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Notizie 16-30 novembre 2023


Operazione spade di ferro giorno 55. Le storie dei rapiti e il prolungamento della tregua

di Ugo Volli

• I liberati di oggi
  Anche il sesto gruppo di rapiti è stato liberato in cambio del triplo numero di terroristi condannati e reclusi nelle carceri israeliane. È bene precisare ancora, dato che su questo tema corre molta propaganda anti-israeliana, che i rapiti sono stati catturati il 7 ottobre a caso, nelle loro abitazioni, senza che mai nessuno li abbia incolpati di niente se non di essere ebrei e quando fra essi si parla di bambini, si intende quello che tutti capiscono: persone di due, tre, sette, dodici anni sottratte ai loro genitori e disumanamente trattenuti, mentre i detenuti scarcerati da Israele sono tutti stati riconosciuti colpevoli di reati gravi, dal tentato omicidio all’uso di esplosivi e i “bambini” di cui si parla sono adolescenti violenti, fino ai 18 anni d’età, addestrati alla guerra fin da piccoli, come non solo Hamas ma tutti i movimenti palestinisti fanno, utilizzando anche le scuole dell’Unrwa, un’organizzazione dell’Onu finanziata anche dalle nostre tasse. I rapiti che ieri sono stati riconsegnati a Israele sono due lavoratori thailandesi e dodici israeliani, incluse due donne con doppio passaporto russo, cedute da Hamas in omaggio a Putin, come era già accaduto con un loro concittadino, due giorni fa. Si tratta di Yelena Trupanob (50 anni) and Irena Tati (73) del kibbutz Nir Oz, catturati con Sasha (28 anni) e la sua fidanzata Sapir Cohen (29), che sono ancora nelle mani dei terroristi. Gli altri ostaggi sono Gali Taranski, di 13 anni, catturata nel Kibbutz Beeri dove si era nascosta con suo fratello Lior, ucciso sul posto; Amit Shani dello stesso kibbutz, rapito insieme a lei; Ofir Engel di 17 anni del Kibbutz Ramat Rahel; Liam Or di 18 anni; Itay Regev della stessa età; Raaya Rotem di 54 anni, sempre del Kibbutz Beeri; Raz Ben-Ami di 57 anni; Yarden Roman Gat di 36; Liat Atzili di 49; Moran Stella Tanai di 40.

• Storie terribili
  Le loro sono storie di vite produttive, impegnate, con passioni artistiche, sportive, lavorative, spesso con un impegno politico in favore della pace con i vicini arabi, che sono state bruscamente interrotte e in molti casi psicologicamente distrutte dalla barbarie degli assassini e violentatori del 7 ottobre. Bisognerebbe narrarle tutte in un racconto collettivo di speranza e di orrore, ma purtroppo non è possibile farlo qui. Sempre riguardo ai rapiti e al loro trattamento, dalle narrazioni dei liberati ogni giorno emergono nuovi particolari inquietanti. I lavoratori thailandesi liberati e curati negli ospedali israeliani, che ieri sono stati festeggiati prima della loro partenza per casa, hanno raccontato di essere trattati dai terroristi meglio degli ebrei e di aver assistito a loro pestaggi con cavi elettrici. Due rapiti hanno testimoniato di non essere stati detenuti nei tunnel, come la maggioranza, ma di essere stati affidati in custodia a persone “civili”, un insegnante dell’Unrwa e addirittura un medico, che li hanno rinchiusi in locali angusti ed affamati. Alla luce di questa storia e anche delle immagini terribili delle folle minacciose che premono per linciare i rapiti durante la loro liberazione, la distinzione fra terroristi e popolazione “innocente” di Gaza appare sempre più problematica. Del resto anche ieri uno dei dirigenti dell’Autorità Palestinese, a lungo responsabile dei servizi di sicurezza e candidato alla successione di Abu Mazen, Jibril Rajoub, ha fatto un discorso lodando “l’eroica battaglia del 7 ottobre” e annunciando che presto si vedrà lo stesso nei “territori occupati” di Giudea e Samaria.

• Il prolungamento del prolungamento
  Oggi scadeva il prolungamento di due giorni della tregua concordata di quattro, ma i combattimenti non sono ripresi. In Qatar i servizi segreti israeliani, americani e i dirigenti di Hamas hanno concordato un nuovo prolungamento di un giorno, per dar tempo alle trattative per uno scambio più grande di svilupparsi. Questo nuovo accordo dovrebbe essere portato nel voto del governo di Israele, dove però alcuni, come Smotrich e Ben Gvir si oppongono risolutamente. Anche l’esercito, a quanto pare, è dell’idea di riprendere la battaglia. Nel quadro di questo dibattito rientra anche la nuova visita di Blinken che preme per una stabilizzazione della tregua, che sarebbe in sostanza una vittoria per Hamas che riuscirebbe addirittura a restare padrone di Gaza, e una sconfitta per Israele.

• Il fronte interno
  I servizi di sicurezza hanno smantellato del tutto i vertici del più pericoloso gruppo terrorista della Samaria, quello di Jenin. Alcuni episodi di terrorismo interno si sono verificati fra ieri e oggi. Il più grave è stato un attacco alle porte occidentali di Gerusalemme, in cui sono morti due israeliani e altri sono stati feriti. I due terroristi sono stati liquidati.

(Shalom, 30 novembre 2023)

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"Combatteremo fino alla fine"

Le ragioni di Netanyahu contro le ambizioni di Sinwar e la tregua lunga e pericolosa

di Fiamma Nirenstein

Al 54esimo giorno di guerra Israele sembra essersi innervosita parecchio alla pubblicità dell'ipotesi ripetuta all'infinito sui media di uno scambio «tutti contro tutti» accompagnato dalla possibilità di una tregua a tempo indefinito e dall'impegno a risparmiare i capi di Hamas, specie Sinwar e Mohammed Deif.
   Mentre ieri si preparava infatti il sesto rilascio dopo 61 ostaggi e 150 palestinesi, cioè dieci israeliani più due israeliane con passaporto russo, e si rendeva nota la possibilità non solo di altri due giorni sempre così formulati con uno scambio col triplo di palestinesi, ma di una prosecuzione forse di dieci giorni, forse a lungo termine, l'idea disegnava una conclusione in cui Hamas di fatto veniva tenuta buona con una smilitarizzazione sostanziale della Striscia mentre lentamente i più di 200mila, soldati delle riserve, ora dislocati nel Nord, avrebbero dovuto di fatto iniziare un ritiro e restare congelati.
   Un'ipotesi aggravata dal fatto che Hamas, come ha fatto martedì per tre volte, gli spara addosso impunemente. Ora sono stati feriti, domani potrebbero essere un morto in più sulla già lunga lista di 50 perduti in guerra, dopo il 7 ottobre. È stato quando questa ipotesi cominciava, nel pomeriggio, ad apparire anche come una fonte di discussione politica che Netanyahu ha parlato alla tv:
    «Mi hanno chiesto se tornerò a combattere dopo questo stadio di ritorno degli ostaggi e la risposta è inequivoca, non esiste al mondo che io non torni a combattere fino alla fine. Ho tre scopi, distruggere Hamas, il ritorno degli ostaggi, la liberazione definitiva di Gaza».
Questo significa prima di tutto fare piazza pulita dell'idea «tutti contro tutti» ripetuta ieri all'infinito come si dice vorrebbe Sinwar: ottomila palestinesi fuori, persino gli assassini dei pick up che hanno compiuto la mostruosa strage del 7 ottobre.
   Accettare qualsiasi tregua di media o lunga durata significherebbe dare la possibilità a Hamas di riposare, ricostruire i depositi di armi, le riserve di cibo, medicine, benzina; vorrebbe dire creare nel Medio Oriente l'idea che Israele è debole, non è più capace, con l'esercito migliore e con la morale più forte, di recuperare la deterrenza che aveva prima del 7 ottobre. Se Israele non torna in tempi brevi e vittoriosamente a combattere avrà 200mila riservisti sul terreno dopo che hanno lasciato il lavoro e le famiglie per combattere. Al Nord, fra le rovine, Hamas ancora controlla gallerie e rifugi da cui nei giorni scorsi sono stati mandati fuori bambini e donne israeliani. Hamas vuole tornare al potere con cui il 6 ottobre ha preparato l'attacco, e prepararne ancora. Gode dell'entusiasmo oltre che dell'aiuto dei grandi alleati che disegnano dalla Russia all'Iran una fascia di protezione. In loro Sinwar vede la sua assicurazione sulla vita.
   Khamenei in un solenne indirizzo ai Basiji ha dichiarato che «Hamas ha cambiato il panorama geopolitico a favore dell'asse della resistenza promuovendo la deamericanizzazione dell'area». Un ruolo strategico. E un regalo che l'Onu sembra condividere quando il voto dell'assemblea destina ad Assad, altro amico di Hamas, il Golan, disegnando un'eventuale ulteriore strage in cui Assad è esperto; e anche Josep Borrel ha tenuto un discorso all'Unione europea che, in un incredibile mucchio di frasi stantie, ha anche paragonato più volte la violenza del 7 novembre all'autodifesa di Israele.
   Sinwar muove tutte le sue pedine per rilanciare sempre più in largo perché conta anche sul fatto che Israele ha sviluppato nei confronti delle famiglie dei rapiti un enorme senso di responsabilità; li conosce e li difende uno a uno, ed è indubbio che quando i giochi di Sinwar si faranno troppo pesanti, puntando specie sui soldati nelle sue mani, Israele saprà reagire. Pure il popolo ebraico è consapevole, specie dal 7 ottobre, di dovere innanzitutto difendere la sua esistenza e il suo significato di scudo di difesa. Difendendo se stesso e tutta la civiltà cui appartiene. Certo è pieno di amore, ma anche di soldati ben preparati che non vogliono più vedere le case, le città, esposte all'intenzione genocida di Hamas.

(il Giornale, 30 novembre 2023)

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Come l'IDF riprenderà la lotta

Attacchi aerei, fuoco di carri armati e artiglieria, D9 e fuoco di fanteria sono parte della continuazione della guerra.

di Yaakov Lappin 

Truppe israeliane nella Striscia di Gaza controllata da Hamas
Le Forze di Difesa israeliane stanno sfruttando la pausa dei combattimenti iniziata il 24 novembre per aumentare la loro prontezza operativa, imparare dalle recenti esperienze di combattimento e sviluppare piani operativi futuri. Questa fase preparatoria è considerata cruciale per il successo delle operazioni attuali e future e informerà il modo in cui l'IDF tornerà in guerra quando riceverà l'ordine appropriato dal Gabinetto di Guerra.
  Lunedì, il Comando meridionale dell'IDF ha approfittato della pausa tattica per ospitare un forum operativo incentrato sulle lezioni apprese dalla guerra. Sotto la guida del comandante del Comando Sud, il maggior generale Yaron Finkelman , hanno partecipato i comandanti di divisione e di brigata coinvolti nelle operazioni di terra a Gaza. Erano presenti tutte le figure chiave per il prosieguo della guerra: il capo delle operazioni, il maggior generale Oded Basiuk, il comandante delle forze di terra, il maggior generale Tamir Yadai, e il comandante dell'aviazione israeliana, il maggior generale Tomer Bar.
Soldati israeliani in azione nella Striscia di Gaza
Durante la giornata sono state discusse le principali lezioni apprese dai combattimenti fino ad ora e sono stati discussi i piani operativi per la continuazione dei combattimenti nella Striscia di Gaza.
I comandanti si sono concentrati sulle tecniche di combattimento, sulla disciplina operativa, sulle operazioni dei soldati dell'IDF e sulla conoscenza delle attività nemiche.
  Si è tenuto anche un incontro con i comandanti dell'aeronautica israeliana per trarre lezioni dalle missioni a fuoco, poiché questa guerra richiede un livello di cooperazione senza precedenti tra forze aeree e terrestri e un supporto aereo ravvicinato.
  Domenica il Ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha illustrato come l'IDF tornerà a combattere una volta terminato il cessate il fuoco.
  Rivolgendosi ai soldati Givati e ai membri del corpo corazzato che hanno combattuto a Gaza e che si trovano in un campo allestito appositamente per loro, Galant ha detto:
    "Avete pochi giorni a disposizione, riprenderemo i combattimenti, useremo la stessa forza e anche di più. Questo è il compito ora. Ricordate che il nemico farà lo stesso mentre voi vi organizzate, vi riprendete e indagate. Incontrerete qualcosa di un po' più preparato. Per questo subiranno prima le bombe dell'aviazione, poi i proiettili dei carri armati e dell'artiglieria, le lame del D9 e infine il fuoco della fanteria".
Galant ha sottolineato che l'obiettivo della guerra, la distruzione dell'esercito del terrore di Hamas nella Striscia di Gaza, non è cambiato. "Ovunque vada, sento dire: 'Finiamo la missione, andiamo fino in fondo'. Voglio che sappiate che le Forze di Difesa Israeliane, il sistema di sicurezza, il governo israeliano, l'intero popolo israeliano, e naturalmente io personalmente, sono al vostro fianco al 100% fino a quando non avrete terminato la missione. Non ci fermeremo finché non avremo finito", ha detto.

• PREPARAZIONE PER LE PROSSIME FASI

Il Capo di Stato Maggiore dell'IDF Herzi Halevi visita il Comando Nord
La scorsa settimana, l'IDF ha dichiarato che sarà pronto a riprendere le operazioni di combattimento non appena arriverà l'ordine.
"Sapremo come affrontare qualsiasi decisione e come prepararci per preservare il nostro status operativo e i nostri guadagni operativi e come proteggere il quadro [per il salvataggio degli ostaggi]", ha dichiarato il portavoce dell'IDF, contrammiraglio Daniel Hagari , il 22 novembre, due giorni prima dell'inizio della pausa.
  "Questa è una guerra lunga che avrà molte fasi, e naturalmente anche questo quadro avrà delle fasi", ha detto Hagari. Per raggiungere i nostri obiettivi di guerra, dobbiamo sapere come preservare le nostre conquiste operative e prepararci per le fasi successive della guerra".
  Secondo il professor colonnello in pensione Gabi Siboni , senior fellow del Jerusalem Institute for Strategy and Security (JISS) e consulente delle Forze di Difesa israeliane e di altre organizzazioni di sicurezza israeliane, la ripresa dell'offensiva dopo il cessate il fuoco rientra nelle capacità di Israele.
  In un'intervista rilasciata la scorsa settimana, ha dichiarato: "Una guerra inizia sempre prima che ci siano i combattimenti, e sarà così anche questa volta. Si faranno piani e si daranno ordini. La missione non cambierà. L'obiettivo principale non cambierà: la completa distruzione di Hamas".
  Siboni ha aggiunto che Israele cercherà di uccidere ogni terrorista noto di Hamas.

(Israel Heute, 30 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Non è vero che siamo tutti colpevoli. E’ Hamas che fa dell’odio una bandiera

Iran ed Hezbollah sostengono chi si oppone all'idea di una coesistenza tra popoli.

di Ruth Dureghello
Già presidente della Comunità ebraica di Roma

La prospettiva da cui si interpretano le questioni mediorientali dall'Italia è spesso legata a principi e modelli culturali differenti da quelli in cui vivono israeliani e palestinesi. Questa lettura, che avviene con occhi diversi rispetto a coloro che vivono il quotidiano di quella terra, inquina la comprensione delle dinamiche e del ragionamento e impedisce spesso di avere il reale contatto della realtà.
   Non è politicamente corretto pertanto dire che le responsabilità maggiori sono di una parte rispetto all'altra, che gli errori politici di una leadership corrotta che ha usato il terrorismo come strumento politico e ha fallito nel rifiutare tutte le proposte di pace avanzate da Israele, oggi portano a questo risultato. E nel complesso esistenziale in cui vive l'Occidente da alcuni anni a questa parte, ci è difficile affermare come ha fatto Barack Obama, che siamo tutti responsabili. Non siamo tutti responsabili e certamente non lo siamo alla stessa maniera. Questa visione paternalistica e un po' razzista per cui i palestinesi sono oggetto e non soggetto delle proprie scelte impedisce di affrontare qualsiasi discussione. In questa visione, l'odio diventa l'unico strumento dei palestinesi che senza soluzioni non hanno altri mezzi per affermare la propria posizione.
   Dobbiamo dire che per Israele l'odio non è una categoria politica. Tra le varie ragioni dell'attacco del 7 ottobre c'era la volontà di Hamas, Iran ed Hezbollah d'interrompere il percorso di normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi e del Golfo degli Accordi di Abramo. Una rivoluzione, che per l'appunto smentiva l'assunto che l'odio fosse l'ostacolo alla coesistenza. Certamente per Israele quegli accordi dimostravano con coerenza quanto avveniva nella sua terra sin dal giorno della sua creazione. Ebrei e arabi musulmani vivevano assieme in pace e sicurezza. Senza dover tornare indietro nella storia così Israele ha sempre ragionato anteponendo la pace alla guerra e la vita alla morte. Non alla stessa maniera è avvenuto dalla parte opposta. Infatti, mentre un arabo che vive in Israele viene considerato un cittadino, un ebreo che vive in territorio palestinese è considerato un colono. Non c'è speranza di coesistenza se si avalla questo principio. Un inganno che serve a nascondere chi le categorie politiche non le applica, come le teocrazie sciite di Iran ed Hezbollah, che alimentano Hamas e la guerra contro Israele. Non è un caso che i Paesi del Golfo, pur restando nella categoria dei Paesi confessionali, abbiano in questi anni aperto le loro società rispetto al passato, nei diritti e nella modernizzazione.
   Iran, Hezbollah e Hamas (che a differenza dei primi due è sunnita) hanno invece scelto un percorso inverso, in cui la radicalizzazione è diventata sempre più estrema e feroce. Un odio scientifico che nasce dal presupposto che gli ebrei e gli infedeli non abbiano diritto di vivere in questa terra. Una forma di antisemitismo bieca e violenta che inizia contro Israele e si estende fino ad arrivare da noi. Non è un caso che nelle piazze europee alle manifestazioni per la pace i manifestanti non solo giustifichino Hamas, ma ne esaltino le azioni. Lo stesso odio che vede negli Stati Uniti l'obiettivo successivo e simbolico dell'Occidente, che non dimentichiamo, ha già conosciuto il terrorismo islamista anche qui in Europa.
   Per questo dobbiamo sottrarci all'idea che l'odio sia binario e accettare che la responsabilità di questo sentimento di violenza dipenda anche da nostri errori. Sbagliamo se non prendiamo atto di come nasce e se non poniamo rimedi, ma soprattutto sbagliamo se applichiamo lo schema di Iran, Hamas e Hezbollah nel fomentare caos e tensione. Per risolvere il problema dell'odio va sradicato Hamas e va imposto all'Anp una posizione chiara e netta contro la violenza e il terrorismo grazie anche all'intervento degli altri Paesi arabi parte degli accordi di Abramo. Uno sforzo comune che abitui, come stava avvenendo in questi anni a cittadini israeliani e dei Paesi del Golfo, che nella convivenza c'è tutto da guadagnare.

(La Verità, 30 novembre 2023)

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Tre vittime nell’attentato di Hamas a Gerusalemme, alla fermata dell’autobus

di Anna Balestrieri

Tre morti e sei feriti. È questo il bilancio provvisorio dell’attentato terroristico di questa mattina, 30 novembre 2023. L’aggressione è avvenuta a colpi d’arma da fuoco all’entrata di Gerusalemme.
  I responsabili sono due fratelli, Murad e Ibrahim Namr, di 38 e 30 anni, del quartiere di Sur Baher a Gerusalemme est. Erano già noti allo Shin Bet ed alle carceri israeliani per aver pianificato attività terroristiche  e per essere membri di Hamas.
  L’attentato giunge al settimo giorno di tregua tra Israele e Hamas.
  Una delle tre vittime è il giudice rabbinico in pensione Elimelech Wasserman. Due donne vittime sono Hana Ifergan, 67 anni, e Livia Dickman, 24 anni. L’ospedale Shaarei Tsedek si sta occupando dei sei feriti.
  Sul suo canale Telegram, Netanyahu ha dichiarato che proseguirà il processo di distribuzione capillare di armi ai civili che, a detta sua, si è dimostrato fondamentale per arginare gli attacchi. Il ministro Itamar Ben Gvir ha rincarato la dose, aggiungendo che l’evento è dimostrazione che con Hamas si possa parlare “solo attraverso la guerra”.

(Bet Magazine Mosaico, 30 novembre 2023)

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Israele prova a sfondare il muro di gomma dell'Onu sugli stupri di Hamas. Non una di meno

Tra silenzi e cancellazioni, le Nazioni Unite glissano sulle violenze di massa e le mutilazioni post mortem nei confronti delle donne israeliane perpetrate lo scorso 7 ottobre. Così Israele lancia una campagna internazionale di sensibilizzazione

di Giulio Meotti

Tra silenzi e cancellazioni, le Nazioni Unite glissano sulle violenze di massa e le mutilazioni post mortem nei confronti delle donne israeliane perpetrate lo scorso 7 ottobre. Così Israele lancia una campagna internazionale di sensibilizzazione
   "Una donna è stata violentata circondata dagli amici morti. A un’altra è stato tagliato il seno e i terroristi ci hanno giocato. Una sopravvissuta all’Olocausto ha visto sua nipote violentata e uccisa. Una ragazza di quattordici anni è stata trovata con le gambe aperte e lo sperma sulla schiena. Le avevano sparato in testa. Alla maggior parte delle donne è stato sparato più volte alla testa. Alcuni corpi erano così gravemente danneggiati che dopo tre giorni il sangue continuava a gocciolare. Hanno mutilato i genitali di diverse donne”. L’indagine dell’unità investigativa israeliana Lahav 443 sulla violenza sessuale di massa da parte dei terroristi di Hamas riguarda accuse che vanno dallo stupro di gruppo alla mutilazione post mortem.
   Esther è stata violentata sotto lo sguardo del fidanzato, costretto ad assistere con un coltello puntato alla gola. “E’ stato così doloroso che ho perso conoscenza, si sono fermati quando pensavano che fossi morta”, ha detto Esther al Parisien. I terroristi di Hamas hanno mutilato la giovane con un coltello e con una scheggia di vetro, provocandole una paralisi irreversibile alle gambe. “Dentro sono mezzo morta”.  Ma le più importanti organizzazioni femminili all’interno delle Nazioni Unite non sono riuscite a dire niente. Il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (Cedaw) ha parlato in modo amorfico e generico delle “questioni di genere nel conflitto”. 
   “Il silenzio della comunità internazionale per i diritti umani e le donne è assordante”, ha detto al Daily Beast la professoressa Ruth Halperin-Kaddari, già vicepresidente del Cedaw. “Il tradimento non riguarda soltanto le vittime di abusi sessuali, ma l’integrità stessa delle istituzioni”. Silenzio anche da parte di UN Women, l’organismo delle Nazioni Unite responsabile della promozione e dell’emancipazione delle donne in tutto il mondo.
   Così, in occasione della Giornata internazionale delle Nazioni Unite per l’eliminazione della violenza contro le donne, Israele ha lanciato una campagna internazionale di sensibilizzazione sulla tragedia delle donne che sono state vittime di stupri, violenze sessuali, linciaggi, rapimenti e omicidi ad opera dei terroristi palestinesi di durante la carneficina perpetrata in Israele lo scorso 7 ottobre.
   All’insegna dei messaggi “Niente scuse” e “Credere alle donne israeliane”, la campagna durerà due settimane. Lunedì Israele ha tenuto un incontro alle Nazioni Unite a Ginevra per sensibilizzare sulla violenza sessuale contro le donne perpetrata durante gli attacchi del 7 ottobre. L’evento privato, a cui hanno partecipato diplomatici, gruppi per i diritti umani e agenzie delle Nazioni Unite, è il primo organizzato da Israele fuori dal paese sugli atti di violenza sessuale da parte di Hamas e si è svolto in quella Versailles diplomatica che è il Palais des Nations. Halperin-Kaddari è intervenuta all’evento: “Ci aspettavamo una dichiarazione chiara e forte che affermasse che non esiste alcuna giustificazione per l'uso dei corpi delle donne come arma di guerra. Fino a ora non è successo nulla di tutto questo”.
   Quando le è stato chiesto di spiegare perché, l’accademica ha detto: “Ribalta la visione convenzionale di  Israele come l’aggressore e i palestinesi come la vittima finale”. Halperin-Kaddari ieri ha anche incontrato il capo dei diritti umani delle Nazioni Unite Volker Turk per trasmettere il messaggio, fornirgli le prove e chiedere una forte condanna. In un post su Instagram, UN Women ha inizialmente denunciato gli attacchi di Hamas, ma poi ha cancellato la dichiarazione subito dopo la pubblicazione e l’ha sostituita con un’altra che ometteva la condanna di Hamas. Il commento migliore è di Fania Oz-Salzberger, la figlia di Amos Oz: “Anche per una israeliana moderata, forte è la tentazione di lasciare l’Onu e diventare orgogliosamente uno stato canaglia. La mia fiducia nell’Onu è pari a zero. Come ebrea e come donna”. Come diceva lo slogan del MeToo? “Believe women”. Tranne le israeliane.

Il Foglio, 30 novembre 2023)

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Dedicato a Kfir Bibas

Hamas: “Kfir Bibas, 10 mesi, è morto con la madre”. Era il più piccolo degli ostaggi israeliani 

di Lidano Grassucci

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Non so cosa sia la guerra quando la vivi, non mi interessa trovare i torti o le ragioni, seguo quel che sento per educazione, per cultura. Tutto è possibile in questa vita di dolore, anche il dolore per cattiveria, anche la fine della speranza. Ma?
   Una sola cosa ci rende umani, il rispetto per i bimbi quando sono indifesi, quando non possono essere offesi, che è la condizione di essere bambino.
   Vengo da una comunità dove non c’è la parola “bimbo” dell’italiano, ma è sostituita dalla parola “mammoccio” che indica l’unica sovrana del bimbo, l’unica custode, l’unica che ne ha cura e ha il compito di crescere, la madre. Chi, chiunque, entri in questa magia, la strappi, è disumano, è fuori dal genere umano.
   Un bimbo di 10 mesi, può solo piangere, urlare. Dipende per ogni cosa dagli altri, è incapace di offese, è incapace di ogni cosa è “creatura” appena creata. Non prega, non canta gli inni al Signore, non ricorda, non ama ma neanche lontanamente è incapace di odiare. Lo hanno rapito, che è come strappare un bocciolo di rosa in odio al suo fiorire, è come togliere il seme del grano per affamare il domani.
   Ho sentito dotte spiegazioni sulla guerra nella terra di Israele, ho sentito cercare colpe, ma rispondetemi: come si può rapire e far morire un bimbo di 10 mesi?
   Posso far male per errore, posso odiare un uomo fatto, una donna fatta, ma… un bimbo no. Al mio paese un sindaco comunista diede l’incarico ad un giovane medico “aiuta i mammocci”. Il sindaco era Alessandro Di Trapano, il medico Sandro Bartolomeo. Nessun altro ordine, solo un impegno sacro per la cosa più sacra.
   Si chiamava Kfir Bibas era un bimbo, avrebbe giocato con ogni altro bimbo non badando alle cose a cui noi badiamo. E’ morto con la madre, “rapito” in una giornata di ottobre, di un ottobre dolce dove nessuno doveva morire. Nessuna ragione giustifica questo torto.
   Ho freddo, qualcuno dice che nacque un bimbo, figlio di Israele, che portava cose nuove in un disegno che lo rapì alla madre, ma dopo 33 anni. Il tempo vale.
   Chi lo ha rapito come dormirà d’ora in poi? Come si guarderà allo specchio e quale giusta causa giustifica questo ingiusto orrore?
   A dimenticavo, Kfir Bibas era ebreo, era un bimbo, ma ai bimbi ebrei capita più spesso degli altri di andare per un camino e non è un caso. Mi vergogno in anticipo di chi dirà: “ma se la sono cercata”, chi dirà “però”, chi aggiungerà “ma anche”.

(Fatto a Latina, 29 novembre 2023)

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Ma i palestinesi stanno preparando solo altro terrore

Non si vede nessuna Autonomia Palestinese moderata che possa rappresentare quel punto di riferimento per un eventuale futuro pacificato che Biden suggerisce ogni giorno

di Fiamma Nirenstein

È stata la sua cara mamma che quando Omar Artsan, uno dei detenuti per terrorismo delle carceri israeliane appena liberato nello scambio, drappeggiato nella bandiera verde degli assassini è corso fra le sue braccia, ha subito gridato commossa: «Coll’anima, col sangue, ti esalteremo Hamas». Non solo l’autorità palestinese di Abu Mazen ma anche Gerusalemme Est si ammanta del verde di Hamas. Non si vede nessuna Autonomia Palestinese moderata che possa rappresentare quel punto di riferimento per un eventuale futuro pacificato che Biden suggerisce ogni giorno.
   Palestinesi e Hamas oggi sono quasi una cosa sola e non perché Israele abbia rifiutato accordi di pace. Blinken è di nuovo in arrivo: il vecchio sogno dei due stati per due popoli balena continuamente. Gaza invece che da Hamas dovrebbe essere governata da Fatah. Purtroppo lo schema è irreale: non solo l’odio aggredisce dalla scuola allo schermo tv ai discorsi di un rais corrotto e debole che nega la Shoah, finanzia il terrorismo e alla fine viene emarginato dai sanguinari di Hamas.
   La società palestinese riaccoglie centinaia di giovani e donne che proprio come accadde quando Sinwar fu rilasciato nello scambio per Shalit, diventeranno militanti e forse leader del terrorismo. E mentre il sentimento degli israeliani è volto al ritorno degli ostaggi e il Paese sospende la guerra di sopravvivenza, Sinwar compie con gli scambi una sua guerra di conquista fino al West Bank, facendone la prossima roccaforte di Hamas. Blinken deve pensare un suggerimento migliore per il futuro di Gaza e anche del West bank.

(il Giornale, 29 novembre 2023)
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"Blinken deve pensare un suggerimento migliore per il futuro di Gaza e anche del West bank". Forse bisognerebbe dare qualche suggerimento a Blinken, invece di aspettarsene qualcuno da lui. M.C.

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L'Autorità Palestinese difende il massacro di israeliani da parte di Hamas

Biden sostiene che Hamas non rappresenta i palestinesi, ma la leadership palestinese afferma di cercare l'unità con il gruppo terroristico popolare.

di Ryan Jones

GERUSALEMME - L'Autorità Palestinese (AP) di Mahmoud Abbas è stata relativamente silenziosa sugli eventi del 7 ottobre, ma la scorsa settimana uno dei suoi rappresentanti più importanti ha rotto il silenzio e ha giustificato la brutale incursione di Hamas nel sud di Israele.
   Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden continua a ribadire che Hamas non rappresenta il popolo palestinese, ma Jibril Rajoub, un alto dirigente del partito Fatah di Abbas, ha detto quello che molti palestinesi medi stanno pensando quando ha descritto i massacri di Hamas come una "reazione naturale" e una "azione difensiva".
   L'attacco del 7 ottobre fa parte della "guerra di difesa che il nostro popolo sta conducendo", ha detto Rajoub in una conferenza stampa in Kuwait, senza fare distinzioni tra Hamas e la sua Autorità palestinese.
   Il coinvolgimento di Hamas in questa guerra è "importante", ha continuato Rajoub, descrivendo il terrorismo di Hamas come parte del "sistema e della nostra lotta".
   Rajoub è segretario generale del Comitato centrale del partito Fatah di Abbas. È uno dei politici più anziani dell'Autorità palestinese e alcuni lo considerano un futuro candidato alla presidenza.
   Rajoub si batte anche per l'unità con Hamas.
   In un tweet del 12 novembre, Hussein Al-Sheikh ha scritto: "Le nostre braccia sono ancora aperte [ad Hamas], e i nostri cuori sono aperti a qualsiasi dialogo che alla fine porterà all'unità del popolo palestinese e delle sue forze".
   Al-Sheikh è segretario del Comitato esecutivo dell'OLP, capo del Dipartimento per i negoziati dell'OLP e membro del Comitato centrale di Fatah. Ma soprattutto, è stato indicato dallo stesso Abbas come potenziale successore alla presidenza palestinese.
   In un'intervista rilasciata ai media palestinesi il 6 novembre, il consigliere di Abbas Mahmoud Al-Habbash ha sottolineato che l'Autorità Palestinese non ha pronunciato una sola parola negativa su Hamas dal 7 ottobre.
   “Qualcuno di noi ha mai detto una parola contro il movimento di Hamas o contro qualche palestinese?", ha sottolineato al-Habbash. "La mia missione attuale è difendere il mio popolo, difendere il mio popolo palestinese. Hamas fa parte del popolo palestinese".
   Dalle parole di tenue sostegno ad Hamas tra i leader dell'Autorità Palestinese alle espressioni di simpatia per il gruppo terroristico tra i palestinesi medi che festeggiano il rilascio dei terroristi imprigionati, è chiaro che Hamas gode di molta più popolarità di quanto Biden e molti politici di tutto il mondo siano disposti ad ammettere.

(Israel Heute, 29 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il migliore alleato di Hamas? la democrazia

Quando per lunghi mesi, quasi un anno, le piazze delle principali città israeliane si sono riempite di manifestanti contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu, accusata di essere una deriva autoritaria, Hamas ha osservato soddisfatto.
   La democrazia, rispetto ai regimi autoritari, concede ai cittadini che ne usufruiscono di potere protestate liberamente contro i loro governi e di poterne, quando sono particolarmente efficaci, influenzare gli indirizzi. La guerra del Vietnam, gli Stati Uniti la persero anche in virtù delle piazze affollate che bollavano la presenza americana in Indocina come simbolo di imperialismo.
   Le manifestazioni a oltranza in Israele, viste sotto un profilo occidentale come segno di vitalità e pluralismo (nulla del genere si potrebbe ipotizzare in qualsiasi paese islamico), sotto il profilo di un regime autoritario sono viste in modo opposto, come un segno di debolezza, soprattutto quando sono in grado di creare tensioni sociali forti, al punto di arrivare a incrinare la stessa compattezza sociale, come è avvenuto in Israele, dove, cosa mai accaduta prima, numerosi riservisti hanno defezionato dalle loro mansioni di servizio, spingendo il Ministro della difesa Gallant ha dichiarare che la situazione in corso rischiava di compromettere la sicurezza del paese.
   Hamas ha potuto avere la fotografia di un paese disorientato e affetto da quello che in Medio Oriente è considerato un peccato imperdonabile, la debolezza.
   Altra gente è scesa in piazza in Occidente, negli Stati Uniti e in diverse città europee, in modo massiccio in Gran Bretagna, per protestate contro Israele accusato di genocidio e a sostegno consapevole e inconsapevole di Hamas (cos’altro può significare lo slogan “Palestina libera dal fiume al mare” se non auspicarsi una regione in cui Israele non esista più?).
   Compiaciuto Hamas ha osservato i suoi utili idioti occidentali e i suoi sostenitori effettivi, uniti sotto il medesimo ombrello. La democrazia gli concede anche questo, ed è esattamente a questo risultato che per anni la propaganda ha lavorato; infettare l’Occidente con l’idea che Israele sia uno Stato autoritario e coloniale che opprime e uccide una popolazione islamica autoctona.
   Il comprensibilissimo e sacrosanto desiderio dei parenti degli ostaggi detenuti da Hamas ha dato luogo a una forte pressione sul governo per liberarli, di cui le manifestazioni di piazza a loro sostegno che si sono succedute in questi giorni in Israele sono il segno.
   Hamas ha potuto lucrare su di loro e così ottenere quello di cui aveva più bisogno, una tregua che, nei suoi obbiettivi dovrà prolungarsi al punto da impedire a Israele di riprendere la guerra.
   La democrazia è un lusso per chi ne gode e un enorme vantaggio per chi la detesta ma sa come sfruttarla fino in fondo.

(L'informale, 29 novembre 2023)
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Non potrebbe essere che l'ultima forma di idolatria delle nazioni, quella più avanzata, più progredita, più ricercata, quella di cui a maggior prezzo Israele un giorno potrà essere liberato porti proprio il nome di «Democrazia»? M.C.

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Biden è il principale ostacolo alla vittoria israeliana

I sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza degli americani sostiene Israele in questa guerra e vuole che distrugga Hamas; la stragrande maggioranza dei legislatori di entrambi i partiti condivide questa opinione.

di Caroline Glick

Truppe israeliane vicino ai loro veicoli a Gaza, mentre un cessate il fuoco temporaneo blocca la distruzione di Hamas
È arrivato il momento di parlare del rapporto dell'amministrazione Biden con Israele. Ogni giorno che passa, due cose diventano evidenti. Primo, Israele non può combattere la guerra senza il rifornimento delle Forze di Difesa di Israele da parte degli Stati Uniti. Di conseguenza, Israele è vincolato alle direttive dell'amministrazione. In secondo luogo, se Israele seguirà le direttive dell'amministrazione Biden, perderà la guerra.
  La dipendenza di Israele dagli Stati Uniti è stata dichiarata senza mezzi termini dal Maggior Generale dell'IDF in pensione Yitzhak Brick in un'intervista rilasciata all'inizio di questa settimana.
  "Tutti i nostri missili, le munizioni, le bombe a guida precisa, tutti gli aerei e le bombe, provengono dagli Stati Uniti. Nel momento in cui chiudono il rubinetto, non si può continuare a combattere. Non avete più capacità. ... Tutti capiscono che non possiamo combattere questa guerra senza gli Stati Uniti. Punto".
  Brick ha poi spiegato che la richiesta del presidente Joe Biden che Israele permetta l'ingresso di "aiuti umanitari" a Gaza significa che egli chiede che Israele mantenga Hamas completamente rifornito di cibo, acqua e carburante.
  La sua richiesta che Israele riduca al minimo le vittime civili palestinesi mette in pericolo i soldati dell'IDF e rende quasi impossibile l'espansione dell'offensiva di terra nella zona centrale e meridionale di Gaza, dove ora si trova il grosso delle forze di Hamas. Brick ha suggerito varie forme di guerra in tunnel a lungo termine e altri suggerimenti su come l'IDF potrebbe essere in grado di sconfiggere Hamas nel tempo, pur operando all'interno dei vincoli imposti da Biden e dai suoi principali consiglieri.
  È difficile giudicare se i suggerimenti di Brick siano attuabili senza avere accesso a informazioni sulle condizioni del terreno nel sud di Gaza. Come minimo, è chiaro che la preferenza di Biden per le vite dei civili a Gaza rispetto a quelle dei soldati dell'IDF sul campo garantisce che nei combattimenti saranno uccisi molti più soldati di quanto non avverrebbe altrimenti. Tre settimane fa, l'amministrazione ha iniziato a chiedere a Israele di limitare (o cancellare del tutto) i bombardamenti aerei prima della battaglia di terra. Di conseguenza, nella settimana che ha preceduto la "pausa umanitaria" di questa settimana, le perdite in battaglia dell'IDF sono state per la maggior parte conseguenza del fuoco dei cecchini dei terroristi di Hamas nascosti negli edifici che l'aviazione non ha distrutto prima delle battaglie, a causa delle pressioni statunitensi.
  C'è poi la questione degli ostaggi. Israele ha il dovere di salvare gli ostaggi, le loro famiglie e la società israeliana nel suo complesso. Ci sono due modi per farlo. Israele può piegarsi alle richieste di Hamas, come sta facendo attualmente, sospendendo l'offensiva e mettendo in pericolo i soldati e i civili israeliani, permettendo ad Hamas di ricostruire e riorganizzare le sue forze e liberando i terroristi dalle sue prigioni e facendoli rientrare a Gerusalemme e in Giudea e Samaria. Oppure può rinnovare l'operazione militare, localizzare gli ostaggi e salvarli autonomamente. È chiaro che la seconda opzione è preferibile.

• ASSICURARSI L'AIUTO DELL'AMERICA
  Fino a lunedì, sembrava che il motivo per cui Israele avesse accettato l'accordo in corso fosse l'incapacità di localizzare gli ostaggi. Il Daily Express di Londra ha riportato lunedì che il vero motivo per cui Israele non sta salvando gli ostaggi - e ha invece accettato l'attuale accordo con tutti i suoi costi tattici e strategici - è legato alla direttiva dell'amministrazione Biden di non fare del male ai civili palestinesi.
  Sulla base di fonti israeliane, il britannico Daily Express ha riportato che Israele sa dove si trovano molti degli ostaggi. Ha scelto di non salvarli perché Hamas li tiene tra i civili. Il salvataggio comporterebbe danni collaterali a quei palestinesi e rischierebbe di mettere a repentaglio i rifornimenti statunitensi, senza i quali Israele non può combattere.
  È importante notare che il numero di civili effettivamente morti a causa dei bombardamenti israeliani rimane sconosciuto. Il 25 ottobre, Biden ha riconosciuto che i dati del Ministero della Salute di Gaza sulle vittime civili non sono credibili, alla luce del fatto che il Ministero della Salute è semplicemente un organo di Hamas e riporta i numeri che gli vengono detti dai capi del terrore di Hamas. Questi dati contano ogni terrorista morto come un civile morto.
  Gli israeliani erano entusiasti della dichiarazione di Biden. Ma il giorno dopo si è scusato. Secondo Fox News, in un incontro con i leader musulmani americani il 26 ottobre, Biden si è scusato per aver detto la verità.
  "Mi dispiace. Sono deluso da me stesso", ha detto.
  Dal 26 ottobre, l'amministrazione ha accolto come un dato di fatto il conteggio delle vittime di Hamas e lo ha utilizzato come base per chiedere a Israele di ridurre al minimo le vittime palestinesi. La volontà dell'amministrazione di ignorare le menzogne alla base di questi dati indica che la sua politica si basa su qualcosa di diverso dalla preoccupazione per i civili palestinesi, e quindi non è una sfida tattica che Israele può essere in grado di affrontare e vincere
  Certo, Biden, il Segretario di Stato Anthony Blinken, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin hanno tutti espresso la loro solidarietà con Israele, così come la loro repulsione per le azioni di Hamas e il desiderio di vedere il gruppo terroristico jihadista genocida sconfitto. Inoltre, Biden ha preso provvedimenti per rifornire Israele, richiedendo 14,3 miliardi di dollari in forniture militari a Israele (anche se l'assistenza non è ancora stata approvata dal Congresso o firmata in legge da Biden). Queste posizioni e azioni almeno parziali danno credito alla valutazione di Brick, condivisa dall'IDF e dal governo, che la sfida della posizione dell'amministrazione Biden sulle vittime civili a Gaza è una sfida operativa o tattica e non un enigma strategico.

• TRATTARE CON FATAH E L'AP
  Ma ci sono altre indicazioni che indicano che Biden non vuole che Israele vinca. In primo luogo, c'è la questione dell'Egitto. A causa della decisione degli Stati Uniti di sostenere la determinazione del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi di impedire ai gazesi di fuggire in Egitto o in un Paese terzo attraverso l'Egitto, il milione circa di gazesi che hanno evacuato l'estremità settentrionale della Striscia durante i combattimenti sono ora concentrati nel sud. Tra loro c'è il grosso delle forze di Hamas, che Israele deve distruggere per vincere la guerra. Di fronte al rifiuto egiziano, sostenuto dagli Stati Uniti, di permettere a questi civili di lasciare Gaza, da un lato, e alla direttiva statunitense di mantenere le vittime civili vicine allo zero, dall'altro, Israele si trova di fronte a una sfida operativa impossibile. Brick potrebbe avere ragione nel ritenere che un'offensiva lenta e di basso profilo sarebbe in grado di raggiungere l'obiettivo. Ma potrebbe anche sbagliarsi. Di certo, un'operazione più convenzionale avrebbe molte più possibilità di successo.
  A ciò si aggiungono le richieste dell'amministrazione Biden per un accordo postbellico. L'obiettivo di Israele non è solo quello di sconfiggere Hamas ora, ma anche di impedirgli di ricostruirsi e di impedire ad altri gruppi terroristici di emergere in una Gaza post-bellica. A tal fine, Israele dovrà intraprendere almeno due azioni. Primo, deve mantenere il controllo militare permanente su tutta Gaza. In secondo luogo, Israele deve conquistare una zona cuscinetto larga diversi chilometri sul lato di Gaza del confine per proteggere le comunità civili e le basi militari da una ripetizione del 7 ottobre.
  Biden e i suoi consiglieri si oppongono a entrambi questi obiettivi. Non solo si oppongono completamente al controllo militare israeliano su Gaza e all'istituzione di zone cuscinetto all'interno di Gaza, ma chiedono che, in un accordo postbellico, Israele ponga fine al blocco marittimo della costa di Gaza e permetta a qualsiasi cosa di entrare a Gaza dal mare. In altre parole, la posizione degli Stati Uniti è quella di permettere alle forze terroristiche, che si chiamino Hamas o altro, di ricostruire le proprie capacità senza alcuna restrizione nella Gaza postbellica.
  Ancora peggio, la posizione dell'amministrazione è che Gaza debba essere governata dall'Autorità Palestinese controllata da Fatah dopo la fine della guerra, e che Gaza sia unita alla Giudea e alla Samaria in un'epoca post-bellica, ricevendo insieme la piena sovranità. In altre parole, l'obiettivo di guerra dell'amministrazione è quello di stabilire uno Stato palestinese dominato da Fatah in queste aree. Di per sé, questa posizione è antitetica non solo a una vittoria israeliana nella guerra. Rappresenta una minaccia esistenziale per l'esistenza di Israele. Fatah - e l'AP che gestisce - è un'organizzazione e un regime terroristico. Le forze di sicurezza dell'Autorità palestinese, armate e finanziate dagli Stati Uniti, sono partner minori di Hamas nel terrore. Come hanno riportato Eugene Kontorovich e Itamar Marcus sul Wall Street Journal questa settimana, i terroristi di Fatah controllati dall'AP e appartenenti al gruppo terroristico delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa hanno postato dei video in cui i loro membri a Gaza partecipavano al massacro di Hamas del 7 ottobre. I terroristi di Fatah hanno ucciso, torturato e rapito israeliani e hanno ripreso i video delle loro azioni.
  A differenza di Gaza, la Giudea e la Samaria sono a due passi da tutti i principali centri abitati di Israele e mezzo milione di israeliani vive in città e villaggi di tutta la Giudea e la Samaria. La notte di venerdì scorso, la minaccia rappresentata dalle forze terroristiche e paramilitari palestinesi in Giudea e Samaria per la vita di milioni di israeliani è emersa in tutta la sua evidenza con il linciaggio pubblico nella città di Tulkarm di due palestinesi accusati di collaborare con le operazioni antiterrorismo israeliane. Tra i boati di una folla di migliaia di persone - protette dalle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese - Hamas ha impiccato pubblicamente i due uomini a una torre elettrica. I corpi dei due uomini mostravano i segni delle brutali torture che hanno preceduto la loro esecuzione. Tulkarm è controllata dall'AP. Si trova a meno di un chilometro dalla Cross Israel Highway e a pochi minuti di auto da Kfar Yona e Netanya.
  La dipendenza di Israele dalle armi statunitensi rende impossibile per il governo Netanyahu esternare pubblicamente la minaccia strategica che le politiche dell'amministrazione rappresentano per il suo sforzo bellico e la sua capacità di sopravvivenza a lungo termine nel Medio Oriente post 7 ottobre. Israele non può rischiare di mettere a dura prova la sua posizione nei confronti dell'amministrazione Biden e vuole evitare di esporre la frattura ai suoi nemici già rafforzati da Gaza al Libano, dallo Yemen all'Iran.
  I legislatori del Congresso, tuttavia, non hanno questi vincoli. Inoltre, hanno interesse a rivelare la verità e a lavorare per costringere a cambiare le politiche dell'amministrazione che favoriscono Hamas. I dati dei sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza degli americani sostiene Israele in questa guerra e vuole che distrugga Hamas. La stragrande maggioranza dei legislatori di entrambi i partiti condivide il loro punto di vista. Ad oggi, la maggioranza repubblicana alla Camera non ha fatto alcuno sforzo per esercitare una supervisione sulle politiche dell'amministrazione Biden in relazione alla guerra di Israele con Hamas, in gran parte a causa della riluttanza del governo israeliano a rendere pubblico lo stato attuale delle relazioni.
  Mentre la pausa umanitaria viene prolungata per garantire il rilascio di altri ostaggi e prima della pausa natalizia, i repubblicani della Camera e i democratici che la pensano allo stesso modo dovrebbero aprire delle audizioni per costringere l'amministrazione a spiegare le sue politiche. In particolare, si dovrebbe chiedere all'amministrazione di spiegare come Israele possa sconfiggere Hamas, dati i vincoli che l'amministrazione pone alle operazioni dell'IDF. Si dovrebbe anche chiedere all'amministrazione perché sostiene l'AP, visto il suo coinvolgimento, il suo sostegno e la sua difesa dell'invasione di Israele da parte di Hamas e il massacro dei suoi civili il 7 ottobre. Il Congresso dovrebbe anche assicurarsi che il pacchetto di aiuti, una volta approvato, non contenga condizioni sull'uso da parte di Israele delle armi che riceverà.
  I legislatori devono comprendere l'origine delle lodi del governo israeliano nei confronti di Biden. Dovrebbero quindi agire per evitare che l'amministrazione mantenga la sua politica di rendere omaggio a parole a una vittoria israeliana, impedendo a Israele di ottenerla.

