keir Starmer e dai suoi alleati politicamente moderati, ma rimane ancora molto lavoro da fare. In anni recenti, il Labour si è presentato come la scelta naturale per gli elettori musulmani, e ciò si riflette nelle loro critiche nei confronti di Starmer degli ultimi giorni. Molti musulmani eletti in cariche pubbliche si sono dimessi in seguito al suo rifiuto di chiedere a Israele un cessate il fuoco nell’offensiva contro i terroristi.

- Il Primo Ministro scozzese Humza Yousaf si è mostrato più critico verso Israele, soprattutto perché aveva i suoceri nella Striscia di Gaza (riusciti a uscirne assieme ad altri cittadini britannici, ndr). Tra le opinioni pubbliche inglese e scozzese, vi sono delle differenze per quanto riguarda Israele e l’antisemitismo?
   La Scozia è tradizionalmente filosemita e filoisraeliana. Il governo scozzese mantiene buone relazioni con il Comitato Scozzese delle Comunità Ebraiche. Nell’ultimo lavoro di cui mi sono occupato prima della pandemia da Covid, trascorsi una giornata ad Edimburgo con alti rappresentanti della polizia scozzese e del governo, negoziando per l’organizzazione di attività di addestramento congiunte che erano vicine ad essere istituite.

- Ritiene che nel Regno Unito vi sia il rischio di attentati terroristici contro la comunità ebraica? Nel caso, crede che il governo sia abbastanza consapevole del rischio oppure no?
   Il rischio c’è, e proviene dai gruppi jihadisti come Hamas, così come dai terroristi di estrema destra. Il governo britannico e la polizia sono consci della minaccia, e hanno dimostrato le loro preoccupazioni finanziando i servizi di sicurezza per tutte le scuole ebraiche, aumentando i pattugliamenti e incontrandosi regolarmente con il CST. Proprio il CST, alcuni anni fa, istituì un incontro per valutare la minaccia terroristica al quale parteciparono ufficiali di polizia provenienti da tutta la Gran Bretagna.

(Bet Magazine Mosaico, 9 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 32. La guerra aerea e quella di terra

di Ugo Volli

La situazione di Gaza prima della guerra
  Vale la pena di ripetere un dato su quel che succede in Israele e dintorni, che sempre è ignorato dalla propaganda “pacifista”: non si tratta di un’operazione di Israele, ma di una guerra. Le guerre cominciano di solito da una parte sola e vanno avanti con scambi fra le due parti, fino a che una cede e smette. Così è stato per questo conflitto. Esso è nato in una situazione di calma abbastanza buona, in relazione alle abitudini della regione. Israele lasciava passare dal valico con Gaza tutte le merci che servivano alla popolazione, perfino quelle di cui si sapeva che avessero un possibile uso “doppio” (civile e militare), come i tubi metallici per l’acqua che Hamas ha trasformato poi spesso in razzi; permetteva che il Qatar passasse all’amministrazione di Gaza (cioè a Hamas) molti milioni di dollari ogni mese, trasportati in contanti dai suoi inviati; ammetteva migliaia di lavoratori ogni giorno a lavorare in Israele. Di recente su proposta del comando militare incaricato dell’amministrazione dei palestinesi, questi permessi di lavoro ai frontalieri erano cresciuti fino a quasi ventimila ingressi al giorno (e oggi ci si chiede tristemente quanti di essi fossero terroristi che in questa maniera potevano ispezionare il territorio, una conoscenza che poi sarebbe stata sfruttata per la strage). C’erano ogni tanto manifestazioni sotto la barriera di sicurezza: i responsabili della sicurezza israeliana pensavano che fossero gesti simbolici per mantenere la presa sugli “estremisti” e invece erano prove e preparativi per l’invasione. Insomma, non c’era scontro, a Gaza i beni anche di lusso non mancavano, c’erano alberghi a quattro stelle, saloni con automobili costosissime, iPhone dell’ultima generazione, mercati riforniti con cibi raffinati. C’erano anche poveri, naturalmente, ma non mancava una classe media e soprattutto un certo numero di super-ricchi, di solito appartenenti alla dirigenza di Hamas o a essa vicini. Tutt’altro che una “prigione a cielo aperto”, come ripetono i pappagalli della propaganda anti-israeliana; anche perché era aperta la frontiera con l’Egitto. L’idea di Israele era che fosse bene far crescere questo benessere, che avrebbe convinto la gente sui vantaggi della convivenza.

(Notizie su Israele, 9 novembre 2023)

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La guerra nei cieli
  Invece il 7 ottobre, senza pretesti, di sorpresa, i terroristi hanno iniziato una guerra, mandando 3000 terroristi a compiere la strage di civili israeliani e sparando migliaia di missili su Israele. Israele ha risposto, ha respinto i terroristi, ha iniziato a smantellare con i bombardamenti aerei le strutture di Hamas, infine è entrato a Gaza. Questa è una guerra provocata da Hamas (e dei suoi soci, da non dimenticare mai: Jihad Islamica e Brigate dei Martiri di Al Aqsa, affiliata a Fatah). È importante considerare che il conflitto ha continuato e continua a essere una guerra che ha due lati (anzi quattro o cinque, perché bisogna considerare gli alleati di Hamas in Libano, Siria, Yemen e in Giudea e Samaria, che sono intervenuti nel conflitto). Infatti ancora i terroristi sparano su Israele, non solo dentro Gaza, dove essi ogni giorno attaccano in forze i soldati israeliani quando possono, ma pure sullo stesso territorio israeliano. Anche ieri ci sono stati dei lanci di missili da Gaza diretti a Tel Aviv e dintorni, che per fortuna per lo più sono finiti in mare; altri missili continuano ad arrivare dal nord e dal nord-est in quantità crescenti, e perfino dallo Yemen, a 1600 chilometri di distanza. Si calcola che ci siano stati finora circa 10.000 missili lanciati su Israele, ciascuno con un carico esplosivo capace di distruggere una casa e di uccidere decine di persone. La guerra missilistica, tutta diretta a obiettivi civili, sulle città e non sulle basi militari (il che è un crimine di guerra) non ha provocato le terribili stragi cui mirava solo perché Israele ha investito moltissimo sulla difesa contro questi attacchi: quasi ogni casa, asilo, scuola, ufficio ha un rifugio o almeno una stanza blindata in cui gli abitanti minacciati possono rifugiarsi. E soprattutto c’è una difesa di missili antimissile in tre strati: la “Cupola di Ferro” per i lanci da vicino, che in questa guerra ha ottenuto circa l’88% di abbattimenti fra missili e droni; la “Fionda di Davide” per missili di portata intermedia (intorno alle centinaia di chilometri) che ha eliminato tutte le 60 minacce di questo tipo (100% di successi) e “Freccia 7” per i missili balistici, sperimentata per prima volta, che ha fatto esplodere fuori dall’atmosfera entrambi i missili di portata intercontinentale lanciati dallo Yemen, in quella che è forse la prima battaglia spaziale della storia. Contro i missili da crociera dello Yemen (un proiettile che viaggia piuttosto lentamente ma su lunghe distanze, anche raso al suolo e con capacità di manovra diversiva), sono intervenuti con successo gli aerei F35. Anche questa è una novità assoluta.

L’operazione di terra
  Nel frattempo continua l’operazione di terra, che serve a distruggere l’apparato di Hamas e degli altri gruppi, ma mira anche a impedire i lanci di razzi, che continuano, distruggendo i lanciarazzi che sono stati trovati anche dentro scuole e moschee, sotto parchi giochi e nelle case. Ma uno scopo importantissimo dell’offensiva di terra è la liberazione degli ostaggi, di cui purtroppo non si hanno notizie. Sarebbe sbagliato contrapporre questi obiettivi. I terroristi come insegna il caso Shalit, non liberano spontaneamente le persone che hanno rapito, ma cercano di farne oggetto di un infame commercio. Solo la pressione militare può salvare gli ostaggi.

(Shalom, 8 novembre 2023)

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Israele: ucciso il capo del progetto missilistico di Hamas

Nella notte compiute altre importanti missioni

di Sarah G. Frankl

GERUSALEMME – Le forze di difesa di Israele (IDF) hanno reso noto che questa notte è stato ucciso Muhsin Abu Zina, uno dei più importanti esperti di produzione di missili e razzi di Hamas, considerato dallo Shin Bet il capo del progetto missilistico del gruppo terrorista palestinese che da decenni tiene in ostaggio la Striscia di Gaza.
Per il servizio segreto dell’esercito Muhsin Abu Zina era invece il capo della divisione “industrie e armamenti” del gruppo terroristico.
In ogni caso questa notte è stata decapitata un’altra testa dell’Idra del terrore.
In operazioni sul terreno l’IDF ha eliminato una squadra di terroristi in possesso di micidiali armi anticarro mentre un attacco aereo ha eliminato una intera cellula di terroristi che si apprestava al lancio di missili e razzi contro il territorio israeliano.
Il Ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha detto che l’IDF sta ora operando “nel cuore” di Gaza City e sta “stringendo il cappio” attorno ad Hamas.
Nel frattempo il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha esortato la Croce Rossa Internazionale a chiedere accesso agli ostaggi per verificare le loro condizioni.
Netanyahu ha anche detto che l’IDF sta entrando in profondità a Gaza in un modo che “Hamas non se lo sarebbe mai aspettato”.
In merito alla possibile apertura del fronte nord, Netanyahu ha invitato Hezbollah a “non commettere il più grande errore della sua vita” entrando in guerra con Israele.

(Rights Reporter, 8 novembre 2023)

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Le gallerie sventrate di Hamas. A Gaza prime bandiere bianche

di Fiamma Nirenstein

Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il sud e portano bene in alto, che si vedano, delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la loro marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel nord assediato da Tzahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante per Hamas, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l’Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l’episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, tuttavia c’è la sensazione che la strada sia segnata: l’esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di Gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime.
   La sua maggiore caratteristica è l'incredibile rete di gallerie: gallerie piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo, acqua, benzina. Nei tunnel c’è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Mohammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura, dicono loro stessi, 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a esploderne gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada. 
   Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all’improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l’ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L’avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati di Hamas, ogni centimetro della città di Gaza è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento al sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.

(il Giornale, 8 novembre 2023)

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Hamas rappresenta una parte molto ampia del popolo palestinese

Il massacro è stato sostenuto a gran voce dalla maggior parte dei musulmani di tutto il mondo, comprese le città più popolose dell'Occidente.

di Yossi Kuperwasser
Generale di Brigata

GERUSALEMME - Continuiamo a sentir dire da importanti politici occidentali, tra cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Non sono d'accordo. C'è un'ampia fetta del popolo palestinese che vede Hamas come suo rappresentante, non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Giudea e Samaria. Hamas rappresenta una parte molto importante del popolo palestinese e questo dovrebbe essere tenuto presente quando si parla del "giorno dopo la guerra". Molti civili di Gaza hanno seguito i militanti di Hamas in Israele per saccheggiare e uccidere, mentre nelle strade di Gaza gli attacchi venivano festeggiati.
   Per questi motivi, Fatah - il partito al potere dell'Autorità Palestinese - ha evitato le elezioni negli ultimi 18 anni, ritenendo che Hamas avrebbe vinto. L'età avanzata del leader palestinese Mahmoud Abbas, 87 anni (ne compirà 88 la prossima settimana), rende il suo governo fragile e precario. Ha già perso il controllo della Samaria e Hamas gode del sostegno dei sindacati studenteschi delle principali università palestinesi. Dopo il massacro del 7 ottobre, il sostegno ad Hamas in Cisgiordania è passato dal 44% al 58%.
   Nei social media arabi, gli attacchi terroristici di ottobre sono stati visti come una vittoria storica per l'Islam. Per anni, sia il nazionalista e "laico" Fatah che l'islamista Hamas dei Fratelli Musulmani hanno usato una simile retorica antiebraica basata sul Corano. Il defunto leader religioso di Hamas, lo sceicco Yousef Kardawi, invitava ad atti di terrorismo contro gli ebrei in Israele, come gli attentati suicidi. L'odio verso Israele e gli ebrei ha mantenuto Hamas popolare nonostante la corruzione e l'oppressione dei suoi cittadini.
   Sia Hamas che Fatah hanno la stessa narrazione: la negazione dell'identità ebraica e il rifiuto del sionismo - o della sovranità ebraica sotto forma di Stato nazionale. Vedono gli ebrei in una luce negativa e sperano di sostituire completamente Israele. L'aggressiva interpretazione islamista dell'Islam da parte di Hamas glorifica l'omicidio e la crudeltà verso coloro che considera nemici dell'Islam.
   La vittoria israeliana su Hamas rappresenta anche una sfida teologica, poiché viene percepita come un'umiliazione dell'Islam e rafforza l'odio verso Israele. Il massacro è stato sostenuto a gran voce dalla maggior parte dei musulmani di tutto il mondo, anche nelle città più popolose dell'Occidente. I musulmani che si oppongono ad Hamas corrono il rischio di essere visti come traditori dai loro correligionari e quindi rimangono in silenzio.
   Il leader di Hamas Khaled Mashaal ha recentemente dichiarato che la sofferenza, la devastazione e la distruzione della Striscia di Gaza sono sacrifici necessari per vincere la guerra contro gli ebrei.
   Parallelamente a questa retorica aggressiva, Hamas e l'Autorità Palestinese stanno commercializzando una componente del vittimismo palestinese che demonizza gli israeliani sia in pubblico che in Occidente.
   L'Occidente e la comunità internazionale ignorano deliberatamente il fatto che Hamas rappresenta una larga parte della popolazione palestinese e che l'ideologia di Fatah è simile a quella di Hamas. Ammettere questo significherebbe per l'Occidente accettare le affermazioni di Israele sulla difficoltà di fare la pace con i palestinesi. L'Occidente preferisce credere che una sconfitta di Hamas lascerebbe una popolazione cooperativa che accoglierebbe una leadership moderata.
   Chi sono i potenziali leader palestinesi dopo l'operazione delle Forze di Difesa Israeliane e dopo Abbas? Non ci sono candidati promettenti. L'ex leader chiave dell'OLP Muhammad Dahlan, originario di Gaza e ora residente ad Abu Dhabi, è un convinto oppositore di Israele, come il suo corrotto e doppiogiochista mentore Yasser Arafat. Salam Fayyad è un'altra opzione di leadership, ma è considerato troppo debole per porre fine al terrore a Gaza. Entrambi sono legati alla narrativa anti-israeliana.
   Interverranno altri arabi? È improbabile che gli Stati del Golfo intervengano politicamente, ma probabilmente sosterranno Gaza economicamente. L'Autorità Palestinese, attraverso il suo Primo Ministro Mohamed Shtayyeh, ha dichiarato che l'OLP non è interessata a un ritorno a Gaza a meno che non significhi la creazione di uno Stato palestinese permanente, che comporterebbe un miglioramento nella comunità internazionale.
   Senza chiedere ai palestinesi di cambiare la rappresentazione negativa di Israele, la prevista vittoria di Israele a Gaza avrà uno scarso impatto politico. Una leadership imposta a Gaza è destinata a fallire, come è accaduto durante il periodo di Oslo e il disimpegno da Gaza.
   Cambiare una narrazione richiede molti anni, almeno una generazione. La ricostruzione della Striscia di Gaza non riguarda solo la costruzione di edifici o infrastrutture, ma anche le narrazioni palestinesi che devono essere cambiate e ricostruite. Questo include l'indottrinamento anti-israeliano nel sistema educativo e l'incitamento al terrore, compresi i pagamenti alle famiglie dei terroristi. Se questo cambiamento fondamentale non sarà una priorità assoluta, Israele dovrà governare Gaza involontariamente per molto tempo.  

(Israel Heute, 7 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una modesta proposta

di Davide Cavaliere

Il tredici settembre di quest’anno gli Accordi di Oslo hanno compiuto trent’anni. Con quella firma, Yasser Arafat, a nome della cosiddetta «Organizzazione per la Liberazione della Palestina», s’impegnava, e con lui il suo «popolo», a una risoluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente. 
   Da allora, l’Autorità Nazionale Palestinese, istituita per volontà dell’OLP, ha violato e disatteso ogni singola clausola di quell’intesa. Arafat e i suoi gangster hanno, in primo luogo, usato l’Accordo come mezzo per ottenere il controllo su parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza; successivamente hanno convertito tutto il territorio da loro controllato in basi per lanciare aggressioni terroristiche contro Israele.
   I leader arabi palestinesi non hanno mai smesso di ripetere che il loro obiettivo è la sparizione di Israele e una Palestina judenfrei. In questo senso, si pongono in diretta continuità con il nazi-islamista Amin al-Husseini, propugnatore di una «soluzione finale» al «problema sionista» in Palestina. 
   I mass media controllati dall’Autorità sono stati completamente «nazificati» dopo gli Accordi di Oslo. Le oscenità antisemite trasmesse dalle televisioni dall’ANP superano in sadismo e grottesco la propaganda nazista degli anni Trenta. La Striscia di Gaza, come vediamo anche in questi giorni, è stata pesantemente fortificata e militarizzata.  
   È in corso un crescente  dibattito su come Israele dovrebbe rispondere al comportamento degli arabi palestinesi. Israele dovrebbe, innanzitutto, prendere atto dell’impossibilità di creare uno Stato palestinese indipendente. La controproducente quanto inutile «soluzione dei sue Stati» dev’essere dimenticata. 
   Non solo gli arabi palestinesi non hanno mai avuto alcun diritto legittimo a uno Stato; anche se, in cambio della pace, Israele si è dimostrato disposto a trascurare questo fatto, ma hanno perso qualunque possibilità di ottenerne uno a causa del comportamento adottato negli ultimi decenni, caratterizzato da una brutalità omicida e stragista con ben pochi precedenti.
   L’inganno palestinese deve cessare. Basta fingere che esista una «popolo palestinese» nativo avente diritto a una qualche statualità.  I palestinesi sono arabi, e gli arabi hanno già 22 stati.  Non ne otterranno un altro nelle terre che spettano, storicamente e giuridicamente, a Israele. Qualsiasi arabo palestinese che desideri godere di una sovranità nazionale è libero di spostarsi in uno di questi 22 Stati, ma non può pretendere alcuna sovranità in territorio israeliano, vale a dire nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.  
   Lo Stato d’Israele deve risolvere la «questione palestinese» in modo unilaterale, chiarendo che Gaza e la Cisgiordania gli appartengono. Nel territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo non dovrà essere consentita alcuna forma di sovranità non israeliana. In particolar modo, dovrà anche essere ribadito che la Cisgiordania, ossia la Giudea e Samaria, fanno da sempre parte della patria nazionale ebraica. 
   Gli arabo palestinesi che vivono in Giudea e Samaria, in seguito a una definitiva annessione da parte dello Stato d’Israele, non dovranno ricevere mai la cittadinanza israeliana. Coloro che non desidereranno vivere sotto la sovranità israeliana saranno liberi di andarsene.  Israele potrebbe, persino, prendere in considerazione la possibilità di fornire sostegno finanziario e incentivi a coloro che lo faranno. 
   Gli arabi palestinesi avranno lo stesso status dei «meteci» dell’antica Grecia: stranieri residenti privi dei diritti politici. Molti di loro hanno ancora passaporti e cittadinanza della Giordania, dunque saranno considerati giordani residenti. 
   I villaggi e le città a maggioranza arabe dovranno essere inseriti in due liste: una lista bianca e una lista nera. Essi verranno assegnati alle due liste basandosi interamente su un unico fattore: la violenza. Le zone in cui si verificheranno atti di violenza, compresi i lanci di pietre, verranno inserite nella lista nera.  Le aree in cui la violenza è assente saranno, invece, inserite nella lista bianca. 
   Quelli nella lista bianca gestiranno i propri affari senza interferenze da parte delle autorità israeliane. I residenti delle città della lista bianca potranno svolgere lavori pendolari nelle città israeliane. Gli altri saranno posti sotto stretta sorveglianza militare e verrà loro impedita la libera circolazione. 
   Solo adottando misure simili, Israele potrà garantire ai suoi cittadini sicurezza e pace, ulteriori concessioni, territoriali e politiche, agli arabi palestinesi non farebbero altro che perpetuare il conflitto. 

(L'informale, 8 novembre 2023)

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Israele è la mia gente e il coltello di nonno

Intervento al convegno  “Davide doveva farsi uccidere da Golia”. Latina 

di Lidano Grassucci
Direttore di Fatto a Latina

Non vi parlerò oggi di ragione, di ragioni, di storia, di geopolitica. Elementi che pure ci sono e mi portarono ad innamorarmi della storia del medioriente durante il periodo universitario, ci sarà chi meglio di me potrà farlo. Io vi parlerò di suggestioni, di sensazioni, di cose che mi vengono da dentro.
   Premetto che sono socialista non pacifista, che la pace se ingiusta non è, non sarà, una mia meta. Sono per la giustizia e contro l’ingiusto rivendico il diritto di resistenza. Mio nonno Lidano mi insegnò che il coltello serve a tagliare il pane, a sbucciare la mela, ma anche a riparare il torto e lo devi sempre avere. Ho pietà per i pacifisti come per i baciapile, non mi lego a questa ipocrita schiera e riparo il torto non perdono.
   Detto questo entro nelle mie suggestioni. Ogni volta che vado nel ghetto di Roma, ogni volta che studio o mi occupo di storia, trovo nomi del mio posto: Sermoneta, Piperno, Sonnino, Terracina, Fondi, Di Segni, Di Veroli. Sono cognomi che raccontano di quando vivevamo insieme nelle nostre citta. Insieme. Poi rammento quella bellissima armonia che trovammo con il carciofo: i miei contadini lo sapevano coltivare come nessuno, ma i fratelli maggiori ebrei lo sapevano cucinare oltre ogni umana possibilità. Sono la mia gente da secoli e noi siamo questa gente.
   Poi vi racconto di un uomo Quirino Ricci, detto Cucchiarone, che aveva già 5 figli, viveva a Bocca di Fiume, da Sezze vennero due amici ebrei a chiedergli di tenere i loro figli per salvarli. Quirino doveva scegliere tra mettere a rischio certo i suoi figli o restare indifferente rispetto a quei due bimbi. Non ci penso molto: lassatei atecco. Chiamò i suoi figli di sangue e gli disse “da oi, quischi su frachi vostri”. Naturalmente, allora come ora, ci sono baciapile, benpensanti, anime pie che non amano bontà ed ebrei che andarono dai fascisti e dai tedeschi a segnalare i troppi figli di Cucchiarone.
   Si presentarono in forze: “sono tutti figli tuoi?”. Cucciarone non mostrò incertezza: “Tutti”. Chiesero ai bambini: “sono tutti fratelli vostri”. I sette bimbi, tutti e sette, dissero “siamo tuchi frachi”. Senza possibilità di dubbio, netti. I tedeschi dovettero desistere dal loro intendimento. Salvò tutti e sette i suoi figli.
   Quando lo chiamavano nelle scuole a raccontare questa storia c’era sempre un bimbo, o una bimba, più vivace che chiedeva “Sì, ma lei ha detto una bugia”. Cucchiarone premetteva: “i non dico le bucie”. Il bimbo curioso: “Ma non erano figli suoi”…. “no erano ditto la verità, erano frachi e tucchi figli me perchè tuchi i mammocci degli munno quando stato agli munno so figli a mi”.
   Per questo sto con Israele, anche se dentro ho secoli di cristiane persecuzioni. Mia nonna, donna piissima, sentì una omelia bellissima di don Renato Di Veroli. La ascoltò con Tetta, la vicina di casa perpetua di un anziano prete di cui non ricordo il nome, che commentò: “che bella predica, ha fatto”. Nonna annuì e commentò “Mbè ma sempre giudio è”. La famiglia di quel sacerdote si era convertita 4 secoli prima. L’antisemitismo è anche in me, come la stragrande maggioranza degli italiani stettero con le leggi razziali e non con il “rispetto dei fratelli maggiori”. Siamo stati complici o indifferenti, qualcuno giusto.
   Questa è la mia coscienza, questa la storia che ho dentro. Il 7 ottobre ho rivisto la caccia all’ebreo, la caccia a negare le differenze, il ritorno al noi contro chi osa…
   Gli ebrei nella prima metà del secolo scorso non si difesero, andarono in pace nei campi di concentramento, ne abbiamo uccisi sei milioni, sei milioni. Oggi gli ebrei si difendono in armi, da chi come Hamas e non solo, vogliono cancellarli dalla faccia della terra.
   Termino segnalando l’infamia della mia parte politica, la sinistra italiana, ogni 25 aprile la bandiera della brigata ebraica che ha combattuto per liberare l’Italia da fascisti, nazisti, viene fischiata da ragazzini che sventolano la bandiera palestinese, ignorando che il Gran Mufti di Gerusalemme stava con Hitler e non con la libertà.
   Ciascuno di noi deve rispondere alla sua coscienza, io rivendico la mia, nonna mi autorizzerà a chiedere Grazia del suo pregiudizio e a nonno dico grazie per avermi spiegato con un coltello il diritto a resistere.

(Fatto a Latina, 8 novembre 2023)

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Oltre 2000 persone alla Sinagoga Centrale per Israele, la liberazione degli ostaggi e la celebrazione della vita

Sono 2000 le persone che hanno riempito la sinagoga centrale di Milano – mentre altre 350 sono rimaste fuori – martedì 7 novembre per l’evento organizzato dalla Comunità ebraica di Milano a sostegno di Israele e per la liberazione degli ostaggi prigionieri a Gaza dal 7 di ottobre. Esattamente un mese dopo i tragici fatti, molti membri della comunità ma anche tanti amici si sono raccolti per ricordare le vittime e chiedere la liberazione degli ostaggi, di cui scorrevano in loop alcune immagini. Fuori dalla sinagoga, alcuni passeggini vuoti, in memoria dei bambini rapiti.
Molte le personalità istituzionali che sono intervenute durante la serata, moderata dal vicepresidente della Comunità Ilan Boni. Presente anche la senatrice Liliana Segre, che ad alcuni giornalisti ha dichiarato: “Se sono qui è perché la ritengo una serata importante. Non mi sento di parlare di questo argomento perché sennò mi sembra di avere vissuto invano»....

(Bet Magazine Mosaico, 8 novembre 2023)

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Spade di ferro giorno 31. Un bilancio, a un mese di distanza

di Ugo Volli

Memoria di un mese
  È passato un mese. Il 7 ottobre scorso, poco prima dell’alba, una pioggia di missili partiva da Gaza in direzione di Israele. In una ventina di punti la barriera di sicurezza (che marca un confine internazionalmente riconosciuto, ricordiamolo) veniva abbattuta con esplosivi e bulldozer e circa 3000 terroristi di Hamas, Jihad Islamica e anche del braccio militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, montati su motociclette e jeep, invadevano il territorio israeliano assalendo i kibbutz, i villaggi e le cittadine vicine al confine, devastando il prato dove si svolgeva una festa musicale, torturando, violentando, mutilando, ammazzando tutti quelli che trovavano (ebrei israeliani in grande maggioranza, ma anche beduini musulmani, lavoratori thailandesi, turisti che si trovavano lì). Alla fine il bilancio sarà di oltre 1400 morti, 240 rapiti, molte migliaia di feriti. Sicuramente la più grande azione terroristica dopo le Twin Towers, e altrettanto certamente la più crudele della storia: neonati arrostiti nel forno di cucina, donne incinte col ventre squartato e il feto fatto a pezzi davanti ai loro occhi prima di essere ammazzate, bambini decapitati, adulti mutilati, ragazze e vecchie esposte nude al ludibrio e alle percosse della folla prima di essere finite… Non bastano le parole a raccontare la crudeltà di questo massacro terrorista.

Gli errori di Israele
  Israele è stata colta gravemente impreparata. L’eccidio non sarebbe dovuto succedere, avrebbe dovuto essere preavvisato dai servizi di informazione e prevenuto dall’esercito; la politica di appeasement di Hamas era profondamente sbagliata e così la strategia di contenimento basata solo su mezzi elettronici e in genere l’ottimismo sulla convivenza. Ci sarà tempo dopo la fine della guerra per esaminare le responsabilità individuali e per attuare i cambiamenti di politica e di personale necessari: Israele ha sempre indagato sui risultati delle sue azioni e imparato dai fallimenti. Ma la colpa vera, naturalmente, è dei terroristi, non di chi è stato troppo ottimista o inaccurato nel campo israeliano.

Il progetto terrorista
  I terroristi avevano diversi obiettivi. Il primo dal punto di vista ideologico e psicologico era quello di umiliare gli ebrei, di sterminarli almeno per quel tanto che era possibile, di mostrare superiorità, disprezzo, ferocia, secondo la dottrina tradizionale dell’Islam, di indurre terrore in Israele. Questa è la ragione per cui i terroristi si sono attardati a compiere le loro sevizie su anziani, bambini e ragazzini invece di cercare degli obiettivi militari “duri”, dove avrebbero potuto fare dei danni strutturale anche più gravi. La seconda ragione era far partire una guerra vera e propria con Israele, nell’illusione di mobilitare tutto il mondo islamico o almeno la regione circostante. La terza ragione era il tentativo di sabotare la pace fra Israele e Paesi arabi, innanzitutto l’Arabia saudita, vista come un pericolo gravissimo dai loro mandanti dell’Iran e da loro stessi, che vivono di guerra e di violenza.

I risultati
  Tutti e tre questi progetti sono falliti. Israele non si è fatto terrorizzare, anzi ha superato le sue divisioni e ha ritrovato uno spirito combattivo unitario che da tempo non si vedeva; il mondo civile ha mostrato orrore per il sadismo dei terroristi e solidarietà per Israele. La guerra si è rivelata perdente e anche gli alleati dei terroristi se ne sono tenuti lontani, pur facendo discorsi bellicosi e realizzando qualche attacco propagandistico, badando però bene a non offrire a Israele un casus belli. Gli accordi di Abramo hanno tenuto, sia pur con qualche concessione di forma da parte dei governanti arabi alla propaganda panarabista. È probabile che alla fine della guerra il processo di pace possa ricominciare da dove era rimasto, anzi rafforzato dalla dimostrazione di forza di Israele.

Vincere la guerra
  Ma per questo, per mostrare la criminale inutilità della strage, Israele deve vincere la guerra, che continua: ogni giorno vi sono lanci di razzi su Israele da Gaza, Libano, Siria, Yemen. Israele deve vincere, non limitarsi a “contenere” Hamas, come in fondo ha già fatto. Deve eliminare la struttura tecnica, ma soprattutto liquidare quella umana di Hamas: neutralizzare o imprigionare e sottoporre a processo i grandi capi, i quadri intermedi, anche i terroristi semplici. Mettere Gaza in una condizione che non possa mai più essere l’isola franca del palestinismo, in cui non ci siano più fabbriche d’armi, campi di addestramento, lanciarazzi, tunnel d’assalto. Bisognerà vedere come fare, con che struttura di governo, ma l’obiettivo è questo. Se non ci riuscisse, in breve, al massimo nel giro di qualche anno, con l’aiuto dei Paesi filoterroristi, Iran in testa, il terrorismo riemergerebbe daccapo, con le stesse modalità. E come l’Europa non ha potuto ricominciare dopo la Shoah senza l’eliminazione completa del nazismo, la resa senza condizioni della Germania e il processo di Norimberga, così è per il Medio Oriente di oggi. Per questo chi vuole “cessate il fuoco” e “tregue umanitarie” provvisorie (che poi diventano definitive), salvacondotti per i capi terroristi e cose del genere, non lavora solo per salvare Hamas, ma anche per far continuare la guerra. Un mese è passato, ne dovranno passare altri, finché il lavoro di pulizia, per difficile e sanguinoso che sia, non sarà terminato.