(JNS, 27 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Nachrichten aus Israel” (Notizie da Israele), editoriale

Da Haifa

Cari amici di Israele,
si può veramente dire che dal 7 ottobre 2023 il mondo è cambiato. Le atrocità commesse da Hamas negli insediamenti ebraici confinanti con Gaza sono così oltraggiose, così orribili, che i filmati girati dagli stessi terroristi sono insopportabili da guardare. Ma devono essere mostrati e pubblicizzati in tutto il mondo, in modo che tutti capiscano cos'è veramente Hamas e nessuno possa avere simpatia per esso. Hamas deve essere distrutto, proprio come è stato distrutto il regime nazista, e qualsiasi simpatia per esso deve essere considerata punibile.
   Il fatto che gli Stati Uniti siano partiti così rapidamente per il Medio Oriente con le loro portaerei e navi da guerra dimostra che in gioco c'è molto di più che Hamas. È coinvolto anche l'Iran sciita, fanatico e religioso, che è dietro Hamas e l'ha costruito con molti miliardi.
   Lo stesso vale per Hezbollah in Libano. Israele teme l'apertura di un serio secondo fronte da parte di Hezbollah in Libano. Solo le massicce minacce di Israele e la presenza di forze americane hanno apparentemente impedito a Hezbollah di entrare in guerra per il momento.
   Per capire cosa sta accadendo in Medio Oriente, è necessario comprendere la politica e la strategia dell'Iran, mossa dall'Islam sciita. L'Iran è convinto che l'Islam governerà il mondo. La guerra tra Iran e Iraq sotto Saddam Hussein è durata otto anni. Da allora, l'Iran non è più stato coinvolto direttamente nelle guerre, ma ha costruito cosiddetti proxy che combattono le guerre per suo conto.
   Anche gli Houthi, un altro proxy iraniano nello Yemen, hanno lanciato missili contro Israele in direzione di Eilat. Fortunatamente non hanno avuto successo. Gli Houthi hanno anche condotto una guerra contro l'Arabia Saudita, causando gravi danni all'industria petrolifera del Paese. Questo è il motivo principale per cui i sauditi sono interessati a un'alleanza con Israele, soprattutto perché Israele, come loro stessi oggi, vede l'Iran come la più grande minaccia alla pace mondiale.
   C'è il rischio che gli Houthi blocchino lo stretto di Bab-al-Mandab, impedendo così il passaggio delle navi attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez. A quanto pare gli Stati Uniti sono consapevoli di questo pericolo, dato che hanno agito rapidamente per evitare una conflagrazione globale in questa direzione.
   Il Marocco è l'unico Paese arabo ad avere un'alleanza di difesa con Israele, anche se non è passato molto tempo da quando i due Paesi hanno stabilito relazioni. Come mai? C'è anche un importante stretto vicino al Marocco, lo Stretto di Gibilterra. L'Iran sostiene gli insorti del Polisario nel Sahara occidentale, che vogliono diventare indipendenti dal Marocco. L'Iran sta quindi costruendo segretamente un proxy in questo stretto, una delle più importanti rotte di navigazione, pronto a conquistare e bloccare lo stretto all'"ora zero".
   Tutto ciò appare desolante, ma ci sono punti luminosi. Israele ha arabi musulmani nell'esercito, drusi, beduini e altri, alcuni dei quali occupano posizioni di rilievo. Alcuni di loro hanno perso la vita nella lotta contro Hamas. Le loro famiglie hanno espresso l'orgoglio di aver potuto contribuire alla lotta contro questa barbarie inaudita. Hanno poi affermato: "Siamo al fianco di questa lotta fino alla vittoria!".
   Abbiamo sentito ripetutamente la dichiarazione dei media qui in Israele: "Questa è una guerra della luce contro le tenebre, e la luce vincerà!"
   Stiamo effettivamente vedendo i segni che le guerre di cui parla la Bibbia per i tempi finali si stanno avvicinando. Possa Dio dare al suo popolo Israele e a tutti noi che siamo dalla parte del Signore Dio la forza e la fermezza di difendere Lui e la sua causa.
   Con questa preghiera nel cuore, cordiali saluti, dal vostro
   Fredi Winkler

(Nachrichten aus Israele, dicembre 2023)

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Barcellona: sospesi i rapporti con Israele

di Nathan Greppi

Venerdì 24 novembre, il consiglio comunale di Barcellona ha approvato una mozione per sospendere ogni rapporto con Israele fino a quando non avverrà un cessate il fuoco con la Striscia di Gaza. La mozione, come riporta il Jewish Chronicle, era stata portata avanti da Barcelona en Comú, lista civica di sinistra del precedente sindaco Ada Colau , ed è stata appoggiata dall’attuale sindaco Jaume Collboni del PSC (Partito dei Socialisti di Catalogna), assieme al partito secessionista Sinistra Repubblicana di Catalogna.
   La mozione condanna gli attacchi alla popolazione civile di Gaza, equiparando gli attacchi terroristici di Hamas alla reazione israeliana, e individua i principali ostacoli alla pace nella “occupazione e colonizzazione di territori palestinesi” e nella “negazione dei diritti” al loro popolo.
   La Colau ha dichiarato che quello che sta avvenendo “non è una guerra, è un genocidio. Non dobbiamo solo denunciarlo, ma anche agire”.
   La decisione è stata accolta positivamente da Hamas, che ha elogiato la decisione di Barcellona in un comunicato ufficiale sul loro canale Telegram, invitando altre città a fare lo stesso.
   Già a febbraio, l’allora sindaco Colau aveva sospeso i rapporti con Israele e il gemellaggio con Tel Aviv. In quell’occasione Lior Haiat , portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, definì la decisione “in totale contrasto con la posizione della maggioranza dei cittadini di Barcellona e dei loro rappresentanti in consiglio comunale”. Aggiunse che la decisione “è di sostegno agli estremisti, alle organizzazioni terroristiche e all’antisemitismo, e danneggia gli interessi dei barcellonesi”.
   In seguito alle elezioni comunali di giugno, in cui la Colau venne sconfitta, il nuovo sindaco Collboni aveva restaurato a settembre le relazioni con lo Stato Ebraico e il gemellaggio con Tel Aviv.
   Dopo i fatti del 7 ottobre, diversi membri del governo spagnolo hanno rivelato posizioni antisraeliane : il giorno stesso del massacro, la vicepremier Yolanda Diaz Perez arringò una folla a Cadice esprimendo il proprio sostegno ai “fratelli e sorelle del popolo palestinese”. Mentre a novembre, durante una visita al confine tra Gaza e l’Egitto, il Primo Ministro Pedro Sánchez ha criticato l’operato d’Israele e chiesto il riconoscimento di uno Stato palestinese. E con la formazione del nuovo governo il 21 novembre, ha nominato Ministro per l’Infanzia e la Gioventù la comunista Sira Rego, che ha giustificato l’operato di Hamas con la scusa della “resistenza”.

(Bet Magazine Mosaico, 29 novembre 2023)

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Incontro su Israele a Torino - 3 dicembre 2023

«Israele ha ragione! MA...»

Dopo la strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre in Israele, tutti i media tranne qualche rara eccezione propongono una narrazione dei fatti ponendo, dopo l'iniziale solidarietà ad Israele, un grosso MA che vorrebbe quasi giustificare l'atto terroristico e questo MA serpeggia anche nell'ambiente evangelico. Cercheremo con il prof. Marcello Cicchese di eliminare quel MA... con argomentazioni storiche, culturali e soprattutto bibliche.

(Chiamata di Mezzanotte, novembre 2023)

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Hamas straccia le intese. Separa le famiglie e prova a logorare Israele

Doppia tortura per i piccoli

di Fiamma Nirenstein

Palloncini, sorrisi, discorsi di tenerezza e benvenuto. Israele è un Paese che da quando è nato non fa altro che festeggiare commosso la sua resurrezione da guerre, il superamento dei suoi terribili lutti, la sua gioia di essere vivo e l’incredibile resistenza dei suoi cittadini e soldati. La gioia di chi ritorna e di chi lo accoglie dopo il timore di una separazione definitiva è in questi giorni fonte di grande fiducia. Così è in questi giorni: si cerca di risorgere un po' nei ritorni quotidiani degli ostaggi. Ma è difficile ripararsi dalle immense contraddizioni che la gioia contiene, i soldati aspettano sulla sabbia di Gaza, è un confronto perdente col sadismo di Hamas: anche ieri la restituzione è contestata ritardata, alla fine arriva dopo la rottura del sempre ritardati, sempre contestati nel buio di Gaza dal sadismo di Hamas.
   Hamas rompe i patti, divide madri e bambini a suo piacimento in modo da allungare i tempi e avere tregue più lunghe, offre ostaggi ottenendo un sì per i prossimi due giorni senza promettere i bambini di cui anzi lascia intendere di aver perso le tracce per il bel numero di 18 creature. Non a caso ieri su 9 bambini c'erano solo due mamme; e ancora, i due bambini Bibas dai capelli color carota che tutto il mondo ormai conosce, uno dei quali ha dieci mesi, non sono fra i restituiti. Un altro gesto di odio e ripicca.
   Hamas cerca anche di confondere la testa del mondo suggerendo una sindrome di Stoccolma con finti saluti gentili dei mostri e delle loro vittime. Ma poi è chiaro: Elma Avraham 84 anni, appena giunta in Israele è crollata in una sorta di coma finale con cui i dottori lottano, tutti sono denutriti, Adina Shoshani di 72 anni, il cui marito era stato appena assassinato quando i terroristi l’hanno caricata sulla moto, scendendo dalla macchina ha respinto con la mano il braccio del terrorista. La gente d’Israele seguita a combattere con tutte le sue forze per l’ossigeno del ritorno dei propri cari.
   Ma se sono una bandiera le foto di Avigail, 4 anni, restituita dopo 50 giorni di prigionia, è difficile ignorare che questa bambina non ha più casa, la sua mamma e il suo babbo sono stati assassinati a Kfar Aza, le restano i nonni e i due fratellini Michael di 9 anni e Amalia di 6 che si sono salvati restando zitti chiusi un armadio per sei ore mentre i mostri cercavano altre vittime nella casa. Avranno di che pensare e parlare nel futuro. E se tutta Israele tesse una tela di positività indispensabile, di generosità unica, pure la tragedia del 7 di ottobre è immanente, onnipresente finché Hamas non sarà sconfitto. Hila, 13 anni, accolta nelle braccia dello zio, è tornata senza mamma: Raya Rotem era con la figlia fino a poche ore prima del rilascio e Hamas dice invece che ne ha perso le tracce. Manipolazioni. Anche Maya Regev è stata restituita mentre Itay suo fratello di 18 anni, è sempre nelle mani dei terroristi. Chi ha visto la foto di Chen Goldstein che finalmente riceve fra le sue braccia Agam di 17 anni, Gal di 11 e Tal di 9 sente un grande dolcezza e consolazione: ma forse i bambini ignorano che sono orfani del padre e orbati della sorella diciannovenne Yam, rimasta col papà, uccisi. Ella Elyakim di 8 anni e la sorella Dafna di 14 che finalmente abbiamo potuto vedere nelle braccia della mamma, hanno visto assassinare il padre, la sua compagna, il loro bambino Tomer. Le storie che accompagnano queste e tutte le altre vicende sono complicate una ad una, con nascondigli, bruciati vivi, tagliati a pezzi… sono peggiori di qualsiasi film dell’orrore, sono storie di caccia alle donne ai bambini. L’amore della gente di Israele, generoso, consistente, accompagna uno ad uno chi ritorna; anche chi li accoglie è orfano, vedovo, scioccato.
   Gli ultimi ostaggi, quasi tutti bambini, sono stati scortati con boria militare dai gruppi di terroristi che Sinwar ha usato nelle operazioni di sterminio, e persino con le stesse macchine pickup bianche. Dentro il nord di Gaza, dove specie a Sajaia sembra essere viva la forza di Sinwar, i soldati aspettano il segnale. Ci vorrà ancora del tempo, lo scambio durerà altri due giorni almeno. Molti calcoli dicono che anche dopo queste manovre, Hamas si terrà ancora 18 bambini in mano. Ma alla fine, è escluso che Israele non riprenda la battaglia per tornare a dare ai suoi, a tutti quanti, una casa.

(il Giornale, 28 novembre 2023)

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Il popolo israeliano vuole la vittoria

I nostri leader politici non devono permettere che il naturale desiderio di restituire gli ostaggi prevalga sull'urgente necessità di distruggere Hamas.

di Douglas Altabef

GERUSALEMME - Israele si sta attualmente concentrando sul rilascio graduale di gruppi di ostaggi detenuti da Hamas. Nell'ambito del cessate il fuoco temporaneo tra Israele e il gruppo terroristico, negli ultimi quattro giorni sono stati rilasciati 50 ostaggi israeliani. Oggi e domani verranno rilasciati altri 10 ostaggi al giorno.
   La domanda è: cosa succederà dopo? È qui che le cose diventano non solo opache, ma potenzialmente spaventose.
   Hamas spera ovviamente che ci abitueremo ai rilasci quotidiani, il che implica un cessate il fuoco più lungo. In questo scenario, Hamas diventa un burattinaio. Avrà il pieno controllo degli eventi e del calendario. Inoltre, l'influenza di Israele, che deriva dal suo successo sul campo di battaglia, diminuirà con l'estensione del cessate il fuoco. E ciò incoraggerà coloro che vogliono che Israele si ritiri e ponga fine alle sue operazioni militari.
   I leader americani ed europei proclameranno: State recuperando tutta la vostra gente, avete causato gravi danni ad Hamas, avete ucciso molte persone a Gaza - sembra abbastanza. A questo si aggiunge l'enorme costo economico di mantenere centinaia di migliaia di riservisti dell'IDF sul campo.
   Tutto ciò potrebbe significare che la richiesta di porre fine alla guerra diventerà sempre più forte, persino irresistibile.
   Questa è la formula del disastro.
   Israele non sta combattendo una guerra per salvare ostaggi. Stiamo combattendo per il terreno su cui ci troviamo. Il barbaro massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre ci ha insegnato che non possiamo più tollerare la loro esistenza sul nostro confine. Non se vogliamo un Israele del sud.
   Il pericolo insito nello scenario descritto sopra - la perdita della determinazione a distruggere Hamas - è quindi assoluto.
   Le truppe israeliane sul campo non hanno certo perso la loro determinazione. Una montagna di prove aneddotiche suggerisce che i soldati dell'IDF sono desiderosi di continuare a combattere e sono assolutamente contrari a porre fine alla guerra.
   È quindi facile credere che la guerra continuerà. Ci stiamo prendendo una pausa solo perché non abbiamo altra scelta.
   Lo sento dire spesso, ma perdonate il mio scetticismo. Questo scetticismo non è diretto contro il popolo israeliano, né contro coloro che stanno facendo tutto il possibile per riportare a casa tutti gli ostaggi. È diretto contro la nostra leadership.
   Questa leadership ha inizialmente insistito sul rilascio di tutti gli ostaggi, ma poi ha ceduto e ha accettato l'attuale cessate il fuoco. In questo contesto, è difficile credere che le odierne pacche sulle spalle non lascino presto il posto a un atteggiamento molto meno aggressivo.
   Cosa possiamo fare noi, comuni israeliani che vogliono distruggere Hamas?
   In primo luogo, dobbiamo continuare a ricordare ai nostri leader politici che noi, i loro elettori, ci aspettiamo che siano risoluti. Condanneremo con forza qualsiasi deviazione dall'obiettivo di sconfiggere Hamas.
   Un esempio di questo tipo di promemoria è l'enorme manifesto che l'organizzazione Im Tirtzu ha appena srotolato sull'autostrada della spiaggia (Strada 2) vicino al raccordo Glilot tra Tel Aviv e Herzliya. Lo striscione recita: "Un intero popolo chiede la vittoria". Ricorda ai nostri leader gli obiettivi che gli israeliani sostengono a larga maggioranza:

  • L'eliminazione di Hamas.
  • La messa in sicurezza permanente del corridoio di Gaza.
  • Il rilascio degli ostaggi.
  • Il ritiro a nord per neutralizzare la minaccia di Hezbollah.

È compito della leadership israeliana, non dei suoi elettori, pianificare e attuare questi obiettivi. Ma temo che ancora una volta i cittadini abbiano le idee più chiare e siano più impegnati a raggiungere gli obiettivi nazionali urgenti rispetto alla nostra leadership.
   Pertanto, noi cittadini dobbiamo essere inequivocabili. Dobbiamo dire ai nostri leader che non devono permettere che il naturale desiderio di salvare gli ostaggi faccia abbandonare il compito urgente di sconfiggere Hamas.
   Dovrebbe essere ormai chiaro che negoziare il rilascio degli ostaggi senza chiarire il vero motivo della presa di ostaggi è solo un invito ad altri rapimenti e ad altre distruzioni.
   Noi, il popolo, dobbiamo assicurarci che i nostri leader lo capiscano: Non possono abbandonarci. Non possono aspettarsi che Israele sia di nuovo al sicuro se non viene eliminata questa minaccia.
   Prendiamo molto sul serio la loro dichiarazione che i leader di Hamas sono uomini morti. Lasciamo che accada.
   Nessuna preoccupazione umanitaria, nessuna pressione internazionale può cambiare la determinazione del popolo israeliano. È in questi momenti che emergono i grandi leader. Sono all'altezza della sfida e ci trascinano con sé con la loro irremovibile determinazione a raggiungere la vittoria.
   Netanyahu, Galant e Gantz, la nazione si aspetta che voi siate fermi, determinati e risoluti. Questo è il vostro momento. Coglietelo. Portateci la vittoria che noi, i vostri cittadini, chiediamo. Non accetteremo nulla di meno.

(Israel Heute, 28 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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A proposito della manifestazione di sabato: io, ebrea e femminista, mi sono sentita esclusa dal corteo

In piazza la solidarietà con i palestinesi e nessuna voce contro gli stupri subiti dalle donne israeliane da parte dei terroristi di Hamas.

di Daniela Hamaui

Essere ebrea ed essere femminista: non ho mai pensato che ci fosse una contraddizione tra queste due anime. Sabato invece mi sono trovata davanti a un bivio: andare o non andare alla manifestazione di Roma, partecipare o meno a quello che ritengo essere un momento di cambiamento fortissimo nella battaglia contro la violenza sulle donne. Per la prima volta quasi 500 mila ragazze, ragazzi, donne e uomini hanno sfilato contro il femminicidio, per il rispetto dei diritti, della dignità e dell’autodeterminazione delle donne. Hanno preteso che nessuna ragazza debba avere più paura a uscire alla sera o sia costretta a correre con le chiavi in mano per aprire velocemente il portone e sfuggire a un molestatore. Hanno ricordato Giulia Cecchettin, la sua morte atroce e urlato le parole taglienti di sua sorella Elena. Dopo anni in cui le giovani chiedevano: “Perché devo essere femminista?”, la risposta era davanti ai loro occhi. Giulia era stata uccisa da un ex fidanzato che non accettava la separazione e la libertà che lei pretendeva. La mobilitazione di sabato rimarrà quindi nella storia del femminismo italiano come un importante momento di svolta e partecipazione ma converrà interrogarsi su quale direzione prenderà questo movimento.
   Io ho deciso di andare comunque alla manifestazione di Milano ma non riuscivo a farne davvero parte. Qualcuno dirà che nei raduni di massa c’è sempre qualcuno che si sente escluso, che il conflitto israelo-palestinese era marginale rispetto ai temi dei diversi cortei, che i fatti avvenuti il 7 ottobre sono atroci ma che il popolo di Gaza soffre da anni. Tutto vero, anche se non posso fare a meno di chiedermi: ma il movimento femminista non era nato per tutelare tutte le minoranze? Anche quelle di una sola donna discriminata? Non avevamo davvero pensato che la sorellanza fosse il vero e unico motore per cambiare il mondo?
   Chiunque abbia ascoltato i resoconti, i racconti delle sopravvissute al massacro da parte dei terroristi di Hamas e abbia letto l’articolo denuncia della professoressa Tamar Herzig sulle pagine di questo giornale, sa che quel giorno è stato compiuto forse il più violento stupro di massa dei nostri giorni. In poche ore ragazze, donne e bambine sono state violentate, mutilate, portate via sanguinanti e con le gambe spezzate. Il corpo di Shani Louk, catturato al rave party, è stato usato come un trofeo: buttata su un camion seminuda, Shani è stata oltraggiata da chi, sapendo che era già morta, le ha sputato addosso.
   Il silenzio su questi fatti è stato quasi assordante, nessun riferimento nelle varie assemblee e raduni che hanno preceduto la grande manifestazione di sabato. Nessuna voce si è alzata per denunciare, e Non Una Di Meno, l’organizzazione che ha promosso il corteo, ha deciso di aderire “alla lotta contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti di Gaza” e previsto la presenza di donne del Movimento degli studenti palestinesi con bandiere e slogan, ma non di israeliane che potevano partecipare ma senza nessun segno di identificazione.
   Molte ebree nel mondo, dopo quello che è successo il 7 ottobre, si sono sentite in parte anche israeliane, vicine ai familiari degli ostaggi che da 52 giorni ne chiedono la liberazione e che manifestano contro il premier Netanyahu, responsabile di un pessimo governo, ma soprattutto vicine alle donne violate e uccise solo perché ebree. In tutte le guerre, il corpo delle donne è diventato un premio da esibire, da umiliare, da profanare. Lo stupro è usato come arma di dominio, di sopraffazione e anche se la Convenzione di Ginevra lo ha riconosciuto come un crimine contro l’umanità, la violenza sessuale ricompare ad ogni conflitto: dal Ruanda alla Bosnia, dal Congo al Darfur, dall’Ucraina fino a Israele, dove il 7 ottobre la guerra non era ancora iniziata.
   Il movimento femminista ha sempre avuto a cuore la tutela delle donne ovunque siano state maltrattate e, in questo caso, avrebbe dovuto accogliere sia il dolore delle palestinesi che piangono disperate la morte dei loro figli sia quello delle israeliane, vittime di un attacco atroce e premeditato. Il silenzio della manifestazione non ha fatto male solo alle israeliane e alle ebree a cui è mancata la vicinanza, ha fatto male soprattutto al movimento che ha preferito distinguere tra le vittime da sostenere e quelle da dimenticare, stabilendo così che non tutte le violenze meritano uguale rispetto e attenzione.

(la Repubblica, 28 novembre 2023)
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I moralismi universali finiscono quasi sempre per avere una componente antiebraica. MC.

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Rabbino aggredito con insulti antisemiti a Genova. “Clima pericoloso”

GENOVA – Minacciato di morte con un cacciavite e insultato perché «ebreo». È l’incubo vissuto ieri pomeriggio in via Lomellini, nel centro storico, dal rabbino Haim Fabrizio Cipriani, 55 anni, che ha dovuto chiedere l’intervento della polizia, per difendersi da un uomo che lo ha preso di mira mentre camminava per strada, solo perché indossava la kippah. Il folle ha anche estratto dalle tasche un cacciavite, gridando a Cipriani: «Vai via sporco sionista di m..., sennò ti apro».
   Lo stesso rabbino ha immediatamente dato l’allarme. Sul posto sono intervenute le pattuglie della Digos e dell’ufficio prevenzione generale della Questura. I poliziotti hanno bloccato l’uomo che lo aveva aggredito e lo hanno accompagnato in questura.
   Si tratta di un genovese di 58 anni che è stato denunciato a piede libero per minacce aggravate. E gli è stata contestata anche l’aggravante degli insulti razziali, prevista dalla legge Mancino. «È stata davvero una brutta esperienza - spiega Cipriani - perché in generale ma soprattutto a Genova si respira un brutto clima di odio verso di la popolazione ebraica. E quanto accaduto oggi (ieri per chi legge, ndr) ne è una dimostrazione. Non mi sono spaventato, ma sono indignato per quanto ho subito».
   A tratteggiare un momento storico estremamente complesso e difficile da affrontare è la presidente della Comunità ebraica genovese, Raffaella Petraroli. «È stato un atto inqualificabile, ma va inquadrato con la persona che lo ha commesso, che da quanto ho capito è un soggetto fragile - spiega - Il problema è il clima pesante che si respira». Il riferimento è alle iniziative in corso in città: «Abbiamo quotidianamente manifestazioni pro Palestina, l’occupazione dell’Università, dibattiti con personaggi discutibili. Con una condizione di ignoranza diffusa su ciò che è lo Stato di Israele, le sue origini e la sua storia. Ecco, in un clima di questo genere alcuni possono trovare la spinta per sfogare le proprie fragilità».
   Ancora domenica scorsa ha sfilato per le strade una manifestazione per la Palestina, a Genova. Il corteo regionale, organizzato dal movimento Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (Bds), era partito da piazza Caricamento per raggiungere piazza Matteotti, con lo slogan: «Palestina libera-Israele fascista Stato terrorista». All’iniziativa avevano aderito altre associazioni, partiti e sindacati. “Free Palestine”, “Free Gaza”, “Generazione dopo generazione fino alla liberazione”, “Stop genocide”, “Fermate i bombardamenti”, “Le vite palestinesi contano” e “Fuori Israele dall’Università” le scritte su alcuni degli striscioni e dei cartelli in mezzo a bandiere palestinesi, mentre gli organizzatori hanno chiesto e ottenuto che fossero abbassate le bandiere di partito.
   Al corteo hanno partecipato anche un gruppo di profughi palestinesi e rappresentanze di studenti universitari e delle scuole genovesi con lo striscione “Studenti e operai con la Palestina”. Va ricordato poi come a Lettere sia in corso un’occupazione che, però, non blocca le lezioni.
   La crisi tragica che si vive fra Israele e Palestina non può non fare da sfondo, per Petraroli, a una difficoltà di dialogo evidente.
   «Non possiamo dire nulla per la crisi in atto. E che lascia senza parole, da una parte e dall’altra. Quel che è certo è che invece riceviamo solidarietà da tutte le istituzioni e le forze dell’ordine garantiscono sicurezza alla sinagoga 24 ore su 24. Di tutto questo siamo estremamente grati. Ma prenda ad esempio il 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nessuno ha fatto riferimento a quanto di terribile hanno subito le donne nell’attacco del 7 ottobre. Solo la ministra Eugenia Roccella e Mara Carfagna hanno scritto parole su questo. Mi permetto una punta di amara autoironia, il signore che ha aggredito Cipriani oggi ha avuto il coraggio di dire ciò che molti purtroppo pensano e non dicono».

(Il Secolo XIX, 28 novembre 2023)

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"Il 7 ottobre è la fine del compromesso e il ritorno del Jihad". Parla Georgers Bensoussan

"La guerra in Israele è un nuovo episodio della lotta tra due nazionalismi. Ma questa lettura non funziona più. Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro" dice lo storico al Foglio

di Giulio Meotti

È sera quando i corpi senza vita di due “collaborazionisti d’Israele” sono trascinati per strada, dileggiati e al grido di “Allahu Akbar” appesi a un palo della luce. Non siamo a Gaza sotto Hamas, ma a Tulkarem sotto l’Autorità Nazionale Palestinese, finanziata dalla Ue, dall’Onu e dagli Stati Uniti, a soli dieci chilometri dalla città israeliana Netanya. Una ferocia che sembra confermare la tesi di Georges Bensoussan, lo storico francese che ha scritto “Storia della Shoah” (Giuntina), “Genocidio, una passione europea” (Marsilio), “Il sionismo” e “L’eredità di Auschwitz” (entrambi per Einaudi). “Il 7 ottobre è un nuovo episodio nella lotta tra due nazionalismi, ma questa lettura occidentale non funziona più” dice Bensoussan al Foglio. “Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né  negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro. Non è un movimento politico, ma millenarista condannato a schiacciare o essere schiacciato”.
  Su questo piano, Hamas è la continuazione della lotta guidata dal mufti di Gerusalemme Amin al Husseini, che tra l’inizio degli anni ’20 e il 1949 si oppose a qualsiasi accordo e rifiutò tutte le vie negoziali offerte dagli inglesi. “Fino al rifiuto nel 1947 della decisione delle Nazioni Unite di spartire la Palestina in due stati” continua Bensoussan al Foglio. “È un riflesso della lotta condotta sul campo dagli arabi di Palestina, una lotta che non fa prigionieri ebrei né lascia dietro di sé alcun ebreo ferito. Qualsiasi avversario che cade nelle loro mani (compresi i bambini) in un convoglio caduto in un’imboscata, ad esempio, viene assassinato. Questo livello di violenza estrema, accompagnato dalla crudeltà nell’uccisione e nella profanazione dei cadaveri, scuoterà le coscienze della comunità ebraica, compresi i suoi membri più pacifisti, e finirà per distruggere ogni possibilità di convivenza tra i due popoli. La violenza estrema con intenti genocidi come quella del 7 ottobre 2023 ti blocca in un’alternativa omicida: ‘Loro o noi’. Il conflitto è meno politico che esistenziale contro uno stato di Israele giudicato colpevole di esistere. Una visione che affonda le sue radici nella psiche degli individui abitati dal delirio paranoico dell'antisemitismo che fa dell'ebreo la spiegazione ultima dei disordini del mondo. Avendo la Shoah ‘disonorato l’antisemitismo’, come ha affermato Georges Bernanos, è lo stato ebraico a essere al centro di una fantasmagoria poco attenta alla storia. Queste rappresentazioni mentali fanno parte di un delirio collettivo, come la ‘caccia alle streghe’ che si diffuse in gran parte dell'Europa centrale nel XVII secolo, o la febbre antisemita europea della seconda metà del XIX secolo. Solo un’analisi culturale e antropologica, unita alla psicoanalisi, sarebbe in grado di districare questo  intreccio. Ecco perché cercare di dimostrare che lo stato d’Israele non cerca di uccidere bambini piccoli o di sventrare donne incinte è praticamente inutile perché le convinzioni, più forti dei fatti, costituiscono una colonna vertebrale della psiche e una difesa contro l’ansia della libertà”. 
  Parti importanti del mondo islamico sono ancora ossessionate dalla distruzione di Israele. “Addurre tre ragioni, semplificando” ci dice Bensoussan. “Innanzitutto perché il dogma islamico espresso nella Sunna e nella Sira (la vita di Maometto), come in alcune parti del Corano, implica una visione degradata dell'ebreo. Il suo status di dhimmi (‘protetto’ o ‘sotto l’egida di’) implica un’inferiorità giuridica che, a lungo andare, configura un’inferiorità antropologica. Con lo stato di Israele la regola fondamentale che regola i rapporti tra ebrei e musulmani è stata calpestata. In secondo luogo, secondo la regola coranica, un ebreo non può comandare un musulmano. Con lo stato di Israele, gli ebrei comandano i musulmani in Israele così come in Cisgiordania. Questa situazione è un’assurdità teologica. In terzo luogo, il successo dello stato di Israele è uno schiaffo in faccia alla psiche araba collettiva. Mette in luce il fallimento complessivo del mondo arabo, la sua incapacità di costruire una società democratica e aperta, la sua incapacità di trattenere i suoi giovani qualificati, ecc., un fallimento tanto più violento in quanto contrasta con il successo di buona parte dei paesi asiatici. Pertanto, per spiegare il successo israeliano, gran parte del mondo arabo ricorre alla teoria del complotto. A maggior ragione quando occorre spiegare le vittorie militari israeliane sugli eserciti arabi. Anche questo è il motivo, oltre al suo aspetto religioso in senso stretto, per cui questo conflitto sta assumendo sempre più una svolta antropologica, quella dello scontro tra due modelli di società, una società aperta e orizzontale, di fronte a una società verticale, autoritaria e clanica”. 
  Cosa rispondere a coloro che accusano Israele di rubare terre ai palestinesi giustificando così gli orrori di Hamas. “Questa è una questione centrale. Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina stessa e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”. 
  Ma la Umma è impegnata a negare che esista una terra degli antenati. “Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia. L’accusa di colonialismo rivolta agli ebrei ha un insospettabile aspetto orwelliano. Questa è l'origine di questa tragedia. Coloro che volevano la guerra l’hanno persa e oggi si presentano come vittime di un ‘oppressore colonialista’. Attraverso un’efficace macchina propagandistica, manipolano la compassione universale e tendono (generalmente con successo) a farci dimenticare le origini di questa disgrazia. Il principio della sovranità  ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”. 
  Rimangono infine altre questioni storiche, raramente sollevate e tuttavia cruciali per chi vuole comprendere, al di là della legittima emozione di ciascuno, il caos di oggi. “Perché lo stato arabo previsto dal voto delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 non è nato contemporaneamente allo stato di Israele? Alla fine della guerra, nel gennaio 1949, perché non fu proclamata l’indipendenza della Palestina araba in Cisgiordania e Gaza? Perché i rifugiati palestinesi, tre quarti dei quali rimangono in Palestina, non sono stati ricollocati in patria, ma rinchiusi nei campi profughi, rendendoli, nel mondo, gli unici rifugiati di padre in figlio? Perché i rifugiati che hanno raggiunto i paesi vicini, ad eccezione del Regno di Giordania, non hanno ricevuto né permessi di lavoro né naturalizzazione? Perché la Cisgiordania, parte dello stato di Palestina concepito dalle Nazioni Unite, fu annessa dal re Abdullah nel 1949? E perché il territorio di Gaza era allora amministrato dall’Egitto? Perché la Lega Araba ha accettato per 18 anni (1949-1967) che questi territori palestinesi non avrebbero dato origine a uno stato di Palestina indipendente? Infine, perché l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite creata nel 1950 su base temporanea per aiutare i rifugiati palestinesi, continua nel 2023? È in queste origini storiche che risiede la verità del conflitto”. L'attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. “L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all'’arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca trionfo delle loro passioni arcaiche”. 
  La politica è accettazione della realtà, il messianismo apocalittico appartiene ad un altro ambito, conclude Bensoussan. “Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per lui la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell'Illuminismo e più precisamente allo shock intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all'Editto di Nantes e per l'Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni ’30 sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico di cui Hamas partecipa è la Jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell'Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

Il Foglio, 28 novembre 2023)

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Torna ‘’Più libri più liberi’’: anche la cultura ebraica presente tra stand e conferenze

di Michelle Zarfati

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Dal 6 al 10 dicembre torna a Roma Più Libri Più Liberi, la fiera nazionale interamente dedicata alla piccola e media editoria. La manifestazione, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori/AIE, si terrà come di consueto nello scenografico edificio de La Nuvola all’Eur. “Più libri più liberi” è un appuntamento ormai consolidato nella Capitale per lettori, editori e amanti dei libri. L'iniziativa celebra quest’anno i suoi ventidue anni e aprirà al pubblico con più di 594 espositori, provenienti da tutto il Paese, che presenteranno il proprio catalogo e le novità. Cinque giorni densi con più di 600 appuntamenti. La manifestazione sarà inaugurata ufficialmente il 6 dicembre e aprirà le porte al grande pubblico con un tema fondamentale per la lettura, la libertà.
   Come ogni anno, anche la letteratura ebraica sarà presente in tutte le sue forme, sia tra gli espositori della fiera sia tra gli appuntamenti e le conferenze in calendario.
   Sarà dunque un’occasione perfetta per immergersi anima e corpo nel mondo magico dei libri, per poterli toccare, annusare, acquistare e leggere. Tra gli stand, la letteratura ebraica sarà rappresentata dalla casa editrice ebraica Giuntina, con testi che spaziano dalla saggistica ai grandi classici per arrivare ai romanzi storici. Numerosi anche gli appuntamenti e le conferenze. Si partirà proprio il 6 dicembre con la presentazione del libro "Tre stelle nel buio" (Manni) di Lia Tagliacozzo, che assieme a Pupa Garribba parlerà ai ragazzi delle leggi razziali e della Shoah. Si proseguirà alle 18.30 con la presentazione del libro "il Progetto Ernesto Nathan" (Nova Delphi), dedicato all'omonimo Sindaco di Roma. Alla presentazione saranno presenti numerose personalità tra cui Rav Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma e Francesco Rutelli ex Sindaco di Roma. L'indomani avrà luogo la presentazione del libro "Il pensiero di Vasilij Grossman" (Rosenberg & Sellier) di Giovanni Maddalena: un testo dedicato alle idee presenti nelle opere di Grossman, noto giornalista e scrittore ebreo sovietico. Non solo, nei giorni successivi verrà presentato l'ultimo atteso libro di Erri De Luca "Cercatori d’acqua" (Giuntina), un testo in cui lo scrittore porta i lettori alla riflessione sull'importanza dell'acqua focalizzando l'attenzione su come l'elemento sia presente negli scritti biblici.
   Questi sono solo alcuni dei numerosi appuntamenti previsti durante la fiera libraria. Conferenze e presentazioni imperdibili dedicate a scrittori e temi ebraici declinati a loro volta con linguaggi sempre diversi.
   Tanti i visitatori e gli amanti della lettura previsti alla manifestazione ma anche numerose scuole, che rappresentano anno dopo anno un messaggio speranzoso per il futuro, capace di dimostrare come la letteratura resista e come i libri possano ancora avere quel valore sociale e culturale di cui sono da sempre investiti.

(Shalom, 28 novembre 2023)

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Il lupo si è mangiato la nonna e la sua casa, ma l’amore vince ancora

di Angelica Calò Livnè

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Siamo cresciuti con la Bella addormentata nel bosco, Biancaneve e Cenerentola, ma ora queste fiabe non vanno più: oggi ai bambini non si raccontano storie di streghe, di matrigne e mele che addormentano finché giunge un principe che con un bacio sulle labbra fa risvegliare la dolce principessa. Ora le protagoniste sono bambine coraggiose che conquistano mondi lontani, che insieme ai loro compagnucci costruiscono, inventano, creano, fanno lavoro di squadra con empatia, rispetto per sé stesse e per ogni creatura. I bambini, già dall’asilo, imparano a risolvere i problemi e a gestire il tempo, e questo accade qui in Israele e in tante altre parti del mondo. Sì, c’è ancora un po’ di magia per dare sfogo alla fantasia, ci sono zucche che volano, pinguini che danzano e scope sulle quali si cavalca per gareggiare con palline alate. Oggi le fiabe non fanno paura bensì sviluppano le capacità trasversali, insegnano a non arrendersi e ad intensificare i sensi e ad essere più accorti ma serenamente. Anche Avigail, Ela’, Dafna, Agam e tutti gli altri bambini di Be’eri, Nir Oz, Kfar Aza e Sderot sono cresciuti così e nonostante le sirene e gli aquiloni incendiari sono cresciuti senza rabbia e per 50 giorni sono riusciti a sopravvivere al buio, a volte senza cibo, a mani estranee e a volti mascherati che parlavano una lingua sconosciuta. Ora, una parte di questi bambini e di madri, eroi che sono stati trascinati via scalzi, in pigiama, sono tornati a casa, la loro casa che il lupo malvagio è riuscito a distruggere nonostante fosse costruita in pietra, a divorare i tre porcellini, le sette caprette, la nonna, Cappuccetto rosso e perfino il cacciatore. Per alcuni di loro non ci sono il papà o la mamma o nessuno dei due a riabbracciarli, tranquillizzarli e aiutarli a crescere a ripiantare in loro il seme della vita. Siedo imbambolata davanti alle immagini dei loro zii, delle loro nonne. Ho gli occhi pieni di lacrime mentre ascolto le loro parole: “Siamo di nuovo uniti, abbiamo tutta la vita davanti, ora è il tempo di ricostruire, ora è il tempo della speranza!” Le lacrime che mi riempiono il volto non sgorgano per la morte e per la distruzione, ma per la vita, per questa immagine incomparabile di positività, per gli occhi scintillanti di Omri che parla emozionato del ritorno di Hen, sua sorella con le figlie. A Hen hanno ucciso il marito Nadav e la figlia primogenita Yam.
   “Nadav e Hen erano insieme da quando avevano 14 anni. Ora Hen dovrà portare avanti la sua famiglia da sola, ma noi siamo qui!”
   Si tutto il Paese è qui, come scrisse il poeta Nathan Alterman, “ferito ma vivo, ad accogliere il miracolo, unico e solo”. Un Paese lacerato, con forze inesauribili che si rinnovano nel corso dei secoli dopo ogni pogrom, dopo ogni intifada, ancora e ancora malgrado e a dispetto di lupi, orchi, streghe e draghi sanguinari, perché l’arma segreta del popolo d’Israele è un amore che è al di sopra di ogni incantesimo o maleficio. L’amore è il nostro spirito e la nostra fede al di sopra di ogni male: un meccanismo arcano che ci aiuta a non soccombere e fa girare ancora il mondo.

(moked, 27 novembre 2023)

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Appena rilasciata strilla: «Cancellare Israele»

Oltre tre dozzine di prigionieri palestinesi, tra cui 24 donne, sono tornati a casa, come previsto dagli accordi. Il filo conduttore che lega la maggior parte di loro è il "sostegno al terrorismo". Fra i prigionieri liberati dagli israeliani c'è anche Nour AI-Taher, 18enne di Nablus, che vuole lottare per Gaza.

di Daniele Dell'orco

Oltre tre dozzine di prigionieri palestinesi, tra cui 24 donne, sono tornati accolti da eroi in Cisgiordania dopo il loro rilascio dalle carceri israeliane come parte dell'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
   Tra canti, urla e battiti di mani hanno sfilato persone tenute in custodia in Israele con accuse di vario genere, dai reati minori ai lanci di pietre (soprattutto per gli adolescenti), dai post social agli attacchi con pugnali contro soldati dell'esercito israeliano.
   Il filo conduttore che lega la maggior parte di loro è il «sostegno al terrorismo», accusa che grazie a questo accordo è finita in una sorta di stand-by. Nour Al-Taher, 18enne di Nablus, ha persino potuto posare di fronte ai giornalisti davanti alla bandiera verde di Hamas che quasi si confondeva col suo niqab dello stesso colore. Dopo aver ringraziato Allah e la "Resistenza" palestinese, Al-Taher, in carcere da settembre 2022, che era stata arrestata durante scontri alla Moschea al-Aqsa, a favore di telecamera dice che adesso vuole «lottare per Gaza», ammettendo candidamente: «Il nemico è chiunque consenta a Israele di esistere».
   Di fatto, autoassolvendosi per il passato ma magari anche per il futuro: «Qualsiasi sia l'accusa, qui, sei innocente, sempre, perché se hai violato la legge, è stato solo per opporti a Israele: per avere giustizia. Dei nostri 7mila prigionieri, 142 sono morti, morti di morte naturale. Israele non rilascia neppure i corpi», dice, parlando poi delle restrizioni imposte a tutte le detenute alle quali gli israeliani a suo dire «tolgono tutti i diritti». «Nessun essere umano può sopportarlo. Le condizioni delle detenute sono estremamente complicate. C'è una campagna massiccia per togliere tutti i diritti che le prigioniere avevano in precedenza. Posso solo dire che le condizioni sono estremamente terribili e intollerabili».
   Un'altra prigioniera rilasciata ha scomodato il paragone tra le prigioni israeliane e Guantanamo. All'Arab News Agency, Assel Al-Tayti, dopo un anno di prigionia, ha definito «tragiche» le condizioni e parlato di Israele che picchia e pone in isolamento forzato le detenute: «Non c'era la televisione, la radio, niente ... Ci hanno fatto vivere in condizioni molto difficili e non sapevamo nulla dell'esterno. Vivevamo in stanze con le pareti, isolati».
   Alcune ex detenute, come Hanan Barghouti, hanno scelto di non festeggiare il rilascio, ufficialmente per rispetto dei palestinesi uccisi, feriti e sfollati dai bombardamenti su Gaza. ma allo stesso tempo anche seguendo il consiglio delle autorità israeliane che non possono vedere di buon occhio le parate pro- Hamas.
   Come quella di Fatima Amarneh 41 anni di Jenin, nel Nord della Cisgiordania, accolta con gli allori dopo essere finita in carcere per aver tentato di accoltellare un militare israeliano nei vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme. Sempre in niqab, ma nero, divenne famosa sui social perché il suo attacco, ripreso dalle telecamere, venne respinto con la forza e il militare dell'Idf la prese a calci. In molti video ripostati in queste ore di giubilo per i palestinesi, però la prima parte è scomparsa nel nulla.

Libero, 27 novembre 2023)

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I bambini rapiti da Israele tornano a una difficile realtà

di Antje C. Naujoks*

Almeno 30 minori israeliani di età compresa tra i 4 e i 17 anni sono stati crudelmente uccisi nel massacro di Hamas. Altri sette bambini, di età compresa tra i cinque e i dodici anni, sono stati uccisi a seguito di attacchi missilistici, tra cui cinque bambini della comunità beduina musulmana di Israele. La maggior parte di loro è stata privata della vita nelle loro case, dove avrebbero dovuto sentirsi al sicuro. Alcuni sono stati bruciati vivi, altri sono stati uccisi davanti ai loro genitori, mentre altri ancora sono stati costretti a guardare i terroristi di Hamas che massacravano i loro genitori.
   Nella Giornata Mondiale dell'Infanzia, proclamata per la prima volta nel 1954 e celebrata il 20 novembre, l'UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia, ha taciuto sul crudele destino di questi bambini israeliani uccisi. Questo vale anche per 40 cittadini israeliani minorenni che sono stati rapiti nella Striscia di Gaza all'inizio di ottobre insieme a 200 adulti. La maggior parte di loro è stata rapita insieme a uno o entrambi i genitori da Hamas e da altri terroristi islamici radicali, compreso un bambino di dieci mesi.
   Anche alcuni nonni sono stati rapiti insieme a loro e ai loro genitori. Ma i terroristi, così come presumibilmente i civili della Striscia di Gaza, hanno rapito anche bambini senza un parente al loro fianco. Tutte le organizzazioni internazionali che si occupano del benessere dei bambini sono rimaste vergognosamente in silenzio sulla sorte dei minori israeliani rapiti.

• Dettagli raccapriccianti
   I minori costituiscono un sesto di tutti i rapiti da Israele alla Striscia di Gaza. Di questi, nove bambini non sono nemmeno in età scolare, avendo solo tra i dieci mesi e i cinque anni. La stragrande maggioranza, 19 bambini, ha un'età compresa tra gli otto e i 13 anni. Il gruppo dei 15-18enni comprende dodici ragazze e ragazzi. La maggior parte di questi 40 bambini e adolescenti sono ragazze.
   Due 17enni sono stati rapiti nei kibbutzim Nir Yitzchak e Holit. Tutti gli altri sono stati presi dai terroristi nei kibbutzim Kfar Asa, Be'eri e Nir Os, che hanno un numero particolarmente elevato di vittime a causa di terribili massacri e i cui membri costituiscono anche la maggioranza dei rapiti.
   Alcuni di questi bambini stavano semplicemente visitando i parenti che vivono in questi kibbutzim, come ad esempio le sorelle Aviv e Ras, di due e quattro anni, che, insieme alla madre Doron, non sono solo cittadini israeliani ma anche tedeschi. Hanno fatto visita alla nonna nel kibbutz Nir Os.

• Chi è tornato finora
  Venerdì sera, i primi ostaggi sono stati rilasciati nell'ambito di un accordo con Hamas mediato da Stati Uniti e Qatar, che è stato poi attuato per un periodo di alcuni giorni con il coinvolgimento dell'Egitto, vicino a Gaza e Israele. Anche la Croce Rossa Internazionale era presente, con i suoi emblemi in primo piano, mentre questa organizzazione umanitaria si è distinta per la sua assenza - alcuni sostengono addirittura l'inattività. Tra i primi a essere liberati sono stati Aviv e Ras insieme alla madre Doron.
   Da allora, in un totale di tre rimpatri di ostaggi, sono stati liberati 40 israeliani, oltre a 17 cittadini thailandesi e filippini, il cui rilascio è stato garantito da un accordo separato. Dei 19 ostaggi rilasciati, 19 erano donne adulte di età compresa tra i 21 e gli 85 anni, il che significa che 21 bambini e giovani costituiscono la leggera maggioranza di quelli rilasciati finora.

• Ritorno traumatico
  La cittadina israelo-irlandese Emily Hand ha fatto notizia molto prima del suo ritorno in Israele. Emily, la cui madre è morta di cancro poco dopo la sua nascita, sta crescendo con il padre Thomas, al cui fianco si trovava l'ex moglie Narkis, assassinata il 7 ottobre.
   Thomas Hand è stato inizialmente informato della morte della figlia. Due settimane dopo, ha appreso che l'identificazione non era corretta e che sua figlia era invece tenuta in ostaggio nella Striscia di Gaza. Non era a conoscenza delle condizioni degli ostaggi come tutti i loro parenti. Emily, che ha compiuto nove anni mentre era tenuta in ostaggio, è tornata in Israele sabato, accompagnata dalla sua migliore amica Hila Rotem, 13 anni.
   Emily aveva trascorso la notte con Hila, che era stata rapita dal Kibbutz Be'eri insieme alla madre - e, come si è scoperto in seguito, anche insieme a Emily. Emily è una delle bambine tenute in ostaggio senza parenti.
   Ma anche la sua amica Hila è tornata dalla Striscia di Gaza da sola, perché, contrariamente agli accordi, Hamas non ha garantito che madri e figli non fossero separati. Hila è stata separata dalla madre due giorni prima del suo rilascio. Il 25 novembre Emily è riuscita a volare tra le braccia del padre, che non voleva lasciarla andare. Hila Rotem è stata abbracciata dallo zio, fratello della madre.
   Anche i fratelli Noam e Alma, di 17 e 13 anni, sono tornati in Israele da soli. Sono stati rapiti insieme al padre Dror. La moglie e madre Jonat è stata uccisa il 7 ottobre nel kibbutz Be'eri. Non solo hanno dovuto abbandonare il padre, ma anche il cugino Liam, di 18 anni, nelle mani di Hamas.
   Tra gli altri parenti, solo il fratello Jahli, sopravvissuto perché non era nel kibbutz quando Hamas ha attaccato, ha potuto abbracciarli. Per la gioia dei fratelli, anche la cagnolina di famiglia Nella ha fatto parte del comitato di benvenuto, il che non era affatto scontato, dato che i terroristi hanno massacrato molti amati animali domestici nei kibbutzim insieme ai residenti.

• Una nuova realtà difficile
  Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è impegnato in prima persona per ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi, ma ha ripetutamente sottolineato la sorte della piccola Avigail di tre anni. Avigail è cresciuta di un anno durante i circa 50 giorni in cui è stata tenuta in ostaggio e, insieme a Emily Hand, è una delle bambine rapite nella Striscia di Gaza senza parenti al loro fianco.
   Avigail vive nel kibbutz Kfar Asa. Oltre alla cittadinanza israeliana, ha anche quella americana. Durante le settimane trascorse nella Striscia di Gaza, ha trascorso del tempo con i suoi vicini, dai quali era fuggita il 7 ottobre.
   Insieme ai suoi fratelli di sei e nove anni, la bambina è stata costretta a guardare i terroristi che uccidevano sua madre Smadar. I tre bambini sono poi corsi fuori verso il padre Roi, fotografo del portale di notizie "ynet", che inizialmente aveva fotografato gli alianti dalla Striscia di Gaza, ma si è precipitato a casa quando ha capito che si trattava di un attacco massiccio.
   Quando i bambini hanno visto che anche il padre era stato colpito dai terroristi, i fratelli maggiori sono corsi al riparo della loro casa e hanno chiamato il "Magen David Adom" (Stella Rossa di Davide). L'operatrice telefonica si è tenuta in contatto per 14 ore con i due bambini, che si sono nascosti in un armadio su suo consiglio. La sorellina Avigail corse dalla vicina famiglia Brodetz. Fu rapita insieme alla madre di questa famiglia e ai suoi tre figli.
   Quando Avigail è stata liberata insieme alla famiglia Brodetz ieri, domenica, non solo non aveva una madre che la stringesse tra le braccia, ma nemmeno il padre, che nel frattempo era morto per le ferite riportate. Nel frattempo, i suoi fratelli sono stati accolti dagli zii.

• Immagini impresse nella sua memoria
  All'età di quattro anni, Avigail può non aver capito cosa accadde quel giorno, ma, come molti altri bambini, ha visto gli eventi. Le immagini sono indubbiamente impresse nella memoria anche dei più piccoli.
   Molti minori israeliani, sopravvissuti o rapiti, devono anche fare i conti con il fatto di non avere più una casa fisica. Per i bambini, in particolare, una casa è più di quattro mura, perché la casa è sinonimo di sicurezza e protezione, di ricordi d'infanzia felici. Nel giro di pochi minuti, tuttavia, le loro case sono diventate la scena dei più sanguinosi massacri, perpetrati da terroristi che hanno strappato le vite di innumerevoli mamme, papà, nonne, nonni, zii, zie, cugini, nonché di vicini e compagni di gioco molto frequentati.
   In Israele, nessuno vuole perdere la speranza che tutti gli ostaggi israeliani detenuti nella Striscia di Gaza ritornino. Ma nei prossimi giorni, se lo scambio continuerà, ci saranno altri bambini che si spera raggiungano la salvezza con le loro madri, ma dovranno lasciare i loro padri nell'incertezza dell’ostaggio. Un altro aspetto straziante nella vita segnata di questi giovani, delle loro famiglie e dell'intera nazione israeliana.
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* Antje C. Naujoks ha studiato scienze politiche alla Libera Università di Berlino e all'Università Ebraica di Gerusalemme. Traduttrice freelance, vive in Israele da quasi 40 anni, di cui oltre un decennio a Be'er Sheva.

(Israelnetz, 27 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Per Israele la guerra riprenderà subito alla fine della tregua

di Sarah G. Frankl

Le famiglie degli ostaggi sono diventate una forza politica in Israele e sono state fondamentali nel fare pressione su Netanyahu affinché accettasse l’accordo di scambio mediato dal Qatar. Sebbene la maggior parte degli israeliani sia favorevole a prolungare la tregua per riportare a casa il maggior numero possibile dei 240 prigionieri, ciò non significa che vogliano che la guerra finisca, secondo il presidente dell’IDI Yohanan Plesner.
   “Nella società israeliana nulla è cambiato”, ha detto Plesner. “Non vi è alcuna base nell’opinione pubblica per qualsiasi cosa abbia a che fare con un cessate il fuoco con Hamas o qualsiasi soluzione diplomatica”.
   Ha aggiunto che: “C’è un’ampia consapevolezza che non c’è modo di ripristinare la sicurezza, la stabilità o qualsiasi tipo di rapporto pacifico con i palestinesi senza eliminare Hamas. E questo significa più operazioni di terra”.
   Secondo un sondaggio condotto venerdì dall’Israel Democracy Institute (IDI), più del 90% degli ebrei israeliani sostiene il duplice obiettivo di schiacciare Hamas e salvare gli ostaggi. Alla domanda su cosa fosse più importante, il 49% ha scelto “liberare tutti gli ostaggi”, rispetto al 32% che ritiene che “rovesciare Hamas” dovrebbe essere l’obiettivo preminente.
   Martedì scorso, durante il dibattito di gabinetto per approvare la prima interruzione dei combattimenti dall’inizio della guerra, il 7 ottobre, Netanyahu ha chiarito che un voto a favore dell’accordo non era un voto per una pace duratura. Nei giorni successivi, altri politici hanno celebrato le scene del ricongiungimento degli ostaggi con le famiglie – costantemente trasmesse in loop nei notiziari televisivi – chiedendo allo stesso tempo che le operazioni di combattimento riprendessero e fossero dirette al sud.
   Le forze di difesa israeliane hanno affermato che le loro truppe all’interno di Gaza rimangono pronte, sebbene la sorveglianza dei droni e le operazioni aeree siano state in gran parte sospese.
   L’esercito si sta riorganizzando per la prossima fase delle operazioni, hanno detto i militari, e si aspettano che Hamas faccia lo stesso.
   “Torneremo immediatamente alla fine del cessate il fuoco ad attaccare Gaza”, ha detto sabato il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, tenente generale Herzi Halevi. “Lo faremo per smantellare Hamas e anche per creare una grande pressione affinché restituisca il più rapidamente possibile il maggior numero possibile di ostaggi”.
   “Qualsiasi ulteriore negoziato si svolgerà sotto il fuoco”, ha detto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant alle truppe durante una visita a Gaza.

(Rights Reporter, 27 novembre 2023)

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Svolta nell’inchiesta sull’attacco alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre ‘82

di Michelle Zarfati

“Finalmente dopo quarantuno anni si comincia a vedere un po’ di luce nel buio” commenta a Shalom Sandro Di Castro - rimasto ferito dall’attacco terroristico del 9 ottobre ‘82 - alla rivelazione di ‘La Repubblica’. Secondo il quotidiano, infatti, è sorta una svolta circa l’inchiesta sull’attacco alla Sinagoga di Roma che ebbe luogo il 9 ottobre del 1982. Il terribile giorno in cui, un commando di terroristi palestinesi, riconducibili al Consiglio Rivoluzionario di Al Fatah guidato da Abu Nidal, colpì la Sinagoga di Roma durante la festività ebraica di Sheminì Atzeret: alle 11.55 del mattino, mentre i fedeli in festa uscivano dalla sinagoga, furono quaranta le persone gravemente ferite e a pagare con la sua stessa vita il piccolo Stefano Gaj Tachè, che morì tragicamente a soli due anni.
   Dopo quarantuno anni di silenzio e di vicoli ciechi giudiziari sono indagati ora quattro terroristi. Secondo la Procura di Roma e la Digos, infatti, gli autori dell’attacco potrebbero essere gli stessi individui appartenenti al gruppo che mise in atto l’attentato a Parigi del 1982, sempre contro obiettivi ebraici. I loro nomi sono: Walid Abdulrahman Abou Zayed, Gamal Tawfik Arabe El Arabi, Mahmoud (alias Osman) Khader Abed Adra e Nizar Tawfiq Mussa Hamada. A questi si aggiunge l’unico responsabile individuato sin da subito e condannato in contumacia: Abdle AlZomar che riuscì tuttavia a scappare dall’Italia verso le coste libiche. I loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati.
   L’attentato fu e continua ad essere una ferita indelebile nell’anima e nel cuore degli ebrei di Roma. “Era impossibile che un solo uomo fosse riuscito a far tutto da solo. Quell’operazione era un progetto che prevedeva almeno trenta persone, se non più. È sicuramente qualcosa di positivo vedere iscritti nel registro degli indagati finalmente i nomi di quattro terroristi. Sarebbe tuttavia interessante che la magistratura indagasse su eventuali fiancheggiatori italiani che, visto il periodo delle brigate rosse e del terrorismo, sicuramente sono stati coinvolti. Un’altra cosa su cui mi piacerebbe che la magistratura indagasse è il possibile coinvolgimento di quel fotografo che, casualmente, si trovava davanti alla Sinagoga nel momento dell’attentato. Lui che disse poi di essere arrivato “casualmente” da via Arenula davanti alla sinagoga perché udì il suono degli spari” prosegue Di Castro.
   Come riportato da ‘La Repubblica’ gli inquirenti francesi, che hanno lavorato a stretto contatto con gli omologhi italiani, hanno confermato come entrambi gli attentati (quello di Parigi e quello di Roma) siano stati compiuti da uno stesso gruppo di attentatori. Persino le munizioni utilizzate nei due attacchi appartenevano ad uno stesso lotto di produzione di una fabbrica polacca. Anche Victor Fadlun, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, in una nota ha ringraziato le Forze dell’Ordine per il loro operato ed i risultati ottenuti, chiedendo al contempo al Governo italiano pressioni a livello internazionale per ottenere l’estradizione dei criminali.

(Shalom, 27 novembre 2023)

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Walker Meghnagi: stupore, delusione e amarezza per la lettera dei 4000 docenti universitari

di Walker Meghnagi
Presidente della Comunità ebraica di Milano

Con grande stupore, delusione e amarezza, abbiamo letto la lettera firmata da più di 4000 membri delle università italiane.
   Le menzogne, la mistificazione, il cinismo bugiardo, espressi nella lettera, ricordano gli anni bui delle persecuzioni antisemite, dall’Inquisizione fino alla Shoah e ai gulag.
   Quello che colpisce soprattutto è come questa intellighenzia si nutra di un odio antico verso gli ebrei per aiutare i criminali dell’integralismo islamico a realizzare il loro programma che è la distruzione di Israele.
   Noi sappiamo che la stragrande maggioranza del popolo italiano conosce la verità e la realtà medio-orientale che vede nello Stato di Israele l’unico Stato democratico della regione, che combatte da quasi 80 anni per la sua sopravvivenza, contro una immensa massa di nemici.
   L’attacco  del 7 ottobre ha mostrato al mondo la vera faccia di questi criminali e il loro piano di uccidere gli Ebrei solo perché Ebrei.
   Questo è un momento molto triste per l’accademia Italiana.
   La Comunità ebraica di Milano richiama tutte le istituzioni e le persone di cultura, a espellere simili individui dalla partecipazione e commistione, con fermezza e determinazione, dalle loro posizioni che giorno dopo giorno infettano gli Atenei e contagiano gli studenti ai quali va insegnato ben altro che l’odio razzista e l’antisemitismo.

(Bet Magazine Mosaico, 26 novembre 2023)

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Quei legami tra cortei e Hamas

di Enrico Paoli

La Kefiah per mascherare il volto, indossata sabato in piazza Castello a Milano, per aizzare la folla contro israeliani e giornalisti, nei video postati su Tik Tok non c’è. Dalla finestra del social più amato dai giovani esce il viso angelico di Dawoud Falastin, studentessa universitaria della Statale e figlia di un esponente di spicco dell’Associazione palestinesi in Italia, indossando solo il velo d’ordinanza, usato per coprire i capelli.
   Ma di angelico, nei messaggi della pasionaria palestinese protagonista della manifestazione di sabato assieme ad una studentessa di Bergamo, anch’essa con il volto coperto dalla Kefiah, che ha lanciato pesanti offese nei confronti degli israeliani e di Israele, non c’è assolutamente nulla. Anzi, nei suoi video ci sono tutti gli elementi di quel filo rosso che legale piazze ai terroristi di Hamas. «Quando decolonizzeremo la Palestina, decolonizzeremo tutti i Paesi arabi», dice in un post, «Israele è li per far si che ci sia un controllo geopolitico europeo in Medio Oriente». «Il regime sionista ti fa esiliare, anzi ti costringere a scappare», sostiene in un altro. D’accordo, non siamo alla violenza verbale usata in piazza dall’altra barricadera pro Palestina, la studentessa di Bergamo con la sciarpa a scacchi bianca e nera sul volto per non farsi riconoscere («gli israeliani hanno problemi mentali e dovrebbero essere tutti in manicomio, hanno paura dei giovani palestinesi, i prigionieri di guerra israeliani li hanno presi in una casa di riposo»), ma è solo un gioco delle parti, una sottigliezza linguistica fra pasionaria buona e pasionaria cattiva. Il bersaglio è sempre lo stesso: lo Stato di Israele.
   Solo che loro, le due ragazze, rappresentano l’immagine accattivante da mandare in piazza, da mostrare sui palchi delle manifestazioni, dando modo a chi muove le fila di restare nell’ombra. E sul camion usato come pedana, a manovrare le due giovani, sostenute dal Collettivo di estrema sinistra Cambiare rotta, in particolare c’era lui, Mohammed Hannoun, noto ai servizi di intelligence di mezza Europa e di Israele, che ogni anno organizza conferenze con le associazioni che sostengono la causa palestinese, quindi anche Hamas.
   A luglio di quest’anno, a convalidare le ipotesi investigative delineate dalle unità antiriciclaggio europee è arrivato anche il ministero della Difesa di Israele, che ha chiesto al nostro Paese il sequestro di cinquecentomila dollari che sono stati trasferiti da Hamas ad Hannoun, definito dal ministro Yoav Galant «leader dell’organizzazione terroristica Pcpa – Conferenza popolare per la fratellanza palestinese – affiliata ad Hamas e capo dell’associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese». Da luglio, come racconta il quotidiano online Linkiesta, nessuna Procura, né quella Nazionale Antimafia e Antiterrorismo né quella di Genova, ha agito dando seguito alla richiesta israeliana e dalle parti della Guardia di Finanza nessuno sa nulla. Ragione per la quale Hannoun è libero di organizzare manifestazioni a Milano e Genova, dove l’architetto palestinese risiede, che inneggiano all’Intifada «fino alla vittoria», lanciando raccolte fondi per Gaza, respingendo tutte le accuse. E lì, sul palco, ha diretto l’orchestra.
   Evidentemente sono stati così bravi da riuscire a convicere un po’ di milanesi che le manifestazioni pro Palestina andate in scena in queste ultime settimane, fossero realmente attestati di solidarietà verso i palestinesi. Invece no. Come al solito nulla è come sembra, e anche quel che sembra pacifico non lo è affatto. E quanto avvenuto sabato lo dimostra apertamente. Tanto da indurre a pensare che la miriade di sigle e associazioni palestinesi, ne esistono di tutti i tipi, abbiamo trovato nel capoluogo lombardo un terreno fertile sia per la raccolta fondi, sia per la propaganda. E se l’Associazione dei palestinesi in Italia rappresenta la punta avanza di questa galassia, iniziano ad avere un peso anche l’Associazione degli studenti universitari Musulmani dell’Università degli Studi di Milano e altre sigle simili.
   Non solo. La saldatura fra i palestinesi di Milano e il collettivo di Cambiare rotta, presente sabato in piazza per solidarizzare con Gaza e attaccare il governo Meloni, colpevole di sostenere Israele, non può essere certo un fatto casuale. Fare proselitismo lì, alla Statale, per i palestinesi rappresenta una grande occasione. E la pasionaria dal volto angelico, Dawoud Falastin, è il trattino che unisce i due mondi. Poi, a urlare gli slogan farneticanti, ci pensa la manifestante di turno...

Libero, 27 novembre 2023)

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Ultima tortura jihadista per logorare Israele. Ma Tel Aviv è pronta a riprendere la guerra

Il ritardo nella consegna degli ostaggi è parte della strategia di Hamas per tentare di allungare la tregua e tenere a tutti i costi il potere su Gaza. Il risalto in colore è aggiunto (NsI).

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Uno scambio di ostaggi con Hamas non è un pranzo di gala. Hamas ieri ha inventato una nuova tortura e ne inventerà una al giorno per mettere Israele in ginocchio con l'unica arma che gli è rimasta e cercare di tornare a regnare su Gaza. Una serie di false accuse hanno bloccato al valico di Rafah gli ostaggi israeliani. Sinwar è ormai a un punto di rottura, il goffo tentativo di ieri di sollevare problemi tecnici su una questione vitale come il ritorno di 13 rapiti mostra solo la perversione di Hamas. Il suo terreno di gioco è l'impegno di Israele a non abbandonare nessuno, tantomeno donne e bambini, costi quel che costi. Si è concluso solo in nottata il perverso disegno di dominio della psiche israeliana, il rilascio era previsto alle 16 ma è slittato di molte ore. Durante tutto il giorno una vaga lista di proteste è uscita tramite pettegolezzi, la benzina promessa non è nella quantità prevista, i camion con l'aiuto umanitario non sono in numero giusto, i detenuti palestinesi non corrispondono al patto (peraltro sono rimasti fermi negli autobus fino come pattuito alla liberazione degli israeliani), Israele ha violato la tregua quando ha bloccato il passaggio a Nord (richiesto da Hamas) degli sfollati al Sud...
   Intanto, probabilmente terrorizzati, i bambini israeliani con le loro mamme aspettavano di salire sulle ambulanze della Croce Rossa. Una dichiarazione delle brigate al Qassam ha sancito la decisione di Hamas. Al Jazeera ha detto che i rapiti non sarebbero stati consegnati fino al completamento del patto. In questo tragico teatro le famiglie e gli amici dei rapiti che secondo le previsioni, appartengono al kibbutz Be'eri che ha visto gli orrori più indicibili della strage, hanno aspettato all'hotel David sul mar Morto, dove le abbiamo visitate: nell'attesa, sono nel più profondo stato di choc, ma la forza della gente dei kibbutz di Israele di sopportare il lutto e la trepidazione è sorprendente. Non c'è invidia per le famiglie delle persone già liberate. C'è ottimismo nell'aspettare il proprio turno. La menzogna, dato che Israele non oserebbe mai violare un accordo che mette a rischio donne e bambini, vuole schiacciare la gente, i soldati, renderli sconvolti e incerti. Hamas vuole allungare i tempi per rimettersi in sesto: e suggerisce che gli scambi possano continuare altri giorni, forse fino a 10 giorni in cui si restituirebbero altri ostaggi. Per creare uno sfondo credibile si è avuto ieri lo sbarco a Tel Aviv di un inviato speciale dal Qatar e a Gaza la presenza dell'ufficiale sempre incaricato di portare le famose valigie verdi col denaro coi miliardi per Hamas. Sinwar spera che con l'aiuto del Qatar e dell'Egitto, e dato l'interesse di Biden alla tregua, può spingere avanti col terrore l'interruzione della guerra e farla diventare una tregua. Ma Israele sa bene che anche la restituzione dei rapiti è una conseguenza della sconfitta militare e certo non dei motivi umanitari. Per questo, nel bel mezzo del momento di più intensa tensione, il capo di stato maggiore Herzi Halevi ha detto a tutto il Paese in attesa: «Appena conclusa la restituzione dei rapiti, continuiamo». Ovvero, è solo questione di tempo. La salvezza di Israele non è nei patti con un'organizzazione di zombie che bruciano, stuprano, uccidono, decapitano, anche se il Qatar e l'Egitto fanno di tutto per farlo credere. È nel batterne l'organizzazione una volta per tutte, cancellarla dal confine lungo il quale sorgono i kibbutz e le città la cui devastazione ha cambiato Israele per sempre. Halevi ha dichiarato la determinazione dell'esercito ad andare avanti. Quando ha parlato non aveva ancora come confine la mezzanotte, l'ora in cui la tregua scadeva e l'esercito avrebbe dovuto prendere le sue decisioni nel caso in cui patti sugli ostaggi fossero stati violati.

(il Giornale, 26 novembre 2023)
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In un nostro articolo del 22 novembre scorso, dal titolo "Yahya Sinwar sfrutterà Israele...", il direttore del giornale online "Israel heute" esprimeva i suoi dubbi sull'accordo di cessate il fuoco con queste parole: «Sinwar ha insistito su un accordo graduale, e non è una coincidenza. Spremerà in tutti i modi il limone in una limonata chiamata "cessate il fuoco". Sinwar troverà una scusa dicendo che Israele non rispetta il cessate il fuoco e quindi che è libero "di non rispettarlo nemmeno lui». Vedremo se va a finire così. M.C.

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Come perdere la guerra preparandosi alla prossima

Come era prevedibile Hamas ha iniziato a giocare con Israele la partita degli ostaggi. Dopo la liberazione di quattro ostaggi avvenuta a guerra ancora in corso si è giunti all’accordo, mediato dal Qatar, di rilasciare progressivamente altri cinquanta ostaggi in cambio di una tregua di quattro giorni. L’accordo prevede che se Hamas sarà in grado di localizzare altri trenta ostaggi detenuti da soggetti terzi all’interno della Striscia, la tregua potrà estendersi ulteriormente di un giorno oltre i quattro stabiliti per ogni decina di ostaggi che verrebbero rilasciati in aggiunta a quelli già pattuiti.
   Una possibile interpretazione del negoziato è che Hamas si trovi in difficoltà a causa della massiccia offensiva israeliana su Gaza e sia stato costretto al rilascio di un certo numero di ostaggi per guadagnare tempo e cercare sostanzialmente delle garanzie e una via di fuga per i propri maggiorenti, ma è una interpretazione assai poco convincente.
   È un fatto che Hamas si trovi in difficoltà sotto il profilo militare. Israele ha potuto conquistare senza grandi perdite il nord della Striscia, colpendo come non aveva fatto prima strutture e infrastrutture del gruppo terrorista, ma non lo ha stroncato. Il grosso si trova asserragliato a sud, nei press di Khan Yunis, nascosto nei tunnel sotterranei dove detiene presumibilmente buona parte degli ostaggi, tra cui molti militari.
   Per quanto Israele abbia eliminato un numero elevato di jihadisti, il grosso resta intoccato. Quello che appare chiaro, al netto dei wishful thinking è che il negoziato abbia svantaggiato Israele e avvantaggiato Hamas. Quest’ultimo ha ottenuto da Israele la cosa che gli premeva maggiormente, l’interruzione dell’offensiva (il rilascio di 150 detenuti nelle carceri israeliane in cambio degli ostaggi ha un peso solo simbolico e del tutto marginale), ovvero quel cessate il fuoco che tutti i nemici di Israele si auspicavano.
   Israele ha dichiarato che l’offensiva riprenderà. Non costa nulla fare annunci. La verità è che su una sua eventuale ripresa peserà enormemente la pressione americana affinché la guerra non prosegua. Si cercherà in ogni modo di ottenere il rilascio di altri ostaggi prolungando ulteriormente la tregua e rendendo sempre più difficile a Israele riuscire a trovare la giustificazione per andare fino in fondo.
   Qualche giorno fa Benny Gantz ha dichiarato che per sconfiggere Hamas ci vorranno decenni (nemmeno si trattasse della più organizzata e ramificata organizzazione terroristica del pianeta) e che l’obbiettivo primario di Israele è la liberazione degli ostaggi. Obbiettivo sacrosanto, ma non è più quello successivo al 7 ottobre e per il quale Israele è entrato in guerra: sradicare Hamas da Gaza.
   Alla vittoria su Hamas Israele ha anteposto l’obbiettivo umanitario, così perderà la guerra e si preparerà alla prossima.

(L'informale, 26 novembre 2023)

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Diario di guerra: 25 novembre 2023

Da una newsletter di Naomi Ragen

Di tutti i post che ho scritto, devo dire che questo è il più difficile. E questo è sorprendente. Dopo tutto, negli ultimi due giorni almeno una dozzina di ostaggi israeliani sono stati liberati dalla prigionia di Hamas. Credetemi, è stato commovente vedere un uomo abbracciare la moglie e le due bambine. L'avevo visto seduto da solo su una panchina del parco e abbandonato per oltre un mese, e il mio cuore ha sofferto per lui.
   Allora perché questo post è così difficile per me? Perché io e il resto del Paese proviamo un profondo senso di umiliazione. Sì, volevamo liberare i nostri ostaggi. Ma non in questo modo: prendendo ordini dalla feccia della terra, persone che dovrebbero essere già morte. Dover sopportare le loro richieste di liberazione dei prigionieri, di camionate di aiuti, e poi sentirli piagnucolare che non è abbastanza, che non liberiamo i prigionieri... Davvero, non provavo una tale rabbia dal 7 ottobre.
   Non so se entrare in trattative con Hamas sia stato un errore se riusciamo a recuperare alcuni ostaggi, forse è l'unico modo possibile. Allora perché mi sembra un errore, e per giunta colossale? Perché la bocca dello stomaco mi fa male per la frustrazione e la rabbia?
   Perché quello di cui avevo bisogno, quello di cui tutti noi in Israele avevamo bisogno, era di trovare i nostri ostaggi e liberarli in stile Entebbe, non con questa umiliante e disgustosa capitolazione all'estorsione di Hamas; non con questa dimostrazione di piegarsi alle richieste di persone che ormai dovrebbero essere sottoterra, con la bocca riempita di terra in modo da non poter più dire una parola, e certamente non fare richieste.
   Quando stanotte è arrivata la scadenza alle cinque, poi alle sei, poi alle otto e sono arrivate nuove richieste - non arrivano abbastanza camion con la roba, non vengono rilasciati i giusti terroristi di Hamas, non lasciamo andare gli ostaggi - ho provato due cose. Prima la furia, poi un senso di enorme sollievo perché in risposta il nostro governo ha finalmente emesso la sua richiesta: entro mezzanotte, o ricominceremo a bombardare.
   Volevo che iniziassero a bombardare. E così tutti gli altri nel Paese, tranne i parenti degli ostaggi che saranno liberati questa sera. Anche i nostri soldati lo volevano. Hanno sottratto tempo alle loro vite e alle loro famiglie per fare un lavoro e ora il nostro governo li tiene con le mani in mano. È una cosa che fa infuriare.
   Il portavoce dell'esercito israeliano ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco, parlando della nostra responsabilità morale di liberare gli ostaggi. Sì, ma non in questo modo. Un altro accordo su Shalit.
   Gli unici ad essere felici che l'accordo sia stato salvato sono il Qatar, l'Iran e probabilmente l'Egitto. E le pressioni per mantenere il cessate il fuoco sono sempre più forti. Se tutto questo finirà con Hamas che gongola, sarà un pericolo mortale per Israele, forse non dal punto di vista militare, ma per il nostro morale e il nostro amor proprio.
   Spero di sentirmi diversamente quando vedrò quei bambini tornare a casa dalle loro famiglie.
   Spero di essere in grado di superare la mia ripugnanza e umiliazione e di evocare un po' della vera gioia che questo evento dovrebbe giustamente portarci quando i nostri familiari vengono salvati e restituiti a noi e alle loro vite.

(Notizie su Israele, 25 novembre 2023)

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La scelta infernale dietro l'accordo sugli ostaggi

Israele si trova in questa terribile situazione soprattutto per colpa degli Stati Uniti.

di Melanie Phillips 

Come se gli israeliani non fossero già abbastanza traumatizzati dal riprovevole pogrom di Hamas del 7 ottobre, l'accordo sugli ostaggi ha aggravato la loro agonia. Mercoledì mattina sono stati annunciati i termini dell'accordo tra Israele e Hamas. Degli ostaggi, 30 bambini, otto delle loro madri e altre 12 donne sarebbero stati rilasciati in cambio di una "pausa" di quattro giorni negli attacchi aerei e di terra israeliani, di maggiori forniture di aiuti a Gaza e del rilascio di 150 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Inoltre, Israele avrebbe esteso il cessate il fuoco di un giorno per ogni dieci ostaggi in più rilasciati da Hamas.
   Nella tarda serata di mercoledì, il direttore del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, ha annunciato un ritardo. Gli ostaggi sarebbero stati rilasciati non prima di venerdì.
   Nella tarda serata di giovedì, il Qatar ha dichiarato che l'accordo sarebbe entrato in vigore alle 7 di venerdì. Secondo vari rapporti, Hamas avrebbe posto all'ultimo minuto ulteriori condizioni per la consegna o avrebbe inasprito le sue richieste a Israele di limitare ulteriormente le sue attività militari.
   Chi può essere sorpreso da tutto questo? Perché Israele ha perso il controllo degli eventi. In un colpo solo, ha ceduto il controllo della guerra al leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar.
   La pressione delle famiglie degli ostaggi per giungere a un accordo è stata enorme. Nessuno in Israele può sfuggire al loro dolore.
   Liberare gli ostaggi è un dovere sacro. Ma cosa succede se un accordo impedisce a Israele di adempiere al suo non meno sacro dovere di garantire che Hamas non possa mai più sottoporre gli israeliani a un simile attacco genocida o peggio?
   E i termini dell'accordo sono terribili. Nel momento in cui l'IDF vuole avanzare nel sud di Gaza, si impegna a cessare la sorveglianza aerea per quattro giorni e nel nord per sei ore al giorno.
   L'ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Bolton, ha dichiarato: "È del tutto inspiegabile e ingiustificabile che Hamas cessi la sorveglianza aerea su Gaza per un qualsiasi periodo di tempo, perché utilizzerà questo tempo per riposizionare o rilasciare alcuni dei suoi leader, trasferire gli ostaggi e prepararsi in altro modo per la prossima fase della battaglia".
   Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto sapere al Paese che le autorità di sicurezza ritengono che l'accordo non influirà sullo sforzo bellico e che "gli sforzi di intelligence vengono mantenuti in questi giorni".
   Dal primo ministro israeliano alle autorità di sicurezza, fino ai vertici dell'esercito israeliano - queste sono le persone la cui compiacenza, arroganza e fatali errori di valutazione hanno reso possibile il pogrom del 7 ottobre. Come si può credere ancora a loro?
   Sono già venuti meno alla parola data. Dopo il 7 ottobre, avevano giurato di non ripetere mai più la loro precedente politica di rilascio di prigionieri terroristi in cambio di ostaggi. Eppure, nell'accordo hanno accettato di rilasciare 150 prigionieri colpevoli di violenza terroristica - un rapporto di tre terroristi per un ostaggio.
   Alcuni israeliani hanno detto che era impensabile lasciare lì gli ostaggi e che si sarebbe dovuto raggiungere immediatamente un accordo per il loro rilascio.
   Queste emozioni sono comprensibili. Ma trascurano il fatto che gli ostaggi sono l'arma finale di Sinwar.
   Hamas è un nemico dell'umanità che il mondo non ha mai visto. La sua principale arma di guerra è la popolazione - a Gaza, in Israele e in Occidente.
   Trasforma la popolazione civile di Gaza in carne da macello per reclutare le sue legioni di utili idioti in Occidente, che rispondono alle cifre delle vittime manipolate da Hamas e alle immagini della sofferenza palestinese facendo pressione sui loro governi affinché smettano di sostenere Israele. E usa i suoi ostaggi per torturare gli israeliani e fare pressione sui loro governi affinché firmino un accordo disastroso.
   Gli ostaggi sono quindi vitali per la sopravvivenza di Hamas. Come ha scritto il colonnello in pensione Shai Shabtai per il Centro BESA dell'Università Bar-Ilan: "Hamas ha un solo obiettivo nel trattenere gli ostaggi: negoziati infiniti per impedire il crollo del suo potere politico e militare".
   Sinwar non vede quindi alcuna possibilità che gli ostaggi vengano rilasciati volontariamente. Potrebbe rilasciarne alcuni per confondere ulteriormente le idee agli israeliani. Ma trattenere gli ostaggi è il modo per vincere la guerra.
   L'unica prospettiva realistica di liberare la maggior parte degli ostaggi è quindi che l'IDF distrugga Hamas il più rapidamente possibile.
   Invece, l'accordo rende più probabile una possibile vittoria di Hamas. Dopo aver accettato questo cessate il fuoco, Israele subirà crescenti pressioni da parte dell'America e dell'Occidente per chiedere ulteriori e più lunghi cessate il fuoco "per ottenere il rilascio di altri ostaggi".
   In questo modo, Hamas potrà sopravvivere e mantenere la sua minaccia di ripetere i massacri del 7 ottobre "ancora e ancora".
   Israele si trova in questa terribile situazione soprattutto per colpa dell'America.
   Il pogrom del 7 ottobre è stato segnato dalle impronte digitali del regime iraniano. L'Iran è anche dietro agli attacchi contro Israele che attualmente vengono portati avanti dalla Siria e dal Libano.
   Ma sono state le amministrazioni Obama e Biden che con le loro politiche di pacificazione hanno permesso all'Iran di finanziare, armare, addestrare e guidare eserciti per procura, tra cui Hamas, Hezbollah e le milizie siriane intenzionate a distruggere Israele.
   È stata l'amministrazione Biden che, cinque settimane dopo il pogrom di Hamas, ha versato nelle casse di Teheran altri 10 miliardi di dollari di sanzioni.
   È l'amministrazione Biden che ha costretto Israele all'accordo sugli ostaggi. È l'amministrazione Biden che ora sta facendo pressione su Israele affinché non continui la sua guerra nel sud di Gaza, dove vuole schiacciare Hamas.
   L'America dà a Israele una mano e con l'altra gli pianta un coltello nel corpo. Certo, rifornisce costantemente Israele di armi, senza le quali lo Stato ebraico sarebbe impotente.
   Ma questo è il minimo che l'America deve fare per evitare che Israele venga distrutto sotto i suoi occhi, cosa che il popolo americano non tollererebbe mai.
   Sì, l'amministrazione Biden ha dispiegato due gruppi di portaerei e un sottomarino nella regione "per scoraggiare l'Iran". Ma non ha usato questi mezzi per fermare i razzi di Hezbollah lanciati dal Libano verso il nord di Israele. Né ha risposto adeguatamente alle decine di attacchi iraniani contro le proprie forze in Iraq - anche se l'America potrebbe essere coinvolta ulteriormente nel conflitto, data l'inevitabile escalation di tali attacchi.
   Invece, l'America sta usando il suo sostegno militare a Israele per costringerlo a una guerra che risponde agli obiettivi dell'amministrazione Biden di placare ulteriormente l'Iran e di creare uno Stato palestinese. Entrambi gli obiettivi rappresentano una minaccia mortale per la sicurezza e l'esistenza di Israele.
   Se questo accordo restituirà la maggior parte degli ostaggi e sconfiggerà Hamas, si dimostrerà che coloro che hanno preso questa fatidica decisione hanno ragione.
   Ma se questo permetterà ad Hamas di risorgere dalle ceneri di Gaza, allora le centinaia di israeliani che hanno perso la vita nel tentativo di fermarli definitivamente avranno compiuto l'estremo sacrificio per nulla; altri israeliani innocenti moriranno e l'Iran scatenerà incessantemente altra morte e violenza contro l'Occidente.
   Il terribile dilemma di Israele con gli ostaggi ricorda le scelte indicibili imposte ai consigli ebraici che amministravano i ghetti in Europa durante l'Olocausto e che furono costretti dai nazisti a stilare liste di persone da deportare nei campi di sterminio o a rischiare l'uccisione di tutti i residenti del ghetto.
   Questa scelta infernale è stata imposta a Israele da una rete di pressioni formata da Yahya Sinwar, dal regime iraniano e, peggio ancora, dall'amministrazione Biden.
   Se la comunità ebraica americana assediata vuole sapere come aiutare al meglio Israele in questo momento terribile, dovrebbe far conoscere ai suoi concittadini ciò che l'amministrazione Biden sta facendo a Israele in loro nome.

(Israel Heute, 25 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il “problema” Israele

di Niram Ferretti

L’informale nasce nel novembre del 2015, otto anni fa, con l’intenzione di fornire ai lettori interessati, in modo documentato e rigoroso, una serie di articoli e interventi sul Medio Oriente, sull’antisemitismo e su tematiche relative al mondo ebraico. La sua attenzione precipua è sempre stato Israele.
   In questi otto anni abbiamo avuto la fortuna di ospitare molti autori, alcuni di fama internazionale, come Daniel Pipes, Robert Spencer, Georges Bensoussan, Bat Ye’or, Benny Morris, e altri, i quali ci hanno permesso di comprendere attraverso la loro corposa conoscenza di temi legati alla storia dell’Islam, al mondo arabo e al conflitto arabo-israeliano, le ragioni e i meccanismi sottesi all’odio nei confronti di Israele. Un odio inflessibile che trae principalmente linfa da quello che uno dei suoi maggiori studiosi, Robert S. Wistrich, definiva “l’odio più persistente”, o “l’ossessione letale”, diventati poi i titoli di due suoi libri seminali dedicati all’antisemitismo.
   Israele è l’unico Stato al mondo al quale i suoi critici più feroci imputano la sua stessa esistenza. Non avrebbe dovuto esistere. Nemmeno durante la Seconda guerra mondiale, o durante il periodo della Guerra fredda, Stati tra di loro implacabilmente antagonisti come la Germania e la Gran Bretagna, o gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, hanno spinto la loro delegittimazione reciproca al punto tale di dichiarare che il proprio nemico non aveva alcun diritto all’esistenza, che il problema fondamentale non stava nei valori o nella visione del mondo di cui era portatore, o nella sua aggressività o disumanità, ma, appunto, nel semplice fatto del suo esistere.
   Il desiderio di cancellare dalla faccia della terra Israele, oggi ufficialmente e programmaticamente dichiarato dall’Iran, e quindi da Hamas, che il 7 ottobre scorso ha dato un assaggio atroce di quello che farebbe con tutti gli ebrei israeliani, uomini, donne e bambini, se potesse farlo, e in passato incarnatosi nel tentativo di realizzarlo da parte dei paesi arabi, non è altro, sostanzialmente, se non la continuazione della convinzione profonda che nutre ogni antisemita genuino; che gli ebrei stessi sono il male e che la loro scomparsa dalla faccia della terra sarebbe un bene per l’intera umanità.
   L’espressione più incandescente e devastante per conseguenze di questa convinzione, si è avuta con l’avvento del nazismo, quando Hitler progressivamente arrivò alla determinazione della Soluzione Finale, atta a “purificare” il mondo dal “male” ebraico e che in Medio Oriente, Amin al Husseini, il Mufti di Gerusalemme, si era incaricato di promuovere.
   Nessuno che non abbia un minimo di senso della realtà, la capacità di guardare le cose senza pregiudizi, sia egli ebreo o non ebreo, non può non vedere che chi considera Israele un “cancro”, una “pestilenza”, un “abominio”, nutre esattamente questa stessa idea: che il “male” ontologico rappresentato dagli ebrei sia passato al loro Stato.
   Certo, viene affermato, ci sono  anche numerosi ebrei che sono critici nei confronti di Israele, e che non ne auspicano la dissoluzione. Ma la critica nei confronti di Israele, quando questa critica non è fondata sulla più vieta demagogia e propaganda, quella secondo la quale in Israele si praticherebbe l’apartheid nei confronti dei palestinesi, come pensava l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, “lottatore per i diritti umani” elogiato da Hamas, o si genociderebbe la popolazione araba che nei decenni non ha fatto che incrementarsi, o che la Giudea e la Samaria sarebbero, contro ogni fondamento storico e giuridico, territori “palestinesi” occupati illegittimamente da Israele, e altro ancora, difficilmente, se non quasi mai, evita questo tipo di retorica e menzogna, fermandosi solo un attimo prima di affermare quello che l’Iran e Hamas dichiarano da decenni, che Israele è una realtà da rimuovere dalla geografia mediorientale.
   Il fatto è, detto brutalmente e senza esitazioni, che quello che fa realmente problema relativamente a Israele, è fondamentalmente proprio questo, la sua esistenza. Va  ammesso a denti stretti, hanno ragione gli antisemiti quando auspicano la sua distruzione o dichiarano che non doveva nascere, perché sanno cogliere con una precisione maggiore e una maggiore onestà intellettuale, il cuore del problema, quello che i critici ideologici camuffano dietro le loro accuse fantasiose e la loro delegittimazione politica.
   L’odio per gli ebrei, the longest hatred per citare ancora Wistrich, si prolunga dunque, inevitabilmente, dentro Israele, ne è la sua fisiologica continuazione, e i numerosi ebrei, tutti immancabilmente di sinistra, che abitualmente criticano Israele, dentro o fuori di esso, affetti, nella migliore delle ipotesi da uno stordimento ideologico che rasenta la patologia o nella peggiore, da una ripugnante malafede, (e i primi a venire in mente nell’un caso o nell’altro, sono quelli di Zeev Sternhell, Illan Pappe, Noam Chomsky, Shlomo Sand, Gideon Levy, Amira Haas), in realtà chiedono a Israele di rinunciare ad essere prima di tutto uno Stato ebraico, poi di difendersi dal nemico concedendogli sempre più credito e legittimità. In altre parole, di rinunciare alla propria identità, di farsi più cedevole e malleabile, di indebolirsi. Gli chiedono, facendosi forti di un umanitarismo e di una democraticità totalmente astratti, del tutto sconosciuti nel mondo arabo e in quello islamico, di venire meno alla sua stessa ragione d’essere. Ma non lo fanno con la capacità di sintesi dura e pura dell’antisemita, il quale, nella sua incarnazione più subdola, afferma, come Ali Khamenei, di non avere nulla contro gli ebrei, vedi alla voce ebrei iraniani, sostanzialmente ridotti a dhimmi, ma di avercela con gli israeliani che, sono, un’altra cosa. Lo fanno in nome dei diritti umani, della presunta difesa del più debole, di chi, cioè, sempre appena ha potuto farlo ha tratto subito vantaggio dalle concessioni ottenute da parte di Israele per poterlo aggredire meglio, come è accaduto con i disastrosi Accordi di Oslo del 1993-1995 o dopo la decisione di Ariel Sharon di lasciare Gaza nel 2005, diventato poi roccaforte di Hamas.
   Il grande rimosso che sta alla base delle critiche pretestuose, inette, diffamanti di costoro, è quello del persistente rifiuto arabo nei riguardi di uno Stato ebraico impiantato in una regione a maggioranza islamica, rifiuto che dura da almeno 100 anni, e che si è dovuto in parte addomesticare, vedi gli Accordi di Abramo, e prima di essi i trattati di pace con l’Egitto e la Giordania, perché ci si è resi conto semplicemente di una cosa, che Israele è più forte, e difficilmente può essere distrutto.
   Distrutto come vorrebbe che fosse l’antisemita doc. La resistenza tenace di Israele è, in questo senso, emblema della resistenza stessa degli ebrei nei secoli, contro i vari tentativi assimilazionisti e poi eliminazionisti, di dissolverne la specificità.

(L'informale, 26 novembre 2023)

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Maledirò chi ti diminuirà

di Marcello Cicchese

 
L'Eterno disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò quelli che ti malediranno. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3).

Questi tre versetti della Genesi possono essere considerati l'incipit di tutto il programma di redenzione di Dio. Soffermiamoci in particolare sulla frase:
    "Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno".
Nell'originale ebraico, per indicare la benedizione in questo testo si usa sempre lo stesso verbo: ברך (barach), mentre per indicare la maledizione sono usati verbi diversi: il "maledirò" di Dio viene espresso con il verbo ארר (arar) mentre il "malediranno" degli uomini viene reso con il verbo קלל (qalal).

La cosa merita attenzione. Riportiamo allora i primi versetti della Bibbia in cui compare il verbo "arar".
    Genesi 3:14 - Allora Dio il Signore disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.
    Genesi 3:17 - Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall'albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.
    Genesi 4:11 - Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano.
Come si vede, sono tre devastanti maledizioni con cui Dio colpisce, nell'ordine, il serpente, la terra e l'omicida.
  Riportiamo poi i primi due versetti della Bibbia in cui compare il verbo "qalal".
    Genesi 8:8 - Poi mandò fuori la colomba per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
    Genesi 8:11 - E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo. Così Noè capì che le acque erano diminuite sopra la terra.
Il verbo "qalal" qui viene tradotto con l'italiano diminuire, che in questo contesto non ha alcun sinistro significato morale ma indica soltanto l'abbassamento del livello dell'acqua.
In senso morale invece il verbo viene usato poco più avanti per rappresentare l'atteggiamento di Agar verso Sara dopo il concepimento di Ismaele:
    Genesi 16:4 - Egli [Abramo] andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di essere incinta, guardò con disprezzo la sua padrona.
L'espressione "guardò con disprezzo la sua padrona" vuol rendere il senso di una traduzione che letteralmente sarebbe "fu diminuita ai suoi occhi la sua padrona". La serva in un certo senso "diminuì" la sua padrona perché cominciò a guardarla dall'alto in basso. Le parti si erano invertite: prima la padrona stava in alto e lei in basso, adesso la padrona sta in basso e lei in alto. E tutto questo senza che nulla sia cambiato nei fatti, ma soltanto "ai suoi occhi". La fertile serva egiziana cominciò a guardare la sterile padrona ebrea con disprezzo, o forse soltanto con compatimento, che è la stessa cosa in forma diversa.
   E' chiaro che con femminile intuito Sara non ci mise molto a capirlo. Conosciamo il seguito della storia: Sara va dal marito e gli dice che da quando Agar si è accorta di essere incinta, "io sono diminuita ai suoi occhi". E poiché la cosa non è sopportabile, invoca il giudizio dell'Eterno. Cosa che poi avviene, come si trova scritto nel seguito del racconto.
   Il testo in questione di Genesi 12 potrebbe allora essere tradotto così, rispettando la figura retorica del chiasmo usata nell'originale:
    Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti diminuiranno io maledirò.
Applicando queste parole al popolo d'Israele, discendenza etnica di Abramo, se ne deduce che per cadere sotto la tremenda maledizione di Dio (arar) non è necessario essere antisemiti militanti: è sufficiente diminuire (qalal) Israele ai propri occhi. Basta tenere nei confronti di Israele un atteggiamento simile a quello di Agar verso Sara: un intimo senso di superiorità, un latente disprezzo che può assumere forma di compatimento quando le cose gli vanno troppo male, un'avversione inespressa che emerge soltanto in occasioni particolarmente vistose, un disinteresse totale che si trasforma in antipatia quando viene disturbato e provoca lo sbuffo: "ma sempre questi ebrei, proprio non se ne può più!"
   Nella maggior parte dei casi la maledizione di Dio non è percepita come tale, anche perché può avere diverse gradazioni di intensità e di tempi che la rendono irriconoscibile agli occhi di chi non è attento alle vie di Dio. Ma è tremendamente reale, perché Dio è una Persona seria: quello che dice, lo fa. Non è come i nostri governanti.
   Le cose non cambiano in ambienti genericamente cristiani. "Diminuire" Israele ai propri occhi con una varietà di argomenti che si presentano come biblici è un fatto che avviene con naturalezza anche tra evangelici, ed esprime quella superbia da cui l'apostolo Paolo (Romani 11:13-32) vuole mettere in guardia i gentili che per grazia di Dio arrivano a credere nel Messia d'Israele come loro Signore e Salvatore. E se la superbia non è riconosciuta come tale, allora non si è più in grado di riconoscere che tanti problemi che affliggono singoli e comunità possono essere aggravati dalla mancanza di una benedizione che avrebbe dovuto esserci, ma non c'è.

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(Notizie su Israele)


 

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Spade di ferro giorno 50. Sospesa la liberazione del secondo gruppo dei rapiti

di Ugo Volli

• Il colpo di scena di Hamas
  Alle sei di stasera Hamas ha comunicato di sospendere la liberazione del secondo gruppo di rapiti, fino a che Israele “continua a violare” i termini dell’accordo. La violazione consisterebbe nel fatto che Israele non consentirebbe ai rifornimenti di arrivare nella parte settentrionale di Gaza (il che è falso perché si sono visti in rete i filmati dei camion dei soccorsi nella città di Gaza) e non consegnerebbe i terroristi condannati in ordine d’anzianità come stabilito. Su questo punto è difficile avere conferme, ma è ovvio che la lista dei detenuti sia stata oggetto di trattative. Al momento non si capisce se Hamas stia facendo un gioco di nervi con Israele o se abbia deciso di rinunciare alla tregua. Funzionari della sicurezza dei Israele hanno dichiarato che “L'organizzazione terroristica di Hamas sa che se i rapiti non verranno rilasciati entro mezzanotte (23 in Italia), torneremo alle azioni militari”.

• Il cessate il fuoco ha funzionato per un giorno
  La tregua provvisoria fra Israele e i gruppi terroristi iniziata ieri mattina alle 7 e giunta ormai alla durata di un giorno e mezzo, per un giorno aveva tenuto. Vi erano state alcune violazioni significative ma minori, alcuni razzi sparati pochi minuti dall’inizio del cessate il fuoco su villaggi nella cintura di Gaza; un missile antiaereo contro un drone israeliano che volava nella baia di Haifa, dunque ben dentro il territorio israeliano, abbattuto a sua volta da antimissili; il tentativo dei terroristi di spingere folle di arabi che si erano rifugiati nella zona meridionale di Gaza a cercare di tornare a casa rendendo di nuovo impossibili le operazioni israeliane, che è stato respinto con un uso molto limitato di armi da fuoco. Ma nel complesso non vi erano state imboscate e attacchi terroristici, anche l’attività del fronte settentrionale e delle squadre palestinesi in Giudea e Samaria era molto diminuito: Hamas si è limitato a uccidere e barbaramente appendere per i piedi a una palizzata due arabi di Tulkarem accusati senza processo di collaborazione con gli israeliani.

• La liberazione dei rapiti
  Ieri sera sono stati liberati come previsto 13 cittadini israeliani rapiti da Hamas, quasi tutti del kibbutz Nir Otz o presi mentre vi erano in visita: Adina Moshe, 72 anni, a cui i terroristi hanno ucciso il marito; Aviv Katz Asher (2 anni), Raz Katz Asher (5), la loro madre Doron Katz Asher, la cui madre Efrat (69 anni) è stata anche assassinata il 7 ottobre; Margalit Moses, 78 anni, in convalescenza da un cancro, carissima amica di Efrat Katz, appena nominata; Danielle Aloni (44 anni) e la sua figlia di sei anni Emelia; Ruthie (72), Keren (55), e Ohad Munder, quest’ultimo ha compiuto in prigionia i suoi 9 anni; Yaffa Adar, 85 anni; Hannah Katzir, 78 anni, di cui era stata annunciata la morte per mano dei terroristi. Si tratta dunque di un gruppo di donne molto anziane e di madri con bambini; nessuna di loro è una combattente o è stata accusata di alcun reato, se non di essere ebree. Accanto a loro, senza richiesta di riscatto, sono stati rilasciati dieci rapiti thailandesi e un filippino. Oggi dovevano essere liberati altri 14 rapiti, un gruppo più o meno con la stessa composizione demografica. Qualunque persona minimamente onesta, quale che sia la sua posizione politica e il suo ruolo istituzionale, dovrebbe riconoscere che il loro rapimento e il loro successivo imprigionamento è un reato gravissimo, uno dei peggiori che si possano commettere. E però, come molte “femministe” non hanno protestato per gli stupri e i femminicidi di massa del 7 ottobre, così illustri docenti universitari e opinionisti non si sono sprecati a condannare il sequestro di persona.

• I terroristi scarcerati
  Per contrasto, nella lista dei prigionieri condannati da regolari tribunali israeliani per gravi reati di terrorismo (anche se sono stati esclusi i terroristi colpevoli di omicidio), che vengono liberati in questi giorni figurano fra le donne Misoun Mussa, condannata a 15 anni per un attacco con accoltellamento nel 2015 contro un soldato israeliano a Gerusalemme; Marah Bakeer, arrestata nell’ottobre 2015 dopo aver accoltellato un poliziotto della polizia di frontiera e condannata a otto anni e mezzo di prigione; Asra Jabas, una palestinese di Gerusalemme Est che ha fatto esplodere un serbatoio di gas sotto la sua custodia a un posto di blocco vicino a Ma'ale Adumim, ferendo un agente di polizia. Vi sono poi 123 ragazzi con meno di 18 anni, fra cui cinque quattordicenni, tutti condannati per atti di violenza che vanno dall’accoltellamento all’investimento automobilistico, al tiro di bombe molotov, al tentativo di omicidio per mezzo di grossi sassi buttati contro i finestrini di automobili in corsa. Ogni equivalenza morale è del tutto improponibile.

• Gli sviluppi politici
  Israele sa che il lavoro di pulizia dal terrorismo della Striscia di Gaza non è affatto terminato e intende riprendere la guerra dopo la fine della tregua per la liberazione dei rapiti, che dura fino a lunedì e può prolungarsi secondo l’accordo per ancora qualche giorno se Hamas sarà disposto a rilasciare altri sequestrati. L’Egitto ha confermato oggi la possibilità di un prolungamento “di un giorno o due”. Al di là dei colpi di scena tattici per alzare il prezzo, l’interesse dei terroristi è certamente opposto: prolungare la tregua per poter ricostruire le forze e riprendere il potere su Gaza, dopo aver ottenuto l’uscita dalla Striscia delle truppe israeliane usando la pressione internazionale. Per questo scopo i nemici palesi e occulti dello Stato di Israele lavorano con forza: non solo i manifestanti in piazza, siano islamisti o ultrasininsitri, ma anche governi e istituzioni internazionali, a partire dall’Onu.