(Shalom, 7 novembre 2023)

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Una "pausa umanitaria" per salvare Hamas?!

Qualsiasi cessazione della guerra contro Hamas, anche se temporanea, sarebbe vista come una vittoria per il gruppo terroristico e i suoi sostenitori.

di Bassam Tawil

L'amministrazione Biden ha esercitato pressioni su Israele affinché accettasse "pause umanitarie" nella guerra contro il gruppo terroristico Hamas, sostenuto dall'Iran, i cui membri hanno compiuto il massacro del 7 ottobre in cui sono stati uccisi 1.400 israeliani e feriti altre migliaia. Hamas ha anche rapito più di 240 israeliani nella Striscia di Gaza, tra cui bambini, donne e anziani.
   Chiedendo una "pausa umanitaria" nella guerra, l'amministrazione Biden sta offrendo ad Hamas un'ancora di salvezza. Una pausa o un cessate il fuoco permetterebbe ad Hamas di riorganizzarsi e preparare nuovi attacchi contro gli israeliani.
   Il 4 novembre, tuttavia, il Segretario di Stato americano Antony Blinken - a suo merito e a quello dell'amministrazione Biden - ha respinto le richieste di un cessate il fuoco, in quanto "tale pausa permetterebbe al gruppo militante palestinese Hamas solo di riorganizzarsi e attaccare nuovamente Israele". Il giorno successivo, tuttavia, Blinken ha continuato a chiedere "pause umanitarie", che Hamas avrebbe utilizzato per preparare nuovi attacchi. Per Hamas, ogni pausa o cessate il fuoco è un'ancora di salvezza che lo aiuta a lanciare attacchi.
   "C'è stato un cessate il fuoco. Era prima del 7 ottobre", ha detto il nuovo presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti Mike Johnson, "e Hamas l'ha infranto".
   David Friedman, ex ambasciatore statunitense in Israele, ha recentemente osservato su Fox News che i bombardamenti non sono continui e che Israele ha sempre facilitato la consegna di aiuti umanitari nel sud di Gaza. Ha riferito che Hamas ha allestito un grande schermo nel nord di Gaza per proiettare un film di "greatest hits" di Hamas la scorsa settimana, al quale hanno assistito circa 1.000 gazesi - quindi c'è ovviamente molta energia.
   Il 4 novembre, Hamas ha approfittato di una finestra di opportunità umanitaria concessa da Israele ai residenti di Gaza e ha attaccato gli israeliani con colpi di mortaio e missili anticarro. "Mentre l'IDF apriva una strada umanitaria per i residenti di Gaza diretti a sud, i terroristi dell'organizzazione terroristica di Hamas hanno attaccato le forze coinvolte nell'apertura", ha dichiarato l'IDF.
   I leader di Hamas, nascosti in una rete di tunnel, chiaramente non si preoccupano del benessere o della sicurezza dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Hamas ha stabilito le sue basi militari, i lanciarazzi, i depositi di munizioni e i posti di comando all'interno, sotto o vicino a infrastrutture civili come scuole, ospedali, parchi giochi per bambini, case e moschee.
   Hamas ha anche impedito ai civili di fuggire verso zone sicure nel sud della Striscia di Gaza. I cecchini di Hamas avrebbero ucciso decine di bambini e donne che cercavano di raggiungerle. Questo avviene dopo che Israele ha ripetutamente avvertito i residenti di Gaza di utilizzare corridoi sicuri per raggiungere il sud della Striscia di Gaza.
   La settimana scorsa, Hamas ha approfittato di una "pausa umanitaria" introdotta da Israele su pressione degli Stati Uniti per cercare di far entrare clandestinamente in Egitto i terroristi feriti con il pretesto di evacuare i civili feriti. Le bugie e gli inganni di Hamas sono consistenti. Un alto funzionario statunitense ha rivelato che Hamas ha tentato di far uscire di nascosto alcuni suoi membri da Gaza in ambulanze attraverso il valico di Rafah verso l'Egitto.
   Una "pausa umanitaria" significherebbe anche consegnare centinaia di migliaia di litri di carburante per i generatori di Hamas utilizzati per fornire aria pulita ed elettricità alla sua rete sotterranea di tunnel, che il funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha detto essere stati costruiti per i terroristi di Hamas e non per i civili. Secondo funzionari statunitensi, Hamas ha già una scorta di oltre 200.000 litri di carburante per i suoi tunnel. La settimana scorsa, l'IDF ha pubblicato una registrazione audio di una conversazione tra un comandante di Hamas e il direttore dell'ospedale indonesiano di Gaza, in cui il comandante affermava che Hamas stava prendendo il carburante dalle scorte dell'ospedale.
   L'amministrazione Biden dovrebbe condannare Hamas per aver costretto i palestinesi - a cui tiene così tanto da sparare contro di loro per impedire che si mettano in salvo - a morire come scudi umani nella sua guerra per massacrare gli israeliani e distruggere Israele.
   L'amministrazione Biden dovrebbe continuare a chiedere il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas, come ha già fatto. Inoltre, l'amministrazione Biden potrebbe anche invitare i palestinesi di Gaza a sollevarsi contro il gruppo terroristico di Hamas, che tiene in ostaggio praticamente due milioni di palestinesi.
   Alle vittime israeliane del massacro di Hamas del 7 ottobre non è stata data la possibilità di fuggire attraverso un corridoio sicuro. Nessuno ha chiesto ad Hamas di accettare una "pausa umanitaria" quando i suoi terroristi hanno compiuto atrocità contro gli israeliani nelle città e nei villaggi vicino a Gaza quel giorno. I terroristi hanno invaso Israele per un solo scopo: uccidere, stuprare e rapire quanti più ebrei possibile.
   Hamas ha fatto una "pausa umanitaria" prima di massacrare centinaia di israeliani a un festival musicale? Hamas ha fatto una "pausa" prima di stuprare le donne? Hamas ha fatto una "pausa" prima di decapitare, smembrare e cuocere i bambini nei forni?
   L'avvocato internazionale per i diritti umani Arsen Ostrovsky ha chiesto:
    "Per curiosità, Hamas ha fatto una "pausa umanitaria" quando è entrato nelle nostre case e ha ucciso i nostri bambini, decapitato i neonati, violentato le donne, bruciato vive intere famiglie e preso in ostaggio oltre 240 persone, compresi neonati e anziani?".
  Come mai gli Stati Uniti non hanno preso in considerazione una "pausa umanitaria" durante la loro guerra contro Al-Qaeda e lo Stato Islamico? Perché agli Stati Uniti è stato permesso di condurre una guerra implacabile contro i terroristi di Al-Qaeda e dell'ISIS mentre Israele è chiamato a fornire aiuti umanitari e carburante allo stesso gruppo responsabile del peggior massacro di ebrei dopo l'Olocausto? Quali sono le possibilità che gli aiuti umanitari e il carburante vadano effettivamente ai civili di Gaza - ai quali i leader di Hamas tengono così tanto da costringerli a morire come scudi umani - e non ai leader di Hamas per i loro scagnozzi?
   Qualsiasi cessazione della guerra contro Hamas, anche temporanea, sarebbe vista come una vittoria del gruppo terroristico e dei suoi sostenitori. Hamas e i suoi patroni in Iran sarebbero felici di vedere un cessate il fuoco a Gaza per poter dire che la pressione internazionale ha costretto Israele a fermare la sua guerra. Una "pausa umanitaria" dovrebbe iniziare solo quando tutti gli ostaggi saranno stati rilasciati e tutti i terroristi di Hamas si saranno arresi o saranno stati uccisi.
    

(Israel Heute, 7 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Sinistra solidale con gli assassini dell'Occidente

di Daniele Dell'Orco.

Durante gli 8 anni alla guida della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, che ha recentemente passato il testimone a Victor Fadlun, è stata al vertice di un vero e proprio osservatorio sull’odio antiebraico. Dalla Capitale al resto d'Italia e in generale nel Vecchio Continente, con la guerra in Israele il clima si sta surriscaldando. E lei se n'è accorta.

- Come sta vivendo queste settimane così delicate?
  «L’aggettivo delicato mi sembra persino riduttivo. Vivo con sconcerto e preoccupazione ciò che vedo, ciò che sento e ciò che avverto direttamente nei confronti degli ebrei che vivono in Italia e in Europa».

- A cosa si riferisce?
  «Dopo il 7 ottobre, ovverosia il giorno in cui si è dato sfogo all’espressione più bieca possibile di antisemitismo, con gli atti di violenza e i massacri che Hamas ha eseguito contro civili ebrei in Israele, ci sono state ripercussioni un po’ in tutto Occidente, dov'è riaffiorato un odio culturale e viscerale. Stavolta con l'aggravante che Hamas lo sponsorizza e lo fomenta incoraggiando la distruzione dell'ebreo ben oltre ciò che professa nel suo statuto (il rifiuto di “qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare”, quindi dal Mediterraneo al Giordano, NdR). Ciò produce la comparsa di una nuova serie di atti antisemiti».

- Dal clima tossico si è già passati ai fatti?
  «In generale vale la pena di ricordare che gli atti antisemiti non sono affatto isolati: in qualsiasi momento in questi decenni abbiamo riscontrato atti di vandalismo nei confronti di cimiteri, scritte antiebraiche, cori negli stadi. Certo, in un momento così particolare questi episodi stanno progressivamente aumentando di intensità: dalla brutalizzazione delle pietre d'inciampo a Roma fino a gravi fatti di cronaca come le svastiche di Parigi e l'accoltellamento di una donna ebrea a Lione. Non sappiamo se e come possano moltiplicarsi, ma l'aria che si respira di certo sta facendo emergere tutti gli istinti più beceri».

- Negli ambienti cospirazionisti la “minaccia ebraica” è dipinta come una mano invisibile e potente. Non teme possa esserci il rischio che il “colpevole ebreo” possa assumere una consistenza fisica e quindi diventare un bersaglio chiaro e definito?
  «Sì, in parte. Il fenomeno della “colpa ebraica tout court” lo abbiamo visto anche durante la pandemia, quando ci accusavano prima di aver rilasciato il virus poi di aver usato i vaccini per controllare il mondo; ma anche con la guerra Ucraina e le dure dichiarazioni della Russia. Certo, oggi per colpa di Hamas sta passando il messaggio che sia legittimo “colpire l'ebreo in quanto ebreo” come fosse una missione sociale, ma non dobbiamo dimenticare che anche ciò che stiamo vivendo non è una novità».

- Ci spieghi meglio.
  «Be’ io ricordo benissimo nel 1982 che nelle settimane che precedettero l’attacco alla Sinagoga di Roma (morì un bambino di 2 anni, NdR) si era innescato un processo di colpevolizzazione di tutto il popolo ebraico (erano i mesi dell’invasione israeliana del Libano meridionale, NdR) fino a ritenerci “stranieri” nelle nostre stesse città lontane ad attaccare fisicamente il Paese dei Cedri. Storia già vissuta. Peraltro anche quell'attentato, di cui non sono mai stati individuati i responsabili, era di matrice palestinese».

- E ricorda anche che pochi giorni prima venne posta una bara proprio lì davanti.
  «Come dimenticare, fu durante un raduno della Cgil».

- Anche in questo caso la storia si sta ripentendo, con la sinistra che solidarizza in piazza con Hamas...
  «Purtroppo. Non possiamo nasconderci di fronte all’evidenza. Le piazze in democrazia sono sempre legittime, ma queste sono evidentemente vittime di un cortocircuito. E mi trovo d'accordo con quando affermato da Edith Bruck nella sua intervista al vostro giornale. La sinistra sostiene di voler tutelare i diritti, ma non ricordo di averla vista scendere in piazza con la stessa intensità di oggi ad esempio per condannare i massacri in Siria, per solidarizzare con le ragazze iraniane, per difendere i gay e le donne palestinesi che rivendicano il diritto a potersi esprimere anche in Palestina. Stavolta, invece, si identificano addirittura con Hamas, gli assassini dell’Occidente».

- Dell’Occidente dice?
  «Certo, cosa pensa vogliano fare quelli di Hamas? Oggi vogliono distruggere noi, domani vorranno fare la stessa cosa con l'Occidente tutto. La cosa più terribile che si possa fare in questo momento è solidarizzare con degli assassini. Quello che dovrebbe fare la sinistra è scendere in piazza per chiedere il rilascio degli ostaggi, di donne, anziani e bambini».

- Ha provato a darsi una spiegazione logica del motivo per cui ciò non avviene?
  «Non c’è, non me la voglio dare. So però che c'è una narrazione storica che una parte della sinistra ha sposato dal 1967, abbracciando in toto la causa palestinese. Ma badi bene, sposare la causa palestinese non è ciò che fa Hamas. Non è l'Islam moderato, di cui ho grande rispetto, anche se per la verità lo vedo molto assente. Hamas vuole uccidere, smantellare, sottomettere». 

- Magari la prossimità tra Hamas e sinistra sta proprio nell'odio comune nei confronti dell'Occidente? 
  «È un’ipotesi verosimile, ma sarebbe improvvida, irresponsabile e incivile. Solidarizzare con movimenti del genere vuol dire odiare se stessi, e addirittura offrire uno scudo di legittimità alle azioni condotte e a quelle che potrebbero condurre in futuro». 

- A proposito di “scudi”: molti, anche a sinistra, sostengono di non essere antisemiti e preferiscono definirsi antisionisti. C'è differenza secondo lei? 
  «No, è un alibi, costruito ad arte per chi vuole nascondere l'antisemitismo. Io mi rivedo nella definizione dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance, NdR) che spiega che la critica nei confronti dello Stato di Israele ad esistere diventa negazione del diritto degli stessi ebrei ad esistere». 

- C'è qualcosa che si sente di rimproverare al governo israeliano per le azioni di questo mese? 
  «Non ho il privilegio, da cittadina italiana, di poter esprimere giudizi come lo hanno i cittadini israeliani. Spero però che questa guerra finisca presto, che gli ostaggi vengano restituiti alle loro famiglie e che il popolo palestinese possa avere dei rappresentanti che lo tuteli in modo degno». 

Libero, 7 novembre 2023)

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Gli ebrei in Europa hanno di nuovo paura”: l’UE condanna il crescente antisemitismo


L’organo esecutivo dell’Unione Europea ha condannato apertamente il crescente antisemitismo in tutto il continente, dichiarando che l’odio verso gli ebrei “va contro tutto ciò che l’Europa rappresenta”.
   In una dichiarazione rilasciata domenica 5 novembre, la Commissione europea – insieme al Consiglio europeo, il ramo esecutivo dell’UE – ha osservato che il picco dell’antisemitismo “ha raggiunto livelli straordinari negli ultimi giorni, che ricordano alcuni dei momenti più bui della storia”. “Oggi gli ebrei europei vivono ancora una volta nella paura”, si legge nella dichiarazione, che cita alcuni delle migliaia di incidenti che hanno preso di mira gli ebrei negli Stati membri dell’UE. “Cocktail lanciati contro una sinagoga in Germania, stelle di David spruzzate su edifici residenziali in Francia, un cimitero ebraico profanato in Austria, negozi e sinagoghe ebraiche attaccati in Spagna, manifestanti che scandiscono slogan odiosi contro gli ebrei”, si legge nella nota.
   Forte dunque la condanna: “In questi tempi difficili l’UE è al fianco delle sue comunità ebraiche. Condanniamo questi atti spregevoli nei termini più forti possibili. Vanno contro tutto ciò che l’Europa rappresenta. Contro i nostri valori fondamentali e il nostro modo di vivere. Contro il modello di società che rappresentiamo: basato sull’uguaglianza, l’inclusione e il pieno rispetto dei diritti umani. Ebreo, musulmano, cristiano: nessuno dovrebbe vivere nella paura della discriminazione o della violenza a causa della propria religione o della propria identità”.
   Dal 2021, l’Unione Europea ha messo in atto la sua prima strategia globale sulla lotta all’antisemitismo e sulla promozione della vita ebraica, nonché dal 2020 un piano d’azione dell’UE contro il razzismo.
   “In collaborazione con gli Stati membri, continueremo a rafforzare le misure di sicurezza – continua la nota -. Abbiamo già aumentato i finanziamenti dell’UE per proteggere i luoghi di culto e altri locali e stiamo lavorando per rendere disponibile maggiore sostegno. Parallelamente, stiamo intensificando l’applicazione della legislazione pertinente per garantire che le piattaforme online reagiscano in modo rapido ed efficace ai contenuti antisemiti o anti-musulmani online, siano essi contenuti terroristici, incitamento all’odio o disinformazione”.

(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2023)

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L’ipotesi dei due Stati è fantasia, il 7 ottobre ha cambiato la storia

Il sangue ha svegliato gli ebrei dal sogno del dialogo. Nessun Paese armato nascerà al confine. E non ci saranno altre Shoah.

di Jonathan Pacifici
Presidente del Jewish Economic Forum

Mentre l'esercito israeliano ha iniziato la bonifica totale di Gaza, nelle cancellerie occidentali ci si comincia a interrogare sul futuro della Striscia e più in generale dei palestinesi e di ciò che resta degli Accordi di Oslo. Molti si sono sbrigati a rispolverare il mantra «due popoli, due Stati», senza rendersi conto di cosa abbia rappresentato per Israele il 7 ottobre.
   Ci sono già due popoli e due Stati: l'Israele e gli israeliani prima del 7 ottobre e l'Israele e gli israeliani dopo il 7 ottobre. Questa data segna uno spartiacque storico che cambia tutto in Medio Oriente perché cambia fondamentalmente la percezione di sé che hanno gli israeliani. È stato un orribile reality check che ha svegliato in un istante un Paese. Israele ha capito in maniera inequivocabile che non solo dall'altra parte non c'è un partner, come ormai si dice da anni, ma non esistono e non esisteranno i presupposti identitari per un accordo politico. Gli israeliani hanno capito improvvisamente che non c'è nessuna questione territoriale nel conflitto, nessuna rivendicazione politica, nessun elemento che in qualsiasi altro contesto sarebbe gestibile con gli strumenti del dialogo, della diplomazia o della politica. L'Israele laica dei kibutzim e del processo di pace a tutti i costi si è svegliata nel sangue del 7 ottobre e ha dovuto accettare obtorto collo la dura realtà intuita ormai da anni da molte altre anime del Paese. Ci siamo ritrovati con gli orrori della Shoah dentro i più pastorali dei kibutzim. Il conflitto è esistenziale e fonda le sue radici sul più profondo antisemitismo. Non ci vogliono qui, dove qui è inteso come pianeta terra.
   E allora cosa ne sarà di Gaza, dei palestinesi? Difficile dirlo oggi. Certo nell'Israele del dopo 7 ottobre, si può già dire cosa non sarà. Gli israeliani non consentiranno mai più a nessun governo di tollerare a pochi metri dai propri bambini entità straniere armate. Mai più. Ogni singolo centimetro di territorio dal quale Israele si sia ritirata nella sua storia è diventato più prima che poi una base terroristica. Quand'anche questo è stato fatto lasciando spazio a entità apparentemente «moderate» come la Anp, in breve tempo ci siamo ritrovati con attentati suicidi, cecchini, accoltellatori nel migliore dei casi, e con un vero e proprio stato del terrore, come Gaza, nel peggiore. Gaza, liberata completamente dalla presenza israeliana (compreso il dissotterramento dei morti ebrei dai cimiteri) e diventata Hamastan, è quindi l'archetipo di ciò che succede quando Israele si ritira: una Shoah sui nostri figli che nessuno in Israele tollererà mai più. Questo preclude definitivamente ogni Stato palestinese, con buona pace delle cancellerie occidentali.
L'antisemitismo è la causa scatenante. Non ci vogliono qui, inteso come pianeta
L'unico interesse degli israeliani da ora in poi sarà solo ed esclusivamente quello della propria sicurezza. E’ per questo che interessa molto poco in Israele ciò che sarà dei palestinesi. Chiunque incontri per strada ti dirà che la qualità della loro vita sarà inversamente proporzionale al rischio che rappresentano per l'incolumità dei nostri figli. Gaza verrà demilitarizzata e messa in condizione di non nuocere. Non entrerà mai più un solo lavoratore dentro Israele. Vogliono farci uno Stato demilitarizzato, facciano pure, ma Israele continuerà a monitorare attentamente ciò che avviene ai confini. Come si può chiedere a Israele di fidarsi del controllo egiziano che ha permesso l'ingresso di decine di migliaia di missili, bombe ed esplosivi di tutti i tipi? È tutto materiale passato sotto i tunnel di Rafah con la connivenza del Cairo. Ci sarà probabilmente un cuscinetto di qualche chilometro e una separazione totale tra Gaza e Israele. Dubito che qualcuno voglia continuare a fornire gratis acqua ed elettricità al popolo del 7 ottobre. E nei territori? In Giudea e Samaria, finite le ostilità a Gaza, sarà necessaria una bonifica delle sacche terroristiche nei principali centri per evitare che il 7 ottobre si ripresenti in altre aree del Paese.
   La geografia, per chi la conosce (quindi non per la gran parte dei politici occidentali), rende impossibile qualsiasi spartizione territoriale. E’ semplicemente impossibile. Quando le cancellerie capiranno ciò pur di ottenere qualche risultato torneranno a chiedere accordi ad interim, una Anp maggiorata e altre formule che possono funzionare solo su qualche mappa nelle capitali europee. «Pensano che abbiamo a che fare con gli svizzeri o i finlandesi», mi confidava esasperato un politico di vecchia data. L'unica vera cosa che avrebbe un senso per migliorare la vita dei palestinesi, mi disse una volta un leader arabo a Hebron, sarebbe estendere lo status dei residenti arabi di Gerusalemme Est su tutti i territori. Diritti civili, ma non politici, come un qualsiasi europeo residente in un altro Stato membro. Possibilità di lavoro, previdenza sociale, libertà di spostamenti e pieni diritti in tutti i sensi, ma non il voto. Non, quindi, l'unica cosa che purtroppo interessa alla maggior parte di loro: la distruzione di Israele tramite la creazione di un altro Stato fallimentare come il Libano o la Siria. Questo gli israeliani del post 7 ottobre non lo permetteranno mai.

(La Verità, 7 novembre 2023)
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"L'Israele laica dei kibutzim e del processo di pace a tutti i costi si è svegliata nel sangue del 7 ottobre e ha dovuto accettare obtorto collo la dura realtà intuita ormai da anni da molte altre anime del Paese." Questa per Israele potrebbe essere la fine dell'illusione di farsi proteggere da un Occidente che oggi proclama "Israele siamo noi". Come gli ebrei fino alla fine dell'Ottocento pensavano di aver trovato ciascuno la sua "patria" nella nazione in cui erano stati accolti come cittadini, così l'ebreo nazionale dal nome Israele ha pensato di aver trovato la sua "patria" nel "mondo" che lo aveva accolto come nazione. Certo, non tutti i membri nazionali del pianeta "mondo" hanno mostrato di accogliere con gradimento questo strano nuovo cittadino, che ad ogni passo sembra aggiungere nuovi guai alla "comunità internazionale", ma l'Israele laicista e democraticista ha pensato di poter essere difeso da quella parte laica e democratica del mondo chiamata Occidente. Il risveglio è stato brusco, non solo perché Israele ha toccato con mano che una parte del mondo non occidentale non solo ha in antipatia Israele, ma semplicemente vuole che sia tolto il disturbo provocato dalla sua presenza sulla terra, ma ha dovuto anche constatare che l'altra parte del mondo, quella buona, quella che dice che Israele ha diritto di esistere, ha fatto anche capire che Israele non ha diritto di difendersi. L'ebreo-nazione laicista e democraticista di Occidente è diventato ormai uno straniero in patria. M.C,
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Attentato a Gerusalemme: due agenti di frontiera feriti, terrorista ucciso

di Sarah Tagliacozzo

Questa mattina due agenti della polizia di frontiera israeliana sono rimasti gravemente feriti in un attentato terroristico alla Erode, una delle entrate alla Città Vecchia di Gerusalemme.
   Entrambi sono stati accoltellati da un terrorista di 16 anni residente a Gerusalemme Est, nel quartiere di Issawiya. L’attentato si è verificato non lontano dalla stazione della polizia Shalem. Il terrorista è stato ucciso e un secondo individuo, sospettato di essere suo complice, è stato arrestato. I due agenti sono stati soccorsi dal Magen David Adom, prima di essere portati al Hadassah University Medical Center di Gerusalemme. Una di loro, una donna ventenne, è gravemente ferita.
   «Quando siamo arrivati sulla scena, abbiamo visto una giovane donna, sui vent’anni, priva di conoscenze ed un uomo, sempre ventenne, in piedi. Abbiamo prestato il primo soccorso sul posto prima di evacuarli al Mount Scopus Hospital. Le condizioni della giovane donna sono critiche» ha spiegato Nadav Taieb, un soccorritore del Magen David Adom.

(Shalom, 6 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 30. La guerra nei tunnel

di Ugo Volli

La nuova fase della guerra
  Terminato l’accerchiamento della città di Gaza, colpiti i principali edifici che contenevano centri logistici, di comunicazione, di comando, le fabbriche e le abitazioni dei capi terroristi, resta ora all’esercito israeliano il compito più difficile: stanare i terroristi, eliminare la loro infrastruttura, catturare o uccidere le loro truppe e soprattutto i loro capi. La guerra di Israele per la distruzione di Hamas e degli altri gruppi terroristi di Gaza non potrà essere vinta se non si raggiungono questi obiettivi, con il consenso della “comunità internazionale” o senza di esso. Se Israele accettasse di fermarsi prima, questo significherebbe la sopravvivenza di Hamas e dei suoi complici, in prospettiva una riedificazione delle sue strutture militari e del suo dominio su Gaza, grazie all’aiuto di Iran, Qatar, Turchia, e quindi la certezza che prima o poi il massacro del 7 ottobre si potrebbe ripetere in una forma o nell’altra, come gli stessi capi di Hamas hanno minacciato. Tutti i sacrifici sarebbero stati allora vani o quasi.

Il combattimento urbano
     Per liquidare definitivamente il terrorismo a Gaza, Israele deve prendere il controllo delle città e mantenerlo per il tempo sufficiente a eliminare tutti i residui di resistenza. Questo significa affrontare le strade e le case da dove i terroristi nascosti (che sono ancora molto numerosi, almeno i tre quarti degli effettivi di Hamas) tentano di uccidere i soldati e distruggere i loro mezzi. Ma le case sono vulnerabili all’aviazione e all’artiglieria. Vi è ormai un coordinamento stretto delle forze israeliane per cui si può essere sicuri che gli edifici da dove i terroristi spareranno saranno presto distrutti. Ciò naturalmente comporta una grave devastazione dell’ambiente urbano, ma la responsabilità non è dell’esercito israeliano bensì dei terroristi che usano le strutture civili come fortificazione militari, il che è un crimine di guerra. In sostanza la sofferenza dei civili deriva dalla scelta dei terroristi di non combattere in campo aperto, di mescolarsi alla popolazione senza indossare uniformi, spesso usando ambulanze, ospedali, scuole e moschee per nascondersi.

La “metropolitana di Gaza”
     Se gli edifici usati come base del combattimento terrorista possono essere conquistati o distrutti con l’aiuto dell’aviazione e dell’artiglieria (ma certamente non senza perdite), molto più problematico è il caso delle gallerie, che sono la vera base d’azione e il rifugio dei terroristi e delle loro armi. Si tratta letteralmente di centinaia di chilometri di tunnel, costruiti nel corso degli anni a diversi livelli e con percorsi tortuosi, in tre grandi gruppi: al nord sotto agli insediamenti di Beit Hanoun e Jabalia; al centro sotto la città di Gaza, al sud sotto Kahan Jounis. I centri di snodo di questa “metropolitana di Gaza” sta sotto i principali ospedali: lì vi sono i magazzini di armi e viveri e carburanti, centri di comunicazione e comando, probabilmente anche i luoghi dove vivono i capi più importanti e le celle dove sono tenuti gli ostaggi.

La difficoltà di eliminare i tunnel
     Il primo problema per Israele è che di queste gallerie si ha una conoscenza molto approssimativa. La rilevazione radar è difficile, lenta e imprecisa. I radar a banda ultra larga (da 300 a 3000 Mhertz) penetrano solo fino a 30 metri e hanno una risoluzione molto bassa. Inoltre funzionano con macchine pesanti montate su carrelli, che è difficile usare in guerra. Allagare i tunnel, o riempirli di gas è tecnicamente complicato, perché certamente vi sono paratie e punti di sfogo; molti sono stati bombardati, cercando di farli crollare, ma riuscirci è difficile, perché molti sono profondi e costruiti tenendo conto di questa possibilità e bisogna anche tener conto del fatto che al loro interno vi sono gli ostaggi, che fungono da scudi umani. In questi ultimi giorni Israele ha iniziato a usare “bombe sismiche” o antibunker, che non esplodono in superficie ma sottoterra (fino a 30 metri di profondità) provocando una sorta di piccolo terremoto capace di far collassare grotte e gallerie: efficaci, ma con raggio limitato. Entrare a esplorarli significa correre forti rischi. I droni aerei e anche i robot terrestri (che esistono e sono capaci di superare ostacoli notevoli) sono difficili da usare, perché il segnale radio non passa facilmente gli angoli dei tunnel. In questo momento Israele sta usando cani appositamente addestrati che portano piccole telecamere e rilevatori; ma anche questi risentono della difficoltà di trasmissione delle onde elettromagnetiche. Anche i visori notturni, che sono molto utili all’esterno perché amplificano quel minimo di luce che esiste sempre, nelle gallerie non funzionano, perché il buio è facilmente totale. Vi sono dei visori termici, che rilevano i raggi infrarossi emessi con diversa intensità dai vari materiali; ma essi possono essere facilmente confusi con l’uso di diverse forme di calore.

Il combattimento sotterraneo
  In definitiva saranno dei soldati a dover affrontare i pericoli delle gallerie: bombe nascoste, frane artificiali, agguati da feritoie e botole, le fiamme o la mancanza di ossigeno: ogni forma di minaccia prima del combattimento fisico. Israele ha sviluppato un’arma speciale per l’uso nelle gallerie, delle “bombe-spugna” che emettono una specie di gel che si solidifica rapidamente bloccando molte aggressioni; ma si tratta di strumenti di uso difficoltoso, che possono colpire anche chi li maneggia. Resta comunque il grande vantaggio, dentro il tortuoso labirinto delle gallerie, di chi le ha progettate, le conosce e ne detiene le mappe. Ma i valorosi soldati israeliani delle squadre speciali che svolgeranno questo compito si sono addestrati a lungo per riuscirci e hanno certamente l’appoggio di tecnologie che non sono pubbliche come quelle di cui finora ha parlato questo articolo. A loro, soprattutto è affidata la difficile sfida col terrorismo che Israele è stato costretto ad affrontare dai crimini del 7 ottobre.