• Il Qatar, il Belgio e la Spagna
  Stamattina è arrivato in Israele una delegazione del Qatar, che appoggia diplomaticamente Hamas, ne ospita i dirigenti, gli fa da altoparlante mediatico con l’emittente internazionale Al Jazeera, ma si è ritagliato un ruolo di mediatore soprattutto grazie all'accondiscendenza americana. Il Qatar dichiaratamente lavora per estendere la tregua e renderla stabile (fino a quando i terroristi non vorranno romperla di nuovo). Israele è costretto ad ascoltarlo, se vuole liberare per via diplomatica qualche altro rapito. Le riunioni sono in corso in vista della scadenza di lunedì. Ieri invece si sono presentati al valico di Rafah due primi ministri dei governi più ostili a Israele, quello spagnolo e quello belga (mancava l’Irlanda per completare il quadro): personaggi politici che non hanno avuto neppure il buon senso o il minimo di ipocrisia di esprimere solidarietà a uno stato aggredito dal terrorismo e ai suoi cittadini massacrati, né hanno pensato bene di visitare Israele, ma sono andati in Egitto in occasione del rilascio dei rapiti solo a far pressione “per la pace”, in sostanza per riconsegnare Gaza ad Hamas. È una posizione moralmente insostenibile e politicamente debolissima (anche se la Spagna ha purtroppo la presidenza di turno dell’Unione Europea fino alla fine dell’anno). Ma bisogna citarla per comprendere i problemi e le pressioni che investiranno Israele nei prossimi giorni per rinunciare a combattere e lasciare la vittoria a Hamas.

(Shalom, 25 novembre 2023)

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Armi mute dopo 50 giorni. Ma la guerra non si ferma

di Fiamma Nirenstein

Non sono sonni tranquilli quelli nella Striscia: nel buio profondo del silenzio delle armi, dopo la liberazione dei primi ostaggi, i soldati di Israele e i terroristi di Hamas seguitano a fronteggiarsi. È un intervallo in cui tutto può succedere, i soldati avvertiti di conservare la massima allerta, sono rimasti tutti ai loro posti dentro il nord e sud di Gaza; i terroristi preparano in segreto le loro prossime mosse, qualsiasi gesto cinico e perverso è possibile. È sempre la guerra fatale nata da una strage mai vista dal popolo ebraico dal tempo della Shoah, e adesso giocata sulla pelle dei sopravvissuti, specie i bimbi piccoli, la carta preferita di Sinwar.
   Inutile illudersi: la tregua non è in vista, solo un intervallo legato agli ostaggi, non si sa per quanti giorni oltre i quattro fissati. L'interruzione delle operazioni di guerra è per Hamas un guadagno che però segnala una sconfitta strategica: contro le previsioni di Sinwar, che si aspettava un'operazione limitata negli scopi e nel tempo come per le guerre precedenti, Israele ha cambiato volto. La decisione è stata quella di combattere una guerra di sopravvivenza che non consenta mai più a Hamas di conservare il suo potere sul territorio e la gente di Gaza. Fino ad ora il nord, centro decisionale strategico, è stato circondato, Sheik Jilin, Shati, Beit Hanun, Rimal e parte di Zeitun e Jabalia sono state conquistate. Le unità che le dominavano sono state eliminate, e così buona parte della leadership intermedia. I dieci battaglioni nel nord non esistono più. È difficile contare quanti dei membri delle 140 compagnie composte ciascuna da 100 armati sono stati cancellati, ma il panorama urbano è un incredibile spettacolo di devastazione, i rifugi, le abitazioni e le armi sono a pezzi. La ragnatela di tunnel sotto gli ospedali, così da garantire la protezione di scudi umani, la grande invenzione di Hamas, è stata in gran parte scoperta, e sgomberata di armi e uomini. Prima del cessate il fuoco l'esercito ha fatto saltare gli ingressi per impedire che gli uomini di Sinwar tentino di tornare a prendere possesso del nord e dei loro covi. Hamas ha chiesto di tornare a nord alla massa sfollata a sud dopo che Tsahal aveva chiesto di lasciare le zone di guerra; ci sono stati dei tentativi di tornare a nord fermati dall'esercito che ha fatto due morti.
   Sinwar ha dunque accettato lo scambio costretto da una clamorosa sconfitta sul campo, anche a vedere indietreggiare gli amici che si aspettava intervenissero, dall'Iran agli Hezbollah a Assad fino agli iracheni che insistono solo nel bombardare le basi americane. Adesso Hamas cercherà di prolungare il silenzio e il divieto di sorveglianza aerea manipolando con la vita degli ostaggi il calendario e l'opinione pubblica israeliana e mondiale. Spera di riorganizzarsi e di spingerla sulla strada della tregua che consentirebbe all'organizzazione jihadista più pericolosa del mondo di restare in possesso di Gaza. Sinwar giocherà qualsiasi carta: ci saranno pesanti provocazioni per esporre Israele alla disapprovazione pacifista, azioni cosmetiche come quella di liberare 10 thailandesi e una filippina. Ma Israele, pure nell'indicibile emozione del successo, per niente scontato, nel mettere i cittadini al primo posto, specie i bambini, sa che la maggioranza deve ancora tornare, e che i soldati restano per ora sulla sabbia di Gaza, finché Hamas non sia sconfitto.

(il Giornale, 25 novembre 2023)

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Solo due persone in questa strada sono sopravvissute"

Sette settimane dopo il 7 ottobre, non tutti i corpi sono stati identificati nel kibbutz Kfar Asa. Solo pochissimi dei sopravvissuti pensano di tornare.

di Valentin Schmid*

Una casa distrutta nel kibbutz Kfar Asa
Non sono solo le macerie a rendere difficile camminare per le strade di Kfar Asa. Anche la vista è insopportabile. Lungo alcune case a schiera, spezie e bottiglie d'olio sul pavimento suggeriscono che gli appartamenti nella zona d'ingresso avevano le loro cucine. Ma non c'è odore di cibo, bensì di cenere e di bruciato.
In un soggiorno, i mobili, le pareti e il soffitto sono disseminati di così tanti fori di proiettile che è quasi impossibile contarli. Accanto c'è la camera da letto, piena di vestiti e biancheria intima. Molti dei residenti sono stati massacrati nei loro letti.
Il soffitto di un soggiorno disseminato di fori di proiettile
"Qui vivevano quasi solo giovani", racconta un soldato israeliano. "Singoli, studenti e famiglie". Fissa una grande pozzanghera tra le macerie. "Solo due persone in questa strada sono sopravvissute. Non si sa come, ma in qualche modo ce l'hanno fatta".
È una coincidenza che Hamas abbia imperversato qui il 7 ottobre? Una mappa satellitare di Kfar Asa, trovata sul corpo di un terrorista morto, suggerisce il contrario. Mostra una scuola elementare, un centro giovanile e altri punti particolarmente dolenti.

• “I NUMERI CAMBIANO RAPIDAMENTE"

Israel Lender ha potuto lasciare il suo bunker solo a mezzogiorno dell'8 ottobre.
"Nel kibbutz abbiamo le nostre forze di sicurezza", spiega Israel Lender. Ma la maggior parte di loro è stata colpita mentre si recava all'armeria comune. "Sono morte 63 persone, 18 sono state rapite". In seguito, persone provenienti da Gaza sono arrivate con borse e secchi per saccheggiare le case di Kfar Asa. Siamo rimasti nel bunker per 36 ore. Sentivamo la nostra gente che veniva uccisa attraverso la finestra. Ogni urlo era come se mi entrasse nel cuore", ha dichiarato il 66enne. "Non ho abbastanza parole per spiegarvelo".
Una portavoce dell'esercito interviene. C'erano state almeno tre avanzate contro il kibbutz. Hamas era arrivato con parapendio, moto e camion per uccidere i 53 civili. "No, 63!", interviene Israel Lender. "I numeri cambiano rapidamente", riassume il portavoce dopo una breve discussione. E infatti gli archeologi sono ancora al lavoro a Kfar Asa, setacciando le ceneri delle case bruciate alla ricerca di resti umani.

• O LORO O NOI"

Anche le ceneri vengono ancora setacciate per cercare tracce delle vittime
A pochi metri di distanza, Hanan, 39 anni, si trova tra i resti della sua vecchia vita. "Ho preso l'abitudine di venire qui ogni settimana per pulire il mio giardino". Indossa una maglietta bianca con scritte rosse: "Kfar Asa è la nostra casa".
All'improvviso, un forte botto squarcia il silenzio, ma Hanan non si scompone. "È solo l'artiglieria dell'esercito israeliano". Con il tempo ha imparato a giudicare la situazione dai suoni. Colpi di mortaio da Gaza, difesa missilistica israeliana: tutto questo fa parte della sua vita.
Il suono dei kalashnikov la mattina del 7 ottobre era nuovo. "Le camere di sicurezza sono progettate per
Solo con il cuore pesante Hanan può visitare la sua vecchia casa
proteggere dalle bombe, non dai terroristi. Le porte non possono essere chiuse a chiave, in modo che le squadre di soccorso possano far uscire le persone".
Hanan non riesce più a immaginare di vivere accanto ai suoi "vicini di Gaza". "Ora o loro o noi". Sottolinea più volte di non essere un estremista politico. Ma questo giorno ha cambiato tutti.
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* Valentin Schmid studia attualmente all'Università Ebraica di Gerusalemme.

(Israelnetz, 25 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Nel mondo ipnotizzato dalla propaganda l’antisemitismo dilaga senza far rumore

di Riccardo Ruggeri 

«Questo è un mondo in tranche!». Questa frase la pronunciò nel 1938 Leopold Schwarzwild, editore della più importante rivista tedescofona dell'esilio francese Ntb (Das Neue Tage-Buch) in un colloquio con Oscar Levy, ebreo, medico, intellettuale tedesco, in esilio per tutta la vita (ebbe il passaporto Nansen N°1 per gli apolidi perenni). Proprio in quell'anno, pochi mesi prima della Notte dei cristalli, cioè un anno prima dell'inizio della Shoah, scrisse una lunga lettera (aperta) ad Adolf Hitler. Levy, come massimo esperto del pensiero di Friedrich Nietzsche (tradurrà la sua opera omnia in 14 volumi in inglese e parteciperà alla sua edizione nel Regno Unito), con un tono al contempo veemente e pacato, impartisce a Hitler una lezione sul pensiero di Nietzsche (del quale i nazisti si erano impossessati). 
   E invita perentoriamente lui e i suoi compari nazi a lasciare il «giardino» di una filosofia che loro non avrebbero mai potuto capire! La frase finale di commiato di Oscar Levy è superba «Quando abbandonerete il nostro giardino, Herr Hitler, lo farete in pace e immune dalle nostre maledizioni e urla di vendetta. Noi non vogliamo la vostra vita, vogliamo semplicemente che ve ne andiate. Ma dovete farlo! mein Führer, posso accompagnarvi alla porta?», La frase chiave della lettera per me è però un'altra. Questa: «Come voi sapete, e dite bene nel Mein Kampf, la propaganda deve essere limitata e insensata per avere un successo sorprendente fra le masse». Una «propaganda limitata e insensata» è stato il vero lascito politico-culturale di Hitler. Se ne sono impossessati tutti i regimi successivi, vuoi criminali, o totalitari, o democratici, vuoi di destra, di sinistra, di centro, e questo modello è tuttora dominante. Lo abbiamo visto anche nel caso HamasPalestina- Israele. Siamo stati e siamo tuttora immersi in una orrenda propaganda, «limitata ma insensata». 
   In lingua italiana, questa lettera la trovate solo su un libriccino pubblicato in Canton Ticino (Edizioni Casagrande) insieme alla famosa «Lettera Gemlich» (16 settembre 1919) che Hitler soldato inviò al suo superiore gerarchico, Adolf Gemlich appunto, per illustrargli «l'avversione di ampi settori popolari verso l'ebraismo» sulla cui analisi da parte dell'esercito non era d'accordo. Lui era molto più radicale. Sosteneva che «l'antisemitismo come movimento politico non deve e non può essere determinato da moti emotivi, ma dalla conoscenza dei fatti». Che poi li sintetizza in tre punti. Più che fatti, paiono, e lo saranno, sentenze. Saranno la traccia del Mein Kampf . Leggendo questo libretto rosso (74 pagine, 12 franchi) capirete dell'antisemitismo molto di più che non della caterva di articoli, pseudo manifesti, reportage, libri, interviste, talk show, documentari, film, dai quali dal 7 ottobre siamo invasi. Non sono certo tutte «fake news», ma tutte sono «fake truth», perché qualcosa ci viene o nascosto o manipolato, cambiandone segno e significato (propaganda in purezza). 
   L'antisemitismo lo trovi non solo nel mondo islamico, non solo nelle ideologie sunnite o sciite, ma in tutte quelle occidentali, dal nazismo, al fascismo, al comunismo, al maoismo, al liberalismo, al recentissimo cancel-wokismo. Lo trovi fra i poveri, lo trovi nell'Accademia, e pure nei banchieri, nelle periferie, nelle zone residenziali, nelle Ztl. Un'oscena chicca! In Germania (sic!), la direttrice di un asilo ha chiesto di cambiare il nome «Anne Frank» per darne uno nuovo «più adatto ai bambini e che non urti la sensibilità dei loro genitori». L'antisemitismo è un virus pestifero, per ora, senza vaccino o cura. Lo gestiamo, da 2.000 anni, con «chiacchiere furbastre e vigile attesa (ultimamente molto scarsa)», 
   Siamo nel 2023, sono passati 85 anni da allora, e non trovo alcun'altra definizione che: «Questo è un mondo in tranche!» L'Occidente starà mica buttando via un altro secolo per colpevole insipienza?  

(La Verità, 25 novembre 2023)

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La convergenza eco-islamica

di Davide Cavaliere

Il sindaco arabo di Hebron, Tayseer Abu Sneineh, già condannato da Israele per aver preso parte, nel 1980, all’attacco terroristico alla yeshiva della città di cui ora è primo cittadino, attentato che causò la morte di sei civili, nel novembre dello scorso anno, per risolvere il problema del randagismo, ha offerto ai suoi cittadini una ricompensa di 20 shekel per ogni cane ucciso.
   Gli arabi di Hebron hanno svolto l’orribile lavoro a loro assegnato con grande entusiasmo, non solo uccidendo i cani, ma anche, e senza alcun costo aggiuntivo per il sindaco, torturandoli. Gli assassini, fieri e orgogliosi della loro crudele opera, hanno condiviso i filmati delle atrocità commesse sui social media. 
   Poco meno di un anno dopo, gli arabi-palestinesi avrebbero riservato il medesimo trattamento agli ebrei residenti nel sud d’Israele. Torturare cani o persone è un vero piacere per molti di loro, che crescono in un mondo saturo di violenza e odio. 
   L’uccisione dei cani, spesso attraverso carne avvelenata, è una pratica ampiamente diffusa nei comuni dell’Area A della Cisgiordania, quelli sotto controllo «palestinese», dove grandi quantità di cibo avvelenato vengono impiegate per uccidere centinaia di randagi, che muoiono così tra grandi sofferenze. 
   La mattanza dei cani non è l’unico crimine commesso dagli arabi contro gli animali. Nel 2019, attraverso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari, gli «innocenti» di Gaza provocarono vasti incendi nel sud d’Israele, mandando in fumo terreni agricoli e riserve naturali. Moltissimi animali, tra cui antilopi Ibex, gazzelle, coyote, roditori, farfalle e linci, che non si trovano in nessun’altra parte del mondo, perirono arsi vivi.  
   Gli arabi-palestinesi hanno fatto anche un notevole uso di cani e asini «kamikaze». I poveri animali vengono imbottiti di esplosivo e fatti avvicinare ai soldati israeliani con l’intento di compiere una strage.
   L’IDF si è imbattuto, per la prima volta, in un attacco terroristico portato da animali nel giugno del 1995, quando un terrorista palestinese si avvicinò a una postazione dell’esercito, a ovest di Khan Yunis, guidando un carretto trainato da un asino carico di esplosivo e lo fece esplodere. Il palestinese morì, ma per fortuna i soldati israeliani rimasero illesi. Hamas rivendicò l’attacco. 
   L’episodio più clamoroso avvenne però nel 2009, al valico di Karni, fra Gaza e Israele: le truppe israeliane furono sorprese da diversi cavalli lanciati al galoppo verso di loro, su ciascuno dei quali era stato applicato dell’esplosivo. 
   Nessuna voce si è alzata dal movimento ambientalista per denunciare queste pratiche. Un silenzio che non sorprende, dato che, da almeno vent’anni, si è consolidata un’alleanza tra la sinistra post-comunista, l’islamismo e la galassia ecologista. 
   Sono numerosi i rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste che hanno rilasciato dichiarazioni anti-israeliane e filopalestinesi. Il «verde» francese Patrick Farbiaz prese parte a manifestazioni islamiste a sostegno di Hamas. Politici vicini ai Verdi come Albert Jacquard e Daniel Cohn-Bendit hanno legittimato i terroristi suicidi della seconda Intifada. Il decano delle lotte ambientaliste in Francia, José Bové, incontrò Yasser Arafat e affermò che gli attacchi contro le sinagoghe francesi avvenuti nel biennio 2000-2002 fossero orchestrati dal Mossad. 
   Il Partito tedesco dei verdi, Die Grünen, è stato fondato nel 1979 da Petra Kelly, una convinta antisionista molto vicina al colonnello Gheddafi e al gruppo terroristico marxista-leninista «Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina», di cui faceva parte Leila Khaled, la dirottatrice di aerei recentemente chiamata a tenere una «lezione» nei locali «occupati» dell’Università di Torino. 
   Il livello di antisemitismo presente nei Grünen era talmente preoccupante che Simon Samuels, dirigente internazionale del Simon Wiesenthal Center, già nel 1983, manifestò una notevole apprensione. 
   Da ultima, Greta, la leader dei «Fridays for Future», ha espresso il proprio sostegno ai palestinesi, dunque ad Hamas, mentre altri membri del suo gruppo sproloquiavano circa l’assenza di una «giustizia climatica» nei Territori «occupati» da Israele.  
   Il movimento ambientalista, fin dalla sua nascita, ha visto riciclarsi al suo interno numerosi membri dell’estrema sinistra antisionista, che hanno usato il tema del «riscaldamento globale» per portare avanti un’agenda avversa a Israele, considerato capitalista, di conseguenza responsabile della devastazione ambientale, e alleato degli Stati Uniti, ritenuti invece, a torto, colpevoli del «cambiamento climatico». 
   Gli ambientalisti occidentali sono stati corteggiati persino da Osama Bin Laden. L’ormai defunto capo di al-Qaeda, nel suo celebre «messaggio al popolo americano», che in queste settimane ha ripreso a circolare in rete, fece riferimento proprio al «riscaldamento climatico» e al rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto per legittimare il suo operato. 
   Gli ambientalisti, ossia i vecchi anticapitalisti, indirizzano le loro critiche solo alle democrazie occidentali, occultando deliberatamente le violenza sugli animali e i disastri ambientali causati dai loro beniamini arabo-palestinesi. Il verde degli ecologisti è una sfumatura del verde degli islamisti. 

(L'informale, 25 novembre 2023)

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Portacontainer israeliana attaccata nell’Oceano Indiano

Una nave portacontainer di proprietà di un miliardario israeliano è stata attaccata da un drone che si sospetta essere iraniano nell’Oceano Indiano.
   Secondo fonti di intelligence la nave portacontainer CMA CGM Symi battente bandiera maltese è stata presa di mira da un drone Shahed-136 a forma di triangolo, una vera bomba volante, mentre si trovava in acque internazionali. Il drone è esploso, causando danni alla nave senza tuttavia ferire nessuno dell’equipaggio.
   Al-Mayadeen, un canale satellitare panarabo politicamente alleato con il gruppo militante libanese Hezbollah, sostenuto dall’Iran, ha riferito che una nave israeliana era stata presa di mira nell’Oceano Indiano. Il canale ha citato fonti anonime per la notizia, che i media iraniani hanno poi citato.
   La CMA CGM, un importante spedizioniere con sede a Marsiglia, in Francia, non ha al momento confermato l’attacco. Tuttavia, l’equipaggio della nave si è comportato come se ritenesse che la nave fosse minacciata.
   Infatti, secondo i dati di MarineTraffic.com, la nave aveva il tracker del sistema di identificazione automatica spento da martedì, quando ha lasciato il porto Jebel Ali di Dubai. Le navi dovrebbero mantenere attivo l’AIS per motivi di sicurezza, ma gli equipaggi lo spengono se sembra che possano essere prese di mira. La nave aveva fatto lo stesso in precedenza, mentre attraversava il Mar Rosso passando per lo Yemen, patria dei ribelli Houthi sostenuti dall’Iran.
   “È probabile che l’attacco sia stato mirato, a causa dell’affiliazione israeliana della nave attraverso la Eastern Pacific Shipping”, ha dichiarato la società privata di intelligence Ambrey. “Le trasmissioni AIS della nave erano disattivate giorni prima dell’evento, il che indica che questo da solo non impedisce un attacco”.
   La Symi è di proprietà della Eastern Pacific Shipping, società con sede a Singapore, controllata in ultima istanza dal miliardario israeliano Idan Ofer.
   Nel novembre 2022, la petroliera Pacific Zircon, battente bandiera liberiana e anch’essa associata alla Eastern Pacific, ha subito danni in un sospetto attacco iraniano al largo dell’Oman.
   La missione iraniana presso le Nazioni Unite non ha risposto a una richiesta di commento. Tuttavia, Teheran e Israele sono impegnati da anni in una guerra ombra in Medio Oriente, con alcuni attacchi di droni che hanno preso di mira navi associate a Israele che viaggiavano nella regione.
   In questa guerra tra Israele e Hamas, iniziata con l’attacco dei militanti del 7 ottobre, gli Houthi hanno sequestrato una nave per il trasporto di veicoli nel Mar Rosso, al largo dello Yemen. Anche le milizie sostenute dall’Iran in Iraq hanno lanciato attacchi contro le truppe americane sia in Iraq che in Siria durante la guerra, sebbene l’Iran stesso non sia ancora stato collegato direttamente a un attacco.

(Rights Reporter, 25 novembre 2023)

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Boualem Sansal: “Il pericolo di attacchi agli ebrei in Europa è altissimo”

“Per l’islamismo, Hamas è come il Saladino che sconfigge i crociati”. Parla il celebre romanziere algerino finito “su tutte le liste nere”, in patria e a Parigi, per aver firmato l’unico grande appello di personalità islamiche in difesa di Israele.

di Giulio Meotti

“Per il mondo arabo e musulmano il 7 ottobre rappresenta una vittoria immensa, grande quanto la vittoria di Saladino contro il re di Gerusalemme che il 2 ottobre 1187 rese la città tre volte santa all’islam fino al 1948. La data va segnalata, è simbolica”. Così parla al Foglio il celebre romanziere algerino Boualem Sansal, l’autore di “2084” e altri romanzi di successo (in Francia per Gallimard, in Italia per Neri Pozza) e finito “su tutte le liste nere”, in patria e a Parigi. Sansal sull’Express ha firmato l’unico grande appello di personalità islamiche in difesa di Israele. “Il 7 ottobre ha dimostrato che Israele non era più invincibile e che un pugno di mujaheddin  poteva distruggerlo, spezzare l’unità del paese e insediare permanentemente la sua popolazione nel terrore” continua Sansal. “Ha cancellato in un colpo solo tutte le umiliazioni politiche e militari subite dagli arabi, a partire dalla ‘Nakba’ e dalle guerre perdute che seguirono del 1948, 1967 e 1973. I bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza hanno mobilitato il mondo arabo e l’opinione internazionale attorno ai palestinesi e ad Hamas, ieri vista da tutti come un’organizzazione terroristica asservita all’Iran. L’attentato del 7 ottobre ha chiuso definitivamente Israele nella trappola di infinite rappresaglie, esponendolo così alla tentazione  di ripristinare la propria invincibilità e sfuggire alla stessa umiliazione. Infine, il 7 ottobre farà uscire l’islam dal vittimismo e dalla miseria in cui è sprofondato per decenni e gli restituirà l’immagine gloriosa che aveva al tempo delle grandi conquiste dal VII al XII secolo”.
   Israele resta, per usare le parole di un re del Marocco, l’afrodisiaco del mondo islamico. “Dopo la perdita dell’Andalusia e la caduta dell’Impero Ottomano, i musulmani hanno visto nell’occidente cristiano il responsabile della loro caduta nella divisione e nella miseria”. 
   Ma l’umiliazione è tornata nel 1948, ci spiega Boualem Sansal. “ Creando lo stato di Israele nel cuore di questo medio oriente arabo-musulmano, sostenendolo politicamente e militarmente, l’occidente ha concentrato la rabbia e la vergogna degli arabi su Israele, i cui successi si sono aggiunti alla loro sensazione di essere la vergogna del mondo. C’è poi la religione, il Corano, che condanna espressamente gli ebrei e ne ordina la distruzione, cosa che gli islamisti prendono alla lettera”. 
   In Europa intanto gli ebrei “scompaiono”, si tolgono i simboli dell’identità, per non essere presi di mira. “ L’esplosione dell’antisemitismo, un antisemitismo sempre più sfacciato, è una delle conseguenze più preoccupanti del 7 ottobre. Il rischio di attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo è rosso. Il 7 ottobre susciterà vocazioni ovunque, ogni apprendista islamista vorrà la sua guerra, la sua vittoria, i suoi ostaggi e vorrà fare, se possibile, meglio di Hamas. Il rischio di un incendio in Europa è molto grande, dobbiamo prenderlo sul serio ed evitare che  divampi perché poi nulla lo fermerà. L’Europa è troppo debole, troppo divisa, troppo incoerente per raggiungere questo obiettivo. Russi e cinesi sono alla ricerca di un aiuto per spostare l’ordine mondiale a loro favore”. 
   Intanto pezzi dell’opinione pubblica occidentale scandiscono slogan come “Palestina libera dal fiume al mare”. “C’è un adagio algerino che dice, per prendere in giro questi ricchi approfittatori, che ‘imparano le acconciature sulle teste degli orfani’” dice Sansal. “Poiché non sanno più pensare alla propria società o essa non vuole più le loro lezioni, diventano guide tra i poveri dove credono di costruire un destino profetico e di brillare a buon mercato. Questo è ciò che ha fatto la sinistra in Francia. Quando ha perso l’ancoraggio nella società, è andata a reclutare tra i migranti, dei quali in realtà non le importa, li vede solo come schede elettorali. Il danno che questi benpensanti arrecano al loro paese è immenso, essi contribuiscono a minimizzare il pericolo islamista e ne aiutano l’espansione nel loro paese. In Francia sono stati all’origine del ricongiungimento familiare degli emigranti che ebbe l’effetto di decuplicare la popolazione musulmana in Francia e di impedire il successo delle politiche di integrazione. Si formarono così dei ghetti che, nel tempo, evolsero verso l’islamismo, la radicalizzazione e il separatismo. Questi pensatori hanno dimostrato di essere molto più pericolosi per l’Europa degli islamici radicali. È anzitutto contro di loro e contro la loro ideologia, coscienza e compagnia, che dobbiamo combattere. Senza il loro aiuto, gli islamisti non potrebbero resistere alla complessità della società moderna. In Francia sono responsabili di attentati commessi da islamisti che hanno causato centinaia di morti”.

Il Foglio, 25 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 49. La tregua

di Ugo Volli

• È iniziato il cessate il fuoco
  La “tregua breve” fra Israele e Hamas è entrata in vigore stamattina alle 7 (ora di Israele, cioè le 6 secondo il fuso orario italiano): gli aerei dell’aviazione militare israeliana hanno cessato i bombardamenti e anche del tutto i voli nella parte meridionale della Striscia, le truppe di terra hanno cessato di avanzare, attestandosi dietro una linea che corre a sud della città di Gaza. Israele ha distribuito manifestini e video che ammoniscono gli abitanti di Gaza sfollati al sud “per il loro interesse” di non cercare di risalire oltre questa linea, perché “la guerra non è finita e la parte settentrionale della Striscia è una zona di operazioni pericolosa”. Questo tema è certamente problematico, perché Hamas spingerà la popolazione rifugiata al sud a cercare di ritornare a casa, per avere copertura ai propri miliziani e anche per creare imbarazzo a Israele. Già subito dopo l’inizio della tregua vi sono notizie di gruppi di abitanti che cercano di rientrare a Beit Hanun, la località a nord-est di Gaza, immediatamente di fronte a Sderot. Probabilmente non vengono dal sud ma escono da nascondigli e rifugi vari, e certamente costituiscono una difficoltà sia sul piano umanitario che su quello militare. È probabile che nella parte settentrionale di Gaza qualche attività militare continui, come l’esplorazione e la distruzione delle gallerie di attacco dei terroristi. Proprio su questo punto vi era stato l’intoppo delle trattative che avevano provocato un giorno di ritardo nell’inizio della tregua. Vi è stata peraltro subito, appena un quarto d’ora dopo l’inizio, una violazione della tregua da parte di Hamas, che ha sparato alcuni razzi in direzione di villaggi israeliani a est della città di Gaza. Ma si tratta di un incidente giudicato minore da Israele, in qualche modo previsto perché i terroristi hanno sempre cercato di essere gli ultimi a sparare in circostanze analoghe, che non interrompe il cessate il fuoco.

• Gli ostaggi
  Se il cessate il fuoco terrà, questo pomeriggio alle 16 locali (le 15 italiane) al valico di Rafah fra Gaza ed Egitto, la Mezzaluna Rossa (versione locale della Croce Rossa) consegnerà ai militari israeliani tredici dei rapiti (donne e bambini) che avranno ricevuti dai terroristi, e saranno immediatamente portati in Israele e ricoverati in ospedale per le cure mediche e psicologiche del caso. Le loro famiglie sono state avvertite ieri, quando l’accordo è stato completamente definito, ma le loro identità saranno comunicate al pubblico solo dopo il ricovero, per garantire la tranquillità loro e delle famiglie. Dopo la conclusione del trasferimento, nel tardo pomeriggio, Israele libererà trentanove fra donne e minorenni, colpevoli di reati connessi al terrorismo, come accoltellamenti e tentativi di investimenti automobilistici, ma non di omicidi, che sono stato già individuati e trasferiti vicini al luogo dello scambio. Si tratta di una proporzione di tre a uno, che riduce molto le pretese iniziali di Hamas e non ha paragoni con quello che accadde per Gilad Shalit, quando oltre 1300 terroristi furono scambiati per il caporale israeliano sequestrato da una torre di guardia dentro il territorio di Israele. È interessante però considerare che anche questa proporzione dello scambio è stata rimproverata allo stato ebraico. Gira per la rete il video di uno scambio di domande e risposte fra una giornalista di CNN e un portavoce militare israeliano, in cui la corrispondente americana chiede all’ufficiale di spiegare il carattere “razzista” di questi numeri, i quali proverebbero addirittura che Israele considera la vita degli arabi tre volte inferiore a quella degli ebrei. Come se la scelta di liberare terroristi che probabilmente torneranno a compiere nuovi crimini, il che è quasi sempre accaduto per quelli scarcerati in passato per scambi analoghi, fosse una scelta di Israele e non il risultato di un ricatto da parte di Hamas.

• L’ultima giornata prima della tregua
  I combattimenti di ieri sono stati particolarmente aspri. Gli aerei israeliani hanno bombardato diverse centinaia di obiettivi, le forze di terra hanno continuato a dare la caccia ai terroristi nei loro nascondigli, la marina ha individuato e eliminato il comandante delle forze navali di Hamas. Vi sono stati anche scambi intensi al nord con Hezbollah (che non ha partecipato alle trattative della tregua, ma ha annunciato di volerla rispettare) e nuove operazioni di sicurezza in Giudea e Samaria, in particolare a Nablus (Shechem), che non sono comprese nella tregua. La marina americana ha di nuovo intercettato un missile proveniente dallo Yemen. Sempre dagli Houti era stato sparato in precedenza un missile da crociera diretto a Eilat e abbattuto da un caccia israeliano.

• Che cosa succede ora
  Se la tregua verrà rispettata, la liberazione di bambini e delle loro madri e di qualche altra donna rapita dai terroristi in cambio di giovani non ancora maggiorenni ma già coinvolti in reati di sangue avverrà ancora per i prossimi tre giorni con le stesse modalità. L’aviazione israeliana continuerà a non effettuare missioni di bombardamento e si asterrà anche in certi orari dalle missioni informative al Nord della striscia (e del tutto al Sud). È prevista la possibilità di un’estensione di ancora qualche giorno, fino a cinque, se Hamas renderà disponibili altri rapiti da liberare. Alla fine di questa tregua, lunga nel caso più esteso a nove giorni, Israele intende riprendere la pulizia di Gaza dal terrorismo e ha ottenuto per questo il consenso degli Usa. Ma è chiaro che Hamas farà di tutto perché questo non accada e dobbiamo attenderci una forte pressione politica internazionale, con manifestazioni, pronunciamenti di autorità e prese di posizioni di vari stati, in questa direzione.

(Shalom, 24 novembre 2023)

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Il Mossad ha l’ordine di eliminare i capi di Hamas ovunque si trovino

di Sarah G. Frankl

Mentre a Gaza è entrata in vigore la tanto attesa tregua umanitaria che porterà alla liberazione di un certo numero di ostaggi, da una conferenza stampa del gabinetto di guerra si apprende che la tregua non riguarda la caccia ai capi e ai mandanti della strage del 7 ottobre.
   Nella conferenza stampa, tenutasi a Tel Aviv insieme ai membri del gabinetto di guerra, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato di aver “già dato istruzioni” all’agenzia di spionaggio Mossad di colpire i capi di Hamas “ovunque si trovino”.
   Il premier lo ha detto dopo che un giornalista ha menzionato una notizia di Kan che affermava che Ismail Haniyeh e Khaled Mashaal sono “euforici” per la guerra e si aspettano di continuare a governare Gaza dopo la sua fine.
   Alla domanda se la tregua, che durerà quattro giorni ma potrebbe essere prolungata di qualche altro giorno, si applichi per colpire i capi di Hamas – un presunto riferimento a quelli all’estero – Netanyahu ha detto che non c’è “nessun obbligo di questo tipo”.
   Il ministro della Difesa Yoav Gallant è intervenuto per dire che tutti i leader di Hamas sono dei morti che camminano. “Gallant ha detto che i capi del terrore hanno i giorni contati. “La lotta è mondiale: Dagli uomini armati sul campo a quelli che si godono jet di lusso mentre i loro emissari agiscono contro donne e bambini – sono destinati a morire”.
   Spiegando le ragioni dell’accordo con Hamas, che vedrà il rilascio di circa 50 ostaggi israeliani – bambini, madri e altre donne – Netanyahu ha detto che le persone detenute a Gaza hanno un “coltello alla gola” e che è responsabilità di Israele salvarle.
   Netanyahu ha detto che questo è il compimento del comandamento religioso di riscattare gli ostaggi. Ha detto che questo è stato fatto nel corso della storia ebraica attraverso operazioni militari, ma che a volte queste non erano possibili. Il premier ha descritto la restituzione degli ostaggi come una “missione sacra”.
   Netanyahu ha sottolineato che l’establishment della sicurezza ha appoggiato all’unanimità l’accordo, affermando che non danneggerà gli obiettivi militari e potrebbe addirittura farli avanzare – anche se non ha detto come.

(Rights Reporter, 24 novembre 2023)

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Volontari offrono aiuto nella raccolta

La raccolta nel sud di Israele risente della guerra contro Hamas. Ma i volontari stanno dando una mano, comprese le guide turistiche di lingua tedesca. Un reportage sul campo.

di Gundula Madeleine Tegtmeyer

Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio WhatsApp dal gruppo di guide turistiche di lingua tedesca in Israele, fondato qualche anno fa dalle guide turistiche Uriel Kaschi e Schmuel Kahn. Anch'io ho completato con successo i miei studi all'Università Ebraica di Gerusalemme e sono una guida turistica con licenza statale in Israele.
   Nell'SMS, Uriel e Schmuel ci chiedono di offrirci volontari il più possibile per la raccolta di jojoba nel Kibbutz Netiv HaLamed-He. Spontaneamente accetto.
   Riaffiorano ricordi. In gioventù ho vissuto per diversi anni nei kibbutzim Nir Eliahu e Ramat HaKovesch e ho anche lavorato nei campi. Non vedo l'ora di trascorrere una giornata nella terra, dando un contributo significativo in tempi di guerra contro Hamas, visto che migliaia di lavoratori stranieri del raccolto hanno lasciato Israele.
   Come se non bastasse, anche molti kibbutznik sono stati richiamati come riservisti. Netiv HaLamed-He si trova in una posizione idilliaca nell'Emek Elah, la valle dove, secondo la Bibbia, il giovane Davide combatté con successo il gigante Golia con una fionda. È giovedì sera e la nostra operazione di raccolta volontaria è stata coordinata con la direzione del kibbutz per lunedì.

• Cambio di programma

Volontari aiutano nella raccolta
Due giorni dopo, il sabato, Motza'ei Shabbat, la "partenza dello Shabbat", riceviamo un messaggio WhatsApp da Uriel: i piani sono cambiati con poco preavviso, ora andremo alla fattoria biologica Meschek Michaeli nel sud di Israele. Va bene, penso tra me e me, e confermo a Uriel che ci sto. Uriel aggiunge poi che la fattoria biologica si trova nelle immediate vicinanze di Sikim. Sikim? Ho bisogno di un momento per riordinare le idee, questo nome scatena brutti ricordi.
   Il 7 ottobre 2023, i terroristi di Hamas hanno attraversato il mare in territorio israeliano e hanno attaccato la base militare Bahad 4 e il kibbutz Sikim. Nel massacro sulla spiaggia di Sikim, Hamas uccise diversi civili e soldati e ne ferì decine.
   I terroristi di Hamas sono avanzati verso il kibbutz ma sono stati respinti da civili armati, alcuni dei quali erano ufficiali fuori servizio. Gli scontri nei pressi del kibbutz sono continuati anche dopo il 7 ottobre.
   La mia mente corre. Provo un certo disagio all'idea di essere così vicina a Gaza. Annullare la mia partecipazione? No, se è solidarietà, quando, se non ora? Dopo qualche minuto, mando un messaggio a Uriel e gli dico che verrò con lui in Sikim.
   Dopo una breve parentesi a Gerusalemme, sono di nuovo a Mevasseret Zion, un sobborgo della capitale. Posso raggiungere la vicina foresta a piedi in 5 minuti, e questo era uno dei motivi per cui volevo davvero tornare a Mevasseret Zion: la vicinanza alla natura.

• Superare lo shock
   Dopo i massacri e i rapimenti di Hamas a Gaza, come molti altri, non sono quasi mai uscita dalla porta di casa. Lo shock delle atrocità è stato profondo. Ho dovuto costringermi a fare la mia prima passeggiata nella foresta - ben due settimane dopo l'attacco terroristico di Hamas - e a riprendere le lezioni di chitarra e di flamenco.
   Ancora oggi mi sento in colpa quando faccio cose che mi piacciono, mentre molti piangono i loro cari uccisi e l'intera nazione teme per gli ostaggi. Mi commuovono anche le immagini di Gaza, le vittime e le sofferenze della parte palestinese.
   Gli amici mi incoraggiano a fare tutto ciò che è bene per me, questo rafforzerebbe la mia resilienza, perché - allo stato attuale delle cose - la guerra contro Hamas durerà ancora a lungo. E in questo momento nessuno può prevedere quello che potrebbe ancora accadere.
   Lunedì mattina, partenza intorno alle 6. Uriel guida, Shmuel ci offre delle burekas fresche per iniziare la giornata e Ori mi compra un "Kaffee Hafuch" in una stazione di servizio, un "caffè alla rovescia", come chiamiamo in ebraico un caffè con strati di latte caldo ed espresso ricoperti di schiuma. Dopo un'altra notte breve e agitata, un gradito ristoro per iniziare una lunga giornata.

• Controllo al checkpoint

Anche dei tailandesi collaborano
Durante il viaggio verso il sud del Paese, il traffico intenso si attenua notevolmente, come osserva Uriel: "Non ho mai visto le strade qui così vuote". Il silenzio, a cui non siamo abituati, è inquietante. Dopo un'ora abbondante di viaggio, raggiungiamo una zona militare sbarrata nel sud di Israele e superiamo i posti di blocco dell'esercito.
   Schmuel offre ai soldati delle burekas, un soldato ne prende una, gli altri ci fanno domande su cosa vogliamo in questa zona. Spieghiamo che stiamo andando a una missione di raccolta volontaria a Meshek Michaeli e che i nostri nomi sono registrati lì. I soldati riconoscono il nostro impegno volontario con "Kol haKavod!", cioè: complimenti!
   Ore 7.30: arrivo alla fattoria di Meshek Michaeli, a conduzione biologica. Diventa subito chiaro chi comanda qui: Richard e Dudu. Dicono a noi volontari chi va in quale campo, chi deve aiutare a pulire e imballare le verdure. A poco a poco, arrivano sempre più volontari israeliani per il raccolto; sono rappresentate tutte le generazioni, dagli adolescenti agli anziani.
   Le diverse convinzioni politiche e visioni del mondo sono oggi irrilevanti. Ciò che ci unisce è questo: superare la guerra insieme e dare il nostro contributo alla società.
   Anche molte delle nostre guide turistiche di lingua tedesca in Israele hanno risposto all'appello e sono venute da ogni parte del Paese. Lascio vagare lo sguardo. Noto i lavoratori stranieri e chiedo a Richard se sono filippini: "No, i filippini hanno lasciato Israele, questi lavoratori sono tutti thailandesi".
   Richard assegna ad alcuni miei colleghi guide turistiche e a me il compito di aiutare nella grande sala. Dovremmo aiutare i thailandesi a gestire il pesante carico di lavoro quotidiano. Smisto cetrioli e lattuga, sto alla stazione di imballaggio, pulisco le verdure e impilo le scatole sui pallet.
   Nel sottofondo c'è il suono ovattato di innumerevoli detonazioni, Gaza è a soli 2,5 chilometri da noi. Ariel ispeziona il capannone con occhio critico: "Speriamo che possa resistere a un attacco missilistico". Abbiamo al massimo 15 secondi per raggiungere un rifugio. Continuiamo a lavorare stoicamente, rimuovendo il potenziale pericolo, facendo il nostro lavoro. Arriva un'altra squadra di volontari israeliani con magliette bianche e scritte blu che recitano "Chasakim Jachad", cioè "Insieme siamo forti", e ci dà man forte.
   Come promesso al mattino, Richard trova un po' di tempo per me e mi porta in giro con la sua auto per mostrarmi i campi e le serre. Chiedo a Richard del rapporto con i braccianti arabi nella fattoria. Lui risponde: "Male, molto male dal 7 ottobre. È tutto molto difficile".
   Pochi minuti dopo incontriamo un giovane arabo. Richard non lo conosce e ferma l'auto per scoprire chi è. Controlla subito i dettagli con Dudu al telefono. Continuiamo il nostro viaggio. Al cancello d'ingresso del Kibbutz Sikim, Richard mi dice di seguire rigorosamente le sue istruzioni.
   Non mi è permesso uscire. Area israeliana riservata. Foto solo da questa distanza e attraverso il finestrino dell'auto. Ed ecco di nuovo quel silenzio inquietante. Il kibbutz è stato evacuato dopo l'attacco terroristico di Hamas. La forza di emergenza del kibbutz è riuscita a respingere l'infiltrazione dei terroristi nella comunità.

• Paura: i terroristi di Hamas si nascondono ancora in Israele

La raccolta è una esperienza speciale per le guide turistiche
Continuiamo il nostro viaggio, il terreno diventa sempre più sabbioso. Richard mi dice che si teme che i terroristi di Hamas possano ancora nascondersi nella zona. Ma non devo preoccuparmi, anche lui è armato. Questo mi rassicura solo in parte.
   Il timore che i terroristi possano ancora nascondersi in Israele senza essere scoperti è giustificato. Il 20 novembre, il Jerusalem Post ha riferito dell'arresto di due terroristi di Hamas a Rahat. Anche loro si erano infiltrati in territorio israeliano il 7 ottobre ed erano stati scoperti e interrogati dal "Lahav 433", meglio conosciuto con l'acronimo Shabak o Shin Bet, il servizio di sicurezza nazionale, ben un mese dopo l'attacco terroristico di Hamas.
   Richard si scioglie un po' e la nostra conversazione diventa più personale. Mi dice che vive a Beit Shemesh e che il 7 ottobre ha visitato il kibbutz Be'eri. Rimango in silenzio, le immagini dei massacri si affacciano alla mia mente, guardo attraverso il finestrino chiuso dell'auto, le lacrime mi scorrono sul viso. Silenzio. Fatico a trovare le parole. Posso solo immaginare cosa hanno sofferto le persone e sono sollevata dal fatto che Richard non interpreta il mio silenzio come indifferenza, ma come ciò che è: il mio sforzo per trovare parole appropriate.
   Richard cambia bruscamente argomento, presumibilmente per autoprotezione. Parliamo di agricoltura sostenibile mentre lui con sicure manovre ci porta fuori dalla sabbia profonda.

• Il sostegno delle donne beduine
   Tornando alla sala, noto una donna risoluta. Ordina con sicurezza agli uomini e dà una mano. Il suo abbigliamento mi suggerisce che potrebbe essere una beduina. Le parlo in arabo e mi presento. Si chiama Tahrir, che in arabo significa "liberazione".
   Facciamo due chiacchiere e Tahrir mi dice che lei e le altre donne beduine che lavorano per Meshek Michaeli vengono da Rahat. Rahat, che in arabo significa pace e soddisfazione, è una città a 12 chilometri a nord di Be'er Sheva. La popolazione di Rahat è composta quasi esclusivamente da beduini. Inizio una conversazione con altre donne beduine, ma non vogliono essere fotografate, cosa che mi dispiace, tanto più che alcuni dei loro abiti hanno motivi tradizionali. Ma le rispetto. Sono loro che ci preparano anche un pasto delizioso all'ora di pranzo.
   Dopo una breve pausa pranzo, diamo il massimo per completare il lavoro della giornata. Durante il nostro tour, Richard mi aveva detto che il raccolto è in ritardo di ben tre settimane a causa della guerra contro Hamas, poiché la zona è stata setacciata alla ricerca di terroristi che potrebbero nascondersi. Gran parte del raccolto era già stato rovinato e ora dovevano fare i salti mortali per salvare ciò che era ancora possibile salvare. In questa giornata, eravamo un mix variopinto di israeliani nativi, donne beduine musulmane di Rahat, thailandesi ed ebrei immigrati da tutto il mondo.
   È stata una giornata faticosa ma anche appagante. Continueremo a fare volontariato per tutto il tempo necessario nelle prossime settimane. Quando torno a casa, vedo un WhatsApp della mia amica guida turistica Eva. Muore dalla voglia di sapere com'è stato. Le rispondo.
   Eva mi chiede se ho già avuto notizie. Le rispondo di no. È visibilmente sollevata dal fatto che io sia arrivata a casa illesa, e per una buona ragione. Hamas ha bombardato il sud di Israele con dei razzi, uno dei quali ha colpito il kibbutz Sikim. In quel momento stavamo tornando a casa. Penso tra me e me: un buon tempismo.
   Mentre scrivo queste righe, i media israeliani e tedeschi riferiscono che un "accordo sugli ostaggi" tra Israele e Hamas potrebbe essere concluso nelle prossime ore. Oggi è il giorno 46 della guerra contro Hamas. Seguiranno altre ore di ansia per gli ostaggi.

(Israelnetz, 24 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Parashà di vayetzè: quando gli ebrei sono graditi

di Donato Grosser

La parashà inizia con le parole: “Ya’akòv uscì da Beer Sheva’ e si avviò verso Charàn” (Bereshìt, 28:10). Arrivato nei dintorni di Charàn, Ya’akòv si imbattè in un pozzo dove vi erano dei pastori con tre greggi in attesa dell’arrivo di altri greggi per poter rimuovere la pietra che copriva il pozzo ed abbeverare gli animali. 
            La conversazione tra Ya’akòv e i pastori fu laconica: “Ya’akòv disse loro: Fratelli miei, di dove siete? E quelli risposero: Siamo di Charàn. Ed egli disse loro: Conoscete voi Lavàn, figlio di Nachòr? Ed essi: Lo conosciamo. Ed egli disse loro: Sta egli bene? E quelli: Sta bene; ed ecco Rachel, sua figlia, che viene con il gregge (ibid., 29: 4-6).
            R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia?, 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, nel suo commento Ma’asè Hashem alla parashà (cap. 21) afferma che quando Ya’akòv chiese se Lavàn stava bene (ha-Shalom lo?) Intendeva avere informazioni sulla situazione economica di Lavàn. Che fosse vivo era già stato chiarito dalla risposta che lo conoscevano. I pastori risposero che se voleva sapere la situazione economica di Lavàn la poteva dedurre dal fatto che Rachèl, figlia di Lavàn, stava arrivando al pozzo con il gregge del padre. Ya’akòv in un primo momento non capì la risposta dei pastori e ritenne che Lavàn avesse altri pastori e che Rachèl fosse arrivata per caso, così come il servo di Avrahàm aveva incontrato “per caso” Rivkà alla fonte. Ma poco dopo si rese conto che Rachèl non era venuta per caso, perché era proprio lei la pastorella del gregge di Lavàn. Lavàn era quindi in una miserabile condizione economica al punto che una giovinetta poteva accudire a tutto il suo gregge. Questo passo viene quindi a insegnare che tutta la successiva ricchezza di Lavàn derivò dal fatto che Ya’akòv si occupò del gregge di Lavàn per vent’anni. 
            Infatti, nel Midràsh (Pirkè Rabbì Eli’ezer, cap 36) è raccontato che prima che Ya’akòv arrivasse a Charàn, il gregge di Lavàn era stato colpito da una epidemia. Erano quindi rimasti pochi animali.
            Dopo quattordici anni, Rachèl ebbe finalmente il figlio Yosèf e Ya’akòv chiese a Lavàn il permesso di congedarsi e di tornare a casa. Lavàn, rendendosi conto di quale tesoro fosse per lui il genero, gli chiese di restare. Ya’akòv rispose: “‘Tu sai in qual modo io t’ho servito, e quel che sia diventato il tuo bestiame nelle mie mani.  Poiché quel che avevi prima ch’io venissi, era poco; ma ora s’è accresciuto oltremodo, e l’Eterno t’ha benedetto dovunque io ho messo il piede. Ora, quando lavorerò io anche per la casa mia?’ (Ibid., 30: 29-30). Da quel momento Ya’akòv venne compensato per il suo lavoro. Dopo sei anni  Ya’akòv era diventato ricco con un numeroso gregge, e con schiavi, cammelli e asini. 
            A quel punto egli sentì i figli di Lavan che dissero:”Ya’akòv ha tolto tutto quello che era di nostro padre; e con quello ch’era di nostro padre, s’è fatto tutta questa ricchezza” (ibid, 31:1). L’ingratitudine e l’invidia dei figli di Lavàn era evidente. R. Shlomò Efraim Luntschitz  (Polonia, 1550-1619, Praga) nel suo commento Kelì Yakàr, sottolinea la contraddizione e la falsità delle affermazioni dei figli di Lavàn, che Ya’akòv “aveva tolto tutto quello che era di nostro padre”. La morale della storia è che gli ebrei sono graditi quando arricchiscono il paese dove abitano. Non lo sono più quando essi stessi diventano ricchi.

(Shalom, 24 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayetzè (Partì)

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La guerra con Hamas costa 1 miliardo di NIS al giorno

Moody’s taglia le previsioni di crescita per il 2023 e prevede una contrazione dell’economia dell’1,5% nel 2024, con il 18% della forza lavoro israeliana assente durante la guerra
   La guerra con Hamas sta costando a Israele almeno 1 miliardo di NIS ($ 269 milioni di dollari) al giorno ed è destinata a pesare sull’economia del Paese più dei conflitti precedenti, secondo un rapporto dell’agenzia di rating globale Moody’s basato su una stima iniziale del Ministero delle Finanze.
   “La gravità dei danni all’economia dipenderà in larga misura dalla durata del conflitto, ma anche dalle prospettive a lungo termine per la sicurezza interna di Israele”, ha dichiarato Kathrin Muehlbronner, vicepresidente senior di Moody’s, in un rapporto pubblicato lunedì. “Sebbene l’incertezza rimanga molto alta, riteniamo che l’impatto sull’economia potrebbe essere più grave rispetto a precedenti episodi di conflitto e violenza militare”.
   Secondo un recente rapporto dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS), citato da Moody’s, che il mese scorso ha messo sotto osservazione il rating A1 del governo israeliano per un declassamento, il costo totale della guerra potrebbe essere compreso tra i 150 e i 200 miliardi di NIS, pari a circa il 10% del prodotto interno lordo.
   Questo onere finanziario sarebbe significativamente più alto di quello di operazioni precedenti, come Protective Edge nel 2014 o la Seconda guerra del Libano nel 2006, che durò 34 giorni e sostenne un costo diretto di circa 9,5 miliardi di NIS o l’1,3% del PIL, secondo Moody’s.
   La spesa del governo includerà miliardi di shekel per la difesa, per il proseguimento dello sforzo bellico, per assorbire i salari delle centinaia di migliaia di riservisti arruolati, per finanziare i risarcimenti alle imprese colpite dalla guerra e per la ricostruzione e la riabilitazione delle comunità devastate dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Nel frattempo, si prevede che le entrate fiscali – soprattutto quelle tributarie – continueranno a crollare a causa del calo dei consumi e di altri fattori di domanda.
   Le stime dell’impatto economico della guerra hanno spinto Moody’s a ridurre le previsioni di crescita dell’economia israeliana per quest’anno al 2,4% dal precedente 3%. In una prospettiva più pessimistica per il 2024, l’agenzia di rating ha dichiarato di prevedere una contrazione di circa l’1,5% seguita da una crescita molto moderata nel 2025.
   L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha dichiarato la scorsa settimana che vede l’economia israeliana contrarsi del 5% nel quarto trimestre di quest’anno. S&P prevede che l’economia si espanderà dell’1,5% nel 2023 e dello 0,5% nel 2024, seguita da una crescita più rapida del 5% nel 2025.
   “Mentre l’economia ha affrontato bene gli shock negli ultimi due decenni, l’attuale conflitto militare metterà alla prova la capacità di ripresa economica di Israele”, ha osservato Muehlbronner.
   Più di 200.000 persone sono state sfollate dalle comunità lungo i confini meridionali e settentrionali in seguito alle atrocità perpetrate da Hamas il 7 ottobre, che hanno ucciso circa 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, e circa 240 sono state prese in ostaggio.
   Israele ha giurato di sradicare il regime di Hamas sostenuto dall’Iran nella Striscia di Gaza e di riportare indietro gli ostaggi, e ha preso di mira tutte le aree in cui il gruppo opera, cercando di ridurre al minimo le vittime civili. L’esercito israeliano ha richiamato circa 350.000 riservisti, interrompendo le attività di migliaia di aziende in tutto il Paese.
   L’assenza del 18% della forza lavoro del Paese – coloro che sono stati arruolati nell’esercito, coloro che sono stati evacuati dalle loro case vicino ai confini e i genitori che si occupano dei bambini, dato che le scuole funzionano solo in parte – sta già mettendo a dura prova le operazioni delle industrie manifatturiere e del settore tecnologico, ha avvertito Moody’s.
   La dipendenza dell’economia israeliana dal settore tecnologico è cresciuta in modo significativo nell’ultimo decennio e ora contribuisce al 18% del PIL, a differenza di meno del 10% negli Stati Uniti e di circa il 6% nell’UE. Circa il 14% di tutti i dipendenti lavora nel settore tecnologico e in impieghi tecnologici in altri settori. L’economia israeliana si basa sui prodotti e sulle esportazioni high-tech, che rappresentano circa il 50% delle esportazioni totali, nonché sulle imposte del settore.
   “Sebbene l’industria high-tech sia ora molto più diversificata, il conflitto giunge in un momento difficile per l’industria high-tech a livello globale, e Israele ha visto un afflusso di capitali e attività di raccolta fondi significativamente inferiori quest’anno rispetto agli ultimi due anni”, ha dichiarato Muehlbronner.
   Si prevede che gli ingenti costi civili e di difesa della guerra, compreso il pacchetto di aiuti finanziari per le imprese colpite, che si stima costerà circa lo 0,8% del PIL fino alla fine di novembre, avranno un impatto “significativo” sulle finanze pubbliche del governo, insieme a un calo “significativo” del gettito fiscale, ha avvertito Moody’s.
   L’agenzia di rating prevede ora che il deficit di bilancio aumenterà al 3% del PIL nel 2023 e più che raddoppierà a circa il 7% del PIL nel 2024. Il deficit fiscale di Israele è già salito al 2,6% del PIL a ottobre, dall’1,5% del mese precedente. Nel 2022, Israele ha registrato il suo primo avanzo di bilancio in 35 anni, pari allo 0,6% del PIL.
   “Parte dei costi di bilancio legati alla difesa potrebbero essere assorbiti riorientando altre spese e utilizzando le riserve di bilancio (in genere circa l’1% della spesa complessiva)”, ha dichiarato Muehlbronner. “Non ci aspettiamo che il governo israeliano abbia difficoltà a finanziare anche deficit sostanzialmente più elevati, date le sue fonti di finanziamento ampie e diversificate e il forte sostegno della diaspora israeliana”.
   Dallo scoppio della guerra, Israele ha raccolto 30 miliardi di NIS di debito, secondo i dati del Ministero delle Finanze, di cui 6 miliardi di NIS denominati in dollari e raccolti sui mercati internazionali.

(Israele 360*, 22 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 48. Il rinvio della tregua e la continuazione della guerra

di Ugo Volli

• Rinvio
  L’inizio della tregua per la liberazione di cinquanta bambini e donne rapite, che era stato annunciato da Hamas (ma non da Israele) per oggi alle 10 di mattina (ora di Israele, in Italia erano le 9), è stato rinviato, forse a domani venerdì. Il rinvio è stato deciso perché Hamas non ha firmato il protocollo con gli accordi dettagliati sulla liberazione e soprattutto non ha voluto o non è stato in grado di fornire i dettagli sullo stato di alcuni dei rapiti da liberare - dettagli per nulla secondari come lo stato in vita e la condizione fisica. L’esperienza di altre tregue con Hamas suggerisce il fondato sospetto di trucchi nella realizzazione dell’accordo e Israele vuole essere ben sicuro di ottenere quel che ha negoziato, inclusa la clausola per cui i rapiti non liberati siano visitati dalla Croce Rossa. Ci sono le prove di diverse esecuzioni di “ostaggi” da parte dei terroristi, magari con il pretesto che essi sarebbero stati colpiti dai bombardamenti israeliani. Fino a che non ci saranno le garanzie necessarie, la tregua non sarà messa in opera.

• I combattimenti
  Nel frattempo Israele ha attaccato con forza le concentrazioni terroriste individuate, tanto ciò che resta nella parte settentrionale della Striscia, dove agisce la fanteria, penetrando nei pozzi di accesso dei tunnel e facendoli saltare, quanto nella parte sudorientale, in particolare Khan Yunis, dove sono in corso intensi bombardamenti aerei. Prosegue anche l’azione nell’ospedale di Shifa, dove si è dimostrata la presenza di terroristi travestiti da personale medico e le forze israeliane hanno arrestato per complicità il direttore dell’ospedale. Un certo numero di giornalisti internazionali è stato ammesso a vedere di persona l’inizio del labirinto delle gallerie segrete dove Hamas aveva centri di comando, depositi d’armi e rifugi per i suoi miliziani. Proseguono anche i combattimenti sugli altri fronti. Con Hezbollah al confine libanese vi sono stati nuovi episodi di tiri di razzi anticarro e di missili più potenti contro gli avamposti israeliani, cui Israele ha risposto con l’artiglieria; in Siria è intervenuta l’aviazione.

• La situazione in Giudea e Samaria
  Altri arresti e smantellamenti di gruppi terroristici sono avvenuti in Giudea e Samaria, in particolare a Jenin e a Tulkarem, dove un gruppo terrorista già in azione è stato distrutto con un’incursione di droni. Questa è una cittadina araba che sta proprio sulla linea di delimitazione del territorio amministrato dall’Autorità Palestinese a una dozzina di chilometri da Netanya - il che dovrebbe far riflettere a come sia impossibile ogni discorso sui due stati prima dell’eradicazione completa del terrorismo. È chiaro che l’Autorità Palestinese non ha la capacità, ma in sostanza non ha la volontà di bloccare i terroristi. E l’esperienza del 7 ottobre mostra che non vi sono muri o barriere di protezione che tengano di fronte a un’azione militare vera e propria da parte delle organizzazioni terroristiche. Già girano immagini propagandistiche di Hamas che mostrano l’abbattimento della barriera costruita sulla Linea Verde per difendere la parte centrale di Israele. Solo la capacità, militare, ma anche politica e giuridica delle forze armate israeliane di intervenire tempestivamente per distruggere le aggregazioni terroristiche, in Giudea e Samaria come a Gaza, può garantire la tranquillità del paese.

• La guerra continuerà dopo la tregua?
  In questo senso si possono leggere alcune dichiarazioni che parlano della ripresa della guerra dopo il periodo concordato di tregua, fino alla distruzione completa delle organizzazioni terroristiche a Gaza. Lo ha promesso ripetutamente il primo ministro Netanyahu annunciando il cessate il fuoco, lo ha ripetuto oggi il capo di stato maggiore Herzi Halevi oggi in un discorso tenuto ai comandanti dei battaglioni impiegati a Gaza: “Stiamo cercando di collegare gli obiettivi della guerra, in modo che la pressione dell'operazione di terra porti alla possibilità di raggiungere anche l'obiettivo di questa guerra, cioè creare le condizioni per la liberazione degli ostaggi rapiti. Non porremo fine alla guerra. Continueremo finché non saremo vittoriosi, andando avanti e continuando in altre aree di Hamas. Sono molto orgoglioso di voi, state facendo un lavoro eccezionale". Il problema sarà l’atteggiamento della comunità internazionale: è evidente che vi saranno forti pressioni per concludere del tutto l’operazione, assegnando così la vittoria a Hamas. Ma del problema si rende conto anche l’amministrazione americana, che è il partner fondamentale di Israele. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha parlato mercoledì con i leader della comunità ebraica americana e ha affermato che gli Stati Uniti prevedono che la guerra tra Israele e Hamas continuerà dopo la scadenza della tregua [...] “La lotta non è finita. La guerra non è finita. La minaccia posta da Hamas è ancora reale e minaccia la vita del popolo israeliano”, ha detto Kirby ai leader ebrei. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, “continueranno a garantire a Israele gli strumenti, le capacità e i sistemi d’arma di cui hanno bisogno per continuare a colpire Hamas”.

(Shalom, 23 novembre 2023)

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“Crescono antisemitismo e odio verso gli ebrei”, l’allarme della comunità ebraica di Torino

Una serata di riflessione a Torino sulla guerra Israelo- Palestinese e sulla via per trovare la pace: «La convivenza tra israeliani e palestinesi è possibile».

di Giovanni Venturi

«Assistiamo a crescenti forme di antisemitismo e odio verso gli ebrei». L’ennesimo allarme arriva da un incontro ieri sera, mercoledì 22 novembre, a Villa Sanquirico di Torino, organizzato da Asset, l’associazione ex allievi della scuola ebraica di Torino, con l'ente di raccolta fondi israeliano Keren Hayesod, per una riflessione sulla guerra israelo-palestinese e su passato e presente dello stato ebraico. Una situazione , la guerra, vissuta con molta ansia dalla comunità israeliana torinese, ha spiegato Giulio Disegni, presidente di Asset, «sia perché molti hanno là amici, parenti e conoscenti» sia per il fatto che «dopo il 7 ottobre (giorno dell’offensiva di Hamas in Israele), assistiamo a un preoccupante rigurgito di antisemitismo. Abbiamo invece bisogno di pace, libertà e condivisione di sentimenti da parte di tutti». E aggiunge: «La convivenza tra israeliani e palestinesi è possibile, il vero problema in questo conflitto è il terrorismo di Hamas».

• Tracciare le vie per la pace
  Nella discussione la stella polare è una: tracciare le vie per una pace duratura in nome del popolo israeliano. Soprattutto perché, ha rimarcato Noemi Di Segni, presidente Unione delle comunità ebraiche italiane, «Israele intende avere una convivenza pacifica con le comunità musulmane».
   Eppure, secondo Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino, «manca quel rispetto alla base della stessa strada maestra, in particolare dallo scoppio della guerra mediorientale: assistiamo con incredulità a crescenti forme di antisemitismo e odio verso gli ebrei». Per Ariel Finzi, rabbino capo di Torino, «È un periodo tremendo. Possiamo fare hasbara, cioè far capire cos’è successo e cosa sta accadendo in Israele». Un modo anche per «aiutare la comunità a sopravvivere - continua - nel vedere università occupate con manifestazioni pro Palestina che accusano Israele e non ascoltano le grida delle nostre ragazze violentate, di chi combatte e lotta per la libertà delle nostre donne». Chiude lo scrittore Sergio Della Pergola che mette l’accento sia su «un grave boicottaggio degli accademici» nel dibattito collettivo sia sulla «necessità di autocritica della comunità israeliana per la politica interna».

• La testimonianza di una studentessa
  Ella Mordohovic, sicritta a Medicina, è una dei 150 studenti israeliani che vivono a Torino. «Dal 7 ottobre Sono choccata e addolorata. Ultimamente ho avvertito diffidenza nei miei confronti, anche all'Università: non è facile essere israeliani in questo momento. Non appoggio quanto sta accadendo laggiù, ma in Italia sta venendo fuori un odio che non è possibile accettare».

• Solidarietà
  La serata è stata anche un’occasione di raccolta fondi per i kibbuz in macerie. Un esempio è il Kibbuz Be’eri, villaggio al confine con la Striscia che dallo scorso 7 febbraio vive sotto i bombardamenti e oggi conta “100 morti, di cui 32 bambini, e 40 rapimenti su una popolazione di 1.100 persone”, ha spiegato Eyal Avneri, rappresentante per l’Italia di Keren Hayesod. Che ha poi aggiunto: «Non ci sono solo feriti a livello fisico, ma anche psicologico. Ragazzi e bambini hanno visto i propri genitori torturati, compagni di scuola uccisi. Grazie a questo progetto, intendiamo anche alleviare il post-trauma e avviare terapie psicologiche». Finora, ha concluso Avneri, l’ente israeliano è riuscito a raccogliere «40 milioni di euro in tutto il mondo, di cui 18,5 indirizzati a un fondo per le vittime di terrorismo e mezzo milione per ogni kibbuz distrutto».

(La Stampa, 23 novembre 2023)

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Le elezioni in Olanda e i riflessi sugli ebrei e Israele

di Nathan Greppi

Nell’ultimo anno, la politica olandese ha riservato non poche sorprese ai commentatori internazionali: dopo che alle elezioni del 30 maggio per il Senato si era affermato come primo partito il BBB, fondato per rappresentare gli agricoltori contrari alle politiche ambientaliste, alle elezioni legislative di mercoledì 22 novembre è stato il turno del leader di destra Geert Wilders, noto per le sue posizioni fortemente antislamiste ed euroscettiche, che con il suo Partito per la Libertà (PVV) ha ottenuto oltre il 23% dei voti, nonostante fosse dato in svantaggio secondo i sondaggi.
   Il risultato fa sì che Wilders abbia la responsabilità di scegliersi degli alleati per formare il nuovo governo. Dietro di lui, arrivano rispettivamente al secondo e terzo posto la coalizione tra laburisti e verdi, guidata da Frans Timmermans, e il VVD, partito liberalconservatore del premier uscente Mark Rutte.

• Rapporti con ebrei e Israele
   In un video in cui Wilders esulta dal suo ufficio per la vittoria ottenuta, si vede sullo sfondo una bandiera israeliana appesa al muro. Infatti, da anni si dichiara forte sostenitore dello Stato Ebraico, al contrario dei partiti di sinistra e ambientalisti, tradizionalmente filopalestinesi. E già nel giugno 2013, durante un discorso tenuto durante una conferenza a Los Angeles, disse di voler spostare l’ambasciata olandese in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
   Queste sue posizioni hanno radici profonde nella sua formazione politica: da giovane ha vissuto per un anno come volontario a Tomer, moshav e insediamento israeliano in Cisgiordania. Inoltre, dal 1992 Wilders è sposato con un’ebrea, l’ex-diplomatica ungherese Krisztina Márfai.
In passato le sue posizioni gli hanno attirato le simpatie di una parte degli ebrei olandesi. Tuttavia, in passato il PVV ha preso delle posizioni che hanno suscitato proteste da parte della comunità ebraica: tra il 2011 e il 2012, appoggiarono l’introduzione del divieto di praticare la macellazione rituale kasher, così come di quella halal per i musulmani. In tale occasione, il rabbinato olandese dichiarò che “non si può essere nello stesso tempo amici di Israele e del popolo ebraico e sostenere leggi anti-ebraiche”.
   Un altro punto di rottura con la comunità avvenne nel 2014 quando, durante un comizio in vista delle elezioni europee, incitato da suoi sostenitori disse che avrebbe fatto in modo che ci fossero “meno marocchini” nei Paesi Bassi. Se prima diversi ebrei trovavano condivisibile la sua opposizione all’integralismo islamico e alla criminalità, in molti non potevano accettare che si prendesse di mira con toni razzisti un intero gruppo senza distinzioni.

(Bet Magazine Mosaico, 23 novembre 2023)

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"Come Settembre Nero". Nili, la squadra speciale israeliana che rintraccia i terroristi di Hamas

In Israele è stata attivata un'unità speciale in grado di intercettare ed eliminare i responsabili delle atrocità dell'attacco di Hamas. La stampa locale paragona il gruppo a quello creato dopo la tragedia delle Olimpiadi di Monaco '72

di Mauro Indelicato

L'incubo vissuto da Israele il 7 ottobre scorso ha colto di sorpresa la popolazione e le forze di sicurezza. Ma i più anziani ricordano come la storia dello Stato ebraico è costellata di attacchi, attentati e crisi di ostaggi. E adesso, passati i giorni dell'amarezza, le forze di sicurezza si preparano a dare materialmente la caccia ai responsabili degli assalti e delle atrocità di Hamas. Un po' come avvenuto con la crisi degli ostaggi di Entebbe nel 1976. E soprattutto come avvenuto, quattro anni prima, dopo l'attacco terroristico contro la delegazione di atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco 1972.

• L’unità speciale Nili
   La squadra speciale composta da soldati, membri della marina e delle forze di sicurezza, nonché dai servizi segreti dello Shin Bet, ha già un nome. Si chiama Nili, acronimo della frase "L'Eterno di Israele non ti abbandonerà mai" contenuta nel libro della Genesi.
  L'unità si è formata subito dopo le stragi del 7 ottobre. L'obiettivo dei suoi membri è diverso da quello del resto dell'esercito. Non si tratta infatti di dare seguito ai piani militari contro Hamas, portati avanti in queste settimane soprattutto dall'aviazione. L'unità Nili ai occupa di riconoscere ed eliminare, uno dopo l'altro, tutti i responsabili materiali degli assalti alle comunità israeliane attorno la Striscia di Gaza. Coloro dunque che hanno dato il via alle atrocità contro i civili o si sono macchiati in prima persona di crimini contro la popolazione.
   La squadra Nili, secondo la stampa israeliana, avrebbe già colpito. Alcuni dei raid effettuati a Gaza negli ultimi giorni non hanno infatti preso di mira depositi di munizioni oppure obiettivi militari di Hamas. Al contrario, nelle incursioni sono stati colpiti singoli individui che hanno avuto ruoli importanti nelle azioni terroristiche del 7 ottobre.
  Tra questi figura Ali Qadhi, ucciso a ottobre da un raid nella Striscia. Secondo l'intelligence, il miliziano avrebbe organizzato l'assalto contro uno dei kibbutz del sud di Israele. Stessa sorte è toccata a Billal Al Kedra, ritenuto artefice delle stragi attuate nel kibbutz di Nirim, uno dei più colpiti dagli attacchi di Hamas. Il nome più eclatante ucciso dalle operazioni dell'unità Nili, sarebbe al momento quello di Muhamed Katmash, tra i comandanti più importanti dell'organizzazione terroristica e responsabile dei lanci di missili verso le città israeliane.
   I membri di Nili agiscono su più fronti. C'è infatti dietro un lavoro di intelligence, volto a individuare personaggi e nascondigli. Poi c'è un'azione compiuta sul campo, con i raid mirati. Ma c'è anche un'unità informatica che si occupa del riconoscimento facciale. Vengono così raccolti molteplici dati e, successivamente, si passa all'azione.

• In Israele si rievoca il precedente di Monaco
  Il precedente più ricordato in questo momento in Israele è quello relativo alla strage attuata dal gruppo terrorista palestinese Settembre Nero contro la delegazione dello Stato ebraico a Monaco 1972. L'allora premier israeliano Golda Meir, subito dopo la morte di 11 atleti presenti nel villaggio olimpico, ha autorizzato la formazione di una squadra speciale per rintracciare ed eliminare tutti coloro che hanno avuto un ruolo in quel massacro.
   Un obiettivo centrato dopo diversi anni di ricerche e attività di intelligence. A Beirut, così come a Parigi e a Roma, la morte di diversi miliziani palestinesi è stata attribuita proprio all'unità israeliana attivata dopo la strage. L'operazione più eclatante in quel contesto è stata attuata a Beirut, dove un commando israeliano composto da agenti vestiti in abiti femminili ha ucciso almeno tre esponenti di Settembre Nero.

• L’ordine di Netanyahu di eliminare anche i capi di Hamas all'estero
  L'Unità Nili però potrebbe non entrare in azione unicamente nella Striscia di Gaza. Proprio come nei precedenti rievocati dalla stampa israeliana, i membri della forza speciale potrebbero agire anche all'estero. Nei giorni scorsi il premier Netanyahu è stato categorico: il governo ha dato ordine di catturare i membri di Hamas ovunque si trovino. Dunque anche in Libano, in Turchia, in Iran e in Qatar. Un Paese quest'ultimo dal ruolo molto delicato.
   A Doha risiedono gran parte dei capi politici di Hamas, ma al tempo stesso il governo dell'emirato è impegnato in prima linea nella mediazione per portare a casa gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza. Se l'Unità Nili dovesse entrare in azione in territorio qatarino, potrebbero esserci ripercussioni sulle trattative. Ed è quello che temono i parenti degli ostaggi, i quali infatti non hanno salutato con entusiasmo l'annuncio di Netanyahu. Al contrario, il premier ha ricevuto il plauso della parte più a destra della coalizione di governo.

(il Giornale, 23 novembre 2023)

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Nota dell'Assemblea dei Rabbini d’Italia

Il consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia afferma:
    «Ieri l’incontro del Papa con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas, da tempo richiesto e sempre rinviato, è stato finalmente possibile perché è stato seguito da un incontro con parenti di palestinesi prigionieri in Israele, così come riportato dal Papa, mettendo sullo stesso piano innocenti strappati alle famiglie con persone detenute spesso per atti gravissimi di terrorismo. E subito dopo il Papa ha pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo. Queste prese di posizione al massimo livello seguono dichiarazioni problematiche di illustri esponenti della Chiesa in cui o non c’è traccia di una condanna dell’aggressione di Hamas oppure, in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito. Ci domandiamo a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa.»
Acrobazie diplomatiche e funambolismi sono sempre stati una caratteristica della diplomazia vaticana. Il mondo ebraico ufficiale sembra non aver capito che il cosiddetto "Dialogo ebraico-cristiano" è avvenuto sempre nel quadro istituzionale della Chiesa Cattolica. Qualcosa del genere hanno provato a fare dopo il Concilio Vaticano II (e qualche volta purtroppo ci sono riusciti) con il tentato dialogo ecumenico fra cattolici ed evangelici. Alcuni di noi a suo tempo furono addirittura coccolati (chi scrive può dirlo per esperienza personale); e anche se a livello di semplici persone l'avvenuto "disgelo" in certi casi può aver avuto utili conseguenze, si poteva capire fin dall'inizio che all'istituzionale CCR (Chiesa Cattolica Romana) interessava soprattutto la cornice del quadro, non il contenuto: quando si riusciva a mettere ben a fuoco le fondamentali differenze di dottrina e condotta, il dialogo gradatamente si estingueva. Forse anche per il mondo ebraico può essere venuto il momento di capire che il dialogo ad alto livello con un'istituzione religiosa ormai in via di disfacimento è più dannoso che utile. M.C.

(Notizie su Israele, 23 novembre 2023)

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L’accordo sugli ostaggi

di Ugo Volli

• L’accordo
  A tarda notte di ieri, dopo un’accanita discussione, il governo israeliano ha approvato un accordo per la liberazione di un certo numero di persone rapite da Hamas, in cambio della scarcerazione di un numero più consistente di terroristi arrestati e di una tregua di cinque giorni. L'accordo approvato comprende 30 bambini, otto madri e altre 12 donne. I 50 ostaggi verranno liberati in gruppi più piccoli durante quei giorni e non tutti in una volta. Israele in cambio rilascerà circa 150 donne e minori palestinesi detenuti nelle sue carceri per reati legati alla sicurezza, ma nessuno di loro sarebbe direttamente coinvolto in attacchi terroristici con vittime. Esiste la possibilità del rilascio di altri 30 ostaggi trattenuti a Gaza nel caso in cui la pausa nei combattimenti dovesse prolungarsi per altri quattro giorni. I liberati saranno tutti cittadini israeliani, ma in parallelo vi è la possibilità che siano liberati dei rapiti tailandesi. L’accordo è stato negoziato dai servizi di informazione israeliani con i dirigenti di Hamas in Qatar, grazia alla mediazione di quest’ultimo stato e con l’appoggio di Usa e Egitto. Come parte dell’accordo, il carburante potrà entrare a Gaza durante la pausa dei combattimenti. Israele si era opposto a questi rifornimenti per evitare che Hamas lo sequestrasse per uso militare, ma oggi ha rinunciato a questa interdizione. Ogni giorno ci sarà una finestra di sei ore, durante la quale la sorveglianza aerea di Israele su Gaza verrà interrotta. L’attività dell’aviazione militare cesserà del tutto sulla parte meridionale della Striscia e si interromperà dalle 10 alle 16 sulla parte settentrionale. "Ci sono altre capacità di raccolta di informazioni. Non saremo ciechi in quelle 6 ore in cui non ci saranno droni e palloncini in aria", ha detto ai giornalisti un alto ufficiale israeliano. Non sarà consentito agli sfollati di queste settimane di far ritorno alla parte settentrionale di Gaza.

• La discussione
  Sull’accordo sono state espresse molte riserve da parte dei politici di destra (Otzma Yehudit, il partito di Ben Gvir e Sionismo religioso, il partito di Smotrich). A favore si sono pronunciati i servizi (Mossad e Shin Bet) il vertice delle Forze Armate e gli altri esponenti del governo, da Netanyahu a Gantz ai partiti che sono espressione del mondo religioso charedì. Anche l’opposizione di sinistra si è detta favorevole. Critiche sono arrivate invece da numerosi opinionisti.

• I problemi
  I rischi e i limiti dell’accordo sono chiari. Solo una parte dei sequestrati verrà liberata, ne restano in mano ai terroristi quasi duecento, in una situazione di grave sofferenza per loro e le famiglie e con la possibilità di essere usati ancora per scambi e scudi umani. Lo scambio dei rapiti con terroristi regolarmente arrestati legittima in qualche modo i crimini di Hamas e soprattutto ne rafforza molto la popolarità nel mondo arabo e fra i palestinesi. I terroristi avevano sempre dichiarato apertamente, anche prima del 7 ottobre, di voler rapire degli israeliani per scambiarli con i terroristi detenuti. Ora ci sono riusciti e questo cambia il senso percepito della loro operazione, la trasforma in un successo anche se hanno subito perdite gravi, che comunque per la mentalità islamica sono valutate positivamente come atti di martirio.

• Che succede ora
  Sul piano operativo è evidente che una tregua di cinque giorni, che è già previsto si possa prolungare per altri quattro, con una forte diminuzione della sorveglianza aerea, permetterà ai terroristi di riorganizzarsi, di rifornirsi, di uscire dalle situazioni più problematiche in cui si trovano. Dopo una settimana o dieci giorni di pausa ci saranno troppe pressioni internazionali, e dunque sarà molto difficile per Israele ricominciare la guerra, come pure Netanyahu ha promesso di fare, salvo che Hamas stesso non decida che gli conviene riprendere i combattimenti. In ogni caso l’iniziativa sarà in mano loro. Potranno decidere se attaccare, fuggire, prolungare ancora la tregua centellinando il rilascio dei rapiti. È molto probabile che l’operazione Spade di ferro, come l’abbiamo conosciuta finora, si concluda qui. Gaza è conquistata solo in certi settori, il sistema dei tunnel smantellato solo al Nord e parzialmente, Hamas è duramente colpita, ha perso migliaia di uomini e moltissimi quadri, ma il suo nucleo centrale è ancora in piedi. Non sono neanche esauriti i suoi missili. Se restasse così nel giro di qualche tempo potrebbe ricostruire le sue capacità militari, utilizzando come ha sempre fatto i soccorsi internazionali per farne armi e contando sull’aiuto di Iran, Qatar, Turchia. Si tratta di capire che cosa accadrà nelle settimane successive, con mezza Gaza occupata, centinaia di migliaia di sfollati e la struttura terroristica ancora esistente. Tutto ciò creerà a Israele numerosi problemi tecnici ma soprattutto politici.

• Le ragioni
  Perché si sia arrivati a questo accordo è abbastanza chiaro. Ci sono le ragioni delle famiglie dei rapiti, che nell’etica ebraica sono importantissime. È stata determinante una forte pressione internazionale e soprattutto americana. C’è stato forse un certo scetticismo da parte dei vertici militari, ormai da decenni abituati a pensare in termini di deterrenza e non di vittoria. È pesata anche la ricomparsa di manifestazioni contro il governo, che approfittando del dolore delle famiglie dei rapiti rischiavano di riprodurre le dinamiche della disobbedienza civile che ha avuto certamente peso nel far percepire ai terroristi la debolezza di Israele prima della strage. A quel che si capisce, Netanyahu e Gallant hanno resistito a questa pressione per una decina di giorni, poi hanno dovuto cedere. Forse hanno ottenuto una promessa americana di consentire la ripresa dei combattimenti, ma è difficile che essa si realizzi davvero. Certo che la lenta e sistematica avanzata delle forze armate si è interrotta e salvo incidenti imprevisti per un certo periodo la situazione militare e quella politica si stabilizzeranno al punto attuale.

(Shalom, 22 novembre 2023)

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La trappola di Hamas

L’accordo con Hamas che Israele ha finalizzato ieri con la mediazione del Qatar, il principale sponsor finanziario del gruppo terroristico sunnita e che entrerà in vigore domani, prevede il rilascio di cinquanta ostaggi, prevalentemente donne e bambini, dei 240 ancora nelle sue mani, con, come controparte, una tregua per la durata di quattro giorni.
   Il meccanismo prevede che se Hamas sarà in grado di localizzare altri trenta ostaggi detenuti da soggetti terzi all’interno della Striscia, la tregua potrà estendersi ulteriormente di un giorno oltre i quattro stabiliti per ogni decina di ostaggi che verrebbero rilasciati in aggiunta a quelli già pattuiti. In questo caso la tregua sarebbe estesa a sette giorni.
   Hamas sa perfettamente quanta importanza Israele dà alla vita dei propri concittadini, e che, per riaverli vivi, è disposto a pagare un prezzo alto. Lo scopo di avere degli ostaggi, per i rapitori, chiunque essi siano è esattamente quello del ricatto e del vantaggio da ottenere.
   Dopo tre settimane di offensiva terrestre Hamas si trova in palese difficoltà all’interno della Striscia. Quella che secondo i soliti sedicenti esperti avrebbe comportato un bagno di sangue per l’IDF, è stata, fino ad ora un’operazione che, nonostante il numero dei caduti, oltre settanta tra le file dell’esercito israeliano, ha portato alla conquista della parte settentrionale dell’enclave. Il grosso della forza di combattimento di Hamas è asserragliato al sud.
   Al momento Hamas ottiene un immediato vantaggio, quello di vedere depotenziare l’offensiva israeliana e di guadagnare tempo, e l’acquisto di tempo, nel corso di una guerra è un fattore determinante, soprattutto quando chi lo acquista è la parte più debole.
   Nonostante i proclami del gabinetto di guerra, che l’obbiettivo prefissato, lo sradicamento di Hamas da Gaza, verrà mantenuto, Hamas sa benissimo di potere contare sulle pressioni internazionali finalizzate ad allungare il più possibile la tregua. In questo senso, Hamas giocherà la sua partita con scaltrezza usando gli ostaggi come fisches da lanciare sul tavolo da gioco, tentando, e ci sono alte probabilità che riesca, di differire sempre di più la vittoria di Israele, fino a non renderla più l’obbiettivo prioritario.

(L'informale, 22 novembre 2023)

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Yahya Sinwar sfrutterà Israele...

... se non stiamo attenti. Il "piccolo Hitler", nascosto da qualche parte nel sottosuolo della Striscia di Gaza meridionale, saccheggerà Israele anche politicamente, proprio come ha fatto Hamas la mattina dello Shabbat nero nel sud di Israele.

di Aviel Schneider

Se Israele non sta attento, cadrà in una trappola con lo scambio di ostaggi. Con chiunque ne parli, la maggior parte degli esperti di sicurezza vede nero. Ma d'altra parte, il governo deve decidere, e non è facile.
   Non ci sarà un solo cittadino in questo Paese che non si commuoverà fino alle lacrime per il ritorno degli ostaggi israeliani, neonati, bambini, madri e donne. La gioia della gente sarà immensa e per le famiglie interessate sarà un sollievo celestiale dopo oltre un mese di inferno. Ogni minuto è importante e l'intero governo e l'apparato di sicurezza di Gerusalemme hanno deciso quella notte di correre un rischio e di accettare l'accordo per lo scambio di ostaggi. Tutto questo è una dichiarazione morale e di valore sull'impegno del governo nei confronti dei suoi cittadini. Eppure, nonostante le difficoltà e le preoccupazioni che tutti condividiamo tra la popolazione, è dovere della leadership e dei media evidenziare anche i pericoli che si celano dietro l'accordo per lo scambio di ostaggi. Yahya Sinwar, il leader di Hamas sul campo ma in realtà in clandestinità, conosce la società israeliana meglio di quanto si pensi, e probabilmente meglio del popolo stesso. Durante i 22 anni di prigionia in Israele, Sinwar ha imparato non solo l'ebraico, ma soprattutto le debolezze della società israeliana.
   Il 7 ottobre, Yahya Sinwar ha colto Israele completamente di sorpresa mettendo in atto un piano di inganno completo e strategico. "Le migliori menti del sistema di sicurezza israeliano non hanno capito l'inganno per i motivi più disparati, e tutti dovranno anche risponderne dopo la guerra. Ciò che le giovani soldatesse hanno visto con i loro occhi alla barriera di confine non è stato preso sul serio dai loro comandanti", ha scritto il noto esperto militare israeliano Yossi Yehoshua. "I comandanti di alto livello vedevano il quadro generale ma non la realtà sul campo e il governo si preoccupava di problemi che oggi sembrano solo idioti e stupidi".
   Proprio come Yahya Sinwar ha colto di sorpresa Israele più di sei settimane fa, è molto probabile che saremo nuovamente ingannati. Quasi tutti gli esperti di sicurezza e militari del Paese che non sono legati al governo lo hanno avvertito nei giorni scorsi. In linea di principio, anche la maggioranza della popolazione la pensa così.
   Il governo non deve accettare l'accordo di Yahya Sinwar. Sinwar ha ingannato il governo per più di una settimana. Sinwar ha iniziato con 100 ostaggi, bambini e donne. Poi è sceso a 80, poi a 70 e ora siamo a 50. E Sinwar ha diviso questo rilascio di 50 ostaggi israeliani in un piano graduale, che giocherà contro di noi tecnicamente e politicamente. Sarebbe meglio se Israele non accettasse questo accordo. Finora Sinwar ha visto la massiccia offensiva di terra israeliana a Gaza, la sua gente uccisa e in fuga. Ha anche visto Israele prendere l'ospedale Shifa, anche se questa era una linea rossa per Sinwar. L'esercito israeliano sta soffocando l'intero sistema del terrore e i palestinesi stanno fuggendo verso sud. Vede la crisi umanitaria. A Yahya Sinwar basta un cessate il fuoco. Quattro o cinque giorni. Un cessate il fuoco così lungo potrebbe porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza. Aumenterà anche la pressione internazionale su Israele. Non dobbiamo essere in grado di porre fine alla guerra ora perché abbiamo ancora molti ostaggi nella Striscia di Gaza. Sarebbe meglio e più necessario ottenere uno scambio completo di ostaggi, ma per questo Sinwar e Hamas devono essere completamente distrutti.
   Tutto ciò che si dice di Yahya Sinwar nella Striscia di Gaza e in Israele è vero. Quando molti anni fa mise le mani sull'apparato "Al Majed" e ripulì la società palestinese dai collaboratori di Israele e dai palestinesi che si erano allontanati dall'Islam, nella Striscia di Gaza si destò un mostro.
   "Interrogava i palestinesi con falsa gentilezza davanti a una tazza di caffè e, non appena terminato l'interrogatorio e appreso tutto ciò che voleva sapere, uccideva l'interrogato con un colpo alla testa", ha sottolineato l'esperto di Medio Oriente ed ex generale Moshe Elad, che 30 anni fa dirigeva il coordinamento della sicurezza nel cuore biblico della Giudea e Samaria. Sinwar trascinava collaboratori e traditori, legati alla sua auto, lungo la strada di Salach al-Din a 150 chilometri all'ora e seppelliva gli apostati dalla fede islamica in pilastri di cemento dopo averne smembrato i corpi". Per Sinwar non ci sono ostacoli.
   Due fenomeni davano da pensare a Sinwar. L'estrema sensibilità di Israele nei confronti delle vite umane e la debolezza dei politici nei confronti della società israeliana. Sinwar capisce molto bene che la società israeliana è stressata e molto vulnerabile.
   Questo è il concetto di Israele che Sinwar presenta nell'accordo per lo scambio di ostaggi. Egli commercializzerà l'accordo come se avesse ottenuto un'enorme tregua nel bel mezzo della guerra per soli cinquanta donne e bambini, due gruppi di persone che considera inferiori. Durante questo cessate il fuoco, Hamas si riprenderà e si riorganizzerà nel sud di Gaza. Inoltre, il rilascio di 150 donne e minori palestinesi dalle prigioni israeliane, tutti terroristi e non innocenti. Inoltre, l'importazione di cibo, medicine e, per finire, di carburante.
   Sinwar ha insistito su un accordo graduale, e non è una coincidenza. Spremerà in tutti i modi il limone in una limonata chiamata "cessate il fuoco". Sinwar troverà una scusa dicendo che Israele non rispetta il cessate il fuoco e quindi che è libero "di non rispettarlo nemmeno lui". In un secondo momento, accuserà Israele di aver attivato un drone per individuare la sua posizione nonostante l'accordo. In terzo luogo, farà in modo che i media stranieri siano autorizzati ad entrare nella Striscia di Gaza durante il cessate il fuoco, per presentare a loro e al pubblico mondiale le immagini più raccapriccianti di bambini palestinesi morti e gravemente feriti. Non appena il mondo vedrà queste immagini, i Paesi occidentali eserciteranno incredibili pressioni su Israele affinché ponga fine alla guerra. Il governo di Gerusalemme non può e non deve permettersi questo, perché la popolazione non lo permetterà. E se il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non sarà abbastanza forte, questo porterà a disordini tra la popolazione. Israele non è entrato in guerra solo per liberare gli ostaggi, ma soprattutto per distruggere Hamas.
   Inoltre, il dottor Moshe Elad ritiene che durante il cessate il fuoco, Sinwar darà istruzioni alle sue cellule di Hamas in Giudea e Samaria di compiere attacchi terroristici in Israele e anche dal Libano, per costringere Israele a concentrare i suoi sforzi strategici altrove rispetto a Gaza. "Durante il cessate il fuoco, Hamas eserciterà forti pressioni sugli iraniani per convincere Hezbollah e gli Houthi a molestare Israele".
   Sinwar ritiene che le pressioni su Israele avranno successo e che Israele interromperà quindi il suo proposito di distruggere Hamas nel sud della Striscia di Gaza a Khan Yunis. Come piano B, egli fortificherà la sua roccaforte a Khan Yunis, suo luogo di nascita e città natale, per la prossima fase della guerra. Se il suo piano dovesse fallire, verrà ucciso lì da un barile bomba o da un colpo di pistola sparato da un soldato israeliano. Questa è la promessa che il governo ha fatto al popolo israeliano, e il governo deve mantenerla.

(Israel Heute, 22 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Ho visto il video degli orrori di Hamas. È accaduto, di nuovo

“Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un ostaggio sul pickup. Quarantatré minuti e 138 morti, neppure un decimo del totale del massacro del 7 ottobre. Un pubblico (ristretto) sconvolto.

di Gabriele Carrer

Il papà scappa con i suoi due figli. Il solo intimo che indossano fotografa la sorpresa del momento. Cerca rifugio per loro. Lo trova. Trova il rifugio antiaereo fuori dalla loro abitazione nel kibbutz. Una granata fa in tempo a raggiungerlo prima che la porta si chiuda. Lo lascia senza vita. Priverà uno dei figli della vista da un occhio. Lui e il fratello vengono trascinati in casa. I loro corpi ricoperti del sangue del papà. Piangono. Disperati. Chiamano il papà. “Perché sono vivo?”, grida in lacrime, grida strazianti, uno di loro dicendo di non vedere da un occhio. Sono sul divano in cucina. A pochi centimetri da loro, uno dei terroristi di Hamas apre il frigorifero. Rovista un po’. E alla fine, a muso, tracanna della Coca Cola. Qualche minuto più tardi arriverà la mamma. E gli operatori della sicurezza faranno fatica a trascinarla al riparo quando scoppierà in lacrime vedendo il corpo senza vita del marito.
   In molti momenti durante quei lunghi 43 minuti proiettati in una sala dell’ambasciata di Israele a Roma noi giornalisti, una dozzina, ci siamo guardati più volte negli occhi. Sconvolti. Meglio che guardare certe immagini e ascoltare certi audio del massacro del 7 ottobre. Alcuni di questi materiali erano già circolati online, ma in forme tagliate o oscurate. Neanche l’ambasciatore Alon Bar riesce a guardare quelle immagini. Gioca con la penna tra le sue mani. Guarda nel vuoto. Sembra cerchi di pensare ad altro. Sicuramente non sarebbe il solo.
   Perché non si può rimanere indifferenti. Non davanti a quelle immagini, buona parte delle quali prodotte proprio dai terroristi di Hamas con bodycam e smartphone per diffondere e celebrare le proprie gesta ai parenti, agli amici ma anche e soprattutto al mondo. Non davanti a certe parole: “Spara”, “Brucialo”, “Prendilo e appendilo in piazza Al-Alam”, “Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un moribondo ostaggio caricato sul cassone del pickup. E soltanto alla fine si scopre di aver visto 138 morti su quello schermo. In 43 minuti. E non è neppure un decimo del totale delle vittime dell’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso.
   Perché mostrare questo video? Per dire, ribadire e se serve anche convincere che ciò che non doveva capitare “mai più” invece è accaduto di nuovo, che degli ebrei fossero uccisi soltanto perché ebrei. Per mostrare ciò che è Hamas, spiegato bene da Hamas, e perché va estirpata per assicurare un futuro migliore a israeliani e palestinesi.
   Perché mostrarlo a un pubblico ristretto anche se potenzialmente influente? Per rispetto delle vittime e delle famiglie. Ma anche per non dare l’impressione di essere alla ricerca di coperture per le morti causate dalla reazione di Israele.
   Un dilemma che assilla anche chi guarda e poi scrive.

(Formiche.net, 22 novembre 2023)

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“Se mio figlio ha partecipato agli attentati di Hamas lo ammetterete?”

Lo scherzo all’ufficio ammissioni di Harvard

di Pietro Baragiola

L’ufficio ammissioni dell’università di Harvard è caduto vittima di uno scherzo telefonico realizzato dalla giornalista satirica israeliana Racheli Rottner che si è finta la madre di un terrorista di Hamas interessata a sapere se la partecipazione del figlio al massacro del 7 ottobre possa migliorare le sue possibilità di entrare nel rinomato ateneo.
Questo scherzo è stato ispirato dalle numerose critiche che nelle ultime settimane sono state rivolte a diverse università americane per la loro mancata condanna dei crimini di Hamas e per il sostegno che molti studenti hanno espresso pubblicamente nei confronti dell’organizzazione terroristica, portando ad un aumento preoccupante degli episodi antisemiti nei campus.
Pubblicato online domenica 12 novembre sotto forma di filmato animato per il sito israeliano Mako, lo scherzo è stato poi condiviso su YouTube dove ha ottenuto milioni di visualizzazioni in meno di 24 ore.

LO SCHERZO AD HARVARD
Dopo gli eventi del 7 ottobre Rottner è stata incaricata di sostituire i redattori delle diverse rubriche di Mako, senza però avere mai l’occasione di raccontare gli eventi attraverso il suo peculiare taglio satirico.
“Fu così che mi venne l’idea di fare uno scherzo telefonico che fosse legato alla guerra senza che la riguardasse direttamente” ha affermato la giornalista, spiegando che, nonostante il suo primo istinto fosse quello di rivolgere lo scherzo direttamente ad Hamas, sarebbe stata un’impresa troppo ardua.
L’ispirazione per Harvard le arrivò dopo aver visto un’intervista in cui l’attrice ebrea americana Mayim Bialik affermava che, a causa dell’aumento degli episodi antisemiti in America e specialmente nell’università di Harvard (dove si è laureata), si sentiva una straniera nel suo stesso paese. Anche molti altri ex alunni del rinomato ateneo tra cui l’ex ministro del Tesoro Larry Summers e il senatore repubblicano Ted Cruz hanno considerato inaudito che, a meno di 24 ore dall’attacco del 7 ottobre, 33 associazioni studentesche di Harvard avessero firmato una lettera aperta accusando Israele come “la vera responsabile di tutte le violenze”.
La presidentessa di Harvard, Claudine Gray, ha tentato di sedare la situazione, condannando personalmente le atrocità commesse da Hamas e dichiarando che “le prese di posizione di gruppi studenteschi, anche numerosi, non rispecchiano l’opinione dell’ateneo”. Ciononostante, le manifestazioni antisemite sono aumentate sempre più, portando molti importanti donatori ebrei a minacciare di tagliare i fondi devoluti all’università per un totale di decine di milioni di dollari.
Fu così che la Rottner cominciò a pianificare lo scherzo, scegliendo di interpretare il personaggio di “Jaama” una donna che chiama per conto del figlio “Hameed”, terrorista di Hamas, nella speranza di ottenere una borsa di studio per il suo notevole “attivismo politico”.
“Voglio solo sottolineare ancora una volta che si tratta di una vera e propria chiamata all’ufficio ammissioni. Molte persone sono rimaste talmente sbalordite che mi hanno chiesto se si trattasse di uno sketch ma è reale” ha confermato Rottner, spiegando che nonostante il responsabile dell’ufficio ammissioni fosse chiaramente a disagio è rimasto in linea fino alla fine.
“Mi aspettavo che riagganciasse la cornetta molto presto e non l’ha fatto, portandomi così ad aggiungere domande sempre peggiori” ha raccontato la giornalista. “Purtroppo viviamo in una società in cui riattaccare il telefono in faccia a qualcuno è considerato più grave di ascoltare una persona mentre parla del massacro di bambini innocenti come se niente fosse”.


TRADUZIONE DELLA TELEFONATA

Ufficio Ammissioni dell’Università di Harvard, come posso aiutarla?

- Salve, il mio nome è Jaama. Mio figlio Hameed vorrebbe registrarsi nella vostra università il prossimo anno. Forse ha sentito parlare di lui? Era uno dei combattenti di Hamas che ha partecipato alle lotte del 7 ottobre. Un vero attivista politico! Volevo dunque chiederle se aveste una borsa di studio per l’attivismo politico?
  No tutte le nostre borse di studio vanno agli applicanti che non possono permettersi la retta scolastica. Non ce ne sono per merito.

- Non lo aiuterebbe dunque il fatto che era un combattente di Hamas?
  Tutto quello che uno studente ha fatto prima di fare richiesta lo può aiutare nel processo di selezione.

- Ok quindi lo potrebbe aiutare il fatto di aver partecipato al massacro del 7 ottobre?
  In-in-in aggiunta a tutto il resto. Il nostro processo di ammissione esamina tutta la carriera liceale di uno studente sia dentro che fuori dalla classe.

- E il massacro è un vantaggio giusto?
  O-o-ognuna delle attività può portare un vantaggio. Esaminiamo tutte le loro attività dentro e fuori dalla classe.

- E non si preoccupi. Non ha violentato nessuna delle prigioniere. Ha molto rispetto per tutti i generi. Le ha solo uccise. È molto femminista. Quindi andrà bene, giusto?
  Io…le posso solo dire che può provare a mandare la richiesta.

- Ottimo, ottimo! Perché ha molto rispetto anche per le minoranze etniche. Ha massacrato solo bambini bianchi. Non abbiamo bisogno di altri uomini bianchi nel mondo, non trova? Pronto?
  …. ha per caso qualche altra domanda da pormi?

- Si, volevamo sapere delle regole di condotta nel campus in modo da non fare niente di proibito. Si può fumare nel campus?
  Hummm non ne sono sicuro.

- Ok, allora si possono bere alcolici?
  No, bere alcolici non è concesso.

- E violentare?
  Anche quello non è concesso.

- E massacrare i bambini? In giro per il campus?
  Anche quello non è concesso.

- E indossare un cappello?
  Può indossare un cappello.

- Oh bene! Ho avuto paura per un momento. Ok. Mio figlio non vede l’ora di essere ammesso nella vostra università. Ha molte attività divertenti per lui, gli altri studenti e per tutti i presenti nel campus. Sarà molto divertente! Grazie davvero!
  …buona giornata.

- Anche a lei! 