(Shalom, 6 novembre 2023)

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La "soluzione a due Stati" per l'assassinio degli ebrei

L'idea che Abbas o qualsiasi altro leader palestinese possa domare Hamas in "Cisgiordania" è falsa e pericolosa.

di Bassam Tawil

Dal massacro di Hamas del 7 ottobre, migliaia di palestinesi della cosiddetta "Cisgiordania" sono scesi in piazza quasi ogni giorno per mostrare il loro sostegno al gruppo terroristico sostenuto dall'Iran.
   Si tratta della stessa Cisgiordania che l'amministrazione Biden e molti in Occidente sperano possa far parte di un futuro Stato palestinese accanto a Israele. Coloro che continuano a promuovere la pericolosa idea di una "soluzione a due Stati" ignorano il fatto che Hamas è presente non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
   Stranamente, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e alcuni politici occidentali continuano a parlare della necessità di creare uno Stato palestinese sovrano e indipendente anche dopo le atrocità di Hamas. In realtà stanno dicendo che: Dopo che Hamas ha usato la Striscia di Gaza per invadere Israele e massacrare gli ebrei, dovremmo lasciare che questo gruppo terroristico islamico abbia la Cisgiordania, in modo che possa usarla a sua volta per massacrare gli ebrei.
   Le manifestazioni a favore di Hamas dimostrano che il gruppo terroristico è popolare tra i palestinesi, compresi quelli che vivono in Cisgiordania. Le manifestazioni ricordano anche che un gran numero di palestinesi sostiene il terrorismo contro Israele, compresi crimini efferati come lo stupro, la decapitazione, la tortura e il bruciare vivi donne e bambini.
   Recenti sondaggi d'opinione condotti dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research (PSR) hanno dimostrato che la maggior parte dei palestinesi sostiene Hamas e la "lotta armata" (omicidio) contro Israele. Ogni bambino palestinese sa che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, Hamas vincerebbe. L'ultimo sondaggio PSR, pubblicato un mese prima del massacro di Hamas, ha rilevato che il 58% dei palestinesi voterebbe per il leader di Hamas Ismail Haniyeh, rispetto al 37% per il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Il sondaggio ha anche rilevato che il 58% dell'opinione pubblica palestinese sostiene "gli scontri armati e l'intifada" contro Israele.
   Le manifestazioni pro-Hamas si sono svolte principalmente nelle aree della Cisgiordania controllate dall'Autorità Palestinese sotto la guida di Abbas. Sebbene Abbas e altri alti dirigenti dell'Autorità Palestinese detestino Hamas, non fanno nulla per impedire ai palestinesi che vivono sotto il loro governo di scendere in strada per celebrare l'uccisione di 1.400 israeliani e il ferimento di oltre 5.000 altri durante il massacro del 7 ottobre.
   Vale la pena ricordare che Hamas ha espulso l'Autorità Palestinese dalla Striscia di Gaza nel 2007 dopo aver ucciso centinaia di lealisti di Abbas, alcuni dei quali sono stati trascinati per le strade e linciati, mentre altri sono stati gettati dai tetti di alti edifici.
   Non riuscendo a frenare le manifestazioni a favore di Hamas, l'Autorità Palestinese non solo è complice dell'incitamento all'omicidio degli ebrei, ma agisce anche contro i propri interessi, incoraggiando i rivali di Hamas. Uno dei motivi per cui l'Autorità Palestinese non interviene per fermare le manifestazioni pro-Hamas è che i suoi leader sono essi stessi coinvolti nella campagna di incitamento contro Israele.
   In effetti, la retorica anti-Israele e antisemita di Abbas sembra talvolta superare quella dei suoi rivali di Hamas. Un mese prima del massacro di Hamas, Abbas ha ripetuto una serie di slogan antisemiti che ha pronunciato nel corso degli anni, tra cui l'affermazione che il dittatore nazista Adolf Hitler avrebbe fatto massacrare gli ebrei per il loro "ruolo sociale" di usurai.
   In un discorso trasmesso dalla televisione palestinese il 3 settembre, Abbas ha detto ai leader del suo partito di governo Fatah durante una riunione a Ramallah:
   "Voi dite che Hitler ha ucciso gli ebrei perché erano ebrei e che l'Europa odiava gli ebrei perché erano ebrei. Questo non è vero. È stato detto chiaramente che [gli europei] hanno combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro religione... Gli [europei] hanno combattuto queste persone per il loro ruolo nella società, che aveva a che fare con l'usura, il denaro e così via".
   Vale anche la pena notare che è stato Abbas a dare il via alla campagna di incitamento contro Israele per quanto riguarda le visite di individui e gruppi ebraici al Monte del Tempio di Gerusalemme, il cui Muro Occidentale è tutto ciò che rimane dei templi ebraici (distrutti nel 586 a.C. e nel 70 d.C.) e che è il luogo più sacro dell'ebraismo.
   In un famigerato discorso del 2015, Abbas ha falsamente accusato gli ebrei che visitano il loro santo Monte del Tempio di profanare la Moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio:
   "Accogliamo con favore ogni goccia di sangue versata per amore di Gerusalemme. Questo sangue è sangue pulito, puro, versato per amore di Allah... Ogni martire entrerà in paradiso e tutti i feriti saranno ricompensati da Allah... La Moschea Al-Aqsa e la Chiesa del Santo Sepolcro sono nostre. Sono tutte nostre e loro [gli ebrei] non hanno il diritto di profanarle con i loro piedi sporchi".
   Il discorso di sangue di Abbas è stato interpretato da molti palestinesi come una licenza all'omicidio. In effetti, poco dopo l'accusa di Abbas nel 2015, i palestinesi hanno iniziato una serie di attacchi terroristici in cui decine di ebrei sono stati uccisi con accoltellamenti e attentati.
   Abbas e l'Autorità Palestinese hanno dimostrato più volte di odiare Israele quanto, se non più, di Hamas.
   La leadership dell'Autorità Palestinese conduce una campagna incessante per diffamare Israele e demonizzare gli ebrei, soprattutto sulla scena internazionale. La leadership palestinese ha ripetutamente accusato Israele di "genocidio", "crimini di guerra", "pulizia etnica" e "apartheid". Ha anche ripetutamente minacciato di portare le accuse di "crimini di guerra" contro gli israeliani davanti alla Corte penale internazionale.
   Per decenni, Abbas ha usato ogni piattaforma disponibile, compresa l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per diffondere messaggi di odio e bugie contro Israele. Il suo obiettivo finale è quello di minare e delegittimare Israele fino a isolarlo completamente sulla scena internazionale. Il suo incitamento quotidiano contro Israele non solo ha rafforzato Hamas, ma ha anche alimentato l'antisemitismo nel mondo.
   Dopo il pogrom di Hamas del mese scorso, Abbas si è astenuto dal condannare il gruppo terroristico. Ha invece scelto di incolpare Israele per la guerra che ne è seguita. In sostanza, Abbas sta dicendo che Israele non ha il diritto di difendersi di fronte alle atrocità di Hamas. Sta anche suggerendo che non vede alcun problema nel fatto che Hamas invii migliaia di terroristi a invadere Israele e a uccidere brutalmente civili israeliani innocenti.
   L'idea che Abbas o qualsiasi altro leader palestinese voglia mettere sotto controllo Hamas in Cisgiordania è falsa e pericolosa. Abbas non ha alcun problema con Hamas che opera in Cisgiordania, purché il gruppo terroristico attacchi Israele e non lui o la leadership dell'AP. Per questo ha permesso ai sostenitori di Hamas di marciare per le strade di Ramallah, Nablus, Jenin e altre città della Cisgiordania, scandendo slogan a sostegno di Hamas.
   Il 29 ottobre, decine di scolaresche hanno marciato a Jenin, scandendo "Siamo la figlia di [Muhammad] Deif, l'arci-terrorista di Hamas", "Vogliamo la jihad [guerra santa], vogliamo morire in nome di Allah" e "Vogliamo far saltare la testa dei sionisti". In altre manifestazioni di sostenitori di Hamas, alcune delle quali si sono svolte non lontano dall'ufficio di Abbas, i palestinesi hanno scandito: "Chiunque abbia una pistola dovrebbe sparare a un ebreo o darla a Hamas".
   L'idea di creare uno Stato palestinese in Cisgiordania significa trasformare quest'area in un'altra rampa di lancio per attacchi contro Israele e per il massacro di uomini, donne e bambini ebrei. Il Presidente Biden e il Segretario di Stato americano Antony Blinken possono sostenere quanto vogliono che Hamas non rappresenta i palestinesi, ma chiunque viva in Cisgiordania e a Gaza sa che questa è una bugia mortale. Ogni palestinese conosce e ammira le manifestazioni pro-Hamas che si sono svolte in Cisgiordania dal 7 ottobre.
   Ogni palestinese vede e spesso ammira i gruppi armati affiliati a Hamas che sono emersi in Cisgiordania negli ultimi due anni. Ogni palestinese ha anche visto come Hamas ha vinto le elezioni dei consigli studenteschi nelle principali università della Cisgiordania, tra cui l'Università Birzeit e l'Università An-Najah. Ogni palestinese vede anche che l'Autorità Palestinese non è pronta a combattere Hamas e gli altri gruppi terroristici in Cisgiordania.
   Ciò che sembra sfuggire a molti in Occidente è che è la sicurezza e la presenza civile di Israele in Cisgiordania a impedire ad Hamas o a gruppi come Al-Qaeda o lo Stato Islamico di prendere il controllo dell'area. Non sembrano nemmeno rendersi conto che Abbas è al potere in Cisgiordania solo grazie alla presenza israeliana. Senza questa presenza, Hamas avrebbe preso il controllo della Cisgiordania molto tempo fa. La creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania significherebbe trasformarla in un'altra base a guida iraniana per la jihad contro gli ebrei.
   È ora che Biden e altri politici occidentali smettano di propagandare idee deliranti che porteranno rapidamente a una ripetizione del massacro del 7 ottobre. Ci si chiede quanti bambini ebrei dovranno essere decapitati o bruciati vivi perché si rendano conto che i leader palestinesi hanno radicalizzato il loro popolo contro Israele fino al punto di vantarsi di massacrare gli ebrei con le loro stesse mani.

(Israel Heute, 3 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Medio Oriente, nessuno crede più alla fiaba dei due popoli in due Stati

di Eugenio Capuozzi

"Due popoli in due Stati" è il mantra diplomatico per la soluzione del conflitto in Medio Oriente. Dare uno Stato agli ebrei e uno agli arabi fu proposto per la prima volta nel 1947. Gli arabi rifiutarono. E da quel rifiuto, che tuttora persiste, derivò tutto il resto.
  Ora anche papa Francesco, nell'intervista rilasciata il 1° novembre al direttore del TG1, ha indicato l'obiettivo dei “due popoli, due Stati” come l'unica possibile soluzione al conflitto arabo-israeliano. Ma il pontefice è soltanto l'ultimo di una lunga, anzi interminabile serie. Ogni volta che la violenza in Medio Oriente torna ad esplodere, la gran parte dei leader politici mondiali, compresi quelli occidentali, torna a invocare la nascita di uno Stato nazionale palestinese che conviva con quello ebraico.
  Ma quella formula viene utilizzata prevalentemente senza specificare le modalità attraverso le quali l'obiettivo potrebbe essere concretamente raggiunto, né i motivi a causa dei quali non è stato raggiunto fino ad ora. Essa viene ripetuta come un mantra, quasi fosse un talismano, perché utile a cavare momentaneamente d'impaccio chi la pronuncia rispetto agli enormi problemi di politica internazionale, di sicurezza, di convivenza civile che si pongono a qualsiasi governo o paese sia costretto a mettere le mani dentro questo inestricabile e avvelenato ginepraio. In ogni caso, sempre più nel tempo essa è andata perdendo riferimenti di contenuto, ed è diventata sostanzialmente un puro artificio retorico. Nessuno degli attori politici che ad essa ricorrono, e nessuna delle parti direttamente o indirettamente in causa nel conflitto alle quali essa è rivolta, crede nella sua effettiva realizzabilità.
  In realtà si può dire che la soluzione dei due popoli e due Stati rappresentò storicamente non la soluzione, ma la premessa del conflitto arabo-israeliano. Infatti quando l'Assemblea generale dell'Onu nel 1947 votò a larga maggioranza la Risoluzione 181 per la suddivisione della regione denominata Palestina, sottoposta dopo la fine dell'Impero Ottomano al mandato britannico, tra uno Stato arabo e uno ebraico - cercando di porre fine a una lunga disputa resa ancor più drammatica dallo sterminio nazista degli ebrei europei e dall'appoggio del Gran Muftì di Gerusalemme al-Husseini a Hitler - quella risoluzione venne respinta dai paesi arabi sotto la spinta del montante nazionalismo panarabo. E quando nel maggio 1948 fu proclamata la nascita di Israele, quest'ultimo venne attaccato militarmente da quei paesi, che intendevano cancellarlo e cacciare via gli ebrei immigrati.
  La storia della cosiddetta “questione palestinese” è innanzitutto, per molti decenni, la storia del rifiuto ostinato da parte araba di riconoscere l'esistenza legittima di Israele. Fu quel rifiuto a ispirare, per calcolo  politico, la scelta di Giordania ed Egitto di non assimilare gli arabi cacciati o fuggiti da Israele dopo la prima guerra, ma di mantenerli nella condizione di profughi. Ed è su quel rifiuto che fu fondata l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, e fu “inventato” ex post un “popolo palestinese” (arabo) che precedentemente non aveva mai avuto un'identità nazionale specifica. Soltanto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la bruciante vittoria preventiva degli israeliani e l'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Sinai, e poi dopo la guerra del Kippur del 1973 si cominciò a parlare in sede internazionale – con il consenso di alcuni settori della classe politica israeliana e araba – di un possibile scambio “pace contro territori”, e quindi di un possibile spiraglio per uno Stato arabo palestinese proprio in Cisgiordania e Gaza, che convivesse con quello ebraico.
  Dopo estenuanti vicende e trattative, quello spiraglio fu alla base degli Accordi di Oslo del 1993 tra Rabin e Arafat, e poi della proposta degli israeliani a Camp David nel 2000 di uno Stato palestinese sull'85% dei territori stessi. Ma quella proposta – questo è il punto fondamentale – fu rifiutata proprio da Arafat, mentre l'Olp era ormai incalzata da posizioni ben più radicali ispirate non più al nazionalismo arabo ma al fondamentalismo/integralismo islamico, come quelle della Jihad islamica e di Hamas, aizzate da poteri destabilizzanti come il regime integralista degli ayatollah iraniani.
  Il successivo, estremo tentativo di incanalare di nuovo una possibile trattativa sul binario dei “due popoli, due Stati” fu intrapreso dal 2002 per iniziativa di George W. Bush (desideroso di spegnere il conflitto nell'area nel momento della ben più ampia contrapposizione con l'integralismo islamico seguita agli attacchi dell'11 settembre) con la Road Map for Peace, sostenuta dal “quartetto” formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu. E fu nello spirito di questo tentativo di conciliazione, oltre che di una crescente convergenza con Egitto e Giordania, che nel 2005 il primo ministro Sharon decise unilateralmente di ritirare le truppe israeliane da Gaza.
  Purtroppo, come è noto, quel ritiro non fu la premessa dell'evoluzione dell'Autorità palestinese verso una democrazia animata da volontà di convivenza con lo Stato ebraico, ma al contrario l'inizio della presa di potere di Hamas (il cui statuto prevede l'obiettivo primario e non negoziabile della distruzione di Israele) con un consenso elettorale largamente maggioritario, e del regolamento di conti armato tra gli estremisti fondamentalisti e Fatah. Oggi è proprio la prevalenza di Hamas e delle forze islamiste che puntano alla destabilizzazione di tutta l'area – enormemente incrementate nell'ultimo ventennio – ad aver reso del tutto impraticabile la soluzione dei “due popoli due Stati”. È logicamente impossibile la convivenza tra due Stati nazionali vicini quando la  corrente decisamente prevalente nella politica e nell'opinione pubblica di quello che dovrebbe essere uno dei due, sostenuta da una rilevante parte dell'opinione pubblica nei paesi islamici, ritiene che il vicino non debba esistere, e appena ne ha la possibilità pratica cerca di distruggerlo.
  I tragici eventi del 7 ottobre scorso non sono un incidente ma la conseguenza inevitabile di questa situazione. Finché Hamas e altri gruppi dalla simile impostazione esisteranno, finché esisteranno i regimi islamisti come l'Iran che se ne servono, finché Giordania ed Egitto (ed Arabia Saudita) non si assumeranno la responsabilità politica effettiva dei territori, garantendo la convivenza con Israele, parlare di “due popoli due Stati” è soltanto un inconcludente flatus vocis. Ammesso pure che la diplomazia internazionale riuscisse, miracolosamente, a farlo nascere, l'eventuale Stato arabo palestinese sarebbe solo una versione più ampia di ciò che oggi è Gaza, o il Sud Libano controllato da Hezbollah: una enorme base terroristica sempre pronta a infiammare tutto il Medio Oriente e a destabilizzare il mondo.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 4 novembre 2023)

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Il tormento di una madre nel silenzio del kibbutz

Siamo rimasti pochi a Sasa. Non ci dà pace il pensiero dei nostri figli andati a stanare le belve che hanno raso il suolo i villaggi della cooperazione, bruciato neonati, violentato donne, rapito anziani. Belve che si fanno scudo con bambini inermi.

di Angelica Calò Livnè*

Un soldato israeliano nella cameretta dei bambini di una casa data alle fiamme nel kibbutz Nir Oz, dove sono state assassinate cento persone e rapiti 70 ostaggi da Hamas
2 novembre 2023. La sala da pranzo di Sasa, 600 posti a sedere, è silenziosa. Siamo solo in 40: i bambini prima di tutti, poi il resto del kibbuz è stato evacuato. Ognuno prende il suo vassoio, lo riempie senza curarsi di cosa sia entrato nel piatto e quando lo sguardo incontra un altro sguardo dice sommessamente “Shalom” e ritorna nel proprio silenzio.
Le immagini del massacro non ci danno pace, il pensiero dei nostri figli che combattono strenuamente all’inseguimento delle belve ci attanaglia il cuore e i cerchi grigi sotto agli occhi denunciano le notti insonni di padri, madri, figli e mogli che hanno trascorso un’altra notte tormentata. È trascorso quasi un mese, quanti anni dovranno passare prima che i bambini ai quali hanno trucidato i genitori davanti agli occhi potranno riprendersi? Prima che quegli uomini ai quali hanno violentato la donna amata davanti agli occhi potranno riprendersi, prima che tutti noi in prima linea e il resto del mondo potremo risvegliarci da questa angoscia?

• Genitori in guerra e kibbutz della pace rasi al suolo
  Un esercito di psicologi, assistenti sociali accompagnano la popolazione israeliana. Un bambino che parla, a due anni, già capisce cosa sta succedendo intorno a lui. La televisione, i social continuano a mostrare attività, giochi, video di cartoni animati che rassicurano, rasserenano, divertono i bambini che non capiscono perché il papà o la mamma non sono in casa da più di tre settimane. Perché si sono vestiti da soldati? A noi non piacciono le guerre, perché hanno ritirato fuori il fucile che era da tempo nascosto nell’armadio? Perché ci sono i cattivi al mondo? Perché non c’è nessuna fata che ci riporta la nonna, lo zio o la fidanzata del fratello? L’università riaprirà il 5 novembre, no, il 15, no, forse il 3 dicembre, forse solo via zoom o forse quest’anno non aprirà perché docenti e studenti sono al fronte, o sono tra i rapiti, o forse non ci sono più.
   E i corsi che erano pronti, strutturati, ricchi come al solito sono diventati irrilevanti: ora si deve parlare di resilienza, del “senso della vita”, di speranza. Di ricostruzione. Nel frattempo cogliamo le mele al frutteto. Insieme ai nostri vicini, amici dei villaggi arabi circostanti, abbiamo già salvato un terzo del raccolto. Raccogliamo indumenti per le famiglie che alle 6.30 del mattino sono riuscite a scappare, ancora in pigiama e che della propria casa non è rimasto che un cumulo di macerie. E sto parlando di Israele, sto parlando dei kibbuzim e dei villaggi, più di 40, rasi al suolo. Villaggi dove abitavano attivisti per la pace, quelli che da sempre combattono e manifestano per la cooperazione con i palestinesi, quelli che davano loro lavoro, quelli che ogni giorno andavano volontari a trasportarli con la loro auto a fare la chemio o la dialisi negli ospedali israeliani.

• Hamas, bestie immonde
  Sto parlando dell’Israele più progressista. Più splendente di luce, l’Israele della multi cultura, del rispetto per ogni fede e per ogni essere umano. Quegli esseri immondi che hanno varcato il confine cercando di distruggere ogni speranza di vita insieme a noi, sono stati capaci di entrare all’alba in una casa, in cento case, di mettere il neonato di tre mesi nel forno dove si fanno le torte, violentare la madre davanti al figlio, spaccargli la testa e portare via il padre in ostaggio. E ora il mondo deplora Israele perché li sta stanando nelle loro tane? Coperti e protetti da un muro di bambini palestinesi inermi?
   Non è Angelica quella che scrive… è una donna, una madre disperata che continua a credere con tutta se stessa che c’è ancora speranza, ma che il male si deve estirpare, e che D. protegga i rapiti, i combattenti con la stella di David, eroi che vogliono solo continuare a curare questo giardino meraviglioso che abbiamo coltivato, piantato e risvegliato alla vita.
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* Angelica Calò Livnè, autrice di questa lettera, è educatrice, regista e scrittrice ebrea italo-israeliana. Vive nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, dove ha creato la Fondazione Beresheet LaShalom – Un inizio per la pace. In collaborazione con Tempi ha scritto il libro Un sì, un inizio, una speranza (2002).

(Tempi, 4 novembre 2023)

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La storia di Benedetto. Metzadà shenìt lo tippòl

Intervento al convegno “Davide doveva farsi uccidere da Golia” tenuto il 30 ottobre a Latina.

di Daniel Sermoneta 

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Vorrei raccontarvi la storia di un uomo e della sua famiglia. Una mattina, una mattina come tante di quel periodo orribile – era il 23 marzo del 1943 – un uomo di 39 anni usciva di casa per andare a lavoro; doveva sfamare la sua famiglia, composta da moglie e 5 figli.
   Una spiata, poche migliaia di lire – tanto valeva la vita di un italiano ebreo – e tutto cambia; quell’uomo (un civile in abiti da lavoro, non un soldato in divisa) viene arrestato dagli uomini dell’Aussenkommando, agli ordini di Herbert Kappler. Il giorno seguente sarà trucidato alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 334 martiri: 10 per ogni tedesco ucciso, questa era la “rappresaglia” per l’attentato di via Rasella.
   Quell’uomo, ripeto, aveva cinque figli: i più piccoli erano due gemelli, avevano appena due anni e non ricorderanno mai il proprio padre; uno di quei due gemelli è mio padre, quell’uomo trucidato alle Fosse Ardeatine era mio nonno: il suo nome era ed è Benedetto Sermoneta.
   Questo succedeva qui, in Italia, a casa nostra, 80 anni fa. Quando si parla di nazifascismo, spesso, lo si fa come se si parlasse delle Guerre Puniche, di Leonida e dei suoi 300 alle Termopili: invece succedeva l’altro ieri, in casa nostra, a mio nonno.
   C’erano i tedeschi, i nazisti, e c’erano gli italiani, i fascisti. Purtroppo molti dei nostri connazionali sono stati protagonisti attivi di quelle atrocità: è un fatto storico con cui bisogna far pace. Ci sono stati Italiani Giusti (e oggi sono tra i giusti di Israele), ci sono stati italiani squadristi e ci sono stati italiani – i più – che hanno voltato il capo dall’altra parte.
   Noi ebrei siamo abituati a difenderci, lo siamo da 5784 anni: è vero, siamo sempre all’erta e attenti ad ogni parola, ad ogni sfumatura di significato: sapete perché? Perché siamo da sempre costretti a difenderci.
   E’ paradossale che oggi, nel 2023, debba esistere un osservatorio sull’antisemitismo ed è terribile che i fatti di Israele del 7 ottobre scorso abbiano consentito a tanti, troppi, di dissimulare il proprio antisemitismo, spesso presentato subdolamente come antisionismo.
   Godiamo della simpatia altrui (nel senso etimologico del sun-pathos, ovvero della cum-passione) quando siamo perseguitati, trucidati, ghettizzati o nel migliore dei casi ostracizzati e derisi. Ma quando ci difendiamo – perché abbiamo imparato bene a farlo – diventiamo indigesti, la stella gialla e il naso aquilino si riaffacciano alla mente dei più: gli ebrei tornano ad essere i giudei, quelli da contenere e da cui tenersi alla larga; quelli da mettere all’indice, quelli pericolosi, diversi…
   Ma noi ebrei, come detto, siamo abituati a difenderci¸ siamo un popolo pieno di orgoglio. Molti di voi conosceranno la storia di Masada. Una roccaforte che sorgeva in mezzo al deserto di Israele e che, intorno al 70 d.C., fu assediata dai Romani. Gli ingegneri furono costretti a costruire una vera e propria rampa, una sorta di sopraelevata, con la quale riuscirono ad entrare nella fortezza dopo un lungo assedio; tuttavia non trovarono nessuno, perché gli abitanti si erano uccisi l’un l’altro (e gli ultimi suicidati) pur di non essere tradotti come schiavi.
   E sapete dove vanno a giurare le giovani reclute dell’esercito israeliano? Proprio a Masada, al grido Metzadà shenìt lo tippòl (“Mai più Masada cadrà!”).
   Le persone che durante la giornata della Memoria mi inviavano messaggi di affetto e vicinanza sono le stesse che oggi, sulle piattaforme social, espongono la bandiera palestinese: questo è un vero e proprio cortocircuito logico, secondo me.
   Il 7 ottobre c’è stato un attacco terroristico nei confronti di civili inermi in quanto ebrei: gli “esseri viventi” che hanno compiuto quegli atti (non riesco a chiamarli “persone”) non gridavano contro Israele, contro i coloni, contro i soldati: gridavano “morte agli ebrei”. Non c’entra la Palestina, non c’entrano i confini, non c’entrano i territori e non c’entra la bandiera della Palestina: c’entra solo l’odio religioso.
   Però si condanna Israele, come se il diritto, o meglio il dovere di uno Stato non sia quello di difendere i propri cittadini dagli attacchi esterni, in primis quelli terroristici; questa mattina ho letto una riflessione che mi ha colpito: quando gli Alleati bombardarono Dresda, nel 1945, c’erano 600.000 abitanti. Ne morirono 40.000, certamente non tutti erano nazisti: qualcuno ha mai sostenuto che i bombardamenti alleati fossero crimini di guerra?
   E perché, oggi, nei confronti di Israele, dovremmo usare un altro metro di giudizio? Forse proprio perché è Israele.

(Fatto a Latina, 5 novembre 2023)

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È iniziata la grande apostasia?

Ci sono sempre stati appassionati predicatori che hanno messo in guardia sull'approssimarsi degli eventi descritti nell'Apocalisse e hanno denunciato la corruzione della società. Cosa c'è di diverso oggi?

di Stephan Beitze

La Bibbia parla spesso di "apostasia" che significa ribellione o allontanamento da qualcosa in cui si crede. Nell'Antico Testamento concetti come "apostasia", "deviare", "allontanare" e altri termini simili appaiono spesso (Geremia 2:19; 5:6; 8:5; 14:7; Osea 11:7). Quando si arrivò all'apostasia in Israele, fu un allontanamento dalla Parola di Dio, dalla sua volontà e dalla sua presenza. Questo è sempre avvenuto in concomitanza con l'idolatria, l'immoralità, l'ingiustizia sociale e l'egoismo che hanno condotto l'uomo inevitabilmente a subire il giudizio di Dio. Tra le altre cose, Daniele usa questa parola per il tempo dell'Anticristo:

    "Egli corromperà con lusinghe quelli che tradiscono il patto; ma il popolo di quelli che conoscono il loro Dio mostrerà fermezza e agirà." (Daniele 11:32).

Nel Nuovo Testamento troviamo diverse citazioni sull'argomento apostasia. Il primo a parlare di apostasia fu il Signore Gesù stesso, il quale profetizzò che in un momento di tribolazione sarebbe stato visto in modo speciale:

    ''Allora molti si svieranno, si tradiranno e si odieranno a vicenda. Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti." (Matteo 24:10-11 ).

La stessa parola viene usata nella parabola del seminatore riguardo al seme che cade nei quattro posti diversi. Del seme, che cade sotto le rocce, si dice," ... però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato." (Matteo 13:21 ).
   Anche se la parola di Dio ha agito in loro, appena nascono dei problemi o delle difficoltà si allontanano da essa.
   Il Signore Gesù chiamò la seduzione uno dei più importanti segni del tempo della fine prima della Sua venuta. È l'unico sostantivo che viene ripetuto tre volte in Matteo 24 (24:4,5,11,23-26). E sebbene il culmine della seduzione arriverà nell'ultima grande tribolazione, già oggi vediamo l'avanguardia di ciò che sarà.
   In 2 Tessalonicesi 2:3 l'apostolo Paolo scrisse a coloro che pensavano che la venuta del Signore ci fosse già stata:

    "Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l'apostasia e non sia stato manifestato l'uomo del peccato, il figlio della perdizione".

In un altro passo, Paolo dice:

    ''Ma lo Spirito dice esplicitamente che nei tempi futuri alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demòni". (I Timoteo 4:1)

Oppure:

    "Badate, fratelli, che non ci sia in nessuno di voi un cuore malvagio e incredulo, che vi allontani dal Dio vivente;" (Ebrei 3:12).

E in 2 Timoteo 4:4, nel contesto degli avvertimenti sulla fine dei tempi, Paolo dice: "e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. "
   Queste scritture mostrano che più ci avviciniamo alla fine dei tempi e all'apparizione dell'Anticristo, più la spazzatura aumenterà. Ma perché ci sia apostasia, deve esserci prima qualcosa da cui le persone possano "cadere" qualcosa che li influenzi. Se cerchiamo qualcosa nel nostro mondo occidentale che ha influenzato i grandi settori della società per lungo tempo, non possiamo evitare di nominare la parola cristianesimo.
   Il cristianesimo nel suo complesso non include più "solo" i veri credenti in Gesù Cristo, ma tutti coloro che si definiscono culturalmente cristiani, anche se non hanno fatto un'esperienza reale di conversione. L'intero Occidente e molte altre parti del mondo sono state influenzate dal cristianesimo e dalla Bibbia. Lo vediamo nella storia, nella letteratura, nelle leggi, nelle abitudini, nell'educazione, nei valori, nelle tradizioni, nell'arte e in molte altre cose ... persino negli eventi storici adoperiamo la dicitura prima di Cristo e dopo Cristo.
   È disarmante appurare quanto sia andato perduto negli ultimi decenni. I valori cristiani sono diventati uno "scandalo", un motivo di scherno, disprezzo e persino persecuzione. Purtroppo, anche i veri credenti possono essere influenzati da queste tendenze. Soprattutto nel contesto di 2 Timoteo, Paolo mette in guardia contro un tempo molto pericoloso. Se vogliamo sapere se la venuta del Signore sia vicina, ciò che dobbiamo fare è leggere le ultime parole dell'apostolo Paolo. Nella seconda epistola a Timoteo, che potrebbe anche essere stata scritta per sua volontà, l'apostolo mostra le caratteristiche degli uomini nei tempi della fine. Introduce l'argomento con un serio avvertimento:

    "Or sappi questo: negli ultimi giorni verranno tempi difficili" (2 Timoteo 3:1).

Le caratteristiche che l'apostolo menziona non sono molto diverse da quelle di Romani 1, dove vengono generalmente descritte le persone che non vogliono sapere nulla di Dio. Perché, quindi, quest'altro serio avvertimento?
   Perché il pericolo degli "ultimi giorni" non proviene da persone che sono lontane da Dio, ma queste caratteristiche sono visibili in molti che si considerano cristiani.
   In generale, tutto l'Occidente (Europa, Americhe, Australia e parte dell'Asia e dell'Africa) fin dalla sua cristianizzazione è stato caratterizzato, fino alla metà del 20° secolo, da un certo timore di Dio. La legislazione, i valori morali e la comprensione di come dovrebbe essere una vita sana sono stati plasmati dagli standard nella Parola di Dio. Ovviamente ciò non significa che tutte le persone abbiano creduto, ma il peccato non era considerato una virtù. Questo atteggiamento è cambiato drasticamente dagli anni '60. La rivoluzione sessuale e quella femminista, fatte di fornicazione e infedeltà, sono diventati valori per cui vale la pena lottare, espressione di autenticità e di vero amore.
   Sempre più "cristiani" si sono affannati nella ricerca e l'interesse per le religioni orientali e demoniache e anche la teoria dell'evoluzione ha soppiantato nell'insegnamento il creazionismo riducendolo a una favola per bambini o a uomini che credono alle favole.
   Il declino del pensiero etico ha sviluppato conseguenze di vasta portata nel comportamento morale di molti. L'uso di droghe è fuori controllo. Il Satanismo è diventato qualcosa che si fa per gioco o noia: "In fondo, non crediamo veramente nell'esistenza del diavolo". Tutto ciò ha pervertito il cristianesimo come mai prima d'ora. Gli effetti di questa apostasia su larga scala possono essere notati in 2 Timoteo 3. Quando Paolo parla degli "ultimi giorni", intende già il tempo di Timoteo (versetto 5). Ma è evidente che la caduta ha raggiunto oggi un livello senza precedenti.
   Paolo inizia con "egoista". Le persone della fine dei tempi sono egocentriche, egoiste e vanitose. Questa è l'essenza del peccato. Il centro di queste persone che amano smisuratamente se stessi è il regno dell'"ego" e quando l'ego governa, non c'è spazio per gli altri. Tutto è concentrato su di sé, sulla scoperta di sé, sulla "mia identità". «Io voglio dire», «Io penso», «Io voglio» e Io sono più importante della volontà di Dio, non c'è tempo per Dio.
   Al massimo gli diamo ciò che avanza dopo che l'Io si è realizzato. Una prova profana di questo sviluppo è l'auto-rappresentazione su Internet. Siamo diventati una società di selfie in cui il grande ego appare sempre per primo nella foto.
   Questo amor proprio si esprime anche in un amore sovradimensionato per il proprio corpo. Chiunque non si senta a suo agio con il proprio corpo, oggi, nella migliore delle ipotesi, lo ritrae modificato, si sottopone a interventi di chirurgia estetica o, nella peggiore delle ipotesi, cambia il proprio sesso.
   Questo culto di sé, in cui l'uomo si trova da solo al centro e dà vita alla massima autorità del cielo e della terra, si è da tempo infiltrato nelle comunità. Il vangelo della prosperità dei nostri tempi dice: "Dio vuole che tu ti senta bene. Fai solo ciò che ti fa sentire bene. Deve essere giusto per te. Sentiti libero di fare qualsiasi cosa che porti appagamento, gioia o piacere". Se sia secondo con la Parola di Dio non è più fondamentale. Principi biblici come la consacrazione (Romani 12:1) o l’autocontrollo (Galati 5:22) non sono più moderni e si ascoltano sempre più raramente dai pulpiti.
   L’altro aspetto malvagio nella lista che considereremo è "avido" o "amante del denaro".
   Questo aspetto è strettamente correlato al precedente. Se ti ami, ti servono più soldi per poter soddisfare te stesso sempre di più. L'auto-amante raccoglie denaro e beni e non c'è nulla, o comunque poco, che resta per gli altri. Non si rende conto di quanto il suo egoistico amore per il denaro influenzi tutte le sfere della sua vita: personale, familiare e sociale.
   Il nostro Signore Gesù ci ha messo in guardia contro questo in Luca 12:34, "Perché dov'è il vostro tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. " Ha anche detto che l'amore per il denaro è un idolo di questo mondo:

    ''Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona." (Matteo 6:24).

Sfortunatamente, molti cristiani cadono vittime di questa trappola. Vivono solo per le cose materiali e danno al Signore solo ciò che avanza. Vola in tutto il mondo per le vacanze, ma non ha tempo per la missione in tutto il mondo. Spende molto per se stesso, ma il lavoro per il Signore si blocca perché mancano i mezzi.
   Successivamente, Paolo nomina i "vanagloriosi". Se stai cercando te stesso e hai un sacco di soldi, devi affermarlo. Coloro che amano soldi si vantano della loro auto nuova, dell'ultimo modello di cellulare, dei vestiti firmati, delle ultime vacanze che hanno passato, di quello che hanno o non hanno fatto. E chi non riesce a stare al passo con gli altri allo stesso modo, si riempie di debiti, per poter, anche lui, rappresentare qualcosa.
   Sfortunatamente, questo tipo di atteggiamento non è assente nelle nostre comunità. Alcuni riescono persino a vantarsi di cose simili nel servizio che danno per il Signore.
   Segue l'essere "superbo" nei confronti degli altri. I sostenitori egoisti e amanti del denaro dei tempi finali sono arroganti. Sgomitano l'uno contro l'altro. Uno dei valori più importanti del cristianesimo è l'umiltà, ma anche questo modo di essere ha perso il suo valore, l'umiltà è considerata una debolezza. Anche i cristiani possono essere accecati dai titoli, dal rispetto dovuto, dal riconoscimento delle persone e dalla condiscendenza. Non c'è più molto spazio per l'umiltà.
   Paolo continua con i "bestemmiatori".
   Si tratta di degradare Dio e gli altri. Tutti possono dire cose di ogni genere su Gesù, Dio, la Bibbia e i cristiani. Credo che il cristianesimo sia la religione che più di ogni altra insulti la propria fede. Per le altre religioni, Cristo è ancora un grande maestro o profeta, ma purtroppo è bestemmiato dagli stessi cristiani. I servizi ecclesiastici diventano uno spettacolo e gli editori si rifiutano di parlare della giustizia di Dio, del peccato, della croce, del sangue di Gesù o della confessione dei peccati.
   Gli attacchi più pericolosi sulla Bibbia non provengono dall'esterno ma dall'interno, dai teologi liberali che mettono in discussione il soprannaturale e addirittura negano la risurrezione di Gesù. Sebbene si definiscano cristiani, negano i principi basilari del cristianesimo.
   La caratteristica successiva menzionata da Paolo è, "disobbedienti ai genitori", non sarebbe neanche necessario menzionarla. L'educazione anti-autoritaria è "in". Ma se i bambini non imparano ad obbedire ai genitori - che è un comandamento - non lo faranno né a Dio, né ad altre autorità.
   Paolo continua con "ingrati". Questo va a braccetto con il precedente. Se non rispetti i tuoi genitori, non sarai neanche grato. Questo principio si applica a tutti i casi in cui qualcuno ci fa del bene - soprattutto Dio stesso - e non lo apprezziamo. Non vi capita, nelle comunità che frequentiamo, di trovare più critiche che parole di ringraziamento. Dopo l'ingratitudine, Paolo menziona "irreligiosi" - eroe essere "lontani da Dio". Colui che è ingrato non ha bisogno di Dio. Un adolescente a cui fu offerto un Nuovo Testamento dai Gedeoni disse: "Non ne ho bisogno. Ho tutto".
   Ma l'ateismo è più di una vita lontana da Dio; è una vita che agisce concretamente contro di lui. Le leggi che un tempo difendevano i valori cristiani sono gettate in mare e invece i matrimoni omosessuali, l'aborto, l'eutanasia sono legalizzati e proclamati come libertà dell'uomo.
   Nel versetto 3, l'apostolo aggiunge "insensibili". Ciò significa trascurare o persino attaccare coloro che sono più vicini a te. Quanti dimenticano i loro genitori nelle case di riposo! In tutto il mondo vengono eseguiti annualmente 56 milioni di aborti. La prostituzione infantile e la pedofilia sono in aumento. Ciò che l'uomo dovrebbe proteggere naturalmente.vìene trascurato, tormentato o persino ucciso.
   "Sleali" è la prossima triste caratteristica. Gli inconciliabili litigano su tutto ciò che è possibile e non si uniscono più. Lo vediamo nei matrimoni, ma anche a livello sociale in manifestazioni grandi e violente e nel crescente irrigidimento delle ideologie di destra o di sinistra dello scenario politico. I programmi di notizie e intrattenimento sono pieni di ostilità e problemi irrisolvibili.
   Segue "calunniatori". Questa è una delle caratteristiche del diavolo in persona. Per i detrattori, non importa se qualcosa sia vero o no, la cosa principale, è mettere l'altro in cattiva luce. Più volte sentiamo che viviamo oggi nel tempo della post-verità. Non sembra importante se i media dicano la verità. La cosa importante è che si adatti al mio concetto di "verità".
   Questo si nota soprattutto nella battaglia politica di oggi.
   Anche in questo caso, molti cristiani prestano le loro lingue al diavolo per calunniare gli altri. Si inizia con il vicino e non ci si ferma davanti al fratello nella comunità.
   Un'altra caratteristica è "intemperanti", è l'opposto della moderazione. L'uomo infedele vive secondo i suoi impulsi e questo porta all'illegalità, all’immoralità che vediamo nel nostro mondo. Tutto è non solo permesso ma addirittura promosso dai media e dalla legislazione. L'autocontrollo diventa il messaggio che si deve criticare e ridicolizzare. Come conseguenza, difficilmente vediamo famiglie sane, ormai l'uomo - inteso come genere umano uomo e donna - vive solo. I divorzi, che solo pochi anni fa erano considerati una catastrofe, oggi sono normali, anzi l'anormalità diventa un matrimonio che dura da decenni, a volte, ci si sente · chiedere: "sposato sempre con la stessa donna?"
   Si, essere sposati con la stessa donna da venti, trenta o quarant'anni non è normale. La parola d'ordine è: "se non funziona più, cerca un nuovo compagno e rifatti una vita". La pornografia e la pedofilia sono dilaganti e sempre più tollerati
   Chi difende l'autocontrollo oggi?
   Un altro termine, che Paolo nomina è "spietati". Questo potrebbe anche essere tradotto in "brutale", "assetato di sangue" o "crudele".
   Tra le altre cose, si tratta di persone che amano la violenza fine a se stessa e questo i media moderni lo sanno bene. Sentiamo sempre più, notizie di stupri e molestie sessuali, purtroppo anche di responsabili del cosiddetto mondo cristiano. Vediamo anche la crescente crudeltà nei campi di calcio, per strada e, purtroppo, spesso nelle famiglie.
   Un altro punto è: "senza amore per il bene". E' il contrario di gentilezza, misericordia e altri valori cristiani. Lo vediamo di nuovo nei media, nelle leggi, nelle lezioni scolastiche, ecc.
   Il versetto 4 continua con "traditori". Gli infedeli sono disposti a tradire, lasciare e trattare ingiustamente il coniuge, l'amico, la famiglia o chiunque possa averli aiutati. La promessa "Finché morte non vi separi" spesso non viene menzionata ai matrimoni o liquidata come frase divertente. Quante promesse quotidiane non vengono mantenute? E chi spera ancora che un politico mantenga le promesse fatte in campagna elettorale?
   Naturalmente, la fedeltà alla Parola di Dio è anche tra le motivazioni di persecuzione che arriva, ancora oggi, a costare la vita a molti nostri fratelli. Ecco perché i veri cristiani ovunque sono sempre più nei guai. Questo infatti dice l'Apostolo nel versetto 12: ''Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati”. Ci saranno sempre più persone ostili al Vangelo e al Vero Cristiano.
   L'apostolo Paolo continua con "sconsiderati". Quanti, soprattutto giovani, mettono a rischio la propria vita in modo sconsiderato facendo cose pericolose per il semplice gusto di farlo o per noia, oppure solo per poter postare su YouTube o Facebook le loro bravate. Più audaci e pericolose sono, più sembrano essere obbligati a farle e va a finire che il bungee jumping diventi solo un gioco per ragazzi.
   La prossima caratteristica malvagia che Paolo menziona è "gonfi ". Questi sono quelli che non prendono in considerazione nient'altro o nessun altro se non se stessi e le loro opinioni. Questo assume il suo apogeo a livello politico, dobbiamo però considerare che anche l'ambiente cristiano non è immune, anzi...
   E ora Paolo menziona una caratteristica che è ben nota a tutti noi: "amanti del piacere anziché di Dio". Viviamo in un mondo in cui hobby, divertimento e svago sono diventate le cose più importanti. A tutto viene dato un valore e una priorità più alta rispetto a Dio. Una volta, prima dell'inizio del culto, chiesi a una donna sposata da poco se suo marito fosse rimasto a casa perché aveva problemi di salute. Lei rispose: "È rimasto a casa a guardare un film".
   Molti godimenti passano su tutto. L'uomo fa ciò che gli piace, ciò che lo diverte o ciò che ha voglia di fare, tutto il resto non conta nulla. Anche a questo i cristiani non sono esenti. Se manca la motivazione, la Bibbia semplicemente non sarà letta, non si pregherà, non si andrà alle riunioni, non si servirà il Signore. I nostri desideri vanno oltre i chiari ordinamenti biblici, e se non ne abbiamo voglia, sentiamo che abbiamo anche il diritto di disobbedire a Dio. Una delle più grandi industrie del nostro tempo è quella dell'intrattenimento, a cui il cristiano sfortunatamente regala molto tempo. Attenzione, non significa che non possiamo godere di qualcosa di bello, ma non deve essere in conflitto con Dio, con la sua parola, con il nostro ministero e con le priorità, che restano sempre quelle di mettere Dio al primo posto.
   Quando c’è dipendenza, molti piaceri spesso sono terreno fertile per un atteggiamento frivolo e superficiale verso l'immoralità. Alcuni cercano di vivere un po' per Dio, e un po' cedere alle concupiscenze mondane, ma Dio e la Sua opera non sono negoziabili e non ammettono secondi posti o posti che sono in concomitanza con ciò che è la loro antitesi. E se ci affidiamo all'apostolo Giacomo, allora il linguaggio è ancora più pesante:

    "O gente adultera, non sapete voi che l'amicizia del mondo è inimicizia contro Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio." (Giacomo 4:4).

Nel versetto 5, Paolo nomina la caratteristica che sintetizza tutte le precedenti: “aventi le forme della pietà , ma avendone rinnegata la potenza”. Le caratteristiche negative menzionate degli uomini dei tempi della fine cresceranno sempre più e si troveranno anche nella cristianità e nella chiesa, fino a giungere al compimento totale di ciò che Gesù disse riguardo al tempo dell'Anticristo:

    ''perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti, e faranno gran segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti." (Matteo 24:24).

Gesù dirà in Luca 18:8: "Quando verrà il Figlio dell'uomo, troverà la fede sulla terra?"
   Sarà una società segnata da ipocrisia religiosa. Come si sta verificando già oggi, esternamente, queste persone agiscono come cristiani, ma internamente sono lontani da Cristo.
   Quanti oggi si autodefiniscono cristiani, ma non vivono secondo la volontà di Dio?
   Quanti hanno una vita religiosa, ma nessuna vera relazione interiore con Lui? In questo modo si aprono a tutti i tipi di influenze oscure.
   L'apostolo li aveva già avvertiti in 1 Timoteo 4:1: "Ma lo Spirito dice espressamente che nei tempi a venire alcuni apostateranno dalla  fede, dando retta a spiriti seduttori, e a dottrine di demoni".
   La seduzione raggiunge e si installa nelle nostre comunità.
   In 2 Timoteo 4:3-4, l'apostolo elenca ancora una proprietà che sarà in mostra nella direzione indicata dalla società dei rifiuti: "Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. "
   Questa è una tendenza pericolosa che può essere vista nei circoli evangelici, dove echeggia ancora una volta l'argomento: "Dobbiamo dare ai credenti ciò che li soddisfa o che li fa stare bene".
   Tale atteggiamento influenzerà la profondità e la serietà dell'interpretazione delle Scritture e della comprensione del peccato. Le comunità diventano club cristiani, dove si partecipa a ciò che è divertente o piacevole. I cristiani che resistono sono etichettati come legalisti, conservatori, fanatici o ultimo attributo in senso dispregiativo, fondamentalisti al pari dei fondamentalisti islamici. La Bibbia viene sempre più messa da parte da molti cristiani e chiese locali considerandola un libro a volte importante ma antiquato, non al passo con i tempi, un libro che va adattato alle circostanze e al periodo. Sono necessarie nuove mode, tendenze o insegnamenti. È più interessante seguire un uomo che parla bene che la parola di Dio. A ogni nuova ondata o moda che arriva dal web si apre con entusiasmo la porta, senza misurarla con la Bibbia, e visto che tutti lo fanno, sicuramente sarà buono. In ogni caso sarà «in».
   Sfortunatamente, questi falsi fratelli stazionano anche nelle chiese locali e noi dobbiamo allontanarci da loro. La Parola di Dio è esplicita a questo proposito:

    ''Perciò uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d'immondo; ed io vi accoglierò” (2 Corinzi 6:17).

Tutto questo non sarà senza la sua giusta punizione,

    ''Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro son quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, agitate da varie cupidigie, che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede." (2 Timoteo 3:6-8).

Cadranno preda delle proprie passioni e correranno dietro a ogni nuova ondata religiosa senza mai essere veramente soddisfatti. Quando le loro vite o dottrine sono testate da Dio, risultano inutili: 'Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini." (versetto 9). I loro rifiuti diventano sempre più distruttivi: "mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti" (v. 13).
   Dopotutto, credono alle loro stesse bugie. Non dovremmo sorprenderci se la nostra società si ammalerà mentalmente sempre più. La cosa peggiore è che questo produrrà il giudizio di Dio che è già alla porta.
   A quattro delle chiese a cui l'apostolo Giovanni scrive in Apocalisse per ordine del Signore, troviamo questa accusa:

    "Ma ho alcune poche cose contro di te: cioè, che tu hai quivi di quelli che professano la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac a porre un intoppo davanti ai figli d'Israele, inducendoli a mangiare delle cose sacrificate agli idoli e a fornicare. Così hai anche tu di quelli che in simil guisa professano la dottrina dei Nicolaiti." (Apocalisse 2:14-15).

Nella comunità di Tiatiri, una donna di nome Jezebel cerca di sedurre i membri nell'immoralità ed è tollerata (Apocalisse 2:20-21).
   Nella comunità di Sardi sono rimasti solo pochi che non hanno contaminato le loro vesti, cioè le loro vite (Apocalisse 3:4).
   E a Laodicea troviamo tiepidezza, compiacimento, materialismo e la mancanza della presenza del Signore. L'unica cosa che fermerebbe il giudizio di Dio è il profondo e sincero pentimento (Apocalisse 2:16,21,22; 3:19).
   Da un lato, quando questi attributi sono evidenti nell'intera società, che si definisce cristiana e si riversa nelle chiese, è un segno che Gesù sta arrivando e possiamo confortarci e gioire per questo. D'altra parte, questo è anche un serio avvertimento per noi. Perché se scopriamo di avere tali caratteristiche presenti nelle nostre vite, è arrivato il momento di pentirci e tornare a Dio.
   Per grazia sua, ci ha dato molte cose che possono salvarci dalla frode, dalla contraffazione e dalle pericolose influenze della spazzatura. L'apostolo Paolo stesso indica la madre e la nonna di Timoteo come modello:

    "Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, a' miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza, alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte .... Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate" (2Timoteo 3:10-11,14).

Certamente anche noi abbiamo - oltre a quelli menzionati nella bibbia - esempi simili intorno a noi: fratelli nel Signore, che costantemente percorrono la via con Lui e che il Signore usa in modo meraviglioso. Conoscete qualcuno che è un modello attraverso la sua testimonianza, la sua famiglia e il suo ministero? Imitatelo! Solo i cristiani fedeli hanno il coraggio di nuotare contro corrente. Ce ne sono pochi, ma esistono ancora. Al capitolo 3, versetto 1 Giovanni ci ammonisce:

    "Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare; chiunque persiste nel peccare non l'ha visto, né conosciuto."

Lo scrittore agli Ebrei ci porta con il seguente avviso: ''Ma noi non siamo di quelli che si traggono indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per salvar l'anima." (Ebrei 10:39). E dopo che l'autore elenca la fedeltà degli eroi della fede, nonostante le loro lotte, difficoltà e persino il loro martirio, pronuncia la seguente dichiarazione: '

    'Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l'infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio" (Ebrei 12:1-2).

Per nessuno di questi eroi d'onore è stato facile rimanere fedele. Anche al Signore Gesù costò pesanti combattimenti, lacrime e sudore di sangue nel Getsemani, a cui seguì la sua sofferenza e morte sul Golgota. Ma questa fermezza ha portato la pienezza delle benedizioni. Vale la pena seguire questi esempi! Paolo incoraggia Timoteo: '

    'Studiati di presentar te stesso approvato dinanzi a Dio: operaio che non abbia ad esser confuso, che tagli rettamente la parola della verità." ... e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" ( 2 Timoteo 3:15-17).

Perché dovremmo prestare attenzione a fonti dubbie se troviamo nella Bibbia la sicurezza, le benedizioni e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per una sana maturità? Dio per la nostra generazione parla nello stesso identico modo con cui ha parlato al suo popolo:

    «Il mio popolo infatti ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d'acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (Geremia 2:13).

Dobbiamo rinnovare i nostri pensieri, allinearci a Dio e alla Sua Parola e non lasciarci riempire di principi mondani.

    ''Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra". (Colossesi 3:1-2).

Per cosa usiamo o sprechiamo il nostro tempo libero? Cosa succede nei nostri pensieri? Quali sono le nostre azioni? Se nei nostri pensieri c'è molta mondanità, allora agiremo in modo simile al mondo. Ma se i nostri pensieri sono pieni di Cristo, della Sua Parola e della Sua Presenza, allora agiremo come Cristo e diventeremo sempre più simili a Lui. Pertanto lasciate che "la parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza" (Colossesi 3:16).
   Nel capitolo 4 di 2 Timoteo, l'apostolo ha un'altra forma di protezione dai rifiuti:

    ''Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno: Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo .... Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministerio." (2 Timoteo 4, 1-2,5).

Questa esortazione apostolica a Timoteo ci mostra quanto sia importante portare a termine la missione che Dio ci ha affidato e per la quale ci ha preparato (Efesini 2:10). Invece di perdere tempo, investire nel mondo o aprire le orecchie alla sua seduzione, serviamo il Signore fedelmente nel posto che ci ha dato, e facciamo le opere che Egli ha preparato per noi. Se lo facciamo, non avremo tempo perso e non sprecheremo risorse importanti in questi giorni "cattivi" (Efesini 5:16).
   Data la crescente apostasia e le parole dell'apostolo Paolo, potremmo chiederci se davvero paga essere fedeli al Signore e alla Sua Parola. Pertanto, Paolo chiude questa triste lettera con alcune parole di gioia, conforto, speranza e incoraggiamento per il futuro.
   Una delle più grandi gioie del cristiano è sapere che ha adempiuto al suo compito. L'apostolo Paolo testimonia la sua vita:

    ''Io ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede" (2 Timoteo 4:7).

C'è qualcosa di più grande che essere in grado di testimoniare, alla fine della nostra vita qui sulla terra, che siamo stati fedeli e abbiamo realizzato le opere per le quali Dio ha creato e ci ha promesso? Se il Signore ci chiamasse a casa oggi, potremmo dare la stessa testimonianza dell'apostolo?
   E se questo può sembrare poco, all'apostolo è concesso dallo Spirito di Dio uno sguardo al momento dopo il rapimento della chiesa: "del rimanente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione." (v. 8). Il Signore esaminerà il nostro ministero e le nostre vite e di conseguenza ci ricompenserà. Se teniamo questo a mente, vale davvero la pena lottare, investendo sull'eternità e compiere fedelmente il nostro ministero! E questa ricompensa è legata alla costante aspettativa della venuta del Signore.
   Non sappiamo quanto tempo sia rimasto fino alla venuta del Signore. L'opposizione è grande, la lotta è brutale e l'influenza è enorme. A volte ci sentiamo come l'apostolo, soli senza nessuno al nostro fianco (v 16 ), ma nello stesso tempo, dice con sicurezza una verità che deve valere anche per noi oggi:

    ‘’Il Signore però mi ha assistito e mi ha reso forte, affinché per mezzo mio il messaggio fosse proclamato e lo ascoltassero tutti i pagani; e sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni azione malvagia e mi salverà nel suo regno celeste. A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen." (v. 17-18).

Quindi termineremo coraggiosamente e con sicurezza il corso "fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta" (Ebrei 12: 2).

(Chiamata di Mezzanotte, marzo/aprile 2018)


 

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Ingresso vietato agli ebrei": è escalation antisemita in Francia

di Filippo Jacopo Carpani 

Continuano gli episodi antisemiti in Francia, Paese che si sta configurando come centro dell’odio anti-ebraico. A Parigi, sono comparse le scritte “fuori gli ebrei” e “ingresso vietato agli ebrei” fuori da un negozio nella rue de Cilchy, nel 17esimo arrondissement. È evidente il richiamo al periodo nazista, in cui agli Juden era vietato entrare in molti esercizi commerciali in Germania e nei territori occupati dal Terzo Reich.
   Questo avvenimento è solo l’ultimo segnale d’allarme per la comunità ebraica francese, vittima di una recrudescenza di un odio riesploso in concomitanza con l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas. Dal 7 ottobre, sono 817 gli episodi di antisemitismo segnalati alle autorità d’Oltralpe, più di quanti se ne sono verificati nell’intero 2022. Tra questi, vi sono offese verbali, graffiti, aggressioni fisiche e minacce di morte. Il caso più eclatante, comparso sui quotidiani di tutto il mondo, è quello delle stelle di David e di scritte antisemite dipinte sui muri di negozi e palazzi nel 14esimo arrondissement della capitale e in tre comuni nell’hinterland parigino. Il fatto risale a martedì 31 ottobre e la preoccupazione della comunità ebraica francese continua ad aumentare.
   “Nascondere la propria religione non protegge più”, racconta il 20enne David a France24 dopo una cerimonia in una sinagoga presidiata dalle forze armate. “Per questo gli ebrei si stanno sempre più ritirando all’interno delle proprie comunità. Vi è il desiderio di restare con persone che affrontano i tuoi stessi problemi”. Il giovane parla anche di un episodio accaduto ad alcuni suoi amici, seguiti e minacciati da un gruppetto di ragazzi.
   L’emittente francese raccoglie altre testimonianze di ebrei che denunciano un cambiamento nelle loro vite a causa di questa situazione. “Dal 7 ottobre ho paura ad andare in quartieri o mercati arabi e musulmani. Prima non era così”, afferma un disegnatore di fumetti 36enne, rimasto anonimo. “Spesso parlo in ebraico al telefono, ascolto musica ebraica, scrivo in ebraico. Temo che mi si possa sentire o vedere mentre sono distratto e che questo porti ad attacchi fisici o verbali”. Una libera professionista di 47 anni, invece, si dice quasi spaventata dal fatto che “nel mio contesto lavorativo e sociale, semplicemente non si parla della guerra. E questo nonostante il fatto che nel mio gruppo di conoscenze si discuta spesso di politica. Sembra di essere in una realtà parallela”.
     Ci sono anche coloro che rifiutano di cedere alla paura e continuano a vivere senza nascondere la propria appartenenza religiosa. Joelle Lezmi, 70enne ex presidente dell’associazione sionista femminile Wizo e residente a Creil, ricorda il periodo della seconda Intifada (2000-2005): “Qui abitavano 400 famiglie di ebrei. Ora sono 35. Gli altri sono emigrati in parti diverse della Francia. Io mi rifiuto di avere paura e continuerò a vivere qui”.

(il Giornale, 4 novembre 2023)

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Se non è amore, prima o poi diventa odio

Il sito “Notizie su Israele” è presente in rete da più di vent’anni. La pagina più consultata è certamente quella iniziale, dove compaiono notizie attuali e loro commenti, ma chi è interessato al tema Israele potrebbe trarre beneficio anche da quello che si trova in altre rubriche, elencate nella colonna di sinistra. In una di queste, titolata “Riflessioni”, si possono trovare considerazioni varie; tra queste ne segnalo una inserita diversi anni fa che qui riporto in forma grafica più incisiva:

  Nei confronti del popolo ebraico si possono avere tre tipi di sentimenti:
  • amore
  • odio
  • indifferenza.
  Nei momenti critici, l’indifferenza si trasforma in odio.

Oggi è uno di questi momenti critici. M.C.

(Notizie su Israele, 4 novembre 2023)

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Il manuale militare americano e la condotta di Israele

di David Elber

Da quando è iniziata l’operazione militare israeliana nella striscia di Gaza, contestualmente ha avuto avvio, da parte americana ed europea una poderosa campagna politica e mediatica di avvertimenti, relativi al rispetto del diritto internazionale umanitario, e su come condurre le operazioni militari.
Tutti i solidali con Israele si sono mostrati fin da subito concordi nel ritenere legittimo il suo diritto a difendersi, ma poi è sempre seguita la clausola “nel rispetto del diritto internazionale” senza mai specificare cosa preveda in caso di guerra.
Perché questa voluta omissione nello specificare le regole di ingaggio di un esercito previste dal diritto internazionale? Perché si ha il chiaro intento di stigmatizzare moralmente Israele qualsiasi azione militare intraprenda. Di fatto, questo equivale a impedirgli di difendersi adeguatamente. Sta qui tutta l’ipocrisia dei solidali. Da un lato affermano il suo diritto a difendersi, dall’altro intendono limitarlo nei fatti, adducendo motivazioni “umanitarie” mai ben specificate nel diritto internazionale. In questo modo, Israele, ogni volta che compie un’azione militare, viene subito accusato di violare una imprecisata “norma umanitaria”. 
Prenderemo come esempio di condotta militare rispettosa del diritto internazionale umanitario, il Manuale delle Leggi di Guerra in dotazione all’esercito americano nella sua versione aggiornata al luglio 2023. 
Arduo mettere in dubbio che la più grande democrazia del mondo, possa avere un manuale militare difforme delle regole del diritto internazionale umanitario.
Il corposo e strutturato testo, di oltre 1.200 pagine, recepisce le leggi di guerra internazionali (Convenzione dell’Aia del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 con i Protocolli aggiuntivi del 1977 e il diritto consuetudinario come pratica generale accettata come diritto) fatte proprie dagli Stati Uniti, normate in questo manuale di comportamento, e ritenute lecite per le proprie forze armate.   
In rapporto al tipo di guerra che sta svolgendosi a Gaza e alle raccomandazioni americane rivolte a Israele, esamineremo come il manuale sulle leggi di guerra degli USA affronta due aspetti importanti: l’assedio e la cosiddetta proporzionalità.
Il tema dell’assedio e del relativo comportamento da tenere in questi casi da parte delle forze militari impegnate ad effettuarlo, sono descritti nel manuale al punto 5.19 di pagina 320. Qui se ne riportano degli estratti salienti:  

    “È lecito assediare le forze nemiche, cioè accerchiarle con l’obiettivo di indurle alla resa tagliando loro i rinforzi, i rifornimenti e le comunicazioni con il mondo esterno. In particolare, è lecito cercare di ridurre le forze nemiche alla fame e alla sottomissione. 
    […].Il comandante di una forza di accerchiamento non è tenuto ad acconsentire al passaggio di personale medico o religioso, di rifornimenti e di equipaggiamenti se ha legittime ragioni militari per negare tali richieste (ad esempio, se il rifiuto del passaggio può aumentare la probabilità di resa delle forze nemiche nell’area accerchiata). Ciononostante, i comandanti devono compiere sforzi ragionevoli e in buona fede per farlo, quando possibile.
    […] I comandanti devono prendere accordi per consentire il libero passaggio di alcune spedizioni: 
    Tutti gli invii di forniture mediche e ospedaliere e di oggetti necessari al culto religioso destinati esclusivamente ai civili; e tutte le spedizioni di generi alimentari essenziali, indumenti e tonici (cioè medicinali) destinati ai bambini sotto i 15 anni, alle madri in attesa e ai casi di maternità.
    Tuttavia, la parte che controlla l’area non è tenuta a consentire il passaggio di questi beni, a meno che non sia convinta che non vi siano serie ragioni per temere che: 
    le spedizioni possano essere deviate dalla loro destinazione; 
    il controllo non sia efficace;
    oppure rappresenti un sicuro vantaggio per gli sforzi militari o l’economia del nemico.