LO SKETCH DI ERETZ NEHEDERET

Harvard non è stata l’unica università americana ad essere travolta dalla crescente ondata di antisemitismo che si è diffusa tra gli studenti statunitensi.
Questo fenomeno preoccupante ha attirato l’attenzione del programma satirico di Keshet TV Eretz Nehederet (Un Paese Meraviglioso) che ha deciso di trasmettere uno sketch in cui una coppia di studenti americani ultraliberali sposano l’antisemitismo e sostengono allegramente il terrorismo di Hamas.
“Siamo pienamente a sostegno di tutti coloro che sono LGBTQH. Ovviamente la ‘H’ sta per ‘Hamas’ che è così trendy in questi giorni” affermano gli attori durante lo sketch, giustificando i propri insulti verso gli studenti ebrei auto dichiarandosi non antisemiti ma “razzisti fluidi”.
La clip continua con i due studenti che simulano un collegamento con l’armato Abu Fatwa, un terrorista di Hamas, senza accorgersi dell’interminabile filippica di insulti e minacce che l’uomo rivolge a loro: tra cui la promessa di “uccidere tutti gli infedeli”. Quando il terrorista dice che gli mancano solamente altri razzi per sconfiggere Israele e passare all’America, uno degli studenti risponde in maniera entusiasta: “basta che siano organici”.
La conduttrice del telegiornale di Canale 12, Yonit Levi, ha postato la clip sul suo account X domenica 5 novembre ed entro lunedì aveva già ottenuto più di 11,5 milioni di visualizzazioni ed oltre 30.000 “mi piace”.
Questa non è la prima volta che Eretz Nehederet crea uno sketch satirico sul conflitto tra Israele e Hamas: solo una settimana prima aveva postato un video in cui prendeva in giro la BBC per la sua copertura pro-palestinese della guerra.

(Bet Magazine Mosaico, 22 novembre 2023)

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L’Ema sapeva fin dal primo momento che il vaccino non evita il contagio

L'Agenzia europea del farmaco ribadisce, in una lettera a un eurodeputato, che i sieri non furono autorizzati «per prevenire la trasmissione». È la conferma che il green pass non aveva una giustificazione scientifica.

di Maddalena Loy

Sull'efficacia e sulla sicurezza dei vaccini anti Covìd, somministrati in massa in tutto il mondo (13,5 miliardi di dosi a novembre 2023), la menzogna è stata la cifra predominante della comunicazione istituzionale. Si prenda ad esempio la frase pronunciata dal presidente Aifa Giorgio Palù il 23 dicembre 2020, quattro giorni prima dell'arrivo delle prime forniture sul continente europeo, attese come lo sbarco in Normandia:« Questo vaccino previene addirittura l'infezione, quindi dà un'immunità sterilizzante», rivelò con enfasi l'appena nominato presidente Aifa in una conferenza stampa organizzata con il governatore veneto Luca Zaia. Per poi ribadire: «E quasi certo che entrambi i vaccini a mRna (Pfizer e Moderna, ndr) diano un'immunità sterilizzante, lo stanno già misurando adesso, quindi io vi anticipo dei dati che sono quelli che ci ha trasmesso l'Ema (l'Agenzia europea dei medicinali, ndr) e che noi abbiamo visto in Aifa».
   Ema trasmise davvero queste informazioni ad Aifa? La lettera inviata dall'Agenzia europea dei medicinali poche settimane fa all'eurodeputato olandese Marcel De Graaff dice esattamente il contrario di quanto affermato da Palù.
   Lo scorso 4 ottobre De Graaff, insieme con altri deputati europei (Gilbert Collard, Francesca Donato, Joachim Kuhs, Mislav Kolakusìc, Virginie Joron, Ivan Vilibor Sincic e Bernhard Zimniok) invia una lunga lettera a Ema chiedendo l'immediata sospensione delle autorizzazioni dei vaccini Comirnaty (Pjizer, ndr) e Spikevax (Moderna, ndr), concesse in tutta fretta a fine 2020. Ema risponde alla lettera di De Graaff il 18 ottobre, dandogli sostanzialmente ragione proprio sull'inefficacia rispetto al contagio: «Lei afferma», scrive Ema a De Graaff, «che i vaccini avrebbero dovuto essere somministrati solo a chi necessitava di protezione personale, perché non sono autorizzati per ridurre il rischio d'infezione. Lei afferma inoltre che l'autorizzazione concessa non è in linea con gli usi promossi dalle aziende farmaceutiche, dai politici e dagli operatori sanitari».
   In effetti, come dimenticare i moniti, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Papa Francesco, a vaccinarsi «per proteggere gli altri»? « Vaccinate i bambini per proteggere i nonni», giunsero a dire politici e giornalisti, alcuni auspicando perfino l'eliminazione fisica di chi si fosse sottratto all'inoculazione. Il clima di caccia alle streghe culminò con l'approvazione del Dl 52 del 22 aprile 2021 che istituì il green pass. Sulla base di quali informazioni scientifiche Mario Draghi ha potuto impunemente affermare che «se non ti vaccini, ti ammali e muori» e imporre il certificato verde, senza il quale molti lavoratori hanno perso il posto di lavoro? E ancora, quali informazioni scientifiche sono state fornite alla Corte Costituzionale, che ancora a fine 2022 ha potuto mettere nero su bianco che «alla luce delle risultanze scientifiche disponibili» (quando fu introdotto l'obbligo di vaccinazione per i sanitari, ndr), l'imposizione del vaccino era l'unica possibilità di proteggere i malati in contatto con i medici? Ema non lo aveva scritto: «Lei ha ragione a sottolineare che i vaccini contro il Covid-19 non sono stati autorizzati per prevenire la trasmissione», ha confermato l'Agenzia a De Graaff, «le informazioni sul prodotto affermano chiaramente che i vaccini servono "per l'immunizzazione attiva per prevenire il Covid-19”, e i rapporti Ema rilevano la mancanza di dati sulla trasmissibilità», Non sono mai esistiti, dunque, i dati di cui ha parlato Palù e sui quali le massime istituzioni italiane, dal premier Draghi al ministro della Salute Roberto Speranza, hanno imposto restrizioni gravissime della libertà dei cittadini. Nell'assessment report sul vaccino Comirnaty pubblicato da Ema il 21 dicembre 2020 - ben prima dell'istituzione del green pass - l'Agenzia scrive chiaramente che «al momento non sappiamo se il vaccino protegge dall'infezione asintomatica, né conosciamo il suo impatto sulla trasmissione virale. L'efficacia del vaccino nella prevenzione della diffusione e della trasmissione del Sars Cov-2 potrà essere valutata soltanto dopo l'autorizzazione attraverso studi epidemiologici o clinici». Noi de La Verità lo diciamo da oltre due anni, ma la lettera conferma che anche la massima autorità sanitaria europea sapeva fin dall'inizio che il vaccino non impediva l'infezione.
   «Da parte di Ema c'è stata una gravissima mancanza di responsabilità riguardo la salute della popolazione e la violazione dei diritti fondamentali» dichiara De Graaf a La Verità, «ma peggio ancora hanno fatto i governi: conoscevano i dati Ema e nonostante ciò hanno fatto incredibili pressioni per l'uso off-label del vaccino. Hanno mentito e persino violato i diritti dei cittadini: è uno scandalo enorme, e la maggior parte dei deputati al Parlamento europeo sono complici in quanto membri dei partiti che governano l'Ue, che sono invischiati fino al collo in questo scandalo».
   Qualcuno obietterà che comunque il vaccino andava fatto per evitare il ricovero in ospedale. «Confermando che anche i vaccinati contraggono l'infezione, è un non argomento», replica De Graaff. Inoltre, «se il vaccino era, come Ema ammette, una forma di "prevenzione personale", com'è stata possibile la vaccinazione di massa su miliardi di persone, inoculate senza che un solo medico facesse una valutazione individuale sul loro stato di salute? È stata creata una cortina fumogena sulla pericolosità di questi vaccini. Il mio partito chiederà conto al governo olandese di queste nuove informazioni rilasciate da Ema: questo è ciò che posso fare come politico, ma altri, con cui collaboro, potranno portare queste evidenze in tribunale».
   I governi Ue sono avvisati.

(La Verità, 22 novembre 2023)
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Su tutto il modo in cui le autorità del nostro paese hanno gestito per due anni la questione pandemica «... la menzogna è stata la cifra predominante della comunicazione istituzionale». L'aspetto preoccupante è la quantità di persone che non ha saputo riconoscerla e si è piegata senza obiezioni alla menzogna della narrazione ufficiale. Questo fa temere che la cosa possa ripetersi per altri argomenti. M.C.

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Incontro su Israele a Torino - 3 dicembre 2023

«Israele ha ragione! MA...

Per un disguido tra organizzatore e oratore, il titolo dell'incontro appare in una forma che può prestarsi ad equivoci. Se per motivi tecnici quel MA non ha potuto essere tolto dagli avvisi in cui è comparso su altre piattaforme, questo può essere fatto graficamente qui e sarà fatto oralmente nella trattazione del tema. M.C.

(Chiamata di Mezzanotte, novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 46. La legge internazionale e le trattative con Hamas

di Ugo Volli

Pirateria nel Mar Rosso
  Gli Houthi, gruppo terrorista yemenita sostenuto e armato dall’Iran, in guerra col governo legittimo del loro paese e con l’Arabia che lo appoggia, hanno sequestrato nel Mar Rosso una nave mercantile di nome 'Galaxy Leader' e hanno pubblicato abbondanti foto e video di questa operazione, proclamandosi orgogliosi di aver dirottato una nave che dicono "israeliana", dato che dicono di aver dichiarato guerra a Israele per appoggiare Hamas, tentando anche di bombardare città civili israeliane come Eilat. Peccato che la nave fosse di proprietà di una società inglese, registrata alle Barbados, in navigazione verso il Giappone, priva di carico, con un equipaggio internazionale in cui non figuravano marittimi israeliani. Insomma un atto di pirateria marittima auto-denunciato in pompa magna e del tutto inutile, anche dal punto di vista dei fuorilegge che l’hanno realizzato. La pirateria è forse il più antico reato condannato dalla legge internazionale. Sembrava estinto da un paio di secoli, grazie all’azione concorde delle marine militari di mezzo mondo, poi è stato rimesso in uso dall’Iran nel Golfo Persico, dai fuorilegge somali e ora dagli Houthi nel Mar Rosso. Colpisce l’assenza di reazioni da parte del mondo civile che si proclama difensore della legalità internazionale, anche perché il Mar Rosso e lo stretto di Bab el Mendeb su cui si affaccia lo Yemen, sono la fondamentale via commerciale che collega, passando per il Canale di Suez ed eventualmente Gibilterra, tutta l’Europa inclusa Gran Bretagna e Germania ed anche gli Stati Uniti orientali all’Estremo Oriente (Russia e Cina) e alle fonti petrolifere del Golfo Persico. Se a Sud di Suez si stabilisse un regime costante di pirateria i rifornimenti industriali, alimentari ed energetici di mezzo mondo sarebbero a rischio. Questo episodio mostra anche il pericolo di mantenere dei territori in mano ad attori non statali. Gli Houthi come Hamas fanno le vittime, cercano di farsi tutelare dalla legge internazionale quando fa loro comodo, ma la violano continuamente in maniera crudele e sistematica: sono pirati, assassini di massa, violentatori; sparano sulla popolazione civile dei paesi che considerano nemici, rapiscono, riducono in schiavitù. Ma la tanto lodata “comunità internazionale”, le commissioni dell’Onu, le Ong che dicono di proteggere i diritti umani non fanno nulla per fermarli e se qualcuno interviene con la forza, come sta facendo Israele strillano e protestano. O addirittura sostengono, come ha fatto qualcuno, che contro gli attori non statali non vi sarebbe diritto degli stati all’autodifesa.

La fuga dei leader di Hamas
  L’operazione di pulizia di Gaza è intanto entrata in una fase decisiva. Dopo aver ormai conquistata la parte settentrionale e buona parte di quella centrale della Striscia, le truppe israeliane procedono sistematicamente a eliminare le istallazioni militari del terrorismo e in particolare i tunnel. È un lavoro lunghissimo, perché quasi ogni palazzo nasconde un deposito d’armi, un appostamento per la battaglia, soprattutto una botola che porta ai pozzi di collegamento con le gallerie. Ed è anche un impegno molto pericoloso, perché dappertutto potrebbero esserci nemici appostati, bombe nascoste poste a esplodere, trappole. Ogni giorno in queste operazioni qualche soldato cade e molti sono feriti. Sono soprattutto gli ospedali a essere oggetto di queste difficili esplorazioni, perché lì sotto sono state scavate le istallazioni più importanti del terrorismo e si trovano anche tracce degli ostaggi. Ci sono informazioni fondate per cui i capi di Hamas (quelli che stanno a Gaza, non gli altri che danno ordini da comodi alberghi in Qatar), in particolare il leader politico Yahia Sinwar e quello militare Mohammed Deif avrebbero usato le gallerie per fuggire da sotto l’ospedale di Shifa, dove si nascondevano e ora sarebbero nella parte meridionale della Striscia, insieme a buona parte delle loro forze rimanenti, che sono ancora consistenti. Il loro progetto potrebbe essere di resistere a oltranza, ma più probabilmente di rifugiarsi in Egitto, usando i tunnel transfrontalieri una volta allestiti per il contrabbando e poi per lo più distrutti dalle autorità egiziane, ma ancora in parte esistenti. Lo farebbero seguendo la classica regola della guerra asimmetrica, codificata da Mao, che spiega la loro strategia: "Se il nemico avanza, ritirati; se il nemico si ferma, disturbalo; se il nemico è stanco, attaccalo; se il nemico si ritira, inseguilo". Per riuscirci hanno però bisogno di bloccare l’azione israeliana.

Le trattative
  Per questa ragione sono riprese le trattative: Hamas offre la liberazione di alcuni ostaggi (a quanto pare una cinquantina di donne e bambini) in cambio del rilascio di un certo numero di terroristi e soprattutto di un cessate il fuoco di alcuni giorni (si discute fra i tre e i cinque). I terroristi pretendono anche che Israele sospenda durante questo periodo i rilevamenti visivi degli aerei e dei droni, col pretesto che in questo modo il rilascio degli ostaggi sarebbe più sicuro, ma in realtà è per nascondere i propri movimenti. Ci sono forti ragioni per spingere Israele alla trattativa, che continua da tempo con interruzioni, bluff, ricatti. La prima è naturalmente la richiesta sempre più forte delle famiglie dei rapiti, che sperano di rivedere i loro cari - ma sarebbero solo una minoranza dei 240 sequestrati. La seconda è la pressione della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti. Ma bisogna essere chiari. La tregua con la liberazione di alcuni ostaggi sarebbe una vittoria per Hamas; per Israele costituirebbe, se non proprio una sconfitta, un prezzo ulteriore da pagare ai terroristi in seguito del pogrom del 7 ottobre. Gli ostaggi sono stati sequestrati proprio per essere scambiati, per diventare moneta di scambio ed eventualmente scudi umani, come è sempre accaduto coi terroristi dai tempi di Gilad Shalit e anche prima. La scarcerazione dei detenuti aumenterebbe la popolarità di Hamas. L’interruzione dell’offensiva darebbe ai terroristi il tempo di riorganizzarsi per combattere o fuggire, la vita dei soldati sarebbe più a rischio, vi sarebbe subito un’ulteriore pressione per allungare la tregua, insomma rischierebbe di sfuggire lo scopo di questa guerra, l’eliminazione dei gruppi terroristi da Gaza. E questa sarebbe un trionfo per costoro, secondo le regole della guerra asimmetrica, dove basta all’attaccante riuscire a sopravvivere per avere vinto la battaglia. Per questo il primo ministro Netanyahu e il ministro della difesa Gallant, a quel che si dice, cercano di resistere alle richieste della vecchia opposizione di sinistra, che è ricomparsa in piazza in Israele e anche di parti dell’apparato militare. Ma non è detto che ci riescano a lungo.

(Shalom, 21 novembre 2023)

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Riprese di una videocamera mostrano un agricoltore che salva 120 persone il 7 ottobre

Oz Davidian, membro di un moshav locale, si è ripetutamente recato sul luogo dell'attacco per salvare i sopravvissuti.

di David Isaac

Le corse di Oz Davidian verso il Nature Party, documentate da Channel 13.
Oz Davidian, un agricoltore del sud di Israele, ha salvato 120 giovani del festival musicale Supernova, il festival della natura che i terroristi di Hamas hanno invaso con sanguinaria ferocia il 7 ottobre, uccidendo circa 350 frequentatori disarmati del festival.
Il filmato della sua jeep ha ripreso ogni momento dei circa 20 viaggi che ha compiuto dal luogo del festival all'aperto fino al suo moshav Maslul e a un'altra comunità, il moshav Patish, per salvare i sopravvissuti e portarli in salvo.
Il filmato è stato diffuso da Channel 13 martedì scorso.
Davidian racconta che una giovane donna che aveva raccolto nella sua jeep gli chiese: "Dimmi, chi sei?". Lui rispose: "Sono solo un moshavnik che è venuto a liberarti".
"No, no, non può essere", disse lei, "Che persona speciale sei? Qualcuno dello Shin Bet?".
Quando lui le chiede perché lo dice, lei risponde: "Guardi, non c'è nessuno qui. Siamo bloccati qui da ore. Non c'è nessuno. Non può essere che non ci sia nessuno e che tu sia l'unico a venire".
Il tema delle vittime abbandonate a se stesse e dell'assenza dell'IDF e delle altre forze di sicurezza è un filo conduttore di tutte le storie di salvataggio e sopravvivenza di quel giorno.
"È difficile continuare a vederlo. Sono rimasti lì per ore. Ha salvato molte persone. “Ma non ci sono [forze di sicurezza", ha commentato il presentatore di Channel 13 dopo il servizio.
Secondo il servizio, Hamas ha controllato per sei ore la strada 232 e l'area rurale dove si stava svolgendo il festival musicale.
Yossi Eli, il giornalista di Canale 13 che ha realizzato il reportage, ha scritto su X, in precedenza Twitter: "Quello che posso dire dal filmato è che... anche quando la telecamera ha mostrato l'ora 12:30 - sei ore (!) - dopo l'invasione di Hamas, i maledetti terroristi erano da soli nella regione del Kibbutz Re'im e hanno fatto quello che volevano: Hanno violentato e ucciso donne (vi risparmio le immagini), saccheggiato i corpi dei soldati e nessuno li ha disturbati".
La videocamera dell'agricoltore lo riprende mentre guida accanto ad auto bruciate, cadaveri e terroristi. Davidian descrive come una volta abbia visto due uomini vicino al cadavere di un soldato. All'inizio ha pensato che fossero soldati israeliani, ma poi ha capito che potevano essere terroristi. Si ferma e chiede in arabo se il soldato è morto. Un terrorista risponde affermativamente.
"In quel momento abbiamo capito entrambi. Io ho capito che lui è un terrorista e lui ha capito che io sono ebreo", dice Davidian, accelera e parte. La telecamera di retromarcia della Jeep mostra i terroristi che si alzano e si girano verso il veicolo.
"Mentre fuggiamo, si sente che ci sparano addosso. Miracolosamente, i proiettili non hanno colpito l'auto", racconta Davidian.
Ha visto un terrorista violentare una donna mentre i suoi compagni stavano a guardare e sparavano. "Vedono come il loro amico violenta. Lo sorvegliano e continuano a sparare".
Si vedono mucchi di corpi, uno sopra l'altro...". Sembra che li abbiano massacrati e che siano caduti l'uno sull'altro in una pioggia di proiettili".
Vede i volti dei morti e si rattrista di non poter portare via i corpi da lì. "Perché ci sono feriti e sopravvissuti che si stanno ancora nascondendo, e i terroristi che continuano a sparare su di loro", dice.
Mentre lui svolgeva la sua missione di salvataggio autoimposta, la moglie e le quattro figlie si sono nascoste in una stanza sicura della loro casa.
"Sono preoccupate. Ci sono terroristi in tutto il quartiere. Sparano in tutte le direzioni. È inimmaginabile questa malvagità. Sparano a tutto ciò che si muove".
Davidian dice di essere stato aiutato dal fatto che conosceva la zona e sapeva "dove si trovavano tutte le fosse", in modo da poter guidare a tutta velocità. Ogni volta che si recava nell'area del Nature Party, prendeva una strada diversa.
Durante uno dei suoi viaggi, una delle sue figlie, Uriah, lo chiama. Le dice che al momento non può parlare perché sta "salvando le persone dalla festa e dal caos".
In un'intervista successiva, Uriah dice al giornalista, mentre abbraccia il padre: "È sempre stato il mio eroe".
Dal terribile attacco del primo sabato di ottobre, noto in Israele come "Black Sabbath", continuano a venire alla luce atti di coraggio.
All'inizio di questa settimana, un video del massacro del 7 ottobre ha mostrato l'ultimo atto eroico di un soldato fuori servizio, Aner Elyakim Shapiro, che ha protetto un rifugio pubblico affollato gettando via le granate di Hamas lanciate dai terroristi.
Il video, ripreso dalla videocamera di un'auto vicina e postato su Telegram dal gruppo South First Responders, mostra Shapiro che riesce a lanciare sette granate prima che l'ottava lo ferisca mortalmente.
Il rifugio era pieno di visitatori del festival musicale che avevano cercato protezione dal lancio di razzi della mattina dalla Striscia di Gaza.

(Israel Heute, 21 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I 47 minuti di odio scientifico di Hamas

Il 7 ottobre è un giorno infinito, in cui i terroristi hanno agito con metodo e vogliono ripeterlo. Lo strazio delle vittime e la goduria dei carnefici.

di Micol Flammini

Il 6 ottobre non tornerà più. I 47 minuti cuciti insieme dall’esercito israeliano mostrano le scene di una caccia: i terroristi di Hamas entrano nello stato ebraico mentre i suoi cittadini sono ancora in dormiveglia. Si aggirano per i kibbutz che si trovano vicini alla Striscia di Gaza e corrono tra una casa e l’altra, vanno a caccia di civili, di persone disarmate, di famiglie al risveglio, inermi e fragili. Lo siamo tutti nelle prime ore del giorno, quando ancora non abbiamo cancellato il sonno dagli occhi, lo siamo ancora di più di fronte a gruppi di uomini armati che desiderano cagionare il dolore più profondo possibile. Non sono stati gli israeliani di Be’eri o di Kfar Aza ad andare incontro ai terroristi, sono stati i terroristi ad andarli a cercare, a cacciarli, mentre erano nelle loro case, sui divani, a caricare la lavatrice, con l’intenzione di sovvertire e cancellare la loro quotidianità. Tutte le immagini che ha raccolto l’esercito vengono dai cellulari dei miliziani di Hamas. Dalle telecamere che i miliziani avevano attaccate all’uniforme, oppure dalle telecamere a circuito chiuso nelle case degli israeliani o dai telefoni dei primi soccorritori. I video e le foto mostrano lo strazio delle vittime e la goduria dei carnefici. In 47 minuti la violenza si ripete, è ossessiva, è continua, non si ferma mai, sembra durare in eterno. Soprattutto è metodica, i terroristi sono entrati in Israele per fare esattamente quello che hanno fatto: uccidere, violentare, rapire, umiliare. Si beano di ogni gesto, entrano silenziosi nei kibbutz assonnati e rovinano tutto quello che incontrano, lo fanno in modo scientifico, seguendo le indicazioni precise dei loro comandanti. Uno degli ordini è: fate video e foto – si sente dire in una telefonata tra un capo di Hamas rimasto nella Striscia e uno dei miliziani presenti all’attacco – riprendete tutto mentre “giocate”. Sorridono come se quello che da Gaza hanno chiamato gioco sia qualcosa che li sta divertendo in modo atroce, obbligano le vittime a posare per delle foto, si accaniscono sui cadaveri, sulle vite martoriate e ormai finite in un giorno che Israele non dimenticherà mai. Giocano mentre con una vanga cercano di staccare la testa a un civile steso a terra; giocano mentre lanciano le granate in un rifugio in cui si sono rintanati un padre con due figli; giocano mentre entrano in una casa con due bambini spaventati che hanno appena perso un genitore e chiedono dell’acqua. In alcune immagini si sente un telefono che continua suonare, sono suonerie imperterrite e laceranti: dall’altro capo del telefono c’è chi ha saputo e cerca un segnale di vita che non arriva, aspetta di sentire una voce che non si sente, non sa cosa stia accadendo, sa soltanto che in Israele è accaduto qualcosa senza precedenti, che dei terroristi alle sei e trenta del mattino hanno varcato il confine per uccidere più ebrei possibile. Nei filmati i miliziani corrono per i kibbutz e si incitano l’un l’altro: ammazza, ammazza, ammazza. Chiamano nella Striscia e si sentono dire: uccidi, uccidi, uccidi. Appiccano il fuoco a case e macchine ed esultano: brucia, brucia, brucia. Corrono, sparano, picchiano e stuprano, non concedono tregue a nessuno. 
   Il 7 ottobre è un giorno che in Israele non è ancora finito, va avanti inflessibile, con gli archeologi che nei kibbutz colpiti cercano resti, non corpi, ma resti umani che raccontino la storia degli scomparsi. La lista degli ostaggi spesso si contrae di giorno in giorno e chi è vivo, chi è rimasto, chi può raccontare non sa cosa augurare a quei nomi che mancano all’appello. I video mostrano anche i miliziani caricare gli ostaggi a bordo di pick up, li ammassano, li buttano uno sull’altro, con particolare spregio per le donne e per i loro corpi, alcuni già abusati. Poi mostrano l’arrivo di alcuni prigionieri a Gaza, esibiti come trofei, come corna di cervo, portati in trionfo e offerti alla folla. 
   Non ci sarà più un 6 ottobre, Israele è cambiata per sempre e vive nella paura che invece un 7 ottobre possa ripresentarsi all’infinito, Hamas  non ne ha fatto mistero, vuole rivederlo, vuole ripeterlo. Quel sabato mattina per lo stato ebraico non è mai finito. 

Il Foglio, 21 novembre 2023)

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Sondaggio choc: il 46% degli studenti italiani equipara Israele ai nazisti

di Nathan Greppi

Per il 46,3%, pensano che il governo israeliano si comporti con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei; e tale percentuale sale al 59,7% per chi si colloca molto a sinistra e al 47,4% tra chi si colloca molto a destra (scendendo invece tra quelli di centrosinistra e centrodestra, rispettivamente al 45,5% e al 41,7%). Questo è solo uno dei risultati di un sondaggio condotto dall’Istituto Carlo Cattaneo, in merito a cosa pensano degli ebrei e di Israele gli studenti universitari del Nord Italia.

Posizioni politiche
  Nello specifico, il sondaggio è stato condotto dal 29 settembre al 31 ottobre, prendendo come campione 2.579 studenti iscritti a tre atenei: l’Università di Milano Bicocca, l’Università di Padova e l’Università di Bologna. I pregiudizi che riguardano Israele al momento sono quelli più diffusi: il 30,6% degli studenti pensa che gli ebrei approfittino dello sterminio nazista per giustificare le politiche d’Israele, e il 29,6% che gli ebrei si siano trasformati da vittime ad aggressori.
   In generale, sulla base dell’orientamento politico, si possono dividere i vari pregiudizi e stereotipi in due macrogruppi: nel primo, l’odio verso Israele sembra aumentare all’estrema sinistra e all’estrema destra, mentre diminuisce andando verso il centro. Nel secondo, le accuse agli ebrei di “doppia lealtà” e le teorie complottiste sono più diffuse a destra: l’idea che gli ebrei siano più fedeli a Israele che al loro paese è condivisa dal 29,8% del totale, ma sale al 48,2% tra gli elettori di destra e al 34,3% nel centrodestra, e l’idea che gli ebrei non siano italiani fino in fondo sale dal 13,8% del totale al 38,1% a destra.
   Anche per le teorie complottiste si verifica una parabola simile: l’idea che gli ebrei manipolino a proprio vantaggio la finanza globale è condivisa dal 16,9% degli studenti, ma sale al 35% tra quelli di destra; allo stesso modo, sale dal 14,1% al 26,4% l’idea che gli ebrei controllino i mezzi di comunicazione.
   Nel sondaggio vengono però sottolineati anche dati positivi, soprattutto per quanto riguarda il contributo intellettuale e scientifico degli ebrei alla società: l’81% pensa che la scienza moderna non sarebbe quella che è senza il contributo degli scienziati ebrei, e il 62,6% che la cultura occidentale sia debitrice nei confronti della cultura ebraica.
   Infine, emerge una correlazione tra un voto basso alla maturità e un leggero aumento del pregiudizio antisemita: dal 16,9%, la percentuale di chi pensa che gli ebrei tendano i fili della finanza globale aumenta al 20% tra coloro che hanno preso un voto che va da 60 a 79 alla maturità, mentre scende al 15,8% tra chi ha preso da 80 a 89 e al 14,4% tra chi ha preso da 90 a 100.

Cambiamenti dal 7 ottobre
  Il sondaggio analizza inoltre come siano cambiate queste posizioni nel corso del mese di ottobre: se prima del 7 ottobre quelli convinti che il governo israeliano si comportassero come i nazisti erano il 42%, nel periodo dal 17 al 31 ottobre erano saliti al 50%. Mentre quelli che dicono che gli ebrei siano passati da vittime ad aggressori, nello stesso arco di tempo sono passati dal 27,3% al 32,9%.
   Come riportano i ricercatori che hanno scritto i risultati del sondaggio, è “l’affermazione che paragona il comportamento di Israele a quello della Germania nazista a mostrarsi maggiormente sensibile agli eventi e alla loro sequenza. La quota di chi concorda con questa similitudine cresce nei giorni immediatamente successivi alla strage terroristica, molto prima della risposta del governo israeliano. È una reazione a quell’evento, non agli eventi successivi”.
   Se per Israele l’ostilità è aumentata, nel caso dei pregiudizi complottisti e dell’antisemitismo puro la realtà si fa più sfumata: quelli convinti che gli ebrei muovano la finanza globale erano il 20,3% prima del 7 ottobre, ma sono scesi al 13% dall’8 al 16 ottobre, per poi risalire al 16,3% nelle due settimane successive.

(Bet Magazine Mosaico, 21 novembre 2023)

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ISRAELE – Chi rispetta la vita vince

di Edna Angelica Calò Livne

Edna Angelica Calò Livne
Ci prepariamo a raggiungere la mensa comune e a cenare insieme ai 40 haverim [amici, ndr] che sono rimasti a Sasa per proteggere il kibbutz, cogliere le mele e lavorare nella fabbrica della difesa. Da fuori, attraverso i vetri, vediamo che solo la metà del Hadar HaHochel (la nostra mensa) è accesa e quasi tutti i tavoli sono vuoti. Appena entrati, però, un gorgoglio allegro e diamantino di bambini ci avvolge di sorpresa. Un brivido percorre il corpo: “Bambini a Sasa?” Una gioia immensa ci pervade: Nerià è venuta insieme ai suoi quattro bambini a trovare Natav suo marito, che è arruolato nel gruppo di protezione del kibbutz dal terribile 7 ottobre. È venuta solo per qualche ora. Siamo già al 43esimo giorno di guerra e da allora il kibbutz è stato evacuato. La voce dei quattro ragazzini che si rincorrono tra i tavoli e la gente divertita mi riempie di un’emozione incontenibile, di nostalgia e di vigore. Mi salgono le lacrime agli occhi e mi aggrego all’allegria con un grande abbraccio a ognuno dei piccoli. I bambini del kibbutz sono i figli di tutti noi, come i soldati d’Israele sono i figli di noi tutti, come le 240 anime rapite da Hamas sono figli e figlie di tutto il popolo d’Israele. Mangiamo poi torniamo a casa lungo le strade buie e deserte del kibbutz: buie perché è meglio che lì di fronte, da Marjajun o da Rmesh in Libano, a un chilometro e mezzo di distanza da noi, non ci vedano. Camminiamo in silenzio e penso al momento in cui tutto questo finirà e torneranno la luce, le grida allegre, la musica, il suono dei trattori e delle campanelle della scuola e del liceo. E penso al kibbutz Be’eri, a Nir Oz e Kfar Aza, preziose roccaforti di costruttori di pace, di sentinelle sui confini, di agricoltori, distrutte e ridotte a un cumulo di rovine, dove le grida di tanti bambini innocenti non si sentono più. Ma anche stavolta non gliela daremo vinta: sarà più impegnativo di sempre ma riusciremo a scacciare l’oscurità con i mezzi più sofisticati che abbiamo elaborato nel corso dei secoli: resilienza, rispetto e amore per la vita, e determinazione!

(moked, 20 novembre 2023)

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Gli araldi della giudeofobia

di Davide Cavaliere

L’attacco terroristico di Hamas contro Israele e la guerra che ne è seguita, sia sul terreno che nei media, costituiscono uno spartiacque nella storia dell’Occidente. Alcuni dei problemi maggiormente gravi e profondi delle nostre società sono diventati più evidenti che mai. Benjamin Kerstein scrive di un «Asse dell’antisemitismo» emerso con prepotenza in questo mese. Questo nuovo Asse è composto, in gran parte, da musulmani radicali e da un notevole numero di progressisti, divenuti, per via del loro antisionismo rabbioso, dei veri e propri «neonazisti di Sinistra». 
   Sono finiti i giorni in cui personalità di Sinistra del calibro di Jean-Paul Sartre o Pier Paolo Pasolini possedevano la decenza e la coerenza intellettuale per riconoscere che gli ideali da loro professati implicavano la solidarietà con Israele. Ora, se qualcuno, a Sinistra, fosse solidale con Israele e gli ebrei verrebbe bollato come «fascista», «razzista» o, cosa ancor più ridicola, di «estrema destra». 
   Questa nuova guerra ha fatto emergere tutto l’antisemitismo che ancora cova in seno nostre società. I mass media, dominati dal «comunismo del XXI secolo», ossia l’ideologia «multiculturale» e post-identitaria, hanno una responsabilità enorme nell’ascesa della nuova giudeofobia. 
   Forse, l’esempio più lampante del pregiudizio anti-israeliano dei media, lo si può riscontrare nella copertura giornalista relativa alla famigerata esplosione nei pressi di un ospedale di Gaza. Giornali e televisioni hanno acriticamente diffuso una «menzogna del sangue», come l’ha definita Jonathan Greenblatt. Israele è stato immediatamente incolpato, prima ancora che fosse possibile accertare la sua responsabilità.  
   Viviamo in un Paese dove alcune pubblicazioni mainstream sostengono implicitamente il terrorismo. È arrivato il momento di chiederselo: fino a che punto, i «media di Sinistra» possono essere perdonati per i loro peccati intellettuali? 
   Invece di riconoscere che la violenza è causata dai seguaci di un’ideologia tanatofila e genocida, i nostri chiacchieroni «colti» danno per scontato che il vero colpevole sia Israele, oppure gli Stati Uniti. «Poiché ci odiano, devono avere ragione», ha scherzato una volta Pascal Bruckner, ma è proprio questo il retropensiero che guida tali individui. Molti occidentali incolpano sé stessi, ma più spesso Israele, per quanto di male avviene in Medio Oriente, quando dovrebbero prendersela con l’unico e autentico colpevole: l’ideologia islamista.
   Degno di nota è anche lo spettacolo di alcuni ebrei, anche se in minoranza, che si schierano con i loro stessi assassini e contro lo Stato di Israele. Si tratta, perlopiù, di ebrei contigui agli ambienti della Sinistra accademica o «culturale», che desiderano essere accettati dai loro compagni di strada. 
   Insomma, ampie fazioni politiche in Europa e Nord America sono determinate ad arrendersi a coloro che cercano di distruggere la civiltà liberale. Gli islamisti, ovvero Hamas e Hezbollah, ma soprattutto il regime iraniano, sono decisi a sterminare gli ebrei. Gli jihadisti non fanno differenza tra ebrei «buoni» (antisionisti) o «cattivi» (sionisti). Alla fine, se non sei musulmano, o non sei un tipo specifico di musulmano, il loro obiettivo è ucciderti o almeno renderti un cittadino di seconda classe in uno stato di autentica «apartheid» religiosa. 
   Nelle parole di Yoni Asher, marito e padre di tre ostaggi rapiti da Hamas, questa non è, semplicemente, una «guerra israeliana». I volenterosi carnefici di Allah «stanno bussando alla tua porta. L’Occidente non è il prossimo, l’Occidente è adesso».  
   Il programma della Rivoluzione Islamica non mira a spazzare via solo Israele, ma tutta la civiltà occidentale di cui lo Stato ebraico è parte. Il paragone tra islamismo e comunismo è calzante. Per entrambi l’obiettivo è la rivoluzione mondiale. Le azioni ostili di Teheran, come quelle dell’Unione Sovietica, non sono il risultato di una qualche «provocazione», bensì il portato di un’ideologia messianica a vocazione globale. 
   Resistere ai terroristi e alle operazioni di propaganda dei loro simpatizzanti è vitale in questo frangente storico. Alcuni fatti indicano, seppure in modo vago e incerto, che la storia potrebbe non essere dalla parte dei fondamentalisti islamici. L’India è in crescita, il popolo iraniano è sempre più risentito nei confronti dei suoi governanti, gli Accordi di Abramo hanno rappresentato un passo senza precedenti verso la riconciliazione in Medio Oriente e l’alto tasso di natalità dello Stato d’Israele l’aveva avviato, prima di questa guerra, su un percorso di crescente influenza nella regione. 
   Un certo ottimismo può quindi essere giustificato. Tali barlumi di speranza, tuttavia, non provengono dalle nostre élite impotenti, dai volti noti dei media e dai rettori delle università, ma dalle persone comuni che ancora non si sono smarrite nei meandri delle ideologie del risentimento, i cui assiomi conducono, inevitabilmente, alla complicità morale con il genocidio e l’antisemitismo. 
   L’insidiosa alleanza tra Sinistra e islamisti comporta l’esportazione del terrorismo in tutto il mondo. Non possiamo né dobbiamo accettare quel futuro. 

(L'informale, 21 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 45. Il lager di Shifa e il negazionismo dell’autorità Palestinese

di Ugo Volli

Gli ospedali di Gaza, centri di comando e di combattimento
  Che Hamas, da quando è al potere (oltre quindici anni), avesse investito energie e somme immense per trasformare gli ospedali di Gaza in scudi di protezione per i suoi centri logistici e di comando, per le sue caserme, i suoi magazzini di armi e le sue carceri, scavando gallerie e intere fortificazioni sotterranee sotto le loro cantine, si sapeva da sempre. E infatti le battaglie più dure nell’operazione di Gaza si sono svolte e continuano ad aver luogo intorno a questi ospedali, una ventina in tutta la Striscia, e in particolare intorno all’ospedale principale della Città di Gaza, Al Shifa. Non certo per accanimento di Israele contro medici e malati, che anzi sono stati più volte soccorsi ed aiutati a evacuare le istallazioni, ma proprio perché la liquidazione della struttura di comando e di combattimento dei terroristi si può fare solamente penetrando in questi sotterranei, conquistandoli e distruggendoli.

Gli orrori di Shifa
  Ma c’è qualcosa di nuovo che è emerso negli ultimi giorni, quando le truppe israeliane sono riuscite a penetrare a Shifa, almeno alla sua parte di superficie. Si sono cioè trovate le prove che l’ospedale è stato anche il luogo in cui sono stati trasportati e assassinati almeno alcuni dei rapiti del 7 ottobre. Ieri il portavoce dell’esercito ha mostrato alla stampa un certo numero di filmati tratti dalle telecamere di sorveglianza di Al Shifa, in cui si vedono ostaggi trascinati a viva forza per le sale dell’ospedale, alcuni in barella ma altri ancora in piedi e dunque vivi e non bisognosi di soccorso medico: è la prova evidente dell’uso di quello che dovrebbe essere un luogo di cura in un centro di detenzione, di tortura e di esecuzione. A queste prove video si aggiungono le armi, che sono stati ripetutamente trovate nascoste in locali dell’ospedale e accumulate nei cortili. Sono state scoperte gallerie e i pozzi che vi davano accesso. Ieri per esempio ne è stato mostrato uno profondo dieci metri che dava accesso a un tunnel che le forze israeliane hanno percorso per una cinquantina di metri, fino a una fortificazione interna munita di feritoie da sparo. Sempre nei cortili dello Shifa sono state trovate alcune automobili rubate nei villaggi israeliani il 7 ottobre, inclusa la jeep già vista in video diffusi dai terroristi, in cui era stata trascinata, denudata, esibita e linciata una ragazza tedesca presa alla festa dove i terroristi hanno assassinato 350 ragazzi. In locali annessi all’ospedale sono state trovate anche delle salme di persone rapire durante l’incursione, come la soldatessa Noa Marciano di cui Hamas ha pubblicato il video di un interrogatorio, prima di ucciderla. Ci sono state anche testimonianze di medici stranieri che avevano fatto volontariato nell’ospedale e che erano stati ammoniti a non superare certe porte e a non andare nei sotterranei, a pena di morte. Insomma Israele non ha solo il diritto ma il dovere di entrare nei Lager che i terroristi. hanno tratto dagli ospedali e solo gli ipocriti possono scandalizzarsene o protestare.

La negazione della memoria
  Questi ipocriti abbondano in Occidente, dove si continuano a vedere filmati di persone “perbene”, magari funzionari pubblici, di “bravi ragazzi”, magari universitari impegnati, non solo di islamisti, che con l’aria di svolgere un dovere politico stracciano i manifesti attaccati ai muri dove sono stampate le fotografie degli assassinati e dei rapiti del 7 ottobre - una pratica che dovrebbe far riflettere coloro che promettono ogni 27 gennaio la memoria. Si tratta in fondo della stessa operazione che i nazisti tentarono alla fine della Shoà e che fu prolungata per decenni dai negazionisti.

La complicità dell’Autorità Palestinese
  L’ipocrisia, o peggio la complicità regna sovrana anche dentro i gruppi palestinesi diversi da Hamas, tanto che un sondaggio recente mostra che l’84% dei sudditi dell’Autorità Palestinese approva quel che è accaduto il 7 ottobre. Forse pensando a questa grande maggioranza filoterrorista dei palestinesi, ieri le brigate di Al Aqsa, cioè il braccio militare di Fatah, che è presieduto da quello che è anche il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, ha rivendicato di aver consegnato ad Hamas le persone che i suoi militanti avevano rapito il 7 ottobre: una doppia ammissione da parte dei “palestinesi buoni” di Fatah: di aver partecipato alla strage e rapito civili e di collaborare con Hamas, riconoscendone il controllo sulla gestione della guerra. Ma si tratta anche di posizioni ufficiali. L’altro ieri è uscito un comunicato del ministero degli esteri dell’Autorità Palestinese particolarmente scandaloso, in cui era scritto che sono stati gli elicotteri da combattimento delle forze armate israeliane e non i terroristi a uccidere i partecipanti al festival musicale Nova e la maggior parte delle vittime nei kibbutz al confine di Gaza. Vale la pena di riportare qui la replica che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ritenuto necessaria fare: ”Il Ministero degli Esteri palestinese ha pubblicato un messaggio scandaloso. Ha negato che Hamas abbia compiuto il terribile massacro di Reim e ne ha attribuito la colpa a Israele. Come se non bastasse che Abu Mazen, in 44 giorni, non abbia ancora condannato il terribile massacro, ora i suoi uomini negano questo massacro e lo attribuiscono a Israele. Il negazionista dell’Olocausto Abu Mazen ora nega il massacro di Hamas. Voglio essere molto chiaro: il giorno dopo lo sradicamento di Hamas, non permetteremo a coloro che negano il terrorismo, che sostengono il terrorismo, che finanziano il terrorismo ed educano i propri figli sul terrorismo e sulla distruzione dello Stato di Israele, di governare nella Striscia di Gaza. Non lo permetteremo”.

(Shalom, 20 novembre 2023)

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Uso cinico degli ospedali: ritrovate armi e munizioni in zone protette dal diritto internazionale

di Sofia Tranchina

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Complessi ospedalieri di al-Shifa, Rantisi, Al-Quds, ma anche asili nidi e scuole elementari: a lungo Israele ha accusato Hamas di usare scudi umani per proteggersi, di nascondersi e stipare munizioni nei pressi di zone protette dal diritto internazionale, costringendo l’IDF ad arretrare, lasciando i terroristi liberi di operare indisturbati, o a prendere l’amara scelta di avanzare nonostante le inevitabili vittime collaterali.
   Negli ultimi giorni, però, alle accuse sono seguite numerose prove, testimonianze e dichiarazioni, rilasciate dall’IDF e dai giornalisti che hanno ottenuto i permessi di recarsi nelle zone in cui il conflitto è più caldo con la protezione dell’esercito.
   Sin dal trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979, gli arabi palestinesi si sono adoperati per costruire la metropolitana di Gaza: una fitta rete di tunnel, inizialmente utilizzata per il contrabbando con l’Egitto di beni quali pesce e gas, poi di armi e droga, diventata dal 2007 «fonte vitale delle entrate di Hamas» (NatGeo), e infine utilizzata come sede centrale delle operazioni militari contro Israele.
Tunnel che diventarono fulcro del conflitto israelo-palestinese già nel giugno del 2006, quando un gruppo di terroristi palestinesi sbucò da sottoterra in territorio israeliano e rapì Gilat Shalit (soldato all’epoca diciannovenne), per la liberazione del quale, dopo 5 anni e 3 mesi di prigionia, Israele fu costretta a rilasciare mille prigionieri palestinesi, tra cui Yahya Sinwar, la mente dietro al pogrom dello scorso 7 ottobre.
Un mondo sotterraneo, concavo, esteso per 500km (o almeno così ha dichiarato Hamas nel 2021), sul quale fluttua la civiltà urbana di Gaza, con i suoi 5.749 abitanti per km2: basta questo per capire la difficoltà operativa di combattere i terroristi che vi si nascondono e che ne conoscono le insidie, nonostante la tecnologia certamente più avanzata di Israele.
   È la difficoltà di un Paese democratico e moderno, legato a regole morali e leggi internazionali che impongono di evitare o quantomeno limitare al minimo le vittime civili: un Paese la cui sopravvivenza, ancora a 75 anni dalla sua fondazione, è legata al consenso dell’opinione pubblica. Un consenso da cui dipende anche l’incolumità dei milioni di ebrei della diaspora, come hanno dimostrato anche i recenti attacchi antisemiti in Europa.
   Ed è per questo che, nel mezzo di una guerra difensiva scatenata dal genocidio degli ebrei del 7 ottobre 2023, in risposta al quale il governo israeliano ha promesso al proprio popolo di smantellare Hamas, l’IDF si impegna a rilasciare pubblicamente prove e resoconti delle proprie operazioni: deve dimostrare di agire all’interno del diritto internazionale.
   La maggior parte degli sforzi comunicativi degli ultimi giorni sono stati rivolti nel dimostrare l’uso sistematico che Hamas fa delle infrastrutture protette (ospedali, asili e scuole): «un uso cinico degli ospedali», nelle parole di venerdì del generale maggiore Yaron Finkelman, capo del Comando Meridionale dell’IDF.
   Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, il diritto internazionale dà agli ospedali una protezione speciale durante la guerra, ma questi possono perdere il loro status protetto se vengono usati per scopi militari – per nascondere combattenti o ostaggi o per immagazzinare armi – purché ai civili sia dato tempo per fuggire. «Vediamo la presenza di Hamas in tutti gli ospedali» ha aggiunto Finkelman.
   Tra le varie prove non protette da censura (ovvero: prove la cui diffusione non inficia la capacità dell’esercito di rintracciare terroristi o ostaggi), è stato rilasciato un video in cui il contrammiraglio dell’IDF Daniel Hagari, parlando in inglese, ci guida all’interno dell’ospedale Rantisi e dei suoi seminterrati.
   Lì, la 401ª Brigata Corrazzata e l’unità Shayetet 13 hanno trovato un ingresso ai tunnel, una moto con buchi di proiettile utilizzata il 7 ottobre per rapire gli ostaggi, biberon e pannolini che lasciano intuire che alcuni dei neonati rapiti fossero detenuti lì, un foglio con i turni di guardia dei terroristi e una lugubre corda legata alla gamba di una sedia.
Il video mostra anche bagni di fortuna, cucina e tubi di ventilazione: tutto il necessario per nascondersi sotto l’ospedale per lunghi periodi.
Ma il frame più controverso è quello in cui Hagari ci mostra, in quella che pare essere una stanza pediatrica con decorazioni infantili, giubbotti con bombe suicide, granate, fucili d’assalto AK-47, e vari ordigni esplosivi
Hagari, carismatico portavoce dell’esercito che ogni sera tiene conferenze televisive con le quali ha conquistato la fiducia degli israeliani, che lo hanno reso “più popolare di Netanyahu”, ha annunciato la scoperta di un tunnel terroristico di Hamas nel complesso ospedaliero di al-Shifa.
   Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che lì sarebbero stati raggiunti risultati significativi: «l’operazione continua, e viene effettuata in modo preciso e selettivo», ha detto durante una visita al centro di comando della 36ª divisione.
   L’IDF ha rilasciato diversi filmati con i ritrovamenti presso il complesso al-Shifa fatti dall’Unità d’élite Shaldag, dalla 7ª Brigata e da altre unità speciali.
   Nel dipartimento MRI, dietro alle apparecchiature per le risonanze magnetiche, sono stati trovati: granate, dispositivi di protezione individuale con le insegne della brigata militare di Hamas, e Kalashnikov.
   Nell’ospedale sono state trovate anche altre attrezzature militari e apparecchiature di comunicazione utilizzate dall’organizzazione terroristica, mentre fuori è stato trovato un camioncino con trappole esplosive, pieno di armi e munizioni.
   Come ha scritto la giornalista della BBC Lucy Williamson, la presenza della stampa «appena un giorno dopo che Israele ha preso il controllo dell’ospedale, la dice lunga sulla necessità di Israele di mostrare al mondo perché sono qui».
   Trovati anche un laptop che, dice il colonnello Jonathan Cornicus, contiene foto e video di ostaggi e filmati recenti degli interrogatori dei combattenti di Hamas arrestati dalla polizia israeliana, il che proverebbe la recente presenza di terroristi presso l’ospedale.
   Ma questa è solo «la punta dell’iceberg», spiega Cornicus: «Hamas sapeva che stavamo arrivando. Questo è quello che sono stati costretti a lasciarsi alle spalle. La nostra valutazione è che ci sia molto di più». L’IDF, dunque, opera con la (prudente) assunzione che ci sia molta più infrastruttura terroristica nell’area di quella finora venuta allo scoperto.
Sempre nei pressi del complesso ospedaliero l’esercito ha recuperato i corpi senza vita di due degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre, secondo l’intelligence entrambi uccisi dai terroristi durante la prigionia: Noa Marciano e Yehudit Weiss.
   Una delle ragioni per questa operazione militare, ha detto il primo ministro Netanyahu in una conferenza giovedì, era proprio l’indicazione che rivelava che alcuni degli ostaggi sarebbero stati detenuti lì.
   La prova più inconfutabile della presenza di Hamas ad al-Shifa è arrivata domenica, con la pubblicazione dei filmati delle videocamere di sicurezza che mostrano militanti armati di Hamas mentre trascinano a forza due ostaggi dentro l’ospedale stesso, tra le 10.42 e le 11.01 della mattina del 7 ottobre. Si tratta di un nepalese e un thailandese la cui identificazione non è stata ancora liberata dalla censura, che sono stati presi in ostaggio in Israele durante il pogrom del sabato nero.
   Altre armi sono state trovate nell’ospedale Al-Quds dalle truppe della Brigata Paracadutisti, e Hagari ha alzato l’ipotesi che l’ospedale indonesiano di Beit Lahia (costruito nel 2015 a Gaza con finanziamenti indonesiani) si trovi sopra a una rete di tunnel di Hamas e vicino a una rampa di lancio di missili, ma il ministro degli Esteri indonesiano ha negato tali dichiarazioni.
   Sorprende poco infatti la foto che ritrae (leader di Hamas, secondo da sinistra) con Yousef Abu Alrish, capo del ministero della sanità (secondo da destra).
   E non solo ospedali: la 551ª Brigata di riserva ha scoperto razzi di Hamas immagazzinati nel letto di una giovane ragazza in una casa nella città di Beit Hanoun; le truppe della brigata Bislamach hanno localizzato una cache di mortai all’interno di un asilo nido nel Nord della Striscia di Gaza; e l’unità di ricognizione della Brigata Golani ha trovato armi da fuoco e attrezzature militari nella scuola elementare al-Karmel a Gaza City.