Come si può desumere dalle “tecniche” di assedio contemplate e ritenute lecite, Israele non è tenuto a fornire elettricità né acqua come i solidali vogliono che faccia, ma semplicemente deve permettere il transito di beni essenziali a ben precise condizioni, cosa che, infatti, fa.    
In merito alla “proporzionalità”, il manuale fornisce informazioni interessanti. A livello generale il tema è affrontato da pagina 60 al punto: 2.40 Proporzionalità.
A pagina 61, al punto 2.4.1.2 si trova la definizione di eccessiva o irragionevole proporzionalità: 

    “La proporzionalità in genere soppesa la giustificazione dell’azione rispetto ai danni attesi per determinare se questi ultimi sono sproporzionati rispetto ai primi. In guerra, i danni accidentali alla popolazione civile e agli oggetti civili sono spiacevoli e tragici, ma inevitabili. Pertanto, l’applicazione del principio di proporzionalità nella conduzione degli attacchi non richiede che nessun danno accidentale derivi dagli attacchi. Piuttosto, questo principio crea l’obbligo di astenersi da attacchi in cui i danni previsti, conseguenti a tali attacchi, sarebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che si prevede di ottenere e di prendere precauzioni fattibili nella pianificazione e nella conduzione degli attacchi per ridurre il rischio di danni ai civili e ad altre persone e oggetti protetti dall’essere oggetto di attacco.
    Nelle leggi di guerra, i giudizi di proporzionalità spesso implicano confronti difficili e soggettivi. Riconoscendo queste difficoltà, gli Stati hanno rifiutato di usare il termineproporzionalitànei trattati relativi alle leggi di guerra [il grassetto è dell’Autore] perché potrebbe implicare erroneamente un equilibrio tra le considerazioni o suggerire che sia possibile un confronto preciso tra di esse.

Ovvero, non si può istituire un rapporto tra costi/benefici, tra una azione militare e i danni collaterali da essa prodotta. Più avanti il testo, fornisce altre indicazioni:
5.10 Proporzionalità nel condurre gli attacchi (da pagina 249). 

    “I combattenti devono prendere precauzioni fattibili nella pianificazione e nella conduzione degli attacchi per ridurre rischio di danni ai civili e ad altre persone e oggetti protetti dall’essere oggetto di attacco. 
    […] I combattenti devono astenersi da attacchi in cui la perdita prevista di vite civili, le ferite ai civili e i danni agli oggetti civili, dovuti all’attacco, sarebbero eccessivi [grassetto dell’Autore] rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che ci si aspetta di ottenere. Poco oltre si legge: Questo principio non impone obblighi volti a ridurre il rischio di danni agli obiettivi militari. Appare evidente che il danno che si può causare agli obiettivi militari è prevalente sui danni collaterali inflitti ai civili”.

In pratica, il principio di proporzionalità richiede semplicemente che i danni ai civili non siano “eccessivi” rispetto al vantaggio militare previsto da un’azione bellica. Tale concetto, come recita il manuale, è del tutto soggettivo e pertanto non quantificabile.
Si possono fare degli esempi. Se Hamas utilizza una moschea per lanciare dei razzi contro la popolazione civile israeliana, questa diventa ipso facto un legittimo obiettivo militare. Se Hamas utilizza dei piani di un ospedale o le sue parti interrate come centri di comando, l’ospedale stesso diventa un obiettivo militare legittimo. Questo avviene perché il principio di distinzione (tra combattenti e non combattenti) ben disciplinato nel diritto internazionale è stato deliberatamente obliterato da Hamas.
Cosa afferma il principio di distinzione? Che un obiettivo militare deve essere tenuto ben separato e riconoscibile dalle strutture civili, così come, che i combattenti devono essere ben riconoscibili e non mischiati alla popolazione civile. Tutto questo a Gaza è venuto meno, per una chiara volontà di Hamas di utilizzare le strutture civili e la popolazione civile come copertura per le proprie attività militari. Ne consegue che chi accusa Israele di uso “eccessivo” o “sproporzionato” della forza lo fa per ignoranza o per malafede o per entrambe. 
L’auspicio sarebbe che il Segretario di Stato, Antony Blinken, la prossima volta che si recherà in Israele, lo faccia portandosi appresso il manuale militare americano per chiedere che l’esercito israeliano lo rispetti pedissequamente.    

(L'informale, 4 novembre 2023)

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Poiché Biden si mette contro Israele, Netanyahu deve farsi valere

Se Netanyahu non si oppone agli Stati Uniti, se cede, la pressione di Washington non si fermerà.

di Caroline Glinck

Domenica il presidente americano Joe Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan hanno annunciato che gli Stati Uniti si aspettano che Israele permetta l'ingresso di "aiuti umanitari" a Gaza.
   Le implicazioni di questa posizione sono devastanti per Israele. Secondo quanto riportato, ci sono "centinaia di camion" in fila al confine con l'Egitto per entrare nella Striscia di Gaza trasportando i cosiddetti "aiuti umanitari". Questi camion, se autorizzati a entrare, non saranno ispezionati in alcun modo significativo. Non c'è motivo di credere che stiano trasportando latte artificiale e generi alimentari che saranno consegnati ai bisognosi. C'è ogni ragione di credere che stiano trasportando materiale bellico e combattenti jihadisti che sono arrivati per aumentare Hamas.
   Se anche c'è del cibo nei camion, chi sfamerà? Gli ostaggi? Gli infermi? A chi saranno consegnate le medicine? Agli ostaggi? Il carburante dei camion sarà usato nei frigoriferi per nutrire gli israeliani prigionieri?
   Ovviamente no.
   Hamas è Gaza. Tutti i "ministeri" di Gaza sono di Hamas. Tutti gli ospedali sono di Hamas. Il quartier generale militare di Hamas si trova sotto l'ospedale Shifa.
   Quindi, qualunque cosa e chiunque si trovi nei camion che trasportano "aiuti umanitari", tutti saranno consegnati ad Hamas e saranno distribuiti a beneficio di Hamas.
   L’idea che possa essere altrimenti è assurda. E il fatto che l'amministrazione Biden sostenga questa assurdità è un oltraggio.
   Anche se le "centinaia di camion" fossero completamente vuoti - e chiaramente non lo sono - i camion stessi sono strumenti di guerra. La loro presenza a Gaza farà avanzare lo sforzo militare di Hamas contro Israele. Aumenteranno la capacità di Hamas di uccidere e ferire un numero incalcolabile di soldati dell'IDF che ora si trovano al confine in attesa che il governo Netanyahu ordini loro di entrare a Gaza.
   Biden, Blinken e Sullivan, come i loro omologhi in Europa e nelle Nazioni Unite, sostengono di voler dare ad Hamas i camion per evitare un disastro umanitario a Gaza. Ma la loro posizione è in realtà devastante per i civili di Gaza.
   Impedendo ai civili di fuggire da Gaza verso il proprio territorio, anche per transitare verso Paesi terzi, l'Egitto collabora con lo sforzo bellico di Hamas. Consentendo all'Egitto di mantenere la sua posizione e chiedendo a Israele di permettere a Hamas di rifornirsi, chiamando tali rifornimenti "aiuti umanitari", l'amministrazione Biden sta intrappolando i civili di Gaza che dice di voler proteggere. Rimarranno sotto lo zoccolo duro di Hamas. Rimarranno i suoi scudi umani e la sua carne da cannone.
   Allo stesso modo, gli Stati Uniti stanno fornendo sostegno materiale alla campagna di propaganda di Hamas che incolpa Israele per la carneficina di cui Hamas è l'unico autore, sia in Israele che a Gaza.
   Gli Stati Uniti agiscono anche in violazione del diritto internazionale vincolante. Come ha spiegato il professor Avi Bell della Bar Ilan University e dell'Università di San Diego in un'intervista al "The Caroline Glick Show" di domenica, mentre Biden e i suoi collaboratori hanno insistito ripetutamente sul fatto che si aspettano che Israele rispetti le leggi internazionali di guerra nel perseguire il suo sforzo bellico contro Hamas, le posizioni dell'amministrazione in relazione a tale guerra sono illegali.
   In seguito agli attacchi jihadisti dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1373 ai sensi del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. Le risoluzioni del Capitolo 7, a differenza di altre, sono vincolanti per tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite.
   La risoluzione 1373 stabilisce che tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite devono "astenersi dal fornire qualsiasi forma di sostegno, attivo o passivo, a entità o persone coinvolte in atti terroristici".
   Qualsiasi fornitura di aiuti a Gaza, che è completamente controllata da Hamas, è ovviamente assistenza "attiva o passiva" ad Hamas, e quindi illegale.
   La Risoluzione 1373 richiede inoltre a tutti gli Stati membri dell'ONU di "negare un rifugio sicuro a coloro che finanziano, pianificano, sostengono o commettono atti terroristici, o forniscono rifugi sicuri".
   Dopo la visita in Israele di giovedì scorso, Blinken si è recato in Qatar. Il Qatar ospita i principali responsabili del terrorismo di Hamas. Hanno pianificato le loro atrocità dal Qatar. Il denaro e le armi dell'Iran vengono convogliati ad Hamas attraverso il Qatar. Il canale satellitare Al Jazeera del Qatar è una componente integrale della macchina del terrore di Hamas. Lunedì mattina, l'IDF ha annunciato che i giornalisti di Al Jazeera stanno trasferendo ad Hamas informazioni sul posizionamento e sul numero delle truppe dell'IDF, sia direttamente che attraverso le loro trasmissioni.
   Il Qatar è Hamas.
   Invece di designare ufficialmente il Qatar come Stato sponsor del terrorismo, venerdì scorso Blinken ha accolto il Ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman bin Jassin Al Thani come un alleato. E questo ha senso perché, dal punto di vista dell'amministrazione, l'ospite di Hamas è un alleato degli Stati Uniti. Poco dopo essere entrata in carica, l'amministrazione Biden ha designato il Qatar come uno dei principali alleati non appartenenti alla NATO, la stessa designazione di cui gode Israele.
   Accogliendo il Qatar come alleato invece di punirlo per il suo ruolo centrale a tutti i livelli dell'infrastruttura terroristica di Hamas, l'amministrazione sta violando il diritto internazionale, ancora una volta. Sta anche tradendo Israele.
   Nell'intervista rilasciata a 60 Minutes, Biden ha affermato che gli Stati Uniti si oppongono all'obiettivo bellico di Israele di annientare Hamas e distruggere la sua capacità di governare in qualsiasi modo a Gaza. Invece, Biden ha tracciato una distinzione oscena e immaginaria tra Hamas e "elementi estremi di Hamas".
   Biden ha anche appoggiato l'idea che Israele dovrebbe abbattere Hamas di qualche gradino, ma non conquistare Gaza. Ha invece lasciato intendere che l'Autorità Palestinese controllata dall'OLP, che sostiene Hamas e che funge da ministero degli Esteri alle Nazioni Unite e nelle capitali mondiali, dovrebbe governare Gaza.
   In quanto superpotenza, gli Stati Uniti sono nella posizione di schierarsi contemporaneamente con Israele e con Hamas. E questa è chiaramente la politica attuale dell'amministrazione Biden. L'obiettivo dell'amministrazione, a quanto pare, è quello di impedire a Israele di vincere e di costringerlo a combattere fino al pareggio, nel migliore dei casi. Questo è perfetto per Hamas, che sopravvivrebbe e, con i suoi amici negli Stati Uniti, nelle Nazioni Unite, in Iran, in Qatar e in tutto il mondo arabo e occidentale, si ricostruirebbe più forte che mai.
   Per Israele sarebbe una calamità di proporzioni bibliche. Solo al mondo, e trattato in modo infame dal suo apparente alleato statunitense, Israele uscirebbe dalla guerra con la sua posizione regionale a pezzi. La pace con Egitto e Giordania probabilmente non sopravvivrebbe a lungo. Gli Accordi di Abramo verrebbero annullati. E l'idea stessa di normalizzare i legami con l'Arabia Saudita verrebbe spinta nel buco della memoria. L'Iran si ergerebbe a superpotenza regionale e nel giro di pochi mesi potrebbe testare un'arma nucleare. Il futuro di Israele, in breve, sarebbe desolante.
   A ben vedere, con l'opinione pubblica israeliana ormai unita dietro l'obiettivo di sradicare Hamas, la posizione dell'amministrazione dovrebbe essere impossibile da vendere al popolo di Israele. Apparentemente riconoscendo questo stato di cose, durante la sua breve visita in Israele il 12 ottobre, Blinken ha incontrato l'organizzazione paramilitare Brothers in Arms. Fino alla guerra, Brothers in Arms era una forza d'urto che costituiva la spina dorsale delle rivolte antigovernative. I suoi membri aggredivano abitualmente ministri del governo e membri della Knesset della coalizione di governo di Netanyahu, nonché accademici, uomini d'affari e giornalisti che sostenevano il governo Netanyahu. Brothers in Arms ha lavorato per minare la prontezza dell'IDF, chiedendo ai membri delle unità di riserva chiave, in primo luogo ai piloti dell'Aeronautica, di rifiutarsi di prestare servizio sotto il governo Netanyahu.
   Dopo le atrocità del 7 ottobre, con il sostegno dei suoi finanziatori miliardari, Brothers in Arms ha lanciato una straordinaria e massiccia campagna di assistenza civile per il sud, seconda a nessuna nello sforzo bellico nazionale. La sua operazione ha ottenuto il legittimo plauso di tutti i settori della società israeliana.
   Tuttavia, la visita di Blinken alla loro operazione di assistenza è stata un segnale per Netanyahu. Lo stesso vale per la sua decisione di incontrare il leader dell'opposizione Yair Lapid durante la sua visita di lunedì. Se Netanyahu non si piegherà alle pressioni dell'amministrazione per salvare Hamas, l'amministrazione si rivolgerà a personaggi come Brothers in Arms e Lapid per minare ancora una volta la stabilità e la coesione interna della società israeliana, questa volta al culmine dell'operazione di terra a Gaza.
   Netanyahu, indebolito politicamente dall'aggressione, potrebbe vivere i suoi ultimi giorni da leader nazionale. Persino molti dei suoi più ferventi sostenitori stanno suggerendo che potrebbe essere costretto a dimettersi una volta terminata la guerra. Sia che Netanyahu veda la fine davanti a sé, sia che creda di poter rimanere al potere una volta terminata la guerra, il suo futuro e la sua eredità sono ora in gioco.
   Se Netanyahu si oppone agli Stati Uniti, potrebbe trovarsi di fronte a una ripresa delle violente proteste contro di lui e il suo governo. Se ciò accadrà, l'obiettivo degli operatori che organizzano le proteste sarà quello di minare il morale in un periodo di guerra. A giudicare dalla copertura mediatica fino ad oggi, i rivoltosi saranno sostenuti da quasi tutti gli organi di informazione del Paese.
   D'altra parte, se si opporrà a Biden, Netanyahu darà ai soldati e ai comandanti dell'IDF l'opportunità di combattere questa guerra fino alla vittoria e di proteggere Israele per i prossimi anni.
   Se Netanyahu non si oppone agli Stati Uniti, se si piega, la pressione di Washington non si fermerà. Cedendo, non farà altro che stuzzicare l'appetito di personaggi come l'inviato americano in Palestina Hady Amr, che ha un curriculum pubblico di sostegno ad Hamas (e ha lavorato a Doha, in Qatar, durante gli anni di Trump). Amr e i suoi colleghi intascheranno la prima concessione di Israele e ne chiederanno altre, e altre ancora, in coordinamento con Hamas, l'OLP, il Qatar e l'Egitto.
   Dopo la guerra, Netanyahu sarà cacciato dall'incarico e la sua eredità sarà ridotta a brandelli per sempre. L'Israele che lascerà sarà quello in cui la sovranità ebraica sarà messa in dubbio per la prima volta in 75 anni. Non è il momento di vacillare.  

(JNS, 4 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si conferma che gli Stati Uniti sono per l’Israele di oggi quello che l’Egitto è stato per l’Israele di ieri: “Un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora” (2 Re 18:21).

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Israele schiera l'unità cinofila Oketz: la carta per la guerra dei tunnel a Gaza

di Valerio Chiapparino 

Il pesante bilancio della strage compiuta da Hamas il 7 ottobre avrebbe potuto essere ancora più grave se nelle prime ore dell’assalto dei militanti islamisti ai soldati e ai civili inermi nel sud d’Israele non fosse intervenuta anche una delle unità speciali dell’Israel Defence Force (Idf): la squadra Oketz. Oggi quello stesso team di difesa dello Stato ebraico composto dai cani e dai loro accompagnatori è impegnato nell’operazione di terra nella Striscia di Gaza.
   L’unità Oketz è stata tra le prime forze militari ad accorrere nei kibbutz assaltati da circa 3mila militanti islamisti all’alba della strage del sukkot. Nel villaggio di Be’eri il team cinofilo ha permesso di mettere in sicurezza 200 israeliani e di neutralizzare una decina di miliziani. A Kfar Aza un cane della squadra, Nauru, impiegato nella ricerca dei terroristi e delle loro armi è caduto sotto i colpi degli integralisti.
   “Il prossimo passo è entrare a Gaza. La missione è uccidere tutti i terroristi che incontreremo. Siamo veri, siamo forti, siamo uniti e vinceremo”. Così si era espresso il comandante dell’unità Oketz - "pungere" in ebraico - alla vigilia dell’operazione lanciata dalle forze di Tsahal il 27 ottobre per sradicare l'organizzazione che controlla la Striscia dal 2007. I militari, in divisa e senza, si sono addestrati insieme agli uomini del team Samur in un complesso di tunnel ricreato nel deserto del Negev per prepararsi alla sfida più difficile: uscire vivi dalla metro di Gaza.
   Il vasto complesso sotterraneo costruito da Hamas si estende per 500 chilometri sino ad una profondità di circa 80 metri ed espone l’esercito israeliano ad una "guerra tridimensionale". Anche per affrontare una sfida senza precedenti in queste ore i cani dell’Oketz, in prevalenza pastori tedeschi, belgi e olandesi, vengono mandati in avanscoperta nell’enclave palestinese per cercare i punti di accesso ai cunicoli, le trappole esplosive disseminate nel dedalo di tunnel e per attaccare i fedayin in agguato.
   La squadra cinofila è stata costituita nel 1974 – era inizialmente composta da appena 11 soldati -, all’indomani di un’ondata di attacchi terroristici contro Israele, ma per almeno 14 anni ha operato nella più totale segretezza. È in occasione di un’operazione in Libano negli anni Ottanta che la sua esistenza è stata svelata al pubblico.
   Il contributo di questi animali alla sicurezza nazionale risale però a ben prima della nascita dello Stato ebraico. L’Haganah, un'organizzazione paramilitare sionista attiva in Palestina durante il mandato britannico, impiegava già a partire dal 1939 un’unità cinofila a difesa dei villaggi, una squadra che verrà integrata nell’Idf dopo il 1948 per essere smantellata qualche anno più tardi.
   Secondo l’addestratore Yaviv Stern "solo i migliori cani vengono selezionati” per entrare a far parte dell’Oketz aggiungendo che quelli “troppo apatici o troppo sensibili al cibo e a rincorrere i gatti” vengono scartati. Anche gli accompagnatori vengono sottoposti ad uno screening rigoroso prima di essere assegnati a cani con cui poi dovranno stringere un forte ed indissolubile legame. Al termine di un servizio di sette anni durante i quali sono considerati sacrificabili in missioni ad alto rischio, questi animali infatti rimangono assieme al militare accanto al quale hanno prestato servizio.
   I soldati scelti sono consapevoli della possibile perdita dei loro cani sul campo di battaglia ma come dichiara in forma anonima al Jerusalem Post un membro dell’Oketz “il loro scopo è fornire un beneficio all’uomo e non il contrario. Esiste una separazione assoluta tra l’essere umano e gli animali e ogni militare ne è consapevole”. Al di là di riflessioni etiche, come sottolinea comunque il quotidiano israeliano “i cani possono essere il migliore amico dell’uomo ed il peggiore nemico dei terroristi”.

(il Giornale, 4 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 27. La città di Gaza è circondata

di Ugo Volli

Il fronte di Gaza
  L’accerchiamento della città di Gaza, roccaforte di Hamas, è completo. La Striscia è divisa in due parti. La porzione settentrionale è tagliata fuori da quella meridionale. In mezzo c’è una zona fittamente urbanizzata, da cui l’esercito israeliano ha cercato di far sfollare la popolazione civile per non danneggiarla, riuscendoci però solo in parte perché Hamas ha cercato di impedire in tutti i modi l’evacuazione, per usare i civili come scudo umano. Al centro di questa zona c’è l’ospedale principale di Shifa, sotto il quale si nasconde lo stato maggiore dei terroristi, coi loro centri di comando e di controllo. Questo è l’obiettivo che l’esercito israeliano dovrà raggiungere per decapitare Hamas; ma arrivarci non sarà facile perché si tratta prima di conquistare la città. Nella nottata aerei ed elicotteri da combattimento e artiglieria, diretti dalle forze di fanteria della Brigata Nahal, hanno colpito e ucciso diversi terroristi di Hamas. Sono stati eliminati diversi comandanti terroristi. L’esercito ha comunicato che quattro soldati sono caduti in questi combattimenti.

L’attività umanitaria e gli Usa
  Intorno a Gaza vi è anche una notevole attività umanitaria, accettata e in parte gestita da Israele. Circa 620 cittadini stranieri si preparano a lasciare oggi la Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. 367 di loro sono cittadini americani. Fonti arabe riferiscono che cinquanta camion di soccorsi alimentari e medici si stanno dirigendo per essere ispezionati al valico di Nitsana, in preparazione al loro ingresso nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Israele ha anche fatto rientrare nella Striscia attraverso il valico di Kerem Shalom, nel sud, degli abitanti di Gaza catturati in Cisgiordania e in Israele, risultati estranei al massacro terrorista del 7 ottobre e in genere al terrorismo. Fonti americane riferiscono che vi è stata una fitta attività di droni sulla parte meridionale della Striscia, nel tentativo di localizzare gli ostaggi. Sempre dagli Stati Uniti arrivano espressioni concrete di appoggio a Israele. La vicepresidente Kamala Harris ha pubblicato una dichiarazione in cui dice che l’attuale amministrazione sostiene pienamente l’azione israeliana e la Camera dei rappresentanti ha approvato un finanziamento di 14,3 miliardi di dollari per lo Stato ebraico. Il segretario di Stato americano Anthony Blinken è sbarcato in Israele. Sono previste trattative molto difficili per la richiesta americana di consentire l’invio di carburante a Gaza.

La situazione in Giudea e Samaria
  Una delle attese strategiche di Hamas è l’apertura di un fronte a est del territorio israeliano, in particolare nelle zone di Giudea e Samaria sotto il controllo (reale o nominale) dell’Autorità Palestinese, in cui nell’ultimo anno è emersa una sorta di guerriglia a bassa intensità, in particolare in luoghi come Jenin Nablus (in ebraico Shechem), Huwarra. Le forze di sicurezza israeliane hanno lavorato duramente in queste settimane per prevenire questo rischio. Anche ieri notte sono intervenute massicciamente: i palestinesi riferiscono di cinque terroristi morti a Jenin, due a Hebron, uno nel campo profughi di Qalandiya e un altro morto a Nablus. Le forze israeliane hanno operato tutta la notte a Jenin e nel “campo profughi” della città (che in sostanza è da decenni un suo quartiere molto popolato, senza le caratteristiche provvisorie di un “campo”) per distruggere le infrastrutture terroristiche ed effettuare arresti. Diversi attacchi aerei sono stati effettuati a Jenin e i bulldozer dell'IDF hanno lavorato particolarmente duramente per "radere le strade" cioè per eliminare le bombe nascoste sotto l’asfalto per attaccare i veicoli militari. Nel “campo profughi Askar” (anch’esso un quartiere e non un campo) di Nablus è stata fatta saltare in aria la casa del terrorista Khaled Kharosha, per il suo coinvolgimento nell'attentato in cui sono morti i fratelli Yaniv a Hawara.

Il conflitto con Hezbollah
  Il fronte settentrionale, nel frattempo, lentamente si sta scaldando. Ieri sera, le forze israeliane hanno eliminato una cellula terroristica nel complesso dell'organizzazione terroristica di Hezbollah in territorio libanese e hanno colpito l’infrastruttura dell’organizzazione, in risposta alla sparatoria effettuata dal territorio libanese al territorio israeliano. Sempre nella notte, un carro armato Merkavà ha attaccato una cellula terroristica che cercava di lanciare missili anticarro dal territorio libanese verso quello israeliano nella zona del Monte Dov in Golan. Si parla con insistenza della consegna a Hezbollah da parte del gruppo Wagner (interamente controllato da Putin) del nuovo sistema antiaereo russo SA22, che sarebbe una seria minaccia per gli aerei israeliani. Vi è molta attesa per un discorso teletrasmesso molto preannunciato del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah che sarà tenuto questo pomeriggio. Alcuni credono che potrebbe annunciare l’intenzione di entrare in guerra contro Israele al fianco di Hamas, il che sarebbe uno sviluppo importante della guerra. Il leader libanese cristiano Geagea l’ha ammonito a non farlo, per evitare la distruzione del paese. Dato che ha poco senso militare oggi dichiarare una guerra in diretta televisiva, molti pensano che Nasrallah farà dichiarazioni roboanti, ma senza sviluppi concreti.

(Shalom, 3 novembre 2023)

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Perché si negano le atrocità del 7 ottobre?

Se gli ebrei sono i cattivi, allora è morale odiarli. È morale stare dalla parte di Hamas. Ed è immorale sostenere gli ebrei e lo Stato di Israele.

di Caroline Glick

GERUSALEMME - Di per sé, la negazione dell'Olocausto non ha senso. Le prove fisiche del genocidio esistono. Esistono le testimonianze dei sopravvissuti, dei nazisti e dei loro collaboratori. E sono tutte inconfutabili.
   Inoltre, i nazisti erano orgogliosi di aver ucciso 6 milioni di ebrei. Negando l'Olocausto, i nazisti contemporanei e i loro fan sembrano sminuire i loro eroi. Perché dovrebbero farlo?
   Il mistero della negazione dell'Olocausto non è un semplice rompicapo di un passato lontano. Comprendere il suo scopo è essenziale per affrontare la nostra situazione attuale. Subito dopo la diffusione della notizia del sadico massacro di oltre 1.400 uomini, donne e bambini israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre, i sostenitori di Hamas in tutto il mondo hanno lanciato uno sforzo concertato per negare che sia successo qualcosa.
   Proprio come i neonazisti celebrano l'Olocausto e allo stesso tempo lo negano, così coloro che hanno accolto con entusiasmo le storie di bambini e uomini ebrei massacrati e decapitati e di donne e ragazze ebree stuprate e smembrate, insistono sul fatto che Hamas non ha commesso nessuno di questi crimini.
   Un aspetto notevole delle atrocità è che gli assassini di massa di Hamas non hanno cercato di nasconderle. Al contrario, le hanno trasmesse in tutto il mondo mentre le compivano. Armati di videocamere GoPro e dei cellulari delle loro vittime, i terroristi palestinesi nel sud di Israele hanno filmato lo stupro, lo smembramento, la tortura e l'esecuzione delle loro vittime sui loro stessi telefoni, postandoli nei gruppi WhatsApp e nelle pagine Facebook delle loro famiglie mentre li compivano. Hanno fatto lo stesso con le loro piattaforme social-media. Non c'è stato bisogno di ricercatori per setacciare gli archivi di Hamas. Le indicazioni per il massacro sono state trovate nei documenti che i terroristi hanno portato con sé in Israele.
   Allora perché i sostenitori di Hamas strappano i manifesti dei bambini, delle donne e degli uomini israeliani rapiti e tenuti in ostaggio nella Striscia di Gaza? Eppure celebrano la presa di ostaggi nei loro post sui social media. Perché insistono con i loro compagni di università o con i passeggeri della metropolitana di New York e Johannesburg che non ci sono ostaggi a Gaza e che si tratta di una cospirazione sionista? 
   Per capire cosa sta succedendo e cosa rappresenta, dobbiamo guardare alla forma più popolare e potente di negazione dell'Olocausto oggi. Come Izabella Tabarovsky ha meticolosamente dimostrato in un articolo della rivista Tablet dello scorso gennaio, questa forma di negazione dell'Olocausto è stata coniata dai sovietici. È stata resa popolare da un terrorista palestinese di una certa fama: Il presidente dell'Autorità Palestinese e capo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina Mahmoud Abbas.
   Nel 1982, Abbas ha scritto una tesi di dottorato presso l'Istituto di Studi Orientali del KGB, che ha poi trasformato in un libro di successo. La sua tesi, intitolata "Il rapporto tra sionisti e nazisti, 1933-1945", è la base dell'educazione all'Olocausto nelle scuole palestinesi.
   Abbas ha affermato che i sionisti erano nazisti. Ha insistito sul fatto che proprio come i nazisti si definivano suprematisti razziali ariani, i sionisti si definivano suprematisti razziali ebrei. Abbas ha sostenuto che l'Olocausto è stato uno sforzo di collaborazione tra i nazisti e la leadership sionista in terra d'Israele. David Ben-Gurion, ha scritto, aveva agenti in Europa che collaboravano con i nazisti. Il loro obiettivo, ha detto Abbas, era quello di sostenere il genocidio degli ebrei europei al fine di conquistare la simpatia internazionale per lo sforzo sionista di stabilire uno Stato suprematista ebraico nella terra di Israele, alias "Palestina".
   Come ha spiegato Tabarovsky, il fascino delle affermazioni di Abbas per gli odiatori degli ebrei palestinesi e per i sovietici è evidente. In primo luogo, permette loro di evitare di rendere conto del ruolo che hanno avuto nell'assassinio di 6 milioni di ebrei. È stato il leader arabo palestinese Haj Amin al-Husseini - non Ben-Gurion o qualsiasi altro ebreo, sionista o meno - a collaborare con Hitler per annientare gli ebrei in Europa e nel mondo. E fu l'Unione Sovietica, non la leadership sionista, a firmare un patto di non aggressione con i nazisti. Insistendo sul fatto che sono stati gli ebrei a collaborare alla loro distruzione, sia i sovietici che i palestinesi sono stati in grado di proiettare la propria colpevolezza sul loro nemico: gli ebrei. Sono stati anche in grado di negare agli ebrei la legittimità morale di vittime.
   Dopotutto, se gli ebrei si erano fatti da soli, nessun altro aveva nulla da rimproverarsi. E soprattutto, la presunta venalità degli ebrei significava che i nazisti avevano ragione. Gli ebrei sono malvagi e meritano di essere cancellati dalla carta geografica.

• Setacciando le ceneri
   La stessa logica malevola e favorevole al genocidio guida oggi i sostenitori di Hamas in tutto il mondo.
   Negli ultimi giorni sono emerse sempre più informazioni su come le vittime delle atrocità di Hamas siano state uccise e torturate con un sadismo inconcepibile fino al 7 ottobre. Mentre queste informazioni vengono diffuse, gli sforzi dei sostenitori di Hamas per demonizzare coloro che le diffondono si sono moltiplicati in modo esponenziale.
   Consideriamo solo un esempio. Durante il fine settimana, Eli Beer, capo dell'organizzazione di soccorso United Hatzalah, ha raccontato a un pubblico ebraico americano la storia di un bambino di Kfar Aza. Il bambino, ha detto, è stato messo in un forno e bruciato vivo. In seguito è stato riferito che il padre del bambino è stato ucciso e lasciato morire dissanguato mentre la moglie veniva violentata in gruppo e giustiziata e il bambino bruciato vivo.
   Ho pubblicato la storia sul mio account X-platform (ex Twitter). In poche ore il post è diventato virale. Mercoledì mattina era stato visualizzato da oltre 2,5 milioni di persone. Migliaia di persone lo avevano ripostato e altre migliaia avevano risposto.
   Lunedì pomeriggio mi sono reso conto che la maggior parte dei repost e dei commenti erano a favore di Hamas. Molti facevano battute sull'atrocità. Ma la maggior parte dei post era una pura e semplice negazione del fatto che il crimine avesse avuto luogo. I post mi demonizzavano come "nazista sionista" che diffonde bugie. Alcuni post pro-Hamas hanno creato meme che mi dichiaravano bugiardo.
   Una volta capito cosa stava succedendo, ho chiesto conferme a più persone, che ho ricevuto direttamente e indirettamente dalle Forze di Difesa Israeliane, dal governo israeliano, dal governo americano, dalla ZAKA (la società di recupero dei corpi e, in questo caso, delle parti del corpo) e da altre fonti. Ho anche appreso che il caso rivelato da Beer non era un evento isolato. Sono stati trovati diversi corpi di bambini con segni di griglia, che indicano che sono stati bruciati vivi nei forni.
   Il professor Chen Kugel, capo dell'Istituto nazionale israeliano di medicina legale, supervisiona il processo di identificazione dei corpi delle vittime. Nelle apparizioni sui media dal 7 ottobre, Kugel ha ripetutamente descritto i cadaveri delle vittime bruciate vive. Si possono distinguere dalle vittime i cui corpi sono stati bruciati dopo l'esecuzione per la presenza di fuliggine nei polmoni. La fuliggine indica che le vittime respiravano mentre bruciavano.
   Il processo di identificazione delle vittime è lungo perché Hamas ha ordinato ai suoi assassini di bruciare i corpi delle loro vittime. Kugel e altri hanno descritto i resti di molti corpi come quelli che si vedono in un forno crematorio. Avigail Gimpel, una volontaria della società di sepoltura ebraica Chevra Kadisha che ha preparato decine di corpi delle vittime per la sepoltura, ha raccontato che molti dei corpi che lei e i suoi colleghi hanno ricevuto erano palle di carbone. Gli archeologi dell'Autorità israeliana per le antichità sono stati chiamati a setacciare le ceneri delle case bruciate per separare i resti umani dai mobili e dai muri bruciati.
   Nonostante le crescenti prove forensi e testimoniali, le negazioni continuano e si espandono. Se viste nel contesto della negazione dell'Olocausto da parte dei palestinesi, possono essere intese come funzionali a tre obiettivi correlati.
   In primo luogo, le negazioni consentono alle persone abituate a sostenere i palestinesi, ma che amano essere considerate sincere, di sentirsi a proprio agio nel mettere in dubbio la verità. Per esempio, Eric Levitz, uno scrittore progressista del New York Magazine, ha pubblicato quanto segue su X il 22 ottobre:
   "Ieri sera ho affermato che questo rapporto [relativo al massacro del 7 ottobre] indicava che erano stati decapitati dei bambini. È stata un'affermazione eccessiva. Avrei dovuto dire che il rapporto stabiliva che i bambini erano stati trovati senza testa, un fatto che rende plausibili le affermazioni sulla decapitazione, ma che non le prova".
   Questa settimana, lo Yale Daily News ha pubblicato una correzione altrettanto depravata di un articolo di opinione che si riferiva al fatto che i terroristi di Hamas decapitavano e violentavano le loro vittime. Il giornale studentesco di Yale ha insistito sul fatto che le accuse non erano state provate.
   Il secondo scopo della negazione dei sostenitori di Hamas è quello di criminalizzare Israele. Se Hamas non è colpevole, ovviamente lo è Israele. Abbas ha accusato gli ebrei di essere responsabili dell'Olocausto per rifiutare la legittimità morale dello Stato di Israele. Lo ha fatto anche per evitare di affrontare la colpevolezza palestinese per il genocidio, nonostante il ruolo di Husseini nel bloccare l'emigrazione ebraica nell'Israele pre-statale e il suo ruolo diretto nella realizzazione dell'Olocausto. Proprio così, i sostenitori di Hamas accusano ora Israele di aver ucciso il proprio popolo o di aver inventato la loro vittimizzazione per mano dell'organizzazione terroristica, al fine di costruire un caso in cui Israele sia il cattivo di questa storia. Questo permette agli odiatori degli ebrei di tutto il mondo di sentirsi a proprio agio nell'esprimere la loro avversione per gli ebrei. Se gli ebrei sono i cattivi, allora è morale odiarli. È morale stare dalla parte di Hamas. Ed è immorale sostenere gli ebrei e lo Stato di Israele.
   Infine, una volta che la verità viene messa in dubbio e Israele viene incolpato come il cattivo, le negazioni dei crimini di Hamas facilitano la continuazione e l'espansione di tali crimini. L'obiettivo dichiarato di Hamas, come il partito Fatah di Abbas, è l'eliminazione dello Stato ebraico. Ovvero, il suo obiettivo è quello di mettere in atto un altro Olocausto. Dopo che Israele è stato incolpato di essere un bugiardo e un cattivo, il passo successivo è quello di spazzarlo via.
   Agli ebrei e ai loro sostenitori, gli apologeti di Hamas che ora terrorizzano gli ebrei nei campus universitari e nelle città degli Stati Uniti e dell'Europa, e che si scatenano sulle piattaforme dei social media, sembrano pazzi. Come possono negare l'innegabile colpevolezza di Hamas?
   Ma i sostenitori di Hamas non sono degli illusi. Sanno esattamente cosa stanno facendo.
   Stanno conducendo una guerra psicologica contro i governi e le opinioni pubbliche occidentali. Il loro scopo è quello di gassare centinaia di milioni di persone, di indurle a mettere in discussione la loro presa sulla realtà e di intimidirle per farle tacere. Allo stesso tempo, cercano di incoraggiare i loro alleati e compagni di viaggio a schierarsi apertamente con Hamas, dimostrando che non hanno nulla da perdere nel farlo.
   Se avranno successo, i loro sforzi produrranno un clima internazionale favorevole al raggiungimento del loro obiettivo comune di sradicare il popolo e lo Stato ebraico. Se avranno un successo parziale, lo sforzo bellico di Israele sarà minato e le aggressioni agli ebrei in tutto il mondo aumenteranno.

(Israel Heute, 3 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La simmetria tra il nazismo e chi usa l'islamismo come causa per sterminare il popolo ebraico

di Claudio Cerasa

Il rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, tre giorni fa ha ricordato che le parole sono importanti e ha spiegato con un linguaggio asciutto e chiaro perché la comunità internazionale avrebbe il dovere storico, morale e politico di chiamare le cose con il loro nome e di ricordare ogni giorno che il nemico che Israele sta combattendo non è un solo gruppo di terroristi ma è la manifestazione più prossima a un male che il mondo libero ha già cercato di combattere con tutte le sue forze: il nazismo. I terroristi di Hamas, ha ricordato Erdan, sono “i nazisti dei nostri giorni”. E ancora: “Chi pensa che Hamas stia cercando una soluzione al conflitto sbaglia, perché l’unica soluzione a cui Hamas è interessato è quella finale: l’annientamento del popolo ebraico”.
   A prima vista, il paragone tra l’islamismo fondamentalista di cui è espressione Hamas e le tesi naziste che hanno promosso lo sterminio degli ebrei in Europa durante l’Olocausto potrebbe apparire come una forzatura di Israele. La storia, come diceva Karl Marx, non si ripete. E se si ripete, al massimo, si ripete in farsa. Purtroppo, per quanto riguarda Hamas, le cose non stanno così. Due giorni fa, il settimanale francese Point ha ricordato la ragione per cui la storia di Hamas è inesorabilmente legata alla proliferazione delle teorie antisemite. Nel 1988, quando il gruppo terroristico presentò il suo primo “patto fondativo”, il popolo ebraico, all’articolo 7 della Carta, venne descritto come un nemico da abbattere, da annientare e da eliminare. E per giustificare questo obiettivo si scelse di fare leva sulle radici più estremiste dell’islamismo, evidenziando il modo in cui fu proprio Maometto a promuovere la caccia all’ebreo: “Il Movimento di resistenza islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta dichiarò: ‘L’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo’”. La storia di Hamas, da questo punto di vista, è dunque esemplare di un fenomeno che ancora oggi, a un mese dall’attacco a Israele, appare sfumato nella narrazione quotidiana di ciò che è stato il 7 ottobre per il popolo ebraico. Al contrario di quello che spesso si sostiene, l’esplosione della violenza non è stata “provocata” dalle malefatte di Israele. Ma è stata provocata da un’ideologia che è il vero motore dell’azione degli islamisti. Il Point ricorda altri due episodi significativi. Il primo episodio riguarda la storia del collaboratore nazista Haj Amin al Husseini (noto anche come il  “Mufti”), uno degli eroi di Hamas. Al Husseini, che incarna l’antisemitismo islamico contemporaneo e il rifiuto arabo di scendere a compromessi con la presenza di Israele, incontrò Hitler nel dicembre del 1942, lavorò con l’intelligence tedesca, contribuì a stabilire la divisione musulmana del SS in Yugoslavia e nel 1941 in Germania fu ospitato da Hitler. In quell’occasione, disse al ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop che gli arabi palestinesi da lui rappresentati erano “amici naturali della Germania perché entrambi sono impegnati nella lotta contro i loro tre nemici comuni: gli inglesi, gli ebrei e il bolscevismo”.
   Il secondo episodio ricordato dal Poin riguarda uno studio interessante e recente realizzato da Meir Litvak, presidente del Dipartimento di studi mediorientali e africani dell’Università di Tel Aviv. Lo studio sottolinea un dato che spesso sfugge a molti osservatori contemporanei: la causa promossa da Hamas è una causa essenzialmente islamica e in quanto tale la lotta descritta dagli stessi terroristi è “come una dicotomia incolmabile tra due assoluti: una guerra di religione e di fede, tra islam ed ebraismo e tra musulmani ed ebrei, e non una guerra tra palestinesi e israeliani o sionisti”. Il Corano, in verità, come sanno i molti cristiani trucidati dagli islamisti integralisti, suggerisce una caccia generica agli infedeli, e non solo agli ebrei (“Combattete per la causa di Allah coloro che vi combattono, uccideteli ovunque li incontriate, scacciateli. Combatteteli finché il culto sia reso solo ad Allah”: sura 2, 190-193). Ma non capire che la guerra del terrore promossa da Hamas è una guerra al centro della quale vi è l’esistenza stessa del popolo ebraico significa non aver capito la portata di ciò per cui sta combattendo Israele. “Se tutti gli ebrei si riunissero in Israele – disse anni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, che oggi si esprimerà su Israele – ci toglierebbero il disturbo di andarli a prendere in giro per il mondo”. Due popoli, uno stato [?!]. E chissà se è davvero una eresia sostenere che oggi l’ideologia più vicina al nazismo è quella veicolata da chi come Hamas sceglie di mettere l’islamismo fondamentalista al servizio di una propria causa: l’eliminazione del popolo ebraico. 

Il Foglio, 3 novembre 2023)
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Del tutto condivisibile l'analisi della causa islamica e antiebraica di Hamas, ma che significa quell'inciso "Due popoli, uno stato"? Una proposta? un ideale? un pericolo da scongiurare? Serve chiarezza. Da approfondire anche l'equiparazione tra Hamas e nazismo come un male "che il mondo libero ha già cercato di combattere con tutte le sue forze". Poiché come "mondo libero" un foglio come "Il Foglio" dà per scontato che si debba intendere il mondo occidentale, bisogna ricordare che per combattere il male del nazismo il "mondo libero" west-europeo ha avuto bisogno del "mondo non libero" est-europeo russo". Se il nuovo nazismo è l'islamismo di Hamas, non sarebbe stato meglio trovare un accordo tra i due "mondi" contro il nazistico male di Hamas-islam? Ed ecco invece che il "mondo libero" a trazione anglo-americana si mette contro il "mondo non libero" russo. Perché? Ah già, per salvare la libertà. E poiché "Israele siamo noi", è inevitabile che anche Israele debba essere associato nella campagna per il salvataggio della libertà del mondo libero.
  Solo che Israele non combatte per la libertà, ma per l'esistenza. Si è rimarcata la differenza? Gli Usa, che non hanno problemi di esistenza, vogliono conservare la libertà. Cioè la loro libertà di poter disporre, come nuovo popolo eletto, dei beni di tutto il mondo per il benessere di tutti. A questo scopo hanno ritenuto utile avere una politica morbida con l'Iran e una durissima con la Russia. Quindi hanno proclamato la difesa a oltranza dell'Ucraina, fino all'ultimo ucraino, perché i morti ucraini sarebbero morti per una grande causa: la libertà del mondo libero. I morti israeliani invece non sono morti per la libertà, ma per l'esistenza. Quelli massacrati nel sud di Israele perché gli islamici di Hamas hanno voluto che la loro esistenza fosse cancellata, quelli che ora muoiono in battaglia a Gaza perché gli israeliani vogliono che la loro esistenza sia mantenuta. Ecco perché se agli israeliani noi occidentali diciamo "Israele siamo noi", loro avrebbero buoni motivi per preoccuparsi. Agli israeliani dobbiamo dire "Israele siete voi", perché siete voi che vogliamo difendere, voi nella vostra esistenza, non noi nella nostra mistificata libertà. M.C.

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Ghazi Hamad (Hamas): “Ripeteremo il 7 ottobre fino a quando Israele non sarà annientato”

Ghazi Hamad, dell’ufficio politico di Hamas ha dichiarato in una trasmissione del 24 ottobre 2023 su LBC TV (Libano) che l’attacco del 7 ottobre contro Israele è stato solo l’inizio, promettendo di lanciare “un secondo, un terzo, un quarto” attacco finché il paese non sarà “annientato”.
Ghazi Hamad – i cui commenti sono stati trascritti dal Middle East Media Research Institute (MEMRI), un think tank con sede a Washington – ha aggiunto nell’intervista alla LBC che “Israele non ha posto nella nostra terra. Dobbiamo rimuovere il Paese perché costituisce una catastrofe militare, politica e per la sicurezza”.
Per quanto riguarda gli attacchi del 7 ottobre – che hanno provocato il massacro di oltre 1.300 israeliani nel sud e centinaia trascinati nella Striscia di Gaza – Hamad ha dichiarato che “dobbiamo dare una lezione a Israele, e lo faremo ancora e ancora”.
Sull’uccisione su larga scala di civili, aggiunge: “Hamas non voleva danneggiare i civili, ma ci sono state complicazioni sul terreno. Tutto ciò che facciamo è giustificato”.

(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2023)

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Pio IX e l’ambiguo dogma dell’Immacolata Concezione

La vecchia, “buona”, “sana” dottrina della chiesa cattolica romana di un tempo a cui molti cattolici scandalizzati dal mondanismo bergogliano vorrebbero tornare, in realtà non è affatto sempre buona e sana rispetto ai testi biblici, ma anzi contiene gravi eresie che non sono diventate più onorevoli col passar del tempo. Tra queste c’è il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, inventato di sana pianta nel XIX secolo. Siamo grati al fratello in fede che ha scritto e ci ha segnalato la pubblicazione del seguente articolo. NsI

di Tommaso Todaro

Il 13 maggio del 1792 nasceva a Sinigaglia, piccola città delle Marche che affaccia sull’adriatico, dal conte Girolamo Mastai Ferretti e dalla contessa Caterina Solazzi, un figlio cui posero il nome di Giovanni-Maria, il futuro Papa Pio IX. Eletto Papa dal conclave la sera del 16 giugno del 1846 al quarto scrutinio, dopo appena 48 ore dall’apertura dei lavori, fu incoronato nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, il successivo 21 giugno. «Gran rumore si mena da per ogni dove della liberale tendenza che manifestasi dal Papa Pio IX. Il grido universale lo saluta come l’astro foriero di libertà d’Italia» scriveva Camillo Mapei, ex prete cattolico e rifugiato politico a Londra, in un periodico mensile misconosciuto, quanto gagliardamente avversato dal Vaticano, dal titolo L’eco di Savonarola. Il periodico, a tiratura mensile, diffuso prevalentemente tra gli evangelici italiani residenti nel Regno Unito, che spesso versavano in condizioni di indigenza, aveva una tiratura molto limitata e si reggeva unicamente sulla contribuzione di coloro che potevano pagare l’abbonamento e sul lavoro gratuito del redattore.    La rivista pubblicava gli articoli scritti da personaggi accomunati dalla fedeltà al Vangelo e dall’amor di patria, per lo più esuli perseguitati, tra cui spiccavano le firme di Salvatore Ferretti, dello stesso Mapei, di Gabriele Rossetti e di tantissimi altri....

(Nuovo Monitore Napoletano, settembre 2023)

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Parashà di Vayerà: Il passato era perduto; il futuro, un’illusione

di Donato Grosser

Alla fine della parashà, la Torà ci racconta quella che fu la decima ed ultima prova del patriarca Avraham, con queste parole: ”Dopo queste cose, avvenne che Iddio mise alla prova Avraham, e gli disse: Avraham! Ed egli rispose: Eccomi.  E Dio disse: Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Yitzchàk, e vattene (lekh lekhà) nel paese di Morià, e offrilo lì in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò”(Bereshìt, 22: 1-2).
            Nell’introduzione al volume di Bereshìt di Mesoras Harav, l’opera nella quale furono raccolti alcuni insegnamenti sulla Torà di r. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston), il suo discepolo r. Menachem Genack (USA, 1949- ) direttore generale della casherut della Orthodox Union e della casa editoriale dell’organizzazione, trattò l’argomento della “‘akedàt Yitzchàk”, il legamento di Yitzchàk all’altare per essere sacrificato. 
            In questa introduzione r. Genack scrisse che l’espressione “lekh lekhà” (vattene) appare solo due volte nella Torà.  La prima volta fu quando l’Eterno disse ad Avraham: “Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che ti mostrerò” (ibid., 12:1). La seconda volta appare in questa parashànella quale l’Eterno comanda ad Avraham di sacrificare il figlio. Entrambi i comandamenti furono parte delle prove di Avraham. 
            Nel primo caso l’Eterno disse ad Avraham di rinunciare al suo passato; nel secondo caso di rinunciare al suo futuro. Il primo lekh lekhà era un ordine di formare un nuovo popolo con il supporto divino. Avraham doveva creare una nazione senza  il beneficio di un storia nazionale; creare una cultura senza una ricca tradizione; formare una società senza una massa critica di amici e parenti. 
            Il secondo lekh lekhà era il decreto divino che il futuro di Avraham era un’illusione. Qualunque fossero i sogni e le aspirazioni di Avraham, sarebbero stati distrutti in modo permanente. Le promesse di diventare un grande popolo sarebbero svanite con la morte di Yitzchàk. Solo la suprema fede di Avraham gli diede la forze di perseverare e di seguire il comando divino in ognuno dei due lekh lekhà
            R. Soloveitchik in Mesoras Harav (p.148) commenta che quando Avraham arrivò al monte Morià, il sacrificio era un fait accompli . Nella mente di Avraham, Yitzchàk non c’era più. Nella sua mente il sacrificio di suo figlio era già stato consumato. Non c’era più bisogno di un sacrificio fisico perché Avraham aveva soddisfatto il comando divino ancora prima di arrivare al monte Morià. Tutto quello che l’Eterno richiedeva ora da Avraham, era un sacrificio sostitutivo: “E Avraham alzò gli occhi, guardò, ed ecco dietro a sé un montone, preso per le corna in un cespuglio. E Avraham andò, prese il montone, e l’offerse in olocausto invece di suo figlio” (ibid. 13).
            Il nonno omonimo di r. Soloveitchik (Russia, 1820-1892), noto per la sua opera Bet Ha-Levi, commentò che quando Avraham disse all’Eterno: “Io sono polvere e cenere” (‘afar ve-efer) (ibid, 18:27), Avraham voleva dire che senza l’aiuto divino non aveva né un passato né un futuro. La polvere, la terra, non ha passato ma ha un futuro; ha un potenziale se viene coltivata. La cenere invece è ciò che rimane dalla vitalità passata e nulla può più crescere dalla cenere. La cenere ha un passato ma non ha futuro. 

(Shalom, 3 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayerà (Apparve)

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Spade di ferro - giorno 26. Lo scontro urbano

di Ugo Volli

Circa venti soldati israeliani sono caduti in combattimento negli ultimi due giorni. Una decina di loro, militari della brigata di fanteria Givati, sono stati colpiti assieme, su un veicolo blindato di trasporto truppe centrato da un razzo anticarro. Purtroppo queste dolorosissime perdite sono quasi inevitabili nonostante la superiorità militare israeliana e sono destinate ad aumentare col procedere dell’operazione. I terroristi si affacciano dai loro nascondigli nelle case e soprattutto da botole di uscita dei tunnel sotterranei e sparano i proiettili anticarro (detti RPG). I più moderni in mano ad Hamas sono i Kornet a guida laser progettati dai russi e oggi fabbricati in Iran. Solo ieri vi sono stati centinaia di attacchi con questi mezzi. I nuovi veicoli che usa l'esercito, preceduti da droni per scoprire le trappole, sono potentemente corazzati (difesa passiva), usano fumogeni per nascondersi al tiro e hanno anche contromisure elettroniche di difesa attiva: quasi sempre riescono a evitare di essere colpiti e a neutralizzare i terroristi. Ma purtroppo in questo ambito non esiste la certezza assoluta. Il lavoro di ripulitura degli apparati terroristi procede in mezzo a questi ostacoli. Ieri c’è stata di nuovo un’importante battaglia a Jabalyia, al nord di Gaza, dove sono stati eliminati molte decine di terroristi ed è stato conquistato un punto fortificato. Il portavoce dell’esercito ha dichiarato ieri sera che “l 'operazione di terra sta procedendo come previsto. Grazie a una pianificazione anticipata, a informazioni precise e ad attacchi combinati, le nostre forze hanno sfondato la prima linea di difesa dell'organizzazione terroristica di Hamas nel nord della Striscia di Gaza.”

Il problema del combattimento urbano
  Siamo insomma ormai entrati nella fase più difficile della guerra di Gaza, quella del combattimento urbano, che Hamas aspettava dall’inizio come occasione per imboscate e bombe trappola, progettate per infliggere perdite pesanti a Israele. Per capire le difficoltà che deve affrontare l’esercito, è utile citare l’opinione di due esperti militari americani, il colonnello Laem Collins e il maggiore Spencer che hanno scritto un libro sull’argomento e sono stati intervistati dall’agenzia ‘Infos Israel News’: “Nell’ambiente urbano l'esercito israeliano non può usare un vantaggio importante come la capacità di colpire prima di avvicinarsi al nemico. Esso vi perde anche la possibilità di effettuare manovre combinate, cioè aggirare il nemico e circondarlo. In città, il nemico ha molte opportunità per nascondersi e non farsi notare dalla ricognizione terrestre o aerea dei droni. A Gaza tutto ciò è ancora più pericoloso a causa dei tunnel attraverso i quali manovra il nemico. I terroristi di Hamas possono muoversi per linee interne di edificio in edificio, abbattendo i muri tra le case. È difficile distruggerli lì, fra i civili ed altri edifici. In un ambiente del genere bombe e missili sono meno efficaci. Hamas gioca per guadagnare tempo, perché il tempo è suo alleato: la pressione su Israele aumenterà a causa delle inevitabili perdite civili. Il loro obiettivo non è distruggere l’esercito israeliano. Non possono farlo. L’obiettivo è risparmiare tempo”, dicono gli esperti. Essi ritengono che “il principale vantaggio israeliano in questo ambiente risieda nell'uso di grandi bulldozer militari. Non devono temere gli attacchi dei razzi anticarro e possono distruggere gli edifici dove i terroristi si annidano. Un altro vantaggio che l'IDF cercherà di sfruttare è la capacità di condurre combattimenti notturni.”

Che cosa fa l’esercito israeliano per contrastare la minaccia
  Vi è da parte israeliana una stretta censura sui movimenti delle truppe per evitare che Hamas possa reagire in tempo. L’asimmetria informativa è uno dei vantaggi di Israele. sappiamo comunque che oggi l’operazione è concentrata nel Nord, nei due angoli settentrionali della Striscia e subito a sud di Gaza, dove essa è quasi tagliata trasversalmente dalle forze israeliane. I bulldozer D9 vengono utilizzati per rimuovere trappole esplosive e mine e altri ostacoli prima che i soldati avanzino. La forza aerea, in particolare i droni, e anche l’artiglieria e i carri armati vengono ampiamente utilizzati insieme alle forze di terra per colpire i terroristi, che sono costretti a uscire dai loro nascondigli per contrastare le forze di terra. Anche quando sparano rivelano la loro posizione e sono attaccati.

Le sfide future
  Nonostante tutti i successi, Israele riesce a eliminare al massimo qualche decina di terroristi alla volta, mentre vi sono molte migliaia o anche ad alcune decine di migliaia di terroristi che attendono nei loro nascondigli l’ordine di entrare in combattimento, quando vi saranno più forze israeliane in gioco. La battaglia principale non è ancora iniziata. L’esercito non ha ancora tentato di penetrare nell'ospedale di Shifa o in altre aree critiche dove si nascondono i capi di Hamas. Nonostante il salvataggio di un ostaggio avvenuto l’altro ieri, la stragrande maggioranza dei 230 ostaggi sono ancora nelle mani dei terroristi. Si pensa che Hamas tiene molti ostaggi in aree sensibili per dissuadere Israele dall'attaccare quelle aree, soprattutto nei confronti dei massimi leader di Hamas. Israele è molto preoccupato per le reazioni internazionali via via più negative, ma non sono riusciti a elaborare una strategia migliore per raggiungere gli obiettivi di guerra più rapidamente senza perdere più soldati e uccidere più civili. Alla battaglia sul terreno si affianca sempre più la resistenza diplomatica per permettere all’esercito di eliminare totalmente i terroristi. Entrambe saranno molto dure e rischiano di durare mesi.

(Shalom, 2 novembre 2023)

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Israele piange i caduti della Givati. Pedaya, Lavi e gli altri giovani eroi

Il figlio di un rabbino ucciso. Il ventenne e la ragazza che lo aspetta.

di Fiamma Nirenstein

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«Forza bambino, ringraziamo il cielo, sei forte ce la farai». Invece lui tutto pesto, con un occhio gonfio, piange senza rumore, è ancora piccolo nel luglio 2016, si appoggia al fratello che arriva di corsa sulla strada su cui di traverso si vede la macchina del padre. Il piccolo si chiama Pedaya Mark, figlio del rabbino Miky, appena ucciso sulla strada vicino a Hebron. La madre giace gravemente ferita e anche la sorella Teillah appena più grande di lui, sanguina. Lui le ha parlato per tenerla in vita finché sono arrivati i soccorsi; sempre lui, ha trovato il telefono e chiamato l'ambulanza. Un bambino dolce e diretto, appena ieri un bel ragazzo di 22 anni, con i riccioli laterali e una continua propensione al sorriso, è stato ucciso a Gaza con altri 15 ragazzi, per la maggior parte del suo gruppo, i mitologici Givati. Era il secondo luogotenente del battaglione. Pedaya ha vissuto sempre nel vento di tempesta dello scontro con i terroristi. Suo zio Elhanan è stato ucciso correndo a battersi il 7 ottobre. Una famiglia di eroi d'Israele, caduto perché il suo mezzo corazzato, un Namer (tigre), avventuratosi fra gli edifici nelle vicinanze di Gaza city è stato colpito da un proiettile antitank.
   I soldati uccisi ieri sono stati 16, un numero che testimonia la difficoltà dell'avanzare delle truppe israeliane nella trappola di Gaza, un meandro urbano costruito solo per fare la guerra, in cui ogni casa, ospedale, scuola, ospita le armi e gli uomini di Hamas, ogni cittadino al piano inferiore o superiore è uno scudo umano. I genitori dei ragazzi in guerra, in questo Paese postmoderno, in cui per legge si attraversa per la mano fino all'età di nove anni e i bambini sono principi, dal momento i figli che partono non vivono più, ogni macchina che arriva di fronte alla loro porta, ogni campanello che suona, la tensione raggiunge il diapason.
   E tuttavia prevale la sicurezza, più di sempre, che questa guerra è necessaria, che le belve non devono restare sulle porte del Paese perché possa vivere, che i cittadini sfollati devono tornare a casa. La concordia è forte, non c'è posto per il pacifismo. Nella battaglia sul campo, i terroristi, i missili, sono in agguato, i terroristi preparano lo scontro dal 2005. I Givati sono incredibili combattenti, fanteria di prima classe, che conosce il terreno di Gaza metro per metro. Pedaya nel 2022 aveva detto che da quando suo padre era stato ucciso aveva capito quanto fosse importante essere un combattente. E così è stato fino all'ultimo: sul blindato con altri sei. Si deve immaginare un territorio semicostruito, in ogni costruzione può nascondersi un lanciamissili, sotto ogni edificio può sboccare la rete che i terroristi stessi hanno descritto, un meandro di 500 chilometri, un groviglio di trappole, armi, esplosivi, celle per gli ostaggi.
   Due altri soldati sono stati uccisi raggiunti da un missile mentre perquisivano un edificio, altri col tank su una bomba anticarro. Ognuno dei 16 ha una storia di ragazzo, di sogni, musica, scienza, tecnologia. L'inizio della vita.Sul primo, forse, a morire, Lavi Lipshitz, 20 anni, anche lui un Givati, bello come un attore, circola un video per una ragazza incontrata per caso: riassume l'incontro casuale rimasto nel cuore, alla fine si butta: «Are you free thursday night?». Sei libera giovedì sera? scrive. Tutta Israele sa che Lavi non ha potuto andare all'appuntamento. Ma questa guerra segue l'inferno nazista del 7 ottobre, la gente d'Israele cerca di consolarsi: i soldati hanno verificato le abitazioni di una grande zona, hanno ripulito Jabalia da 500 terroristi, hanno identificato le posizioni militari da cui sparano, hanno compiuto «incontrando significativa resistenza» operazioni in cui gli scambi a fuoco hanno dato loro un netto vantaggio. Hanno catturato o eliminato molti responsabili del 7 ottobre. Di Sinwar, l'inventore del sabato nero, si dice che si aggiri come Hitler nel bunker, disegnando morte prima di tutto per il suo popolo.