(Bet Magazine Mosaico, 20 novembre 2023)

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Un cessate il fuoco con Hamas sarebbe un errore

L'unico modo per vincere è quello di inchiodare Hamas e distruggerlo.

di Daniel Greenfield

Terroristi e ribelli hanno una strategia di difesa comune. Di fronte a forze superiori, si ritirano, si fondono con la popolazione civile e aspettano che uno Stato nazionale si esaurisca e si stanchi di dar loro la caccia.
  Per eliminare un gruppo terroristico, bisogna agire rapidamente, essere agili, usare l'elemento sorpresa e bloccare le uscite dei terroristi.
  Dopo un inizio piuttosto lento, Israele ha dimostrato di saper gestire bene la velocità e l'agilità degli attacchi di terra. Ha aggirato le zone di morte di Hamas e ha catturato infrastrutture chiave. Il problema, tuttavia, è che Hamas non è un esercito convenzionale e la cattura del territorio e delle infrastrutture conta molto solo se non viene utilizzata per limitare la libertà di movimento dei terroristi.
  E poi bisogna finirli.
  Il Qatar, sponsor statale di Hamas, sta spingendo per un "accordo di cessate il fuoco" in cui alcuni ostaggi (non tutti) verrebbero scambiati per un cessate il fuoco di alcuni giorni. I sostenitori di Hamas in tutto il mondo cantano freneticamente "cessate il fuoco".
  L'obiettivo è lo stesso.
  Perché Hamas vuole un cessate il fuoco? Ha bisogno di tempo e spazio per sfuggire alla trappola che Israele ha speso molto tempo e sangue per costruire.
  Concedere questo spazio sarebbe un disastro strategico.
  La lezione dell'ospedale Al-Shifa è che tentare un attacco umanitario non funziona. Se Israele spera di liberare militarmente gli ostaggi, non può avvicinarsi al suo obiettivo lentamente, facendo ogni sorta di concessione umanitaria. Israele deve colpire in modo rapido e inaspettato. Questo è già difficile da ottenere nella guerra urbana di terra.
  Hamas conta di poter aspettare la risposta di Israele. Lo ha fatto in passato. Perché non farlo di nuovo?
  L'amministrazione Biden vorrebbe un accordo sugli ostaggi e non ha paura di negoziare con i terroristi. Il Qatar ne sta approfittando. E il governo israeliano è diviso al suo interno. Benny Gantz ha sottolineato che la guerra continuerà finché "i nostri figli e le nostre figlie non torneranno a casa". Questo è uno scenario di salvataggio di ostaggi. Non l'obiettivo di Netanyahu di distruggere Hamas.
  E abbiamo già visto nell'ospedale di Al-Shifa che Hamas ucciderà gli ostaggi se non può usarli come leva.
  L'unico modo per giustificare questa operazione è arrestare e distruggere Hamas. In caso contrario, l'operazione si trascinerà fino a quando la pressione internazionale non la farà cessare. Le forze di Hamas si ritireranno, si riorganizzeranno e riprenderanno le loro operazioni.
  E questo si tradurrebbe in una situazione di stallo nella migliore delle ipotesi, se non in una vittoria molto costosa per Hamas.

(Israel Heute, 20 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Cosa vogliono i palestinesi?

Gli occidentali pensano che i palestinesi cerchino un futuro di prosperità, libertà e pace perché è quello che aspirano a preservare per se stessi. Ma non è così.

di Caroline Glick

Per più di una generazione, la sinistra israeliana e i leader occidentali hanno insistito sul fatto che i palestinesi vogliono la pace. Vogliono uno Stato tutto loro. Vogliono che Israele lasci la Striscia di Gaza, la Giudea, la Samaria e Gerusalemme. Una volta ottenute queste cose, vivranno in pace con Israele.
  Le amministrazioni statunitensi che si sono succedute hanno modulato il loro sostegno a Israele in base alla percezione della disponibilità del governo israeliano a fare concessioni territoriali ai palestinesi. Sono state sostenute quelle che si ritenevano disposte a cedere Giudea, Samaria, Gaza (che Israele ha abbandonato nel 2005) e Gerusalemme all'Autorità Palestinese (A.P.). Quelli che venivano percepiti come non disposti a cedere la terra all'Autorità Palestinese venivano ostracizzati, condannati e sovvertiti.
  Nel corso degli anni, leader politici, militari, accademici e giornalisti israeliani hanno prodotto voluminosi rapporti che denunciavano il sostegno e il coinvolgimento della A.P. nel terrorismo. Hanno prodotto dossier lunghi come un'enciclopedia, documentari e rapporti di intelligence che espongono come il suo sistema educativo indottrini i bambini fin dalla nascita ad abbracciare la causa dell'annientamento di Israele e impregni l'intera società palestinese di una visione genocida e jihadista di stampo nazista che mira alla totale eliminazione dell'ebraismo e degli ebrei dalla faccia del pianeta.
  Al di là di alcune mezze condanne da parte di funzionari del Dipartimento di Stato americano nel corso degli anni - e di un paio di risatine ancora meno commosse da parte di funzionari delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea - nessuno di questi rapporti, documentari o esposti ha modificato la dedizione dell'Occidente alla cosiddetta "soluzione dei due Stati", o la tendenza degli occidentali a dare la colpa dell'assenza di pace agli israeliani "di destra" o "di estrema destra" che rifiutano concessioni territoriali a una società e a un'autorità di governo che aspirano a cancellare Israele dalla mappa.
  Negli ultimi 30 anni, la sinistra israeliana qualche volta  ha affrontato il problema a parole. Ma per una combinazione di interessi politici, fragilità ideologica e dipendenza dagli alleati occidentali, la maggior parte della sinistra israeliana si è rifiutata di accettare le implicazioni strategiche dell'assenza di una leadership palestinese - o di una società, se è per questo - disposta a riconoscere il diritto di Israele a esistere, con o senza Giudea e Samaria, con o senza Gerusalemme.
  Il 7 ottobre, il sadismo e la portata del massacro di Hamas hanno sconvolto l'intera società israeliana. I dati dei sondaggi indicano che c'è stato un cambiamento di opinione tra gli israeliani di sinistra riguardo alla possibilità di una coesistenza pacifica con i palestinesi.
  Lo stesso non si può dire dell'Occidente. Guidati dall'amministrazione Biden, i governi occidentali hanno insistito uniformemente sul fatto che Hamas non rappresenta i palestinesi. La maggior parte dei palestinesi, compresi quelli di Gaza, vogliono semplicemente fare una pace con Israele che includa uno Stato palestinese, dicono.
  Dall'8 ottobre, i funzionari statunitensi - e i loro omologhi dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e non solo - hanno insistito quasi ogni giorno sul fatto che se Israele colpisce troppo duramente a Gaza, se nega i cosiddetti "aiuti umanitari" alla popolazione di Gaza, allora attirerà questa povera gente verso Hamas, garantendo un'altra generazione di guerra.
  In altre parole, secondo questo racconto, fino a quando Israele non ha lanciato il suo contrattacco a Gaza, i palestinesi si sono opposti ad Hamas e ne sono stati vittime involontarie. Ma una volta che Israele ha dispiegato le sue forze di terra a Gaza, queste persone sono state spinte nelle braccia di Hamas.
  Come il Presidente Joe Biden e i suoi consiglieri hanno ripetutamente affermato, "Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Non rappresenta la dignità dei palestinesi".

I RISULTATI DI UN SONDAGGIO D'OPINIONI
  Giovedì l'Università di Birzeit, vicino a Ramallah, ha pubblicato un sondaggio d'opinione palestinese che rispondeva a questa affermazione centrale dell'Occidente. 
  I ricercatori di Birzeit hanno raccolto i dati attraverso interviste faccia a faccia con migliaia di palestinesi in tutta la Giudea e la Samaria e in tre punti nel sud di Gaza. Hanno anche parlato con i residenti del sud di Gaza e con gli sfollati dalle zone di combattimento nel nord di Gaza.
  Circa il 75% dei palestinesi sostiene il massacro del 7 ottobre guidato da Hamas. Un altro 11% non ha un'opinione. Sono neutrali sul fatto che sia una buona idea stuprare e torturare, decapitare, bruciare vivi e rapire donne, uomini, bambini e neonati. Tuttavia, tre quarti dei palestinesi pensano che sia un risultato straordinario.
  Allo stesso modo, il 75% dei palestinesi vuole l'annientamento di Israele. Vogliono una Palestina "dal fiume al mare". Questa posizione è distinta da quella di sostenere uno Stato arabo-ebraico dal fiume al mare, o la cosiddetta "soluzione a uno Stato", che solo il 5,4% dei palestinesi sostiene. Un altro 17,2% sostiene la soluzione dei due Stati (13,2% nelle aree controllate dalla A.P. in Giudea e Samaria e 22,7% a Gaza).
  Se Hamas non rappresenta i palestinesi, è difficile capire chi li rappresenti. Il 76% dei palestinesi sostiene Hamas. L'88% dei palestinesi in Giudea e Samaria sostiene Hamas e il 60% dei residenti di Gaza sostiene Hamas. La A.P. gode del sostegno di appena il 10% dei palestinesi.
  Gli unici gruppi che godono di un sostegno superiore a quello di Hamas sono i gruppi terroristici che non aspirano ad altro che a uccidere gli ebrei: il jihad islamico dell'Iran, le Brigate Al-Aqsa di Fatah e le cellule terroristiche di Hamas, le Brigate Izz al-Din al-Qassam, godono di livelli di sostegno addirittura superiori a quelli di Hamas stesso.
  I palestinesi ritengono che non vi sia alcun motivo credibile per sostenere Israele. Nella misura in cui Israele è sostenuto dalle nazioni occidentali, i palestinesi lo attribuiscono a teorie cospirative antisemite sul potere e sul denaro degli ebrei. Il 92% ritiene che dietro il sostegno occidentale a Israele ci sia la "lobby ebraica". Il 96% ritiene che il sostegno occidentale a Israele sia dovuto a interessi economici.
  Quanto agli occidentali che insistono sul fatto che i palestinesi sono pacifici, i palestinesi li odiano tanto quanto odiano Israele: il 98% dei palestinesi odia gli Stati Uniti e il 97% la Gran Bretagna.
  D'altra parte, i palestinesi sono fiduciosi. Il 78% dei palestinesi afferma che le manifestazioni pro-palestinesi che si svolgono sotto lo striscione "Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera" li riempiono di speranza per il futuro dell'umanità.
  In breve, i risultati del sondaggio di Birzeit non mostrano un popolo pacifico interessato alla coesistenza e alla pace. Presentano un ritratto chiaro e netto di una società genocida.
  Se c'è un raggio di speranza che emerge dai dati, è la disparità tra le posizioni dei palestinesi di Gaza e quelli di Giudea e Samaria. Mentre l'88% dei palestinesi di Giudea e Samaria sostiene Hamas, solo il 60% dei gazesi lo fa. 
  Il motivo è senza dubbio l'operazione delle forze combinate delle Forze di Difesa Israeliane a Gaza. Il fatto di vedere le proprie case distrutte e di essere costretti ad evacuare smorza un po' il sostegno dei gazesi al genocidio e ai suoi autori. Le implicazioni operative e strategiche di questa disparità di vedute per oggi e per il futuro sono abbastanza ovvie. L'unico modo per scuotere i loro atteggiamenti genocidi è punirli. L'unico modo per smorzare il loro desiderio di annientare lo Stato ebraico è negare loro la speranza che il genocidio paghi.
  È questa consapevolezza che deve guidare la politica israeliana e la nostra società.
  L'87% dei palestinesi ha dichiarato che la propria fiducia nella coesistenza pacifica con Israele è diminuita dopo il 7 ottobre.
  Il 71% ha dichiarato che gli eventi di quel giorno hanno aumentato il loro sostegno per il totale annientamento di Israele e per una Palestina "dal fiume al mare".
  Il 98% ha dichiarato di essere orgoglioso di essere palestinese.
  Tutte le risposte indicano che l'Olocausto del 7 ottobre li ha convinti che stavano sconfiggendo Israele e che non avrebbero dovuto coesistere pacificamente con esso.
  Per cambiare questi atteggiamenti, la politica di Israele non dovrebbe essere orientata a dare loro la speranza di uno Stato, ma piuttosto a far loro temere la punizione. Questo, a ben vedere, è ciò che la tanto bistrattata destra israeliana ha sempre sostenuto.
  Ai palestinesi è stato chiesto quale fosse, secondo loro, la motivazione che spinge Hamas a invadere Israele e a compiere il suo sadico massacro. Le risposte sono notevoli. Una pluralità di palestinesi, il 35%, ha dichiarato che il motivo dell'attacco era "fermare le violazioni di Al-Aqsa". Un altro 29% ha detto che era per "liberare la Palestina". E il 21% ha detto che era per "rompere l'assedio di Gaza".
  "Fermare le violazioni della moschea di Al-Aqsa" sul Monte del Tempio a Gerusalemme è un altro modo per dire "jihad". Secondo l'Islam, l'interruzione di una jihad è giustificata solo temporaneamente. Una hudna temporanea di 10 anni, o cessate il fuoco, può essere raggiunta se le forze della jihad sono troppo deboli per portarla avanti. Il cessate il fuoco può essere esteso per altri decenni se la debolezza si protrae. Può essere violato in qualsiasi momento se i jihadisti raccolgono le forze necessarie per procedere.
  Quando gli occidentali si avvicinano ai palestinesi, lo fanno attraverso i prismi delle loro preferenze e dei loro valori, e con una goccia (o un oceano) di ostilità verso lo Stato ebraico.
  Gli occidentali presumono che i palestinesi cerchino un futuro di prosperità, libertà e pace perché è quello a cui aspirano per se stessi. Ma non è così, o almeno non nel modo in cui gli occidentali pensano. I palestinesi vogliono una vita migliore. Ma la loro concezione di vita migliore è una vita di jihad, di uccisione degli infedeli. Ciò che li motiva non è la prosperità, ma il genocidio. Ed è per questo che la loro speranza deve essere spenta.
  Il 7 ottobre gli israeliani hanno preso le misure ai palestinesi e le opinioni si sono spostate nettamente verso le posizioni che la destra israeliana ha sostenuto per più di una generazione. Il mondo intero farebbe bene a prendere le misure anche a loro. Le azioni non mentono, e nemmeno i dati. I palestinesi sono una società unificata dall'obiettivo comune di annientare Israele. Questo è ciò che sono. Questo è ciò che vogliono.

(JNS, 19 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Antisemitismo negli USA: democratici cancellano eventi “per sicurezza” in California

Dimostranti antisemiti che chiedono un cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas con slogan antisemiti e anti-israeliani hanno spinto i funzionari del Partito Democratico della California a cancellare gli eventi serali durante la loro convention statale “per la sicurezza dei nostri delegati”.
   I Democratici della California si sono riuniti a Sacramento questo fine settimana per valutare l’appoggio dei candidati in vista delle primarie di marzo. Tra questi c’è la competitiva corsa al Senato degli Stati Uniti che vede la partecipazione di quattro democratici, tra cui tre membri in carica della Camera degli Stati Uniti.
   La convention è stata interrotta più volte sabato pomeriggio da manifestanti filo-palestinesi che chiedevano il cessate il fuoco a Gaza. I funzionari del partito avevano aumentato la sicurezza per la convention del fine settimana, richiedendo ai partecipanti di essere scannerizzati e di far perquisire le loro borse prima di entrare nella sala della convention.
   Dopo la sessione pomeridiana, una grande folla di manifestanti si è radunata nella sala. La polizia di Sacramento ha chiuso alcune strade nei pressi del centro congressi, ma le ha presto riaperte.
   Poco dopo la fine delle votazioni per l’approvazione dei partiti, la portavoce del Partito Democratico Shery Yang ha dichiarato che gli eventi della serata erano stati annullati.
   “A causa di circostanze al di fuori del nostro controllo e per la sicurezza dei nostri delegati e dei partecipanti alla convention, stiamo annullando le riunioni dei caucus, le suite di ospitalità e il VoteFest che si svolgeranno stasera al centro congressi”, ha dichiarato Yang.

(Rights Reporter, 19 novembre 2023)

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Da dove viene il diavolo?

Cammina come un leone ruggente cercando chi divorare: il diavolo, il serpente antico, il grande nemico dell'uomo. Ma da dove viene?

di Mark Hitchcock

Due passi essenziali nella Scrittura mostrano l'origine di Satana e l'inizio della guerra invisibile: Isaia 14:12-19 ed Ezechiele 28:12-19. Questi due testi raccontano la sua condizione originale in cielo, il suo peccato e la sua caduta. Descrivono ciò che potremmo chiamare la caduta cosmica dal cielo. Rendono chiara la creazione, la depravazione e la condanna del diavolo.
   Non tutti sono dell'opinione che questi passaggi descrivano il diavolo. Tuttavia, se non lo si intende in questo modo, non abbiamo alcun resoconto biblico della sua caduta e della sua ribellione a Dio. Io credo che il diavolo sia il soggetto di questi due passaggi. Ezechiele 28:12-19 include l'ascesa e la caduta di una persona chiamata re di Tiro: «La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini:

  1. «Figlio d'uomo, pronuncia un lamento sul re di Tiro e digli: Così parla il Signore, DIO: 'Tu mettevi il sigillo alla perfezione,
  2. eri pieno di saggezza, di una bellezza perfetta; eri in Eden, il giardino di Dio; eri coperto di ogni tipo di pietre preziose: rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici, diaspri, zaffiri, carbonchi, smeraldi, oro; tamburi e flauti, erano al tuo servizio, preparati il giorno che fosti creato.
  3. Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Io ti avevo stabilito, tu stavi sul monte santo di Dio, camminavi in mezzo a pietre di fuoco.
  4. Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità:
  5. Per l'abbondanza del tuo commercio, tutto in te si è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio via, come un profano, dal monte di Dio e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco.
  6. Il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re.
  7. Con la moltitudine delle tue iniquità, con la disonestà del tuo commercio tu hai profanato i tuoi santuari; perciò io faccio uscire in mezzo a te un fuoco che ti divori e ti riduco in cenere sulla terra, in presenza di tutti quelli che ti guardano.
  8. Tutti quelli che ti conoscevano fra i popoli restano stupefatti al vederti; tu sei diventato oggetto di terrore e non esisterai mai più».

Ezechiele scrisse queste parole nel VI secolo a.C. Durante i 70 anni di prigionia di Giuda a Babilonia. Le sue profezie possono essere divise in tre sezioni principali:

  Ezechiele 1-24  : Giudizio di Giuda.
  Ezechiele 25-32: I vicini di Giuda.
  Ezechiele 33-48: Restaurazione di Giuda e Israele.

Nel secondo di questi tre passaggi, Ezechiele racconta il giudizio imminente degli stati pagani vicini di Giuda e predice il caso del leader di Tiro (28:2). I commentatori della Bibbia concordano generalmente sul fatto che Ezechiele 28:2-10 parli del re fenicio Etbaal III, che regnava sulla fortezza di Tyrus in riva al mare. Fu un monarca presuntuoso e avaro, ed Ezechiele profetizzò il giudizio che non tardò a raggiungerlo dopo questa profezia. Ma in Ezechiele 28:12 notiamo un cambiamento improvviso in cui viene introdotto il re di Tiro. Non è la stessa persona descritta come leader di Tiro nel verso 2. Il leader in 28: 2-10 è indicato due volte come un uomo (v. 2.9), caratterizzato da una descrizione soprannaturale, mentre il re di Tiro, va ben oltre quello che si può dire di un uomo. Nessuna persona, soprattutto il malvagio leader di Tiro, potrebbe essere descritta con parole come "perfezione, pieno di saggezza e perfetta bellezza". Inoltre, il re è stato creato (v. 13,15), strana affermazione per un re umano, le persone nascono, non sono create. Sulla base di queste affermazioni e descrizioni, credo che questo testo parli del diavolo prima del suo declino. Menzionando prima il leader umano di Tiro (vv 2-10) e poi il re di Tiro (vv 12-19), Ezechiele sembra rivelare il potere soprannaturale che si muove dietro i leader umani, come negli ultimi tempi farà il diavolo che sarà la guida e il potere dietro l'Anticristo (Apocalisse 13:2-4).
   Se questa comprensione del testo è giusta, il diavolo godeva di privilegi unici senza precedenti prima della sua caduta, era il più potente e maestoso di tutti gli angeli. Il "santo monte di Dio" nel versetto 14 potrebbe riferirsi al luogo che il diavolo aveva alla presenza di Dio prima della sua caduta. Ha goduto della vicinanza a Dio stesso, ed è anche chiamato "cherubino protettore" (v. 14,16 ). Gli angeli si dividono in due classi e i cherubini sono una classe speciale, responsabile della protezione della presenza e della santità di Dio. Le parole "tamburi" e "Flauti'' (v. 13) sostengono la nozione che Satana servisse come Sommo Sacerdote celeste e fosse il conduttore del culto di Dio in cielo. Il verso 18 parla dei suoi santuari. È impossibile essere completamente sicuri del pieno significato di tutte queste affermazioni, ma Donald Gray Barnhouse fornisce una spiegazione che riunisce le diverse parti:

    "L’idea espressa nella parola è stata ampiamente discussa dai commentatori della Bibbia .... Qui lo vediamo nella sua funzione sacerdotale, in collaborazione con i cherubini che oggi conducono il culto in cielo (Apocalisse 4:9-10; 5:11-14) e lo vediamo vicino al trono di Dio. Il fatto che Lucifero avesse dei santuari indica adorazione e sacerdozio. Sembra che abbia ricevuto l'adorazione dell'universo sotto di lui e l'abbia portata al Creatore sopra di lui ....
    Qui, alla presenza di Dio, Lucifero ha portato il culto di un universo pieno di creature e ha ricevuto i suoi ordini dall'Onnipotente, come profeta di Dio trasmettendola alla creazione adorante."

Prima della sua caduta, il diavolo era con ogni probabilità il custode della gloria di Dio, il sommo sacerdote celeste e il leader del culto. Ma il tragico punto di svolta è narrato nel verso 15: «Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità». Da nessuna parte la Bibbia spiega l'origine del peccato più chiaramente. Satana era perfetto in tutti i suoi tratti e azioni fino al terribile momento in cui il peccato fu trovato in lui. Il diavolo fu il primo peccatore nell'universo. La caduta del diavolo è descritta nei versetti 16-19. In primo luogo, si afferma: «Per l'abbondanza, del tuo commercio, tutto in te si è riempito di violenza; e tu hai peccato».
   Arnold Fruchtenbaum spiega che cosa significa:

    ''Questa affermazione si trova anche nel principe umano di Tiro nei versi 1-10. Per il principe di Tiro, ciò significava andare da un porto all'altro accumulando ricchezza (versetto 5). Per il Re di Tiro, il diavolo, significava andare di angelo in angelo calunniando Dio per ottenere la loro lealtà .... Le sue numerose transazioni commerciali lo hanno riempito di iniquità in riferimento al suo rapporto con gli angeli, conducendolo a bestemmiare contro Dio. Nella sua iniquità ha invocato in cielo una rivolta contro Dio”

Il diavolo iniziò una campagna diffamatoria andando da angelo ad angelo e facendo dispiacere Dio. Il verso 17 mostra che il peccato del diavolo, il primo peccato mai commesso, fu l'orgoglio: « ... il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re». Questo peccato ha corrotto il diavolo.
   Il secondo passaggio, che a mio parere descrive la caduta originale del diavolo, è Isaia 14:12-19. Qui una storia simile è raccontata, come in Ezechiele 12:

  1. “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni?
  2. Tu dicevi in cuor tuo: «Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell'assemblea, nella parte estrema del settentrione;
  3. salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all'Altissimo».
  4. Invece ti hanno fatto discendere nel soggiorno dei morti, nelle profondità. della fossa!
  5. Coloro che ti vedono fissano in te lo sguardo, ti esaminano attentamente, e dicono: «È questo l'uomo che faceva tremare la terra, che agitava i regni,
  6. che riduceva il mondo in un deserto, ne distruggeva le città, e non rimandava mai liberi a casa i suoi prigionieri».
  7. Tutti i re delle nazioni, tutti quanti riposano gloriosi, ciascuno nella propria casa;
  8. ma tu sei stato gettato lontano dalla tua tomba come un rampollo abominevole coperto di uccisi trafitti con la spada, calati sotto i sassi della fossa, come un cadavere calpestato”.

I commentatori della Bibbia concordano sul fatto che Isaia 14:4-11 descriva il re terreno di Babilonia, ma come in Ezechiele 28 v'è disaccordo sul fatto che poi parli di un leader umano. lo penso che il termine "stella scintillante" nel versetto 12 si riferisca al diavolo prima della sua caduta. I versetti 12-14 citano i suoi peccati e i versi 15-19 descrivono il suo caso.
   Isaia 14 è simile a Ezechiele 28 in almeno due punti. Primo, il diavolo è ritratto in entrambi i testi come il potere di un malvagio re umano. In Isaia 14 è il potere dietro il re di Babilonia mentre in Ezechiele 28 è il potere dietro il re di Tiro. Entrambi i passaggi mostrano che l'orgoglio è stato il peccato originale del diavolo. In Isaia 14:13-14 viene spesso definito L'"io voglio" del diavolo. Inspiegabilmente, ha posto la sua volontà al di sopra della volontà di Dio.

  • Voglio ascendere al cielo. Il diavolo voleva essere come il suo Creatore.
  • Voglio elevare il mio trono al di sopra stelle di Dio. Le stelle di Dio sono gli altri angeli. Il diavolo voleva stare al di sopra di tutta la creazione e ricevere la sua adorazione.
  • Voglio sistemarmi sul monte dell'assemblea a settentrione. La montagna di raccolta è di solito identificata con il luogo in cui Dio governa. Il diavolo voleva occupare l'apice dell'autorità.
  • Voglio ascendere all'altezza delle nuvole. Le nuvole spesso simboleggiano la gloria di Dio nella Scrittura. Il diavolo voleva la gloria che appartiene solo a Dio.
  • Voglio diventare uguale all'Altissimo!

Il diavolo voleva sostituirsi a Dio.
   In breve, il diavolo voleva prendere possesso della creazione di Dio e avere da solo l'autorità su di essa. Ha cercato di arrivare in cima ma è stato abbattuto.
   Il diavolo ha perso per sempre il suo posto in paradiso. Come osserva Erwin Lutzer: "Non c'è da meravigliarsi se il diavolo sia arrabbiato .... pensiamo a tutto ciò a cui ha rinunciato. Non può più essere un profeta che parla per Dio. Non può più essere un sacerdote che rende il culto a Dio. Lui, che voleva essere come Dio, divenne il più dissimile da lui, ha perso tutto."
   Questo è l'opposto di ciò che ha fatto il Figlio di Dio. Ha lasciato il posto più alto dell'universo alla destra di Dio, si è umiliato ed è andato fino in fondo alla vergogna sulla croce. Pertanto, Dio l'ha esaltato sopra tutte le masse (Filippesi 2:5-11). Per Gesù c'è stato solo profitto senza nessuna perdita.
   Se Isaia 14 ed Ezechiele 28 descrivono la caduta del diavolo, sappiamo che è un angelo caduto da questa posizione elevata.
   Ma quando è successo tutto questo? Molti credono che il diavolo sia caduto prima di Genesi 3 quando indusse Adamo ed Eva a disobbedire a Dio, ma quando esattamente peccò e cadde prima di Genesi 3?
   Ci sono due punti di vista fondamentali su questo argomento. Alcuni credono che sia avvenuto prima di Genesi 1:1 e Dio fece la creazione come palcoscenico per dimostrare chi avesse il diritto di governare. Altri dicono che sia caduto qualche tempo dopo la creazione dei cieli e della terra ma, in ogni caso, prima di Genesi 3, tra Genesi 1:31 e Genesi 3.1.
   Non possiamo essere sicuri di questa affermazione, tuttavia, alcuni suggerimenti possono aiutarci a ricostruire i tempi. Cominciamo dal fatto che il diavolo fosse un angelo creato e apprendiamo in Giobbe 38:7 che gli angeli si rallegrarono del capolavoro travolgente di Dio quando creò l'universo. Ciò significa che Dio fece gli angeli prima della creazione dell'universo. E' anche chiaro che in questo momento nessun angelo era caduto e l'armonia prevaleva mentre si rallegravano insieme. Quindi, sappiamo che Dio ha giudicato il lavoro fatto nei sei giorni molto buono (Genesi 1:31). Anche questo dimostra che tutto fosse in ordine nel nuovo universo di Dio, cosa che è probabilmente incompatibile con l'esistenza di molte creature cadute.
   Pertanto, è meglio per noi datare la caduta di Satana e del suo gregge dopo il settimo giorno, quando Dio si riposò e dichiarò ogni cosa buona (Genesi 1:31 ). Anche se non siamo sicuri, è plausibile che il diavolo, quando vide la sua condizione perfetta dopo il completamento della creazione, incluso Adamo ed Eva e la loro adorazione a Dio, divenne geloso e desiderò questa adorazione per se stesso. Come guardiano della gloria di Dio e leader del culto in cielo, desiderava ardentemente questo culto per sé. Il peccato è stato trovato in lui e il suo caso è stato definitivamente risolto da Dio.

(Chiamata di Mezzanotte, mar/apr 2019)

 

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Sondaggio palestinese: grande maggioranza a sostegno del massacro del 7 ottobre e contro l’esistenza di Israele

Il 75% degli intervistati è d’accordo con l’attacco di Hamas, il 74,7% vuole un unico stato palestinese “dal fiume al mare”

8 ottobre 2023: manifestanti palestinesi marciano verso il Consolato israeliano a Chicago. Sullo striscione: “La Palestina sarà libera dal fiume al mare” e le mappe che cancellano lo stato ebraico dalla carta geografica
Secondo un sondaggio condotto il 14 novembre da Arab World for Research and Development con sede a Ramallah, la società palestinese a grande maggioranza sostiene il devastante attentato di Hamas del 7 ottobre e vuole uno stato unico palestinese “dal fiume al mare”.
Alla domanda principale del sondaggio: “Quanto sostenete l’operazione militare [sic] compiuta dalla resistenza palestinese guidata da Hamas il 7 ottobre?”, la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono in Cisgiordania (83,1%) ha risposto di sostenere l’attacco “estremamente” o “abbastanza”. Solo il 6,9% ha risposto di essere “estremamente” o “abbastanza” contrario, mentre l’8,4% dice di non avere alcuna opinione. I palestinesi che vivono nella striscia di Gaza mostrano un po’ meno consenso, ma in ogni caso la maggioranza assoluta vede con favore l’attacco: il 63,6% afferma di sostenerlo “estremamente” o “abbastanza”, mentre il 14,4% risponde di non essere né contrario né favorevole. Mostrando un disaccordo maggiore di quello registrato in Cisgiordania, il 20,9% dei palestinesi che vivono a Gaza si dichiara in varia misura contrario all’attacco.
   Pochissime le differenze d’opinione tra donne e uomini palestinesi. Gli uomini che in varia misura sostengono l’attacco (75,2%) sono solo leggermente di più delle donne (74,9%).
   Alla domanda: “Secondo te, qual è stato il motivo principale dell’operazione lanciata dalla resistenza palestinese il 7 ottobre?”, il 31,7% degli intervistati residenti in Cisgiordania e il 24,9% degli intervistati residenti a Gaza hanno detto che la ragione dell’attacco era “liberare la Palestina”. Il 23,3% degli intervistati in Cisgiordania e il 17,7% degli intervistati a Gaza hanno detto che il motivo dell’attacco era “rompere l’assedio sulla striscia di Gaza”. Un altro 35% del totale dei palestinesi intervistati ha detto che l’attacco mirava a “fermare le violazioni alla Aqsa”, in riferimento alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme dove solo ai musulmani è consentito pregare nonostante sorga sul Monte del Tempio, uno dei luoghi più sacri per la tradizione ebraica (ma i musulmani considerano una violazione il mero fatto che dei pellegrini ebrei si rechino sulla spianata dove sorge la moschea). Solo lo 0,9% del totale degli intervistati ritiene che il motivo di Hamas per compiere l’attacco fosse quello di “fermare il processo di pace”. Un ulteriore 0,7% ha affermato di ritenere che la motivazione fosse quella di “fermare l’insediamento”. Tuttavia, un consistente 5,1% dei palestinesi intervistati pensa che l’attacco sia stato effettuato per “servire gli interessi dell’Iran”.
   Alla domanda: “Sei favorevole alla soluzione di creare uno o due stati?”, una netta maggioranza degli intervistati (74,7%) ha risposto di sostenere un unico stato palestinese “dal fiume al mare”. Lo stato unico palestinese è sostenuto un po’ di più dai palestinesi che vivono in Cisgiordania (77,7%) rispetto a quelli che vivono a Gaza (70,4%). Solo il 17,2% dei palestinesi intervistati ha affermato di sostenere la soluzione “a due stati”: i palestinesi di Gaza sostengono questa soluzione in misura maggiore (22,7%) rispetto ai palestinesi che vivono in Cisgiordania (13,3%). Il 5,4% degli intervistati ha affermato che sosterrebbe la soluzione “uno stato per due popoli”.
   Infine, alla domanda su chi siano le parti in guerra solo il 18,6% dei palestinesi intervistati ritiene che la guerra in corso sia tra Israele e l’organizzazione terroristica Hamas, mentre una maggioranza del 63,6% ritiene che si tratti di una guerra tra “Israele e i palestinesi in generale”, e un ulteriore 9,4% afferma di considerarla una guerra tra “il mondo occidentale e il mondo arabo”.
(Da: Jerusalem Post, 17.11.23)

(israele.net, 18 novembre 2023)

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“Hamas vuole distruggere Israele”. Parola della Nobel Elfriede Jelinek

Il gruppo terroristico è “come i nazisti durante l’invasione della Polonia”. È “massacro, stupro e tortura”, “una furia di distruzione incondizionata”.

di Giulio Meotti

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Forse ha ragione Richard Millet e il Nobel per la letteratura “è diventato l’equivalente del vecchio Premio Stalin dell’Unione Sovietica”. E quando si tratta di Israele, l’unico blasone che si ricordi a sua difesa è Saul Bellow. Nel 2012 con una poesia intitolata “Quel che va detto”, uscita  sui quotidiani tedeschi, spagnoli e italiani, Günter Grass spiegò che la potenza nucleare di Israele minacciava la fragile pace mondiale e che lo stato ebraico poteva cancellare il popolo iraniano. Eravamo al totale ribaltamento: non era più Teheran che minacciava Tel Aviv, ma Israele  minaccia al popolo iraniano. Durante la Seconda intifada dei kamikaze, il Nobel portoghese José Saramago scrisse: “Ramallah è la Auschwitz di oggi”. Per non parlare di Dario Fo, il giullare di Soccorso Rosso. Dopo il 7 ottobre, nessun Nobel  ha avuto il tempo di buttare giù qualche parola a sostegno di Israele. Ci ha pensato Elfriede Jelinek, che come Kraus si fregia di mettere a nudo le debolezze e i vizi  sotto le apparenze perfette del  paese dei valzer, del Danubio blu, delle operette e dei cavallini bianchi. 
   Come Grass, Fo e Saramago, Jelinek è di sinistra: impegnata contro l’estrema destra nel suo paese e a favore dei migranti, membro del Partito comunista fino al 1991, autrice di attacchi contro Donald Trump e le leggi russe anti Lgbt. Ma a differenza dei tre colleghi, Jelinek ha condannato sul suo sito web i “fanatici” dell’“organizzazione terroristica Hamas” che vogliono “annientare” Israele, “l’unico stato democratico della regione”. “Umanità, potrebbe farci comodo” scrive Jelinek. “Dopo l’attacco di Hamas, non so più di cosa si tratti. Diventa un pezzo di carta su cui sono state scritte tante cose buone e belle e poi date alle fiamme”. Jelinek spiega che “infuriano i fanatici, per i quali la vita non ha alcun valore, e la morte è qualcosa per cui vale la pena lottare, attraverso la quale si può diventare martiri”. Paragona quanto succede alla Guerra dei Trent’anni, “che quasi spopolò l’Europa e iniziò con fronti chiari, come guerra di religione e con la defenestrazione (più un atterraggio morbido su un mucchio di letame) a Praga, finché alla fine solo i predoni vagarono per la terra deserta”. 
   Hamas, spiega la scrittrice, “non appartiene alla civiltà”, “pianifica” e ha “sempre pianificato” l’annientamento di Israele, spiega la scrittrice austriaca 77enne. “Come i nazisti durante l’invasione della Polonia”: così Jelinek su Hamas, “massacro, stupro e tortura”, “una furia di distruzione incondizionata” che suggella il loro destino. Denuncia anche “la presa in ostaggio di palestinesi innocenti” da parte di Hamas “sulla loro striscia di terra sovrappopolata” e le manifestazioni in Europa contro gli attacchi israeliani. Quanto più i manifestanti “affermano la legittimità e la giustezza della loro azione gridando e ingiuriando, ovunque, anche qui, davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Vienna, tanto più si instaura il vuoto, un vuoto aspirante”, deplora l’autrice il cui padre fu perseguitato sotto il nazionalsocialismo a causa delle sue origini ebraiche. “Ogni scambio è ridotto in cenere. Vediamo solo il fumo nero che vola via e l’orrore che rimane”. Le macerie di Kfar Aza.  

Il Foglio, 18 novembre 2023)

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Presentata denuncia contro Hamas per crimini contro l’umanità

di Sarah G. Frankl

Eyal Waldman, la cui figlia e il suo fidanzato sono stati uccisi da Hamas il 7 ottobre, e altri rappresentanti delle famiglie dei morti e delle persone prese in ostaggio, hanno appena presentato una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aia. La denuncia sostiene che il 7 ottobre sono stati compiuti crimini contro l’umanità da parte di Hamas e di altri gazani, spiega Waldman a Channel 12.
 La denuncia include prove di ciò che è accaduto quel giorno, dice Waldman.
 Waldman sottolinea che i rappresentanti delle famiglie hanno anche chiesto alla corte di emettere mandati di arresto per i leader di Hamas, in modo da impedire loro di viaggiare, come la corte ha fatto a marzo nel caso del presidente russo Vladimir Putin, per crimini di guerra in Ucraina.
 Waldman afferma che le famiglie sono state accolte “con grande professionalità” e cortesia dal procuratore capo del tribunale e dal suo team, che ha ascoltato attentamente la loro presentazione.
 “Ha capito che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Ha detto che era in corso un’indagine contro i capi di Hamas”, afferma Waldman, riferendosi apparentemente al procuratore della CPI Karim Khan.
 Waldman afferma che la CPI ha chiesto a Israele di invitare la sua squadra a visitare il tribunale per far avanzare le indagini, ma osserva che non è chiaro se Israele accetterebbe di farlo perché “Israele non ha fiducia in questo tribunale internazionale”.
 “Ma ciò che era importante era [presentare] la documentazione dei crimini commessi, dei crimini contro l’umanità e lo sforzo per ottenere mandati di arresto per i capi di Hamas”, dice Waldman.
 
  (Rights Reporter, 17 novembre 2023)

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Incappucciati come i terroristi di Hamas bruciano la bandiera di Israele

Ieri in piazza Castello a Torino, un atto di violenza e odio razziale che evoca la "Notte di Cristalli"

di Marco Bardesono

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La bandiera rappresenta l’anima e lo spirito di un popolo. Quella di Israele è stata bruciata ieri mattina nel cuore di Torino da tre, quattro incappucciati. Ieri, un giorno di novembre, un novembre nero come quello del 1938, quello della “notte dei cristalli”, data di inizio dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Vedere la bandiera israeliana che brucia, al di là dei distinguo del politicamente più o meno corretto, fa venire i brividi perché essa rappresenta un vessillo ebraico e incarna i segni e i colori dello Stato nella “terra promessa”. E ciò senza considerare che un simile atto configura uno o più reati che l’ordine costituito dovrebbe perseguire. Ma prima dell’aspetto giuridico, c’è da porsi un’altra domanda che va oltre il lecito e l’illecito del fatto in sé.
   Sembra di avere a che fare con un’orda che non perde occasione per rovesciare il punto di vista del buon senso. E il buon senso è totalmente racchiuso in una data: quella dello scorso 7 ottobre. Le “Torri Gemelle” di Israele, l’attacco feroce del terrorismo più spietato che ha lasciato sul terreno oltre mille morti e ha preso in ostaggio centinaia di persone. Tra le vittime ci sono bambini, che sono stati sgozzati, ci sono donne, ci sono anziani. Questo è il fatto che giustifica pienamente la reazione di Tel Aviv. Non una reazione inaspettata, ma che Hamas aveva previsto e che ha ispirato la carneficina in terra di Israele. I terroristi sapevano che Israele avrebbe reagito e non hanno esitato a utilizzare altri bambini, altre donne e altri vecchi come scudi umani per proteggere il loro strisciare come vermi nei sotterranei di Gaza. Israele da vittima, nel pensiero degli emiri che comandano il gruppo terroristico (accostare il termine Hamas a quello del popolo palestinese oggi suona come una bestemmia per gli stessi palestinesi, o per molti di essi), sarebbe stato percepito come Stato carnefice, non solo tra i popoli arabi, ma anche nell’occidente moderno e progressista.
   Una strategia puerile, ma che ha aperto una breccia specie in alcuni salotti europei e occidentali. Un tranello nel quale, però, non sembrano essere caduti i grandi pensatori del Novecento, come Jürgen Habermas che per quasi un secolo ha ispirato la sinistra europea e l’intero pensiero progressista internazionale. Ma nel trabocchetto ci stanno cadendo persone e gruppi senza memoria e storia, quelle masse (più o meno vaste), «senza cultura da cui deriva una relativa libertà e una società che, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla», scriveva Albert Camus. La giungla ieri la si è vista in piazza Castello, al termine di un corteo studentesco organizzato non si sa bene per cosa, quando gli incappucciati hanno bruciato la bandiera ebraica e israeliana. Un simile atto non può essere considerato la bravata di qualche giovinastro. E’ evidente che il falò di piazza Castello è stato l’atto simbolico dell’odio, quello che utilizza il fuoco per cancellare ciò che si vuole distruggere. Il fuoco lo hanno usato anche i nazisti 85 anni fa, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938. E quello fu l’inizio della fine.

(Torino Cronaca, 18 novembre 2023)

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“Percepiamo uno sdoganamento dell’antisemitismo”: i timori degli ebrei all’ombra del Colosseo

di Nathan Greppi

Nel corso dell’ultimo periodo, in molte capitali europee si sono moltiplicati gli episodi di antisemitismo, dopo i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre e la conseguente reazione israeliana. Sfortunatamente, Roma non fa eccezione a questa tendenza: oltre alle manifestazioni antisraeliane alla Sapienza e in altri atenei della Capitale, vi sono stati anche i casi delle pietre d’inciampo bruciate e delle svastiche equiparate al Magen David, dipinte appena fuori dalla zona del ghetto.
   A riportare l’aria che si sta respirando lungo il Tevere, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, che racconta come gli ebrei romani si sentono questo periodo.

- Come stanno vivendo gli ebrei romani la situazione dopo il 7 ottobre?
  Con piena partecipazione e preoccupazione per le vicende accadute. Siamo di fronte a un grave pogrom, avvenuto con modalità inaudite. Compiuto in Israele, e documentato dai miliziani stessi. Questo pogrom è figlio di un profondo odio antiebraico. Anche la turpe circostanza che i sopravvissuti siano stati rapiti risponde ad una inedita modalità esecutiva degli attentati, che è tremenda.

- Cos’avete pensato nel vedere delle svastiche alle porte del quartiere ebraico?
  Associare la stella di Davide con la svastica nazista vuol dire apparentare le vittime ai carnefici; significa non riconoscere alle vittime alcuna dignità, e in definitiva disconoscere il diritto di Israele a esistere. Israele che è, va ricordato, l’unico baluardo di democrazia di tutto il Medioriente.

- Come è cambiata la percezione dell’antisemitismo a Roma nell’ultimo mese?
  Negli ultimi tempi sembra di percepire uno sdoganamento dell’antisemitismo. Alcuni concetti prima erano irriferibili, mentre oggi se ne fa largo e disinvolto uso. Esistono però dei limiti precisi a queste storture: nella definizione di antisemitismo approvata dall’IHRA, l’equiparazione di Israele al nazismo, così come negare il diritto all’autodeterminazione di Israele, sono definiti quali manifestazioni di oggettivo antisemitismo. Dobbiamo essere vigili e combattere questi fenomeni di rigurgito antisemita.

- Come giudicate l’approccio da parte dello Stato, delle istituzioni e della società civile?
  Abbiamo apprezzato e siamo stati confortati dalla ferma condanna dell’attacco disumano del 7 ottobre da parte della politica e della società civile italiana. Purtroppo, successivamente alla reazione militare di Israele, una parte rilevante dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione ha preso le parti di Hamas. Questo è assurdo e deprecabile, e ci lascia sgomenti: in Italia c’è chi si augura l’affermazione di un califfato medievale in Israele, a 3 ore di aereo da Roma. Così si stravolge la semplice verità: Israele sta reagendo per difendere la propria popolazione. Il suo obiettivo sono i terroristi di Hamas, mentre per questi ultimi l’obiettivo primario è quello di colpire i civili e assassinare quanti più ebrei e israeliani possibile.

- Il 25 ottobre avete accolto i familiari degli ostaggi al Tempio Maggiore. State preparando altre iniziative di solidarietà?
  L’accoglienza alle famiglie delle vittime e degli ostaggi israeliani del 7 ottobre è stata un momento di grande partecipazione e commozione per la nostra Comunità. Sono in programma a breve altre iniziative, e siamo molto attivi nel sostenere il punto di vista di Israele, il suo diritto all’autodeterminazione e a proteggere e tutelare i propri cittadini.

(Bet Magazine Mosaico, 17 novembre 2023)

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Spade di ferro - giorno 42. La pubblicità del terrorismo e i bambini

di Ugo Volli

Una guerra di propaganda
  Nelle guerre asimmetriche, come quella che il terrorismo palestinese pratica da almeno sessant’anni, ancor più della potenza militare che in partenza è molto squilibrata a sfavore dei terroristi (se no ci sarebbe una guerra convenzionale) conta la propaganda, il tentativo di attrarre nel campo degli attaccanti nuove forze e di mettere in crisi la volontà di resistenza dello stato attaccato e la sua reputazione internazionale. Gli stessi atti di terrorismo servono a questa “propaganda armata” (un’espressione delle Brigate Rosse, che furono alleate al terrorismo palestinese e in parte addestrate nei suoi campi in Libano), sono anche atti pubblicitari. L’eccidio del 7 ottobre ne è una prova: i terroristi non cercavano di sconfiggere l’esercito israeliano ma di spaventare e indebolire “gli ebrei” con la loro orribile crudeltà e di suscitare una rivolta araba in Giudea e Samaria e nei paesi vicini a Israele. Questi due obiettivi non sono riusciti, anzi. Ma la guerra di propaganda ha funzionato bene

I sondaggi
  I sondaggi mostrano chiaramente che non solo i palestinesi sostengono Hamas, esprimono anche un sostegno agli attacchi terroristici contro i civili in Israele. Mentre fino all’operazione “Pilastro di difesa” del 2012 sembrava che Fatah potesse prevalere anche a Gaza, negli ultimi sondaggi si può vedere chiaramente una tendenza che ha raggiunto il suo apice nel 2020, per cui Hamas è stabilmente l’organizzazione più popolare. L’ultimo sondaggio, condotto proprio alla vigilia del massacro, a fine settembre 2023, mostra che se ci fossero state allora delle elezioni Hamas avrebbe ottenuto il 44% dei voti, mentre a Fatah ne sarebbero rimasti il 32%. Un altro dato che illustra il sostegno della società palestinese al terrorismo si vede nella risposta alla domanda "Sostieni un attacco armato contro i civili all'interno di Israele?". I risultati delle inchieste svolte ogni trimestre da il “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca sulle Indagini” (PCPSR), guidato dal Prof. Khalil Shakaki, non lasciano dubbi: il tasso di sostegno al terrorismo è del 67%. Si può anche osservare una chiara tendenza negli ultimi anni al rialzo dei valori positivi. Chi sostiene che non bisogna confondere i palestinesi con Hamas, farebbe bene a tener conto di questi dati. Inoltre, delle varie entità su cui il sondaggio richiede una valutazione, l’89% approva l’apparato militare di Hamas, le cosiddette brigate Al Qassam; l’84 per cento la Jihad islamica, l’80% le brigate Al Aqsa, che sono il ramo militare di Fatah, il 74% Hamas in generale conto solo il 14% a favore dell’Egitto e naturalmente 0% a favore di Usa e Israele. I palestinesi nella Striscia di Gaza dal 2001 – il periodo della seconda intifada – ad oggi hanno insomma sempre risposto ai sondaggi che la grande maggioranza di loro sostiene gli attacchi terroristici contro i civili all’interno di Israele. Non fa meraviglia che tanto fonti israeliane che di Hamas abbiano parlato della partecipazione di “civili” provenienti da Gaza agli atti più cruenti e orribili della strage.

La propaganda sui bambini
  Un tema della propaganda terrorista, largamente recepito non solo fra gli arabi ma anche in Occidente, è che Israele sarebbe ignobile perché ucciderebbe i bambini. Si tratta di una variazione di un vecchio tema antisemita, la cosiddetta calunnia del sangue, per cui gli ebrei catturerebbero dei bambini cristiani o musulmani e li sottoporrebbero alle stesse torture che avrebbe subito Gesù per vendicarsene di nuovo e usare il loro sangue nella confezione del pane azzimo della Pasqua ebraica. Centinaia di comunità, decine di migliaia di ebrei sono stati uccisi in tutta Europa e nel Medio Oriente (ma anche in Italia) dal primo caso di questa menzogna, a Norwich in Gran Bretagna nel 1144. Negli ultimi decenni essa è stata continuamente ripetuta contro Israele, ed è tornata attuale con la guerra. Israele ammazzerebbe continuamente i bambini palestinesi, chissà perché. La verità è esattamente opposta. Non sono stati i terroristi a uccidere con orribile crudeltà decine di bambini e neonati il 7 ottobre e a sequestrarne altrettanti, che tengono ancora prigionieri contro ogni moralità e legge internazionale. Il fatto è che essi stessi sfruttano i loro figli come scudi umani, mettono in mano loro le armi e li sottopongono ad addestramento militare quando sono ancora piccoli e li reclutano e usano in battaglia da adolescenti.