(il Giornale, 2 novembre 2023)

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Antisemitismo, la mappa dell’odio in Europa

Dalla Francia all’Austria alla Germania, un rigurgito che toglie il sonno al Vecchio Continente, preoccupato dal ritorno di uno dei periodi più bui del secolo scorso,

di Danilo Ceccarelli

PARIGI. In Europa il fantasma dell’antisemitismo torna a far paura, soprattutto dopo lo scoppio dell’ultima crisi tra Israele e Hamas. Negli ultimi giorni in diversi Paesi del Vecchio Continente si sono verificati una serie di episodi di odio e intolleranza contro le comunità ebraiche che hanno portato le autorità ad innalzare i livelli di sicurezza. Come quelli registrati in queste ultime ore nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove sono state annerite ben quattro pietre di inciampo, dedicate ad Aurelio Spagnoletto e a Giacomo, Eugenio e Michele Ezio Spizzichino, deportati nei campi di concentramento di Mauthausen e Auschwitz tra il 1944 e il 1945.
   A Vienna, invece, questa notte la sezione ebraica del cimitero centrale è stata incendiata, mentre sui muri esterni sono state ritrovate delle svastiche. Sul caso è stata aperta un’inchiesta, mentre il cancelliere austriaco Karl Nehammer, ha condannato “con fermezza l’attacco”, sottolineando che “l’antisemitismo non ha posto” nella società austriaca. Un caso che non sembra essere isolato: “Il numero di incidenti antisemiti in Austria è considerevolmente aumentato in queste ultime settimane. Deve finire!”, ha scritto su X (ex Twitter) il presidente Alexander Van der Bellen.
   Una tendenza che si registra anche in Francia, almeno stando ai dati diffusi lunedì dal ministro dell’Interno Gerald Darmanin, che ha annunciato 819 atti antisemiti e 414 fermi avvenuti dal 7 ottobre, data dell’attacco di Hamas a Israele, ad oggi. “Ai francesi di confessione ebraica” voglio dire che “sono protetti dalla Repubblica”, ha spiegato il ministro, ricordando che 11mila agenti sono stati impiegati su tutto il territorio. Ma la tensione resta alta, soprattutto dopo le stelle di David rinvenute sui muri di diversi quartieri di Parigi e in alcuni comuni della banlieue negli ultimi giorni. Secondo quanto riferisce “BfmTv”, una coppia moldava presente irregolarmente in Francia è stata fermata il 27 ottobre perché sospettata di aver disegnato una quindicina di stelle di David. Gli autori, però, sono tanti, almeno stando alle tipologie di graffiti. La Francia tiene quindi gli occhi aperti, come dimostra l’inchiesta aperta dalla Prefettura della polizia di Parigi dopo che sui social è circolato un video raffigurante un gruppo di persone scandire canti antisemiti e nazisti nella metropolitana.
   La tensione resta alta anche dall’altra parte della Manica: solamente ad ottobre a Londra sono stati recensiti 408 atti antisemiti, contro i 28 riscontrati lo stesso mese del 2022. Atti isolati ma comunque preoccupanti, come quello dell’uomo che lo scorso fine settimana è stato arrestato nella capitale britannica per aver urlato “Che dio maledica gli ebrei!”.
   In Germania il direttore dell’intelligence interna Thomas Haldenwang ha dichiarato allo Spiegel che, sempre dal 7 ottobre, si sono verificati 1.800 reati di carattere antisemita. Tra quelli più gravi c’è la molotov lanciata recentemente contro una sinagoga a Berlino.
   Un rigurgito che toglie il sonno al Vecchio Continente, preoccupato dal ritorno di uno dei periodi più bui del secolo scorso.

(La Stampa, 2 novembre 2023)

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Esiste una società, una “cultura” che ha la volontà di sopprimere gli ebrei, dissacrarli, disumanizzarli

di Paolo Salom

Scrivere dal lontano Occidente è sempre più doloroso. Le immagini del brutale attacco dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani saranno impossibili da dimenticare ed entreranno anzi nella tragica memoria collettiva al fianco di quelle che speravamo consegnate alla Storia, ovvero le testimonianze visive della Shoah.
   È bene non farsi illusioni, perché la verità nuda e cruda è emersa in tutta la sua insopportabile violenza. Esiste una società, una cultura che ha nell’animo la volontà di sopprimere gli ebrei, ucciderli, dissacrarli, disumanizzarli. C’è chi lo dichiara da anni impunemente, ovvero chi si riconosce nell’organizzazione islamista Hamas; e chi ricopre questi desideri di false dichiarazioni “di pace e convivenza” una volta che Israele si sarà ritirato da Giudea, Samaria e Gerusalemme Est, ovvero i sostenitori di Abu Mazen e del Fatah. Ma sappiamo che, potendo scegliere, si accoderebbero ai metodi di Hamas. Lo provano del resto le scene di giubilo nelle piazze delle città palestinesi ogni volta che un “ebreo” viene trucidato.
   È ora di raccontare, dunque, prima di tutto a noi stessi, come stanno le cose, perché anche molti di noi continuano a covare l’illusione di “due Stati per due popoli”, un’espressione ripetuta come un mantra da decenni a questa parte. La triste realtà è che tutto questo è una menzogna smentita a ogni tragedia annunciata. Io non ho ricette, non ho certezze, non ho una soluzione. Ma so che, prima di capire come risolvere un problema, per quanto grave, è indispensabile accettarne l’esistenza. Può essere molto doloroso farlo. E può anche darsi che non tutto sia compreso. Ma è impossibile affrontare sfide come quelle che si trova di fronte Israele (e con Israele tutti gli ebrei del mondo, sia chiaro) senza la piena consapevolezza che il domani non sarà mai come viene descritto nei simposi internazionali (o sui media), ma prenderà la forma che noi vorremo dargli.
   Un esempio per chiarire che cosa intendo. Se Israele è stato colto di sorpresa (e non c’è dubbio che sia avvenuto) la colpa immediata può essere di chi in quelle ore era distratto, certamente. Ma il processo mentale che ha consentito questa distrazione arriva da lontano. È stato nutrito dalle divisioni interne al Paese da una parte e dall’idea, derivata da una concezione della società democratica e aperta, che tutto può avere una soluzione e che, dunque, l’altra parte – il mondo arabo-palestinese – avrebbe bisogno soltanto di tempo per “diventare come noi”. Non è così. E il lontano Occidente comincia a capirlo, anche se con grande difficoltà, questa “resistenza” ai valori del mondo occidentale – per valori intendo: democrazia, uguaglianza, libertà – è una febbre che travalica confini e spinge le nazioni a combattersi.
   Ora, non ha importanza sapere se le azioni di Hamas sono state decise a Teheran o a Mosca. Perché comunque hanno trovato nei terroristi di Gaza orecchie più che pronte ad accoglierle. Ed è questo che, ora, deve interessare gli israeliani e i loro fratelli della Diaspora, cioè noi. Si può scendere a patti con chi ti vuole distruggere? No, non si può. La scelta non è più tra noi e un “loro in futuro” (non dobbiamo essere troppo duri perché siamo destinati a convivere).
   Non ci sarà convivenza perché, molto semplicemente, i nostri nemici sono votati alla totale distruzione dello Stato di Israele, un pezzo alla volta. Chiunque sarà alla guida del magnifico frutteto ricostruito nella terra dei nostri Padri e delle nostre Madri avrà il compito arduo, ma non impossibile, di correggere gli errori fatti (in buona fede) finora per garantire un futuro a tutti gli ebrei. Perché, sia chiaro, il nostro destino, quello della Diaspora e dello Stato ebraico, è legato e indissolubile, ora più che mai. Am Israel Chai.

(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2023)

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Date la colpa a Hamas per le sofferenze della popolazione civile nella Striscia di Gaza

Hamas ha la possibilità di porre fine alle attuali sofferenze di Gaza quasi immediatamente, rilasciando tutti gli ostaggi e offrendo una resa incondizionata.

di Noah Beeck

Quando le immagini orribili delle sofferenze dei civili a Gaza inondano i media e infiammano le emozioni al di là di ogni analisi razionale, la sfida è quella di mantenere la lucidità su chi sia responsabile degli orrori che si stanno verificando.
   Date dunque a  Hamas la colpa per tutte le sofferenze patite dalla popolazione di Gaza dopo il 7 ottobre, perché il 6 ottobre non c'era motivo per Israele di rivolgere la sua forza militare contro Gaza. In effetti, il massacro del 7 ottobre è stato possibile in parte perché Israele è stato indotto a credere che Hamas fosse interessato alla prosperità economica.
   Ma il 7 ottobre Hamas ha invaso il territorio israeliano, ha rapito oltre 230 israeliani e ha massacrato 1.400 persone, il che equivale a quasi 52.000 morti negli Stati Uniti - circa diciassette 11 settembre in un giorno - e circa 8.500 americani presi in ostaggio. E l'orribile ferocia di questi omicidi e rapimenti, anche se in numero molto inferiore, probabilmente indurrebbe la maggior parte dei militari del mondo ad agire in modo molto più aggressivo e deciso di quanto abbia fatto finora Israele. In effetti, con un solo 11 settembre, gli Stati Uniti hanno lanciato guerre massicce contro due Paesi dall'altra parte del pianeta, causando centinaia di migliaia di morti tra i civili. Quindi una risposta militare devastante alle atrocità di massa di Hamas era del tutto prevedibile, lasciando Hamas come unico responsabile dell'attuale conflitto. Dal punto di vista legale, Hamas è stato la «causa prima» dell'attuale guerra: se non ci fosse stato nessun massacro di Hamas il 7 ottobre, non ci sarebbe stata nessuna "Operazione Spade di Ferro" da parte dell'esercito israeliano in seguito.
   Sarebbe stato colpevole da parte di qualsiasi governo israeliano non perseguire la completa eradicazione di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre, che ha reso innegabile l’intento omicida dell'organizzazione terroristica. Lo statuto di Hamas dichiara apertamente l'obiettivo di uccidere tutti gli ebrei, ma questo obiettivo non è mai stato perseguito su una scala così schiacciante e con atrocità così feroci orgogliosamente registrate e diffuse da Hamas. Inoltre, la grande quantità di armi, cibo e rifornimenti trovati addosso agli attentatori dimostra che Hamas intendeva attaccare diverse grandi città israeliane in un periodo di diverse settimane e che voleva massimizzare le uccisioni di israeliani, come dimostrano le istruzioni trovate per la fabbricazione di un'arma chimica al cianuro. Non c'è quindi più alcun dubbio sulle intenzioni di Hamas, né ci si può illudere che Israele possa in qualche modo imparare a convivere con un simile vicino, o che ci sia una qualche speranza di coesistenza pacifica con i palestinesi dentro o fuori Gaza finché Hamas sopravvive.
   Quindi, incolpate Hamas per aver iniziato l'attuale guerra, e incolpatelo per ogni giorno in cui questa guerra continua, con tutte le morti civili che ne derivano, i danni alle proprietà, le crisi umanitarie e la miseria generale. Esaminando i tre principali cicli di violenza tra Hamas e Israele, emerge uno schema evidente: più a lungo dura il conflitto, più morte e distruzione ci sono, fino al giorno in cui Hamas è abbastanza sottomesso da accettare un cessate il fuoco. Le stime delle vittime riportate di seguito includono sia i morti tra i combattenti che tra i civili in ciascuna delle principali operazioni israeliane a Gaza:

Si noti che ognuna delle suddette operazioni è stata provocata da attacchi missilistici di Hamas contro i civili israeliani, quindi Hamas è anche responsabile di tutte le perdite di vite e proprietà a Gaza in ognuna di queste guerre. In media, a Gaza sono morte circa 34 persone al giorno, ma poiché Israele sta combattendo questa volta per eliminare una minaccia esistenziale una volta per tutte, il bilancio giornaliero delle vittime è già molto più alto e potrebbe rapidamente aumentare.
   Hamas, tuttavia, ha la possibilità di porre fine alle attuali sofferenze di Gaza quasi immediatamente, rilasciando tutti gli ostaggi e offrendo una resa incondizionata, che spingerebbe l'esercito israeliano a cessare l'assalto una volta confermata la resa di Hamas.
   Proprio come Hamas sapeva che il suo massacro avrebbe provocato una massiccia azione militare israeliana, sa anche che alla fine perderà l'attuale guerra a causa della schiacciante superiorità militare e del morale inarrestabile di Israele, poiché gli israeliani sono ora più che mai convinti che Hamas minacci la loro esistenza.
   Quindi Hamas e Gaza non usciranno da questo ciclo di violenza meglio di quelli precedenti, ma la durata dei danni di questa guerra dipende interamente da Hamas. Dopo il massacro del 7 ottobre, tutti sanno che l'operazione militare di Israele non può fermarsi fino a quando la minaccia genocida di Hamas per i civili non sarà eliminata. In effetti, gli Stati Uniti hanno condotto una guerra per decenni per eliminare la minaccia rappresentata dai gruppi terroristici islamici. Quindi l'unica domanda da porsi è quanta morte e distruzione Hamas voglia infliggere alla popolazione civile di Gaza prima di smettere di combattere. Pertanto, la comunità internazionale dovrebbe fare ciò che non ha mai fatto prima ed esercitare pressioni su Hamas affinché accetti la sua sconfitta "in anticipo" e si arrenda senza condizioni, al fine di risparmiare alla popolazione civile di Gaza ulteriori morti e devastazioni.
   In realtà, la colpa della miseria di Gaza è anche della comunità internazionale, che ha ripetutamente permesso ad Hamas di continuare il suo distruttivo regno del terrore facendo pressione su Israele per ottenere un cessate il fuoco dopo ogni serie di violenze provocate da Hamas. Se i media e i leader mondiali sostenessero invece una vittoria militare finale di Israele, libererebbero la popolazione di Gaza dai tirannici governanti di Hamas e ispirerebbero finalmente la speranza di pace e di un futuro migliore a Gaza.
   Ma finché si permetterà ad Hamas di sopravvivere, la popolazione di Gaza soffrirà, perché Hamas ha dimostrato più volte di odiare gli israeliani più di quanto gli importi della popolazione di Gaza. Infatti, Hamas è responsabile di aver trasformato Gaza in uno Stato terroristico fallito che ha costantemente bisogno di aiuti umanitari e che dirotta il denaro degli aiuti per comprare armi e costruire tunnel del terrore.
   Quando si vedono immagini orribili di morte e distruzione di civili all'interno o vicino a strutture mediche, moschee o scuole a Gaza, la colpa è di Hamas. Il gruppo terroristico usa i tunnel sotto gli ospedali per trasportare armi ed esplosivi perché Hamas presume che Israele non attaccherà tali strutture. In realtà, Hamas ha usato ospedali, moschee e scuole per scopi militari nella guerra del 2014 contro Israele. Quindi, prendendo di mira i civili israeliani e nascondendosi dietro i civili gazani che fungono da scudi umani, Hamas sta commettendo un doppio crimine di guerra.
   Hamas è responsabile dell'attuale crisi umanitaria a Gaza, dove il carburante e altre forniture essenziali sono diventate pericolosamente scarse. Come riporta il New York Times, Hamas ha accumulato per anni carburante, cibo e medicine, oltre a munizioni e armi, nei chilometri di tunnel che ha scavato sotto Gaza. Perché la comunità internazionale non chiede ad Hamas di consegnare alla popolazione civile di Gaza le forniture di cui ha disperatamente bisogno?
   Infine, i media dovrebbero essere biasimati per non aver incolpato Hamas quando trasmettono immagini infinite delle sofferenze della popolazione civile di Gaza. L'indignazione globale che ne deriva è esponenzialmente maggiore di quella per i civili feriti in Siria (oltre 300.000 morti), Armenia (circa 120.000 sfollati), Etiopia (circa 600.000 morti) e in innumerevoli altre zone di conflitto. Nel frattempo, la compassione per i civili israeliani vittime del massacro del 7 ottobre che ha dato inizio a questa guerra è quasi scomparsa.

(Israel Heute, 2 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La perenne attualità del Lupo

di Niram Ferretti

Vladimir, Ze’ev Jabotinsky
Vladimir, Ze’ev Jabotinsky morì improvvisamente nel 1940, a causa di un infarto. Non fece in tempo a vedere la nascita di Israele. Così come Mosè non riuscì entrare nella terra promessa vedendola solo da lontano, Jabotinsky non riuscì entrare nello Stato ebraico quando venne proclamato. Ci sarebbe entrato da morto solo nel 1964 grazie all’allora Primo Ministro di Israele, Levi Eshkol, che permise quello che David Ben Gurion non aveva mai permesso.
La storia non si fa con i se. Ma Jabotinsky non avrebbe sicuramente accettato il piano di partizione del 1947 approvato dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 181 e che defraudava ulteriormente il popolo ebraico concedendo agli arabi Giudea e Samaria.
Come avrebbe potuto Jabotinsky accettare un simile obbrobrio che violava lo stesso Articolo 80 dello Statuto della allora Società delle Nazioni che legittimava il Mandato Britannico per Palestina del 1922 il quale stabiliva inequivocabilmente che gli ebrei avevano il diritto di risiedere in tutti i territori a occidente del Giordano, e smembrava ulteriormente queste terre?
   La Risoluzione 181, nonostante questo ulteriore impoverimento del territorio concesso agli ebrei, venne accettata dall’Agenzia ebraica e respinta dagli arabi.
   Terra in cambio di pace. Una pace che non è mai arrivata e che Jabotinsky, con l’estrema lucidità che lo connotava, sapeva che non sarebbe mai arrivata se gli arabi non fossero stati costretti ad ammettere che Israele non poteva essere annientato.
   In uno dei suoi articoli più famosi, Il Muro di Ferro, pubblicato il 4 novembre del 1923 scriveva:
    “E inutile sperare, in alcun modo, in un accordo tra noi e gli arabi accettato volentieri, né  adesso né  in un futuro prevedibile…Messi da parte i ciechi dalla nascita, tutti i sionisti moderati hanno capito che non c’è la minima speranza di ottenere l’accordo degli arabi di Palestina per trasformare questa ‘Palestina’ in uno Stato in cui gli ebrei sarebbero maggioranza…La mia intenzione non è quella di affermare che un qualsiasi accordo con gli arabi palestinesi sia assolutamente fuori questione. Fino a quando  sussiste, nello spirito degli arabi, la minima scintilla di speranza di potersi un giorno disfarsi di noi, nessuna buona parola, nessuna promessa attraente indurrà gli arabi a rinunciare a questo spirito”.
Quello che è accaduto il 7 ottobre è il pegno più  alto pagato da Israele per avere negato questa verità.  Da ex militare e da realista senza cedimenti, Jabotinsky sapeva che solo la determinazione risoluta della forza poteva e può indurre un nemico intenzionato a distruggerti, a negarti il diritto all’esistenza, a recedere dai suoi propositi.
   Hamas non ha mai fatto alcun mistero della sua volontà di distruggere Israele, è tutto scritto nero su bianco nel suo Statuto del 1988, un manifesto intriso di antisemitismo e la cui volontà programmatica eliminazionista, fa apparire le pagine del Mein Kampf, carezzevoli.
   Ciò nonostante, con Hamas si è voluto “negoziare”, gli si è permesso di consolidarsi nella Striscia, di affinare le sue tecniche, di prepararsi allo sterminio di ebrei. Si è applicato il metodo fallimentare del “teniamoli buoni”.
   È il metodo delle concessioni, quello che Israele ha sempre applicato, quello che gli Stati Uniti lo hanno fortemente spinto ad accettare per non inimicarsi il mondo arabo. È il metodo della rinuncia alla determinazione, l’esatto contrario di quello che Jabotinsky, esattamente cento anni fa, con lucidità presciente, chiedeva di applicare.
   Ora, dopo l’eccidio, ci si accinge a fare quello che andava fatto molto tempo fa, e che va fatto sempre ogniqualvolta il nemico non cede e non concede, metterlo nella condizione di dovere rinunciare definitivamente ai suoi propositi distruttivi.
   Un nemico come Hamas si elimina, in modo che anche Fatah, e il suo “moderato” capobastone di Ramallah, capisca che non andrà mai da nessuna parte strizzando l’occhio agli estremisti, e fingendo che sia Israele a non volere trovare un accordo pacificatore.
   La necessità di Israele di  vincere questa guerra, a stabilire il primato della forza, prerequisito indispensabile a ogni possibile accordo col nemico, è una vittoria postuma di Jabotinsky, di chi aveva capito tutto prima degli altri, e che mai una sola volta, i fatti hanno smentito.

(L'informale, 2 novembre 2023)

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Sondaggio: Israele è davvero cambiato?

di Daniel Pipes

Una palese svolta radicale ha avuto luogo all’indomani del 7 ottobre scorso, giorno in cui Hamas ha massacrato circa 1.400 israeliani. L’idea che Israele ottenga la vittoria sui palestinesi da marginale è diventata dominante e ha raccolto consensi. Sia i politici che i sondaggi sono favorevoli a tale idea. Gli israeliani sembrano essere una popolazione trasformata. È davvero così?
  Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto della vittoria la sua costante esortazione: “La vittoria richiederà tempo. (…) ma per ora siamo concentrati su un unico obiettivo, che è quello di unire le nostre forze e correre verso la vittoria”. E ha detto ai soldati: “L’intero popolo di Israele è al vostro fianco e assesteremo un duro colpo ai nostri nemici per ottenere la vittoria”. E ancora: “Ne usciremo vittoriosi”.
  Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato di aver informato il presidente Joe Biden che la vittoria di Israele “è essenziale per noi e per gli Stati Uniti”. Gallant ha detto ai suoi soldati: “Sono responsabile di portare la vittoria”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato la sospensione di “tutte le spese di bilancio per indirizzarle verso un unico obiettivo: la vittoria di Israele”. E ha definito l’obiettivo della guerra di Israele contro Hamas “una vittoria schiacciante”. Benny Gantz, membro del Gabinetto di Guerra, ha parlato di “momento della resilienza e della vittoria”.
  Ma questi uomini politici rappresentano quello che è ampiamente definito “il governo più di Destra nella storia di Israele”. E gli altri nel Paese? Molti altri concordano effettivamente sul fatto che Hamas debba essere eliminato:

  1. Naftali Bennett, ex primo ministro: “È arrivato il momento di distruggere Hamas”.
  2. Amir Avivi, generale in pensione: “Dobbiamo distruggere Hamas. Dobbiamo privarli completamente delle loro capacità”.
  3. Chuck Freilich, ex vice-consigliere per la Sicurezza nazionale (su Ha’aretz): “Ora Israele deve infliggere a Hamas una sconfitta inequivocabile”.
  4. Tamir Heyman, ex capo dell’intelligence dell’Idf: “Dobbiamo vincere”.
  5. David Horovitz, direttore di Times of Israel: “C’è una guerra da vincere”.
  6. Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale: “Hamas dovrebbe essere uccisa e distrutta”.
  7. Meir Ben Shabbat, ex consigliere per la sicurezza nazionale: “Israele dovrebbe distruggere tutto ciò che è connesso ad Hamas”.

E la popolazione israeliana cosa ne pensa? Per scoprirlo, il 17 ottobre il Middle East Forum ha commissionato un sondaggio tra 1.086 israeliani adulti, ne è emerso uno straordinario consenso a favore dell’obiettivo di distruggere Hamas; di un’operazione di terra finalizzata a raggiungere questo obiettivo e a non fare concessioni in cambio di rapporti formali con l’Arabia Saudita (Il sondaggio è stato realizzato da Shlomo Filber e Zuriel Sharon di Direct Polls Ltd e ha un errore di campionamento statistico del 4 per cento).
  Alla domanda “Quale dovrebbe essere l’obiettivo primario di Israele” nella guerra attuale, il 70 per cento dell’opinione pubblica ha risposto: “Eliminare Hamas”. Per contro, soltanto il 15 per cento ha risposto “garantire il rilascio incondizionato dei prigionieri tenuti in ostaggio da Hamas” e il 13 per cento “disarmare completamente Hamas”. Sorprendentemente, il 54 per cento degli arabi israeliani (o più tecnicamente, gli elettori della Lista Araba Unita, un partito arabo radicale anti-sionista), ha fatto della “eliminazione di Hamas” il suo obiettivo preferito.
  Di fronte alle due opzioni: condurre un’operazione di terra a Gaza per sradicare Hamas o evitare un’operazione di terra a favore di un altro modo di far fronte ad Hamas, il 68 per cento ha scelto la prima opzione e il 25 per cento la seconda. Questa volta, il 52 per cento degli arabi israeliani è d’accordo con la maggioranza.
  Il 72 per cento degli intervistati si è detto contrario a fare “rilevanti concessioni all’Autorità Palestinese” come prezzo da pagare per rapporti formali, con solo il 21 per cento a favore, e 62 arabi israeliani che si sono espressi come la maggioranza degli intervistati.
  In breve, un clima fortemente contrario ad Hamas e all’Autorità Palestinese domina la politica israeliana, con solo i due partiti di Sinistra (Laburista e Meretz) in opposizione. Anche la maggioranza degli arabi israeliani riconosce il pericolo che Hamas e l’Autorità Palestinese rappresentano per la loro sicurezza e incolumità.
  La vera domanda quindi è: tale veemenza denota un radicale cambiamento di prospettiva tra gli ebrei e gli arabi israeliani o è soltanto un impeto emotivo?
  Come osservatore di lunga data e come storico del conflitto israelo-palestinese, tendo a ritenere più probabile la seconda ipotesi. Dal 1882 ad oggi, le due parti in lotta si sono comportate in modo decisamente sterile. I palestinesi hanno una mentalità di rifiuto (non accettare mai e poi mai tutto ciò che è ebraico e israeliano), mentre i sionisti si attengono alla conciliazione (accettateci e noi vi arricchiremo). Le due parti continuano a girare in tondo, senza cambiare e senza fare progressi.
  Di conseguenza, mi aspetto che l’infiammato stato d’animo israeliano del momento probabilmente svanirà col tempo, man mano che i vecchi modelli si riaffermeranno e ritornerà lo stato normale.

(Gatestone Institute, 1 novembre 2023 - trad. di Angelita La Spada)

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Ebrei progressisti e sinistra radicale globale: una spaccatura nel contesto del conflitto in Medio Oriente

di Marina Gersony

Nel contesto recente del conflitto in Medio Oriente, gli ultimi sondaggi rivelano una crescente divisione all’interno della sinistra globale. Questa divisione si sta amplificando tra le fazioni democratiche, liberali e socialiste da un lato e la sinistra radicale, terzomondista e anti-occidentale dall’altro, con impatti evidenti nei partiti e tra gli intellettuali di sinistra, spesso in nome di una pace generica. Questa spaccatura crea una situazione divisiva e complessa, coinvolgendo anche la comunità ebraica e mettendo a dura prova coloro che cercano di sostenere Israele pur restando fedeli alla propria ideologia di sinistra.
   Dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre, molti ebrei progressisti si sono infatti sentiti abbandonati da quegli amici della sinistra globale che hanno espresso poca simpatia, empatia e solidarietà per gli israeliani e i loro correligionari uccisi, concentrandosi invece sulla difficile situazione dei palestinesi: un dolore che si somma a quello dell’ignobile massacro perpetrato da Hamas.
   Questa divisione rappresenta una frattura significativa e lacerante all’interno della coalizione liberale americana, tradizionalmente legata al Partito Democratico che rischia di alimentare tifoserie e polarizzazioni. Gli ebrei progressisti, che hanno sostenuto a lungo cause di sinistra come l’equità razziale, i diritti LGBTQ+, il diritto all’aborto e l’opposizione alle politiche israeliane a Gaza e in Cisgiordania, si sentono ora traditi dai loro stessi alleati.

• Le tensioni in America tra gli ebrei, Università e social media
  La tensione all’interno della comunità ebraica americana si è accentuata soprattutto nei campus universitari e sui social media, dove le dichiarazioni di organizzazioni minori hanno ottenuto ampia visibilità. Secondo diversi analisti, c’è preoccupazione che questa frattura possa rappresentare un cambiamento più duraturo e insidioso nella posizione degli ebrei nella società americana, soprattutto in un momento di conflitto globale. Nel frattempo, il dibattito sul mantra «con Israele o con la Palestina» continua a infiammarsi o ad essere affrontato con toni moderati, a seconda dei casi.
   Ha fatto molto parlare in questi giorni la lettera aperta firmata di recente da eminenti personalità della cultura, tra cui David Grossman, nonché l’attacco polemico su X (ex Twitter) dell’ex premier israeliano Yair Lapid alla «sinistra radicale globale», colpevole, a suo avviso, di mancanza di solidarietà ed empatia: «Quanti ebrei devono morire prima che smettiate di incolparci per qualunque cosa accada? Quel sabato buio ne sono stati uccisi 1.400. Di quanti altri avete bisogno? Diecimila? 6 milioni?». Nel suo blog di qualche giorno fa sul Times of Israel, l’attuale leader dell’opposizione israeliana, che non ha voluto entrare nel governo di emergenza nazionale dopo il 7 ottobre, va dritto al punto ponendo alcuni quesiti, a partire dal paradosso della comunità Lgbtq che, nelle manifestazioni organizzate in numerose città europee e americane, sostiene «l’autodeterminazione» della Palestina senza rendersi conto di appoggiare chi vorrebbe la sua eliminazione.

• La lettera aperta degli intellettuali israeliani
  «Noi, accademici con sede in Israele, leader di pensiero e attivisti progressisti impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia, e dei diritti umani, siamo profondamente addolorati e scioccati dai recenti eventi verificatisi nella nostra regione. Siamo anche profondamente preoccupati per la risposta inadeguata di alcuni progressisti americani ed europei riguardo all’attacco ai civili israeliani da parte di Hamas, una risposta che riflette una tendenza preoccupante nella cultura politica della sinistra globale».
   A scendere in campo anche lo storico israeliano Yuval Noah Harari – autore di bestseller tra cui Sapiens e Homo Deus – anche lui firmatario della suddetta lettera aperta in cui esprime la sua preoccupazione per alcuni elementi all’interno della sinistra globale; una sinistra che in passato considerava un alleato politico ma che adesso ha giustificato le azioni di Hamas in più occasioni. In una recente intervista al Guardian, Harari ha spiegato di aver preso questa posizione dopo aver parlato con attivisti pacifisti nel suo paese d’origine, che si sentivano completamente devastati e abbandonati, traditi dai loro alleati presumibili nei loro sforzi per la pace. Lo scrittore ha inoltre ricordato come i suoi zii sono riusciti a sopravvivere a un attacco di Hamas nel loro kibbutz durante gli attacchi del 7 ottobre, nascondendosi mentre uomini armati andavano da una casa all’altra uccidendo i loro vicini. Infine, durante una visita a Londra, Harari è rimasto sconvolto nel sentire alcune risposte provenienti da alcune fazioni della sinistra negli Stati Uniti e in Europa, che non solo hanno evitato di condannare Hamas ma hanno anche attribuito l’intera responsabilità ad Israele, mostrando una mancanza di solidarietà verso i terribili attacchi contro i civili israeliani.
   Sono le risposte di una sinistra radicale condivisa anche da attivisti e studiosi ebrei che vedono Israele come un oppressore dei palestinesi. Una prospettiva manifestata da alcuni di loro in un sit-in a sostegno del cessate il fuoco, tra cui quello organizzato dal gruppo di sinistra Jewish Voice for Peace, che ha denunciato anche le violazioni dei diritti umani subite dai palestinesi nel corso degli anni.

• La sinistra europea si perde tra distinguo e divisioni interne
  Il tema delle risposte politiche al conflitto tra Israele e Hamas e delle divisioni all’interno dei partiti in vari Paesi europei riguardo alla loro posizione sul conflitto è di fatto sempre più presente nei media. Il focus principale è sulla difficoltà di alcune fazioni politiche e leader di sinistra nel mantenere una risposta unificata alla situazione, il che porta a tensioni interne e disaccordi sull’argomento.
   Nel Regno Unito, il Partito Laburista affronta sfide nel gestire il conflitto, con il suo leader, Keir Starmer, che deve bilanciare le crescenti critiche provenienti dalla sinistra e dai politici e sostenitori musulmani del partito. In particolare, alcune delle sue dichiarazioni e il mancato sostegno a un cessate il fuoco hanno provocato divisioni all’interno del partito: la posizione ufficiale del Labour viene infatti vista da molti esponenti del partito come troppo allineata a quella del governo conservatore.
   Lacerata anche la sinistra in Francia, dopo al rifiuto di France insoumise (Lfi), il principale gruppo politico di sinistra, di qualificare Hamas come gruppo terroristico, dopo l’attacco lanciato il 7 ottobre contro Israele. Il suo leader Jean-Luc Mélenchon ha infatti adottato una posizione di condanna dei «crimini di guerra» e descritto Hamas come un «gruppo politico islamico» che «resiste a un’occupazione» per la «liberazione della Palestina», dichiarazioni che hanno profondamente diviso la coalizione Nupes mettendo a rischio la coalizione delle sinistre (socialista, comunista, ecologista).
   In Spagna, il governo ha condannato l’attacco di Hamas, ma alcuni ministri ad interim di partiti di estrema sinistra hanno suggerito che Israele stia infrangendo il diritto internazionale. Ciò ha portato a tensioni con l’ambasciata israeliana a Madrid e ha messo in discussione l’unità all’interno del governo spagnolo.
   In Germania, c’è un ampio consenso politico a favore di Israele, con il cancelliere Olaf Scholz che ha sottolineato il supporto della Germania alla sicurezza di Israele. Questo posiziona la Germania in modo diverso rispetto ad altri Paesi europei.
   E l’Italia? Con Israele o con la Palestina? La posizione della sinistra riguardo a Israele e alla Palestina nel nostro Paese è storicamente contraddittoria e profondamente complessa. In particolare, alcune correnti della sinistra italiana cercano di sostenere Israele ma evitano di condannare esplicitamente Hamas, in sintonia con quella che è stata definita  la «sinistra radicale globale», il più delle volte carente di solidarietà ed empatia verso Israele e il popolo ebraico. Una prospettiva che contrasta con quella di chi all’interno della sinistra cerca di sostenere Israele «senza se e senza ma», mantenendo tuttavia salda l’ideologia di sinistra.
   Per concludere, in Europa – e in Occidente in generale – il versante politico di sinistra sta attraversando una fase di profonda instabilità strutturale, come evidenziato da numerosi esperti politici. Questa crisi non può essere ricondotta esclusivamente al contesto drammatico segnato dal caos dell’attuale conflitto in Medio Oriente, ma rappresenta una sfida fondamentale per la ridefinizione del concetto stesso di “sinistra” e dei suoi ruoli in questo secolo e all’interno dei sistemi democratici. Ma questa è un’altra storia.

(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2023)

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Spade di ferro, giorno 25. Minaccia dal Mar Rosso

di Ugo Volli

• La dichiarazione di guerra degli Houti
  La notizia più significativa dell’ultima giornata in termini strategici è la vera e propria dichiarazione di guerra che il portavoce del movimento terrorista yemenita degli Houti, Yahya Sarie, ha pronunciato contro Israele, accompagnata dal lancio di un certo numero di missili. Houti è il nome di una tribù in Yemen che è la base del movimento terrorista, il cui vero nome in realtà è “Ansar Allah”. Bisogna sapere in primo luogo che lo Yemen dista da Israele circa 1600 chilometri, come la Finlandia da Roma, e dunque non vi è ovviamente contenzioso territoriale fra i due Paesi e non vi può essere minaccia da terra (in mezzo c’è l’Arabia Saudita). Ma lo Yemen è un punto strategico non solo per Israele, bensì per l’Egitto e l’Europa, perché controlla lo stretto di Bab el Mandeb, con una larghezza utilizzabile di solo una ventina di chilometri, che consente l’accesso al Mar Rosso e di qui al Canale di Suez. L’altro lato è Gibuti. Tutti i rifornimenti petroliferi e le merci provenienti dall’Estremo Oriente passano con centinaia di navi ogni giorno da queste acque che possono facilmente essere minacciate e bloccate. Lo Yemen ha sofferto per decenni di divisioni e guerre civili. Negli ultimi dieci anni circa il potere è stato preso dal movimento islamista degli Houti, con l’appoggio determinante dell’Iran. Esso ha sviluppato un esercito piuttosto forte e anche un’industria bellica. Ha fatto guerra all’Arabia Saudita, mettendola in difficoltà con lanci di razzi e droni sulla città di Ryad e sui più importanti pozzi petroliferi. Poi c’è stata una tregua che ha tenuto fino a qualche giorno fa, quando gli Houti hanno di nuovo aggredito l’esercito arabo alla frontiera, provocando alcuni morti.  

• Una maldestra mossa iraniana
  Ora Ansar Allah minaccia Israele e insieme l’Arabia coi suoi missili. Qualche giorno fa alcuni di questi proiettili sono stati abbattuti da navi americane nel Mar Rosso, dall’Arabia e dall’Egitto; i missili di ieri sono stati fermati dai sistemi israeliani. Israele ha anche spostato alcune unità navali con capacità missilistica nel Mar Rosso; minaccia implicita di una rappresaglia che potrebbe essere anche sostenuta dall’aviazione. La mossa degli Houti apre il quinto fronte di guerra dopo Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania. È evidentemente una mossa iraniana che prova a mettere in difficoltà Israele e anche a dare l’impressione di una solidarietà bellica fattiva con Hamas che i terroristi si attendevano e che finora è per fortuna mancata: l’Iran stesso ha dichiarato ieri di non voler farsi coinvolgere in scontri diretti fuori dai suoi confini, per cui fida nei suoi “alleati”, mentre le sue forze armate si concentrano sulla difesa del territorio nazionale. Ma è probabilmente una mossa maldestra, perché essa ha rafforzato l’asse difensivo fra Israele, Arabia e Egitto, che è il grande incubo strategico dell’Iran, e ha anche esposto che la pericolosità del terrorismo non si limita a Israele, ma colpisce molti paesi fra cui l’Europa.  

• La situazione a Gaza
  L’aviazione israeliana annuncia di aver colpito finora oltre undicimila obiettivi terroristi. L’operazione di terra procede. Oltre alla manovra per tagliare Gaza City dalla parte settentrionale della Striscia, è in corso un analogo “taglio” di Gaza a sud della città: tre diversi territori dovrebbero essere isolati e progressivamente attaccati dall’esercito israeliano, in modo da eliminare completamente Hamas. Le operazioni urbane sono in corso soprattutto al nord, dove le forze di Israele hanno iniziato a conquistare le roccaforti terroriste. Purtroppo questa fase della guerra è la più difficile e sanguinosa anche per i soldati israeliani. Sono stati annunciati ieri prima due, poi altre nove caduti e molti feriti. Con la mediazione del Qatar e l’assenso di Israele l’Egitto ha evacuato nell’ospedale da campo costruito dalla sua parte del valico di Rafah un centinaio di feriti civili palestinesi. Nel frattempo però è stato annunciato che Hamas ha bloccato anche l’uscita dalla Striscia degli arabi con doppia cittadinanza (molti americani, ma parecchi anche con altri passaporti, fra cui una decina di italiani). Non sono prigionieri rapiti come gli israeliani (secondo gli ultimi calcoli 240) sequestrati il 7 ottobre, ma anche loro, in un certo senso, sono ostaggi. Hamas e gli altri movimenti islamisti considerano infatti gli Usa e molti paesi europei come nemici, per aver espresso solidarietà a Israele dopo il massacro del 7 ottobre. Per quanto ci riguarda, fra l’altro sono comparsi manifesti minacciosi anche contro l’Italia e il primo ministro Meloni ha ricevuto molti messaggi di minaccia.  

• Gli altri fronti
  Vi è stata anche una seconda grande incursione a Jenin, in Cisgiordania, dove fra l’altro è stato catturato Ata Abu Armila, il boss locale di Fatah, il partito di Abu Mazen dittatore dell’Autorità Palestinese. È una novità significativa che mostra quanto sia illusorio il tentativo di isolare Hamas dall’attività terroristica comune a tutti i movimenti palestinisti. Non basterà distruggere Hamas, occorre sconfiggere tutto il terrorismo palestinista. Al Nord è continuata la guerra a bassa intensità tanto con scambi di colpi tanto con Hezbollah in Libano, quanto con la Siria. Sono stati colpiti in particolare i paesi dei drusi, alleati di Israele, come al sud di Israele dei villaggi beduini, anch’essi in buoni rapporti con lo Stato ebraico. Israele ha risposto colpendo le fonti del fuoco. I terroristi di Hezbollah uccisi sono ormai una sessantina. Da Gaza sono partiti ancora molti missili, che hanno anche prodotto danni in diverse città del centro. Ma naturalmente nessuno dei “pacifisti” che chiedono a Israele di cessare la sua azione di autodifesa ha invitato Hamas a smettere di provare a uccidere coi suoi razzi la popolazione civile delle città israeliane.

(Shalom, 1 novembre 2023)

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I trumpiani vogliono sfaldare la politica di Biden a favore di Israele e dell'Ucraina

di Paola Peduzzi

Al nuovo speaker del Congresso americano, Mike Johnson, l’articolo di copertina della rivista Time sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky deve aver fatto un gran piacere: eletto la settimana scorsa dopo che molti altri candidati sono stati bocciati, Johnson, deputato conservatore della Louisiana, ha annunciato di voler introdurre questa settimana una proposta di legge per stanziare gli aiuti a Israele ma non all’Ucraina. Lo speaker non condivide la strategia del presidente Joe Biden, che ha chiesto al Congresso l’approvazione “urgente” di un pacchetto di aiuti di 105 miliardi di dollari per Israele e per l’Ucraina e per Gaza – tra cui: 14,9 miliardi di aiuti militari al governo israeliano; 61,4 miliardi di aiuti militari e finanziari all’Ucraina; 9 miliardi di aiuti umanitari per Israele, Gaza e l’Ucraina; i fondi restanti sono destinati al contenimento della Cina in particolare verso Taiwan e alla sicurezza dei confini americani.
   Per Biden si combatte su più fronti la stessa battaglia, per Johnson e l’ala trumpiana del Partito repubblicano la difesa dell’Ucraina è una fissazione del presidente, non una necessità per la sicurezza globale.  Alla divisione politica si aggiunge la retorica del pessimismo che ha travolto Kyiv di cui l’articolo di Time è l’espressione più visibile di questi giorni. Simon Shuster, giornalista russo con base a New York che ha passato molto tempo in Ucraina nell’ultimo decennio, ha raccontato “la battaglia solitaria” di Zelensky in cui questa solitudine riguarda praticamente tutto: il presidente ucraino ha perso sorriso e ironia, scrive Shuster, la parola che lo definisce è “arrabbiato”, si sente abbandonato dagli alleati internazionali esausti e insofferenti, ma anche da molti suoi collaboratori che ha smesso di ascoltare soprattutto quando gli ripetono che bisogna cambiare strategia, ma lui ostinato non ne vuole sapere, dice che “nessuno crede nella vittoria quanto me, nessuno” (che è anche il titolone sulla copertina di Time), e tira dritto. Ci sono dei particolari mortificanti che hanno fatto reagire molti ucraini: questo racconto non rappresenta noi né chi guida il nostro paese, hanno detto. Una fonte anonima – tranne Zelensky  e Andriy Yermak  – dice riguardo al fronte: “Non ci muoviamo in avanti”.
   Shuster prosegue: “Alcuni comandanti  hanno iniziato a non eseguire gli ordini di muoversi in avanti, anche quando tali ordini arrivano direttamente dall’ufficio presidenziale. Vogliono soltanto starsene seduti in trincea e mantenere il fronte”, dice, “ma così non si può vincere la guerra”. Nella parte finale, un “collaboratore stretto” di Zelensky dice che anche se gli Stati Uniti e gli altri alleati consegnassero tutte le armi che hanno promesso, “non abbiamo gli uomini per utilizzarle”. Shuster si dilunga sulla corruzione nell’arruolamento e poi sulla corruzione e sulla burocrazia scrive: “Viste le enormi pressioni per sradicare la corruzione ho pensato, forse ingenuamente, che i funzionari ci avrebbero pensato due volte prima di prendere bustarelle o intascarsi i soldi dello stato. Ma quando ho detto questa cosa a un alto consigliere del presidente a inizio ottobre, mi ha chiesto di spegnere il registratore per parlare più liberamente: ‘Simon, ti sbagli’, ha detto, ‘la gente ruba come se non ci fosse un domani’”. Considerando che proprio la destinazione degli aiuti internazionali è un tema molto sentito nei parlamenti occidentali, considerando che la settimana prossima la Commissione europea deve dare il suo parere sui progressi fatti dall’Ucraina per iniziare i colloqui dell’allargamento e la lotta alla corruzione è cruciale, considerando che il costo umano pagato dagli ucraini in questa difesa dall’aggressione russa – un costo che è unicamente dell’Ucraina – queste citazioni sono oltremodo insultanti, oltre che un alibi perfetto per chi vuole diminuire se non sospendere gli aiuti a Kyiv: se nemmeno gli ucraini vogliono combattere, se nessuno si fida più di Zelensky nemmeno tra i suoi, perché dovremmo farlo noi?
   In audizione al Senato ieri, il segretario di stato Antony Blinken e il capo del Pentagono Llyod Austin hanno dato una risposta a questa domanda: senza il sostegno americano, Vladimir Putin vincerà la guerra in Ucraina. “Prima o poi – ha detto Austin – Putin sfiderà la Nato e ci ritroveremo in  guerra aperta”. L’audizione è stata interrotta da una protesta del gruppo femminista Code Pink che ha gridato: “State finanziando il genocidio, cessate il fuoco subito, lasciate vivere Gaza” e ha alzato le mani colorate di rosso sangue. Blinken ha ribadito che Israele deve essere messo in grado di difendersi nel rispetto delle leggi internazionali. Alla festa di Halloween alla Casa Bianca, il segretario di stato ha portato i suoi figli: uno era vestito come Zelensky, l’altra aveva un vestito dei colori dell’Ucraina.

Il Foglio, 1 novembre 2023)


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Ucraina o Israele? Si deve scegliere

di Marcello Cicchese

L’alternativa è cominciata a porsi al Congresso americano: a chi dobbiamo dare i soldi? all’Ucraina o a Israele? Non hanno detto proprio così, naturalmente, ma è un segnale che impone la scelta tra i due soggetti in guerra, che ad alcuni appaiono entrambi come baluardi in difesa della civiltà occidentale.
   La scelta s’impone, ma non per le questioni dette nell’articolo precedente. L’Ucraina è stata - e rischia di non rimanere più - un baluardo a difesa degli interessi di supremazia americani, non della libertà. Ed è stata una difesa a spese di chiunque risultasse utile, soprattutto a spese dell’Europa, quindi anche a spese dell’Italia. Secondo la narrazione a stelle e strisce, nella difesa dell’Ucraina il mondo civile doveva vedere la difesa dall’irruzione in Europa della barbarie russa, impersonata dal mostro Putin. E qui è partita una serie di menzogne inanellate una dopo l’altra con scientifica perizia. Sì, scientifica, perché l’arte della menzogna non è una disciplina alla portata di tutti, e in questo gli americani sembrano aver superato perfino i sovietici del recente passato.
   La menzogna ha preso slancio con la falsificazione delle cause che hanno portato alla guerra ed è proseguita con la descrizione nei media di raccapriccianti scene di guerra confermanti la malvagità dei russi e il desiderio di libertà degli occidentali condotti dalla Nato.
   Questa guerra avrebbe anche potuto arrestarsi abbastanza presto con un accordo tra le parti, ma questo non è stato possibile perché gli anglo-americani (modo di esprimersi volutamente popolare) si sono opposti. Per gli obiettivi che si erano dati, a loro interessava la prosecuzione della guerra, e di questo portano in ogni caso la responsabilità, quali che siano le cause che l’hanno fatta nascere.
   Il fatto interessante è che in questa occasione Israele è apparso per un momento in veste di mediatore tra le forze in gioco. Bennett, a quel tempo premier di Israele, ha parlato direttamente anche con Putin, e in un video che ha pubblicato in seguito ha dichiarato che si stava arrivando ad un accordo, ma che la cosa non è stata possibile per l’indisponibilità degli anglo-americani.
   L’interesse di Israele in quel momento sarebbe stato avere un arresto delle ostilità, per motivi generali e per il comprensibilissimo motivo di non far nascere un contrasto con i russi, con cui avevano un tacito accordo di comune interesse.
   Qui comincia a sorgere un contrasto tra Ucraina e Israele. La prima chiede alla seconda una posizione forte a suo favore, e armi. Ma non ottiene in misura giudicata consona né una cosa né l’altra. Zelensky si lamenta e accusa Israele di mancata solidarietà. Si è parlato perfino di mettere in discussione la scorta di armi che Israele riceveva dagli Usa come riserva in caso di aggressione. Israele avrebbe dovuto privarsi di armi per darle all’Ucraina, dunque a difesa della civiltà occidentale. Israele non l’ha fatto e Zelensky si è arrabbiato. Come in questo momento sta facendo con tutti. Ma forse adesso non con Israele, a cui adesso non potrebbe certo chiedere di dargli delle armi.
   Conclusione: la politica degli Usa ha danneggiato tutti, compresi gli americani. Si sono serviti dell’Ucraina e dei paesi europei per mandare avanti i loro interessi di supremazia presentata come difesa della civiltà occidentale. Adesso rimane un’Ucraina devastata come nazione e come popolo, un’Europa disunita e impoverita, un Israele di cui gli Usa sono considerati protettori, ma che in realtà offrono i loro aiuti politici e militari solo nella misura in cui contribuiscono ai loro non sempre leciti interessi. Dire, come fa Biden, che l’obiettivo da raggiungere è la coesistenza di due stati per due popoli significa precisamente difendere tutto ciò che ha portato alla situazione di oggi.
   Ai difensori della civiltà occidentale minacciata nella stessa misura dall’Islam e dalla Russia, si deve dire che è indecente scorgere una somiglianza tra il contrasto Ucraina-Russia e Israele-Hamas. Gli ebrei dovrebbero essere i primi a indignarsi per questo paragone. A un Israele che ha sperimentato sulla sua pelle la libidinosa voglia dei loro nemici di cacciare gli ebrei da quella terra massacrandoli nella misura in cui è stato possibile, venire a dire che deve stare attento a non uccidere troppi civili palestinesi, significa voler mettere una briglia all’impeto dell’ira israeliana. In quella mattinata di vomitevoli massacri, l’opinione pubblica internazionale (e quella americana non ha fatto eccezione) non è stata capace di vedere un chiaro segno: il segno che al mondo c’è qualcuno che vuole accanitamente far sparire gli ebrei dalla faccia terra, cominciando dalla terra che gli ebrei considerano loro.
   E il mondo adesso sta a guardare compiaciuto, come volesse dire: sì, cominciate voi, poi continueremo noi tutti insieme, piano piano, nella misura in cui sarà possibile. Se questo è il segno, se è questo che gli ebrei israeliani avvertono sulla loro pelle, allora si capisce che Israele non abbia alcuna intenzione di fermarsi e sia deciso ad andare avanti fino a che non sarà riuscito a lasciare intorno a sé un segno contrario: prima sulla pelle di quelli che li hanno colpiti, poi sulla coscienza di quelli che hanno osservato e adesso applaudono. Un segno che significa: noi vogliamo vivere. Am Israel chai.

(Notizie su Israele, 1 novembre 2023)

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Operazione dello Shin Bet a Jenin. Arrestato leader di Al Fatah

di Sarah G. Frankl

Forze di polizia in incognito e dello Shin Bet sono entrate ieri sera a Jenin per arrestare Atta Abu Rumaila, 63 anni, segretario generale di Fatah nella città settentrionale della Cisgiordania.
Fonti militari affermano che non c’è stata resistenza durante l’arresto di Abu Rumaila, che è stato trattenuto insieme al figlio.
Le Forze di Difesa Israeliane e l’agenzia di sicurezza Shin Bet hanno dichiarato che negli ultimi mesi Abu Rumaila ha “fatto progredire le attività terroristiche con finanziamenti di decine di migliaia di shekel e ha aiutato ricercati e operatori terroristici”.
La dichiarazione congiunta ha affermato che Abu Rumaila “ha avuto un ruolo significativo nell’inasprire la situazione della sicurezza nella regione” e che suo figlio era un agente terroristico locale.
Successivamente, le truppe israeliane sono entrate nuovamente a Jenin per “rendere innocue le infrastrutture del terrore”, ha dichiarato l’IDF.
Le truppe hanno trovato e distrutto ordigni esplosivi piazzati nelle strade e un tunnel sotterraneo usato dagli uomini armati. È stata anche confiscata un’auto con munizioni ed equipaggiamento militare.
Durante l’operazione, le truppe si sono scontrate con uomini armati palestinesi. L’IDF ha effettuato un attacco con un drone contro alcuni uomini armati durante lo scontro a fuoco. Secondo fonti palestinesi quattro terroristi sarebbero stati uccisi.
Non ci sono notizie immediate da parte dell’IDF su quanto accaduto a Tulkarem.
Dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre, si sono verificati frequenti scontri in Cisgiordania e le truppe hanno arrestato più di 1.000 palestinesi, circa 700 dei quali affiliati al gruppo terroristico di Hamas.

(Rights Reporter, 1 novembre 2023)

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Israele, Palestina e Gaza Una striscia di sangue lunga un secolo

Ottimo articolo sintetico ed equilibrato nella descrizione dei fatti. Apprezzabile, e “coraggiosa” dati i tempi, la presa di posizione finale. NsI

di Edoardo Bernkopf

La comprensione dei tragici fatti che insanguinano il Medio Oriente e mettono a rischio la pace mondiale, non può prescindere dalla conoscenza della storia di quelle terre.
  Le origini del moderno stato di Israele risalgono alla sconfitta e alla disgregazione dell'Impero Ottomano (nessuno ha mai criticato la secolare disastrosa amministrazione imperiale dei turchi, che oggi appoggiano Hamas) all'indomani della prima Guerra mondiale. Come poi a Yalta, i vincitori si erano espressi sull'assetto geopolitico del futuro dopoguerra, e l'Inghilterra aveva proposto la dichiarazione di Balfour, in cui si propugnava la fondazione di una "dimora nazionale per il popolo ebraico". Va ricordato che la Legione Ebraica diede un contributo significativo alla liberazione di tutto il Medio Oriente dai turchi. La disgregazione di tutti gli imperi (compreso recentemente quello sovietico) ha disegnato confini a tratti artificiali (così succederà anche fra arabi ed arabi: in questo di certo gli inglesi sono stati maestri) ma sul momento il problema fu rimandato: tra il 20 e il 22 all'Inghilterra venne conferito il mandato anche sulla Palestina, dove vivevano senza particolari conflittualità sia ebrei che arabi. La spartizione e l'assegnazione di un territorio agli ebrei sulla base della dichiarazione Balfour era pienamente giustificata, stante che si erano insediati in quelle terre da più di tremila anni, duemila prima dell'arrivo degli arabi.
  Durante la seconda guerra mondiale, mentre gli ebrei, sempre con la Legione Ebraica in uniforme inglese, diedero un significativo contributo militare, è noto che gli arabi attendessero con sostanziale favore l'arrivo degli italotedeschi.
  Il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini sosteneva esplicitamente la comunanza di intenti fra musulmani e nazisti. A guerra finita, nel '48 scadeva in Palestina il mandato britannico, e nel ’47 la risoluzione 181 dell'Onu, con voto favorevole anche di Usa e Urss, e con l'astensione dell'Inghilterra, decretava la spartizione della Palestina fra arabi ed ebrei. Il territorio riconosciuto a questi ultimi era di molto inferiore ai confini attuali, e comprendeva aree abitate in maggioranza da ebrei. Gli arabi dichiararono apertamente di non accettare la risoluzione dell'Onu, rifiutata peraltro anche dalle componenti estremistiche ebraiche, il che fece scoppiare una sanguinosa guerra civile.
  Il 4 maggio '48, alla scadenza del mandato inglese, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Forti del numero, Egitto, Siria, Transgiordania (la Giordania non esisteva ancora), Iraq e Libano attaccarono il neonato stato da tutti i lati. Con la guerra iniziò la fuga dei palestinesi dai teatri di guerra, in parte esortati anche con la forza a sloggiare dalle formazioni paramilitari terroristiche ebraiche. Non solo non tornarono più alle loro case, ma furono traditi dai fratelli arabi che, a fronte delle promesse, li segregarono in campi profughi nei quali vivono oggi i loro nipoti. In quella guerra si dimentica spesso che la striscia di Gaza fu occupata dall'Egitto, e la Cisgiordania fu conquistata dall'emirato di Transgiordania e quindi annessa, assieme a Gerusalemme Est, al neo costituito regno Hashemita di Giordania.
  La Legione Araba, l'unità scelta transgiordana, addestrata dal generale inglese John Bagot Glubb, meglio noto come Glubb Pascià, impose la totale "pulizia etnica" in tutte le aree conquistate: a nessuno ebreo venne permesso di rimanere, neanche a quelli le cui famiglie avevano vissuto nella regione per secoli. Nelle case così svuotate, la Giordania insediò alcune famiglie di profughi palestinesi. La Cisgiordania vide una progressiva infiltrazione di profughi, ma vi si infiltrarono anche molti guerriglieri, che tentarono di destabilizzare la situazione tramando contro la monarchia. Gli arabi, perduta la prima, scatenarono, dopo il 48, altre due guerre: quella dei sei giorni (1967) e quella del Kippur (1973). Le persero tutte, consentendo, come in tutte le guerre perse, ai vincitori di estendere progressivamente i propri confini (ne sappiamo qualcosa anche noi, con la particolarità che l'Italia, ha ceduto territorio nazionale a nazioni confinanti non già vittoriose, ma altrettanto sconfitte, vale a dire quella Slovenia e soprattutto quella Croazia alleate in guerra con l'asse, e in gran parte più naziste dei nazisti, vedasi Ustascia, Belagardisti e Domobranzi).
  Con la Guerra dei sei giorni del 1967, Israele aveva occupato la Cisgiordania ad est, le alture di Golan a nord e il Sinai e Gaza a sud. Successivamente l'Egitto riottenne il Sinai, in cambio della pace, che regge tuttora. In Giordania era forte e bellicosa la presenza palestinese organizzata nell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) fondata nel 1964 con l'obiettivo della "liberazione della Palestina" attraverso la lotta armata. Guidata da Yasser Arafat costituiva una fronda politica ostile alla monarchia all'interno, e una organizzazione terroristica internazionale in Israele e nel mondo: fu l'epoca dei dirottamenti aerei.
  Nel settembre 1970 Il re hashemita Husseyn di Giordania, che era scampato a vari attentati, represse con le fedeli truppe di etnia beduina-transgiordana il tentativo delle organizzazioni palestinesi di rovesciarlo. L'attacco, che viene chiamato "il settembre nero" provocò pesanti perdite anche fra i civili palestinesi. I miliziani dell'Olp, cacciati dall'esercito giordano, si rifugiarono in Libano, paese economicamente florido, che si reggeva però su un fragile equilibrio pattuito fra le diverse religioni: presidente cristiano maronita, primo ministro musulmano sunnita, presidente del parlamento musulmano sciita, comandante delle forze armate cristiano maronita e altri alti funzionari greco-ortodossi o drusi. L'arrivo dei palestinesi cisgiordani, che si aggiungevano a quelli sconfinati in Libano nel '48 e nel '67, destabilizzò il paese, portandolo alla guerra civile, che finì per renderlo un protettorato siriano e una base per le organizzazioni terroristiche Hezbollah e Amai, che, come Hamas, vengono erroneamente assimilati alla causa del popolo palestinese, mentre ne sono i tiranni.
  Nel 1988, la Giordania ritirò tutte le pretese sulla Cisgiordania, consegnandone la sovranità all'Olp.
  A seguito degli Accordi di Oslo del '93-94 l'Olp, pur non cancellando il progetto finale di eliminazione dello Stato di Israele, lo riconosceva interlocutore dei negoziati di pace. Ai leader palestinesi fu permesso il rientro in Palestina da Tunisi dove il quartier generale dell'Olp si era trasferito, cacciato da Beirut a seguito dell'occupazione israeliana del Libano nel 1982: l'Olp si insediò così a Ramallah. In cambio delle concessioni palestinesi (rinuncia al terrorismo, accettazione, non proprio esplicita, dell'esistenza di uno stato ebraico e politica del negoziato), Israele ha allentato la sua presenza militare, e con la creazione nel 1995 dell'Autorità Nazionale Palestinese, la Cisgiordania, ormai denominata Palestina, è stata divisa in tre aree con amministrazione e controllo militare misti israeliano e palestinese, in attesa di un accordo definitivo che stenta però a realizzarsi, perché anche in Palestina è forte e minacciosa la presenza di Hamas: il mandato del presidente Mahmud Abbàs è scaduto nel 2009, ma rimane in carica perché non vi si tengono elezioni, nel timore che anche lì le vinca Hamas, istituendo un nuovo stato canaglia. Anche la striscia di Gaza è stata ceduta da Israele ai palestinesi della Autorità Nazionale Palestinese (Anp), costituitasi a seguito degli Accordi di Oslo del 1994. Ci furono nel 1996 le prime elezioni, che videro la vittoria di Fatah guidata da Arafat.
  Dal 2007, però, Gaza è governata direttamente dall'organizzazione terroristica Hamas, che ha vinto le elezioni del 2006, come le vinsero i fascisti nel '24 e i nazisti nel '33. Ha espulso con la violenza Fatah e l'Autorità palestinese, anche ammazzandone vari dirigenti: di fatto Gaza/Hamas è uno stato canaglia, i cui cittadini, sulla cui sorte si piange, sono di fatto prigionieri non di Israele, ma di Hamas, che, come Hetzbollah, Jihad e Amai andrebbero ben distinte dalla causa palestinese.
  Con i fiumi di denaro che da tutto il mondo affluiscono a Gaza, se invece di missili da lanciare sulle città israeliane si realizzassero servizi per i cittadini, Gaza sarebbe in una situazione sociale ben diversa. Riassumendo, la Cisgiordania e Gaza, occupate anzitutto da eserciti arabi durante la guerra del '48 da questi scatenata, successivamente sono state occupate da Israele in due guerre subite e vinte. Lo Stato Ebraico però le ha rimesse, per la prima volta nella loro storia, sotto la sovranità palestinese, ma il risultato è stato quello di trovarsi a Gaza un governo di terroristi, e di rischiare di averne un altro in Cisgiordania.
  Quale scopo avrebbero le migliaia di missili lanciati da Hamas, Hezbollah e Amai sulle città israeliane? Non sono certo azioni militari, ma crimini premeditati contro la popolazione, che rispondono ad una strategia politica che chi oggi manifesta per la causa palestinese dimentica, cioè l'eliminazione delle Stato di Israele, obiettivo esplicitato fin nei loro atti costitutivi, che rende perfettamente coerenti le migliaia di missili lanciati contro le città israeliane e le recenti efferate stragi nei kibbutz.
   Questi crimini provocano le inevitabili e prevedibili odierne reazioni israeliane rivolte ad eliminare le installazioni e i terroristi di Hamas, con inevitabili danni collaterali, giacché questi si insediano in mezzo alla popolazione civile per farsene scudo, addirittura nei sotterranei di un grande ospedale, e impediscono ai civili di spostarsi e di mettersi in salvo al sud. Si piangono le tragedie che ne conseguono, e ci si indigna, ma sono un ottimo strumento di propaganda anti-israeliana, che risulta efficace: addirittura l'Onu invita al cessate il fuoco, ma nell'ultima risoluzione non condanna Hamas e non chiede nemmeno l'immediato rilascio degli ostaggi. Un emendamento canadese in tal senso è stato respinto. L'ennesima prova dell'inutilità dell'Onu, dove le vere democrazie sono una sparuta minoranza.

(Gazzetta di Parma, 1 novembre 2023)

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