Il lettino e il passeggino
  Ieri l’esercito israeliano ha rivelato le prove di uno di questi episodi, particolarmente scandaloso. Nella casa di un terrorista perquisita a Beit Hanun i soldati della brigata 555 hanno trovato razzi nel letto di una bambina e un missile anticarro in una carrozzina. Non si tratta affatto di un caso, il portavoce dell’esercito ha messo a disposizione dei giornalisti una conversazione fra un terrorista e i suoi capi in cui si parlava di questo modo di nascondere le armi usando i bambini come una pratica normale. Si tratta dello stesso modo vile e illegale di combattere e nascondersi dietro persone deboli e protette che viene praticato sistematicamente con gli ospedali. E però di queste cose l’opinione pacifista non tiene conto: nessuno chiede a Hamas di uscire dagli ospedali, di smettere di usare i bambini come scudo, di rilasciare i civili, fra cui donne e bambini, che ha rapito, di smettere di bombardare le case della popolazione israeliana. Solo Israele deve smettere di combattere e lasciare che Hamas si riorganizzi. Da questo punto di vista, purtroppo, la pubblicità terrorista funziona benissimo.

(Shalom, 17 novembre 2023)

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Israele prepara la sua offensiva nel sud della Striscia di Gaza

di Pierre Haski

L’esercito israeliano ha di fatto assunto il controllo del nord della Striscia di Gaza. Buona parte della popolazione è stata spinta a rifugiarsi nel sud, mentre chi è rimasto si trova in una situazione drammatica: quasi tutti gli ospedali hanno smesso di funzionare e le operazioni militari sono incessanti.
   Il 16 novembre Israele ha mostrato il primo segnale della volontà di estendere l’offensiva contro Hamas nel sud della Striscia. L’aviazione israeliana ha lanciato dei volantini su quattro località attorno al grande campo profughi di Khan Yunis, raccomandando agli abitanti di evacuare le loro abitazioni.
   Ma dove dovrebbero andare queste persone? Già prima dell’invasione la Striscia di Gaza aveva una delle densità di popolazione più alte al mondo. Ora l’arrivo di centinaia di migliaia di sfollati dal nord, in un contesto di guerra e senza acqua, medicine e impianti sanitari, crea una situazione umanitaria disastrosa.
   Israele ha preso di mira le strutture sanitarie, in particolare Al Shifa, la più importante della Striscia. Medici, pazienti e sfollati che si erano rifugiati lì sono stati costretti ad andarsene
   Israele ipotizza la creazione di una “zona sicura” nella zona sudoccidentale della Striscia, lungo la costa del Mediterraneo. Tuttavia, il 16 novembre diverse agenzie delle Nazioni Unite, in un comunicato congiunto, hanno rifiutato questa proposta.
   Le agenzie ritengono infatti che “nessuna zona sicura sia veramente sicura se è stabilita unilateralmente o se è imposta da una forza armata”, e sottolineano che una zona sicura andrebbe negoziata. L’Onu ha già perso più di cento dipendenti a causa dei bombardamenti israeliani.
   Questo braccio di ferro tra istituzioni rispettate come l’Unicef o l’Oms e un esercito in guerra è fuori dalla norma e rivela la spaccatura sempre più grande creata dal tipo di guerra condotto da Israele.
   Mercoledì Joe Biden ha dichiarato che non chiederà un cessate il fuoco fino a quando Israele non avrà neutralizzato la capacità militare di Hamas, ma allo stesso tempo continua a invitare l’esercito israeliano a non colpire i civili, cosa letteralmente impossibile in questo tipo di conflitto.
   L’estensione della guerra nel sud di Gaza potrebbe creare un contrasto tra Israele e il suo alleato statunitense. Un funzionario israeliano ha sottolineato che lo stato ebraico ha tre settimane di tempo prima che le pressioni comincino a farsi sentire. Se l’esercito israeliano deciderà di avanzare verso sud, i tempi potrebbero accorciarsi.
   Finora Israele ha condotto la sua guerra senza preoccuparsi minimamente delle reazioni internazionali, spinto da una popolazione unita dopo gli orrori del 7 ottobre. Tuttavia, un’incursione terrestre nel sud comporterebbe un rischio tanto politico quanto militare. Un’azione nel dedalo dei vicoli di Khan Yunis, sovraffollati a causa dell’arrivo degli sfollati del nord e in condizioni umanitarie sempre peggiori, incontrerebbe seri problemi, senza alcuna garanzia di distruggere davvero Hamas.
   I volantini lanciati nel sud sembrano indicare che il governo israeliano abbia preso la sua decisione, mettendo gli alleati occidentali in una situazione che potrebbe diventare insostenibile. Sarà il momento della verità in una guerra che sta sconvolgendo il mondo intero.

(L'Unione Sarda, 17 novembre 2023)

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I più maliziosi…

Ci sono in questi giorni domande che restano inevase e lasciano perplessi i già perplessi.
   Abbiamo appreso che secondo la normativa ONU, Israele non avrebbe la legittimità di fare guerra a Hamas, in quanto la formazione terrorista non è uno Stato, e la guerra può essere fatta solo da uno Stato aggredito nei confronti di un altro Stato.
   Ci si chiede come mai, dunque, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 organizzato da Al Qaeda nei confronti degli Stati Uniti, gli Stati Uniti ottennero dall’ONU una dispensa nell’ottemperare a questa norma per l’intervento che fecero in Afghanistan? I più maliziosi sospettano che l’ONU fu permissivo perché gli USA sono gli USA, e per Israele, in particolare, non può mai essere applicata alcuna eccezione ma anzi vengano applicati criteri mai applicati a nessun altro Stato.
   Gli Stati Uniti, a Mosul nel 2017, ridussero praticamente l’intera città irachena a un ammasso fumante di rovine. I civili morti ufficiali furono undicimila, ma secondo altre stime più di trentamila. L’obbiettivo degli americani era analogo a quello israeliano: combattere una organizzazione terrorista islamica, sradicarla dalla città in cui si era insediata.
   Non si ricorda una sola manifestazione in sostegno dei civili iracheni, soprattutto i bambini, che morivano sotto le bombe americane. Nessuna voce si levò dall’ONU contro il “genocidio” che stava avendo luogo. Perché? I più maliziosi sostengono che l’ISIS non veniva considerata una “avanguardia resistenziale” contro “l’occupante”, ma soprattutto che non fosse Israele a bombardare.
   Secondo il Gruppo di azione per i palestinesi siriani, tra il 2011 e il 2016, durante il contesto della guerra in Siria, vennero uccisi 3414 arabi palestinesi mentre 456 morirono nel 2016 a causa delle torture inflitte dal regime di Assad. Secondo l’UNRWA, 280,000 arabi palestinesi vennero espulsi dal paese nel 2017. Nessuno né  all’ONU né nelle piazze parlò di genocidio o di pulizia etnica. I più maliziosi ritengono che ciò sia dovuto al fatto che Assad non sia israeliano.
   Tutte le volte che Israele è in guerra, gli viene chiesto di applicare il celebre e ineffabile “principio di proporzionalità”. Non risulta che a Mosul, giusto per citare il caso fatto, sia stato applicato scrupolosamente.
   È indubbiamente interessante che tra gli invocatori del principio di proporzionalità siano gli Stati Uniti, il cui codice militare aggiornato al 2023 e di cui ha dato conto qui David Elber stabilisce l’impossibilità di istituire nel corso di un’azione militare un rapporto preciso tra costi e benefici.
   Perché, ci si domanda, quello che vale per gli americani, la più grande democrazia del pianeta non può valere per l’unica democrazia mediorientale? I più maliziosi sostengono che nel caso di Israele essendo appunto Israele non si possono applicare i criteri della condotta richiesta dal codice militare americano.
   Ci si chiede se, in questi e in altri casi i più maliziosi abbiano ragione.

(L'informale, 17 novembre 2023)

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Il crollo del fronte Sud e il "nazislamismo" di Hamas  

Le brutali violenze contro civili inermi dimostrano quanto forte sia l'odio verso l'ebreo, una mala pianta da estirpare. Anche dove non immaginavamo potesse esistere ancora 

di Claudio Vercelli

Chi leggerà queste note a seguire sarà forse già a conoscenza di sviluppi che, nel momento in cui vengono redatte, invece ancora non sono conosciuti. Ci stiamo riferendo al confronto tra Israele ed Hamas. Lo definiamo così, ben sapendo - tuttavia - che attori e interpreti di questo ennesimo scenario bellico, e non solo, sono molteplici. Dietro Hamas, infatti, c’è l'Iran e con quest'ultimo, tanto per dire, si trova, al momento attuale, la Russia. Inutile, in questo come in altri casi, lanciarsi in elucubrazioni geopolitiche che possono risultare, alla prova dei fatti, tanto fondate quanto inconsistenti. Semmai è meglio rifarsi al quadro dei dati che si possono conoscere per davvero, nella confusione generale che altrimenti drammaticamente regna dinanzi ad un campo di battaglia ancora aperto, tra morti, feriti, ostaggi. Soprattutto gli ultimi che, in prospettiva, sono destinati a pesare come dei macigni. Il passato, in fondo, ce lo insegna. 
   Veniamo quindi al dunque, facendo uno sforzo di comprensione. 
   Il primo elemento da cui partire è che la linea di divisione tra Gaza Strip (in arabo Qità Ghazza Ghazza; ovvero, in ebraico, Retzu'at 'Azza) e Medinat Israel è, quanto meno dal 2005 - data del totale ritiro della presenza israeliana da quei luoghi - uno dei "confini" più controllati e presidiati nel mondo. Per tutti i motivi che si potevano ben immaginare già prima del 7 ottobre 2023 e che ora, ancora di più, assumono una rilevanza pressoché imprescindibile. Detto questo, come è stato possibile che le difese nazionali, comunque attive anche durante una giornata festiva, abbiano ceduto con una tale flebilità? Non di meno, l'intelligence israeliana, celebrata un po' ovunque come un esempio di efficienza ed efficacia, perché non ha saputo quanto meno intuire l’evoluzione dello stato delle cose, fermo restando che era un segreto di Pulcinella il fatto che Hamas si stesse predisponendo ad un'aggressione su vasta scala? 
   Secondo passaggio, non meno importante. Le violenze degli islamisti si sono esercitate essenzialmente contro i civili. Non i militari - la cui risposta, in un primo momento, è stata straordinariamente debole - e neanche i «sionisti» o gli «israeliani» ( due parole di servizio, utilizzate solo come sinonimi di altri significati), bensì contro gli «ebrei». Nella dottrina di Hamas, e nelle liturgie di comportamento che ne derivano, sono infatti questi ultimi ad essere odiati. Pochi giri di parole, al riguardo. Israele, di per sé, è inteso solo come un recente prodotto "ebraico'' e non in quanto altro. Pertanto, quel che conta, è estirpare la "cattiva pianta" dell'ebraismo come tale. Soprattutto da Dar-al-Islam, la terra benedetta in quanto integralmente musulmana. Poiché da tutto ciò non potrà quindi derivare altro che non sia un'armonia universale, altrimenti inquinata - ed interrotta - dalla persistente presenza dei «giudei». 
   In tutta sincerità, è assai difficile non pensare che una tale impostazione mentale, prima ancora che ideologica, sia molto lontana da quella terrificante esperienza che, in Europa, e non solo, abbiamo conosciuto con il nome di «nazismo». Evitiamo le facili equiparazioni, le analogie di circostanza, le espressioni ad effetto. Non di meno, tuttavia, non esimiamoci dal bisogno di trovare un qualche precedente. Pertanto, il terrorismo islamista, in quanto movimento anche di massa, trova parte delle sue ispirazioni nel lascito, al medesimo tempo catacombale, demoniaco nonché messianico, del nazionalsocialismo. Molti riscontri, al riguardo, si potrebbero richiamare. In altra sede e in un diverso momento, probabilmente, lo faremo. Come dire, a tempo debito, non altrimenti pressati dalla rutilante premura della cronaca. Non trattandosi, infatti, di un'urgenza bensì di un riscontro di lungo periodo. 
   Terzo elemento: se le premesse sono queste, Hamas non esercita una "resistenza palestinese all'occupante sionista'' (così come altrimenti recita ad uso e consumo del pubblico non musulmano) bensì un Jihad, apertamente dichiarato nei confronti del resto del mondo: ovvero, un atto di purificazione, non troppo diverso, nella logica degli attuali protagonisti, da quello che animava coloro che intendevano, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, mettere mano definitiva alla «soluzione della questione ebraica». Poiché il fondamentalismo, in questo caso islamista, non intende mai trovare una risposta politica (la mediazione) bensì una totale prevaricazione identitaria, quella che gli deriva dal potere esibire un trofeo, in questo caso la testa dei «sionisti-giudei». Chi non intende tutto ciò, chi non capisce che l'islamismo radicale costituisce l’omologo orientale di un'apocalittica idea delle relazioni umane, attardandosi semmai nella seduzione di oramai vuote categorie del Novecento (i «guerriglieri» dal basso, che lottano contro il «potere»), è solo un illuso o un colluso. Ce ne sono molti. D’ora innanzi, sarà necessario imparare a distinguere. Quanto meno, nella legittima critica dello stato di cose esistenti, per non accompagnarsi a scomodi e insinceri compagni di viaggio. 
   Infine, ulteriore passaggio da prendere in considerazione, per non risparmiare niente a nessuno. Il settimo governo Netanyahu, quello attualmente in carica, a dir poco si è fatto cogliere alla sprovvista dall’evoluzione degli eventi. A tale riguardo, meglio evitare altri ordini di pensieri, altrimenti assai più cinici, come quello che invece afferma, machiavellicamente, che proprio dinanzi agli evidenti segni di un collasso del confine meridionale, l’esecutivo avrebbe lasciato correre, così pensando di potere tacitare le corali manifestazioni di opposizione che, da gennaio di quest'anno civile, si susseguono nelle piazze e nelle strade d'Israele.
   Nessuno di noi potrà mai dire compiutamente nulla al riguardo, se non con il trascorrere del tempo, quando saremo temporalmente distanti dalle urgenze di questa nuova guerra. Poiché di ciò si tratta. Posto che Hamas sta utilizzando gli abitanti di Gaza come scudo, schermo e alibi per le sue presenti e future azioni. Rimane il fatto, e su ciò concludiamo queste prime note, che nessun governo israeliano, d’ora innanzi, potrà fingere di considerare il futuro del palestinesi come una sorta di fastidioso elemento di corredo, al quale porre rimedio procrastinando un oramai improbabile status quo oppure risolvendo il tutto con un tratto di penna, come se l'esistenza di milioni di altre persone non lo chiamasse in causa.

(Bollettino Comunità Ebraica di Milano, novembre 2023)

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Israele: sondaggio politico in tempo di guerra. Vola Benny Gantz

Un sondaggio condotto dall’istituto Midgam e pubblicato giovedì su Channel 12 News mostra che, se le elezioni si tenessero oggi, il Partito di Unità Nazionale guidato da Benny Gantz conquisterebbe 36 seggi e il Likud ne otterrebbe 17.
   Yesh Atid otterrebbe 15 seggi, Shas 10, Yisrael Beytenu 9, United Torah Judaism 7, Otzma Yehudit 7, Hadash-Ta’al 5, Ra’am 5, Meretz 5 e il Partito Sionista Religioso ne otterrebbe 4.
   Il blocco degli oppositori di Netanyahu sale a 70 seggi rispetto al blocco composto dai partiti dell’attuale coalizione, che ottiene 45 seggi.
   Ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto come sarebbe la mappa politica se un partito di centro-destra, guidato dall’ex Primo Ministro Naftali Bennett, annunciasse una candidatura alle elezioni. Tale partito otterrebbe 17 seggi e sottrarrebbe principalmente una quota al Partito di Unità Nazionale, che scenderebbe a 25 seggi. Yesh Atid e Yisrael Beytenu perdono un seggio a favore di un tale partito.

(Rights Reporter, 17 novembre 2023)

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L’ex ambasciatore israeliano Danieli a Nova: “Situazione estremamente pericolosa in Medio Oriente”

Il diplomatico ha messo in guardia contro il rischio “di uno scontro regionale più ampio, soprattutto data la fragile situazione nel nord di Israele a causa di Hezbollah”

L’attacco terroristico “senza precedenti” da parte del movimento islamista palestinese Hamas perpetrato lo scorso 7 ottobre nel territorio israeliano ha creato una situazione “nuova, estremamente pericolosa e instabile nella regione del Medio Oriente”. Lo ha dichiarato l’ex ambasciatore d’Israele David Danieli in un’intervista ad “Agenzia Nova”, secondo il quale l’obiettivo di Hamas era “creare disordine e caos nella regione, coinvolgendo organizzazioni e milizie iraniane, dallo Yemen al Libano, Siria e Iraq, e i palestinesi in Cisgiordania”. Il diplomatico ha messo in guardia contro il rischio “di uno scontro regionale più ampio, soprattutto data la fragile situazione nel nord di Israele a causa di Hezbollah”. Il movimento libanese sciita compie infatti “atti di guerra” su base quotidiana, che prendono di mira gli insediamenti israeliani e le postazioni delle Forze di difesa israeliane (Idf), ricorda Danieli, secondo il quale non risulta finora un’espansione del conflitto nel nord che rischia arrivare a “coinvolgere direttamente l’Iran”. “Al momento non sembra così, considerati gli interessi iraniani e la presenza militare statunitense nella regione”, ha detto Danieli, spiegando che “con i continui successi militari israeliani contro Hamas a Gaza, la ‘strada’ araba resterà una sfida importante per i governanti dell’Egitto e soprattutto della Giordania”.
   Secondo il diplomatico, l’obiettivo di Israele di eliminare completamente Hamas come organizzazione militare e politica “è fattibile e richiederà tempo, ma sarà necessario il controllo militare israeliano dell’intera Gaza fino a quando non sarà stabilito un governo civile alternativo, non israeliano”. “Analogamente all’eliminazione dello Stato islamico nella maggior parte dei territori che erano sotto il suo controllo”, ha precisato. Commentando le possibili sfide che Israele dovrà affrontare, Danieli ha ricordato che “Hamas controllava Gaza e l’ha trasforma in una base terroristica contro lo Stato di Israele”. In merito alla sicurezza dei confini di Israele con Gaza, Danieli ha spiegato che questa “può essere garantita solo con la presenza e il governo di un’entità civile a Gaza che non sia dedita al terrore e alla distruzione dello Stato di Israele”. Secondo il diplomatico saranno quindi necessarie “nuove ed efficace misure militari” lungo i confini “indipendentemente da qualsiasi valutazione militare o dell’intelligence”.
   A proposito del processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita attualmente “congelato”, il diplomatico ha evidenziato i “molteplici interessi a lungo termine” di Riad che “non sono cambiati”. “Molto dipende dall’esito della guerra di Israele contro Hamas (…) e dalle implicazioni sulla questione palestinese nel suo insieme. I sauditi non possono resistere al sentimento popolare a favore dei palestinesi nella regione” ha detto l’ex ambasciatore, secondo il quale Riad “dovrà soppesare i pro e i contro di un ritorno sul percorso di normalizzazione con Israele rispetto a qualsiasi sviluppo che coinvolga Israele e i palestinesi nel futuro prossimo”.
   Tuttavia, secondo l’ex ambasciatore i passi successivi al conflitto a Gaza per aprire la strada a una pace duratura “sono obiettivi lontani”. “Non c’è dubbio che un passo importante e significativo sarà l’avvio di un rinnovato processo politico tra Israele e la leadership palestinese con il sostegno dei paesi arabi moderati, degli Stati Uniti e dei partner europei”, ha detto Danieli, facendo riferimento alla soluzione dei due Stati che vivano fianco a fianco in pace e garantiscano i confini “come obiettivo a lungo termine”. “Al momento è prematuro valutare come verrà avviato un simile processo politico e sotto quale ‘ombrello’, dal momento che le leadership israeliane, palestinesi e statunitensi potrebbero vedere nuovi volti nel prossimo anno”, ha detto il diplomatico.
   In merito a un possibile coinvolgimento dei Paesi arabi nel governo di Gaza per contribuire alla stabilità e agli sforzi di pace dopo la cessazione delle ostilità, Danieli ha evidenziato le criticità di questo scenario “dal momento che i popoli arabi chiedono il ritorno completo e immediato del dominio palestinese”. “La custodia araba di Gaza sarà rifiutata innanzitutto dagli stessi palestinesi, tradizionalmente molto sospettosi nei confronti delle preoccupazioni e dell’interesse arabi per la loro causa”, ha detto l’ex ambasciatore, secondo il quale “una forza di pace internazionale può incorporare alcuni contributi di Stati arabi o islamici, sotto la bandiera delle Nazioni Unite”.

(Nova News, 17 novembre 2023)

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Parashà di Toledòt: Due nazioni e due popoli

di Donato Grosser

Dopo vent’anni di matrimonio Rivkà, moglie di Yitzchàk, divenne incinta. La gravidanza era per lei penosa perché aspettava gemelli e nella Torà è scritto che “... i bambini si urtavano nel suo ventre; ed ella disse: Se così è, perché vivo? E andò a consultare l’Eterno.  E l’Eterno le disse: Due nazioni sono nel tuo ventre, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore” (Bereshìt, 25:22-23).
            R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta: “Il motivo del fatto che i bambini (Esau e Ya’akòv) si urtavano è che erano destinati a generare due nazioni con leggi e religioni opposte e due popoli con idee opposte nella conduzione dello stato”. 
            Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento, fa notare che la parola “goyìm” (nazioni) invece di essere scritta in modo normale con le lettere ghimel, vav, yod e mem גוים, è scritta con due lettere yod, גיים. Poiché nella Torà ogni lettera ha un significato e ogni cambiamento ha un suo motivo, i Maestri hanno offerto diverse spiegazioni affermando che il cambiamento allude a qualche avvenimento futuro. Rashì  cita un passo midrashico dal Talmud babilonese (‘Avodà Zarà, 11a) nel quale è scritto: “È scritto gheyìm (invece di goyìm.Gheyìm significa “sovrani”). Questa è un’allusione all’imperatore Antoninus e a Rabbi Yehudà ha-Nassì (capo del Sanhedrin) presso i quali non mancò mai ravanello e lattuga, né in estate né in inverno”.  
            Quel poco che sappiamo della vita di Rabbi Yehudà ha-Nassì deriva dalle storie del Talmud e da midrashìm. Si diceva che fosse nato lo stesso giorno in cui Rabbi Akivà morì di morte violenta (intorno al 135 d.C.) per mano dei romani. Si racconta che il padre di Rabbi Yehudà, Rabbi Shim’on Ben Gamliel, lo circoncise nonostante un editto romano che vietava la pratica. Quando la notizia raggiunse le autorità romane, alla madre di  Yehudà fu ordinato di comparire con il bambino. Una nobildonna romana che aveva appena partorito ebbe pietà di loro e accettò di scambiare il suo bambino con Yehudà. Il bambino romano crebbe fino a diventare l'imperatore Antonino, e lui e Rabbi Yehudà godettero di un'amicizia permanente. A quanto raccontato nel Talmud, si incontrarono in Galilea, dove si trovava il principale insediamento ebraico dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh. L’identità di questo imperatore non è nota anche perché vi furono sei imperatori con questo nome. Il professor Avi Yonà scrive che non poteva essere né Antonino Pio né Commodo, perché non visitarono mai Eretz Israel. I soli contemporanei furono Marco Aurelio e Caracalla figlio di Settimio Severo. Marco Aurelio disprezzava gli ebrei. Rimane quindi Caracalla il cui nome era Marcus Aurelius Antoninus, che fu nominato co-imperatore nel 198 e dopo la morte del padre regnò tra il 211 e 217 E.V. (È anche possibile che si tratti di Settimio Severo che pur non chiamandosi Antonino, quando assunse il manto dell’impero si adottò alla dinastia degli Antonini). 
            R. David Meldola (Livorno, 1714-1818?, Amsterdam) nel suo commento Darkè David, cita altri midrashìm. Nel Midràsh Bereshìt Rabbà (63) è scritto: “Due popoli nel tuo ventre, sono due sovrani di nazioni; uno è sovrano del suo mondo e l’altro sovrano del suo regno. L’imperatore Adriano tra le nazioni e re Salomone in Israele”. R. Meldola suggerisce che i Maestri citarono Adriano perché fu durante il suo regno che Roma raggiunse il suo apice. Dopo di lui iniziò la decadenza dell’impero. Così pure re Salomone fu l’apice del regno d’Israele. Ed è anche possibile che i Maestri citarono Adriano perché fu lui che distrusse Betar, l’ultima fortezza durante la rivolta di Bar Kokhbà, e diede l’ordine di proibire la circoncisione, e fu seguito dalla dinastia degli Antonini.

(Shalom, 17 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Toledot (Generazioni)

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Operazione spade di ferro giorno 41. Il passo lento della guerra e il fronte politico

di Ugo Volli

Una guerra lunga
  Le guerre in genere sono lunghe, ripetitive, confuse. Pochi, anche di quelli che vi partecipano, hanno uno sguardo complessivo su quel che accade davvero. Salvo la Guerra di Indipendenza, che durò un anno e mezzo, Israele nella sua storia si è abituato a guerre veloci e manovrate, a veloci avanzate e a battaglie fra carri e aerei che si risolvevano nel giro di qualche giorno o un paio di settimane. Ne ha dovuto fare tante nei suoi settantacinque anni di vita: quattro contro gli stati arabi, due maggiori in Libano, cinque operazioni a Gaza, almeno tre grandi campagne terroristiche (la “guerra d’attrito” fra il ’67 e il ’70, la cui base principale era proprio Gaza, governata allora dall’Egitto, e le due “intifade”). Molte sono state assai più costose dal punto della vita dei soldati, e dall’inizio più rischiose per l’esistenza stessa del Paese. Questa, arrivata ormai alla sesta settimana, è meno manovrata, più lenta nei suo sviluppo, condotta in maniera sistematica e progressiva. A differenza di tutti i conflitti sostenuti dopo la guerra del Kippur, essa si basa di nuovo su un’idea chiara di vittoria, cioè la liquidazione completa del terrorismo da Gaza, e non si limita alla “riaffermazione della deterrenza” che era la dottrina militare delle recenti operazioni di Gaza. I caduti sono parecchie decine, persone preziose che hanno sacrificato la vita per il loro Paese, di cui ciascuno ha una storia, lascia dei parenti affranti e un futuro spezzato, ma finora grazie alla tattica prudente e sistematica usata dall’esercito, per esempio grazie ai lunghi bombardamenti preventivi, essi sono relativamente pochi, meno di un decimo delle vittime della strage terrorista del 7 ottobre. E bisogna dire che anche le vittime civili di Gaza, coinvolte per la criminalità dei loro dirigenti terroristi in un conflitto che Israele non voleva e non prevedeva, sono relativamente poche per una guerra coinvolta in un ambiente urbano: dei circa 11 mila morti denunciati dal “ministero della salute” di Hamas, molto probabilmente fra i due terzi e i tre quarti sono terroristi.

Ancora l’ospedale
  Della ripetizione fa parte l’insistere sugli stessi punti nel lavoro di ricerca dei terroristi e delle loro strutture. Dopo essere entrati l’altro ieri in certi reparti dell’ospedale Shifa, reperendo un centro di comando e programmazione terrorista con armi e materiali militari vari, che sono stati mostrati ai giornalisti, e anche tracce dei rapiti ma purtroppo non loro stessi, nella notte scorsa i militari israeliani sono entrati dall’altro lato del complesso dell’ospedale, quello meridionale, fra l’altro accompagnati dai grandi bulldozer che hanno iniziato a scavare nei cortili alla ricerca delle gallerie dei terroristi. Durante le perquisizioni all'interno di uno dei reparti dell'ospedale, i militari israeliani hanno individuato una stanza contenente mezzi tecnologici unici, attrezzature da combattimento ed equipaggiamento militare utilizzati dall'organizzazione terroristica di Hamas. Probabilmente sentiremo parlare a lungo di questo ospedale, come degli altri, perché le strutture terroriste più importanti sono state criminalmente nascoste nel suo sottosuolo, e l’esercito deve scoprirle, conquistarlo o smantellarle.

L’azione sul territorio
  Continuano anche le ispezioni e lo smantellamento della struttura terroristica in varie località al nord della Striscia. La novità è che l’esercito ha iniziato a diffondere volantini nella parte orientale (verso il confine israeliano) della città meridionale di Khan Yunis, invitando gli abitanti ad abbandonare le loro case per la loro sicurezza e a rifugiarsi verso la grande tendopoli che ormai sorge a sudovest, fra il valico di Rafah (con l’Egitto) e il mare. Questo vuol dire che anche la zona sudorientale della Striscia, dove si trova la terza sezione della rete dei tunnel, sta per essere conquistata, per smantellarvi le strutture terroriste. Continuano anche occasionalmente, con il solito valore soprattutto simbolico, le azioni di disturbo provenienti dallo Yemen (tre salve di razzi abbattuti ieri) dal Libano e dalla Siria, come anche dalle città arabe di Giudea e Samaria. Contrariamente alle speranze dei terroristi, questa volta non si è aperto un fronte interno con gli arabi israeliani, forse anche perché pure alcuni di loro sono stati colpiti dai terroristi il 7 ottobre.

Il fronte politico
  I media e le manifestazioni “pacifiste” (alcune in sostanza filoterroriste) continuano a invocare il cessate il fuoco come soluzione della guerra e del problema degli ostaggi - il che alla luce dell’esperienza è del tutto irrealistico. Sulla stampa si susseguono notizie di “quasi accordi” per una tregua e contemporaneamente di dissensi fra Israele e il suo principale alleato, gli Usa. Ma probabilmente per il momento sono “fake news” più o meno interessate o in buona fede. Il cancelliere tedesco Scholz ha dichiarato ieri di non vedere l’opportunità di un cessate il fuoco in questo momento. E anche Biden ha fatto un’intervista che vale la pena di riportare largamente: "Hamas ha commesso crimini di guerra quando ha operato dall'ospedale, gli israeliani non sono entrati con grandi forze, abbiamo parlato con loro della necessità di prestare particolare attenzione. Hamas ha già detto pubblicamente che intende attaccare di nuovo come ha fatto, quando ha decapitato neonati e bruciato vivi bambini e donne - pensare che si fermeranno semplicemente e non faranno nulla è irrealistico, usano tunnel per entrare [...]". Al Presidente è stato chiesto quanto durerà la guerra e quando finirà. "Quando Hamas non avrà più la capacità di uccidere e fare cose orribili agli israeliani. [...] L’esercito israeliano capisce che è obbligato a stare attento [a evitare di colpire i civili], non è come i russi che sparano alla gente indiscriminatamente. Hamas sta pianificando un nuovo attacco ed è un terribile dilemma cosa fare in una situazione del genere. Israele corre il rischio che la sua gente venga uccisa in questa operazione. Ma una cosa è chiara: Hamas ha un Quartier Generale sotto l'ospedale".

(Shalom, 16 novembre 2023)

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Israele: Agenzie ONU "complici" dei crimini di guerra di Hamas

"Ora che vi abbiamo colto in flagrante, potete trovare la forza di condannare Hamas?", afferma un portavoce dell'Ufficio del Primo Ministro israeliano.

di David Isaac

Martedì Israele ha condannato duramente le organizzazioni internazionali per non aver agito nel corso degli anni mentre Hamas trasformava gli ospedali di Gaza in basi del terrore.
   "Per troppo tempo le agenzie e i funzionari internazionali sono stati tacitamente complici dell'abuso degli ospedali di Hamas come scudi umani", ha dichiarato il portavoce dell'Ufficio del Primo Ministro Eylon Levy durante un briefing con la stampa.
   Chiediamo a loro piena responsabilità". Cosa sapevate? Perché non avete detto nulla? Perché continuate a fare propaganda per Hamas invece di fare il vostro lavoro?", ha chiesto.
   Il portavoce del PMO ha individuato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza Martin Griffiths per una censura speciale.
   I due hanno criticato le operazioni delle Forze di Difesa Israeliane nei pressi dell'ospedale di Al Shifa, a Gaza City, mercoledì: Ghebreyesus ha twittato che "le notizie di incursioni militari nell'ospedale di Al Shifa sono profondamente preoccupanti" e Griffiths ha scritto di essere "sconvolto dalle notizie di incursioni militari nell'ospedale di Al Shifa".
   Levy ha ribattuto: "No, ciò che è preoccupante è che Hamas abbia messo il suo quartier generale nel seminterrato e che voi lo stiate coprendo. No, quello che è spaventoso è che Hamas ha dirottato istituzioni protette e le agenzie delle Nazioni Unite non hanno fatto nulla".
   "Al polpettone di parole di agenzie internazionali complici dei crimini di guerra di Hamas diciamo: La vostra negligenza ha messo a rischio vite umane ed è costata vite innocenti. Ora che vi abbiamo colti in flagrante, potete trovare la forza di condannare Hamas? Dimenticatevi di noi: avete deluso il popolo palestinese. Avete deluso il mondo. Avete tutti fallito nel vostro lavoro", ha detto Levy.
   Il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha espresso il suo disappunto nei confronti di Ghebreyesus durante un incontro con il direttore dell'OMS a Ginevra, martedì. Ha detto che l'uso degli ospedali da parte di Hamas è stato "un clamoroso fallimento" per l'OMS e le altre organizzazioni delle Nazioni Unite.
   "Sotto il naso di queste organizzazioni, è stata creata la più grande infrastruttura terroristica del mondo", ha detto Cohen. Ha chiesto che l'OMS segua l'Unione Europea nel riconoscere che Hamas usa gli ospedali e i civili come scudi umani.
   Invece, mercoledì Ghebreyesus ha pubblicato un video su X, ex Twitter, in cui condannava l'operazione militare di Israele all'ospedale. "L'incursione militare di Israele nell'ospedale Al Shifa di Gaza è totalmente inaccettabile. Gli ospedali non sono campi di battaglia", ha dichiarato.
   Il diritto internazionale non concede l'immunità totale ai terroristi solo perché si nascondono in mezzo a un ospedale, quando gli ospedali sono usati come basi per attività militari. Perdono il loro status di protezione dopo che è stato dato un avvertimento ed è stato ignorato".
   Ha aggiunto: "Prendiamo [il diritto internazionale] molto seriamente, molto più seriamente di coloro che fingono che esso dia l'immunità ad Hamas perché non vogliono che Israele si difenda dalle menti genocide del 7 ottobre. Sappiamo cosa dice il diritto internazionale. Conosciamo i nostri obblighi e i nostri diritti".
   Israele sostiene da tempo che Hamas abbia usato Al Shifa come centro di comando, sostenendo che il gruppo terroristico abbia scavato un vasto complesso di tunnel sotto il complesso dell'ospedale per fungere da quartier generale sotterraneo.
   Martedì gli Stati Uniti hanno appoggiato la rivendicazione di Israele. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, John Kirby, ha dichiarato che "una serie di metodi di intelligence" confermano che Hamas ha utilizzato gli ospedali di Gaza, tra cui Al Shifa, come centri di comando e depositi di munizioni.
   Le unità dell'esercito israeliano che operano intorno ad Al Shifa hanno rivelato mercoledì di aver trovato armi, tecnologia militare e informazioni di intelligence nel complesso.
   Il fatto che Hamas utilizzi Al Shifa per scopi terroristici potrebbe rivelarsi il segreto peggiore custodito nella Striscia di Gaza.
   Dave Harden, ex direttore della missione dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) in Cisgiordania e a Gaza, ha twittato mercoledì che "già nel 2014 si sospettava che Hamas usasse il complesso ospedaliero di Al Shifa come centro di comando e base operativa".
   "Non ho avuto prove dirette, ma è stato riconosciuto sia da palestinesi che da israeliani fidati nella mia rete. Inoltre, Hamas usava le ambulanze per spostare la sua gente. Questo si basava sulle mie conversazioni con l'allora capo del @ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa]", ha twittato.
   Le agenzie ONU che operano a Gaza sono da tempo accusate di corruzione. L'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente, la più grande organizzazione dell'ONU nella Striscia di Gaza, ha un organico composto da lealisti di Hamas, secondo Kobi Michael, ricercatore senior presso l'Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS) di Tel Aviv.
   Michael, coautore di un rapporto sull'UNRWA nel 2020, ha dichiarato a JNS: "L'UNRWA è un'organizzazione molto problematica. È completamente controllata da Hamas. Hamas utilizza le strutture dell'UNRWA per il deposito di armi e per il lancio di razzi. Tutti gli impiegati locali dell'UNRWA sono persone di Hamas. Nessuno può lavorare all'UNRWA senza il permesso di Hamas".
    

(Israel Today, 16 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Nel kibbutz di Sasa, dove si vive «in allerta»

Al confine con il Libano Solo 50 abitanti rimasti, tutti armati: «Pronti a difenderci».

VIDEO
SASA - Un uomo sui 65 anni con una mano tiene il fucile e con l'altra punta l'indice tracciando da lontano il percorso della technical fence, la recinzione elettrificata che lo separa dal Libano per un chilometro e duecento metri: «Ci è stato riferito che da cinque anni i miliziani hanno cominciato in segreto dall'altra parte a scavare dei tunnel per sbucare qui vicino. Noi ci addestriamo ormai quasi tutti i giorni, bisogna essere pronti», dice al cronista dell'ANSA. Dal 7 ottobre il sud e il nord di Israele sono due poli che si attraggono, sempre più calamitati dalla paura di un nuovo attacco, stavolta dal confine col Libano, ma con gli stessi metodi usati dai terroristi quaranta giorni fa. È stato allora che venticinque membri del kibbutz di Sasa nell'area dell'Alta Galilea, zona settentrionale del Paese, hanno ricevuto la 'chiamata numero 8', una telefonata che segnala lo stato di emergenza per quei civili che improvvisamente, anche restando all'interno delle proprie case, diventano soldati.
   «Qui vivevano cinquecento persone, ma sono state quasi tutte evacuate e ne sono rimaste una cinquantina, per presidiare il posto e portare avanti le nostre attività», racconta Yehuda Calò Lìvne, neo responsabile della sicurezza del luogo. Agli uomini i kalashnikov e alle donne la pistola, Ma sua moglie.Angelica Calò Livne di origini italiane, non nasconde comunque i timori: «La nostra è l'ultima casa tra le villette a schiera del kibbutz e la prima al confine con il Libano, saremmo i più esposti nel caso di un assalto», Come se non bastasse, tre dei suoi quattro figli maschi sono stati arruolati per la guerra a Gaza, Intanto sull'altura dell'ingresso del kibbutz gli uomini al cancello entrano ed escono dal gabbiotto impegnati dall'andirivieni dei trattori e camion carichi di mele e kiwi, perché il lavoro prosegue ma ormai le misure di controllo sono simili a quelle di un check point. Nel kibbutz, dopo essere stato in gran parte sfollato, c'è un via vai di militari dell'Idf, ospitati per i pasti nella mensa del villaggio e qualche momento di pausa. I 120 km della linea blu presidiata dall'Onu che si snodano lungo la frontiera sono violati continuamente, Lo testimonia il cielo sopra Sasa, che tuona anche senza nuvole: i detriti dei razzi lanciati da Hezbollah e intercettati dall'Iron dome israeliano piovono per tutta la giornata, per fortuna distanti, mentre nelle ultime ore Israele ha ricominciato a colpire le postazioni da cui arrivano i tiri.

(Gazzetta di Parma, 16 novembre 2023)

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Ci deve essere solo un obbiettivo per questa guerra

di Nave Dromi

Nell’aprile del 1920 nacque il terrorismo arabo palestinese. Lo stesso vale per la semplice formula, così efficace nel secolo successivo, di massacrare gli ebrei per poi trovare delle scuse.
   In quell’anno, quando Pesach coincise con la festa musulmana di “Nabi Musa”, iniziata con i sanguinari sermoni religiosi di Haj Amin al-Husseini, decine di migliaia di arabi si ribellarono e massacrarono gli ebrei in tutta la Città Vecchia di Gerusalemme, mentre cantavano “La Palestina è la nostra terra, gli ebrei sono i nostri cani!” (Non erano ancora palestinesi omonimi, ma solo arabi che vivevano nella regione della Palestina così chiamata dai romani, altrimenti conosciuta come Siria meridionale.)
   Piuttosto che attribuire la colpa del massacro agli arabi, il mondo cercò di trovare delle scuse e di placarli quando le potenze mandatarie britanniche nominarono al-Husseini Gran Mufti di Gerusalemme, nonostante fosse chiaramente e legalmente implicato nello spargimento di sangue.
   Come è ormai noto, al-Husseini trascorse gran parte della Seconda Guerra Mondiale come fedele alleato di Hitler, dei nazisti e fu un sostenitore dello sterminio di sei milioni di ebrei.
   Sfortunatamente, allora come oggi, il mondo sentì il bisogno di mitigare la violenza araba acquiescendo alle loro scuse e alle loro pretese di vittimismo.
   Migliaia di ebrei sono stati brutalmente massacrati nel corso dell’ultimo secolo, ma la colpa è stata stranamente attribuita alle vittime.
   In modo scandaloso, dopo il pogrom del 7 ottobre, quando oltre 1.400 israeliani sono stati brutalmente assassinati, i bambini bruciati, le donne mutilate e profanate e 240 brutalmente rapite, c’è ancora chi trova delle scuse per lo spargimento di sangue.
   Anche se Israele stava ancora cercando disperatamente di identificare e seppellire i propri morti, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres affermava che il festival dell’eccidio “non è avvenuto nel vuoto”.
   Sfortunatamente, come quasi ogni persona che commenta il conflitto arabo israelo-palestinese, Guterres o ignora la sua storia o sta semplicemente cercando di trovare una giustificazione e di placare gli arabi. A loro piace dare la colpa del terrorismo all'”occupazione”, alle politiche dello Stato di Israele nei confronti degli arabi palestinesi o a ciò che accade sul Monte del Tempio.
   Nessuna di queste, e una miriade di altre scuse, resistono alla prova della logica, dei fatti o della storia.
   Se il terrorismo fosse una reazione al controllo israeliano dei territori conquistati nel 1967, quale giustificazione c’era per l’attacco terroristico omicida dell’11 aprile 1956 a Shafrir (Kfar Chabad), quando tre bambini e un operatore giovanile furono uccisi e cinque feriti, quando i terroristi aprirono il fuoco su una sinagoga piena di bambini e di adolescenti?
   Se il terrore è stato una reazione alle politiche dello Stato di Israele nei confronti dei palestinesi durante o dopo la Guerra d’Indipendenza del 1948, quale scusa c’era per il massacro di 67 ebrei a Hebron il 23 agosto 1929, mentre gli arabi massacravano i vicini ebrei con cui avevano avuto buoni rapporti, con le proprie mani?
   L’elenco potrebbe continuare, ma il punto è chiaro.
   Questo contesto non è ciò che presumibilmente avrebbe fomentato il terrorismo; sono tutte menzogne.
   Il terrorismo arabo palestinese non è mai stato reattivo; è opportunistico.
   Il contesto è che il violento rifiuto arabo-palestinese non ha confini, né ha un programma politico limitato, al di là dell’assassinio e del massacro di massa degli ebrei.
   Potrebbe essere perpetrato solo dalla minoranza, ma è celebrato dalla maggioranza.
   Mentre il focus della guerra attuale potrebbe essere Hamas, che ha perpetrato il massacro, la sua controparte, Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, ha fatto il tifo in prima linea.
   Secondo Palestine Media Watch, i funzionari di Fatah il 7 ottobre si sono rivolti così ai propri seguaci: “Allahu akbar” (cioè “Allah è il più grande”), venite al jihad, venite al jihad. A tutti i nostri figli e fratelli delle forze di sicurezza palestinesi [AP] in tutta la “Cisgiordania”: oggi è il vostro giorno. Irrompere negli insediamenti, colpire i figli delle scimmie e dei maiali…massacrare tutti gli israeliani, per Allah, sono i più codardi tra gli uomini. Oggi è l’annuncio dei giorni della vittoria, se Allah vuole – perché questo è jihad, jihad, vittoria o martirio”.
   Affinché Israele possa vincere questa guerra, non deve limitarsi a sconfiggere Hamas a Gaza, ma deve distruggere una volta per tutte il violento rifiuto arabo palestinese. È alla base di tutta la violenza, gli spargimenti di sangue e il terrorismo da oltre un secolo.
   Da al-Husseini, passando per Yasser Arafat, fino a Khaled Meshaal e Mahmoud Abbas, tutti hanno trasmesso lo stesso messaggio anche se confezionato in modo diverso.
   L’Occidente è impegnato a preparare la strada affinché Abbas possa prendere il controllo di Gaza dopo che Hamas è stato rovesciato, ma ciò significherà semplicemente sostituire il simile con il simile. Abbas incita costantemente gli arabi palestinesi all’odio e all’omicidio, paga i terroristi in base al numero di ebrei che uccidono e commemora gli assassini di massa come eroi per la prossima generazione. Abbas non è la soluzione, ma è in gran parte parte dello stesso problema.
  • Affinché Israele possa dichiarare vittoria, deve sradicare e avere tolleranza zero nei confronti del violento ripudio arabo-palestinese.
  • Deve sconfiggere tutti i gruppi terroristici, qualunque sia il loro nome.
  • Israele dovrebbe spezzare la volontà dei leader arabi palestinesi affinché abbandonino il loro Jihad, attraverso mezzi militari, economici, politici o diplomatici.
  • Devono essere costretti ad accettare la permanenza dello Stato ebraico nella sua patria ancestrale e indigena.
Questo è l’unico modo per seppellire finalmente il violento rifiuto arabo palestinese e porre fine una volta per tutte al conflitto che dura da oltre 100 anni.
   Questo dovrebbe essere il vero obiettivo di questa guerra.

(L'informale, 16 novembre 2023)

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La leadership saudita. I paesi arabi sono più interessati a Israele che alla questione palestinese

La proposta dell’Iran di imporre un embargo petrolifero allo Stato ebraico ha trovato scarso appoggio politico: dal Nord Africa al Golfo, gli antisionisti hanno scoperto di essere in minoranza, a conferma di una frattura radicale nel mondo islamico voluta da Ryad (che è ben contenta della sconfitta di Hamas).

di Carlo Panella

Embargo contro Israele. Cinquant’anni fa, di questi giorni, i Paesi arabi – nel pieno della guerra del Kippur di Egitto e Siria contro Israele, quando questi stava per vincere e travolgerli – sganciarono la “bomba atomica nera”, chiusero i pozzi di petrolio e lasciarono il pianeta a secco. Uno choc epocale: il Brent passò da due a undici dollari al barile. Un aumento di più del cinquecento per cento. Ariél Sharon, che era con le sue colonne di carri armati alle porte del Cairo, indifeso, si dovette fermare e fu costretto a tornare indietro. La solidarietà araba si impose su un Occidente attonito e a piedi, con i serbatoi a secco. Israele, a un passo da una vittoria epocale, definitiva, si dovette ritirare. Il pianeta scoprì la forza di una solidarietà araba che aveva strozzato la sua giugulare energetica, il petrolio.
   Sabato scorso, a Ryad, nella riunione di tutti i Paesi islamici e arabi – un inedito di valenza storica – più della metà dei Paesi arabi si è unita all’Iran degli ayatollah per ritentare il colpo, in piccolo, in molto piccolo: un embargo petrolifero e energetico contro Israele. Dunque, la fine della collaborazione metanifera tra Il Cairo e Gerusalemme. Questi Paesi arabi oltranzisti – tutti, non a caso filorussi, Algeria e Siria in testa – hanno anche chiesto la rottura dei rapporti diplomatici con Gerusalemme dei sei Paesi arabi che hanno riconosciuto il diritto a esistere della “entità sionista”.
   Nulla di fatto, i Paesi arabi e islamici oltranzisti, sono finiti in minoranza. L’aria è cambiata. Il blocco di alleanze di Paesi intenzionati a non rompere affatto con Israele, costruito dall’Arabia Saudita, si è imposto nel consesso internazionale più ostile allo Stato degli ebrei che si possa immaginare.
   Seguendo una tipica tradizione araba, la prima “storica” riunione tra Lega Araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica, si è limitata quindi a una più che virulenta sequenza di invettive contro «i crimini di guerra israeliani», a un mafioso «baciamo le mani ad Hamas» del presidente iraniano Ebrahim Raisi, e a un sostanziale nulla di fatto quanto a ritorsioni. Il tutto si è risolto con un embargo delle armi dai Paesi arabi a Israele – ma in realtà è Israele che le vende a loro, non il contrario – e una platonica richiesta alla Corte Penale Internazionale a sanzionare i crimini israeliani.
   Nel consesso ha dominato l’evidente disinteresse arabo sostanziale nei confronti della questione palestinese sulla quale non si è neanche trovato un accordo di facciata. La riunione sul tema si è spaccata in tre. Ebrahim Raisi ha caldeggiato la «scomparsa di Israele dalla faccia della terra». I sei Paesi arabi che hanno riconosciuto Israele non hanno nessuna intenzione di tornare indietro, anche se hanno rivolto accuse feroci per i crimini di guerra compiuti a Gaza e infine gli altri Paesi attendono di capire la posizione dell’Arabia Saudita. Posizione che è emersa con chiarezza, seppure in sottofondo. Mohammed bin Salman è di fatto ben contento della piena sconfitta di Hamas a Gaza, attende compiaciuto che Israele faccia il lavoro sporco, e aspetta che passi la tempesta per riprendere e concludere la trattativa per l’accordo triangolare strategico con gli Stati Uniti e Gerusalemme che la crisi di Gaza ha solo sospeso.
   Ennesima conferma di una frattura radicale nel mondo islamico e di una polarizzazione antagonista assoluta tra le strategie di Ryad e quelle di Teheran. Il tutto, però, in un contesto inedito, segnato dall’emergere del ruolo primario e assolutamente innovativo acquisito da Mohammed bin Salman. Ha avuto infatti pieno riscontro e successo la sua nuova strategia “di Westfalia”: la ricerca di soluzioni algebriche, ricomponibili con le trattative, e non jihadiste alle fortissime tensioni con l’Iran. Con la riunione di Ryad, Mohammed bin Salman ha dunque inaugurato un tavolo comune, un luogo, una istituzione in cui, se possibile, stemperare le tensioni inter-islamiche e inter-arabe. Una novità di assoluto rilievo dopo più di dieci anni di guerre per interposta persona sui vari scacchieri tra Arabia Saudita e Iran. Il Medio Oriente è cambiato.

(LINKIESTA, 16 novembre 2023)

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